Voltaire - Zadig - italiano

September 28, 2017 | Author: Juhász Bálint | Category: Voltaire, Candide, Evil, Babylon, Metaphysics
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È una delle opere più apprezzate di Voltaire, in cui l'autore mostra tutto il suo stile vivo e brillante, ironizzand...

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Voltaire Zadig

Nota introduttiva di Franco Ferrucci Traduzione di Tino Richelmy

Voltaire Zadig ................................................................................... 1 Nota introduttiva ........................................................................................... 4 Zadig o il destino Storia orientale................................................................ 12 Lettera dedicatoria di «Zadig» inviata da Sadi alla Sultana Sheraa............... 13 Il cieco da un occhio ........................................................................................... 15 Il naso ................................................................................................................. 19 Il cane e il cavallo ............................................................................................... 22 L’invidioso .......................................................................................................... 27 I generosi ............................................................................................................ 33 Il ministro ........................................................................................................... 36 Contrasti di opinioni e udienze........................................................................... 39 La gelosia ............................................................................................................ 43 La donna percossa ............................................................................................... 48 La schiavitù ......................................................................................................... 52 La pira ................................................................................................................. 56 La cena ................................................................................................................ 60 Gli appuntamenti ................................................................................................ 64 Il brigante ........................................................................................................... 68 Il pescatore.......................................................................................................... 72 Il basilisco ........................................................................................................... 76 I certami ............................................................................................................. 85 L’eremita ............................................................................................................. 91 Gli enigmi ........................................................................................................... 98 La danza ............................................................................................................ 102 Occhi celesti ..................................................................................................... 106

Nota introduttiva Zadig, primo eroe romanzesco di Voltaire, arriva sulla scena con certe pretese. È convinto di essere molto buono, molto bello, molto bravo; e inoltre ritiene che questo gli debba garantire la felicità. All’elenco delle sue virtù Voltaire aggiunge la modestia; eppure per tutto il romanzo Zadig non commette una sola cattiva azione, il che va oltre la modestia e sfiora la presunzione. Perché Zadig è l’autore stesso. Per la prima volta, alle prese con tormenti di varia natura, pratica e intellettuale, Voltaire ha l’idea di rappresentare se stesso in chiave metaforica, nelle vesti di un giovanotto alla ricerca del vero e del buono. Come i suoi successori, Zadig non invecchia; perfino Cunegonda invecchierà vicino a Candido, ma su quest’ultimo non viene detto nulla al proposito. Essi devono restare come sono apparsi, immagini di giovinezza, anche per colui che li sospinge in scena: lo scrittore ormai maturo, che si trova nella situazione di stendere un bilancio della propria vita. Solo eccezionalmente, come nella Storia del buon bramino, Voltaire pone al centro dell’azione la figura di un vegliardo; altrimenti preferisce disseminarli nell’azione, a distribuire consigli più spesso stravaganti che veritieri. A Babilonia c’era quindi un «jeune homme nommé Zadig, né avec un bon naturel fortifié par l’éducation». Chi gli ha dato l’una e l’altra? Per tutto il romanzo la maggior parte dei personaggi mostrano una natura debole e una educazione pessima; da dove esce Zadig? Fin dall’inizio egli ha i

connotati di una scommessa vivente, improbabile e temeraria. Zadig è un antieroe, perché in fondo per Voltaire l’eroe di una vicenda rimane un personaggio diverso, chiuso in un mondo che non lo lascia respirare, lo invecchia, e gli inocula funeste e letali passioni: è il mondo di Racine, lo scrutatore dell’anima umana. Il mondo dove le passioni si trasmettono come lente malattie ereditarie, febbri che scuotono i cadaveri del potere massimo, addobbati lugubremente da trionfatori; il mondo dei nati-vecchi, a ripetere i gesti dei loro antenati, chiusi nella stessa gabbia, la corte. Anche Zadig è uomo di corte; neppure Voltaire ha ancora compiuto il grande passo. Espulso dalla corte, Zadig vi ritorna alla fine, da trionfatore; non si può immaginare per lui un lieto fine diverso. Questo è il suo paradosso come personaggio: egli ha tutte le qualità che mancano ai cortigiani, è schietto, leale, generoso, eppure gravita nel loro stesso ambiente, e uscire da quel mondo rappresenta un esilio. Poco più di dieci anni dopo, all’epoca di Candide, la proprietà da coltivare alluderà al dominio di Fernay e alla nuova vita di patriarca rurale che Voltaire sta per cominciare; la corte, almeno quella di Francia, sarà lasciata alle spalle. Quasi per necessaria e doverosa esperienza, Zadig cerca dapprima la felicità in amore; e dall’amore riceve le prime delusioni. Sémire, la giovane cortigiana, poi Azora, la «citoyenne» (prima smagliatura nel mondo chiuso della corte), che egli sposa per poi ripudiare, lo deludono profondamente; tutte e due si rivelano incostanti, leggere, insomma incapaci di apprezzarlo. Finché egli non decide di rinunciare alla vita coniugale, appena sperimentata, e di

ritirarsi in solitudine, per cercare la felicità nello studio della natura, a esaminare le proprietà degli animali e delle piante. E infatti Zadig si rifugia nella natura con spirito prerousseauiano: per trovare la pace e per studiare le erbe. Solo che Voltaire non è Rousseau, e invece della felicità Zadig finisce con lo scoprire un metodo. L’episodio della cagna e del cavallo è l’occasione per esibire un vero e proprio virtuosismo di capacità induttive. A corte ricominciano a prenderlo in considerazione; malgrado gli sforzi dei suoi nemici, il re e la regina lo guardano con occhio nuovamente benevolo. Zadig è portato ancora a credere nella felicità; se gli altri capiscono che egli è degno di essere felice, non ci sono più ostacoli. La stima pubblica, l’onore meritato, diventano allora ingredienti indispensabili per il bonheur. Quando Zadig riceve il premio della generosità, esclama: «Je suis donc enfin heureux». Quando alla fine diventa re di Babilonia, Zadig sarà re e «sarà felice». È soprattutto importante essere riconosciuti. Uno dei capitoli più romanzeschi del libro, quello dei duelli (episodio ispirato da Ariosto, amatissimo dal Voltaire di quegli anni), è centrato sul tema dell’armatura-maschera che nasconde l’identità dei duellanti, e sullo scambio delle maschere stesse, per cui il cavaliere perdente usurpa i diritti del vittorioso Zadig. Nell’ultimo capitolo, Zadig deve anche risolvere degli enigmi, e viene quindi reintegrato nella sua personalità di sapiente. «Il fut reconnu roi d’un consentement unanime...» Il tema dell’agnizione aveva dettato in precedenza il momento patetico dell’incontro con Astarte in riva al fiume, mentre la giovane donna scrive i! nome di Zadig sulla

sabbia; segno che, accanto ad Ariosto, anche ricordi del romanzo elegiaco-pastorale confluiscono nella memoria dell’autore. Eppure l’episodio ha un suo segreto lirismo, mascherato, come spesso in Voltaire, d’ironia. Mentre le damigelle cercano il fantomatico basilisco, onde guadagnarsi le nozze con il signore Ogul, l’autore ci tiene a precisare che Astarte non cerca nulla: forse perché ha già trovato qualcosa di più importante dello sposalizio regale. Ma la strada verso il sognato riconoscimento, e verso la felicità che ne consegue, è disseminata di ostacoli che Voltaire identifica, dall’inizio alla fine, con l’opera maligna degli invidiosi. Dopo vari tentativi falliti (tra cui quello dei versi contraffatti), i nemici di Zadig, che nel frattempo è diventato primo ministro, riescono a insospettire il re e a ingelosirlo. Zadig fa appena in tempo a esclamare: «Si j’eusse été méchant comme tant d’autres, je serais heureux comme eux», ed è costretto a fuggire. Che cosa lascia alle spalle questo primo ministro? Un vero e proprio retaggio illuministico. Ha insegnato a preferire l’essere al parere, lo stile della ragione a quello della retorica; a salvare un colpevole piuttosto che condannare un innocente. Tutto un programma che Voltaire, praticamente esiliato dalla corte nel momento in cui scrive Zadig, pensa di avere ispirato alla cultura del suo tempo, pur rammaricandosi di non averlo potuto portare più a fondo. L’ideale di una repubblica di sapienti non è estraneo a questa rappresentazione di Zadig primo ministro; s’intende che un re deve comunque sussistere, fa parte della natura stessa delle cose. Ma nel momento in cui viene espulso, che cosa trova Zadig, e qual è il suo rifugio? Come se uscisse di

casa, sopra di lui si spalanca il cielo della notte: «Zadig dirigeait sa route sur les étoiles...» E la pagina che segue è la più poetica del romanzo, una di quelle pagine voltairiane che dovettero piacere a Leopardi. Ma il suo significato è lontano non solo da quella che sarà la considerazione leopardiana dell’universo, ma anche dal messaggio conclusivo di Candido, anni dopo. L’ammirazione per Newton sembra qui, per via inopinata, portare Voltaire dritto fra le braccia di Pope e di Leibniz: l’universo segue leggi generali e immutabili, e non può certamente occuparsi di tutti gli Zadig della terra. Il dolore di quest’ultimo sembra più propriamente una specie di miopia; se gli occhi guardano fin dove sanno guardare, alle stelle, tutto il resto è dimenticato. Eppure, nella rappresentazione degli insetti umani che si divorano, e dei pensieri di Zadig che tornano immancabilmente alle private sventure, si è già incuneata la resistenza di fondo che impedisce a Voltaire di accettare davvero la dottrina dell’armonia universale: la quale dovrebbe giustificare i mali individuali in nome di un bene collettivo. Chi non leva lo sguardo alle stelle finisce col restare terra terra; ma chi sale a quella altezza, saprà poi valutare ogni cosa che succede qua in basso? Forse che il dolore umano e il destino individuale non sono fatti che appartengono alla realtà? Micromegas darà una soluzione singolare al problema, con l’idea dei giganti che osservano gli uomini, e possono capirne virtù e debolezze; ma il cielo di Zadig è un orizzonte matematico, abitato da un’armonia imperscrutabile. Col suo andare da Zadig alle stelle, Voltaire sembra proporre una dialettica del problema; in

realtà egli ondeggia, perplesso. Del resto, questo è Voltaire: potrà esitare tra una posizione e l’altra, ma non cercherà di mettere insieme gli opposti. Aspetta di poter scegliere; e, con Candide, l’armonia universale finirà nei discorsi di Pangloss, a seguire la sorte d’ogni altra metafisica. Ma seguiamo il percorso di Zadig. In Egitto viene fatto schiavo da un mercante arabo, Sétoc, con il quale egli entra in un rapporto da primo ministro privato. Gli insegna le cose utili al commercio, le proprietà dei metalli e quelle degli animali. La passeggiata sotto le stelle, la tentazione metafisica, non è stata di lunga durata; gli eroi di Voltaire sono ansiosi di tornare fra la gente. E se Zadig diventa schiavo per eccesso di zelo nel difendere una fanciulla, sfortunato paladino immemore di Don Chisciotte, diventa emblematico il suo passaggio al servizio del borghese esperto di traffici e bisognoso di consigli pratici. Zadig glieli fornisce volentieri, ma non si accontenta di questo. Contemplando la possibilità di esclusione definitiva dalla vita di corte, disposto a trasferire i suoi talenti al servizio di una nuova e intraprendente borghesia, egli non pensa che il filosofo debba limitarsi a fare i conti dei suoi guadagni. Il rapporto deve restare alla pari. Quindi, la lezione più importante di Zadig riguarda il falso culto delle stelle, «corpi come gli altri», immeritevoli di venerazione. Questa educazione all’illuminismo si amplia nel capitolo seguente fino a comprendere la rete intera dei rapporti umani; la «grande famiglia» cosmopolita che si riunisce a tavola, saggiamente armonizzata da Zadig, è l’ideale massimo della funzione del filosofo secondo Voltaire: «Vous êtes donc tous de même avis, et il n’y a pas là de quoi se quereller». E si

noti che Zadig non crede al gesto gratuito: alla fine, in segno di gratitudine, tutti lo abbracciano. Il tema delle stelle trova l’apogeo parodico nel capitolo in cui la giovane vedova Almona riesce a salvare Zadig dalla vendetta dei preti (che lo odiano per ragioni soprattutto venali, sottolinea Voltaire). Ella dà appuntamento «di stella in stella» a tutti i preti, i quali, da parte loro, le assicurano che nessun astro vale le sue bellezze. Ma Zadig deve nuovamente partire in esilio; e da questo momento è convinto che il destino gli è profondamente ostile e trama sempre ai suoi danni. «Les sciences, les mœurs, le courage, n’ont donc jamais servi qu’à mon infortune». Se anche queste qualità portano alla sventura, non c’è da nutrire fiducia. Il cielo ce l’ha con Zadig. Soltanto l’incontro con l’eremita fa cambiare idea al nostro eroe. Costui gli dimostra che la Provvidenza esiste, anche se gli uomini non se ne accorgono; che tutto è necessario sulla terra; che non bisogna piangere sulla morte di un fanciullo perché da grande sarebbe forse stato un criminale; e insomma, che non c’è male da cui non nasca un bene. Leibniz e Pope riprendono il sopravvento: «Faible mortel! cesse de disputer contre ce qu’il faut adorer». Mentre parla, l’eremita si tramuta in angelo e vola via, e Zadig non fa in tempo a esternare i suoi dubbi. Torna a Babilonia come un sonnambulo, risolve gli enigmi e viene fatto re, cosi si mette a lodare il cielo. Tutto il finale assume i caratteri del sogno e della favola. Ma un problema ricomincia esattamente al punto irrisolto; e il mais... di Zadig verrà ripreso in varie tappe, fino a culminare in Candide, dove è Voltaire che dice mais...

al suo eroe, fino a convincerlo, e a farlo tacere. Zadig si aspetta troppi compensi, è troppo ansioso di gratificazione; al momento di cambiar pelle e di passare dal ruolo di eterno primo ministro (che valuta il proprio destino secondo il riconoscimento che gli è concesso) a quello di uomo davvero indipendente e stranamente sereno (come sarà Candido, alla fine), Zadig si nasconde nella favola; che è come dire che non vuole più saperne di tormentarsi. Nei difficili mesi in cui scrive questa storia, Voltaire sente il bisogno non soltanto di filosofare, ma anche di consolarsi. Ed è un’ottima consolazione pensare che il destino, da qualche parte, prepari un lieto fine alle nostre vicende; anche se questa speranza fa perdere lucidità. Infatti, mentre va a Babilonia, Zadig è descritto come fuori di se stesso, sembra camminare a casaccio; e risolve degli enigmi di cui un tempo si sarebbe burlato. Zadig è stanco, Voltaire intuisce che bisogna dargli il cambio; per il momento ne fa un re, e cosi lo mette in pensione. FRANCO FERRUCCI

Zadig o il destino Storia orientale

Lettera dedicatoria di «Zadig» inviata da Sadi alla Sultana Sheraa (il giorno 18 del mese schewal. Anno 837 dell’Egira) O fascino degli occhi, assillo dei cuori, luce dello spirito, non posso baciare la polvere dei vostri piedi perché movete così poco i passi o li movete sopra tappeti iranici o su petali di rose. Vi offro la traduzione del libro d’un antico sapiente, che con la buona sorte d’essere libero e senza impegni, ebbe anche quella di passare suo tempo nello scrivere la storia di Zadig: un lavoro che dice più di quanto sembra. Vi chiedo il favore di leggerlo e poi dirmi che ve ne pare: perché, sebbene voi siate nella primavera della vita, circondata da tutti i piaceri, avendo la bellezza e, oltre la bellezza, anche l’ingegno; sebbene sentendovi ogni giorno continuamente lodare potreste essere scusata se il buon senso vi abbandonasse, siete nondimeno sensatissima e di gusto finissimo. Ebbi occasione di udirvi discorrere più giudiziosamente che non i vecchi dervisci con la barba prolissa e con il berretto a punta. Siete prudente, senza ombra di diffidenza, dolce ma non debole; siete benefica, ma con discernimento; amorevole con chi vi ama, aliena da inimicizie. Il vostro spirito arguto non si compiace mai di maldicenza; non dite e non commettete malvagità, nonostante la straordinaria libertà che vi è data. Insomma la vostra anima sempre mi è apparsa pura come la vostra bellezza. E siete persino padrona d’una certa filosofia, che m’induce a credervi più adatta di chiunque al piacere di

leggere questo lavoro d’un uomo sapiente. Nella sua prima stesura fu scritto nell’antica lingua caldea, che né voi né io capiremmo. Poi fu tradotto in lingua araba per diletto del celebre sultano Ulugbeg. In quel tempo gli Arabi e i Persiani incominciavano a scrivere le Mille e una notte, i Mille e un giorno, eccetera. A Ulug piaceva leggere Zadig, ma le sultane preferivano I mille e uno. Il buon Ulug domandava: «Ma come potete anteporre a Zadig dei racconti inconcludenti?» «Proprio per questo ci piacciono», rispondevano le sultane. Spero che voi non siate come quelle sultane, ma piuttosto un vero Ulug. Spero perfino che quando sarete stanca di quei discorsi generalizzanti, non troppo diversi da I mille e uno, ma più noiosi, potrò avere un momento l’onore di parlarvi seriamente. Se voi foste stata, al tempo di Alessandro figlio di Filippo, la regina Talestri; o, al tempo di Salomone, la regina di Saba, non voi vi sareste messa in viaggio ma quei re si sarebbero mossi verso di voi. Io prego le celesti virtù che vi diano soddisfazioni perfette, bellezza costante, infinita felicità. Sadi

Il cieco da un occhio Al tempo del re Moabdar viveva in Babilonia un giovanotto di nome Zadig. Aveva un’indole buona, molto bene educata. Quantunque ricco e giovane, egli non si lasciava dominare dalle passioni, non si dava importanza, non voleva avere sempre ragione, tollerava le debolezze umane. Era cosa degna di ammirazione che egli nella sua superiorità di spirito ascoltasse e non schernisse quel chiacchiericcio frammentario e disordinato, quelle imprudenti maldicenze e ignoranti asserzioni, e le grossolane freddure e l’inconcludente frastuono parolaio, che in Babilonia passavano per conversazione. Dal primo libro di Zoroastro egli aveva imparato che l’amor proprio è un pallone pieno di vento, se appena lo buchi sfiata tempesta. E soprattutto non si vantava di vilipendere le donne e di soggiogarle. Era d’animo generoso, non temeva di fare del bene agl’ingrati; in ciò seguendo quel grande precetto di Zoroastro: «Quando mangi, da’ pure qualcosa ai cani, anche se poi mordono». Egli era perfettamente assennato, perché voleva vivere con gli uomini saggi. Dotto nelle scienze degli antichi Caldei, conosceva tutto quanto a quel tempo si sapeva sui principi fisici della natura, e della metafisica conosceva tutto ciò che in ogni tempo si è saputo, cioè assai poco. Era assolutamente convinto che l’anno avesse trecento sessantacinque giorni e un quarto, nonostante la nuova filosofia del suo tempo; e che il sole fosse al centro dell’universo. Quando i maggiori magi, con sprezzante alterigia lo accusavano di cattivi sentimenti e

dicevano che nel credere come il sole girasse su se stesso e l’anno fosse di dodici mesi, si era nemici dello stato, egli se ne stava zitto senza mostrare corruccio né disdegno. Zadig, perché provvisto di grandi ricchezze, e quindi di amici, e con buona salute, simpatico aspetto, intelligenza e spirito, sincerità e nobiltà di cuore, pensava di poter essere felice. Doveva sposare Semira, per beltà, per famiglia, per dote il migliore partito di Babilonia. Sentiva per lei un onesto e sicuro affetto; e Semira a sua volta l’amava appassionatamente. Erano già prossimi all’avventurato momento della loro unione e mentre passeggiavano insieme verso una delle porte di Babilonia, sotto le palme che adornavano la riva dell’Eufrate, ecco venire su di loro un gruppo di uomini armati di sciabole e di frecce. Erano i satelliti di Orcano, un giovanotto, a cui i cortigiani di un suo zio, ministro, avevano messo in mente che qualunque cosa gli fosse lecita. Non aveva nemmeno una delle grazie o delle virtù di Zadig; ma, persuaso della propria superiorità, era pien di rabbia per non essere il preferito. Siffatta gelosia, derivata soltanto dalla vanità, l’aveva convinto d’essere perdutamente innamorato di Semira. Voleva rapirla. I rapitori l’afferrarono, e nell’impeto della loro violenza la ferirono, facendo così sanguinare una persona che appena vista avrebbe intenerito persino le tigri del monte Imaus. I suoi lamenti salivano al cielo. Gridava: - O sposo mio caro, mio adorato, mi strappano da te! - Non si curava del proprio pericolo, pensava soltanto al suo caro Zadig. Costui, intanto, la difendeva con tutte le forze del coraggio e dell’amore. Con il solo aiuto di due schiavi riuscì a scacciare i rapitori e riaccompagnò a casa Semita. Era svenuta e coperta di

sangue, ma come riaprì gli occhi e vide il suo salvatore, disse: - O Zadig! Ti amavo come sposo, e adesso ti amo perché mi hai salvato la vita e l’onore Non vi fu mai persona più accorata di Semira. Mai bocca cosi seducente seppe esprimere più commoventi affetti con parole ardenti ispirate dal sentimento delle più grandi grazie ricevute e del più commosso entusiasmo per un tanto legittimo amore. La ferita di lei risultò leggera: guari rapidamente. Zadig era stato colpito più pericolosamente; una frecciata gli aveva fatto una piaga profonda vicino all’occhio. Semira implorava gli dei per la guarigione dell’innamorato. Giorno e notte aveva gli occhi pregni di lacrime; non aspettava altro momento che quello in cui gli occhi di Zadig potessero rallegrarsi nel vedere gli sguardi di lei; ma sopravvenne un ascesso all’occhio ferito, e si temette il peggio. Si mandò a chiamare il famoso dottor Ermete, di Menfi; che giunse con il numeroso suo seguito. Visitò l’infermo e dichiarò che avrebbe perduto l’occhio; precisando addirittura il giorno e l’ora del funesto evento. - Se fosse stato l’occhio destro, disse, - l’avrei guarito; ma le ferite all’occhio sinistro sono incurabili -. Tutti i cittadini di Babilonia, compiangendo la sorte di Zadig, ammirarono la profondità della scienza d’Ermete. Due giorni dopo, l’ascesso si sgonfiò di per sé. Zadig risanò perfettamente. Ermete compose un libro per dimostrare che quell’occhio non sarebbe dovuto guarire. Zadig non lo lesse; ma appena fu in grado di uscir di casa, si accinse a fare visita a colei che rappresentava la speranza duna vita felice e che era la sola donna per la quale egli desiderasse d’avere gli occhi. Semira, da tre giorni, era in campagna. Zadig, cammin facendo, venne a sapere che la sua

bella dama, dopo aver dichiarato una invincibile antipatia per i monocoli, s’era ormai sposata, proprio quella notte, con Orcano. A tale annunzio, Zadig svenne; il dolore lo portò vicino a morte, sull’orlo della tomba; ebbe una lunga malattia; ma infine la ragione vinse l’afflizione e la stessa atrocità della propria esperienza contribuì a consolarlo. - Poiché ho provato, - disse, - la crudeltà e il capriccio d’una ragazza educata tra i cortigiani, bisogna che io sposi una semplice cittadina Scelse Azora, la più sensata e più distinta ragazza della città. La sposò e trascorse con lei un mese nella soavità della più tenera concordia. Si accorse soltanto di qualche leggerezza in lei e di una forte inclinazione a credere sempre che i giovanotti più belli avessero anche la maggiore intelligenza e le migliori virtù.

