Vivere, Amare, Capirsi Buscaglia

August 6, 2017 | Author: Obladi Oblada | Category: Homo Sapiens, Cambodia, Love, Communism, Science
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Vivere amare capirsi. Live, love, learning. E'stupendo, ve lo consiglio!...

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LEO BUSCAGLIA Vivere, amare, capirsi

L'amore si impara, come qualunque altra cosa nella vita. Non è definibile a parole, è piuttosto un modo di vivere, di essere e di sentirsi vivi. Se si assimila questo concetto nella forma più piena, spiega Leo Buscaglia in Vivere, amare, capirsi, si può alla fine ottenere dalla vita il premio più ambito: quello di essere completamente se stessi.

ART D I R E C T O R : GIACOMO CALLO PROGETTO G R A F I C O : CRISTINA BAZZONI IN C O P E R T I N A : I L L U S T R A Z I O N E © S I S / J O S E O R T E G A

Indice

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Premessa Introduzione L'amore ci modifica il comportamento Diventate voi stessi Dov'è la luce (la ricerca dell'io) Ciò che è essenziale è invisibile all'occhio Ponti, non barriere L'arte d'essere pienamente umani I bambini di domani L'intimo voi Scegliete la vita Insegnate la vita A proposito dell'amore Con Leo Buscaglia L'io che sconfigge se stesso

Dello stesso autore nella collezione Oscar Amore Autobus per il Paradiso La coppia amorosa Nati per amare Sette storie natalizie La via del Toro

LEO BUSCAGLIA

VIVERE, AMARE, CAPIRSI Traduzione di Roberta Rambelli Pollini

O S C A R MONDADORI

© 1982 by Leo F. Buscaglia, Inc. Pubblicato d'intesa con Holt, Rinehart and Winston, New York Titolo originale dell'opera: Lìvìng, Loving & Learning © 1984 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano I edizione Ingrandimenti marzo 1984 I edizione Oscar bestsellers maggio 1996 ISBN 978-88-04-41380-6 Questo volume è stato stampato presso Mondadori Printing S.p.A. Stabilimento NSM - Cles (TN) Stampato in Italia. Printed in Italy

Ristampe: 19 2008

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L'Editore ha cercato con ogni mezzo i titolari dei diritti della traduzione senza riuscire a reperirli; è ovviamente a piena disposizione per l'assolvimento di quanto occorra nei loro confronti.

www.librimondadori.it

Vivere, amare, capirsi

Premessa

Secondo Nikos Kazantzakis gli insegnanti ideali sono quelli che si offrono come ponti verso la conoscenza e invitano i loro studenti a servirsi di loro per compiere la traversata; poi, a traversata compiuta, si ritirano soddisfatti, incoraggiandoli a fabbricarsi da soli ponti nuovi. Le varie conferenze raccolte in questo volume rappresentano ponti di questo genere: sono semplicemente idee, concetti e sentimenti che io ho condiviso con gioia. E le ho tenute con l'intesa che potevano essere accettate, acclamate, ignorate o rifiutate. Non aveva importanza. Ora le ripeto, qui, per chi non le ha ascoltate la prima volta e per qualcuno che forse desidera riascoltarle. Sono lieto di aver comunicato queste idee e ancora piuttosto impressionato dal fatto che migliaia di persone siano state disposte ad ascoltarle. Per me, rappresentano dieci anni esaltanti di evoluzione e di partecipazione. In retrospettiva non ho rimpianti e so che, bene o male, ne verranno delle altre, perché sono deciso a continuare a costruire ponti. Leo Buscaglia

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Introduzione

Un sentito ringraziamento al signor Webster, autore del famoso dizionario, che definisce «introduzione»: «aprire la via a un discorso o a un libro». Sono felice di avere avuto tante volte il privilegio di «aprire la via» a Leo Buscaglia... di persona e a mezzo stampa. In una precedente occasione ho scritto: «È un uomo dalle molte, splendide sfaccettature... insegna, studia, scrive, legge, parla, ascolta». In particolare, è uno splendido esempio della professione che ha scelto... l'insegnamento. Leo insegna con immenso entusiasmo e sincerità e, soprattutto, insegna con l'esempio. «Se siete disposti ad ascoltare,» è il suo messaggio implicito «vi mostrerò come può essere degna e bella la vita!» Un salone immenso, una spiaggia o un angolo del suo soggiorno, accanto al fuoco, per Leo tutto va bene come aula scolastica quando s'impegna a istruire - a guidare - i suoi studenti, che appartengono a ogni età e a ogni categoria sociale. All'University of Southern California è stato eletto più di una volta «Miglior insegnante dell'anno» dai ragazzi; e in queste cose dei ragazzi c'è da fidarsi. Una volta io e un amico andammo a prendere Leo all'aeroporto e, mentre lui si allontanava per ritirare i bagagli, un vecchio signore si avvicinò e mi chiese: «Chi è quell'uomo? 9

Ero seduto vicino a lui sull'aereo. Chi è?». Dopo avere ascoltato la mia breve spiegazione, sospirò: «L'immaginavo che era un tipo straordinario. Durante il viaggio ho visto che correggeva un mucchio di compiti e scriveva giudizi come "Bello!", "Fantastico!", "Meraviglioso!". Nessuno ha mai scritto commenti simili sui miei compiti. L'avrei desiderato tanto». Quell'adorabile vecchio aveva visto il maestro modello in azione, quello che onora l'arte dell'insegnamento e, a sua volta, è onorato dai colleghi e dagli studenti. Lo stesso impegno e la stessa passione si trovano nelle opere scritte di Buscaglia. Il suo libro fondamentale, The Disabled and their Parents: A Counseling Challenge, fece dire a uno studente: «È l'unico libro di testo che mi abbia fatto piangere». A partire da Love del 1972 fino a Personhood del 1978, i suoi libri sono prodigi di erudizione generosamente arricchiti da calore umano ed esuberanza... e, sì, anche da impazienza nei confronti delle vite sprecate, vissute con «tranquilla, silenziosa disperazione». Più di una volta, da quando conosco Leo, qualcuno mi ha domandato: «È davvero "così" sempre?». La domanda è giusta... e la risposta è complessa. Ho scoperto che la mia risposta iniziale è cambiata. Un tempo era un «Sì!» sonante e sicuro; adesso è, più esattamente, «sì... e no». Sì... Leo non ha bisogno di trovarsi davanti a un pubblico grande o piccolo per essere esuberante e premuroso, divertente e saggio. Sì... il suo interesse per il potenziale umano degli ascoltatori è profondo e sincero. Sì... lui si diverte quanto gli altri, nell'aula affollata o nell'auditorio. Sì... è sempre insofferente nei confronti delle menti, dei corpi e delle finalità che sono caduti in letargo. Sì... crede con tutto il cuore che «Noi siamo molto più di ciò che siamo». E sì, una delle sue parole preferite è... Sì! (Ho una lettera, nel mio archivio, che lo dimostra. Dice: «Cara Betty Lou, sì, sì, si! Con affetto, Leo».) Ma no, non è sempre «così», perché, se lo fosse, sarebbe 10

soltanto un delizioso attore... richiesto, popolarissimo, immensamente piacevole, ma con un unico messaggio. E nulla potrebbe essere più contrario alla realtà. Il messaggio di Leo, sebbene sia basato su verità universali, muta continuamente, si amplia, assume dimensioni e profondità nuove e ci propone sempre nuove sfide. Da cosa ha origine questa evoluzione continua? Qual è la sua fonte? Nasce dalla gente... dagli amici vecchi e nuovi. Dai libri... e dagli incantatori e dalle incantatrici che li scrivono. Dalla natura... esempio sommo del mutamento, dell'evoluzione e della bellezza. Dai suoi maestri: i grandi mistici delle culture orientali... e dagli studenti... e dai bambini. Dalla musica delle sfere celesti! A volte immagino Leo come un immenso foglio di carta assorbente: il suo occhio pronto, il suo straordinario intelletto, il suo cuore generoso s'imbevono di tutto. Convinto dell'immensa bellezza di una vita che accetta il mutamento, Leo fa di tutto per scuotere i suoi simili e strapparli alla loro comoda, compiaciuta inerzia. Ricordo un incontro ad Atlantic City, uno di quei raduni nel tardo pomeriggio che sembrano d'obbligo per le conferenze. Orgogliosamente e, sospetto, un po' pomposamente, raccontavo a Leo tutto quel che avevo fatto dall'ultima volta che ci eravamo visti. Lui mi ascoltò con pazienza, poi mi fissò, impassibile, e disse: «Betty Lou, devi smetterla di fare tutte le cose che sai di poter fare benissimo, e tentare qualcosa di nuovo». Tornai immediatamente a casa e abbandonai tutto quel che avevo in cantiere e quasi immediatamente mi lanciai in una serie di iniziative nuove (e piuttosto spaventose). E fu meraviglioso! Se ascolto Leo? Potete scommetterci, e, dall'inizio della nostra amicizia, è sempre stata la mia missione esortare gli altri ad ascoltarlo. Con la mente e col cuore. Eh no, Leo non è sempre «così»... Altrimenti si potrebbe pensare che abbia bisogno dell'appoggio costante delle folle che si raccolgono intorno a lui dovunque vada. Non conosco 11

nessuno che sappia dileguarsi rapidamente come Leo quando sente il bisogno di rinnovare le sue energie, la sua attenzione, le sue forze vitali. Può sparire una sera nella solitudine della sua casa; per un'estate in una baita isolata in riva a un fiume dell'Oregon; o magari per un anno, trascorso su un'isola, in compagnia delle sue riflessioni e di quelle dei saggi dai quali è sempre ansioso d'imparare. È un uomo molto chiuso ma il suo amore per la privacy non sembra tanto una fuga, un allontanamento, quanto un avvicinamento... un tempo dedicato al risveglio e al rinnovamento dei sensi, una preparazione all'evoluzione spirituale e mentale. Infine, la domanda «È davvero "così" sempre?» ha una connotazione particolare... Uomo o mito? Leo non è un mito... è molto umano, un uomo che a volte inciampa e pasticcia, come tutti noi, che soffre come tutti noi per le complicazioni burocratiche della vita odierna, che come tutti noi ha momenti di angoscia privata, che è capace di grandi e piccole cattiverie come tutti noi. Diversamente da tutti noi, però, sembra gloriarsi della sua umanità e delle debolezze, delle imperfezioni e della comicità che comporta l'essere umani. Ho parlato dell'uomo anziché di questo libro tanto significativo, sebbene lo conosca assai più intimamente di quanto non conosca Leo. Naturalmente, conoscere l'uno è conoscere l'altro, almeno in parte. Lascerò che lo splendido contenuto parli da sé e «aprirò la via» dicendo semplicemente... preparatevi a una meravigliosa avventura, partecipando con Leo a una festa di vita. Betty Lou Kratoville

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L'amore ci modifica il comportamento

Sono sopraffatto dalla gioia di venire presentato da qualcuno che sa pronunciare il mio nome. Mi piace parlare del mio nome perché è uno di quei bei nomi italiani che contengono mezzo alfabeto. Si scrive B-u-s-c-a-g-l-i-a e si pronuncia come Dio vuole. La cosa più divertente che mi sia mai capitata col mio nome è successa una volta che feci una telefonata interurbana. La linea era occupata e la centralinista mi disse che mi avrebbe richiamato appena possibile. Quando richiamò, mi disse: «Per favore, avverta il dottor Box Car che c'è la sua comunicazione». «Può essere Buscaglia, per caso?» domandai. E lei: «Signore, può essere qualunque cosa». Oggi sono qui per parlarvi dell'amore. Io lo definisco «Amore in classe». Siete stati veramente coraggiosi a permettermi di venir qui a parlarvi d'amore in classe. Di solito mi invitano a mascherarlo un po' o almeno ad aggiungere qualcosa. Sapete... «L'amore, virgola, come modificatore del comportamento». Così suona molto scientifico e non spaventa nessuno. Quando tengo le lezioni sull'amore alla mia università, tutti gli altri insegnanti ridacchiano, mi prendono a gomitate e mi chiedono: «Ehi, il sabato fai esperimenti in laboratorio?». E io garantisco loro che non li faccio. Vorrei spiegarvi un po' come mi è nata questa idea 13

dell'amore in classe. Cinque anni fa ebbi un colloquio con il preside della facoltà di pedagogia. È un uomo molto solenne, seduto dietro un'enorme scrivania. Io avevo appena lasciato l'incarico di direttore di educazione speciale in un grande distretto scolastico della California perché ero giunto alla conclusione che non ero un amministratore ma un insegnante, e volevo tornare a insegnare. Come mi sedetti, lui mi domandò: «Buscaglia, che cosa vorrebbe fare tra cinque anni?». Subito, senza esitare, gli risposi: «Mi piacerebbe insegnare l'amore». Ci fu una pausa, un silenzio come qui, in questo momento. Poi lui si schiarì la gola e chiese: «E che altro?». Due anni dopo, io insegnavo questa materia. Avevo venti studenti. Adesso ne ho duecento, e seicento in lista d'attesa. L'ultima volta che abbiamo aperto le iscrizioni tutti i posti disponibili vennero occupati in venti minuti. Questo può dimostrarvi quanto entusiasmo suscita un corso sull'amore. Mi meraviglio sempre, quando la Commissione della Pubblica Istruzione si riunisce per decidere le finalità del sistema d'istruzione americano, che il primo scopo messo in risalto sia, regolarmente, la realizzazione di sé. Ma devo ancora trovare un corso, dalle elementari in su, che abbia per tema: «Chi sono?» oppure: «Perché sono qui?» oppure: «Qual è la mia responsabilità nei confronti dell'uomo?» o magari, se volete: «L'amore». A quanto ne so, la nostra è l'unica scuola del Paese, e forse del mondo, ad avere un corso sull'amore, e io sono l'unico professore tanto pazzo da tenerlo. In questa classe, io non insegno. Imparo. Ci riuniamo, ci mettiamo a sedere su un grande tappeto e parliamo per due ore. Di solito si continua fino a sera inoltrata, ma come minimo ci lasciamo coinvolgere per le due ore regolamentari e mettiamo in comune ciò che sappiamo: la nostra tesi è che l'amore s'impara. Gli psicologi, i sociologi e gli antropologi ci ripetono da anni che l'amore s'impara. Non è una cosa che 14

succede spontaneamente. Io penso che abbiamo finito per crederlo, e per questo abbiamo tante difficoltà nei rapporti umani. Eppure, a noi l'amore chi l'insegna? Tanto per cominciare, la società in cui viviamo, e certamente è una società molto varia. In particolare ce l'insegnano i nostri genitori. Sono i nostri primi insegnanti, ma non sempre sono i migliori. Noi possiamo aspettarci che i nostri genitori siano perfetti. I figli crescono aspettandosi sempre che i genitori siano perfetti, e poi restano delusi, amareggiati e se la prendono quando scoprono che quei poveri esseri umani non lo sono. Forse diventare adulti significa appunto trovarsi di fronte queste due persone, quest'uomo e questa donna, e vederli come esseri umani identici a noi, con i loro pregiudizi, le idee sbagliate, le tenerezze e le gioie e le sofferenze e le lacrime, e riuscire a rendersi conto che sono soltanto esseri umani. Ma l'importante è che, se abbiamo imparato l'amore da loro e da questa società, possiamo disimpararlo per poi impararlo di nuovo; quindi c'è una speranza immensa. C'è un'immensa speranza per tutti noi, però lungo la strada dovete imparare ad amare. Io credo che molte di queste cose siano già dentro di noi e che nulla di quanto sto per dire sia straordinariamente nuovo. Ciò che scoprirete è che qualcuno avrà abbastanza coraggio da alzarsi e dirlo, e forse, come conseguenza, farà scattare una molla dentro di voi in modo che possiate dire: «Ecco, è quello che provo anch'io, ed è tanto sbagliato provare questi sentimenti?». Tutto questo è molto interessante, ma cinque anni fa, quando incominciai a parlare dell'amore, ero veramente molto solo. Ricordo, e tra il pubblico c'è qualcuno che era presente anche allora, che una volta mi trovai ad affrontare un collega di un'altra università in una discussione che contrapponeva la modificazione del comportamento all'affetto. E quando mi fui ben ben sgolato a parlare dell'amore, quel signore si rivolse a me e disse: «Buscaglia, lei è assolutamente 15

futile». Credo di essere l'unico umano al mondo che abbia il singolare onore di essere «assolutamente futile». Ed è sensazionale! Ma oggi non sono più tanto solo, perché altri si occupano dell'affetto e lo studiano. Per me, è stato decisivo scoprire il libro di Leonard Silberman, Crisis in the Classroom. Se non l'avete ancora letto, leggetelo: è fantastico. Probabilmente si affermerà come uno dei libri più importanti nel campo educativo. Figura già nell'elenco dei bestseller. Chiunque s'interessi ai bambini deve leggere il libro di Silberman, compresi i genitori. Dovrebbe essere accessibile a tutti. Il libro è il risultato di uno stanziamento triennale concesso dalla Fondazione Carnegie a Leonard Silberman, grande sociologo e grande psicologo, perché facesse il bilancio della situazione attuale dell'educazione in America. E Silberman è giunto alla conclusione che, considerato che in America l'educazione è per tutti, facciamo un ottimo lavoro per quanto riguarda leggere e scrivere e far di conto. In questo siamo bravissimi. Ma non sappiamo assolutamente insegnare agli individui a diventare esseri umani. Basta guardarci intorno per rendercene conto. Indiscutibilmente, l'accento è sulla sillaba sbagliata. È una cosa sorprendente - immagino che accada anche a voi -: si captano le vibrazioni degli ascoltatori. Si stabilisce un'interazione tra voi e gli altri, se parlate a loro e non semplicemente davanti a loro. Sarebbe meraviglioso se potessimo avere sempre un piccolo gruppo, parlare tranquillamente e stabilire veramente un rapporto, anziché avere di fronte enormi platee. Ma nonostante tutto, tra il pubblico ci sono certi visi che spiccano, certi corpi che vibrano. Entrano in contatto con voi e voi entrate in contatto con loro. Ogni tanto, quando vi capita di aver bisogno di un appoggio, li guardate e ricevete un sorriso che vi dice: «Continua, stai andando benissimo». E allora potete fare davvero di tutto. Ecco, durante il mio primo anno all'University of Southern 16

California io avevo una persona così, nella mia classe: una ragazza straordinaria. Stava sempre in sesta fila, e annuiva. Quando dicevo qualcosa, sentivo che lei diceva: «Oh, sì!», e poi prendeva appunti, e io pensavo: «Oh, comunico veramente con lei... tra noi sta accadendo qualcosa di molto bello; lei sta imparando». Poi un giorno non la vidi più. Non riuscivo a immaginare che cosa fosse successo, e continuai a guardarmi intorno, ma non la vidi più. Alla fine, mi rivolsi alla decana che mi disse: «Come, non l'ha saputo?». La ragazza, che riusciva benissimo nello studio, che aveva un'intelligenza affascinante, e una creatività che neppure immaginate... era andata a Pacific Palisades, un posto dove le scogliere sono a picco sul mare. Aveva parcheggiato la macchina, si era buttata e si era sfracellata sulle rocce. Il ricordo mi turba ancora. Allora pensai... a che serve imbottire di dati la testa agli altri, se dimentichiamo che sono esseri umani? Recentemente, Carl Rogers ha detto una cosa importante, a questo proposito: Io non credo che qualcuno abbia mai insegnato qualcosa a qualcun altro. Contesto l'efficacia dell'insegnamento. L'unica cosa che so è che chi vuole imparare impara. Un insegnante, al massimo, è uno che facilita le cose, imbandisce la mensa e mostra agli altri che è eccitante e meravigliosa e li invita a mangiare.

È il massimo che possiate fare... non potete costringere qualcuno a mangiare. Nessun insegnante ha mai insegnato qualcosa a qualcuno. La gente in fondo è autodidatta. La parola «educatore» deriva dal latino «educare», verbo simile a «edùcere» che significa guidare, condurre. E appunto questo l'educatore deve fare: guidare, essere entusiasta, capire se stesso, mettere tutto questo sotto gli occhi degli altri e dire: «Guardate, è meraviglioso. Venite a mangiare con me». Ricordo una battuta di Zia Mame: «La vita è un banchetto, e tanti piatti muoiono di fame». Adesso sta diventando tutto più facile, perché sono più numerosi quelli come Silberman 17

che fanno queste affermazioni, e io non faccio più la figura dell'eccentrico. Un grande sociologo, Sorokin, nell'introduzione al suo libro, The Ways and Powers of Love, afferma: Le menti sensate, le nostre menti, non credono assolutamente al potere dell'amore. A noi appare illusorio... lo chiamiamo autoinganno, oppio della mente, pensiero idealistico e illusione scientifica. Siamo prevenuti contro tutte le teorie che cercano di provare il potere dell'amore in altre forze positive che determinano il comportamento e la personalità umani, influenzano il corso dell'evoluzione biologica, sociale, morale e mentale, condizionano la direzione degli eventi storici, plasmano le istituzioni sociali e le culture.

Poi Sorokin passa a dimostrarci, basandosi su studi scientifici, che è così. È una vergogna se credete che esista soltanto ciò che può essere dimostrato statisticamente. Mi dispiace moltissimo per voi se vi lasciate veramente dominare soltanto da ciò che potete misurare, perché io sono affascinato dall'incommensurabile, non da ciò che è qui. Non m'interessa nulla di ciò che è qui. Lo vedo benissimo. D'accordo, misuratelo pure, se avete voglia di perder tempo; ma a me interessa ciò che è là fuori. Ci sono tante cose che non vediamo, non tocchiamo, non sentiamo e non comprendiamo. Noi presumiamo che la realtà sia la scatola nella quale l'abbiamo messa, ma non è vero, vi assicuro. Provate, qualche volta, ad aprire la porta, guardate fuori, vedrete che cosa c'è. Il sogno di oggi sarà la realtà di domani. Ma abbiamo dimenticato come si fa a sognare. Recentemente Buckminster Fuller è venuto nella nostra università, e questo vecchio meraviglioso si è presentato a noi con un piccolo microfono - niente appunti, niente lavagna, niente ausili audiovisivi - e ci ha parlato; ha incantato un pubblico di tre o quattromila persone per tre ore e un quarto, ininterrottamente. Ha detto cose meravigliose sulla speranza e sul futuro, e la sua ultima frase è stata: «Ho grandi 18

speranze per il domani. E le mie speranze si fondano su tre cose... la Verità, la Gioventù e l'Amore». Poi ha staccato il piccolo microfono e ha lasciato il podio. Verità, Gioventù e Amore. Ecco le nostre speranze per il domani. Penso che la gente incominci a considerare questa cosa chiamata amore. E lo fa senza vergognarsi. La gente dice: «Forse dobbiamo tornare a questo». Silberman dice: «Ciò che manca è l'affetto. Le scuole sono luoghi senza allegria e senza vitalità che soffocano i giovanissimi e distruggono la creatività e la gioia». Dovrebbero essere i luoghi più festosi del mondo perché, sapete, la gioia più grande è imparare. Imparare qualcosa è fantastico perché ogni volta che imparate qualcosa, diventate qualcosa di nuovo. Non potete imparare senza essere costretti a riorganizzare tutto intorno alle cose nuove che avete appreso. Perciò, vorrei parlarvi un po' di ciò che credo sia un essere umano ricco d'amore. Potrei dire «l'insegnante ricco d'amore», ma non mi piace. Vedete, non si è soltanto un insegnante, si è un essere umano. I bambini riescono a identificarsi con la gente, con gli esseri umani. Hanno invece molte difficoltà nell'identificarsi con gli insegnanti. Quando incominci a comportarti da insegnante, in un ruolo fisso, ti sorprendi a dire una quantità di cose che non avresti mai voluto dire. Noi prepariamo gli insegnanti. Li prepariamo e li mandiamo nel mondo come esseri umani straordinari. Poi li mettiamo in una classe, e sapete che cosa tornano a dirci? «Mi sorprendo a dire tutte le cose orribili che detestavo sulle labbra degli altri insegnanti, per esempio: "Stiamo aspettando Mary". "Johnny, stiamo aspettando te." "Oh, mi piace come sta seduto Johnny."» E potete immaginare facilmente Mary che pensa: «E tu aspetta, vecchio scocciatore». Stiamo aspettando Mary, davvero! Eppure questo è il ruolo che recitiamo. Ci ritroviamo a parlare quasi sempre noi, perché siamo gli insegnanti. E ci illudiamo di insegnare qualcosa. I giovani impareranno; non dovete fare altro 19

che guidarli: questa è la vostra funzione principale. Nelle facoltà di pedagogia non riusciamo nel nostro intento perché non aiutiamo gli insegnanti ad abbandonare il ruolo di insegnanti, a diventare esseri umani e a capire che sono soltanto guide. Se si renderanno conto di questo, riusciranno nella scuola, perché un giovane subito riconosce una guida. Esporrò alcune idee per spiegare chi è una persona ricca d'amore e poi, se vorrete attribuirle a un insegnante, fate pure. Ma a me interessa soprattutto stabilire chi è una persona ricca d'amore. Io credo che la cosa più importante per una persona ricca d'amore sia che questa ami se stessa. A questo punto, molti si sorprenderanno e chiederanno: «Oh, oh, ma che cosa sta dicendo?». Non sto facendo l'elogio dell'egotismo. Non vi sto invitando a mettervi davanti a uno specchio e a domandare: «Specchio delle mie brame, chi è il più bello del reame?». Non è questo che intendo; quando parlo d'una persona che ama se stessa, intendo qualcuno che si rende conto che si può dare soltanto ciò che si ha, e che quindi si dà da fare per ottenere qualcosa. È necessario diventare l'individuo più colto, più geniale, più interessante, più versatile e più creativo del mondo perché allora si potrà donare tutto questo; e l'unica ragione per avere qualcosa è donarla. «Non posso insegnarvi quello che non so» è una frase troppo facile e troppo stupida. Eppure dobbiamo dirla. Se devo presentarmi davanti a un gruppo di persone, devo sapere qualcosa o avere qualcosa da dire. Se devo tenere una lezione sulle incapacità di apprendimento, è necessario che sappia qualcosa delle incapacità di apprendimento. Posso insegnare ai miei allievi soltanto ciò che so. Quindi, se voglio parlare con efficacia delle incapacità di apprendimento, devo conoscere tutto ciò che mi è possibile sulle incapacità di apprendimento. Ed è meraviglioso: posso far partecipi gli altri di tutto quello che so, senza per questo perdere nulla... saprò ancora tutto ciò che so. Quindi, in realtà, non si tratta 20

di dare, si tratta di condividere. L'altra sera, Fuller ha detto: «Per insegnarvi tutto ciò che so, mi basterebbero quindici ore». Immaginate questo intelletto acuto, fantastico... questo grande scienziato e filosofo. «Quindici ore, per insegnarvi tutto quello che so.» Eppure, se lo facesse, non perderebbe ciò che sa; continuerebbe a saperlo. Lo stesso avviene per quanto riguarda l'amore. Potrei amare ognuno dei presenti con eguale intensità se avessi la possibilità di conoscervi; eppure avrei ancora lo stesso patrimonio d'amore e lo stesso potenziale d'amore che ho in questo momento. Non perderei nulla. Ma prima devo averlo. Se il mio amore è nevrotico, se è possessivo, se è malsano, non posso insegnarvi altro che un amore nevrotico, possessivo e malsano. Se la mia conoscenza di una cosa è immensa e sconfinata, posso darla a voi. Perciò la mia responsabilità nei confronti di me stesso è rendermi immenso, pieno di conoscenza, pieno d'amore, pieno di comprensione, pieno d'esperienza, pieno di tutto, perché possa dare tutto a voi, e perché voi possiate prenderlo e servirvene per incominciare a costruire. Nessuno segue mai per più di un anno il mio corso sull'amore. È un corso di un anno. Voi prendete ciò che io ho da darvi. Lo sommate a ciò che già avete, poi ve ne andate e fate qualcosa di bello. Io vedo la personalità, per esempio, non soltanto come la vede lo psicologo o il sociologo o l'antropologo, ma anche come qualcosa il cui elemento principale ci è sfuggito per molto tempo. Questo qualcosa è l'unicità. Io vedo ciascuno come un individuo unico, che ha in sé un fattore che in mancanza di un nome più preciso chiamerò X. Qualcosa in voi che è soltanto vostro, che è diverso da tutti gli altri, che vi fa vedere in modo diverso, sentire in modo diverso, reagire in modo diverso. Io credo che ciascuno lo possieda, e spero che abbiate avuto la fortuna di incontrare chi vi ha aiutato a svilupparlo. Forse perché l'essenza dell'educazione non consiste nell'imbottirvi di fatti, bensì 21

nell'aiutarvi a scoprire la vostra unicità, nell'insegnarvi a svilupparla e poi mostrarvi come dovete donarla. Immaginate che cosa sarebbe il mondo se ciascuno di voi fosse incoraggiato a diventare un essere umano unico. Sapete che cosa penso? Che l'essenza del nostro sistema d'educazione sia rendere ciascuno eguale a tutti gli altri. E quando ci siamo riusciti ci consideriamo fortunati. Succede sempre così, lo vedete anche voi. «Non m'interessa la tua unicità. M'interessa sapere se sono riuscito a darti me stesso; se tu sai imitarmi come un pappagallo mi considero riuscito come insegnante.» Racconto sempre la storiella della scuola degli animali, che circola da anni tra gli educatori. Ci fa ridere, ma in pratica non ne teniamo conto. Un coniglio, un uccello, un pesce, uno scoiattolo, un'anatra e così via decisero di aprire una scuola. Tutti quanti si accinsero a preparare il programma. Il coniglio pretendeva che nel programma ci fosse la corsa. L'uccello pretendeva che ci fosse il volo. Il pesce pretendeva che ci fosse il nuoto. Lo scoiattolo pretendeva che ci fosse l'arrampicarsi sugli alberi. Anche tutti gli altri animali pretendevano che le loro specialità fossero incluse nel programma, e così alla fine ci misero tutto e commisero l'errore grandioso di pretendere che tutti gli animali seguissero tutti i corsi. Il coniglio era magnifico nella corsa; nessuno sapeva correre come lui. Ma gli animali sostenevano che era un'ottima disciplina intellettuale ed emotiva insegnare il volo al coniglio. Insistettero perché imparasse a volare e lo misero su un ramo e dissero: «Vola, coniglio!». E quel poverino saltò giù, si ruppe una zampa e si fratturò il cranio. Gli restò una lesione al cervello e non potè neppure correre forte come prima. Così, anziché prendere 10 nella corsa, prese soltanto un 7. E gli diedero un 6 nel volo in considerazione del suo impegno. La commissione che aveva varato il programma era felice. La stessa cosa capitò all'uccellino... sapeva volare 22

come una freccia e compiere bellissime evoluzioni, e meritava 10. Ma pretesero che scavasse tane nel terreno come una marmotta. Naturalmente si ruppe le ali, il becco e tutto il resto e non potè più volare. Ma la commissione fu ben contenta di dargli 7 in volo e così via. E sapete chi riuscì meglio, in tutta la classe? Un'anguilla mentalmente ritardata, perché riusciva a destreggiarsi alla meno peggio in tutte le materie. Il gufo se ne andò indignato, e adesso vota «no» ogni volta che vengono proposte nuove tasse per finanziare le scuole. Sappiamo benissimo che tutto questo è sbagliato, ma nessuno fa qualcosa per rimediare. Puoi essere un genio. Puoi essere uno dei più grandi scrittori del mondo ma non puoi entrare in un'università se non superi l'esame di trigonometria. Perché? Non puoi diplomarti alle medie superiori se non sai questo ma anche questo e quest'altro! Non puoi diplomarti alle elementari se non fai quello e quell'altro ancora. E poco conta chi sei. Guardate l'elenco di quelli che hanno abbandonato: William Faulkner, John F. Kennedy, Thomas Edison. A scuola non ce la facevano. Erano un disastro. «Non voglio imparare ad arrampicarmi perpendicolarmente sugli alberi. Non mi arrampicherò mai perpendicolarmente sugli alberi. Io sono un uccello. Posso raggiungere la cima dell'albero volando.» «Non importa, è utile come disciplina intellettuale.» Non dobbiamo accontentarci di diventare come tutti gli altri. Dobbiamo lottare contro il sistema. Prendiamo, per esempio, gli insegnanti di disegno. (Non ho niente contro di loro; mi fanno molta pena, poverini.) Ricordo quando venivano nella mia classe, alle elementari, e sono sicuro che li ricorderete anche voi. Arrivava una povera donna stralunata, perché quel giorno era già stata in altre quattordici classi a insegnare arte. Entrava di corsa, con il cappellino di sghimbescio, e diceva: «Buongiorno, bambini. Oggi disegneremo un albero». E tutti i bambini dicevano: «Magnifico, disegne23

remo un albero!». E poi lei prendeva una matita verde e disegnava un grande coso verde. Ci aggiungeva una base marrone e qualche filo d'erba. E diceva: «Ecco l'albero». Tutti i bambini lo guardavano e dicevano: «Non è un albero. È un lecca-lecca». Ma lei sosteneva che era un albero; distribuiva i fogli e diceva: «Adesso disegnate un albero». In realtà non diceva: «Disegnate un albero», diceva: «Disegnate il mio albero». E quanto prima capivate che cosa intendeva e riuscivate a riprodurre quel lecca-lecca e a consegnarle il foglio, tanto prima ottenevate un 10. Ma c'era un bambino che sapeva che quello non era un albero, perché aveva visto un albero che l'insegnante d'arte non immaginava neppure. Era caduto da un albero, aveva intagliato un albero, aveva fiutato l'odore di un albero, s'era seduto sul ramo di un albero, aveva ascoltato il vento soffiare tra le foglie di un albero, e sapeva che l'albero dell'insegnante era un lecca-lecca. Perciò prese i pastelli rosso magenta e arancione e azzurro e violaceo e verde, e scarabocchiò allegramente il foglio e lo consegnò tutto soddisfatto. L'insegnante lo guardò e disse: «Oh, mio Dio, è un ritardato mentale... Classe differenziale». Quanto tempo passa prima di capire che quello che ti dicono in realtà è: «Per essere promosso, devi riprodurre il mio albero»? Ed è così in prima, in seconda, in terza, in quarta, in quinta, su fino ai seminari per laureati. Io insegno nei corsi per laureati. È sorprendente constatare come la gente, ormai, ha imparato a ripetere come un pappagallo. Pensare? Non dite assurdità. Sono capaci di recitare i dati, parola per parola, come glieli avete propinati. Non potete neppure dar torto a questi studenti, perché fanno ciò che è stato loro insegnato. Voi dite: «Siate creativi, siate originali». E loro hanno paura. «Non dirà mica sul serio, vero?» E che fine fa la nostra unicità, che fine fa il nostro albero? La splendida unicità finisce nella fogna. Ognuno è eguale a tutti gli altri, e tutti sono contenti. R.D. Laing dice: «Siamo sod24

disfatti quando abbiamo reso i nostri figli simili a noi: frustrati, malsani, ciechi, sordi, ma con un alto quoziente d'intelligenza». L'individuo ricco d'amore non si accontenta d'essere unico, di sviluppare la propria unicità e di lottare per conservarla. Vuole essere il più grande, perché si rende conto che può donare questa grandezza. Non so quanti di voi conoscano l'opera di R.D. Laing. La politica dell'esperienza è uno dei doni più belli che io potrei farvi. È un piccolo tascabile, ed è incredibile. In questo libro l'autore parla del potenziale umano e dello sviluppo del potenziale umano. Fa un'affermazione che considero tra le più belle che abbia mai letto. E non è in corsivo o evidenziata. Fa semplicemente parte di ciò che scrive. R.D. Laing dice: Noi pensiamo molto meno di quanto sappiamo. Sappiamo molto meno di quanto amiamo. Amiamo molto meno di quanto si possa amare. E cosi siamo molto meno di ciò che siamo. 1

Vi piace? In tutto il Paese stanno accadendo cose entusiasmanti. Esistono istituti che si prefiggono lo sviluppo della persona umana. Herbert Otto, Fitzgerald e Carl Rogers si prodigano continuamente, e senza fini di lucro. Creano istituti e vivono dei diritti d'autore dei loro libri per trovare nuovi modi di aiutare gli altri a sviluppare il loro potenziale, perché altrimenti saremo perduti. È quanto sta predicando Fuller: «Torniamo a noi stessi». Abbiamo la capacità potenziale di vedere e sentire e toccare e fiutare ciò che non abbiamo mai sognato. Ma abbiamo dimenticato come si fa. Queste cose dobbiamo fare, se ci curiamo di noi stessi, se amiamo noi stessi.

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Il brano è stato tratto dalla versione in lingua inglese edita da Bailamme Books, New York, con il titolo The Politics of Experience. Versione italiana edita da Feltrinelli, Milano, 1980. [N.d.T.]

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Circa sette anni fa, ho vissuto un'esperienza unica. Feci una cosa che, secondo tutti quanti, era una pazzia. Vendetti tutto ciò che ha valore secondo la nostra cultura... l'impianto ad alta fedeltà, i dischi, i libri, la polizza d'assicurazione, la macchina, e così rimediai un po' di denaro e passai due anni girando il mondo. Trascorsi gran parte di quel tempo in Asia, perché conoscevo l'Asia meno di qualunque altro posto al mondo. Due terzi del globo non appartengono al mondo occidentale. Quella gente pensa in modo diverso e sente in modo diverso e comprende in modo diverso; e potete imparare molto su voi stessi e sulla condizione umana quando uscite dall'ambiente occidentale e scoprite che esistono popoli e territori che non conoscono neppure Gesù. Esistono luoghi dove non hanno la più vaga idea di ciò che pensa, fa e sente la nostra cultura occidentale; eppure questa è la gente con la quale sembriamo destinati a scontrarci in un conflitto. Le loro parole non sono le nostre parole. I loro sentimenti non sono i nostri sentimenti. Eppure io ho imparato moltissimo viaggiando in quei Paesi. Quando ero in Cambogia, imparai qualcosa di veramente unico. Ero ad Angkor Wat e ammiravo le meravigliose rovine buddiste. Sono fantastiche... colossali teste del Buddha divorate dagli alberi e scimmie che si lanciano nell'aria; tutto è selvaggio, aperto e bellissimo... rovine quali non ne avete mai sognato... un mondo per noi completamente nuovo. E là incontrai una francese, che era rimasta dopo che i suoi connazionali avevano lasciato la Cambogia. Mi disse: «Vedi, Leo, se vuoi veramente conoscere la Cambogia, non startene qui seduto fra le rovine. Sono bellissime, ma vai a vedere la gente. Scopri che cosa fa. E sei capitato al momento giusto, perché stanno per arrivare i monsoni, e il modo di vivere cambia». Mi disse: «Vai al Tonle Sap». (Se ricordate le lezioni di geografia, è un grande lago della Cambogia.) «Perché adesso la gente è occupata in un'attività molto interessante. Quando arrivano i monsoni, le grandi piogge spazzano via 26

tutte le loro case e distruggono tutto ciò che possiedono. Allora salgono su zattere comuni, in gruppi formati da parecchie famiglie. Vengono le piogge, le zattere galleggiano, e loro continuano a vivere, ma tutti insieme.» E io pensai: Non sarebbe magnifico se per sei mesi all'anno alcuni di noi potessero vivere insieme? Vedo che state pensando... Chi diavolo può avere voglia di vivere con il vicino? Ma forse sarebbe una bella cosa vivere con un vicino, riscoprire che cosa significa contare sugli altri, poter dire a qualcuno: «Ho bisogno di te». Noi pensiamo che essere adulti significhi essere indipendenti e non aver bisogno di nessuno. Ecco perché stiamo tutti morendo di solitudine. Com'è meraviglioso sapere che gli altri hanno bisogno di noi! E com'è splendido avere bisogno e poter dire a qualcuno: «Ho bisogno». Io non esito a dire che ho bisogno di tutti voi, di ognuno di voi. Il guaio è che le nostre vite si incrociano solo occasionalmente. Ma le esperienze più grandi della mia vita le ho avute quando due vite si intersecavano e due esseri umani riuscivano a comunicare. I cambogiani lo imparano presto, ed è la natura che s'incarica di insegnarglielo. La natura è una grande maestra. Basta che rileggiamo Walden. La frase meravigliosa di Thoreau: «Oh, Dio, arrivare in punto di morte per scoprire che non hai vissuto». Pensateci. Comunque, andai laggiù, in bicicletta. E li trovai. E pensai che mi sarebbe piaciuto aiutarli a trasferirsi per entrare a far parte della loro comunità. La francese con la quale stavo parlando rise e disse: «Sì, aiutali a traslocare». Che cosa avevano da traslocare? La natura ha insegnato loro che l'unica cosa che hanno sono loro stessi. Non gli oggetti. Non possono accumulare le cose, perché ogni anno vengono i monsoni, e non esiste un luogo dove portarle. E non potei fare a meno di pensare: «Cosa faresti, Buscaglia, se i monsoni arrivassero a Los Angeles la settimana prossima? Che cosa porteresti via? Il televisore a colori? L'automobile? La sputacchiera che ti ha lasciato zia 27

Matilda? Puoi portare via solo te stesso». A Los Angeles avvengono spesso dei terremoti di cui avrete certamente sentito parlare. È una sensazione unica, vi assicuro, scoprire che non puoi decidere dove andrai o dove andrà la casa. Recentemente abbiamo avuto un terremoto piuttosto forte a Los Angeles, e la mia casa ne ha risentito parecchio. Il soffitto del soggiorno è crollato e il caminetto è caduto. Eravamo rimasti senz'acqua, e cosi via. Di colpo, questo ci ha insegnato il non-valore delle cose; ci ha mostrato ancora una volta che le cose erano stupide, e che avevamo soltanto noi stessi. Sono uscito di casa, e tutto mi crollava intorno. Era l'alba, e c'era una striatura di luce che spuntava nel cielo. Ho un grande pesco, dietro la casa. Ebbene, era là, fiorito come se niente fosse. E all'improvviso, in un attimo, ho capito. «Sai, questo mondo bellissimo continuerà con te o senza di te.» Valeva la pena che venisse il terremoto, per ricordarmelo. I filosofi e gli psicologi ce lo ripetono da anni. «Tu non hai altro che te stesso. Perciò devi diventare la persona più bella, tenera, meravigliosa, fantastica del mondo. E allora sopravviverai sempre.» Ricordate la Medea della tragedia greca? Ricordate la battuta di quella splendida tragedia, quando tutto è perduto e l'oracolo le chiede: «Medea, che resta? Tutto è distrutto, tutto è finito»? E Medea risponde: «Che resta? Resto io». Che donna! «Come sarebbe a dire, che cosa resta? Resta tutto. Resto io!» Quando riconoscerete l'importanza del rispetto per voi stessi, quando comprenderete che tutte le cose provengono da voi, allora potrete dare agli altri. Ciascuno di voi potrà creare un nuovo se stesso. Se non vi piace l'ambiente nel quale vivete, cancellatelo e fatevene uno nuovo. Se non vi piacciono i personaggi con i quali avete a che fare, sbarazzatevene e ricominciate con altri. Ma dovete farlo voi. Ed è tutto vostro. Benissimo, questa è la cosa numero uno. E se non avessimo detto altro che questo, sarei egualmente convinto con tutto il mio cuore di avervi dato qualcosa: un ritorno a voi stessi. 28

Saint-Exupéry, il filosofo francese, in uno dei suoi libri fa un'affermazione magnifica. Dice: «Forse l'amore» (e se volete potete sostituire l'educazione all'amore) «è il processo con il quale ti riconduco dolcemente a te stesso». Io non ho una definizione precisa dell'amore, ma questa è la più salutare che abbia mai sentito. «Forse l'amore è il processo con il quale ti riconduco dolcemente a te stesso.» Non a ciò che io voglio che tu sia, ma a ciò che sei. Non so quanti di voi conoscano il City Lights Book Store di San Francisco; è un posto incredibile, e se mai vi capiterà di andare in quella città, non mancate di visitarlo. È una libreria; tre piani di tascabili. Non avreste mai immaginato che al mondo ci fossero tanti tascabili, ma ha una sezione che non esiste altrove. È una sezione che pubblica manoscritti di gente come voi e me, di poeti frustrati e di scrittori frustrati. Un settore è dedicato alla poesia. Non dovete far altro che ciclostilare, spillare, e mettere sullo scaffale, e potete scrivere in un angolo «cinque cents, prego», per coprire il costo della carta. E poi la gente compra e legge veramente. Io stavo curiosando, quando vidi un libro. Il titolo mi colpì, davvero. Ce n'erano soltanto cinquecento copie, e più tardi spiegherò perché. Il titolo del libro era: Io non sono un sacrilegio né un privilegio. Forse non sono competente o eccellente, ma sono presente. Per me fu come uno schiaffo. E pensai... bene, buon per te! Aprii il libro e vidi che era stato scritto da una giovane donna che si firmava Michelle. Era l'autrice dei disegni e delle poesie. Lo sfogliai come al solito, saltando la prefazione e buttandomi nel cuore dell'opera. Trovai una poesia che attirò la mia attenzione e la lessi! Ecco cosa diceva: La mia felicità sono io, non tu. Non soltanto perché tu puoi essere fugace, Ma anche perché tu vuoi che io sia ciò che non sono. 29

Consideratelo dal punto di vista dell'educatore. Io non posso essere felice quando cambio Soltanto per soddisfare il tuo egoismo. E non posso sentirmi felice quando mi critichi perché Non penso i tuoi pensieri, E non vedo come vedi tu. Mi chiami ribelle. Eppure ogni volta che ho respinto le tue convinzioni Tu ti sei ribellato alle mie. Io non cerco di plasmare la tua mente. So che ti sforzi di essere te stesso. E non posso permettere che tu mi dica cosa devo essere... Perché sono impegnata a essere me.

Ora ascoltate questo: Tu dicevi che ero trasparente E facile da dimenticare. Ma allora perché cercavi di usare la mia vita Per provare a te stesso chi sei tu?

Pensateci come insegnanti. Pensateci come individui ricchi d'amore. Pensateci come cittadini, come padri e madri. Vale per tutti. «Tu dicevi che ero trasparente e facile da dimenticare. Ma allora perché cercavi di usare la mia vita per provare a te stesso chi sei tu?» Allora tornai indietro per scoprire chi era Michelle. E nell'introduzione trovai queste parole: Michelle! Sei stata con noi così poco tempo prima di scegliere quella spiaggia avvolta nella nebbia per continuare la tua strada. Era il giugno 1967 e tu avevi solo vent'anni. Michelle ci ha lasciato venticinque poesie. Per lei era troppo difficile essere «solo se stessa». Ci auguriamo che queste poesie siano presentate come tu vorresti, Michelle. Tu sei presente, ti amiamo, abbiamo bisogno di te, e promettiamo che ricorderemo, fino a quando ci incontreremo ancora... San Francisco, luglio 1969.

Credo che la seconda cosa importante in un individuo ricco d'amore sia liberarsi dalle etichette. Sapete, l'uomo è un essere incredibile, veramente incredibile. Fa cose meravigliose. Ha una meravigliosa mente creativa. Ha creato il tempo ma poi si è lasciato dominare dal tempo. Io devo 30

tenere continuamente d'occhio l'orologio perché a una certa ora sarà pronto il caffè e a una certa ora voi entrerete qui e a una certa ora dovremo andare a pranzo. Sono le dodici e voi non avete fame, ma mangiate perché sono le dodici. E siete seduti in classe - nelle scuole elementari o nelle secondarie -, apprezzate una lezione e sentite che sta succedendo qualcosa di meraviglioso. Poi suona la campanella e tutti scappano via. «Sono le sette. Mi dispiace, devo andare.» Se una madre seduta nel vostro ufficio piange e si dispera, ma fuori c'è qualcun altro che aspetta di parlarvi, allora dite alla madre: «Mi dispiace, ma devo interromperla. Ci rivedremo domani alle otto e quattro minuti». Noi abbiamo le classi governate da questo sistema... l'educazione regolata dall'orologio. Dalle nove alle nove e cinque abbiamo «Mostra e dimostra»; dalle nove e cinque alle nove e trenta avremo il «Gruppo di Lettura Numero Uno». Dalle nove e trenta alle nove e quarantacinque avremo il «Gruppo di Lettura Numero Due». E il «Gruppo di Lettura Numero Uno» può essere sinceramente affascinante, ma l'insegnante dice: «Oh, santo cielo, è passata la mezza. Bene. Ora il Gruppo di Lettura Numero Due». Nessuno impara secondo l'orologio. Nessuno impara a blocchi. Questa non è l'ora dell'aritmetica. Questa non è l'ora dell'ortografia. Voi imparate tutto insieme. Ma continuiamo così. Ora dovete rivolgere la vostra attenzione all'ortografia e poi passare al «Movimento verso l'Ovest». Avanti il «Movimento verso l'Ovest»! Creiamo il tempo, e poi ne diventiamo schiavi. Creiamo anche le parole, e le parole dovrebbero liberarci, dovrebbero permetterci di comunicare. Ma le parole diventano scatole e sacchi nei quali restiamo intrappolati. È stato meraviglioso sentire Buckminster Fuller affermare: «Ero così prigioniero delle parole che altri mi avevano insegnato, che me ne andai in un ghetto di Chicago per due anni, lontano dalla mia famiglia e dagli amici, per liberarmi la mente dalle parole e per trovare altre parole che andavano bene per 31

me. Così, quando le pronunciavo, sapevo che erano mie e non di un altro». È un'affermazione fantastica. E ora lui venera le parole, ma noi ne siamo intrappolati. Quando Timothy Leary stava svolgendo la sua opera a Harvard nel campo della psicolinguistica, fece un'affermazione che non dimenticherò mai. Disse: «Le parole sono il surgelato della realtà». Noi insegnamo ai bambini il significato delle parole prima che possano veramente comprenderle e ribellarsi. E nelle parole noi insegnamo la paura, insegnamo il pregiudizio, insegnamo ogni genere di cose. Tutto ciò che qualcuno deve fare - a proposito delle parole intese come fenomeno di distanziazione - è darvi una gomitata e dirvi: «Attento a quel Buscaglia, perché è nella lista; è comunista». Ecco, e sarebbe fatta. Tutto ciò che potrei dire sarebbe filtrato attraverso la parola comunismo. Eppure, un'università orientale condusse uno studio negli Stati Uniti su ciò che significa comunismo. Gli incaricati se ne andarono in giro chiedendo alla gente comune: «Come definirebbe il comunismo?». Certuni si spaventarono a morte. Dovreste leggere quello studio... è divertentissimo. Una donna rispose: «Ecco, non so che cosa significa, ma è meglio che a Washington non ci sia». Ecco una buona definizione del comunismo. Erano tutte più o meno di questo calibro. Basta che siate comunisti e vi cacceranno dalla città. E non sapete neppure che cosa significhi. Succede la medesima cosa con le parole «Negro», «Messicano», «Protestanti», «Cattolici», «Ebrei». Basta un'etichetta e si crede di sapere tutto su quegli individui. Nessuno si prende mai il disturbo di chiedersi: «Piange? Prova qualcosa? Capisce? Ha speranze? Ama i suoi figli?». Parole. Se siete individui ricchi d'amore, dominerete le parole e non permetterete che siano le parole a dominare voi. Direte a voi stessi ciò che significa questa parola solo dopo aver scoperto il significato per mezzo dell'esperienza; e non già credendo a ciò che gli altri vi hanno detto. 32

Da piccolo ebbi un'esperienza molto interessante. Sono nato a Los Angeles da genitori immigrali, ovviamente italiani; vivevamo in città, nel ghetto con tutti gli altri italiani. Era quasi bello. Quando avevo un anno, i miei genitori fecero ritorno in Italia e mi portarono con loro. Tornarono nella loro piccola città d'origine, ai piedi delle Alpi, Aosta. Ci sono molti treni che passano da Aosta, diretti a Milano e Torino, ma non si fermano. Se ne ferma uno soltanto. Ricordo che da bambini andavamo alla stazione e guardavamo i treni che passavano sfrecciando. Tutti, in quella piccola città, si conoscevano. Il vino era un importante argomento di conversazione, e così tutti erano sempre sbronzi. Era bellissimo. La cosa più fantastica era che tutti si prendevano a cuore i fatti degli altri. Quale comunanza: se Maria era malata, in città tutti lo sapevano; le portavano polli e meloni e curavano i suoi figlioletti, perché era una comunità di esseri umani. Poi, quando avevo cinque anni, i miei genitori decisero di tornare a Los Angeles. Tornarono. E poi parlano di shock culturale! Mi trovai scaricato all'improvviso in una città dove a nessuno importava che io fossi vivo o morto. Una cosa interessante, a proposito delle etichette, è che a quel tempo la mafia era scatenata e tutti gli italiani erano considerati mafiosi. Mi chiamavano «dago» o «wop». Sapete, gli altri bambini mi dicevano: «Vattene, lurido "wop"». Ricordo che andai da mio padre e gli chiesi: «Papà, che cos'è un "wop"? Che cos'è un "dago"?». E lui mi disse: «Non badarci, Felice. Non prendertela. Sono nomi che usa la gente. La gente ti chiama così, ma non vuol dire niente». Ma io me la prendevo, perché era un modo per tenere le distanze, e quelli non imparavano mai nulla su di me chiamandomi «wop» o «dago». Non sapevano, per esempio, che nel «vecchio paese» mia madre era una cantante d'opera e mio padre era cameriere. La nostra era una famiglia molto numerosa, quanto bastava per coprire tutti i ruoli di un'opera. Mia madre sedeva al piano e suonava opere intere, e 33

ognuno di noi aveva una parte. Cantavamo tutti ed era bellissimo. Prima di arrivare agli otto anni, conoscevo cinque opere ed ero in grado di sostenere tutti i ruoli. Ma questo loro non lo sapevano, non lo avrebbero mai saputo chiamandomi «dago» o «wop». E non sapevano, per esempio, che per mia madre l'aglio era la panacea per tutti i mali. Ogni mattina ci faceva mettere in fila, strofinava uno spicchio d'aglio su una pezzuola e ce la legava intorno al collo. Noi le dicevamo: «No, mamma». E lei diceva: «Zitti». (Era una donna molto affettuosa.) Ci mandava a scuola con l'aglio al collo e puzzavamo tremendamente. Ma voglio rivelarvi un segreto: non mi ammalavo mai. La mia teoria è che nessuno si avvicinava mai abbastanza per trasmettermi i germi. Ricordo che al termine delle elementari ebbi un premio perché non ero mai mancato neppure un giorno. Adesso sono molto più sofisticato e non porto l'aglio e ogni anno prendo il raffreddore. Questo loro non lo sapevano quando mi chiamavano «wop» o «dago». Non sapevano neppure che papà era un grande patriarca. La domenica, quando era a casa, ci sedevamo intorno a un grande tavolo e lui non ci permetteva di alzarci se prima non gli avevamo detto qualcosa di nuovo che avevamo imparato quel giorno. Così, quando ci lavavamo le mani prima di metterci a tavola, io chiedevo alle mie sorelle: «Che cosa avete imparato oggi?». E loro dicevano: «Niente». E io dicevo: «Bene, sarà meglio che impariamo qualcosa!». Allora andavamo a prendere l'enciclopedia e la sfogliavamo, e imparavamo, per esempio, che il Nepal ha un milione di abitanti, e continuavamo a pensarci mentre stavamo mangiando. E i pasti! In vita sua mia madre non ha mai preparato uno «spuntino da televisione». Ricordo certi mucchi di fagiolini così alti che non riuscivo a vedere mia sorella, seduta di fronte a me. Quando avevamo finito di mangiare, papà scostava il piatto e chiedeva: «Felice, che cos'hai imparato oggi?» e io dicevo: «Il Nepal ha un milione di abitan34

ti...». Non c'era mai niente di insignificante per quell'uomo! Si rivolgeva a mia madre e diceva: «Mamma, lo sapevi...». Noi li guardavamo e dicevamo: «Che matti!». E chiedevamo ai nostri amici: «Anche voi dovete parlare del Nepal ai vostri genitori?». E loro rispondevano: «Ai nostri genitori non interessa che sappiamo qualcosa o no». Ma voglio confidarvi un segreto. Anche adesso, quando Felice va a letto, e magari quel giorno ha lavorato ventinove ore ed è esausto, s'infila tra le lenzuola, ma in quel momento meraviglioso prima di addormentarsi, si domanda: «Felice, che cos'hai imparato oggi?». E se non so rispondere, devo alzarmi e prendere l'enciclopedia e sfogliarla e cercare d'imparare qualcosa di nuovo. Forse il senso dell'educazione è questo. Chissà? Ma loro non lo sapevano chiamandomi «dago» e «wop». Se volete conoscermi, dovete entrare nella mia testa, e se io voglio conoscere voi, non posso dire: «Quella è magra. Quella è grassa. Quella è ebrea. Quella è cattolica». È ben di più. E quelli di noi che si interessano dell'educazione speciale conoscono bene queste maledette etichette. Noi chiamiamo certi bambini «ritardati mentali». Questo che cosa ci dice? Io non ho mai visto un bambino ritardato mentale. Ho visto soltanto bambini, tutti diversi. Li chiamiamo studenti e perciò pensiamo di poterci presentare in una classe e insegnare a tutti nello stesso modo. Etichette. L'individuo ricco d'amore si libera dalle etichette. Dice: «Basta». Inoltre, io penso che questo individuo ricco d'amore detesti gli sprechi e non sopporti nessuna ipocrisia. Rosten dice: «I crudeli sono i deboli. La bontà possiamo aspettarcela solo dai forti». È vero. Nel campo dell'educazione abbiamo bisogno di gente forte, pronta a levarsi e a dire: «Questa è un'ipocrisia e non vogliamo più saperne». Gente disposta a farsi avanti e a dichiarare: «No, dobbiamo cambiare, o ci distruggeremo». È come avanzare nella fine del mondo. Insegnamo per l'oggi e siamo già nel domani. Non 35

