Vitucci Linee di storia romana.pdf
January 24, 2017 | Author: Marco Baldino | Category: N/A
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G IOVANNI V ITUCCI
Linee di storia romana con note critiche e bibliografiche
Edizione 2010
[per il modulo A dell’esame di Storia romana]
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SOMMARIO I. Il Lazio e Roma. L’età regia. 1. Le popolazioni dell’Italia preromana. 2. Gli Etruschi. 3. I Latini. 4. La Roma primitiva e i suoi ordinamenti. 5. Evoluzione dell’istituto regio e avvento della repubblica. II. La repubblica sotto il predominio dei patrizi. 1. I primi rapporti politici con Cartagine e il ritorno degli Etruschi. 2. Le città latine e Roma. 3. Lotte contro i Sabini, gli Equi e i Volsci. 4. Guerre con gli Etruschi. 5. Colonie romane e colonie latine. Origini del ‘diritto latino’. 6. Il predominio politico e religioso dei patrizi sopra i plebei. 7. Ordinamenti del più antico stato repubblicano. 8. Le rivendicazioni della plebe e i suoi primi successi. III. Dall'incendio gallico al primato nell'Italia centrale. 1. Il disastro e la ricostruzione. 2. I Sanniti e il loro primo conflitto con Roma. 3. Insurrezione e scioglimento della lega latina. 4. La seconda guerra sannitica. 5. La terza guerra sannitica e l’ampliarsi della federazione romanoitalica. IV. Il regime nobiliare patrizio-plebeo. Il controllo dell'Italia meridionale. 1. Conclusione delle lotte fra plebe e patriziato. 2. Introduzione della costituzione ‛serviana’. 3. La nuova nobilitas patrizio-plebea. 4. Taranto e Roma. 5. Pirro in Italia. 6. Pirro in Sicilia e il definitivo fallimento della sua impresa. 7. Importanza dell'espansione nell’Italia meridionale. Sviluppo economico e progresso civile. V. Roma e Cartagine. 1. Dall'amicizia al conflitto. 2. Gli sviluppi della prima guerra punica. 3. Conseguenze della guerra in Roma e in Cartagine. 4. I Romani oltre l’Adriatico e nell'Italia settentrionale. 5. Origini della seconda guerra punica. 6. Dal Ticino a Canne. 7. Da Canne al Metauro.
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8. Annibale e Scipione. VI. Militarismo e imperialismo. Dall'espansione in Oriente alla distruzione di Cartagine. 1. Il conflitto con la Macedonia e il protettorato sulla Grecia. 2. Roma e l'impero siriaco. 3. La dissoluzione della monarchia macedone e il predominio sulla Grecia. 4. L'assoggettamento della Macedonia e della Grecia. 5. La penetrazione nell'Italia settentrionale e nella Spagna. 6. La terza guerra punica. 7. Trionfo del conservatorismo. Catone e Scipione. 8. Squilibrio economico e società in fermento. 9. Cultura greca e humanitas romana. VII. La crisi del regime nobiliare. Dai Gracchi alla guerra sociale. 1. Ripercussioni interne delle grandi conquiste. 2. Il tribunato di Tiberio Gracco. 3. Dal programma conservatore di Tiberio a quello rivoluzionario di Gaio Gracco. 4. L’azione politica di Gaio Gracco. 5. Reazione nobiliare e sopravvivenza delle istanze graccane. 6. Giugurta e l’ascesa di Gaio Mario. 7. I Cimbri e i Teutoni. La gloria di Mario. 8. Inasprimento della lotta politica. Eclissi di Mario. 9. L'agitazione degli Italici e la guerra sociale. VIII. Le guerre civili: Mario, Sulla, Pompeo. 1. Il pronunciamento di Sulla. 2. La sedizione di Cinna e la vendetta di Mario. 3. Le imprese di Sulla in Oriente. 4. Il ritorno di Sulla. 5. Dittatura e riforme antidemocratiche di Sulla. 6. Ripresa delle forze democratiche. Sertorio e la resistenza in Spagna. 7. Mitridate, Spartaco e l’ascesa di Pompeo. 8. Fine di Mitridate e potenza di Pompeo. IX. Il declino della repubblica e la monarchia di Cesare. 1. Le ambizioni di Crasso e gl'inizi di Cesare. 2. La congiura di Catilina e l’effimero trionfo di Cicerone. 3. Dal ritorno di Pompeo al ‘primo triumvirato’. 4. Le prime campagne di Cesare nelle Gallie. 5. Torbidi in Roma. Rinnovamento dell’intesa fra i ‘triumviri. 6. Conquista e romanizzazione delle Gallie. 7. Fine di Crasso e inizio della lotta fra Cesare e Pompeo. 8. Dal Rubicone alla morte di Pompeo. 9. Il potere monarchico di Cesare e le idi di marzo.
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X. Conclusione delle guerre civili. Il principato augusteo. 1. Dalla morte di Cesare al triumvirato di Lepido, Ottaviano e Antonio. 2. Rotta degli anticesariani e rivalità fra i triumviri. 3. Il duello conclusivo fra Ottaviano e Antonio. 4. Ottaviano ‘Augusto’ e ‘principe’ dell'impero. 5. Compromesso tra vecchio e nuovo regime nelle riforme augustee. 6. Pacificazione e riordinamento dell’impero. 7. La conservazione del principato nel problema della successione. XI. Consolidamento del regime imperiale. I Giulio-Claudi. 1. La personalità e il programma di Tiberio. 2. L'opposizione senatoria e il lungo ritiro di Tiberio. 3. L'esperimento assolutistico di Caligola (37-41). 4. L'avvento di Claudio e i primi sviluppi della burocrazia. 5. Le altre realizzazioni di Claudio, 196. 6. Nerone e il consolidarsi dell’assolutismo, 199. 7. Dalla prima persecuzione cristiana alla fine di Nerone. XII. Dai Flavii agli Antonini. L'ascesa della borghesia italica e provinciale. 1. La svolta degli anni 68-69. 2. Il principato ‘borghese’ di Vespasiano. 3. Tito e Domiziano. L'impero sotto i Flavii. 4. Nerva. Il principato ‘adottivo’. 5. Traiano e la ripresa dell'espansione territoriale. 6. Il nuovo corso di Adriano. 7. Gli Antonini e la fine dell’impero liberale. XIII. La crisi del terzo secolo e il tramonto del principato. 1. Evoluzione politica e declino economico. 2. Mistica dell’assolutismo e trasformazione culturale. 3. La dinastia dei Severi. 4. Il periodo della ‘anarchia militare’. 5. La ripresa sotto gli imperatori ‘illirici’. XIV. Il dominato. Da Diocleziano alla fine dell'impero d'Occidente. 1. Diocleziano e il nuovo volto dell’impero. 2. Fallimento della tetrarchia. Costantino e l’impero cristiano. 3. I discendenti di Costantino. 4. I barbari nei confini e la bipartizione dell'impero. 5. L'impero d'Oriente e la fine dell'impero d'Occidente. I regni romanobarbarici.
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I Il Lazio e Roma. L’età regia.
1. Le popolazioni dell’Italia preromana. - Uno degli aspetti più interessanti della storia di Roma antica è l’unificazione politica e civile dell’Italia, unificazione che in vario grado e in varie guise si estese ai paesi gravitanti intorno al bacino del Mediterraneo. Sarà quindi opportuno gettare anzitutto uno sguardo d’insieme sulle varie popolazioni che abitavano la Penisola quando ebbe inizio l’ascesa di Roma. Il panorama che esse presentano, com’è noto, fu il risultato di un lungo processo di sovrapposizione a genti preesistenti di nuove genti venute di fuori, in possesso di costumi e di lingua talora diversissimi (basti pensare che alcuni appartenevano agli “Indoeuropei”, come i Latini, e altri no, come gli Etruschi); pertanto il problema dell’etnogenesi dell’Italia, sia per la scarsezza delle testimonianze letterarie, sia per la relativa incertezza dei dati forniti dalla moderna indagine archeologica e linguistica, offre tuttora largo campo a ipotesi e ricostruzioni non poco contrastanti. Oltre l’arrivo delle genti già menzionate (quelle “indoeuropee” in scaglioni successivi: i Latino-Falisci e i Siculi, gli Umbro-Osco-Sabelli, gli Illiri cui appartenevano da un lato i Veneti, dall’altro gli Iapigi, che poi dettero il nome all’Apulia), si ebbe anche la colonizzazione greca della Magna Grecia e più tardi, dal principio 5
del IV sec., l’immigrazione di tribù celtiche, sì che alla fine ne risultò, come si diceva, un quadro etnografico assai vario, che si può delineare nel modo seguente. Nell’Italia settentrionale ad occidente i Liguri e ad oriente i Veneti, tra cui vennero poi a incunearsi i Galli riducendo progressivamente l’area occupata dagli Etruschi. Nell’Italia centrale, oltre agli Etruschi (che nel VIIVI sec. arrivarono anche in Campania), gli Umbri (alto Tevere), i Sabini (Terni e Rieti), i Picenti (sull’Adriatico), i Latini, gli Equi, i Volsci e gli Ernici (nell’od. Lazio); i Marsi, i Peligni, i Vestini e i Marrucini (nell’od. Abruzzo). Nell’Italia meridionale: i Campani, i Sanniti, i Lucani, i Bruzi, gli Iapigi, i coloni greci. 2. Gli Etruschi. - Fra tutte queste genti (prescindendo, naturalmente, dai Latini) particolare importanza per la funzione che svolsero nella storia e nella civiltà dell’Italia antica ebbero gli Etruschi. È appena il caso di accennare qui al problema delle loro origini, uno dei più dibattuti dalla moderna storiografia, nella quale oggi, sull’opinione che essi siano scesi in Italia attraverso le Alpi, prevale quella della provenienza orientale, in accordo con la tradizione antica raccolta, per esempio, da Erodoto (I 94). Dal punto di vista politico gli Etruschi (come noi li chiamiamo dal latino Etrusci; i Greci li chiamarono Tirreni, Turrhnoiv , mentre essi stessi si denominavano Rasèna) non riuscirono a realizzare una vera unità nazionale. Il massimo organismo politico da loro creato fu l’unione di dodici cittàstati in una lega che aveva il centro nel santuario 6
della dea Voltumna presso Bolsena; ma, con ogni probabilità, si trattava di una federazione di carattere religioso che non giunse mai a cementare stabilmente le forze dei collegati. Anche pensando a tale disunione si spiega come gli Etruschi, dopo aver esteso il loro dominio da Mantova, Adria e Spina fino alla Campania (compresa Roma), dopo aver signoreggiato sul mare che porta ancora il loro nome, cominciarono a declinare sotto i colpi dei Greci d’occidente, dei Latini, dei Galli e infine dei Romani, che s’imposero ad essi sul principio del III sec. a.C. Quanto agli ordinamenti interni delle città étrusche, queste ebbero dapprima un regime monarchico; più tardi, con un mutamento costituzionale che quasi ovunque precorse quello verificatosi a Roma, esse si vennero trasformando in repubbliche nobiliari rette da magistrati annui (v. appresso). 3. I Latini. - Ad un certo momento dell’antica riflessione (pseudo)storica di carattere erudito si fece derivare il nome dei Latini da quello dal loro progenitore Latinus; più tardi, questi venne concepito come un re piuttosto che come un progenitore, e si pose quindi il problema della denominazione dei Latini prima dell’avvento del re Latino, problema che fu risolto con la coniazione del nome di Aborigines. Indizio, questo nome, di una convinzione di autoctonia (inesatta, peraltro), mentre quello di Latini con ogni probabilità nacque per indicare gli “abitatori della pianura” cioè del Latium. Questo originario “territorio pianeggiante”, allargato poi con quello degli Equi, degli Ernici, dei Rutuli, dei Volsci, e con quello delle colonie latine 7
che si presero a fondare dal V sec., giunse ad estendersi dal Tevere (oltre il quale era l’Etruria) a Fondi, confinando ad est con i Sabini e i Marsi. All’antico nome di Latium si aggiunse più tardi la qualifica di vetus (Latium vetus, o anche antiquum) allorché, dalla seconda metà del IV sec. a.C., la denominazione di Lazio fu ancora estesa a sud di Fondi fin oltre il Garigliano, e questo territorio costituì il Latium novum o adiectum. Gli antichissimi Latini, appunto perché abitatori di una piana costituente una naturale unità geografica, realizzarono assai presto lo stabilimento di reciproci legami fra i numerosi piccoli popoli in cui erano organizzati; e, per prima cosa, comuni pratiche cultuali riunirono intorno a un centro sacrale alcuni di quei populi. Ne sorsero diverse leghe religiose, fra cui la più importante fu quella che nel VII sec. giunse a riunire intorno ad Alba Longa una cinquantina di stati (probabilmente la totalità di quelli allora esistenti nel Lazio), partecipanti ogni anno alla solennità detta Latiar o Feriae Latinae, che si celebrava sul monte Albano in onore di Iuppiter Latiaris. Al di fuori di queste vanno considerate le piccole comunità di Antemnae, Caenina, Crustumerium, Politorium, Ficana, Tellene, Collatia, Corniculum, Cameria, Ameriola, Medullia, situate nelle vicinanze di Roma (nella zona compresa tra l’Aniene e il Tevere che separa Roma dalla Sabina) e alle quali Roma si sovrappose nella prima età regia. Intorno alla metà del VII sec., con la distruzione di Alba Longa ad opera di Tullo Ostilio, la direzione della lega di Iuppiter Latiaris passò nelle mari dei Romani (e vi rimase nei secoli, esplicandosi però fin dall’inizio più che altro nell’organizzazione delle Feriae Latinae, 8
cioè senza pervenire a tradursi in un’azione politica di grande rilievo). Del resto, alle mire egemoniche dei Romani le città latine risposero con lo stringere altri legami di alleanza, e fra questi nuovi organismi federali salì poi a grande importanza una lega avente il centro sacrale nel santuario di Diana ad Aricia (v. appresso). Una idea della posizione raggiunta da Roma nel Lazio verso la fine del VI sec. è possibile ricavarla dal testo di Polibio (III 22) relativo al primo trattato fra Roma e Cartagine (v. appresso). 4. La Roma primitiva e i suoi ordinamenti. - La storiografia antica, salvo qualche divergenza, datò la nascita di Roma (concepita in termini di fondazione con rituale etrusco, o di insediamento di elementi greci) intorno alla metà dell’VIII sec.; al primo anno dell’ottava olimpiade (corrispondente al nostro 748/7 a.C.) l’aveva fissata Fabio Pittore, il primo annalista (frgm. 3 Jacoby, FGrHist III C, p. 850), ma poi sulla sua data prevalse quella del terzo anno della sesta olimpiade, equivalente al nostro 754/3 a.C., computata da Varrone (èra varroniana). A determinare queste date d’intorno alla metà del sec. VIII gli antichi autori giunsero sommando all’anno in cui dai fasti consolari risultava iniziata la repubblica (anno corrispondente al nostro 509 a.C.) il numero di circa 245 anni, quanti ne risultavano attribuendo ad ognuno dei sette re un periodo di regno della durata media di 35 anni, ossia all’incirca lo spazio di una generazione. Un procedimento più o meno plausibile, ma fondamentalmente arbitrario, e i suoi risultati non si accordano col dato dello scavo archeologico, che qualche decennio fa ha messo in luce resti di capanne del IX sec. sul 9
Palatino, dalla parte del Cermalo. Questa zona, che anche la tradizione indicava come quella su cui Romolo avrebbe fondato Roma (e che di fatto, per la sua posizione dominante sul Tevere nel punto in cui l’isola Tiberina ne facilitava l’attraversamento, si presentava come una delle più idonee per un insediamento), fu dunque stabilmente abitata almeno dal IX sec. a.C. Naturalmente, altra cosa dal cominciare dei primi insediamenti stabili, di non precisabile datazione, è l’origine di una vera e propria comunità organizzata, costituitasi dal sinecismo del nucleo impiantato sul Palatino con quello del Campidoglio, del Quirinale e via via degli altri colli. In questa primitiva comunità romana i più antichi ordinamenti politici li troviamo imperniati intorno alla figura di un rex, il quale ripeteva la sua autorità, politica e religiosa insieme, dalla designazione del populus. Il popolo, in una certa fase di sviluppo degli ordinamenti statali ancora in embrione, si articolò in tribus e curiae, raggruppamenti a base familiare e gentilizia nei quali si coordinava la vita della comunità e del singolo in ogni atto che avesse rilevanza giuridica: nella tradizione è allo stesso Romolo, il mitico fondatore della città, che viene attribuita la creazione sia delle tre tribù gentilizie dei Ramnes, Tities e Luceres, sia delle trenta curie, dieci per ogni tribù. In origine l’ordinamento a base gentilizia esprimeva e tutelava gl’interessi della classe nobiliare che deteneva il potere; con lo sviluppo dell’organizzazione statale le curie si vennero poi trasformando in organi di governo, e le loro competenze passarono all’assemblea generale delle trenta curie, i comitia 10
curiata. Questi divennero la principale assemblea civile del popolo romano, con il potere anche di eleggere il rex. Oltre ai comizi curiati, che si radunavano alle pendici del Campidoglio nell’angolo settentrionale del Foro, esistevano i comitia centuriata, cioè l’assemblea del popolo in armi diviso per centurie. Queste centurie, composte di cento uomini, erano le unità base della fanteria, e in esse si articolava la legio (= leva) formata complessivamente di 3.000 fanti e 300 cavalieri forniti da ciascuna delle 3 tribù. Tanto i comizi curiati quanto i centuriati si adunavano per convocazione del rex, e di fronte a lui erano privi di ogni iniziativa: un sistema che manifestamente riproduceva i modi di una ferrea disciplina militare e che poi si perpetuò come un costume caratteristico delle assemblee politiche romane. Gli elementi più cospicui del populus si acconciarono a questo tipo di assemblea senza libertà di parola perché potevano far sentire la loro voce nel senatus. Ancora lo stesso Romolo, secondo la tradizione, avrebbe istituito quest’organo consultivo del rex; esso era formato dagli elementi più rappresentativi del patriziato, che era in posizione di superiorità rispetto alla massa dei plebei, e anche questa distinzione del popolo in patrizi e plebei sarebbe stata opera di Romolo. In realtà, in una società a base prettamente agricola dove sussisteva la proprietà terriera, era naturale che assai presto si formasse da una parte un certo numero di famiglie più ricche (che a poco a poco si costituirono in un’aristocrazia fondiaria) e dall’altra la moltitudine dei meno ricchi fino alla indigenza (plebs è da confrontare col greco pléthos): si 11
diversificarono così i patrizi e i plebei, questi ultimi normalmente in rapporto di dipendenza verso i primi come clientes verso il patronus. Le cose, naturalmente, cambiarono quando si presentarono condizioni industriali e commerciali favorevoli a nuove e diverse ricchezze, e la vecchia aristocrazia fondiaria, per quanto organizzata a difesa dei suoi privilegi, dovette subire la concorrenza di famiglie plebee che si affacciavano in primo piano nella vita politica e sociale. 5. Evoluzione dell’istituto regio e avvento della repubblica. - Come su Romolo, così sugli altri re di Roma la tradizione ci ha conservato racconti relativi a opere di pace (ordinamenti religiosi e giuridici, lavori pubblici, ecc.) e a imprese di guerra contro le comunità vicine; tutti racconti sui quali è legittimo esercitare punto per punto il vaglio della critica, ma arbitrario giungere a conclusioni globalmente distruttive (come quella, p. es., di non credere all’esistenza di un periodo monarchico in Roma). Se ne farà qualche cenno più avanti; qui conviene piuttosto soffermarsi sulle caratteristiche dell’istituto regio dei Latini. A tal fine bisogna tener conto della “comune nazionalità italica” (come l’ha chiamata G. D E S ANCTIS , Storia dei Romani, I, p. 170) “dei Siculi e dei Latini”. Perciò è possibile il confronto tra istituto regio dei Latini e istituto regio dei Siculi (v. S. M AZZARINO , Dalla monarchia allo stato repubblicano, p. 28 sgg.). Infatti nel Lazio antico, e particolarmente a Roma, il rex oltre le funzioni di comando sopra ricordate ha anche funzioni sacrali: «Egli è il capo dello stato romano arcaico, e l’esistenza di un’età regia in Roma è confermata 12
(oltre che dalla tradizione sui sette re di Roma) dall’istituto del l’interrex, dall’esistenza (in età repubblicana) di un rex sacrorum e di una regia, e da molti altri indizi, tra cui quello del cippo del Foro». Anche presso i Siculi si trova che il re, detto rhesós, ha caratteri sacrali. Un frammento di Epicarmo mostra che a questo commediografo greco il rhesós appare un capo veramente strano: un capo che sovrintende agli oracoli. A noi moderni il rhesós siculo «deve apparire un rudimento dell’arcaico stato siculo, conservatosi ancora al tempo di Epicarmo, vale a dire agl’inizi del 5° secolo. Il re dei Siculi (rhesós) è rex e augur... In epoca storica, il rex appare a Roma come sacerdote, rex sacrorum: il sacerdozio del rex sacrorum può dare un’immagine di quel contenuto sacrale originario, che nell’istituto della regalità romana dovette assumere un’importanza notevole, accanto al contenuto militare e giusdicente». Da questa regalità primitiva si passò ad una nuova concezione del potere, e a una nuova prassi nel suo esercizio, che s’inquadra nell’evoluzione costituzionale delle città laziali come viene chiarita da un fregio architettonico di Velletri. I rilievi di questo fregio si riferiscono (S. M AZZARINO , op. cit., p. 58 sgg.) «a una scena di vita pubblica, e non già a figurazione di dèi. Essi vanno datati alla seconda metà del 6° secolo, e piuttosto nei primi che negli ultimi decenni (all’incirca 550-525 a.C.) e mostrano che in questo periodo esisteva già una collegialità magistratuale». In conclusione (p. 76) «il rilievo di Velletri ci presenta uno stato con magistrature collegiali. La collegialità esisteva dunque nello stato da cui proviene la matrice di quel rilievo già nella 13
seconda metà del 6° secolo. Roma non poté essere estranea a questa innovazione». Il problema del modo in cui nelle città etrusco-laziali si passò dalla monarchia alla collegialità del potere si pone nel modo seguente. Nella costituzione romana c’è un istituto con caratteristica “collegialità disuguale”: la dittatura. Infatti il dictator nomina un suo “collega subordinato”: il magister equitum. D’altra parte, in alcune città del Lazio (Aricia, Nomento, Lanuvio) il dittatore è ordinario (non già straordinario, come il romano) e annuale. Connettendo i due dati, è facile pensare che dalla monarchia alla repubblica il passaggio avvenisse, in Roma, attraverso una magistratura ordinaria e annuale, e che questa fosse, come in quelle città latine, la dittatura. Com’è noto il De Sanctis (op. cit., I p. 393) cercò di spiegare quel passaggio con la seguente teoria: «I consoli in età storica erano due. La tradizione aggiunge che nel 366 si diede ad essi un terzo collega col titolo di pretore, ossia col titolo stesso che allora i consoli portavano... Non è chi non veda quanto questa tradizione sull’origine della pretura sia poco plausibile... È lecito congetturare che fin dall’origine i pretori fossero tre... In tal guisa si spiega come solo i due primi divenissero gli eponimi, e come invece coloro che occupavano il terzo posto si prendessero a registrare solo più tardi, quando si cominciò a tener nota anche dei magistrati non eponimi ... Tale ipotesi rende ragione della dualità, così singolare in un collegio di magistrati supremi quali erano i consoli romani ... Il numero di tre ha poi facile spiegazione nel numero delle tribù. I pretori furono, come è da credere, in origine i 14
comandanti dei Tiziensi, Ramnensi e Luceri, subordinati dapprima al re, poi, declinando l’autorità regia, a lui non sottoposti [...]; divenuti comandanti supremi dell’esercito e poi capi dello Stato, le loro attribuzioni non erano più compatibili col comando dei reggimenti delle tribù». Tale ricostruzione del De Sanctis parte da un atteggiamento di diffidenza verso molti dati della tradizione, diffidenza che, se pur temperata rispetto a precedenti posizioni critiche, appare oggi sempre più da circoscrivere. «La tradizione sul periodo regio è assai meno priva di valore di quanto non si credeva un tempo; oggi un atteggiamento del tutto negativo ed ipercritico sarebbe ingiustificato. Già i nomi dei primi re, ed alcuni elementi tradizionali ad essi relativi, non vanno soggetti a dubbi: a prescindere da Romulus, nessuno più dubita o dovrebbe dubitare che di Numa Pompilio, Tullo Ostilio, Anco Marcio i nomi sono autentici, essendo impossibile che essi venissero inventati in epoca in cui nessuno avrebbe avuto interesse a inventarli; ed anche le imprese ad essi attribuite rispondono, con varie amplificazioni e confusioni e reduplicazioni, a verità (p. es., la distruzione di Alba Longa per opera di Tullo Ostilio). Per il periodo più recente, la tradizione dà altresì non solo nomi che non vanno soggetti a dubbi, quando parla dei due Tarquinii e fra essi pone Servio Tullio, ma anche attribuisce a questi imprese che certo a quel periodo vanno attribuite». Così il Mazzarino (op. cit. p. 182 sgg.), che sulla base di queste premesse ha collegato la tradizione romana con quella etrusca, nota dai dipinti della tomba François di Vulci. In tali dipinti il personaggio indicato col nome di MACSTRNA è 15
l’autore principale della rivoluzione “democratica” che pose fine al governo di Cneve Tarchu[nies] rumach (= Cnaeus Tarquinius Romanus), e macstrna è il rendimento etrusco di magister, termine che nella formula magister populi equivaleva, in Roma, a dictator. La fine della dinastia degli Etruschi in Roma fu uno degli ultimi episodi del declino della loro potenza in Campania e nel Lazio, sanzionato dalla sconfitta subita presso Aricia nel 524 ad opera dei Cumani uniti ai confederati Latini. Sull’etnografia dell’Italia preromana, S. P UGLISI , La civilt à appenninica. Origini delle comunità pastorali in Italia, Firenze 1959; M. P ALLOTTINO , Sulla cronologia dell’età del bronzo e dell’età del ferro in Italia, in «Studi Etruschi» XXVIII (1960), p. 11 sgg.: I D ., Le origini storiche dei popoli italici, in «Relazioni del X Congresso Intern. di Scienze Storiche, Roma 1955», II, p. 3 sgg. Sulla provenienza degli Etruschi dall’Oltralpe, G. D E S ANCTIS , Storia dei Romani, I, Torino, 1907, p. 125 sgg.; L. P AR ETI , Storia di Roma e del mondo romano, I, Torino 1952, p. 110 sgg.; sulla provenienza orientale, fra gli altri, A. P IGANIOL , Les Etrusques peuple d’Orient, in «Cah. hist. mond.» I (1953), p. 328 sgg. In generale, cfr. M. P ALLOTTINO , Etruscologia, 5 a ed. Milano 1953. Su Latini e Aborigeni, G. D E S AN CTIS , op. cit., I, p. 170 sgg.; sull’estendersi del Latium, G. V ITUCCI in «Dizionario epigrafico di antichità romane fondato da E. De Ruggiero», IV, p. 430 sg. Alcuni nomi dei populi che partecipavano alle celebrazioni annuali in onore di Iuppiter Latiaris li conosciamo attraverso un elenco che ci è stato trasmesso da Plinio (Nat. hist. III 69). Tale elenco riguardava le comunità che in seguito avevano cessato di esistere, e fra queste ne compaiono due che destano uno speciale interesse. Si tratta de i Querquetulani e dei Velienses. Tacito (Ann. IV 65) ricorda che anticamente il Celio si chiamava Querquetulanus, mentre i Velienses sono evidentemente gli abitanti del Velia, il colle che sorgeva fra il Palatino e l’Esquilino. Pertanto in quell’elenco si conserva traccia di un tempo in cui esistevano due comunità a sé stanti, quella del Celio e quella del Velia, comunità ben distinte da quella di Roma, la quale probabilmente ancora non si era costituita dal sinecismo degl’insediamenti sparsi sui vari colli (cfr. S. M AZZARINO , Il pensiero storico classico, I, Bari 1966, p. 193 sg.). A risultati notevolmente
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nuovi, ma poco convincenti, è arrivato G. G JERSTAD (Legends and facts of early Roman history, Lund 1962) attraverso un’analisi dei dati della tradizione e il loro raffronto con gli elementi che si ricavano dalla esplorazione archeologica; in conclusione, l’inizio della storia di Roma dovrebbe essere posticipato di quasi due secoli. Il testo del primo trattato romano-cartaginese viene così riferito in P OLYB . III 22: «Fu dunque stipulato il primo trattato fra Romani e Cartaginesi al tempo di Lucio Giunio Bruto e di Marco Orazio, i primi che furono creati consoli dopo l’abolizione della monarchia, dai quali fu anche consacrato il tempio di Giove Capitolino. Questi fatti sono di ventotto anni anteriori al passaggio in Grecia di Serse. Il quale (trattato) noi abbiamo trascritto qui di seguito dopo averlo interpretato con la massima precisione possibile. Tale infatti anche presso i Romani è la differenza fra la lingua attuale e quella antica, che a stento anche i più esperti sono riusciti a comprenderne alcune espressioni. Il trattato suona press’a poco così: Alle seguenti condizioni sia amicizia tra i Romani e gli alleati dei Romani (da un lato) e i Cartaginesi e gli alleati de i Cartaginesi (dall’altro); non navighino i Romani né gli alleati dei Romani oltre il promontorio Bello, se non costretti da una tempesta o da nemici, e se qualcuno vi fosse trasportato per forza, non gli sia lecito né di fare compere né di prendere se non quanto sia necessario a riparare la nave e alle sacre cerimonie, ed entro cinque giorni riparta. Quelli che arrivano per ragioni di commercio non possano concludere alcun affare se non con l’intervento di un banditore o di uno scriba. Delle cose che in presenza di costoro siano vendute, tanto in Africa quanto in Sardegna, sotto pubblic a garanzia il prezzo sia dovuto al venditore. Se qualcuno dei Romani giunga in Sicilia, nella zona che dominano i Cartaginesi, abbia completa uguaglianza di diritti. I Cartaginesi non rechino danno al popolo di Ardea, di Anzio, di Laurento, di Circei, di Terracina, né ad alcun altro popolo dei Latini quanti (siano) soggetti (ai Romani); se alcuni non sono soggetti, si astengano dalle (loro) città, e se poi (ne) dovessero prendere (qualcuna), la consegnino intatta ai Romani. Non costruiscano una fortezza nel Lazio. Se entrano nel territorio (del Lazio) come nemici, non vi dovranno pernottare» (Circa questo trattato, vedi il capitolo seguente). Sulla data calcolata da Fabio Pittore per la nascita di Roma, e su altri problemi connessi con gl’inizi della storiografia romana, G. V ITUCCI , in «Helikon», 1966, p. 401 sgg. Circa i fasti consolari (espressione che significa “elenco d i consoli”) si ricordi l’importanza che tale elenco ebbe nell’antico mondo romano per individuare i singoli anni, e ciò sia in generale per i bisogni della vita pratica, sia poi nell’uso storiografico per indicare la cronologia dei fatti. Nella lista i vari anni si
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distinguevano dal nome dei magistrati eponimi, e questi furono per lo più i consoli (donde il nome di fasti consolari) salvo il periodo in cui si ebbero i decemviri consulari imperio legibus scribundis e poi i tribuni militum consulari potestate (v. appresso). Considerata l’importanza dei fasti consolari per l’ordinato svolgimento della vita civile, è da ritenere che se ne cominciasse la registrazione non molto dopo l’inizio della repubblica, il che rappresenta un importante elemento a favore della genuinità della lista anche nella sua parte più antica, mentre una tendenza ipercritica vedrebbe in tale parte il prodotto di un posteriore lavorio di interpolazioni. Su ciò v. K.J. B ELOCH , Römische Geschichte, Berlin 1926, p. 1 sgg. I fasti consolari ci sono giunti in una duplice redazione; un a proviene soprattutto dalle fonti annalistiche (Diodoro Siculo, Livio, Dionisio di Alicarnasso, che nel loro racconto distinguono appunto il succedersi degli anni menzionandone gli eponimi), l’altra da fonti cronografiche quali il “Cronografo del 354”, i “Fasti Idaciani” e il “Chronicon Paschale”. A tali fonti cronografiche se ne deve aggiungere una quarta, che fu redatta non come opera letteraria, ma per essere incisa sull’arco di Augusto nel Foro Romano. Di questa lista, che elencava gli eponimi dall’inizio dell’età repubblicana al 13 d.C., molti frammenti furono trovati e ricomposti, col concorso di Michelangelo, nel Palazzo dei Conservatori in Campidoglio, donde la loro denominazione di Fasti Capitolini. Una recente edizione d i essi (e degli altri fasti superstiti) è stata curata da A. Degrassi nel vol. XIII delle Inscriptiones Italiae. Le varie liste a noi in tal modo pervenute sono identiche a cominciare dal 280 a.C. in poi, mentre per la parte anteriore esse presentano varie discrepanze, fra cui sono da ricordare almeno due. Livio (VI 35, 10) registra un periodo di cinque anni, dal 375 al 371, in cui a causa della violenza dei contrasti fra plebe e patriziato si sarebbe verificata una solitudo magistratuum, cioè sarebbero stat i eletti solo tribuni e edili della plebe (Licinius Sextiusque tribuni plebis refecti nullos curules magistratus creari passi sunt; eaque solitudo magistratuum et plebe reficiente duos tribunos et iis comitia tribunorum militum tollentibus per quinquennium urbem tenuit); tale periodo invece si riduce a quattro anni in Eutropio (II 3: Verum dignitas tribunorum militarium non diu perseveravit. Nam post aliquantum nullos placuit fieri et quadriennium in urbe ita fluxit, ut potestates ibi maiores non essent), e così pure in Zonara (VII 24) e nei “Fasti Idaciani”, mentre diventa di un solo anno in Diodoro (XV 75, 1: Nell’anno in cui ad Atene fu arconte Polizelo, si verificò a Roma, a causa di certi contrasti fra i cittadini, una “anarchia”). L’altra particolarità da notare sono i quattro cosiddetti “ann i dittatoriali”, registrati unicamente dai Fasti Capitolini, secondo i quali nel 333, 324, 309 e 301 il governo della repubblica sarebbe
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stato per tutto l’anno nelle mani di un dittatore, che ne sarebbe pertanto divenuto l’eponimo. Solitudo magistratuum e anni “dittatoriali”, inammissibili come realtà storica, si rivelano espedienti intesi ad allungare la lista ed escogitati quando ci si accorse che il numero dei collegi di eponim i era inferiore a quello degli anni. Sui più antichi ordinamenti di Roma, A. F ER RABINO , L’Ital ia romana, Milano 1934, p. 18 sgg.; L. P AR ETI , op. cit., I, p. 237 sgg.; P. D E F RAN CISCI , La comunità sociale e politica romana primitiva, in «Relazioni del X Congresso», cit., II, p. 63 sgg.
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II La repubblica sotto il predominio dei patrizi.