Il naso Un giorno Azora tornò dal passeggio in grande corruccio e con grandi grida di stupore. - Che c’è, - domandò Zadig, sposa mia cara? Chi t’ha fatto arrabbiare cosi? - Ah! - disse lei, - saresti anche tu come me, se avessi visto pure tu lo spettacolo cui sono stata presente poco fa. Ero andata a consolare Cosru, la vedovella che da due giorni ha fatto costruire una tomba al giovane suo sposo, proprio sulla sponda del ruscello qui in fondo al prato. Ispirata dal dolore ella ha giurato agli dei di rimanere presso la tomba fino a quando l’acqua del ruscello scorrerà lì vicino. - Ebbene, disse Zadig, - è davvero una donna degnissima, davvero ella amava il marito! - Ah, - continuò Azora, - se tu sapessi che cosa stava facendo, proprio quando io giunsi da lei! - Che cosa, mia bella Azora? - Faceva deviare il ruscello -. Azora si profuse in invettive talmente prolisse, proruppe in riprovazioni talmente violente contro la vedovella, che tutto quello sfoggio di virtù non piacque molto a Zadig. Egli aveva un amico, Cador, uno di quei giovanotti che Azora giudicava più onesto e più meritevole degli altri. Zadig gli confidò una sua intenzione e con un grosso donativo si assicurò, per quanto era possibile, della sua segretezza. Azora, dopo aver trascorso due giorni con una sua amica in campagna, tornò a casa. I domestici piangendo le dissero che suo marito era morto all’improvviso, la notte precedente, e che non avevano avuto il coraggio di portarle la ferale notizia e che avevano or ora seppellito Zadig nella tomba di famiglia, in fondo al giardino.

Ella pianse, si strappò i capelli, giurò di morire. La sera, Cador chiese di poterle parlare e piansero tutti e due. L’indomani piansero un po’ meno e pranzarono insieme. Cador le confidò che l’amico suo gli aveva lasciato la maggior parte dell’eredità e le fece capire ch’egli sarebbe stato ben lieto di dividere la proprietà con lei. La donna pianse, si mostrò offesa, si mostrò comprensiva; la cena fu un po’ più lunga del pranzo; la conversazione diventò più confidenziale; Azora fece l’elogio del defunto; ma non nascose ch’egli aveva qualche difetto da cui Cador era immune. Mentre cenavano Cador si lamentò d’un violento dolore alla milza; la donna, agitata e premurosa, si fece portare tutte l’essenze che usava come profumi, sperando di trovarne una che giovasse contro il mal di milza; le dispiacque molto che il grande Ermete non fosse rimasto a Babilonia, si degnò persino di tastare il punto in cui Cador sentiva cosi acuti dolori. - Ma di questo male soffrite sovente? - gli chiese con compassione. - Qualche volta mi getta sull’orlo della tomba, - le rispose Cador. - Un solo rimedio potrebbe darmi sollievo: mettere, sopra la parte dolente, il naso d’un uomo morto da un giorno. - Ma che strano rimedio! - disse Azora. Non più strano, - rispose lui, - dei sacchetti che il signor Arnu adopera contro l’apoplessia -. Questa spiegazione e le straordinarie qualità del giovanotto fecero decidere la donna. - In fin dei conti, - disse, - quando mio marito sarà sul ponte Sinavar per passare dal mondo di ieri al mondo di domani, l’angelo Asraele gli impedirà forse il transito soltanto perché il naso nella seconda vita sarà un po’ meno lungo che nella prima? - Azora prese dunque un rasoio e andò alla tomba dello sposo, la bagnò di lacrime, vi si accostò per tagliare il

naso di Zadig, ch’ella trovò lungo e disteso nel sepolcro. Zadig si sollevò tenendosi il naso con una mano e con l’altra mano fermando il rasoio. - Signora mia, - le disse, - non inveire più tanto contro la giovane Cosru: l’intenzione di tagliarmi il naso e quella di deviare un ruscello si equivalgono bene.

Il cane e il cavallo Zadig ebbe dunque la prova che il primo mese del matrimonio, come sta scritto nel libro dello Zend, è la luna di miele e che il secondo mese è della luna d’assenzio. Poco tempo dopo fu costretto a ripudiare Azora che s’era resa insopportabile, e cercò soddisfazione nello studio della natura. - Non c’è più grande soddisfazione, - diceva, - di quelle d’un filosofo che legga il grande libro posto da Dio sotto i nostri occhi. Sono sue le verità ch’egli scopre, nutre ed eleva l’anima propria, vive tranquillo, non ha da temere gli uomini, né la sposa tenerella che gli venga a mozzare il naso. Immerso in queste idee, si rifugiò in una casa di campagna, sulla riva dell’Eufrate. Là non si affannava a calcolare quanti pollici d’acqua al secondo passino sotto gli archi d’un ponte, né se nel mese del sorcio cade un centoquarantesimo quarto di pollice d’acqua di meno che nel mese del montone. Non si metteva in testa di ottenere della seta con le tele di ragno, né della porcellana con i cocci delle bottiglie; ma si applicò allo studio degli animali e delle piante, e non tardò a scoprire sagacemente mille e mille differenze in luogo della uniformità veduta dagli altri. Un giorno, mentre passeggiava presso un boschetto, vide arrivare un eunuco della regina, seguito da parecchi ufficiali che sembravano molto inquieti e si sparpagliavano qua e là come uomini turbati alla ricerca di qualche perduta preziosissima cosa. - Giovanotto, - gli chiese il Primo eunuco, - avete per caso veduto il cane della regina? - Zadig

con garbo rispose: - È una cagna, non un cane. - È vero, ammise il Primo eunuco. - È una cagna piccolina, di razza spagnuola, - aggiunse Zadig. - Ha da poco avuto i piccoli, zoppica della gamba anteriore sinistra, e ha orecchie lunghissime. - L’avete dunque vista? - disse il Primo eunuco tutto ansante. - No, - rispose Zadig, - non l’ho vista mai, non ho mai saputo se la regina possiede una cagna. Proprio allora, per una delle solite bizzarrie della sorte, il cavallo più bello delle scuderie reali era sfuggito alla custodia d’un palafreniere nella pianura intorno a Babilonia. Il Grande cacciatore e tutti gli altri ufficiali lo inseguivano con la stessa ansietà del Primo eunuco che cercava la cagna. Il Grande cacciatore si rivolse a Zadig domandandogli se aveva veduto passare quel cavallo del re. Zadig rispose: - È il cavallo più bravo di tutti al galoppo, alto cinque piedi, di zoccoli molto piccoli; ha una coda lunga tre piedi e mezzo; le due borchie del suo morso sono d’oro a ventitré carati, i ferri d’argento di duecentosessantaquattro grani. - Che direzione ha preso? Dov’è andato? - domandò il Grande cacciatore. - Non l’ho mica visto, - rispose Zadig, - non ne ho mai sentito parlare. Il Grande cacciatore e il Primo eunuco pensarono, senz’alcun dubbio, che Zadig aveva sottratto il cavallo del re e la cagna della regina; lo fecero trascinare davanti all’assemblea del Grande Desteram che lo condannò a essere frustato con lo knut e a finire i suoi giorni in Siberia. Era appena pubblicata la sentenza che cavallo e cagna furono ritrovati. I giudici dovettero rincresciosamente ma necessariamente modificare la sentenza: ma condannarono Zadig a pagare quattrocento once d’oro perché aveva

dichiarato di non aver visto ciò che aveva visto. Prima di tutto fu giocoforza pagare la multa; poi fu concesso a Zadig di difendersi davanti al Consiglio del Grande Desteram. Parlò nei termini seguenti: - O stelle di giustizia, abissi di scienza, specchi di verità, che avete il peso del piombo, la durezza del ferro, la lucentezza del diamante e molta affinità con l’oro! Poiché mi è concesso di parlare al cospetto di così illustre assemblea, vi giuro per Orosmada che non ho mai visto la rispettabile cagna della regina e nemmeno il sacro cavallo del re dei re. Udite quanto è successo. Andavo a spasso verso quel boschetto dove poi incontrai il venerando Eunuco e l’illustrissimo Gran Cacciatore. Vidi sulla sabbia le impronte d’un animale e capii facilmente che erano le orme d’un piccolo cane. Dai solchi lunghi e leggieri rimasti impressi sui minimi rilievi della sabbia proprio tra le tracce lasciate dalle zampe compresi che si trattava d’una cagna con le mammelle penzoloni per aver essa figliato da pochi giorni. Altri segni tracciati in senso diverso ma anche sulla superficie sabbiosa, lateralmente alle orme delle zampe anteriori, mi dimostrarono che la cagna aveva molto lunghe le orecchie, e poiché osservai che una delle orme delle zampe sulla sabbia risultava più lieve delle altre, capii che la cagna della nostra augusta regina zoppicava un poco, se ciò mi è permesso dire. Per quanto riguarda il cavallo del re dei re, sappiate che nella mia passeggiata nei cammini del bosco m’accorsi delle impronte dei ferri d’un cavallo: erano tutte equidistanti. «Ecco», mi dissi, «un cavallo dal galoppo perfetto». Il polline caduto dagli alberi, in una viottola larga soltanto sette piedi, a sinistra e a destra, a tre piedi e mezzo dal centro, era un pochetto sollevato. «Questo cavallo», mi

dissi, «ha una coda lunga tre piedi e mezzo, che nella sua altalena ora a destra ora a sinistra scopò il polline». Vidi pure, sotto gli alberi che con i loro rami formavano ima galleria alta cinque piedi, delle foglie cadute da poco, e capii che il cavallo aveva sfiorato quelle alte fronde, avendo appunto una statura di cinque piedi. E perché il morso dev’essere d’oro a ventitré carati? Perché con le borchie del morso rasentò una pietra di paragone e io potei farne il saggio. Dalle tracce, poi, che i ferri del cavallo lasciarono su sassi di altra specie mi risultò che i ferri stessi erano d’argento di duecentosessantaquattro grani. Tutti i giudici ammirarono il profondo e sottile discernimento di Zadig; la cosa fu riferita persino al re e alla regina. Nelle anticamere, nella camera regia, nel gabinetto non si parlava d’altri che di Zadig; e sebbene parecchi magi pensassero che lo si dovesse bruciare come stregone, il re diede l’ordine di restituirgli la multa di quattrocento once d’oro cui era stato condannato. Cancelliere, uscieri, procuratori andarono in gran pompa da lui per ridargli le quattrocento once d’oro; ne trattennero solamente trecentonovantotto per le spese del tribunale; e i servitori pretesero la loro mercede. Zadig s’accorse di quanto pericolo potesse essere il troppo sapere, e giurò che alla prossima occasione non avrebbe detto più nulla di quanto veduto. L’occasione capitò presto. Un prigioniero politico fuggi e passò proprio sotto le finestre della casa di Zadig. Zadig, interrogato, non disse verbo, ma gli dimostrarono ch’egli aveva guardato dalle finestre. Per questa colpa fu condannato alla multa di cinquecento once d’oro, e ringraziò i giudici della loro clemenza, seguendo così l’usanza di

Babilonia. «Gran Dio, - diss’egli fra sé, - come si dev’essere compatiti quando ci succede di andare a spasso in un bosco dove siano passati la cagna della regina e il cavallo del re! E com’è pericoloso l’affacciarsi alla finestra! Com’è difficile la felicità in questa vita!»

L’invidioso Zadig mediante la filosofia e l’amicizia volle consolarsi dei danni avuti dalla sorte. In un sobborgo di Babilonia possedeva una casa ammobiliata con buon gusto, piena delle arti e delle attrattive adatte a un onest’uomo. Al mattino la sua biblioteca era aperta a tutti i dotti, la sera la sua mensa era pronta per tutta la buona società; ma presto scoprì quanto i dotti siano pericolosi. Sorse una grossa discussione su una legge di Zoroastro che proibiva la carne di grifone. Come proibire la carne di grifone, - dissero alcuni, - se tale animale non esiste? Alcuni altri dissero: - Deve esistere dato che Zoroastro proibisce di mangiarne. Zadig cercò di metterli d’accordo, dicendo: - Se i grifoni esistono, non mangiamone; se non esistono ci sarà impossibile mangiarne e così in un caso e nell’altro ubbidiremo a Zoroastro. Un dotto che aveva composto tredici volumi sulle qualità del grifone, e per soprammercato era un grande teurgista andò subito ad accusare Zadig a un arcimago di nome Yebor, ch’era il più sciocco dei Caldei e perciò il più fanatico. Costui per la maggior gloria del sole avrebbe fatto impalare Zadig e poi completamente soddisfatto avrebbe recitato il breviario di Zoroastro. L’amico Cador (un amico vale certamente di più che cento preti) andò in visita da Yebor, e gli disse: - Viva il sole, vivano i grifoni! Badate bene di non punire Zadig! È un santo, alleva grifoni nella sua aia e non ne

mangia; il suo accusatore è un eretico, uno sfrontato, osa affermare che i conigli hanno la zampa fessa e non sono immondi. Yebor dondolò con la sua testa calva e disse: - Ebbene, bisogna impalare Zadig per i suoi cattivi pensieri sui grifoni, e quell’altro per le sue cattive parole sui conigli. Cador riuscì ad appianare la cosa per mezzo d’una donzella che egli aveva reso madre e ch’era molto accetta nel collegio dei magi. Nessuno fu impalato, per cui parecchi dottori criticarono la cosa e previdero la decadenza di Babilonia. Zadig esclamò: - Ma guardate da cosa dipende la felicità! In questo mondo tutto mi è contro, perfino gli esseri inesistenti -. Mandò alla malora i dotti e decise di vivere soltanto con le compagnie spensierate. Radunava in casa gli uomini migliori e le signore più amabili di Babilonia; offriva pranzi raffinati, per lo più preceduti da concerti musicali e animati da divertenti conversazioni. Vi aveva escluso la mania di fare dello spirito cioè il modo più sicuro di non averne e di annoiare la più briosa compagnia. Non faceva dipendere dalla vanità la scelta degli amici o quella delle vivande; in ogni cosa preferiva la sostanza all’apparenza; così si guadagnava la stima più sincera, senza pretenderla. Di rimpetto al suo domicilio era la dimora di Arimaze, un tipo d’uomo che nella fisionomia grossolana mostrava l’evidente riflesso d’un’anima cattiva. Roso dal fiele e gonfiato dall’orgoglio, era per soprammercato un tediosissimo spiritoso. Non avendo mai avuto successo, si vendicava dicendo male di tutti. Quantunque ricco, stentava a raccogliere qualche

adulatore in casa. Gli dava fastidio il rumore delle carrozze che di sera arrivavano alla dimora di Zadig, gli dava ancor più fastidio l’eco delle lodi a Zadig. Di quando in quando si recava anche lui da Zadig, e si metteva a tavola senza essere invitato: guastava tutta l’allegrezza della compagnia, allo stesso modo delle arpie che, a quanto si sa, infettano i cibi che toccano. Un giorno volle dare un ricevimento in onore d’una signora, ma costei viceversa se ne andò a pranzo da Zadig. Un altro giorno, nel palazzo reale, egli e Zadig mentre chiacchieravano, si avvicinarono a un ministro, il quale invitò a pranzo proprio Zadig e non lui. Spesso gli odi più implacabili non hanno fondamento più importante di simili quisquilie. Ebbene, questo tipo che in Babilonia era soprannominato «l’invidioso» si mise in testa di rovinare Zadig perché era soprannominato «il felice». L’occasione di danneggiare capita cento volte al giorno, quella di far del bene una volta all’anno: è un detto di Zoroastro. L’invidioso si recò da Zadig che passeggiava nei giardini in compagnia di due amici e d’una signora, a cui diceva via via gentili frasi galanti, per il solo motivo di dirle. La conversazione verteva su una guerra che il re aveva appena conchiusa vittoriosamente contro il principe d’Ircania, suo vassallo. Zadig che in quella breve guerra s’era distinto assai per bravura, faceva le lodi del re, e ancor di più le lodi della signora. Prese il suo taccuino e scrisse quattro versi improvvisati, porgendoli poi in lettura alla graziosa signora. Gli amici chiesero il favore di leggerli anche loro; per modestia o, piuttosto, per ben inteso amor proprio egli ricusò. Sapeva bene che i versi estemporanei sembrano belli soltanto per la persona cui sono dedicati; strappò in due

pezzi il foglio del taccuino su cui li aveva scritti e li gettò in mezzo a un roseto, dove furono cercati senza successo. Quindi si mise a piovigginare e la compagnia entrò in casa. L’invidioso, rimasto in giardino, cercò finché riuscì a trovare un mezzo foglietto. Risultava stracciato in modo da contenere esattamente quattro mezzi versi, che parevano metricamente finiti nella loro brevità; e per caso ancor più strano avevano un significato di terribili insulti al re. Si leggevano così:

Nei misfatti più brutti reso il trono più saldo tra la pace di tutti è l’unico ribaldo

L’invidioso si senti felice per la prima volta della vita. Teneva tra le mani ciò che bastava alla rovina d’una persona affabile e per bene. Pieno di gioia crudele mandò subito al re quella satira scritta di pugno di Zadig. Lui, i due amici suoi, e la signora furono incarcerati. Gli si fece processo senz’altro, senza nemmeno concedergli d’essere ascoltato. Quando fu condotto a udire la sentenza di condanna, l’invidioso si collocò sul passaggio di lui e a voce alta gli disse che i suoi versi non valevano niente. Zadig non aveva la pretesa d’essere un bravo poeta; ma non poteva capacitarsi della condanna come reo di lesa-maestà e di sapere in carcere la bella signora e i due amici per un delitto non commesso. Non gli fu concesso di parlare; parlava per lui il foglietto del suo taccuino. La legge di Babilonia era così. Lo si trascinò verso il supplizio passando in mezzo a una folla di curiosi: nessuno osava compassionarlo, tutti accorrevano a scrutare la sua fisionomia, per osservare se sarebbe morto con dignità. Soltanto i suoi parenti si mostravano rattristati,

dato che non avrebbero avuto l’eredità. I tre quarti delle sue ricchezze venivano confiscati a favore del re, il restante quarto a favore dell’invidioso. Proprio mentre egli si preparava alla morte il pappagallo del re volò via dal balcone, e capitò nel giardino di Zadig, sopra un roseto. Una pesca era caduta lì da un albero scrollato dal vento, era finita su un foglietto di taccuino, quasi incollandolo. L’uccello prese pesca e foglietto e li portò sulle ginocchia del monarca. Il principe, incuriosito, vi lesse delle parole che parevano senza senso, ma con le rime. Gli piaceva la poesia, e con i principi cui garba la poesia, può sempre esserci qualche scampo: il caso del pappagallo lo fece riflettere. La regina, ricordandosi di quanto era stato scritto su quel foglietto di Zadig, si fece dare quest’altro foglietto. I due pezzi di carta, accostati, combaciavano perfettamente. Si lessero perciò i versi al modo in cui Zadig li aveva composti:

Nei misfatti più brutti vidi fosca la terra, reso il trono più saldo e il re dominatore; tra la pace di tutti solo Amore fa guerra: è l’unico ribaldo che ci arrechi timore.