è sorprendente che partecipiamo all'autodistruzione. Voglio raccontarvi un piccolo episodio a proposito dell'ipocrisia. Una volta, quando preparavo futuri insegnanti, lavoravo con una giovane donna che era non soltanto un'insegnante, ma anche l'essere umano più straordinario che avessi mai visto, così entusiasta all'idea di presentarsi in una classe che non vedeva l'ora di incominciare. Finalmente ebbe la sua classe, e quel giorno per lei fu un sogno, come lo fu per tutti noi. Entrò nella sua classe, in prima, e sfogliò quella cosa straordinaria che si chiama Guida al programma. Sapete che per me i libri sono sacri, ma non esiterei un attimo a fare un grande falò di tutte le Guide al programma di questo mondo. Comunque, lei guardò la Guida e vide che in prima classe, in quel distretto scolastico della California (l'episodio è avvenuto appena un paio d'anni fa), s'insegna... «il negozio». Il n-e-g-o-z-i-o. Lei disse: «È impossibile. Non ci credo. Non posso credere che insegnino il negozio». Quei bambini c'erano cresciuti, nei negozi, ci venivano portati in giro sui carrelli, quando avevano due o tre anni. Facevano rotolare per terra le scatolette della Campbell, facevano le cose più pazze, nei negozi. Ci andavano tutti i giorni con la mamma. E il grande evento era la spedizione al supermercato. Bene, questa ragazza disse: «È impossibile». Ma era scritto, nero su bianco. Diceva che potevi fare tante cose. Fai un negozio e fai tante piccole banane di creta. I bambini avevano mangiato banane vere per tutta la loro vita ed erano scivolati sulle bucce di banana, ma bisognava passare sei settimane a fabbricare banane di creta. Uno spreco di potenziale umano. Comunque, dato che era una buona insegnante, si schierò con i suoi scolari e disse: «Bambini, vi piacerebbe studiare il negozio?». E i bambini risposero: «Che barba». Sapete, i bambini di oggi non sono stupidi come lo eravamo noi. McLuhan ha dimostrato che, in media, i bambini assistono a cinquemila ore di trasmissioni televisive prima di 36

arrivare all'asilo. Hanno visto la gente morire in technicolor. Hanno visto catastrofi. Hanno visto guerre e massacri. E poi li portiamo a scuola e cerchiamo di interessarli e motivarli leggendo frasi come questa: «Spot disse: "Oh, oh"». Allora questa insegnante disse una cosa molto bella. Disse: «D'accordo, che cosa vi piacerebbe fare?». E un bambino disse: «Oh, mio padre lavora per la Jet Propulsion e potrebbe portarci un razzo e lo metteremmo in classe e lo faremmo funzionare e andremmo tutti sulla Luna». E i bambini dissero: «Magnifico!». L'insegnante ci pensò un momento e disse: «Bene, di' al tuo papà di portarlo». E il giorno dopo il padre del bambino portò una nave spaziale in miniatura e la montò. Spiegò come funzionava, cosa stavano cercando di realizzare, che cos'erano le varie parti. E scrisse la nomenclatura sulla lavagna. In prima classe! Le navi spaziali non si devono studiare prima di arrivare all'università. Che cosa diavolo studierebbero gli studenti all'università, se l'avessero già fatto in prima elementare? Non possiamo permetterlo. È tremendo. Devono andare tutti al supermercato. Ma avreste dovuto vederli, quei bambini. Imparavano concetti matematici che non credereste. Un sabato andarono alla Jet Propulsion e videro le navi spaziali vere. Le loro menti deviavano dalla norma. Mi fanno tanta pena anche gli ispettori che devono difendere la Guida al programma perché è il loro compito, poverini. Vorrebbero fare qualcosa di meglio, ma ecco qui: il vostro dovere è insegnare questa roba, quindi si portano dietro il libro e si regolano di conseguenza. Dunque, l'ispettrice entrò in aula e si guardò intorno. C'era una nave spaziale, cose mai viste appese alle pareti, una nomenclatura piena di parole delle quali lei non conosceva neppure la metà, formule sui muri, tutte cose strane che i bambini capivano ed erano felicissimi di fare. L'ispettrice chiese alla signora W.: «Dov'è il vostro negozio?». E la signora W. rispose: «Ecco, vede, i bambini volevano andare sulla Luna, 37

e così abbiamo preparato una...». L'ispettrice disse: «Signora W., ha letto la Guida al programmai Dice che in questo distretto scolastico si deve studiare il negozio». Poi sorrise, perché era un'anima gentile, e aggiunse: «Ne preparerà uno, vero, cara?». Così la signora W. disse ai bambini: «Volete che la signora W. sia qui con voi anche l'anno prossimo?». «Oh, sì» risposero. «Bene, allora dobbiamo avere un negozio.» E i bambini furono meravigliosi (come sempre, quando si è esseri umani). Dissero: «Benissimo. Ma facciamolo in fretta». E in due giorni realizzarono il lavoro di sei settimane! Misero insieme quelle maledette scatole e fecero le banane di creta e poi, con estrema ipocrisia, ogni volta che veniva l'ispettrice, andavano al registratore di cassa e domandavano: «Vuol comprare qualche banana di creta?». Poi, dopo che lei se ne era andata tutta contenta, riprendevano a volare fino alla Luna. Non possiamo permettere che si continui così. È necessario che qualche insegnante si faccia avanti e dica: «Io non li porterò più in un negozio. Se vuole, ce li porti lei». Io penso inoltre che un individuo ricco d'amore sia spontaneo. La cosa che più vorrei a questo mondo è vedervi ritornare alla spontaneità iniziale, la spontaneità di un bambino che diceva ciò che provava e pensava e si adattava facilmente a ciò che pensavano e sentivano gli altri. Ritornare a guardarsi l'un l'altro, veramente. Siamo dominati a tal punto da quello che gli altri ci dicono che dobbiamo essere, da aver dimenticato chi siamo. Emily Post ci dice: «Una signorina per bene non ride fragorosamente, si limita a risolini composti». Bene, se volete ridere e buttarvi per terra e prendere a pugni il tappeto, fatelo: va benissimo. «Non arrabbiatevi; gli esseri umani non si arrabbiano.» Tenetevi tutto dentro e finirete in una clinica per malattie mentali! È molto meglio andare a tener lezione se non vi sentite bene, e piuttosto che passare tutta la giornata 38

con il collo dolorante e gli occhi che schizzano dalle orbite, dire francamente e subito: «Sentite, bambini, oggi state tranquilli perché il vostro insegnante non si sente bene». Se lo farete, scoprirete che i bambini lo capiscono, e che staranno buoni e silenziosi perché sono capaci di identificarsi con un essere umano. E se qualcuno fa chiasso, gli daranno una gomitata e gli diranno: «Piantala. L'insegnante non sta bene». Ma l'insegnante deve rivelarsi come essere umano. Se vi va di ridere della battuta di un bambino, ridete. Mi stupisco sempre quando vado in una scuola e gli insegnanti muoiono dal ridere, in sala insegnanti, per qualcosa che ha detto Johnny. Ma non si sono fatti vedere ridere da Johnny. Hanno detto: «Johnny, basta!». Perché non potevano ridere davanti a lui? È strano. «Johnny, sei un pagliaccio. Siedi e stai zitto.» Perché non potete essere voi stessi? Siate spontanei. Dobbiamo chiedere permesso per tutto, perché non possiamo più fidarci dei nostri sentimenti. Mi diverto sempre, quando devo parlare a gruppi ufficiali. Prima di entrare, so già come andranno le cose. Io ho la mania di toccare la gente. È spontaneità, sapete. Ci credo. Quando tocchi qualcuno, capisci chi è. Il movimento esistenzialista raggiunse il culmine quando affermò: «Per diventare te stesso, devi uccidere qualcuno o ucciderti, perché allora sai che esistevi». Se potevi buttarti dall'alto di un palazzo, voleva dire che avevi vissuto. Perché siamo così alienati che nessuno ti guarda, nessuno ti tocca, nessuno ti riconosce nell'ambiente. Sei l'uomo invisibile. Non è necessario arrivare a tanto. Basta toccare qualcuno. Fa bene. Sapete, in Europa tutti si baciano e si abbracciano. Nella mia famiglia, per Natale e in tutte le feste, tutti quanti si baciano appena arrivano. È la prima cosa che fanno, dal bambino piccolo al nonno. Ci scambiamo i microbi ed è bellissimo. Ma Emily Post ci ha insegnato che una signora porge la mano a un signore solo se lo desidera. Fenomeni di distanziazione! Se volete vedere fino a che punto siamo alienati, guardate 39

quando si apre la porta di un ascensore. Stanno tutti lì come zombi, con gli occhi fissi nel vuoto, le mani lungo i fianchi. «Non azzardarti ad allungare una mano da questa parte perché potresti toccare qualcuno.» Il cielo non voglia! Quindi stiamo tutti sull'attenti, la porta si apre, e uno esce, uno entra e immediatamente si gira e guarda in avanti. Chi vi ha detto di girarvi e guardare avanti? A me piace entrare in un ascensore e voltare le spalle alla porta! Guardo tutti e dico: «Salve! Non sarebbe magnifico se l'ascensore si bloccasse e potessimo conoscerci meglio?». E allora succede una cosa incredibile: appena l'ascensore si ferma, escono tutti! «C'è un pazzo in ascensore. Vuole conoscerci!» Tornate a essere umani e apprezzate la condizione umana. Quando diciamo «tu sei umano e io sono umano», ci credono dei pazzi, ma siamo bellissimi. Siamo le creature più belle della terra. Essere umani è bellissimo. Quando parlo a gruppi ufficiali c'è sempre una signora Taldeitali che mi accoglie sulla porta. E dice: «Oh, dottor Buscaglia. Che piacere». È la nostra presentazione, e lei tiene le mani abbandonate lungo i fianchi. Allora io cerco di prenderle la mano. E lei pensa: «Ma che cosa sta facendo? ». Io le prendo la mano, e la tengo nella mia, e la signora, nervosissima, mi conduce in soggiorno dove tutte le altre signore stanno sedute in semicerchio. E sono tutte nella «Posizione Numero Uno»... una gamba accavallata sull'altra, le mani delicatamente incrociate in grembo, e un sorriso sulle labbra. L'hanno imparato, vedete. Sarebbe stato molto meglio se si fossero sdraiate sul pavimento, appoggiate su un gomito. Ma non ho mai visto una cosa simile; se la facessi sarei giudicato un eccentrico. «Posizione Numero Uno.» Per tutti. Che cosa sta succedendo a noi, che cosa sta succedendo alla nostra spontaneità? Se vi sentite felici, ditelo alla gente. Entrate nella vostra classe e dite: «Oggi sono così contento 40

che faremo i matti tutto il giorno». Perché non farlo sapere, ai vostri studenti? Ridete! Piangete! Un'altra cosa: gli uomini non piangono. Chi l'ha detto? Io piango un po' per tutto. I miei studenti sanno sempre che ho letto le loro esercitazioni perché, quando trovo qualcosa che mi commuove, c'è sempre la macchiolina di una lacrima. Mi identifico moltissimo con don Chisciotte della Mancia. Era un tipo straordinario che combatteva contro i mulini a vento. Naturalmente, è impossibile battere un mulino a vento, ma lui non lo sapeva. Caricava il mulino, e il mulino lo mandava ruzzoloni. Ma lui si rialzava e caricava di nuovo e finiva di nuovo ruzzoloni. La mia impressione, quando chiudo quel libro, è che forse don Chisciotte aveva i calli al sedere per i troppi ruzzoloni, ma, caspita, viveva una vita meravigliosa. Sapeva di essere vivo. «Oh, Dio, arrivare in punto di morte per scoprire di non avere mai vissuto.» Questo non era il caso di don Chisciotte. Lui lo sapeva! Quando hanno messo in scena quel bellissimo musical, L'uomo della Mancia, nel finale, quando lui moriva, tutti coloro che aveva amato gli erano intorno e piangevano la sua morte. Lui non piangeva la propria morte, perché aveva vissuto. Poi si alzava, e sul palcoscenico scendeva una grande scala illuminata. Don Chisciotte prendeva la sua lancia, girava gli occhi su tutti quelli che amava, sorrideva e saliva, nella luce. E l'orchestra e il coro attaccavano The Impossible Dream. Io ero lì, tra il pubblico, e le lacrime mi scorrevano sulle guance. Una signora seduta accanto a me ha dato una gomitata al marito e ha detto: «Guarda, caro, quell'uomo piange». E io ho pensato: «Sciocca... Ora ti darò qualcosa da raccontare alle tue amiche». Ho tirato fuori il fazzoletto e ho pianto come un disperato. È rimasta di stucco; forse dimenticherà don Chisciotte, ma non si dimenticherà mai di me! Io penso che l'individuo ricco d'amore debba ritornare alla spontaneità... bisogna toccarci, stringerci, sorriderci, 41

pensare l'uno all'altro, e curarci gli uni degli altri: siamo liberi di fare tutto ciò. Non mi disintegrerò. Starò qui tutto il giorno, se questo può servire a ritornare a noi stessi, e trovarci di nuovo insieme. Gli abbracci fanno bene, sono piacevoli; e se non ci credete, provate. Infine, io penso che l'individuo ricco d'amore non ha dimenticato le proprie esigenze. Potrà sembrarvi un'affermazione sorprendente, ma noi abbiamo delle esigenze. Per la verità, fisicamente, non abbiamo bisogno di molto, anche se siamo convinti del contrario, e passiamo tutto il tempo a soddisfare le nostre esigenze e quelle dei nostri figli. Mangiamo bene, di solito abitiamo in belle case. Provvediamo a tutte queste cose. Se ci sentiamo male andiamo dal medico. Ma le esigenze più importanti sono quelle che riguardano la nostra personalità... il bisogno di farci vedere, di farci conoscere, di ottenere riconoscimenti, di realizzare qualcosa, il bisogno di goderci il nostro mondo, il bisogno di gioire delle meraviglie della vita, il bisogno di assaporare quanto sia meraviglioso essere vivi. Ma abbiamo dimenticato come guardarci l'un l'altro: non ci guardiamo, non ci ascoltiamo, non ci tocchiamo; il cielo ci scampi. E questo vale persino nei riguardi dei nostri figli. Secondo le regole della nostra cultura, quando un bambino ha tre anni lo facciamo scendere dalle nostre ginocchia e diciamo: «Non farlo, è roba da poppanti. Non devi farlo, con tuo padre. Scendi dalle mie ginocchia, come ti permetti di baciare tuo padre quando hai già tre anni? Ormai sei un uomo. Gli uomini non si baciano». Forse questo non lo sapete, ma a Los Angeles è in vigore un'ordinanza municipale che vieta a due uomini di abbracciarsi. Ecco a che cosa siamo arrivati. Forse nei prossimi giorni leggerete sui giornali che mi hanno arrestato perché ho abbracciato qualcuno. Abbraccio sempre il nostro preside: ci resta secco. Nessuno riesce mai neppure a dargli la mano attraverso la sua scrivania, che è troppo larga. Io l'incontro 42

in ascensore, gli dico «Salve, preside» e lo abbraccio. Si può capire come da questa generazione, da questo nostro tempo, si sia sviluppata una filosofia come l'esistenzialismo; e questa è la nostra tremenda alienazione. Io sono reale? Esisto? Nessuno mi guarda. Nessuno mi tocca. Parlo agli altri e loro non mi ascoltano. Guardano oltre la mia spalla per vedere chi altro c'è. Nessuno mi guarda più negli occhi. Sono solo e sto morendo di solitudine. Come dice Schweitzer: «Stiamo tanto insieme eppure stiamo tutti morendo di solitudine». Molti anni fa, Thornton Wilder scrisse una bellissima commedia, Piccola città. E in questa commedia disse una cosa incredibile. Ricordate la scena della morte della piccola Emily? La conducono al cimitero, e le chiedono: «Emily, puoi ritornare a vivere un giorno della tua vita. Quale preferisci?». E lei dice: «Oh, ricordo com'ero felice il giorno del mio dodicesimo compleanno. Vorrei ritornare al mio dodicesimo compleanno». E tutti quelli del cimitero le dicono: «Emily, non farlo. Non farlo, Emily». Ma lei insiste. Vuole rivedere la mamma e il papà. Così cambia la scena, e lei è lì, dodicenne, nel giorno meraviglioso del suo ricordo. Scende le scale, con un bell'abitino e i riccioli ondeggianti. Ma sua madre è così indaffarata a preparare la torta per il compleanno che non ha neppure il tempo di guardarla. Emily dice: «Mamma, guardami, sono io la festeggiata». E la mamma: «Benissimo, signorina festeggiata. Siediti e fai colazione». Emily resta in piedi e dice: «Mamma, guardami». Ma la mamma non la guarda. Entra il papà, ed è così occupato a guadagnare denaro per lei che non l'ha mai guardata; neppure suo fratello la guarda perché è troppo preso dalle sue faccende e non ha tempo. La scena finisce con Emily al centro del palcoscenico. Dice: «Per favore, qualcuno mi guardi. Non ho bisogno della torta né del denaro. Guardatemi, per favore». Ma nessuno l'ascolta. Allora lei si rivolge 43

ancora una volta alla madre: «Per favore, mamma». E poi si volta e dice: «Conducetemi via. Ho dimenticato com'erano le creature umane. Nessuno guarda gli altri. Nessuno se ne cura più, vero?». Siamo arrivati a questo! I vostri figli crescono così in fretta che non li vedete. All'improvviso alzate gli occhi e vedete un adolescente o qualcuno che sta per sposarsi. E voi vi siete lasciati sfuggire la gioia di guardarli in faccia perché eravate troppo indaffarati a lavorare per loro e vi siete perduti questa felicità. Vedete, la nostra è una cultura di realizzatori di mete. Ho una notizia da darvi... la vita non è la meta, è il viaggio. La vita è il viaggio; la vita è il procedimento; la vita è arrivare a destinazione. Bene, ci siete arrivati e che cosa avete ottenuto? La gente vi guarda con rispetto. Avete una Cadillac. Una Cadillac è una compagnia molto fredda... Le portiere e il volante si mettono di mezzo. Abbiamo dimenticato che cosa sia guardarsi l'un l'altro, toccarsi, avere una vera vita di relazione, curarsi l'uno dell'altro. Non sorprende se stiamo tutti morendo di solitudine. Io approfitto sempre di quei pochi minuti di «Mostra e Dimostra». Questa lezione dovrebbe offrire i più bei momenti di contatto con i bambini, ma viene sempre sciupata. L'insegnante deve compilare l'elenco delle assenze perché il preside vuole che sia consegnato per le nove e un quarto e quella è l'ora che ha destinato a «Mostra e Dimostra». Arriva la piccola Sally con un sasso e dice: «Ho trovato il sasso mentre venivo a scuola». L'insegnante dice: «Benissimo. Mettilo sul tavolo delle scienze». Ma potremmo prendere il sasso e guardarlo e potremmo dire: «Che cos'è un sasso? Sally, da dove viene un sasso? Chi ha fatto il sasso?». E potremmo lasciare da parte tutto il resto, per quel giorno, e tutto si impernierebbe su quel sasso perché tutte le cose che esistono, esistono in tutte le cose. Non avete bisogno di creare filastrocche artificiose. È tutto lì, non là fuori. È tutto lì. 44

Tutto ciò che c'è da sapere è in un albero. Tutto ciò che c'è da sapere è in un essere umano. Un bambino si presenta in classe e dice: «Ieri il mio papà ha colpito la mia mamma con un martello, hanno chiamato un'ambulanza e l'hanno portata via; adesso è all'ospedale». E l'insegnante dice: «Benissimo. Sentiamo un altro». È ora d'imparare a vedere i bambini e, sapete, non ci vuole molto. Basta che abbassiate gli occhi e diciate: «Sì» oppure «Che bel vestitino». La piccola Sally indosserà quel vestito tutti i giorni per il resto dell'anno, perché voi l'avete visto. Ellis Page fece uno straordinario studio sull'affetto, nel quale prese la sua classe e la divise in tre gruppi: A, B e C. Su tutti i temi e le ricerche del gruppo A mise soltanto il voto. Ricordate quando scrivevate quei temi meravigliosi nei quali avevate messo qualcosa di voi, e poi scoprivate che c'era il voto, il voto e basta? Un 10, un 8 o un 7, o un 6 o un 4? Non aveva importanza. Allora cercavate se c'era una macchiolina lasciata dagli spaghetti o da una goccia di caffè, per assicurarvi che lui l'avesse veramente letto. A quelli del gruppo B, diede il voto e aggiunse una parola, per esempio: buono, ottimo, eccellente, ben fatto. A ciascuno del gruppo C scrisse una lettera che diceva per esempio: «Caro Johnny, la tua sintassi è atroce. La tua grammatica è incredibile. La tua ortografia è inesistente. E la tua punteggiatura sembra quella di James Joyce. Ma vedi, ieri sera a letto, parlando con mia moglie, ho detto: "Sally, in questo tema Johnny ha esposto idee bellissime. E cercherò di aiutarlo a svilupparle". Sinceramente, il tuo insegnante». E se qualcuno faceva qualcosa di veramente bello, scriveva: «Grazie. Tu sconvolgi di continuo la mia mente. È un ottimo tema, con molte buone idee. Continua. Non vedo l'ora di scoprire che cosa hai ancora da dire». Poi fece uno studio statistico. Quelli del gruppo A rimanevano stazionari, e così pure quelli del gruppo B. Quelli del gruppo C progredivano. Prendete lo studio Pygmalion in the Classroom. È un altro 45

tascabile. Tutti gli educatori dovrebbero leggerlo. A proposito delle aspettative! Arrivarono certi signori di Harvard e dissero a tutti gli insegnanti: «Ora andremo nelle vostre classi e faremo un test» (non sono le parole esatte, è soltanto il senso) «che si chiama "Test dei progressi intellettuali di Harvard". Lo scopo del test è quello di valutare quali bambini sono destinati a progredire intellettualmente durante l'anno. Il test li individuerà; non sbaglia mai. Vi diremo i risultati». Poi sottoposero i bambini a vecchi, antiquati test del Quoziente d'Intelligenza. Appena ebbero finito, buttarono i risultati nel bidone della spazzatura. Poi pescarono a caso cinque nomi dai registri e fecero vari colloqui. Dissero a un insegnante: «Ecco i bambini che progrediranno in questo semestre: Juanita Rodriguez». «Juanita Rodriguez non progredirebbe neppure se le sparaste con un cannone» disse l'insegnante. «Eppure, il Test dei progressi intellettuali di Harvard non sbaglia mai» dissero i nostri soloni. E sapete come andò a finire? Tutti quelli che avevano segnato nel loro elenco fecero faville. Ciò dimostra che otterrete ciò che vi aspettate. Se entrerete in una classe e direte: «Questi ragazzini sono stupidi», essi non impareranno mai niente. Entrate e dite tra voi: «Questi bambini vogliono e possono imparare; è compito mio accompagnarli a quella tavola apparecchiata e mostrar loro che è fantastica». Tutti noi abbiamo bisogno di successo e di stima. Dobbiamo essere in grado di fare qualcosa e la cosa più grande è la gioia del proprio lavoro. È molto triste fare un lavoro senza amarlo, soprattutto nella nostra professione. Se ogni mattina non vi esalta il pensiero di entrare in quell'aula con tutti quei bambini dagli occhi lucenti che aspettano il vostro aiuto per arrivare a quella tavola... allora abbandonate in fretta l'insegnamento! Fate qualche altro lavoro, nel quale non entrerete in contatto con i bambini e non potrete distruggerli in tenera età. Ci sono tante altre cose che potete fare... ma lasciate stare i bambini. Tutti noi abbiamo bisogno che il nostro lavoro venga rico46

nosciuto. Abbiamo bisogno che ogni tanto qualcuno ci dica: «Sei magnifico, ragazzo mio. Ben fatto. Molto bene». E non dimenticatelo: se ne abbiamo bisogno noi, ne hanno bisogno anche i nostri allievi. Sarebbe ora di smetterla con questa storia dei «ventisette» errori. Errore. Errore. Errore. Errore. Errore. Restituire i compiti con tutti i segni di «errore». Non sarebbe meglio segnare le cose che vanno bene? «Hai messo due cose che vanno bene, Johnny. Bravo!» Non sarebbe meglio far sapere agli allievi che possono far bene qualcosa, e partire da lì? È altrettanto semplice dare risalto a quello che va bene, e vi affatichereste meno il polso. Tutti noi abbiamo anche bisogno di libertà. Una delle cose che ci dice Thoreau è questa: «Gli uccelli non cantano mai nelle caverne». E neppure noi. Per imparare, dovete essere liberi. Dovete essere liberi di fare esperimenti e tentativi, liberi di sbagliare. È così che si impara. Posso capire i vostri errori, e dai miei traggo un grande profitto. Il segreto è non commettere lo stesso errore due volte. Ma ho bisogno d'essere libero di fare esperimenti e di tentare. Datemi questa possibilità. Datemi la libertà di essere, di essere me stesso e di trovare la gioia nel bisogno. Non datemi le vostre difficoltà! Lasciate che scopra le mie e le superi! Vorrei concludere citando un brano di Leo Rosten che, a modo suo, esprime tutto: ...in un certo modo limitato e segreto, ognuno di noi è un po' matto... Ognuno, in fondo, si sente solo e invoca d'essere compreso; ma non possiamo mai comprendere interamente un altro, e ciascuno di noi rimane parzialmente estraneo anche a coloro che lo amano... Sono crudeli i deboli; la bontà possiamo aspettarcela soltanto dai forti... Coloro che non conoscono la paura non sono veramente coraggiosi, perché il coraggio è la capacità di affrontare ciò che si può immaginare... Capirete meglio gli altri se li guardate - per quanto possano essere vecchi e imponenti - come se fossero bambini. Perché molti di noi non maturano mai; diventano semplicemente più alti... La felicità arriva soltanto quando spingiamo le nostre menti e i nostri cuori ai limiti estremi delle nostre capacità... Lo scopo della vita è contare... rappresentare qualcosa, far sì che il fatto che abbiamo vissuto comporti qualche differenza.

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Diventate voi stessi

Questa sera vi parlerò di alcune delle mie idee sui compiti del consulente, e potremmo intitolare questa conversazione «Diventate voi stessi». Uno dei miei grandi motivi di frustrazione è che una volta, quando il gruppo era poco numeroso, potevo stare vicino a voi, potevamo comunicarci le idee, e io potevo avere da voi un certo feedback. Ho chiesto un'illuminazione un po' forte perché voglio vedervi negli occhi! Ora che siete così numerosi, devo affidarmi alle vostre vibrazioni... quindi abbiate la gentilezza di fremere un pochino, ogni tanto. E adesso, «diventiamo». Il modo in cui io vedo il compito del consulente si può brevemente riassumere in una semplice affermazione. Non so quanti di voi abbiano letto il libro di Saint-Exupéry intitolato Vento, sabbia e stelle. Se non l'avete letto, posso suggerirvelo con tutto il cuore? È bellissimo, e diventa sempre più fantastico con il passare degli anni. In Vento, sabbia e stelle c'è un capitolo in cui, senza definirlo, Saint-Exupéry parla dell'amore come nessuno ne aveva mai parlato... in termini semplici, infantili. Dice: «Forse l'amore è il processo con il quale ti riconduco dolcemente a te stesso». Ho sempre esitato a definire l'amore perché io lo vedo come qualcosa di sconfinato, e via via che voi diventate più grandi e più belli 49

spiritualmente e più espansivi, lo diventa anche l'amore. Quindi non mi sembra giusto circoscriverlo in una definizione. Ma la definizione di Saint-Exupéry mi piace; credo che l'insegnamento sia questo, e certamente questo è il compito del consulente... un processo nel quale io non voglio trasformarti a mia immagine, come desidererei, ma voglio ricondurti a te stesso, a ciò che sei, alla tua unicità, alla tua bellezza originaria. Moltissimi cercano di farci diventare ciò che vogliono; dopo un po' ci arrendiamo e concludiamo che forse è questo ciò che viene chiamato «adattamento». Il cielo non voglia! Qualche volta, qualcuno si ribella e dice: «No! Non voglio diventare quello che vuoi tu. Io sono cosi e cosi resterò. Io voglio diventare ciò che sono». A volte mi domando: per quanto ci ribelliamo, siamo veramente ciò che siamo, o siamo soltanto ciò che ci dicono che siamo? Come insegnanti e psicologi, sappiamo che a essere umani s'impara... ma chi sono i nostri maestri? I nostri primi maestri sono i nostri genitori, i nostri familiari. Se non siamo più bambini, non possiamo dare la colpa ai genitori e ai familiari, perché genitori e familiari sono soltanto esseri umani come tutti gli altri. Hanno i loro problemi, le loro fragilità. Hanno la loro forza e le loro debolezze. Ci hanno insegnato soltanto ciò che sanno. Voi sarete finalmente adulti quando potrete rivolgervi all'uomo che è vostro padre o alla donna che è vostra madre e dire: «Sai, nonostante tutti i tuoi difetti, ti voglio bene». Una volta, dopo una lezione sull'amore, un padre venne da me e mi disse: «Devo parlarle». Mi condusse fuori, nel parcheggio, mi abbracciò e si mise a piangere. E disse: «L'altro giorno mio figlio, dopo ventun anni, mi ha detto: "Sai, papà, ti voglio veramente bene" e so che lo pensava davvero. Sapevo che quel sentimento c'era; ma lei gli ha insegnato a esprimerlo». Quindi non possiamo avere più rimpianti perché questo non ci è stato insegnato, o perché forse non ci è 50

stato sempre insegnato in modo adeguato. Possiamo sempre imparare! Io attribuisco molta importanza al cambiamento. Come insegnanti, dobbiamo credere nel cambiamento, dobbiamo sapere che è possibile, altrimenti non insegneremmo... perché l'educazione è un processo continuo di cambiamento. Ogni volta che «insegnate» qualcosa a qualcuno, viene assimilato e utilizzato, e ne emerge un essere umano nuovo. Non riesco a comprendere perché la gente non smani dal desiderio di imparare, perché imparare non sia la più grande avventura del mondo... dato che significa divenire. Ogni volta che impariamo qualcosa di nuovo, noi stessi diventiamo qualcosa di nuovo. Questa sera io sono diverso perché sono qui. Sono sbalordito dall'ospitalità texana, e non sto facendo complimenti perché non è nelle mie abitudini. Questo pomeriggio stavo riscrivendo il testo di questa conversazione. Avevo buttato la prima stesura nel cestino e avevo ricominciato daccapo, apposta per voi, perché la prima stesura non andava bene. Intanto, il telefono continuava a squillare; era gente che diceva: «Stasera ci troveremo tutti insieme... venga con noi». «Siamo qui, nel tal posto... perché non viene a trovarci? Ci piacerebbe parlare con lei.» E i bigliettini passati sotto la porta. È fantastico! Esseri umani in rapporto con altri esseri umani: questo è ciò che conta. Perciò sono cambiato. Non sono più la persona che è arrivata questa mattina. Sono qualcosa di nuovo, perché con voi ho fatto l'esperienza di qualcosa di nuovo. Ecco perché imparare è tanto esaltante, perché non dovrebbe essere una noia. Ogni libro vi conduce a nuovi libri. Ogni volta che ascoltate un brano di musica, vi introduce a diecimila nuovi brani... ascoltate una Sonata di Beethoven e siete perduti! Leggete un libro di poesie, lo leggete veramente, e siete perduti! E ci sono migliaia di cose da leggere, da vedere, da fare, da toccare, da sentire. E ognuna di esse fa di voi un essere 51

umano diverso. Quindi, siete veramente ciò che siete oppure siete ciò che state imparando e ciò che gli altri vi hanno detto che siete? L'affermazione di Saint-Exupéry, l'idea di ricondurvi a voi stessi, è bellissima; ma per lasciarvi ricondurre a voi stessi dovete decidere, in una certa misura, che cosa vi piacerebbe diventare. Vi prometto che, se vi dedicherete alla scoperta di ciò che siete, sarà il viaggio più esaltante che abbiate mai fatto in vita vostra. Non siete tanto cattivi. Non siete malvagi. Siete buoni. Pensate alla conversazione di questa mattina... che cosa ho detto di nuovo? Avanti, siate sinceri. Non ho detto nulla di nuovo. Ho semplicemente suggerito ciò che era già dentro di voi, e in questo caso la reazione è che la gente si apre e dice: «È vero. Perché l'ho tenuto chiuso dentro di me? Ora andrò ad abbracciarli». Tutto qui. È la liberazione di qualcosa che c'è già. La conferma che per voi è giusto essere voi stessi. È dare a voi stessi il permesso di essere e di progredire. Non è incredibile che dobbiamo aspettare che qualcuno ci dica che è giusto essere se stessi? Sappiamo che con le parole possiamo dire ai bambini che cosa sono e chi sono. Wendell Johnson ha osservato che con le parole possiamo trasformare i bambini in balbuzienti. Per esempio quando un bambino corre in casa, eccitatissimo e dice: «Oh, m-m-mamma, fuori c'è il g-g-gelataio». La madre lo interrompe e gli dice: «Ora smetti e ripeti lentamente... stai balbettando». Se il bambino se lo sente ripetere per un certo numero di volte, finisce col credere di balbettare veramente, e ben presto interiorizza la balbuzie e dice: «Sono balbuziente». Abbiamo creato un balbuziente. Possiamo fare la stessa cosa ripetendo continuamente a qualcuno: «Sei bello, sei bello, sei bello». Se ve lo dice un certo numero di persone, comincerete a comportarvi come se foste belli. Assumerete un portamento più eretto, sarete fieri di voi. Ma «Sei brutto, 52

sei brutto, sei brutto» vi indurrà a piegarvi, a farvi più piccoli, fino a quando diventerete brutti davvero. «Sei sciocco! Sei stupido!» vi faranno diventare sciocchi e stupidi. Questa mattina ho detto: «L'amore s'impara», ed è vero. L'amore s'impara, la paura s'impara, il pregiudizio s'impara, l'odio s'impara, la premura s'impara, la responsabilità s'impara, l'impegno s'impara, il rispetto s'impara, la bontà e la gentilezza d'animo si imparano. S'imparano tutte queste cose nell'ambito di una società, in famiglia, in un rapporto. I processi del linguaggio iniziano all'età di uno o due anni quando le parole cominciano ad assumere un contenuto emotivo e intellettuale. E sono le parole con le quali voi strutturerete il vostro ambiente e vivrete per il resto della vita, e che potranno ingabbiarvi o rendervi liberi. Questo è straordinariamente importante. Anche il concetto di noi stessi - chi siamo - lo apprendiamo soprattutto dalla nostra famiglia. Per questo la famiglia ha una responsabilità enorme. Nessuno insegna mai a essere genitori. All'improvviso vi ritrovate con un bambino vostro, ed è fatta. Potete sentire la responsabilità, ma potete filtrarla esclusivamente attraverso ciò che siete. Ecco perché questa mattina ho detto che la cosa più importante è che diventiate la persona più grande, più meravigliosa, più ricca d'amore del mondo... perché è questo che darete ai vostri figli... e a tutti coloro che incontrerete. Io sono convinto che voi dominiate il vostro destino e che possiate essere ciò che volete. Potete anche fermarvi e dire: «No, non voglio farlo. Non mi comporterò più così. Mi sento solo e ho bisogno di avere gente intorno. Forse devo cambiare il mio modo di comportarmi». E poi lo fate veramente... con atti che sono la manifestazione della vostra volontà. Provate. Io ho fatto un esperimento interessante con un gruppo di studenti d'un corso di psicolinguistica. Chiesi loro di compilare due elenchi di parole. Da una parte annotammo 53

quelle che chiamavamo «le parole negative». Erano le parole che non avremmo adoperato mai più... parole come «odio», «disperazione», «no». Preparammo un dizionario di parole negative, tutte le parole veramente cattive. Dall'altra parte compilammo un altro dizionario, elencando parole positive, come «amore». Decidemmo che queste erano le parole che avremmo usato per parlare degli altri e per parlare di noi stessi e per parlare del mondo. Iniziammo questo processo, e accaddero cose fantastiche... ai nostri sentimenti, ai sentimenti che ispiravamo negli altri e alle interazioni tra di noi. E tutto questo semplicemente grazie all'uso delle parole positive! Nessuna famiglia è libera dai difetti. Nessuna famiglia è libera dalle paure. Nessuna famiglia è libera dai pregiudizi. Diamo un'occhiata alla cosiddetta famiglia normale con tutti i suoi problemi e vediamo che cosa accade quando arriva un bambino che è diverso, menomato, handicappato. Succedono cose strane, e succedono fin dal primo momento. Attualmente è in corso uno studio fantastico, e muoio dalla voglia di vedere i risultati finali. Al Centro Medico dell'Ucla, quando nasce un bambino menomato, un consulente viene inviato subito - non dopo una settimana o a capodanno, ma subito - a parlare con i genitori, a dire loro che non devono avere paura, che ci sono possibilità, a dar loro speranza, a riaccendere la fiammella che sta per spegnersi, a ristabilire l'equilibrio necessario quando accade una cosa del genere. Apparteniamo a una cultura che esalta la perfezione. Apparteniamo alla scuola Doris Day-Rock Hudson. L'MGM ci ha insegnato i concetti del bello e del bene, e questo mi incute una paura immane perché l'MGM ci ha insegnato anche il concetto dell'amore. È proprio così, e tanti credono che l'amore significhi correre dietro a una femmina per sei pizze cinematografiche. L'avete visto tutti: Rock dà sempre la caccia a Doris, e Doris scappa sempre, strillando e 54

difendendo qualcosa... non ho mai capito che cosa. Arrivati all'ultima pizza, finalmente, lui la conquista, la prende tra le braccia e varca la soglia. Poi appare la scritta «Fine». E caspita, è davvero la fine! Quello che mi piacerebbe vedere è che cosa succede dopo la «Fine», perché io sono sicuro che una che continua a scappare per sei pizze è frigida, e uno tanto matto da correrle dietro deve essere impotente. Dunque, nello studio in corso all'Ucla contano il tempo, contano i minuti. Per esempio, quanto tempo occorre, quando nasce un bambino «normale», per portarlo alla madre. Stanno scoprendo che l'intervallo è considerevolmente più lungo quando il bambino è imperfetto. Nessuna delle infermiere se la sente di portare il piccolo. Quando il bimbo è perfetto, arrivano tutte saltellanti e dicono: «Guardi, signora Jones, guardi!» e tutti sono contenti. Ma quando nasce un bimbo handicappato, sull'ospedale cala una cappa di piombo. E questo che cosa rivela immediatamente alla madre, prima ancora che veda il piccino? Le dice che è rifiutata, che qualcosa non va. Non c'è una donna al mondo che, quando si trova sola con il suo adorabile fagottino, non apra la copertina per contargli le dita delle mani e dei piedi. Le madri hanno sempre affermato energicamente che la nascita è un dono... «Io do qualcosa al mondo, do qualcosa a mio marito, alla mia famiglia.» Quindi, ecco spuntare la paura: «Cosa trovate da ridire su questo bambino?». Ecco la colpa: «È per causa mia?». Noi siamo esseri umani. Questa idea di perfezione mi spaventa. Ormai abbiamo quasi paura di fare qualunque cosa perché non possiamo farla in modo perfetto. Maslow afferma che vi sono meravigliose esperienze-culmine che tutti dovranno fare, per esempio modellare un vaso di ceramica o dipingere un quadro, e metterlo là e dire: «Questa è un'estensione del mio essere». C'è un'altra teoria esistenzialista che sostiene: «Io devo essere, perché ho fatto qualcosa. Ho creato qualcosa, dunque sono». Eppure, noi non vogliamo farlo, perché abbiamo 55

paura che non andrà bene, che non incontrerà l'approvazione degli altri. Se vi viene l'impulso d'imbrattare d'inchiostro un muro, fatelo! Siete voi: è lì che siete in quel momento, e dovete esserne fieri. Dite: «È uscito da me, è la mia creazione. L'ho fatto io, ed è bello». Ma noi abbiamo paura, perché vogliamo che tutto sia perfetto. E vogliamo che i nostri figli siano perfetti. Per attingere alle mie esperienze personali - è tutto ciò che posso fare - ricordo la mia classe di educazione fisica nelle scuole medie inferiori e superiori. Se qui c'è qualche insegnante di educazione fisica, spero che mi ascolti bene. Non mi rimangerò quello che dico, perché lo penso sinceramente. Nel corso di educazione fisica, tutti dovrebbero avere una possibilità. Se non sappiamo lanciare una palla, allora impariamo a lanciarla meglio che possiamo. Ma le cose non andavano affatto così... ci sforzavamo di raggiungere la perfezione. C'erano sempre quelli grandi e grossi, e loro erano i divi. E c'ero io, tutto pelle e ossa, con il mio sacchetto d'aglio appeso al collo, i calzoncini troppo larghi e le gambette magre magre. Stavo lì in fila ad aspettare di venire scelto, e ogni giorno mi sentivo morire. Ricordate? Vi mettevate tutti in fila, e c'erano quei tizi grandi e grossi con il petto in fuori che dicevano: «Scelgo te» e «Scelgo te». E vedevi che il resto della fila spariva, e tu restavi ancora lì. Alla fine restavate in due, tu e un altro piccoletto. E allora dicevano: «Va bene, prenderò Buscaglia», oppure: «Prenderò il piccolo "wop"», e tu uscivi dalla fila e ti sentivi morire perché non eri l'immagine dell'atleta, non eri l'immagine della perfezione cui aspiravi. E questo non lo dimenticate più. A scuola, adesso, c'è uno studente che è un ottimo ginnasta. Lo scorso anno è mancato poco che venisse selezionato per le Olimpiadi. Ha un piede deforme. Sotto ogni altro punto di vista è perfetto: una figura che chiunque invidierebbe, una bella intelligenza, capelli magnifici, occhi vivaci. Ma per la sua percezione non è un bel 56

ragazzo... ha un piede deforme. All'origine qualcosa non ha funzionato. Quando cammina per la strada, l'unica cosa che lui sente è il tonfo del suo piede, anche se quasi nessuno se ne accorge. Ma lui se ne accorge, lui sente di non essere altro che quello. Perciò questa idea della perfezione mi rivolta, davvero. Non appena nasce un bambino non normale, o appena la famiglia scopre che è imperfetto, vengono a galla cose di ogni genere. La perdita dell'immagine ideale, le paure per il futuro. Che ne sarà di quel bambino? Troverà un lavoro, apprenderà, imparerà a leggere? Queste sono paure autentiche. E si fa strada il senso di colpa: «Che cosa ho fatto... che cosa c'entro io... è stata la dieta sbagliata... non ho avuto abbastanza riguardi?». E la confusione - e questo è un fattore enorme - «Che cosa devo fare?». Ho passato sei anni come consulente dei genitori di bambini portatori di anomalie, e da quella povera gente confusa mi sentivo ripetere continuamente che avevano consultato tanti e tanti specialisti. Andavano da questo e da quello, e andavano da quell'altro, e ancora non avevano informazioni sul conto del loro figliolo. È spaventoso. Non c'è nessuno al mondo che abbia contatti con il figlio più dei genitori. Sono loro, quelli che dovrebbero saperne di più. Ma chissà perché, c'è una specie di segreto custodito gelosamente dagli specialisti... «Non dobbiamo farglielo sapere. So come stanno le cose con Johnny, ma non diciamolo alla madre.» Ecco, è la madre che deve occuparsi di Johnny, e può farlo nel modo giusto come nel modo sbagliato. È ora che ce ne rendiamo conto e che diciamo ai genitori come stanno le cose. La mia teoria, per quanto riguarda i compiti dei consulenti, è questa: teniamo la bocca chiusa, ma mostriamo la situazione. Dovremmo far sedere una madre dietro un falso specchio, in modo che possa vedere ciò che fa un insegnante con suo figlio; e alla fine l'insegnante dovrebbe andare a parlare con lei e dirle: «Ecco, io stavo facendo questo e quest'altro; forse 57

lei può continuare a casa». Un lavoro di squadra... è l'unico modo per riuscire. Niente più misteri. Lavoriamo insieme nell'interesse di Johnny. Johnny ha bisogno dell'aiuto di tutti, quindi facciamolo insieme. Basta con quel senso continuo di confusione: «Il dottor A mi ha detto questo, il neurologo B mi ha detto quello, l'insegnante C mi ha detto quest'altro...». Conosco molte madri che si sono sentite dire persino: «Lo lasci in pace, passerà, vedrà che guarirà perfettamente, lei si preoccupa troppo, signora Jones». Santo Dio, nessuno lo vede come lo vede la signora Jones! «Cade, non riesce a coordinare i movimenti, non si comporta come gli altri bambini, ha qualcosa che non va, qualcuno deve aiutarmi.» E così i genitori vengono mandati continuamente da Erode a Pilato. Non so quanti di voi abbiano letto il libro in cui Pearl Buck parla di sua figlia; è un libro molto, molto importante che un educatore dovrebbe leggere. Una donna colta e sensibile che portò la figlia da cento specialisti diversi, girò tutto il mondo in cerca di aiuto, fino a quando qualcuno le parlò francamente e le disse: «Senti, Pearlie, vecchia mia, tua figlia è gravemente ritardata, ma facciamo per lei tutto il possibile. Cerchiamo di aiutarla a imparare tutto ciò che può imparare, ma rinuncia a sperare che possa diventare un genio. Ora fermati, cominciamo a lavorare e facciamo per questa bambina tutto quel che è possibile fare. Non poniamole limiti. Non diciamo che non può imparare... questo è ridicolo. Impegnamo tutte le nostre energie facendo tutto ciò che possiamo e smettiamola di correre qua e là per il mondo». E Pearl Buck disse: «D'accordo». E da quel momento le cose cambiarono. Ma è necessario che qualcuno parli francamente con i genitori. Oltre a tutte le difficoltà e i problemi della famiglia «normale», la famiglia con un figlio handicappato deve affron58

tarne molti altri. E ciò mi è stato ricordato in modo drammatico quando, lo scorso anno, una madre mi ha detto: «Ho un figlio spastico, e sa che da quando è nato non sono mai uscita di casa per cinque minuti? Dovunque vada, sono costretta a portarlo con me. Non riesco a trovargli una babysitter: hanno tutte paura di lui». Che razza di vita è questa? Anche i genitori sono esseri umani, e hanno bisogno di uscire; qualche volta noi lo dimentichiamo. Ho raccontato l'episodio ai miei studenti; battevo sulla lavagna e gridavo. E uno degli studenti ha detto: «Perché non organizziamo un servizio di babysitter?». E così hanno creato un servizio gratuito di babysitter per i genitori di figli menomati. Gli studenti non avevano paura di quei bambini. Andavano ad accudirli e concedevano così un po' di libertà ai genitori che avevano la possibilità di uscire per una volta a cena e di ricordare cosa significa essere umani e potevano stare un po' soli insieme. Questo è importante, perché poi viene il giorno in cui tutti i figli se ne sono andati per la loro strada, e mamma si siede di fronte a papà, e si guardano in faccia, e magari lei dice: «E tu chi diavolo sei?». Perché lei prima era troppo indaffarata, e lui era troppo indaffarato. Non è sorprendente, dunque, che i genitori invochino aiuto. Ora, se uno intende aiutare un altro - chiunque sia - deve ricordare certe cose essenziali. Innanzitutto, dobbiamo sempre ricordare che l'uomo non è una cosa, e smettere di trattare gli esseri umani come se fossero oggetti. Siamo fragili, siamo vulnerabili, siamo sensibili, ci spaventiamo facilmente. E proprio perché siamo tanto fragili, è facile ferire qualcuno e farlo soffrire. Ma è quasi altrettanto facile rimarginare la ferita con la stessa mano che l'ha causata. L'uomo è così incredibile. Ho sentito parlare degli incredibili meccanismi difensivi usati dalla gente; e se avete intenzione di aiutare qualcuno, guardatevi bene dal dire: «Oh, apra gli occhi. Sa benissimo che non è così». Ricordo una 59

madre che venne a parlarmi e mi disse, con la massima sincerità: «Finalmente ho capito. Finalmente ho capito perché ho un figlio anormale e perché sono legata alla casa e perché io e mio marito non possiamo fare niente insieme e perché succede tutto il resto. Dio mi ha scelta tra tutti perché sapeva che io avrei potuto prendermi cura di questo bambino». Questo sì che è un meccanismo difensivo! E sareste esseri umani molto meschini se rispondeste: «Su, signora Jones, apra gli occhi». Qualche volta siamo aiutati - Albee lo chiama «un equilibrio delicato», e mi piace -, qualche volta siamo in questo stato di equilibrio delicato, e nessuno deve permettersi di credersi tanto grande da poter scuotere questo equilibrio, da sottrarre un meccanismo difensivo. Ricordo, una volta, un consulente che diceva a una madre: «Lei deve accettare suo figlio handicappato. Deve». E lei rispose: «Perché diavolo devo farlo?». E questa è la risposta migliore che abbia mai sentito. A quale colpa ti riferisci affermando che io «devo»? L'uomo non è una cosa, è una meraviglia, e deve essere trattato con delicatezza. In secondo luogo, l'uomo può cambiare, e se non lo credete, allora avete sbagliato professione. Ogni giorno basta vedere il mondo in un modo nuovo e personale. L'albero davanti a casa vostra non è mai lo stesso... perciò guardatelo! Non ci sono mai stati due tramonti esattamente eguali fin dall'inizio del tempo... perciò guardateli! Tutto è in fase di cambiamento, voi inclusi. L'altro giorno mi trovavo su una spiaggia in compagnia di alcuni miei studenti, e uno di loro ha raccolto una vecchia stella marina disidratata e con molta delicatezza l'ha rimessa nell'acqua. Ha detto: «Oh, è solo disidratata, ma quando assorbirà l'acqua riprenderà a vivere». Poi ha riflettuto un po', e si è rivolto a me e mi ha detto: «Sa, Leo, forse è questo, il processo del divenire, forse arriviamo al punto in cui ci inaridiamo, e ci basta un po' d'acqua per ricominciare». 60

Quando mi sono rialzato dalla sabbia, ho detto: «Oh!». Forse è davvero tutto qui. Un investimento nella vita è un investimento nel cambiamento, e non penso alla morte perché sono troppo occupato a vivere! La morte si arrangi. Non dovete mai credere che starete tranquilli... la vita non è fatta così. Quando si cambia continuamente, bisogna continuare ad adattarsi al cambiamento, e ciò significa che vi troverete sempre di fronte a nuovi ostacoli. È questo che dà gioia alla vita. E quando siete coinvolti nel processo del divenire, è impossibile fermarsi. Siete spacciati! Travolti! Ma che viaggio fantastico! Ogni giorno è nuovo. Ogni fiore è nuovo. Ogni faccia è nuova. Tutto, al mondo, è nuovo, ogni mattina della vostra vita. Smettetela di vederla come una cosa noiosa! In Giappone, versare l'acqua è un rito. Ci mettevamo seduti in una piccola capanna, al momento della cerimonia del tè, e il nostro ospite prendeva un mestolo d'acqua e la versava nella teiera e tutti ascoltavano. Il suono dell'acqua che cadeva era esaltante. Chissà quanta gente fa scorrere l'acqua nella doccia e nel lavello tutti i giorni e non la sente neppure! Quand'è stata l'ultima volta che avete ascoltato l'acqua? È bellissimo! Questa sera, quando tornate a casa, aprite il rubinetto e ascoltate. Herbert Otto dice: «Il cambiamento e il progresso si hanno quando una persona ha rischiato se stessa e ha osato fare esperimenti con la propria vita». Non è fantastico? Una persona ha rischiato se stessa e ha osato fare esperimenti con la propria vita, fidandosi di se stessa. Fare esperimenti con la vostra vita è esaltante, e dà gioia, dà felicità e meraviglia, eppure fa anche paura. È spaventoso perché avete a che fare con l'ignoto e c'è il pericolo dell'autocompiacimento. Potete starvene lì e dire: «Per me va bene così, ho un buon lavoro, ho la macchina». Ma poi decidete che potreste cambiare, che questi potrebbero non essere più i vostri valori... e così date uno scrollone al vostro compiacimento. 61

Ho fortissima l'impressione che il contrario dell'amore non sia l'odio, ma l'apatia, l'indifferenza. Se qualcuno odia, deve provare qualcosa per me, altrimenti non mi odierebbe. Quindi, c'è una possibilità di comunicare. Ma se quello neppure mi vede, è finita... non posso mettermi in contatto con lui. E così se non vi piace la scena in cui vivete, se siete infelici, se vi sentite soli, se avete la sensazione che non succeda niente, cambiate la scena. Dipingete un fondale nuovo. Circondatevi di attori nuovi. Scrivete una nuova commedia... e se la commedia non va bene, scendete dal palcoscenico e scrivetene un'altra. Ci sono milioni di commedie... tante quanti sono gli esseri umani. E poi, un uomo ha bisogno d'una guida. Un insegnante - e questo termine include anche i genitori - è una guida. A me fa piacere essere considerato un educatore. Detesto sentirmi chiamare professore. Un professore professa, e a questo mondo si professa anche troppo. Educare significa condurre, guidare; e dovrebbe essere appunto questo. C'è una tavola carica di squisitezze. Potete decorare quella tavola e metterci tutti i piatti di questo mondo, ma non potete obbligare nessuno a mangiare. Carl Rogers dice: «Nessuno ha mai insegnato niente a nessuno», ed è vero... potete insegnare solo a voi stessi. L'insegnante che crede di conoscere tutte le risposte è il più grande illuso di questo mondo. È meraviglioso, quando uno scolaro fa una domanda intelligente, e l'insegnante dice: «Caspita! Non conosco la risposta, ma cerchiamola insieme: la troveremo». È meraviglioso dire a qualcuno: «Imparare è esaltante. Non sei obbligato a sapere tutto. Ci faremo da guida a vicenda». Ho un'altra teoria. I nostri ospedali psichiatrici si riempiono sempre di più. A Los Angeles facevo parte del Servizio Prevenzione Suicidi e il mio telefono squillava di giorno e di notte, quindi c'è qualcosa che non va. Qualcosa proprio non va e io credo che una delle ragioni sia questa idea molto 62

diffusa: «Ti amerò, se..». Se ciascuno avesse anche una sola persona nella sua vita che gli dice: «Ti amerò, indipendentemente da tutto. Ti amerò se sei stupido, se scivoli e batti il naso, se sbagli, se commetti errori, se ti comporti come un essere umano... io ti amerò egualmente», allora la gente non finirebbe negli ospedali psichiatrici. Dovremmo amarci così: indipendentemente da tutto. Nel matrimonio, in famiglia; ma accade tutto ciò? Certo, la società non può dirlo... ha troppe responsabilità nei confronti di troppa gente. Ma nei rapporti personali si può, si deve. Mi piace molto la definizione della famiglia data da Robert Frost: «Casa tua è il posto dove, quando ci vai, devono farti entrare». È questo che dovrebbe essere una casa... «Entra. D'accordo, ti sei comportato come uno stupido, ma non te lo dirò; ti amo, e ti accetto come sei.» Questo è il tipo di guida di cui voglio parlare. L'uomo ha bisogno di qualcuno che gli voglia bene. Basta una persona sola, purché gli voglia bene davvero, e non sto parlando di grandi scene madri. Sto parlando delle piccole cose, dei piccoli modi per mostrare questo affetto. Vi ho detto che siamo di facile contentatura... basta un dito per turare la falla nella diga. E l'uomo ha bisogno di sentirsi realizzato. È un bisogno che proviamo tutti, la necessità di vedere riconosciuto ciò che sappiamo far bene. Ci deve essere qualcuno che ce lo dice. Ogni tanto, qualcuno deve venire a batterci la mano sulla spalla e a dirci: «Così va bene. Mi piace veramente». Poi, per imparare a cambiare e a divenire, l'uomo ha bisogno anche della libertà. Per apprendere dovete essere liberi. Avete bisogno che altri provino interesse per il vostro albero, non l'albero lecca-lecca, e voi dovete provare interesse per il loro albero. «Mostrami il tuo albero, Johnny. Mostrami chi sei, e allora saprò come incominciare.» Noi abbiamo bisogno della libertà per creare.

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Recentemente ho fatto un'esperienza incredibile. Ho parlato a una quantità di ragazzini, molto dotati, in un distretto scolastico della California. Mi sono espresso con l'abituale veemenza, e loro stavano lì, inchiodati... le vibrazioni tra noi erano straordinarie. Dopo l'incontro della mattina, gli insegnanti mi hanno portato a pranzo. Quando sono ritornato, i ragazzini mi sono venuti incontro e mi hanno detto: «Dottor B., è successa una cosa terribile. Ricorda quel ragazzo che stava seduto di fronte a lei?». E io: «Oh, sì, come potrei dimenticarlo? Era così attento e interessato». «Be', lo hanno sospeso per due settimane.» E io ho domandato il perché. Nella mia conversazione, avevo detto che l'unico modo per conoscere qualcosa, per conoscerlo veramente, è farne l'esperienza. E avevo detto: «Se volete conoscere veramente un albero, dovete arrampicarvi su quell'albero, sentirlo, sedervi tra i rami, ascoltare il vento che soffia tra le foglie. Allora potrete dire: conosco quell'albero». E il ragazzino aveva detto: «Lo ricorderò, mi sembra una cosa molto importante». Durante l'ora di pranzo, aveva visto un albero e vi si era arrampicato sopra. Il vicepreside era passato di lì, l'aveva visto, l'aveva fatto scendere e l'aveva sospeso dalle lezioni. Io ho detto: «Deve esserci un errore, un equivoco. Andrò a parlare con il vicepreside». Non so perché, ma i vicepresidi sono sempre ex professori di educazione fisica. Sono entrato nel suo ufficio, e lui stava lì seduto con i bicipiti in evidenza. Ho detto: «Sono il dottor Buscaglia». Lui mi ha squadrato. Era furibondo. Ha detto: «Perché viene nella nostra scuola a dire ai ragazzini di arrampicarsi sugli alberi? Lei è un pericolo pubblico!». E io: «Non mi ha capito. Credo che ci sia stato un malint...». E lui a gridare: «Lei è un pericolo pubblico! Dire ai bambini di arrampicarsi sugli alberi! Sono già abbastanza insopportabili!». Non sono riuscito a farmi capire; non mi è stato possibile comunicare. Allora sono andato a casa del ragazzino che a questo punto aveva a disposizione 64

due settimane per arrampicarsi sugli alberi. Lui mi ha detto: «Credo di avere imparato quando ci si deve arrampicare sugli alberi e quando non si deve farlo. Perché la nostra società decide per noi, fissando quando dobbiamo fare una cosa e quando non dobbiamo farla. Cribbio, è proprio così! Il mio è stato un errore di giudizio, no?». Aveva capito la lezione e si era adattato alle esigenze del vicepreside... non per questo aveva rinunciato ad arrampicarsi sugli alberi! Non è impossibile soddisfare le richieste della società e insieme fare ciò che si vuole. Penso che la gente abbia bisogno di un certo tipo di nutrimento. Lo penso sinceramente. Abbiamo bisogno di essere amati. Abbiamo bisogno di qualcuno che ci tocchi, abbiamo bisogno di qualche manifestazione d'amore. Quelli di noi che si occupano di attività educative speciali conoscono senza dubbio gli studi di Skeels, il suo lavoro meraviglioso in un orfanotrofio per bambini abbandonati. Aveva notato che i bambini lasciati soli in un orfanotrofio diventavano progressivamente apatici, sino a una totale immobilità. Al momento del ricovero avevano un quoziente d'intelligenza normale, ma dopo circa un anno e mezzo, il loro quoziente era quello dei ritardati. Skeels si chiese: «Che cosa succede?». Prese perciò dodici bambini e li portò dall'altra parte della città, in un istituto per adolescenti ritardate; a ognuna di loro affidò un bambino. Le ragazze non erano geni, ma erano affettuose. Tutti voi conoscete parecchi ragazzi che sono intelligentissimi ma che non combineranno mai nulla... perché non hanno nient'altro che l'intelligenza. Conosco tanti altri ragazzi che sono assolutamente normali, ma hanno una capacità d'affetto favolosa, e sanno scaldare il cuore della gente; loro sì che riusciranno a volare! Skeels, come ho detto, affidò bambini abbandonati alle ragazze, e le ragazze li adoravano, li coccolavano, piangevano al momento in cui i bambini venivano fatti risalire sull'autobus, alla fine della giornata. L'unico 65

cambiamento per i bambini era di carattere affettivo; non era cambiato niente altro, solo che quei bambini ora venivano vezzeggiati e amati, erano oggetto di premure. Skeels ha scritto di recente un saggio che tutti voi dovreste leggere, Head Start on Head Start. In questo saggio presenta i risultati del suo studio su quei dodici bambini, che ha continuato a seguire dopo l'esperimento. Tutti quelli del gruppo di controllo che vennero lasciati nell'orfanotrofio sono diventati psicotici e sono finiti in qualche istituto, oppure sono diventati ritardati mentali. Ma del gruppo affidato alle ragazze, tutti tranne uno si sono diplomati alle medie superiori, tutti si sono sposati e uno solo ha divorziato, nessuno vive dell'assistenza pubblica; sono tutti in grado di mantenersi da soli. La variabile indipendente era: qualcuno mi ha visto, qualcuno mi ha toccato, qualcuno mi ha voluto bene! Un altro punto importante è che ognuno ha la sua strada. Ci sono mille strade per scoprire voi stessi, per divenire. Ognuno di voi deve trovare la sua. Non lasciate che siano gli altri a imporvela. C'è un libro meraviglioso, Teachings According to Don Juan, scritto da un antropologo, Castaneda. Parla degli indiani Yaqui, che Castaneda ha studiato. E parla di un uomo, Don Juan. Costui dice: Ogni strada è soltanto una tra un milione di strade possibili. Perciò dovete sempre tenere presente che una via è soltanto una via. Se sentite di non doverla seguire, non siete obbligati a farlo in nessun caso. Ogni via è soltanto una via. Non è un affronto a voi stessi o ad altri abbandonarla, se è questo che vi suggerisce il cuore. Ma la decisione di continuare per quella strada, o di lasciarla, non deve essere provocata dalla paura o dall'ambizione. Vi avverto: osservate ogni strada attentamente e con calma. Provate a percorrerla tutte le volte che lo ritenete necessario. Poi rivolgete una domanda a voi stessi, e soltanto a voi stessi. Questa strada ha un cuore? Tutte le strade sono eguali. Non conducono in nessun posto. Ci sono vie che passano attraverso la boscaglia, o sotto la boscaglia. Questa strada ha un cuore? È l'unico interrogativo che conta. Se ce l'ha, allora è una buona strada. Se non ce l'ha, è da scartare.