1. I primi rapporti politici con Cartagine e il ritorno degli Etruschi. - Uno dei primi atti a noi noti del governo repubblicano fu la conclusione di un trattato di amicizia e di commercio con i Cartaginesi (l’implacabile rivalità tra Roma e Cartagine era ancora di là da venire!). Ce ne dà notizia Polibio (III 22), il quale, come s’è visto, afferma che l’accordo fu stipulato “essendo consoli L. Giunio Bruto e Marco Orazio” (primo anno della repubblica [509 a.C.]) e aggiunge che il documento, inciso su tavole di bronzo, era ai suoi tempi conservato presso il tempio di Giove sul Campidoglio. Cartagine, fondata alcuni secoli prima da coloni fenici provenienti da Tiro, aveva acquistato sempre maggior potenza fino a diventare il centro politico e commerciale di un vasto impero. Nella seconda metà del VI secolo i Cartaginesi avevano vittoriosamente conteso con Marsiglia, colonia greca fondata dai Focesi, per il predominio commerciale nel Mediterraneo occidentale, e in questa lotta avevano avuto l’appoggio degli Etruschi. Da tale momento presero l’avvio i rapporti amichevoli fra Cartaginesi e Romani, la cui politica si svolgeva allora sotto l’influenza etrusca, e pare che proprio per confermare quelle buone relazioni dopo il mutamento di regime avvenuto in Roma venisse stipulato il trattato di cui ci parla Polibio. Ora è da 20
considerare che in questo trattato i Romani si atteggiano a protettori di varie città dell’interno e della costa fino alla lontana Terracina, ma poiché tale protettorato non corrispondeva affatto alla reale situazione politica, se ne deve ricavare che in quel momento il governo di Roma nutriva aperte pretese al predominio su quei popoli del Lazio e, per intanto, le faceva valere nei confronti di Cartagine. Però a così rosee speranze i tempi erano poco propizi: i Latini, in realtà, erano tutt’altro che pronti a riconoscere la supremazia di Roma e, per di più, la città dové presto affrontare il ritorno offensivo degli Etruschi. Secondo la tradizione vulgata, Tarquinio aveva spinto Porsenna, il re di Chiusi, a costringere con la forza i Romani a rimetterlo sul trono, e n’era nata una guerra terribile. Se essa non era terminata col disastro, il merito era stato tutto degli atti di eroismo compiuti dal fiero Muzio Scevola, dal fortissimo Orazio Coclite, dall’intrepida Clelia, che riempirono di ammirazione il re etrusco inducendolo a togliere il blocco della città e a concedere onorevoli condizioni di pace, mentre Tarquinio veniva abbandonato al suo destino. In realtà le cose andarono assai diversamente; accadde, cioè, che Roma fu vinta dagli Etruschi e costretta ad accettare le più dure imposizioni, fra cui quella di rinunziare a tutti gli armamenti. La città era alla mercé dei vincitori, e fu in grazia del colpo subìto dalla potenza etrusca nella battaglia di Aricia se l’impresa di Porsenna nel Lazio e la nuova sottomissione di Roma si risolse in un fatto passeggero.
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2. Le città latine e Roma - I Latini che, sia pure indirettamente, avevano impedito che in Roma s’instaurasse nuovamente la dominazione degli Etruschi, erano uniti in una lega che stringeva intorno a Tuscolo (a 5 km dall’odierna Frascati) alcune importanti città, site per lo più sui Colli Albani, e aveva come centro sacrale il santuario di Diana nel territorio di Aricia. Come s’è detto, essa rappresentava, dopo la distruzione di Alba Longa e il declino dell’antica lega di Iuppiter Latiaris, uno degli organismi più importanti del Lazio, cui Roma, già negli ultimi tempi della monarchia, aveva cercato di contrapporre un’altra lega da essa diretta, quella che aveva il centro nel tempio di Diana sull’Aventino. Noi non sappiamo in quali precise circostanze, vari anni dopo, avvampò la guerra fra Roma e la lega capeggiata da Tuscolo, ma si può ragionevolmente dubitare che i Romani riportassero nella battaglia del Lago Regillo (oggi prosciugato, nelle vicinanze di Frascati) quello strepitoso successo di cui parlò più tardi la “storia ufficiale”, poiché sembra che a spingere i contendenti a venire a un accordo fosse la minacciosa avanzata nel Lazio di popoli vicini. Unico punto fermo - ma anche qui non mancano motivi di varie incertezze - è che la guerra si concluse a favore dei Romani intorno al 493 con un trattato che vien detto foedus Cassianum da Spurio Cassio, il console che lo stipulò. In forza di questo trattato, il cui testo poteva ancora leggersi a Roma alcuni secoli dopo, cioè al tempo di Cicerone, si stabilivano non solo accordi di pace e di alleanza, ma anche si regolavano gli scambievoli rapporti, in materia di commercio, tra i 22
cittadini di Roma e quelli delle diverse città latine. Un particolare, quest’ultimo, assai importante perché rappresentava il primo passo di quel lungo processo di assimilamento che avrebbe portato all’unificazione dei Latini nel nome di Roma. Il trattato era stato concluso a parità di condizioni, vale a dire che in quel momento la potenza romana era riconosciuta uguale a quella di tutti i Latini uniti insieme, ma un sì grande successo non fu ritenuto sufficiente dalla “storia ufficiale”, che più tardi parlò addirittura di una supremazia instaurata allora da Roma sul Lazio. In realtà, tale supremazia Roma l’acquistò non al principio, ma alla fine del V sec. a.C., cioè dopo aver validamente concorso alla difesa delle città latine maggiormente esposte alla marea dei popoli confinanti che minacciava di sommergerle. Nel corso del V secolo, infatti, a più riprese Roma dovette scendere in campo non soltanto contro la ricorrente pressione degli Etruschi sui confini settentrionali, ma anche contro i Sabini, gli Equi e i Volsci che premevano sul Lazio spostandosi dalle loro sedi montane (a un dipresso nell’odierno Abruzzo occidentale) in direzione delle terre più fertili verso il mare. L’alleanza tra Romani e Latini, stretta sotto la spinta dei comuni pericoli, stava per subire la prova del fuoco. 3. Lotte contro i Sabini, gli Equi, i Volsci. - Anche lo sviluppo di questi lontani avvenimenti subì la consueta deformazione nel racconto degli storici romani, ma non al punto che non possiamo farcene un’idea sia pure sommaria e, soprattutto, constatare che per fortuna delle città latine mancò una vera intesa fra i loro aggressori. Per quanto riguarda la 23
stessa Roma, il pericolo più grave fu rappresentato ad un certo momento dai Sabini che, dopo una serie di incursioni verso il sud fino all’Aniene, riuscirono nel 460 a penetrare nella città e ad occupare la roccaforte del Campidoglio! La riscossa però fu immediata, grazie anche - come pare - all’aiuto dei Tuscolani, e dopo non molti anni, nel 449, una nuova vittoria allontanava per sempre da Roma la loro minaccia. Quanto agli Equi, essi, dopo aver sommerso, oppure attirato dalla loro parte, Praeneste (Palestrina) e aver occupato altri centri latini minori (tra cui Labici, forse l’odierna Monte Compatri), giunsero ad accamparsi sul monte Algido (Maschio dell’Ariano) fra i Colli Albani, a pochi chilometri da Tuscolo. E fu appunto sui Tuscolani che maggiormente gravò il compito di fermare gli Equi, anche se più tardi gli storici romani esaltarono il contributo delle armi romane, specie con la vittoria riportata nel 458 dal dittatore Cincinnato. Del resto un notevole apporto alla causa comune fu dato anche dagli Ernici, un popolo stanziato a sud degli Equi e pertanto ugualmente soggetto alla loro pressione. Gli Ernici costituivano anch’essi una lega che si raccoglieva intorno ad Anagnia (altri centri più importanti: Ferentinum, od. Ferentino; Aletrium, od. Alatri; Verulae, od. Veroli), e fin dal 486 furono accolti a parità di condizioni nell’alleanza che univa Romani e Latini e che si trasformò allora in alleanza fra Romani, lega latina e lega ernica. Solo verso la fine del secolo i tre collegati riuscirono a bloccare la spinta espansionistica degli
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Equi, costringendoli a ritirarsi dalle posizioni che avevano guadagnato nel Lazio. Ancora più duro fu lo scontro contro i Volsci che, aprendosi un varco fra gli Aurunci e i Latini, all’inizio del V secolo dilagarono nell’agro Pontino occupando la regione costiera da Terracina (che essi chiamarono Anxur) fin oltre Anzio, e spingendosi nell’interno fino a Velletri. Come capisaldi per contenere la loro avanzata, furono fondate (intorno al 492) le colonie di Norba (Norma) e Signia (Segni); quindi si combatté una serie di lotte asprissime nel cui racconto venne intessuta, fra l’altro, la storia di Gneo Marcio Coriolano, il condottiero ribelle che, costretto in esilio, si sarebbe posto a capo dei Volsci guidandoli di vittoria in vittoria da Circei fino a poche miglia da Roma. La spinta volsca verso il nord lungo il litorale per poco non culminò nella caduta di Ardea: la città fu rafforzata con l’invio di coloni diventando anch’essa colonia latina (439). La presa di Anxur nel 406 e il successivo trapianto di coloni a Velletri nel 404 e a Circei nel 393 segnano le ultime tappe della sottomissione dei Volsci, anche se continuò a verificarsi qualche tentativo di ribellione. 4. Guerre con gli Etruschi. - A nord più diretto interesse ebbe per Roma la lotta contro gli Etruschi meridionali, soprattutto quelli di Veio, una popolosa e ricca città che sorgeva a circa una ventina di chilometri sulle rive del Cremera, piccolo affluente del Tevere. Verso l’inizio del V secolo, mentre urgeva sul Lazio la minaccia dei Volsci e degli Equi, i Veienti fecero ripetute scorrerie entro il territorio romano e riportarono anche grossi successi, come 25
quello dell’anno 477 in cui restarono sul campo quasi tutti i membri della nobile gens dei Fabi (si sarebbe salvato solo un giovanetto, destinato ad avere tra i suoi discendenti il grande Temporeggiatore). Fu un grave colpo per i Romani, di cui la “storia ufficiale” non poté cancellare il ricordo, ma solo abbellirlo con i colori della leggenda. Però alcuni decenni dopo, fermati gli Equi e i Volsci, la situazione si capovolse e fu Roma a prendere l’iniziativa delle ostilità. Dapprima, nel 426, venne distrutta Fidene (presso Castel Giubileo); poi fu la volta di Veio, espugnata nel 396 dopo un assedio di dieci anni. Molti dei particolari che gli storici romani raccontarono su questa guerra debbono ritenersi leggendari, a cominciare dallo stesso assedio la cui durata sembra richiamare quella dell’epico assedio di Troia: in maniera particolare fu ingigantita la figura di Marco Furio Camillo, il capitano che condusse a termine l’ardua impresa. Tuttavia è certo che i Romani avevano riportato sui vicini Etruschi un successo di prim’ordine. Infatti, delle città che avevano dato aiuto a Veio, le minori furono anch’esse conquistate, come Capena, Sutrium (Sutri) e Nepet (Nepi), mentre con quella assai importante di Falerii (Civita Castellana), il principale centro del popolo dei Falisci, fu concordata una tregua. Di questa in realtà si trattò, più che di una pace, anche se poi gli storici romani favoleggiarono che i Falisci si sarebbero addirittura sottomessi a Camillo ammirati per il suo rifiuto di impadronirsi della città col tradimento. Egli avrebbe infatti respinto la proposta di un maestro di scuola, il quale gli aveva
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offerto di consegnargli i suoi discepoli, tra cui erano i figli dei maggiorenti falisci. Dei paesi così conquistati, quelli di Veio e Capena, come già quello di Fidene, entrarono a far parte del territorio propriamente romano, mentre Sutri e Nepi, con l’invio di un certo numero di coloni, furono trasformate in colonie latine, al pari di quanto già era stato fatto per Norba, Signia, Ardea e Circei. 5. Colonie romane e colonie latine. Origini del “diritto latino”. - Riguardo alle suddette (e, via via, alle future) colonie latine si deve notare come esse si distinguessero nettamente dalle colonie romane. Le colonie romane nacquero con una funzione essenzialmente militare, e furono impiantate per lo più sulla costa a difesa dagli attacchi provenienti dal mare. Erano costituite da poche centinaia di cittadini romani, che tali restavano nella loro nuova sede, anche se praticamente, per la lontananza da Roma, non potevano più esercitare i loro diritti di cittadinanza. Le colonie latine, invece, ebbero importanza per Roma non solo dal punto di vista militare, per la posizione strategica in cui sorgevano, ma anche - e sempre più - dal punto di vista economico e sociale come sfogo all’emigrazione dei più bisognosi. Esse erano costituite con l’invio di coloni provenienti sia da Roma, sia dalle città degli alleati Latini ed Ernici, e diventavano altrettante comunità latine comprese nella lega latina; pertanto quei Romani che vi erano inviati come coloni cessavano di essere cives Romani e diventavano cittadini della nuova comunità latina. Ma se, in tal modo, Roma perdeva un certo numero 27
di cittadini nel tempo stesso che si ingrandiva la lega delle città latine, questi svantaggi erano compensati dalla presenza, nelle nuove comunità latine, di elementi in genere favorevoli alla politica romana. Di grandissima importanza fu poi che, per evitare che rimanesse troncato ogni rapporto fra tali coloni ex-Romani e la loro patria d’origine, si venne sviluppando il così detto “diritto latino” in forza del quale furono a quelli concessi alcuni privilegi come la facoltà di sposarsi in Roma (ius conubii) e di riacquistare la cittadinanza romana col semplice trasferimento del domicilio in Roma (ius migrandi). Più tardi questi privilegi furono estesi indistintamente a tutti i Latini, onde costoro godettero di una posizione privilegiata rispetto agli altri popoli con cui Roma strinse via via rapporti di alleanza. A proposito dei quali si deve ricordare che l’espansione dello Stato romano ben presto si sviluppò a preferenza attraverso la forma federativa. Quando cioè Roma affermò la sua supremazia sui popoli vicini, solo in piccola parte li assoggettò immediatamente al suo diretto controllo incorporandoli nel territorio dello Stato; ai più, invece, conservò la loro autonomia legandoli però a sé con un patto di alleanza (foedus), trasformandoli cioè in foederati con particolari diritti e doveri. Tra questi alleati i Latini ebbero, come dicevamo, una posizione di privilegio. L’affermarsi di Roma in Italia, pertanto, sarà per lungo tempo segnato non tanto dall’ampliarsi del suo territorio - che fu piuttosto lento - quanto dall’allargarsi della cerchia dei suoi foederati.
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6. Predominio politico e religioso dei patrizi sopra i plebei. - La riluttanza verso il troppo rapido dilatarsi dello Stato era uno degli aspetti della tendenza eminentemente conservatrice della classe che reggeva il timone della repubblica. Un’eccessiva espansione territoriale avrebbe comportato un moltiplicarsi dei problemi di governo e rappresentato, quindi, una grave incognita per il predominio del patriziato, predominio che la parte più numerosa del popolo romano, cioè la plebe, era sempre meno disposta a subire. Difatti per tutto il V secolo si agitarono in Roma contrasti talvolta più aspri delle guerre combattute senza posa contro i Volsci o gli Equi o gli Etruschi. I plebei, che avevano dovuto condividere gli sforzi e i sacrifici imposti dalla politica dei patres, aspiravano ad acquistare nel governo della repubblica un peso maggiore di quello, assai scarso, che avevano. E la plebe non era costituita soltanto dal popolo minuto, ma ne facevano parte anche elementi cospicui per capacità d’ingegno e di lavoro, i quali però, appunto perché estranei alla cerchia delle grandi famiglie nobiliari, erano esclusi dalla carriera politica: una condizione, questa, tanto più inaccettabile se si pensa che (come mostra la parte iniziale dei fasti consolari) all’inizio della repubblica uomini della plebe avevano raggiunto, col consolato, il più alto fastigio nella direzione dello Stato. Da tale direzione, peraltro, essi erano stati a poco a poco allontanati ad opera dei patrizi, che vennero monopolizzando l’esercizio del potere fino a costituirsi in casta chiusa. Però se la lotta fra patrizi e plebei conobbe episodi veramente drammatici, essa non mise mai in 29
pericolo le sorti della repubblica: opportune concessioni da parte dei patrizi e consapevole rispetto dei principi tradizionali (mos maiorum) da parte dei plebei consentirono di mantenere una concordia capace di assicurare col tempo non solo le maggiori fortune, ma anche un ordinato progresso morale e civile. Nel mondo antico religione e politica si sono sempre e variamente mescolate; soprattutto in Roma, dove tale confusione fu favorita dal carattere stesso della religione romana. Sorta, come presso le altre genti d’Italia, da un’ingenua venerazione per le immense forze e i grandiosi fenomeni della natura (Iuppiter è in origine il dio del cielo luminoso; Iuppiter Fulgur propriamente non è che il dio-fulmine) commista a forme primitive di totemismo (si pensi al culto di Iuppiter Lapis, una pietra conservata sul Campidoglio) e di animismo (credenza nell’azione buona o cattiva degli “spiriti”), la religione romana conservò la sua arcaica rozzezza anche quando, per influsso della civiltà ellenica, si fuse col paganesimo greco. Alcune divinità si elevarono allora al livello delle più evolute concezioni dei Greci (onde Iuppiter fu identificato col maestoso Zeus dell’Olimpo, Iuno con Hera, Minerva con Athena, ecc.), altre subirono una completa trasformazione della loro essenza (come Venere, in origine custode degli orti, che fu poi assimilata ad Afrodite e divenne la dea dell’amore con tutti i relativi attributi), ma questo processo di fusione non valse ad incrinare la vetusta compagine religiosa dello spirito romano. In essa non un anelito di elevazione spirituale, ma solo l’ansia di propiziare all’individuo, alla famiglia, e soprattutto allo Stato l’aiuto degli dei, concepiti 30
come dispensatori di bene o di male a chi li onorasse nelle forme dovute oppure no. Inoltre, mancando del fondamento di una vera e propria speculazione teologica, il politeismo romano fu sempre aperto ad accogliere da ogni parte nuove divinità e nuovi riti, ma ciò solo nella fiducia che anche questi potessero contribuire alla prosperità di tutti e di ciascuno, sì che in fondo la religione dei Romani restò ancorata alle sue rozze caratteristiche originarie e soprattutto alla sua peculiare concezione utilitaria. Ma perché lo Stato prosperasse bisognava assicurare che ogni atto importante della vita pubblica si svolgesse secondo la volontà degli dei. Di questo i soli patrizi pretesero di essere capaci, in quanto essi soltanto “avevano gli auspici”, cioè erano in grado di far sì che l’azione del popolo corrispondesse al volere divino rettamente indagato e interpretato con l’ausilio degli àuguri (che vennero acquistando un’influenza sempre maggiore sui pubblici affari). Per questa via si arrivò a non ammettere i matrimoni misti fra patrizi e plebei, e così il patriziato finì per formare una casta chiusa, esercitando quanto più possibile in esclusiva l’imperium inerente alla suprema magistratura della repubblica, il consolato. 7. Ordinamenti del più antico stato repubblicano. - I due consoli avevano la direzione dello Stato in quanto erano nello stesso tempo la più alta autorità civile, i giudici di grado più elevato e i supremi comandanti delle forze armate (quest’ultima attribuzione si rifletteva nella denominazione che essi ebbero prima di chiamarsi consules, quella cioè di praetores, da prae ire = marciare alla testa). 31
Nell’esercizio delle funzioni giudiziarie i consoli ebbero ben presto l’ausilio dei quaestores; per il resto essi potevano avvalersi, come una volta avevano fatto i re, del consiglio dei senatori, anche essi provenienti dalle famiglie più ragguardevoli. Non avevano però l’obbligo di sottostare ai loro pareri (senatusconsulta), anzi il senato non poteva nemmeno adunarsi se non dietro convocazione dei consoli, che ne presiedevano le sedute e ne dirigevano i lavori. Tuttavia questa prevalenza dei consoli sui senatori tendeva a diventare più formale che sostanziale, e sta di fatto che per tutta l’età repubblicana il senato rimase il principale organo di governo attraverso il quale si attuavano i disegni politici della classe che deteneva il potere. I maggiori esponenti delle casate nobili erano sempre presenti in senato a difendere i propri interessi con tutto il peso della loro autorità, mentre i consoli, che del resto provenivano di massima da quella stessa nobiltà, non duravano in carica che un solo anno, salvo il caso di qualche rielezione. Poteva dirsi, quindi, che i consoli passavano ma il senato restava. Inoltre i consoli, per effetto della loro “collegialità uguale”, se fossero stati in disaccordo potevano intralciarsi a vicenda con il diritto di veto (ius intercessionis): in tal caso i loro contrasti non potevano risolversi che seguendo i consigli del senato, i quali anche per questa via divennero per i consoli sempre più vincolanti. Nello stesso tempo questa collegialità, al pari dell’annualità della carica, impediva che qualcuno, attraverso il consolato, potesse costituirsi uno stabile potere personale. Del resto, anche sulle assemblee popolari il senato faceva sentire il peso della sua volontà. 32
Il popolo, cioè l’insieme dei patrizi e dei plebei, appunto perché composto di cittadini e non di sudditi, era chiamato a collaborare ad alcuni atti fondamentali nella vita dello Stato, per esempio l’emanazione delle leggi o la nomina dei magistrati. Le deliberazioni al riguardo il popolo le prendeva alcune radunato nei comizi curiati (assemblea “civile” del popolo suddiviso in curie), altre nei comizi centuriati (assemblea “militare” del popolo suddiviso in centurie). Ora, a parte il fatto che in queste assemblee i patrizi, forti della loro organizzazione e della loro potenza, avevano facilmente ragione dei più numerosi plebei, il senato poteva far sentire la sua autorità, sia direttamente, negando la prescritta approvazione ad alcuni deliberati, sia indirettamente, esercitando la sua influenza sui consoli che presiedevano le assemblee popolari. I comizi romani, infatti, avevano ancora in quest’epoca e conservarono nei secoli quella fisionomia particolare cui già si è accennato: essi si adunavano solo quando li convocava il magistrato, e di fronte a lui osservavano una disciplina assoluta. Praticamente, non v’era luogo a discussioni; chi parlava era il magistrato che esponeva le sue proposte, e il popolo non poteva che esprimere il suo voto, favorevole o contrario. Il senato, infine, non mancava di far sentire la sua influenza nemmeno quando, per assicurare l’unità di comando necessaria nei momenti di maggior pericolo per lo Stato, sia per la gravità dei contrasti interni sia per la minaccia di nemici esterni, procedeva alla nomina di un dictator, che ora si era trasformato da magistrato ordinario e annuo in magistrato straordinario. Questi aveva poteri 33
assoluti, ma la sua carica non poteva durare oltre sei mesi; inoltre egli veniva nominato da uno dei consoli, i quali - come s’è visto - in generale agivano d’intesa col senato. 8. Le rivendicazioni della plebe e i suoi primi successi. - Tali, per sommi capi, erano gli ordinamenti che permettevano ai patres di esercitare il predominio da essi acquistato nei primi decenni del V secolo sopra i plebei; ma questi, una volta imboccata la via delle rivendicazioni, seppero trarre grande vantaggio da una recente innovazione amministrativa: l’istituzione delle tribù territoriali. Erano queste qualcosa di totalmente diverso dalle antiche tribù gentilizie dei Ramnes, Tities e Luceres, le quali all’inizio, prima di trasformarsi in organi governativi, erano state raggruppamenti familiari consociatisi per assicurare quella difesa delle persone e dei beni a cui lo Stato, ancora in embrione, non provvedeva. Le tribù territoriali, che sembrano istituite appunto verso il principio del V secolo, erano invece circoscrizioni create con lo scopo di migliorare l’andamento delle operazioni di leva e della riscossione del tributo. Ogni cittadino doveva essere iscritto in uno di questi distretti, e pertanto tutto il territorio dello Stato fu inizialmente diviso in quattro tribù “urbane”, ove erano iscritti i cittadini domiciliati in Roma, e sedici tribù “rustiche” (queste ultime, allargandosi il territorio per effetto delle successive conquiste, raggiunsero poi il numero di trentuno). Di tale organizzazione i plebei si valsero per tenere adunanze (concilia plebis tributa) e ivi coordinare i loro attacchi ai privilegi nobiliari; 34
quindi cominciarono coll’usare l’arma delle secessioni, cioè con una sorta di resistenza passiva, rifiutandosi di continuare ad adempiere agli obblighi del cittadino. La prima secessione viene ricordata per il 494, quando la plebe si ritirò sul Monte Sacro; essa si lasciò indurre a più miti consigli - si raccontò poi - dal famoso apologo di Menenio Agrippa, ma è un fatto che proprio allora ottenne uno dei più grandi successi, quello di darsi dei capi riconosciuti. Nacquero così i tribuni della plebe che in origine, prima di diventare anch’essi veri e propri magistrati, non furono se non dei capipopolo rivoluzionari, che il governo patrizio dovette acconciarsi a tollerare nella loro azione spesso violenta. Sotto la loro guida la plebe percorse la lunga strada delle sue rivendicazioni, che erano di natura diversa. Una delle esigenze che i plebei più largamente sentivano era quella di strappare al patriziato il monopolio dell’amministrazione della giustizia. Della legge erano depositari esclusivamente i nobili, che se la tramandavano oralmente ed avevano essi soli la facoltà di applicarla: nel 451 e nel 450 la plebe ottenne che, invece dei consoli, a capo dello Stato fossero nominati alcuni magistrati straordinari, i decemviri consulari imperio legibus scribundis, e questi approntarono un codice scritto di leggi civili e penali. Furono le famose Dodici Tavole che, col sancire l’uguaglianza di tutti gli uomini liberi di fronte alle leggi civili e col porre a fondamento dello Stato la legge approvata dal popolo e nell’interesse del popolo, dovevano diventare fons omnis publici privatique iuris in un senso ancora più ampio di quello che Tito Livio (III 34, 6) dava a questa espressione,
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e cioè il germe da cui si sviluppò il diritto ancora oggi vigente presso tanti popoli. Pochi anni dopo, nel 445, con una legge proposta dal tribuno C. Canuleio (lex Canuleia), veniva abolito il divieto di matrimonio fra patrizi e plebei, divieto che, osservato per un certo tempo soltanto in forza della consuetudine, era già stato imposto con una legge delle XII Tavole. I plebei, ormai, potevano battersi per raggiungere di nuovo il consolato, e nel 444 addivennero a un compromesso. Negli anni successivi a capo della repubblica si sarebbero potuti eleggere i soliti due consoli, provenienti dal patriziato, oppure un certo numero di cittadini che avevano ricoperto o tuttora ricoprivano la carica di tribuni militari (cioè di ufficiali superiori nella legione) e che perciò vennero denominati tribuni militum consulari potestate: in seno a costoro potevano essere eletti anche dei plebei. Per effetto di tale compromesso nel corso di vari anni non si susseguirono più coppie di consoli, ma collegi di tribuni militum consulari potestate composti da un numero variabile di membri (tre, quattro, sei, otto); solo nel secolo successivo il consolato fu stabilmente restaurato, quando si concordò che uno dei due posti di console spettava alla plebe. Naturalmente, i patrizi cercarono di resistere come potettero e fra l’altro, quando furono costretti ad accettare l’eventualità di tornare a dividere con i plebei la più alta carica dello Stato, essi la svuotarono di alcune attribuzioni assegnandole ad una nuova magistratura esclusivamente patrizia, la censura (a. 443). I due censori, che si elessero ogni cinque anni (lustro è da lustrum, il sacrificio di purificazione per 36
il popolo con cui i censori concludevano i loro lavori), dovevano in primo luogo tenere aggiornata sia la lista dei cittadini, cioè di quelli che potevano godere i diritti di cittadinanza, sia la lista dei senatori, magari cacciandone gl’indegni. Poiché tutto questo comportava anche una sorveglianza sulla condotta pubblica e privata di ognuno, i censori ben presto acquistarono un’influenza grandissima. Secondo gli storici antichi, nel corso del lo stesso V secolo la plebe avrebbe strappato anche una specie di diritto di emanare leggi, cioè avrebbe imposto che si riconoscessero come valide le deliberazioni prese nei suoi concilia, ma questa conquista in realtà avvenne più tardi. Comunque, i plebei avevano gia fatto parecchi passi verso la rivendicazione dell’antica uguaglianza; grazie anche all’apporto delle loro fresche energie sembrava aprirsi, dopo la presa di Veio, un periodo di maggiore sicurezza e prosperità, quando su Roma si abbatté il flagello dell’invasione gallica.
Con la datazione indicata da Polibio per il più antico trattato romano-cartaginese (vedi il capitolo precedente) è in contrasto la tradizione confluita in Livio, ove di un simile foedus si parla per la prima volta solo sotto l’anno 348 (VIII 27, 2: cum Carthaginiensibus legatis Romae foedus ictum, cum amicitiam ac societatem petentes venissent); di qui un dibattuto problema, soprattutto, ma non soltanto, cronologico, su cui cfr. S. M AZZARIN O , Introduzione alle guerre puniche, Catania 1947. Circa l’assoggettamento di Roma ad opera di Porsenna, cfr. T AC ., Hist. III 72: Id facinus (l’incendio del Campidoglio alla fine del 69 d.C.) post conditam urbem luctuosissimum foedissimumque rei publicae populi Romani accidit ... sedem Iovis Optimi Maximi auspicato a maioribus pignus imperii conditam, quam non Porsenna dedita urbe neque Galli capta
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temerare potuissent, furore principum exscindi. Si veda anche P LIN ., Nat. Hist. XXXIV 139: In foedere quod expulsis regibus populo Romano dedit Porsina, nominatim comprehensum invenimus ne ferro nisi in agri cultu uteretur. Sulla battaglia del lago Regillo v. L. P ARETI in “Stud i romani” VII (1959) p. 18 sgg. L’accenno alla “storia ufficiale ” vuole richiamare l’attenzione su uno dei caratteri più salienti della tradizione storica romana. Si tratta in breve di questo: quando i Romani cominciarono a scrivere la storia più antica della loro città, questa si era innalzata al rango di potenza mediterranea. Gli umili inizi, il travaglio affannoso delle guerre continue, con battaglie spesso vinte, ma talora anche perdute, parvero a quegli scrittori come una macchia per la presente grandezza della patria, ed essi si studiarono di cancellarla alterando la verità con vari espedienti. In seguito vi furono storici che su quegli stessi fatti diedero racconti inquinati da altri elementi, per esempio dal gusto per le amplificazioni o invenzioni retoriche. In conclusione, quando ancora più tardi quelle narrazioni furono riprese da storici la cui opera si è conservata fino a noi (come Livio), si era formata e ancor più si venne consolidando una specie di versione ufficiale spesso poco rispettosa della verità dei fatti e, quindi, più che mai da sottoporre al vaglio di un’attenta critica. Sul foedus Cassianum (le cui clausole sono in parte riferite da D IONYS . H AL IC ., VI 95, 2) cfr. C IC ., Pro Balbo 23, 53: cum Latinis omnibus foedus esse ictum Sp. Cassio Postumo Cominio consulibus quis ignorat? Quod quidem nuper in columna ahenea meminimus post rostra incisum et perscriptum fuisse. Cfr. anche L IV . II 33, 9: nisi foedus cura Latinis columna aenea insculptum monumento esset ab Sp. Cassio uno, quia collega afuerat, ictum, Postumum Cominium bellum gessisse cum Volscis memoria cessisset. Sui rapporti instaurati dal foedus fra la lega latina e i Romani sono da tener presente due testi. Uno è un lemma di Festo (p. 276 L INDSAY ) contenente un frammento di Cincio (antiquario del I sec., da non confondere con l’annalista Cincio Alimento) ove si parla di Romani che, in veste di praetores (lo stesso titolo che precedette quello di consules), si recavano ad assumere il comando dell’esercito federale: Praetor ad portam nunc salutatur is qui in provinciam pro praetore aut pro consule exit; cuius rei morem ait fuisse Cincius in libro de consulum potestate talem “Albanos rerum potitos usque ad Tullum regem; Alba deinde diruta usque ad P. Decium Murem consulem (cioè all’anno 340) populos Latinos ad caput Ferentinae, quod est sub monte Albano, consulere solitos, et imperium communi consilio administrare; itaque quo anno Romanos imperatores ad exercitum mittere oporteret iussu nominis Latini, complures nostros in Capitolio a sole oriente auspicis operam dare solitos. Ubi aves addixissent, militem illum, qui a communi Latio missus esset, illum quem aves addixerant, praetorem salutare solitum, qui
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eam provinciam optineret praetoris nomine. La lega di città latine, che Cincio ricordava come avente il suo centro alla fonte Ferentina, è quella stessa che troviamo menzionata in un frammento (58 P ETER ) delle Origines di Catone, ove si riporta il testo di una dedica fatta per conto della lega dal comandante militare dei confederati: lucum [***] Dianium in nemore Aricino Egerius Baebius Tusculanus dedicavit dictator Latinus; hi populi communiter: Tusculanus, Aricinus, Lanuvinus, Laurens, Coranus, Tiburtis, Pometinus, Ardeatis Rutulus. All’atto della dedica era un tusculano che, col titolo di dictator Latinus, comandava l’esercito della lega latina, della quale vengono nominati come membri gli stati-città di Tusculum, Aricia, Lanuvium, Lavinium, Cora, Tibur, Pometia, Ardea. Sull’ampliarsi della dominazione romana nella Penisola, sempre d’importanza fondamentale K.J. B EL OCH , Der italische Bund unter Roms Hegemonie, Leipzig 1880 (rielaborato nella già citata Römische Geschichte). Del medesimo autore è ancora da tener presente, sulle condizioni sociali ed economiche della popolazione di Roma nei primi secoli della repubblica, Die Bevölkerung der griechisch-römischen Welt, Leipzig 1886; in particolare, per la società romana nel V sec., v. A. P IGANIOL , La conquête romaine, 2 a ed., Paris 1930, p. 95 sgg. Illuminante sul carattere della religiosità romana la classificazione fatta da Varrone (a noi nota attraverso A UG USTIN ., De civ. dei VI 3) fra dii certi, dii incerti e dii praecipui atque selecti. Sulle pratiche cultuali nell’antica Roma è da vedere, in generale, G. W ISSOWA , Religion und Kultus der Römer, 2 a ed., München 1912, sostituito ora, nello “Handbuch der Altertumswissenschaft ” fondato da I. M ÜLL ER , dall’opera di K. L ATTE , Römische Religionsgeschichte, München 1960; v. anche P. C ATALANO , Contributi allo studio del diritto augurale, I, Torino 1960. Sugli ordinamenti dello Stato romano, dalle origini al basso impero, fondamentale T H . M OMMSEN , Das römische Staatsrecht, voll. I-III, Leipzig 1887 sgg. (sostanziali integrazioni di quest’opera, per quanto riguarda l’età imperiale, sono rappresentati da due contributi di A. A LFÖLDI : Die Ausgestaltung des monarchischen zeremonielles am römischen Kaiserhofe, in “Mitteilungen d. deutsch. Arch. Inst.”, Röm. Abt., 1934, e Insignien und Tracht der römischen Kaiser, ibid., 1935). Il Mommsen, peraltro, nell’indagare gli sviluppi degli ordinamenti statali di Roma, li considerò come originati da una genuina creazione dei Romani, cioè come affatto isolati d a analoghi sviluppi verificatisi presso altri popoli italici, i quali si sarebbero poi limitati, volenti o nolenti, ad adottare e adattare gli schemi di governo elaborati dai Romani. Contro questa teoria già formulò valide riserve A. R OSENBERG (Der Staat der alten Italiker, Berlin 1913); sull’esistenza di una comune cultura italica e di un
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corrispondente comune travaglio costituzionale che condizionò l’origine delle istituzioni romano-italiche, v. S. M AZZARINO , Dalla monarchia allo stato repubblicano, sopra citato. Le lacinie superstiti della legislazione decemvirale presso S. R ICCOBONO , Fontes iuris Romani anteiustiniani, I, Leges, 2 a ed., Firenze 1941, p. 21 sgg.