Il re diede ordine di portar subito davanti a sé Zadig, e di liberare dal carcere i due amici e la bella signora. Zadig si prostrò, faccia a terra, davanti al re e alla regina: chiese umilissimamente scusa di aver composto dei brutti versi. Parlò talmente con garbo, con spirito e con assennatezza che il re e la regina desiderarono rivederlo. Ritornò ed ebbe nuovo e miglior successo. Gli furono assegnate tutte le sostanze dell’invidioso che l’aveva accusato a torto; ma Zadig le restituì a lui e l’invidioso fu solamente commosso dal piacere di non perdere le proprie sostanze.

La stima del re verso Zadig crebbe ogni giorno di più. Lo voleva partecipe di tutti i divertimenti, lo consultava in tutti gli affari. La regina d’allora in poi lo considerò con una compiacenza che sarebbe potuta diventare rischiosa per lei, per il re suo augusto sposo, per Zadig e per il regno. Zadig incominciava a credere che non è poi cosa troppo difficile il sentirsi felici.

I generosi Venne il tempo d’una grande festa quinquennale. Era una tradizione di Babilonia questa di proclamare solennemente ogni cinque anni quale cittadino avesse compiuto l’azione più generosa. Gli uomini più autorevoli e i magi fungevano da giudici. Il Satrapo maggiore, governatore della città, esponeva le più belle azioni avvenute durante il suo governo. Si passava ai voti e il re dava il giudizio definitivo. A questa festa solenne venivano spettatori dalle più lontane terre. Il vincitore riceveva dalle mani del sovrano una coppa d’oro ornata di gemme, e il re pronunziava le parole seguenti: «Accogli questo premio della generosità, e gli dei mi concedano molti altri sudditi simili a te». Nel giorno memorabile, dunque, il re si assise sul trono, circondato dalle autorità, dai magi e dai rappresentanti di tutte le nazioni presenti a quelle gare nelle quali si guadagnava la gloria non con la sveltezza dei cavalli, non con la vigoria dei corpi, ma con la virtù. Il Satrapo maggiore riferì ad alta voce i fatti che potevano procurare inestimabile premio ai loro autori. Non disse nulla della grandezza d’animo di Zadig nel restituire all’invidioso i beni della fortuna: non era un atto meritorio del premio. Espose prima degli altri l’azione di un giudice che, dopo aver condannato in un importante processo un cittadino per un equivoco di cui non era assolutamente responsabile, gli aveva dato tutta la propria ricchezza, corrispondente, come valore, a quella perduta dall’imputato. Presentò quindi un giovane, che estremamente innamorato d’una ragazza, e in

procinto di sposarla, l’aveva lasciata a un amico disposto a morire per lei; non solo, le aveva anche fatto avere una dote. Poi fece venire un soldato che durante la guerra d’Ircania aveva dato una prova, ancor più grande, di generosità. Soldati nemici gli rapivano la sua bella ed egli la difendeva, ma gli vennero a dire che altri soldati d’Ircania non lontano di li erano sul punto di rapire sua madre. Si precipitò a salvare la madre, poi tornò verso il suo amore: era moribonda. Voleva uccidersi. La madre gli rammentò ch’egli per lei era l’unico aiuto, ed egli ebbe la forza d’animo di sopportare la vita. I giudici propendevano per l’esempio del soldato. Il re si pronunziò e disse: - Bell’esempio questo del soldato, belli anche quelli degli altri; ma non mi meravigliano; ieri Zadig ha dato un esempio che mi ha stupefatto. Da qualche giorno era in disgrazia presso di me Careb, mio ministro e mio favorito. Mi lamentavo acerbamente di lui, e tutti i cortigiani mi dichiaravano ch’io ero fin troppo benigno; gareggiavano nello sparlare di lui. Chiesi a Zadig il suo parere ed egli ebbe il coraggio di parlarne bene. Confesso d’aver letto, nelle nostre storie, di fatti esemplari: sbagli risarciti con denaro proprio, sacrificio del proprio amore, con preferenza della madre in confronto dell’amante; ma non ho mai letto di un cortigiano che abbia parlato in favore d’un ministro caduto in disgrazia e colpito dalla collera del suo sovrano. Dò ventimila monete d’oro a ognuno degli autori delle azioni generose citate or ora, ma dò la coppa a Zadig. - Sire, - gli disse Zadig, - soltanto la Maestà Vostra è meritevole della coppa, per aver compiuto un atto inaudito,

poiché essendo re, non vi siete offeso contro il vostro schiavo contraddicente la passione del Vostro animo. Si ammirò tanto il re quanto Zadig. Il giudice che aveva ceduto la propria ricchezza, l’innamorato che aveva lasciato la propria fidanzata in isposa all’amico, il soldato che aveva preferito salvare la madre piuttosto che la donna amata, ricevettero i regali del monarca; e i loro nomi furono scritti sul libro dei generosi. Zadig ebbe la coppa. Il re ebbe la fama di buon principe, ma non la conservò molto a lungo. Quella giornata fu celebrata con festeggiamenti assai più prolungati del lecito. Nell’Asia ne hanno ancora adesso memoria. Zadig diceva: - Sono finalmente felice -. Ma s’illudeva.

Il ministro Il re aveva perduto il primo ministro. Scelse Zadig per ricoprire quell’uffizio. Le belle signore di Babilonia, all’unanimità, applaudirono a tale scelta: non si era mai visto, infatti, dall’inizio dell’impero, un ministro così giovane. I cortigiani ne ebbero dispiacere; l’invidioso sputò sangue e il suo naso gonfiò in modo prodigioso. Zadig dopo aver ringraziato re e regina andò a ringraziare anche il pappagallo. - Uccello bello, - gli disse, - tu mi hai salvato la vita e m’hai fatto primo ministro; la cagna e il cavallo delle Loro Maestà mi avevano assai danneggiato, ma tu mi hai beneficato. Ma guarda un po’ da cosa dipendono i destini umani! Però una fortuna così stramba potrebbe svanire in fretta. Il pappagallo rispose: - Sì... Questa sillaba colpì Zadig; tuttavia, essendo egli un bravo scienziato e non credendo che i pappagalli avessero virtù profetiche, si rasserenò e si mise a esercitare il proprio ministero con diligenza. Fece in modo che tutti sentissero il sacro potere delle leggi ma non il peso della sua dignità ministeriale. Non soppresse i pareri del Divano, e ogni visir poteva avere la propria opinione senza offenderlo. Nel giudicare una causa non lui ma la legge era giudice; e se la legge era troppo severa egli l’alleviava; e quando mancavano leggi ne pronunziava di cosifatte che sembravano dettate da Zoroastro.

Tutte le nazioni devono a lui il seguente dettame: è meglio correre il rischio di salvare un colpevole piuttosto di condannare un innocente. Pensava che le leggi dovessero aiutare i cittadini e nello stesso tempo intimorirli. Il suo più acuto studio era di illuminare la verità che tutti gli altri vorrebbero oscurare. Si applicò a questo studio fin dai primi giorni del suo governo. Un famoso commerciante babilonese era morto nell’India. Aveva lasciato eredi i due figli in parti uguali. La figlia di lui era già maritata; ed egli aveva anche lasciato una somma di trentamila monete d’oro da consegnare al figlio che fosse giudicato più affezionato a lui. Il figlio più vecchio gli innalzò un monumento funebre, il più giovane accrebbe la dote della sorella con una parte della propria eredità. La gente diceva: - Il figlio più vecchio era più affezionato al padre, il giovane lo è di più alla sorella. Le trentamila monete d’oro spettano al maggiore. Zadig lì chiamò a sé uno per volta. Disse al più vecchio: Tuo padre non è morto, guarito della recente malattia, egli torna a Babilonia. - Sia lodato Iddio, - rispose il giovanotto, - ma il monumento funebre so io quanto m’è costato! Zadig ripetè poi la notizia al figlio più giovane. - Sia lodato Iddio, - rispose, - restituirò tutto a mio padre, ma vorrei che lasciasse a mia sorella quanto le ho dato. - Non restituirai niente, - disse Zadig, - e avrai anche le trentamila monete, perché sei tu il più affezionato a tuo padre. Una ragazza, molto ricca, s’era promessa in matrimonio a due magi, e dopo aver ricevuto per qualche mese

gl’insegnamenti dell’uno e dell’altro, si ritrovò incinta. Tutti e due i magi volevano sposarla: - Accetterò per marito, disse lei, - quello di voi due che mi ha messo in condizione di dare un nuovo cittadino all’impero. - Sono io, - dichiarò uno dei due, - io ho compiuto quest’opera buona buona. - Io, io ebbi questo onore! - dichiarò l’altro. - Ebbene, - fece ella, - sono pronta a riconoscere come padre del mio bambino quello di voi che saprà dargli la migliore educazione. Partorì un maschio. L’uno e l’altro mago volevano allevarlo. La disputa fu portata davanti a Zadig, che chiamò i due magi. - Che cosa insegnerai al tuo pupillo? - chiese al primo. Quel dotto rispose: - Gli insegnerò le otto parti del discorso: dialettica, astrologia, demonomania, l’essenza della sostanza e dell’accidente, l’astratto e il concreto, le monadi e l’armonia prestabilita. - Io, - disse l’altro, - cercherò di farlo crescere giusto e degno di avere amici. Zadig sentenziò: - Padre o non padre del piccolo, tu sposerai sua madre.

Contrasti di opinioni e udienze In questo modo egli palesava ogni giorno la sottigliezza del proprio talento e la bontà dell’animo. Lo ammiravano, e insieme l’amavano. Era considerato come il più fortunato degli uomini; tutto l’impero era pieno del suo nome, tutte le donne lo adocchiavano, i cittadini lodavano al cielo la sua giustizia, i dotti lo ascoltavano come un oracolo; persino i poeti ammettevano che la sapeva più lunga del vecchio arcimago Yebor. Quanto era ormai distante il processo per i grifoni! Si dava credito soltanto a ciò ch’egli credeva. In Babilonia da ben millecinquecento anni durava una grande disputa che divideva in due accanite sette l’impero. Una setta asseriva che non si doveva mai entrare nel tempio di Mitra fuorché con il piede sinistro; i partigiani dell’altra, aborrendo da tale usanza, non entravano se non con il piede destro innanzi. Si aspettava il giorno della solenne festa del fuoco sacro per sapere quale setta sarebbe stata la favorita di Zadig. Tutta la gente fissava con gli occhi i piedi di lui, tutta la città era in agitazione e in attesa. Zadig passò la soglia del tempio con un salto a piedi giunti; e dimostrò poi, con un eloquente discorso, che il Dio del cielo e della terra, imparziale con tutti, non sta a badare più a una gamba che all’altra. L’invidioso e sua moglie affermarono che nel discorso di Zadig non vi erano abbastanza metafore, non aveva abbastanza avviato a danza le montagne e le colline. Dicevano: -È arido, senza brio intellettuale; con lui il mare non fugge, le stelle non cadono, il sole non si liquefa come la

cera; egli non conosce il bello stile orientale Zadig si accontentava di usare lo stile della ragione. Tutti lo approvarono, non perché fosse sulla retta via, non perché fosse razionale, non perché amabile, ma perché era il primo ministro. Concluse anche bellamente la grande controversia tra i magi bianchi e i magi neri. I bianchi consideravano empietà il volgersi verso l’oriente invernale, nelle preghiere a Dio. I neri asserivano che Dio aveva in abominazione le preghiere di coloro che si volgevano verso l’occidente estivo. Zadig diede l’ordine di volgersi di libera scelta. Trovò anche il modo di sbrigare al mattino tanto gli affari particolari quanto quelli generali; il rimanente del giorno s’interessava degli abbellamenti di Babilonia; faceva rappresentare tragedie a cui si piangeva, commedie a cui si rideva, cose cadute in disuso da molto tempo e ch’egli rimise in onore perché dotato di buon gusto. Non si dava l’aria di sapere di più degli artisti, anzi li premiava con benefici e onori, senza essere segretamente geloso dei loro talenti. Di sera era la miglior distrazione per il re e soprattutto per la regina. Il re diceva: - Che grande ministro! - E la regina: Che ministro simpatico! - E tutti e due insieme: - Che danno se fosse stato impiccato! Non s’era mai dato il caso d’un uomo di così alto grado costretto a concedere tante udienze alle signore. Per lo più coteste signore andavano da lui per parlargli d’affari inesistenti, ma per averne uno con lui. La moglie dell’invidioso fu tra le prime a presentarsi; gli giurò per Mitra, per Zend-Avesta, e per il fuoco sacro ch’ella aveva detestato il modo di fare del proprio marito; gli confidò pure che il marito era un geloso, un uomo brutale; gli lasciò

capire che gli dei punivano tale marito privandolo di quel fuoco sacro che solo può rendere gli uomini simili agli dei immortali; infine ella lasciò scivolare la propria giarrettiera. Zadig, con normale cortesia, la raccattò, senza tuttavia riallacciarla alla gamba della signora; e questa piccola noncuranza, se possiamo chiamarla così, fu motivo di orribili sventure. Zadig nemmeno ci pensò, ma la signora si, e molto. Altre signore, ogni giorno, si presentavano all’udienza. Gli annali segreti di Babilonia affermano ch’egli una volta non resistette alla tentazione, ma che fu stupito di fruirne senza voluttà, e di avere distrattamente tra le braccia un’amante. Colei alla quale, quasi senz’accorgersene, diede prova di benevolenza era una ancella della regina Astarte. Quest’affettuosa babilonese, per consolarsi diceva tra sé: «Un siffatto tipo d’uomo deve avere la testa prodigiosamente piena di affari, dato che li rimugina anche mentre fa l’amore». In quegl’istanti in cui molti non pronunziano sillaba, o alcuni dicono soltanto parole ispirate, a Zadig sfuggi questo grido improvviso: - La regina! - Alla babilonese sembrò allora che egli fosse ritornato in sé al momento buono e che le dicesse «mia regina!» ma Zadig ancora completamente distratto pronunciò il nome di Astarte. La donna, in quegli avventurati frangenti, interpretando ogni cosa per sé, s’immaginò che intendesse dire «tu sei più bella che la regina Astarte». Usci dal palazzo di Zadig con dei bellissimi regali. Andò a raccontare l’avventura all’invidiosa, sua amica intima, che si senti terribilmente offesa per non essere stata preferita. - Vedi questa giarrettiera? - disse. – Non si è nemmeno degnato di

allacciarmela; non l’adopererò più! - Oh oh, - la fortunata disse all’invidiosa, - porti lo stesso modello di giarrettiera della regina. Le compri dalla stessa modista? - L’invidiosa meditò profondamente, non rispose e se ne andò a chiedere consiglio al marito, l’invidioso. Intanto Zadig si accorgeva di soffrire sempre di distrazioni durante l’udienza e nei giudizi delle cause; non se ne capacitava, era l'unico suo cruccio. Fece un sogno: gli pareva d’essere coricato dapprima sopra l’erbe secche, e qualcuna più pungente lo molestava; poi riposava morbidamente su un letto di rose, da cui però usciva una serpe che lo feriva al cuore con la lingua aguzza e velenosa. «Ahi, - si diceva, - sono stato a lungo disteso su erbe secche e pungenti, ora sono su un letto di rose; ma chi sarà la serpe?»

La gelosia La disgrazia di Zadig sorse proprio dalla sua fortuna e principalmente dal suo merito. Ogni giorno aveva degli abboccamenti con il re e con l’augusta sposa Astarte. Le seduzioni della sua conversazione erano raddoppiate dal desiderio di piacere, cosa che ravviva il brio dell’intelligenza come un abbigliamento ravviva la bellezza. La sua giovinezza e le sue attrattive provocarono via via in Astarte un’impressione di cui ella sugl’inizi non si accorse. La passione di lei cresceva nel grembo dell’innocenza. Astarte senza scrupolo e senza timore cedeva al piacere di vedere e di ascoltare una persona cara al suo sposo e allo stato; ella ne ripeteva continuamente gli elogi al re, ne parlava alle sue ancelle, che ancor di più lo lodavano; tutto concorreva a infìggere nel suo cuore il dardo che non sentiva. Faceva a Zadig dei regali più galanti di quanto ella pensasse; credeva di parlare a lui soltanto come regina soddisfatta degli uffizi di lui, e qualche volta le sue espressioni manifestavano la donna affettuosa. Astarte era molto più bella di quella Semira che aveva tanto in antipatia i ciechi da un occhio, e più bella assai di quell’altra donna che voleva mozzare il naso allo sposo. La confidenza di Astarte, le sue frasi di tenerezza di cui ella già incominciava ad arrossire, gli sguardi ch’ella cercava di nascondere, ma si fissavano sugli sguardi di lui, accesero nel cuore di Zadig una fiamma di cui si stupì. Lottò, cercò aiuto nella filosofia, che sempre l’aveva aiutato; ne ricavò solamente chiarezza, senza sollievo. Il dovere, la

riconoscenza, la lesa maestà, gli apparivano come divinità vendicatrici; lottava e riusciva a trionfare ma con una vittoria che doveva essere rinnovata ad ogni istante e gli costava gemiti e lagrime. Non osava più rivolgersi alla regina con quella dolce libertà che era stata così attraente per tutti e due; gli occhi suoi parevano appannati da una nuvola, le sue frasi stentate e sconnesse; abbassava lo sguardo e quando, suo malgrado, volgeva gli occhi agli occhi di Astarte, li vedeva umidi di un pianto che per lui dardeggiava infiammando. Sembrava che tra loro si dicessero: «Ci adoriamo e abbiamo paura d’amarci, bruciamo tutti e due in un fuoco che biasimiamo». Zadig si congedava da lei smarrito, disfatto, con il cuore oppresso da un peso insopportabile. Nella violenza della sua agitazione lasciò capire all’amico Cador il proprio segreto come colui che avendo contenuto a lungo gli assalti d’un acerbo dolore lascia finalmente conoscere il male con il grido d’una sofferenza più acuta e con il sudore freddo di cui è madida la sua fronte. Cador gli disse: - Avevo già scoperto i sentimenti che tu cerchi di celare a te stesso; le passioni si manifestano con indizi infallibili. Caro Zadig, dato che io ho letto nel tuo cuore, pensa un po’ se il re non saprà scoprirvi un sentimento che l’offende. Il re non ha nessun difetto, fuorché quello d’essere più geloso di tutti. Tu ti opponi alla passione con un vigore che la regina non ha, perché sei filosofo e sei Zadig. Astarte è donna; lascia che i suoi occhi svelino con tanta imprudenza quanta è la sua convinzione d’essere ancora incolpevole. Sfortunatamente rassicurata dalla propria innocenza, non si cura delle indispensabili

apparenze. Io tremo per lei finché non ha alcunché da rimproverarsi. Se voi ve la intendeste, potreste ingannare tutti gli sguardi; una passione nascente e combattuta esplode, un amore soddisfatto riesce a celarsi. Zadig ebbe un fremito all’eventualità di tradire il re, suo benefattore; mai si era sentito così fedele al principe come ora, colpevole verso di lui d’una colpa involontaria. Ma intanto la regina nominava così sovente Zadig, la fronte le si copriva talmente di rossore quando lo nominava e, quando parlava a lui di fronte al re, ella era così animata o così perplessa, rimaneva talmente pensosa quando egli era uscito, che il re ne fu turbato. Credette tutto ciò che vedeva e immaginò tutto ciò che non vedeva. Soprattutto osservò che le pantofole di sua moglie erano aguzze e quelle di Zadig pure aguzze, i nastri di sua moglie gialli e il berretto di Zadig giallo: per un sovrano così fine gl’indizi erano terribili. Nel suo spirito inasprito i sospetti si mutarono in certezza. Gli schiavi dei re e delle regine stanno tutti quanti a spiarne i cuori. Bastò poco tempo per capire che in Astarte v’era tenerezza e in Moabdar gelosia. L’invidioso convinse l’invidiosa a fare avere la sua giarrettiera - così rassomigliante a quella della regina - al re. Per colmo di sventura, era pure una giarrettiera azzurra. Il monarca non pensò più ad altro che al modo di vendicarsi. Una notte decise d’avvelenare la regina e di primo mattino far morire Zadig con una corda al collo. Ne diede ordine a un eunuco spietato esecutore delle sue vendette. In quella circostanza nella camera reale v’era un nanetto muto, ma non sordo. Lo si lasciava sempre stare li, testimonio di ogni cosa più

segreta, come un animale domestico. Il nanetto era affezionatissimo alla regina e a Zadig. Udì, con sorpresa pari all’orrore, quell’ordine di duplice morte. Ma come poteva egli precedere l’ordine spaventevole che doveva essere eseguito entro poche ore? Non sapeva scrivere; ma aveva imparato a dipingere, e - ciò che più valeva - riusciva assai nelle rassomiglianze. Trascorse parte della notte ad abbozzare ciò che intendeva far capire alla regina. Il disegno raffigurava il re incollerito, su un lato del quadro, mentre dava ordine al suo eunuco; sulla tavola era un recipiente e un laccio di corda, delle giarrettiere azzurre e dei nastri gialli; in mezzo al quadro la regina morente tra le braccia delle ancelle, e Zadig ai suoi piedi, strangolato. All’orizzonte il sole nascente, per indicare che l’orribile uccisione doveva compirsi alle prime ore dell’aurora. Il nanetto, appena ebbe finito il suo lavoro, andò di corsa da un’ancella di Astarte, la svegliò, le fece capire che era indispensabile portare subito subito quel quadro alla regina. Frattanto, nel pieno della notte, si bussò alla porta di Zadig; lo si svegliò, per consegnargli un biglietto della regina. Gli pare di sognare, apre la lettera con mani tremanti. Quale sorpresa! E chi potrebbe esprimere la costernazione disperata da cui fu colpito, nel leggere le seguenti parole? «Fuggi appena ricevi la presente, altrimenti ti strappano dalla vita. Fuggi, Zadig, te lo comando nel nome del nostro amore, e dei miei nastri gialli. Ero innocente, ma sento che sto per morire peccatrice». Zadig ebbe a stento voce per parlare. Ordinò e fece venire Cador e senza dirgli nulla gli porse il biglietto della regina. Cador lo costrinse ad obbedire e a partire su due piedi alla volta di Menfi.