Se volete incominciare ad aiutare gli altri, vi dirò ora come 66

fare. Innanzitutto, dovete smettere di imporvi agli altri, di imporre il vostro sistema di valori; dovete essere veri, e dovete imparare ad ascoltare. Vi sono simboli d'ogni genere. Il linguaggio verbale è solo uno dei tanti. Qualche volta, quando apriamo la bocca, commettiamo errori tremendi. Spesso è molto meglio limitarsi a guardare qualcuno e vibrare. Uno di questi giorni rinunzierò a tutte le altre cose per studiare le vibrazioni umane. Sono sicuro che esistono, come esistono le vibrazioni che vi stanno portando il suono delle mie parole. Se ne scoprissimo il segreto, forse potremmo trovare un mezzo di comunicazione più adeguato di quello verbale. Comunque evitate di parlare sempre voi: ascoltare è importante. Se volete che gli altri parlino, tacete. Dopo un minuto, saranno loro a dirvi tutto. Dovete essere veri. Non fasulli. Presentatevi per ciò che siete. La cosa più difficile al mondo è far finta di essere diversi da quello che si è. Quando cominciate a sentirvi voi stessi, andate fino in fondo. Scoprirete che è un modo di vivere più facile. È la cosa più facile del mondo, essere se stessi. La cosa più difficile è essere ciò che gli altri vogliono. Non lasciatevi cacciare in questa situazione. Trovate voi stessi, trovate ciò che siete, e mostratevi come siete. Allora potrete vivere semplicemente. Potrete usare tutta l'energia necessaria per «tenere lontani gli spauracchi», come li chiama Richard Alpert. Sarete così forti da tenere a distanza gli spauracchi. Non sarete più costretti a giocare il gioco degli altri. Sbarazzatevi di tutto e dite: «Ecco, sono io. Prendetemi per quel che sono, con tutte le mie debolezze, la mia stupidità. Se non ci riuscite, lasciatemi perdere». Un'altra cosa: non date ordini a nessuno. Non siete Dio. Non sapete quello che c'è nella mente di un altro. Potete guidare, ma non dare ordini. E sforzatevi di comunicare, sforzatevi di comprendere. Molto spesso, lo specialista se ne sta seduto alla scrivania, davanti a una povera madre spaventata a morte che stringe convulsamente la borsetta. Lo 67

specialista dice: «Abbiamo effettuato uno studio diagnostico completo su suo figlio e abbiamo concluso che è affetto da dislessia causata da lesioni cerebrali minime. Capisce?». Cosa può dire la madre? Sorride e fa «Mmm». Me l'immagino quando torna a casa e il marito le chiede: «Allora, che cosa ha detto lo specialista, cara?». «Ecco, il bambino ha una specie di lessia, dovuta a qualcosa che non va dentro alla testa.» E il marito: «È per sentire questo che abbiamo pagato centonovanta dollari?». È un miracolo che non siano più numerosi, i genitori dei bambini handicappati che crollano. Dobbiamo far di tutto per comunicare. Ricordate che siete una squadra. I vostri rapporti con la gente avranno successo soltanto se sarete uniti. È necessario che pianifichiate insieme ciò che intendete fare. Due persone hanno maggiori risorse, maggiore forza di una sola. Qualche volta basta poco per dare un senso di unità. Ma se volete fare veramente un lavoro di squadra, dovete dire ai genitori la verità, almeno come la vedete in quel momento, non nascondere nulla, informarli. «Johnny è a questo punto, e noi vorremmo portarlo a quest'altro, ecco le aspirazioni che abbiamo per lui.» Poi preparate un programma graduale per realizzare quello che vi siete prefissati. Per prima cosa, determinate il punto in cui si trova ora Johnny. Vi servirà di base. Non vi aiuterà sapere che ha una disfunzione cerebrale minima. Non potete far niente per modificare il suo cervello... voi siete genitori o insegnanti. Del resto, la lesione è irreparabile. Decidete immediatamente il primo passo da compiere. Non pensate ciò che farà Johnny tra diecimila anni, ma quel che deve fare subito: stare seduto, stare attento, usare una matita, leggere una parola...? Poi, pianificate il modo di arrivarci. «Questo è il suo compito come genitore, e questo il mio compito come insegnante e consulente, lavoreremo insieme. Lei faccia la sua parte, e io farò la mia.» Poi esaminate insieme i risultati ottenuti e dite: «Ci siamo arrivati? Sì. Adesso lui fa sempre 68

quello che ci eravamo prefissi. Benissimo, cosa vogliamo fare?». E avanti così. A questo serve un consulente, non a entrare nella psiche di qualcuno per cercare di scoprire quali siano i suoi problemi sessuali. È un processo che si svolge passo passo. Se fate tutto questo, e lo fate insieme, non sentirete i genitori implorare: «Mi aiuti». Perché avranno già il vostro aiuto. Ho ancora un'altra cosa da dirvi. È stata scritta da un uomo meraviglioso, Zinker, del Gestalt Institute di Cleveland, nella conclusione di un saggio intitolato On Public Knowledge and Personal Revelation. Se l'uomo della strada fosse alla ricerca del proprio io, quali pensieri-guida troverebbe per cambiare la propria esistenza? Forse scoprirebbe che il suo cervello non è ancora morto, che il suo corpo non è inaridito e che, in qualunque situazione si trovi, è ancora l'artefice del proprio destino. Può cambiare questo destino prendendo la decisione di cambiare seriamente se stesso, combattendo le sue meschine resistenze al cambiamento e la paura, imparando a conoscere meglio la propria mente, provando a comportarsi in modo da soddisfare i suoi veri bisogni, compiendo atti concreti anziché limitarsi a vagheggiarli...

Sono completamente d'accordo. Basta parlare: incominciamo ad agire... ...esercitandosi a vedere e ascoltare e toccare e sentire come se prima non avesse mai usato i sensi, creando qualcosa con le proprie mani senza pretendere la perfezione, individuando i suoi comportamenti autodistruttivi, ascoltandosi mentre parla alla moglie, ai figli e agli amici, guardando negli occhi di coloro che gli parlano, imparando a rispettare il processo dei propri incontri creativi e convincendosi che presto lo condurranno a un risultato. Dobbiamo ricordare a noi stessi, tuttavia, che non è possibile operare un cambiamento senza lavorare duramente e senza accettare di sbagliare. Non ci sono formule né libri da imparare a memoria, per quanto riguarda il divenire. Io so questo soltanto: Io esisto, io sono, io sono qui, io divengo, io decido della mia vita e nessun altro può deciderla per me. Devo affrontare le mie manchevolezze, i miei errori, le mie trasgressioni. Nessuno può soffrire in mia vece per ciò che sono, ma domani è un altro giorno: dovrò decidermi a lasciare il mio letto e a riprendere a vivere. E se fallirò, non potrò consolarmi dandone la colpa a voi o alla vita o a Dio.

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Dov'è la luce (la ricerca dell'io)

Una cosa non voglio che succeda, questa sera; vi dirò che cos'è, poi potremo incominciare. Molti sono i modi di imparare, e io ne ho imparato uno quando soggiornai per un anno in un monastero Zen, in Asia. Avevo un insegnante giapponese meraviglioso. Era così gentile e straordinario, così ricco di cose bellissime da spartire... tutta la sua vita era improntata al desiderio di dividerle con altri, come vorrei che fosse la mia e come mi auguro che sarà la vostra; per questo aspiro a migliorarmi: così ogni volta che sarò con voi avrò sempre di più da spartire. Ricordo che un giorno stavamo passeggiando in un giardino pieno di bambù giganti. Quelli di voi che sono stati in Giappone sanno che sono bellissimi... Dunque, stavamo passeggiando in giardino, e io parlavo e parlavo. Continuavo a esaltare tutte le cose fantastiche che sapevo, e la grande saggezza che possedevo, e cercavo di far colpo su quell'uomo, cercavo di dirgli «questo è quanto so»... quando all'improvviso lui, che era un tipo assolutamente non violento, si voltò di scatto e mi diede un manrovescio sulla bocca. Niente male, eh, come tecnica d'insegnamento! Io lo guardai, tenendo la mano sul labbro sanguinante e chiesi: «Perché l'ha fatto?». E lui, con veemenza, una veemenza che non aveva mai dimostrato: «Non cammini dentro la mia 71

testa con i piedi sporchi!». Vi assicuro che prima di venire qui mi sono lavato i piedi. Non ho intenzione di camminare dentro la testa di nessuno. Voglio che tra noi, questa sera, ci sia soltanto una delicata comunanza. Prendete da ciò che ho quel che va bene per voi. Ciò che non va bene, lasciatelo perdere. Non ho interessi da difendere. Non ho niente da vendere. Ma ho molte cose da spartire, e questo mi esalta. Spero che di qualcosa possiamo essere tutti partecipi, e forse in un modo o nell'altro questo accadrà prima di separarci. Forse molti di voi sanno, dalle mie registrazioni e dai miei libri, che mi occupo a fondo dell'amore come cosa che si può imparare. Credo sinceramente che ognuno di noi abbia un grande, incredibile potenziale d'amore; ma è amore in potenza e, come tutte le cose in potenza, se non viene realizzato, se non viene tradotto in pratica, non serve a molto. Anni fa, io ebbi l'eccentricità di tenere un corso sull'amore. All'inizio c'erano soltanto quindici o venti studenti. Adesso, se potessimo ammetterli tutti, ce ne sarebbero quattro o cinquecento. Ma io cerco di limitare le iscrizioni a una cinquantina di studenti, perché così possiamo sentirci veramente insieme. Io non insegno a quella classe. Mi limito a facilitarle il compito. A spianare la strada. Dato che l'amore s'impara, ognuno di voi l'ha imparato in un modo diverso, e avete da insegnare a me quanto io ho da insegnare a voi. È giusto che sia così perché l'amore è una comunanza. Ho pensato che sarebbe stato bene se qualcuno che ne sentiva il bisogno fosse venuto a dircelo... e non è psicoterapia! Io sono un educatore, non uno psicoterapeuta. Io credo che qualunque sia la vostra posizione nella vita e comunque l'abbiate raggiunta, se volete rinnovarvi potete farlo: potete imparare cose nuove e disimparare le vecchie. Quindi, c'è sempre la speranza, c'è sempre stupore: non dovete star lì a piangere perché in passato qualcuno vi ha maltrattato, o perché avete imparato l'amore in un modo sbagliato, o perché state morendo di solitudine. 72

Di recente ho avuto un'esperienza molto interessante. Viaggio molto, e mi porto dietro montagne e montagne di lavoro perché sono gli unici momenti di vera tranquillità sui quali posso contare. Vedete, la mia regola è sempre: «Prima le persone, poi le cose». Perciò, quando sono nel mio studio, non c'è mai un attimo di requie. E quando sono a casa il telefono squilla e c'è sempre gente... intendiamoci, è ciò che voglio, ciò che apprezzo. Ma quando sono su un aereo... è come avere un ufficio privato. Sparisco tra le nuvole e nessuno sa chi sono. Allora chiedo: «Potrei avere libero il posto accanto al mio? Ho parecchio lavoro da sbrigare». Se l'aereo non è molto affollato, mi dicono di si, e quindi spesso ottengo quello che ho chiesto, sistemo il materiale, lavoro e penso. E quando ho finito, guardo le nubi e penso alle meraviglie e alla magia dell'universo. Dunque, un giorno c'era un posto vuoto tra me e un'attraente signora di mezza età, tutta ingioiellata e ben vestita. Lei mi guardava in silenzio, mentre tiravo fuori tutta la mia roba, ma dalle sue vibrazioni sentivo che voleva parlare. Pensai: «Oh, mio Dio! Le voglio bene, ma devo dare i voti alle prove d'esame e leggere una quantità di scritti!». La signora disse: «Scommetto che indovino chi è!». «Chi sono?» «Scommetto che è avvocato.» Risposi che non ero avvocato. «Allora è un insegnante» disse lei. «Sì, infatti. Sono insegnante.» «Oh, è interessantissimo.» Io continuai a lavorare. Ma la signora riprese a parlare, e all'improvviso mi domandai: «Che cosa stai facendo? Dici sempre che le persone sono più importanti. Se lo pensi davvero, ricordati che questa signora ha bisogno di te. È evidente che vuole parlare... parla con lei per un po', e poi potrai spiegarle che devi lavorare». Non andò proprio così... ma fu una specie di magia, una vera valanga. La signora cominciò a dirmi una quantità di 73

cose. A volte, capita di confidare a uno sconosciuto quello che non rivelereste al vostro amico più intimo. Lei sapeva che, arrivati a Los Angeles, ci saremmo separati e con ogni probabilità non l'avrei rivista mai più. Cosi cominciò a raccontarmi che aveva quattro figli, e che era appena rientrata dalle Bahamas. Le chiesi: «Si è divertita?». «No, è stato tremendo.» «Era sola?» «Sì.» Io dissi soltanto «Oh». Pensavo che era piuttosto interessante, ma non avevo intenzione di continuare il discorso. Lei, però, mi ci costrinse subito. Era andata in vacanza da sola. «Sto cercando di riprendermi.» «Oh, davvero?» «Sì! Mio marito mi ha lasciata due mesi fa.» «Oh, mi dispiace.» E la signora cominciò a raccontarmi la storia della sua vita! «E pensare» disse «che gli ho dato gli anni migliori,» (proprio così!) «gli anni migliori della mia vita!» Non credevo che la gente usasse ancora quella frase! «Gli ho dato gli anni migliori della mia vita. Gli ho dato figli magnifici! Gli ho dato una casa bellissima, e l'ho sempre tenuta pulita come uno specchio. Non c'era neppure un granello di polvere!» Su questo ci avrei giurato. «I miei figli arrivavano sempre a scuola in perfetto orario» continuò la signora. «Ero un'ottima cuoca, e invitavo sempre i suoi amici. Ero sempre disposta ad andare dove voleva lui. Ero...» E così via, all'infinito. Mi faceva davvero pena, quella signora. Perché quasi tutte le cose che lei aveva considerato essenziali erano cose che il marito avrebbe potuto ottenere a pagamento. Lei aveva perduto la sua identità! Non aveva dato al marito ciò che c'era d'essenziale in lei... la magia, il mistero... la 74

sua personalità. Gli aveva dato ottimi pasti... e lui sarebbe potuto andare al ristorante. Gli lavava le lenzuola... e lui avrebbe potuto mandarle in lavanderia! È spaventoso! Le chiesi: «E che cosa faceva per sé?». E la signora: «Come...? Cosa vorrebbe dire?». «Voglio dire, che cosa faceva lei per se stessa?» «Non avevo tempo di fare qualcosa per me stessa!» Ci fu una pausa, poi dissi: «Che cosa le sarebbe piaciuto fare?». «Oh, ho sempre sognato di buttar via le pentole.» Sarebbe stato meraviglioso, se avesse buttato via qualche pentola... Non sapeva che era essenziale. Mi faceva pena perché aveva fatto ciò che credeva fosse importante secondo la sua educazione. Si era adattata a un ruolo. E in quel ruolo aveva perduto se stessa. Poi la storia continua: «il marito incontra in ufficio una donna giovane»... che non si preoccupa della polvere e se ne infischia delle lenzuola pulite. Quel giorno, parlammo a lungo di ciò che è essenziale. La signora pianse un po', io piansi un po'. Ci abbracciammo, e poi lei se ne andò per la sua strada e io per la mia. Ma, vedete, lei non si era mai preoccupata di domandare a se stessa: «Che cos'è importante in me? Qual è il mio valore? Quali sono le mie esigenze?». Se questo non lo sapete già ve lo ripeto: come individui ricchi d'amore, dovete donare ciò che avete di meglio; dovete sviluppare tutto ciò che c'è di meraviglioso in voi... quali esseri umani unici. Perché anche se vi hanno insegnato che le cose stanno diversamente, ogni essere umano è unico. È straordinario: non esistono due persone eguali. Ognuna è diversa. Sarebbe stato meraviglioso se avessimo insegnato in tempo a quella donna che era unica, e che doveva sviluppare la sua unicità. Se le avessimo insegnato il prodigio di condividerla con tutti gli altri. Poiché non avete limiti, sarete sempre interessanti. Avrete sempre qualcosa da spartire, da condividere. Ma quella 75

signora non si era data la pena di cercare, aveva assunto un ruolo che gli altri le avevano presentato come essenziale, e così facendo aveva perduto se stessa. La cosa meravigliosa è che non è possibile perdere mai veramente se stessi. Solo temporaneamente. Se volete trovare voi stessi, ci siete ancora! Non avete perso nulla di ciò che avete avuto. E se qualche volta sentite dentro di voi un vuoto immenso, qualcosa che vi rode, qualcosa che urla per prorompere, è quell'unicità meravigliosa che dice: «Ci sono ancora! Ci sono ancora! Qui dentro! Cercami! Sviluppami! Condividimi!». E allora comincerete a scoprire un po' di ciò che è essenziale. Ma noi siamo sicuri che l'essenziale deve essere «là fuori». Non può essere «dentro»! Non so quanti di voi conoscono le opere dei Sufi; sono meravigliosi libriccini che ci vengono dalla setta religiosa dei Sufi. Contengono piccole parabole favolose, e leggerle è una delizia. Ci sono le avventure di un ometto un po' matto chiamato «Mullah». E c'è un aneddoto molto eloquente. Un giorno, un amico vede il Mullah inginocchiato per la via e intento a cercare qualcosa. Si avvicina e gli chiede: «Mullah, che cosa cerchi?». E il Mullah risponde : «Ho perduto la chiave». «Oh, Mullah, che peccato. Ti aiuterò a cercarla.» L'amico s'inginocchia e domanda: «Mullah, dove l'hai persa?». E il Mullah risponde: «L'ho persa in casa». «Allora perché la cerchi qui fuori?» E il Mullah: «Perché qui c'è più luce». È divertente... ma è esattamente ciò che facciamo noi con la nostra vita! Crediamo che tutto ciò che si può trovare sia là fuori, alla luce, dove è più facile cercarlo. Invece le uniche soluzioni per noi sono in noi! Cercate, cercate pure, ma non le troverete là fuori! Nessuno ha le risposte che vi servono... le avete voi soltanto. E se credete di poter fare le valigie e sfuggire a voi stessi, vi aspetta una grossa sorpresa. Correte a 76

rifugiarvi sulla vetta di una montagna nepalese, e quando avrete superato la meraviglia di trovarvi nel Nepal, che cosa vi troverete di fronte, guardando nello specchio? Voi! Con tutti i vostri problemi, tutte le vostre paure, tutta la vostra confusione, tutta la vostra solitudine, tutto ciò che voi siete. Quindi è ora di incominciare a cercare dove è sensato farlo. Ciò che è essenziale, non è là fuori. Ciò che è essenziale è veramente dentro di voi. Ma dentro c'è un buio spaventoso, e non è facile cercare nell'oscurità. E nessuno insegna come fare. In tutti i vostri studi, quanti corsi ci sono stati che vi abbiano insegnato a conoscere voi stessi? Vi insegnavano la matematica, e non voglio dire che non sia importante, ma potete vivere anche senza conoscerla. Conoscere la matematica è comodo. È comodo saper leggere, ma potete vivere gioiosamente anche se non sapete leggere. Molti di voi hanno impiegato anni per imparare e adesso non leggono più. Le statistiche dimostrano che in media un laureato - e questo vi scandalizzerà - dopo la laurea legge non più di un libro all'anno. Non ci sono corsi sulla vita, non ci sono corsi sull'amore, non ci sono corsi intitolati «Mi sento solo. Che cosa posso fare?». Quando cercate di organizzare corsi di questo genere, ve lo giuro, vi considerano matti. I mass-media mi hanno affibbiato l'etichetta di «dottore in amore». Santa pazienza! E uno dei più grandi onori che mi siano toccati è stato quando ho ricevuto l'invito a partecipare alla trasmissione «Qual è la mia professione?». Dico sul serio! Lo giuro. «Qual è la mia professione?» «Nel suo caso, non l'indovineranno mai!» mi scrissero gli organizzatori invitandomi a partecipare. Andate in una biblioteca, procuratevi tutti i testi sacri, poi mettetevi a sedere e leggeteli, cercando che cos'hanno in comune. È meraviglioso! Hanno tante cose in comune! Gesù diceva: «Se volete scoprire la vita, cercatela dentro di voi». 77

Lo diceva anche il Buddha. Lo dicevano i testi sacri degli ebrei. Il Corano. La Bhagavad Gita. Il Libro dei Morti tibetano, il Tao... tutti vi rammentano questa verità. Le spedizioni al di fuori di voi stessi sono inutili. Vi condurranno in una foresta dove vi smarrirete. Le risposte che vi servono, sono dentro di voi, e non fuori. Che cosa di solito si considera essenziale? Innanzitutto, il corpo; siamo al suo servizio. Le cure che gli dedichiamo fanno arricchire un mucchio di gente. Mio Dio, le migliaia di varietà di dentifricio. E i milioni di tipi diversi di shampoo. Ricordo che, quando ero bambino, ci lavavamo con il vecchio, semplice sapone Ivory. E adesso c'è qualcosa per i capelli morbidi, per i capelli folti, per i capelli radi, per i capelli che cadono, per i capelli che stanno dritti, per chi non ha capelli! C'è un tonico per i capelli dei bambini, e uno per i neonati, e per gli adulti e per i vecchi! Non possiamo avere in comune neppure il tonico per capelli! Ecco un'altra cosa che ci divide. Non vi sentite mai stanchi di queste assurdità? Fate questo, e quello, e questo, e quest'altro. Poi vi vestite e uscite, pronti ad affrontare la giornata. Poi tornate a casa e rifate tutto, al contrario. Vi togliete tutto e andate a letto. E la mattina dopo ricominciate daccapo! Però lo facciamo, perché abbiamo paura che la gente intorno a noi ci pianti in asso se non usiamo un certo tipo di deodorante. Il corpo è soltanto un veicolo. È un veicolo magnifico perché porta ciò che è essenziale: ma in se stesso non è essenziale. Dunque, che cos'è essenziale? Per noi è l'apprendimento, e lasciamo che ci condizioni. Dimentichiamo che i fatti non sono la saggezza. Impariamo i fatti, e passiamo la vita a riempircene il cervello. Ma questi fatti, in maggioranza, sono soltanto inutili rumori di fondo. E ci lasciamo condizionare da questi rumori di fondo! Se c'è qualcosa di nuovo che tenta 78

di passare, deve venire filtrato attraverso questi rumori, attraverso questa erudizione antiquata e inutile. Ecco perché per alcuni di noi è tanto difficile cambiare. Spesso io domando alla gente: «Siete veramente voi? Il vostro voi? Oppure siete il voi che gli altri vi hanno detto che siete?». Tutti passano la vita a dirci chi siamo. Alcuni lo fanno per professione, altri lo fanno senza neppure rendersene conto! La mamma, per esempio, che se ne sta al supermercato e tiene per mano il figlioletto, dice all'amica: «Questo è quello stupido. Suo fratello è intelligente. È inevitabile che capiti anche un figlio stupido, e dopotutto non è cattivo. Non mi crea problemi». Che cosa sta dicendo a quel bambino?! Crede che sia sordo? Tutti insegnano a tutti, sempre, chi sono e che cosa sono. Ecco perché ognuno è un insegnante. Ma se siete ricchi d'amore, dovete stare molto, molto attenti prima di affibbiare un'etichetta agli altri. Non m'interessa dove siete arrivati imparando: non siete ancora approdati a niente. Noi ci lasciamo impressionare dalle persone che hanno etichette sensazionali. Crediamo che un titolo di dottore o una libera docenza diano la saggezza. Ma ho una rivelazione per voi! Alcune delle persone più stupide che ho conosciuto hanno la libera docenza! E alcune delle persone più sagge che conosco non sanno neppure cosa sia una libera docenza! Ricordate che ciò che avete imparato può esservi d'intralcio se credete che ciò che sapete sia la realtà e di conseguenza setacciate tutte le cose nuove che affluiscono verso di voi. In mezzo a questi rumori di fondo non progredirete mai, non cambierete mai. Conosco certuni che ancora oggi insegnano le stesse cose che insegnavano vent'anni fa, esattamente nello stesso modo. Ho visto insegnanti che hanno insegnato per nove anni in quarta classe. Ogni volta che arriva il momento d'insegnare, mettiamo, il «Movimento verso l'Occidente» è molto importante - vanno allo schedario, aprono il cassetto 79

e tirano fuori il vecchio fascicolo sul «Movimento verso l'Occidente» e potete vedere benissimo che l'hanno insegnato per nove anni perché ci sono i nove forellini delle spillature! La conoscenza non è saggezza! L'apprendimento, in se stesso, non è saggezza. La saggezza è l'applicazione della conoscenza e dei fatti. La saggezza è rendervi conto che non sapete nulla. La saggezza è dire: «La mia mente è aperta. Dovunque sia arrivato, sto appena incominciando. Ci sono da capire cento cose per ognuna delle cose che so». Questo è l'inizio della saggezza. Noi non siamo certamente ciò che sappiamo. La nostra civiltà ci fa ritenere che sia essenziale la gioia continua. Non conosco altre culture altrettanto votate al piacere. Ci perdiamo nella ricerca continua del piacere, e dimentichiamo che ci sono altre cose. Non appena ci sentiamo un pochino infelici, inghiottiamo una pillola o beviamo qualche euforizzante. Chi ha voglia di soffrire? La nostra è una cultura che aborrisce e teme la sofferenza. Non voglio certo dirvi, santo cielo, «crogioliamoci nella sofferenza». Non fraintendetemi! Io preferisco di gran lunga insegnare e imparare nella gioia. La gioia è una grande maestra. Ma lo è anche la disperazione. La chiarezza è una grande maestra, ma lo è anche la confusione! La speranza è una grande maestra, ma lo è anche la disillusione! E la vita è una grande maestra, ma lo è anche la morte. Se negate a voi stessi uno qualunque di questi aspetti, non farete un'esperienza totale della vita. Non conosco un'altra cultura al mondo nella quale siano tanto numerosi coloro che attraversano la vita senza farne l'esperienza. Molti di noi non sanno neppure che cosa sia! Noi siamo protetti contro la vita. Non conosciamo il valore del denaro, il valore delle cose, il valore della fame. Non comprendiamo la sofferenza e - il cielo ci guardi! - non comprendiamo la morte. Diamine, i bambini vengono addirittura allontanati, quando muore qualcuno. 80

Molti di voi sanno che sono nato in una semplice, magnifica famiglia di immigrati. I miei vivevano nell'Italia settentrionale, dove ci sono molti vigneti, e ci allevarono in modo molto semplice. Ma non ci proteggevano dalla vita. Partecipavamo sempre a tutto. Alle gioie della casa, alla musica, alle meraviglie della vita familiare. Ma partecipavamo anche alla sofferenza e alla disperazione della famiglia. Non eravamo protetti. La nostra famiglia era molto strana perché qualche volta tutto andava per il meglio, e avevamo tutto ciò che volevamo - ravioli, e gnocchi, e spaghetti, e salsicce, tutto quanto - e altre volte non c'era niente. Facevamo una grossa polenta. Conoscete la polenta? È un piatto caratteristico dell'Italia settentrionale, un miscuglio pastoso di farina di mais che riempie lo stomaco. Dopo sei bocconi, non ce la fate più a muovervi. Ma almeno lo stomaco non l'avete vuoto! Però non eravamo mai protetti contro la sofferenza, perché ogni volta che papà entrava in casa, e vedevamo che aveva la faccia lunga lunga, lui diceva inevitabilmente: «Non abbiamo più soldi». Poi aggiungeva: «Che cosa faremo?». Era molto bello vedere che tutti si sentivano coinvolti. Mia sorella diceva: «Andrò al mercato a raccogliere le verdure avanzate per i conigli». E io vendevo riviste. Non avete mai venduto riviste di porta in porta? Diamine, è incredibilmente istruttivo. Tutti facevamo qualcosa. Era un'esperienza di solidarietà. Mamma faceva una cosa straordinaria. Aveva un sistema, per rimediare alle facce lunghe di papà. Metteva via un po' di denaro in una bottiglia e la seppelliva in cortile, per il giorno in cui ci fossimo trovati alla fame. E allora spendeva quel denaro in modo incredibile!. Comprava un pollo! Ma imparavamo molto dalla disperazione. Imparavamo molto dalla fame. Imparavamo molto dal fatto di essere chiamati in causa, come parte della famiglia. Qualche volta noi pensiamo che sia importante possedere 81

case grandi e tanto denaro. Essenziali invece sono gli scopi, gli scopi importanti. Passiamo la vita ad assicurarci contro la catastrofe incombente, siamo certi che sta in agguato dietro la porta. Così facendo, rinunciamo a vivere il presente. Chi è veramente ricco d'amore capisce che l'unica realtà è il presente. L'ieri è passato, e non potete farci nulla. Va bene così, perché vi ha portati dove siete adesso. E nonostante quel che vi ha detto la gente, il punto dove vi trovate è bellissimo! Ma non potete far nulla per cambiare l'ieri: non è più reale. E domani? Il domani è una cosa meravigliosa, da sognare. È meraviglioso sognare il domani, ma non è reale. E se passate il tempo a sognare l'ieri e il domani, vi lascerete sfuggire ciò che sta accadendo ora. Questa è la realtà reale con la quale dovete restare in contatto. Il domani è troppo nebuloso. Di recente, nella nostra università sono stati assassinati due studenti. Avevano lasciato una festa dove si erano divertiti, e stavano attraversando il campus quando, insensatamente, sono stati colpiti entrambi alla testa da dei proiettili. Non sappiamo ancora perché, non sappiamo chi sia stato. Entrambi erano stati miei allievi... una bella ragazza, un ragazzo fantastico. Una sola cosa sono riuscito a pensare, quando ho letto la notizia (ed è stato un vero trauma): Spero di avere almeno insegnato loro a vivere il tempo che hanno avuto a disposizione! Spero che non stessero aspettando il domani, per vivere. È triste pensare che la gente investa tanto nel domani. Noi non sappiamo ciò che potrebbe accadere tra un momento. Potrebbe non esserci un altro momento nel nostro futuro. Una ragazza mi ha consegnato una poesia e mi ha autorizzato a farvela conoscere, e io lo faccio perché spiega tante cose sul nostro eterno rinviare, sul fatto che rimandiamo sempre il momento di fare qualcosa per coloro che amiamo. Questa ragazza desidera conservare l'anonimato. La poe82

sia è intitolata «Le cose che non hai fatto». Eccola: Ricordi il giorno che presi a prestito la tua macchina nuova e l'ammaccai?

Credevo che mi avresti uccisa, ma tu non l'hai fatto. E ricordi quella volta che ti trascinai alla spiaggia, e tu dicevi che sarebbe [piovuto, e piovve? Credevo che avresti esclamato: «Te l'avevo detto!». Ma tu non l'hai fat[to. Ricordi quella volta che civettavo con tutti per farti ingelosire, e ti eri [ingelosito? Credevo che mi avresti lasciata, ma tu non l'hai fatto. Ricordi quella volta che rovesciai la torta di fragole sul tappetino della tua [macchina? Credevo che mi avresti picchiata, ma tu non l'hai fatto. E ricordi quella volta che dimenticai di dirti che la festa era in abito da sera e [ti presentasti in jeans? Credevo che mi avresti mollata, ma tu non l'hai fatto. Si, ci sono tante cose che non hai fatto. Ma avevi pazienza con me, e mi amavi, e mi proteggevi. C'erano tante cose che volevo farmi perdonare quando tu saresti tornato dal [Vietnam. Ma tu non sei tornato.

Ecco, non so come la pensiate voi, ma io non penso che l'essenziale sia il mio corpo. Non so come la pensiate voi, ma io non penso che la mia istruzione sia l'essenziale. Non credo che l'essenziale, per me, sia la mia casa o la mia macchina o i miei vestiti. Che cos'è l'essenziale, per me? Io credo che l'essenziale sia vivere e abbracciare la vita, ora, dovunque io sia. La stringo tra le braccia! Non perdo tempo a piangere sull'ieri... ieri è finito! Dimentico il passato. Perdono quelli che mi hanno fatto soffrire. Non voglio passare il resto della mia vita a muovere rimproveri e a puntare l'indice. Sono così stufo di sentire la gente lagnarsi di quello che gli hanno fatto i genitori. Sapete che cosa vi hanno fatto i vostri genitori? Il meglio che potevano fare. Il meglio che sapevano fare, molto spesso l'unica cosa che sapevano fare. Nessuno ha mai agito con il proposito di fare del male al proprio figlio, se non era uno psicopatico. Sapete perdonare? Sapete dimenticare? Sapete dire: «Va 83

bene così»? Sapete dire: «Anche loro sono esseri umani», e abbracciarli? Solo dopo averlo fatto potete prendere tra le braccia il vostro io. Riscoprite che siete speciali, che siete unici che siete meravigliosi, che in tutto il mondo, come voi, ci siete soltanto voi! Abbracciare voi stessi! Certo, siete confusi, e qualche volta commettete qualche stupidaggine e dimenticate che siete degli esseri umani, ma la cosa più meravigliosa, in voi, è che qualunque cosa siate avete il potenziale per progredire. State appena incominciando. In questo momento siete ciò che siete, e c'è un'infinità di cose da scoprire! Non sprecate tempo a piangere! Perdonate gli altri! Perdonate voi stessi. Perdonatevi perché non siete perfetti. E accettate la responsabilità della vostra vita. Nikos Kazantzakis afferma: «Avete il pennello, avete i colori, dipingete voi il paradiso, e poi entrateci!». Fatelo! Prendete l'arancione e il rosso magenta e l'azzurro e il porpora... e il verde, e il giallo... e dipingete il vostro paradiso. Potete farlo! Potete farlo subito. La cosa essenziale è la vostra vita. Non so quanti di voi conoscano il meraviglioso dramma di Arthur Miller intitolato Dopo la caduta. È probabilmente una delle opere più sottovalutate della letteratura americana. Miller lo scrisse poco dopo il suicidio di Marilyn Monroe, che era stata sua moglie, e cercò di porsi una domanda che io mi sono già posto, e che forse si sono posti molti di voi: Che cosa avrei potuto fare per salvare quella persona? Il dramma, in sostanza, diceva: «Devo imparare a perdonare. Gli altri e me stesso». C'è una battuta molto bella, che vorrei condividere con voi. Uno dei personaggi più saggi dice: Io penso sia un errore cercare la speranza al di fuori di te stesso. Un giorno la casa profuma di pane fresco, e l'indomani ha odore di fumo e di sangue. Un giorno svieni perché il giardiniere si è tagliato un dito. Una settimana dopo scavalchi 1 cadaveri dei bambini uccisi da una bomba nella sotterranea. Che speranza può esserci, se è così? Ho cercato di morire, verso la fine della guerra. Ogni notte facevo lo stesso 84

sogno, e non osavo più addormentarmi, e stavo male. Sognavo di avere un figlio. E anche nel sogno, sentivo che quel figlio era la mia vita, ed era un idiota, e io fuggivo via. Ma lui continuava ad arrampicarsi sulle mie ginocchia, e si aggrappava ai miei vestiti, e alla fine io pensavo: Se potessi baciarlo, qualunque cosa ci sia in lui che mi appartiene, forse potrei dormire di nuovo. Mi chinai sul suo viso devastato, e fu orribile. Ma lo baciai. Io credo, Quentin, che ognuno debba prendere tra le braccia la propria vita, e baciarla. 1

È un'affermazione fantastica. Non importa se avete fatto del male a qualcuno, purché abbiate imparato a non farlo più. Purché non lo facciate più. Purché impariate, purché siate disposti a prendere la vostra vita tra le mani e a baciarla e a proseguire da questo punto. Solo così c'è progresso. Solo così c'è la vita! Poi, l'essenziale è accettare la nostra morte. Non voglio essere morboso, ma penso che l'unico modo per accettare la vita è accettare la morte. La morte ci insegnerà che c'è un limite. Io assegno spesso un tema alla mia classe... Se aveste cinque soli giorni da vivere, come li trascorrereste? E con chi? Spesso le risposte sono molto semplici. Io scrivo lunghissime annotazioni - quasi delle lettere - sui temi dei miei studenti. In questo caso scrivo: «Perché queste cose non le fai ora?». «Se avessi cinque soli giorni da vivere direi al tale che lo amo». E io dico: fallo ora! «Se avessi cinque soli giorni da vivere, andrei sulla spiaggia a guardare il tramonto.» Che cosa stai aspettando? Ma noi ci proteggiamo dalla morte, come ci proteggiamo dalla vita. Molti di noi non sanno neppure come affrontare la morte; ci portiamo un albatros appeso al collo, come il Vecchio Marinaio di Coleridge, per tutta la vita, e siamo sempre sul punto di piangere. Dobbiamo imparare che la morte è 1

1l brano è stato tradotto dalla versione in lingua inglese edita da Viking Books, New York, con il titolo After the Fall. Versione italiana edita da Einaudi, Torino 1973. [N.d.T]

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solo un aspetto della vita. È separarsi dal veicolo, è andare oltre. La morte c'insegna ad andare oltre. Vedete, mia madre è morta due anni fa; e fino alla fine mi ha insegnato cose meravigliose. Non credemmo al dottore, quando ci disse che era in coma. «Non preoccupatevi per lei, non sa neppure se ci siete o no. È inutile che restiate all'ospedale. Dareste soltanto fastidio.» E lui come lo sapeva? Non era mai morto! Così a turno passammo lunghe ore con lei, giorno e notte, finché rimase in vita. Le tenevamo la mano! Nessuno dovrebbe morire solo! A me toccò uno degli ultimi turni. Eravamo soli nella stanza, io e mia madre. All'improvviso lei aprì gli occhi. Aveva occhi grandissimi, scuri, meravigliosi. Un attimo prima avevo pensato: «Mi mancherà moltissimo. Era una grande donna, stavamo così bene insieme, e lei aveva sempre un sorriso e un cioccolatino per me. E mi mancherà il suo aglio». Avete notato che dicevo sempre me? «Io farò questo, e mi mancherà quest'altro, e non mi lasciare!» Sapete quali furono le ultime parole che mi disse? Aprì quei grandi, meravigliosi occhi italiani, mi vide con le guance rigate di lacrime e disse... pensate! «Felice, a che cosa ti stai aggrappando?». A che cosa mi sto aggrappando? Vedete che cosa può insegnarvi la morte? La morte non è spaventosa. La morte c'insegna il valore del tempo. Ci rendiamo conto di quanto è prezioso. Comprendiamo che non abbiamo a disposizione l'eternità! La morte c'insegna a guardare e a vedere... e c'insegna che coloro che amiamo non rimarranno sempre gli stessi. Noi non ci guardiamo neppure più! Siamo così occupati a fare tante cose che nessuno di noi guarda più gli altri. Non sarete qui per sempre. Domattina non sarete più come siete ora. Quanti di voi hanno figli abbastanza adulti per sposarsi? Quando se ne andranno vi accorgerete di non avere mai avuto il tempo per osservarli crescere: di essere stati sempre così indaffarati a fare qualcosa per loro da non averli vistò 86

Una volta ho detto proprio questo, a una conferenza, e due signore si sono guardate con le lacrime agli occhi, e una ha detto: «Sa, è da tanto tempo che non guardo mio figlio che sarei incapace di descriverlo». E l'altra ha detto: «Vale anche per me. Andiamo». Lasciarono la conferenza, presero l'auto e tornarono a casa loro, a più di settanta chilometri di distanza, e svegliarono i figli. E i figli chiesero: «Cosa fai? Cos'è successo?». E le madri: «Zitto, voglio guardarti!». Mio Dio! Non perdetevi tutto questo! I volti delle persone che amate non saranno più gli stessi domattina, e anche il vostro volto non sarà più lo stesso. Non perdeteveli. Gli alberi, là fuori, compiono prodigi. Osservateli continuamente... è una magia. Oggi ho detto a qualcuno: «Oh, i vostri alberi!». Mi ha risposto: «Quali alberi?». In California, avevamo un governatore che diceva: «Quando avete visto una sequoia, le avete viste tutte!». Mi piacerebbe mandarlo nel Wisconsin! Il cielo non voglia! Davvero, la frase più triste, per me, è sentire qualcuno che dice: «Vorrei tanto aver fatto...». Potete farlo! Luì è seduto vicino a voi, adesso? Guardatelo. Lei è seduta vicino a voi in questo momento? Guardatela, toccatele la mano. Domani non provereste la stessa sensazione. Di che cosa avete paura? «Oh, Dio, essere arrivati in punto di morte,» diceva Thoreau «senza avere mai vissuto.» La morte c'insegna questo. È bene conoscere la morte. In Asia, la morte è per le strade. I bambini crescono accanto alla morte. Non ne hanno paura; non c'è da averne paura. C'è un'assicurazione contro tutto, sapete? Ma nessuno vi ha mai assicurato contro la tristezza. Nessuno vi assicura contro la morte. È la cosa più inevitabile, capiterà a ognuno di noi. C'insegna che cos'è l'amore... è due braccia aperte. È la libertà. Tenete le braccia aperte e la gente verrà e andrà... come farebbe comunque. Voi non potete comandare. «Mi rifiuto di lasciarti morire»... a che cosa ti stai aggrappando? Fate l'esperienza della vita: soffrite, urlate, piangete. E poi lasciatela andare. 87

L'essenziale, io credo, è vivere la vita con uno spirito di meraviglia. Quanta magia c'è intorno a noi, ma noi lasciamo che ci passi accanto! In Asia dicono che la vita è un grande fiume, che scorre qualunque cosa facciate o non facciate. Possiamo decidere di abbandonarci al fiume e di vivere in pace, nella gioia e nell'amore; oppure possiamo decidere di lottare contro il fiume, e vivere nella sofferenza e nella disperazione. Ma il fiume non se ne cura. La vita non se ne cura. Qualunque cosa facciamo, tutti i nostri fiumi si gettano nello stesso mare. Sta a voi decidere. Infine, è essenziale non soltanto attingere dalla vita; è essenziale alimentarla. Noi abbiamo dimenticato il dovere di donare. Ci sono varie istituzioni caritatevoli alle quali faccio offerte, ma siccome sono all'estero, non posso dedurre le somme sulla denuncia dei redditi. La gente dice: «Sei matto!». È molto triste. Abbiamo veramente dimenticato cosa significa donare. Io ti do amore perché ti amo, non perché mi aspetto che tu ricambi il mio amore. Se io do aspettandomi qualcosa in cambio, sarò sicuramente infelice. Quando dite «buongiorno» a qualcuno, lo fate perché volete dirlo, non perché vi attendete in cambio qualcosa. Se attendete qualcosa in cambio, e gli altri non dicono nulla, allora pensate: «Lo sapevo, non dovevo dire buongiorno». A volte siamo arrivati a questo punto - dico buongiorno e qualcuno si volta e mi chiede: «La conosco?». E io rispondo: «No, ma non sarebbe bello se ci conoscessimo?». Qualche volta, dicono di no. Ne hanno il diritto. Ma io ho fatto quello che volevo. Ho detto buongiorno. E loro hanno fatto quello che volevano, hanno risposto oppure no. Se non ci aspettiamo nulla, abbiamo tutto, dice il Buddha. Amate perché volete amare. Date perché volete dare. I fiori sbocciano perché devono, non perché c'è qualcuno a cui piacciono! Voi vivete e amate perché volete. Perché dovete. 88

Questa settimana è venuta nel mio ufficio una ragazza, e per quasi un'ora è rimasta lì a parlare di «me, me, me!». Ecco una delle sue frasi. «Non sono sicura di sapere che cosa voglio dalla vita.» E alla fine, questo vostro buon vecchio consulente ha urlato: «Cosa diavolo dà lei alla Vita?». Ogni giorno prendete qualcosa dalla terra, prendete qualcosa dall'aria, prendete qualcosa dalla bellezza... che cosa date in cambio? Non pensiamo di dare qualcosa in cambio, vero? Per scrivere un libro sui compiti dei consulenti, ho passato tre mesi da solo, in una piccola baita nella California settentrionale. Ogni giorno andavo a fare lunghissime passeggiate lungo il fiume Smith, tra le sequoie, e vi trascorrevo ore e ore. Un giorno mi addentrai in un bosco di sequoie giganti; su uno di quei tronchi enormi c'era un cartello, scritto da una guardia forestale; spiegava il ciclo vitale di una sequoia; era bellissimo. Spiegava che quando la sequoia era alta così era nato il Buddha, e quando era alta cosà era nato Gesù, e quando era grande così Annibale aveva attraversato le Alpi, e via di seguito. Nell'ultimo capoverso c'era scritto: «Anche quando un albero muore e giace sulla superficie della terra, non è tutto finito. Gli agenti della decomposizione incominciano la loro opera, disgregando lentamente l'albero. Con il passare degli anni, l'albero si fonde nel terreno, e restituisce tutto ciò che ha preso, perché altri alberi possano vivere». Non è sensazionale? E immediatamente io pensai che questo poteva valere anche per gli esseri umani. Almeno alla fine dovremmo dare qualcosa! Dovremmo contribuire a questo ciclo continuo, meraviglioso. Forse Leo Rosten aveva ragione, quando diceva che lo scopo della vita è semplicemente fare in modo che il fatto di avere vissuto comporti qualche differenza. Forse è questo l'essenziale. Io mi diverto moltissimo con le parole. Amo giocare con le parole. Ho scritto un elenco di parole che ritengo una guida a ciò che è essenziale: 89

1 Retta conoscenza, che vi dà gli strumenti necessari per il vostro viaggio. 2 Saggezza, per usare la conoscenza accumulata nel modo che meglio servirà alla scoperta della vostra presenza e del vostro presente. 3 Compassione, per accettare gli altri, che possono avere una mentalità diversa dalla vostra, con gentilezza e comprensione, mentre con loro e in mezzo a loro percorrete la vostra strada. 4. Armonia, per accettare il flusso naturale della vita. 5. Creatività, per aiutarvi a capire e a riconoscere nuove alternative e sentieri inesplorati. 6. Forza, per resistere alla paura e continuare ad avanzare senza garanzie di ricompensa. 7. Pace, per mantenervi centrati. 8. Gioia, per permettervi di cantare e di ridere e di danzare lungo l'intero cammino. 9. Amore, che sarà la vostra guida costante verso il più alto livello di coscienza di cui è capace l'uomo. 10. Unità, che ci riporta al punto di partenza... il luogo dove noi siamo uniti a noi stessi e a tutte le cose. Dunque lo studio dell'amore mi ha portato allo studio della vita. Vivere nell'amore è vivere nella vita, e vivere nella vita è vivere nell'amore. Per me, la vita è il dono che Dio vi ha fatto. Il modo in cui vivete la vostra vita è il dono che voi fate a Dio. Fate in modo che sia un dono fantastico.

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Ciò che è essenziale è invisibile all'occhio

Ho chiesto di tenere accese le luci perché quelli di voi che mi hanno già ascoltato sanno che ho bisogno dei vostri occhi; questa sera, per qualche ragione, ne ho bisogno più che mai. Siete moltissimi, e provo un senso di responsabilità tanto grande che voglio donarvi tutto ciò che sono. Mi piace incominciare le mie conferenze raccontando qualche nuova storiella sul mio nome; quelli che mi conoscono sanno che ne ho sempre una nuova! Questa volta è sensazionale, e non riuscirete a crederci! Ero in Asia. Dovevo farmi rinnovare il visto, e per farlo dovevo passare dalla Thailandia alla Cambogia. Era un periodo di gravi tensioni perché, per qualche ragione che non ho mai capito, noi stavamo buttando bombe sulla Cambogia (è un'impressione strana trovarsi dalla parte sbagliata di una bomba, sapete!). Comunque, passai il confine, e il funzionario era molto agitato, perché di solito i turisti non andavano in quella cittadina che si chiama Poi Pet. Per arrivarci bisogna fare sei ore di treno da Bangkok, ed è un piccolo agglomerato, proprio sul confine. Mostrai al funzionario il mio passaporto, e quello mi guardò come se fossi davvero un personaggio molto strano, aprì il passaporto alla pagina sbagliata... e poi mi segnò sul registro come il signor Cicatrice-sopra-l'occhio-destro! Sono un essere umano fortunato perché ho potuto visitare 91

tanti posti in tutto il mondo, e sono entrato in contatto con tante cose fantastiche e interessanti. Voglio parlarvi di una cosa che ho scoperto nel nostro Paese. Una cosa che, a quanto pare, accade nelle nostre menti. Molti di noi si abbandonano alla «smania dell'esteriorità» e desiderano intraprendere il cosiddetto «viaggio all'esterno». «Viaggio all'esterno» significa far collezione di cose ed essere i più ricchi, i più grandi, i più importanti. Ormai possediamo quasi tutte le cose di cui c'è bisogno, ma non siamo andati molto lontano. In sostanza siamo ancora molto soli, molti di noi si sentono sperduti, moltissimi sono confusi. Esiste anche una tendenza che porta in un'altra direzione, e questo è il «viaggio all'interno». Mi entusiasma perché, avendo lavorato con i bambini per tutta la vita, mi rendo conto che l'unica cosa di valore che possiamo dare ai bambini è ciò che siamo, non ciò che abbiamo. Troppo spesso, noi viviamo per le cose esteriori. Ma, invecchiando, impariamo che non sono le cose più importanti. Quando abbiamo a che fare con i bambini, la cosa più essenziale che abbiamo da dar loro è chi siamo e ciò che siamo. Sono felice quando vedo qualcuno veramente interessato a scoprire che cos'è. Ecco perché, quando ho ricevuto l'invito a parlarvi questa sera, ho deciso di parlare di questo argomento: «Ciò che è essenziale è invisibile all'occhio». Molti di voi si sono illuminati, quando l'ho detto, perché avevano già udito queste parole. È una citazione tratta da un bellissimo libro, Il piccolo principe di Saint-Exupéry. Parla di un bambino che vive su una stella. Sulla stella non ha nulla e nessuno, tranne un grande baobab e un paio di vulcani. È un bambino delicato, sensibile, meraviglioso. Per esempio, ama i tramonti perché sono bellissimi e un po' tristi. Dato che il pianeta è piccolissimo, ogni volta che sposta la sedia può vedere un altro tramonto, può vedere anche quarantaquattro tramonti in un giorno. Spettacoloso! Un giorno arriva un piccolo seme, e il bambino lo vede 92

crescere e diventare una rosa. L'osserva attentamente mentre sboccia e diventa uno splendido fiore. Non ha mai visto una rosa: e, diventando bellissimo, il fiore diventa molto vanitoso (come sono talvolta le cose belle). La rosa si pavoneggia, dice: «Proteggimi dal sole» e «Proteggimi dal vento» e fa ammattire il bambino, fino a quando lui conclude che non riesce assolutamente a capirla. Allora l'abbandona e vola verso altri pianeti per acquisire la saggezza scoprendo l'amore, la vita e la gente. E incontra molte cose strane. Sulla terra, tra le altre cose, incontra un essere molto saggio, una volpe; e la volpe dice al piccolo principe: «Addomesticami». Il piccolo principe dice: «Ecco, non so che cosa significa. Cosa vuol dire "addomesticare"?». E la volpe gli spiega come si stabiliscono rapporti con la gente, come si entra nell'animo della gente, come si fa a voler bene. È una grande lezione di saggezza e vorrei che avessimo il tempo di approfondirla, ma potrete leggerla per conto vostro. Il piccolo principe dice: «Se ti addomestico, ricorda che non potrò restare molto tempo con te. Devo andare via». E la volpe risponde: «Quando te ne andrai sarò molto triste e piangerò». Il principe domanda: «Ma perché vuoi che ti addomestichi se questo ti causerà dolore?». E la volpe risponde: «È per via del colore dei campi di grano». E il principe dice: «Non capisco». ...Io non mangio pane. II grano non mi serve. I campi di grano non hanno nulla da dirmi. E questo è triste. Ma tu hai i capelli del colore dell'oro. Pensa come sarà meraviglioso quando mi avrai addomesticata! Il grano, che è egualmente dorato, mi farà pensare a te. E mi farà piacere ascoltare il vento tra il grano... 1

E così incominciano il rito dell'addomesticamento, che è il bellissimo rito di entrare l'uno nella vita dell'altro. Voglio leggervi ciò che la volpe dice al piccolo principe quando questi, dopo essere rimasto con lei per un certo tempo, deve andarsene... 1

La traduzione del Piccolo principe è fatta dalla versione inglese. 93

E così il piccolo principe addomesticò la volpe. E quando si avvicinò l'ora della sua partenza... «Ah,» disse la volpe «piangerò.» «È colpa tua» disse il piccolo principe. «Non ho mai voluto farti del male; ma tu hai chiesto che ti addomesticassi...» «Sì, è vero» disse la volpe. «Ma ora piangerai» disse il piccolo principe. «Sì, è vero» disse la volpe. «Allora non ti ha fatto del bene!» «Mi ha fatto del bene,» disse la volpe «per via del colore dei campi di grano.» E poi soggiunse: «Vai a guardare di nuovo le rose. Ora capirai che la tua è unica al mondo. Poi torna a dirmi addio, e io ti donerò un segreto.» Il piccolo principe se ne andò a guardare di nuovo le rose. «Non siete affatto come la mia rosa» disse. «Non siete ancora niente. Nessuno vi ha addomesticate e voi non avete addomesticato nessuno. Siete come la mia volpe quando l'ho incontrata. Era una volpe come centomila altre volpi. Ma l'ho fatta diventare mia amica, e adesso è unica al mondo.» E le rose rimasero molto imbarazzate. «Siete belle, ma siete vuote» continuò lui. «Nessuno potrebbe morire per voi. Certo, un passante penserebbe che la mia rosa è eguale a voi... la rosa che appartiene a me. Ma la mia è più importante di tutte voi; perché è lei che ho innaffiato, è lei che ho messo sotto il globo di vetro; è lei che ho riparato dietro il paravento; perché è per lei che ho ucciso i bruchi (eccettuati quei due o tre che abbiamo risparmiato perché diventassero farfalle); perché è lei che ho ascoltata, quando brontolava o si vantava, e a volte persino quando non diceva nulla. Perché è la mia rosa.» E poi tornò dalla volpe. «Addio» disse. «Addio» disse la volpe. «Ed ecco il mio segreto, un segreto semplicissimo. E soltanto con il cuore che si può vedere nel modo giusto; ciò che è essenziale è invisibile all'occhio.» «Ciò che è essenziale è invisibile all'occhio» ripetè il piccolo principe, per essere sicuro di ricordarlo. «Ciò che è essenziale è invisibile all'occhio...»

Diversi anni fa andai in Cornovaglia e acquistai tutti i libri sacri su cui riuscii a mettere le mani, per portarli con me. Passai interi mesi a leggerli, cercando di trovare che cosa avessero in comune; e tutti avevano questo, in comune: se guardate l'esteriorità della vita e dell'uomo, vi lasciate sfuggire ciò che è essenziale. E ancora, permettetemi di precisare: quando parlo di un insegnante, non parlo di qualcuno con un diploma che dice di aver seguito tanti corsi noiosi. Parlo dei 94

genitori, parlo dei tutori, parlo di quello che vende i gelati all'angolo. Ognuno insegna sempre, e perciò è indispensabile che, come insegnanti, sappiamo cosa è essenziale, perché soltanto quando sappiamo collettivamente che cos'è essenziale, possiamo sapere che cosa è possibile. E la cosa meravigliosa è che ciò che è essenziale è così immenso e prodigioso e ciò che è visibile all'occhio è così limitato e così piccolo. Uno dei miei eroi è Buckminster Fuller; questo vecchietto è venuto recentemente nella nostra università. È spettacoloso! Porta grossi occhiali e apparecchi acustici dietro gli orecchi, ma è così ricco di vitalità che con un gessetto e una lavagna è capace di tenere tutti ipnotizzati per tre ore filate. C'è da chiedersi come faccia. Recentemente, anche lui si è posto, come molti altri grandi, la domanda che anch'io mi pongo sempre: Che cos'è essenziale nella persona umana? Il nostro corpo? La nostra mente? Le braccia? Le gambe? Le dita? Che cos'è veramente essenziale? Chi sono io? Chi è l'«io dell'io»? Buckminster Fuller ha scritto un articolo meraviglioso che è stato pubblicato su «Saturday Review/ World». È tipico di Buckminster Fuller essere, a settantotto anni, ancora interessato a ciò che rende unico e straordinario l'essere umano. Si domanda perché noi siamo tutti così magici; perché, quando incominciamo veramente a conoscere l'uomo, non possiamo fare a meno di amarlo; perché è così unico e così diverso. Se negate anche a un solo uomo il diritto di entrare nella vostra vita, non otterrete mai in dono l'unicità degli altri. Io, per esempio, vi voglio nella mia vita, perché senza di voi la mia vita non sarebbe completa. Ma solo se scopro il «voi di voi», avrete qualcosa da darmi. Anch'io devo trovare il «me di me». Perché leggo? Perché viaggio? Perché ascolto? Perché me la prendo a cuore? Per poter avere più cose da dividere con voi... è l'unico modo di avere qualcosa. In questo articolo Buckminster Fuller, che ha occhi ancora 95

scintillanti (occhi scintillanti a settantotto anni, che meraviglia!), ha scritto qualcosa d'importante in quel suo modo un po' bizzarro. Ecco: Ho settantotto anni... e scopro che alla mia età ho assorbito più di mille tonnellate d'acqua, cibo e aria, le cui componenti chimiche sono impiegate temporaneamente, e per tempi diversi, sotto forma di capelli, pelle, carne, ossa, sangue, eccetera e poi vengono progressivamente scartate. Alla nascita pesavo sette libbre, e poi sono passato a settanta, poi a centosettanta, e persino a duecentosette libbre. Poi ho perso settanta libbre e ho detto: «Chi era quelle settanta libbre? Perché io sono ancora qui». Le settanta libbre che ho perduto erano dieci volte l'intero totale del mio peso alla nascita, nel 1895. Sono certo di non essere il peso dei pasti più recenti che ho consumato, e che in parte diventeranno i miei capelli, solo per venire poi tagliati due volte al mese. Le settanta libbre perdute di sostanze chimiche organiche evidentemente non erano «me», e non sono «me» gli atomi che rimangono tuttora. Commettiamo un grande errore identificando «me» e «voi» con queste sostanze chimiche transitorie e quindi percettibili sensorialmente... Si pesano spesso le persone, alla loro morte. Molti poveri condannati dal cancro hanno accettato di far mettere sulla bilancia i loro letti. L'unica differenza manifesta nel peso prima e dopo la morte è quella causata dall'aria esalata dai polmoni o dall'urina perduta. Qualunque cosa sia la vita, non pesa nulla.

E poi passa a parlare delle nostre menti. Dice che le nostre idee cambiano di continuo. La mente di un bambino non è la mente di un adulto. La mente che avete questa sera non è la mente che avrete la settimana prossima o quella successiva, quindi è chiaro che l'essenziale non è la vostra mente mutevole. Che cosa è il «voi di voi»? Che cos'è questo qualcosa prodigioso e nebuloso che egli chiama eterno? Ecco come conclude l'articolo: ...l'umanità ha una funzione essenziale nell'universo... nel campo macromicro del grande disegno e della sua realizzazione nel tempo. Sta albeggiando in noi l'intuizione dell'integrità e dell'immortalità dell'individuo. La coscienza ha termine, ma la conoscenza è eterna. Il cervello è temporaneo; la mente è eterna. La coscienza e l'apprendimento sono temporanei e hanno termine. La comprensione e la conoscenza sono eterne. I bambini lo sanno intuitivamente.