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III Dall’incendio gallico al primato nell’Italia centrale.
1. Il disastro e la ricostruzione. - Col nome di Galli i Romani chiamarono quelle popolazioni di stirpe celtica che, muovendo nel primo millennio dalla Germania meridionale, sciamarono nelle terre dell’Europa occidentale. Nell’Italia settentrionale essi si affacciarono, pare, all’inizio del IV secolo ed ebbero presto ragione delle resistenze opposte dai Liguri e dagli Etruschi, cui strapparono successivamente Melpum (che chiamarono Mediolanum, Milano) e Felsina (Bologna). Un’orda di questi Galli, con a capo Brenno, si spinse attraverso l’Etruria interna e nel 390 (secondo Livio V 41 sgg.; 386 secondo la migliore cronologia di Polibio I 6, 1-2) travolse sul fiume Allia, piccolo affluente del Tevere, lo schieramento difensivo dei Romani e dei loro alleati. Nessun altro ostacolo si frapponeva sulla via verso la vicina Roma, che fu presa e messa a ferro e fuoco. Solo dopo vari mesi i Romani riuscirono a fare allontanare i barbari dalla città, e non per l’eroica riscossa di Camillo - come più tardi si raccontò - ma pagando una forte somma di riscatto; del resto gli invasori non erano mossi dal desiderio di conquiste territoriali, ma solo dalla cupidigia di far bottino. Gli storici romani, per attenuare le proporzioni del disastro, raccontarono anche che si ebbe un’immediata ripresa in ogni campo, tanto che un
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solo anno sarebbe bastato a ricostruire la città, ma il vero è che il contraccolpo subito dalla potenza romana fu assai duro: Volsci ed Equi ripresero i loro attacchi mentre veniva meno l’aiuto dei Latini e degli Ernici, che avevano colto il destro per sottrarsi agli obblighi del trattato che li legava a Roma. Un compenso a questo pericoloso isolamento i Romani lo trovarono in una salda unione con la potente città etrusca di Cere (oggi Cerveteri) che, situata presso la costa tirrenica, non era stata toccata dalle devastazioni dei Galli. A Cere erano stati posti in salvo e avevano trovato ospitalità i patrii Penati e le Vestali: in cambio di questo beneficio, che attraverso la continuità dei culti cittadini aveva assicurato la sopravvivenza del la loro patria, i Romani offrirono ai Cèriti la civitas sine suffragio (= senza diritto di voto), una specie di cittadinanza onoraria che cementava i vincoli fra i due popoli facendoli hospites gli uni degli altri. Forti di questa intesa, i Romani potettero intraprendere quel trentennio di lotte che li portarono a restaurare il loro prestigio nel Lazio. Contro i Volsci il conflitto si protrasse con alterne vicende sino alla definitiva occupazione della pianura pontina, che nel 358 entrò a far parte del territorio dello Stato. Ugualmente fortunata fu la lotta contro gli Equi collegati con Preneste, lotta nella quale Roma fu largamente aiutata dai Tuscolani, i più esposti alla minaccia degli Equi. Nello stesso anno 358, che aveva visto chiudersi il duello con i Volsci, riusciva a Roma di riannodare le fila della sua triplice alleanza rinnovando gli antichi legami con gli Ernici e con le città della lega latina. Dopo essere in tal modo risalita dal baratro in cui 42
l’aveva precipitata l’invasione dei Galli, Roma imboccò una nuova politica che portò alla fine della stretta intesa con i Ceriti e, in generale, della collaborazione con gli Etruschi. Causa di questa rottura fu il prevalere della reazione conservatrice su quei circoli democratizzanti di tendenza filo-etrusca che sotto la guida del tribuno Licinio Stolone avevano vigorosamente patrocinato le rivendicazioni della plebe e, come vedremo, erano riusciti a restaurare l’eleggibilità dei plebei al consolato, Questo dà ragione del carattere di spietata ferocia che assunse il rinnovato cozzo dei Romani con gli Etruschi, soprattutto con i Tarquiniesi ed i Falisci. Così nel 358, dopo uno scontro sfortunato, alcune centinaia di prigionieri romani furono trascinati a Tarquinia e passati per le armi; quattro anni appresso, quando la guerra prese una piega favorevole ai Romani, questi si vendicarono infliggendo il medesimo trattamento ad un numero ancor maggiore di Tarquiniesi presi in battaglia. Nel 353 si pattuì con i Ceriti una tregua per la durata di cento anni e infine nel 351 fu conclusa la pace con i Tarquiniesi e i Falisci. Ma queste lotte così aspre ed impegnative sui confini settentrionali avevano deteriorato le posizioni romane, ancora in via di consolidamento, nel settore meridionale, cioè di fronte alle città latine. Ce lo mostra, fra l’altro, una clausola contenuta in un nuovo trattato che nel 348 Roma concluse con Cartagine allo scopo di confermare l’antica amicizia e di delimitare le rispettive sfere d’influenza nella navigazione e nel commercio. “Se i Cartaginesi”, riferisce Polibio, “avessero preso nel Lazio qualche città non soggetta ai Romani, essi 43
potevano tenere il bottino e i prigionieri salvo a consegnare la città ai Romani”. Una clausola, questa, assai diversa da quella sancita nel precedente trattato un secolo e mezzo avanti, quando si era convenuto l’obbligo per i Cartaginesi di astenersi dall’attaccare le città del Lazio e, se ne avessero presa qualcuna, di consegnarla intatta ai Romani. Nel 348, dunque, Roma sembra non solo prevedere attacchi dei Cartaginesi contro le città latine con lei non collegate, ma anche incoraggiare tali attacchi stabilendo i vantaggi che ne potevano derivare all’aggressore. Evidentemente era un modo di far pressione sui Latini, le cui relazioni coi Romani si erano nuovamente guastate. Allo stesso fine, in fondo, pare fosse stato concluso qualche anno prima, nel 354, un trattato di alleanza con i Sanniti. 2. I Sanniti e il loro primo conflitto con Roma. - I Sanniti erano una popolazione dì stirpe sabellica, stanziata sull’Appennino meridionale, che al principio del V sec. avevano cominciato a spostarsi verso il sud provocando, fra l’altro, la calata dei Volsci nella pianura pontina. Favorite dal declino della potenza etrusca, le tribù sannitiche più meridionali sboccarono nella Campania ove si sovrapposero agli Ausoni, dei quali peraltro assorbirono la superiore civiltà, formatasi al contatto con gli Etruschi e con i Greci della Magna Grecia. Questi invasori, che i Greci chiamarono Obikòi e i Latini Opsci oppure Osci, si radicarono saldamente nelle nuove sedi organizzandosi in tre leghe, con al centro rispettivamente Nuceria (od. Nocera), Nola e Capua (od. Santa Maria Capua 44
Vetere). Quest’ultima, la lega dei Campani, era la più importante per estensione e potenza, tanto che Capua divenne una delle prime città d’Italia. Il diverso grado di civiltà e i contrastanti interessi causarono una frattura fra gli Osci e le più arretrate tribù sabelliche rimaste sui monti, ossia le tribù (da nord a sud) dei Caraceni, dei Pentri, degli Irpini, dei Caudini, che i Romani chiamarono col nome complessivo di Samnites. Intorno alla metà del IV secolo i Sanniti costituivano una compagine politica organizzata su basi federali (meddix si chiamava il capo di ogni tribù, meddix tuticus il capo di tutta la federazione), che si estendeva dal versante adriatico a quello tirrenico, ove premeva sulle fertili terre tenute dagli Osci. L’accordo del 354 implicava da parte dei Romani l’accettazione della politica espansionistica dei rudi e bellicosi montanari dei Sannio verso la Campania, e se Roma dovette per il momento acconciarvisi fu per costituire una minaccia alle spalle dei Latini recalcitranti, e anche per impedire che eventualmente i Sanniti si intendessero con gli stessi Latini. Ma non si era trattato che di un’occasionale convergenza d’interessi, e difatti, appena i Sanniti tentarono di realizzare le loro mire sulla Campania, trovarono la più energica opposizione proprio nei Romani. La loro prima mossa fu in direzione di Teano, uno dei centri del piccolo popolo dei Sidicini. Questi si rivolsero per aiuti alla lega campana e a sua volta Capua, facendosi accogliere in seno alla federazione romano-latina, si assicurò l’appoggio romano. Scoppiava cosi, nel 343, la prima guerra sannitica, che ebbe come scontri principali una 45
battaglia al Monte Gauro (nei Campi Flegrei) e una presso Suessula (non lungi dall’odierna Cancello, in prov. di Caserta) Gli storici antichi parlarono anche di una terza battaglia che si sarebbe combattuta a Saticula (Sant’Agata dei Goti), ma sembra poco credibile che l’esercito romano si spingesse così addentro nel Sannio. Comunque, il duello si era risolto in un trionfo della superiore organizzazione militare dei Romani, sì che i Sanniti s’indussero a chiedere pace. Contemporaneamente si acuivano i vecchi dissidi fra i Romani e i loro alleati, e mentre i primi, in vista di eventuali complicazioni nel Lazio, concedevano ai Sanniti miti condizioni, lasciando loro mano libera contro i Sidicini di Teano, i Latini non solo deliberavano di continuare da soli la lotta contro i Sanniti, ma scendevano in guerra aperta contro Roma, decisi ad abbatterne la supremazia. 3. Insurrezione e scioglimento della lega latina Verificatosi un totale rovesciamento di posizioni, dalla parte dei Latini si schierarono i Campani, scontenti della pace concessa ai Sanniti, e invece questi ultimi si accordarono con i Romani. Per effetto di tale accordo un esercito comandato dai consoli Tito Manlio Torquato e Publio Decio Mure (340) si portò in Campania passando non per l’infido territorio del Lazio, ma addentrandosi nel paese dei Marsi e dei Peligni per poi scendere attraverso il Sannio a congiungersi con l’esercito sannita. Lo scontro si ebbe presso la località di Veseris non lontano dal Vesuvio, e la vittoria fu assicurata - si raccontò poi - dai patriottismo del console Decio Mure, che fece getto 46
della propria vita per assicurare il trionfo delle armi romane. La lotta continuò ancora per due anni e solo nel 338 i Latini, a cui si erano uniti anche i Volsci di Anzio, furono definitivamente piegati con due battaglie combattute nel cuore del loro territorio. Le condizioni di pace dettate alle città latine dopo la loro completa disfatta danno la misura della lungimiranza della classe politica che reggeva le sorti della repubblica romana. I Latini avevano violato il patto di alleanza e, come fedifraghi, avrebbero potuto attendersi le più dure imposizioni; ottennero, invece, un trattamento tale che da quel momento in poi formarono un blocco unico con Roma. Naturalmente la loro lega, dopo un secolo e mezzo di vita, dovette sciogliersi, sì che nel Lazio non sopravvisse che l’antichissima lega religiosa per la celebrazione delle Feriae Latinae in onore di Giove Laziare. Le varie città ebbero, quindi, una sorte diversa a seconda che per ciascuna parve più opportuna. I centri più importanti della disciolta lega e più vicini a Roma come Lanuvio, Aricia, Nomento, Pedo furono trasformati in comuni romani, vale a dire che i loro abitanti cessarono di essere Lanuvini, Aricini etc., e diventarono Romani, con tutti i relativi diritti e doveri, mentre il loro territorio veniva unito a quello dello stato romano rendendolo più ampio e compatto. Le altre città latine, come Tivoli, Preneste, Cora e tutte quelle che a suo tempo erano nate come colonie latine, mantennero la loro fisionomia di comuni Latini formalmente indipendenti, salvo il divieto di unirsi fra loro in nuove leghe e l’abolizione del vicendevole diritto di conubium (cioè di contrarre 47
matrimoni “misti” giuridicamente validi) e di commercium (cioè di stipulare fra loro atti di compravendita giuridicamente validi). Ciascuna dovette sottoscrivere con Roma un singolo trattato di alleanza, che sanciva i vantaggi e gli obblighi dei suoi cittadini rispetto ai Romani: fra gli obblighi in primo luogo quello di concorrere con un contingente militare alle guerre di Roma, tra i vantaggi quello di poter acquistare, volendo, la cittadinanza romana col semplice trasferimento del domicilio in Roma. Un privilegio di non poca importanza, quest’ultimo, che rendeva possibile ai personaggi più cospicui delle città latine di stabilirsi in Roma e di affermarsi, attraverso la partecipazione alla vita pubblica, in seno alla classe di governo. Anche per i Campani, che come i Volsci Anziati erano stati a fianco dei Latini ribelli, ma che bisognava tutelare dalle mire espansionistiche dei Sanniti cui restavano esposti, le condizioni di pace non furono punitive, bensì intese ad assicurare lo sviluppo di amichevoli rapporti; pertanto, come ad Anzio, fu conferita la civitas sine suffragio a Capua, a Cuma, a Suessula, nonché a Fundi (Fondi) e Formiae (Formia) che si trovavano in posizione dominante sulla via, ormai d’interesse vitale, che menava dal Lazio alla Campania. Assai duro fu invece il trattamento inflitto alla volsca Velletri, ove l’aristocrazia ribelle fu sbandita e spogliata delle sue terre, che vennero assegnate a cittadini romani. Quanto agli Ernici, che a differenza dei Latini non erano venuti meno al rispetto del trattato di alleanza, essi restarono nell’antica condizione di foederati.
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4. La seconda guerra sannitica. - L’intervento romano in Campania, se aveva creato i lontani presupposti per un’espansione verso quelle contrade, doveva portare, per la stessa ragione, ad un nuovo e più aspro conflitto coi Sanniti. Gli insuccessi della guerra del 343 non potevano bastare a distogliere le mire di costoro da quelle terre naturalmente ubertose e fecondate dal lavoro di una popolazione industriosa e civile. Consapevoli di questo, i Romani si preoccuparono assai presto di consolidare la loro posizione, badando soprattutto ad assicurarsi con nuove alleanze il controllo delle vie naturali di comunicazione con la Campania. Da parte loro, i Sanniti avevano esteso la loro ingerenza in Campania stringendo accordi con la lega osca di Nola e con la città greca di Napoli, dove ad un certo punto introdussero anche un loro presidio. Ma questa intesa con i Sanniti sembra che in Napoli fosse sostenuta dal partito popolare e invece osteggiata dagli aristocratici i quali, quando nel 327 i Romani decisero di intervenire militarmente, intavolarono con loro lunghe trattative che si conclusero con la stipulazione di un accordo. Era un gran successo per la politica romana aver attirato nel sistema delle sue alleanze una delle principali città della Magna Grecia, ma nello stesso tempo si dava luogo ad un nuovo, e questa volta assai più duro, conflitto col Sannio. Piuttosto oscuri rimangono gli sviluppi di questa seconda guerra sannitica, anche perché gli storici romani che più tardi la narrarono ne alterarono il racconto, sforzandosi di ingrandire le vittorie e, soprattutto, di mettere in ombra gl’insuccessi. Ma è certo che le prime battute 49
culminarono in una disfatta per i Romani, che avevano cercato audacemente di colpire la potenza nemica nel cuore del suo territorio. Nel 321, mentre le legioni, al comando dei due consoli s’inoltravano nello gole verso Benevento, in vicinanza di Caudium caddero in un’imboscata e furono costrette ad arrendersi e passare sotto il giogo (Forche Caudine). Di questo grosso successo i Sanniti non seppero approfittare e pertanto l’iniziativa restò ai Romani, i quali, anziché ritentare la prova dell’attacco diretto, intrapresero un’abile politica per accerchiare i nemici. Si assicurarono infatti l’amicizia dei popoli stanziati sull’Appennino a nord dei Sanniti (i Marsi, i Peligni, i Marrucini, i Frentani) e strinsero alleanza con alcune città dell’Apulia che si sentivano minacciate dalla pressione sannitica. A questo punto i Sanniti si mossero per spezzare l’accerchiamento e, sboccati nella pianura laziale, giunsero anche a minacciare da vicino la stessa Roma, che però riuscì a contenere la loro offensiva e a presidiare con nuove colonie le vie d’accesso dal Sannio verso il Lazio e la Campania. In questa regione i Romani condussero energiche operazioni non solo per via di terra (e a questo scopo fu costruita la prima grande arteria stradale d’Europa, la via Appia, con la quale nel corso della sua censura cominciata nel 312 Appio Claudio il Cieco congiunse Roma con Capua), ma anche per via di mare, creando un corpo di fanteria da sbarco che agli ordini dei duoviri navales, istituiti nel 311, operò sulle spiagge di Pompei. Nonostante qualche complicazione in Etruria, e malgrado la defezione degli Ernici che vennero presto domati, la guerra si avviava ad un epilogo 50
favorevole per i Romani, che nel 305 avanzarono ben addentro nel territorio dei nemici costringendoli a chiedere pace. Questa fu stipulata nel 304, e mentre il Sannio restava sostanzialmente intatto (per il momento non era nemmeno da pensare ad una diretta dominazione), il territorio romano risultava ingrandito dal territorio degli ex alleati Ernici che nel 306 si erano ribellati. Si trattava di Anagnia, Aletrium e Frusino (Frosinone), i cui abitanti vennero puniti con l’incorporazione nello Stato romano in qualità di cives sine suffragio. Infatti a partire da questo momento) la civitas sine suffragio non rappresentò più una forma di cittadinanza onoraria, come era stata al tempo in cui fu data ai Cèriti; ormai le città cui essa era stata estesa cessavano di essere comunità autonome per divenire municipi romani, e municipes diventavano i loro abitanti perché, trasformati in cives sine suffragio non erano più, per es., Anagnini, Frusinati ecc., ma cittadini romani di una categoria inferiore. L’inferiorità consisteva nel dover adempiere agli obblighi che incombevano sugli altri cittadini romani (municipes è da munia capere) senza poter godere dei diritti politici (simboleggiati dal suffragium o voto). 5. La terza guerra sannitica e l’ampliarsi della federazione romano-italica. - Appena sei anni durò l’intervallo fra la seconda e la terza guerra sannitica. Quella del 304, piuttosto che una pace, era stata una tregua, e i Romani ne approfittarono per colpire e debellare definitivamente gli Equi, che avevano ripreso le armi, e occuparne buona parte del territorio ove furono fondate le colonie di Alba Fucens (nel 303: Liv. X 1, 1) e di Carsioli (nel 302 o 51
nel 298: Liv. X 3, 2; 13, 1. Vell. Pat. I 14). Nel frattempo grosse nuvole tornavano ad addensarsi sull’orizzonte, e mentre Roma era costretta ad impegnarsi contro i Sabini e gli Umbri, dovette nuovamente affrontare l’urto dei Sanniti, coalizzati questa volta con gli Etruschi e i Galli Sènoni (stanziati nelle odierne Marche). Sulle prime, grazie alla posizione geografica centrale che separava i nemici del nord da quelli del sud, fu piuttosto agevole ai Romani di controllarne le mosse; ma quando un grosso esercito sannita, passando attraverso il territorio dei Peligni e dei Sabini, riuscì a congiungersi nell’Umbria con le forze degli altri coalizzati, il pericolo divenne mortale. Lo scontro decisivo, che avvenne nel 295 presso Sentinum (non lungi da Sassoferrato), giustamente fu definito “battaglia delle nazioni”: dal suo esito, infatti, doveva dipendere se la penisola aveva ancora da restar divisa fra popolazioni di stirpe e civiltà diverse oppure avviarsi alla completa unità nazionale e statale sotto l’impero di Roma. La grande vittoria, che costò gravi perdite e la morte di un console (Publio Decio Mure - si raccontò - come già suo padre nella guerra contro i Latini del 340, avrebbe consacrato la vita agli dei inferi), scongiurò per i Romani il pericolo di rimanere schiacciati dalla coalizione avversaria, ma per concludere il conflitto occorsero ancora altri cinque anni di guerra. Al termine dei quali, nel 290, la potenza romana risultava notevolmente accresciuta. Il Sannio rimase indipendente, ma vincolato da un foedus e ancor più di prima controllato da nuove colonie come Minturnae e Sinuessa (presso Mondragone), fondate sul versante tirrenico, e Venusia (in Apulia, od. 52
Venosa), che con i suoi 20 mila coloni rappresentava per i Sanniti una formidabile minaccia alle spalle. Parecchie città degli Etruschi, come Volsinii (Bolsena), Arezzo, Perugia e Chiusi dovettero entrare nell’alleanza romana, e così pure varie città degli Umbri, fra cui alcune (Spoleto, Foligno), per la loro posizione geografica dominante, furono direttamente occupate dai Romani. Ugualmente in diretto possesso dei Romani caddero l’ampio territorio dei Sabini e il Piceno, e poco dopo venivano strappate ai Galli Senoni le loro terre sull’Adriatico, ove più tardi furono fondate le colonie di Sena Gallica (Senigallia) e Arìminum (Rimini). In tal modo Roma aveva fatto della confederazione romano-italica una delle principali potenze del Mediterraneo: il territorio della repubblica si aggirava sui 20 mila kmq con una popolazione di circa un milione di cives Romani, mentre a un paio di milioni assommavano i foederati distribuiti su un territorio di 60 mila kmq. Sull’invasione gallica della Penisola v., p. es., A. G R ENIER , Les Gaulois, Paris 1923; sulla questione relativa all’itinerario seguito dall’orda che giunse a occupare Roma, G. V ITUCCI , Problemi di storia e archeologia dell’Umbria, Perugia 1964, p. 291 sgg. Sullo scontro al fiume Allia (come poi, in genere, su tutte le battaglie combattute da Greci e da Romani) sono da vedere gli Antike Schlachtfelder di J. K ROMAYER e G. V EITH , voll. 4, Berlin 1903-1931, corredati dallo Schlachten Atlas (ai medesimi autori si deve la trattazione sulle antichità militari nello Handbuch del M ÜLLER , con il titolo: Heerwesen und Kriegführung der Griechen und Römer, München 1928). Sulle relazioni fra Roma e Cere, M. S ORDI , I rapporti romano-ceriti e l’origine della civitas sine suffragio, Roma 1960. Accennando al secondo trattato romano-cartaginese, Polibio (III, 24, 1-6) non ne riferisce la data; tra le varie opinioni dei moderni è preferibile quella che lo colloca nel 348, al quale anno Livio registra per la prima volta un foedus fra Roma e Cartagine: cfr. S. M AZZARINO , op. cit. sopra, p. 45.
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Il racconto della I guerra sannitica spec. in L IV ., VII 29 e VIII 2 (qualche cenno anche in C IC ., De divinatione I 24, 51; D IONYS . XV, 3, 2; A PPIAN ., Samn. 1, e altri). Invece Diodoro ne tace completamente, dal che alcuni critici hanno voluto ricavare che si tratterebbe soltanto di una falsificazione dell’annalistica (vedi per esempio F. E. A D COCK , in “Cambridge Ancient History”, vol. VII, p. 588). Sulla devotio del console Publio Decio Mure, sospetta alla critica perché la cosa si ripete per Publio Decio Mure figlio (cos. 295) alla battaglia di Sentinum, e per Publio Decio Mure nipote (cos. 279) alla battaglia di Ascoli contro Pirro, è interessante la formula riportata da L IV ., VIII 9, 6-9: Iane, Iuppiter, Mars pater, Quirine, Bellona, Lares, divi Novensiles, di Indigetes, divi quorum est potestas nostrorum hostiumque, diique Manes, vos precor veneror veniam peto feroque, uti populo Romano Quiritium vim victoriamque prosperetis hostesque populi Romani Quiritium terrore, formidine morteque adficiatis. Sicut verbis nuncupavi, ita pro re publica Quiritium, exercitu, legionibus, auxiliis populi Romani Quiritium legiones auxiliaque hostium mecum deis Manibus Tellurique devoveo. Le condizioni di pace alla fine del bellum Latinum sono riportate in particolare da Livio (VIII 14: Lanuvinis civitas data sacraque sua reddita cum eo, ut aedes lucusque Sospitae Iunonis communis Lanuvinis municipibus cum populo Romano esset. Aricini Nomentanique et Pedani eodem iure, quo Lanuvini, in civitatem accepti. Tusculanis servata civitas, quam habebant, crimenque rebellionis a publica fraude in paucos auctores versum. In Veliternos, veteres cives Romanos, quod totiens rebellassent, graviter saevitum et muri deiecti, et senatus inde abductus, iussique trans Tiberim habitari, ut eius, qui cis Tiberim deprehensus esset, usque mille pondo assium clarigatio esset nec prius quam aere persoluto is, qui cepisset, extra vincula captum haberet. In agrum senatorum coloni missi, quibus adscriptis speciem antiquae frequentiae Velitrae receperunt. Et Antium nova colonia missa cum eo, ut Antiatibus permitteretur, si et ipsi adscribi coloni vellent; naves inde longae abactae, interdictumque mari Antiati populo est, et civitas data. Tiburtes Praenestinique agro multati ceteris Latinis populis conubia commerciaque et concilia inter se ademerunt. Campanis, equitum honoris causa, quod cum Latinis rebellare noluissent, Fundanisque et Formianis, quod per finis eorum tuta pacataque semper fuisset via, civitas sine suffragio data. Cumanos Suessulanosque eiusdem iuris condicionisque, cuius Capuam, esse placuit. Naves Antiatium partim in navalia Romae subductae partim incensae, rostrisque earum suggestum in foro exstructum adornari placuit, rostraque id templum appellatum). A questo proposito cfr. H. R UDOLPH , Stadt und Staat im römischen Italien, Leipzig 1935; J. G ÖHLER , Rom und Italien, Breslau 1939, con le osservazioni di S. M AZZARINO , Dalla monarchia allo stato repubblicano, cit., p. 159 sgg. e G. V ITUCCI , Latium, in “Dizionario Epigrafico di
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Antichità Romane fondato da E. De Ruggiero”, vol. IV (1947) p. 433 sgg. L’ubicazione di Caudium (Forche Caudine) si è in vario modo tentato di determinarla con riferimento alle moderne località d i Arienzo, Arpaia, Montesarchio, S. Agata de’ Goti, Moiano; cfr. L. P ARETI , Storia di Roma, I, p. 690 sgg. Sulle operazioni della III guerra sannitica nell’anno 298, oltre al racconto di Livio (X 11-13) ci è pervenuto un breve resoconto nell’epitaffio di Publio Cornelio Scipione Barbato, che condusse quelle operazioni in qualità d i console (C.I.L. I 2 6, 7). Le due versioni sono discrepanti, ma non in maniera inconciliabile, risalendo quella di Livio alla tradizione annalistica, quella dell’epitaffio alle memorie gentilizie degli Scipioni. Un recente lavoro d’insieme sullo incontro del mondo sannitico col mondo romano è quello di E. T. S AL MON , Samnium and the Samnites, Cambridge 1967. Sull’ampliarsi del dominio romano nell’Italia centrale, G. D E S ANCTIS , Storia dei Romani, II, Torino l901 p. 348 sgg.; K. J. B ELOCH , Römische Geschichte, cit., p. 392 sgg.; A. F ERRABINO , Nuova storia di Roma, I, Roma 1959, p. 265 sgg.
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IV Il regime nobiliare patrizio-plebeo. Il controllo dell’Italia meridionale.