- Se ti arrischi dalla regina, - gli disse, - affretti la sua morte; se vai a parlare al re, la perdi lo stesso. Io spargerò la voce che sei partito per le Indie. Verrò presto a trovarti e ti racconterò ciò che sarà successo a Babilonia Cador, senz’altro, fece arrivare due tra i più svelti dromedari da corsa, accanto a una porta segreta del palazzo; vi fece salire Zadig, ch’era li lì per svenire. Lo accompagnava un domestico solo, e in breve Cador, attonito e addolorato, perse di vista l’amico. L’illustre fuggiasco, giunto sulla sponda d’una collina, donde si vedeva Babilonia, volse lo sguardo sul palazzo della regina, e perse i sensi. Rinvenne per piangere e lacrimare e per invocare la morte. Infine dopo aver riflettuto sul miserevole destino di chi era la più amabile delle donne e la prima delle regine del mondo, ebbe un momento di riflessione su se stesso, ed esclamò: - Che cosa è mai la vita umana? O virtù! A che mi hai giovato? Due donne m’hanno indegnamente ingannato, la terza, innocente e più bella di tutte, è vicina a morte. Tutto il bene che ho compiuto è sempre stato per me fonte di maledizione; sono stato sollevato sulla vetta della grandezza soltanto per cadere nel più orrendo abisso della disgrazia. Se io fossi stato malvagio come tanti lo sono, sarei, come loro, nella felicità! Accasciato da questi pensieri funesti, con gli occhi oscurati da un velo di dolore, con un pallore mortale sul volto, angosciato dalla più nera disperazione, seguitò il suo cammino verso l’Egitto.

La donna percossa Zadig regolava il suo cammino con le stelle. La costellazione d’Orione e il brillante astro di Sirio lo guidavano verso il polo di Canopo. Ammirava quegli immensi globi di luce che agli occhi nostri appaiono solamente come tenui scintille, mentre la terra che in verità nella natura è soltanto un impercettibile punto, per la nostra cupidigia sembra un’entità così grande e così nobile. Immaginava allora gli esseri umani quali effettivamente sono: insetti che si divorano, l’uno contro l’altro, sopra un menomo atomo fangoso. Tale immagine della realtà riusciva quasi ad annullare il pensiero delle sue disgrazie mostrandogli la nullità del suo essere e di Babilonia. L’anima sua si slanciava fino agli spazi infiniti e disgiunta dai sensi contemplava l’immutabile ordine dell’infinito. Ma dopo un po’, restituito a se stesso e rientrato nel proprio sentimento, pensava che Astarte probabilmente per lui era morta, l’universo svaniva dai suoi occhi ed egli in tutta la natura vedeva soltanto Astarte morente e Zadig colpito dalla sventura. In balia del flusso e del riflusso della sublime filosofia e del più affliggente dolore, s’avvicinava alla frontiera dell’Egitto; e il suo fedele valletto entrava ormai nella prima borgata per cercargli una dimora. Zadig frattanto faceva qualche passo nei giardini intorno al villaggio. Non lontano dallo stradale scorse una donna che piangeva e gridava chiedendo aiuto al cielo e alla terra e dietro di lei un uomo infuriato. Ecco, era raggiunta, e abbracciava le ginocchia di

quell’uomo che la colpiva di busse e di rimbrotti. Dalla violenza dell’egiziano e dalle reiterate invocazioni di perdono della donna, Zadig intuì che l’uomo era un geloso e l’altra un’infedele; ma rimirando nella donna una commovente bellezza e persino qualche rassomiglianza con l’infelice Astarte, si sentì pieno di compassione per lei e di ripugnanza per lui. - Aiuto! - gridò tra i singhiozzi la donna, rivolta a Zadig, - mi tolga dalle mani di questo barbaro tra i barbari, mi salvi lei! A questi strilli Zadig accorrendo s’intromise tra lei e il barbaro. Conosceva un po’ la lingua egiziana e così si rivolse all’uomo: - Se lei ha un po’ di sentimento la scongiuro di rispettare la bellezza e la fragilità. Ha il coraggio di offendere questo capolavoro della natura che le sta ai piedi e non può difendersi altrimenti che con le lagrime? - Ah! Ah! - gli rispose quel forsennato, - dunque ne sei innamorato anche tu, su di te dunque mi vendicherò -. Ciò dicendo lascia la donna che aveva già afferrata per i capelli, e impugnata la lancia fa per trafiggere lo straniero. Costui, non senza sangue freddo, si scansò facilmente dal colpo forsennato, e prese tra le mani la lancia vicino al ferro della punta. Tirano tutti e due, l’uno per trattenerla, l’altro per strapparla, di modo che la lancia si spezza. L’egiziano sguaina la spada. Zadig tira fuori la sua. Si azzuffano. Quello sferra un colpo dopo l’altro, a precipizio; questo li para con destrezza. La donna, accoccolata sull’erba, si ravvia i capelli e guarda. L’egiziano era più vigoroso dell’avversario, Zadig più schermidore. Questi si difendeva da uomo che sa guidare il braccio con l’intelligenza, quell’altro, tutta furia, era accecato dall’ira che lo spingeva a movimenti incontrollati. Zadig gli è addosso e

lo disarma; e mentre l’egiziano, ancora più infuriato, vuole spingersi su di lui, egli lo abbranca, lo preme, lo fa cadere e gli mette la spada contro il torace. Gli salverebbe la vita, ma l’egiziano fuor di sé estrae il pugnale e ferisce Zadig nell’attimo stesso in cui il vincitore lo condonava. Allora Zadig, sdegnato, gli immerge la spada nel petto. L’egiziano dà un grido orrendo, e torcendosi muore. Zadig, ecco, s’avvicina alla donna e sommessamente le dice: - L’ho ucciso perché mi ha costretto, lei è vendicata, lei è liberata dall’uomo più violento che io abbia mai conosciuto. Adesso, signora mia, che cosa vuole da me? - Che tu muoia, scellerato, - gli rispose colei, - hai ucciso il mio amante, vorrei squarciarti il cuore. Rispose Zadig: - Non c’è dubbio, signora mia, lei aveva uno strano tipo per amante; la picchiava con tutte le forze e voleva strapparmi la vita perché lei aveva implorato il mio aiuto. - Vorrei che mi picchiasse ancora, - seguitò la donna, strillando. - Me l’ero meritato, l’avevo ingelosito. Volesse il cielo che egli mi picchiasse ancora e che tu fossi morto in sua vece -. Zadig, sorpreso e incollerito come non gli era mai successo, le disse: - Signora mia, lei meriterebbe, quantunque così bella, che a mia volta io la picchiassi, talmente lei è bizzarra; ma non sarò io a impicciarmene A questo punto, risalì sul cammello e si avviò verso il borgo. S’era appena incamminato e dovette voltare il capo al rumore di quattro corrieri provenienti da Babilonia. Arrivavano a corsa sfrenata. Uno dei quattro scorgendo la donna gridò: - È lei, proprio lei, identica al ritratto che ci hanno mostrato -. Non si curarono del morto e s’impossessarono senz’altro della signora. Ella gridava senza

fine a Zadig: - Aiutami ancora, o generoso straniero. Ti chiedo perdono d’essermi lamentata. Aiutami e sarò tua fino alla tomba. Ma Zadig ormai aveva perso la voglia di combattere per lei. - Cerca qualcun altro, - rispose, - non mi peschi più -. E poi era anche ferito, perdeva sangue, gli era necessario un soccorso, e la presenza dei quattro babilonesi, probabilmente mandati dal re Moabdar, lo preoccupava assai. Proseguì alla svelta verso il villaggio, senza immaginare per qual motivo i quattro corrieri babilonesi fossero venuti a prendere quella egiziana, e soprattutto stupefatto per il carattere di quella donna.

La schiavitù Appena entrato nella borgata egiziana, Zadig si vide circondato dalla gente. Gridavano: - Ecco il rapitore della bella Missuf, ecco chi poco fa ha assassinato Cletofi! Signori, - disse Zadig, - Dio mi faccia la grazia di non rapire mai la bella Missuf! È troppo capricciosa. In quanto a Cletofi, io non l’ho assassinato, mi sono semplicemente difeso. Voleva uccidermi, perché gli avevo chiesto umilmente di perdonare la bella Missuf, che egli picchiava senza pietà. Sono uno straniero in cerca d’asilo nell’Egitto, e non mi pare verosimile che proprio chiedendo la vostra protezione io mi presenti come rapitore d’una donna e assassino d’un uomo. Gli egiziani in quel tempo erano giusti e umani. La gente condusse Zadig alla Casa municipale. Prima gli medicarono la ferita, poi interrogarono separatamente lui e il suo valletto, per sapere così la verità. Si riconobbe che Zadig non era un assassino, bensì era colpevole di aver versato il sangue di un cittadino. La legge lo condannava a diventare schiavo. Si vendettero i due cammelli a profitto della borgata; si distribuirono agli abitanti le monete d’oro che Zadig aveva con sé; la sua persona fu messa all’asta nella pubblica piazza, e con lui la persona del suo compagno di viaggio. Un mercante arabo, Setoc di nome, fece un’offerta; ma il valletto, più idoneo alle fatiche, fu venduto a prezzo molto maggiore che il padrone. Non facevano nemmeno confronto tra i due uomini. E Zadig diventò schiavo in subordine al suo valletto: furono incatenati l’uno all’altro alle caviglie, e in questa condizione

andarono dietro al mercante arabo fino alla dimora di lui. Zadig, durante il cammino, consolava il proprio valletto esortandolo alla pazienza; ma, secondo la sua abitudine, faceva considerazioni sulla vita umana. - Noto, - gli diceva, che le sventure del mio destino si riflettono sul tuo. Ogni cosa finora mi si è volta nel modo più strano. Fui multato per aver veduto passare una cagna, temetti d’esser suppliziato al palo per causa d’un grifone, venni avviato verso il supplizio per aver composto dei versi in lode del re, fui li lì per essere strozzato perché la regina aveva dei nastri gialli, ed ora eccomi schiavo con te perché un uomo brutale picchiava l’amante. Via, non perdiamoci d’animo, tutto questo avrà forse fine; è necessario che i mercanti arabi abbiano qualche schiavo; e per qual motivo io dovrei essere schiavo meno di altri, dato che sono un uomo come gli altri? Questo mercante non sembra senza cuore; e deve trattare bene gli schiavi se vuole che lo servano con suo profitto -. Cosi parlava, e il profondo del suo cuore era tutto per la regina di Babilonia. Due giorni dopo, il mercante Setoc, con schiavi e cammelli, parti per l’Arabia deserta. La sua tribù dimorava presso il deserto di Horeb. Il viaggio fu lungo e faticoso. Setoc, lungo il cammino, faceva molto più conto del valletto che del padrone, perché il primo sapeva molto meglio caricare i cammelli; e tutti i piccoli riguardi erano dedicati a lui. Un cammello mori due giorni prima di arrivare a Horeb; il carico fu suddiviso sulla schiena di ciascun servo, Zadig ebbe la sua parte di carico. Setoc rise nell’osservare tutti gli schiavi a schiena curva. Zadig si arrischiò a spiegarne la causa, menzionandogli le leggi dell’equilibrio. Il mercante, meravigliato, incominciò a guardarlo diversamente. Zadig,

accorgendosi che aveva destato la sua curiosità, la raddoppiò facendogli sapere più cose che non erano estranee al suo commercio: il peso specifico dei metalli e delle derrate a parità di volume; le proprietà di parecchi animali utili; il modo di rendere utili quelli che non lo erano. Insomma sembrò un sapientone e Setoc ora lo preferì al compagno che aveva tanto tenuto in considerazione. Lo trattò bene e non ebbe motivo di pentirsene. Arrivato alla tribù, Setoc richiese subito cinquecento once d’argento a un ebreo cui egli le aveva imprestate in presenza di due testimoni, ma quei due testimoni erano defunti e l’ebreo, poiché non gli potevano dare prova contraria, teneva per sé la somma del mercante, ringraziando Iddio che gli aveva dato modo di ingannare un arabo. Setoc confidò a Zadig, ormai suo consigliere, l’imbroglio. - In che sito, chiese Zadig, - lei ha consegnato il prestito di cinquecento once a quell’infedele? Il mercante rispose: - Sopra un largo sasso che sta nei pressi del monte Oreb. - Che tipo è il suo debitore? - chiese Zadig. - Il tipo d’un truffatore, - rispose Setoc. - Ma io le chiedo se è un tipo nervoso o calmo, ponderato o imprudente -. Setoc rispose: - È il più impulsivo di tutti i cattivi debitori ch’io conosco. - Bene, - replicò Zadig, - mi permetta di difendere la causa davanti al giudice -. Cosi Zadig citò l’ebreo al tribunale e parlò al giudice nel tono seguente: - Origliere del trono di giustizia, a nome del mio padrone sono qui per richiedere a quest’uomo cinquecento once d’argento ch’egli non vuole restituire. - Avete dei testimoni? - chiese il giudice. - No, sono defunti, ma tuttora rimane un largo sasso sopra il quale

furono contate le monete, e se Vostra Grandezza vuole dare ordine di andare a cercare quel sasso, spero ch’esso varrà come testimonianza: l’ebreo ed io resteremo qua in attesa e io manderò a prendere il sasso a spese del mio padrone Setoc. - Benissimo, - rispose il giudice; e si dedicò ad altre liti. Al termine dell’udienza il giudice disse a Zadig: - Dunque, il suo sasso non è ancora arrivato? - L’ebreo, mettendosi a ridere, rispose: - Vostra Grandezza potrà restar qui fino a domani e il sasso non sarà mica arrivato, è a quindici miglia e più da qui e occorrerebbero una quindicina di uomini per spostarlo. - Ah! Ci siamo, - esclamò Zadig, - l’avevo detto che il sasso avrebbe testimoniato; poiché costui sa dov’è il sasso confessa che sopra di esso fu contato il denaro. L’ebreo, confuso, fu costretto a confessare ogni cosa. Il giudice ordinò di legarlo al sasso, senza lasciarlo bere né mangiare finché non avesse restituito le cinquecento once. Furono prestamente pagate. Lo schiavo Zadig e il sasso diventarono famosi nell’Arabia.

La pira Setoc, pieno d’ammirazione, considerò il suo schiavo intimo amico. Come già era successo al re di Babilonia, egli non poteva stare senza Zadig, il quale fu ben contento che Setoc non avesse moglie. Vedeva nel suo padrone un’indole incline al bene, una dirittura morale e buonsenso. Gli rincresceva tuttavia che adorasse tutta l’armata celeste: il sole, la luna, le stelle, secondo l’inveterata usanza araba. Con molta discrezione, a volte, alludeva a queste cose. Fini col dirgli che quelli erano corpi come gli altri e non meritavano maggior ossequio d’un albero o d’una roccia. - Ma sono esseri eterni, - diceva Setoc, - da cui provengono tutti i nostri benefici: animano la natura, regolano le stagioni; e d’altro canto sono talmente remoti che non possiamo non venerarli. - Ma lei, - rispose Zadig, - riceve vantaggi maggiori dalle acque del Mar Rosso, che portano le sue merci fino all’India. Per qual motivo il Mar Rosso non sarebbe antico come le stelle? E se lei adora ciò che le è remoto, dovrebbe adorare la terra dei Gangaridi, che è al confine del mondo. - No, - protestava Setoc, - le stelle sono talmente brillanti che m’è impossibile non adorarle. Quella sera, Zadig accese un gran numero di torcie nella tenda ove avrebbe pranzato con Setoc e quando lo vide arrivare si prostrò ginocchioni davanti a quelle faci accese, dicendo: - O eterni e brillanti splendori, siate a me sempre propizi. Pronunziate queste parole si assise a tavola senza dare uno sguardo a Setoc.

- Ma cosa fai? - Setoc, stupito, gli chiese. - Faccio come lei, - rispose Zadig, - adoro le candele e trascuro il loro e il mio padrone. Setoc capì il nascosto significato dell’apologo. La sapienza del suo schiavo gli penetrò nell’animo, non sprecò più l’incenso per delle creature e adorò l’Essere eterno che le creò. In quel tempo vigeva in Arabia un’orrenda usanza, venuta in origine dalla Scizia, diffusasi stabilmente nell’India, sull’autorità dei Bramini, con minaccia di invadere tutto l’oriente. Quando un marito moriva, l’amatissima moglie, se voleva santificarsi, si cremava pubblicamente sopra il corpo di lui. Era una festa solenne detta la pira della vedovanza. Le tribù più stimate erano quelle con maggior numero di mogli bruciate. Essendo morto un arabo appartenente alle tribù di Setoc, la vedova, Almona, che era molto religiosa, comunicò il giorno e l’ora in cui al suono di tamburi e di trombe ella si sarebbe gettata sopra la pira. Zadig fece notare a Setoc quanto fosse deprecabile e contraria al bene del genere umano l’usanza di lasciare ogni dì perire sul rogo giovani vedove ancora in grado di dare figli allo stato, o per lo meno capaci di allevarli. Setoc ammettendo che quella barbara usanza qualora se ne trovasse il modo, era da abolire, rispose: - Sono però più di mille anni che le donne usufruiscono della libertà di bruciarsi. Chi di noi avrà l’ardire di cambiare una legge consacrata dal tempo? Vi è qualche cosa piu degna di riguardo d’un abuso vetusto?

-La ragione è piu vetusta, - riprese Zadig. - Parli lei ai capitribù, io andrò dalla giovane vedova. Si fece presentare a lei, e dopo essersi insinuato nella sua simpatia lodandone la bellezza e dopo averle detto che sarebbe stato un enorme peccato distruggere col fuoco grazie cosi attraenti, elogiò pure la sua costanza e il suo coraggio. Ma dunque, - le disse, - lei amava straordinariamente suo marito. - Io? - rispose la signora araba, - nemmeno per sogno. Era un uomo bestiale, geloso, insopportabile; però io sono assolutamente decisa a gettarmi sopra la sua pira. - A quanto pare, - disse Zadig, - ci dev’essere un piacere deliziosissimo nell’essere arsa viva. - Ah! - fece la signora, la natura stessa raccapriccia! Ma non ci si può sottrarre. Io sono una donna pia, e perderei ogni stima, sarei schernita da tutti, se io non andassi al rogo -. Zadig dopo averle fatto ammettere ch’ella sarebbe andata al rogo per soggezione del prossimo, e per vanità, conversò a lungo con lei per trasmetterle una qualche compiacenza della vita riuscendo persino a ispirarle una certa cordialità verso chi le parlava. Che cosa farebbe, - le disse, - se non fosse dominata dalla vanità del rogo? - Ahimè, - disse la signora, - penso che le chiederei di sposarmi. Zadig era ancora tutto immerso nel pensiero di Astarte, per non sfuggire a una simile dichiarazione; ma s’avviò subito alla volta dei capitribù, riferì l’andamento del colloquio con la vedova, e diede loro il consiglio di promulgare una legge che non permettesse il rogo a nessuna vedova che non si fosse precedentemente intrattenuta in privato colloquio, per la durata di un’ora, con un giovanotto. Da allora in poi, in Arabia più nessuna donna andò al rogo. Si

dovette proprio a Zadig, a lui solo, il merito d’avere abrogato in un giorno un’usanza così crudele e vecchia di tanti secoli. Egli era dunque il benefattore dell’Arabia.