Quelli di noi che lavorano con i bambini dovrebbero non soltanto scoprire in se stessi l'«io dell'io», per poterlo con96

dividere con loro, ma anche aiutare i bambini a liberarsi perché possano scoprire l'«io dell'io» in se stessi, svilupparlo, goderne i prodigi e poi farne partecipi gli altri. Solo quando avrete affrontato ciò che vi è di essenziale in voi stessi potrete decidere che cosa vi è di essenziale nei vostri bambini. E la verità è che molto spesso noi professionisti tendiamo a vedere i bambini attraverso gli aspetti frammentari manifestati esteriormente. Tendiamo a suddividerli. E tendiamo anche a vederci l'un l'altro come i nostri aspetti frammentari, anziché come la nostra totalità esteriore. Mi interessa sempre il modo in cui guardiamo i bambini. Lavoro nel campo dell'educazione da tutta la vita, ed ecco che cosa ho scoperto: il patologo del linguaggio vede il bambino come un problema di balbuzie o di dizione blesa o di linguaggio; il terapista occupazionale lo vede come un problema motorio; lo psicologo della scuola lo vede come un problema emotivo o di apprendimento; il terapista fisico lo vede come un problema muscolare; il neurologo lo vede come un disturbo del sistema nervoso centrale; il behaviorista lo vede come una reazione del comportamento; il consulente della lettura lo vede come un problema percettivo; l'amministratore della scuola lo vede come un problema organizzativo; e l'insegnante lo vede come un enigma e spesso addirittura come una spina nel fianco! Ed ecco la mamma e il papà che cercano di vederlo come un tutto integrato, ma ben presto noi li convinciamo che non è così. Finisce che anche loro perdono di vista il prodigio totale; dicono che il loro è un bambino «problematico». Per me, questo significa veramente non vedere ciò che è essenziale. Tutti costoro adoperano soltanto gli occhi per vedere ciò che è essenziale, e l'occhio è l'organo più impreciso, più incoerente e più condizionato dai pregiudizi di tutto il nostro corpo. Guardano, ma in realtà non vedono. Forse davvero tutte le cose che vedono sono essenziali, ma 97

l'essenziale è molto, molto di più ed è invisibile all'occhio. Se non stiamo attenti, finiremo per fare ciò che dice Maslov: «Se l'unico utensile di cui disponete è un martello, tenderete a trattare ogni cosa come se fosse un chiodo». E quindi, se vogliamo vedere il bambino, dobbiamo vederlo come le tante cose visibili e invisibili che è, e dobbiamo avere a disposizione una gamma immensa di utensili con cui lavorare. Ecco l'interesse, la sfida, la meraviglia, quando si lavora con gli esseri umani anziché con le macchine. Quali fattori ci impediscono di vedere ciò che è essenziale? Innanzitutto, credo, il nostro bagaglio di conoscenze... le cose che abbiamo imparato, il nostro linguaggio, le nostre percezioni, tutte le cose che ha fatto per noi il nostro sistema nervoso centrale; la nostra mentalità poco duttile. Recentemente ho letto alcuni libri molto interessanti sulla percezione, e alla fine sono pervenuto alla conclusione tutta mia (ma sono sicuro che è già stata scritta mille volte da altri) che in realtà la funzione del sistema nervoso centrale non è lasciare entrare le cose, ma escluderle. Si chiama «percezione selettiva». Per questo vediamo solo una piccola parte delle cose presenti nel nostro ambiente. Naturalmente, abbiamo bisogno della capacità di escludere gli stimoli estranei, per concentrarci. In questa sala, in questo momento, stanno succedendo moltissime cose. Potete concentrarvi su di me, con un atto di volontà. È molto gentile da parte vostra, perché è importante che voi e io possiamo comunicare. Per questo non sentite i colpi di tosse, non sentite la gente che entra, e non sentite lo stomaco della persona seduta vicino a voi che brontola e dice: «Ho fame, vorrei che quello non la facesse tanto lunga». Voi non sentite tutte queste cose, perché avete scelto di concentrarvi su di me con un atto di volontà e di escludere tutto il resto. Se non è questo che fate, allora forse fantasticate, o pensate a casa vostra e ai vostri cari, o a quello che volete. Recenti studi sull'LSD hanno dimostrato che 98

quelli che lo prendevano lo facevano senza pensare al male che poteva causare, e non erano preparati a un tipo di esperienza che spalancava tutti i loro sensi e lasciava entrare tutto ih una volta; così finivano negli ospedali psichiatrici. Il sistema nervoso centrale, come l'abbiamo educato noi, è lì per filtrare, per escludere. E quindi il nostro apprendimento è per la verità molto limitato. Tra voi e me, in questo momento, sta succedendo qualcosa di più della vibrazione dell'aria prodotta dalle mie parole. Sono certo che verrà un giorno in cui molti di noi saranno così esperti in fatto di vibrazioni che io o un altro oratore potremo metterci qui e irradiare vibrazioni da farvi saltare sulle sedie! Le parole non saranno più necessarie, e sarà un giorno fausto. Come sapete, una delle più grandi difficoltà che abbiamo al mondo è causata dalle parole. Per me, è sempre motivo di stupore il fatto che riusciamo a comunicare. Se io usassi una parola come «amore» e dicessi: «Vi prego di definirlo», avremmo molte definizioni diverse. Lo stesso avviene per «casa», «affetto», «paura», «meraviglia». Dunque le nostre menti sono molto limitate e sono semplicemente il ricettacolo d'un'esperienza preselezionata. Noi crediamo veramente che esista soltanto ciò che percepiamo come realtà. Santo cielo, in qualunque punto vi troviate, siete soltanto all'inizio! State appena incominciando a scoprire l'universo e voi stessi. Se svilupperete insieme ad altri la vostra sensibilità vi accadrà di scoprire sensazioni che non avevate mai sognato di possedere: capacità di udito, capacità di olfatto, capacità di gusto... cose meravigliose che sono sempre state presenti, ma che prima non erano state scoperte. È necessario accrescerle. Non è una magia; dovete impararle, dovete svilupparle. Ma noi crediamo che non ci sia altro oltre al nostro mondo ignorante e limitato. A suo tempo, non mi rendevo conto di ricevere da mio padre la miglior lezione in fatto di percezioni. Parlo sempre di mio padre perché era un grand'uomo. Insegnava a noi 99

bambini come si assapora il vino... non è splendido? Mi diverte sempre quando ci sediamo in un ristorante, soprattutto in America, e arriva il cameriere e domanda: «Vuole assaggiare il vino, signore?». Ci sentiamo un po' imbarazzati e rispondiamo: «Grazie». Il cameriere versa un po' di vino nel bicchiere, noi lo prendiamo, lo sorseggiamo, lo posiamo e diciamo: «Meraviglioso!». E magari sa d'aceto! Mio padre diceva sempre: «Il vino è un rito... è quasi un sacramento». Il vino parla a tutti i sensi. Per prima cosa, accostatelo alla luce. Guardate il colore. I diversi vini hanno colori diversi. Lasciate di stucco il cameriere! Dite: «Oh, guardate il colore... non è bellissimo?». E poi fate passare in giro il bicchiere perché tutti lo vedano. I camerieri sono così abituati al fatto che vada sempre bene che non aspettano il vostro consenso per versarlo. Hanno già fatto il giro di mezzo tavolo prima che voi l'abbiate assaggiato. E poi il bouquet... oh, parola mia, il profumo! Se lo fate roteare un po' e lo mettete sotto il naso, aspirate l'aroma meraviglioso dell'uva. Poi - ecco, pensate di averlo fatto roteare, di averlo guardato, di avere aspirato il profumo - viene il momento di metterlo sulla lingua, appena sulla punta, perché la lingua è cosi sensibile che ha qualcosa da dire, qui, e poi il vino va un po' più avanti, e ha da dire qualcos'altro... il messaggio è diverso. Incominciate con il vino sulla lingua. Poi fatelo scorrere all'interno della bocca. Soltanto allora siete in grado di dire se il vino va bene o non va bene. È un'esperienza sensazionale, ricca di sfaccettature. Possiamo considerare essenziale anche il nostro ego, l'io che abbiamo costruito! Ma lasciatemi dire che non siete stati voi a costruire quell'io. È stato qualcun altro a farlo per voi. La gente vi ha detto chi dovevate essere e chi non dovevate essere, come dovevate muovervi, che odore dovevate avere, e come dovevate fare quasi tutto ciò che fate. È meraviglioso fare marcia indietro. Dicono gli asiatici: «Lascia il tuo ego sul tavolo». Uscite da voi stessi e lasciatelo li. Dite: «Aspetta un 100

momento». Solo così arriveranno messaggi nuovi. L'io costruisce intorno a sé muraglie enormi, per proteggersi. E le chiama realtà. Tutto ciò che non si armonizza con quello che l'io ingabbiato considera reale, non può superare la muraglia, e così, quando la nuova percezione entra, è diventata ciò che l'io voleva che fosse. Perciò tanti di noi continuano a procedere attraverso la vita vedendo ciò che vogliono vedere, udendo ciò che vogliono udire, sentendo l'odore che vogliono sentire, mentre tutto il resto rimane totalmente invisibile. Le cose sono tutte là. Per vederle, non dobbiamo far altro che lasciarle entrare, toccarle, assaporarle, masticarle, abbracciarle (questo è anche meglio), fare l'esperienza di quel che sono... non di quel che siamo noi. E poi consideriamo essenziali le nostre assuefazioni. Io le chiamo «assuefazioni» perché siamo letteralmente assuefatti a idee strane, e non sappiamo liberarcene. Abbiamo nozioni strane di ogni genere. Un giorno mi trovai solo, su una spiaggia vicino a La Paz, e scrissi un elenco di tutte le assuefazioni deleterie. Sono umano, e anch'io ho queste assuefazioni. Sono tutt'altro che perfetto. Piango. Mi sento solo. Mi travolge pensare che la gente viene ad ascoltarmi. È una cosa che mi sorprende sempre. Mi è stato detto che stava arrivando in aereo qualcuno dal New Jersey, che aveva telefonato e aveva chiesto: «C'è Leo? Perché se non c'è, non vengo». Buon Dio... che responsabilità! Che cosa devo dire? Credo sia per questo che ho riscritto per diciassette volte il testo di questa conversazione! Dunque, mentre stavo sulla spiaggia, individuai settantatré assuefazioni deleterie. Io le chiamo, come le definisce Paul Reps, «l'armamentario dell'anti-io». Non è bellissimo? L'io che sconfigge se stesso, le idee pazzesche che ci sono state insegnate e che noi prendiamo per buone, e poi procediamo attraverso la vita cercando di lasciare che le cose nuove vengano a noi, ma quelle idee non le fanno passare. 101

La cosa peggiore, tra tutte quelle che ci impediscono di vedere ciò che è essenziale, è l'apatia. «Non m'importa un accidente.» «Sto benissimo come sono.» «Chi diavolo ha voglia di sentire le vibrazioni?» «Lascia che le senta Buscaglia, le vibrazioni!» «Chi se ne frega?» «Un fiore è un fiore.» «Un albero è un albero.» «Chi ha voglia di vedere quarantaquattro tramonti?» Come ho detto nel mio libro, Love, credo veramente che il contrario dell'amore non sia l'odio, bensi l'apatia. Sarei disposto a fare qualunque cosa, letteralmente, per strappare la gente da uno stato d'apatia, perché è molto peggiore della morte. Posso affrontare l'odio, posso affrontare la collera, posso affrontare la disperazione, posso affrontare chiunque senta qualcosa, ma non posso affrontare il niente. L'altro giorno ho ricevuto una lettera veramente devastante. Diceva: «Ho sentito una sua registrazione. Lei citava Palme selvagge di Faulkner, e diceva: "Se dovessi scegliere tra la sofferenza e il nulla, sceglierei la sofferenza"». La lettera continuava: «Mi sembra pazzesco. Io preferirei il nulla alla sofferenza, sempre». R.D. Laing, uno psichiatra che cito molto spesso, ha detto: «Fin dal momento della nascita, tu vieni programmato per diventare un essere umano, ma sempre secondo la definizione della tua cultura e dei tuoi genitori e dei tuoi educatori». E la cosa più orribile è che ci lasciamo agganciare da questo programma, e incominciamo a identificarlo con noi. Sul nostro io si ammucchiano migliaia e migliaia di cose che in realtà non sono noi, ma appartengono alle nostre famiglie, alla nostra cultura, ai nostri amici e così via. Le prendiamo con noi, e allora diventano noi, e noi siamo disposti a morire per difendere quel «noi» e diventiamo apatici per non affrontare la sfida di un nuovo io. Inoltre, ci creiamo modelli di perfezione. Passiamo la vita tentando di fare in modo che il mondo esterno coincida con la nostra nozione di perfezione. Proprio così! E qual è per noi, per esempio, l'idea di una giornata perfetta? Una giornata 102

che soddisfi tutte le nostre esigenze, che vada come noi vogliamo. E qual è una giornata disastrosa? Una giornata disastrosa è quella che non va come volevamo. Bene, peggio per noi. È un peccato che la giornata non sia andata come volevamo. La giornata era perfetta... siamo stati noi a manomettere la sua perfezione. Queste aspettative si rafforzano l'una con l'altra. Escludono ogni possibilità che giunga fino a noi qualcosa che non si armonizza con le nostre assuefazioni. L'ho visto accadere un milione di volte. Ci sono persone che lavorano giorno e notte per costruire una bella casa per i loro figli, e poi non permettono ai figli di viverci. «Non sederti sul divano.» «Non giocare in soggiorno.» «Togliti le scarpe.» «In quella stanza no!» Assuefazioni che affermano che tutti devono andare all'università: se non ci andate, è un disonore. Costringiamo la gente a passare per questa trafila; e se non è stata distrutta prima, verrà certamente distrutta dopo. Lavoravo in stretto rapporto con una famiglia, ed era un'esperienza devastante. Il figlio sedicenne aveva una grave incapacità di apprendere e non sapeva leggere, ma era uno dei ragazzi più straordinari che abbia mai conosciuto. Lavorava all'aperto, ogni giorno. Fisicamente era bello, aveva simpatia per la gente, era sempre pieno di meraviglia per il mondo... non il mondo dei genitori, ma il suo mondo prodigioso. Ce la metteva tutta. Gli educatori non riuscivano a insegnargli a leggere, ma i suoi genitori insistevano perché erano assuefatti all'idea che tutti devono saper leggere. Non tenevano in considerazione ciò che era essenziale per lui, e adesso quel ragazzo è ricoverato in un istituto. La verità è che la nostra mente non è altro che uno strumento d'esperienza, e anche se un bambino soddisfacesse ogni giorno venti delle nostre assuefazioni, l'unica assuefazione che non venisse soddisfatta si insinuerebbe nella nostra coscienza e ci renderebbe infelici. Noi siamo veramente così! Gli altri possono 103

ripeterci per tutto il giorno che siamo meravigliosi e straordinari e che abbiamo tanti e tanti meriti. Poi qualcuno ci dice che non gli siamo simpatici, e ci sentiamo distrutti. Ho letto il libro di Orenstein sulla coscienza e, davvero, dovreste leggerlo anche voi. È affascinante. E dice una cosa interessantissima: I nostri sensi pongono limiti, il nostro sistema nervoso centrale pone limiti, le nostre categorie personali e culturali pongono limiti, il nostro linguaggio pone limiti, e al di là di tutte queste selezioni, le leggi della scienza ci inducono a sostenere informazioni selezionate che noi consideriamo vere, e anche questo pone limiti.

Da qualunque parte ci voltiamo, ci ritroviamo limitati. Eppure tutto ciò può cambiare. Potete cambiare la vostra programmazione interiore, ed è molto facile; ma dovete essere voi a deciderlo. Di colpo, proprio adesso, dite a voi stessi: «Comincerò a fare esperienze. Comincerò a sentire il sapore di quello che mangio! a fare l'esperienza della gente! a guardare il cielo! ad aspirare l'odore dell'aria! a sentire le cose! Invece di buttarmi semplicemente sul letto, sentirò le lenzuola, sentirò il mio corpo, diventerò consapevole dei sentimenti di qualcun altro, toccherò il mio prossimo, sarò cosciente di me stesso, dei miei cambiamenti, dei miei progressi, del mio essere». È scandaloso che ci sia tanto e che noi ci accontentiamo di cosi poco. Siamo consci di uno spazio tanto ristretto, e siamo ben felici di credere che non esista altro. Spesso consideriamo essenziali i nostri corpi fisici. Mio Dio! Dedichiamo più tempo al nostro io fisico che a qualunque altra cosa al mondo! La mattina ci alziamo, gli facciamo la doccia, lo copriamo di spray, lo pettiniamo, lo acconciamo, lo deodoriamo e lo vestiamo. Terminata la giornata, rifacciamo tutto quanto, all'incontrano. È una pazzia! Una volta, prima di partire per l'Asia, ero veramente irritato con questo corpo, perché portava via tanto tempo. Avevo un seminario, con studenti eccezionali; eravamo a casa mia a 104

parlare, una sera, e io dissi loro che ero infastidito dal mio corpo. Alcuni si agitarono moltissimo, perché pensavano che avessi intenzione di annientarlo. Mai! Io mi piaccio! Avevo una maestra di yoga fenomenale, e lei mi disse: «Ehi, aspetta un momento! Quel corpo è il tuo veicolo. Se vuoi arrivare al posto giusto al momento giusto e nel modo giusto, devi tenerlo in forma smagliante. Rispettalo, perché è il veicolo che trasporta ciò che è essenziale... almeno per il momento». E così, all'improvviso, provai un sentimento rinnovato per la mia persona. Adesso, qualche volta mi coccolo, addirittura! Paul Reps riassume benissimo la situazione quando dice: «Una volta l'uomo teneva la propria mente impegnata nel lavoro, e adesso la smarrisce nello specchio». Dunque, l'essenziale non sono i nostri corpi. Sono certamente importanti, e sono certamente importanti i nostri pensieri e la nostra programmazione. È importante dove vi trovate in questo momento. Dovunque siate, dovete amare il punto dove siete perché tutto comincia da lì. Dovete incominciare col dirvi: «Si, io mi amo dove sono, con tutte le mie assuefazioni e i miei limiti, ma ciò non significa inevitabilmente che domani sarò ancora qui. Significa soltanto che io mi piaccio dove sono ora». Non potete andare avanti, se non fate questa dichiarazione. Se potessi esprimere un desiderio e avessi una bacchetta magica, l'agiterei su tutti voi, e farei in modo che diceste e credeste: «Mi piaccio, dovunque io sia, ora, in questo momento. Io sono grande». In Asia ebbi la fortuna di studiare con il dottor Wu, che è uno dei massimi studiosi del Tao di Lao Tze. Mi insegnò una cosa meravigliosa che mi ispirò un rispetto ancora più grande per gli esseri umani. Quel saggio straordinario e gentile, Lao Tze, diceva che tutti sono il perfetto «loro». Noi siamo già perfetti. Il mondo è già perfetto. Noi cerchiamo di alterare la perfezione, e questa è la causa di tutti i nostri problemi. Sarebbe meraviglioso se riuscissimo ad accettare il fatto 105

che noi siamo il nostro io perfetto. È così logico, no? Chi è più perfetto di voi? Il vostro prossimo? E come può dirvi che cos'è il voi perfetto? Soltanto voi potete conoscere che cos'è il voi perfetto. Ma il voi perfetto siete voi, e voi siete l'unico voi perfetto che passerà come tale alla storia del mondo! Forse gli altri cercheranno di renderlo imperfetto, ma dovreste fare ciò che raccomanda E.E. Cummings... lottare incessantemente per essere «voi», perché sarà sempre la battaglia più grande che dovrete combattere, ed è l'unica che valga la pena combattere. Quindi, come ho detto all'inizio, noi stiamo attraversando un periodo in cui gli esseri umani incominciano a guardare se stessi, e incominciano a cercare di amare la perfezione che è già presente nel loro vero io. Noi pensiamo anche che l'essenziale siano le nostre incessanti attività mentali e fisiche. Sapete come ho incominciato a chiamare tutto questo? Scariche elettriche! Davvero, tanti di noi sono semplicemente pieni di scariche elettriche. Paul Reps, nel suo libro intitolato Be, dice: «Pensando cinque o sei pensieri alla volta, ci abituiamo a rimanere in uno stato di tensione cronica. Dovunque troviamo qualcosa che ci allena alla tensione. Non troviamo mai qualcosa che ci alleni alla distensione e alla felicità. L'uomo, creato per essere amico di tutte le creature, non sa essere amico neppure di se stesso». Noi continuiamo a correre, ad analizzare. Pensiamo costantemente. Andiamo a letto con la testa piena di tante cose, e non sappiamo come scaricarle, e quindi non riusciamo a dormire. Ecco perché oggi sta crescendo il numero di coloro che cercano di ridurre queste scariche elettriche. Eppure ci sono altri che stanno a guardare e dicono: «Che idioti!». Dovete imparare a svuotare la vostra mente, altrimenti le scariche elettriche vi faranno impazzire. Non potete star lì a preoccuparvi per vostro figlio per ventiquattro ore al giorno. Ogni tanto dovete lasciare andare tutto quanto. E quando lo fate succede una cosa meravigliosa. Anziché trovare «il nien106

te», trovate «il tutto»: ma adesso è purificato, ed è vostro senza bisogno che facciate sforzi. È una sensazione unica. Stiamo imparando a lasciar andare le nostre menti senza paura di perderle. Stiamo imparando cose come la «suggestionologia». Sapete che nei Paesi del blocco comunista c'è una nuova scienza (che presto scopriremo, ma che loro custodiscono come un'arma segreta) grazie alla quale scoprono che, se si svuota la mente, un insegnante può trasfondervi interi corsi di studio in due o tre settimane? Quando ero in Asia, ebbi un'esperienza felice in un monastero. La prima cosa che mi insegnarono fu la non-mente dello Zen. Vi mettono in una stanza completamente libera dagli stimoli esterni, una stanza buia. E lì state in compagnia del vostro «io». Vi portano da mangiare il minimo indispensabile per tenervi in vita. Vivete nell'oscurità totale. Non avete libri da leggere, né un televisore da guardare, nessuno con cui parlare: ci siete voi e basta. È una gioia trovarsi soli davanti a se stessi, per una volta, e vedere che cosa succede. E sapete quali furono le prime sensazioni? Cominciai a dire a me stesso: «Devo continuare a pensare. Devo restare aggrappato alle mie scariche elettriche. Devo dire a me stesso: "Ecco, sono qui"». E così continuavo a parlare a me stesso, letteralmente; stavo lì seduto e mi ripetevo filastrocche per bambini, perché pensavo che se avessi abbandonato il linguaggio, avrei perduto la mia mente. Molti libri sacri affermano e spiegano: «Per trovare il tuo io, devi perdere il tuo io». Che gioia fu, dopo un po', quando lasciai andare la mia mente, e me ne rimasi tranquillo lasciando che accadesse quel che doveva accadere! Era meraviglioso stare tranquillo, uscire per un po' dalla mia mente, riposare la mia mente stanca, conoscere un momento di pace. Provate! Mi insegnarono una tecnica meravigliosa che forse vi farà piacere adottare, qualche volta. Vi dicono: «Medita sulla punta del tuo naso. Chiudi gli occhi. Porta la tua 107

mente e tutte le tue energie sulla punta del tuo naso. Sgombra la mente da tutto il resto. Adesso, lascia cadere la punta del naso!». Non è una magia? Provate, qualche sera prima di andare a letto, e vi addormenterete istantaneamente. Ma del resto, quelle eterne scariche elettriche che credete essenziali sono una sciocchezza! Lasciatele perdere, e vi stupirete nel vedere quante cose nuove verranno a voi. Ho scoperto un libro meraviglioso, la Cabala. È un libro mistico ebraico. Mi ha insegnato qualcosa che mi ha veramente emozionato e che vorrei dividere con voi. Dice: L'uomo deve capire che nulla è veramente, ma che tutto è nello stato del divenire e del cambiamento. Nulla sta fermo. Tutto nasce, cresce e muore. Nell'istante stesso in cui una cosa raggiunge il culmine, incomincia a declinare. La legge del ritmo è continuamente in azione. Non c'è una realtà. Non c'è una qualità, una sostanzialità durevole nelle cose. Non vi è nulla di permanente, eccettuato il cambiamento. L'uomo deve vedere tutte le cose evolversi da altre cose e risolversi in altre cose, in una costante azione o reazione, influsso o efflusso, costruzione o demolizione, creazione o distruzione, nascita e crescita e morte. Nulla è reale, e nulla dura: tutto cambia.

Per accettare questo, dobbiamo abbandonare le scariche elettriche. Dovete perdere voi stessi per trovare voi stessi. Dovete perdere la vostra mente per trovarla. E ancora, consideriamo essenziali le esigenze della sicurezza. Oh, è una cosa fondamentale nella nostra cultura... le tante esigenze della sicurezza che noi vediamo come essenziali. Impariamo queste assuefazioni da altri adulti, assuefatti a loro volta alle esigenze della sicurezza. Pensiamo che sia necessario accumulare roba. Che sia necessario far collezione di persone influenti. Avere uno scopo ci fa sentire sicuri. Il denaro, molto denaro, ci fa sentire sicuri. Feci un'esperienza molto interessante, prima di partire per l'Asia. La mia casa venne derubata per tre volte in due mesi. La prima volta sporsi denuncia, e l'agente venne a dare un'occhiata. Controllammo che cosa mancava, e io dissi: «Ecco, forse i ladri ne avevano più bisogno di me». L'agente 108

andò su tutte le furie e ribatté: «Lei è un pericolo pubblico se la pensa così!». Perciò non lo dissi più. Poi tornai a casa, due settimane dopo, ed erano venuti di nuovo i ladri. E dopo altre tre o quattro settimane, la mia casa venne svaligiata di nuovo, e allora mi misi a sedere sul pavimento, al centro del soggiorno, e pensai: «Bene, ogni volta che vengono i ladri, portano via qualcosa, e così c'è sempre meno da rubare. Forse, quando avranno preso tutto, non resterà più niente da portar via, e così avrò frenato la criminalità». E poi il denaro... La prima volta che andai in Asia, dove scrissi The Way of the Bull, vivevo con trentacinque cents al giorno. L'ultima volta che ci sono stato, ho vissuto con venti dollari al giorno! E sapete? Non è che sia stato più piacevole. Sono semplicemente diventato più grasso. Il denaro non è necessario. Fa comodo, ma non è necessario. L'unica sicurezza che esiste siete voi. Ecco tutto. Il denaro si svaluta di giorno in giorno. Tutti si buttano ad accumulare oro. Ma i buddisti dicono una cosa interessante: «Quando ci svegliamo siamo come gli angeli, ma quando ci addormentiamo siamo come i diavoli perché durante tutto il giorno abbiamo inseguito la sicurezza». Ci agitiamo e ci facciamo largo a spintoni perché pensiamo di doverlo fare, perché abbiamo paura o perché dimentichiamo quanto sia importante una sosta ogni tanto. La sicurezza sta in voi. Voi siete la vostra unica sicurezza. Spesso viene considerata essenziale la soddisfazione dei vostri bisogni sensoriali. Più avete e più dovete avere. Se una cosa è buona, non ne avete mai abbastanza. Non avete mai abbastanza attenzione. Non trovate mai abbastanza conferme. La ricerca della gratificazione vi tiene sempre occupati. Eppure, non ha importanza quanto ricevete: non sarà mai abbastanza fino a che voi non sarete voi. Cerchiamo continuamente l'ebbrezza. Non vogliamo soffrire. Bene, voi sapete che c'è molto da imparare dalla sofferenza. Certo, io preferirei imparare e insegnare nella gioia; 109

ma negare che nella sofferenza vi sia un certo valore è un errore enorme. Non aggrappatevi alla sofferenza e non auguratevela. Fatene l'esperienza, prendetela per mano e poi lasciatela andare. Ma fatene l'esperienza, perché può insegnarvi moltissime cose. Per molti di noi, in verità, la vita è la ricerca di una condizione stabilmente piacevole. È meraviglioso fare esperienza delle ebbrezze, e dovremmo fare l'esperienza di tutte quelle che possiamo incontrare. Costruite su queste vostre ebbrezze, fatene sempre più l'esperienza in termini di potenziale, e allora anche le depressioni diventeranno semplicemente ebbrezze meno forti, e sarà più facile accettarle e lasciarle andare! Dunque, che cosa non siamo? Non siamo le nostre scariche elettriche mentali. Non siamo i nostri corpi. Non siamo la nostra programmazione. Non siamo la nostra istruzione. Non siamo la nostra mente presente. Non siamo i nostri io fisici. Non siamo le nostre sensazioni. Non siamo le nostre percezioni. Non siamo il nostro potere. Non siamo i nostri sentimenti attuali. Non siamo le nostre reazioni attuali. Siamo, in parte, tutte queste cose, ma siamo molto, molto di più! Però, se siete assuefatti a queste cose, non le abbandonerete mai. Rendetevi conto di quante cose potreste essere voi adesso. La parte realizzata è infinitesimale rispetto a quella non realizzata. Ho un altro eroe, Dag Hammarskjòld. Disse qualcosa che riassume veramente tutto questo: A ogni istante tu scegli te stesso, ma scegli il tuo io? Il corpo e l'anima contengono mille possibilità, che permettono di costruire molti «io». Ma in una soltanto vi è congruenza tra l'elettore e l'eletto, una sola che non troverete mai se prima non avrete escluso tutti quei sentimenti superficiali e tutte quelle possibilità di essere e di fare con i quali vi baloccate per curiosità o stupore o avidità e che vi impediscono di gettare l'ancora nell'esperienza del mistero della vita e della coscienza del talento affidato a voi e di quel prodigio che è veramente il vostro «io».

Questo è scritto nel suo libro magico, Markìngs. 110

Dunque, come veniamo in contatto con noi stessi? Innanzitutto, diventando consapevoli. Non è una parola bellissima... consapevole? Colpisce nel segno, no? Essere consapevole di tutto. Essere consapevole della vita. Essere consapevole della crescita, essere consapevole della morte, essere consapevole della bellezza, essere consapevole della gente, dei fiori, degli alberi. Aprite la vostra mente e incominciate a vedere e a sentire! Incominciate a fare esperienza, e non vergognatevene! Toccate, stringete, masticate come non avete mai fatto prima d'ora. Continuate a crescere! Continuate a crescere coerentemente. In ogni momento che lo fate, voi cambiate. Aprite la mente, aprite il cuore, aprite le braccia, accogliete tutto. Potete continuare a prendere e prendere e prendere, e ciò che è non si esaurirà mai. Ce n'è sempre di più. Più vedete in un albero, e più c'è da vedere. Ascoltate una Sonata di Beethoven, e vi conduce all'infinito. Prendete un libro di poesie, e vi conduce alla bellezza. Amate una persona, e quell'amore vi conduce a centinaia di persone. Continuate a crescere. Cercate delle alternative. Gli schemi in cui siete inseriti rappresentano soltanto una possibilità. Ci sono migliaia di possibilità per tutto. Io cito sempre l'esempio della ragazza che aspetta una telefonata dal suo ragazzo. Lei aspetta. Lui ha detto che avrebbe chiamato alle quattro, e il cuore della ragazza è pronto a ricevere la telefonata sin dall'una; la ragazza dice alle sue compagne di stare lontane dal telefono. Aspetta e aspetta, e finalmente arrivano le quattro e il telefono non squilla. E lei continua ad aspettare, e il telefono non suona alle quattro e mezzo, e non suona alle cinque, e non suona alle sei, e alle nove lei è disperata. Va in bagno e si taglia le vene. Perché? Perché pensava che fosse l'unica alternativa. Io incomincio a credere che l'individuo veramente sano di mente è quello che tiene conto di un gran numero di alternative, e specialmente di quelle più vitali; una persona 111

capace di dire: «Se questo non succede, che altro e che altro e che altro è possibile?». Per esempio, pensiamo alla ragazza. Un po' di fantasia... che avrebbe potuto fare, anziché tagliarsi le vene? Come? Sì! Telefonare a lui! Potete scommetterci! Dirgli: «Cosa diavolo è successo? Ti sei rotto il dito?». Che altro avrebbe potuto fare? Avanti! Meglio ancora! E che altro? Sì! Avrebbe potuto preparare una pizza, avrebbe potuto farsi una doccia fredda, avrebbe potuto telefonare a me! È molto triste che abbia creduto di avere una sola alternativa. Non soltanto c'è un milione di alternative, ma ce ne sono alcune che non sono state ancora neppure sognate. Le dicotomie: buono-cattivo, giusto-sbagliato... assurdo! Normale-anormale... Non esistono, esistono soltanto gradazioni, possibilità e creatività. Adesso ho nella mia classe una ragazza cieca che è molto più normale di me. Lei sa vedere... indiscutibilmente. Dice: «Per me è normale essere cieca come per voi è normale vedere». Che cosa è normale? Che cos'è giusto? Che cos'è sbagliato? Finché siete liberi, siete liberi di selezionare e di scegliere le alternative, purché siate disposti ad accettare la responsabilità che la libertà comporta. E dopo che avrete provato le vostre alternative, e avrete visto che non funzionano come avreste desiderato, non date la colpa a me. Date la colpa alla vostra scelta. Provate un'altra alternativa. Prendete la decisione, prendete il pennello, scegliete i colori, dipingete il vostro paradiso, e viveteci. Oppure dipingete l'inferno, se volete, ma non datene la colpa a me. Soltanto voi siete responsabili di non essere. Dimenticate quello che è stato. Badate a ciò che è! Il momento provvederà a se stesso. La vita non è un fenomeno isolato, è parte dell'esperienza generale, e influenza continuamente ogni nuovo momento e ne viene influenzata. Non vi piace dove siete? Allora cambiate! Siate qualcun altro. Fate ciò che voi vi sentite, per cambiare, e imparate da ciò che succede. 112

E un'altra cosa... non evitate gli stati negativi. Gli stati negativi possono insegnarvi molte cose. Non evitate la gente che crea in voi stati negativi. Noi abbiamo la tendenza a girare sui tacchi, ad andarcene, in questi casi; essi vi impongono di riesaminare voi stessi e di vedervi in una luce nuova. Non è Sally che vi sconvolge. Siete voi che sconvolgete voi stessi. Lei vi mette in uno stato negativo perché non corrisponde alle vostre aspettative. Bene, peggio per voi! La causa della vostra sofferenza non è Sally... siete voi. Imparate dai vostri stati negativi. C'è un'altra cosa che imparai in Asia e che vorrei dirvi; forse è inaccettabile per qualcuno, e se per voi lo è lasciatela perdere: liberatevi delle aspettative. Una volta, il Buddha disse una cosa magica. Diceva tante cose magiche, e nel modo più semplice. Disse: «Quando smettete di attendere, avete tutto». È meraviglioso. Se fate i fatti vostri senza aspettare niente, avete già tutto ciò di cui avete bisogno. Se in cambio vi danno qualcosa, l'accogliete a braccia aperte. Dovrebbe essere sempre una sorpresa. Ma se vi aspettate una reazione, e la reazione viene, è una noia. Smettete di attendere, e avrete tutto. Prendete tutto ciò che vi dà la gente. Se l'apprezzate, abbracciatelo, baciatelo, prendetelo con gioia, ma non aspettatevelo. Se volete soffrire, ebbene, allora andate in giro aspettandovi questo e quello. Soddisfare le vostre aspettative non è l'unico scopo della gente. Tutto ciò di cui avete veramente bisogno siete voi. La sola cosa importante è riconoscerlo. Voi siete il voi perfetto. E manomettere questa perfezione è andare in cerca di sofferenza. Crescete nella vostra perfezione. Desidero concludere con una citazione tratta dalla traduzione che Bynner ha fatto del Libro della via e della virtù di Lao Tzu. È un libro che riassume ciò di cui ho parlato, ma in modo molto più splendido. Non è fantastico che tutti i libri che guidano alla vera saggezza siano sempre così piccoli? Io ho impie113

gato un'ora e un quarto per dire ciò che Lao Tze dice in cinquanta parole. L'esistenza trascende il potere di definizione delle parole. Si possono usare certi termini, ma nessuno di questi è assoluto. All'inizio del cielo e della terra non c'erano parole. Le parole scaturiscono dal grembo della materia. E indipendentemente dal fatto che un uomo veda spassionatamente il nucleo della vita o veda appassionatamente la superficie, il nucleo e la superficie sono identici, e le parole li fanno apparire diversi solo per esprimere l'apparenza. Se un nome è necessario, allora questo nome sia meraviglia, e allora, di meraviglia in meraviglia, l'esistenza si schiude. 1

Se un nome è necessario, allora questo nome sia meraviglia. Di meraviglia in meraviglia, l'esistenza si schiude. Il «voi di voi» è illimitato. Quelli che hanno lavorato con i bambini sanno che il loro potenziale è illimitato, indipendentemente da ciò che hanno realizzato. Dobbiamo fare in modo che se ne accorgano a modo loro, ed essere disponibili per aiutarli quando hanno bisogno di aiuto, di sostegno, d'incoraggiamento. «Se il nome sarà meraviglia», tutti riusciranno.

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Il brano è stato tradotto dalla versione in lingua inglese edita da Bobbs Merrill, New York, con il titolo The Way. Versione italiana edita da Arktos, Carmagnola (TO) 1982. [N.d.T.]

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Ponti, non barriere

Mi sono sentito immensamente esaltato - e probabilmente anche voi - dal tema di questa conferenza: «Ponti verso il domani». Fin da quando ero bambino, i ponti mi hanno sempre affascinato, e così, appena ho conosciuto il tema della conferenza, ho preso immediatamente il dizionario, ed ecco che cosa diceva: «Qualcosa che colma un vuoto; una via che supera una depressione o un ostacolo». Ho pensato che era meraviglioso, perché in questi ultimi quattro o cinque anni mi sono sempre sforzato di colmare i vuoti, costruire vie che superassero le depressioni, scavalcare ostacoli, e rendere più semplice la vita alle persone che mi circondano. Mi piace moltissimo chiedere definizioni ai bambini. Danno risposte bellissime. Se volete provare una grande gioia, chiedete a un bambino: «Che cosa significa questo e questo?». La mia nipotina di cinque anni sta incominciando adesso a decifrare il mondo come se fosse scritto in rilievo, con il metodo Braille. Tocca tutto, assaggia tutto... è bellissimo stare a guardarla. Le ho chiesto: «Che cos'è un ponte?». Lei ci ha pensato a lungo e poi ha detto: «Un ponte è quando il terreno ti cade di sotto e tu costruisci qualcosa per tappare il buco». Non sarebbe meraviglioso se potessimo entrare nello spi115

rito di gettare ponti verso il domani, se potessimo dedicare la conferenza a «tappare i buchi», a colmare i vuoti, a costruire ponti, a superare gli ostacoli? Vivremmo due o tre giorni magnifici! Ma ciò significa che dovete veramente entrare in voi stessi... ognuno di voi. II gruppo può riuscirci, ma tutto incomincia con l'individuo. Prima che possiamo riuscirci come gruppo, dobbiamo cominciare con qualcosa, e sono convinto che il primo ponte che dovete costruire è il ponte che porta a voi stessi. Mi fa soffrire vedere come abbiamo poco rispetto per noi stessi e poca fede in noi stessi. Molti di voi sanno che per circa undici anni ho tenuto un corso sull'amore. Non è sensazionale? Nei primi anni, ho insegnato l'A, B, C dell'Amore e poi il D, l'F. Forse avrò la sensazione di approdare a qualcosa quando arriverò a Z. Nel corso sull'amore, chiedevo ai miei studenti chi avrebbero scelto, se avessero avuto la possibilità di essere qualcun altro, e dove avrebbero scelto di essere, se avessero avuto la possibilità di essere in qualche altro luogo. E, cosa sorprendente, in quel gruppo di persone sensibili, più dell'ottanta per cento rispondeva che avrebbe voluto essere qualcun altro e avrebbe voluto essere altrove. Io chiedevo: «Chi?». Le ragazze avrebbero voluto essere Jackie Onassis! Jackie Onassis non ha nulla che non va e se davvero volessimo riflettere un momento, scopriremmo che è la migliore Jackie Onassis che esista. Ma se voi cercate d'essere Jackie Onassis, farete fiasco. E ben vi sta! E i ragazzi avrebbero voluto essere Burt Reynolds! Un Burt Reynolds è sufficiente! È bellissimo che Burt Reynolds sia Burt Reynolds. Sono ben lieto che ci sia; sono ben lieto che ci sia Jackie Onassis; ma sono anche ben lieto che ci siate voi. È essenziale che arriviate al punto di mettervi davanti allo specchio e chiedere: «Specchio delle mie brame, chi è il più incredibile del reame?». Poi dovete crederci veramente, quando lo specchio risponde: «Tu, vecchio mio!». Forse non 116

siete alti quanto vorreste, forse avete le cosce un po' meno snelle di quanto vi piacerebbe, ma voi siete la cosa migliore che avete! Quando riconoscete questo, siete sulla strada giusta. Nessuno può fermarvi. Non ci sono molte scuole che insegnino il rispetto per se stessi. Non ci sono molti modelli che possano alzarsi e dichiarare: «Mi piaccio veramente. Mi piace non soltanto ciò che sono, mi piacciono anche la mia magia e il mio potenziale». Perché, vedete, voi non siete soltanto in atto; siete assai più in potenza. In voi c'è molto di più. Noi dobbiamo dire ai bambini: «C'è qualcosa di più di chi legge. C'è qualcosa di più di chi percepisce. Tu sei illimitato». È necessario che quanti insegnano questo siano i primi a crederlo. Altrimenti è fasullo, e non serve a niente. Uno dei momenti più incredibili della mia carriera d'insegnante fu quando esordii all'University of Southern California. Non avevo mai insegnato in una classe universitaria. Avevo insegnato alle elementari e alle secondarie, e mi era piaciuto moltissimo, ma poi ero andato in Asia per due anni. Dopo il mio ritorno, decisi che mi sarebbe piaciuto provare a livello universitario. Quando mi trovai di fronte per la prima volta a quell'affollata classe universitaria, scoprii che avevamo creato una quantità di individui apatici, così stanchi di imparare che quando entravo in classe pieno d'entusiasmo per ciò che avevo da spartire, vedevo soltanto la sommità delle teste degli studenti... oppure vedevo che trascrivevano automaticamente tutto quello che dicevo perché avevano paura che all'esame facessi qualche domanda-trabocchetto. Talvolta devo dire: «Posate quelle maledette matite e ascoltatemi!». (Io sono un autentico consulente non autoritario, e tutti sanno che butto arance ai miei studenti. Bisogna pure svegliarli, in un modo o nell'altro!) Molti di voi sanno che ho la mania di guardare negli occhi la gente, una cosa non molto apprezzata nella nostra cultura. Provate a guardare negli occhi qualcuno e immediatamente 117

leggerete quella sua espressione: «Che cosa diavolo vuole, lui?». Io non voglio niente. Vorrei soltanto stabilire un contatto umano. Non dovete mai avere paura di me. Io accarezzo la gente, l'abbraccio. Mettetemi alla prova. Quando qualcuno ha paura di presentarsi al pubblico, gli consiglio: «Prenditi un minuto di tempo e cerca quelli che io chiamo "gli occhi gentili"». Vi sorprenderebbe sapere quanti occhi gentili ci sono; e quando ne trovate due, fissateli perché se state dicendo una stupidaggine, se la vostra sintassi si dà alla pazza gioia, potrete guardarli e vedrete che vi dicono: «Tutto bene, amico, continua». La prima cosa che feci, nella mia classe universitaria, fu cercare occhi gentili, ma non ne vidi molti. Teste... sì. Matite che si muovevano... sì. Ma occhi... no. Trovai due occhi bellissimi in una ragazza seduta in quinta fila, e capii che erano gli occhi che cercavo, perché lei reagiva a tutto ciò che dicevo. Sapevo che comunicavo almeno con una persona, e questo era già un inizio. Volevo bene a quella ragazza. Nelle mie classi ci sono molte cose che io definisco «volontariamente obbligatorie». Una delle cose volontariamente obbligatorie è che ogni studente venga a trovarmi nel mio ufficio almeno una volta. Non posso insegnare ai corpi. Posso soltanto stabilire relazioni con le persone. Perciò dico: «Vieni. Ci metteremo seduti uno di fronte all'altro. Non voglio parlare dei testi o del corso. Questo potremo farlo un'altra volta. Voglio semplicemente sapere quand'è stata l'ultima volta che hai visto un unicorno e se credi ancora alle foreste primordiali. E quando verrai, ti toccherò... e se questo ti dà fastidio, prendi i tranquillanti». È sorprendente pensare quanti si sentono intimiditi da qualcuno che dice: «Voglio toccarti». Io sono cresciuto in una famiglia italiana molto numerosa, come sapete quasi tutti, e in Italia tutti si abbracciano sempre. Per le feste ci si riunisce, e ci vogliono quarantacinque minuti solo per dirsi ciao e altri quarantacinque minuti solo per dirsi addio. Bambini, genitori, cani... ognuno 118

deve avere la sua parte di affetto! Perciò non ho mai avuto la sensazione di non essere. Se qualcuno può abbracciarvi senza trovarsi il vuoto tra le braccia, voi siete. Provate, qualche volta. Due anni fa venne nel mio ufficio una ragazza, e io capii al volo che qualcosa non andava. Aveva gli occhi un po' vitrei, e dondolava la testa. «Cos'è successo?» le chiesi. «Oh, dottor Buscaglia, per trovare il coraggio di venire da lei ho dovuto bere una bottiglia intera di Ripple! Adesso sto per vomitare!» Immaginate: dover bere una bottiglia di Ripple per trovare il coraggio di venire a parlare con me che non faccio altro che tendere le mani e dire: «Salve». Prendo le loro mani nelle mie, e li conduco nel mio ufficio, e vedo spuntare sulle loro facce un'espressione di panico. «Che cosa ha intenzione di farmi?» Ma non vi faccio niente! Voglio soltanto dirvi che anch'io piango, anch'io sento, anch'io voglio bene, e anch'io non so tutto, e quindi possiamo incominciare da un punto in comune... da essere umano a essere umano. Se qualcuno con me cerca di giocare a «seguite il guru», si perderà per la strada, perché scoprirà che io sono confuso quanto lui. Forse la differenza sta nel fatto che io lo so. Un insegnante buddista mi disse una volta: «Perché continui a muoverti? Sei già arrivato». E all'improvviso capii... santo cielo, era vero! Sarà una scoperta meravigliosa, il giorno che vi renderete conto di essere unici al mondo. Non vi è nulla che sia accidentale. Ognuno di voi è una combinazione speciale con uno scopo... e non permettete che vi dicano che non è vero, e che quello scopo è un'illusione. (Se è necessario, vivete l'illusione!) Voi siete quella certa combinazione perché possiate fare ciò che è essenziale che facciate. Non dovete mai credere di non avere un contributo da dare. Il mondo è un incredibile arazzo incompiuto, e soltanto voi potete riempire quel piccolo spazio che vi spetta. «Oh, Dio, essere arrivato in punto di morte,» dice Thoreau 119

«per scoprire di non avere mai vissuto.» Non avete mai fatto nulla. Non avete mai sentito intensamente. Non avete mai riso. Non avete mai pianto. Non avete mai conosciuto la disperazione. Voi negate tutte queste cose, le respingete e vivete in una Terra-che-non-esiste, che è un'illusione. Ma voi siete il voi migliore. Siete l'unico voi. Avete qualcosa da donare. Donatelo! Una delle ragioni per cui amo questa Associazione è che ne fanno parte tanti genitori che se la prendono a cuore. Ma mi spavento, quando sento un genitore dire: «Sono soltanto un genitore». Che cosa significa? Come genitori, voi rendete possibile tutto. Insegnateci, perché voi sapete. Celebrate la vostra umanità. Celebrate la vostra pazzia. Celebrate le vostre insufficienze. Celebrate la vostra solitudine. Ma celebrate voi stessi. Io non voglio essere altro che ciò che sono, cioè umano. Mi piace veramente essere umano. Significa essere smemorati; significa sbattere contro i muri; significa entrare nelle stanze sbagliate; significa uscire dall'ascensore al piano sbagliato. Le porte si aprono, e scopro di essere al sesto piano anziché al terzo, e dico: «Oh!». E poi penso: «Caro vecchio mio, ci sei ricascato!». È magnifico essere umani. Ieri sera sono andato a un cocktail party elegante, e qualcuno mi ha offerto un bicchiere di vino color rubino. Io sono appassionato di vini, e tenevo teneramente in mano il bicchiere. Poi è arrivato qualcuno a precipizio e ha gridato: «Leo!» e mi ha abbrancato, e il vino è volato in aria! E tutti intorno a strillare, anche se il vino era piovuto addosso a me solo. Allora ho esclamato quello che dicono gli italiani quando si rovescia il vino... «Allegria!». Ma nessuno l'aveva presa allegramente. Nessuno capiva che aggiungeva colore alla serata. Quelli di voi che sono autentici insegnanti, che se la prendono veramente a cuore, imparano sempre dai bambini. Siate aperti verso i bambini. Non siate i tipi che si piazzano davanti agli allievi e sbuffano: «Stiamo aspettando Sally». 120

Non c'è da meravigliarsi se Sally dice: «Aspetta, rompiscatole!». Immaginate che sensazione trionfale è vedere un'intera classe che aspetta voi! Forse l'insegnante dovrebbe chiedersi che cos'è che Sally ha di essenziale da dire... e dovrebbe ascoltare. Per me è sorprendente che gli adulti parlino sempre ai bambini. Nel novanta per cento dei casi, voi parlate a loro, non con loro. Non conversate con i bambini. Continuate a imbottirgli la testa. Durante una delle mie visite agli indiani Sioux nel South Dakota, vennero a prendermi all'aeroporto e attraversammo i Badlands a bordo di un grosso camion, con tutta la famiglia indiana. Davanti c'eravamo io e il piccolo David e la mamma e il papà. Mentre io e la mamma e il papà parlavamo di tutte le cose significative che facciamo, mi accorsi all'improvviso che stavamo parlando come se il piccolo David non esistesse. Mi rivolsi a lui (ispirazione!) e gli chiesi: «David, tu che cosa sai fare?». E lui mi rispose: «Tante cose!». E io: «Per esempio?». E lui: «So sputare!». Provate a fare di meglio! Molti di voi che hanno lavorato per tutta la vita con bambini portatori di anomalie, come me, sanno che quando l'orbicularis oris non funziona possono essere necessari molti anni per insegnare a qualcuno a sporgere le labbra per realizzare il miracolo di sputare volontariamente. Eppure noi lo diamo per scontato. «Che altro sai fare, David?» «So mettermi le dita nel naso.» Potete scommetterci! Non è una specie di miracolo che possiate alzare la mano se volete mettere un dito nel naso, e mettercelo davvero? Celebrate le vostre meraviglie! Tutto incomincia da voi e il grande ponte che conduce a tutti gli altri è il vostro ponte. Questo è l'importante. Se io progredisco e progredisco, posso darvi di più di me stesso. Imparo per potervi insegnare di più. Cerco la saggezza per poter incoraggiare la vostra verità. Divento più consapevole e sensibile per poter accettare meglio la vostra sensibilità e la vostra consapevolezza. E mi sforzo di comprendere la mia 121

umanità per poter comprendere meglio voi, quando mi rivelate che anche voi siete soltanto umani. Vivo in una continua meraviglia per la vita, per poter permettere anche a voi di celebrare la vostra vita. Ciò che faccio per me, lo faccio per voi. E ciò che fate per voi, lo fate per me, quindi non c'è mai egoismo. Tutto ciò che avete imparato, l'avete imparato per tutti coloro che fanno parte del vostro ambiente. Uscite da «voi»... entrate nel «noi». È il modo più bello di vedere voi stessi e di aiutare gli altri a vedere se stessi. È da questo che viene la forza. Quindi, per prima cosa, gettate un ponte verso voi stessi, ma non fermatevi lì. Dovete gettare ponti verso gli altri. Gli anni Sessanta furono un periodo incredibile. Tutti mettevano in discussione tutto, e insegnare durante gli anni Sessanta fu una delle cose più esaltanti della mia carriera. I miei studenti non se ne stavano lì seduti a scrivere... contestavano tutto ciò che dicevo. Che momento per insegnare, e che momento per imparare! Gli anni Sessanta furono essenzialmente un periodo di espressione, di sfogo, di dissenso, di contestazione. Ora cerchiamo di ripensare agli anni Settanta e ci domandiamo che cosa avvenne. Sapete che cosa sta incominciando a emergere? Gli anni Settanta furono un periodo d'introspezione. Un periodo di quiete. Un periodo in cui la gente cercava in se stessa, perché riconoscevamo che non c'erano più «viaggi esterni» da fare. Se volevamo veramente trovare le risposte, dovevamo cercarle dentro di noi. Ormai sono quasi dieci anni che guardiamo dentro di noi, e si direbbe che questo abbia prodotto soltanto una massa di individui egocentrici incapaci di porsi di nuovo in relazione con l'esterno. È possibile che abbiamo perduto due decenni? Il momento per venire fuori è ora. Il momento per incominciare a costruire ponti che conducono agli altri è ora. Questo è il secondo ponte. La nostra salvezza sarà lavorare insieme per fini comuni, e non dividerci in meschini pro122

vincialismi e insistere a dire «Ho ragione io». Una delle mie scoperte significative di questi ultimi anni è che non devo avere sempre ragione. Non è magnifico? Questo vi lascia liberi di aver ragione qualche volta anche voi. Possiamo avere ragione tutti e due. Ci sono due ragioni! E poi ho scoperto che possono esserci duecento ragioni, e che in realtà non c'è una ragione e un torto, ma una sterminata zona grigia con ogni sorta di gradazioni. Le dicotomie sono fenomeni di distanziazione. Scopriamo prima che cosa abbiamo in comune. In questa sala non ci sono due persone eguali, tuttavia abbiamo molto in comune, ed è da ciò che abbiamo in comune che possiamo incominciare. Se possiamo metterci in contatto con questa realtà, allora siamo sulla buona strada. Oggi non esiste un posto al mondo - e questo vale per i luoghi più remoti come la valle del Kashmir o la valle del Nepal o i villaggi isolati del Tibet - che non possiamo raggiungere in ventisei ore. Siamo tutti vicini. Ricordo quando, con il bello o con il brutto tempo, il clan Buscaglia andava a Long Beach. Ora, per arrivare dal centro di Los Angeles a Long Beach bastano venticinque minuti; ma da dove abitavamo noi, allora, impiegavamo tre ore. Oggi tutto è vicino. Non può più cadere una foglia senza influire su ciascuno di noi. Non ci sono posti dove nasconderci. Tutti noi influiamo l'uno sull'altro. È un'unica, immane vibrazione che si irradia in ogni direzione. È meglio che incominciamo a costruire i nostri ponti, altrimenti i crepacci diventeranno così profondi che non riusciremo mai a scavalcarli. Nella Thailandia centrale, presso il confine con la Malaysia, c'è un posto remoto che si chiama Chayah. Al centro di un grande specchio d'acqua c'è un'isoletta, e sull'isoletta sorge un monastero buddista. Non hanno l'acqua, e devono andare a prenderla con la barca sulla terraferma, e la versano 123

in un grande barile. Il mio insegnante buddista mi raccontò un apologo bellissimo. Mi disse: «Tu lavori con impegno tutto il giorno e torni indietro con un grande desiderio di bere un po' di quest'acqua preziosa, che sai di non poter sprecare. Scopri il barile, immergi il mestolo, e nel barile vedi una formica. Ti infuri. Dici: "Come ti permetti di stare nel mio barile, sotto il mio albero, nella mia ombra, sulla mia isola... e nella mia acqua?". E schiacci la formica. Questa è mancanza di distacco. Oppure rifletti prima di schiacciarla e dici: "È una giornata caldissima, e questo è il posto più fresco dell'isola. Tu non danneggi la mia acqua". Attingi l'acqua evitando la formica, e bevi. Questo è distacco». Poi mi disse: «C'è anche qualcosa che si chiama "distacco assoluto". Sai che cos'è? Quando scopri il barile e vedi la formica, non pensi al bene o al male, alla ragione o al torto. Dai subito alla formica un pezzetto di zucchero». Amore! Dobbiamo incominciare a riconoscere che tu sei la sola persona che può darmi lo zucchero di cui ho bisogno, e io sono la sola persona che può fare altrettanto per te. Ognuno di noi è molto meno, senza l'altro. Il tema «Ponti verso il domani» è bellissimo, ma a me il «domani» non interessa molto. Mi interessa molto più il presente. Il mio insegnante mi diceva che quasi tutti noi viviamo nell'illusione. Viviamo nell'ieri; ci preoccupiamo di ciò che è accaduto ieri. Non potete far niente per cambiare l'ieri. Non siete diventati adulti, se date ancora a qualcuno o a qualcosa la colpa di ciò che è accaduto ieri. Lasciate andare l'ieri; se non lo farete, vi resterà appeso al collo come un albatros morto e vi appesantirà. «Sono stati i miei genitori a farmi questo.» Sapete che cosa vi hanno fatto i vostri genitori? Vi hanno dato ciò che potevano. Dio li benedica! Non erano perfetti. La cosa più triste, e forse la ragione della vostra delusione, è che voi credevate che lo fossero, e loro hanno lasciato che lo credeste. È saggio quel genitore che dice al figlio: «Guardami. Piango. Mi sento solo. Non so se servirà 124

a qualcosa o no, ma voglio parlarne con te». Ricordo quando mio padre sedeva a tavola con tutti noi bambini intorno e diceva: «Sentite, figlioli, ho perso tutto. Dobbiamo lavorare insieme perché i Buscaglia possano tirare avanti». Che splendido privilegio, «lavorare insieme» perché i Buscaglia potessero tirare avanti, anziché vedere i miei genitori nascondersi in una stanza, lasciandomi a morire d'ansia perché sentivo nell'aria qualcosa che non potevo capire! Ricordo che andavo a vendere riviste di porta in porta. Imparai moltissimo, in questo modo. Molti mi sbattevano la porta in faccia e mi cacciavano via a male parole. Andava bene così... ogni lezione è buona, purché la impariate. E ricordo mia madre che diceva: «Andrà tutto bene, ce la faremo. Abbiamo un orto. Posso fare tutte le sere quel magnifico sformato». «Yuk!» dicevamo tutti noi. Cavoli e pane e acqua. E riempie! Si espande nello stomaco, e non senti mai fame. Ma essere insieme, lavorare insieme, era così bello... e pensavamo al presente. Mia madre, che era davvero un po' matta, trovava sempre qualcosa da vendere, e allora noi tornavamo a casa aspettandoci di trovare pane e cavoli e invece trovavamo un banchetto meraviglioso. Mio padre diceva: «Cosa succede... sei ammattita?». E lei rispondeva: «No! Il momento in cui abbiamo bisogno di allegria è adesso». Allora ci mettevamo a tavola e ci abbuffavamo. «Ieri,» ha detto qualcuno «è un assegno annullato, e domani è soltanto una cambiale. Soltanto l'oggi è denaro contante.» Spendetelo come pazzi! Non vi capiterà mai più. E c'è tutto un mondo per spenderlo. Voglio leggervi qualcosa che amo moltissimo. L'ho trovato nel «Journal of Humanistic Psychology». È stato scritto da un uomo di ottantacinque anni che aveva saputo di essere prossimo alla morte. Dice: «Se potessi rivivere la mia vita, la prossima volta cercherei di commettere più errori. Non cercherei di essere tanto perfetto». Tutti noi abbiamo il feticcio 125

della perfezione. Che differenza fa, se fate sapere agli altri che siete imperfetti? Allora potranno identificarsi con voi. Nessuno può identificarsi con la perfezione. E continua così: «Mi rilasserei di più. Mi lascerei andare. Sarei più sciocco di quanto lo sono stato in questo viaggio. Conosco pochissime cose che prenderei sul serio. Sarei più matto. Sarei meno devoto all'igiene». Non è bellissimo? Quest'uomo di ottantacinque anni dice: «Correrei più rischi, farei più viaggi, scalerei più montagne, nuoterei in più fiumi, guarderei più tramonti, andrei in tanti posti dove non sono mai stato. Mangerei più gelati e meno fagioli». Davvero, noi ci gloriamo di negarci ciò che ci piace. Sembra una smania di autopunizione. Certo, non possiamo fare tutto ciò che vorremmo, ma qualche volta abbiamo bisogno di fare una pazzia. Andate nel reparto gastronomia del supermercato, vedete qualcosa che avete sempre desiderato, e lo prendete dallo scaffale. L'etichetta del prezzo dice «$ 2,98» al barattolo, e voi dite «Oh mio Dio» e lo rimettete al suo posto; invece dovreste dire: «Benissimo», e comprarne sei barattoli. Lo meritate. E il vecchio continua: «Avrei più problemi veri e meno problemi immaginari». Nel novanta per cento dei casi, quello che ci preoccupa non succede mai, eppure continuiamo a preoccuparci di tutto. È per questo che le compagnie d'assicurazione, in America, sono tanto ricche. Ci assicurano contro tutto. I piedi piatti. I piedi arcuati. Il vecchio dice ancora: «Vedete, io ero uno di quelli che vivono in modo profilattico e sensato e ragionevole, ora per ora e giorno per giorno. Oh, ho avuto i miei momenti, e se dovessi ricominciare daccapo, ne avrei di più, di quei momenti. Anzi, cercherei di non avere altro che bei momenti... momento per momento». Caso mai non lo sapeste, la vita è fatta di questo. Di momenti. Non lasciatevi sfuggire il presente. «Ero uno di quelli che non vanno mai da nessuna parte senza il termometro, la borsa dell'acqua calda, l'impermeabile e il paracadute. Se dovessi 126

ricominciare daccapo, viaggerei con un bagaglio più leggero.» Una volta il Buddha fece un'affermazione incredibile. Disse: «Meno avete, e meno dovete preoccuparvi». Tutti dicono: «Oh, è vero, è vero». Però continuiamo ad ammassare e ad ammassare. Nelle nostre credenze teniamo cose che non usiamo da mille anni. I piatti che zia Matilda portò in America a bordo della Mayflower... tirateli fuori! È un insulto per la persona che li fece, tenerli chiusi nella credenza. Usateli... furono fatti per questo. Niente è eterno. E finalmente, il vecchio dice: «Se dovessi ricominciare daccapo, comincerei ad andare in giro scalzo all'inizio della primavera e continuerei fino ad autunno inoltrato. Farei tanti giri in giostra in più. Guarderei di più i tramonti e giocherei di più con i bambini, se avessi la mia vita da rivivere. Ma non ce l'ho». Né voi né io sappiamo che cosa c'è di là, ma sappiamo cosa c'è qui. Il presente è il dono che Dio vi ha fatto, e il modo in cui l'usate è il dono che voi fate a Dio. La vita è nelle vostre mani. Potete scegliere la gioia, se volete, oppure potete trovare la disperazione dovunque guardiate. È tutto vostro. Perché certe persone vedono sempre cieli bellissimi ed erba verde e splendidi fiori ed esseri umani incredibili, mentre altre faticano a trovare belli un luogo o una cosa? Kazantzakis dice: «Avete il pennello e i colori. Dipingete il paradiso, e poi entrateci». I colori che state adoperando adesso non hanno importanza. Potete sempre decidere di usarne altri nuovi. Un'ultima cosa: vorrei che costruissimo qualche nuovo ponte verso la pazzia. Sono stufo della ragione, soprattutto della definizione che ne diamo noi. Quando ho cercato «pazzia» nel dizionario, ho scoperto che la definizione includeva «estasi» ed «entusiasmo» e «ilarità». (Controllate di persona, se non mi credete.) Mi preoccupa il fatto che siamo una 127

società costretta a dipendere dalle risate in scatola. Qualcuno fa una cosa innocua alla televisione, e tutto il pubblico si sganascia, e io me ne sto lì seduto e mi domando: «Ho qualcosa che non va? A me non sembra divertente». Ricordo una casa dove la gente rideva rotolandosi sul pavimento e pestando i pugni sui tappeti. Queste cose non le vedo più. Emily Post dice che nella nostra cultura le donne non ridono; si permettono soltanto risolini. Bene, tanto peggio per Emily! Lasciatele i suoi risolini. Voi ridete! Noi sappiamo pochissimo dell'estasi. Parliamo continuamente di «creare» entusiasmo. Questo è ridicolo. Il mio insegnante buddista usava la parola «rapimento»... ascoltatela e ditemi se non vi colpisce a livello viscerale. Rapimento! Anche questo fa parte dei vostri diritti umani, come la sofferenza, la disperazione, l'ansia. Come persona umana, ognuno di voi ha il diritto di fare l'esperienza del rapimento prima di morire. Alcuni di voi hanno conosciuto una grande gioia, una grande estasi, ma il rapimento? Nella sua opera sulla psicosintesi, Assagioli afferma che molti nostri problemi sono basati sul fatto che siamo prigionieri di una routine incessante. Fate la stessa cosa nello stesso modo, un giorno dopo l'altro, e di conseguenza vi annoiate da impazzire. E la conseguenza del fatto che vi annoiate è che di solito siete noiosi. Assagioli dice: «Spezzate la routine; rompete con le vecchie abitudini». Pensateci. Molti di noi vivono la loro vita esattamente nello stesso modo, giorno dopo giorno. Scendiamo dal letto sempre dalla stessa parte. Andiamo in bagno e prendiamo il dentifricio e lo spremiamo sullo spazzolino e ci guardiamo nello specchio e gemiamo: «Oh, Dio!». Facciamo la doccia, poi andiamo a bere il caffè e usciamo dalla stessa porta. Provate, una volta, a scendere dal letto scavalcando vostra moglie o vostro marito. «Ehi, cosa stai facendo?» «Sto cambiando la mia vita!» Oppure spalancate la finestra e saltate fuori e correte sette volte intorno a casa vostra in camicia da notte. «Che cosa fai, Sally?» E voi 128

esclamate allegramente: «Il jogging!». Entrate e dite alla vostra adorabile moglie: «Questa mattina andiamo a far colazione fuori». Lei dirà: «Ma non è domenica». E voi potete rispondere: «Sì, ma facciamolo lo stesso». Scoprirete quanto può essere magica quella colazione. Il ponte finale; tutti questi ponti devono essere costruiti per amore. Questo è stato espresso in modo bellissimo e succinto da Thornton Wilder, quando disse: «C'è una terra dei vivi e una terra dei morti, e il ponte è l'amore. L'unica sopravvivenza e l'unico significato». Desidero lasciarvi con queste parole: in India, quando incontrate qualcuno o vi accomiatate da lui, giungete le mani e dite «Namaste». Significa: «Io onoro in te il luogo dove risiede l'intero universo. Se tu sei in quel luogo in te, e io sono in quel luogo in me, siamo una cosa sola». Namaste.