1. Conclusione delle lotte fra plebe e patriziato. - Nei cent’anni, circa, che dal disastro dell’occupazione gallica videro l’ascesa di Roma fino alla conquista del primato nell’Italia centrale, veniva anche a compimento quel lungo ciclo di lotte che portarono i plebei a conquistare nella vita pubblica quella parità rispetto ai patrizi che avevano avuto all’inizio della repubblica. Già si è accennato che dopo l’invasione gallica ebbe per qualche tempo la prevalenza in Roma una corrente politica di tendenze democratiche; questa, al termine di una serie di contrasti, riuscì a fare approvare nel 367 un gruppo di leggi, dette Liciniae Sextiae dal nome dei due tribuni che fin dal 376 le avrebbero proposte e per dieci anni tenacemente propugnate: Gaio Licinio Stolone e Lucio Sestio Laterano. Per effetto di queste leggi i plebei, anzitutto, si liberavano della loro inferiorità “religiosa” ottenendo l’ammissione nel sacerdozio dei decemviri sacris faciundis, e quindi potevano essere eletti consoli. Ma i patrizi, nel momento stesso in cui erano costretti a condividere con la plebe la suprema magistratura dello Stato, la svuotarono delle sue funzioni giudiziarie; cioè, mentre fino allora l’amministrazione della giustizia era stata di competenza dei due consoli, a partire dal 366 fu
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invece affidata a un nuovo magistrato, il pretore, da eleggere esclusivamente fra i patrizi. La plebe accettò l’accomodamento confidando di non doverlo subire a lungo, e difatti nel 337 fu eletto il primo pretore plebeo nella persona di Quinto Publilio Filone. Del resto, già prima era riuscito ai plebei di dare la scalata alle altre magistrature più importanti, che si chiamavano magistrature “curuli” dallo speciale scanno usato dai magistrati, la sella curulis: così nel 356 fu nominato il primo dittatore plebeo, Gaio Marcio Rutilo, che poi nel 351 fu anche il primo plebeo a rivestire la censura. Ancora, nel 366 insieme con la pretura era stata istituita (e come contrapposta ai due edili plebei, che erano gli aiutanti dei tribuni della plebe) la edilità curule, con l’incarico di curare la celebrazione dei ludi e di sorvegliare le strade e i mercati. Tali funzioni avrebbero dovuto essere riservate a due patrizi, ma ben presto si stabilì che un anno sì e uno no anche i plebei potevano essere eletti edili curuli. Mentre in questo modo gli uomini più eminenti della plebe spezzavano le barriere che così a lungo li avevano tenuti in uno stato d’inferiorità rispetto ai concittadini patrizi, essi si adoperarono anche per migliorare le condizioni economiche dei plebei appartenenti agli strati inferiori della cittadinanza. Di tale problema sembra si occupasse particolarmente una delle leggi Liciniae Sextiae (o, più precisamente, una lex Licinia, cioè proposta dal solo Gaio Licinio Stolone), la quale avrebbe introdotto una nuova regolamentazione nel godimento dell’ager publicus. Questo era costituito dai terreni che Roma aveva confiscato ai nemici vinti; di essi era proprietario lo Stato, che in buona parte li cedeva in 57
uso ai cittadini che volessero sfruttarli dietro la corresponsione di una modesta percentuale sul reddito. Fino a quel momento a godere di tali terreni (in una certa misura che andò aumentando a mano a mano che con le nuove conquiste si ampliava l’agro pubblico) lo Stato aveva ammesso esclusivamente i patrizi, i quali del resto erano all’inizio i soli che potessero disporre dei capitali necessari per sfruttarli. Si era così venuta a costituire, sul piano economico, un’altra forma di privilegio, ma con la legge Licinia i plebei l’abolirono riuscendo a strappare ai patrizi il diritto di essere ammessi, alla pari con loro, al godimento dell’agro pubblico. È incerto se nel vittorioso corso di tali rivendicazioni si sia provveduto anche ad alleviare la condizione dei plebei oppressi dai debiti; comunque, a quest’ultimo proposito un gran passo avanti si fece con la legge Petelia, che abolì definitivamente l’imprigionamento per debiti e che fu fatta approvare secondo Livio (VIII 28) dal console Gaio Petelio Libone nel 326, secondo Varrone (De l. Lat. VII 105) da un omonimo figlio del precedente, dittatore nel 313. Invece fino allora il ricco aveva potuto tenere in catene - e anche vendere come schiavo - il concittadino che non riusciva a restituirgli il prestito ricevuto. Procedendo sulla via delle rivendicazioni, i plebei si sforzarono anche di accrescere l’importanza della propria assemblea e quella delle relative deliberazioni, i plebiscita. Questi dapprincipio non avevano avuto alcun valore giuridico, e solo con la minaccia di far ricorso alla violenza la plebe li aveva fatti rispettare. Ora bisognava costringere i patrizi a riconoscerne la piena validità, e a questo si venne, 58
forse, già nel 339 durante la dittatura del plebeo Publilio Filone; è certo, ad ogni modo, che l’efficacia dei plebisciti fu definitivamente sanzionata nel 287 da una legge proposta dal dittatore Quinto Ortensio. 2. Introduzione della costituzione “serviana”. L’assemblea della plebe si avviava in tal modo ad affermarsi come organo più importante per l’espressione della sovranità popolare e, probabilmente, proprio per impedire una simile eventualità il governo nobiliare, intorno al 360, attuò quella riforma per cui furono i comizi centuriati che, trasformandosi da adunanze dei soli cittadini sotto le armi in assemblee generali di tutti i cittadini, diventarono i principali comizi del popolo romano. Si tratta, precisamente, di quegli ordinamenti che gli storici antichi attribuirono al re Servio Tullio, anticipando di circa due secoli un’istituzione che invece, per un complesso di ragioni, deve essere collocata nella prima metà del IV sec. Secondo il nuovo ordinamento i cittadini furono ripartiti in classi e centurie. Le classi erano cinque, e a ciascuna di esse si veniva assegnati a seconda dell’entità delle sostanze di cui si era forniti; non tutti i cittadini, però, furono compresi nelle cinque classi, perché da una parte ne rimasero fuori quelli più ricchi, dall’altra i nullatenenti. Livio (I 43) attribuisce a Servio Tullio la nota scala dei censi (almeno 100. 000 assi per la I classe, 75. 000 per la II, 50.000 per la III, 25.000 per la IV, 11.000 per la V), ma si tratta di cifre valevoli 59
evidentemente per un’età assai più tarda, forse non anteriore alla guerra annibalica. Le centurie erano 193, delle quali 170 furono costituite dai cittadini delle cinque classi, e cioè 80 dalla I classe, 20 dalla II, 20 dalla III, 20 dalla IV e 30 dalla V. In ogni classe le centurie erano formate una metà dagli iuniores (cittadini fra i 17 e 45 anni) e una metà dai seniores (cittadini fra i 46 e 60 anni). Le rimanenti centurie vennero costituite da coloro che erano fuori delle classi, e precisamente 18 dai più ricchi (le centurie dei cavalieri) e 5 dai più poveri (detti proletarii o capite censi). Una simile ripartizione della massa dei cittadini in centurie rispondeva insieme ai bisogni della pace e della guerra, e pertanto il nome di centuria indicava contemporaneamente l’unità fondamentale sia dell’organizzazione civile sia di quella militare. Sul campo di battaglia una centuria era formata inizialmente, come dice il nome, da 100 combattenti, e questi venivano reclutati in seno alla corrispondente centuria del comizio che, naturalmente, doveva comprendere parecchi cittadini di più per poterne fornire 100 idonei al servizio di guerra. Di norma il reclutamento veniva fatto tra gli iuniores (i seniores costituivano una specie di riserva), e pertanto i cittadini della I classe dovevano fornire 4000 fanti (40 centurie di iuniores), quelli della II, III e IV 1000 ciascuna (cioè, ognuna 10 centurie dei suoi iuniores), quelli della V 1500 (15 centurie di iuniores): in totale 8500 uomini, quanti press’a poco costituivano gli effettivi delle due legioni in cui si articolava l’esercito romano verso la metà del IV secolo. Ogni legione aveva infatti 4200 fanti, dei quali 3000 di pesante armatura (con 60
corazza, elmo di bronzo e grosso scudo rettangolare) e 1200 armati alla leggera (con elmetto di cuoio e piccolo scudo rotondo); e poiché l’armamento e l’equipaggiamento erano a carico di ciascun combattente, la fanteria pesante era formata dai cittadini delle prime tre classi, che avevano maggiori possibilità, quella leggera dai cittadini delle ultime due. Le 18 centurie dei cittadini più ricchi dovevano poi fornire 600 uomini, con proprie cavalcature, equipaggiati per il combattimento a cavallo (300 per ogni legione), mentre le 5 centurie dei più poveri davano uomini sprovvisti di armi che nell’esercito venivano addetti a servizi vari. Da tutto questo è evidente che gli obblighi più gravosi, in primo luogo quello del servizio militare in guerra, pesavano sui cittadini più ricchi, soprattutto quelli delle 18 centurie equestri e della I classe, ma nello stesso tempo il nuovo ordinamento attribuiva a costoro il predominio nel governo della repubblica. Infatti il corpo dei cittadini ripartito nelle 193 centurie, quando si radunava nei comizi centuriati che fungevano ora anche da principale assemblea popolare per l’approvazione delle leggi e l’elezione dei magistrati, dava il suo voto centuria per centuria. Ciò vuol dire che i voti dei singoli cittadini non si sommavano globalmente, ma solo nell’ambito delle rispettive centurie per determinare la volontà di ciascuna centuria, e quindi i voti risultavano complessivamente in numero di 193. Ora, poiché i cittadini più ricchi, quelli che militavano a cavallo, avevano a disposizione 18 voti (corrispondenti alle loro 18 centurie), e 80 ne avevano i cittadini della I classe, è chiaro che costoro, se erano concordi, con i loro 98 voti 61
raggiungevano la maggioranza sul totale dei 193 voti disponibili e, quindi, avevano un peso determinante per decidere se, per esempio, quella tale legge doveva essere approvata o respinta, oppure se alle magistrature superiori, a cominciare dal consolato, doveva essere eletto un candidato piuttosto che un altro. 3. La nuova nobilitas patrizio-plebea. - Si capisce che un ordinamento di tal genere, commisurando al censo i diritti e i doveri di ciascuno, seppure non ignorava gli strati più umili della cittadinanza, era fatto apposta per tutelare gl’interessi della ricca nobiltà che teneva le redini del potere. Abbiamo detto nobiltà e non patriziato perché dal momento in cui, dopo le leggi Licinie Sestie, anche gli esponenti della plebe tornarono a raggiungere le più alte magistrature dello Stato, si venne costituendo in Roma una nuova classe di governo che fu formata insieme di patrizi e di plebei, la cosiddetta nobilitas patrizio-plebea. Naturalmente, sulle prime non furono molti i plebei che, attraverso la gestione delle più alte magistrature curuli, riuscirono a penetrare nelle file di questa nuova nobilitas: homines novi vennero chiamati costoro con un certo dispregio, e le antiche famiglie patrizie, collegate da vecchi e nuovi vincoli d’interesse e di sangue, poterono battere ancora a lungo la loro concorrenza. Per imporsi nella vita politica, e anzitutto per assicurarsi il favore dei comizi, occorreva non solo prestigio personale, ma anche una grande ricchezza (i magistrati non avevano stipendio); ma poiché l’economia romana conservava un carattere eminentemente agricolo, la 62
ricchezza continuò a restare accentrata in prevalenza nelle mani dei patrizi, grandi proprietari di terre. Tuttavia non pochi plebei accumularono ingenti sostanze con l’esercizio dell’industria e soprattutto del commercio che proprio in quest’epoca, con l’allargarsi dell’orizzonte politico, ebbe notevole incremento, come mostra il contemporaneo sviluppo della circolazione monetaria. Ad ogni modo i componenti plebei della nuova nobilitas, se pure per vario tempo rimasero una minoranza e anche se, chiuso il ciclo delle grandi rivendicazioni, furono in genere portati ad allinearsi sulle posizioni conservatrici del patriziato, non mancarono di far sentire la loro influenza nel modificare le tradizionali direttive della politica. Ma a questo proposito conviene osservare che anche qualche elemento del patriziato attuò una politica in certa misura democratica, sia pure soprattutto nell’intento di cattivarsi il favore delle masse popolari. Ciò vale specialmente per Appio Claudio il Cieco il quale fra l’altro, nel corso della sua famosa censura cominciata nel 312, nominò senatori alcuni cittadini di umili origini, tra cui anche figli di liberti (cioè di ex schiavi). Simili provvedimenti causarono, com’era naturale, forti reazioni, ma ormai si trattava di diversità di tendenze e di metodi più che di radicali contrasti, e sotto la guida del governo patrizioplebeo la repubblica si avviò decisamente a primeggiare fra i paesi del Mediterraneo. 4. Taranto e Roma. - Già nel corso della seconda, e poi della terza guerra sannitica, i Romani avevano avuto occasione d’intervenire, con le armi o 63
con le arti della diplomazia, nelle regioni più meridionali della Penisola, dove le rudi popolazioni indigene dell’interno premevano sulle città della Magna Grecia. Dopo che Napoli, rimasta come un’isola greca nella Campania sommersa dagli Osci, era stata incorporata nel sistema federale romano, e mentre si accentuava il declino delle altre colonie greche sotto la spinta dei bellicosi Lucani, il principale baluardo della grecità nell’Italia meridionale era diventata Taranto, florida per gl’intensi traffici del suo porto in felice posizione tra l’Oriente e l’Occidente. Per parare la minaccia dei barbari confinanti, già prima la città aveva dovuto chiedere aiuto ai Greci della madrepatria, e i suoi appelli erano stati accolti per ultimo dal re di Sparta Cleonimo (Taranto era stata fondata nell’VIII sec. da coloni spartani). Cleonimo era sbarcato in Italia nel 303, ma le sue imprese erano rimaste senza conseguenze durature anche perché egli si era ben presto guastato con i Tarentini, nei quali aveva suscitato il timore di essere venuto nella Magna Grecia più come conquistatore che come liberatore. Nella sua spedizione, Cleonimo si era trovato a fronteggiare anche i Romani, che si erano legati con i Lucani per completare l’accerchiamento del Sannio, e quando il re spartano, rotto l’accordo con Taranto, se ne partì senza aver nulla concluso, i Tarentini stipularono con i Romani un trattato nel quale si delimitavano le rispettive zone d’influenza. I Romani, impegnandosi a non navigare nel golfo di Taranto, riconoscevano in quella zona la supremazia dei Tarentini, ma nello stesso tempo si vedevano
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riconosciuto il diritto di intervenire in tutto il resto della Italia meridionale. Questo intervento ebbe luogo nel 282, quando i Romani stabilirono di accordare il loro aiuto agli abitanti della colonia greca di Turi che, incalzati dai Lucani, avevano preferito rivolgersi a loro piuttosto che ai Tarentini, da cui li dividevano vecchie rivalità. Le operazioni furono condotte energicamente dal console C. Fabricio, e poiché la guerra si era allargata ai Sanniti e ai Bruzi, i Romani non si limitarono a liberare Turi, ma provvidero ad occupare opportune posizioni strategiche introducendo guarnigioni, oltre che in Turi, anche in Locri e in Reggio. In tal modo l’iniziativa dei Turini aveva avuto sviluppi assai pregiudizievoli per gli interessi dei Tarentini; questi avevano ogni ragione di essere preoccupati delle mosse dei Romani, e quando in violazione del recente trattato, una flottiglia romana fece la sua apparizione nel golfo, vi fu un vero scoppio di furore guerresco. La flottiglia fu in parte affondata o catturata, in parte costretta a fuggire, e pochi mesi dopo la città di Turi veniva espugnata e saccheggiata. Fallite le trattative che i Romani avevano intavolato per non estendere ulteriormente il conflitto già in atto contro Sanniti, Lucani e Bruzi, fu dichiarata la guerra e nel 281 il console Lucio Emilio Barbula si affrettò a portare direttamente la minaccia sulla città nemica. Intercorsero altri negoziati, appoggiati in Taranto da quelli che inclinavano ad un accordo con Roma, ma non approdarono a nulla; ebbero invece successo le trattative dei Tarentini per assicurarsi l’intervento di
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Pirro, re dell’Epiro. 5. Pirro in Italia. - Pirro era allora nel fiore degli anni e delle speranze. Ancora giovinetto aveva regnato per qualche anno sull’Epiro (corrispondente all’incirca all’odierna Albania): poi ne era stato espulso, ma l’aveva recuperato con l’aiuto di Tolemeo Sotere re di Egitto. Le sollecitazioni dei Tarentini trovarono presso di lui facile accoglienza. A convincerlo della opportunità di una spedizione oltre il mare fu forse il timore di vedere i Romani prendere possesso della altra sponda dell’Adriatico, dirimpetto ai suoi domini, oppure il disegno più vasto di cogliere quell’occasione per riprendere l’opera del suocero Agatocle (tiranno di Siracusa dal 316 al 289) in difesa dei Greci d’occidente contro il minaccioso espansionismo di Cartagine. L’intervento per allontanare i Romani dal centro più importante della Magna Grecia poteva essere, per il re epirota, un’operazione di secondaria importanza, e cioè la premessa per una più vasta azione intesa ad unire in un grande stato i Greci di Italia (Italioti) e di Sicilia (Sicelioti). Si trattava, però, di un piano fondato su una conoscenza assai imprecisa della forza di Roma, né dobbiamo stupircene perché in effetti, fino a quel momento, nel mondo greco risonante ancora delle clamorose imprese di Alessandro Magno e dei suoi successori, Roma non poteva venir considerata che una potenza di rango inferiore. A questo errore di valutazione se ne accompagnò un altro non meno grave, vale a dire l’illusione che le città greche 66
d’occidente, superando il loro tradizionale spirito di particolarismo, avrebbero saputo accantonare le secolari rivalità e, insieme, rinunciare a una parte della loro autonomia: premesse entrambe indispensabili perché potessero entrare a far parte di uno stato unitario. Il fallimento dell’impresa era dunque segnato in partenza; il grande talento di condottiero, un esercito addestrato alle tecniche dell’arte militare greca - che era allora più progredita di quella romana - consentirono a Pirro di vincere varie battaglie, non di riportare il successo finale. Sbarcato nella primavera del 280 con circa 25.000 uomini e alcune decine di elefanti, il re epirota si scontrò con i Romani in una località sita tra le città di Eraclea e Pandosia (nell’odierna provincia di Matera). Pirro si era attestato dietro il fiume Siris (odierno Sinni), ma i Romani animosamente superarono l’ostacolo e diedero inizio al combattimento. Era la prima volta che essi si trovavano a fronteggia re l’urto degli elefanti - i “buoi (nel senso di bestioni) Lucani”, come allora li chiamarono - e lo scontro si risolse in un grave disastro. Deciso a sfruttare il successo, Pirro risalì attraverso la Campania e si spinse nel Lazio fino ad Anagni, ma la sua speranza di provocare una sollevazione generale contro Roma andò presto delusa e per il momento non gli rimase che rientrare a Taranto. L’anno dopo (279) il re iniziò la campagna in direzione dell’Apulia, ove i Romani inviarono le loro 4 legioni e i contingenti alleati agli ordini di entrambi i consoli. Lo scontro avvenne nel territorio di Ascoli (oggi Ascoli Satriano, in provincia di Foggia) e ancora una volta Pirro ebbe la meglio 67
grazie ai suoi elefanti. Sul terreno restavano più di seimila morti, fra cui il console Publio Decio Mure, che secondo il racconto degli storici romani aveva volontariamente sacrificato la vita come già a suo tempo avevano fatto l’avo nella guerra latina (a. 340) e il padre nella battaglia di Sentinum (a. 295). Se anche non si era trattato di una vittoria decisiva (tant’è vero che più tardi qualche storico poté addirittura parlare di un successo romano), tuttavia il senato di Roma deliberò di intraprendere sondaggi per arrivare ad un accordo e nello stesso anno 279 ne affidò l’incarico a Gaio Fabricio. Un simile passo destò le preoccupazioni dei Cartaginesi; questi avevano tutto l’interesse che Pirro continuasse ad essere impegnato in Italia (e quindi impedito di rivolgersi alla Sicilia, dove richiedevano il suo intervento sia i Siracusani sia gli Agrigentini, allora in lotta fra loro), e pertanto si affrettarono a inviare alle foci del Tevere una flotta agli ordini del generale Magone, incaricato di offrire alleanza e aiuti. Ma l’offerta non venne accettata: in quel momento avevano la prevalenza in Roma i pacifisti che rappresentavano gl’interessi della nobilitas plebea, ricca non tanto per i grandi possedimenti terrieri (come i patrizi), quanto per le imprese commerciali. In fondo la pace con Pirro, che non aveva affatto ottenuto un successo decisivo, avrebbe comportato soltanto l’obbligo di rispettare l’indipendenza della Magna Grecia. Ora ai pacifisti di parte democratica la rinuncia ad ogni mira sull’Italia meridionale spiaceva meno che un nuovo accordo con Cartagine, la quale nei suoi precedenti trattati aveva sempre badato a limitare lo sviluppo del commercio romano nel Mediterraneo. 68
6. Pirro in Sicilia e il definitivo fallimento della sua impresa. - Ben presto però la situazione generale subì un vero e proprio capovolgimento. Pirro aveva esitato per vari mesi a sottoscrivere la pace offerta dai Romani perché, se anche questa gli riconosceva la figura del vincitore, non gli dava però alcun vantaggio concreto. Una volta ottenuto dai Romani l’impegno a rispettare la libertà della Magna Grecia, egli avrebbe dovuto lasciar l’Italia, e quindi o tornare in Epiro o passare in Sicilia, ma non - come desiderava - in veste di liberatore dei Sicelioti dal dominio cartaginese. Infatti il suo appoggio era stato sollecitato, come s’è visto, sia dagli Agrigentini sia dai Siracusani, e accettando di soccorrere gli uni o gli altri egli avrebbe immeschinito la sua azione mescolandosi nei soliti contrasti che dividevano le città greche. Però alcuni mesi dopo in Sicilia le cose mutarono: nella primavera del 278 i Cartaginesi, preoccupati che il re finisse col decidersi a passare nell’isola, presero l’iniziativa delle operazioni e strinsero d’assedio Siracusa. Ma questo era proprio ciò che Pirro voleva per poter scendere in campo come paladino dell’indipendenza dei Sicelioti, e di fatto poco dopo egli salpava da Taranto alla volta della Sicilia. La sua mossa provocò naturalmente una svolta nella politica romana: si giudicò troppo grave il pericolo che egli riuscisse a raccogliere sotto la sua bandiera le forze greche dell’isola per poi tornare a riprendere il duello interrotto, e allora in senato prevalse il parere dei bellicisti, sostenuto in particolare con un famoso discorso da Appio 69
Claudio il Cieco. Vennero troncate le trattative con Pirro, che dopo averle trascinate così in lungo desiderava ora concluderle per non lasciarsi la guerra alle spalle, e insieme furono accettate le offerte dei Cartaginesi con i quali si concluse un nuovo trattato. Sbarcato in Sicilia nell’estate del 278 con la metà dell’esercito (l’altra metà era rimasta a difesa di Taranto), Pirro riuscì facilmente a liberare Siracusa dal blocco cartaginese e vi fece un ingresso trionfale. Il suo arrivo suscitò un’ondata di entusiasmo, e mentre veniva proclamato “egémone e re della Sicilia” egli si diede a raccogliere rinforzi da ogni parte. Nella primavera del 277 intraprese una campagna che lo portò in breve a liberare tutta la Sicilia tranne la fortezza di Lilibeo (od. Marsala) sulla punta occidentale dell’isola, dove però s’imbatté in una resistenza così accanita che quando i Cartaginesi gli offrirono di trattare la pace egli si mostrò incline ad un accordo. Ma questo suscitò la più violenta reazione nei Sicelioti, i quali ben sapevano che non sarebbero mai stati sicuri se i Cartaginesi non avessero sgombrato anche quell’estremo lembo dell’isola, e Pirro dovette riprendere le operazioni contro Lilibeo finché, dopo qualche mese di inutile logoramento, fu chiaro che l’impresa non sarebbe riuscita. Ciò produsse nei Greci un grande sconforto e accrebbe il loro malcontento per i gravi sacrifici di sangue e di denaro cui Pirro li aveva duramente assoggettati. L’entusiastica adesione di qualche anno prima si venne mutando in aperta ostilità, e nell’autunno del 276 al re non restava di meglio che tornarsene in Italia, dove, più che i Tarentini, lo 70
invocavano i Sanniti, i Lucani e i Bruzi ridotti a mal partito dai Romani. Infatti questi avevano continuato la guerra riportando alcuni buoni successi, e Pirro dové prepararsi con tutto l’impegno a ristabilire la situazione. Lo scontro decisivo ebbe luogo nella primavera del 275, (forse in Lucania piuttosto che presso Benevento), e seppure non si trattò di una vera e propria vittoria dei Romani, il risultato fu ugualmente positivo perché in effetti, dopo quella battaglia, Pirro si decise ad abbandonare la partita e a tornarsene in Epiro per rituffarsi nelle lotte di predominio dei sovrani ellenistici. È vero che egli lasciava in Taranto un presidio agli ordini del figlio Eleno, con la evidente speranza di poter riprendere il duello in tempi migliori, ma poi fu costretto a richiamare il figlio suggellando così la fine della sua troppo audace avventura. 7. Importanza dell’espansione nell’Italia meridionale. Sviluppo economico e progresso civile. - Nel 272 Taranto ottenne “pace e libertà”, cioè non fu assoggettata, ma dovette entrare a far parte della confederazione romano-italica obbligandosi per di più ad ospitare una guarnigione; anche Bruzi e Lucani ottennero un trattato di alleanza, mentre ai Sanniti fu tolta buona parte del territorio, ove la stessa Benevento nel 268 diventò una colonia latina. L’anno dopo entravano nella confederazione anche i Salentini, con l’importante porto di Brindisi, e così tutta l’Italia meridionale veniva inquadrata nel sistema dello Stato romano. Si trattava di un organismo composito, popolato di cives optimo iure (tra cui i coloni delle coloniae Romanae) e di cives sine suffragio (i 71
municipi), di alleati Latini (tra cui i coloni delle coloniae Latinae) e di alleati Italici (in senso lato): tutta una varietà di condizioni corrispondenti ad una varietà d’interessi che, appunto perché singolarmente tenuti in considerazione da Roma, cementavano intorno ad essa genti di origine, lingua e costumi diversi. In seno a questo organismo unitario divenne più rapida e agevole ogni sorta di scambi, dagli economici ai culturali, e questo non a beneficio dei soli Romani. Così, per esempio, se proprio in quest’epoca Roma prese a far concorrenza alle città italiote nelle diverse aree commerciali e adeguò la sua moneta ad una più larga rete di scambio, sicché il denarius soppiantò poi le monete di Taranto, di Reggio, di Napoli ecc., è anche vero che di lì a non molto, sulla scia delle armi romane, all’intraprendenza degli Italioti si sarebbero aperti i più grandi mercati dell’Oriente. Ma l’annessione dell’Italia greca fu soprattutto ricca di conseguenze per il progresso della civiltà. La pace di Roma, infatti, non solo impedì che venissero sommersi dai popoli confinanti (e poi dai Cartaginesi) gli istituti civili e religiosi, i costumi e la lingua dei Greci d’Occidente, ma permise che essi continuassero ad evolversi e a irradiare la loro influenza. E furono proprio di origine italiota quegli ingegni che alla letteratura e all’arte di Roma fecero muovere i primi passi sulla lunga via che portò al formarsi di quel comune patrimonio culturale grecoromano destinato a divenire uno dei pilastri della moderna civiltà.
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Il resoconto più ampio sul compromesso costituzionale del 367 (leggi Liciniae Sextiae) presso Livio, VI, 35, 4 seg.: creatique tribuni C. Licinius et L. Sextius promulgavere leges omnes adversus opes patriciorum et pro commodis plebis: unam de aere alieno, ut deducto eo capite, quod usuris pernumeratum esset, id quod superesset triennio aequis portionibus persolveretur; alteram de modo agrorum, ne quis plus quingenta iugera agri possideret; tertiam, ne tribunorum militum comitia fierent, consulumque utique alter ex plebe crearetur: cuncta ingentia, et quae sine certamine maximo obtineri non possent. Per le questioni relative al godimento delle terre demaniali, L. Z ANCAN , Ager publicus. Ricerche di storia e di diritto romano, Padova 1935. Sulla data più probabile dell’introduzione degli ordinamenti centuriati, attribuiti dalla tradizione a Servio Tullio, cfr. G. G IANNELLI , Origini e sviluppi dell’ordinamento centuriato, in “Atene e Roma” XV (1935) p. 229 sgg.; I D . in G IANNELLI -M AZZARINO , Trattato di Storia Romana, I, p. 180 sg. Sui riflessi militari dei nuovi ordinamenti, v. J. K ROMAYER - G. V EITH , Heerwesen und Kriegführung, cit., p. 255 sgg. A proposito della scala dei censi, attribuita nelle fonti al VI secolo (Servio Tullio) mentre, come sopra s’è detto, va piuttosto riferita alla fine del III sec., è da ricordare che la prima fusione dell’aes grave, cioè l’emissione degli assi librali (la prima vera e propria moneta romana) ebbe luogo intorno alla metà del IV sec. Circa un secolo dopo (nel 269 secondo P LIN ., Nat. hist. XXXIII 44) cominciò la coniazione della moneta argentea: denarius (10 assi), quinarius (5 assi), sestertius (2 assi e mezzo) del peso rispettivamente di grammi 4,55; 2,27; 1,13. Per quanto riguarda la validità del dato cronologico conservato dalla tradizione letteraria, si deve ricordare che essa è stata sostenuta dai numismatici della scuola italiana, mentre è stata revocata in dubbio da parecchi studiosi stranieri, soprattutto dall’inglese H. M ATTINGLY , secondo cui la coniazione del denarius sarebbe cominciata nel II sec. a.C. M a a confermare la bontà della data tradizionale è ora sopravvenuto il dato obiettivo di recenti scavi, da cui risulta che il denarius circolava già nel III sec. a.C. Cfr. L. B REGL IA , I rinvenimenti monetarii di Morgantina ecc. in “Ann. Ist. It. di Num.” IX -XI (1966) p. 304 sgg.; S. C ONSOL O L ANGHER , Ricerche di numismatica, Messina 1967, p. 169 sgg. T. V. B UTTREY e H. B. M ATTINGLY in «Atti Congr. intern. numism.” Roma 1965, p. 261 sgg. Sulla classe di governo nobiliare, e sui legami intercorrenti fra i vari gruppi, resta esemplare (a parte qualche riserva) l’opera di F. M ÜNZER , Römische Adelsparteien und Adelsfamilien, Stuttgart 1920. Sull’intervento di Roma nelle regioni più meridionali della Penisola, e particolarmente sulle sue relazioni con i Tarentini, v. P. W UILLEUMIER , Tarente dès origines à la conquête romaine, Paris 1939. Lo sbarco in Italia di Pirro, e l’importanza dell’azione militare e politica da lui intrapresa attirarono l’attenzio-
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ne di storici greci contemporanei di grande valore, come Ieronimo di Cardia e Timeo; ma delle loro trattazioni (perdute) ben poco è passato nei racconti giunti fino a noi, tutti più o meno inquinati dalle consuete deformazioni dell’annalistica, compresa anche la plutarchea Vita di Pirro. Un’idea del racconto liviano (scomparso con la perdita della II decade, che riferiva gli avvenimenti dal 292 al 218) l’abbiamo, oltre che dalle periochae (libri XII-XV), dagli epitomatori Floro, Eutropio e Orosio. L’incertezza della tradizione si riflette, naturalmente, nella discordanza delle ricostruzioni moderne e ha dato alimento a una vasta bibliografia, anche perché qui si tratta di uno dei capitoli più attraenti della storia greco-ellenistica (e, come tale, svolto con la solita maestria da K. J. B EL OCH anche nel vol. IV della sua Griechische Geschichte). Tra gli scritti più recenti sull’argomento si ricorderà quello di P. L EVÉQUE , Pyrrhos, Paris 1957. Sull’inserirsi delle poleis d’Italia negli schemi di governo romani, v. F. S ARTOR I , Il declino della Magna Grecia: libertà italiota e civitas romana, in “Riv. Storica Ital.” LXXII (1960) p. 5 sgg.
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V Roma e Cartagine.
1. Dall’amicizia al conflitto. - Come s’è visto, le relazioni ufficiali fra la repubblica dei Romani e quella dei Cartaginesi datavano da tempi assai antichi. Una serie di trattati aveva a più riprese ribadito la vecchia amicizia fra i due Stati, e l’assenza di qualsiasi motivo per un sostanziale contrasto aveva fatto sì che nulla venisse a turbare l’intesa. Le cose improvvisamente mutarono quando i Romani, estendendo il loro predominio sull’Italia meridionale, si affacciarono sullo stretto di Messina. Ormai la lotta secolare di Cartagine contro i Sicelioti per assoggettare tutta l’isola non poteva lasciarli indifferenti: se i Cartaginesi si fossero insediati da dominatori anche nella parte orientale della Sicilia, avrebbero costituito una grave minaccia per gli interessi romani da poco affermati nell’estremità meridionale della Penisola. E in realtà alla grande floridezza economica di Cartagine continuava ad accompagnarsi quella politica espansionistica in virtù della quale la città era divenuta la capitale di un grande impero che accentrava, in qualità di alleati o di sudditi, gli abitanti delle altre colonie fenicie del Mediterraneo (i Libiofenici) e le popolazioni del retroterra africano (dalle colonne d’Ercole alle Sirti) della Spagna meridionale, della Sicilia occidentale, della Sardegna, della Corsica. Il governo era nelle mani dei ricchi proprietari terrieri e, soprattutto,
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degli elementi più cospicui del mondo degli affari; erano appunto questi che, alla ricerca di nuove aree per l’espansione dei loro traffici, imprimevano alla politica cartaginese quel vigoroso dinamismo che ad un certo punto preoccupò il governo di Roma e finì per trasformare la vecchia amicizia in mortale rivalità. L’immane conflitto, che caratterizzò più di un secolo di storia (l’età delle guerre puniche), ebbe modeste origini. V’erano in Sicilia alcune migliaia di mercenari campani (i Mamertini, così detti dal nome del dio Mamerte, l’equivalente osco del Marte latino); a suo tempo questi erano stati al soldo di Agatocle, tiranno di Siracusa, e dopo la morte di costui, mentre stavano tornando in patria, si erano impadroniti con un colpo di mano della città di Messina (a. 283). Pirro li aveva più volte battuti, ma senza riuscire ad eliminarli; dopo la sua partenza i Mamertini avevano ripreso le loro incursioni brigantesche nel vicino territorio di Siracusa finché, nel 265, subirono una grave sconfitta ad opera del duce siracusano Gerone, che ottenne allora dai concittadini, in ricompensa, il titolo di re. Assediati in Messina, i Mamertini decisero di chiedere aiuto ai Cartaginesi, che inviarono un corpo a presidiare la rocca della città mentre Gerone si ritirava. Ma poco dopo, poiché le truppe cartaginesi di occupazione erano viste sempre più di malocchio, i Mamertini deliberarono di invitare i Romani a prendere possesso della città. Accogliendo l’invito, il senato di Roma mostrò di essere disposto ad affrontare i rischi che esso comportava, e questo spiega l’azione decisa di Appio Claudio (cons. 264), che, nonostante la vigilanza 76
della flotta cartaginese, riuscì a far passare al di là dello Stretto un buon contingente del suo esercito e costrinse il presidio punico a sgombrare la cittadella di Messina. Preoccupato per l’energico intervento romano, Gerone s’indusse ad unirsi coi Cartaginesi, e i due alleati assediarono Messina, ove nel frattempo era entrato il console col resto dei suoi uomini. Appio Claudio non solo si liberò dal blocco, ma costrinse gli avversari a ritirarsi verso le loro basi; l’anno appresso il console Marco Valerio Massimo (detto poi Messalla da Messana, cioè Messina) obbligava Gerone a passare dalla parte dei Romani. 2. Gli sviluppi della prima guerra punica. - Con l’appoggio di Gerone, che rimase poi fedele alleato fino alla morte, i Romani avrebbero potuto in tempo relativamente breve piegare i Cartaginesi ad un accordo; invece la guerra si trascinò con alterne vicende per oltre vent’anni. Questo dipese soprattutto dal sistema di cambiare ogni anno i generali sul campo, cioè i consoli, con evidente pregiudizio della necessaria continuità nell’azione di comando, e non certo da difetto di energia nel senato. Basta pensare alla rapidità con la quale, una volta compreso che bisognava tagliare la linea dei rifornimenti con cui Cartagine alimentava la guerra in Sicilia, si provvide alla costruzione di una flotta da guerra, e quindi a trasformare anche in potenza marittima quella che fino allora era stata solo una potenza terrestre. Con questa flotta il console Gaio Duilio riportò nel 260 la famosa vittoria di Milazzo, sopperendo alla scarsa esperienza con l’ingegnosa trovata dei corvi (una specie di ponti levatoi) me77
diante i quali le sue navi agganciarono quelle nemiche e permisero ai legionari imbarcati di combattere come in terraferma. Questa vittoria fu la premessa indispensabile per il coraggioso tentativo, fatto qualche anno dopo, di chiudere la partita portando la guerra direttamente contro Cartagine. Nel 256, sbaragliato al capo Ecnòmo la flotta nemica che tentava di sbarrare il passo, il corpo di spedizione agli ordini dei consoli Marco Attilio Regolo e Lucio Manlio Vulsone sbarcò in Africa presso Clupea e vi organizzò le sue basi. Poi, mentre una metà dell’esercito col console Vulsone tornava a svernare in Italia, Attilio Regolo avanzò in direzione di Cartagine e, sconfitto un esercito nemico, s’impadronì di Tunes (Tunisi) ove pose i quartieri d’inverno. Nella primavera dell’anno successivo i Cartaginesi offrirono nuovamente battaglia, e Attilio Regolo, che pure avrebbe potuto attendere il prossimo arrivo dei rinforzi, baldanzosamente accettò subendo però questa volta un grave rovescio e cadendo egli stesso prigioniero. Ai nuovi consoli, che approdarono poco dopo a Clupea, non restò che raccogliere i pochi superstiti e riprendere il viaggio di ritorno, durante il quale subirono gravissime perdite per una tempesta. Tra parentesi, è da notare che le prime flotte romane soffrirono i danni maggiori non dall’agguerrita marina avversaria, ma dalle tempeste da cui gli improvvisati ammiragli si lasciarono più volte sorprendere. Abbandonata l’idea dell’attacco diretto a Cartagine, i Romani ripresero la guerra in Sicilia, dove s’impadronirono di Panormo (Palermo) e strinsero d’assedio Lilibeo, senza però riuscire ad 78
espugnarla. Nel 247, fallito un tentativo per raggiungere un accordo (a perorare la pace i Cartaginesi avrebbero mandato lo stesso Attilio Regolo, che invece incitò il senato a non cedere e a rinviarlo a Cartagine, pur sa pendo che avrebbe pagato con la vita il suo comportamento: ma questa pare più leggenda che storia), arrivò in Sicilia un nuovo esercito con a capo un duce geniale, Amilcare Barca. Questi, aggrappatosi alle estreme posizioni nella Sicilia occidentale, riuscì a tenere in scacco per vari anni i nemici, e solo quando la vittoria navale romana alle isole Egadi (241) gli tagliò l’afflusso dei rifornimenti si decise a chiedere pace. L’ottenne a patto che Cartagine sgombrasse definitivamente la Sicilia, restituisse i prigionieri e pagasse in venti anni una forte indennità. 3. Conseguenze della guerra in Roma e in Cartagine. I Romani, che erano sbarcati in Sicilia solo per impedire che Messina cadesse nelle mani dei Cartaginesi, si trovarono alla fine padroni di tutta l’isola tranne il piccolo regno siracusano dell’alleato Gerone, destinato peraltro a diventare il primo di una lunga serie di stati vassalli. Ma più importa osservare che nel resto della Sicilia venne per la prima volta applicata una nuova forma di dominio diretto che era stata estranea al processo di unificazione dell’Italia, unificazione attuata mediante la concessione della cittadinanza romana o di trattati di alleanza. In Sicilia i Romani avevano conosciuto un sistema di governo che sovrapponeva nettamente dominatori a dominati, ed essi lo applicarono pressoché integralmente con l’istituzione della “provincia”, cioè di un territorio assoggettato e 79
sottoposto al governo di un pretore romano, i cui abitanti (i provinciali) dovevano corrispondere ai dominatori la decima sui prodotti del suolo. Era il primo passo verso la creazione dell’impero, cui seguì poco dopo la riduzione a provincia della Sardegna e della Corsica (227), che i Romani avevano strappato nel 238 ai Cartaginesi approfittando delle difficoltà che questi avevano incontrato a stipendiare le loro guarnigioni di mercenari. Ma per Cartagine, che conservava pressoché intatte le basi della sua potenza, si era trattato più che altro della perdita di un’area nella quale da secoli esercitava il monopolio (o quasi) del commercio marittimo. Pertanto il contraccolpo della sconfitta fu risentito soprattutto dal partito dei grossi affaristi (capeggiato dalla famiglia dei Barca); su questo prese il sopravvento il partito dei grandi proprietari terrieri, il cui programma era di indirizzare la politica cartaginese, più che alla espansione marittima e coloniale, alla formazione di un grande impero nell’Africa settentrionale. Ma di lì a poco riacquistò la prevalenza il dinamico partito avversario e questo fu il preludio, sia pure lontano, alla ripresa della guerra. In Roma, invece, la vittoria consolidò il potere della oligarchia patrizio-plebea, la quale tuttavia non mancò di corrispondere in certa misura alle aspettative dei ceti inferiori della cittadinanza, che avevano sopportato tanti sacrifici di sangue e di denaro. Venne infatti attuata una riforma in senso più democratico dei comizi centuriati stabilendo un collegamento tra le 193 centurie e le 35 tribù con un sistema che rimane piuttosto oscuro, ma che certo ebbe l’effetto di far partecipare alla direzione della 80
cosa pubblica un certo numero di cittadini che fino a quel momento ne erano rimasti esclusi. Meno propensa la classe di governo si mostrò ad accogliere le aspirazioni dei cittadini più poveri sui latifondi demaniali. Sarebbe stato nei voti di costoro che grosse porzioni di agro pubblico venissero trasformate in territorio dello Stato e distribuite, in modo che i coloni che vi si trasferissero come assegnatari di un appezzamento potessero conservare i loro diritti di cittadini romani. Ma questo avrebbe portato ad un ampliamento del territorio statale contrario alle istanze dell’oligarchia dominante che, preoccupata di conservare l’equilibrio costituzionale, preferiva indirizzare l’emigrazione dei cittadini desiderosi di lavorare un terreno di proprietà verso la costituzione di nuove colonie latine, cioè di comunità estranee allo Stato e solo vincolate dagli obblighi del foedus. Tuttavia nel 232 il tribuno della plebe Gaio Flaminio riuscì a far approvare una legge per la distribuzione in piccoli lotti dell’agro gallico e piceno (e una decina di anni dopo congiunse a Roma questo territorio con la grande via Flaminia che arrivava fino a Rimini). 4. I Romani oltre l’Adriatico e nell’Italia settentrionale. - Nello stesso torno di tempo si ebbero i primi scontri con i Liguri, cui fu tolto il porto di Pisa, importante per le comunicazioni con la Corsica, mentre nel basso Adriatico si dovette intervenire qualche anno dopo per mettere fine alle scorrerie dei pirati illirici che danneggiavano i traffici delle città alleate con i paesi dell’Egeo. Nel 229 una poderosa flotta approdò ad Apollonia (al di 81
là del Canale d’Otranto, dirimpetto a Brindisi), e costrinse Teuta, la regina degli Illiri, ad assoggettarsi a dure condizioni di pace, né in questo si esaurì l’azione dei Romani perché essi si costituirono degli stabili interessi sull’altra sponda dell’Adriatico legandosi in alleanza con varie città e con i popoli dei Partini e degli Atintani. Qualche tempo dopo si profilò una nuova minaccia da parte dei Galli dell’Italia settentrionale, che per un momento si temette potessero rinnovare i nefasti dell’indimenticabile presa di Roma. Appoggiati da alcune tribù transalpine nell’anno 225 i Lingoni, i Taurisci, gl’Insubri e i Boi riunirono le loro forze, circa 70.000 fra fanti e cavalieri e, valicato l’Appennino, discesero attraverso l’Etruria fra ruberie e devastazioni. I Romani, che nella gravità dell’ora avevano predisposto il necessario per la mobilitazione generale (col recensus armatorum di cui parla Polibio, II 24 attingendo a Fabio Pittore) affrontarono gli invasori presso Telamone (in provincia di Grosseto) e li annientarono in una battaglia nella quale cadde il console Gaio Attilio Regolo, figlio di colui che per primo aveva guidato le legioni in Africa. La grande paura era svanita, ma bisognava assicurarsi per il futuro: i Boi vennero assoggettati nel 224 e l’anno dopo si portavano le armi oltre il Po nel territorio degli Insubri, la cui capitale, Mediolanum (l’odierna Milano), fu presa nel 222. Sulle terre a loro confiscate venivano fondate nel 218 le colonie latine di Piacenza e Cremona, col che Roma metteva saldamente piede nella Gallia Cisalpina. Fuori della sua orbita restavano ad occidente le tribù liguri e celtiche stanziate nell’odierna Liguria e 82
Piemonte, mentre a est si stringevano coi Veneti rapporti di salda amicizia. Oltre l’Adriatico la ripresa della pirateria illirica rendeva necessario nel 219 un nuovo intervento con forze navali, che costringeva alla fuga il dinasta Demetrio di Faro (odierna isola di Lesina); poi le operazioni in questo settore si arrestarono perché ormai premeva nuovamente la minaccia cartaginese. 5. Origini della seconda guerra punica. - In Cartagine, dopo una breve eclissi alla fine disastrosa della guerra, erano tornati in auge i fautori della politica d’imperialismo coloniale. A compensare la perdita della Sicilia, della Sardegna e della Corsica, costoro si prefissero la conquista della Spagna, che fu intrapresa nel 237 sotto il comando di Amilcare Barca. Con una serie di fortunate campagne questi risalì da Cadice ad Alicante, e quando, nel 229, cadde in una imboscata, ebbe un degno continuatore della sua opera nel genero Asdrubale, che ampliò la conquista fino al fiume Ebro. Queste vittoriose operazioni, nel corso delle quali, fra l’altro, Cartagine si era venuta costituendo un esercito numeroso e agguerrito, non potevano non preoccupare i Romani che, dopo aver fatto un primo passo nel 231 presso Amilcare, intervennero decisamente nel 226 costringendo Asdrubale all’impegno di non spingersi con mire ostili a nord del fiume Ebro. Il governo cartaginese ratificò l’accordo, e con questo mostrò di approvare la cauta politica di Asdrubale; ma le cose cambiarono quando a costui, nel 221, successe nel comando il cognato Annibale, figlio di Amilcare.