La cena Setoc, che non poteva separarsi dall’uomo che poteva dirsi la dimora della saggezza, lo portò con sé alla grande fiera di Bassora, dove si davano convegno i maggiori commercianti del mondo abitato. Zadig fu profondamente contento di vedere riuniti nello stesso luogo un così gran numero di persone provenienti da paesi diversi. Gli pareva che l’universo fosse una grande famiglia che si riuniva a Bassora. Fin dal secondo giorno si trovò a mensa con un egiziano, con un indiano gangaride, un abitante del Catai, un greco, un celta, e parecchi altri stranieri che nei loro frequenti viaggi verso il golfo d’Arabia avevano imparato la lingua araba sufficientemente per essere compresi. L’egiziano sembrava pieno d’ira. - Che abominevole paese Bassora! - diceva. - Mi si rifiutano mille once d’oro sul pegno migliore del mondo! Setoc intervenne: - Possibile? Qual è il pegno che hanno rifiutato? - Il corpo di mia zia, - rispose l’egiziano. - Era la donna migliore di tutto l’Egitto. Mi accompagnava sempre; è morta durante il viaggio; ne ho fatto una delle mummie più belle che si possano avere, e se in Egitto la dessi come garanzia otterrei tutto ciò che io volessi. È proprio strano che qui, su un pegno così solido, non mi si vogliano dare nemmeno mille once d’oro. Quantunque irritato incominciava a mangiare una buonissima gallina bollita, quando l’indiano afferrandogli il polso, esclamò con dolore: - Ah! Cosa state facendo? Mangio la gallina, - disse l’uomo della mummia.

- Non lo fate! - disse il Gangaride, - potrebbe darsi il caso che l’anima della defunta sia passata nel corpo della gallina, e non credo che voi desideriate correre il rischio di mangiare vostra zia. E cuocere galline è un evidente oltraggio alla natura. - Che cosa intendete dire con la vostra natura e con le galline, - riprese il collerico egiziano, - noi adoriamo un bue e tuttavia mangiamo buoi. - Voi adorate un bue! Possibile? - chiese l’uomo del Gange. - Niente d’altrettanto possibile, - riprese l’egiziano, - tale è la nostra abitudine da ben centotrentacinquemila anni, e nessuno di noi mai la contestò. - Ah! Centotrentacinquemila anni, - disse l’indiano, - è un calcolo alquanto eccessivo; l’India è abitata solamente da ottantamila anni, e noi senza dubbio siamo i vostri predecessori; Brama ci aveva proibito di mangiare buoi prima che voi aveste l’idea di collocarli sugli altari e d’infilarli allo spiedo. - Che bestione da ridere il vostro Brama! - disse l’egiziano, - che cosa ha mai fatto di bello per paragonarlo ad Api? - È lui che insegnò agli uomini il leggere e lo scrivere, a lui tutto il mondo deve il giuoco degli scacchi, - rispose il bramino. No, siete in errore, - disse un caldeo accanto a lui, - è il pesce Oanne l’autore di così grandi benefizi, ed è ben giusto che soltanto a lui noi rendiamo omaggio. Chiunque vi dirà che egli era un Essere divino, con la coda d’oro e con una bella testa umana, e che sorgeva dall’acqua per predicare tre ore al giorno sopra la terra. Ebbe parecchi figli che, come tutti sanno, diventarono re. A casa mia ho la sua immagine ed è mio dovere venerarlo. È lecito mangiare carne di bue a piacimento, ma è certamente un’enorme empietà fare cuocere pesci; d’altra parte voi, tutti e due, avete una nobiltà

troppo scarsa e troppo recente per essere degni di controbattermi. La nazione egiziana è sorta soltanto centotrentacinquemila anni addietro, mentre noi possediamo almanacchi di quattromila secoli. Su, ascoltatemi, rinunziate alle vostre sciocchezze ed io regalerò a ognuno di voi una bella immagine di Oanne. L’uomo di Cambalù interloquì: - Io sono pieno di rispetto per Egiziani, Caldei, Greci, Celti e per Brama, per il bue Api, e per il bel pesce Oanne; ma può darsi che Li e Cien - Luce e Cielo, se così vi piace chiamarli - valgano tanto quanto i buoi e i pesci. Non voglio dir niente del mio paese, che è grande quanto l’Egitto, la Caldea e le Indie tutte insieme. Non voglio discutere sull’antichità perché importa assai di essere felici e poco importa d’essere antichi. Nondimeno se si dovesse parlare di almanacchi, direi che l’Asia intera segue i nostri, e noi ne avevamo già di molto buoni prima ancora che in Caldea si conoscesse l’aritmetica. - Tutti quanti qui presenti siete degli ignorantoni, - sbottò il greco, - non sapete dunque che il caos è il padre universale, e che forme e materia hanno ordinato il mondo tale qual è? - Il greco parlò a lungo; ma fu poi interrotto dal Celta, che essendosi imbibito di vino durante tutta la discussione, credendosi ormai più sapiente di tutti gli altri, protestò che soltanto di Teutate e del vischio quercino valeva la pena di parlare. Quanto a lui, portava sempre del vischio in saccoccia e gli Sciti, antenati suoi, erano l’unico popolo dabbene esistito sulla terra. Qualche volta, per dire il vero, s’erano nutriti di uomini, ma ciò non doveva essere motivo di minor rispetto per tale nazione, e insomma se qualcuno avesse sparlato di Teutate, gli avrebbe insegnato lui, a vivere!

La discussione allora si riscaldò e a Setoc parve che la tavola da un momento all’altro sarebbe stata insanguinata. Zadig che durante tutta la disputa era rimasto zitto, finalmente si alzò. Si rivolse prima che agli altri al celta come al più eccitato, gli disse che aveva ragione e gli chiese un poco di vischio; elogiò il greco per la sua eloquenza e calmò tutti i bollenti spiriti. Non disse molte parole all’uomo del Catai, perché si era dimostrato il più ragionevole tra tutti. Quindi conchiuse: - Amici miei, stavate per litigare a vuoto, poiché siete tutti della stessa opinione -. Tutti s’impuntarono su questa frase. Ma Zadig disse al celta: - Non è forse vero che voi non adorate propriamente il vischio ma colui che ha fatto il vischio e la quercia? - Senza dubbio, - rispose il celta. - E voi, mio signor egiziano, non adorate forse in un dato bue colui che vi ha donato i buoi? - Sì, - disse l’egiziano. - Penso che il pesce Oanne, - seguitò Zadig, - debba dipendere da chi ha creato il mare e i pesci. - L’ammetto, - disse il caldeo. - E l’indiano, disse ancora Zadig, - e l’abitante del Catai riconoscono un motore primo, come voi. Non ho afferrato tutte le mirabili cose dette dal greco, ma sono certo che anch’egli ammette un Essere superiore dal quale dipendono la forma e la materia -. Il greco, che gli altri ammiravano, disse che le sue idee erano state capite molto bene da Zadig. Questi conchiuse: - Siete tutti d’accordo, quindi, e non è dunque il caso di mettersi ad altercare -. Tutti l’abbracciarono. Setoc, venduta a gran prezzo la propria merce, riaccompagnò l’amico Zadig alla sua tribu. Giungendovi Zadig senti che l’avevano processato durante l’assenza e che doveva essere abbruciato a lento fuoco.

Gli appuntamenti Mentre Zadig era in viaggio a Bassora, i sacerdoti delle stelle avevano deciso la sua punizione. Le pietre preziose e gli altri ornamenti delle giovani vedove mandate al rogo erano considerate di spettanza dei sacerdoti; era dunque la cosa più ovvia che essi facessero bruciare Zadig per il suo tiro mancino. L’accusarono di avere opinioni false su l’armata celeste; testimoniarono contro di lui giurando che lo avevano udito dire come le stelle non si coricassero nel mare. Bestemmia spaventevole che i giudici appresero con raccapriccio. Nell’udire tale empietà si sarebbero senza dubbio squarciate le vesti se Zadig avesse avuto di che risarcirli. Ma nel loro dolore eccessivo si accontentarono di condannarlo al fuoco lento. Setoc, disperato, si valse inutilmente della propria reputazione per salvare l’amico; fu in breve costretto a tacere. Almona, la vedovella che si era assai riconciliata con la vita e ne era debitrice a Zadig, decise di salvare dal rogo colui che gliene aveva dimostrato l’aberrazione. Coltivò il proposito dentro di sé, senza farne parola con nessuno. Zadig doveva essere giustiziato l’indomani; ella aveva soltanto una notte di tempo per salvarlo. Sentite come vi si accinse, da donna fornita di carità e insieme di accortezza. Si profumò la persona, diede risalto alla propria bellezza con un abbigliamento ricco e grazioso e andò a chiedere un’udienza privata al capo dei sacerdoti delle stelle. Quando fu al cospetto del venerabile vegliardo, si espresse nel modo seguente: - O figlio primogenito dell’Orsa Maggiore, fratello

del Toro, cugino del Gran Cane (tali erano i titoli di quel pontefice) sono venuta per confidarvi i miei scrupoli. Temo davvero d’essere caduta in enorme peccato col rifiutarmi di bruciare sulla pira del mio caro marito. In fin dei conti che cosa avevo io da serbare? Una carne caduca, e ormai completamente appassita -. Mentre così parlava mostrò fuor delle grandi maniche di seta le sue braccia nude, ammirevolmente tornite e di bianchezza incantevole. Vedete, - disse, - che misero valore -. Al cuore del pontefice sembrò che il valore fosse assai grande. Gli occhi lo confessarono, la bocca lo confermò: egli giurò di non aver mai veduto braccia più belle. - Ahimè, - disse la vedovella, forse le braccia sono un po’ meno brutte dell’altre parti, ma ammettete anche voi che la mia scollatura non sarebbe degna di riguardi -. E lasciò in mostra il petto più bello di quanti la natura avesse formati. In suo confronto un bottone di rosa sopra un rotondo avorio sarebbe sembrato una punta rossiccia su un legno di bosso, e gli agnelli appena usciti dall’acqua sarebbero parsi giallastri. La scollatura e quei grandi occhi neri che brillavano dolcemente languidi con fuoco soave, quelle guance ravvivate da un bel colore porporino sopra un latteo e puro candore, quel naso - che certamente non era come la torre del monte Libano - quelle labbra, simili a margini di coralli racchiudenti le più brillanti perle del mare d’Arabia: tutto l’insieme di quelle bellezze, fece credere al vegliardo d’essere sui vent’anni. Balbettò una tenera dichiarazione. Almona, come lo vide infiammato, gli chiese la grazia per Zadig. - Ahi! - disse il vegliardo, - mia bella signora, quando io consentissi alla grazia la mia indulgenza sarebbe vana, occorre che sia firmata da altri tre

miei confratelli. - Firmatela lo stesso, - disse Almona. Volentieri, - disse il sacerdote, - a patto che la tua gentilezza con me sia il premio della mia indulgenza. - Troppo onore, disse Almona, - vi piaccia soltanto di venire nella mia camera dopo il tramonto del sole e quando già brilli all’orizzonte la stella Sheat. Mi troverete adagiata su un sofà rosa, e in tutto quanto potrete vi servirete della vostra serva -. Uscì portando con sé la grazia firmata e lasciando il vecchiardo pieno d’amore e pieno di timore nelle proprie forze. Costui impiegò il tempo restante del giorno in bagni e sorbì un liquore composto con cannella di Ceylon e con preziose spezie di Tidore e di Ternate, aspettando impazientemente l’apparizione della stella Sheat. Intanto la bella Almona andò a fare visita al secondo pontefice; e questi le giurò che sole luna e tutte le fiamme del firmamento non erano che fuochi fatui in confronto delle attrattive di lei. Essa gli chiese la stessa grazia, e gliene fu proposto il prezzo. Si lasciò vincere e a questo secondo pontefice diede appuntamento al sorgere della stella Algenib. Quindi essa andò in casa del terzo e poi in casa del quarto sacerdote, ottenendo ogni volta la firma della grazia e dando appuntamenti di stella in stella. Allora fece avvertire i giudici di venire a casa sua per un affare importante. Vi si recarono; ella mostrò loro le firme dei quattro e disse a qual prezzo essi avevano venduto la grazia di Zadig. I quattro giunsero, ognuno all’ora stabilita, e furono uno dopo l’altro stupiti di incontrare i confratelli e ancor più stupiti di trovare i giudici, davanti ai quali fu chiaramente manifestata la loro vergogna. Zadig ebbe la salvezza. Setoc fu talmente affascinato dall’intelligenza di Almona che se la prese in

moglie. Zadig dopo essersi inchinato ai piedi della sua bella liberatrice, parti. Egli e Setoc si separarono piangendo, e giurandosi perenne amicizia e promettendosi di condividere tra loro un’eventuale grande fortuna. Zadig camminò verso la Siria, ripensando sempre all’infelice Astarte e riflettendo sulla sorte che pervicacemente si divertiva con lui e lo perseguitava. - Come! - diceva, - quattrocento once d’oro per aver io veduto passare una cagnetta! Una condanna alla decapitazione per quattro versi in lode del re! Sul punto d’essere strangolato perché la regina aveva pantofole dello stesso colore del mio berretto! Ridotto in schiavitù per aver soccorso una donna che picchiavano! E lì lì per essere bruciato perché avevo salvato la vita a tutte le vedovelle di Arabia!

Il brigante Nell’arrivare sulla frontiera tra l’Arabia Petrea e la Siria, nei pressi d’un castello molto forte, vide che di là uscivano degli Arabi armati. Fu circondato e gli gridarono: - Tutto quanto hai ci appartiene, e la tua persona appartiene al nostro padrone -. Zadig, come risposta, sfoderò la spada; e il suo valletto, ch’era coraggioso, fece altrettanto. Travolsero e uccisero i primi arabi che si erano gettati su di loro; il numero raddoppiò; essi non si turbarono, e decisero di perire combattendo. Si vedevano due soli uomini difendersi contro una moltitudine: un combattimento che non poteva durare a lungo. Il padrone del castello, Arbogad di nome, da una finestra vide i prodigi di valore di Zadig, e provò ammirazione per lui. Discese in fretta, fermò egli stesso i suoi uomini e liberò i due viaggiatori. Disse: - Tutto ciò che transita sulle mie terre è mio, allo stesso modo di quanto io trovo sulle terre altrui; ma tu mi sembri così bravo che io ti escludo dalla legge comune -. Lo introdusse nel castello, e diede ordine ai suoi uomini di trattarlo bene. La sera, poi, Arbogad volle Zadig a cena. Il signore del castello era uno di quegli arabi che hanno nome di ladroni-, ma tra tante cattive azioni qualche volta ne compiva delle buone; rubava con rapacità accanita e regalava generosamente; intrepido nel fare, piuttosto blando nei traffici; crapulone a tavola, gaio nella crapula, e soprattutto molto franco. Gli piacque molto Zadig, la sua conversazione, animatasi, fece prolungare il pasto.

E infine Arbogad disse a Zadig: - Ti consiglio di arruolarti sotto di me; non avresti altro di meglio, questo non è un brutto mestiere, potresti un giorno diventare come me -. Zadig disse: - Posso domandarti da quanto tempo pratichi la tua nobile professione? Dalla mia più tenera età, - disse il signore. - Ero valletto d’un arabo molto in gamba, ma non sopportavo la mia condizione. Mi disperavo considerando come in tutto quanto il mondo che appartiene a tutti gli uomini egualmente, il destino mi avesse privato della mia porzione. Confessai il mio tormento a un vecchio arabo. Mi disse: «Figlio mio, non disperare. C’era una volta un granello di sabbia che si lamentava di essere un atomo ignoto nel deserto; con il trascorrere d’un po’ d’anni esso diventò diamante e ora è l’ornamento più bello sulla corona del re delle Indie». Quel ragionamento mi impressionò: io ero il granello di sabbia, decisi di diventare diamante. Incominciai col rubare due cavalli, mi unii con dei soci, ebbi modo di saccheggiare piccole carovane; e così, a poco a poco, annullai la sproporzione primitiva tra me e gli altri. Ebbi la mia parte nei beni di questo mondo, fui anzi largamente risarcito; mi si stimò assai, diventai un signor brigante, mi impadronii di questo castello con la forza. Il satrapo di Siria me lo voleva ritorre, ma ero ormai abbastanza ricco e non temevo più niente; diedi del denaro al satrapo e così serbai il castello e ingrandii i miei possessi. Il satrapo mi nominò addirittura tesoriere dei tributi che l’Arabia Petrea pagava al Re dei Re. Compii bene l’uffizio di esattore, e niente niente quello di pagatore. Il Grande Desteram di Babilonia, nel nome del re Moabdar, mandò qui un piccolo satrapo a strangolarmi. Costui arrivò con il suo bell’ordine: io ero informato di tutto

e davanti a lui feci strangolare i quattro individui che egli aveva portato con sé per farmi stringere nel laccio; dopo di che gli domandai quanto gli poteva rendere l’incarico di strangolarmi. Mi rispose che il suo onorario poteva ascendere a trecento monete d’oro. Gli feci toccar con mano che con me poteva guadagnare di più. Lo nominai vicebrigante e ancor oggi è uno dei migliori e dei più ricchi miei ufficiali. Se mi ascolti avrai ugual successo anche tu. Non c’è mai stato un periodo così favorevole alle ruberie, come adesso che Moabdar fu ucciso e in Babilonia tutto è confusione. -Moabdar ucciso? - disse Zadig, - e la regina Astarte? -Non ne so niente, - disse Arbogad. - So soltanto che Moabdar impazzì ed è stato ucciso, che Babilonia è tutto un covo d’assassini, l’impero una desolazione, vi sono ancora occasioni di buoni colpi, e da parte mia ne ho azzeccati parecchi. -Ma la regina? - disse Zadig, - per favore, dimmi se sai qualcosa della sorte della regina. - Mi hanno parlato d’un certo principe d’Ircania, forse ella è ormai una delle sue concubine, se non è stata uccisa durante i tumulti; ma più di queste notizie a me interessano i bottini. Durante le scorrerie ho preso parecchie donne, non ne trattengo nessuna, quando sono belle le vendo a caro prezzo, senza curarmi di chi esse siano. Il rango non si compera; una regina, se brutta, non troverebbe acquirenti; può anche darsi che io abbia venduto la regina Astarte, o forse è morta; ma non ha importanza; credo che tu non abbia da pensarci più di me -. Mentre chiacchierava Arbogad beveva così animosamente e confondeva talmente le idee, che Zadig non ne potè cavare alcuna notizia precisa.

Era senza parole, accasciato, immobile. Arbogad continuava a bere senza interruzione, e tra ciance e storie ripeteva senza tregua d’essere il più felice degli uomini, incitando Zadig a diventare felice come lui. Fini con l’assopirsi dolcemente tra i fumi del vino e se ne andò a dormire sonni tranquilli. Zadig trascorse la notte in tormentosa agitazione: «Ma come! - diceva fra sé, - il re è impazzito, l’hanno ammazzato! Non posso fare a meno di compiangerlo. L’impero è devastato e questo brigante si sente felice. O fortuna! O destino! Un ladrone vive felice, e la più gentile opera della natura è probabilmente finita in modo terribile, oppure vive in una condizione peggiore della morte. O Astarte, che cosa ne è di te?» Appena fu giorno egli interrogò tutti quelli che incontrava dentro il castello; ma erano tutti in faccende, nessuno gli rispose; durante la notte s’erano fatte nuove prede e se le dividevano. Nella tumultuosa confusione egli ottenne soltanto il permesso di andarsene. Ne approfittò su due piedi, più che mai sprofondato nei suoi dolenti pensieri. Camminava inquieto, agitato con la mente occupata dall’infelice Astarte, dal re di Babilonia, dal fedele Cador, dal felice brigante Arbogad, da quella tanto capricciosa donna che i babilonesi avevano rapita presso il confine con l’Egitto; la mente piena insomma di tutti gli accidenti e di tutte le disgrazie ch’egli aveva esperimentate.