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L'arte d'essere pienamente umani

Apprezzo molto una presentazione, quando chi mi presenta sa pronunciare Buscaglia. Come in un'opera di Verdi. Amo questo nome. Molti anni fa, fui invitato a tenere conferenze in Asia. Era necessaria l'autorizzazione del governo federale perché sarei andato in campi dell'esercito e della marina. Riempii tutti i moduli nel Federai Building e li consegnai all'impiegato che doveva controllarli per assicurarsi che fossero in ordine. Quando è pronto, l'impiegato chiama il vostro nome al microfono. Sapevo che ci sarebbe stato qualche problema, perché se pensate al mio nome completo, Felice Leonardo Buscaglia, può andare benissimo in un'aria di Verdi, ma non va altrettanto bene per Joe Smith. L'impiegato non aveva avuto difficoltà con Sally Jones e James Brown e tutto il resto; capii subito che era arrivato al mio nome quando guardò e guardò di nuovo il foglio che aveva tra le mani. Poi trasse un profondo respiro e affrontò il mio primo nome e disse: «Phyllis?». Vi giuro, sono pronto a rispondere a qualunque nome, ma non a Phyllis. Non è che non mi piaccia; è un bellissimo nome, ma non mi si addice. Non mi si addice proprio. Come sempre sono un po' preoccupato quando devo decidere come incominciare, perché so che alcuni di voi hanno letto i miei libri, perché mi avete scritto lettere meravigliose 131

o avete visto le mie registrazioni, e sapete piuttosto bene che cosa penso. Altri tuttavia non sanno chi io sia. Anche questo è molto bello, perché così questa sera possiamo fare conoscenza. Forse uno dei momenti più belli della mia vita fu quando parlai a una conferenza nazionale di ciechi. Quando finii, un cieco straordinario si avvicinò e disse: «Dottor Buscaglia, posso leggerla in Braille?». Avete mai provato a essere «letti in Braille»? Fu come sentire sulla pelle una brezza fresca o una lieve scossa elettrica. Mi piacerebbe che stasera ascoltaste le mie parole in Braille; quindi possiamo leggerci in Braille verbalmente; e se volete fare di più, dopo scenderò fra voi. Sapete che sono un italiano che ama abbracciare la gente. Mia madre diceva sempre: «Puoi credere a una cosa quando la tocchi». Quindi, se volete essere creduti... Questa sera vi parlerò di un argomento che mi è molto caro: l'arte - letteralmente l'arte- di essere pienamente umani. Non so cosa ne pensiate voi, ma io amo molto il concetto di essere umano; è bello essere in grado di diventare pienamente umani. Ricordo che mi commossi immensamente leggendo una testimonianza inclusa in un libro di Haim Ginott. È molto toccante, e fu scritta da una preside che la diede a Ginott. Diceva: Sono una sopravvissuta di un campo di concentramento. I miei occhi hanno visto ciò che nessuno dovrebbe vedere. Camere a gas costruite da ingegneri esperti. Bambini avvelenati da fisici istruiti. Neonati uccisi da infermiere diplomate. Donne e bambini massacrati da laureati. Perciò guardo con sospetto l'istruzione. Ecco la mia richiesta: aiutate i vostri studenti a essere umani. I vostri sforzi non devono mai produrre mostri eruditi, psicopatici esperti, Eichmann istruiti. Leggere e scrivere e ortografia e storia e aritmetica sono importanti soltanto se servono a rendere umani i nostri studenti.

Sapete che cosa ho notato? Noi insegnamo tutto alla gente, tranne la cosa più essenziale. Cioè la vita. Nessuno v'insegna la vita. Si presume che la conosciate. Nessuno v'insegna a 132

essere umani, nessuno v'insegna che cosa significhi essere umani, e la dignità contenuta nella frase «Io sono un essere umano». Tutti presumono che sia qualcosa che sapete già, o che l'abbiate assimilato per osmosi. Bene, non si assimila per osmosi. A me piace partecipare a quei programmi in cui gli ascoltatori telefonano, perché si conosce tanta gente straordinaria. Tutti chiedono una definizione. Non è interessante? «Dottor Buscaglia, vuol definire l'amore?» E io rispondo: «Nooo! Ma se mi seguite, cercherò di viverlo». È molto difficile definirlo, perché è un concetto immensamente vasto. Più vivo nella gioia e nella bellezza, e più divento capace di amare. Ogni giorno divento sempre più capace di amare. Definire l'amore vorrebbe dire limitarlo. Ma almeno, lungo la strada, ho un'idea di dove sono. So che, se tendo la mano, voi potete darmi nuove definizioni, nuove illuminazioni, nuove idee, e insieme possiamo progredire. Questa sera sono presenti circa duemila persone. Non c'è nessuno che non abbia conosciuto la solitudine. Non è meraviglioso? Non c'è nessuno che non abbia conosciuto la disperazione. Non è meraviglioso? Non c'è nessuno che non abbia pianto. Però tutti, credo, hanno anche riso, conosciuto la gioia. E in tutti questi modi noi possiamo comunicare. Siamo simili, perché anch'io ho conosciuto tutto questo, e siamo tutti impegnati nella stessa lotta: diventare pienamente umani... che è la cosa migliore che possiamo diventare. Ed è uno scopo meraviglioso. La cosa più esaltante del mondo, per me, è probabilmente la certezza che ho il potenziale per diventare pienamente umano. Non posso essere un Dio, ma posso essere un umano pienamente funzionante! E vorrei parlarvi di alcune delle cose che ritengo siano essenziali per diventare un umano pienamente funzionante. Dobbiamo tornare al punto di partenza. Scandalizzerò 133

molti, e non vi piacerò, ma ne correrò il rischio. È una cosa che sento molto. Dobbiamo dire a noi stessi: «Io mi piaccio». Non potete dare a nessuno al mondo ciò che non avete. Perciò dovete impegnarvi ad avere. Dovete diventare la persona più meravigliosa, sensibile, prodigiosa, magica, unica, fantastica del mondo, per poter avere molte cose da donare e condividere. Pensateci. Se non possiedo la saggezza, posso insegnarvi soltanto la mia ignoranza. Se non possiedo la gioia, posso insegnarvi soltanto la disperazione. Se non ho la libertà, posso soltanto mettervi in gabbia. Ma tutto ciò che ho, posso donarlo. Perciò mi dedico al compito di diventare il miglior Leo che il mondo abbia mai conosciuto. Essendo il Leo migliore, posso amarvi come i voi migliori. Non voglio che nessuno giochi a seguirmi. Perché, quando incominciate a seguire la mia strada, vi condurrà a me e vi smarrirete. L'unico modo di seguirmi è la vostra strada. Ognuno di voi è una combinazione magica che non si ripeterà mai più; e a me non interessa chi siate, o quanto vi sentiate euforici o depressi. Ognuno di voi è qualcosa di unico, di speciale. Vorrei che potessimo dir questo ai bambini, molto presto, perché non debbano impiegare tutta una vita per scoprirlo! Voi avete un mondo unico da condividere. Coloro che studiano la percezione e la sensazione sanno che ognuno vede il mondo in modo diverso. Eppure è lo stesso mondo. Noi non osserviamo un albero nello stesso modo. Eppure è lo stesso albero. Non sarebbe meraviglioso se potessimo condividere quell'albero e vederlo in due modi diversi? Basta questo concetto per mandarmi in orbita. Eppure sento gente che continua a dire: «Che cos'ho da offrire?». Sapete che cosa avete da offrire? Un pezzo centrale del cruciverba. Se non ve ne assumete la responsabilità, il cruciverba non verrà mai completato. Io non vedrò mai il vostro albero e sarò convinto che esistano ancora l'infelicità, la disperazione, l'angoscia, tutte queste cose, perché gli indi134

vidui non realizzano il loro potenziale e non condividono i loro mondi. Se lo facessero, il quadro sarebbe più chiaro. Voi avete qualcosa da dipingere o da tessere su quell'arazzo, qualcosa che è esclusivamente vostro. Non lasciatevi sfuggire l'occasione. Voi siete meravigliosi. Voi siete magici. Come voi ci siete soltanto voi. La prossima volta che passate davanti a uno specchio, guardatevi e dite: «Santo cielo, è vero! Come me ci sono soltanto io!». Oh, se riuscissimo a capirlo! La cosa più meravigliosa è che non ha importanza quel che siete. State appena incominciando, perché, sapete, nessuno è mai riuscito a scoprire il limite del potenziale umano e dell'umanità. Voi siete possibilità illimitate. Erich Fromm afferma che il guaio della vita di oggi è che molti di noi muoiono prima di essere nati pienamente. Non smarrite voi stessi! Elisabeth Kùbler-Ross ci dice che le persone che urlano di più, sul letto di morte, sono quelle che non hanno mai vissuto. Hanno osservato la vita, ma non vi hanno partecipato attivamente. Non hanno corso rischi. Sono rimaste ai bordi del campo. Ogni volta che tendiamo la mano verso qualcuno corriamo il rischio di prenderci una sberla. Ma c'è anche la possibilità - cinquanta e cinquanta, meglio di quello che potete sperare a Las Vegas - che qualcuno tenda la mano e vi tocchi con amore. Una delle cose più belle che abbia mai avuto modo di vedere accadde in un parco. C'erano una madre e un padre che avevano rubato, rubato veramente un po' di tempo al pazzo, stipatissimo programma di tutte le cose importantissime che avevano da fare, per portare lì il loro figlioletto. E il bambino stava scendendo verso la riva del lago. Il padre se ne accorse, e fece per fermarlo. La madre, che doveva essere una persona unica, straordinaria, lo trattenne e disse: «Lascialo andare!». E il bambino, che sapeva appena appena camminare, scese in riva al lago. La storia ha un lieto fine: il 135

bambino non annegò. Sono sicuro che il cuore di sua madre batteva all'impazzata. Ma ogni progresso comporta un rischio. Io sono uno di quei matti che ci tengono a far sapere, a chiunque vedano, che lo vedono. Tanti di noi si sentono soli perché nessuno li vede. Siamo sicuri di non esistere. E perciò io vado in giro per il campus dell'università e dico: «Buongiorno. Salve, come va?». La reazione è incredibile. Certuni dicono «Salve». E poi c'è l'estremo opposto, quelli che dicono rabbiosamente, come se avessi invaso la loro intimità - e probabilmente l'ho fatto davvero - «La conosco?». E io rispondo: «No, ma non sarebbe bello se ci conoscessimo?». Qualche volta quelli rispondono: «No». E poi io ho una caratteristica meravigliosa; anche se mi sento ferito; ho meccanismi difensivi straordinari per guarire le ferite; meccanismi da far rivoltare Freud nella tomba. Mi allontano e penso: «Caspita, che peccato che non abbiano voluto conoscermi. Sono tanto simpatico. E perciò domani mattina, quando li rivedrò, dirò di nuovo buongiorno e offrirò loro un'altra occasione». Funziona a meraviglia, sapete. Quando li rivedo, dico «Salve!». E se loro chiedono: «La conosco?», io rispondo: «Sì, ci siamo conosciuti ieri!». Oh, imparare di nuovo a rischiare! Tornare a quel punto dell'infanzia quando il mondo intero era un gigantesco, meraviglioso mistero che dovevate capire! Lasciatevi tentare. Dite a voi stessi: «Io voglio conoscere tutto. Voglio sentire e toccare e assaporare e comprendere tutto; nella vita non c'è molto tempo, quindi devo farlo subito». Dovete apprezzare ogni momento come se fosse l'ultimo per voi... perché potrebbe esserlo. Moltissimi vedono la morte come un mostro malvagio. Per fortuna, io sono riuscito a riconciliarmi con la morte. La vedo come una forza molto positiva, mi ricorda che ho a disposizione una quantità limitata di tempo. Non ricorre a trucchi. Sappiamo che c'è sin da quando siamo nati. Non si è 136

mai nascosta. Se l'abbiamo persa di vista è perché l'abbiamo nascosta noi. Nessuno uscirà vivo da questo mondo. Ma alcuni di noi si comportano come se avessero tutta l'eternità davanti. «Oh, questo lo farò domani.» «Ho sempre desiderato scalare una montagna. Domani lo farò.» Può darsi che non riusciate a farlo. I miei studenti dicono: «Quando avrò terminato la scuola, sarò libero di leggere». E io dico loro: «Non è vero! Se non lo fate ora, non leggerete mai». Il momento giusto è il presente. Non aspettate domani per dire a qualcuno che l'amate. Fatelo ora. Lasciatelo di stucco. Fate una telefonata interurbana: «Ehi, mamma! Sono Felice. Lo so, sono le tre del mattino ma ho qualcosa da dirti. Ti voglio bene». Ecco, se vostra madre non muore d'un attacco cardiaco, può essere uno dei momenti più significativi della sua vita. Incontro spesso chi dice: «Bene, mia madre lo sa già». Forse lo sa. Ma voi vi stancate mai di sentirvelo ripetere? Ditelo subito. Ci sono tanti modi di dirlo. Tendete la mano e toccate la vostra ragazza, vostra moglie. Stringetela. Ditelo al vostro ragazzo. Andate a casa e svegliate i bambini. «Ehi! Vi voglio bene, vi voglio bene, vi voglio bene...» «Dio, la mamma è impazzita!» «Puoi ben dirlo!» Perciò ricordate che tutto incomincia con voi, e non potete celebrare nessun altro a questo mondo fino a quando non celebrerete voi stessi. Con tutte le vostre eccentricità! La vostra smemoratezza! E persino la vostra capacità di ferire gli altri. Uno degli attributi più grandi che possediamo è la meravigliosa capacità del perdono. Io vi perdono di non essere perfetti. Pretenderò che tutti siano perfetti il giorno in cui io diventerò perfetto. Perciò siete tutti al sicuro! Celebrate voi stessi e la vostra umanità con gioia e con meraviglia e con 137

magia. E poi, insieme, celebrate gli altri. Oh, che grande gioia è per me celebrarvi! Quelli di voi che conoscono la mia attività sanno che sono un maniaco delle foglie. E l'autunno è la mia stagione preferita. L'autunno, per me, è completamente magico. Io amo le foglie. Mi dicono tante cose. Qui intorno ci sono molti sicomori, che sono decidui; quando cadono le foglie, mi piace lasciarle lì. Anzi, mi piace raccoglierle e metterne una sul banco di ognuno dei miei studenti. Dico: «Non è incredibile? Non è vero che una foglia è un miracolo?». Incomincio a parlare della sensazione e della percezione, usando come esempio una foglia. Allora tutti quelli che le avevano gettate via si chinano a raccoglierle. (Non sapevano che questo faceva parte della lezione.) Ecco, questo è significativo! Ma una vecchia foglia è significativa in se stessa. Ricordo una meravigliosa ragazza cieca, nella mia classe. Quando ci stavamo comunicando le nostre sensazioni nei confronti delle foglie, qualcuno diceva: «Non è bella?» e «Guardate le piccole nervature». Mentre noi parlavamo di ciò che vedevamo, lei disse qualcosa che nessuno aveva pensato. «Non è vero che una foglia secca ha un buon odore?» Le foglie mi piacciono e quando cadono preferisco lasciarle per terra; ma i miei vicini sono molto ordinati e puliti. Puliti-puliti-puliti-puliti-puliti-puliti. La casa di Buscaglia (secondo la loro percezione) è sporca-sporca-sporca-sporcasporca. E allora, pulire-pulire-pulire-pulire-pulire. Capite? Uno dei miei vicini ha addirittura una di quelle macchine che aspirano le foglie... Rrrraaaahhhrrr! E si vedono le foglie che spariscono. AAAARRRRGHH! Io non lo sopporto. Le mie foglie non hanno nulla da temere. Una volta tenevo un seminario in casa mia quando vennero i miei vicini... sono tipi meravigliosi, è solo che hanno questa smania della pulizia. Bussarono, e io abbandonai un momento il seminario per 138

andare alla porta. Loro mi dissero: «Leo, sappiamo che durante i weekend viaggi e che all'università fai orari impossibili. Non hai tempo di pulire le tue foglie. Noi abbiamo questa macchina meravigliosa. Lo faremo noi». Ecco, vedete, sono davvero vicini affezionati se sono disposti a fare questo per me. Io dissi: «No, va bene così. Non sapevo che le mie foglie vi dessero fastidio. Adesso andrò a toglierle». Parlammo per qualche minuto, e poi loro se ne andarono. Tornai in soggiorno, e naturalmente i miei studenti erano indignati. «Che fifone! Avrebbe dovuto dire: "Questa è casa mia e faccio quello che...".» E io dissi: «Silenzio!». (Sono un vero consulente non autoritario.) «Uscite e raccogliete quelle foglie, tutte quante. Mettetele nei barili, portatele dentro e rovesciatele sul pavimento del soggiorno.» Non ci credevano. «Dice sul serio?» «Sì, dico sul serio! Nessuno può dirmi che cosa posso o non posso mettere sul pavimento del mio soggiorno.» E così rovesciammo quelle cose magnifiche in soggiorno, e ci sedemmo sulle foglie e continuammo il nostro seminario. A volte ho davvero bisogno dei miei vicini. Sono felice di averli. Qualche volta, rinunciando a qualcosa d'ordine inferiore, otteniamo qualcosa di un ordine molto superiore. Avevo i miei vicini e loro erano contenti, e avevo le mie foglie ed ero contento io. E fu una cosa semplicissima. Sapete che quasi tutti i divorzi e quasi tutte le separazioni sono causati da cose stupide, insignificanti, assurde? «Voglio il divorzio. Lei strizza il tubetto del dentifricio al centro! Mi fa ammattire!» Mio Dio, compratene due. «Lui butta per terra i suoi vestiti di qua e di là per la casa e io sono la sua serva!» Non sei la sua serva, se non vuoi esserlo. Lascia la roba sul pavimento. Girale attorno! «Ma che cosa penseranno i vicini?» Ecco, sarà un problema tutto loro, se entreranno e diranno: «Cosa? Sei giacche sul pavimento». «Oh, sono di mio marito. Non è un amore? Gli piace tenere le sue giacche sul pavimento. 139

E io le lascio lì. Si diverte tanto a sceglierle la mattina!» La prima volta che vi sentite veramente irritati e arrabbiati, esaminate la causa. Di solito è una cosa ridicola. Se vi mettete tranquilli a pensarci, finirete per scoppiare a ridere. Direte: «Non è magnifico essere umani?». Ciò che forse mi spaventa più di ogni altra cosa nella nostra cultura è la mancanza di humour. Prendiamo tutto maledettamente sul serio. Abbiamo dimenticato come si fa a ridere. Provino a pensarci, quelli di voi che hanno la mia età o più, quanto si rideva in casa. Oggi non sento più ridere. Ricordo mia madre, che era veramente una donna straordinaria... era magnificamente rotonda. Era una g-r-a-n donna! Le piaceva mangiare. È una qualità che ha trasmesso a me. Ma i mass-media ci dicono che dobbiamo essere terribilmente snelli per essere attraenti. Dipende da dove vi trovate. Andate in Italia e vedrete a chi tocca il maggior numero di pizzicotti. Più roba c'è e più si sta allegri! Qualche volta mia madre rideva così forte che cadeva sul pavimento, squassata dalle risate, con tutti i suoi ottanta chili e più... e noi ridevamo con lei. Oggi non sento più tante risate. Noi non ridiamo. Le cose non sono divertenti. Abbiamo dimenticato come si fa a essere allegri e, peggio ancora, abbiamo dimenticato la nostra pazzia e non l'accettiamo. Siamo sinceri: ognuno di noi è un po' matto. Oh, la gioia di ritrovarci in contatto con quella pazzia! Vivete in modo un po' matto. Una volta tanto. E vedrete che cosa succede. Illumina la giornata. Di recente sono stato invitato a parlare a mille suore nel Wisconsin. Mille suore e Felice! Oh, mia madre era in estasi lassù in paradiso, ne sono sicuro: «Ecco il mio piccolo Felice che parla a mille suore!». Fu un weekend bellissimo, così ricco d'amore. Quando mi invitarono mi dissero: «Non abbiamo denaro, ma è il nostro ritorno alla casa madre, e 140

molte di noi non si vedevano da dieci anni. Sarà molto bello e vorremmo che lei venisse a dividere questa festa d'amore con noi». Ci andai, e quando facevo un commento su qualcosa che vedevo, loro si davano da fare. Era autunno e l'autunno nel Wisconsin è splendido. Dissi che le foglie erano bellissime. Allora andarono a prenderle e mi diedero un enorme sacco di foglie da portarmi a casa. Feci un commento sulla zucca più grossa che avessi mai visto. Le zucche del Wisconsin sono fenomeni. ENORMI! Me la regalarono. C'era una suora che faceva del pane, degno della tavola di un raffinato buongustaio. Mi venne quasi da piangere. Dovreste vedermi davanti a una buona tavola. Piango. La gente domanda: «Cosa c'è, Buscaglia?». «Oh, è tutto così buono!» La suora mi regalò due pagnotte. E poi, poco prima che salissi sull'aereo - era un volo notturno in partenza da Chicago - mi regalarono due chili e mezzo di formaggio del Wisconsin. Sull'aereo eravamo soltanto l'hostess e io, con la mia zucca, un sacco di foglie, il formaggio e le pagnotte. Mi portai tutto a bordo. Dopo il rituale «Caffè, tè o latte?» le luci si abbassarono. Non c'è niente di più meraviglioso che trovarsi in volo con le luci abbassate, nel silenzio, mentre si va da chissà dove a chissà dove. E... mi prese un colpo di pazzia. Andai nella sezione centrale e alzai tutti i braccioli, presi le mie foglie e le misi sul sedile. Poi presi la zucca e la misi al centro, con le due pagnotte ai lati, sparsi in giro il formaggio, e suonai per chiamare la hostess. Arrivò questa ragazza stanca, che si aspettava di dover servire caffè, tè o latte. E io dissi: «Guardi!». E lei: «Oh, mio Dio!». E s'illuminò come un albero di Natale. Io dissi: «Voglio condividere tutte queste cose. Le hanno divise con me e io voglio dividerle con lei e le altre hostess, se accettano». Lei disse: «Un momento» e andò a chiamare tutti, e portò due bottiglie di ottimo vino californiano e lo servì in veri 141

bicchieri di vetro, non nei soliti bicchieri di plastica. Fu il più breve viaggio di ritorno da Chicago che tutti noi avessimo mai fatto. Cosi ci siamo organizzati. In autunno, ogni anno, ci ritroviamo. E tutto perché qualcuno aveva deciso di trasformare un viaggio banale con un pizzico di magia. Se siete esseri umani, avete poteri magici. Stabilite il contatto con questa magia. Quando sentite la pazzia che viene a galla, non reprimetela. Lasciatela affiorare. Una volta sola... e poi fatemi sapere che cosa succede! Io penso che, se vogliamo essere umani, dobbiamo rendere omaggio, in mancanza di qualcosa di meglio, ai valori democratici. Questo significa rendersi conto che non c'è nessuno migliore o peggiore di noi. Credo che a volte tendiamo a dimenticare che tutti sono umani. C'è un aneddoto che racconto sempre, perché per me fu molto significativo. Fui invitato ad andare a una «banca dei cervelli» a St. Louis con quindici o venti educatori di varie parti degli Stati Uniti. Per tre giorni ascoltammo relazioni dottissime. Buon Dio! Posso dire soltanto che se il futuro dell'educazione in America dipende da quei dotti signori, siamo spacciati. Arrivato a metà di quelle dotte relazioni, ne ebbi abbastanza. Affiorò la pazzia. Dissi: «Scusatemi, scusatemi, scusatemi» e sparii. Stavo passeggiando lungo il fiume quando vidi un vecchietto. Senza denti... era quel che noi diciamo sporco, perché siamo puliti - sapete, tutto è relativo - e beveva una bottiglia di vino scadente e mangiava un pezzo di formaggio con un gran sorriso sulla faccia. Stavo per passare oltre. Lui mi disse: «Buongiorno, figliolo». Chiunque mi chiama «figliolo» è amico mio. Mi sedetti e cominciammo a chiacchierare. Ci spartimmo il vino, ci spartimmo il formaggio, e ci spartimmo la filosofia. Io dissi al vecchietto: «Sa, lei mi sembra così felice e contento, equilibrato e sereno. Ha una ricetta segreta?». E lui, senza esitare un momento: «Sì». Io chiesi: «È disposto a confidarmela?». 142

«Certo figliolo» disse lui. «Se vuoi vivere felice per tutta la vita, tieni sempre la mente piena e le budella vuote.» Ecco! Che saggezza! Lui non l'aveva invitato nessuno a una banca dei cervelli! Avrebbero dovuto farlo! Vedete, sono convinto che questa meravigliosa qualità di esseri umani, con tutti i suoi prodigi, sia il dono che Dio vi ha fatto. E il modo in cui l'usate è il dono che voi fate a Dio. Non accontentatevi di qualcosa che sia da meno dell'offrire a Dio quel dono perfetto che siete voi. E divertitevi a farlo. Grazie.

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I bambini di domani

Il tema della vostra conferenza mi affascina. Credo che anche voi, come me, pensiate che sia ridicolo e pazzesco stabilire che un anno è l'Anno del Bambino. Ogni anno deve essere l'Anno del Bambino, e sarebbe ora che ce ne rendessimo conto. Forse questo smuoverà le acque, e riconosceremo tutti che i bambini hanno disperatamente bisogno di noi. Il concetto del bambino, il Bambino di Domani... Amore o sconfitta... Sono qui per parlarvi di questo. Desidero incominciare leggendo un brano di Anthony Storr, tratto dal suo libro meraviglioso, intitolato The World of Children. Storr dice che siamo tutti bambini, anche se molti di noi l'hanno dimenticato. Io credo che sarebbe molto bello se potessimo rimetterci in contatto con ciò che accadeva all'inizio, quando incominciavamo a scoprire a tastoni il mondo. Vedere il nostro primo albero. C'è stata, per ognuno di noi, la prima volta in cui abbiamo raccolto un fiore, o acceso un fuoco. È un processo molto lungo in cui siamo ancora coinvolti, o almeno lo spero. Stiamo ancora scoprendo a tastoni il mondo. Per noi non basta vedere un albero; vogliamo arrampicarci sul suo tronco, vogliamo sentirne l'odore, vogliamo abbracciarlo, vogliamo assaporarlo, vogliamo masticarlo, vogliamo farne veramente l'esperienza. Ed è questo che dona alla vita il suo incanto e la sua magia. Ma Storr dice: 145

È ignominioso essere un bambino. Essere cosi piccolo che puoi venire sollevato e spostato secondo il capriccio degli altri. Essere nutrito o non nutrito. Venire pulito o lasciato sporco. Venire reso felice o lasciato lì a piangere. Sicuramente è un tale culmine dell'umiliazione che non è sorprendente che alcuni di noi non si riprendano mai. Perché senza dubbio una delle paure fondamentali è quella di essere trattati come cose e non come persone. Maneggiati, spinti qua e là da forze impersonali, trattati come se non contassimo nulla da quelli che sono più forti, che sono superiori. Ognuno di noi può essere un atomo minuscolo in un universo immenso, ma abbiamo bisogno di illuderci che contiamo... che la nostra individualità attiri l'attenzione. Venire completamente trascurati come persone è una specie di morte nella vita, contro la quale siamo costretti a combattere con tutte le nostre forze.

Io credo che quanti di noi lavorano nelle professioni assistenziali sappiano, forse più di chiunque altro, quanto è difficile trovare quell'io, conservare quell'io e potersi fare avanti e dire, non già «Io sono», bensì «Io sto diventando», perché in realtà sotto molti aspetti noi non siamo ancora nati. Eppure, per quel che ne so, non esiste una scuola per la vita, e ci sono pochissimi modelli... individui che possano veramente farsi avanti e dire: «Io sto diventando, io sono. È meraviglioso. La vita è bella, il mondo è bello». C'è un libro bellissimo che è sempre stato uno dei miei prediletti, L'idiota di Dostoevskij. Non so quanti di voi lo abbiano letto; ma un giorno, quando avrete molto tempo - è un librone, però ne vale la pena - prendetelo e immergetevi nella lettura, perché è magico. Parla del principe Myskin, che è una specie di santo sconsiderato in un mondo peccaminoso. Sembra che tutto ciò che lui tocca con spirito di bontà si trasformi in sofferenza e disperazione, e lui non lo capisce. Soffre di attacchi epilettici, e ogni volta che ha un attacco epilettico ha ispirazioni immense. La magica penna di Dostoevskij lo descrive così: All'improvviso, in mezzo alla tristezza, alla tenebra e all'oppressione spirituale, appariva un lampo di luce nella sua mente. E con uno straordinario slancio, tutte le sue forze vitali incominciavano a operare alla tensione più elevata. La sua mente e il suo cuore s'inondavano di luce straordinaria. 146

Tutta la sua inquietudine, tutti i suoi dubbi, tutte le sue ansie trovavano un sollievo immediato. Ma quei lampi erano soltanto il preludio del momento in cui incominciava l'attacco. 1

Ogni volta che ha un attacco, gli giunge una rivelazione; e a un certo punto, verso la fine del romanzo, tutto balena nella sua mente, e il principe MySkin grida: «Oh, Dio, perché non lo diciamo ai bambini?». Io faccio eco a questa frase: «Perché non lo diciamo ai bambini?». Perché non diciamo loro che hanno una scelta, che possono scegliere l'amore e non la sconfitta? Quando vi guardate in giro, potete vedere che ci sono tanti, tanti sconfitti. Non so che cosa ne pensiate voi, ma a me fa paura che ogni anno, negli Stati Uniti, vi siano oltre ventiseimila suicidi riusciti. Le statistiche più recenti mostrano che gli atti di violenza sono aumentati del sette per cento in tutta la nazione. Dove sono finiti coloro che si sposavano e restavano sposati, e tiravano su una famiglia per venti, trenta, quaranta, cinquant'anni? Perché le cose vanno diversamente? Forse perché siamo stati tutti allevati in giardini recintati. Siamo stati protetti contro la vita. Non ci è stato permesso di vedere che cos'è la vita... come se la vita fosse una terribile bruttura... e per questo siamo stati allevati dietro muri artificiali, in giardini pieni di fiori e di meraviglie. Solo quando arriviamo all'adolescenza, ci arrampichiamo su quel muro e scopriamo di non avere gli strumenti per sopravvivere alla realtà. Non vogliamo soffrire e perciò prendiamo pillole, prendiamo droghe, ci ubriachiamo, ci stordiamo. Abbiamo paura di vivere ma abbiamo ancora più paura di morire. Accusiamo il passato, amiamo accusare il passato, amiamo accusare tutti, nel passato, ma ci sentiamo impotenti di fronte al presente e al futuro. Sospettiamo degli altri, ma soprattutto sospettiamo di noi stessi. Abbiamo dimenticato come ascoltare le nostre voci. Siamo in contraddizione con ciò che viene da noi. Ci lasciamo sfuggire il presente. Lo lasciamo andare. 1

La traduzione è fatta dalla versione inglese.

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Non sappiamo che possiamo scegliere, e che possiamo scegliere la gioia. Non abbiamo uno scopo e non comprendiamo che cosa sia la vita. Non ci domandiamo mai: «Cosa ci faccio qui?». Forse che siamo qui solo per occupare spazio? Ho trascorso molto tempo in monasteri Zen e in monasteri buddisti e in ashram dell'India per cercare d'imparare il più possibile dal maggior numero possibile di culture. Ho avuto la fortuna di poter imparare che vi sono molte vie. Ma in India vidi una cosa che non ho mai visto altrove, e che avvenne come per magia. Quando arrivai a Calcutta, scesi dal treno, e non avevo ancora percorso quattrocento metri quando, come per un sovraccarico percettivo, vidi tutto ciò che c'è da vedere della vita! Vidi infelicità, vidi disperazione, vidi bambini che morivano di fame, vidi gente dall'espressione angosciata, vidi gioia e vidi rapimento. Sì, vidi anche rapimento. Vidi fiori e danze e bellezze e morte. In quattrocento metri... mentre avevo impiegato tanti anni della mia vita solo per incominciare a imparare che cos'è la vita. Ed è questo che intendo dire quando affermo che noi neghiamo la vita ai bambini. Attendiamo che siano diventati adulti per insegnare loro qualcosa sulla morte. Facciamo in modo che i bambini credano che la vita sia un letto di rose. Che delusione, per loro, quando scoprono che non è vero! Lasciamo che i bambini ci credano perfetti; e che esperienza devastante è per loro, quando scoprono che non lo siamo! Perché non insegnare cos'è l'umanità, visto che siamo esseri umani? Prima d'insegnare ai bambini, dobbiamo imparare a parlare con loro. Mi piacerebbe molto scrivere un libro intitolato: «Come parlare con i bambini», perché vedo benissimo cosa succede tra gli adulti e i bambini: noi parliamo a loro, parliamo come se non ci fossero, parliamo in modo che non ci capiscano. Non comunichiamo mai con loro. Per comunicare veramente con i bambini, dobbiamo esercitarci a pie148

gare le ginocchia. Dobbiamo piegarci per stare faccia a faccia con loro. Dobbiamo cercare di entrare nel loro mondo e smetterla di parlar loro del nostro. Ascoltiamoli. Invitiamoli a dirci che cosa vedono e sentono e odono perché - e questo vi sorprenderà - possono insegnarci qualcosa. E possono rimetterci in contatto con la meraviglia che era in noi e che abbiamo dimenticato. Sapete che cosa ho scoperto in questi ultimi anni? Sono più impegnato a disimparare che a imparare. Devo disimparare tutte le sciocchezze che gli altri mi hanno accumulato addosso. E anche voi vi trovate alle prese con lo stesso processo. A ogni stupidaggine di cui mi disfo, divento più libero; e più divento libero più ho qualcosa da dare a voi. Continuo a girare per le scuole perché, come ho detto, per me essere un insegnante è la cosa più importante del mondo. E che cosa sento? Sento ancora gli insegnanti che gridano: «Non ci muoveremo da questa classe se la fila non sarà ben diritta». Bell'affare. Non si impara nulla, ma la fila deve essere ben diritta. «Dunque, Johnny, perché l'hai fatto?» Per amor di Dio, a noi occorre un'eternità per rispondere a questa domanda! Che cosa dovrebbe dire Johnny? «Non lo so.» Qualcuno vi ha mai chiesto perché voi avete fatto qualcosa? Che cosa rispondereste? Questi sono i modi incredibili della non-comunicazione con i bambini! Apprezzo molto ciò che dice Haim Ginott: Un bambino ha il diritto di ricevere dagli adulti messaggi razionali. Il modo in cui i genitori e gli insegnanti parlano aiuterà i bambini a capire ciò che devono provare per se stessi. Le affermazioni degli adulti influiscono sulla stima che il bambino ha di sé, sul valore che attribuisce a se stesso. In un'ampia misura, il loro linguaggio determina il suo destino. I genitori e gli insegnanti devono sradicare la follia insidiosamente celata nel loro linguaggio quotidiano. I messaggi che dicono a un bambino di diffidare della sua percezione lo inducono a rinnegare i suoi sentimenti e a dubitare del suo valore. I cosiddetti discorsi «normali» che vanno per la maggiore fanno impazzire i bambini. I biasimi e le frasi che ispirano vergogna, le prediche e le morali, gli ordini e le prepotenze, le ammonizioni e le accuse, gli atteg149

giamenti che ridicolizzano e sminuiscono, le minacce e gli allettamenti, le diagnosi e le prognosi... queste tecniche brutalizzano, involgariscono e disumanizzano i bambini. La sanità mentale viene solo quando ci fidiamo della nostra realtà interiore e questa fiducia si apprende soltanto attraverso il processo della vera comunicazione.

Che cosa ha bisogno di sapere un bambino? Vorrei parlarvi delle cose che ritengo essenziale far sapere ai bambini. E per prima cosa dobbiamo incominciare presto a metterli al corrente di quelle meravigliose miniere d'oro dell'immaginazione che sono esclusivamente loro. Dobbiamo convincerli che in tutto il mondo loro sono gli unici «se stessi». Credo che alcuni di noi l'abbiano dimenticato. Ci sentiamo più tranquilli se possiamo buttare tutti in uno stampo; questa è una caratteristica della nostra società. Ma non siamo tutti modellati nello stesso stampo! Guardate i volti dei bambini. Io non ne ho mai visti due uguali, e questo mi piace moltissimo. Mi piace pensare che ognuno di loro è una combinazione che non si ripeterà mai più nella storia dell'umanità. Quando si capisce questo, si prova un senso d'orgoglio. Ma la diversità dei bambini sottintende un significato. Pensate che loro siano qui per niente? Che la loro unicità non serva a niente? Io amo vedere il mondo come un arazzo gigantesco, dove ognuno di noi ha la responsabilità di riempire un piccolo spazio; e se non ci assumiamo questa responsabilità e non la traduciamo in atto, l'arazzo sarà sempre qualcosa di meno di ciò che sarebbe potuto essere, e sarà peggio per tutti noi. Io non voglio che voi siate me. Lo sa il cielo che un «me» è più che sufficiente. E non mi piace il concetto «Seguite il guru». Se volete perdervi, seguitemi. Quando seguite me, questo vi conduce a me, e vi perderete! Il mio concetto è «seguite voi», perché, se seguite voi e raggiungete la vostra stessa essenza, come io la mia, allora un giorno diventeremo una cosa sola, non saremo reciprocamente alienati. Perciò dobbiamo insegnare ai bambini che sono unici al 150

mondo. Dobbiamo mostrar loro che saranno sempre i migliori se stessi. Ed è difficile, perché fin dalla tenera età noi non ci crediamo. Nessuno ci vede, nessuno ci tocca. Dobbiamo indurre i bambini a comprendere che non soltanto hanno questa unicità incredibile, ma hanno anche qualcosa che a volte dimentichiamo. Hanno anche la potenzialità. C'è in loro da «scoprire» molto più di quello che è stato «scoperto»! E questo è meraviglioso. Dovunque si trovino, stanno appena incominciando; e il grande viaggio magico della vita consiste nello scavare, nello scoprire quel meraviglioso «loro». Soltanto di recente ho incominciato a capire che cosa significava una frase che qualcuno mi disse molti anni fa: «Nella mia casa vi sono molte stanze». Io pensavo che la mia casa fosse composta di un grande, comodo soggiorno. Ed era piacevole. Era ben arredato, ed era pulito e in ordine. E in quel soggiorno succedevano tante cose. Lì potevo invitare gli amici, potevo vivere, potevo fare molte cose belle. Ma un giorno pensai che tutto, in quella stanza, mi veniva da altri. Mille arredatori l'avevano arredata. Mi accorsi anche che c'erano molte porte. Andai ad aprirne una. Era umida, buia, piena di ragnatele. Mi fece paura, e il mio primo impulso fu di richiudere la porta. Poi riconobbi che anche quella stanza era in casa mia; perciò era mio dovere pulirla, ammobiliarla di nuovo e viverci. Mi tuffai in quella stanza, e tutto cambiò. Adesso è una stanza meravigliosamente ariosa, e ho almeno due stanze dove invitare la gente che amo. Quella stanza aveva altre sette porte, e io le aprii. Una mi condusse alla musica, una all'arte, una all'amore, una alla bellezza, una alla gioia, e adesso ho molte stanze, e ognuna di essa ha sette porte. Non c'è mai fine! Nessuno è mai riuscito a trovare la fine delle stanze nella propria casa. Possiamo continuare in eterno. Sapete che cosa mi colpisce veramente? Noi siamo le uniche creature viventi che sappiano pensare al pensiero. Pos151

siamo usare simboli per pensare al pensiero. Possiamo analizzare, possiamo sognare, possiamo creare nelle nostre menti... ecco ciò che significa essere umani, ed ecco perché dovrebbe darci una sensazione immensa di meraviglia e di magia. Io credo che se potessi esprimere soltanto un desiderio a questo mondo sarebbe restituire voi a voi. Non vi voglio egocentrici; voglio solo che sappiate di poter rendere la persona che voi siete meravigliosa, straordinaria, aperta, bella, creativa. Non per nasconderla e tesaurizzarla, ma per donarla. Potete donare agli altri soltanto ciò che avete. Se siete ignoranti, insegnerete la vostra ignoranza; perciò dovete lavorare per acquisire la saggezza. Se siete incatenati, insegnerete i vostri pregiudizi, e perciò dovete lavorare per assicurarvi la libertà personale. Viene tutto da voi. Se io faccio qualcosa per me, lo faccio per voi. Più riesco ad amare me, più amore ho da donare a voi. Credo che questo dovremmo dirlo molto presto, ai bambini. E poi, credo che dobbiamo dire ai bambini che ci sono anche gli altri. Potrà sembrarvi strano, ma soltanto l'altro ieri ho scoperto un fatto sbalorditivo: non esiste più un posto sulla faccia della terra che non possiamo raggiungere in ventitré ore... anche i luoghi più remoti come la valle del Kashmir. Quindi siamo tutti vicini. Un tempo la gente era così lontana che la si poteva dimenticare. E la si dimenticava. Ma ora non è più lontana. Non ci sono più muri. È troppo facile scalarli o abbatterli con le bombe. Recentemente in un'università del Middle West si è svolto un interessante esperimento con gli studenti. Un esperimento che riguardava la partecipazione e il concetto del donare. Chiesero a ogni studente di portare una monetina da dieci cents e dissero: «In India c'è gente che muore di fame. C'è un'epidemia e là hanno veramente bisogno d'aiuto. Se volete dare a loro, mettete la moneta in una busta e scrivete: "In152

dia". L'India è piuttosto lontana. C'è gente in un ghetto della nostra città, una famiglia, che ha bisogno di denaro per tirare avanti. Se volete aiutare costoro, l'offerta sarà anonima. Mettete la moneta in una busta e scrivete: "Famiglia povera". All'università non abbiamo una fotocopiatrice e dovremmo acquistarne una per quelli di voi che hanno bisogno di copiare manoscritti e così via. Se volete contribuire all'acquisto della fotocopiatrice, mettete la moneta nella busta e scrivete: "Fotocopiatrice"». L'ottanta per cento del denaro raccolto era destinato alla fotocopiatrice! Abbiamo smesso di prendercela a cuore. Abbiamo formato piccoli nuclei chiusi. Diciamo: «Queste sono le cose che devono interessarmi. Quello che succede là fuori non mi riguarda». Io credo che siate arrivati alla meta quando riconoscete che non cade neppure una foglia senza che questo influisca in qualche modo su di voi. Non c'è più posto dove nascondersi! Il capufficio vi sgrida? Tornate a casa e sgridate vostro marito o vostra moglie. Vostro marito o vostra moglie prendono a sberle il bambino. Il bambino prende a calci il cane, e il cane morde il gatto che fa pipì sul tappeto. Io ho bisogno di voi. Affiliamoci a un gruppo, per poter dare un po', allo scopo di avere. Dobbiamo imparare ad avere di nuovo fiducia, a credere, a lavorare insieme. Volete sapere chi siete? Guardate gli occhi di coloro che vi stanno intorno e che vi amano. Sono i soli che oseranno dirvi che avete la punta del naso sporca. Tutti gli altri al mondo vi lasceranno andare in giro tutto il giorno con la macchia di terriccio sul naso. La persona che vi ama vi dirà: «Ehi, tesoro, hai il naso sporco». E poi sono convinto che dobbiamo parlare ai bambini della morte, e smetterla di proteggerli e di lasciare che si mettano in mente di essere immortali. Ci comportiamo come se credessimo di esserlo. Freud disse molte cose giuste, e una delle cose che disse è che tanti nostri problemi, tante 153

nostre incapacità di vivere nascono dalla convinzione che non moriremo mai. Crediamo di avere l'eternità a disposizione. Se riflettete bene, scoprirete di pensare sempre che siano gli altri a morire, non voi. Bene, ho un annuncio per voi. Moriremo tutti! È la cosa più democratica che sia mai successa. Chiunque siate, per quanto siate ricchi e illustri, Indipendentemente dal fatto che abbiate reso bella od orribile la vostra vita, morirete. Ma perché averne paura? Avete paura della morte solo quando non vivete. Se siete coinvolti nel processo della vita, non piangerete e non urlerete. Se in vita avete trattato bene gli altri mentre erano vivi, non vi butterete sulla loro bara urlando: «Non andartene, non andartene!». Santo cielo! Non lasciamo neppure che gli altri muoiano con dignità. Li facciamo morire pieni di rimorsi gridando: «Oh, ti prego, non morire!». Che strano concetto abbiamo della morte! Non vogliamo condurre i bambini ai funerali. Alcuni di voi ricorderanno il tempo in cui ancora esistevano le veglie, e si diceva ai bambini di andare a vedere il nonno e la nonna e dir loro addio. Ad alcuni di voi fu spiegato allora che tutto muore, come muoiono i fiori d'inverno, per poi ricrescere. La morte è un continuo, bellissimo processo della vita. Cosi, non vi fa più paura. La morte è una buona amica, un'ottima amica, perché ci dice che non abbiamo a disposizione l'eternità e che dobbiamo vivere ora; perciò è prezioso ogni minuto. Leggiamo queste parole e diciamo: «Oh, sì, è verissimo». Ma viviamo così? Com'è meraviglioso da vivere il momento in cui contemplate un fiore. Quando qualcuno vi parla, per amor del cielo, ascoltate, e non guardate da un'altra parte, per vedere cosa succede. L'ora del cocktail! Non c'è un insulto più grande. Se non volete stare con me non state con me! Va bene così, mi adatterò. Ma se state con me, è segno che volete stare con me. Dite: «Vado a vedere l'oceano». Guardate l'oceano? «Oh, che bel tramonto.» Lo pensate davvero? Vi rendete conto che non si ripeterà mai più? 154

La morte, se vogliamo ascoltarla, ci insegna che il momento è ora. Ora è il momento di prendere il telefono e chiamare la persona che amate. La morte c'insegna la gioia del momento. C'insegna che non abbiamo a disposizione l'eternità. C'insegna che nulla è permanente. C'insegna a lasciare che le cose fluiscano, e che non c'è nulla a cui possiate aggrapparvi. E ci dice di rinunciare alle aspettative e di lasciare che il domani racconti la propria storia, perché nessuno sa con certezza se rientrerà a casa stasera. Per me, questa è una sfida colossale. La morte ci dice: «Vivete ora». Diciamolo ai bambini. Un'ultima cosa che voglio dire ai bambini è che la vita non è soltanto sofferenza, infelicità e disperazione come si sente nel telegiornale e come si legge sui quotidiani. Quelle sono le cose che fanno notizia. Quelle che non sentiamo mai sono le cose meravigliose, amabili, grandi, fantastiche che accadono egualmente. In un modo o nell'altro, dovete far conoscere ai bambini anche queste cose meravigliose. Per riuscirci, dovete ritrovare il contatto con la vostra gioia e la vostra follia. Siamo tutti matti! E se non lo credete, siete più matti degli altri. La noia nasce dalla monotonia. La gioia, la meraviglia, il rapimento nascono dalla sorpresa. La monotonia conduce alla noia, e se siete annoiati, siete noiosi. Vi stupite che gli altri non vogliano stare con voi! Potete scegliere come volete vivere la vostra vita. Potete scegliere la gioia, la libertà, la creatività, la sorpresa, oppure l'apatia e la noia. E questa scelta potete farla ora! C'è una pagina che apprezzo moltissimo e che riassume tutto questo. È stata scritta da Frederick Moffett, del Dipartimento della Pubblica Istruzione di New York. È intitolata «How A Child Learns», «Come impara un bambino». Un bambino impara cosi, acquisendo nuove capacità tramite le dita delle mani e dei piedi. Assorbendo le abitudini e gli atteggiamenti di coloro che gli stanno intorno, spingendo e tirando il suo mondo. Un bambino impara così, più provando che sbagliando, più attraverso il piacere che attraverso la 155

sofferenza, più grazie all'esperienza che grazie ai suggerimenti e alle spiegazioni, e più grazie ai suggerimenti che agli ordini. E un bambino impara così, tramite l'affetto, l'amore, la pazienza, la comprensione, il senso di appartenenza, il fare e l'essere. Giorno per giorno il bambino perviene a conoscere un po' di quello che voi sapete, un po' più di quello che voi pensate e comprendete. Ciò che voi sognate e credete, in verità, è ciò che sta diventando quel bambino. Nello stesso modo in cui voi percepite oscuramente o chiaramente, pensate confusamente o nitidamente, credete stupidamente o saggiamente, sognate in modo scialbo [e questo mi piace moltissimo] o in modo aureo, rendete falsa testimonianza o dite la verità... così il bambino impara.

Dobbiamo dire ai bambini che hanno la possibilità di scegliere tra l'amore e la sconfitta. Perché lasciarsi sfuggire l'amore è lasciarsi sfuggire la vita. Thornton Wilder dice: «Vi è una terra dei vivi e una terra dei morti, e il ponte è l'amore. L'unica sopravvivenza e l'unico significato». Diciamolo ai bambini!

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L'intimo voi

Io sono sinceramente convinto che se c'è a questo mondo una persona che noi possiamo toccare totalmente, senza vergognarci, non moriremo mai di solitudine. Una persona! Non dico cinquanta o cento o mille. Non ha importanza chi sia quella persona, una donna per una donna, un uomo per un uomo, purché sia qualcuno al quale potete rivolgervi e sfogarvi e che vi ascolterà. Qualcuno al quale non dovete nascondervi. Qualcuno al quale potete dire: «Questi sono i miei sentimenti». E quello dice: «Bene. Così va bene». «Questo sono io!» «Benissimo.» Spesso domando ai miei studenti: «Quanti di voi hanno una persona così?». Non vi chiedo di rispondere, ma pensateci! A casa? Nella vostra famiglia? Potete rivolgervi a vostro marito? Potete rivolgervi a vostra moglie? Potete rivolgervi al vostro vicino? E loro possono rivolgersi a voi? Non sono molti quelli che conoscono la vera intimità. È spaventoso. Ma noi possiamo scegliere la gioia all'intimità. Perché no? Lasciate che vi esponga le ragioni che la gente trova per non scegliere l'intimità. La cosa più sorprendente è che in queste risposte ho trovato una parte di me, e vi troverete una parte di voi. Ascoltate che cosa dicono: «Io non ho paura dell'intimità; ho paura di soffrire.» «Le relazioni mi annoiano subito. Appena ci conosciamo e la novità sparisce, sparisce anche l'interesse.» 157

«La gente non vuole l'intimità, vuole soltanto il sesso.» «Ho paura di far conoscere a qualcuno chi sono veramente; se lo sapessero resterebbero inorriditi.» «Io non credo all'intimità. Non penso che sia possibile. La gente è troppo diversa.» «L'intimità mi rende sempre insicuro e geloso. Più sono profondi i sentimenti che provo per qualcuno, e più profonde sono l'insicurezza e la gelosia; quindi preferisco restare sul superficiale, per non soffrire.» «È strano,» ha detto un altro «ma sembra che io non riesca a far altro che litigare con le persone più intime e a far loro del male. Ogni volta che stringo un legame intimo, mi sento defraudato. So che deve esserci qualcosa di più, e perciò lo cerco e così rovino tutto.» «Abbiamo tutti esigenze enormi, e sono esigenze diverse. Cercare di soddisfare le esigenze di un'altra persona aggrava le complicazioni della mia vita. Ho già abbastanza problemi.» Sono commenti molto umani e molto onesti. È vero che le relazioni intime sono un rischio, ed è vero che fanno soffrire, ed è vero che pretendono moltissimo da voi, ed è vero che pretendono cambiamenti, ed è vero che fanno affiorare i vostri sentimenti più profondi e a volte vi fanno sentire infelici. Ma, come ho detto, le alternative all'intimità sono disperazione e solitudine. La nostra società moderna non rafforza l'intimità. Un matrimonio su quattro finisce con il divorzio. Nella California meridionale, la percentuale dei divorzi si avvicina al cinquanta per cento. Santo cielo! Un matrimonio su due fallisce. Relazioni che incominciano con grandi sentimenti d'amore e di tenerezza durano tre mesi. Quando la situazione diventa un po' difficile o spiacevole, non la sopportate più e ve ne andate. Poi ci sono libri come il popolarissimo Feel Free. Voglio leggervi quello che ci dice: «Se una relazione diventa opaca e torpida, sentitevi liberi di andarvene, e non 158

fatevene un rimorso, perché le relazioni durevoli tra due persone non sono più possibili». E l'autore è uno psichiatra! Quindi, se ci mettiamo a discutere, se non siamo d'accordo, dite: «Vai al diavolo. Non ho intenzione di star qui con te a risolvere la faccenda. Chi ha voglia di prendersi questa briga? Perché risolvere qualcosa? È più facile trovare un altro». George Leonard dice: «Noi possiamo metterci in orbita intorno alla Terra, possiamo arrivare sulla Luna, ma questa società non ha trovato un sistema che permetta a due persone di vivere insieme in armonia per sette giorni senza provare l'impulso di strozzarsi a vicenda». Ci dicono che l'intimità è fuori moda, ma io dico che l'intimità ci deve essere, altrimenti impazziremmo tutti. Vivete soli, se potete. Io credo che possiate giudicare il vostro livello di salute mentale in rapporto alla misura in cui sapete formare relazioni significative e durevoli. Ciò che conta non è la quantità di queste relazioni, bensì la qualità. Ci sono molti livelli d'intimità. Per esempio mi ricordo di quando stavo preparando la mia tesi di dottorato sugli schizofrenici: con loro non avevo nessun contatto. Se li toccavi, urlavano: «Lasciami in pace!». Stavano per ore e ore alle finestre a guardar fuori, a stabilire il contatto con il nulla. Un gradino al di sopra di questo livello ci sono le relazioni rituali... un'interazione rituale, come quando camminate per la strada e dite: «Oh, ciao, Mary. Come stai?». E lei dice: «Benissimo». (Sta morendo di lebbra, ma dice «Benissimo».) Lo dice automaticamente. (Tanto, a voi non importa come sta!) «Come stai, Min?» E lei: «Oh, la mia lombaggine, mi fa morire». E voi non volete sentirlo. Perché l'avete chiesto? Non sarebbe meraviglioso dire: «Ciao, Mary» e guardarla negli occhi per dimostrare che v'importa di lei? Non chiedete, se non volete sapere veramente. E allora, se lei ve lo dice, mettetevi seduti, accendete il fuoco e ascoltate. Un livello un po' più alto, ma ancora piuttosto straniato, è quello che io chiamo «le chiacchiere da cocktail»: è materiale 159

veramente strano. Parliamo di tutte le cose non pericolose che in realtà non hanno nessuna importanza. Siete mai andati a un cocktail dicendo: «Veniamo al sodo. Parliamo di religione, di politica, d'amore. Dio è morto?». Potete star certi che non v'inviteranno più! E poi, su un livello ancora più alto, c'è quello che Berne chiama «i giochi che gioca la gente». Anche questo è un passatempo strano. Vi mettete nel gioco dell'intimità per ottenere la reazione che volete. Per esempio, vostro marito non vi dedica sufficienti attenzioni o viceversa, e così andate a casa e chiedete: «Cosa c'è, caro?». La risposta è: «Oh, niente». E voi dite: «Ma deve esserci qualcosa. Guardati! Sembri un morto riscaldato». «Non è niente.» «E allora perché gli dai tanto peso?» «Non è niente.» «Ma, tesoro, dev'esserci qualcosa.» «No»... e avanti con questo gioco. Ma il livello più alto sul quale possiamo interagire e avere una relazione è quello di cui sto parlando oggi, ed è la vera intimità. Il livello sul quale noi diamo e riceviamo senza sfruttamenti. «Non voglio servirmi di te, voglio amarti. Voglio fare l'esperienza di te. Voglio conoscerti. Voglio fiutarti. Voglio sentirti. Voglio progredire con te. Voglio ballare con te, piangere con te. Voglio accarezzarti.» Ma, come ho detto, questo richiede tutte le vostre energie. Cercare l'intimità è un rischio, e può portare sofferenza. Ma solo in una relazione intima riuscirete a vedere voi stessi e a progredire. Nel mio libro Love ho scritto: «Quando io ti amo e tu mi ami, siamo l'uno come lo specchio dell'altro, e riflettendoci l'uno nello specchio dell'altro, vediamo l'infinito». Se voglio conoscere me stesso, non ci riuscirò vivendo solo. Lo scoprirò per mezzo delle vostre reazioni a me... le reazioni di tutti voi, e se tutti sono scontenti di me, allora dovrò guardarmi attentamente. Quante persone conosciamo che danno la colpa a tutti fuorché a se stesse? La società è contro di loro, la segretaria è contro di loro, i figli sono contro di loro. Persino Dio è contro di loro. Ecco, sapete, se questo è 160

vero, non può darsi che in loro ci sia qualcosa che allontana gli altri? Forse dovrebbero guardare se stessi. Un modo meraviglioso per guardare voi stessi è guardare il modo in cui gli altri reagiscono a voi. Io penso che la seconda cosa in ordine d'importanza, nell'affetto, sia l'impegno. È l'avversario migliore della solitudine. Non è bello sapere che quando andate a casa c'è qualcuno che vi accoglie? Non so quanti di voi conoscano l'opera di Joan Didion. È una scrittrice meravigliosa e sensibile che quasi nessuno legge. Il suo libro più recente s'intitola A Book of Common Prayer... è incredibile. Il suo tema preferito è la donna liberata... non nel senso solito, ma nel senso di «Finiamola di sfruttare le donne; rendiamoci conto che non si lasceranno più sfruttare». Un suo libro precedente è Play It Liks It Lays. Parla di una bellissima stellina di Hollywood che viene usata e sfruttata da tutti. Il regista si serve di lei, il produttore si serve di lei, il musicista si serve di lei, e lei impazzisce lentamente. Diventa letteralmente un oggetto da usare e da gettar via. Muore di solitudine, ma non riesce a trovare la sincerità. Ogni volta che crede di averla trovata, subisce una tremenda delusione. Dice una cosa bellissima, che voglio leggervi perché penso che aiuti a spiegare quella solitudine viscerale che, se siamo onesti, tutti noi proviamo qualche volta: Le guardava al supermercato e riconosceva tutti i segni. Alle sette di sera, il sabato, stavano in coda alle casse leggendo gli oroscopi di «Harper's Bazaar>. E nei carrelli c'era una confezione di spezzatino d'agnello e magari due scatole di cibo per gatti e il giornale domenicale, la prima edizione con i fumetti. A volte erano graziose, con le gonne della lunghezza giusta e gli occhiali da sole della tinta giusta, magari con una traccia lievissima di vulnerabilità e di tensione intorno alla bocca. Ma erano li, con una confezione di spezzatino d'agnello e due scatole di cibo per gatti e il giornale del mattino. Per non rivelare gli stessi segni, Maria faceva sempre una spesa che sarebbe bastata per intere famiglie; confezioni grandi di succo di pompelmo, litri di salsa chili verde, lenticchie secche e tagliatelle, rigatoni e ignami in scatola, fustini di detersivo per bucato da dieci chili. Conosceva tutti i segni della solitudine e non acquistava mai un tubetto piccolo di dentifricio, non metteva mai una rivista nel carrello. La casa di Beverly Hills traboccava di 161

zucchero, confezioni per torte, panini surgelati e cipolle spagnole, e Maria mangiava ricotta.