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Annibale non aveva allora che ventisei anni, ma sin da ragazzo si era temprato sui campi di battaglia di Spagna alla scuola del padre e del cognato. Era dotato di un talento militare straordinario, posto al servizio di un’idea quasi fanatica di riscossa antiromana, e dopo aver condotto a termine nel 220 la sottomissione delle tribù iberiche del bacino del Tago, l’anno appresso con un evidente pretesto portò il suo attacco contro la città di Sagunto che era alleata dei Romani. Sagunto era a sud dell’Ebro, dunque in una regione non inibita all’espansione cartaginese dall’accordo del 226, ma i Romani per ragioni di prestigio imposero ad Annibale di togliere l’assedio. Non ottennero che un rifiuto, e sulla fine dell’autunno 219 Annibale espugnò la città senza preoccuparsi di provocare con questo lo scoppio di una nuova guerra con Roma. Anzi, era proprio ciò che per tanti anni aveva desiderato. Nella primavera del 218 i Romani inviarono uno dei consoli, Tiberio Sempronio Longo, in Sicilia a preparare uno sbarco in Africa, l’altro, Publio Cornelio Scipione, nella Cisalpina come per passare nella Spagna; ma non si fece nessuna delle due cose, lasciando l’iniziativa ad Annibale. Questi indugiò alcuni mesi nella Spagna settentrionale, poi improvvisamente, ai primi di agosto, si avviò a valicare i Pirenei con 30 mila soldati e 37 elefanti. Quando giunse la notizia della sua mossa, il console Publio Cornelio Scipione imbarcò il suo esercito a Pisa e lo trasportò nel porto dell’alleata Marsiglia, donde avanzò verso l’interno per tentare di impedire al nemico il passaggio del Rodano, ma arrivò troppo tardi. Allora fece partire per la Spagna le sue legioni agli ordini del fratello Gneo e ritornò nella 84
Cisalpina, ove l’aspettavano altre due legioni. Intanto Annibale si accingeva a valicare le Alpi (per il Monginevro, come sembra più probabile) e, compiuta felicemente l’impresa in un paio di settimane, alla fine di settembre sboccò in Piemonte nel territorio dei Taurini. 6. Dal Ticino a Canne. - Annibale contava di ingrossare le file dell’esercito attirando dalla sua parte quei Galli che solo da qualche anno i Romani avevano sottomessi, e a tale scopo si affrettò a cercare un successo marciando rapidamente contro Scipione. Questi si era portato a nord del Po e, sebbene si movesse cautamente in attesa dell’arrivo dell’altro console che risaliva a grandi giornate dalla Sicilia, non poté evitare uno scontro fra le opposte cavallerie, che si concluse in maniera sfavorevole e nel quale per poco non perdette la vita. Ripassato il Po e attestatosi a difesa sul fiume Trebbia, Scipione fu raggiunto dall’esercito del collega, il quale sui suoi consigli di prudenza fece prevalere il desiderio di cercare subito una soluzione sul campo. Fu così che le legioni, dopo aver attraversato le acque della Trebbia in una rigida giornata di dicembre, si scontrarono con l’opposto schieramento in condizioni tutt’altro che favorevoli, e sebbene si battessero con valore rimasero soccombenti. Su 40.000 uomini, solo un quarto trovarono scampo e, ripassato il fiume, si rinchiusero a Piacenza, che assieme a Cremona seppe poi resistere per tutta la durata della guerra. Per valicare l’Appennino, Annibale dové attendere la primavera, e nel frattempo i Romani riorganizzarono alacremente le loro forze, 85
affidandone il comando ai nuovi consoli Gneo Servilio e Gaio Flaminio. Questi, per meglio sorvegliare i possibili itinerari del nemico, si dislocarono il primo a Rimini e il secondo ad Arezzo, ma in tal modo attuarono una divisione delle forze che non tardò a risultare disastrosa. Ai primi di maggio del 217 Annibale si mise in marcia da Bologna e, superato l’Appennino al passo di Collina, arrivò a Fiesole. Appena ne fu informato, Flaminio avvertì il collega di accorrere con le sue forze da Rimini e non si mosse dalle sue posizioni se non quando l’esercito nemico, lasciatosi alle spalle Arezzo, s’inoltrò verso sud in direzione di Cortona. Allora Flaminio si pose alle calcagna di Annibale per controllarne le mosse in attesa dell’arrivo del collega, e così, superata Cortona, s’incamminò verso Perugia lungo la sponda settentrionale del lago Trasimeno. Quivi, nei pressi di Passignano, il Cartaginese gli aveva teso un’imboscata, e in un nebbioso mattino di giugno l’esercito di Flaminio si trovò improvvisamente stretto fra il lago e i monti che lo fiancheggiano da vicino, mentre le forze nemiche, opportunamente predisposte, gl’impedivano sia di avanzare sia di retrocedere. Nella carneficina restarono sul campo, assieme al console, oltre ventimila uomini, e poco dopo, ad accrescere le proporzioni del disastro, venne la disfatta dei 4.000 cavalieri che precedevano l’esercito dell’altro console. Era stato un altro grosso successo, ma Annibale non s’illuse di poter puntare direttamente sul Lazio. Per il momento il suo piano era di scardinare uno dei pilastri della potenza romana, e cioè di 86
isolare Roma spingendo alla defezione la massa degli alleati italici: proprio per questo ne aveva rimessi in libertà quanti ne aveva fatti prigionieri. Con tale progetto raggiunse il Piceno e, avanzando lungo la costa adriatica, scese attraverso il territorio dei foederati sino all’Apulia. I Romani, per loro conto, reagirono con grande energia e cominciarono con l’accentrare il potere nelle mani di un dittatore, Quinto Fabio Massimo. I precedenti disastri avevano convinto Fabio che con Annibale occorreva usare soprattutto grande prudenza, ed egli inaugurò una strategia temporeggiatrice consistente nel molestare il nemico con piccole azioni di disturbo, senza mai venire ad uno scontro decisivo. Se in tal modo non si riportavano vittorie, almeno si evitavano sconfitte e, nel frattempo, qualche opportunità migliore poteva anche maturare. Questa condotta della guerra aveva però il grave inconveniente di lasciare che Annibale portasse ovunque liberamente la distruzione, e oltre l’Apulia ne soffrirono anche il Sannio e la Campania. “Temporeggiatore” (cunctator) Fabio fu soprannominato per scherno, e solo più tardi, quando si comprese che egli aveva salvato la patria da una nuova catastrofe, quell’epiteto ingiurioso si trasformò in titolo di gloria. Ma sulle prime molti disprezzarono la sua cautela come codardia, e quando spirarono i sei mesi della dittatura la maggioranza in Roma era desiderosa di rompere gl’indugi e di tentare la prova decisiva. Uno dei consoli eletti per il 216, Gaio Terenzio Varrone, aveva riportato larghi suffragi appunto con la promessa di una rapida soluzione della guerra, mentre il prudente Lucio Emilio Paolo solo a stento 87
conseguì l’elezione. Furono rinnovati col più grande fervore i preparativi e, alla testa di 50000 uomini, i due consoli scesero in Apulia incontro ad Annibale, che ne contava solo 35000, ma aveva una cavalleria quasi doppia di quella romana. Lo scontro avvenne il 2 agosto sulla destra del fiume Ofanto nei pressi di Canne (a dodici km da Barletta) e segnò un altro trionfo della superiore capacità tattica del condottiero cartaginese. L’abilità di Annibale consisté da un lato nell’accorto sfruttamento della superiorità della sua cavalleria, dall’altro nell’avere sdoppiato - per così dire - lo schieramento della sua fanteria, disponendo sul davanti i fanti celtici e iberici, e dietro a questi i fanti libici. Mandata all’attacco la sola fanteria celtica e iberica, questa a un certo punto, non potendo sostenere la pressione dei legionari, prese a indietreggiare, ma quando i Romani ebbero piegata la sua tenace resistenza si trovarono di contro la fanteria libica, che fino a quel momento Annibale aveva tenuto ferma al suo diretto comando. E fu proprio allora che queste truppe fresche entrarono in azione mentre, con perfetta sincronia, alle spalle dei legionari piombava la cavalleria nemica che aveva già volta in fuga quella romana. Il disastro fu pauroso: cadde, fra gli altri, il console L. Emilio, e solo 10000 uomini riuscirono a salvarsi raggiungendo la colonia di Venosa. 7. Da Canne al Metauro. - A Roma per un momento tutto sembrò perduto, ma superato il primo sgomento il senato prese in pugno la situazione curando in primo luogo di mantenere fra i cittadini la concordia necessaria per affrontare 88
l’estremo pericolo. Così, per esempio, non fu mosso alcun rimprovero al console Terenzio Varrone che aveva ostinatamente voluto la battaglia nonostante le perplessità del collega, anzi gli furono rese pubbliche grazie per non aver disperato della repubblica. Per l’ulteriore condotta della guerra si decise di attenersi alla strategia, poco prima tanto discussa, di Fabio Massimo: sottoporre l’invasore ad una serie di azioni di logoramento che ne esaurissero le forze, e mantenere il dominio del mare per impedire che potesse ricevere aiuti dalla Spagna o dall’Africa. Non si potette, invece, impedire che non pochi dei foederati dell’Italia meridionale passassero dalla parte del vincitore, e soprattutto a questo mirò Annibale convinto che, anche dopo la strepitosa vittoria di Canne, i tempi non erano maturi per un tentativo diretto contro Roma. Particolarmente grave fu la defezione di quella che era ancora una delle città più importanti della Penisola, Capua, a cui poco dopo si aggiunse quella di Siracusa ove, alla morte del re Gerone (215), prese il sopravvento il partito antiromano. Nello stesso tempo il re dei Macedoni Filippo V, che aveva visto assai di malocchio i Romani metter piede sull’altra sponda dell’Adriatico, ritenendo che nessuna occasione migliore gli si sarebbe offerta per buttarli a mare, firmò un trattato di alleanza con Annibale. Infine, nel 212, anche Taranto si diede ai Cartaginesi; ma ormai gli energici provvedimenti adottati dal senato per raddrizzare la situazione cominciavano a dare i loro frutti imprimendo agli eventi un corso sempre più favorevole. Nel 211, dopo vari mesi di assedio, veniva riconquistata Capua, che invano Annibale aveva 89
tentato di sbloccare cercando di distrarre gli assedianti con un’improvvisa ed audacissima marcia alla volta di Roma alla testa di un gruppo celere. Ma, per espugnare la città, ci voleva ben altro che un colpo di mano, e al Cartaginese, dopo aver contemplato le mura da Porta Collina (sulla via Nomentana), non restò che tornarsene nell’Italia meridionale. Ancora nel 211, dopo due anni di assedio, cadeva Siracusa nonostante le sue potenti fortificazioni e gli apprestamenti difensivi escogitati da Archimede. La città fu saccheggiata e ridotta a provincia come tutto il resto della Sicilia. Meno bene le cose andarono in Spagna ove i due Scipioni, Publio e Gneo, dopo aver per oltre sei anni impegnate le forze cartaginesi, perirono in combattimento nello stesso anno 211; ma anche qui la situazione fu ben presto ristabilita ad opera soprattutto del giovane Publio Cornelio Scipione, rispettivamente figlio e nipote dei due caduti. Ripresa Taranto nel 209, Annibale si trovò pressoché bloccato nel Bruzio; venuta meno la speranza di rinfoltire l’esercito con i foederati ribelli, egli non poteva contare che su rinforzi provenienti per via di terra dalla Spagna, e l’impresa riuscì al fratello Asdrubale, che nella primavera del 207 valicò anch’egli le Alpi e scese in Italia con un buon numero di uomini e alcuni elefanti. L’intenzione di Annibale era di effettuare il congiungimento delle forze nell’Italia centrale, e quindi avanzò in Apulia; lo teneva sotto vigile controllo il console Tiberio Claudio Nerone, al quale capitò la fortuna di catturare alcuni messaggeri inviati da Asdrubale al fratello per avvisarlo dei suoi movimenti. La decisione del console fu allora tanto rapida quanto 90
audace. Lasciata solo una parte dei suoi uomini a sorvegliare le mosse di Annibale, col resto delle forze marciò rapidamente lungo l’Adriatico, si unì alle legioni del collega e, dopo aver largamente contribuito alla brillante vittoria sul fiume Metauro (presso Fano), ove cadde lo stesso Asdrubale, tornò velocemente in Apulia a riprendere posizione di fronte ad Annibale. 8. Annibale e Scipione. - Annibale apprese la notizia della catastrofe dal triste spettacolo della testa del fratello gettata nel suo accampamento, e non poté che ritirarsi nelle basi del Bruzio, dove riuscì a tenere il campo ancora per quattro anni sebbene la sua condizione apparisse ogni giorno di più senza una via d’uscita. Tra l’altro, nessun vantaggio gli era venuto dall’alleanza con Filippo V di Macedonia; ai Romani, infatti, senza sottrarre forze alla guerra d’Italia, era bastato appoggiare l’azione dei nemici che Filippo aveva in Grecia. Tra questi i più attivi furono i confederati della lega etolica che, accordatisi coi Romani nel 212, combatterono contro Filippo fino al 206. In sostanza, quando il conflitto si concluse, nel 205, con la pace di Fenice (capitale della lega d’Epiro), i Romani serbavano sostanzialmente intatte le loro posizioni oltre l’Adriatico. Ormai i tempi erano maturi per un’azione decisiva; si stabilì di portare la guerra in Africa e il comando dell’impresa fu affidato al giovane Publio Cornelio Scipione, che già si era distinto nelle campagne di Spagna dal 210 al 206. Eletto console per il 205, Scipione si trasferì in Sicilia per l’allestimento del corpo di spedizione, e nella 91
primavera dell’anno dopo, come proconsole, sbarcò presso Capo Farina e pose l’assedio a Utica. Ma la tenace resistenza della città, nonché l’arrivo di un esercito nemico che si accampò nelle vicinanze, lo ridussero in una situazione assai difficile da cui poté uscire perché i Cartaginesi, per consiglio dell’alleato Siface, re dei Numidi, intavolarono con lui trattative di pace. La stasi delle operazioni permise di superare la crisi invernale, e quando nella primavera i negoziati si conclusero con un fallimento, Scipione sferrò l’attacco contro gli accampamenti dei Cartaginesi e dei Numidi menando gran strage. Il successo fu ribadito qualche mese appresso (giugno 203) da una nuova vittoria riportata ai Campi Magni (un centinaio di km a sud di Utica), dopo la quale Siface fu catturato e sostituito, come re dei Numidi, da Massinissa, fedele alleato di Roma. Occupata Tunisi, Scipione si preparava a investire la stessa Cartagine che s’affrettò a richiamare Annibale, avviando insieme nuove trattative. Sebbene le condizioni imposte dal duce romano fossero durissime, i Cartaginesi le accettarono, ma, poco dopo, l’arrivo di Annibale fece nascere nuove speranze e la parola fu ancora una volta alle armi. Lo scontro decisivo (detto comunemente battaglia di Zama) avvenne a Naraggara nell’estate del 202, dove Annibale diede un’altra prova delle sue capacità. Infatti nell’effettuare lo schieramento egli non mise in linea tutte le forze disponibili e, ritornando ad una geniale innovazione di Alessandro Magno rimasta senza seguito per oltre un secolo, tenne da parte una vera e propria riserva da gettare nella mischia al momento più propizio. Ma a Naraggara si trovò di fronte a un condottiero di non 92
minor talento. Infatti Scipione appena che, travolto lo schieramento avversario, si accorse dell’esistenza di quella riserva, impedì che i suoi si sparpagliassero nell’inseguimento e, dopo averli fatti riordinare, partì nuovamente all’attacco. Per Annibale fu una disfatta irreparabile, ed egli stesso spinse i suoi ad accettare la pace, che fu firmata nel 201 a patti gravissimi, fra cui il pagamento di una forte indennità, e, soprattutto, il divieto di far guerra senza il permesso dei Romani.
Sulla prima guerra punica, e sull’intervallo fra la prima e la seconda, fondamentale il racconto di Polibio (nei primi due libri), il quale utilizzò da un lato uno storico filocartaginese, l’agrigentino Filino, dall’altro Fabio Pittore, il più antico annalista, cercando di rintracciare la verità dei fatti nel raffronto delle due contrastant i versioni. Nel III libro Polibio incominciava l’esposizione della seconda punica (anche qui non mancando di utilizzare, accanto a fonti filoromane, anche fonti filocartaginesi come Sileno di Callatis e Sosilo spartano), ma la sua opera ci è giunta intera soltanto fino al V libro; per il resto non ci rimangono che frammenti più o meno ampi. Quanto a Livio, il racconto che egli dava della prima punic a è scomparso con la perdita della seconda decade, mentre la terza decade si apre col racconto degli inizi della seconda punica. In questa parte del suo lavoro Livio utilizzò svariati materiali attingendo da opere dell’annalistica recenziore (Valerio Anziate), dalla monografia di Celio Antipatro sulla seconda punica, dalle Storie di Polibio, col risultato di una compilazione di valore parecchio disuguale. Nella sua Biblioteca storica Diodoro trattò della prima punica nei libri XXIII e XXIV, della seconda nei libri XXVXXVII (superstiti solo pochi frammenti), attingendo da una fonte che probabilmente fu poi utilizzata anche da Appiano (della cui opera ci sono giunti, fra l’altro, il libro Iberico, il libro Annibalico e il libro Libico). Ben poco allargano il quadro dell’informazione più attendibile sia le Vite di Amilcare e di Annibale scritte da Cornelio Nepote, sia le Vite plutarchee di Fabio Massimo e di Marco Claudio
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Marcello; di materiali liviani era intessuta in prevalenza, per questa parte, l’opera di Cassio Dione (frammenti). Da un’analisi di questa complessa tradizione deve prendere le mosse ogni ricostruzione dell’età delle guerre puniche, su cui v., in generale, S. M AZZAR INO , Introduzione cit. Su Cartagine e i suoi ordinamenti, oltre il classico S. G SELL , Histoire ancienne de l’Afrique du Nord, I-IV, Paris 1913-1921, v. C H . J ULL IEN - C H . C OURTOIS , Histoire de l’Afrique du Nord dès origines à la conquête arabe, 2a ed., Paris 1951. Su Gerone di Siracusa, e la situazione che precedette l’intervento romano oltre lo stretto di Messina, cfr. A. S CHENK VON S TAUFFENBERG , König Hieron der Zweite von Syrakus, Stuttgart 1933. Sull’origine e gli sviluppi della marina militare romana, i due lavori di J. H. T HIEL , Studies on the History of Roman Sea-power in Republican Times (Amsterdam 1946) e A History of Roman Sea-power before the Second Punic War (ibid. 1954). Il testo dell’elogium inciso sulla colonna rostrata di C. Duilio (che fu restituito in età augustea) in C.I.L. I 2 25. Un altro documento epigrafico sulla prima punica, e in particolare sulle operazioni di guerra dell’anno 259 nelle acque della Corsica, è rappresentato dall’epitaffio di L. Cornelio Scipione (C.I.L. I 2 8, 9). Sulla leggenda dei supplizi inflitti ad Attilio Regolo (Polibio non ne parla), cfr. F.W. W ALBANK , A Commentary o n Polybius, 1, p. 92 sg. Un’idea dello sforzo finanziario sopportato dalla repubblic a nel corso della prima punica si può avere dai calcoli (inevitabilmente approssimativi) fatti da T. Frank, An Economic Survey of Ancient Rome, vol. I. Rome and Italy of the Republic, Baltimore 1933, p. 64 sgg. Più eloquenti, o almeno di più immediata evidenza, i dati sulla diminuzione del numero dei cittadini rilevata dai censimenti. Mentre nel 251 erano stati censiti (L IV ., periocha XVIII) 297.797 civium capita (cittadini soggetti alle armi, quindi con esclusione dei proletarii), il loro numero nel censimento dell’anno 246 (L IV ., per. XIX) risultò ridotto a 241.212. Questo non lieve sacrificio di sangue, sopportato per la gran parte dai cittadini di più basso livello censitario, propiziò una riforma in senso più democratico dei comizi centuriati, riforma che - come sembra suggerire un nuovo documento epigrafico - potrebbe essere stat a attuata nel 230-29 dai censori Quinto Fabio Massimo e Marco Sempronio Tuditano (cfr. G. V ITUCCI , Intorno a un nuovo frammento di elogium, in “Riv Filol. Class.” 1953, p 43 sgg.; I D ., Un nuovo episodio della II Punica, in “Annuario dell’Accademia Etrusca di Cortona”, 1964. V. anche S. M AZZAR INO , Il pensiero storico classico. II, 1, Bari 1966, p 323 sg.; I D ., sul trattato dell’Ebro e la connessa dibattutissima questione della responsabilità della seconda guerr a punica (in Introduzione, cit., p. 100 sgg.).
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Sullo svolgimento dei fatti d’arme, oltre i già ricordati Antike Schlachtfelder di J. K ROMAYER E G. V EIT H , v. G. D E S AN CTIS , in Storia dei Romani, vol. III, 1-2; sulla varia composizione delle forze che dominavano la scena politica a Roma cfr. A. L IPPOLD , Consules. Untersuchungen zur Geschichte dea römischen Konsulates von 264 bis 201 v. Chr., Bonn 1963, e soprattutto F. C ASSOLA , I gruppi politici romani del III sec. a.C., Trieste 1962. Sugli accordi che, al tempo della prima guerra romanomacedonica, regolarono la collaborazione coi Romani degli Etoli (accordi prima conosciuti soltanto da qualche cenno di L IV ., XXVI 24, 8-13), nuova luce è venuta dalla recente scoperta di un documento epigrafico. Si tratta di un’iscrizione frammentaria rinvenuta in Acarnania nel 1949 (ora pubblicata in Inscr. Graecae IX, 12, 2, 241) contenente alcune clausole del trattato di alleanza stipulato nel 212 fra i Romani e la lega etolica. Una quindicina di anni dopo fra le due parti insorsero controversie sull’interpretazione di questi patti e, nel darcene notizia, Polibio (XVIII 38) fa riferimento alle clausole del 212 in maniera non corrispondente con ciò che si legge nel documento ora ritrovato: la propensione per i Romani spinse lo storico ad oscurare la verità. Sull’argomento è da vedere S. C ALDERONE , Pistis-Fides. Ricerche di storia e diritto internazionale nell’antichità, Messina 1964 (cfr. S. M AZZARINO , Il pensiero storico classico, II, l, p. l18 sg.); sul valore dell’espressione tecnica venire in fidem, già A. P IGAN IOL , in “Mélanges F. de Visscher”, Bruxelles 1950, IV, p. 339 sgg.
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VI Militarismo e imperialismo. Dall’espansione in Oriente alla distruzione di Cartagine.