Il pescatore A qualche lega di distanza dal castello di Arbogad, Zadig giunse alla riva di un fiumicello, lamentandosi sempre del proprio destino e considerandosi il vero esempio della sfortuna. Sulla sponda scorse un pescatore sdraiato che tratteneva appena appena, con mano molle, la rete, quasi la volesse lasciare, e intanto alzava gli occhi al cielo. Diceva: Sono senza dubbio il più disgraziato degli uomini. Io ero, come tutti asserivano, il più celebre negoziante, in Babilonia, di formaggini grassi, e sono caduto in rovina. Avevo la moglie più bella che un uomo come me potesse avere, e ne sono stato tradito. M’era rimasta una misera casa e l’hanno saccheggiata e distrutta davanti ai miei occhi. Adesso, rifugiato in una capanna, non ho che la pesca come sostentamento, e non riesco a prendere nemmeno un pesce. O rete, basta, non ti lancerò più in acqua, ora tocca a me di gettarmi -. Ecco che, appena pronunziate queste parole, colui si alza e si avvia nell’attitudine di chi è in procinto di inabissarsi e farla finita. «O dunque, - disse Zadig tra sé, - vi sono altri individui infelici come me!» E rapida come questa riflessione senti la voglia di salvare la vita al pescatore. Corre, lo ferma e con espressione affettuosa e consolatrice gli si rivolge interrogandolo. - Dicono che si è meno infelici quando si è tali insieme ad altri. Ma, secondo Zoroastro, ciò non succede per malignità ma per bisogno, perché in quei casi ci sentiamo spinti verso un disgraziato come verso un nostro simile. La gioia di chi è felice sarebbe un insulto, ma due infelici al

modo di due deboli arboscelli resistono all’uragano appoggiandosi l’uno all’altro. Perché ti lasci abbattere dalle sventure? - domandò Zadig al pescatore. -Perché, - rispose, - non vi scorgo rimedio. Ero l’uomo più stimato di Berlback, un villaggio non distante da Babilonia, e con l’aiuto di mia moglie producevo i migliori formaggini grassi di tutto l’impero. Piacevano immensamente alla regina Astarte e al famoso ministro Zadig. Avevo man mano portato alle loro case ben seicento formaggini. Un giorno mi recai in città per essere pagato e come arrivavo in Babilonia seppi che la regina e Zadig erano spariti. Corsi alla casa del signor Zadig, che non avevo mai conosciuto di persona e vi trovai gli arcieri del Grande Desteram, che forniti d’un ordine regio, saccheggiavano fedelmente e minutamente quella casa. Andai di corsa alle cucine della regina, alcuni suoi egregi scalchi mi dissero ch’ella era morta; altri dissero che era imprigionata, altri che era fuggita; comunque tutti d’accordo mi affermarono che non mi avrebbero più pagato i miei formaggi. In compagnia di mia moglie andai dal signor Orcan, uno dei miei clienti: gli chiedemmo protezione nella nostra iattura; egli a mia moglie l’accordò, a me la ricusò. Mia moglie era più bianca di quei formaggini che sono stati il principio della mia sventura, e in quella bianchezza era il rilievo d’un incarnato più brillante e più vivo della porpora di Tiro. Per questo Orcan la trattenne e per questo cacciò via me. Scrissi alla mia moglie diletta una lettera da disperato. Ella disse al latore: «Ah, si, sì, io so chi è quell’uomo che mi scrive, ne ho già sentito parlare, dicono che era un produttore di squisiti formaggini, me ne facciano avere, e glieli paghino».

-Nella mia sventura volli rivolgermi alla giustizia. Avevo ancora sei once d’oro: ne dovetti dare due al legale che consultai, due al procuratore che avviò la causa, due al segretario del giudice di prima istanza. Quando tutto ciò fu fatto, la causa non era ancora incominciata e avevo già consumato più denaro di quanto valessero i formaggini e mia moglie. Ritornai al villaggio con l’intenzione di vendere la mia casa per riavere mia moglie. -La mia casa valeva certamente una sessantina d’once d’oro, ma mi si vedeva impoverito e nell’urgente bisogno di vendere. Il primo al quale mi rivolsi mi offrì trenta once, il secondo venti, il terzo dieci. Ero disposto ad accettare, tanto era buia la mia condizione, quando un principe d’Ircania venne su Babilonia e distrusse ogni cosa nella sua marcia. La mia casa prima fu saccheggiata, poi bruciata. - Perso così il mio denaro, persa la moglie e la casa mi sono ridotto in questo luogo dove lei mi vede. Ho tentato di campare la vita facendo il pescatore; i pesci proprio come gli uomini si fanno beffe di me. Non pesco niente, muoio di fame, e senza di lei, mio illustre consolatore, dovevo morire nel fiume. Il pescatore non raccontò tutto di seguito le sue vicende, perché ad ogni momento Zadig, commosso ed esaltato, gli chiedeva: - E dunque non sai niente della regina? - No, signore, - rispondeva il pescatore, - so solamente che la regina e Zadig non mi hanno pagato i formaggini, so che mi hanno preso la moglie e che sono disperato. - Spero, - disse Zadig, - che non perderai tutto il tuo denaro. Ho sentito anch’io parlare di Zadig, è un uomo dabbene, e se, come spera, ritorna a Babilonia ti darà più di

quanto ti deve. Quanto a tua moglie, che non pare troppo dabbene, ti consiglio di non insistere per riaverla. Ascoltami, va a Babilonia; io vi giungerò prima di te, perché tu sei a piedi ed io a cavallo. Va dall’illustre Cador, digli che hai incontrato un suo amico, e aspettami da lui. Suvvia, forse non sarai infelice per sempre. «O potente Orosmade, - continuò per sé, - vi servite di me per consolare costui; di chi vi servirete per racconsolare me?» Così parlando regalava al pescatore la metà di tutto il denaro portato con sé dall’Arabia, e il pescatore, confuso e sbalordito, baciava i piedi dell’amico di Cador, dicendo: - Lei è un angelo di salvezza -. Nondimeno Zadig seguitava a chiedere notizie e lagrimava. - E che, mio signore, - esclamò il pescatore, - sarà pur lei infelice, lei che così mi benefica? Cento volte più infelice di te - rispose Zadig. - Ma come può succedere, - diceva il meschinello, - che chi dà sia da compiangere più di chi riceve? - Sì, perché il tuo maggior infortunio, - riprese Zadig, - consisteva nella indigenza, ma la mia sfortuna è nel cuore -. Il pescatore disse: - Orcano le ha forse rapito la moglie? - Questa frase riportò alla mente di Zadig tutte le sventure: riandava alle sue disgrazie, cominciando dalla cagnetta della regina e giù giù fino all’arrivo presso il brigante Arbogad. - Ah, - disse egli al pescatore, - Orcano dev’essere punito. Ma di solito gli uomini di quello stampo sono i favoriti del destino. Comunque siano le cose, tu va’ dal signor Cador e aspettami. Si separarono. Il pescatore camminava ringraziando la sorte, e Zadig corse imprecando continuamente al proprio destino.

Il basilisco Giunto in una bella campagna prativa egli vide parecchie donne che con molto impegno cercavano qualche cosa. Si permise di avvicinarsi a una di loro e di chiedere se gli concedevano l’onore di aiutarle nella loro ricerca. - Non lo pensi nemmeno, - gli rispose quella donna siriana. - Ciò che noi cerchiamo non deve essere toccato che dalle donne. Questa sì che è strana! - disse Zadig, - potrei pregarla di svelarmi quale sia la cosa che soltanto le donne possono toccare? - È un basilisco, - rispose la donna. - Un basilisco, signora? E per qual motivo, di grazia, tutte voi cercate un basilisco? - Per Ogul, nostro signore e padrone; guardi là in riva all’acqua, in fondo ai prati, il suo castello. Noi siamo l’umilissime schiave del signor Ogul che è malato. Il medico gli ha ordinato di mangiare un basilisco bollito nell’acqua di rose, e poiché il basilisco è un animale rarissimo e si lascia prendere soltanto dalle donne, il signore Ogul ha promesso di eleggere come donna preferita colei che gli porterà un basilisco. Mi lasci dunque cercare, per favore, vede quanto mi costerebbe se io fossi preceduta dalle mie compagne -. Zadig lasciò che quella siriana e le altre donne si cercassero il basilisco e continuò il suo cammino nella prativa campagna. Come giunse sulla sponda d’un ruscello, vide un’altra signora giacente sull’erba senza cercare alcunché. Sembrava persona piena di dignità, ma il volto era velato. Si piegava verso il ruscello ed emetteva profondi sospiri. Aveva in mano una cannuccia e con quella tracciava delle lettere sulla sabbia fina stesa tra l’erba e l’acqua. Zadig sentì la

curiosità di scoprire ciò che la donna scriveva, le si accostò e vide la lettera Z, poi un A. Se ne stupì, quindi apparve un D. Zadig trasalì. La sua fu una sorpresa inconfrontabile quando egli vide le due ultime lettere del proprio nome. Rimase immobile per qualche istante, quindi rompendo il silenzio, con voce rotta, disse: - O generosa signora, voglia scusare me straniero, me sventurato che oso domandarle per quale caso stupefacente trovo qui, tracciato da lei, dalla sua divina mano, il nome di Zadig -. A quella voce, a quelle parole la signora con mano tremante alzò il velo, guardò fisso Zadig, gettò un grido di tenerezza, di sorpresa, di gioia e vinta da quei diversi sentimenti che tutti insieme le assalivano l’animo si piegò svenuta tra le braccia di lui. Era Astarte, proprio lei, proprio la regina di Babilonia, proprio colei che Zadig adorava rimproverandosi di adorarla, e che da lui era stata tanto pianta, con tanto timore per la sua sorte. Per un momento rimase quasi insensato e quando ebbe fissato lo sguardo negli occhi d’Astarte, in quegli occhi che si riaprivano con una languidezza mista di turbamento e di espressione affettuosa, esclamò: - O immortali potenze che reggete i destini dei poveri mortali, mi ridate Astarte? Oh! In che tempo, in che luoghi, in che stato io la rivedo! - Si prostrò ginocchioni davanti ad Astarte, e con la fronte toccò la polvere presso i suoi piedi. La regina di Babilonia lo risolleva e lo fa sedere sulla sponda del ruscello, accanto a sé. Ella si tergeva più e più volte gli occhi, da cui le lagrime più e più volte ricominciavano a scendere. Riprendeva ad ogni tratto le frasi che i gemiti avevano interrotte; lo interrogava sulla fortunosa circostanza della loro riunione e precedeva le risposte di lui

con nuove domande. Abbozzava il racconto delle proprie sventure e voleva intanto sentire quelle di Zadig. Dopo avere infine calmato tutti e due un poco l’agitazione delle loro anime, Zadig le narrò con brevi parole per quale peripezia egli si trovava sul prato di quella campagna. - Ma come mai, o regina così sventurata e così degna di rispetto, ti ritrovo in questo luogo remoto, vestita da schiava, in compagnia d’altre schiave alla ricerca di un basilisco da far bollire, secondo la ricetta d’un medico, nell’acqua di rose? Mentre le altre cercano il loro basilisco, - disse la bella Astarte, - ti voglio far sapere tutto quanto ho sofferto, e come, dal momento che io ti rivedo, perdono il cielo. Sai che al mio regale marito non piacque che tu fossi il più garbato degli uomini e sai che per tale motivo una notte decise di strangolare te e di avvelenare me. Sai anche come il cielo permise che il piccolo mio muto riuscisse a riferirmi l’ordine della sublime Maestà del Re. Il fedele Cador subito dopo d’averti costretto a ubbidirmi e fuggire, osò a notte fonda entrare nel mio appartamento attraverso una porta segreta. Mi portò via, mi condusse nel tempio di Orosmade. Là il mago, fratello di Cador, mi rinchiuse in una colossale statua che ha la base tra le fondamenta stesse del tempio e la testa a contatto con la volta. Rimasi là dentro come sepolta, ma senza mancare di nessuna cosa necessaria, perché servita dal mago. Intanto, di primissimo mattino, il farmacista di Sua Maestà entrò nella mia camera con una bevanda composta da giusquiamo, oppio, cicuta, elleboro nero ed aconito; e un altro ufficiale del re si recò in casa tua con un nodo scorsoio di seta celeste. Non trovarono alcuno. Cador, per ingannare meglio il re, fece finta di accusare l’imo e

l’altra di noi. Disse che tu eri fuggito sulla strada delle Indie, e io su quella di Menfi: si mandarono uomini armati alla tua e alla mia ricerca. - I messi che cercavano me non mi conoscevano. Non avevo quasi mai lasciato scorgere il mio volto, fuorché a te, in presenza e per ordine del mio sposo. Andavano dunque alla mia ricerca, con il ritratto che di me avevano descritto: alla frontiera con l’Egitto apparve ai loro sguardi una donna di taglia identica alla mia, e forse più bella di me. Era piangente e sperduta. Si sentirono sicuri che fosse la regina di Babilonia, e la condussero a Moabdar. Il loro equivoco provocò a tutta prima nel re una rabbia violenta; ma ben presto, avendo riguardato meglio e più da vicino quella donna la vide bellissima e fu racconsolato. La chiamavano Missuf. Mi si disse in seguito che quel nome, in lingua egiziana, significa «la bella capricciosa». Era davvero così, ma con arti e moine pari ai capricci. Piacque a Moabdar. Lo dominò fino al punto di farsi dichiarare sua moglie. Allora il suo carattere si mostrò interamente, ella si permise senza timore tutte le follie della sua immaginazione. Pretese che il capo dei magi, vecchio e gottoso, danzasse davanti a lei e poiché colui rifiutò lo perseguitò crudelmente. Diede ordine al grande scudiero di prepararle una torta con la marmellata. Inutilmente il grande scudiero le fece osservare ch’egli non era un pasticciere, dovette preparare la torta, e fu cacciato via perché la torta era troppo secca. Al proprio nano ella diede il grado di Grande scudiero e a un paggetto l’uffizio di Cancelliere. In questo modo governò Babilonia. Tutti quanti rimpiangevano me. Il re, che prima di volermi avvelenare e prima di volerti strozzare, era stato un uomo

passabile, adesso pareva che avesse affogato le proprie virtù nell’abissale suo innamoramento per «la bella capricciosa». Nel giorno solenne del fuoco sacro egli andò al tempio. Io lo vidi che implorava gli dei per Missuf, prostrato davanti alla statua nella quale io ero rinchiusa. Alzai la voce, gli gridai: «Gli dei respingono i voti d’un re diventato tiranno, e che volle far morire una moglie sensata per prenderne una dissennata». Moabdar fu talmente turbato da queste parole che la sua mente si confuse. L’oracolo pronunziato da me e la tirannia stessa di Missuf furono sufficienti a fargli smarrire la ragione. Impazzì in pochi giorni. - Quella pazzia, che sembrò un castigo del cielo, fu come il segnale della rivolta. Il popolo si sollevò, corse a impugnare le armi, Babilonia che per così lungo tempo era stata accasciata in una inerte mollezza, diventò teatro di una terribile guerra civile. Mi si venne a togliere dall’interna cavità della statua e mi si mise a capo d’un partito. Cador corse a Menfi per riportare te a Babilonia. Il principe d’Ircania, udite queste sinistre notizie, ritornò con il suo esercito a fondare un terzo partito nella Caldea. Assali il re Moabdar che con la sua bizzarra egiziana gli era venuto incontro precipitosamente, e il re Moabdar morì trafitto. Missuf cadde prigioniera dei vincitori. Per mala sorte fui presa anch’io da un drappello d’ircani e portata davanti al principe proprio mentre gli portavano anche Missuf, Ti farà certamente piacere sentendo che il principe mi giudicò più bella dell’egiziana, ma non sarai contento di sapere ch’egli mi assegnò al suo serraglio. Mi disse con franca risolutezza che appena terminata una impresa di guerra cui si accingeva sarebbe venuto da me. Pensa il mio dolore. Il mio legame

con Moabdar era spezzato, potevo ormai essere di Zadig, ed eccomi caduta in potere di quel barbaro. Gli risposi con tutta la fierezza della mia classe e dei miei sentimenti. Avevo sempre sentito dire che il cielo imprimeva negli individui della mia qualità un carattere di grandezza che mediante una parola o uno sguardo riumilia nel più profondo rispetto i temerari che osino sollevarsi. Io parlai dunque da regina, ma fui trattata da cameriera. L’Ircano senza degnarsi neanche di rivolgermi parola disse al suo eunuco negro che io ero impertinente però carina. Gli ordinò di tenermi da conto e di trattarmi con regime da favorita, per ridarmi freschezza e rendermi più degna dei suoi favori il giorno ch’egli avrebbe l’agio e il comodo di darmene beneficio. Gli dissi che mi sarei uccisa; ed egli ridendo mi rispose che non ci si uccide e che di quelle frasi era pratico. Mi lasciò come uno che ha or ora messo in gabbia un suo pappagallo. Che condizione per la prima regina dell’universo e, ancor più, per un cuore che era tutto di Zadig! - A queste parole Zadig si prostrò ai suoi ginocchi, bagnandoli di lagrime. Astarte affettuosamente lo fece rialzare e continuò il racconto: - Mi trovavo in potere d’un barbaro ed avevo per rivale una matta prigioniera con me. Costei mi narrò la sua avventura egiziana. Dai tratti con cui ti descrisse, dal tempo, dal dromedario su cui tu cavalcavi, da tutte le circostanze riferitemi capii che chi aveva combattuto per lei era Zadig. Senza dubbio tu dovevi essere a Menfi e perciò decisi di andare a Menfi. Le dissi: «Bella Missuf, tu sei molto più attraente di me, potrai assai meglio di me divertire il principe d’Ircania. Aiutami nel modo di salvarmi; e regnerai tu sola, mi farai felice e insieme ti libererai d’una rivale». Missuf combinò con me la maniera

della mia fuga. Ed io segretamente partii in compagnia d’una schiava egiziana. Ero ormai non lontana dall’Arabia, quando un ladrone famoso, chiamato Arbogad, mi rapì e mi vendette a certi mercanti che alla loro volta mi portarono a questo castello ove sta il signor Ogul. Mi comperò senza sapere chi io fossi. È un tipo sensuale, che non pensa ad altro che al mangiare, persuaso che Dio l’abbia messo al mondo per stare a tavola. È florido e grasso in modo eccessivo, col rischio di rimanere senza fiato. Il suo dottore, cui egli quando digerisce bene non ubbidisce mai, lo comanda dispoticamente quando egli ha mangiato troppo. Ora l’ha convinto che lo guarirà con un basilisco bollito nell’acqua di rose. E il signor Ogul ha promesso di sposare la schiava che gli porterà un basilisco. Vedi come io lascio che si affannino a meritare un tale onore; da quando il cielo ha permesso che io ti riveda non ho mai avuto così poca voglia, credimi, di trovare quel basilisco -. Allora Astarte e Zadig si dissero tutto ciò che i sentimenti a lungo trattenuti e le loro disgrazie e i loro amori sapevano ispirare a cuori così nobili e così appassionati; e i geni che presiedono all’amore alzarono quelle parole fino al cielo di Venere. Le donne tornarono al castello di Ogul senza aver trovato alcunché. Zadig si fece presentare a lui e gli parlò nel modo seguente: - Faccio voti affinché la salute immortale discenda dal cielo e prenda cura di tutti i tuoi giorni. Io sono dottore e sono volato verso di te appena sentii parlare della tua malattia; ti ho portato un basilisco bollito nell’acqua di rose. Non per pretendere di sposarti. Ti chiedo solamente la libertà d’una giovane schiava di Babilonia che da qualche giorno è tua", e io sono disposto a rimanere in ischiavitù al

posto di lei se non avrò la fortuna di guarire il magnifico signore Ogul. La proposta fu accolta. Astarte parti per Babilonia con il domestico di Zadig, promettendogli d’inviargli continuamente un corriere per informarlo di tutti gli avvenimenti. I loro saluti d’addio furono tanto affettuosi quanto quelli del loro riconoscimento. Il momento in cui due si ritrovano e il momento in cui si separano sono i massimi tempi della vita; così è detto nel gran libro dello Zend. Zadig amava la regina tanto quanto lo asseriva, e la regina amava lui ancor più di quanto diceva. Frattanto Zadig così disse a Ogul: - Signore, il mio basilisco non dev’essere mangiato, tutta la sua efficiente virtù deve penetrare dentro di te attraverso i pori della pelle. L’ho messo in un piccolo otre molto gonfiato e coperto di pelle fina; è necessario che tu spinga l’otre con tutta la tua forza e che io te lo rimandi più e più volte; e in pochi giorni di cura vedrai la validità delle mie arti. Ogul il primo giorno della cura, sfiatato, credeva di morire di fatica. Il secondo giorno si senti meno stanco e dormi meglio. In otto giorni riprese le forze, la salute, la leggerezza e la gaiezza degli anni più briosi. Zadig gli disse: Hai giocato al pallone e sei stato sobrio; sappi che in natura non esiste basilisco e si sta sempre bene con la sobrietà e il moto e che l’arte di far coesistere intemperanze e salute è una chimera come la pietra filosofale, l’astrologia e la teologia dei magi -. Il medico primario di Ogul, intuendo quanto quell’uomo fosse pericoloso per l’arte medica, si intese con il farmacista di casa per spedire Zadig alla ricerca di basilischi nell’altro mondo. Cosi, Zadig, per essere sempre

stato punito del bene che aveva compiuto, era sul punto di morire per aver guarito un signore ghiottone. Fu invitato a un pranzo squisito. Doveva essere avvelenato alla seconda portata, ma alla prima ricevette un messaggero della bella Astarte. Si alzò da tavola e parti. «In questo mondo, quando si è amati da una bella donna, - dice il grande Zoroastro, sempre ci si cava d’impiccio».