Quanto abbiamo bisogno l'uno dell'altro! Un'altra cosa, a proposito dell'intimità: rende più grande il nostro mondo. Vorrei che avessimo qui una lavagna, perché mi piacerebbe mostrarvelo. Credo che sia una cosa splendida cui pensare. Qui c'è un «Io» e questo «Io» incontra «Te», e stiamo insieme perché siamo attratti l'uno dall'altro e abbiamo certe cose in comune e partecipiamo. Questa partecipazione diventa il nostro «Noi». Continuando a condividere, a partecipare, acquisiamo sempre più «Noi». «Tu» rimani sempre «Tu», e «Io» rimango sempre «Io». Non scompariamo mai, ma sviluppiamo il «Noi» insieme, esso è il nostro legame. Guai a voi se vi date totalmente a un altro. Siete perduti per sempre. Restate voi stessi, come gli altri restano se stessi. Formate il «Noi». Quindi lavorate su quel «Noi», e quel «Noi» diventa sempre più grande, ma anche il «Tu» e l'«Io» diventano più grandi, e formano enormi cerchi concentrici che crescono incessantemente! L'intimità è questo meraviglioso «Noi». E se per caso quel particolare «Noi» si esaurisce... avete ancora un «Io» e cari ricordi che vi serviranno per ricominciare. Io insegno in un'università dove moltissime mogli lavorano per mantenere i mariti agli studi. Non do spesso consigli, ma propongo molte alternative, e le avverto: non statevene semplicemente lì in un ufficio tetro e noioso a battere sui tasti della macchina da scrivere per tutto il giorno, mentre vostro marito segue un corso per laureati a contatto con ogni sorta di idee nuove e interessanti. Ditegli: «Senti, caro, il nostro è un rapporto di parità, dunque i mercoledì sera io uscirò. Tu puoi aiutarmi pulendo la casa». Dovete continuare a crescere e a progredire. Ogni giorno dovete introdurre qualcosa di nuovo nella vostra vita. La vostra responsabilità principale è nei confronti di voi stessi. Se non la pensate così, non potete dare niente a nessuno. 162

Potete dare soltanto ciò che avete. Se diventate vivi, se attraversate il mondo a passo di danza, facendo cose pazze, diventate affascinanti e restate affascinanti. È l'affinità che ci avvicina, ma è la novità che ci tiene insieme. Siate saggi, siate stimolanti, siate eccitanti, condividete idee nuove, crescete, progredite, evolvetevi. Non siate mai prevedibili! Quando facevo il consulente dei genitori, venne da me una coppia che mi raccontò questa storia, e vi giuro che è la sacrosanta verità. Avevano tirato su tre figli. Avevano lavorato da spaccarsi la schiena, e finalmente s'era sposata anche la figlia minore. Dopo le nozze, tornarono a casa, si sedettero l'uno di fronte all'altra. Lui guardò la moglie e chiese: «Chi diavolo sei?». Questo succede più spesso di quanto si creda! Siamo così occupati a provvedere alla vita degli altri da dimenticare che la vita essenziale è la nostra. Ogni tanto fate sedere a tavola il vostro lui e fate qualcosa di pazzo, come mangiare crocchette di pesce a lume di candela. Se le crocchette di pesce non vi piacciono, provate un McDonald's hamburger! Ma accendete una candela e mettete un disco di musica romantica! Stappate una bottiglia di vino e state allegri! «Questa è la nostra serata. Non risponderemo neppure al telefono.» Lasciate che la vostra serata duri finché non cascate dal sonno. Abbiamo dimenticato quanto sia bello lo spuntare dell'alba. L'intimità non può essere oggetto di aspettative. Non potete avere aspettative nell'interazione con un altro. Nessuno può sempre essere o fare ciò che vorreste voi. Tutto deve giungervi come una sorpresa; se ci pensate, ogni depressione che vi colpisce è causata dal fatto che qualcuno non ha corrisposto alle vostre aspettative. Pensateci! Ogni volta che vi sentite giù, è perché qualcuno non ha telefonato o non si è ricordato del vostro compleanno. Se l'hanno ricordato, fate bene a ballare, a fare le capriole, di tutto! Ma se non l'hanno ricordato, pazienza. L'importante è che siate spontanei. E 163

state a vedere che cosa succede. Ridete di quello che turba gli altri. «Lui non si è ricordato del mio compleanno, quel mio vecchio tesoro. Mi comprerò io un regalo, e sarà anche meglio, perché così avrò esattamente quello che voglio.» La prevedibilità è una noia; se volete essere affascinanti, siate imprevedibili. L'unica cosa su cui potete contare, per quel che riguarda me, è la mia imprevedibilità. Non potete mai prevedere che cosa sto per fare o per dire. Cambio continuamente, e mi piace. Quando i miei studenti alzano la mano e osservano: «Non è questo che ha detto martedì», io rispondo: «Lo so. Da martedì sono progredito. Vi aspettate che oggi io sia il Leo di martedì scorso?». Nelle vostre relazioni, mostrate ciò che sentite. Se avete voglia di piangere, piangete! Quando avete voglia di ridere, ridete. Urlate quando avete voglia di urlare. Rotolatevi sul pavimento. Sorprendete tutti quanti! E per favore, non aspettate per comunicare i vostri sentimenti. Credo che uno dei fattori più distruttivi nelle relazioni e nell'intimità sia la nostra incapacità di esprimere ciò che proviamo ora. Io dico sempre a tutti: non abbiate mai discussioni brevi. Il guaio delle discussioni è che di solito finiscono prima di aver risolto qualcosa, prima che sappiamo veramente che cosa stiamo discutendo. Più a lungo discutete, più facilmente arriverete ai sentimenti. Quando l'altro sta per uscire dalla stanza, inseguitelo! Dite: «Aspetta! Non capisco. Continua a parlare!». Alla fine scoprirete che ciò per cui state discutendo è molto sciocco. Se mai abbiamo avuto bisogno degli altri, è proprio adesso. La famiglia si sta disgregando, le percentuali dei divorzi aumentano, le relazioni sono superficiali e quasi prive di significato. La percentuale dei suicidi sta raddoppiando, soprattutto tra i giovani. L'intimità non è semplice. È una grande prova per la nostra maturità. È la nostra speranza più grande.

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Scegliete la vita

Per me, la cosa più grande che abbiamo è la vita. E finché c'è vita, come afferma il vecchio adagio, c'è speranza. Scegliere la vita non è tanto difficile come potremmo immaginare. Eppure vi sono tanti che non la scelgono. Qualche tempo fa venne all'università uno dei miei studenti. Era veramente depresso. Mi disse: «Lei e le sue idee sulla vita! Mi danno la nausea. Dice "scegliete la vita". Perché diavolo dovrei farlo? È la vita che ha scelto me. Non ho chiesto io di nascere. Mi hanno fatto venire al mondo, non capisco perché debba avere la responsabilità di scegliere la vita, visto che non ho scelto di vivere». Ogni anno migliaia di persone vanno negli ospedali psichiatrici e abbandonano la loro vita nelle mani dei dottori e dei terapisti. Non so se lo sapete, ma si sta diffondendo il fenomeno dei maltrattamenti ai bambini: picchiamo i nostri figli come neppure immaginate. Recentemente, a Los Angeles, a una bambina hanno strappato gli occhi... cose quasi incredibili. E c'è un altro fenomeno che, per me, è quasi incomprensibile; il maltrattamento degli anziani. Picchiamo i vecchi. I figli picchiano le madri e i padri anziani. È stato fatto un sondaggio tra le persone di sessantacinque anni e più, migliaia di persone, e soltanto il venti per cento ha 165

risposto: «Sono felice». Le altre si sono definite «vittime». È a questo che stiamo arrivando? È questo lo scopo della vita? Vivere fino al punto di diventare vittime? Ci sono tanti che vanno in giro a predicare la morte e la disperazione e l'infelicità. Se ne trovano dovunque. Leggete il giornale. Accendete il televisore. Eppure potete scegliere di dire: la vita è bella, celebriamola. Avete mai pensato di prendere il dizionario e di vedere cosa dice della parola «vita»? Vi leggerò che cosa ho trovato, perché è splendido: «La vita è la qualità che distingue un essere vitale e funzionante da uno morto». Non è magnifico? Ma non è di grande aiuto, vero? C'è un'altra definizione, e anche questa mi piace moltissimo. Dice: «Il periodo di utilità di qualcosa». Ho pensato: Se l'utilità determina il fatto che siamo vivi o morti, allora c'è in circolazione una quantità di gente morta. Quella che preferisco è la terza definizione: «Passare attraverso o spendere una durata». Sapete, molti di noi fanno soltanto questo. Sono pochi quelli che sono veramente vivi e vivono pienamente, nel vero senso della parola. Finché lasciate la vostra vita nelle mani di altri, non vivrete mai. Dovete assumervi la responsabilità di scegliere e di definire la vostra vita. Credo veramente che moltissimi abbiano paura della vita. Non so perché. Abbiamo paura d'essere ciò che siamo! Abbiamo sentimenti meravigliosi e folli e non li ascoltiamo. Vedete una donna molto attraente e pensate: «Le dirò che è veramente bella». E poi pensate: «Oh, non posso farlo». E lei vivrà per tutta la vita senza sapere che è bella! È una vergogna, perché se non viviamo pienamente, impediamo ad altri di vivere pienamente! Abbiamo paura di vivere la vita, e perciò non facciamo esperienze, non vediamo. Non sentiamo. Non rischiamo!. Non prendiamo a cuore nulla! Non viviamo... perché la vita significa essere coinvolti attivamente. Vivere significa sporcarvi le mani. Vivere significa buttarvi con coraggio. Vivere 166

significa cadere e sbattere il muso. Vivere significa andare al di là di voi stessi... tra le stelle! Ma dovete decidere voi, per voi stessi. «Cosa significa per me la vita?» Sono convinto che se ogni giorno dedicassimo a pensare alla vita e a vivere e ad amare lo stesso tempo... no, un quarto del tempo che dedichiamo a preparare i pasti, saremmo incredibili! Ma la vita ha un modo meraviglioso per risolvere questo problema. Per me è sempre affascinante perché, quando la vita non viene vissuta, esplode in noi. È come cercare di bloccare il coperchio di una pentola che bolle. Succederà qualcosa, ne sono convinto. Finirete per piombare nella paura, nella sofferenza, nella solitudine, nella paranoia o nell'apatia. Tutti segni del fatto che non state vivendo! Quindi, se avvertite uno di questi sintomi, rimboccatevi le maniche e dite: «Ora devo vivere». Nell'attimo in cui incominciate a lasciarvi coinvolgere nella vita, il vapore fuoriesce, e siete salvi. Non è facile: ma la vita ci fa sapere che deve essere vissuta. Meraviglioso! Tanti vengono da me e mi dicono: «Mi sembra che faccia un po' di confusione. Se la vita è così bella, perché abbiamo la morte, la sofferenza, l'infelicità, e tutte queste cose negative? Perché i bambini devono soffrire? Perché ci sono omicidi e stupri e guerre? Perché, perché, perché?». E io rispondo: «Come diavolo posso saperlo?». Uomini ben più grandi di me si sono posti questi interrogativi. Ma sapete che cos'ho fatto? Ho smesso di fare domande, e ho cominciato a vivere invece di pensare alle risposte, e tutto è cambiato. Perché c'è la morte? Io non so perché c'è la morte. Perché c'è la sofferenza? Vorrei che non ci fosse, ma non so perché c'è. Se passassi la vita a cercare le risposte a questi interrogativi, non vivrei mai. Però a quelli che vengono da me dico che so qualcosa della vita. C'è una cosa chiamata gioia, perché io l'ho provata. E c'è 167

una cosa chiamata follia meravigliosa, perché l'ho vissuta. E so che c'è una cosa chiamata amore perché ho amato. E so che c'è una cosa chiamata estasi perché ho conosciuto l'estasi. E so anche - perché ho conosciuto gente che ne ha fatto l'esperienza - che c'è una cosa chiamata rapimento. Oh, mi piace questa parola, «rapimento»! Cercate il rapimento! Mi rifiuto di morire fino a quando non avrò imparato che cos'è! Comunque, potete dare a voi stessi tutte queste cose. Per tutta la vostra vita, siete stati dati a voi. Siete diventati voi. Avete imparato a essere voi. E la cosa meravigliosa - come educatore posso assicurarvelo - è che tutto ciò che può venire imparato può venire anche disimparato e imparato nuovamente in modi nuovi. Quindi, se volete essere qualcosa, potete esserlo... purché siate disposti a sporcarvi le mani, a soffrire un po', a lottare un po', a impegnarvi un po', perché non avviene naturalmente. Dovete lavorare per riuscirci. È tutto qui! Mi piace pensare che il giorno della vostra nascita avete ricevuto in regalo il mondo. Una scatola magnifica, legata con nastri incredibili! E certuni non si prendono neppure il disturbo di sciogliere i nastri, e tanto meno di aprire la scatola. E quando aprono la scatola, si aspettano di vedere soltanto bellezza e meraviglie ed estasi. Si stupiscono nel vedere che la vita è anche sofferenza e disperazione. È solitudine e confusione. Tutto questo fa parte della vita. Non so come la pensiate voi, ma io non voglio che la vita mi passi accanto. Voglio conoscere tutto quello che c'è nella scatola. Questa scatoletta si chiama Sofferenza. Bene, anche questa è mia, e l'aprirò e farò l'esperienza della sofferenza. E questa scatoletta si chiama Solitudine. E sapete cosa succede quando apro la scatola con la scritta Solitudine? Faccio l'esperienza della solitudine. E quando voi mi dite: «Mi sento così solo», io posso capire un po' la vostra solitudine, e allora possiamo sentirci vicini e tenerci per mano. Io voglio conoscere tutte 168

queste cose. Perché so che posso imparare anche il rapimento. Se c'è, lo troverò. So che sono stato capace di trasformare la sofferenza in gioia. E potete farlo anche voi. Non c'è nulla che io possa e che non possiate fare anche voi. Non sono sovrumano. Tutto ciò che io posso fare, potete farlo anche voi. E alcuni di voi possono farlo meglio, molto meglio. Se c'è qualcosa che non avete, non è perché non l'avete, ma perché non lavorate per trovarlo. È lì, ed è vostro. Noi possiamo trasformare la disperazione in speranza, e questa è una magia. Possiamo asciugare le lacrime e sostituirle con i sorrisi. Vi sono all'opera due grandi tipi di forze; quelle esterne e quelle interiori. Abbiamo ben poche possibilità di dominare le forze esterne come i tornado, i terremoti, le alluvioni, i disastri, le malattie e le calamità. Ciò che conta veramente è la forza interiore. Come reagisco a questi disastri? Su questo ho il controllo assoluto. Credetemi o no: diversi anni fa, ci fu un grosso terremoto a Los Angeles. Era l'alba. Sentii un enorme schianto, e il mio soggiorno crollò. Dal corridoio veniva una nube di polvere. A me piace molto vivere, come a tutti voi, quindi la mia prima reazione fu: «Buscaglia, vattene subito!». Uscii dalla porta, depresso, pensando: «La mia bella casa, la mia casa meravigliosa non c'è più; tutte le cose che ho accumulato le ho perdute per sempre». Poi mi calmai e sedetti sulla veranda dietro la casa. La polvere continuava a uscire; c'erano rombi e piccole scosse continue. Vidi i miei vicini al di là della staccionata e dissi: «Salve!». E loro: «Leo! La tua casa!». E io dissi: «Lo so. La mia casa ha qualcosa che non va, ma al momento non riesco ancora a capire cosa e quindi è meglio che aspetti». Allora ci mettemmo a ridere. Io non avevo niente che funzionasse, ma i miei vicini avevano il gas, e prepararono il caffè. Ci sedemmo sotto gli alberi fino a quando sorse il sole, e poi entrammo a vedere i danni. 169

La gente mi chiede sempre: «Quando ha cominciato ad amare veramente la vita?». Non lo so. Se pensate che io sia salito sulla vetta d'una montagna del Nepal e abbia avuto una grande visione, mi dispiace deludervi. Sarebbe meraviglioso se potessi dirvi così, ma non è vero. Non so quando è incominciato, ma ho l'impressione che forse è incominciato con Tullio e Rosa, i miei incredibili genitori. Erano le persone più pazze del mondo. Tutti e due. Mi dispiace che non siano più con noi, perché mi piacerebbe farveli conoscere. Erano così pazzi. Avevano una vena di pazzia bellissima. Credo che abbiamo imparato tutti un pochino dalla loro pazzia... quella pazzia meravigliosa che vi aiuta a tirare avanti quando tutto il resto è demenzialmente razionale! Dicono: «Quel Buscaglia è pazzo». Dovreste conoscere la mia reputazione all'università... «è matto». Questo è meraviglioso perché mi lascia una grande libertà di comportamento. Quando siete considerati matti potete fare impunemente una quantità di cose; altrimenti chiamerebbero la polizia. Mio padre è morto cinque o sei anni fa. Ogni volta che vado a San Francisco provo un'immensa nostalgia perché lui amava quella città. La mamma e il papà andavano a North Beach perché, per loro, quello era un pezzetto d'Italia. Si rimpinzavano di pastasciutta fino a scoppiare, parlavano italiano, avevano contatti con altri italiani, e poi tornavano nell'immenso deserto di Los Angeles. Per noi era bellissimo. Portavano sempre tutti i bambini; non andavano mai in nessun posto senza di noi. Ci caricavano tutti sulla piccola, vecchia Chevrolet. Ricordo che ci spenzolavamo dai finestrini. A mia madre piaceva viaggiare con tutte le comodità... portava sedie speciali per il picnic. Ci fermavamo in una piazzola di sosta lungo la strada, e c'era tanta gente che mangiava sandwich o noccioline o qualcosa d'altro. Mia madre no... lei cucinava gli gnocchi. Facevamo un banchetto! Poi ci ammucchiavamo di nuovo a bordo, con 170

il fornello e il frigo e la macchina per fare la pasta. Impiegavamo giorni per arrivare a San Francisco. Io pensavo che fosse a duemila miglia da Los Angeles. Spero che tutti noi siamo capaci di fare la pace con i padri e le madri e i fratelli e le sorelle e le persone care prima che muoiano. A mio padre dissero che sarebbe morto di cancro. Andai da lui e gli dissi: «Papà, voglio fare qualcosa con te, in questo periodo. Se vuoi, starò sempre con te. Dove vuoi andare? Vuoi tornare in Italia?». «Oh, no, no, no, no. Adesso il mio Paese è questo. Ma vorrei andare a San Francisco.» Così salimmo in macchina e andammo a S. Francisco. Girammo per le strade per cinque giorni splendidi. E mangiammo! Cinque pasti al giorno! Facemmo tante cose insieme. Sapete dove volle andare poi? Questo vi dimostrerà com'era matto. Gli piacevano le slot machines di Las Vegas, e così volle andare là a giocare... niente di straordinario, solo mettersi seduto e giocare con quelle macchinette. Io dissi all'addetta: «Vede quell'uomo là seduto che gioca con aria seria a quella macchina? Non lo lasci mai senza monetine». Le diedi un po' di dollari, e lei metteva cinque dollari nella macchina... e mio padre diceva: «Vinco! Vinco!». Non ditemi che non capiva cosa stesse succedendo - era un uomo molto sveglio -, ma questo non gli impediva di divertirsi. Non si era mai divertito tanto! Quando morì fu molto difficile per me, come lo sarà per voi, dire addio a una persona tanto cara. Ricordo che quando tornai dal funerale ero veramente distrutto. Salii sulla veranda e vidi un grande mazzo di fiori e una gigantesca torta al cioccolato. E c'era un biglietto di un amico: «Leo, per ricordarti che ci sono ancora cose belle e cose buone da mangiare». Vedete, non potei evitare che mio padre morisse, quando venne il suo momento, ma le forze interiori mi aiutarono a dire: «Sì, è giusto». 171

Mio padre era il tipo che regalava tutto. Tutto! Non aveva mai niente. Appena eravamo un po' in soldi e potevamo comprare scarpe e altro, lui trovava il modo di sperperare di nuovo il suo denaro. E così passavamo di continuo dall'avere al non avere. Ma la mamma sapeva cucinare cose meravigliose con pochissimo. Mangiavamo pane, brodo e cavoli. Si cuoce al forno e quando entra nello stomaco si espande enormemente e non sentite più la fame! Così, quando le cose andavano male, avevamo sempre la zuppa di cavoli. A volte mio padre era veramente depresso. Tra l'altro, non ci nascondevano mai i loro sentimenti. Ce lo facevano sempre sapere, quando erano avviliti e infelici e spaventati. Non cercavano di farci credere che erano come la Rocca di Gibilterra. Ci facevano sempre sapere che erano umani, e di questo li ringrazio. Non erano simboli di perfezione: erano simboli di umanità! Ricordo quando mio padre ci disse che il suo socio era scappato con tutto il denaro e non sapeva neppure come avremmo fatto a mangiare. Mia madre aveva un'abitudine pazzesca... le piaceva ridere. E questo le sembrò molto buffo. Mio padre s'infuriò! Lei rideva, con le lacrime che le scorrevano sulle guance. Sapete che cosa fece? Uscimmo tutti e quella sera, quando tornammo a casa, aveva preparato un banchetto come per un battesimo o un matrimonio: antipasto, pastasciutta, vitello, tutto! Mio padre disse: «Mio Dio, cos'è questa roba?». E lei disse: «Ho speso tutto per questo». E lui: «Sei pazza!». Lei disse: «Il momento in cui abbiamo bisogno di gioia è adesso, non dopo. È adesso che dobbiamo essere felici. Stai zitto e mangia!». Non è interessante? Ci sedemmo a tavola. Sono passati molti anni... e vi assicuro che non ho mai dimenticato quella cena, la Cena della 172

Miseria di Mamma. E sapete, ce la facemmo a sopravvivere! Non è pazzesco. Sopravvivemmo. Guardate! Io sono qui. E mio padre è vissuto fino a ottantasei anni. Dunque, esistono certamente le cose esterne, ma quello che conta davvero è il modo in cui voi personalmente reagite a queste cose esterne. Potete portare la gioia nella disperazione. Credetelo! Provate, la prossima volta! Le persone infelici di solito vogliono che siate infelici anche voi. Caspita, ce la mettono tutta, vi assicuro. «Non permetterti d'essere felice.» Ecco, a me questo non riescono a farlo. Se gradiscono compagnia, terrò loro compagnia, ma sarò una compagnia gioiosa, non infelice. Perché uno si comporti così, bisogna che faccia molte scelte. Una delle più importanti è «scegliere se stesso». Scegliete voi stessi. Finitela di odiarvi. Finitela di buttarvi giù. Abbracciatevi e dite: «Sai, vai bene così! Starai perdendo i capelli, ma sei tutto ciò che ho!». Quando vi riconciliate con le vostre debolezze, ce l'avete fatta! Non sono enormi, sono soltanto una piccola parte di voi. Dovete scegliere voi stessi. Sono sicuro che coloro che si tolgono la vita, che non vivono, sono soprattutto coloro che non hanno rispetto per se stessi. Non so quando è stata l'ultima volta che qualcuno vi ha detto questo, ma voglio sottolinearlo: Voi siete un miracolo. Mi sento sempre impressionato. Tutte facce diverse... tutte così meravigliose, tutte così belle. Occhi diversi, nasi diversi, bocche diverse. Siete così differenti che è possibile identificarvi per mezzo delle impronte digitali! Se questo non vi fa capire quanto siete unici... Perché siete stati creati così unici? Perché possiate diventare come tutti gli altri? Non credo. Non credo che l'inten173

zione di Dio fosse questa. Io credo che siate stati creati unici perché avete qualcosa di unico da dire. Dedicate la vostra vita alla scoperta di questo qualcosa. Sviluppatelo e condividetelo con me, perché mediante questo processo diventeremo qualcosa di più. Voi avete la responsabilità e il dovere di diventare tutto ciò che siete. Quando perdete voi stessi, non resta più nulla. Mantenete la vostra dignità. Mantenete la vostra integrità. Nessuno può buttarvi giù, tranne voi. Gli altri potranno vedervi in modo diverso, ma voi sapete chi siete e allora siatelo, con orgoglio. «Io sono io»... ricordate le parole di Medea alla fine della bellissima tragedia, quando le dicono: «Medea, che cosa è rimasto?». E lei dice: «Che cos'è rimasto? Ci sono io!». È una cosa molto bella. Ognuno di noi ha una storia. Non è sorprendente? Abbiamo fatto una quantità di studi... in una casa con lo stesso padre e la stessa madre, un figlio può diventare un santo, l'altro può diventare un demonio. Perché? Questo non vi dice qualcosa della vostra unicità, del vostro modo di percepire le cose? Tutti voi siete venuti qui, questa sera, con un mondo diverso nella mente. Tutti voi siete venuti con una storia diversa. Alcuni di voi hanno avuto genitori meravigliosi e affettuosi e teneri e gentili. Altri hanno avuto genitori che non sono riusciti a esserlo. Alcuni hanno avuto storie incomplete, con grandi lacune. Altri hanno avuto storie esaltanti. Ma questa sera siete venuti tutti qui. Qual è il fattore comune che ci ha fatti incontrare tutti questa sera? Non lo so, ma sono sicuro che c'è. C'è qualcosa. Mi piace pensare che sia una magia. Che meraviglia... pensateci! Avete portato qui la vostra storia. E avete anche una storia emotiva che è unicamente vostra. Alcuni di voi si sentono molto soli e disperati. Alcuni di voi sono molto confusi. Alcuni sono amareggiati. Alcuni sono contenti. Alcuni sono estatici. Alcuni portano ogni sorta di vibrazioni 174

meravigliose. Tutte queste cose sono valide. Sono tutte buone. Sono tutte belle. Abbracciatele tutte... sono parte di voi. Il mistero è che ci hanno portati qui e ci hanno fatti incontrare. Non domandiamo perché. La nostra è una cultura di gente che analizza tutto. Qualcuno vi dice: «Ti amo» e voi dite: «Chiarisci meglio!». Siamo quasi arrivati al punto che non sappiamo più fare un'esperienza piena. Tutto ciò che giunge fino a noi passa attraverso uno strano congegno filtrante, e quando ci arriva non è ciò che è, è ciò che noi vogliamo che sia, e perciò noi non cambiamo. Non facciamo progressi, non maturiamo. Continuiamo a fare le stesse cose, giorno dopo giorno... Ma voi siete una storia. Ognuno di voi è una storia unica. Una storia meravigliosa! Qualunque sia questa storia, non potete cambiarla. Amatela e abbracciatela. Reinventate il perdono. Non potrete mai scegliere la vita se prima non imparerete a perdonare! Perdonate a quelli che vi hanno fatto del male. Imparate a perdonarli. Dite: «Va bene così». Perché, se non lo fate, allora vi porterete tutte queste cose sulla schiena come albatros morti, che vi appesantiranno. Se imparerete a perdonare, potrete staccarvi di dosso questi pesi, e tutte le energie potrete usarle per crescere e diventare splendidi. Quindi non portatevi in giro il vostro passato come un albatros morto. Lasciatelo andare! Imparate da esso e lasciatelo andare. Sapete, Eugene O'Neill ha detto una cosa molto bella. Nessuno di noi può guarire le cose che ci ha fatto la vita. Vengono fatte prima che noi ce ne accorgiamo, e ci inducono a fare certe cose per tutta la vita; continuano a mettersi tra voi e ciò che vorreste essere. E in questo modo perdete voi stessi per sempre.

Dunque, siete un passato, ma siete anche un futuro. Lo sapete. Ma chi può giudicare cosa sarà il futuro? Nessuno può farlo. Quindi, perché preoccuparsi del futuro? Gli unici che si arricchiscono occupandosi del futuro sono gli assicuratori. Ci assicurano. Il cielo non voglia! Se c'è qualcuno che non ci 175

assicura, sono le compagnie d'assicurazione. Ci mettono in testa ogni sorta di idee strane sul modo di proteggerci da tutte quelle cose, e così ci preoccupiamo delle preoccupazioni. Ma voi siete anche un presente. Siete «ora». Con la volontà, l'intelletto, il desiderio e il rapimento... potete diventare tutto ciò che volete, d'ora in avanti. Questo potrà sembrarvi molto, molto ingenuo, ma io credo sinceramente che se decideste di «essere» da questa sera... facciamo che questa sera, andandovene, decidiate: «Scoprirò che cosa significa amare la vita», oppure «Scoprirò che cosa significa amare e a partire da questa sera mi comporterò come chi ama. Quando starò per dire qualcosa di negativo, mi caccerò il pugno in bocca!». Quello che vi accadrebbe nelle prossime tre o quattro settimane sarebbe sensazionale, incredibile. Ne avete il potere. Potete farlo. Nikos Kazantzakis dice: «Avete il pennello, avete i colori, dipingete il paradiso e poi entrateci». E se volete dipingere l'inferno, fate pure, dipingetelo, ma poi non date la colpa ai vostri genitori e non date la colpa alla società... e per amor del cielo, non date la colpa a Dio... Assumetevi la piena responsabilità di aver creato il vostro inferno. Siamo un passato? Sì. Siamo un futuro? Sì. Ma ciò che dobbiamo fare, se vogliamo scegliere la vita, è scegliere la vita nel presente! Ora! Perché è questo che conta. Noi siamo un potenziale, ma per sviluppare questo potenziale, dobbiamo liberarci dell'«io che sconfigge se stesso». Paul Reps lo chiama «l'armamentario dell'anti-io». E caspita, ne siamo pieni! Dobbiamo sbarazzarci dei «questo non si fa». Dobbiamo sbarazzarci dei «mai». Dobbiamo sbarazzarci dei «non si può». Dobbiamo sbarazzarci dei «no»... che parola negativa! E dobbiamo sbarazzarci degli «impossibile»... non c'è niente d'impossibile. Dobbiamo sbarazzarci dei «non c'è speranza»... non c'è niente senza speranza. Queste sono parole per gli sciocchi, non per le persone intelligenti. Can176

celiatele dal vostro vocabolario. Non dite mai «mai»! «Impossibile? Naturalmente è possibile.» I sogni più grandi che sono stati realizzati da uomini e donne erano stati considerati impossibili... e qualcuno ha provato che l'impossibile era possibile. Certe persone erano state considerate moribonde, e poi si sono alzate e hanno detto: «Vai al diavolo. Io non muoio». E non muoiono! Leggete Anatomy of an Illness di Norman Cousin. L'avevano dato per spacciato. Gli avevano detto che aveva un paio di mesi da vivere. Invece scrive articoli per la «Saturday Review», tiene conferenze in tutto il mondo, ha appena scritto un libro. Insegna a tempo pieno. È attivo e meraviglioso... rifiuta di morire! Dite «sì» alla vita! «Sì» alla meraviglia, alla gioia, alla disperazione. «Sì» alla sofferenza, «sì» a ciò che non capite. Provate «sì». Provate «sempre». Provate «possibile». Provate «speranza». Provate «Io voglio». E provate «Io posso». Sono convinto che sia la vostra incompiutezza a causarvi le sofferenze più grandi. Diventate tutto ciò che siete. Abbracciatelo. È il compito della vostra vita. Scoprite cose nuove, nuove capacità, nuove creatività. Anche se viveste fino a cinquecento anni continuate a produrre come matti. Ma se volete cambiare più in fretta, più magicamente, dovete cambiare quell'«io» e allargarlo in. un «noi». Dovete includere me. Sono veramente stufo della generazione dell'«io» e del «me» e credo che lo siate anche voi. Ma per accogliervi nella mia vita, io devo poter dare qualcosa di me. E questo è molto bello, perché guadagno molto di più. Una delle mie passioni più grandi sono gli alberi e le foglie. Sono un maniaco delle foglie e non ne faccio mistero. Quando torno all'Est, dove sfoggiano tutto il loro splendore maestoso, divento matto. Ricordo che ero andato a trovare uno dei miei studenti che vive nel New England e che voleva 177

mostrarmi le foglie in autunno. Questa sera, scrivete sul vostro diario: «Non mi lascerò sfuggire il New England in autunno, in nessun caso. Pianterò il lavoro. Me l'offrirò come dono. Porterò con me coloro che amo. Condividerò questa magia!». Dunque, stavo viaggiando in macchina col mio studente, e lanciavo esclamazioni: «Oh! Ferma la macchina! Oh, santo cielo! Guarda quello!». Ero fuori di me! Ero sconvolto, non avevo mai visto niente di simile. A Los Angeles non succede. Le foglie si seccano e poi «plop», cascano. Lì c'erano quegli alberi, con foglie rosse, foglie dorate, foglie blu, foglie purpuree, foglie marrone, foglie color rosso magenta, e foglie nere - sì, foglie nere - tutte sullo stesso albero! Riuscite a crederlo? È una specie di miracolo! Mi rivolsi a questo mio studente brillantissimo, uno studente laureato... ma questo non deve ingannarvi. C'è una cosa che ho imparato molti anni fa: l'istruzione non ha il minimo effetto. Alcune delle persone più stupide che conosco hanno la libera docenza. Ce l'ho anch'io. Comunque, chiesi al mio studente: «Com'è possibile?». Lui vive lì, è vissuto lì tutta la vita. «Com'è possibile che questa foglia abbia scelto d'essere nera e quella abbia scelto d'essere gialla?» Lui disse: «Non lo so. È così e basta». Io dissi: «Non è così e basta! C'è una buona ragione e voglio conoscerla. Portami subito in biblioteca!». Lui disse: «Dio, non sei cambiato». Così andammo in biblioteca e controllammo, e sapete, scoprii che è una magia. Io la so, ma non ve la dirò. Conoscere la ragione scientifica del cambiamento dei colori non toglie poesia all'autunno. Non uccide la magia; non cancella la meraviglia. Per scegliere la vita, dobbiamo essere disposti a rischiare ancora e ad amare ancora. Riuscite a pensare a qualcosa di più importante? Per che cosa lavoriamo? Per che cosa lot178

tiamo? Per che cosa soffriamo? Per che cosa speriamo? Per l'amore. Per la vita. Lasciarveli sfuggire sarà sempre per voi la perdita più grande. Se siete disposti a rischiare, a soffrire, conoscerete l'amore. Van Gogh disse una cosa molto bella: «Il modo migliore di amare la vita è amare molte cose». Non è splendido? Il modo migliore di amare la vita è amare molte cose. Se volete scoprire se sapete amare, ascoltate quante volte, durante il giorno, dite «io odio»... «Odio questo», «Ooh, portalo via, lo odio», «Odio quel tipo di gente», «Odio queste cose»... anziché «io amo». Dite di saper amare... quante volte sentite voi stessi dire: «Io amo»? «Io amo questo», «Io amo i fiori!», «Io amo i bambini» e così via. Un'altra cosa che dovete saper affrontare e scegliere: la morte. Dobbiamo riconciliarci con la morte per scegliere la vita, perché la morte è un'ottima amica. Ci dice che non abbiamo a disposizione l'eternità. E se volete la vita, è meglio che la viviate ora! Perché se aspettate, forse non ci sarà più. Un'altra cosa meravigliosa di quella grande democratica che è la morte, è che nessuno sa quando verrà. E quindi per voi è una sfida vivere ogni momento come se la morte fosse lì a dirvi: «Eccomi, eccomi! Eccomi!». Nella nostra cultura, non c'è nulla che aborriamo di più del concetto della morte. Non ho mai visto un popolo che abbia più paura della morte di quanta ne abbiamo qui negli Stati Uniti. Sapete perché? Perché non viviamo! Se vivessimo, la morte non ci farebbe paura. Se avrete vissuto ogni momento - ogni momento dato da Dio - quando suona la vostra ora non griderete e non urlerete. Chiedete a coloro che studiano la morte chi sono quelli che muoiono serenamente. Sono quelli che hanno tentato di conoscere la vita. La morte è una sfida. Ci dice di non sprecare il tempo. Ci 179

dice di crescere, ci dice di divenire! Ci suggerisce di dire ora gli uni agli altri che ci amiamo. Ci dice di donarci ora! C'è un bellissimo libro intitolato Il Gattopardo. Parla di un siciliano che viveva con passione! Era convinto che la cosa più bella al mondo fosse la donna. Era vissuto per tutta la vita ammirando la bellezza, soprattutto la bellezza femminile. Si dava da fare per tenere insieme la sua famiglia, ma non perdeva mai di vista la magia, la bellezza di tutte le donne. Per lui non esistevano donne brutte. Dunque, si ammala gravemente, mentre si trova nell'Italia settentrionale. Un italiano del Sud, un siciliano, non si sognerebbe mai di morire nell'Italia settentrionale. Dice: «Portatemi a casa. Portatemi a casa! Devo tornare a casa mia, a morire vicino alla mia famiglia». E allora caricano il vecchio su un treno, perché riattraversi l'Italia. Sono pagine bellissime, in cui è descritta la sua sofferenza. Sta tornando a casa perché sa che sta per morire. Quando arriva a Roma, sente tutto il chiasso e il trambusto della stazione. Apre la tenda del finestrino e guarda fuori. Vede la donna più incredibile, la più bella che abbia mai visto. Lei è tutta vestita di marrone, con un enorme cappello marrone e una grande piuma marrone, e lunghi guanti marrone. È la donna più elegante che lui abbia mai visto. La guarda e dice: «Madonna mia!». Anche se sta male. La donna si volta e gli sorride, e il treno esce dalla stazione. Lui non riesce a cancellarsi dalla mente la visione di quella donna. Nel capitolo successivo, il protagonista sta morendo, e ha intorno tutti i familiari. Piangono. Lui riceve l'estrema unzione, e all'improvviso la porta si apre ed entra la dama vestita di marrone. Con tutta l'eleganza del mondo, passa in mezzo ai familiari e si avvicina al letto. Gli porge la bella mano guantata. Lui la guarda e dice: «Sei tu». Non è meraviglioso? Non abbiamo nulla da temere dalla morte. È la sfida più grande. Se ricordate che non vivremo in eterno, forse vi volgerete subito verso la persona che vi siede accanto, senza aspettare, e direte: «Sei eccezionale. Grazie di 180

essere te». Forse prenderete il telefono e direte: «Ehi, mamma, sai, tante volte abbiamo litigato, ma ti amo». E poi riattaccherete. Quindi, vedete, vivere è un compito per tutta la vita. Ricordo di aver letto queste parole di Kierkegaard: «La vita può essere compresa soltanto retrospettivamente». A ritroso. È molto bello, ma voi dovete viverla andando avanti. Forse non riuscirete a comprenderla, ma non sono sicuro che comprenderla sia indispensabile. Indispensabile è viverla. Buttatevi sulle scatole, apritele tutte. Dite: «Sono tutte mie. È la mia prerogativa. È il mio diritto». È il dono che vi ha fatto Dio. Voglio concludere con un bellissimo brano che ho trovato in un libro di Joan Atwater, The Simple Life. È molto bello e molto breve, e in un certo senso riassume tutto. Dice: Le nostre vite sono oppresse da tanti pesi, e spesso vivere ci sembra una faccenda terribile e complicata. I problemi del m o n d o sono così incredibilmente complessi e v e d i a m o che n o n esistono soluzioni semplici. La complessità ci lascia sempre un senso di i m p o t e n z a . Eppure, per q u a n t o sia sorprendente, c o n t i n u i a m o a tirare avanti, giorno per giorno, sempre aspirando quasi inconsciamente a qualcosa di più semplice, di più significativo. Perciò diventa tremendamente importante il m o d o in cui vediamo le nostre vite e il vivere. Spetta a noi introdurre nel nostro m o d o di vedere le cose questa autenticità, questa semplicità, questa franchezza, questa chiarezza. Se vi interessa vivere pienamente la vita - [non è un'espressione

bellissima? Se vi interessa vivere pienamente la vita] - sta a voi imparare a conoscerla e a viverla.

Certo, possiamo parlarne insieme, e possiamo lavorare insieme, e possiamo imparare insieme, ma alla fine ognuno di noi deve definire la sua vita individuale. Perché è la vostra vita, esclusivamente vostra, e di nessun altro. E non ci sono altri modi. Scegliete la Vita!

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Insegnate la vita

Voglio raccontarvi una cosa interessante. Alcuni di voi sanno che in occasione della festa di san Valentino io divento una specie di eroe nazionale. È veramente una cosa meravigliosa essere associato all'amore, quindi non mi lamento. Ricevo telefonate da ogni parte del nostro Paese che mi chiedono di partecipare a trasmissioni televisive e di concedere interviste ai giornali. Vengono a intervistarmi i redattori delle riviste. Per un giorno all'anno divento un eroe. Ma mi rattrista che dobbiamo designare un giorno per ricordare a tutti di amarsi. È un po' come designare la Giornata della Mamma. Ogni giorno dovrebbe essere la Giornata della Mamma. Ogni giorno dovrebbe essere la Giornata della Sorella, la Giornata del Fratello, la Giornata della Nonna, la Giornata di Zio Louie. Le giornate ufficiali di questo o di quello sono utili se servono a ricordarcelo. Io mi diverto un mondo a osservare le reazioni della gente alla festa di san Valentino. Vicino a casa mia c'è un grande centro commerciale; e così ci sono andato a comprare biglietti per le mie segretarie e le mie amiche. Volevo scegliere qualcosa di veramente speciale, e perciò stavo impiegando parecchio tempo. Ma stavo anche osservando il comportamento umano. Ho visto un uomo arrivare a passo di carica a quel bellis183

simo banco tutto pieno di cuoricini rossi, di tante cose sorridenti e di cartelli con la scritta «Amore». Ha incominciato a cercare tra i cartoncini, come un matto. E continuava a dire «Accidenti!». Era venuto a comprare un cuore per sua moglie. Quando si è deciso ha detto: «Che scocciatura! Ma perché dobbiamo farlo?». E io ho detto: «Allora, perché lo fa?». E lui: «Come, perché lo faccio? Se non lo faccio, mia moglie mi ammazza». Dopo qualche minuto è entrata una ragazza molto giovane e mi ha sorriso. Io le ho detto: «Buona festa di san Valentino». E lei: «Sa perché sono qui? Non ci crederà, ma il mio principale mi ha mandata a comprare una "Valentina" per sua moglie». E ha soggiunto: «Diamine, le assicuro, se mio marito mandasse un'altra donna a comprare un biglietto per me, lo ucciderei». Ecco, ero in mezzo ai cuori e ai pegni d'amore e in cinque minuti avevo sentito parlare per due volte di intenzioni omicide! E all'improvviso ho capito perché me ne vado in giro a parlare di «scegliere l'amore» e di «scegliere la vita». Voi sapete che oltre a correre da una parte all'altra del nostro Paese e a fare tutte le cose pazzesche che faccio, io sono soprattutto un insegnante, e sono felice d'esserlo, e lo preferisco a qualunque altra cosa al mondo. Molto, molto tempo fa ho imparato che nessuno ha mai insegnato niente agli altri. Potrei essere l'uomo più sapiente e saggio del mondo e dirvi tutto ciò che so; ma se voi non volete impararlo non lo imparate e basta. Lo so, perché continuo a urlare e strillare con i miei studenti e so che loro hanno la capacità di assumere l'aria affascinata. Mi guardano come se dicessero: «Oh, come sei interessante!». Ma non succede niente. Quello che dico gli entra nelle orecchie, lo mettono sulla carta, ma io so che spesso stanno pensando: «Che vestito devo mettere questa sera?». Buttare là un'informazione è una cosa, ma imparare è una decisione che prendete voi. Io non posso farlo 184

per voi. Bandura, che alla Stanford University sta facendo tutte quelle ricerche meravigliose sull'apprendimento, ce lo ripete continuamente, noi impariamo dai modelli. Non impariamo una cosa perché ci viene detta. Impariamo guardando, osservando, prendendo una cosa, mettendola alla prova. È così che impariamo. È un processo di scoperta voluta. Mi dà fastidio che pretendiamo dai nostri allievi che imparino l'amore, imparino la responsabilità, imparino la gioia della vita, mentre non offriamo loro nessun modello. I mariti che sbraitano o mandano le segretarie a comprare le «Valentine» per le mogli: ecco i modelli che abbiamo sotto gli occhi. Tra le pubblicità televisive ce n'è una che mi dà veramente fastidio. È la pubblicità di un servizio che vi invita a ricordarvi dei genitori. Non dovete far altro che telefonare, e loro scelgono un dono e lo mandano ai vostri genitori, dovunque siano. Poi la pubblicità mostra quei due amabili vecchietti. Squilla il campanello, e loro corrono alla porta e ricevono il regalo che è stato scelto da chissà chi. Non è un regalo! È meglio che ve lo teniate! In un recente sondaggio, solo il venti per cento degli intervistati, in America, ha detto di essere felice e di godersi la vita. Il venti per cento! Una persona su sette ha bisogno di assistenza psicoterapeutica prima di arrivare ai quarant'anni. Un matrimonio su tre finisce con un divorzio. E dicono che prima dell'anno Duemila finirà così un matrimonio su due. Ho appena scoperto una statistica che mi ha veramente sconvolto. Ogni anno, negli Stati Uniti, vengono compilati sessanta milioni di ricette di Valium. Se noi costituiamo un modello di questo genere, che cosa possiamo aspettarci che apprendano quelli che vivono nel nostro ambiente, e soprattutto i bambini con i quali lavoriamo? La gente mi dice sempre: «Oh, Buscaglia, ma tu sei stato fortunato, sei cresciuto in quella famiglia!». Quando me lo dicono sorrido. «È vero. Sono stato fortunato.» Avevo un 185

padre incredibile, meraviglioso e una madre matta. Era sensazionale! Lei portava sempre gioia e musica e bellezza e comprensione nella nostra casa. Mio padre era molto serio. Io imparavo continuamente da loro. Non sapevo che mia madre fosse tanto straordinaria. Nessuno me lo diceva mai. Ma imparavo. Imparavo l'orgoglio. Eravamo poveri, poverissimi. Alcuni di voi potranno capirmi. Tutto il denaro del mondo non potrebbe comprare ciò che ho imparato. Ma non tutto era gioia e orgoglio e felicità. Ero un ragazzino magrissimo, e il mio incubo era l'educazione fisica. Ero così mal coordinato che non ho mai imparato a lanciare una palla. Avevo le gambe che sembravano due stecchi e le braccia lunghe e magrissime. Gli occhi grandi... ero tutto lì. E andavo alle lezioni d'educazione fìsica con un paio di calzoncini di tre misure troppo grandi, perché mia madre era previdente... «Tanto crescerai, quindi prendiamoli grandi.» Stavo lì con quei calzoni enormi che mi arrivavano oltre le ginocchia. Due occhi spersi in una divisa da ginnastica. Stavo lì, in fila con tutti gli altri, e in cima alla fila c'era un tipo grande e grosso e molto maschio. Doveva essere il capitano della squadra. E un altro tipo grande e grosso e molto maschio che doveva essere il capitano dell'altra squadra. Quelli incominciavano a scegliere. Ricordate? «Scelgo te» diceva il tipo grande e grosso. E la fila si accorciava. E allora incominciavate a pregare: «Buon Dio, fai che qualcuno scelga me. Non lasciarmi per ultimo». Ogni volta, ultimo. Ricordo che eravamo io e un ragazzo ebreo, grasso, straordinario, incredibile. Il «dago» e l'ebreo. Sempre gli ultimi due. Gli altri lanciavano e battevano la palla, e io arrivavo lì con la mazza, e pregavo: «Dio, per una volta, fai che io tiri fuori dal campo». Mai. Dio aveva cose più importanti a cui pensare. Che cosa imparavo da quei modelli? Imparavo che ero un incapace, che non sapevo fare quel che facevano gli altri. 186

Avevo quasi diciassette anni quando qualcuno finalmente mi disse: «Tu puoi lanciare la palla. Cos'hai che non va? È facile. Aspetta, ti faccio vedere». E allora mi chiesi perché non me l'avessero insegnato prima. Tanti anni di angoscia e di disperazione, passati a detestare il mio corpo. Avevo un bel corpo. Era soltanto magrissimo. Adesso ho un bel corpo. È soltanto grasso. Gli voglio bene. Ogni giorno ci viene insegnato qualcosa, senza che ce ne accorgiamo. Io lavoro sempre con i bambini. Sapete che è la mia vita. E mi sento dire di continuo: «Non so farlo. Sono stupido». E io chiedo: «Chi ti ha detto che sei stupido?». «Il mio insegnante.» «Mio padre.» Ooohh. Come mi piacerebbe incontrarli. Vorrei presentarli alla mia insegnante preferita. Scrivo spesso di lei. Se la trovate da qualche parte, ditemelo. Andrei in volo anche in Nepal per riabbracciarla. La meravigliosa signorina Hunt. Per lei, nessuno era mai stupido. Ognuno aveva un'unicità tutta sua, e lei lo sapeva. Pesava centotrenta chili! Tutta unica. Tutta amore e premura. Oh, quando la signorina Hunt ti abbracciava e tu le sparivi dentro... Avresti imparato qualunque cosa, per lei. Sempre! Che modello! Ogni giorno facciamo da modelli ai nostri figli. La domanda che continuo a ripetere è: Che modelli siamo? Come possiamo pretendere che i bambini diventino capaci di amare quando non vedono molti che sappiano amare? Come possiamo pretendere che siano responsabili e pieni di premure, quando non vedono nessun modello di premura e di responsabilità? Ciò che vedono e imparano è ciò che metteranno in pratica. Perciò vorrei parlarvi di qualcuna delle cose di cui forse dovremmo essere modelli. Per riuscirci, dobbiamo dire: «Io voglio essere il modello migliore. Voglio essere il modello della vita». Rimango sbalordito quando vedo statistiche come quella secondo la quale soltanto il venti per cento della popolazione americana sceglierebbe la vita. Tanti mi dicono e mi ripeto187

no: «Non ho chiesto io di nascere». Che peccato, quando ci sono tante cose al mondo! Io non riesco mai a dar nulla per scontato. Diventerei pazzo. Io amo così intensamente perché ci sono tante cose da conoscere e da vedere e fare e assaporare e masticare... soprattutto da masticare! Vi mostrerò quanto sono ingenuo. Ci avete mai pensato? Non vi sorprende che le carote sappiano di carote e i ravanelli sappiano di ravanelli? E che se li mischiamo e facciamo una specie di gulash, otteniamo un terzo sapore? Queste sono cose che mi sbalordiscono. Recentemente sono stato ad Albany, e sono passato dai ventisei gradi ai quindici sotto zero. E tutti continuavano a dirmi: «Oh, poverino». E io: «Ma cosa state dicendo? Guardate, nevica e c'è il ghiaccio per terra, e non mi capita spesso di vederlo. Voglio festeggiare il freddo». E allora si sono convinti: Buscaglia è matto. Una delle prime cose che dobbiamo insegnare ai bambini - e non possiamo insegnarla se non ci crediamo - è che ognuno di noi è una cosa «sacra». Mi sento sempre intimorito quando guardo il pubblico o incontro qualcuno... quella miniera d'oro che siete voi. Il semplice fatto che vi guardo e vedo tutte queste facce incredibili, questi occhi scintillanti e i capelli rossi e biondi e bruni e le teste calve. Incute soggezione dire che tra voi non esistono due individui identici. Dobbiamo dirlo ai bambini prima che perdano la loro individualità. Perché proteggiamo i bambini dalla vita? Non è sorprendente che poi abbiamo paura di vivere. Nessuno ci ha detto cos'è veramente la vita. Nessuno ci ha detto che la vita è gioia e meraviglia e magia e persino rapimento, se vi lasciate coinvolgere abbastanza. Nessuno ci ha detto che la vita è anche dolore, infelicità, disperazione, miseria e lacrime. Non so cosa ne pensiate voi, ma io non voglio perdermi niente di tutto questo. Io voglio abbracciare la vita e voglio scoprire che cos'è. Non voglio attraversare la vita senza sapere cosa 188

sia piangere. È per questo che ho i dotti lacrimali. Se non fossi stato destinato a piangere, non li avrei. È giusto piangere un po'. Ho scoperto che le lacrime mi schiariscono la vista. Amo moltissimo l'opera di Martin Buber, e soprattutto il suo concetto di «io» e «tu». Dice che ognuno di noi è un Tu, e quando interagiamo l'uno con l'altro, dobbiamo interagire come se fossimo cose sacre, perché siamo veramente speciali. Perciò, quando interagisco con voi, voi siete un Tu. Martin Buber dice che molto spesso interagiamo l'uno con l'altro sulla base di Io e Ciò. Qualche volta vi arrabbiate perché venite trattati come un «ciò», una cosa. Io non esito a gridare, a urlare: «Non sono una cosa! Io sono me. Io sono Felice Leonardo Buscaglia. Come me ci sono soltanto io! Non guardatemi come se fossi trasparente. Io ho la mia dignità». Finché basiamo i nostri rapporti con la gente sul concetto di «Io» e «Tu», dice Buber, abbiamo un dialogo. Quando basiamo questi rapporti sul concetto di «Io» e «ciò», diventa un monologo. Io non voglio parlare a me stesso. Voglio parlare con voi. E voglio che voi parliate con me. Noi abbiamo una dignità. E i bambini devono impararlo, e devono impararlo presto. Devono imparare, inoltre, che non troveranno se stessi guardando fuori da se stessi. Devono guardare dentro. Non è un viaggio facile, la ricerca della vostra unicità da condividere con gli altri, perché per tutta la vita vi sentite dire dagli altri chi siete. Avete mai pensato che voi non siete veramente voi? Molti di voi sono ciò che altri dicono che siete. E forse qualcuno tra voi è stato abbastanza saggio da capire che gli altri erano animati da buone intenzioni, ma che ciò che dicono di voi può non corrispondere a ciò che siete veramente. Vi sentite a disagio nel ruolo che vi hanno affibbiato. E allora dateci un taglio. Dite: «Scoprirò chi sono io»; e se lo fate, sarà la sfida più grande. Non avrete molta pace, ma è matematicamente certo che non vi annoierete mai. La sco189

perta di se stessi è come tutte le altre scoperte. Non è mai facile, e non potete contare sulle intuizioni degli altri. Mi piace molto l'aneddoto sufico del Mullah che stava carponi per la via e cercava per terra. Arriva un amico e gli domanda: «Mullah, che cosa stai facendo?». E lui: «Sto cercando la chiave di casa. L'ho persa». L'amico dice: «Oh, mostrami dove l'hai persa, e mi metterò carponi anch'io e ti aiuterò a cercarla». E il Mullah: «Oh, l'ho persa in casa». L'amico domanda: «E allora perché diavolo la stai cercando qui?». Il Mullah risponde: «Oh, qui c'è più luce». Molti di noi cercano se stessi qui, alla luce. Non troverete quello che cercate. Dovete mettervi carponi dentro, dove qualche volta c'è un buio spaventoso, e scoprire cose meravigliose su voi stessi. Siete assai più in potenza di quanto siate in atto. E può continuare così in eterno. In punto di morte, Einstein lamentò che si fosse realizzato tanto poco di lui. Questo vale per noi tutti. Non è necessario che siamo Einstein. Ma sapere che siete illimitati è la vostra sfida più grande. Scoprite tutta la meraviglia che siete voi, e sviluppatela, e siatene orgogliosi e continuate a cercare. E non abbiate timore di fallire. Andrà bene anche così. Non siete obbligati a essere perfetti. Prima che entrassi qui, qualcuno mi ha avvertito premurosamente: «Stia attento, là c'è un cavo. E ci sono due gradini, dove potrebbe inciampare». E io ho detto: «Non sarebbe divertente, se mi presentassi a quelle migliaia di persone in tutta la mia gloria e poi cadessi? Così, se tra il pubblico c'è qualcuno che mi considerava come qualcosa di speciale, scoprirebbe che non lo sono». Sono ben felice di essere semplicemente un essere umano, e di imparare. Poi penso che dobbiamo insegnare ai bambini l'importanza degli altri, e che il loro mondo non può crescere e progre190

dire senza accettarne altri. Più sono numerosi i mondi che accettano - tutti mondi unici - e più possono diventare... qualcosa di più. Dobbiamo insegnare loro a fidarsi, perché tutti noi abbiamo una paura tremenda l'uno dell'altro. Costruiamo muri sempre più alti, serrature sempre più robuste. Abbattete i muri! Ogni giorno si può vedere quanto siamo diffidenti e questo mi addolora. Dobbiamo imparare di nuovo a fidarci, a credere. Naturalmente è un rischio, ma tutto è un rischio. Dobbiamo incominciare ad andare al di là del semplice fatto di «essere». Dobbiamo entrare in contatto con il fatto di essere umani, e questo è molto diverso. C'è un meraviglioso apologo buddista che parla di una formica in un barile d'acqua e dei diversi atteggiamenti nei confronti di questa formica. Dunque, arriva il primo, guarda nel barile, e vede una formica. Le dice: «Cosa ci fai nel mio barile d'acqua piovana?». E la schiaccia. Egoismo. Poi arriva il secondo, guarda, vede la formica e dice: «Sai, è molto caldo, anche per le formiche. Tu non fai nessun danno. Resta pure nel mio barile». Tolleranza. Arriva il terzo, e non pensa a comportarsi con tolleranza né ad andare in collera. Vede la formica nel barile e spontaneamente le dà un po' di zucchero. Questo è amore. Quando arrivate al punto di non doverlo più analizzare, ce l'avete fatta. La reazione spontanea. C'è qualcuno sulla strada e ha bisogno di me. Mi fermo. Qualcuno ha fretta e lo lascio passare. Qualcuno piange e io dico: «Posso essere d'aiuto?». Qualcuno mi ha chiesto in un'intervista: «Ma... e quando si rivolge a qualcuno e gli dice qualcosa e quello le risponde di badare agli affari suoi?». Succede spesso. Ecco, non si ama per essere amati in cambio. Si ama per amare. Lo fate perché è naturale allungare la mano e dare un po' di zucchero alla formica. Che cos'avete perduto? Ci sono tanti che hanno il potenziale ma hanno paura di rivelarvi che cosa sono. E così va perduta tanta bellezza perché abbiamo paura. Penso anche che sia importante parlare ai bambini della 191

continuità della vita. Noi viviamo in una società stratificata. I bambini piccoli vengono tenuti insieme. Gli adolescenti vengono tenuti insieme. I giovani sposi stanno insieme. E se restate scapoli o nubili, perdete gli amici migliori. I vecchi, santo cielo, vengono tenuti insieme. E dove può imparare, un bambino, che la vita è un viaggio? Che è continuità? Da bambino io sono stato fortunato, perché casa mia era sempre piena di gente... nonne e nonni, e bambini appena nati, e donne incinte, e sposini novelli. Potrei raccontarvene, di episodi! Tutti nella stessa casa! E imparavamo presto che la vita è un processo continuo e non è stratificata. Vedevamo i vecchi e sapevamo che un giorno saremmo invecchiati anche noi. Vedevamo qualcuno morire e cominciavamo ad apprezzare la vita. Molti di noi hanno orrore della morte. Non sappiamo vivere o morire con dignità. Se siete vissuti con dignità, morirete con dignità. Non avete motivo di preoccuparvi. Una delle lettere più interessanti che ho ricevuto da un anno a questa parte è stata quella di una donna alla quale restavano solo tre o quattro mesi di vita. Diceva «io» e «me» ogni due parole. Ma sentivo che era una persona sensibile e straordinaria. Non sapeva, semplicemente, come affrontare la morte. Decisi di tentare e le risposi: «Ecco, invece di strarsene lì ad aspettare la morte, approfitti di questi pochi giorni o di questi pochi mesi che ancora le restano, e vivai Vedrà che cosa accadrà se farà qualcosa. Vada all'ospedale pediatrico. C'è un reparto per bambini che stanno morendo anche loro. Vada a trovare quei bambini». Grazie al cielo, ci andò. La meraviglia più grande è che i bambini le insegnarono a morire. Appena entrò, alcuni bambini le andarono incontro e le chiesero: «Stai per morire anche tu?». Nessun adulto aveva mai avuto il coraggio di dirle una cosa simile. Non solo lei stava morendo, ma stava morendo di solitudine. Rispose: «Sì». Un bambino le chiese: 192