La vittoria di Scipione, che nel 201 celebrava uno splendido trionfo e assumeva il soprannome di Africanus, indirizzò su un nuovo binario gli sviluppi della politica di Roma. Suggellata dal buon esito di tanti sforzi comuni la concordia fra i cittadini, ribaditi i legami con i foederati italici, strappata ai Cartaginesi la supremazia nel Mediterraneo occidentale, la repubblica cominciò a subire sempre più l’influsso delle personalità che l’avevano innalzata a tanta potenza, e sotto la loro spinta imboccò la via dell’espansionismo militaristico. Quelli che ora si aprivano alle brame dei nuovi conquistatori erano i paesi del mondo ellenistico; da tempo questi avevano conosciuto il travaglio di continue lotte di predominio, ma proprio alla fine del III secolo una nuova crisi minacciò più gravemente il loro equilibrio già tanto instabile. Si trattava in primo luogo degli Stati che si erano costituiti in seguito allo smembramento dell’impero di Alessandro Magno: la Siria, comprendente all’incirca il territorio dell’antico impero persiano) sotto i Seleucidi, l’Egitto sotto i Lagidi, la Macedonia sotto gli Antigonidi, il regno di Pergamo sotto gli Attalidi, mentre nella Grecia i due maggiori organismi politici erano la lega etolica e la lega
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achea, formate da libere città unitesi per preservare la loro indipendenza minacciata dalle mire egemoniche della Macedonia. 1. Il conflitto con la Macedonia e il protettorato sulla Grecia. - Nel 204 era salito sul trono d’Egitto il minorenne Tolemeo V Epifane, e gl’intrighi fra i dignitari che se ne contendevano la tutela provocarono una serie di lotte e quindi un declino del regno. Di tale circostanza vollero approfittare Antioco III di Siria e Filippo V di Macedonia, che si accordarono per impadronirsi il primo della Celesiria (terra di confine a lungo contesa fra Lagidi e Seleucidi), l’altro dei possedimenti egiziani sull’Ellesponto e sulle coste della Tracia. Dall’energica azione intrapresa da Filippo si sentirono minacciati sia il re Attalo I di Pergamo sia la repubblica marinara di Rodi, che sollecitarono l’intervento di Roma. Ma più gravemente la situazione si complicò quando, nella primavera del 200, Filippo fece invadere l’Attica dai suoi alleati Acarnani. Poiché i Romani nella pace di Fenice stipulata qualche anno prima con la Macedonia avevano dichiaratamente assunto la difesa dell’indipendenza di varie città e popoli della Grecia, fra cui anche Atene, ecco che il desiderio dei militaristi di portar le armi in Oriente si trovò legittimato dall’obbligo di proteggere gli Ateniesi. A Filippo venne inviato un ultimatum le cui condizioni erano praticamente inaccettabili, e fu la guerra. Un esercito romano sbarcò in Epiro nell’autunno dello stesso anno 200 e, dopo aver svernato in Apollonia, fece un’ardita puntata verso la Macedonia attraverso i passi orientali dell’Illiria, 97
mentre Filippo non osava impegnarsi a contrastarne l’avanzata. L’anno dopo fu prescelta per l’invasione una via più meridionale, ma Filippo, presidiando saldamente le gole del fiume Aòo presso Antigonia (od. Tepeleni, in Albania), riuscì a bloccare i movimenti dell’avversario. Così stavano le cose quando, nell’estate del 198, assunse il comando delle operazioni il console T. Quinzio Flaminino; si trattava di un giovane esponente delle nuove leve politiche, caratteristico rappresentante di quei circoli che, sulla scia dell’Africano, propugnavano l’affermazione della potenza romana sui popoli dell’Oriente ellenistico pur non mancando di apprezzarne l’alto grado di civiltà. Con un’abile manovra aggirante, Flaminino riuscì a far sloggiare Filippo dalle sue posizioni sull’Aòo e lo inseguì fino in Tessaglia, mentre la flotta romana che operava nell’Egeo riportava numerosi successi strappando ai Macedoni le piazzeforti dell’Eubea. Attirata dagli atteggiamenti filellenici del console, si dichiarò a favore dei Romani anche la lega achea, e a Filippo, dopo un fallito tentativo di accordo, non rimase che tentare la sorte della battaglia campale. Questa ebbe luogo nel giugno del 197 in Tessaglia, sulle alture di Cinoscefale, e per Filippo si risolse in un’irreparabile disfatta: la falange macedone, onusta di gloria e invitta per oltre un secolo, dovette piegare di fronte alla superiorità della più agile tattica manipolare romana. Alla vittoria di Cinoscefale avevano collaborato anche gli Etoli, i più accaniti nemici di Filippo nella Grecia, i quali avrebbero voluto addirittura l’abbattimento della monarchia macedone, ma i loro 98
desideri non furono esauditi. Il governo di Roma non stimava, in quel momento, di impegnarsi troppo nel complesso mondo politico balcanico, e si limitò a ridimensionare la potenza della Macedonia escludendola da ogni ingerenza nella Grecia. E così, durante la celebrazione dei giuochi istmici nell’estate del 196, Flaminino fece solennemente annunziare, fra le più entusiastiche acclamazioni, che Roma concedeva e garantiva la libertà a tutti i Greci d’Europa e d’Asia. Naturalmente, anche se non sarebbe giusto ritenere senz’altro ipocrita un simile atteggiamento, è un fatto che Roma, nell’atto stesso di dichiarare liberi i Greci, li sottometteva alla propria tutela, e questa non tardò molto a trasformarsi in aperta ingerenza e in predominio. 2. Roma e l’impero siriaco. - Mentre Filippo era stato duramente contrastato nelle sue mire egemoniche, Antioco III di Siria aveva potuto impadronirsi a suo agio di tutta la costa occidentale dell’Asia Minore e, procedendo oltre l’Ellesponto, della costa tracica, assoggettando fra l’altro numerose colonie greche. Anche nei suoi confronti i Romani non indugiarono a dichiararsi difensori dell’indipendenza dei Greci, e gli fecero ripetute intimazioni che rimasero inascoltate. A irrigidirlo sulle sue posizioni contribuì anche l’incitamento di Annibale, da poco giunto alla sua corte profugo da Cartagine per evitare di essere consegnato a Roma, che ne aveva fatto richiesta nel sospetto che stesse preparando la riscossa. D’altro canto, il timore suscitato dalla presenza del Cartaginese presso Antioco contribuì forse non poco a spingere i Romani ad un’azione risoluta, e 99
quando il re, accogliendo le sollecitazioni degli Etoli, sbarcò con un esercito in Tessaglia, essi si prepararono alla lotta con grande impegno. Il re di Siria, evidentemente, non si proponeva di abbattere la potenza di Roma, ma solo di costringerla a riconoscere la sua preponderanza nell’Egeo, e questo spiega perché egli scendesse in campo con forze piuttosto modeste di cui i Romani ebbero facilmente ragione, grazie anche all’appoggio di Filippo di Macedonia e di Eumene di Pergamo. Nella primavera del 191, mentre l’esercito del console Manio Acilio Glabrione gli si faceva incontro, Antioco cercò di sbarrargli il passo alle Termopile, ma, come già nella più famosa battaglia del 480, la posizione venne aggirata e l’esercito siriaco, attaccato alle spalle, fu sterminato. Il re riuscì a salvarsi con la fuga e, con poche centinaia di superstiti, s’imbarcò alla volta di Efeso. Qualche mese dopo gli Etoli s’indussero a chiedere un armistizio mentre una vittoria navale presso l’isola di Chio spianava la via all’invasione dell’Asia. La spedizione fu preparata per l’anno dopo e se ne voleva affidare il comando a Scipione l’Africano, ma questi non poteva essere eletto console perché non erano ancora trascorsi dieci anni dal precedente consolato (194); allora fu fatto console suo fratello, il meno brillante Lucio Cornelio Scipione, in modo che l’Africano, come suo consigliere, avesse ugualmente la possibilità di dirigere le operazioni. Rinnovato l’armistizio con gli Etoli, l’esercito attraversò la Macedonia e la Tracia; quindi, dopo un’altra grande vittoria della flotta, traghettò indisturbato l’Ellesponto e scese verso la Lidia a incontrare il nemico. Era il dicembre del 190 e 100
Antioco, fallito un tentativo di accordo per le condizioni troppo gravose imposte da Scipione, si decise ad offrire battaglia non lungi dalla città di Magnesia, presso il monte Sipilo. Assente l’Africano, colpito da una malattia, la responsabilità del comando gravò sulle spalle del valente Gneo Domizio Enobarbo, un altro consigliere di Lucio Scipione. Con un accorto schieramento delle forze, il duce romano compensò il notevole svantaggio numerico; poi la bravura dei gregari fece il resto, e per l’esercito siriaco fu la strage. Bastò questa sola vittoria a prostrare l’impero seleucidico; Antioco ottenne la pace a durissimi patti, tra cui il pagamento di un’ingente indennità (15.000 talenti euboici rispetto ai 10.000 imposti a Cartagine dopo tutte le devastazioni inflitte all’Italia da Annibale!) e la rinuncia a tutti i possedimenti in Asia Minore a occidente del monte Tauro. Questi territori, che il senato preferì non ridurre a provincia per evitare i complessi problemi di una nuova dominazione diretta, furono poi ceduti agli alleati di Pergamo e di Rodi. Dei consoli del successivo anno 189, l’uno, Gneo Manlio Vulsone, riportò grandi vittorie sui Gàlati (così i Greci chiamavano le tribù di Galli che s’erano stanziate da circa un secolo in Asia Minore, nella regione detta appunto Galazia), l’altro, Marco Fulvio Nobiliore, costrinse alla pace gli Etoli. In tal modo con pochi anni di guerra, e grazie anche all’insipienza di Antioco, che con una strategia temporeggiatrice - quale gli consentiva l’immensa estensione del suo impero - avrebbe potuto mettere in serie difficoltà l’esercito invasore,
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i Romani riuscirono ad affermare la loro supremazia anche nel Mediterraneo orientale. 3. La dissoluzione della monarchia macedone e il predominio sulla Grecia. - Tale supremazia fu consolidata qualche decennio dopo nel corso di nuovi interventi che presero per lo più la forma di un fitto lavorìo diplomatico punteggiato qua e là, nei momenti cruciali, da decise azioni di forza. L’interesse del governo di Roma in quei paesi era, in generale, quello di mantenere lo stato di equilibrio che vi aveva creato, e pertanto si intromise con energiche ambascerie sia nel conflitto scoppiato nel 186 fra Eumene di Pergamo e il confinante Prusia di Bitinia, sia nella guerra che qualche anno dopo divampò fra lo stesso Eumene e Ariarate IV di Cappadocia, da un lato, e Farnace, re del Ponto, dall’altro in altre occasioni fu necessario far ricorso alle armi - come nel caso della Macedonia ove il re Perseo, figlio e successore di Filippo V, andava svolgendo un’attiva politica di riscossa nazionale cercando nello stesso tempo di scuotere il prestigio romano nel mondo greco-orientale. Per effetto di una abile preparazione diplomatica che portò all’isolamento della Macedonia, Perseo fu costretto a far affidamento sulle sole sue forze; e se la guerra, dichiarata nel 171, si trascinò fino al 168, ciò dipese non solo dalla condotta esitante del re, timoroso delle sorti di uno scontro decisivo e perciò sempre in cerca di un accordo di compromesso, ma anche dalla mediocrità dei consoli romani che si alternarono al comando prima dell’arrivo di Lucio Emilio Paolo. Questi era un duce di consumata esperienza, appartenente anche egli al circolo degli 102
Scipioni, e ben presto riuscì ad imprimere alle operazioni un corso più rapido e favorevole. Infatti, dopo aver costretto Perseo a sloggiare dalle sue posizioni difensive, lo impegnò in campo aperto presso la città di Pidna e gl’inflisse un’irrimediabile sconfitta (giugno del 168). La vittoria di Pidna segnò l’inizio di una svolta decisiva nelle relazioni tra Roma e i paesi dell’Oriente ellenistico, relazioni che furono sempre più improntate alla massima intransigenza nella tutela del prestigio e degli interessi romani. Infatti non solo la Macedonia dovette subire l’abolizione della monarchia, che ne cementava l’unità statale, e lo smembramento del territorio in quattro repubbliche, ma anche altri stati furono duramente colpiti, come ad esempio la repubblica di Rodi, cui si imputava di aver tenuto un atteggiamento troppo tiepido nei confronti di Roma, e che fu punita con la creazione del porto franco di Delo. Un trattamento pressoché identico fu riservato alla Grecia, e cioè alla lega achea e alla lega etolica che vi costituivano i più importanti organismi politici. In particolare, la lega achea già da tempo aveva dovuto tollerare che Roma s’intromettesse a dirimere, di solito a suo sfavore, le controversie che la opponevano alle città di Sparta e Messene. Dopo il trionfo di Pidna, i Romani pretesero la punizione di tutti coloro che in seno alla lega si erano dichiarati contrari alla loro politica, e la conseguenza fu che circa un migliaio di personalità achee vennero deportate in Italia in attesa di giudizio. Uno di questi deportati fu Polibio che, accolto amichevolmente nel circolo degli Scipioni, ebbe agio di fare in Roma quella personale e diretta 103
conoscenza di uomini e cose che gli servì per delineare nella sua opera i presupposti e gli sviluppi dell’espansione romana nel bacino del Mediterraneo. 4. L’assoggettamento della Macedonia e della Grecia. - L’assetto dato alle cose di Macedonia e di Grecia era quanto mai precario. Ancora una volta il governo romano aveva cercato d’imporre la sua dominazione in maniera indiretta, cioè di mantenere le sue posizioni di forza senza impegnarsi nella risoluzione dei problemi che sarebbero sorti dal moltiplicarsi dei domini di tipo provinciale, e nondimeno una tale situazione si protrasse per circa un ventennio. Infatti fu solo nel 149 che la Macedonia, sobillata dalle mene di un tale Andrisco, un avventuriero che si spacciava per figlio del re Perseo e accampava pretese al trono, venne percorsa dall’incendio di una generale sollevazione antiromana. La guerra fu liquidata con l’invio di due legioni agli ordini del pretore Quinto Cecilio Metello (detto poi Macedonico) e con la definitiva riduzione della Macedonia a provincia (148). Qualche anno dopo una sorte non troppo diversa toccava alla Grecia. Una nuova intromissione di Roma negl’interminabili dissidi tra Sparta e la lega achea provocò in quest’ultima uno scoppio di furioso bellicismo, favorito anche dall’illusione che i Romani, impegnati nell’estremo duello con Cartagine, non sarebbero intervenuti con la consueta energia. Ma Cecilio Metello, sceso immediatamente con le sue forze dalla Macedonia, inflisse alla coalizione avversaria una prima sconfitta che fu, poco dopo, ribadita dalla vittoria riportata nel 146 a Leucopetra (presso Corinto) dal console Lucio 104
Mummio, sopraggiunto con un altro esercito dall’Italia. Saccheggiata e distrutta Corinto, ordinato lo scioglimento delle leghe che avevano partecipato alla guerra antiromana, anche la Grecia nel 145 venne assoggettata al diretto dominio di Roma e collegata con la provincia di Macedonia, salvo i territori di alcuni popoli e città alleate, come Sparta e Atene, che rimasero liberi. Si concludeva così un lunghissimo ciclo politico che aveva avuto il suo massimo splendore nella intrepida difesa dell’indipendenza nazionale contro gli invasori persiani e poi aveva preso a declinare irrimediabilmente a causa delle continue discordie. E fu fortuna che la Grecia trovasse i suoi conquistatori pronti a raccoglierne il retaggio di civiltà. 5. La penetrazione nell’Italia settentrionale e nella Spagna. - Mentre in questo modo, senza troppi sforzi, Roma riusciva ad assicurarsi il controllo del mondo greco-orientale, assai più duramente dovette impegnarsi per eliminare le resistenze che ancora si opponevano al suo dominio nei paesi del Mediterraneo occidentale. Intanto si dovette incominciare con il recuperare nella stessa Italia settentrionale le posizioni in gran parte perdute al tempo dell’invasione annibalica: così, nella Gallia Cisalpina, furono battuti nel 197 gli Insubri e i Cenomani che qualche anno prima avevano messo a ferro e fuoco la colonia di Piacenza, poi, nel 191, fu la volta dei Galli Boi, nel cui territorio furono fondate nel 189 la colonia latina di Bononia (Bologna), e nel 183 le colonie romane di Parma e Mutina (Modena). Più a oriente, oltre i confini degli 105
alleati Veneti, come baluardo contro le incursioni delle tribù illiriche fu fondata nel 181 la colonia latina di Aquileia, cui tenne dietro l’assoggettamento dell’Istria (con una campagna di due anni che fu conclusa nel 177 dal console Gaio Claudio Pulcro) e della Dalmazia (155). A occidente si procedette alla riconquista della Liguria debellando i Liguri Ingauni (stanziati presso Genova) e soprattutto i Liguri Apuani (tra Pisa e Lucca), che dopo la disfatta furono in numero di circa 40.000 trapiantati nel Sannio (181). L’arrivo di numerosi coloni e l’influsso da essi esercitato sulle popolazioni locali diedero l’avvio a un rapido processo di romanizzazione dell’Italia settentrionale, favorito dall’apertura di grandi strade come la via Emilia, che proseguendo la via Flaminia (Roma-Rimini) allacciava Rimini e Bologna a Piacenza, la via Cassia, che portava da Roma a Firenze e Lucca per sboccare poi nella via Aurelia (Roma-Pisa-Genova), e la via Postumia che congiungeva Genova ad Aquileia passando per Piacenza e Verona. Assai più aspre furono le lotte per completare l’assoggettamento della Spagna cominciato fin dall’inizio della seconda guerra punica. Nel 197 erano state ufficialmente costituite le due province di Hispania citerior (a nord) e di Hispania ulterior (a sud), ma la soggezione ai Romani era un fatto tutt’altro che pacifico per le bellicose tribù dell’interno, e si dovette imporla a prezzo di guerre interminabili e sanguinosissime, che praticamente si conclusero solo al tempo di Augusto. Intanto nello stesso 197 si verificò un’insurrezione generale, capeggiata dai Turdetani, che fu domata dall’intervento di un grosso esercito agli ordini di 106
Catone, il futuro censorio; poi si dovettero via via affrontare le resistenze di altre popolazioni, soprattutto dei Lusitani e dei Celtiberi, contro i quali si distinse per il suo comportamento, insieme fermo e generoso, il console Tiberio Sempronio Gracco, padre dei due famosi tribuni della plebe. I suoi successori tornarono invece ai metodi delle repressioni violente e delle devastazioni, che acuirono negl’indigeni la volontà di resistenza e portarono, fra l’altro, alla lunga ed estenuante guerra contro i Celtiberi (154-133); questa si concluse con la espugnazione della città di Numanzia ad opera di Scipione Emiliano, ma non mise fine a quelle ricorrenti carneficine in cui periva il fior fiore delle legioni romane. Valoroso animatore della resistenza dal 147 al 139 (quando venne ucciso a tradimento) era stato Viriato, un umile pastore che si era fatto duce della sua gente nella lotta per l’indipendenza. 6. La terza guerra punica. - Lo stesso anno 146, che aveva portato la distruzione di Corinto, vide dall’altra parte del Mediterraneo la distruzione di Cartagine. Nei cinquant’anni, circa, che intercorsero tra la fine della II guerra punica e l’inizio della III, le relazioni romano-cartaginesi, dopo essersi mantenute buone per un lungo periodo, avevano cominciato a subire un rapido deterioramento. Una clausola del trattato di pace del 201, vietando a Cartagine di prendere le armi senza il permesso del senato di Roma, l’aveva esposta senza difesa alle continue usurpazioni territoriali di Massinissa, il re della vicina Numidia. Le relative dispute, sottoposte di volta in volta all’arbitrato romano, furono quasi sempre risolte in favore di Massinissa finché nel 107
150, dopo un decennio di umiliazioni, si ebbe in Cartagine un violento contraccolpo che sboccò nella conquista del potere da parte del partito democratico antiromano e nell’apertura delle ostilità contro i Numidi, in spregio del divieto sancito nel trattato. Non meno grave fu la reazione a questi avvenimenti in Roma, ove il senato, accogliendo la proposta che da qualche anno il vecchio Catone andava ripetendo come un’idea fissa (delenda Carthago), deliberò di distruggere la città rivale. Perché una decisione così drastica e per di più attuata con fredda determinazione quando i Cartaginesi, non appena accortisi dei gravissimi pericoli cui s’erano incautamente esposti, si dichiararono ed erano realmente disposti a qualunque riparazione? Si risponde, in genere, che la decisione romana fu dettata soprattutto da ragioni economiche: motivi di rivalità commerciali, preoccupazione per la concorrenza dei prodotti agricoli cartaginesi, cupidigia delle fertili terre africane; ma nel mondo antico non vi fu uno Stato che al pari di Roma si disinteressasse di proteggere lo sviluppo dei suoi traffici commerciali. Piuttosto è da ritenere che la deliberazione del senato fu ispirata da considerazioni squisitamente politiche. Catone e i suoi seguaci, in sostanza, vedevano in Cartagine un pericolo crescente: nella floridezza economica che la città aveva riacquistato essi individuavano le basi per un’immancabile ripresa dell’antica potenza e, per ragioni di sicurezza, si fecero convinti assertori della necessità di una guerra preventiva. Sbarcati in Africa con un poderoso esercito, i due consoli del 149, dopo essersi fatti consegnare dai Cartaginesi tutte le armi che avevano, di108
chiararono che un’altra riparazione essi dovevano per espiare il malfatto: abbandonare la loro città e fabbricarsene un’altra dove volessero, a non meno di 15 miglia dal mare, perché Cartagine doveva essere rasa al suolo. Di fronte a questa incredibile intimazione, i Cartaginesi seppero celare la loro disperata volontà di resistenza, e col pretesto di trattative guadagnarono tempo per approntarsi alla estrema difesa. Quando i consoli si accorsero di tali preparativi, era troppo tardi per impadronirsi della città senza colpo ferire, e dovettero rassegnarsi a intraprendere le operazioni di assedio che tutto faceva prevedere lunghe e difficili. E infatti le cose presero un andamento più favorevole solo quando il supremo comando fu affidato a Scipione Emiliano, eletto console per il 147 con procedura d’eccezione non avendo ancora raggiunta l’età minima prescritta dalla legge. Nato nel 184 da Lucio Emilio Paolo (il vincitore di Pidna), ed entrato nella famiglia degli Scipioni per adozione da parte di un figlio del grande Africano, egli non deluse le speranze dei suoi fautori. Stretta in una morsa impenetrabile, travagliata dalla fame e dalla pestilenza, Cartagine fu espugnata casa per casa fino all’acropoli; quivi gli ultimi difensori si arresero a patto di aver salva la vita mentre la città veniva saccheggiata e poi distrutta dalle fondamenta. Il centro amministrativo della nuova provincia d’Africa, che veniva a comprendere solo una parte dei domini cartaginesi, fu stabilito nella città di Utica, e Scipione Emiliano, dopo il trionfo, assunse anche egli il titolo di Africanus.
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7. Trionfo del conservatorismo. Catone e Scipione. Gli eventi che portarono la repubblica a primeggiare fra i paesi del Mediterraneo influirono sul corso della politica interna di Roma assai più di quanto non ne fossero stati influenzati. Si è accennato più di una volta alla ritrosia del senato ad ampliare la sfera dei domini diretti mediante la costituzione di nuove province. Per governare queste si rendeva necessario accrescere il numero dei magistrati forniti di imperium (dei pretori, cioè, dato che nessuno mai pensò che i consoli potessero essere più di due), ma a ciò contrastava lo spirito conservatore della nobiltà al potere, che per oltre un secolo lasciò invariato il numero di sei raggiunto dai pretori nel 197 quando furono create le due province di Spagna. Intanto, per eliminare gl’inconvenienti derivanti dal numero troppo esiguo dei magistrati superiori, si fece ricorso il più possibile alla prorogatio imperii, mediante la quale a un console o a un pretore, terminato l’anno di carica, si conservava ancora per uno o più anni l’imperium, che ora egli continuava ad esercitare in qualità di promagistrato, cioè di proconsole o di propretore. Ma a parte questo, la tendenza a non ampliare i domini provinciali corrispondeva in primo luogo al desiderio di non moltiplicare i territori nei quali i magistrati o i promagistrati, in veste di governatori, avrebbero esercitato una somma pressoché illimitata di poteri, civili e militari, lontani dal controllo del senato, l’organo che sorvegliava e assicurava l’attuazione delle direttive della classe di governo. In generale, può dirsi che nel periodo delle grandi conquiste l’atteggiamento della oligarchia nobiliare patrizio-plebea fu tanto più gelosamente 110
conservatore quanto più difficile diventava mantenere il predominio in un organismo politico che, dalla mediocre misura di un piccolo staterello, si era innalzato al rango di potenza mondiale, con una mole di problemi assai più complessi e, soprattutto, molto diversi da quelli di un tempo. La medesima gelosia, poi, si manifestava non solo nell’ostacolare l’ascesa degli homines novi, ma anche nel vicendevole sorvegliarsi dei nobiles per impedire che qualcuno di loro avesse a salire in potenza tanto da prendere il sopravvento e rompere l’equilibrio del sistema. A questo fine, verso il principio del II secolo, un’apposita legge fissò norme precise per lo sviluppo del cursus honorum, cioè vennero stabiliti l’ordine progressivo delle magistrature, l’età minima per accedervi, gl’intervalli fra l’una e l’altra e, per la massima fra tutte, il consolato, venne sancito che nessuno poteva rivestirla un’altra volta se non a dieci anni di distanza dalla precedente. Le deroghe a tali norme furono pochissime; quando esse divennero più frequenti, come i sei consolati di Mario dal 107 al 100, era segno che si appressava il tramonto del regime oligarchico. Quanto agli sviluppi della lotta politica, questa continuò a svolgersi sui consueti binari della rivalità fra le casate nobiliari più cospicue. Ma in assenza di veri e propri partiti politici con programmi prestabiliti, e poiché sussisteva un accordo sostanziale fra i nobili nel mantenere le comuni posizioni di privilegio, si trattava per lo più di divergenze di metodi o di questioni personali connesse con particolari situazioni di famiglia o di preparazione individuale. Fa spicco, tuttavia, in tali 111
contrasti l’antitesi fra una tendenza più rigidamente conservatrice, attaccata alle tradizioni e decisa ad affrontare i nuovi compiti dello Stato ingrandito senza nulla toccare degli istituti esistenti, e una tendenza, sia pur moderatamente, innovatrice che, consapevole dell’insufficienza dei vecchi schemi di governo rispetto ai nuovi compiti da assolvere, auspicava un più libero esplicarsi della vita politica in forme meglio aderenti alla situazione mutata. Esponente della prima tendenza fu Catone il Censorio, della seconda Scipione Africano, il vincitore di Annibale, che alla fine ebbe a soccombere. Attaccato insieme col fratello Lucio (l’Asiatico) in una serie di processi, direttamente ispirati da Catone, sotto l’accusa di essersi approfittato dell’enorme somma riscossa dal re Antioco come anticipo dell’indennità di guerra stabilita dopo la vittoria di Magnesia, l’Africano riuscì in ultimo ad evitare una vera e propria condanna, ma subì una irrimediabile perdita di prestigio e si vide costretto ad allontanarsi da Roma e a ritirarsi a vita privata. Poco dopo (184) moriva a Literno. 8. Squilibrio economico e società in fermento. - Il prevalere della tendenza più intransigente non soltanto assicurò la conservazione degli antichi istituti politici, suggellando la definitiva trasformazione della aristocrazia in oligarchia, ma ostacolò ogni benefica evoluzione nel campo economico-sociale, ove assai opportuno sarebbe stato intervenire in favore delle classi meno abbienti, soprattutto per arrestare la rovina dei cittadini piccoli proprietari. 112
Oltre a questi strati inferiori dei cives Romani, aveva rivendicazioni da far valere tutta la numerosa schiera dei foederati Latini e Italici. Costoro, come avevano validamente collaborato ad affermare il primato romano nella Penisola, e a preservarlo resistendo alle lusinghe o alle minacce di Annibale, così volenterosamente e a prezzo di molto sangue avevano dato il loro apporto sui campi di battaglia d’Oriente e d’Occidente per l’espansione del dominio romano. I benefici delle grandi conquiste, terre, bottino, tributi, erano però andati esclusivamente a vantaggio dello Stato romano, il quale inoltre cominciava a intromettersi con mano sempre più pesante negli affari interni delle città alleate. Da un simile stato di cose stava per germogliare l’aspirazione dei foederati in genere a diventare anch’essi cives Romani, aspirazione a lungo soffocata dall’egoismo della città dominante finché non esplose nell’aperta ribellione e nella guerra. Altro lievito in fermento nel tessuto sociale della repubblica era rappresentato dalla categoria dei cavalieri, cioè dall’insieme di quei cittadini che, a partire dal III sec., vennero distinti perché in possesso di un determinato censo. Vi apparteneva soprattutto la ricca borghesia degli imprenditori, dei trafficanti, degli appaltatori, che in breve tempo, operando specialmente nei vari paesi conquistati, avevano avuto agio di accumulare enormi fortune senza dover sostenere la concorrenza dei nobili, rimasti tradizionalmente legati alla grande proprietà terriera. Anche se i cavalieri non giunsero mai ad una loro particolare visione dello Stato e dei suoi ordinamenti, ma limitarono la loro azione politica alla egoistica difesa dei propri interessi, tuttavia con 113
tale azione essi diedero spesso serie preoccupazioni al governo nobiliare. Riuscì, dunque, per vari decenni al trionfante conservatorismo della nobiltà, che con le sue splendide imprese di conquista si era posta come al di sopra di ogni discussione, di mantenere intatti i suoi privilegi rinviando la risoluzione dei vari problemi, soprattutto di ordine economico e sociale, cui si è accennato. Formalmente, alla base dell’ordinamento statale continuò ad essere la sovranità popolare, ma le assemblee in cui questa si manifestava restarono ancor più di prima in balìa della potente organizzazione delle grandi casate, anche perché a radunarsi per dare il loro voto erano per lo più i cives residenti in Roma, mentre di norma risultava assente la gran massa di quelli sparsi nei municipi e nelle colonie. 9. Cultura greca e humanitas romana. - La reazione ultraconservatrice impersonata da Catone giunse anche a combattere come pericoloso per l’integrità dei costumi nazionali il diffondersi della cultura greca, dei Graeculi come quello diceva con aperto disprezzo. Ma qui non si trattava, in fondo, che di un argomento polemico nel contrasto con l’avversa fazione, accentrata nel circolo filellenico degli Scipioni. Quello che di deteriore Catone scorgeva nel costume pubblico e privato dei Greci, corruzione, viltà, ambizione sfrenata, non poteva essere sconosciuto alla più antica società romana: solo che cominciava allora a manifestarsi in maggiori proporzioni, ma non certo per colpa dei rapporti più immediati col mondo greco-orientale.
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Era vero, invece, che sotto l’influsso più diretto dei modelli greci veniva costituendosi una tradizione letteraria capace di dare frutti cospicui non solo per un gusto particolare e per l’intensità dell’espressione, ma talora anche per originalità, come il teatro di Plauto e di Terenzio, o l’epopea di Nevio e di Ennio, o l’efficace satira di Lucilio. E il formarsi di una nuova lingua poetica apriva la strada alla fioritura dell’età successiva, nella quale le lettere romane si sarebbero degnamente affermate nella letteratura del mondo civile per restare fonte di ispirazione perenne alle generazioni a venire. Inoltre, nelle opere di qualcuno degli scrittori ricordati si sentono riecheggiare i nuovi ideali civili e morali sviluppatisi nel circolo degli Scipioni per l’innesto della cultura greca nella concezione romana tradizionalmente informata alla preminenza degli interessi della res publica su quelli dell’individuo. Lo storico Polibio aveva trovato la giustificazione del dominio universale di Roma nell’eccellenza delle sue istituzioni, e quindi nella virtus collettiva della sua classe dirigente; il filosofo Panezio, geniale trapiantatore dello stoicismo in terra romana, teorizzava per l’individuo stesso l’esigenza di elevarsi alla dignità di persona umana mercé l’assiduo sforzo di adeguare la sua azione ad un’etica “convenienza con se stesso”. Sorgeva così in Roma l’idea di una humanitas, intesa come coscienza della condizione umana e capace d’ispirare sentimenti di giustizia e di comprensione verso gli altri. Questa nuova concezione non restò estranea ai progressi della scienza giuridica, che nell’assiduo sforzo di adeguare le norme di legge ai bisogni sempre nuovi di uno Stato in vigorosa espansione, e 115
soprattutto di coordinare i rapporti tra individui appartenenti a paesi di tradizioni e civiltà diverse, avrebbe fatto Roma madre di diritto alle genti.
Sull’imperialismo, che avrebbe determinato la spinta espansionistica al principio del II secolo, si è molto discusso e ancora si discute: com’è naturale, trattandosi in fondo d i un’etichetta che dovrebbe caratterizzare un’azione politica lunga e complessa, della quale conosciamo assai meglio il risultato finale (la conquista) che non il lento maturare delle situazioni che ne promossero i successivi sviluppi; cfr. A. P IGANIOL , La conquête romaine, cit., p. 203 sgg. Siamo poi, anche qui, condizionati dalla “tendenza” delle nostre fonti, rappresentate soprattutto da Polibio (framm. dei libri XVI e sgg.) e poi da Livio, libb. XXXI-XLV (con il lib. XLV, l’ultimo conservato per intero, si arriva all’anno 167; per il periodo successivo le periochae e i sunti degli epitomatori). Come Livio, si rifanno a materiali polibiani anche Diodoro (framm. dei libri dal XXVIII in poi), Appiano (oltre i già ricordati libro Iberico e libro Libico, il libro Macedonico e Illirico e il libro Siriaco) e Cassio Dione (framm. dei libri dal XVIII in poi, in massima nell’epitome di Zonara). Inoltre le Vite plutarchee di Tito Quinzio Flaminino, di Lucio Emilio Paolo, di Catone il Censorio, di Filopemene. Nella storia militare del mondo antico la battaglia d i Cinoscefale, il primo scontro fra la legione romana e la falange macedone-orientale, consacrò una volta per tutte la facile superiorità dell’una rispetto all’altra. Un evento che lasciò attoniti i contemporanei e spinse Polibio a soffermarvisi espressamente (XVIII 32, 13) “perché molti dei Greci non soltanto al tempo in cui i Macedoni furono sbaragliati considerarono il fatto come una cosa incredibile, ma anche in futuro continueranno a chiedersi con meraviglia perché e come la falange risulta inferiore allo schieramento romano”. E l’inferiorità della falange, come già vide lo stesso Polibio, stava nella sua rigidità, cioè nella sua scarsa adattabilità a un terreno che non fosse sgombro e pianeggiante; cfr. H. D ELBRÜCK , Geschichte der Kriegskunst im Rahmen der politischen Geschichte, I, Berlin 1920, p. 424 sgg. Polibio (XVIII 46, 5; sulle sue orme, più o meno fedelmente, L IV ., XXXIII 32, 5; P LUT ., Flaminin. X 5; Appian., IX 4) ci ha trasmesso il testo del proclama di Tito Quinzio Flaminino ai Greci: “Il senato dei Romani e il proconsole Tito Quinzio, vinti in guerra il re Filippo e i Macedoni, lasciano liberi, senza
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guarnigioni, non soggetti a tributi, con la possibilità di godere delle leggi ereditate dai padri, Corinzi, Focesi, Locresi, Eubei, Achei Ftioti, Magneti, Tessali, Perrebi”. Il testo è così riferito da L IV , l.c.: senatus Romanus et T. Quinctius imperator Philippo rege Macedonibusque devictis liberos, immunes, suis legibus esse iubet Corinthios, Phocenses Locrensesque omnis et insulam Euboeam et Magnetas, Thessalos, Perrhaebos, Achaeos Phtiotas. Assai numerose furono le attestazioni di omaggio riservate dai Greci al duce romano “liberatore”, la nostr a informazione in proposito si è arricchita recentemente di un decreto scoperto ad Argo (cfr. G. D AUX , in “Bull. Corr. Hell.” LXXXVIII, 1964, p. 569 sgg.) dal quale si ricava che in quella città, dopo circa un secolo, si celebravano ancora le feste istituite appunto in onore di Tito Quinzio Flaminino. E non è a dire che questi durante le operazioni di guerra avesse trattato i Greci con mano leggera; ce lo attesta, fra l’altro, un nuovo documento epigrafico (cfr. M. M ITSOS , in “Rev. ét. gr.” LIX-LX, 1946-47, p. l50 sgg.; F.G. M AIER , Griech. Mauerbauinschriften, I, Heidelberg 1959, p. 132 sgg.) che consente di precisare la narrazione liviana sulla conquista di Elatea nella Focide, avvenuta negli ultimi mesi del 198. Livio (XXXII 24) racconta che Flaminino, dopo aver espugnato la città, occupata da Filippo una ventina d’anni prima, dovette affrontare le ultime resistenze opposte nella rocca dai soldati de i presidio macedone e dagli Elateesi, e ne venne facilmente a capo: missis in arcem qui vitam regiis, si inermes abire vellent, libertatem Elatensibus pollicerentur, fideque in haec data, post dies paucos arcem recipt. Dunque, Flaminino aveva promesso agli Elateesi la libertas, ma dal nuovo documento apprendiamo che Elatea cessò di esistere come polis, che gli Elateesi furono espulsi dalla città e costretti a rifugiarsi a Stinfalo in Arcadia, donde solo una decina d’anni dopo riuscirono a ritornare in patria. Sulla politica “filellenica” del gruppo de gli Scipioni e sulla opposizione capeggiata da Catone, v. F. D ELLA C ORTE , Catone Censore. La vita e la fortuna, Torino 1949. Circa l’ammontare delle indennità di guerra imposte ai nemici vinti (che nell’età delle grandi conquiste rappresentarono uno dei cespiti più cospicui della finanza statale) si consideri che un talento euboico equivaleva a 80 libbre di argento (gr. 327 x 80), e poiché in quell’epoca una libbra equivaleva a 84 denarii da gr. 3,90, il talento euboico era uguale a 6720 denarii. Pertanto la somma imposta ad Antioco in conto riparazioni fu di 100 milioni e 800 mila denarii. Ora, secondo i calcoli più o meno approssimativi del F RANK (An economic survey, cit., I, p. 126 sgg.), nei primi decenni del II sec. a.C. le entrate dello Stato romano si aggirarono, mediamente, sui 14 milioni e 200 mila denarii, il che significa che l’indennità imposta ad Antioco rappresentava la entrata media
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globale di oltre sette esercizi finanziarii. Su Antioco, in generale, v. di recente H. H. S CHMITT , Untersuchungen zur Geschichte Antiochos’ des Grossen und seiner Zeit, Köln - Graz 1964. Sulla sempre crescente ingerenza romana nelle cose di Oriente, cfr. G. C ARDINALI , Il regno di Pergamo, Roma 1906; G. V ITUCCI , Il regno di Bitinia, Roma 1953; E. B ADIAN , Foreign Clientelae (264-70 B. C. ), Oxford 1958. Sul tramonto del regno dei Macedoni, v. P. M ELONI , Perseo e la fine della monarchia macedone, Roma 1953; sulla rivolta di Andrisco, G. C ARDINALI , Lo Pseudo-Filippo, in “Riv. Filol. Class.” XXXIX (1911) p. 1 sgg. Sulla fine dell’indipendenza greca, cfr. G. G IANNELLI , L a repubblica romana, Milano 1955, p. 482 sgg. Per un’analisi della situazione nella quale venne maturando in Roma la determinazione di annientare Cartagine, cfr. L. Z AN CAN , Le cause della terza guerra punica, Venezia 1936; W. H OFFMANN , Die römische Politik des 2. Jahrhunderts und das Ende Karthagos, in “Historia” IX (1960) p. 309 sgg. Per la conquista della provincia d’Asia, G. C ARDINALI , L a morte di Attalo III e la rivolta di Aristonico, in “Studi di storia antica offerti a Giulio Beloch” Roma 1910, p. 269 sgg. V. anche D. M AGIE , Roman Rule in Asia Minor, I-II, Princeton 1950, p. 147 sgg., 1033 sgg. Sulle guerre per consolidare ed ampliare le conquiste nella Spagna, C. W. H. S UT HERLAND , The Romans in Spain, London 1939; R. T HOUVENOT , Essai sur la province romaine de Bétique, Paris 1940. Le norme regolatrici della carriera dei pubblici honores vennero promulgate con la lex Villia (proposta nel 180 dal tribuno della plebe Lucio Villio), sulla quale c’informa in maniera sommaria L IV ., XL 44, 1; cfr. M OMMSEN , Staatsrecht, I 3 , p. 529 sg.; G. R ÖGLER , Die lex Villia Annalis, in “Klio” XL (1962) p. 76 sgg. Sul costituirsi in seno alla società romana della classe de i cavalieri, uno degli aspetti più caratteristici dell’evoluzione economica nell’età delle grandi conquiste, cfr. A. S TEIN , Der römische Ritterstand, München 1927; M. R OSTOVZEV , Storia economica e sociale dell’impero romano, trad. it., Firenze 1933, p. 10 sgg.; A. F ERRABINO , L’Italia romana, Milano 1934, p. 197 sgg.; C. N ICOLET , L’ordre équestre à l’époque républicaine, I, Paris 1966. Una fra le più violente manifestazioni della politica d i chiusura propugnata da Catone verso ogni forma d’influsso greco si ebbe nel 186, quando scoppiò lo “scandalo” dei Baccanali, che erano riunioni misteriche con rituale orgiastico di provenienza greco-orientale. È notevole che tali riti fossero vietati dal governo di Roma non soltanto ai cittadini romani, ma anche ai cittadini
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delle città alleate, il che costituiva un’indebita e pesante ingerenza nei loro affari. Della vicenda siamo informati, oltre che da L IV ., XXXIX 8-19, anche da una delle più antiche iscrizioni latine, il cosiddetto Senatusconsultum de Bachanalibus (C.I.L. I 2 501).