I certami La regina era stata ricevuta a Babilonia con quell’entusiasmo che sempre si manifesta per una bella principessa che abbia provato la sventura. Babilonia sembrava allora più quieta. Il principe d’Ircania era stato ucciso in un combattimento. I babilonesi, vincitori, stabilirono che Astarte avrebbe sposato l’uomo scelto come sovrano. Non si voleva che la prima dignità del mondo, cioè quella di marito di Astarte e di re di Babilonia, dipendesse da intrighi e cospirazioni. Giurarono di riconoscere come re il più valoroso e più sapiente. A qualche lega fuori di città si costruì una lizza circondata da anfiteatri mirabilmente adorni. I gareggianti dovevano andarvi armati da capo a piedi. Per ognuno di loro affinché non fossero visti né conosciuti, era stato preparato un alloggio particolare dietro gli anfiteatri. Bisognava gareggiare quattro volte. Quelli così fortunati da vincere quattro cavalieri dovevano poi gareggiare tra loro, di modo che l’ultimo vincitore della lizza sarebbe proclamato vincitore del torneo. Doveva poi ritornare quattro giorni dopo, con la stessa armatura di prima, e sciogliere gli enigmi proposti dai magi. Se non riesciva a spiegare gli enigmi non sarebbe re e bisognerebbe di nuovo far svolgere le sfide, finché si trovasse un vincitore di tutte e due le gare, perché ad ogni costo si voleva re chi fosse il più valoroso e il più sapiente. Durante tutto quel tempo la regina doveva essere rigorosamente sorvegliata: le si permetteva appena di assistere, velata, alle gare; ma non la si lasciava parlare a

nessuno dei pretendenti, affinché non ne derivassero favoritismi o ingiustizie. Di tutto ciò Astarte aveva informato il suo innamorato, sperando che per lei egli dimostrasse valore e intelligenza superiore a tutti. Egli partì pregando Venere di rafforzargli il coraggio e illuminargli la mente. La vigilia del gran giorno giunse in riva all’Eufrate. Fece annoverare la propria insegna tra quelle dei gareggianti, tenendo celato il volto e il nome, come la legge stabiliva e andò a riposarsi nell’alloggio tirato a sorte per lui. L’amico Cador che era giunto a Babilonia dopo averlo inutilmente cercato in Egitto fece portare nel suo domicilio un’armatura completa inviatagli dalla regina. Gli fece anche consegnare, da parte sua, il più bel cavallo di tutta la Persia. Zadig in quei doni riconobbe Astarte; il suo coraggio e il suo amore ne ricavarono forze nuove e nuove speranze. L’indomani, quando la regina aveva preso posto sotto un baldacchino gemmato e gli anfiteatri erano pieni di tutte le dame e di tutti i gradi sociali di Babilonia, i gareggianti comparvero dentro la cinta. Ognuno di loro portò la propria insegna davanti al gran mago. Si tirarono a sorte e la divisa di Zadig fu estratta per ultima. Il primo che si fece avanti era un ricchissimo signore, chiamato Itobad, un vanesio, poco provvisto di coraggio, un uomo dappoco e senza spirito. I suoi famigliari l’avevano convinto che un uomo come lui era fatto per essere re. Egli aveva risposto: - Un uomo come me deve regnare -. E così l’avevano armato dalla testa ai piedi. Portava un’armatura d’oro smaltata di verde, un pennacchio verde, una lancia adorna di nastri verdi. Dal modo come Itobad si teneva a cavallo la gente capì subito che il cielo

non destinava lo scettro di Babilonia a un tipo simile. Il primo cavaliere che gli corse incontro lo tolse dagli arcioni, il secondo lo rovesciò addirittura sul cavallo, a gambe in aria e a braccia aperte. Itobad riuscì a riassestarsi ma così goffamente che nell’anfiteatro fu una risata generale. Un terzo cavaliere non volle nemmeno servirsi della lancia, ma con una svelta passata in avanti l’afferrò per la gamba destra e sforzandolo a un mezzo giro del corpo lo fece cadere sull’arena. Gli scudieri del torneo accorsero ridendo e lo ricollocarono sulla sella. Ma il quarto gareggiante lo prende per la gamba sinistra e lo fa ricascare dall’altra parte. Tra urli e fischi fu portato al domicilio dove, secondo la legge, doveva pernottare. Camminava a stento e disse: - Che razza d’avventura per uno come me! - Gli altri cavalieri in ciò che dovevano fare se la cavarono meglio. Vi fu chi vinse due avversari di seguito; alcuni riuscirono fino al terzo. Soltanto il principe Otame ne vinse quattro. Venne infine la volta di Zadig: tolse di sella, nella più elegante maniera, quattro cavalieri, l’uno dopo l’altro. Si dovette perciò vedere chi sarebbe stato il vincitore tra Otame e Zadig. Il primo aveva un’armatura e pennacchio di azzurro e d’oro; Zadig bianco. Le simpatie della folla si dividevano tra il cavaliere azzurro e il cavaliere bianco. La regina con il cuore palpitante pregava il cielo per il bianco. I due campioni fecero passate e giravolte con tale agilità, scambiandosi così bei colpi di lancia, e con tale saldezza rimanendo in arcioni, che tutti quanti tranne la regina si auguravano di avere in Babilonia due re. Infine, stancati i cavalli e rotte le lance, Zadig ricorse a una destrezza: aggira il principe azzurro, si spinge verso la groppa del cavallo e

cinge la vita all’avversario, lo getta giù, si mette in sella al posto di lui ormai steso a terra e gli caracolla intorno. L’intero anfiteatro grida: - Vittoria al bianco cavaliere! Otame, sdegnato, si rialza, sguaina la spada; Zadig salta da cavallo con la sciabola impugnata. Eccoli tutti e due sull’arena, impegnati in un nuovo certame, nel quale trionfano ora la forza ora l’agilità. Le piume dei cimieri, le borchie dei bracciali, le maglie dell’armatura schizzano via sotto i mille colpi precipitosi. Essi tirano di punta e di taglio, a destra e a sinistra, sulla testa e contro il petto; arretrano, si spingono avanti, si affrontano, si avvicinano, si afferrano, si torcono come serpenti, si assalgono come leoni; ogni momento ai loro colpi sprizzano scintille infocate. Infine Zadig, in un istante di riflessione, si ferma, fa una finta, fiancheggia Otame, lo fa cadere e lo disarma. Otame esclama: - O bianco cavaliere, sei tu che devi regnare a Babilonia! - La regina era al massimo della gioia. Accompagnarono il cavaliere azzurro e il cavaliere bianco, ciascuno nel suo domicilio, e così tutti gli altri, secondo quanto era stabilito dalla legge. Andarono a servirli e a portare loro il pranzo alcuni muti. Pensate se colui che andò a servire Zadig non fu il mutino della regina! Quindi furono tutti lasciati soli fino all’indomani mattina quando il vincitore avrebbe dovuto portare la propria insegna al grande Mago per il confronto e il riconoscimento. Zadig, quantunque pieno d’amore, dormi, talmente s’era affaticato. Itobad, che era nell’alloggio contiguo, non dormi. Durante la notte si alzò, entrò nel domicilio di Zadig, prese la bianca armatura e la bianca insegna e al posto di quelle mise l’armatura e l’insegna verdi. Sorto il mattino se ne andò

fieramente dal grande Mago a dichiararsi come l’uomo vittorioso. Non se l’aspettavano, ma fu proclamato mentre Zadig era ancora a dormire. Astarte, sorpresa e con il cuore disperato, ritornò a Babilonia. L’anfiteatro era già semivuoto quando Zadig si risvegliò; cercò le proprie armi e trovò soltanto l’armatura verde. Fu costretto a indossarla, non avendo altro. Stupito e sdegnato, se le mette con rabbia e se ne va così conciato. Tutti quelli che erano ancora rimasti nell’anfiteatro e nel campo lo ricevettero a fischi. Lo circondavano, l’insultavano sfacciatamente. Non so chi mai abbia raccolto così umilianti mortificazioni. Gli scappò la pazienza; respinse a sciabolate la gentaglia che osava insultarlo; ma non sapeva che cosa fare. Non poteva rivedere la regina, non poteva reclamare la bianca armatura inviata da lei; avrebbe rischiato di comprometterla. Perciò, mentre ella era prostrata nel dolore, egli era afflitto nella rabbia e nell’inquietudine. Camminava lungo l’Eufrate, convinto che la propria stella lo destinava a un’infelicità senza scampo; riandava mentalmente tutte le sue disgrazie, dall’accidente della moglie che aveva in antipatia i ciechi da un occhio fino a quella dell’armatura. «Ecco che cosa succede, - si diceva, - a svegliarsi troppo tardi; se avessi dormito di meno, sarei re di Babilonia, e avrei Astarte. Scienza, educazione, coraggio non hanno servito ad altro che alla mia sventura». Fu tentato di mormorare contro la Provvidenza, e di credere che tutto fosse retto da un crudele destino che opprime i buoni e dà prosperità ai cavalieri verdi. Uno schianto per lui era di portare addosso quell’armatura verde che gli aveva attirato tanti e tanti fischi. Passava un mercante ed egli gli vendette a basso

prezzo quell’armatura, acquistando da lui un abito e un lungo berretto. Cosi vestito andava in riva all’Eufrate, pieno di disperazione, accusando dentro di sé la Provvidenza che lo perseguitava di continuo.

L’eremita Nel suo cammino si imbattè in un uomo con bianca e venerabile barba lunga fino a metà vita. Con la mano sorreggeva un libro, e leggeva attentamente. Zadig si fermò e gli fece una profonda riverenza. L’eremita salutò con espressione così nobile e così dolce che Zadig senti il desiderio di trattenerlo. Gli domandò che libro leggeva. - Il libro dei destini, - rispose l’eremita. - Vuoi leggerne un tratto? - Diede il libro in mano a Zadig che, quantunque conoscesse parecchie lingue, non riuscì a capire nemmeno una lettera. La sua curiosità ne fu raddoppiata. - Mi sembri proprio di cattivo umore, - gli disse quel buon padre. Ahimè, - rispose Zadig, - ne ho ben donde. - Se mi permetti di accompagnarti, - rispose il vecchio, - potrò forse esserti utile; qualche volta riuscii a trasfondere dei sentimenti consolanti nell’animo degli infelici -. Zadig senti deferenza per l’aria e per la barba e per il libro dell’eremita. Notò nel suo discorrere qualche più alta illuminazione. L’eremita parlava del destino, della giustizia, della morale, del bene supremo, della debolezza umana, delle virtù e dei vizi con un’eloquenza così vivace e affascinante che Zadig si sentì spinto verso di lui da un’attrattiva invincibile. Lo pregò sollecitamente di non lasciarlo fino a Babilonia. - Sono io stesso che ti chiedo questo favore, - disse il vegliardo, - giura su Orosmade che qualunque cosa io faccia tu per qualche giorno non ti separerai da me Zadig giurò e partirono insieme. Quella sera i due viaggiatori arrivarono a un superbo castello. L’eremita chiese ospitalità per sé e per il

giovane suo accompagnatore. Il portiere, che aveva l’apparenza d’un gran signore, li fece entrare con una cortesia non priva di sprezzatura. Li presentò a un maggiordomo che li portò a visitare i magnifici appartamenti del padrone. Furono ammessi al fondo della tavola padronale, senza che il castellano li degnasse di un solo sguardo; ma furono serviti come gli altri, con vivande raffinate e abbondanti. Quindi gli fecero lavare le mani in un bacile d’oro tempestato di smeraldi e rubini. Furono accompagnati in una bella camera da letto e l’indomani un domestico diede all’uno e all’altro una moneta d’oro, prima di congedarli. - Il padrone di casa, - disse Zadig per la strada, - mi sembra un uomo generoso, quantunque un po’ altero, e pratica nobilmente l’ospitalità -. Mentre parlava notò che una specie di molto ampia saccoccia dell’eremita appariva gonfia e tesa: vi scorse il bacile d’oro tempestato di gemme, rubato. Sul momento non osò far mostra di nulla, ma era stupito e sorpreso. Verso mezzogiorno l’eremita si fermò alla porta d’una piccola casa dove abitava un ricco avaro: chiese ospitalità per qualche ora. Un vecchio servitore male in arnese lo ricevette con brusche maniere e fece entrar l’eremita e Zadig nella scuderia. Diede loro poche olive già putride, del pane cattivo e della birra andata a male. L’eremita bevette e mangiò con aria soddisfatta, come la sera prima; poi rivolto al vecchio servitore, che stava sorvegliandoli affinché non rubassero e se ne andassero al più presto, gli regalò le due monete d’oro avute al mattino e lo ringraziò di tutte le premure: - Per favore, - soggiunse, - fammi parlare al tuo padrone -. Il servitore, stupito, introdusse i due viaggiatori. - Magnifico

signore, - disse l’eremita, - non sono in grado di fare niente fuorché di ringraziarla umilmente per la nobile guisa con la quale ella ci ha accolti: si degni di accettare questo bacile d’oro come poco pregevole pegno della mia riconoscenza -. Poco mancò che l’avaro cadesse supino. L’eremita non gli lasciò il tempo di riaversi dallo stupore; partì alla svelta con il giovane compagno di viaggio. Zadig disse: - Padre mio, cosa vedo mai? Tu non mi sembri molto diverso dagli altri uomini: a un signore che ti ha accolto con magnificenza tu rubi un bacile d’oro tempestato di gemme e lo dài a un avaro che ti tratta iniquamente. - Figlio mio, - disse il vegliardo, quell’uomo che con la sua magnificenza ospita i forestieri soltanto per vanità e affinché ammirino le sue ricchezze, diventerà più saggio; l’avaro imparerà a essere ospitale; non ti stupire di nulla e vieni con me -. Zadig non capiva bene se si trovava con il più saggio o con il più matto degli uomini; ma l’eremita discorreva con tale autorevolezza che Zadig, d’altro canto stretto dal giuramento, non potè sottrarsi alla sua compagnia. Alla sera giunsero davanti a una casa di gradevole costruzione, ma semplice, che non faceva pensare né a prodigalità né ad avarizia. Ne era padrone un filosofo che s’era appartato dalla società, dedicandosi in pace alla saggezza e alla virtù, senza tuttavia annoiarsi mai. Gli era piaciuto costruirsi quel ritiro in cui poteva ricevere i forestieri con nobiltà priva di ostentazione. Andò egli stesso incontro ai due viaggiatori e per prima cosa li fece riposare in un agiato appartamento. Trascorso alquanto d’ora, tornò egli stesso a prenderli per invitarli a una refezione giusta e ben preparata; durante la quale parlò giudiziosamente sulle

recenti rivoluzioni di Babilonia. Lasciò trasparire una sincera affezione per la regina e si augurò che Zadig comparisse nella lizza per gareggiare alla conquista della corona. - Ma gli uomini, - precisò, - non meritano un re come Zadig -. Costui arrossi e senti più cocenti i suoi dolori. Nella conversazione si fu d’accordo sul fatto che in questo mondo le cose non andavano secondo il beneplacito degli uomini più saggi. L’eremita tuttavia opinò che le vie della Provvidenza erano sconosciute e che gli uomini sbagliavano nel voler giudicare nel totale ciò di cui conoscevano soltanto una minima parte. Si venne a parlare delle passioni. - Ah! Quanto sono fatali, - diceva Zadig. E l’eremita: - Sono i venti che gonfiano le vele del vascello, qualche volta lo portano a fondo ma senza di loro il vascello non navigherebbe. La bile può dare collera e infermità, ma senza la bile l’uomo non vivrebbe. Quaggiù tutto è rischio, ma tutto è necessità -. Si passò a discorrere del piacere e l’eremita comprovò che è un dono della Divinità. - L’uomo infatti, - egli disse, - non può regalarsi né sensazioni né idee, riceve ogni cosa; sofferenza e piacere gli provengono dal di fuori, come lo stesso essere suo. Zadig si meravigliava che chi aveva compiuto azioni tanto stravaganti potesse parlare così giudiziosamente. Infine, dopo quella conversazione istruttiva e piacevole l’ospite riaccompagnò i due viaggiatori nella loro stanza, benedicendo il cielo che gli aveva mandato due uomini così dotati di saggezza e di virtù. Offrì loro del denaro, con un garbo nobile e spigliato che non poteva offendere. L’eremita non volle accettare e gli disse che desiderava congedarsi perché intendeva partire per Babilonia prima del mattino.

Fu una separazione cordialissima. Zadig soprattutto si sentiva pieno di stima e di simpatia per un uomo così garbato. Quando l’eremita e Zadig furono nel loro appartamento elogiarono a lungo il padrone di casa. Il vecchio, appena fu giorno, risvegliò il suo socio. - Dobbiamo partire, - disse, - ma mentre tutti riposano ancora, desidero lasciare al padrone di casa una testimonianza della mia stima e della mia affezione così dicendo, prese una fiaccola e diede fuoco alla casa. Zadig, atterrito, gridò e volle impedirgli di commettere una così orribile cosa. L’eremita lo trascinò via con vigore invincibile; la casa era tutta in fiamme. L’eremita, già allontanatosi abbastanza con il suo socio, tranquillamente la rimirava bruciare. - Ringrazio Dio, disse. - Ecco la casa del mio ospitale amico è distrutta fino alle fondamenta. Uomo fortunato! - Nell’udir questa frase Zadig ebbe tutto insieme la voglia di una grande risata e quella d’inveire contro il reverendo padre, la voglia di picchiarlo e quella di fuggire, ma non fece niente di niente, e tuttora soggiogato dall’autorevolezza dell’eremita, andò suo malgrado con lui fino al seguente e ultimo pernottamento. Ciò avvenne nella casa d’una caritatevole e buona vedova che aveva un nipote quattordicenne, assai bello, e sua unica speranza. Ella fece gli onori di casa quanto meglio poteva. All’indomani impose al nipote di accompagnare i viaggiatori fino a un ponte, che da poco tempo guastato non era senza pericolo. Il ragazzo, sollecito, va avanti per primo. Ed ecco, proprio sul ponte l’eremita dice al ragazzo: - Vien qua, devo manifestare la mia riconoscenza a tua zia -. Lo afferra per i capelli e lo getta nella corrente. Quel figliolo cade, compare

un momento a galla, quindi sprofonda nel torrente. Zadig proruppe: - O mostro! O uomo più scellerato di tutti! M’avevi promesso un poco più di pazienza, - disse l’eremita interrompendo l’invettiva. - Sappi che sotto le macerie di quella casa incendiata dalla Provvidenza, il padrone ha trovato un immenso tesoro; sappi che questo giovanotto cui la Provvidenza ha torto il collo, tra un anno avrebbe assassinato sua zia, e tra due anni anche te -. Zadig gridò: - Chi te l’ha detto, barbaro? E anche se tu nel tuo libro dei destini avessi letto questo evento saresti autorizzato ad annegare un ragazzo che non ti ha fatto alcun male? Mentre quel di Babilonia parlava si accorse che il vegliardo non aveva più barba e che nel suo viso appariva la fisionomia della giovinezza. Sparì la veste da eremita, quattro ali davano bellezza al suo corpo maestoso e splendido di luce. - O inviato del cielo! O angelo divino! esclamò Zadig prosternandosi, - sei dunque disceso dall’empireo per insegnare a un debole mortale la sottomissione agli ordini eterni? L’angelo Jesrad disse: - Gli uomini non sanno niente e vogliono giudicare tutto: tu, tra tutti, eri quello più meritevole d’essere edotto -. Zadig gli chiese il permesso di parlare e disse: - Sono in dubbio io stesso, ma posso osare di chiederti un chiarimento sulla mia incertezza? Non sarebbe stato meglio l’aver corretto quel ragazzo e l’averlo educato alla virtù, piuttosto che annegarlo? - Jesrad spiegò: - Se egli fosse diventato virtuoso, se fosse vissuto, avrebbe subito il destino d’essere assassinato lui stesso con la donna assegnatagli per isposa e con il figlio che gli sarebbe nato -. Zadig disse: - Ma come! Bisogna dunque che vi siano delitti e sciagure e che le sciagure

colpiscano gli uomini dabbene? - Jesrad rispose: - I cattivi sono sempre sciagurati: servono a mettere alla prova una minoranza di uomini giusti sparsi sulla terra, e non vi è mai un male da cui non nasca un bene E Zadig: - Ma se esistesse soltanto il bene e non il male? - Allora, riprese Jesrad, - questa non sarebbe la terra, la concatenazione degli avvenimenti sarebbe l’ordine d’una differente saggezza, e un tale ordine, che sarebbe perfetto, può esistere soltanto nell'eterna dimora dell’Essere supremo, cui nessun male può accostarsi. Egli ha creato milioni di mondi e non ve n’è neppure uno che rassomigli a un altro. L’immensa varietà è un attributo della sua immensa potenza. Non si trovano sulla terra due foglie d’albero identiche tra loro né tra i campi infiniti del cielo due globi uguali. Tutto quanto tu vedi sul piccolo atomo dove sei nato deve essere qual è al luogo e al tempo suo, secondo gl’immutabili ordini di Colui che tutto contiene. Gli uomini pensano che quel ragazzo perito or ora sia caduto casualmente nell’acqua, e che quella casa sia pur bruciata per caso, ma il caso non esiste: tutto è prova, ovvero punizione, o ricompensa, o previdenza. Rammentati del pescatore persuaso d’essere il più sfortunato degli uomini. Orosmade t’inviò a lui per mutare il suo destino. O debole mortale, non discutere contro ciò che devi adorare -. E Zadig: - Ma... - E su questo «ma» l’angelo stava già involandosi verso la decima sfera. Zadig, inginocchiato, adorò la Provvidenza, a Lei sottomettendosi. Dalle sue altezze l’angelo gridò: - Fa’ tuo cammino verso Babilonia. (torch)