«Hai paura?». E lei: «Si». «Perché hai paura? Andrai a vedere Dio.» Non è interessante? Molti di noi dicono che quando moriremo andremo a vedere Dio; eppure urliamo e gridiamo d'orrore quando viene la morte. È una dinamica molto interessante che varrebbe la pena studiare. Una bambina le chiese: «Porterai la tua bambola?». La donna è ancora viva e sta ancora lavorando, e non credo che sarà troppo preoccupata quando la morte verrà. C'è ancora qualcosa da fare. C'è ancora tempo. L'età non ha nulla a che vedere con la senilità. A rendervi senili è la convinzione di non avere più scelte. Finché avete vita, potete vivere, sino al momento della morte. I bambini, questo, devono saperlo. Devono vederlo. Non li facciamo assistere ai funerali. Non permettiamo che vedano i cadaveri. Non rispondiamo quando chiedono: «Dov'è andato il mio cane?». «Dov'è andata la nonna?» «È partita.» I bambini imparano ciò che insegnate loro. Assimilano la mentalità dei genitori. Se i loro genitori hanno paura, hanno paura anche loro. Poi c'è un'altra cosa essenziale; i bambini devono imparare che hanno possibilità di scegliere. Crederanno di poter scegliere soltanto se offrite loro alternative. I suicidi, ad esempio, sono coloro che vedono l'aspetto più limitato della vita, che non hanno scelta. Ogni anno all'università, durante gli esami finali, c'è qualcuno che tenta il suicidio. Sono sempre ragazze e giovani straordinari che si tagliano le vene perché hanno paura di fallire. È possibile avere un concetto così infimo di se stessi da essere disposti a rinunciare alla vita per un esame? Io dico sempre ai miei studenti: santo cielo, che altro potete fare? Certo, il suicidio è un'alternativa... ma che altro potreste fare? Su, un po' di fantasia! La gente ripete sempre che una delle ragioni per cui amiamo accumulare ricchezze è che queste ci offrono maggiori alternative. È demenziale! La percentuale più alta dei suicidi si riscontra tra i ricchi. Se non avete le alternative ora, potete 193

avere tutto il denaro del mondo e non avere alternative in nessun caso. Ricordo che, quando ero piccolo, ogni settimana facevamo una cosa grandiosa, e l'attendevamo sempre con ansia. Salivamo tutti a bordo di una vecchia Chevrolet. Riuscite a immaginare una famiglia tanto numerosa stipata in una Chevrolet? Il tettuccio era carico di roba d'ogni genere perché mia madre amava le comodità. Andavamo a Long Beach. Ci mettevamo quasi due ore per arrivarci. Cantavamo per tutto il tragitto. Cantavamo le opere. Mia madre era cantante. Ci insegnava. E cosi una volta cantavamo la Bohème, e la volta successiva cantavamo la Traviata. Una famiglia tutta matta, con un ombrellone, varie sedie e scatoloni. Mia madre non ammetteva i sandwich. Cucinavamo gli spaghetti sulla spiaggia. La gente ci guardava sbalordita. Arrivavamo sulla spiaggia. Mia madre controllava il vento. «Mettete l'ombrellone qui, e la sedia qui, al riparo dal vento e verso il sole.» Preparavamo tutto e poi ci tuffavamo nell'oceano, e ci asciugavamo e ci cambiavamo. Oh, ricordo quei tempi meravigliosi. Eravamo poveri. Non avevamo niente. E quelli intorno a noi, che avevano tanto, ci guardavano e si chiedevano meravigliati: «Chi sono questi matti?». Ma noi avevamo alternative alla povertà. Avevamo scelte, o così credevamo nella nostra ingenuità. Del resto che importanza ha se siete ingenui o stupidi, purché siate vivi e viviate? Io non credo che fossimo stupidi. Eravamo vivi ed era divertente. Ricordo che volevamo portare papà alle Hawaii, prima che morisse. Sapevamo che sarebbe morto. E scoprimmo che c'era una combinazione in aereo veramente conveniente. La chiamavano «classe senza fronzoli». Una di quelle classi dove non vi guardano neppure, figurarsi se pensano a darvi da mangiare. Vi ammucchiano in coda all'aereo. A noi non importava. Andava bene così. Attraversammo la prima classe e andammo in coda. Potevamo comprare il cestino del pranzo. Ricordatelo! Non siate tanto sofisticati. Non avete 194

sempre avuto tutto ciò che avete adesso. Mio padre disse: «E allora? Ci prepareremo la cena!». Lo ricorderò sempre perché fu sensazionale. Eravamo lì seduti, io e mia sorella e mia nipote e tutti gli altri - occupavamo una fila intera - e mio padre. Lui aprì il cestino. Aveva preparato un pollo con aglio e rosmarino. Quelli della prima classe avevano l'acquolina in bocca a ottanta file di distanza! Ricordo che l'hostess continuava a tornare da noi e a chiedere: «Cosa avete lì?». Mio padre aveva funghi trifolati all'aglio. Oh, fu una cena speciale. Su quel volo nessun altro mangiò bene come noi. E dividemmo con tutti. Qualcuno si voltava a guardarci. Noi dicevamo: «Prenda un pezzetto di pollo». Le scelte le avete. Potete scegliere la gioia anziché la disperazione. Potete scegliere la felicità anziché le lacrime. Potete scegliere l'azione anziché l'apatia. Potete scegliere il progresso anziché la stagnazione. Potete scegliere voi. E potete scegliere la vita. Ed è tempo che qualcuno vi dica che non siete in balìa di forze più grandi di voi. Voi, davvero, siete la forza più grande per voi. Ecco, non potete farlo per me, ma potete farlo per voi. La gente mi dice: «Oh, Buscaglia, come sei ingenuo! Dici che ognuno di noi può scegliere la gioia». Provate. La prossima volta in cui vi trovate in una situazione in cui vi sorprendete a urlare con qualcuno, provate a sorridere. È stupefacente. Qualcuno di voi mi avrà sentito raccontare di quell'uomo all'aeroporto, che gridava a tutti di dover partire anche se c'era una tempesta di neve ed era impossibile. Poi c'era anche una donna che raccolse intorno a sé tutti i bambini, lasciando alle madri bloccate la possibilità di andare a prendere qualcosa da mangiare. Questo è il genere di scelta che potete fare voi. E io chiesi all'uomo: «Perché grida tanto? Questo si ripercuote su di lei e le fa venire l'ulcera. Perché non pensa a rendere felici gli altri?». Un uomo che conobbi più tardi mi disse che non ci aveva mai pensato, per quanto possa sembrare sorprendente. Dopo che glielo raccontai, gli accadde di andare a Chicago, scendendo nello stesso aero195

porto dove avevo vissuto la mia esperienza. È un posto meraviglioso, per vivere esperienze. Ve ne capiteranno, se passate da Chicago abbastanza spesso. Arrivò in mezzo a una tempesta di neve e gli dissero che non c'era possibilità di ripartire dall'aeroporto, quella notte: bisognava tornare in città con l'autobus. Vicino a lui c'erano due donne sulle sedie a rotelle. Non si conoscevano. Una da una parte e una dall'altra. Lui disse: «Ho pensato a Buscaglia e mi è sembrato che mi dicesse: "Su, non startene lì seduto, fai qualcosa!"». Mi raccontò che andò dalle due donne e chiese a ognuna di loro: «Va anche lei dove vado io?». «Sì» dissero loro. E lui: «E i vostri bagagli?». E loro: «Ecco, non possiamo lasciare le sedie a rotelle e non c'è nessun facchino per...». L'uomo disse: «Ci penso io». Andò a prendere i bagagli e li caricò sull'autobus e le aiutò a salire. Mi disse: «Non avevo mai vissuto un momento così meraviglioso! È stata un'esperienza gioiosa, bellissima». Una scelta! Parliamo del rischio, perché il rischio è così bello. Ma il cambiamento e il progresso vengono solo quando siete disposti a rischiare, a fare esperimenti con la vostra vita. Non siete mai sicuri di nulla. Tutto è un rischio. Ricordo quando, molti anni fa, vendetti tutto quello che avevo... contrariamente al consiglio di tutti. Volevo girare il mondo. Volevo sentire il tintinnio cristallino d'una campana in un tempio del Nepal. Volevo mettermi seduto in una risaia della Thailandia e parlare con la gente, o almeno abbracciarla. E così vendetti la mia polizza d'assicurazione, la casa, la macchina, tutto ciò che avevo. E partii. La gente diceva: «Oh, santo cielo. Hai rinunciato a un lavoro sicuro. Non ne troverai mai un altro. Quando tornerai morirai di fame». Tornai in patria con dieci cents in tasca. Non morii di fame, imparai. Imparai molte cose importanti. Imparai tante cose sulle diverse mentalità. A Bangkok dicono mah-pen-lai. Sentivo la gente dire 196

«mah-pen-lai», dappertutto. Mi chiedevo: «Cosa vorrà mai dire mah-pen-lai?». Quando feci conoscenza con alcuni tailandesi, domandai: «C'è una frase che sento ripetere continuamente al mercato, all'aeroporto, nei musei, sui canali, sui fiumi: mah-pen-lai... che cosa significa?». Loro sorrisero e dissero: «Significa "va bene così, non importa"». All'improvviso capii. Santo cielo! Non mi sorprende che la chiamino la terra dei sorrisi, se tanta gente è capace di dire: «Va bene così, non importa». E poi pensai alla nostra cultura, dove tutto importa. «Come sarebbe a dire, non importa?! Se credi che non importi, sei frivolo!» E invece non importa. Il mondo andrà avanti anche senza di voi. Nel novanta per cento dei casi, quello che ci preoccupa non succede. E noi ci preoccupiamo e ci preoccupiamo e ci preoccupiamo. E poi ci preoccupiamo della nostra preoccupazione! Ogni volta che parlo, rischio. Vado sempre incontro alla gente a braccia aperte, dicendo: «Mi conoscete». Non dico: «Come va?». Santo cielo, io sono uno di quei pazzi che si arrischiano ad abbracciare il preside. Nessuno abbraccia il preside! Il preside sta seduto dietro una scrivania lunghissima e larghissima. E voi state seduti dall'altra parte e dite: «Sì, preside, sì, preside, sì, preside». Con un preside si fa così. Non lo si abbraccia. Bene, un giorno io stavo lì seduto, e lui diceva tante cose gentili. E pensai: «Che caro. Scommetto che gli piacerebbe se l'abbracciassi». Mi alzai e dissi: «Preside, è magnifico!». E mi lanciai alla carica verso di lui, che stava seduto sulla poltroncina girevole. E lui: «Aaagh!». E gli buttai le braccia al collo e l'abbracciai... con grande orrore dei miei colleghi. «Mio Dio, Leo è più matto di quanto pensassimo!» Io sono sempre coerente, e da allora ogni volta che vedo il preside dico: «Salve, preside», e l'abbraccio. E so che gli ha fatto piacere, perché più tardi lui ha cominciato a far le coccole un po' a tutti! Nessuno è troppo grande per un abbraccio. Tutti vogliono un abbraccio. Tutti hanno bisogno di un abbraccio. Cambia il vostro metabolismo. Rischiate! 197

Voglio leggervi qualcosa. «A ridere c'è il rischio di apparire sciocchi.» Bene, e con questo? Gli sciocchi si divertono un mondo. «A piangere c'è il rischio d'essere chiamati sentimentali.» Naturalmente io sono sentimentale. Mi piace! Le lacrime possono essere d'aiuto. «A stabilire il contatto con un altro c'è il rischio di farsi coinvolgere.» Chi rischia di farsi coinvolgere? Io voglio essere coinvolto. «A mostrare i vostri sentimenti c'è il rischio di mostrare il vostro vero io.» Che altro ho da mostrare? «A esporre le vostre idee e i vostri sogni davanti alla folla c'è il rischio d'essere chiamati ingenui.» Oh, mi hanno chiamato con epiteti ben peggiori. «Ad amare c'è il rischio di non essere corrisposti.» Io non amo per essere corrisposto. «A vivere c'è il rischio di morire.» Sono pronto. Non azzardatevi a versare una lacrima se sentite dire che Buscaglia è saltato in aria o è crepato. L'ha fatto con entusiasmo. «A sperare c'è il rischio della disperazione e a tentare c'è il rischio del fallimento.» Ma bisogna correre i rischi, perché il rischio più grande nella vita è non rischiare nulla. La persona che non rischia nulla non fa nulla, non ha nulla, non è nulla e non diviene nulla. Può evitare la sofferenza e l'angoscia, ma non può imparare e sentire e cambiare e progredire e amare e vivere. Incatenata dalle sue certezze, è schiava. Ha rinunciato alla libertà. Solo la persona che rischia è veramente libera. Provate e vedrete che cosa succede.

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A proposito dell'amore

Abbiamo a disposizione soltanto un'ora, quindi incominciamo. Non è incredibile che questa conferenza venga trasmessa via satellite? Voi e io, insieme. E innanzitutto, prima di andare via satellite, ora che avete visto la mia giacca nuova, me la toglierò. Qualche tempo fa, uno dei miei vicini mi parlò di una chiesetta non lontana da casa mia, dove avvenivano cose bellissime, spirituali, e voleva che andassi a fare questa esperienza. Così dissi che mi sarebbe piaciuto, e ci andammo. Appena aprimmo la porta della chiesa, tutti mi vennero intorno. Mi presero la mano e mi strinsero e mi accarezzarono i capelli. Alla porta! E poi ci fecero entrare. C'erano canti e movimento e danze... una vera festa. Ma il punto culminante venne quando il ministro si alzò e disse: «Amici, oggi sarà fratello Jonathan a fare il sermone, e il suo tema è la fede». Si alzò il piccolo fratello Jonathan. Era alto poco più di un metro e sessanta. Rimase lì davanti a tutti per un minuto, giunse le mani e disse: «Fede, fede, fede, fede, fede, fede». Poi sedette! Il ministro si alzò con un grande sorriso e disse: «Grazie, fratello Jonathan, per il tuo bellissimo sermone sulla fede». Io pensai: Un giorno o l'altro mi farò furbo e 1

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Questa conferenza fu trasmessa via satellite alle stazioni della PBS.

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quando andrò a parlare alla gente dell'amore, come sto facendo questa sera, giungerò le mani e dirò: «Amore, amore, AMORE, AMORE, AMORE, amore, amore» e poi me ne andrò a casal Sarebbe la serata più bella. Ma non sono ancora abbastanza sicuro di me, e quindi impiegherò un'ora per dire ciò che quell'uomo disse in un minuto. Sono sinceramente preoccupato per il fatto che tutti noi abbiamo bisogno d'amore, e se ne vede in giro così poco. Ho fatto un corso di terapia attraverso il gioco. Era per i bambini piccoli; noi, da adulti, possiamo usare il linguaggio per la terapia, e parlando possiamo ritrovare la strada della salute. Ma con i bambini il sistema migliore è giocare. Portate i bambini in una stanza e date loro tutti i piccoli oggetti che possono usare, e dite: «Vediamo, parliamo, stiamo insieme, partecipiamo». E agite. A me assegnarono una bambina emotivamente turbata. Era la prima volta che lavoravo con una bambina così piccola. Aveva cinque anni. Faceva tutte le cose più incredibili. Grazie al cielo, stiamo scoprendo che persino i neonati capiscono quello che succede. Adesso parliamo di cose come la «stimolazione dell'infante». Le buone mamme questo lo sapevano anni fa, quando tenevano in braccio i bambini e li amavano e li cullavano e li facevano saltare invece di lasciarli lì per la paura di viziarli. Comunque, Lelani (era il nome della bambina) stava facendo una quantità di cose e per diversi giorni fece un gioco che mi turbò parecchio. Prendeva i pezzi di creta e faceva tanti piccoli pupazzi. Quando li aveva fatti li sbatteva per terra: PUM! E diceva: «Mamma!». E poi ne faceva un altro e poi PUM! E diceva: «Papà!». E via, avanti, con tutta la famiglia, a sbatterli via. Poi voleva che lo facessi io! Io ero un terapista infantile inconsueto... davvero inconsueto, sapete, perché avrei dovuto starmene lì a riflettere: «Oh! Lelani ha schiacciato sua madre», ma non ci riuscivo e mi sentivo così coinvolto, che chiesi: «Lelani, perché schiacci tutti quelli che ami?». Lei mi guardò indignata, come per dirmi «che stupi200

do», e mi rispose: «Perché sono quelli che mi fanno sempre male». Cinque anni! E poi, sempre perché sono un terapista anomalo, le dissi: «Ma io ti voglio bene e non ti faccio male». E lei: «Perché sei matto». Cinque anni, e aveva già imparato che l'amore può fare soffrire. Cinque anni, e aveva già imparato che, se ami incondizionatamente, devi essere matto. Da allora ho partecipato a moltissime trasmissioni per adulti, e neppure adesso siamo arrivati molto lontano. Squilla il telefono e io dico: «Pronto». E il mio interlocutore dice: «Ehi, Buscaglia, dov'è quella cosa che si chiama amore? Io vivo in un piccolo appartamento in Melrose e sono solo. Non ho il coraggio o le conoscenze per trovarlo. Dov'è?». Per questo non mi dispiace andare in qualche posto e dire: «Parliamo dell'amore». Non mi dispiace affatto. E se pensate che io sia matto, questo mi dà una grande libertà di comportamento. Noi accettiamo e perdoniamo i pazzi. Ma io voglio parlarvi di alcune statistiche tutt'altro che pazze sull'amore, statistiche che mi preoccupano, e spero che preoccupino anche voi. Sapevate che ogni anno, negli Stati Uniti, ci sono ventiseimila suicidi? Soprattutto a uno come me, che pensa sempre allo spreco di potenziale umano, viene la voglia di urlare: «Ehi, aspettate un momento! Non sapete che ci sono altre alternative?». Molti di quei suicidi hanno superato i sessantacinque anni. Forse questo può aiutarci un po' a capire il modo in cui trattiamo i vecchi; il fatto che siamo una società abituata a detestare tutto ciò che è vecchio. Non vogliamo averlo intorno. Lo abbattiamo. Lo mandiamo via per non doverlo vedere, anziché accoglierlo e renderci conto che, anche se è vecchio, può essere bello. Uno di questi giorni, anche noi ci troveremo in quella situazione, e se non facciamo qualcosa subito, verremo accantonati da qualche parte. Mi sconvolge anche il fatto che, sebbene la percentuale più elevata dei suicidi sia quella degli ultrasessantacinquenni, 201

l'incremento più netto è quello che si osserva tra gli adolescenti. Ragazzi di tredici, quattordici, quindici anni, che ancora non sanno cos'è la vita, ragazzi ai quali nessuno ha mai detto come può essere meravigliosa e magica e spirituale ed esaltante. E loro mettono fine a tutto. Per loro è finita. Non esiste una seconda occasione! Sapete che negli Stati Uniti una persona su sette ha bisogno di qualche forma di psicoterapia prima di arrivare ai quarant'anni? Uno, due, tre, quattro, cinque, sei, sette... tu! Uno, due, tre, quattro, cinque, sei, sette... tu! Non deve essere così! Non è necessario! Avete in voi stessi tutte le risorse per guarire. Tanto vale che incominciate subito. Non lasciatevi sfuggire l'amore. È un dono incredibile. Mi piace pensare che, il giorno in cui siete nati, avete ricevuto in dono il mondo. Mi fa paura vedere che siano così pochi quelli che si prendono il disturbo di sciogliere il nastro! Apritelo! Strappate vìa il coperchio! È pieno d'amore e di magia e di vita e di gioia e di meraviglie e di dolore e di lacrime. Tutte quelle cose che vi sono state donate perché siete esseri umani. Dentro non ci sono soltanto le cose che danno la felicità - «Io voglio essere sempre felice» -, no, c'è anche tanta sofferenza, tante lacrime. Tanta magia, tanta meraviglia, tanta confusione. Ma il significato è questo. La vita è questo. Ed è tutto così esaltante! Tuffatevi in quella scatola e non vi annoierete mai. Io incontro gente che ripete di continuo: «Io sono ricco d'amore. Sono ricco d'amore. Credo sinceramente nell'amore. E mi comporto di conseguenza». Poi urlano alla cameriera: «Dov'è l'acqua?!». Crederò al vostro amore quando me lo mostrerete in azione. E quando chiedete a voi stessi: «Sono il miglior insegnante?» e potete rispondere «Sì»... magnifico, state attenti... ascoltate quante volte al giorno dite «io amo» anziché «io odio». Non è interessante che i bambini, quando imparano a parlare, imparino la parola «no» molto prima di quanto imparino la parola «sì»? Domandate ai linguisti dove 202

la sentono. Forse, se sentissero più spesso «io amo, io amo, io amo», lo direbbero prima e più spesso. M'interesso dell'amore da tanto tempo che ho consultato centinaia di testi di psicologia e di sociologia, per scoprire cosa ne pensavano i professionisti, coloro che dovevano occuparsene. E sapete? Era una parola che non figurava neppure negli indici analitici. Quando scrissi il libro, Love, Amore, fu veramente buffo perché il mio editore disse: «Oh, Leo, dovrai cambiare il titolo, perché sono sicuro che l'ha già usato qualcun altro». E io ribattei: «Perché non lo depositi e stai a vedere che cosa succede?». E così depositammo il titolo, e ottenemmo il «copyright» per Amore! Ci sono libri intitolati Amore e odio, Amore e desiderio, Amore e paura, Gioia e potere dell'amore, ma nessuno aveva mai pensato a un libro intitolato semplicemente A more. A-M-O-R-E. Una parola così bella. Una parola così sconfinata. Un concetto senza limiti. Chi è la persona ricca d'amore? La persona ricca d'amore è quella che ama se stessa. Lo dico molto spesso, e gli altri dicono: «Oh, sì, hai proprio ragione», ma non lo fanno! Non saprete mai amare qualcun altro fino a che non amerete voi stessi. Wiesel, il meraviglioso scrittore ebreo, scrisse una cosa bellissima in un libro, Anime in fiamme. Quando moriremo e andremo in cielo, e incontreremo il nostro Creatore, il Creatore non ci chiederà: perché non sei diventato un messia? perché non hai scoperto il rimedio per questo e per quello? L'unica cosa che ci chiederà, in quel momento decisivo, sarà: perché non sei diventato te?

Questa è la vostra responsabilità principale; altrimenti perché ognuno di voi sarebbe così incredibilmente unico? Ognuno è diverso. Ognuno ha da dare qualcosa che non ha nessun altro al mondo. Non vi basta per sentirvi entusiasti di voi stessi? E per dire a voi stessi: «Santo cielo, devo scoprire che cos'è?». Io lo dico ai miei studenti e loro ribattono: «Io? Io non ho niente di utile». Bene, se ascoltate gli altri, forse vi convin203

ceranno che è vero. Io non capisco perché gli altri ci buttino sempre giù, anziché incoraggiarci. Quando divenite, mi date un mondo che altrimenti non potrei avere. Probabilmente io figuro nel Guinness dei primati per gli abbracci. Sapete che non esistono due persone che abbracciano allo stesso modo? C'è l'abbracciatore delicato che vi aleggia tra le braccia. C'è l'abbracciatore impetuoso che si butta. C'è quello che vi dà manate sulle spalle. Bam! Bam! Bam! C'è il tenero che sparisce tra le vostre braccia e scodinzola. Non ditemi che abbracciare è noioso! Ma una delle cose più difficili che dovete fare - e dovrebbe essere la più semplice - è essere voi, scoprire che cosa siete e che cosa avete da condividere. Quando l'avete scoperto dedicatevi a svilupparlo, per poterlo donare a tutti gli altri. Il fatto più meraviglioso dell'io è che non ha nulla di concreto. Ciò che lascerete è qualcosa d'intangibile. E questo è meraviglioso. Un grande qualcosa spirituale. È ciò che siete. E se lo sviluppate, lo lascerete a tutti coloro con cui entrerete in contatto. E loro saranno qualcosa di più. Sotto la maschera dell'amore si presenta spesso la violazione più grande della persona, perché il nostro amore viene sempre dato sotto condizione. «Ti amerò se prenderai bei voti.» «Ti amerò se sarai all'altezza delle mie pretese.» A me piace pensare che ci sia almeno una persona al mondo che vi dirà semplicemente: «Ti amerò»... sapete, è così che dovrebbero essere le famiglie. Robert Frost ha detto: «La casa è quel posto dove, quando ci andate, vi accolgono sempre». E non dicono: «Te l'avevo detto. Non avresti dovuto farlo». Invece, mamma e papà accorrono e dicono: «Siediti. Adesso ti fasciamo le ferite... ritenta». Voi dovete accettare che si prendano cura di voi. Siatelo per qualcuno. E quando questo viene offerto, per molti di noi accettare è molto più difficile che dare. La battaglia più dura che dovrete combattere è la battaglia 204

per essere voi. Dovrete combatterla per tutta la vita, in un mondo in cui la gente si sente più a suo agio se voi esistete per fare i suoi comodi. Ma se rinunciate a voi stessi, non vi resta niente altro. Se invece riuscirete a diventare voi stessi, allora potrete dire: «Io sono. Io divengo. Io sono ricco d'amore, perché dono tutto ciò che sono senza cortine fumogene. Mi dono gratuitamente». È una cosa bellissima, poterlo dire. Non lasciatevela sfuggire. Non lasciatevi sfuggire voi stessi. Incontrate voi stessi. Stringetevi la mano e dite: «Ciao. Dove diavolo sei stato tutti questi anni?! Bene, adesso siamo insieme e possiamo andare avanti per la nostra strada». E scoprirete di non avere fine. Il vostro potenziale è senza limiti. Non siamo mai riusciti a scoprire il limite del potenziale umano. Potete imparare a toccare come non avete mai toccato. A guardare come non avete mai guardato. A udire come non avete mai udito. A sentire come non avete mai sentito! Piacetevi come non avete mai fatto! E quando l'avrete fatto, vi renderete conto di non essere arrivati da nessuna parte ma avrete sempre di più e di più e di più e di più, tutto da sviluppare e da donare. Fantastico! E così, quando vi presenterete alla porta del cielo e vi chiederanno: «Sei stato te stesso? Sei diventato te stesso?», risponderete: «Sì!». Recentemente mi trovavo a bordo di un aereo. Io viaggio molto e amo gli aeroporti, perché lì imparo più cose sul comportamento umano di quante ne impari nel resto del mondo. Osservate la gente! Non annoiatevi. Non continuate a guardare quale volo sta partendo. Guardate tutto ciò che succede intorno a voi, la dinamica della vita in azione. Quando salii sull'aereo, sedetti accanto a un ragazzo che aveva l'aria di avere tutto. Stava andando all'università nel Colorado. Cominciò a parlare. Una parola su due era «io» o «me». «A me questo non piace», e «le scuole vanno bene per le ragazze», e «i professori fanno schifo», e «il mondo è orribile», «l'America...». Alla fine, dato che sono un buon consulente per nulla autoritario, gli dissi: «Stai zitto! Ti rendi 205

conto di tutte le volte che hai detto "io" e "me" negli ultimi ottocento chilometri? E noi?». Dopo una lunga pausa, mi chiese: «Chi è lei?». In contrasto c'è la mia esperienza dell'anno scorso all'aeroporto O'Hare, quando venne bloccato; intendo dire completamente bloccato dalla neve per due giorni e due notti. Io ero là. Anzi, devo precisare una cosa. Il nostro aereo fu l'ultimo ad atterrare. E poi annunciarono che non soltanto eravamo bloccati perché non partiva più neppure un volo, ma che non potevamo lasciare l'aeroporto a causa della tempesta di neve. Eravamo bloccati nell'aeroporto. Ci dissero che potevamo mangiare gratis tutto quello che volevamo. E i bar erano aperti. Ecco, era un paradiso! Però c'era ancora gente che andava in giro urlando alle hostess: «Io devo partire subito!Devo andare a Cincinnati!». E io leggevo in faccia alle hostess: «Non sai come sarei felice di spedirti a Cincinnati!». Ma oltre a questa gente che urlava e pretendeva di andarsene immediatamente c'era anche una donna straordinaria. Fece il giro delle madri che viaggiavano con i bambini piccoli: «Mi lasci i suoi figlioli. Ho sempre desiderato di diventare maestra d'asilo e ora aprirò un asilo. Racconterò una storiella... e intanto lei potrà andare a bere qualcosa e a prendere qualcosa da mangiare». E avreste dovuto vedere quella donna all'aeroporto, con tutti quei bambini intorno che ascoltavano le sue storie. Era la stessa situazione, la stessa tempesta di neve. Qual era la differenza tra quelli che urlavano e la donna che aveva creato un asilo? Una scelta, ecco qual era. Una scelta incredibile, meravigliosa, magica, personale. Sono stato uno dei fortunati che hanno potuto vedere il Dalai Lama del Tibet quando venne qui, e vorrei che tutti voi aveste potuto conoscere quest'uomo. Fede, fede, fede! Si presentò sul podio, guardò lo Shrine Auditorium affollato di 206

gente, e tutti ci sentimmo sciogliere nel suo calore umano. Eppure, se c'è un uomo che ha il diritto d'essere amareggiato, se esiste il diritto d'essere amareggiato... quell'uomo è lui. Sapete che cosa disse? «Il nostro dovere più grande e il nostro principale dovere è aiutare gli altri.» Poi sorrise lievemente e disse: «E vi prego, se non potete aiutarli, almeno non fate loro del male». Sapete, se ognuno di noi questa sera dicesse a se stesso: ecco, non me la sento di andare ad aiutare gli altri. Non posso farlo. Ma prometto a me stesso che non farò mai del male a nessuno, almeno intenzionalmente... santo cielo, che posto meraviglioso sarebbe! Ogni volta che sentite salirvi alle labbra qualcosa di cattivo, cacciatevi il pugno in bocca! Dopo un po' di tempo, diventerà una seconda natura cacciarvi in bocca un pugno invisibile. E allora non dovrete farlo più. È la reazione che si ottiene quando si è positivi... perché la positività genera positività. Lo sentiamo dire e ne ridiamo... ma tutti amano chi è ricco d'amore. Pensiamo che sia un po' matto, ma ci piace averlo vicino. È meraviglioso poter allargare le braccia, perché quando allargate le braccia e accogliete qualcosa avete davanti a voi una porta di specchio. Il solo specchio in cui potete vedere voi stessi e che vi aiuti a progredire. Ed è l'unico modo che abbiamo di vedere noi stessi e di progredire! Quando noi diventiamo due e poi tre e poi quattro, capite che abbiamo molto di più? Quando io ti accolgo nella mia vita, ho quattro braccia anziché due. Due teste. Quattro gambe. Due possibilità di gioia. Sicuro, anche due possibilità di lacrime, ma io posso essere lì quando tu piangi e tu puoi essere lì quando piango io, perché nessuno dovrebbe mai piangere solo. E nessuno dovrebbe mai morire solo. Sapete che a Los Angeles c'è un servizio che per sette dollari e cinquanta l'ora vi affitta qualcuno che vi fa compagnia mentre state morendo, perché non dobbiate morire soli? È ripugnante! Se arri207

vate in punto di morte e non avete una sola persona che vi tenga la mano, fate un esame della vostra vita. Nessuno dovrebbe morire solo. Se volete che la gente non vi abbandoni dovete tenderle le braccia e dovete rischiare. Imparate di nuovo a fidarvi! Mi piace molto la storiella di quel tale che sta viaggiando lungo una stretta strada di montagna, a due corsie, e arriva a un punto dove c'è una curva molto, molto pericolosa. E proprio mentre sta per svoltare arriva a tutta velocità una donna che appena lo vede si sporge dal finestrino e urla: «Porco!». E l'uomo: «Troia, troia!». Poi fa la curva... e investe in pieno un porco! Noi non crediamo più alla gente che vuole fare del bene! Provate a inserirvi in una superstrada di Los Angeles, qualche volta. Io me ne sto seduto nella mia macchina e vedo tutta quella gente con quell'aria decisa: «Morte a te, Buscaglia! Rarrh, Rarrh, Rarrh!». È divertente perché quando rallento per permettere a qualcuno di introdursi sulla superstrada dalla rampa d'accesso - e mi piace farlo perché non ho mai molta fretta - dico: «Avanti». Sapete che non mi credono? Poco ci manca che mi aggrediscano, perché loro dicono: «Io, io?!». «Avanti, avanti, sì!» Per loro è una cosa da raccontare in giro. Qualcuno li ha lasciati entrare nella superstrada! Noi diventiamo veramente umani quando tendiamo le braccia e rischiamo e ci fidiamo degli altri. Ho raccontato questo episodio altre volte, e l'ho scritto. Ma è così bello che mi dà gioia solo a parlarne. Nei miei corsi ci sono molte cose che io chiamo volontariamente obbligatorie. Molti di voi le conoscono. Una cosa molto volontariamente obbligatoria è che tutti facciano qualcosa per qualcun altro. A volte mi domandano addirittura: «Come sarebbe a dire, fare qualcosa per qualcuno? Cosa c'è da fare?». Io mi sento soffocare. Mi trattengo. Dico: «Cosa c'è da fare?». Venne da me uno dei ragazzi. Si chiamava Joel. Ed è diventato famoso perché racconto spesso questo episodio. A 208

lui fa piacere. Mi ha autorizzato a raccontarlo. Mi disse: «Che cosa c'è da fare?». E io dissi: «Joel, vieni qui». Non lontano dall'università c'è un ospizio. Lo condussi là. Tutti dovrebbero andarci... se volete vedere il vostro futuro, andate in un ospizio. Lo condussi là e c'erano tanti vecchi sdraiati sui letti, a guardare il soffitto, nelle vecchie vestaglie di cotone. La senilità non è causata dalla vecchiaia. È causata dal non essere amati e dal non sentirsi utili. Finché siete utili, non sarete mai vecchi! Non contate sugli altri. Vi arrangiate da soli. Restate attivi. Trovate qualcosa da fare! E cose significative. Quando sarete arrivati a centosettant'anni direte: «Aveva ragione Buscaglia». Dunque, entrammo e Joel si guardò intorno e disse: «Cosa devo fare? Non so niente di gerontologia». E io dissi: «Bene! Vedi quella signora laggiù? Vai a salutarla». «Tutto qui?» «Tutto qui.» La vecchietta doveva essere stata mandata da Dio. Joel andò e le disse: «Uhm, salve». Lei lo squadrò un po' insospettita per un minuto, poi chiese: «Sei un parente?». E Joel: «No». E lei: «Bene! Odio i miei parenti! Siediti figliolo». Joel sedette e incominciarono a parlare. Oh, cielo, quante cose gli disse la vecchietta! Come ho detto, quando ignoriamo il passato, siamo condannati a ripetere tutto daccapo. Quella donna aveva conosciuto tante cose meravigliose sulla vita, sull'amore, sul dolore, sulla sofferenza. Persino sulla morte che si avvicinava, con la quale doveva riconciliarsi in qualche modo. Ma nessuno era disposto ad ascoltarla! Joel cominciò ad andare da lei una volta la settimana, e ben presto quel giorno venne chiamato «il giorno di Joel». Arrivava lui e tutti i vecchi gli si raccoglievano intorno. Sapete cosa fece quella donna meravigliosa? Chiese alla figlia di portarle una bella vestaglia. E un giorno Joel la trovò seduta sul letto con questa bellissima vestaglia di raso scollata. Si era fatta pettinare... una cosa che non faceva da secoli. Perché farvi pettinare se nessuno vi vede? In quella clinica la 209

gente non vi guarda. Vi fa qualcosa. Io non voglio. Non fatemi favori. È molto meglio che mi guardiate e diciate: «Come va, Buscaglia?» e lo diciate con interesse sincero. Nella vita di Joel incominciarono ad accadere cose meravigliose. E probabilmente il momento più trionfale della mia carriera di educatore fu il giorno in cui, senza saperne niente, uscii sul campo e trovai Joel, come il Pifferaio Magico, con trenta vecchietti che lo seguivano per andare ad assistere a una partita di football! Cosa c'è da fare? Guardatevi intorno. Cosa c'è da fare? C'è da toccare una persona sola che siede accanto a voi. C'è la commessa stravolta che ha bisogno di sentirsi dire da voi che è straordinaria. Cosa c'è da fare? Niente di monumentale. Piccole, piccolissime cose che cambiano tutto. Tante, tante piccole cose. \ Vi leggerò qualcosa che Elisabeth Kùbler-Ross ha scritto nel suo libro più recente, Death: The Final Stage of Growth. Ecco che cosa dice: L'importante è renderci conto che, indipendentemente dal fatto che comprendiamo pienamente chi siamo o ciò che accadrà quando moriremo, il nostro scopo è progredire come esseri umani, guardare in noi stessi, costruire su quella fonte di pace e di comprensione e di forza che è il nostro io individuale. E allora [il corsivo è mio] tendere le braccia agli altri con amore e accettazione e con paziente spirito di guida nella speranza di ciò che possiamo diventare insieme.

Io non posso farlo da solo. Bisogna essere in due per vedere uno. Quattro lo vedono più chiaramente. E tutti i presenti, qui tra il pubblico, tutti insieme, vedono ancora più chiaramente. Se mettessimo veramente in funzione le nostre energie d'amore, potremmo far levitare la città di Sacramento. La prima città al mondo a diventare un satellite senza usare altro che l'energia umana! Ecco di nuovo quel matto di Buscaglia che dice cose pazze. Lo credo! E un'altra cosa che dobbiamo fare, come individui ricchi d'amore, è liberarci dalle parole. Le parole sono trappole. Le avete imparate e siete caduti in queste trappole 210

prima di essere abbastanza grandi per scrivere da soli il vostro dizionario. Così gli altri vi hanno detto chi dovevate amare, chi dovevate odiare, che cosa era importante, perché era importante, tutte le parole. E voi l'avete creduto. E ancora adesso siete alle prese con le conseguenze. Sapete, una parola evoca in voi tante cose. Pensate che sia soltanto un esercizio intellettuale? Che sciocchezza! Ogni volta che udite una parola, udite una definizione del dizionario, ma sentite anche qualcosa dentro di voi. Pensateci. Comunista. Cattolico. Ebreo. Vedete? Negro. Spagnolo. E il sentimento che evoca in voi è ancora lì, è qualcosa che rode e che avete imparato anni fa e non avete mai ridefinito. Troppo spesso sono sature d'odio, di pregiudizio e di distruzione, perché non vi siete mai dati la briga di ridefinirle. Questo io l'ho imparato molto presto nella vita perché i miei genitori erano immigrati italiani. Vennero in questo Paese senza niente! Assolutamente niente! Si stabilirono a Los Angeles e tirarono su la famiglia. E per molto tempo non sapemmo neppure da dove arrivavano i nostri pasti. Lavoravano; lavoravano tutti e due e lavoravano e lavoravano, notte e giorno. Era meraviglioso. Ci insegnarono il lavoro, e ci insegnarono la responsabilità. Non ce ne stavamo in ozio. Avevamo tutti qualcosa da fare. Eravamo veramente parte della famiglia. Ma non parlavamo inglese. Eravamo i «dago» per il vicinato, e facevamo scendere il valore delle proprietà. Ricordo che quando incominciai ad andare a scuola parlavo a malapena l'inglese, ma parlavo correntemente l'italiano. Avevo imparato sette opere liriche. Ma quando ero a scuola gli altri bambini mi chiamavano «dago» e «wop». Ricordo che andai a casa e chiesi a mio padre: «Papà, che cos'è un "dago"? Che cos'è un "wop"?». «Non badarci, Felice. Non badarci. Non significano niente. I nomi non possono farti del male.» Ma, sapete, i nomi mi facevano male. Mi facevano male, perché la gente non mi voleva intorno. E sapete un'altra cosa? Fui 211

sottoposto a vari test da quei quattro dotti educatori. E conclusero che, siccome non sapevo parlare inglese, ero un ritardato mentale. Un'altra simpatica etichetta! Così mi misero in una classe di bambini ritardati mentali... la migliore istruzione che abbia mai avuto! Ricordo pochissimi insegnanti, ma quella la ricordo. Era una gigantessa, tipo Brunilde. Sapete, 230 di petto, 90 di vita, 242 di fianchi. Oh, lei sì che era ricca d'amore! Non le importava nulla che fossi un «dago»! Mi veniva vicino e si chinava su di me. Ricordo che scomparivo dentro di lei. Quanto calore umano. Lei mi abbracciava, mi sentiva, mi vedeva, e io mi davo da fare per lei! Scrivevo tante cose, e alla fine conclusero che avevano commesso un grave errore. E mi trasferirono nella noia... la chiamavano educazione «regolare». Ma la cosa più triste era che i nostri vicini non venivano mai a trovarci. Mia madre e mio padre venivano da una bella cittadina ai piedi delle Alpi svizzero-italiane, dove tutti volevano bene a tutti, e se Felice si ammalava gli preparavi il brodo di pollo e andavi in chiesa e accendevi un cero e pregavi, e quando Felice guariva era festa grande per tutti. Non c'era il problema esistenziale: «Esisto?». Diavolo, qui non sappiamo neppure chi siano i nostri vicini e non ce ne curiamo! Facciamo anche cinquanta chilometri per attraversare la città e andare dai nostri amici. Non salutiamo neppure quelli che abitano di fronte a noi. È strano. Quella gente perdeva moltissimo etichettando me ed etichettando la mia famiglia. Perdeva mia madre che era una magnifica «stregona». Aveva un rimedio per tutto. Era l'aglio! E sapete che cosa faceva? La mattina, prima di andare a scuola, ci faceva mettere tutti in fila, e ci legava al collo un sacchettino con uno spicchio d'aglio. Io le dicevo: «No, mamma, puzza!». E lei diceva: «Stai zitto!». Era una consulente non autoritaria. Io andavo a scuola con l'aglio e non ero mai ammalato. Mi davano premi perché ero sempre presente alle lezioni. Naturalmente ho una mia teoria: nessuno mi si 212

avvicinava abbastanza per attaccarmi una malattia! Adesso sono molto sofisticato. Niente aglio, ma raffreddori, malaria, tutto quanto! E poi, quando uno di noi prendeva il raffreddore, mia madre preparava una polentina. La faceva bollire, la stendeva su un pezzo di tela, ci aggiungeva un po' d'olio d'oliva e ce la metteva sul petto. Perché ci amava. E cantava sempre. Amava le opere. Cantava... un giorno cantavamo la Carmen, il giorno dopo la Traviata. Tutta quella musica magica, tutta quella gioia, quell'allegria, e tutto quel mangiare! Eravamo tanti che per sistemare tutti a tavola dovevamo mettere i cavalietti con sopra le assi. Oh, e mio padre aveva una meravigliosa tecnica educativa. Favolosa. Non permetteva mai che nessuno si alzasse da tavola se prima non gli avevamo detto qualcosa di nuovo che avevamo imparato quel giorno. Noi pensavamo che fosse orribile. E mentre io e le mie sorelle ci lavavamo le mani in bagno, io dicevo: «Che cosa avete imparato?». E le mie sorelle: «Niente!». E io dicevo: «È meglio che impariamo qualcosa!». E poi ci sedevamo a tavola e mangiavamo pasti meravigliosi, e i profumini bastavano a far venire l'acquolina in bocca ai vicini! Papà si metteva comodo e si versava un bicchiere di vino. Si arricciava i baffetti - aveva i baffetti con bellissimi riccioli - e diceva: «Felice, che cos'hai imparato oggi?». Noi avevamo imparato a memoria qualcosa sull'enciclopedia e dicevamo: «Gli abitanti del Nepal sono tre milioni e quattro...» e lui: «Eh?». E io, da ragazzino, pensavo: Che matto! E dicevo ai miei amici: «Anche voi dovete dire a vostro padre qualcosa di nuovo?». E loro rispondevano: «Io mio padre non lo vedo neppure!». E allora mio padre guardava mia madre e diceva: «Rosa, lo sapevi?». E lei: «Diavolo, non so neppure dov'è il Nepal!». Allora prendevamo l'enciclopedia. Scoprivamo dov'era. Era molto divertente. E tutti noi avevamo sempre qualcosa da condividere. E ancora adesso quando Felice lavora cento ore al giorno e se ne va a letto, sente papà che dice: «Felice, che cos'hai imparato oggi?». E se non riesco a trovare qualcosa, sento la 213

voce di papà che dice: «Enciclopedia». Imparo qualcosa, e allora posso dormire. La vita non è un viaggio. Non è una meta. È un processo. Arrivate passo per passo. E se ogni passo è meraviglioso, se ogni passo è magico, lo sarà anche la vita. E non sarete mai di quelli che arrivano in punto di morte senza aver vissuto. Perché non vi sarete mai lasciati sfuggire nulla. Non guardate al di sopra delle spalle degli altri. Guardateli negli occhi. Non parlate ai vostri figli. Prendete i loro visi tra le mani e parlate con loro. Non fate l'amore con un corpo, fate l'amore con una persona. E fatelo ora. Perché questo momento non durerà in eterno. Sparirà in fretta e non tornerà mai più. Tanti di noi passano la vita a piangere sui momenti passati. Troppo tardi! Ma c'è un milione di momenti che devono ancora venire. Uno dei miei colleghi ebbe un grave attacco di cuore. Aveva cinquantadue anni. La moglie telefonò alla figlia, che viveva in Arizona, e le disse di venire immediatamente. Aveva ventidue anni. Prese a nolo una macchina all'International Airport di Los Angeles e si inserì sulla superstrada. Ci fu un incidente, e morì sul colpo. Aveva ventidue anni ed è morta! il mio collega si è ripreso. Non potete mai sapere. È un grande mistero, e l'unica cosa che sappiamo con certezza è ciò che è qui ora. Non lasciatevelo sfuggire. Voglio concludere con qualcosa su cui sto ancora lavorando, e che ho intitolato «A Start», un inizio. Ogni giorno prometto a me stesso che non tenterò di risolvere tutti in una volta i problemi della mia vita. E non pretenderò che lo facciate voi.

Andateci con calma, domani non potrete essere una persona perfettamente ricca d'amore. Ma forse la settimana prossima... Ogni giorno cercherò d'imparare qualcosa di nuovo su me stesso e su di voi e sul mondo in cui vivo, per poter continuare a fare l'esperienza delle cose come se fossero appena nate.

Voi non siete mai la stessa persona. Dopo questa sera, siete 214

diversi. E quando camminerete tra quelle foglie andandovene di qui stasera, sarete diversi. E domani mattina dopo colazione sarete ancora diversi. Anche se ciò significa soltanto essere un po' più grassi. Ogni giorno ricorderò di comunicare la mia gioia e la mia disperazione, in modo che possiamo conoscerci meglio. Ogni giorno rammenterò a me stesso di ascoltarvi veramente e di cercare di ascoltare il vostro punto di vista, e di scoprire il modo meno minaccioso di esporvi il mio, ricordando che io e voi stiamo crescendo e cambiando in cento modi diversi. Ogni giorno rammenterò a me stesso che sono un essere umano e non pretenderò la perfezione da voi fino a che non sarò perfetto.

(Così siete al sicuro.) Ogni giorno mi sforzerò di essere più consapevole delle cose bellissime che ci sono nel nostro mondo.

Lo so, c'è la bruttezza. Ma c'è anche la bellezza. E non lasciate che vi convincano del contrario. Guarderò i fiori. Guarderò gli uccellini. Guarderò i bambini. Sentirò la brezza fresca. Mangerò bene e l'apprezzerò. E condividerò con voi tutte queste cose. Uno dei complimenti più grandi è dire a qualcuno: «Guarda quel tramonto». Ogni giorno rammenterò a me stesso di tendere le braccia e di toccarvi gentilmente con le dita. Perché non voglio perdermi questo contatto con voi. Ogni giorno mi dedicherò di nuovo al processo di esser un individuo pieno d'amore, e poi vedrò che cosa succede.

Sapete, sono sinceramente convinto che se doveste definire l'amore, l'unica parola abbastanza grande per contenerlo tutto sarebbe «vita». L'amore è la vita in tutti i suoi aspetti. E se vi lasciate sfuggire l'amore, vi lasciate sfuggire la vita. Non fatelo, vi prego.

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Con Leo Buscaglia

Vorrei parlarvi di un concetto che per me significa moltissimo, ed è il concetto di «insieme». Mi preoccupa sinceramente vedere come siamo tutti separati. Si direbbe che ognuno sia coinvolto in ciò che Schweitzer descrisse molti anni fa, quando disse che noi stiamo tanto insieme eppure stiamo tutti morendo di solitudine. È come se non sapessimo più tendere le braccia l'uno all'altro, tenerci stretti l'un l'altro, chiamarci l'un l'altro, costruire ponti. Perciò vorrei parlarvi del concetto di «insieme», voi e io, e di alcune idee pazze che ho sul modo di costruire questi ponti perché possiamo avvicinarci un poco. Io credo che questo isolamento, questa solitudine, questa disperazione siano esemplificati da ciò che è capitato a me di recente, durante un viaggio nel nostro Paese. A bordo degli aerei succedono tante cose. Io amo gli aerei. Incontrate vecchi amici che non avete mai visto, vi fate nuovi amici perché sanno che non vi rivedranno mai più: sono confessioni autentiche. Vi parlano delle loro mogli e dei loro mariti. Io amo molto la gente, lo sapete, e mi piace sentir parlare di mogli, mariti, figli, trionfi, paure... tutte le cose meravigliose che ci rendono umani. A bordo di un jet 747 io e un altro avemmo la fortuna di trovare uno spazio con due soli sedili. Almeno, io pensai che 217

fosse una fortuna. Lui era accanto al finestrino e quando mi avvicinai gli dissi: «Salve», come faccio sempre, pensando che avremmo potuto attaccare cosi. Se dovete stare insieme cinque ore, tanto vale dire: «Salve», anche se qualcuno non risponde. Io dissi: «Salve» e l'uomo disse: «Oh, accidenti, pensavo che il posto vicino al mio sarebbe rimasto libero, così avrei potuto stendermi». E io dissi: «Oh, le assicuro che appena saremo in volo, se ci sarà un posto vuoto lo prenderò io e le lascerò libero questo». Sedetti accanto a lui e allacciai la cintura di sicurezza e arrivò una donna con un bambino piccolo. Non potei fare a meno di pensare: «Non è una fortuna che esistano i viaggi in aereo per le donne che devono viaggiare con i bambini piccoli?». Penso sempre a mia madre, quando aveva in braccio il piccolo Vincenzo, la prima volta che arrivò dall'Italia e dovette attraversare tutto il continente. Ci vollero sette giorni! Invece quella donna poteva arrivare a New York in cinque o sei ore appena. Io stavo pensando a questo fatto positivo quando l'uomo disse: «Oh, accidenti. Guardi, c'è una donna con un bambino piccolo. Il bambino non farà altro che strillare fino a New York». Non eravamo ancora partiti! Quando l'hostess annunciò che c'era un settore dov'era vietato fumare, l'uomo disse: «I fumatori bisognerebbe fucilarli!». Io dissi: «Tutti? Conosco alcuni fumatori molto simpatici e per bene. Io non fumo, ma non vorrei che li fucilassero tutti». Poi ricevemmo il menu. Non è sorprendente che possiate attraversare in volo l'intero Paese, ma che vi offrano un menu con una scelta di tre portate? È fenomenale! Lui guardò tutto quanto e disse: «Oh, Dio, non hanno mai niente di buono su questi maledetti aerei». Immaginate, non eravamo ancora partiti. E poi la hostess incominciò a indicare le due uscite sul fondo, le due uscite avanti, sapete come fanno. Devono farlo. E l'uomo disse: «Guardi quelle sceme. Sa, non fanno niente. Sono qui solo perché sperano di incontrare qualche riccone. Non lavorano, sono soltanto cameriere di 218

lusso». E avanti così. Ero sbalordito... tutto questo prima ancora che l'aereo si staccasse da terra. Quando fummo in volo (non potevo spostarmi, ero bloccato lì, ma avevo deciso che quell'uomo sarebbe diventato un individuo pieno d'amore prima che arrivassimo a New York), si rivolse a me e chiese: «Lei che cosa fa?». Io risposi: «Insegno in un'università». E lui: «Che cosa insegna?». E io: «Tengo corsi di consulenza sulle relazioni umane e sull'amore verso la gente». E lui disse: «Grazie a Dio, c'è qualcun altro che ama la gente come l'amo io!». Ognuno si crede ricco d'amore! Prima che arrivassimo a New York venni a sapere che la moglie l'aveva piantato; e lui definì i figli come «ingrati e buoni a nulla». Non è sorprendente? Tendete le braccia. Imparate ad aprire le braccia. Ascoltate voi stessi e sentite quante volte dite: «Io sono una persona piena d'amore». La mia domanda è: quante volte al giorno sentite voi stessi dire: «Io amo» e quante volte: «Io odio, odio, odio»? Sono stufo di questo modo di accostarsi alla vita, così incentrato su «io» e «me». Sono stufo di sentire la gente dire «io» e «me». Vorrei sentire la gente dire «noi», tanto per cambiare. Non sarebbe bello? «Io» è importante ma, santo cielo, quanta forza viene dal «noi»! Io e voi insieme siamo molto più forti che voi o io soli, e mi piace pensare che quando siamo insieme io non do soltanto, ma ricevo. Posso avere quattro braccia, le due mie e le due tue, due teste - questo significa che abbiamo una quantità di idee creative e due mondi diversi, il tuo e il mio. Perciò voglio che voi partecipiate. Ho imparato alcune cose molto interessanti che credo siano il risultato del fatto che la gente resta intrappolata nel concetto di «io» e «me». È tratto da un libro intitolato On an Average Day in America: ciò che succede in media in un giorno in America. State a sentire: in media, ogni giorno in America nascono 9077 bambini, e questo è meraviglioso; 219

1282 sono illegittimi e non voluti. Circa 2740 ragazzini scappano di casa ogni giorno in America. Circa 1986 coppie divorziano ogni giorno in America. Circa 69 persone straordinarie, incredibili, si uccidono ogni giorno in America. C'è uno stupro ogni 8 minuti, un omicidio ogni 27 minuti e una rapina ogni 76 secondi. C'è un furto in qualche appartamento ogni 10 secondi, ogni 33 secondi viene rubata una macchina, e in media una relazione, oggi in America, dura tre mesi. Ecco, se questo non vi lascia di sasso...! E questo è il mondo che stiamo creando per noi! È il mondo dell'«io» e del «me». Bene, io non voglio far parte di questo mondo, voglio creare un mondo diverso... e possiamo farlo insieme. Questo è meraviglioso. Io non ho nulla da vendere; ho molte cose da condividere. E sono sicuro che se potessimo comunicare veramente, voi potreste darmi qualche idea sul modo di invertire questa tendenza riconoscendo che non possiamo sopravvivere soli e che la solitudine e l'egocentrismo portano alla morte e all'annientamento. Stiamo imparando molte cose sull'apprendimento. Sono un insegnante, lo sono sempre stato e amo essere un insegnante, ma solo di recente ho scoperto che non insegno niente a nessuno. Io posso essere, al massimo, un euforico, meraviglioso, magico facilitatore della conoscenza. Posso imbandirla davanti a voi; ma se voi non volete mangiare, non posso farci niente. Ma ho anche scoperto che se riesco a renderla attraente ed esaltante, allora qualcuno si lascerà affascinare e dirà: «Di cosa sta parlando questo matto? Forse, se va tanto pazzo per la vita, la vita merita di essere vissuta». Quando ballo tra le foglie, e lo faccio spesso, vedo che altri trovano il coraggio di andare a ballare tra le loro foglie. E questo è bello. Se posso insegnare a qualcuno a ballare tra le foglie, sono disposto a correre il rischio di essere considerato pazzo. Mi piace essere considerato pazzo perché, come ho già detto, questo dà una grande libertà di comportamento. Pote220

te fare più o meno di tutto, e gli altri dicono: «Oh, è quel pazzo di Buscaglia che balla tra le foglie». E io mi diverto un mondo e tutti quelli sani di mente si annoiano. Vedete, ciò di cui abbiamo veramente bisogno, ci dicono i modificatori del comportamento, sono buoni modelli. Abbiamo bisogno di modelli d'amore, di qualcuno che possa mostrarcelo. Quelli di voi che conoscono il mio libro, Love, sanno che l'ho dedicato ai miei genitori, Tullio e Rosa Buscaglia, perché non mi hanno insegnato ad amare, mi hanno mostrato come si ama. E loro non sapevano cosa fosse la modificazione del comportamento. Ma ci sono quelli come Bandura, alla Stanford University, che ci mostrano come il modo migliore per insegnare sia offrire modelli. Senza dire niente a nessuno, senza insegnare niente a nessuno, siate ciò che volete siano i vostri figli e guardateli crescere. Molti di voi sanno che sono cresciuto in una meravigliosa, numerosa, fantastica, affettuosa famiglia italiana e sono cresciuto sano e felice e meraviglioso a forza di bagna cauda e di pasta e fagioli e di polenta e di tanti altri piatti straordinari. Ma ho imparato anche molte altre cose da questi modelli, e quasi tutte me le hanno insegnate senza che me ne accorgessi. Una cosa che mi hanno insegnato è che abbiamo bisogno di essere toccati e abbiamo bisogno d'essere amati. Perciò ho continuato a toccare e ad amare per tutta la vita, e mi diverto un mondo a toccare e ad amare. Era così bello; allora non sapevo che nel «mondo esterno» non ci si tocca e non ci si ama... o lo si fa con riserva. Il primo giudizio su di me di un'insegnante americana fu un biglietto per mia madre. Potete immaginare quanto fosse sensibile quell'insegnante, se scrisse questo a una povera immigrata italiana che riusciva a malapena a parlare inglese. «Cara signora Buscaglia, suo figlio Felice è troppo tattile.» Portai il biglietto a mia madre, che lo lesse e disse: «Ehi, che cos'è un tattile? Felice, se hai fatto qualcosa di male, ti spacco la testa». Io dissi: «Non so che cosa vuol dire tattile, mamma, davvero. Non so che cosa 221

ho fatto». E allora prendemmo il dizionario, come facevamo molto spesso, e cercammo la parola «tattile». Dice «toccare, sentire». Mia madre disse: «E allora cosa c'è di male? È bello. Hai una insegnante matta». Io non ho mai avuto il problema esistenziale di chiedermi se esisto o no. Se io posso toccarvi e voi potete toccarmi, esisto. Ci sono tanti che muoiono di solitudine perché nessuno li tocca. E poi, i miei genitori mi insegnarono a condividere. Avevamo una casa piccolissima e una famiglia numerosa; è così che s'impara a condividere. Adesso abbiamo case enormi, dove ci si perde. Allora eravamo in tanti, e avevamo un solo bagno. Oh, lo ricordo bene! Era il centro della casa. Tutti entravano e uscivano di continuo dal bagno e appena entravi e ti sedevi e ti rilassavi per trenta secondi: «Esci che tocca a me». Così imparavi a dare e imparavi a condividere, imparavi a uscire e imparavi a sbrigarti e imparavi a usare lo stesso lavabo e a dormire nelle stesse stanze. È una cosa meravigliosa da imparare. Sono convinto che la famiglia che fa le code per entrare in bagno resta unita. Ma adesso abbiamo un bagno per Mary e un bagno per Sally e un bagno per papà e uno spogliatoio per mamma. Peccato... Non abbiamo bisogno di tanto spazio. È così strano, ma costruiamo case enormi e lavoriamo fino a spaccarci la schiena e diciamo che è tutto per i nostri figli. Li facciamo vivere in case arredate magnificamente e non permettiamo loro di viverci. «Non toccare questo!» «Non toccare quello!» «Romperai quell'altro!» Santo cielo, per chi è la casa, per i vicini? In casa nostra non era così! La casa c'era perché noi ci vivessimo. Dai miei imparai a condividere e imparai un meraviglioso senso di responsabilità da mia madre, che era una donna decisa. Quando diceva qualcosa, era così. Mi ha sempre divertito studiare all'università le teorie permissive. Mia madre era la più straordinaria consulente permissiva non autoritaria. Diceva: «Stai zitto!». Sapevamo che cosa significava. C'era una bellissima interazione con la famiglia. Non 222

è troppo sorprendente che nessuno di noi abbia mai avuto problemi mentali. Ricordo che da ragazzo volevo andare a Parigi. Mia madre mi disse: «Felice, sei troppo giovane per viaggiare». «E io, mamma, voglio andarci.» A quel tempo Jean-Paul Sartre e Simone de Beauvoir erano tutti presi dal concetto meraviglioso dell'esistenzialismo; e io volevo andarci perché avevo sentito dire che tutti erano infelici e volevo andar là per essere infelice anch'io. Volevo provare tutto. Mia madre disse: «D'accordo, vai. Ma se vai, dichiari d'essere adulto e d'ora in poi non chiedermi più niente. Sei adulto. Sei libero, vai». Oh, fu fantastico! Non avevo molto denaro, ma un pochino l'avevo, e andai, e vissi il sogno di tutti. Avevo un appartamentino piccolissimo. Dal mio abbaino potevo vedere tutti i tetti di Parigi. Sedevo ai piedi di Sartre e della de Beauvoir, non capivo una parola di quello che dicevano... ed ero entusiasta. Soffrivo. Oh, come soffrivo! Ed era meraviglioso, grazie al formaggio Camembert e ai vini francesi. Ben presto rimasi senza denaro. Non avevo un vero concetto del denaro. Lo spartivo con tutti, ero l'ultimo dei grandi spendaccioni. Avevo sempre una bottiglia di vino e tutti venivano da me a dividerla. Ero cresciuto così; avevo imparato così dai miei modelli. A casa nostra, quando arrivava il postino, mio padre gli offriva un bicchiere di vino. «Eh, poveraccio, lavora tutto il giorno. Ha bisogno di un buon bicchiere.» Noi dicevamo: «Papà, non dargli il vino!». Ci sentivamo morire quando veniva a trovarci l'insegnante e mio padre le offriva il vino. «L'insegnante non beve vino.» E poi restavamo di sasso quando l'insegnante lo beveva. Non era scema. Il vino era buono! Ricordo che mi restava pochissimo denaro... non ne avevo quasi più. Pensai che avrei telegrafato a casa, ecco tutto. Andai all'ufficio telegrafico e, per risparmiare denaro, scrissi soltanto: «Muoio di fame. Felice». Poche parole, ma significative. Ventiquattro ore dopo ricevetti un telegramma di mia madre. Diceva: «Muori di fame! Mamma». Il mo223

mento della verità! Finalmente ero adulto. Che cosa dovevo fare, adesso? Vi dirò che cosa mi ha insegnato tutto questo. Mi ha insegnato la fame, mi ha insegnato quanto può essere freddo un posto, non soltanto fisicamente, perché quando non hai le bottiglie di vino da dividere quelli che si dicevano tuoi «amici» non vengono più. Mi insegnò molte cose, che non avrei mai imparato se mia madre si fosse commossa e mi avesse mandato un vaglia. E restai lì, ostinatamente, per dimostrarle che potevo farcela. Quando tornai a casa, molti mesi dopo, lei mi disse una sera: «È stata la cosa più difficile che abbia mai dovuto fare, ma se non l'avessi fatta, non saresti mai cresciuto». Ed era vero. Così, con questi modelli, i miei genitori mi insegnarono tante cose su ciò che significa vivere insieme e amare insieme. Spesso mi invitano a partecipare a quelle trasmissioni nelle quali gli ascoltatori telefonano. Mi interessa sempre il fatto che una chiamata sì e una no abbia come tema la solitudine. «Che cosa devo fare? Ero sposata, avevo figli, e adesso sono sola. Vivo in un appartamento, tutta sola. Che cos'è successo? Mi piacerebbe fare amicizia con le vicine, ma ho paura di bussare alla loro porta.» «Cammino per la strada e vedo gente simpatica e cerco di sorridere, ma ho paura.» Stiamo insegnando a tutti un po' di tutto, tranne l'essenziale, che è come vivere nella gioia, come vivere nella felicità, come avere il senso del valore personale e della dignità personale. Queste cose possono essere insegnate. Abbiamo bisogno che un maggior numero di persone ce le insegni. Di recente, in una di queste trasmissioni, ho sentito una donna fare un'affermazione incredibile. Ha detto: «Sa, ho passato gli ultimi vent'anni cercando di cambiare mio marito, e sono molto delusa di lui. Non è più l'uomo che avevo sposato». Non è straordinario? Non so quanti di voi conoscono Rodney Dangerfìeld, ma è 224

un tipo che dice le cose più pazze. Questo è il culmine, a proposito dell'argomento di cui sto parlando. Dice: «Dormiamo in camere separate, pranziamo separatamente, facciamo vacanze separate, insomma facciamo tutto il possibile per tenere in piedi il nostro matrimonio». Non è sensazionale? Eppure siamo quasi arrivati proprio a questo. La vera gioia si trova nelle relazioni affettuose, nel sentirsi insieme, lontano da «io» e «me», dove c'è «noi». Consumare una buona cena da soli è piacevole, ma dividerla con cinque o sei persone care è il paradiso. Andare al parco e guardare gli alberi da soli può essere bellissimo; ma avere al braccio qualcuno che dice: «Guarda quelli violacei», mentre voi state guardando quelli blu, e così non vi lasciate sfuggire né gli alberi violacei né quelli blu, è fantastico! Non lasciatevi sfuggire questo essere insieme, perché è vostro, perché è a vostra disposizione. Eric Fromm, che ha scritto tante cose belle sullo stare insieme e sull'amore, ha detto: «Il più profondo bisogno dell'uomo è superare la separatezza. Lasciare la prigione della sua solitudine. L'incapacità di realizzare questo scopo comporta la pazzia». Ed è uno psichiatra. I malati di mente sono quelli che si sono allontanati di più dagli altri. Nel corso sull'amore, parlavamo dei rischi e soprattutto dei rischi di esporsi, e io dicevo: «Perché non lo fate?». «Oh, io ho paura di soffrire.» Santo cielo. Che mentalità pazzesca. Soffrire, qualche volta, può dare sapore alla vostra vita. Quando piangete almeno siete vivi. Il dolore è meglio che niente. Ho letto un'osservazione molto interessante di Ashley Montague: «Senza l'interdipendenza, nessun gruppo vivente di organismi potrebbe mai sopravvivere». Immaginate... parla di tutti gli esseri viventi! «E nella misura in cui ogni gruppo di organismi si discosta dalla propria funzione, dai propri requisiti d'interdipendenza, diviene nella stessa misura inoperante e affetto da disfunzioni.» Ma, soggiunge, «ogni volta che gli organismi interagiscono, lavorano per la sopravvivenza, donando vita gli uni agli altri.» 225