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VII La crisi del regime nobiliare. Dai Gracchi alla guerra sociale. 1. Ripercussioni interne delle grandi conquiste. - Si è fatto cenno, poco sopra, della pesante crisi di ordine economico e sociale che nell’età delle grandi conquiste aveva preso a travagliare in maniera sempre più grave i ceti inferiori della cittadinanza romana, in particolare la categoria dei contadini piccoli proprietari. Per costoro il disastro era cominciato al tempo dell’invasione annibalica, quando erano stati costretti ad abbandonare le loro terre alla furia devastatrice del nemico. Poi erano sopravvenute le continue campagne di guerra, anzitutto nella Spagna, a tenerli lontani dal lavoro con la conseguenza del progressivo indebitamento e dell’inesorabile rovina delle loro piccole aziende. Costretti a cedere le loro terre, che passavano a ingrossare i latifondi della ricca nobiltà, gli antichi proprietari si venivano riducendo al rango di braccianti, se non addirittura di disoccupati, per l’impossibilità di sostenere la concorrenza della mano d’opera servile. Infatti un’altra conseguenza delle grandi conquiste era stato l’afflusso in Italia di masse sempre più numerose di schiavi, all’origine prigionieri di guerra, che vennero largamente adibiti ai lavori agricoli. Si trattava di una mano d’opera assai a buon mercato, dato che il padrone la compensava solo con quel tanto che bastava a non farla morire di fame, e in breve le campagne d’Italia brulicarono di questi lavoratori stranieri, tenuti 120
all’ordine con inflessibile e spesso crudele disciplina, mentre buona parte della precedente popolazione agricola si inurbava trasformandosi in plebaglia oziosa al servizio delle manovre elettorali dei potenti. Vi era poi un altro aspetto, e non meno preoccupante, di questa crisi, e cioè le ripercussioni di carattere militare. I cittadini piccoli proprietari, che prestavano servizio nelle legioni, costituivano ancora il nerbo delle forze armate della repubblica, e il loro continuo scadimento al livello dei proletari nullatenenti (che ancora erano esclusi, di fatto, dal servizio militare), rappresentava un fenomeno di non poca gravità. Di questa complessa situazione di disagio pareva non darsi troppo pensiero l’oligarchia dominante, che tutta intesa alla tutela dei suoi privilegi si limitò a una ripresa della colonizzazione alla periferia della Penisola, cui l’esausta popolazione romana rispose con scarso entusiasmo. Ben altri provvedimenti, ormai, erano necessari per sanare le piaghe del tessuto sociale, e ad essi pose mano, con ardore di idealista, Tiberio Sempronio Gracco. 2. Il tribunato di Tiberio Gracco. - Nato nel 162 dall’omonimo personaggio che era stato due volte console, nel 177 e nel 163, e da Cornelia, figlia dell’Africano Maggiore, imparentato con l’Africano Minore, che aveva preso in moglie sua sorella Sempronia, Tiberio apparteneva alla più schietta nobilitas. Ma, forse anche per l’influsso di dottrine filosofiche a sfondo egualitario apprese dai suoi maestri greci, egli assunse rispetto alle questioni 121
politiche e sociali dei suo tempo un atteggiamento assai diverso da quello della nobiltà in genere, e soprattutto in contrasto con i suoi egoistici interessi. Per restituire al lavoro dei campi le masse del contadiname inurbato e riportarle all’antica dignità di liberi agricoltori, egli si propose di mettere a partito le opportunità che offrivano le immense estensioni dell’agro pubblico, e quando fu eletto al tribunato della plebe per l’anno 133 concretò i suoi progetti in uno schema di plebiscito da sottoporre all’approvazione dei comizi. Esisteva da gran tempo un insieme di provvedimenti che, di tanto in tanto, lo Stato aveva emanato per regolare il possesso dell’ager publicus contenendolo entro un certo limite. L’ultimo di questi provvedimenti, vecchio ormai di un cinquantennio, aveva stabilito che nessuno potesse possederne più di 500 iugeri (cioè oltre 120 ettari; si tenga ben presente la sostanziale differenza tra proprietà e possesso, che è uso di una cosa senza esserne proprietari; i possessori dell’agro pubblico lo sfruttavano, ma senza averne il diritto di proprietà, che restava allo Stato). Tiberio si riallacciò a questa disposizione, come se volesse richiamarla in vigore dato che il limite dei 500 iugeri era stato spesso superato, ma la sostanza della sua proposta mirava in fondo a qualcosa di ben diverso. Si doveva procedere ad una ricognizione generale dell’agro pubblico per eliminare ogni sorta di abusi e restringere i possessi, che fossero risultati legittimi, nei limiti dei 500 iugeri; inoltre, e qui era la novità, le terre possedute abusivamente, o in eccedenza del limite, dovevano essere riprese dallo Stato, che ne avrebbe curato la distribuzione a cittadini 122
nullatenenti in lotti di 30 iugeri (poco più di 7 ettari). Quelli che sfruttavano su larga scala l’ager publicus, come s’è accennato, erano i ricchi latifondisti della nobiltà, e si comprende come la loro reazione alla proposta agraria di Tiberio fosse violentissima. Animati dalla più fiera volontà di resistenza, cui naturalmente si ispirò l’atteggiamento ufficiale del senato in questo affare, essi pensarono di osteggiare la riforma agraria con una manovra ostruzionistica guadagnando alla loro causa uno dei nove colleghi di Tiberio, il tribuno Marco Ottavio. Costui si avvalse del suo diritto di veto per bloccare la proposta di legge, e fu irremovibile ad ogni preghiera o minaccia finché Tiberio, per uscire dal grave imbarazzo, si risolse a proporre ai comizi la sua destituzione. Era una proposta senza precedenti nella storia ormai plurisecolare del tribunato della plebe, ma, secondo Tiberio, essa trovava la sua giustificazione nel fatto che Ottavio aveva agito a danno e non a favore del popolo; i comizi, comunque, l’approvarono spianando la strada alla successiva approvazione della legge agraria. Si trattava di un grande successo contro le forze coalizzate della nobiltà, ma tutt’altro che decisivo, come presto si vide. Approvata la legge e affidatane l’esecuzione ad un collegio di triumviri agris iudicandis adsignandis (Tiberio, il fratello Gaio e l’ex console Appio Claudio, suocero di Tiberio), costoro si trovarono dinanzi ad una mole enorme di lavoro soprattutto per dirimere le numerose questioni che nascevano sulla legittimità dei possessi. Dopo pochi mesi, Tiberio si accorse che l’anno del suo tribunato non sarebbe stato 123
sufficiente a condurre a termine l’opera iniziata, e nello stesso tempo capì che la fine della sua magistratura avrebbe insieme segnato l’abbandono della sua riforma. S’indusse allora a imboccare quella che gli parve l’unica via di uscita e nell’estate, con un atto che era in contrasto con un’antica prassi costituzionale, pose la candidatura per essere rieletto al tribunato per il successivo anno 132. L’opposizione del senato questa volta fu ancora più violenta e decisa, anche perché la mossa di Tiberio offriva il destro all’accusa di voler rivoluzionare l’ordine costituito. Respinta come illegale la sua candidatura e scoppiato il tumulto nell’assemblea popolare, il senato chiese al console Publio Mucio Scevola di intervenire con i suoi poteri per imporre il rispetto della legalità e, poiché quello esitava, Scipione Nasica si pose a capo di una schiera di senatori più risoluti che con il loro seguito di clienti e di servi fecero irruzione nell’area capitolina provocando una zuffa disordinata. Ne rimase travolto lo stesso Tiberio, che fu raggiunto da una mazzata alla testa e steso esanime. 3. Dal programma conservatore di Tiberio a quello rivoluzionario di Gaio Gracco. - Si concludeva così, tragicamente, la breve parabola politica del non ancora trentenne Tiberio, che la trionfante reazione del governo nobiliare condannò come un dissennato rivoluzionario mentre la sua opera, anche se rivoluzionaria fu o poté apparire nei metodi, in realtà era intesa proprio alla conservazione degli istituti politici tradizionali, anzi alla restaurazione dell’antico.
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Tiberio, in fondo, non aveva mirato che a riedificare le strutture dello Stato agricolo mercé la ricostituzione della classe dei contadini-soldati che avevano fatto la grandezza di Roma. A tal punto aveva gli occhi fissi nel passato, da non accorgersi che i tempi erano mutati anche per quello che riguardava i problemi militari: ormai non si trattava più di difendere il suolo della patria, compito che l’antico esercito aveva assolto egregiamente, ma di mantenere il dominio di terre lontane, compito che rendeva sempre più urgente la creazione di un esercito di mestiere. Dopo la sua morte, la reazione del senato non si spinse fino a provocare l’abolizione della legge agraria, e la commissione triumvirale (nella quale l’ex pretore Publio Licinio Crasso, suocero di Gaio Gracco, aveva preso il posto di Tiberio) poté continuare i suoi lavori. Ma, oltre alle precedenti, incontrò nuove difficoltà per le proteste degli alleati italici: di questi i più ricchi, possessori anche essi di porzioni dell’agro pubblico, erano stati colpiti dalle limitazioni imposte dalla legge, mentre i più bisognosi non potevano partecipare alla distribuzione dei nuovi lotti, riservata ai cittadini romani. Le loro lamentele trovarono ascolto presso Scipione Emiliano, che fece trasferire ai consoli i poteri giurisdizionali del collegio triumvirale rendendone in tal modo ancor più difficoltoso il compito. Poco tempo dopo Scipione fu trovato morto nel suo letto (a. 129), e sebbene si parlasse ufficialmente di morte naturale, non è escluso che in realtà si trattasse di un assassinio politico. Nello stesso tempo gli alleati si agitavano con sempre maggiore insofferenza finché nel 125 il console Marco Fulvio Flacco, uno dei più 125
autorevoli ed entusiasti aderenti al movimento graccano, propose di estendere ad essi la cittadinanza romana. Naturalmente il suo progetto, che avrebbe leso troppi interessi, restò lettera morta, e allora il malcontento dilagò irrefrenabile. Nella colonia di Fregelle scoppiò la rivolta e si dovette domarla con la forza delle armi: perché la punizione fosse di monito agli altri alleati, la città fu rasa al suolo. In quest’atmosfera irrequieta, carica di timori e di speranze, veniva eletto al tribunato della plebe per il 123 Gaio Sempronio Gracco, di otto anni minore del fratello Tiberio. Dotato anch’egli di grande talento, e di un’eloquenza ancora più efficace, che travolgeva le masse popolari, Gaio si dedicò subito a continuare l’opera del fratello, o meglio a integrarla con un programma di riforme così vasto da farne qualcosa di totalmente diverso. Se ne ricava l’impressione che egli mirasse a trasformare l’assetto costituzionale, imperniandolo su un suo potere personale derivante dall’investitura del popolo sovrano attraverso successive rielezioni al tribunato, rielezioni che una nuova norma aveva reso non più illegittime come ai tempi di Tiberio. 4. L’azione politica di Gaio Gracco. - Prendendo a spiegare un’attività veramente instancabile, Gaio fece approvare una lex frumentaria, che disponeva la periodica distribuzione ai cittadini più bisognosi di una certa quantità di grano a prezzo di favore, una lex militaris, per migliorare le condizioni del servizio, una lex agraria, che richiamava le norme già dettate da Tiberio reintegrando nella pienezza delle sue attribuzioni la commissione triumvirale. 126
Ce n’era più che a sufficienza per assicurarsi la rielezione per l’anno 122 e, forte del consenso popolare, Gaio continuò per la sua strada preoccupandosi ora sia di procacciare all’erario il denaro necessario all’applicazione delle leggi già approvate, sia di assicurarsi l’appoggio dei cavalieri nella lotta che si profilava inevitabile contro l’opposizione del senato. Questo duplice intento egli conseguì mediante la lex de provincia Asia. Una decina di anni prima, nel 133, era morto l’ultimo re di Pergamo, Attalo III, lasciando in eredità al popolo romano il suo regno, che era entrato a far parte dei domini provinciali col nome di provincia d’Asia. Con la sua legge Gaio stabilì che essa fosse assoggettata al pagamento di una serie di imposte e che l’appalto della loro riscossione fosse concesso ai grossi finanzieri dell’ordine equestre. I cavalieri furono inoltre blanditi con la approvazione di una lex iudiciaria che ne accresceva grandemente l’importanza sul piano politico. I giudici incaricati di emanare le sentenze nei processi a carico di governatori di provincia accusati di concussione (estorsione di denaro a danno dei provinciali) erano stati scelti fino allora esclusivamente nell’ambito dell’ordine senatorio; la legge di Gaio stabilì invece che tali giudici dovevano essere non senatori, ma cavalieri. Giustificazione del provvedimento era il frequente verificarsi di assoluzioni scandalose di governatori provinciali (che erano anch’essi senatori) da parte dei giudicisenatori; ma le cose non migliorarono perché i giudici-cavalieri si valsero del loro potere per paralizzare con la minaccia di un processo i
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governatori che volessero impedire gli abusi dei cavalieri appaltatori d’imposte. All’inizio del 122, al culmine della popolarità, Gaio si decise ad avanzare un’altra proposta, che avrebbe rappresentato il coronamento della sua opera riformatrice mettendola al sicuro da ogni pericolo. Si trattava di estendere il diritto di cittadinanza romana agli alleati latini e il “diritto latino” agli alleati italici: un provvedimento che, se da un lato dava l’agognata ricompensa a chi con tanti sacrifici aveva collaborato alla grandezza di Roma, dall’altro avrebbe permesso a Gaio di allargare a tutta l’Italia la cerchia degli entusiasti fautori della sua politica. Ma su questo punto il suo buon fiuto l’aveva tradito. La concessione della cittadinanza a grandi masse di stranieri non poteva non suscitare l’opposizione dei cives Romani, in generale ugualmente gelosi dell’antico privilegio, dal più potente al più umile. Lo si era constatato appena pochi anni prima col fallimento del progetto di Fulvio Flacco, e il senato colse ora il destro per dare inizio al contrattacco; indusse il tribuno Livio Druso a intervenire col suo veto e la proposta di Gaio rimase bloccata. Poco dopo, essendosi Gaio recato in Africa per presiedere alla fondazione, nel territorio di Cartagine, della colonia Iunonia, che egli stesso aveva voluto far sorgere per aprire un altro sfogo al proletariato di Roma, il senato sviluppò la sua manovra facendo avanzare da Livio Druso alcune proposte ultrademagogiche che ebbero l’effetto di scalzare ancor più la sua declinante popolarità. E quando pochi mesi dopo rientrò dall’Africa, Gaio dové constatare che il suo prestigio 128
era irrimediabilmente scosso, al punto di non riuscire a farsi eleggere tribuno per l’anno appresso. Era il trionfo dei suoi avversari, che ben presto posero mano a smantellarne l’opera. Adducendo che la fondazione della colonia a Cartagine era avvenuta sotto sfavorevoli “auspìci”, essi promossero l’abrogazione della legge che l’aveva autorizzata, e nel giorno dell’assemblea popolare, com’era facilmente prevedibile, si verificarono scontri sanguinosi fra i graccani e i loro oppositori. Il senato non aspettava altro per scatenare la sua violenta reazione e, decretato che lo Stato era in pericolo, invocò i necessari provvedimenti. Il console Lucio Opimio, che era accanitamente avverso al programma graccano, non indugiò a dare il via alla repressione. Gaio, che con i più fidi partigiani si era ritirato sull’Aventino al termine di inutili trattative, invano cercò scampo nella fuga e preferì farsi uccidere da un servo. 5. Reazione nobiliare e sopravvivenza delle istanze graccane. - L’eliminazione di Gaio Gracco assicurò ancora per molti decenni all’oligarchia senatoria il predominio nel governo della repubblica, ma qualche cosa era ormai profondamente mutato, se non nelle forme, nella sostanza del sistema politico tradizionale. Tranne particolari di minore importanza, il grosso dell’attività riformatrice del tribuno era destinato a sopravvivere alla sua morte. La potenza non più esclusivamente economica, ma anche politica, raggiunta dai cavalieri attraverso la legge giudiziaria, e soprattutto la nuova consapevolezza del proletariato cittadino di poter sostenere al potere col suo voto chi gli avesse 129
procurato più larghi benefici, erano elementi tali da compromettere la solidità delle basi su cui da secoli poggiava la repubblica nobiliare. Anche se non si addivenne alla costituzione di un vero e proprio partito con un programma di rivendicazioni sociali (poiché questo, propriamente, non furono i populares), esisteva ormai una forza in grado di muoversi a sostegno delle istanze democratiche solo che trovasse qualcuno atto a suscitarla e organizzarla. A chi fosse capace di tanto, e sia pure per ragioni contingenti di lotta politica o di opportunismo personale, era aperta la via per scardinare il vecchio regime. Senza dire, poi, del pericolo rappresentato per le forze conservatrici dall’aspirazione sempre più irrefrenabile degli alleati latini e italici al conferimento della cittadinanza romana; una aspirazione certamente giusta, ma che una volta realizzata avrebbe introdotto nuovi elementi di squilibrio nelle strutture dello Stato. Ma questi sviluppi erano appena all’orizzonte, e l’oligarchia nobiliare, come poté dedicarsi più o meno indisturbata alla restaurazione della sua autorità all’interno, così poté provvedere all’allargamento e al consolidamento delle conquiste esterne, specialmente nel settore occidentale. Mentre nella Spagna si trascinava la lotta incessante e sanguinosa per piegare i Lusitani e i Celtiberi, nel 154 si era dovuto intervenire anche nella Gallia meridionale per difendere l’alleata Marsiglia dalle incursioni degli Arverni. Circa trent’anni dopo le incursioni si rinnovarono, e furono necessarie due campagne di guerra (a. 122 e 121) per debellare la resistenza degli Arverni e degli alleati Allobrogi. Per stabilire la continuità 130
territoriale fra l’Italia settentrionale e la Spagna, la regione venne ordinata in una nuova provincia che fu detta Gallia Narbonensis (dal nome della colonia di Narbo, oggi Narbonne, fondata nel 118), corrispondente a un dipresso all’odierna Provenza, che ancora conserva nel nome il ricordo del suo ingresso come provincia nel mondo romano. 6. Giugurta e l’ascesa di Gaio Mario. - Di molto maggior rilievo, anche per le complicazioni di politica interna, furono le operazioni che si svolsero in Africa. Il regno di Numidia, che si estendeva per largo tratto dalla Mauretania alla Cirenaica racchiudendo il territorio comparativamente modesto della provincia d’Africa, era travagliato da una grave crisi. Il re Micipsa, figlio e successore di Massinissa, alla sua morte (a. 118) aveva lasciato in eredità i propri domini ai due figli Aderbale e Iempsale e al nipote Giugurta, da lui benvoluto e adottato. Giugurta era tanto avido di potenza quanto privo di scrupoli, ed essendo venuto in discordia coi cugini per la ripartizione del regno non esitò a far assassinare Iempsale e a impadronirsi poi con le armi anche della parte di Aderbale. Questi si affrettò a Roma per sollecitare l’intervento dei senato, che provvide a dirimere la lite e a delimitare i domini dei due contendenti. Ma qualche anno dopo Giugurta rinnovò l’aggressione e, nonostante gli ammonimenti romani, la portò a termine con l’espugnazione di Cirta, capitale del regno di Aderbale. Nella strage perirono anche alcuni membri della fiorente colonia di mercanti italici che operavano nella città, e questo spinse in Roma l’ordine equestre a reclamare la 131
guerra contro Giugurta, guerra che il senato avrebbe volentieri evitato, essendo alieno dal trasformare in dominio provinciale l’assai più comodo protettorato sulla Numidia. Ma non si poteva lasciare invendicata l’offesa al prestigio romano, e quando la guerra fu dichiarata (a. 111) il senato sperò di mantenerla nei limiti di una spedizione punitiva. La campagna, pertanto, fu intrapresa con una certa fiacchezza, intramezzata da trattative nelle quali sempre più arrogante si fece il comportamento di Giugurta, che poi arrivò anche ad infliggere una umiliante sconfitta alle forze del legato Aulo Postumio Albino costringendole alla capitolazione (a. 110). A questo punto, sotto la crescente pressione dei cavalieri appoggiati dai populares, fu deciso di dare più vigoroso impulso alle operazioni, e il comando ne fu affidato al console (del 109) Quinto Cecilio Metello, appartenente a quell’esigua minoranza di senatori che non erano contrari alla guerra in Numidia. Metello si preparò con impegno, circondandosi anche di valenti collaboratori tra cui Gaio Mario, e nella primavera del 108 riportò una bella vittoria sul fiume Muthul (d’incerta identificazione). Non volle, peraltro, o non seppe, addentrarsi all’inseguimento del nemico nel cuore del suo territorio per cogliere un successo definitivo, e allora il favore dei cavalieri e dei populares si spostò su Mario nella speranza che fosse lui l’uomo adatto a chiudere la partita con Giugurta. Nato ad Arpino da mediocre famiglia, Mario aveva raggiunto la pretura nei 115 all’età di 42 anni: una buona carriera politica per un homo novus, anche se aveva goduto l’appoggio della potente casata dei Cecili Metelli. Ora non si lasciò sfuggire l’occasione 132
favorevole, che pure lo contrapponeva al suo comandante e protettore, e sebbene da questo in vario modo osteggiato riuscì a tornare a Roma e a porre la sua candidatura al consolato. Eletto console per il 107 e incaricato espressamente, con apposita legge, del comando in Africa, attese alacremente ai preparativi preoccupandosi soprattutto del buon esito delle operazioni di arruolamento. Infatti nell’organizzazione militare di Roma repubblicana, in mancanza di veri e propri organici in servizio permanente, quando gli sviluppi della politica sboccavano nella guerra colui al quale veniva affidato il comando delle operazioni doveva in primo luogo preoccuparsi di allestire l’esercito. E questo o creandolo ex novo, o potenziandolo nel caso avesse assunto il comando di un esercito già costituito. Ora, già dal tempo delle interminabili campagne di Spagna le leve si svolgevano con una certa difficoltà perché buona parte dei cittadini tenuti al servizio nelle legioni (cioè quelli iscritti nelle 5 classi censitarie) cercavano di sottrarsi ai loro obblighi. Per ovviare all’inconveniente era stato via via diminuito (fino alla cifra bassissima di 1. 500 assi) il censo minimo per l’attribuzione dei cittadini alla V classe, sicché molti degli appartenenti agli strati più poveri della cittadinanza potessero esservi iscritti e, quindi, venir chiamati a prestar servizio nelle legioni, naturalmente armati ed equipaggiati a spese dello Stato. Rivelatosi inadeguato anche tale espediente, Mario fece ancora un passo avanti reclutando direttamente, come volontari, i capitecensi, con il risultato che allora, e poi in seguito, le legioni risultarono formate pressoché esclusivamente di 133
nullatenenti, per i quali il servizio militare diventò un vero e proprio mestiere. E nessuno allora si rese conto che tale innovazione, attuata soltanto per assicurare il necessario afflusso alle armi dei cittadini, avrebbe in breve portato alla completa trasformazione dell’esercito. Infatti questo finì per diventare uno strumento al servizio non più dello Stato, ma del comandante che meglio sapesse compensarlo e, in ultima analisi, elemento dominante nei contrasti politici che segnarono la fine degli ordinamenti repubblicani. Assicuratosi col nuovo sistema di arruolamento un buon contingente di truppe fresche e desiderose di far bella prova, Mario ritornò in Africa nella primavera del 107 e, mentre Metello rientrava a Roma (ove ottenne il trionfo e il titolo di Numidicus), intraprese una serie di energiche azioni addentrandosi vittoriosamente nel territorio nemico. Ebbe anche la fortuna di veder favorevolmente concludersi, due anni dopo, le trattative già avviate da Metello col re della Mauretania Bocco, il potente alleato e suocero di Giugurta. Una parte di primo piano nel condurre a termine le trattative ebbe Sulla, allora legato di Mario, al quale Bocco consegnò Giugurta ottenendo in cambio un ingrandimento del suo regno e un trattato di amicizia e di alleanza. Anche la Mauretania entrava così a far parte del sistema degli Stati vassalli di Roma, al pari della Numidia che venne confermata in tale condizione sotto lo scettro di Gauda, fratellastro di Giugurta, mentre questi veniva trascinato a Roma in catene per rendere più splendido il trionfo del vincitore, celebrato il capodanno del 104.
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7. I Cimbri e i Teutoni. La gloria di Mario. - Era appena chiusa la guerra giugurtina che una nuova, e ancor più grande, occasione si offriva al talento di Mario. Nel corso di un largo movimento migratorio che investì le regioni dell’alto corso del Danubio e i territori della Germania meridionale, i Cimbri e i Teutoni, popolazioni di stirpe germanica, si spostarono verso occidente alla ricerca di nuove terre e, superato il Reno, penetrarono nella Gallia minacciando direttamente la provincia romana. I ripetuti tentativi di respingerli si risolsero in altrettanti disastri, specialmente l’ultimo, che per la discordia tra il console Gneo Mallio Massimo e il proconsole Quinto Servilio Cepione, entrambi a capo di un esercito, si trasformò nel 105 in un’orribile strage presso Arausio (odierna Orange). Dopo la pessima prova dei generali di parte nobiliare, tutte le speranze si appuntarono su Mario, il quale venne eletto console per la seconda volta per l’anno 104 in deroga alla norma che prescriveva un intervallo di almeno dieci anni tra un consolato e l’altro (e anzi fu poi rieletto successivamente di anno in anno fino al 100). Poiché i barbari dopo la vittoria di Arausio, invece di concentrare gli sforzi alla ricerca di un successo risolutivo (il che, del resto, doveva essere estraneo ai loro disegni), si erano dispersi a far bottino per la Gallia e la Spagna, Mario ebbe tempo di arruolare un nuovo esercito e di addestrarlo a dovere, cercando anche di perfezionarne l’armamento. Inoltre egli portò a compimento la trasformazione degli organici già in corso, per cui ogni legione risultò articolata non più in 30 piccole unità (quali erano i manipoli), ma in 10 coorti di circa 600 uomini, ciascuna delle quali 135
costituiva un’unità tattica sufficientemente grande per operare con una certa autonomia e consentire un più agile impiego della legione. E si deve anche ricordare che fu Mario a fare dell’aquila, affidata a un aquilifer, la bandiera di ogni legione e, quindi, a stimolare l’ardore combattivo dei gregarii con il pungolo dello “spirito di corpo”. Così, quando qualche anno dopo i barbari mossero in direzione dell’Italia, l’esercito romano era pronto a sostenerne l’urto. Fu anche salutare che le orde degli invasori si accingessero all’impresa separatamente; infatti i Teutoni presero ad avanzare verso la Gallia meridionale, mentre per loro conto i Cimbri si disponevano a valicare i passi delle Alpi centrali. Mario si fece incontro dapprima ai Teutoni, e nel 102 li sterminò presso Aquae Sextiae (oggi Aixen-Provence); l’anno dopo affrontò i Cimbri che, travolta ogni resistenza, avevano dilagato attraverso la valle dell’Adige nella Transpadana, e li annientò nella battaglia dei Campi Raudii, presso Vercelli. Il pericolo era stato veramente terribile, e il vincitore a buon diritto fu colmato di onori, eletto console per la sesta volta e accomunato a Romolo e a Camillo col titolo di “fondatore di Roma”. 8. Inasprimento della lotta politica. Eclissi di Mario. - Il prestigio di Mario era immenso, ma stava per tramontare rapidamente. Proprio nell’anno del suo sesto consolato più acuta si era fatta la tensione tra il governo nobiliare e i populares sotto la guida del focoso tribuno Lucio Apuleio Saturnino affiancato dal pretore Gaio Servilio Glaucia. Approfittando dell’indiscussa 136
autorità dell’homo novus che al favore popolare doveva l’essere salito ai più alti fastigi, Saturnino si fece promotore di un vasto programma di leggi a favore del proletariato cittadino e, più ancora, degli alleati italici, e riuscì a vararle superando le resistenze non soltanto del senato, ma degli stessi cavalieri, di cui veniva a ledere gl’interessi. Ai senatori, poi, inflisse la grave umiliazione di costringerli a giurare che avrebbero osservato i suoi provvedimenti, e sull’esempio di Mario tutti si piegarono al giuramento, tranne Cecilio Metello Numidico, che preferì partire in esilio. Per poter sviluppare il suo programma, Saturnino si fece rieleggere tribuno per l’anno 99 mentre Glaucia, nell’intento di assicurarsi l’elezione al consolato, non esitava a fare assassinare il competitore Gaio Memmio. A questo punto il senato, come già ai tempi di Gaio Gracco, poté decretare che la repubblica era in pericolo e incaricare il console, Gaio Mario, di provvedere. Per Mario era il momento della scelta: puntare sulla carta della rivoluzione, che avrebbe avuto l’appoggio degli Italici più che delle masse urbane, oppure aderire alla richiesta di ripristinare l’ordine costituito separando le proprie responsabilità da quelle degli attivisti democratici. Preferì la seconda alternativa, che gli parve più idonea a tutelare la sua posizione, anche se questa in ogni caso era irrimediabilmente compromessa. Pur dopo il voltafaccia, non poteva sperare di essere accolto nella ristretta cerchia dei dirigenti della politica nobiliare, né, ormai, conservare la figura di esponente della parte popolare; e mentre Saturnino e Glaucia cadevano sotto i colpi della reazione senatoria egli dovette 137
allontanarsi da Roma, ufficialmente per svolgere una missione diplomatica presso Mitridate, il re del Ponto. 9. L’agitazione degli Italici e la guerra sociale. Senatori e cavalieri erano stati uniti nel soffocare il moto capeggiato da Saturnino, ma restava ancora a dividerli l’insanabile dissidio creato dalla legge giudiziaria di Gaio Gracco. L’atteggiamento di inflessibile contestazione assunto dai giudici-cavalieri nei confronti dei governatori-senatori spinse il senato al progetto di avvalersi delle forze popolari nella speranza di trovare un docile strumento delle sue rivendicazioni nel tribuno Marco Livio Druso. Costui, che era figlio dell’omonimo avversario di Gaio Gracco, avanzò effettivamente nel 91 un certo numero di proposte, ma queste, se comprendevano l’abolizione del monopolio giudiziario dei cavalieri, d’altro canto blandivano i ceti più bassi della cittadinanza con un insieme di concessioni rese ancor più preoccupanti dalle contemporanee promesse agli Italici di accogliere la loro aspirazione a diventare cittadini romani. In realtà erano gli Italici, presenti in Roma con numerose delegazioni, che sembravano i più interessati alle sorti del programma di Druso, e proprio da parte loro venne la più violenta reazione quando il senato, non pago di averne abolito le leggi per vizio di procedura, fece addirittura assassinare il tribuno. Era la riprova che a Roma almeno in un punto si stabiliva la convergenza fra senato, cavalieri e populares, quello di opporsi al desiderio degli alleati di ottenere i diritti di cittadinanza romana. A costoro non restava che la via dell’aperta rivolta, ed 138
essi l’imboccarono decisamente scatenando la guerra. La guerra sociale (cioè contro i socii ribelli) avvampò dapprima presso i Marsi e le confinanti popolazioni sannitiche, che si unirono in lega con capitale a Corfinio, poi si estese nella Campania, nell’Apulia, nella Lucania. Le forze di cui i ribelli disponevano non erano numerose, ma ottimamente addestrate alla tattica dell’esercito romano che esse da secoli avevano affiancato sui vari campi di battaglia. La consapevolezza, poi, di battersi per una causa sacrosanta ne raddoppiava l’ardore, e sotto la guida di due duci valenti quali Pompedio Silone e Papio Mutilo seppero dare molto filo da torcere ai Romani. A questi era rimasto l’appoggio degli alleati mantenutisi fedeli, a cominciare dai Latini, ed essi affrontarono animosamente la lotta anche se ben presto dovettero accorgersi che per riportare la vittoria era necessario concedere quanto fino allora avevano cercato di negare. I due consoli del 90, Publio Rutilio Lupo e Lucio Giulio Cesare (parente molto alla lontana del futuro dittatore), aprirono la guerra su due fronti recandosi l’uno ad affrontare Marsi e Piceni, l’altro i Sanniti; ma il bilancio delle operazioni fu negativo, anzi Rutilio Lupo cadde addirittura in combattimento. In tali condizioni, incombendo il pericolo che la ribellione si allargasse agli Umbri e agli Etruschi, e sopraggiunta anche la notizia che in Oriente Mitridate minacciava le posizioni romane, si fece strada in senato una tendenza conciliatrice. La propugnava lo stesso console Giulio Cesare, che fece votare una legge con la quale si conferiva la 139
cittadinanza romana ai Latini e a tutti gli Italici che non avessero partecipato all’insurrezione. La medesima tendenza ispirò l’anno dopo (89) una legge proposta dai tribuni Marco Plauzio Silvano e Gaio Papirio Carbone (che allargava la con cessione della civitas Romana ai cittadini delle comunità federate che ne facessero richiesta entro i sessanta giorni) e un’altra fatta approvare dal console Gneo Pompeo Strabone (padre di Pompeo Magno), con la quale si concedeva ai Transpadani il diritto latino, cioè la stessa condizione che fino allora avevano avuta gli alleati Latini. Tali provvedimenti non mancarono di sortire l’effetto desiderato sull’esito della guerra, anche se questa si trascinò ancora con una certa virulenza, tanto che vi perdette la vita l’altro console dello 89, Lucio Porcio Catone. I successi più ragguardevoli li colsero Pompeo Strabone, che riuscì ad espugnare Ascoli Piceno e ad assicurarsi l’onore di un trionfo, e Sulla, che condusse una serie di fortunate operazioni nel Sannio e nella Campania per spezzare le ultime resistenze degl’insorti. Sembrava che, superata ormai felicemente la fase sanguinosa della ribellione, le rivendicazioni dei socii non dovessero più turbare la politica interna di Roma; invece proprio da esse partì la scintilla di un nuovo conflitto, anzi della prima di una serie di guerre civili che si conclusero col naufragio del regime repubblicano. La nostra informazione sugli aspetti più notevoli dei mutamenti verificatisi nelle strutture sociali ed economiche de l mondo romano per effetto delle grandi conquiste riposa principalmente - oltre che sulla tradizione derivata da Livio - su Plutarco (Vite di Tiberio e Gaio Gracco, di Mario, di Sulla) e su
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Appiano (Guerre civili, lib. I), cioè su autori relativamente tardi. È andata infatti pressoché interamente perduta la ricca produzione degli storici contemporanei o più vicini ai fatti, tra cui fanno spicco le figure di Calpurnio Pisone (console nel 133), di Sempronio Asellione (tribunus militum nel 134-133 sotto Numanzia) e di Gaio Fannio, da identificare con il console del 122. Fannio, che fu favorevole alla politica riformatrice di Gaio Gracco (salvo che nella questione dei socii Italici), compose degli Annales in cui dei fatti dell’età graccana si trattava con una obiettività (veritas), che fu poi assai lodata dal democratico Sallustio, al quale piacque di raccogliere questa voce discorde fra le tante ispirate dalla tendenza senatoria-ottimate (cfr. S. M AZZAR INO , Il pensiero storico classico, II, 1, p. 414 sgg.; v. anche ibid. p. 138 sgg. circa il valore della tradizione confluita in Appiano). Sulla personalità e sull’opera dei due Gracchi, v. G. C ARDINALI , Studi graccani, Genova 1912; I D ., Capisaldi dell a legislazione agraria del periodo graccano, in “Historia” VII (1933) p. 517 sgg.; J. C ARCOPIN O , Autour des Gracques: études critiques, Paris 1928. A testimonianza dell’attività svolta dai triumviri graccan i restano alcuni cippi terminali rinvenuti soprattutto in Lucania, in Apulia e in Campania, su cui v. C.I.L. I 2 p. 511 sg. Sul punto culminante dell’attività legislatrice di Gaio Gracco, quello concernente l’accoglimento dei foederati nel seno della civitas Romana, è difficile afferrare i termini esatti della situazione per il grande divario, delle versioni conservate nelle fonti superstiti; si va da un programma massimo riportato da Velleio Patercolo (II 6, 2: dabat civitatem omnibus Italicis, extendebat eam paene usque Alpis) ad uno assai più moderato, riferito da Appiano (Bell. civ. I 23, 99), che prevedeva il conferimento del ius civitatis ai soli Latini, mentre gli altri socii venivano “promossi” alla condizione che era stata propria dei Latini, quindi con possibilità di partecipare anch’essi ai comizi con diritto di voto, sia pure molto limitato. Su Giugurta, e sul bellum Iugurthinum di Sallustio, che per noi è la fonte principale su quegli avvenimenti, cfr. G. F UNAIOLI , Sallustio e la storiografia romana, Roma 1942, p. 12 sgg.; G. D E S ANCTIS , Sallustio e la guerra di Giugurta, in Problemi di storia antica, Bari 1932, p 187 sgg.; S. M AZZARINO , Il pensiero storico, cit., II 1, p. 364 sgg. Sulla figura e sull’opera politica di Gaio Mario in generale, si vedano gli studi di A. P ASSERIN I (in “Athenaeum” n.s. XII, 1934) e di R. A NDR EOTTI , C. Mario, Gubbio 1940; in particolare, sulle riforme militari, A. S CHULTEN , Zur Heeresreform des Marius, in “Hermes” LXIII (1928) p. 240 sgg.; A. P IGANIOL , La conquête romaine, cit., p. 343 sgg.; sulle campagne per difendere l’Italia dall’invasione, A. D ONNADIEU , La campagne de Marius dans la Gaule
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Narbonnaise (104-102 av. J.-Chr.), in “Rev. étud. anc.” LVI (1954) p. 2 sgg.; T.F.C ARNEY , Marius’ Choice of Battlefield in the Campaign of 101, in “Athenaeum” n. s. XXXVI 1958, p. 229 sgg. Sul crollo della posizione politica di Mario, F.W.R OBINSON , Marius, Saturninus and Glaucia, Bonn 1912; W. S CHUR , Das sechste Konsulat des Marius, in “Klio” XXXII (1918) p. 313 sgg. Sul tribunato di Marco Livio Druso e sullo scoppio della guerra sociale, cfr. A. B ERNARDI , La guerra sociale e le lotte dei partit i in Roma, in “Nuova rivista storica” 1944-45. Accanto alle fonti letterarie (oltre ai frammenti del lib. XXXVIII di D IODORO , V ELL . P AT . II 15; A PPIAN ., Bell. civ. I 35 sgg.; L IV . LXXIII-LXXV) ci è rimasto anche qualche documento. In primo luogo le glandes Asculanae, proiettili di piombo usati nelle operazioni di guerra del 90-89 a.C. intorno ad Ascoli e recanti incise varie parole. I proiettili rinvenuti erano stati quasi tutti in dotazione ai socii ribelli, e infatti vi si leggono le scritte: Itali, Italiensis, T. Laf(renius) pr(aetor) (uno dei capi degl’insorti, cfr. A PPIAN ., Bell. civ. I 47, 204 sgg.), fer(i) Pom(peium) (= colpisci Pompeo), fer(i) Sul(picium) (uno dei legati di Pompeo Strabone): cfr. C.I.L. I 2 p. 550 sgg. Un altro documento epigrafico ci ha conservato il testo del decreto emanato da Pompeo Strabone nel suo campo ad Ascoli il 18 novembre dell’89, decreto con il quale, in applicazione di una clausola della lex Iulia de civitate, si concedeva agli appartenenti a uno squadrone di cavalleria spagnola il diritto di cittadinanza romana come ricompensa al valor militare (C.I.L. I 2 709). Sono poi da ricordare, fra i documenti di carattere numismatico, le monete emesse dai confederati Marsi con tipi e leggende riferentisi alla guerra in corso. Tra le più significative, il denario argenteo che reca nel verso l’immagine di un toro che calpesta la lupa (simbolo di Roma) e l’iscrizione VITELIU (= ITALIA ); cfr. E.A. S YDENHAM , The Coinage of the Roman Republic, London 1954, p. 89 sgg. E. B ERNAR EGGI , Problemi della monetazione dei Confederati italici durante la guerra sociale, in “Riv. It. Num.” LXVIII (1966).