Gli enigmi Zadig, stupefatto come chi abbia veduto il fulmine cadergli a lato, camminava alla ventura. Entrò in Babilonia proprio il giorno in cui coloro che avevano gareggiato erano già radunati nel grande atrio del palazzo per sciogliere gli enigmi e per rispondere ai quesiti del grande mago. Erano arrivati tutti i cavalieri fuorché quello con la divisa verde. Appena Zadig comparve nella città, il popolo si strinse attorno a lui, gli occhi non si saziavano di vederlo, le bocche di lodarlo, i cuori di augurargli l’impero. L’invidioso lo vide passare, tremò, e guardò altrove. Il popolo lo accompagnò fino al luogo dell’assemblea. La regina, informata del suo arrivo, fu invasa da agitazione, timore e speranza; tormentata dall’inquietudine non poteva capacitarsi sul fatto di vedere Zadig disarmato e Itobad con la divisa bianca. Sorse un mormorio confuso alla vista di Zadig. Erano tutti sorpresi e contenti di rivederlo, ma soltanto ai cavalieri combattenti era permesso di comparire nell’assemblea. - Ho combattuto, - egli disse, - come tutti, ma qui un altro porta le armi mie, e mentre attendo di aver l’onore di dimostrarlo, chiedo il permesso di presentarmi a sciogliere gli enigmi La cosa fu messa ai voti, la fama della probità di Zadig era ancora talmente impressa negli animi che non vi fu indugio nel concedere. Il grande Mago espose questo primo quesito: - Di tutte le cose del mondo qual è la più lunga e la più corta, la più pronta e la più lenta, la più frazionabile e la più estesa, la più trascurata e la più rimpianta, senza la quale

niente si può, ed essa divora ogni piccolezza e ravviva ogni grandezza? - La risposta toccava a Itobad. Disse che un uomo come lui non si perdeva in enigmi, gli bastava aver vinto con i colpacci della sua lancia. Ci fu chi disse che la parola richiesta era la fortuna, altri dissero la terra, altri la luce. Zadig disse «il tempo». Non v’è nulla di più lungo perché esso è la misura dell’eterno, nulla di più corto perché insufficiente a ogni nostro proposito; lento al massimo per chi aspetta, rapido più di ogni cosa per chi è nella gioia; infinitamente esteso nella grandezza, infinitamente frazionabile nella piccolezza; tutti lo trascurano e tutti si rammaricano di perderlo; nulla avviene senza di lui, ed esso fa dimenticare le cose indegne della posterità, immortalizza quelle grandi. L’assemblea fu d’accordo con Zadig. Poi si domandò: - Che cos’è ciò che si riceve senza ringraziare, si gode non sapendo come, si dà agli altri quando si è senza cognizione, e da noi si perde senza che ce ne accorgiamo? Ognuno disse la sua. Solamente Zadig indovinò ch’era la vita. Sciolse tutti gli altri enigmi con la stessa facilità. Itobad ogni volta diceva che niente era più semplice e che egli se avesse voluto prenderne la briga avrebbe facilissimamente risolto. Furono proposti quesiti sulla giustizia, sul sommo bene, sull’arte di regnare. Le risposte di Zadig furono giudicate le più convincenti. - Peccato, - dicevano, - che un’intelligenza così acuta sia in un così inetto cavaliere. - Illustri signori, - disse Zadig, fui io ch’ebbi l’onore della vittoria nella lizza. L’armatura bianca è di mia proprietà. Il signor Itobad se la prese mentre io dormivo; probabilmente gli parve che gli sarebbe stata più

adatta della verde. Sono senz’altro disposto di provargli qui davanti a voi, con l’abito e la spada che ho contro tutto quanto il bianco armamento che mi ha carpito, che fui io ad avere l’onore di vincere il valoroso Otame. Itobad molto fiducioso accettò la sfida. Non aveva dubbi sul fatto ch’egli avendo elmo corazza e bracciali se la sarebbe assai facilmente cavata contro un campione in berretto da notte e veste da camera. Zadig sguainò la spada, con un saluto alla regina che lo guardava, ansiosa tra la gioia e il timore. Itobad sfoderò la sua spada, senza salutar alcuno. Andò su Zadig come chi non ha niente da temere; disposto a spaccargli la testa. Zadig seppe parare il colpo, opponendo la parte più salda della lama a quella più debole dell’avversario, di modo che la spada di Itobad si spezzò. Zadig allora afferrando il nemico alla vita lo fece stramazzare e puntando la spada verso una fessura della corazza gli disse: - O ti lasci disarmare o ti uccido -. Itobad sebbene stupito delle disgrazie che succedevano a un uomo del suo valore lasciò che Zadig gli togliesse il magnifico suo elmo, la superba corazza, i bei bracciali, cosciali scintillanti. Zadig se ne adornò e così armato corse a inginocchiarsi davanti ad Astarte. Cador non ebbe difficoltà a dimostrare che l’armatura apparteneva a Zadig, che perciò con unanime assentimento fu riconosciuto come re, soprattutto da Astarte. Costei, dopo tante contrarietà, assaporava la dolcezza di vedere il suo innamorato degno d’essere suo sposo alla presenza di tutti. Itobad andò a farsi dare del monsignore a casa propria. Zadig fu re e fu felice. Aveva bene in mente tutto quanto gli era stato detto dall’angelo Jesrad. Si ricordava anche del granello di sabbia diventato

diamante. La regina adorò con lui la Provvidenza. Zadig lasciò che la bella e capricciosa Missuf se ne andasse per il mondo. Mandò a cercare il brigante Arbogad e gli assegnò un grado di onore nell’esercito, con promessa di promozione alle dignità più alte se si fosse comportato veramente da guerriero, e d’impiccagione se si fosse dato al brigantaggio. Dall’interno dell’Arabia fu chiamato Setoc con la sua bella Almona, per dirigere come capo il commercio di Babilonia. Cador ebbe grado e predilezione conformi ai suoi meriti: fu l’amico del re e così il re fu l’unico monarca della terra che avesse un amico. Non fu dimenticato il piccolo mutino. Al pescatore fu regalata una bella casa. Orcano fu condannato a pagargli una grossa cifra e a restituirgli la moglie. Ma il pescatore, rinsavito, accettò soltanto il denaro. La bella Semira non si dava pace di aver creduto che Zadig fosse privo di un occhio e Azora non finiva di pentirsi d’aver voluto mozzargli il naso. Zadig mitigò i loro rammarichi con dei regali. L’invidioso crepò di rabbia e di vergogna. L’impero godette pace, gloria e benessere; fu allora sulla terra il secolo migliore, perché essa era amministrata dalla giustizia e dall’amore. Tutti benedicevano Zadig, e Zadig benediceva il cielo.

La danza Setoc, per necessità dei suoi commerci, doveva andare nell’isola di Serendib; ma il primo mese di matrimonio che, come tutti sanno, è luna di miele, non gli permetteva di lasciare la sposa né di credere che avrebbe potuto lasciarla giammai. Pregò l’amico Zadig di fare quel viaggio in sua vece. - Ahimè, - diceva Zadig, - mi tocca ancora mettere più ampio spazio tra la bella Astarte e me? Eppure devo rendere servizio a chi mi ha beneficato -. Disse, pianse, partì. Non era da molto tempo nell’isola di Serendib e già era ritenuto uomo straordinario. Diventò arbitro di ogni contrasto tra i commercianti, l’amico dei benpensanti, il consigliere di quei pochi che cercano consiglio. Il re volle vederlo e ascoltarlo. Fece in fretta ad apprezzare il valore di Zadig, ebbe fiducia nella sua saggezza e diventò suo amico. La familiarità e la stima del re fecero tremare di timore Zadig. Ripensava notte e giorno alle disavventure procurategli dalla benevolenza di Moabdar. «Sono simpatico al re, - diceva, - non ne avrò danno?» Tuttavia non poteva sottrarsi alle gentilezze della Reale Maestà: perché è giusto ammettere che Nabussan, re di Serendib, figlio di Nussanab, figlio di Sanbusna, era uno dei migliori principi d’Asia e che quando si conversava con lui era difficile non giudicarlo amabile. Questo buon principe era ognora lodato, ingannato e derubato: si gareggiava a far bottino delle sue ricchezze. L’esattore generale dell’isola di Serendib dava sempre l’esempio, fedelmente seguito dagli altri. Il re lo sapeva:

aveva sostituito più volte il tesoriere, ma non era riuscito a cambiare la moda ormai stabile di spartire le rendite reali in due metà diseguali; la più piccina era sempre per la Maestà del Re, la più grossa per i suoi amministratori. Il re Nabussan confidò la sua preoccupazione al saggio Zadig. Gli disse: - Tu che sei informato su tante belle cose, non sapresti il modo di farmi trovare un tesoriere che non mi derubi? - Zadig rispose: - Senza dubbio, so una infallibile maniera di darle un uomo con le mani nette -. Il re, rallietato, lo abbracciò domandandogli come doveva comportarsi. Zadig disse: - Basta far danzare tutti quelli che si presenteranno per concorrere all’ufficio di tesoriere: colui che danzerà con la migliore levità sarà senza fallo il tipo più onesto. - Vuoi scherzare, - disse il re, - questo sì è un modo allegro di scegliere un direttore delle finanze. Vuoi dunque darmi da bere che il finanziere più integro e più abile ha da essere chi meglio riesca negli scambietti? - Zadig replicò: - Non le posso assicurare che sia il più abile, ma che sarà il più onesto di tutti, questo sì, senza dubbio -. Zadig si esprimeva con tale convinzione che il re credette che mediante qualche sovrannaturale segreto conoscesse i finanzieri. - Non ho simpatia per le cose soprannaturali, - disse Zadig, - persone e libri prodigiosi mi sono sempre dispiaciuti, ma se Sua Maestà mi concede di compiere l’esperimento che le ho proposto, si convincerà che il mio segreto è la cosa più semplice e agevole -. Nabussan, re di Serendib, sentendo dire che quel segreto era semplicissimo fu stupito ancor di più che se gli avessero detto ch’era cosa miracolosa. — Ebbene, - disse, — fai pure come ti pare. - Si, - disse Zadig, - mi lasci fare, con

questo esperimento guadagnerà piu di quanto si aspetta —. Quel giorno stesso con manifesti in nome del re ordinò che tutti i pretendenti all’ufficio di Alto Ricevitore delle finanze della Graziosa Maestà Nabussan, figlio di Nussanab, dovevano, nel primo di della luna del coccodrillo, recarsi nell’anticamera reale, vestiti di seta leggera. Vi si recarono in sessantaquattro. Era stata preparata una musica di violini nella sala vicina e tutto il necessario per un ballo, ma la porta di quella sala era chiusa e per entrarvi si doveva passare attraverso uno stretto o molto scuro corridoio. Un usciere incominciò a chiamare e a introdurre uno per volta i candidati nel suddetto passaggio dentro cui essi erano lasciati soli per qualche minuto. Il re, informato del segreto, aveva esposto nel corridoio tutti i propri tesori. Quando i pretendenti furono tutti entrati nella sala, la Maestà del Re diede ordine che ballassero. Non s’era mai veduta una danza così pesante e cosi sgraziata; tutte le teste abbassate, le schiene curve, le mani come incollate ai fianchi. - Che bricconi! - diceva il re sottovoce. Tra tutti soltanto uno disegnava agilmente i suoi passi, teneva eretta la testa, sicuro lo sguardo, le braccia aperte, il corpo diritto, i garretti arditi. - Ah! Ecco l’onesto, ecco l’uomo bravo, - diceva Zadig. Il re abbracciò il buon ballerino, lo proclamò tesoriere; tutti gli altri furono puniti e multati con sacrosanta giustizia, perché ognuno di loro, durante la sosta nel corridoio, si era riempito le tasche e a mala pena poteva muovere i passi. Il re si rattristò sulla natura degli uomini vedendo che di sessantaquattro danzatori ben sessantatré fossero dei mariuoli. L’andito semibuio fu chiamato il corridoio della tentazione. Se la cosa fosse successa in Persia si sarebbero

suppliziati col palo quei sessanta tre messeri; in altri stati si sarebbe istituita una corte di giustizia che avrebbe consumato per le spese una somma tripla del valore di ciò che fu rubato, e non avrebbe rimesso nelle casse del sovrano nemmeno un centesimo; in qualche altro reame, i colpevoli si sarebbero completamente giustificati e avrebbero fatto cadere in disgrazia quel danzatore così leggiero: a Serendib furono condannati solamente ad aumentare il tesoro dello stato, perché Nabussan era un uomo indulgentissimo. Ed anche molto riconoscente: diede a Zadig una somma di denaro più ingente di quante un tesoriere mai avesse rubate al Re suo padrone. Zadig se ne servi per inviare a Babilonia dei corrieri che l’informassero della sorte di Astarte. Nel dare gli ordini aveva la voce tremante, un tuffo di sangue al cuore, gli occhi, gli occhi gli si ottenebravano, l’anima era sul punto di mancare. Il messo parti. Zadig lo vide salir sulla nave, e tornandosene verso il re, non vedeva nessuno, credeva d’essere nella propria stanza e apriva le labbra pronunziando «amore». - Ahi, l’amore! - disse il re. - È proprio ciò di cui si tratta, hai indovinato ciò che mi cruccia. Sei davvero un grand’uomo! Spero che come mi hai fatto trovare un tesoriere non interessato, così mi farai conoscere una donna fedele a tutta prova Zadig, ritornato in sé, gli promise di giovargli nell’amore come nella finanza, sebbene la cosa sembrasse ancor più difficile.

Occhi celesti - Il corpo e il cuore, - incominciò a dire il re a Zadig. A queste parole il babilonese non si trattenne dall’interrompere la Maestà del Re. - Come mi piace, - disse, - che non abbia detto la mente e il cuore! Poiché nei conversari babilonesi si sentono sempre queste due parole; si vedono soltanto libri che trattano del cuore e della mente, libri compilati da chi è sprovvisto dell’uno e dell’altro; ma, per sua grazia, Sire, prosegua -. Nabussan continuò così: - Il corpo e il cuore in me hanno destino di amare, e di queste due potenze la prima può essere completamente soddisfatta. Al mio servizio ho cento donne, tutte quante belle, compiacenti, premurose, persino voluttuose, o capaci di fingere d’essere tali con me. Il mio cuore non può dirsi molto fortunato allo stesso modo. Ho capito persin troppo che vezzeggiano molto il re di Serendib, ma di Nabussan s’importano pochissimo. Non già che io creda poco fedeli le mie femmine, ma vorrei trovare un’anima tutta per me, per un tesoro così io lascerei le cento beltà di cui possiedo le grazie, vedi un po’ tu se tra queste cento sultane puoi trovarne ima che mi dia la sicurezza d’essere amato. Zadig gli rispose al modo tenuto sull’argomento delle finanze: - Sire, mi lasci fare, ma per prima cosa mi permetta di valermi di quanto lei aveva esposto nel corridoio della tentazione, gliene renderò conto esatto, e non perderà nulla Il re lo lasciò padrone assoluto. Zadig scelse in tutto Serendib trentatre gobbetti tra i più repellenti che trovò, trentatre paggi tra i più belli, e trentatre bonzi tra i più

facondi e vigorosi. Diede loro la concessione d’entrare dentro le celle delle sultane; ogni gobbetto ebbe a disposizione quattromila monete d’oro da regalare, e fin dal primo di tutti i gobbetti furono felici. I paggi che non avevano da regalare altro che se stessi trionfarono appena dopo due o tre giorni. I bonzi dovettero faticare alquanto di più, ma alla fine trentatre pie femmine gli si arresero. Il re, guardando attraverso certe persiane che mostravano tutte le celle, vide ogni esperimento, e fu stupefatto. Di cento femmine novantanove soggiacquero davanti ai suoi occhi. Ne rimaneva una giovane giovane, novellina, a cui la Maestà del Re non si era ancora mai avvicinata. Mandarono su di lei un primo, un altro, un altro ancora dei gobbi che le offrirono persino ventimila monete: fu incorruttibile e non potè fare a meno di ridere sull’idea di quei gobbi persuasi che il denaro li rendesse più prestanti. Le mandarono i due paggi più belli; ella disse che il re le pareva ancor più bello. Le mandarono il bonzo più facondo, e poi il più intraprendente; il primo le sembrò soltanto un linguacciuto, e non capi nemmeno che meriti avesse il secondo. Ella diceva: - Il cuore è tutto, non mi lascerò mai vincere dall’oro di un gobbo, né dalla leggiadria d’un giovanotto, né dalle attrattive d’un bonzo; amerò unicamente Nabussan, figlio di Nussanab, e aspetterò che egli si degni d’amarmi -. Il re si senti fuor di sé per la gioia, la meraviglia, la tenerezza. Si riprese tutto il denaro che aveva dato il successo ai gobbi, e ne fece dono alla bella Falida, questo il nome della giovane. Le diede il proprio cuore, ella ne era davvero meritevole: ella era il fiore della giovinezza, il più lucente che si fosse mai veduto, con le più incantevoli grazie

della bellezza. La verità storica vuole che non si taccia che non sapeva fare bene una riverenza; nondimeno danzava come le fate, cantava come le sirene, parlava come parlano le Grazie: era piena di talenti e di virtù. Nabussan, amato, l’adorò; ma ella aveva occhi celesti, e ciò fu sorgente delle maggiori sventure. Esisteva una legge antica che vietava ai re d’amare uno di quei tipi di donne che i greci chiamarono poi boopie. Il capo dei bonzi di cinquemila anni prima aveva promulgato quella legge, con lo scopo d’appropriarsi dell’amante del primo re dell’isola di Serendib: questo il motivo dell’anatema sugli occhi celesti, messo nella costituzione fondamentale dello stato. Tutti i dignitari dell’impero andarono da Nabussan per contestare. Si diceva in palese che erano giunti gli ultimi giorni del regno, che era il colmo dell’abbominazione, che su tutta quanta la natura pendeva la minaccia d’un evento sinistro; insomma che Nabussan figlio di Nussanab era innamorato di due grandi occhi celesti. I gobbi, i banchieri, i bonzi e le donne brune riempirono il regno con le loro querele. I popoli selvaggi che dimorano nel nord di Serendib approfittarono di questo generale malcontento. Fecero un’irruzione negli stati del buon Nabussan. Egli chiese contribuzioni ai suoi sudditi; i bonzi, possessori di metà delle rendite statali, si appagarono di alzare le mani al cielo rifiutandosi di metterle nei loro forzieri per aiutare il re. Cantarono delle belle preghiere, e lasciarono lo stato in balia dei barbari. - O caro mio Zadig, - esclamò Nabussan con dolore, sarai ancora tu a togliermi da questo orribile impaccio? Volentierissimo, - rispose Zadig, - e lei avrà dai bonzi tutto il

denaro che vuole. Abbandoni i luoghi dove stanno i castelli dei bonzi, e difenda soltanto i propri Nabussan eseguì: i bonzi corsero a inginocchiarsi ai suoi piedi implorando aiuto. Il re rispose mediante una bella musica su parole che erano preghiere invocanti dal cielo la conservazione dei loro luoghi. Finalmente i bonzi diedero denaro e il re conchiuse felicemente la guerra. Cosi Zadig, per mezzo dei saggi e fortunati consigli e con i maggiori servigi, si era attirata l’irreconciliabile inimicizia degli uomini più potenti dello stato: bonzi e donne brune giurarono la sua rovina, banchieri e gobbi non lo perdonarono; tutti lo misero in sospetto presso il buon Nabussan. I servigi resi rimangono per lo più nell’anticamera, i sospetti invece penetrano nella stanza. Questa è una massima di Zoroastro. Ogni giorno nuove accuse; la prima è respinta, la seconda sfiora, la terza ferisce, la quarta uccide. Zadig si senti intimidito; egli aveva condotto bene gli affari dell’amico Setoc, e gli aveva inviato il suo denaro; pensò solamente a partirsene dall’isola, e decise di andare egli stesso a cercare notizie di Astarte. Infatti, - diceva, - se resto a Serendib i bonzi mi condanneranno al palo; ma dove andare? In Egitto sarei schiavo; in Arabia, con grande probabilità, bruciato; a Babilonia strozzato. Tuttavia devo sapere che ne è di Astarte: si parta e si veda un po’ che cosa mi prepara il mio triste destino. Qui il ritrovato manoscritto con la storia di Zadig finisce. Questi ultimi due capitoli devono certamente collocarsi dopo il dodicesimo, precedentemente all’arrivo di Zadig in Siria. Si sa ch’egli passò per molte altre avventure che furono trascritte con fedeltà. Si pregano i signori interpreti di lingue orientali di comunicare le loro eventuali scoperte.

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