Quindi, io sono impegnato nel processo di donare vita. È il dono più incredibile, ed è a vostra disposizione. Quali cose possono avvicinarci? Che cosa dobbiamo sape- | re sull'essere insieme, sulle relazioni, sull'affetto, sull'amore? Nella nostra cultura abbiamo un concetto pazzesco che si chiama amore romantico. Ecco perché tanti rimangono delusi! Noi crediamo ancora a quello che ci raccontano le commedie musicali: ci guardiamo intorno in una stanza affollata e vediamo degli occhi speciali che ci stavano aspettando da vent'anni. Ci sentiamo attratti, ci abbracciamo e usciamo insieme nel tramonto e non abbiamo altri problemi. Che corteggiamenti meravigliosi! Voi vi comportate nel modo migliore, e lei si comporta nel migliore dei modi. Lei appare sempre splendida ogni volta che vi presentate alla sua porta. Voi siete sempre galante. Le portate fiori e cioccolatini. Le dite che è adorabile e poi vi sposate. Il giorno dopo lei compare con i bigodini in testa. Voi dite: «Mio Dio, ho sposato un'extraterrestre!». Non sarebbe bello, per una volta durante il corteggiamento, andare ad aprire la porta e dire: «Guarda, porto i bigodini. Se non ti va, è cosi lo stesso». Perché no? Se vi aspettate che il rapporto sia una continua luna di miele fatta di perfezione, resterete delusi. Ma ci sono molti tipi di luna di miele. A me piace moltissimo parlare con i vecchi perché loro possono parlarvi delle transizioni della luna di miele. Guardare il passato, per imparare. Non lo facciamo mai, guardiamo sempre avanti. Nella vita di una coppia non più giovane c'è stata la luna di miele di quando hanno fatto conoscenza; poi c'è stata la luna di miele del primo appartamento con tutti mobili usati, magari addirittura con le casse al posto degli scaffali, ma a quel tempo chi se ne preoccupava? Eravate cosi felici durante quella luna di miele. E poi c'è stata la luna di miele del vostro primo lavoro. La luna di miele del primo figlio. La luna di miele di vedere che tutti crescevano, e con vostra immensa sorpresa quei dodici, quindici anni passano in fretta e all'im226

provviso eccovi lì, una luna di miele dopo l'altra. Elisabeth Kubler-Ross ci dice addirittura che l'ultima luna di miele, chiamata «morte», può essere un'esperienza splendida, se l'abbracciamo come abbracciamo tutte le altre lune di miele, senza aspettative. Anche questa è un'esperienza che voglio fare, quando verrà la mia ora. Mia madre ci raccontava di aver visto mio padre solo cinque giorni dopo il matrimonio. Fu un matrimonio combinato; e in Italia, quando combinano un matrimonio, l'uomo viene in casa; naturalmente tutte le donne erano lì a servire a tavola, ma lei non osava neppure guardarlo. Domandava alle sorelle: «Com'è?». E loro dicevano: «Oh, è così bello. Vedrai che ti piacerà moltissimo». Mia madre teneva gli occhi bassi e li tenne bassi anche durante la cerimonia; e poi, dopo che erano sposati da cinque giorni, si voltò a guardarlo e disse: «Ho fatto bene!». Lui lo sapeva già. Non è sorprendente che queste due persone, anche se presumibilmente non erano passate attraverso un periodo di innamoramento folle, siano riuscite a mantenere un rapporto bellissimo che è progredito costantemente per oltre cinquantacinque anni? La cosa più essenziale in un rapporto è che uno e uno, insieme, fanno sempre due, e se volete che il rapporto sopravviva dovete sempre affermare chi siete e continuare a crescere e a progredire attraverso il cambiamento. Siete due individui meravigliosi, magici. Tu hai la tua vita, lui ha la sua vita, e costruite ponti tra l'uno e l'altro; ma dovete sempre conservare la vostra integrità e la vostra dignità perché tutti i rapporti, per quanto magnifici, per quanto possano durare anche sessant'anni, sono temporanei, e alla fine vi troverete di nuovo di fronte a voi stessi. Una delle cose più tristi al mondo è la persona che ha investito tutto in un rapporto, e quando il rapporto finisce è costretta a chiedersi: «E adesso che cosa faccio?». Se amate qualcuno, il vostro scopo è desiderare che sia tutto ciò che siete voi, e l'incoraggerete a ogni passo del 227

cammino. Ogni volta che fa qualcosa che l'aiuta a progredire o impara qualcosa che gli serve a diventare qualcosa di più, voi danzate e festeggiate l'occasione. Non progredite separatamente; progredite insieme, tenendovi per mano, senza tuttavia fondervi. Voi siete una persona unica, non potete fondervi con qualcun altro. Alcuni di voi conoscono la bella poesia di Gibran sui rapporti umani. Vi citerò qualche frase. Gibran dice: «Cantate e danzate insieme e siate felici, ma fate in modo che ognuno di voi sia anche solo, come sono sole le corde di un liuto, sebbene vibrino alla stessa musica». Non è splendido? Andate da qualcuno e ditegli: «Voglio vibrare con te». «Date i vostri cuori, ma non date uno in custodia all'altro, perché soltanto la mano della Vita può contenere i vostri cuori. State insieme, e tuttavia non troppo vicini perché le colonne del tempio, per sostenere il tempio, stanno separate. La quercia e il cipresso non crescono l'una all'ombra dell'altro.» Non dovete mai crescere all'ombra di un altro. Non potete crescere all'ombra di un altro. Trovate la vostra luce e diventate grandi e meravigliosi e splendidi per quanto è possibile. E condividete, dicendo: «Comunichiamo, parliamo, lasciamo che succeda». Ma non succede all'ombra di un altro. Se vi rimanete, appassite, dimenticate chi siete, perdete voi stessi, e se perdete voi stessi perdete la cosa più essenziale che abbiate. Quindi, siete uno e uno, ma siete due e siete insieme. Tu sei un «io». Lui è un «io», e insieme siete un «noi». In secondo luogo, io penso che i rapporti veramente ricchi d'amore siano qualcosa di celestiale, ma debbano essere messi in pratica sulla terra, e questo a volte è molto difficile. Ora sto preparando un libro sui rapporti d'amore; e ho fatto una quantità enorme di ricerche su quello che considero l'aspetto più dinamico del comportamento umano... e non sono riuscito a trovare molto. Se volete imparare qualcosa sui rapporti d'amore, vi trovate in difficoltà. Sicuro, i rapporti d'amore possono portare sofferenza. Stare insieme e 228

dover rinunciare a qualcosa può arrecarvi sofferenza. Ma potete imparare dalla sofferenza. Mi irrita veramente vedere che, nella nostra società, nessuno vuole soffrire. Appena incominciate a soffrire, incominciate a inghiottire pillole o a ingerire alcool, senza sapere che alcune delle cose più grandi si possono apprendere in uno stato di sofferenza e di disperazione. La differenza sta tutta nel farne l'esperienza, senza aggrapparvisi. È malsano aggrapparsi alla disperazione. Fatene l'esperienza e lasciatela andare. Vi sono grandi momenti in tutte le nostre vite che sono stati momenti di disperazione. Pensateci: se li avete usati bene, vi hanno aiutato a crescere e a progredire e a diventare persone molto più straordinarie. Prima ho detto che siamo alienati l'uno rispetto all'altro. In questa cultura impariamo che quando ci presentano qualcuno si sta impalati e si dice: «Come va?». Se questo non è un fenomeno alienante! Se siete veramente fortunati, qualcuno vi darà la mano e dirà: «Come va?». Di solito è una cosa molto sbrigativa. Non è strano che, anche se tutti abbiamo tanto bisogno l'uno dell'altro, non ci tocchiamo neppure? Nella nostra cultura, a cinque o sei anni, un bambino si sente dire: «Basta con queste sciocchezze, sei un uomo e gli uomini non fanno queste cose». Sono ben lieto di essere cresciuto in una casa dove tutti dicevano: «E chi l'ha detto?». In casa mia nessuno diceva: «Come va?». Quando si apriva la porta ed entrava qualcuno, tutti lo baciavano. Tutti! Nessuno veniva ignorato, tutti venivano toccati. Che esperienza meravigliosa essere toccati con affetto. E ci sono tanti modi di toccare. Conoscete la gioia di entrare in una stanza e di vedere gli altri felici perché ci siete voi? È la cosa più bella. Anziché vedere sulle facce di tutti un'espressione che dice: «Oh, mio Dio, eccolo di nuovo», appare un sorriso di gioia perché siete entrati voi. Portate con voi un'aura che illumina tutta la casa. Conoscete questa sensazione? Non lasciatevela sfuggire! Ciò che mi diverte è che adesso la scienza sta scoprendo 229

che questo contatto comporta una differenza nelle nostre vite, fisiologicamente e psicologicamente. Nella clinica algologica dell'Ucla c'è un certo dottor Bresler. Non scrive più ricette regolamentari; scrive ricette che dicono «quattro abbracci al giorno». La gente dice che è matto. «Oh, no» risponde lui. «Un abbraccio al mattino, uno a pranzo, uno alla sera e uno prima di andare a letto e guarirete.» Il dottor Harold Falk, psichiatra della Fondazione Menninger, ha detto: «Un abbraccio può alleviare la depressione, può consentire alle difese immunitarie dell'organismo di migliorare. Gli abbracci trasmettono una vita nuova ai corpi stanchi, vi fanno sentire più giovani e più vibranti. In famiglia, gli abbracci possono rafforzare i rapporti e ridurre significativamente le tensioni». Helen Colton, nel suo libro Joy of Touching, ha affermato che l'emoglobina nel sangue aumenta significativamente quando venite toccati, abbracciati e coccolati. L'emoglobina è quella componente del sangue che porta l'ossigeno vitale al cuore e al cervello... ed Helen Colton dice che se volete essere sani dovete toccarvi l'un l'altro, dovete amarvi l'un l'altro, dovete abbracciarvi l'un l'altro. Una delle cose più tristi della nostra cultura è che sottolineiamo sproporzionatamente l'aspetto sessuale di un rapporto. È un peccato, perché così ci lasciamo sfuggire la tenerezza, il calore. Il bacio inaspettato, il tocco sulla spalla quando ne avete più bisogno... ecco la gratificazione «sensuale». Jim Sanderson, un giornalista che scrive per il «Los Angeles Times», ha ricevuto di recente una lettera che mi è piaciuta moltissimo. L'aveva inviata una donna che si firmava Margaret. Aveva settantun anni. Una sera suo figlio andò a trovarla ed entrò in casa senza bussare. Che faccia tosta! Entrò in casa e trovò Margaret sul divano, abbracciata a un vecchio amico. Sapete che il figlio inorridì nel vedere sua madre baciare un uomo sul divano, al punto che girò sui tacchi, disse: «È disgustoso» e se ne andò. Che somaro! E quindi la povera Margaret scriveva: «Ho fatto male?». E 230

sapete che cosa le rispose Sanderson? Devo leggervelo perché è molto bello. Rispose: Le cose migliori della vita, Margaret, continuano per sempre. Ogni essere umano ha bisogno di conversazione e di amicizia. Perché presumiamo che le esigenze degli anziani finiscano lì? Il corpo può cigolare un pochino, ma non esiste l'arteriosclerosi delle emozioni. Gli anziani sono letteralmente assetati di affetto e di premure e di contatti fisici, esattamente come chiunque altro. I figli adulti e gli altri familiari forniscono raramente qualcosa di più delle razioni da fame... qualche raro bacio. Sappiamo che il sesso è perfettamente possibile a qualunque età, se c'è la salute, ma anche questo non sembra appropriato per varie ragioni, perché non dovrebbe esserci un po' di romanticismo dell'età inoltrata, un po' d'amore, un piccolo contatto innocente, un bacio rubato, un massaggio gentile, una carezza sulla guancia, una mano che ne stringe un'altra? Molte donne della sua età, Margaret, spesso avvertono fremiti strani e inquietanti, sensazioni che non affioravano da anni. Questa è la forza vitale che viene in vostro soccorso per ricordarvi che siete un maschio o una femmina, e non soltanto un anziano. Se ne rallegri, Margaret: di brutte notizie ne ha avute già anche troppe.

Non finite mai di sentire il bisogno di essere riconosciuti in cento modi diversi. I rapporti devono essere vissuti nel presente. Dovete vivere ora, dovete godervi la vita ora, dovete fare qualcosa per gli altri ora. Una delle cose più tristi che ho sentito in quest'ultimo anno è stato quando a un mio collega è morta all'improvviso la moglie giovanissima. La morte è sorprendentemente democratica, e non vi dice mai quando sta per arrivare. Sappiamo soltanto che un giorno verrà. Sarete pronti ad accoglierla se vivrete ogni momento. Le sole persone che gridano e urlano al momento della morte sono quelle che non hanno mai vissuto. Se vivete ora, quando verrà la morte le direte: «Fatti avanti, chi ha paura di te?». Il mio collega mi disse che sua moglie aveva sempre desiderato un abito di raso rosso. Mi disse: «Ho sempre pensato che fosse una cosa stupida e di cattivo gusto». E poi mi disse, con le lacrime agli occhi: «Credi che sarebbe una bella cosa se la seppellissi vestita di un abito di raso rosso?». Provai l'impulso di rispondergli come avrebbe fatto mia madre: «Stupido!». Se vostra moglie desidera un abito di raso rosso, compra231

teglielo adesso! Non aspettate di ornare di rose la sua bara. Entrate, un giorno, dove c'è lei viva, e inondatela di rose. Buttategliele addosso. Noi continuiamo a rimandare tutto a domani, soprattutto con quelli che amiamo. Che importa quello «che dirà la gente»? In realtà, la gente non se ne cura. «È sciocco che io le dica che l'amo. Lei lo sa.» Ne siete sicuri? E voi vi stancate mai di sentire qualcuno che vi dice: «Ti amo»? Vi stancate mai di sollevare la tazza del caffè e di trovarci sotto un bigliettino che dice: «Sei straordinario»? Vi stancate mai di ricevere una cartolina, non per il vostro compleanno o per il giorno di san Valentino, ma una cartolina che dice: «La mia vita è molto più ricca perché ci sei tu»? Il momento per comprare quel vestito è adesso. Il momento per regalare i fiori è adesso. Il momento per fare quella telefonata è adesso. Il momento per scrivere il bigliettino è adesso. Il momento per tendere le mani e toccare è adesso. Il momento per dire: «Sei importante per me; qualche volta può sembrare che lo dimentichi, ma non è vero. La mia vita sarebbe vuota senza di te» è adesso. Perdere una persona cara è un modo doloroso per imparare che l'amore si vive nel presente. È un modo doloroso per imparare che dovete comprare l'abito ora, o scrivere il biglietto ora. I rapporti d'amore dipendono da comunicazioni aperte, sincere, belle. Non dovete mai avere una breve discussione. Mai! Il tipo peggiore di discussione al mondo è quando entrate e chiedete: «Che cosa c'è, tesoro?». «Niente.» «Oh, andiamo, c'è qualcosa.» «No, non c'è niente.» Io ho trovato un metodo meraviglioso per fare in modo che la prossima discussione continui. Dite: «Oh, ne sono felice, mi sembrava davvero che ci fosse qualcosa, e sono felice di sapere che non c'è niente. Ciao». La volta dopo, se chiederete: «Che cosa c'è?», ve lo diranno. Noi non ascoltiamo mai noi stessi e quello che diciamo. Dobbiamo ascoltare il modo in cui diciamo le cose imparate dagli altri. È come quando un insegnante dice ai bam232

bini: «Stiamo aspettando Sally!». Non è sorprendente che Sally pensi: «E tu aspetta, vecchio scocciatore!». Ma noi diciamo cose altrettanto disastrose. Ascoltate voi stessi dire, per esempio: «Il guaio, con te, è che...». Di solito, il guaio, con me, sei tu. «Uno di questi giorni te ne pentirai.» Oh, no, non mi pentirò affatto. «Te l'ho detto ancora una volta, benché te l'avessi già detto mille volte.» E allora perché me lo dici ancora? «Ti ho dato gli anni migliori della mia vita.» Se questi sono gli anni migliori, che cosa posso aspettarmi dal futuro? «Fai quello che vuoi, si tratta della tua vita.» Quindi vuoi lasciare che sia io a viverla da solo. Insieme. Da «io» e «me» a «noi». I vostri rapporti saranno vivi e vitali quanto lo siete voi. Se siete morti, i vostri rapporti sono morti. E se i vostri rapporti sono noiosi e inadeguati, lo sono perché voi siete noiosi e inadeguati. Scuotetevi! Rendetevi conto che il mondo e la gente non sono stati creati esclusivamente per voi. Cercate di mettere a suo agio qualcun altro. Partite dalla presunzione che gli altri siano buoni fino a quando non scoprirete veramente e specificamente che non è così. E anche allora, sappiate che sono potenzialmente in grado di cambiare e che potete aiutarli in questo. Esercitatevi a usare e a pensare «noi» anziché «io» e «me». Amate intensamente molte cose perché la vostra misura come individuo ricco d'amore è la profondità con cui amate tante cose. Ricordate che tutto cambia, soprattutto i rapporti umani, e che per mantenerli noi dobbiamo cambiare con essi. Effettuate il cambiamento nel progresso. Assicuratevi di progredire e di crescere costantemente insieme ma separatamente. Cercate persone sane che si ricordino ancora come si fa a ridere, ad amare e a piangere. Ricordate che l'infelicità non soltanto vuole compagnia, ma la esige. Non arrendetevi. L'anno scorso ho sentito parlare il Dalai Lama. Una delle cose che disse fu molto toccante. Disse: «Noi viviamo molto vicini. Quindi, il nostro primo scopo nella vita è aiutare gli altri». Poi sorrise e aggiunse: «E se non potete aiutarli, alme233

no non fate loro del male». Che cosa magica sarebbe se, nell'ambito dei nostri rapporti e del nostro essere insieme, ognuno s'impegnasse ad aiutare gli altri a crescere e progredire o almeno a non fare del male agli altri! Un poeta italiano, Quasimodo, premio Nobel, scrisse una poesia che dice: «Ognuno sta solo sul cuor della terra / trafitto da un raggio di sole: / ed è subito sera». La poesia ha il titolo Ed è subito sera. Se state insieme a me, possiamo condividere la luce del sole e, credetemi, la sera non sembrerà più tanto spaventosa.

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L'io che sconfigge se stesso

Questa sera vorrei parlarvi di una cosa che per me è molto importante. Incontro gente di continuo, e di continuo lavoro con la gente... e mi sto preoccupando veramente, perché quelli che incontro hanno paura di mostrare la loro meraviglia, di mostrare la loro bellezza. Dubitano continuamente di essere meravigliosi, dubitano della loro bellezza interiore. Noi, individui ricchi d'amore, dobbiamo esprimere questo amore e questo affetto, portarlo allo scoperto e non aver paura. Perciò vorrei parlare a coloro che non sono ancora sicuri e sono reticenti ed esitano a essere tutto ciò che sono. Ho scelto come tema di questa conversazione «L'io che sconfigge se stesso». È sorprendente... forse non ve ne rendete conto, ma gran parte di ciò che siete non è, perché letteralmente siete voi a porvi come ostacolo sulla strada del vostro divenire. Vi supplico: toglietevi dalla vostra strada! Volate, la vita e l'amore sono a vostra disposizione! Non dovete far altro che assumervi la responsabilità e afferrarli. Ma ci sono tanti che non si fidano di loro stessi. Non credono in se stessi. Non hanno neppure simpatia per se stessi. Di recente mi trovavo nel mio ufficio... molti di voi sanno che nei miei corsi molte cose sono volontariamente obbligatorie. E una delle cose volontariamente obbligatorie è che tutti vengano a trovarmi. Non 235

è chiedere troppo. Ma la gente ha paura di me e entra nel mio ufficio tutta tremante. Venne una ragazza incantevole che si sedette davanti a me, e io dissi: «Parlami di te. Staremo insieme per sedici settimane, la durata del corso, e non voglio che tu sia un'estranea. Parlami di te, e poi ti parlerò di me». «Non ho niente da dire.» «Come sarebbe? Parlami di tutte le tue meraviglie.» «Meraviglie?» disse. Poi fece una lunga pausa e disse: «Ecco, sono troppo bassa». Vedete, io non l'avevo notato prima che lei me lo dicesse. Allora pensai: Bene, controbatterò con qualcosa di bello. Le dissi: «Sì, ma sei un'ottima studentessa. Sai che hai avuto un 10 a metà corso?». «Pura fortuna.» Cosa pensate di questa affermazione? Io dissi: «Ma sai di essere unica al mondo...». «Io no! Non sono unica. La finisca con queste sciocchezze! So di non essere bella. Nessuno mi cerca, e mi sento sempre sola.» lo pensai: Se davvero crede di essere bassa e brutta e stupida e di non avere nulla da dare, perché qualcuno dovrebbe andare a cercarla? Mi misi d'impegno. Quando uscì dal mio ufficio, era più alta di dieci centimetri, e se mai la vedrò farsi di nuovo piccola piccola, povera lei! Jack Paar ha detto una cosa meravigliosa: «La mia vita mi sembra un lungo percorso a ostacoli, e l'ostacolo principale sono io». Non è grandioso? Voglio leggervi qualcosa che amo molto e che servirà a chiarirci le idee. È Locked In, ed è stato scritto da un uomo che si chiama Gustavson. Ecco che cosa dice: Per tutta la vita ho vissuto in una noce di cocco. Non è un posto meraviglioso per viverci? C'era poco spazio ed era buio, soprattutto la mattina quando dovevo farmi la barba. Ma ciò che mi dispiaceva di più era che non avevo modo di 236

mettermi in contatto con il mondo esterno. Se nessuno avesse trovato la noce di cocco o non l'avesse aperta, sarei stato condannato a passare tutta la mia vita lì dentro. Forse a morire lì dentro. Morii in quella noce di cocco. Dopo un paio d'anni la trovarono e l'aprirono; dentro trovarono me, rimpicciolito e sgretolato. «Che peccato» dissero. «Se l'avessimo trovato prima, forse avremmo potuto salvarlo. Forse ce ne sono altri, chiusi dentro come lui.» E andarono in giro e aprirono tutte le altre noci di cocco che trovarono. Ma fu inutile. Fu tempo sprecato. Di persone che scelgono di vivere in una noce di cocco ce n'è una su un milione. Non potei dir loro che ho un cognato che vive in una ghianda.

Non dobbiamo vivere nelle noci di cocco. Non dobbiamo vivere nelle ghiande. C'è un mondo intero da apprezzare. Ci sono cose fantastiche da vedere e da toccare e da desiderare e da agognare e da ottenere. Voi siete un dono incredibile, e siete vostri! Non siete stati creati per vivere la vostra vita in una ghianda o in una noce di cocco. Sarebbe un gran peccato vivere al disotto delle vostre possibilità. Amo molto Anime in fiamme, un libro di Weisel nel quale c'è un'affermazione bellissima. Dice che quando morirete e andrete alla presenza del vostro Creatore, non vi chiederà perché non siete diventati un messia o perché non avete scoperto il rimedio per il cancro. Vi chiederà soltanto perché non siete diventati voi. Perché non siete diventati tutto ciò che siete. Quindi finitela con l'autolesionismo. Quante volte avete sentito voi stessi dire: «Non sono niente»? Ebbene, voi siete niente se pensate di essere niente. Mia madre mi prendeva sempre in disparte, ogni sera, e mi diceva: «Felice, un giorno tu diventerai un grand'uomo». Io la guardavo e chiedevo: «Davvero?». E lei diceva: «Aspetta e vedrai». Faceva così con tutti i miei fratelli e le mie sorelle. Qualche volta mi rattristo moltissimo, perché in un supermercato sento una madre che, con il suo bambino al fianco, parla con un'amica e le dice: «Questo è quello stupido; sua sorella è il genio della famiglia!». Come se il bambino fosse sordo! È una profezia che si 237

realizzerà. Il bambino ascolta, e che cosa sente? Che è stupido. Si diventa ciò che si crede di essere. In casa mia ho sempre sentito dire: «Perché dici che non puoi...? Su, vai e fallo!». In un modo o nell'altro, trovavo sempre il modo di farlo. E continuo ancora adesso! A volte qualcuno mi presenta un programma e io penso: non ce la faccio. E alla fine della giornata, l'ho fatto! L'ho fatto. Perché dite che non potete? «Non voglio.» Ecco un vicolo cieco. «Non voglio.» Se volevamo prendere un manrovescio da mio padre, non dovevamo far altro che dire: «Non voglio». Non vuoi? PAM! Io amo la parola «sì». Avete mai pensato com'è bella questa parola? A volte chiedo alla gente: «Qual è la parola più bella del mondo?». Per me è «sì». Dà persino il senso di durare. Continua all'infinito: Sssssssssì. «No» è la fine. Quando dite «no», chiudete le finestre, chiudete le porte, e vi trovate prigionieri nella vostra noce di cocco. Se non potete sopportare «sì», se vi fa troppa paura, provate con «forse». Almeno c'è una possibilità! «Non voglio» è triste. Poi sento dire: «Così stanno le cose e non c'è niente da fare». Vedete, le cose non stanno così. C'è sempre qualcosa che si può fare. Provate. Detesto la frase: «Sono troppo vecchio per questo». Noi abbiamo l'ossessione dell'età. Non dirò mai a nessuno quanti anni ho. Io credo che sia una mania. È malsano! Perché nel momento in cui vi affibbiano un'età, voi dovete comportarvi in un dato modo. Se avete sessant'anni, non dovete andare a ballare nel parco tra le foglie. Chi l'ha detto? I giornalisti mi chiedono di continuo: «Buscaglia, che età ha?». E io dico: «Sotto certi punti di vista, non sono ancora nato. Sotto certi altri, sono un adolescente e lotto e mi ribello e scateno un pandemonio. E sotto certi altri punti di vista sono un saggio e ho centonovant'anni. Quindi, come potete chiedermelo? Cosa c'entrano gli anni con la mia età?». Non dite mai: «Sono 238

troppo vecchio per questo». Non siete mai troppo vecchi per niente! Perché l'età è nella vostra mente, non altrove. Esiste tutto un armamentario di cui si serve l'autolesionista. «È un mondo dove cane mangia cane.» Non so voi, ma io non ho mai saputo che un cane abbia mai mangiato un altro cane. E poi c'è questa: «Ho già sofferto una volta, e non mi fiderò mai più». Che cos'è una piccola sofferenza? Potete imparare dal dolore. Credete che tutto debba essere per tutta la vita su un livello altissimo di felicità? Questo lo impariamo dai mass-media. Accendiamo il televisore e vediamo qualcuno che va in estasi per i fiocchi di granoturco. Impazzisce letteralmente. L'altro giorno ho visto qualcosa che non riuscivo a credere. C'era una donna - e credo che sia degradante per tutte le donne - che impazziva per un nuovo prodotto chiamato «Mille Sciacquoni». Era lì nel suo bagno e diceva: «Oh, io adoro questo prodotto!». E: «Ora la mia vita è completa!». Buon Dio, se la vostra vita dipende da «Mille Sciacquoni», siete messi davvero male! Noi ci chiediamo: se costoro vanno in estasi per cose semplicissime come un prodotto che pulisce il water, che cos'ho che non va? Anch'io dovrei essere sempre felice. Non c'è nulla di male in un po' di sofferenza. Io ho imparato molte cose meravigliose, nel corso degli anni, in situazioni dolorose. Anzi, qualche volta è necessaria la morte per insegnarci a capire la vita; è necessaria l'infelicità per insegnarci a capire la felicità. Perciò abbracciatela, quando viene. Dite che fa parte della vita. Prendetela tra le braccia. Fatene l'esperienza! Imparate a sentirla. Non rinnegatela. Forse è doloroso. Dite: è giusto che sia doloroso. Urlate, gridate, addentate le pareti. Fate esperienza del dolore. Piangete. Battete i pugni sul tavolo! Arrabbiatevi! Sfogatevi. E poi dimenticate. Altrimenti ve lo terrete dentro per sempre. Quando vi tenete dentro la sofferenza, poi ne subite le conseguenze. Vi ritrovate con l'ulcera e le emicranie. 239

Queste idee che ci sconfiggono, queste idee che ci limitano e che ci fanno sentire soli. Sono idee che ci annoiano. Uccidono la spontaneità e la sorpresa. Sono anti-vita. Sono antiprogresso e sono anti-cambiamento. Buttiamole via. Dove le abbiamo imparate? Qualche volta le impariamo da coloro che amiamo di più: dalla nostra famiglia. Se volete imparare la crescita e il progresso personale e la dignità, per incominciare non c'è un posto migliore di casa vostra. Spesso dimostriamo così poco affetto a coloro che amiamo di più! Facciamo complimenti alla gente in ufficio, ma non ai nostri figli, alle nostre mogli, ai nostri mariti. Non lasciate mai passare un giorno senza vedere qualcosa di bello in coloro che vi circondano. E diteglielo! Forse quel giorno sarà difficile. Dovrete cercare. Ma trovate qualcosa di bello e dite: «Questo è veramente bello». «Questo è ben fatto.» Ripeto sempre agli insegnanti che per i bambini è impossibile capacitarsi di aver sbagliato quarantanove volte su cinquanta. Perché non dite loro: «Johnny, hai fatto una cosa giusta». Bravo! «Domani saranno due!» Ricordo che mia nonna diceva sempre: «Si prendono più mosche con il miele che con l'aceto». Quindi, perché dobbiamo pensare sempre all'aceto? Se mi vuoi bene, dimmi qualcosa di gentile. D'accordo, sono una bestia. D'accordo, sono stupido. Ma non c'è qualcosa in me che sia apprezzabile? Pensateci. È una dinamica molto strana, eppure è vera. Le persone che amiamo e che dovremmo aiutare di più perché le amiamo sono molto spesso quelle alle quali diciamo ben poco. È un peccato. Ho ricevuto di recente una lettera da una donna che era con me alle elementari. Mi aveva visto in una trasmissione televisiva. Ecco la cosa più bella, quando si compare in televisione: saltano fuori tutti i vostri vecchi amici. Mi ha scritto, e ha incominciato la lettera così: «Poteva essercene uno solo, di matti come te». E poi: «Anche da bambino eri matto, e vedo che lo sei anche da adulto. E di sicuro può esserci uno solo 240

che si chiama Felice Leonardo Buscaglia. Sai che cosa ricordo di te, Felice?». E ha evocato dal passato un episodio che non ricordavo più. Ha scritto: «Ricordo che una volta ti stavano tutti intorno e ti prendevano in giro perché portavi il cappotto di tua sorella. Era inverno e tu portavi il cappotto di tua sorella». All'improvviso ho ricordato, e ho ricordato anche come eravamo poveri. E ricordo che era una giornata freddissima, e che mia madre prese il cappotto di mia sorella. Aveva un colletto di pelo e si abbottonava dalla parte sbagliata. Me lo fece indossare. Io dissi: «Mamma, non voglio...». Mia madre, ve l'ho detto, era una meravigliosa consulente non autoritaria. «Stai zitto!» disse. «Sarai ben contento di avere qualcosa che ti tiene caldo. Non pensi a quelli che non hanno neppure un cappotto che li tiene caldi? Cosa importa se è di tua sorella? Se lo porti con orgoglio, farai una figura bellissima.» Non andò affatto così. Ma io avevo dimenticato l'episodio. Pensandoci in retrospettiva, la cosa straordinaria non è il cappotto o la sofferenza e la derisione - «Hai un cappotto da bambina» - o altro. Quello che ricordo sono le parole di mia madre: «Se lo porti con orgoglio...» e «Ci sono tanti che non hanno il cappotto». Questo significa imparare qualcosa di vitale e di positivo per la vita, sapete. Dobbiamo farlo, perché a renderci come siamo sono soprattutto coloro che ci stanno intorno. È così ogni giorno. Lo ripeto continuamente a tutti. Mi dicono: «Oh, amare è così difficile». E io rispondo: «Non sapete quanto è facile. Amare è semplice. Siamo noi a essere complicati». Amare significa dire a una cameriera stanca e stralunata: «Grazie, va tutto benissimo». Mi è capitato recentemente, in Arizona, di mangiare in una vera posada messicana. Era uno di quei posti dove, quando entri, ti senti sopraffare dall'odore. Persino i topi avevano disertato. Ma si mangiava veramente bene. Io avevo ordinato braciole 241

di maiale, e qualcuno mi ha detto: «Sei matto? Vuoi morire? Nessuno mangia braciole di maiale in un posto simile». Io ho detto: «Ma l'odore è così buono!». E c'era qualcuno, in fondo al locale, che le stava mangiando. Un piatto enorme! Erano braciole colossali! E così ho ordinato le braciole di maiale, ed erano ottime. Quando le ho finite, ho detto alla cameriera: «Vorrei parlare con il cuoco». E lei: «Perché, che cosa non andava bene?». E io: «No, voglio dirgli che erano buonissime». Lei ha detto: «Oh, mio Dio. Non l'ha mai fatto nessuno». E siamo andati in cucina, e là c'era il cuoco tutto sudato. Era un omone grande e grosso. Ha chiesto: «Cosa c'è?». E io: «Niente. Le braciole di maiale erano fantastiche, e le patate, poi! Erano veramente meravigliose. Ho mangiato in alcuni dei migliori ristoranti del mondo, ma queste erano altrettanto buone». Lui mi ha guardato come se pensasse: «Dio, questo è ammattito». E poi sapete che cosa mi ha detto? Mi ha detto: «Ne vuole un'altra porzione?». Non è bellissimo? Questo è amore. Ecco che cosa significa. Significa dividere la gioia con la gente. Quando vedete qualcosa di bello, andate e ditelo. Quando vedete qualcuno che è adorabile, ditegli: «Sei adorabile». E poi scappate via! Perché quelli si prenderanno una paura d'inferno. Una delle esperienze più curiose che mi siano mai capitate... forse l'ho già raccontata ad alcuni di voi, ma mi è venuta in mente in questo momento ed è un esempio bellissimo. Mi è capitato di vedere nel campus una ragazza bellissima. Aveva magnifici capelli d'oro che ondeggiavano al sole. Erano straordinari. Le sono passato accanto e ho pensato: Che capelli splendidi ha questa ragazza. E poi ho pensato: Devo dirglielo. Ho fatto dietro front e sono tornato verso di lei. Lei si è voltata e, vedendomi lì vicino, sembrava che volesse gridare. Io ho detto: «Non devi aver paura. Voglio soltanto 242

dirti che hai capelli meravigliosi, e vederli così al sole è un prodigio. Mi è piaciuto veramente. Ti ringrazio». Poi mi sono allontanato lentamente, e a poco a poco lei s'è resa conto che qualcuno le aveva fatto un complimento. E ha cominciato a sorridere. Quando sono arrivato all'ingresso dell'università, mi ha fatto addirittura un cenno con la mano. Mi è parso che si tenesse ancora più eretta, più vicina al sole. Cosa c'è di difficile in tutto questo? Sono occasioni che ci capitano ogni giorno, e noi non ne approfittiamo. Cominciamo da quelli che ci stanno intorno. Insegnamo loro il rispetto per se stessi, e facciamo in modo che quel giorno ognuno abbia il suo bel complimento. Mi dicono: «Oh, Buscaglia, ma tutto questo è artificioso». Non è vero, se ci pensate bene. Non ditemi che la gente intorno a voi non merita ogni tanto un complimento. Cosa c'è di artificioso in questo? Mia madre, ricordo, ci teneva a che elogiassimo la sua cucina. E tutti noi dicevamo: «Oh, mamma, questo è meraviglioso!». E lei diceva: «Lo so, lo so, non c'è bisogno che me lo diciate». Ma se non lo avessimo detto... Non fa mai male a nessuno sentirsi dire che è amato, non fa male dire a qualcuno: «Ti amo». Tanti, soprattutto gli uomini, dicono: «Oh, lei lo sa che l'amo, non è necessario che glielo dica». Oh, davvero? Quando lei vi pianterà, forse vi domanderete perché. È così semplice dire: «Ti amo». E se non sapete dirlo, scrivetelo. Se non sapete scriverlo, ballatelo. Ma ditelo! E ditelo molte volte. Non ci si stanca mai di ascoltarlo. Qualcuno potrà rispondervi: «Oh, non importa che tu me lo dica. Lo so...». Ma è così bello sentirselo dire. Le idee autolesionistiche le impariamo a scuola, non soltanto in casa. Di recente ho parlato con un bambino. Il dialogo si è svolto così: «Questo non sono capace di farlo.» 243

E io ho chiesto: «Come fai a saperlo?». E lui: «Perché sono stupido». Allora io ho detto: «Come fai a sapere che sei stupido?». «Perché me l'ha detto l'insegnante.» Che speranza c'è quando gli insegnanti vi dicono che siete stupidi? Dovrebbero invece dire: «Tu hai il potenziale. Qualcosa c'è. Lo troveremo insieme». La nostra cultura c'insegna continuamente a essere sospettosi. A non fidarci. A non credere. Ad aver paura di tutto! Non facciamo altro che costruire muri sempre più alti per proteggerci gli uni dagli altri! Io non vorrò mai essere protetto da voi. Voglio tuffarmi in mezzo a voi. Voglio conoscervi. Non voglio essere protetto. Mi fido. E se lungo la strada incontrerò uno o due di voi che mi prenderanno a sberle, andrà bene lo stesso. Ma non voglio perdervi. Mai. È questo che mi fa paura più di ogni altra cosa. La nostra cultura continua a ripeterci: «Non puoi fidarti di quello che ti sta accanto». Non conosciamo neppure i nostri vicini. Ed è un peccato. Ai nostri figli diciamo che anche loro non devono fidarsi. Ci stiamo separando sempre di più gli uni dagli altri. È ora che incominciamo a costruire piccoli ponti. Molti anni fa, decisi di vedere com'era il resto del mondo. Perciò vendetti tutto. Tutte le cose che secondo la gente sono essenziali. L'auto, i vestiti, tutto. Misi insieme il denaro necessario per andare in Asia a vedere l'altra metà del mondo della quale non sapevo niente. Là piangevano? Si abbracciavano? Erano come me? Avevo bisogno di saperlo. Avevo un desiderio insaziabile di andare a sedermi in un piccolo buri in qualche angolo dell'Indonesia. Volevo scalare una montagna del Nepal. E così, anche se tutti mi dicevano che ero pazzo e che al mio ritorno mi sarei trovato senza lavoro, io rispondevo: «E allora? Sopravvivrò». E sono sopravvissuto. Capite? 244

Ho visitato posti come Bali. Ricordo l'arrivo a Bali. Ero nella mia casetta da meno di due ore quando sono capitate almeno sette o otto persone. Mi portarono regali: un drappo di batik, fiori per abbellire la casa. Doni! Io non avevo nulla da dar loro. E naturalmente, appartenendo alla mia cultura, pensavo che si debba sempre dare dono per dono. Quando ci ripenso, mi dico: «Che pazzo sei stato. Regalare magliette a quella gente che portava bellissimi batik indonesiani!». E poi mi dissero che ogni sera, verso le sei o le sette, tutti gli abitanti del villaggio scendevano al fiume e facevano il bagno insieme. Era il momento della comunità. La nonna e il nonno e i bambini piccoli. Erano tutti a fare il bagno nel fiume. Sapete chi era l'unica persona ad avere un problema? IO! Me ne stavo seduto lì, tutto imbarazzato. Mi guardarono come per chiedermi: Cosa ti prende? Perché non vieni? Ricordo che era la vigilia di Natale. Molti di loro non avevano mai sentito parlare del Natale. Pensai che sarebbe stato bello dirglielo. Dissi: «È la vigilia di Natale». E loro: «Che cos'è la vigilia di Natale?». Così raccontai la storia del Natale. Quando vi trovate in un Paese non cristiano e raccontate questa storia, è ancora più straordinaria. Mi ascoltarono attentamente. Gli piacque moltissimo. Pensavano: «È magnifica!». Però c'era una cosa che proprio non riuscivano a capire... è molto interessante. «Perché non vollero accettare Maria nella locanda?» «Ecco, sapete, nella locanda non c'era posto.» «Quanto posto occupa una donna? C'è sempre posto in una locanda.» Maria dovette partorire in una mangiatoia. Vi giuro, l'ultima cosa che uno dei bambini mi disse quando partii per Giakarta fu: «Ancora non ho capito perché non l'abbiano fatta entrare». Ci sono persone che non conoscono i loro vicini. E abitano in quella casa da dodici anni. Qualcuno si presenta alla porta 245

e abbiamo paura di aprire. Che cosa ci sta succedendo? La cosa più triste è che quando acquisiamo queste convinzioni e queste assuefazioni, allora tutto ciò che impariamo di nuovo lo filtriamo attraverso questi sospetti e queste paure e non cambiamo. Essi ci impediscono di diventare ciò che siamo. Dovete abbandonarli, perché se non lo farete il vostro mondo sarà troppo limitato, pieno di sospetto e di brutture. Quando ero adolescente, dato che ero bilingue, accompagnavo i turisti americani in Italia. Così potevo andare a trovare i miei parenti, con tutte le spese pagate. Visitavo posti come Venezia. È bellissima. Non perdetevela. Portavo i turisti in meravigliosi posti, non soltanto sul Canal Grande, ma anche nei piccoli rii nascosti. A Venezia c'è un'isoletta bellissima, e ci si arriva con il vaporetto. Non prendete la gondola. Costa troppo. Il vaporetto è come un autobus del mare e ciuf, ciuf-ciuf, arriva fino all'isola. Portavo là i turisti, e loro si aggiravano molto impacciati e si guardavano intorno. Uno di loro mi disse una volta: «Venezia ha bisogno di una buona riverniciatura». Sapete come la chiamano quell'isola, gli italiani? L'isola dell'arcobaleno. Il colore è sbiadito, ha assunto toni pastello. Si scrosta dai muri. Ma si rispecchia nell'acqua, porpora e giallo e verde. Loro non erano preparati a vedere la bellezza. Vedevano soltanto che Venezia aveva bisogno di una buona riverniciatura. Nell'Italia meridionale c'è un posto chiamato Positano, dove c'è una scala interminabile. La chiamano Scalinatella. Sono migliaia di gradini, e io portavo i miei turisti giù per quella scala. Scendevano a passo pesante. Poi, a metà della discesa, dicevano: «Ma perché questa gente non capisce che qui servirebbe una scala mobile?». Dobbiamo stare attenti a non portare con noi le nostre assuefazioni e i nostri preconcetti, altrimenti vedremo soltanto la bruttezza. Vediamo ciò che noi proiettiamo. Dovunque guardiamo, ci insospettiamo. Abbiamo paura. E che cosa facciamo? Ci isoliamo dalla 246

bellezza e dalla vita. Smettetela di lavorare contro voi stessi. Allontanatevi da questo io congelato. Ricordate che ognuno di voi è una cosa sacra. Voi siete il dono di Dio. E allora, nascete! Venite fuori. Liberatevi di tutte quelle idee che vi sconfiggono, le idee sugli altri che vi impediscono di sentirvi vicini a loro. Imparate di nuovo a fidarvi. Imparate a perdonare. Imparate a credere che io sono simile a voi più di quanto sia diverso da voi. Io non so dove mi collochiate ma, credetemi, sono esattamente dove siete voi. Sono altrettanto confuso. Sono altrettanto solo. Sono altrettanto disperato. Piango spesso come voi. Non ho più risposte di quante ne abbiate voi. Ho semplicemente smesso di fare domande. Sono semplicemente coinvolto nel processo. Non chiedo più risposte. Penso che vivere è meraviglioso. E tanti mi scrivono e mi chiedono: Perché c'è la morte? Perché c'è la sofferenza? Perché i bambini devono morire? Perché dobbiamo essere disperati? E io rispondo: «Come diavolo posso saperlo?». Uomini molto più grandi di me si sono rivolti queste domande per secoli. Ricordo che tanti, tanti anni fa, qualcuno disse che a volte siamo così presi dalle domande che non viviamo le risposte. Io sono impegnato attivamente nella vita. Voglio fare l'esperienza di tutto! Voglio conoscere tutto. Voglio fare esperienza di tutto ciò che è la vita. Non ho paura di voi. Perché so che in fondo, sotto la vernice superficiale che avete creato (la vernice che sconfigge l'io), c'è una persona esattamente come me, che s'interroga, che ha paura, che è sola, che è felice, che vuole vivere, che vuole conoscere se stessa prima di morire. Ma noi ce ne andiamo in giro facendo finta di aver capito tutto, di essere sicuri, di non aver bisogno di nulla, quando sarebbe tanto più semplice dire: «Io sono vulnerabile. Commetto errori. Sono imperfetto. Ho paura. In altre parole, sono un essere umano. Ed è la cosa più preziosa. E tutto ciò che voglio essere». 247

Qualcuno ha condiviso questo con me, qualche anno fa, e mi piace moltissimo. Sentite che cosa scrisse: Voglio farti sapere quanto sei importante per me, che puoi essere il creatore della persona che è in me, se vuoi. Tu solo puoi abbattere il muro dietro il quale sto tremando. Tu solo puoi vedere dietro la mia maschera. Tu solo puoi liberarmi dal mio mondo d'ombra, fatto di panico, d'incertezza e di solitudine. Perciò, ti prego, non passare oltre. So che per te non sarà facile. La convinzione di non valere nulla erige muri solidi. E più ti avvicini a me, e più, forse, io reagirò ciecamente. Vedi, a quanto sembra io combatto contro ciò di cui più ho bisogno.

Non è straordinario? Ma mi hanno detto che l'amore è più forte di ogni muraglia, e in questo sta la mia sola speranza. Perciò abbatti questi muri con le tue mani salde ma gentili, perché ciò che vi è d'infantile in me è molto sensibile e non può crescere dietro questi muri. Perciò non desistere. Ho bisogno di te.

Siamo simili assai più di quanto siamo diversi. Questo lo sentiamo tutti. Dobbiamo costruire questi ponti tra voi e me, perché abbiamo bisogno gli uni degli altri. E il vero «voi di voi» può crescere veramente solo se resistono tutti i miei ponti, o i ponti di qualcun altro. Tutti noi sentiamo la stessa cosa. E smettetela di non fidarvi l'uno dell'altro. È un rischio, naturalmente. Ma tutto è un rischio! L'altra sera, stavo uscendo dall'ufficio, e nel parcheggio c'era una donna. Era accaduto qualcosa di terribile nel parcheggio. La donna era alle prese con una gomma da cambiare. Quando l'ho vista, ho buttato la mia borsa in macchina e sono andato da lei e le ho detto: «Posso aiutarla?». Si è comportata come se volessi picchiarla! Ha detto: «No, no, posso fare da sola, grazie». Io ho detto: «Davvero, vorrei aiutarla». «No. Grazie. No!» Io ho pensato: Santo cielo, che razza di mondo è questo se quando si avvicina qualcuno che ti dice: «Posso aiutarti?» ti senti spaventato? Dobbiamo allontanarci da queste idee disastrose, dalla convinzione di non essere abbastanza saggi per sapere che cosa va meglio per noi. Imparate di nuovo ad ascoltare le vostre voci e a fidarvi di voi stessi. Nessuno sa meglio di voi 248

quel che va bene per voi. Mio padre diceva sempre: «Se non decidi della tua vita, Felice, qualcun altro la deciderà per te». Ed è vero. Se continuate a non credere di avere la capacità d'essere il voi stesso migliore, si farà avanti qualcun altro, e allora sarete veramente perduti. Non giocate a «seguire il guru». Oh, santo cielo, siamo sempre alla scena «Se io seguo ciò che dice questa persona, mi andrà tutto bene». Sapete cosa succederà se seguite quella persona? Diventerete quella persona. E soltanto quella può essere ciò che è. E voi vi perderete. Gli insegnanti e i guru possono essere guide, ma soltanto voi potete compiere il viaggio. Loro possono soltanto mostrarvi le alternative. E diffidate di chi dice: «Questa è la via». Ci sono molte vie. E la vostra è valida quanto la mia, purché tutte portino al bene, alla bontà, alla bellezza, al progresso e non alla distruzione. Ascoltate voi stessi, fidatevi di voi stessi. Molti di voi scrivono a questa o quella rubrica per chiedere che cosa devono fare. Come fa quella persona a saperlo? Ogni volta che qualcuno mi scrive: «Che cosa devo fare?», rispondo: «Ascolti se stesso. Le risposte per lei sono in lei. Perché in lei c'è già il se stesso perfetto. E io non so che cos'è. Ma se si metterà in contatto con quel se stesso, lei lo saprà». Ascoltate ciò che sapete e agite di conseguenza. Imparate a fidarvi delle vostre voci. Imparate ad ascoltare. Imparate a credere. Provate! Non saprete mai, se non lo fate. E quando lo fate, allora sapete che siete in armonia con voi stessi e che ciò che fate va bene per voi. Non quello che vi ha detto Emily Post o Ann Landers. È divertente. È come leggere i Peanuts. Forse fareste meglio a leggere i Peanuts; almeno danno qualche buon consiglio. Sospettate di coloro che vi dicono di avere le soluzioni per voi. Nessuno ha le soluzioni per voi. Rallegratevi se hanno le soluzioni per loro stessi. Ma assumetevi la piena responsabilità della vostra vita, e state a vedere che cosa succede. La cosa meravigliosa, quando lo fate, è che non soltanto liberate voi stessi, ma 249

lasciate che siano liberi tutti gli altri; siete responsabili di tutto ciò che fate, di tutte le vostre azioni. E non abbiate paura di fallire. Viviamo in una società perfezionista. Dimenticatelo! Parlo spesso di Julia Child. Mi piace veramente il suo atteggiamento. A lei scriverei volentieri. La seguo perché fa cose meravigliose: «Questa sera prepareremo un soufflé». E frulla questo e sbatte quell'altro e butta roba sul pavimento. Si asciuga la faccia con il tovagliolo e fa tutte queste cose meravigliosamente umane. Poi prende il soufflé e lo mette nel forno, e per un po' parla con voi. Poi dice: «Ecco, è pronto». Quando lo tira fuori, il soufflé si affloscia. Sapete che cosa fa? Non si uccide. Non esegue il karakiri con il coltello da macellaio. Dice: «Bene, non si può averla sempre vinta. Bon appètit!». Mi piace! È così che dobbiamo vivere. Non si può averla sempre vinta. Sapete, «Bon appétit. Sedetevi!». Io conosco certuni che si stanno ancora autoflagellando per errori che hanno commesso vent'anni fa. «Avrei dovuto far questo», e «avrei dovuto far quello». Bene, è un peccato che non l'abbiate fatto. Ma chi sa quali sorprese vi aspettano domani? Imparate a dire «Bon appétit». Sedetevi e mangiate oggi! La vita è un picnic. E potete commettere qualche errore. Nessuno ha detto che siete perfetti. Avete bruciato la cena, quindi uscite. E poi queste idee pazzesche, disastrose sull'età! Sapete, prima ho detto che è molto triste appartenere alla nostra società, perché dà all'età troppa importanza. All'improvviso, quando arrivate a una certa età magica, non siete più buoni per niente. Non permettete che succeda! Non credetelo. Volete indossare un abito rosso con i lustrini a ottantasette anni e tingervi i capelli di viola? E mettere i pattini a rotelle? Fatelo! Non mi piace la parola «vecchio». Meglio essere chiamati uomo, meglio essere chiamati donna, perché è questo che siete. Abbiamo dimenticato che Galileo scrisse 250

il suo ultimo libro a 74 anni? Michelangelo ne aveva 71 quando fu nominato supervisore della Cappella Sistina, crediatelo o no. Grandma Moses dipinse il suo primo quadro a 71 anni. C'è un aneddoto su Duke Ellington che mi piace moltissimo. Aveva 66 anni quando il comitato del Premio Pulitzer lo scartò dalla rosa dei candidati, e lui disse: «Bene, Dio non voleva che diventassi famoso troppo giovane». Non è grande? Morì a 75 anni. Pablo Casals aveva 85 anni quando tenne un concerto alla Casa Bianca. Susan B. Anthony, quella donna meravigliosa, fu presidente delle suffragette fino agli 80 anni, e andava in giro per le strade suonando la grancassa. A 52 anni fu arrestata perché aveva votato. Era andata in cabina e aveva detto: «Voglio votare. Perché dite che una donna non può votare?». E così ebbe un'esperienza nuova... la prigione! Potete fare tante cose. Mi affascina l'idea che George Bernard Shaw si fratturò una gamba a 96 anni. E sapete come se la ruppe? Cadde da un albero che stava potando. Svegliatevi! Potete prendere questa sera stessa la decisione di abbandonare queste idee pazzesche e disastrose e di essere tutto ciò che Dio vuole che siate. È il minimo che possiate fare per Lui. Come vi permettete di morire senza essere diventati tutto ciò che siete? Potete riuscirci, prendendo la decisione di diventarlo. È facilissimo. È così che avvengono i cambiamenti e i cambiamenti sono sempre possibili. Mi fa morire sentire un'altra idea disastrosa: «Non puoi insegnare esercizi nuovi a un cane vecchio». Io ho insegnato una quantità di esercizi a cani vecchi. Avete una scelta. La vita è una scelta, e sta a voi farla. Potete vivere nella felicità o potete vivere nella tristezza. Potete essere sventati. Potete essere molto seri. Ma assumetevi la piena responsabilità della scelta che fate. Se vi annoiate, se avete paura, se non vi piace la scena in cui vi trovate, andatevene! Chi dice che dovete star lì? Purché il vostro cuore e la vostra mente funzionino, purché il 251

vostro morale sia alto, potete andare in tutte le scene nuove che volete. Potete scegliere quella che preferite. Createne una nuova. A partire da domani, sarà diverso. E fate in modo che sia così, perché soltanto l'azione dà risultati. Parlare di una cosa è soltanto l'inizio. L'intuizione è soltanto metà della soluzione. L'altra metà è muoversi e fare. Scegliete la via della vita. Scegliete la via dell'amore. Scegliete la via dell'affetto. Scegliete la via della speranza. Scegliete la via della fede nel domani. Scegliete la via della fiducia. Scegliete la via del bene. Sta a voi. Sta a voi scegliere. Potete anche scegliere la disperazione. Potete anche scegliere l'infelicità. Potete anche scegliere di rendere difficile la vita degli altri. Potete anche scegliere la meschinità. Ma a che scopo? Non ha senso. È un'autoflagellazione. Vi avverto: se decidete di assumervi la piena responsabilità della vostra vita, dovrete imparare di nuovo a rischiare. Il rischio è la chiave dei cambiamento. «A ridere c'è il rischio di apparire sciocchi.» E con ciò? Dico spesso che la gente considera Buscaglia un po' matto. Ma io mi diverto un mondo mentre le persone sane di mente muoiono di noia. «A piangere c'è il rischio di apparire sentimentali.» Io non ho paura di piangere. Piango sempre. Piango per la gioia. Piango per la disperazione. Qualche volta leggo i temi dei miei studenti e ci piango sopra. Piango quando vedo gli altri felici. Piango quando vedo due che si amano. Non m'importa se appaio sentimentale. Mi piace. Mi pulisce gli occhi. «A tendere le braccia agli altri c'è il rischio di venire coinvolti.» Che c'è di più importante nella vita che lasciarsi coinvolgere? Io non voglio starmene su un'isola tutto solo. Il fatto stesso che io e voi siamo insieme dimostra che siamo fatti per questo. Troviamo il modo di trasformarlo in un'occasione di gioia. 252

«A mostrare i vostri sentimenti c'è il rischio di rivelare la vostra umanità.» Bene, sono lietissimo di rivelare la mia umanità. Ci sono cose ben peggiori della mia umanità. «A esporre le vostre idee e i vostri sogni alla gente c'è il rischio di allontanarla.» Va bene così. Non potete vincere sempre. E non potete essere amati da tutti. Ci sarà sempre qualcuno che dirà: «È uno stupido. Vieni via, Mabel, ne abbiamo sentite abbastanza. Andiamo a casa». Non potete essere amati da tutti, questo è sicuro. Lo dico sempre, e lo scrivo, e molti di voi l'avranno sentito mille volte, ma mi piace moltissimo. Nel corso sull'amore, una sera, una ragazza ha detto: «Lo so perché sono sempre disperata. È perché voglio essere amata da tutti, ed è umanamente impossibile. Potrei essere la pesca più deliziosa, più squisita, più meravigliosa del mondo e potrei offrirmi a tutti. Ma ci sono quelli che sono allergici alle pesche. E allora vorrebbero che io fossi una banana». E così, spesso noi diventiamo una banana per quelli che vogliono le pesche. Che macedonia disastrosa. È giusto dire: «Mi dispiace, ma non posso essere una banana. Se potessi, mi piacerebbe essere una banana per voi, ma sono una pesca». Se sapete aspettare, troverete qualcuno cui piacciono le pesche. E allora potete vivere la vostra vita come una pesca, non dovete viverla come una banana! Quanta energia si spreca per essere una banana, quando si è una pesca! «Ad amare c'è il rischio di non essere ricambiati.» E anche questo è giusto. Voi amate per amare, non per avere qualcosa in cambio, altrimenti non è amore. «A sperare c'è il rischio di soffrire.» E ancora: «A tentare c'è il rischio di fallire». Ma è necessario affrontare i rischi, perché il rischio più grande nella vita è non rischiare nulla. Chi non rischia nulla non fa nulla, non ha nulla e non è nulla. Può evitare la sofferenza e l'angoscia, ma non può imparare, sentire, cambiare, crescere, progredire, vivere o amare. È uno schiavo, incatenato dalle sue certezze o dalle sue assuefazio253

ni. Ha rinunciato alla sua caratteristica più grande, la sua libertà individuale. Solo chi rischia è libero. Tenere nascosti voi stessi, perdere voi stessi a causa di queste idee che sconfiggono l'io significa morire. Non permettete che questo avvenga. La vostra responsabilità più grande è diventare tutto ciò che siete, non soltanto per il vostro beneficio, ma anche per il mio.

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Ringraziamenti

L'autore ringrazia i seguenti editori per la gentile concessione a pubblicare stralci da queste opere: Sorokin, P.A., The Ways of Power and Love, Henry Regnery Co, Chicago 1967. © Copyright 1954 by The Beacon Press. Laing, R.D., The Politics of Experience, Ballantine Books, New York 1976. © Copyright, Penquin Books. Castaneda, G, Teaching According to Don Juan, Ballantine Books, Inc, New York 1978. © Copyright 1975 by The University of California Press. Used by permission of Viking Penquin Inc. Miller, A., After the Fall, Viking Books, New York. © Copyright 1964 by Arthur Miller. Used by permission. Saint-Exupéry, A. de, The Little Prince, Harcourt Brace Jovanovitch, Inc, New York 1971. © Copyright by Harcourt Brace Jovanovitch, Inc. Used by permission. Hammerskjold, D., Markings, Alfred A. Knopf, Inc, New York 1964. © Copyright by Alfred A. Knopf, Inc. Used by permission. Tzu, L., The Way, Bobbs Merrill Co, Inc, New York 1962. Used by permission. Dostoyevsky, F.M., The Idiot, New American Library, New York 1935. © Copyright by New American Library. Used by permission. Wiesel, E., Souls on Fire: Portraits and Legends of Hasidic Masters, Random

House, Inc, New York 1973. © Copyright by Random House, Inc. Used by permission. Kubler-Ross, E.. Death: The Final Stage of Growth, Prentice-Hall, Engle-

wood Cliffs, NJ, 1975.

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