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VIII Le guerre civili: Mario, Sulla, Pompeo.
1. Il pronunciamento di Sulla. - Costretto a trasformare larghe masse di alleati in cittadini romani, il governo nobiliare si preoccupò - anche troppo - del pericolo che costoro avessero a sconvolgere il preesistente equilibrio politico. Poiché anch’essi, al pari di tutti gli altri cittadini, dovevano ora venire iscritti nelle tribù territoriali, si ricorse all’espediente di iscriverli soltanto in un numero limitato di tribù, il che voleva dire ridurre ufficialmente al minimo la loro importanza nella vita dello Stato (un’importanza che sarebbe stata in ogni caso attenuata dal fatto che il cittadino non residente a Roma, o che non vi si recava appositamente nei giorni dei comizi, in pratica non aveva modo di esercitare i suoi diritti politici). Infatti nei comizi tributi (a quell’epoca la principale assemblea legislativa), ove i cittadini votavano per tribù, essi avrebbero potuto eventualmente concorrere a determinare soltanto il voto delle poche tribù in cui erano stati registrati, mentre i vecchi cittadini, esprimendo la loro volontà in un numero maggiore di tribù, avrebbero continuato ad avere facilmente la prevalenza. Lo stesso valeva per i comizi centuriati, la principale assemblea elettorale, nei quali le centurie dei votanti si costituivano con un sistema che prendeva in considerazione i cittadini non soltanto in base alla classe censitaria, ma anche alla tribù di appartenenza. Perché la conquista della 143
cittadinanza da parte degli alleati non restasse una vittoria mutilata, mettendoli in una dichiarata condizione d’inferiorità che avrebbe causato nuovi conflitti, sarebbe stato necessario che all’atto della registrazione essi venissero ripartiti fra tutte le 35 tribù, e a questo appunto si prefisse di arrivare il tribuno Publio Sulpicio Rufo. Correva l’anno 88 e a Sulla, eletto console, era toccato in sorte il comando della guerra contro Mitridate proprio in un momento in cui si era acuita la tensione fra senatori e cavalieri per la solita questione giudiziaria. Ora poi un comando militare di Sulla, uomo devoto alle direttive del senato, in quei paesi d’Oriente ove prosperavano gli affari più o meno puliti dei capitalisti, era cosa tutt’altro che desiderabile per l’ordine equestre, e Sulpicio cercò di sfruttare ai suoi fini questa situazione. Per guadagnarsi l’appoggio dei cavalieri e superare l’opposizione del senato alla sua proposta in favore dei nuovi cittadini, avanzò un altro progetto di legge in forza del quale il comando della guerra mitridatica doveva essere trasferito da Sulla a Mario. Sulla, che era occupato a liquidare gli ultimi strascichi della guerra sociale e stava assediando Nola, si affrettò ad accorrere a Roma per cercare d’impedire l’approvazione delle leggi di Sulpicio, ma questi, con l’aiuto dei cavalieri, non esitò a scatenare la piazza e Sulla, minacciato di morte, fu costretto a fuggire lasciando libero il campo agli avversari. Le sue legioni sarebbero ora dovute passare agli ordini di Mario, ma i tempi erano cambiati anche per la disciplina militare: il nuovo esercito di mestiere si sentiva legato assai più alla persona del capo che non al rispetto delle leggi, e così fu facile a 144
Sulla infiammare l’animo dei suoi uomini a vendicare il torto subito dal loro comandante e intraprendere una marcia su Roma. Non v’era nulla che potesse contrastare il passo a quelle sei agguerrite legioni; e Sulla, impadronitosi della città, si sbarazzò per prima cosa degli avversari facendoli dichiarare hostes publici: Sulpicio fu subito eliminato, Mario riuscì a stento a fuggire in Africa. Vennero quindi adottati alcuni provvedimenti per tarpare le ali agli agitatori di parte popolare e infine, sperando di essersi in tal modo assicurato il terreno alle spalle, Sulla partì per la guerra mitridatica. E invece per niente sicuro egli doveva sentirsi dopo aver dato il pericoloso esempio di inserire le forze armate nelle competizioni politiche. A nessun comandante fino allora era stato lecito entrare in Roma a capo di un esercito in armi, nemmeno per celebrare il trionfo; da quel momento sulla scena politica avrebbero avuto una parte di primo piano gli eserciti o, piuttosto, coloro che meglio avessero saputo farne strumento delle loro ambizioni. 2. La sedizione di Cinna e la vendetta di Mario. Non appena Sulla fu partito, in Roma riprese il sopravvento la fazione popolareggiante guidata dal console dell’87 Lucio Cornelio Cinna, che era un ardente fautore di Mario. Per revocare i provvedimenti di Sulla, Cinna non si fece scrupolo di ricorrere ai tumulti di piazza, ed essendo stato dichiarato hostis publicus dal senato, si rifugiò presso l’esercito che aveva sostituito quello sullano nell’assedio di Nola, l’attirò dalla sua parte e intraprese una nuova marcia su Roma. Contemporaneamente Mario, reduce dall’Africa e 145
assetato di vendetta, si apprestava a rientrare anche egli in città. Ogni tentativo di difesa fu vano, e l’ingresso dei vincitori nell’Urbe diede inizio ad un’orgia di sangue che durò cinque giorni e si concluse con la strage dei principali esponenti della parte nobiliare. Sfogato il suo rancore, il vecchio Mario ebbe pure la soddisfazione di vedersi eletto console (per la settima volta!) per l’anno 86, anche se poco dopo (il 13 gennaio) morì stroncato da una violenta malattia. Abolite le leggi sullane, promulgatene altre a favore del proletariato cittadino (cui si condonavano gran parte dei debiti che l’opprimevano) e degli ex alleati italici (cui si consentiva l’iscrizione in tutte le 35 tribù), i populares si erano impadroniti saldamente del potere, ma su di loro gravava la minaccia del prossimo ritorno di Sulla. Di questo, soprattutto, dové preoccuparsi Cinna che, rieletto console di anno in anno fino all’84, fu l’anima del governo democratizzante. Dopo aver inviato in Grecia un corpo di spedizione agli ordini di Lucio Valerio Flacco (console suffectus nell’86 dopo la morte di Mario) con l’incarico di esonerare dal comando Sulla, egli si adoperò per organizzare un forte esercito col quale si proponeva di affrontare personalmente l’avversario. Ma al principio dell’84, mentre s’imbarcava ad Ancona, cadde vittima di un moto sedizioso, e le truppe rimasero in Italia ad attendere lo sbarco di Sulla. 3. Le imprese di Sulla in Oriente. - Nei circa quattro anni trascorsi in Oriente, Sulla aveva avuto modo di rinsaldarvi la preponderanza romana. Mentre i grandi regni di Siria e d’Egitto si estenuavano sempre più nelle incessanti lotte 146
dinastiche, e i minori Stati vassalli vivacchiavano all’ombra del patronato romano, il regno del Ponto (sulla costa meridionale del Mar Nero) aveva intrapreso verso la fine del II secolo una vigorosa politica espansionistica sotto la guida del re Mitridate VI Eupatore. Allargata la sua signoria sulla regione ad oriente del Mar Nero, Mitridate realizzò con l’appoggio del re Nicomede III di Bitinia la conquista della Paflagonia e della Galazia, poi quella della Cappadocia; ma a questo punto le relazioni fra i due alleati si guastarono e Nicomede sollecitò i Romani ad intervenire. Si ebbe allora (a. 97) la missione diplomatica di Mario e, cinque anni dopo, un intervento di Sulla in qualità di governatore della Cilicia, ma nulla valse a fermare Mitridate, che giunse anche ad invadere il regno di Bitinia e, approfittando delle complicazioni della guerra sociale, a dichiarare guerra a Roma. Ai primi dell’88, con azione travolgente, Mitridate s’impadronì della provincia d’Asia e diede ordine di sterminare tutti i Romani e gli Italici che ivi attendevano ai loro traffici lucrosi (si parlò di 80.000 morti). Contemporaneamente, una furiosa ondata di rivolta antiromana si propagava in Grecia (specie ad Atene) e in Macedonia, e quando Sulla nella primavera dell’ 87 sbarcava in Epiro, ai Romani non restava che il controllo dell’Etolia e della Tessaglia. Attraversata la Grecia settentrionale, egli concentrò i suoi sforzi nell’assedio di Atene, la principale base di Mitridate in terra ellenica, che l’anno appresso cadde e fu abbandonata al saccheggio. Pochi mesi dopo, sempre nell’anno 86, il duce romano mosse incontro a un grosso esercito pontico, che scendendo dalla Macedonia aveva 147
invaso la Beozia, e a Cheronea riportò con le sue forze relativamente modeste una vittoria clamorosa. Il successo fu consolidato più tardi da una nuova vittoria riportata ad Orcomeno: era la fine della potenza di Mitridate in Grecia. Intanto il corpo di spedizione, che nello stesso anno 86 Cinna aveva inviato contro Sulla al comando di Lucio Valerio Flacco, aveva per suo conto recuperato la Macedonia, la Tracia e, dopo l’uccisione di Valerio Flacco a seguito di un ammutinamento capeggiato dal suo legato Gaio Flavio Fimbria (che ora assunse il comando), aveva incalzato il nemico oltre l’Ellesponto costringendo Mitridate a rinchiudersi nella piazzaforte di Pitane (in Misia). A questo punto il re si risolse ad aprire trattative con Sulla, dal quale invano cercò di ottenere condizioni più favorevoli minacciando che altrimenti avrebbe trattato con Fimbria. Con la pace di Dardano (a. 85) il re dovette rassegnarsi a restringere il suo regno entro gli antichi confini, a consegnare la flotta e a pagare una indennità. Da parte sua, Sulla poteva ritenersi pago di una tale conclusione dell’impresa. In altre circostanze, gli sarebbe stato agevole schiacciare le forze di Mitridate, specialmente se avesse potuto ricevere qualche aiuto da Roma. Ma proprio in Roma erano i suoi nemici più accaniti e, dopo aver attirato dalla sua le truppe di Fimbria (che si tolse la vita) ed essersi trattenuto a sistemare le cose d’Asia e di Grecia, raccogliendovi soprattutto grandi somme di denaro, partì da Patrasso e nella primavera dell’83 sbarcò a Brindisi.
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4. Il ritorno di Sulla. - Al suo arrivo Sulla non solo non incontrò resistenze, ma vide affluire gran copia di aiuti da parte di alcuni elementi della nobiltà che si erano preparati alla riscossa contro il governo democratizzante. Erano fra loro il proconsole Quinto Cecilio Metello Pio e gli ancor giovani Marco Licinio Crasso e Gneo Pompeo, quest’ultimo con ben tre legioni assoldate nel Piceno fra le vastissime clientele che il padre si era ivi create al tempo della guerra sociale. Passato dall’Apulia nella Campania, Sulla si trovò di fronte successivamente gli eserciti dei due consoli dell’83, Lucio Cornelio Scipione Asiatico e Gaio Norbano. Quest’ultimo, dopo uno scontro sfavorevole, fu costretto ad asserragliarsi in Capua, mentre con Scipione intercorsero trattative che non approdarono a nulla di risolutivo salvo che, nel frattempo, i suoi uomini passarono in blocco dalla parte di Sulla. Per l’anno appresso, che doveva essere decisivo, i democratici affidarono la loro fortuna nelle mani di Gneo Papirio Carbone e del ventiseienne Gaio Mario, figlio adottivo del grande scomparso. Eletti consoli, costoro si adoperarono per levare rinforzi da ogni parte, specialmente fra gli Etruschi e i Sanniti timorosi che una vittoria di Sulla avesse a privarli dei benefici della cittadinanza ottenuti sotto il governo popolare. Nella primavera di quell’anno 82 Sulla risalì dalla Campania verso il Lazio, sconfisse l’esercito di Gaio Mario obbligandolo a rinchiudersi a Preneste, e proseguì in direzione di Roma che, occupata senza resistere, fu teatro delle solite stragi. Avanzò quindi in Etruria contro Papirio Carbone che, dopo uno scontro di esito incerto, di li a poco fu preso e messo a morte 149
da Pompeo. Intanto Sulla aveva impedito che Preneste fosse sbloccata da due grossi eserciti di Sanniti e di Lucani, e allora questi, abbandonati gli assediati al loro destino, marciarono su Roma. Il prenderla non avrebbe avuto alcuna importanza per l’esito della guerra, che ormai appariva scontato; l’intenzione era di ridurla in un cumulo di macerie, disperata vendetta di una causa irrimediabilmente perduta. Ma Sulla riuscì a parare il colpo: arrivato con marcia rapidissima sotto le mura di Roma poche ore dopo gli avversari, li attaccò con estrema energia e al termine di un lungo e accanito combattimento (battaglia di Porta Collina) riportò piena vittoria. Cadevano allora anche Preneste, ove Mario trovò la morte, e poi man mano le altre città in cui si erano arroccati i mariani, fra cui più a lungo resistettero Norba, Nola e Volterra. Restavano poi da eliminare le ultime resistenze mariane in alcune province, come l’Africa e la Sicilia, e in queste operazioni si distinse Gneo Pompeo, cui Sulla concesse l’onore di un trionfo e l’appellativo di Magnus. 5. Dittatura e riforme antidemocratiche di Sulla. Scomparsi i consoli Mario e Carbone, la repubblica era rimasta acefala; Sulla, ancora nell’anno 82, convocò i comizi centuriati e ne fu eletto dittatore con il potere di emanare leggi e di dare una nuova costituzione alla repubblica, carica che mantenne ininterrottamente dall’82 al 79 rivestendo nell’80 anche il secondo consolato. Ogni residua opposizione fu annientata con le proscrizioni (i proscripti, i cui nomi venivano compresi in apposite liste esposte in pubblico, potevano essere uccisi da 150
chiunque, e i loro beni erano confiscati e venduti all’asta), ed è inutile dire che sotto l’etichetta politica furono consumate vendette private e ogni sorta di ribalderie. Il flagello infierì non solo in Roma, ma in tutta l’Italia, e si abbatté specialmente su Etruschi e Sanniti che, per aver accanitamente avversato la reazione capeggiata da Sulla, furono sterminati fin quasi a scomparire dal quadro etnico della penisola. Cessato il bagno di sangue, per i vincitori si trattava di smantellare l’opera del regime democratico e restituire allo Stato la fisionomia di repubblica oligarchica. A questo si accinse subito Sulla con una serie di provvedimenti emanati per lo più nel corso dell’anno 81 in forza dei suoi poteri eccezionali. Il senato fu restituito alla sua funzione di cardine del governo nobiliare, e mentre fino ad allora era stato di 300 membri (ma per le stragi degli ultimi anni si era ridotto alla metà) fu portato a 600 membri, con l’immissione, fra l’altro, di numerosi ufficiali che si erano distinti nella guerra e con l’inclusione di 300 cavalieri (col che si voleva eliminare il contrasto per la competenza giudiziaria, restituita ora al senato). Fu poi riordinato il cursus honorum, stabilendo gli intervalli fra le magistrature e, soprattutto, il divieto di rivestire un secondo consolato prima di dieci anni dal precedente. Particolarmente colpito fu il tribunato della plebe, di cui fu limitato il diritto di veto, mentre d’altra parte perdeva la facoltà di promuovere leggi senza la preventiva approvazione del senato, il che significava metter fine alla legiferazione del proletariato urbano nei comizi tributi sotto la spinta degli agitatori popolari. Fu anche stabilito che chi 151
avesse rivestito il tribunato della plebe non avrebbe più potuto ottenere altre magistrature, e questa era una prospettiva poco allettante per chi voleva fare carriera politica. Con altri provvedimenti si cercò anche di evitare che in futuro la repubblica fosse alla mercé dei magistrati con comando militare, e così fra l’altro si stabilì che nessun esercito in armi potesse trovarsi nel territorio della Penisola a sud dell’Arno e del Rubicone (a nord di questa linea fu creata la provincia di Gallia Cisalpina). Era proprio questo il punto più delicato per la sopravvivenza della restaurazione nobiliare, ma restavano insopprimibili le conseguenze derivanti dal mutato carattere dell’esercito, legato alla persona del condottiero capace di ricompensarlo con maggiore munificenza (da ultimo, ben 150.000 veterani avevano ottenuto da Sulla assegnazioni di terre). Pertanto quando Sulla nel 79, in piena coerenza con la sua opera di restitutore dell’antico equilibrio costituzionale, depose i poteri eccezionali e si ritirò a vita privata per lasciare libero campo al funzionamento degli organi di governo, il nuovo assetto statale già recava i germi della dissoluzione, e fu ventura per lui morire improvvisamente l’anno dopo senza vederne il crollo. 6. Ripresa delle forze democratiche. Sertorio e la resistenza in Spagna. - Benché momentaneamente prostrata e umiliata, quella dei populares e dei cavalieri restava ancora una forza notevole per chi fosse riuscito a riportarla nel giuoco della competizione politica, e vi si accinse subito Marco Emilio Lepido, uno dei consoli del 78, che propose 152
l’abolizione delle leggi sullane restrittive dei poteri del tribunato della plebe. Immediatamente rialzarono il capo tutti i malcontenti, e in primo luogo quanti erano stati colpiti dalle confische, specie in Etruria ove si organizzò apertamente la lotta contro i coloni stanziati da Sulla. Per vincere la resistenza del senato, Lepido non esitò a mettersi a capo della ribellione e nel 77, partito per assumere l’ufficio di governatore della Gallia Narbonese, si fermò invece in Etruria e, dopo un rapido concentramento delle forze, mosse in armi contro Roma. Dichiarata in pericolo la repubblica, il senato ne affidò la difesa all’ex console Quinto Lutazio Catulo e a Pompeo. Questi non aveva ancora trent’anni, ma si era portato in primo piano con le imprese compiute a fianco di Sulla, e sebbene fino a quel momento non avesse rivestito alcuna magistratura, il senato gli fece conferire eccezionalmente l’imperium con uno strappo alle norme costituzionali. Pompeo e Catulo ebbero facilmente ragione degli avversari e Lepido fu sconfitto presso Roma, ma riuscì a ritirarsi in Sardegna con le sue forze, che passarono poi in Spagna ad alimentarvi le superstiti resistenze mariane. Animatore di queste resistenze era Quinto Sertorio. Pretore nell’83, dopo le prime vittorie di Sulla aveva raggiunto il suo posto di governatore della Spagna Citeriore dove con una vasta azione, militare a un tempo e diplomatica, sulle popolazioni indigene aveva creato un saldo organismo plasmato sulla falsariga degli ordinamenti romani, ma improntato alla più viva ostilità verso il governo di 153
Roma. Vivo ancora Sulla, vani erano risultati i tentativi di abbatterlo e, fattasi sempre più grave la minaccia, il senato dovette decidersi ad un energico intervento, mettendosi però ancora una volta nelle mani della prepotente personalità di Pompeo, che ancora non si risolveva a congedare l’esercito affidatogli per combattere Lepido. Rivestito ora, sempre in deroga alle norme sullane, di imperium proconsolare con le funzioni di governatore della Spagna citeriore, Pompeo vi si trasferì al principio del 76. La sua campagna si svolse però sulle prime in maniera tutt’altro che favorevole, e tra il 76 e il 74 subì vari insuccessi. Di tali rovesci Pompeo attribuì la colpa al senato, al quale scrisse in tono quasi minaccioso sollecitando l’invio dei rinforzi richiesti, e solo quando questi arrivarono le operazioni furono riprese e felicemente concluse nel 72. Costretto dalle necessità della guerra a gravare con mano sempre più ferrea sulle popolazioni locali, che fino allora l’avevano sostenuto, e a instaurare i metodi della più crudele disciplina, Sertorio aveva visto rapidamente scemare la sua popolarità, e infine cadde sotto i colpi di un suo luogotenente. Tale fu la fine di questa discussa personalità: un grande capitano, indubbiamente, ma che per il trionfo della sua parte politica non s’era fatto scrupolo di stringere accordi anche col più fiero nemico di Roma, Mitridate. 7. Mitridate, Spartaco e l’ascesa di Pompeo. - Dopo la pace di Dardano, Mitridate non aveva mai abbandonato i propositi di rivincita, e vi si era preparato allargando il suo dominio su nuovi territori. Una buona occasione per riprendere la 154
partita gli parve quella della morte dell’ultimo re di Bitinia, Nicomede IV, il quale aveva lasciato erede del suo regno il popolo romano. Che la vicina Bitinia venisse in potere dei Romani era troppo pregiudizievole per le sue mire espansionistiche, ed egli deliberò di passare all’azione invadendo la Bitinia e stringendo accordi con Sertorio e con i pirati che erano tornati a infestare le acque del Mediterraneo. A Roma il comando della guerra fu assegnato ai due consoli dell’anno 74, Marco Aurelio Cotta e Lucio Licinio Lucullo, quest’ultimo un valente condottiero che si era formato alla scuola di Sulla. Le operazioni da lui condotte in Oriente durarono ininterrottamente fino al 67 (Aurelio Cotta invece tornò a Roma già nel 71) e furono tutte un susseguirsi di folgoranti successi, senza però che egli riuscisse a chiudere vittoriosamente la guerra. Fu liberata la Bitinia, fu occupato il Ponto, fu invasa l’Armenia, ove il re Tigrane aveva offerto rifugio a Mitridate, e ne fu presa la capitale Tigranocerta (a. 69), ma le continue campagne finirono per stancare l’esercito, che Lucullo sottoponeva ad una rigorosa disciplina, badando soprattutto che non si abbandonasse a ruberie nei paesi attraversati. Questo fece sì che la stanchezza si trasformasse in malcontento e in aperto rifiuto di obbedienza, mentre il protrarsi della guerra offriva il destro agli avversari di Lucullo in Roma di intrigare finché il senato decise di inviargli un successore. Intanto, nell’inazione del suo esercito, Tigrane e Mitridate potevano disfarne le lunghe fatiche e rientrare in possesso dei loro domini: un altro campo restava aperto per la gloria di Pompeo. 155
Questi, tornato dalla Spagna nel 71, era arrivato in tempo per assestare un colpo alle ultime bande di gladiatori e di schiavi che si erano ribellati nel 73 e, agli ordini di Spartaco, per due anni avevano percorso le regioni centromeridionali della Penisola fra grandi stragi e devastazioni. Dopo la sconfitta dei due consoli del 72, per un momento si era temuto per l’incolumità della stessa Roma, ma l’anno appresso il proconsole Marco Licinio Crasso li aveva affrontati e sterminati, tranne quelli che incapparono poi nelle mani di Pompeo. Pompeo se ne fece un nuovo titolo di merito, da far valere dinanzi al senato assieme a quelli già acquistati nella lotta contro Sertorio e, oltre alla concessione del trionfo, ottenne di poter presentare la candidatura al consolato sebbene non avesse mai ricoperto una magistratura ordinaria (dunque, senza passare per la lunga trafila della questura, dell’edilità e della pretura). Pose la sua candidatura anche Crasso, che dopo aver raccolto una favolosa fortuna impiegando abilmente i denari accumulati al tempo delle proscrizioni, aveva cercato di emergere nella vita pubblica e voleva ora sfruttare la vittoria riportata contro i gladiatori. I due si intesero per appoggiare vicendevolmente le loro aspirazioni e, sbandierando un programma di riforme democratiche, si assicurarono l’appoggio delle forze popolari e vinsero le elezioni. Tale vittoria significava, in pratica, la liquidazione di quanto restava della legislazione antidemocratica di Sulla; fra l’altro, i tribuni della plebe (cui già una lex Aurelia del 75 aveva restituito il diritto di poter rivestire altre magistrature) vennero reintegrati nella pienezza delle loro 156
attribuzioni, e fu fortuna per gli ottimati che l’intesa fra i due consoli ben presto si estinguesse nella scambievole gelosia. Ma ormai che aveva raggiunto la dignità consolare e si era assicurato il favore delle masse, ogni strada era spalancata all’ambizione di Pompeo e al suo desiderio di primeggiare nella vita della repubblica. 8. Fine di Mitridate e potenza di Pompeo. - Di lì a qualche anno, nel 67, su proposta del tribuno Aulo Gabinio, venne conferito a Pompeo l’incarico di estirpare la malapianta della pirateria, cresciuta al punto da paralizzare i traffici marittimi in tutto il Mediterraneo. Il senato cercò inutilmente di contrastare la concessione di questo comando straordinario, che doveva avere la durata di almeno tre anni, e nelle mani di Pompeo fu concentrata una massa di uomini e di mezzi così ingente, che veramente ne facevano il padrone dello Stato. Con tali enormi apparecchi fu agevole a Pompeo assolvere rapidamente il compito affidatogli e, nello stesso tempo, prepararsi il terreno per una nuova impresa ancora più gloriosa: quella di concludere la guerra contro Mitridate. A succedere nel comando a Lucullo era stato designato il console del 67 Manio Acilio Glabrione, cui era stato conferito per l’anno appresso il proconsolato di Ponto e Bitinia; ma questi non ebbe tempo dimettersi all’opera. Infatti con una proposta presentata al principio del 66 dal tribuno Gaio Manilio (proposta che ancora una volta il senato cercò invano di osteggiare, mentre a suo favore parlarono Cicerone e Cesare) a Pompeo veniva
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attribuito il comando sulla Cilicia, il Ponto e la Bitinia con l’incarico di debellare Mitridate. Anche per questa impresa le forze messe a sua disposizione erano ingentissime, ma Pompeo, con la sua solita tattica prudenziale, cominciò con una abile azione diplomatica intesa a incrinare l’alleanza fra Mitridate e Tigrane. Rimasto isolato, Mitridate nell’estate del 66 fu sconfitto in battaglia campale sul fiume Lico (ove Pompeo fondò poi, per ricordo, la città di Nicopoli) e costretto a retrocedere fino al Bosforo cimmerio. Quivi sperava di preparare la riscossa, ma intanto il vincitore (che nel 66 aveva ottenuto anche la sottomissione di Tigrane) prendeva possesso del suo regno e nel 64 lo riduceva nella condizione di provincia riunendolo alla Bitinia (provincia di Bitinia-Ponto). Ancora nel 64 Pompeo dal Ponto scese nella Siria, che da tempo era in pieno sfacelo e, deposto l’ultimo dei Seleucidi, Antioco XIII l’Asiatico, ne fece una nuova provincia; quindi intervenne a regolare una contesa dinastica in Giudea e, dopo aver preso Gerusalemme, ne fece uno Stato vassallo. Mentre attaccava Gerusalemme, giunse a Pompeo la notizia della morte di Mitridate. Con le gravezze imposte ai sudditi per preparare la rivincita, il vecchio re aveva suscitato una ribellione e, non riuscendo a domarla, si era data la morte col veleno. Sbarazzatosi così a buon mercato dell’implacabile nemico, Pompeo poté procedere con tutto agio a dettare gli ordinamenti per i nuovi dominii, a regolare i rapporti con gli Stati vassalli e le città libere, e insomma a quanto era necessario per inserire stabilmente i paesi del vicino Oriente nell’orbita del mondo romano. Nessun condottiero 158
aveva imposto su terre così lontane e così vaste l’ossequio al volere di Roma, nessuno aveva raccolto un bottino così enorme e assicurato all’erario così ingenti tributi, nessuno si era creato masse di clientele così imponenti, e quando nel 62 egli s’imbarcò per l’Italia la sua potenza toccava i più alti fastigi.
Una certa discrepanza presentano le notizie che ci sono pervenute intorno ai particolari dell’espediente adottato dal governo di Roma per limitare l’importanza politica dei novi cives, cioè delle masse di ex-alleati accolti nella civitas dopo la guerr a sociale. In Velleio Patercolo (II 20) si legge: Cum ita civitas Italiae data esset, ut in octo tribus contribuerentur novi cives, ne potentia eorum et multitudo veterum civium dignitatem frangeret plusque possent recepti in beneficium quam auctores beneficii, Cinna in omnibus tribubus eos se distributurum pollicitus est. Parrebbe, dunque, che i novi cives fossero stati iscritti soltanto in otto delle 35 tribù. D’altro canto in Appiano (Bell. civ. I 49) leggiamo che “I Romani non iscrissero questi nuovi cittadini nelle 35 tribù allora esistenti nel loro ordinamento, affinché, essendo più numerosi dei vecchi cittadini, non avessero il sopravvento nelle votazioni, ma suddivisili in diec i parti crearono altrettante nuove tribù, nelle quali essi votavano come ultimi. E spesso il loro voto risultava inutile, dato che le 35 tribù erano chiamate a votare prima e costituivano più della metà”. Su questi problemi, sempre fondamentale T H . M OMMSEN , Ges. Schriften, I, p. 262 sgg.; v. anche A. B ISCARD I , La questione italica e le tribù soprannumerarie, in “La Parola del Passato” VI (1951) p. 241 sgg. L’applicazione delle leggi sulla concessione del ius civitatis agli ex-alleati si rispecchia nelle cifre dei censimenti che c i sono state trasmesse per il periodo immediatamente anteriore e posteriore alla guerra sociale. I censori del 115/4 avevano censito 349.336 civium capita (L IV ., per. LXIII); questo numero salì nell’86/5 a 463.000 (cfr. H IER ON ., Chron. p. 151 H ELM ) e a 910.000 nel 70/69 (L IV ., per. XCVIII; cfr. A SCON ., p. 222 S TANGL ). Sulla figura e l’opera di Sulla, in generale, D RUMANN G ROEBE , Geschichte Roms in seinem Uebergange von der republikanischen zur monarchischen Verfassung, vol. II, p. 364 sgg.; J. C ARCOPINO , Sylla ou la monarchie manquée, Paris 1931.
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Su Cinna e sul governo dei popolari in Roma durante l’assenza di Sulla, v. H. B ENNET , Cinna and his times, Chicago 1923; CH. M. B ULST , ‘Cinnanum tempus’, in “Historia” XIII (1964) p. 307 sgg. Sulla spedizione di Sulla in Oriente (fonti principali il libro Mitridatico di Appiano e la Vita plutarchea di Sulla), oltre i già citati Antike Schlachtfelder di J. K ROMAYER e G. V EITH (vol. II), v. N.G.L. H AMMOND , The two Battles of Chaeronea, in “Clio” XXXI (1938), p 186 sgg. Sulle riforme costituzionali sullane, cfr. M. A. L EVI , Silla. Saggio sulla storia politica di Roma dall’anno 88 all’80, Milano 1924, I D ., La costituzione romana dai Gracchi a Cesare, Firenze 1928, G. N ICOLINI , Il tribunato della plebe, Milano 1932; A. B ISCARDI , Plebiscita et auctoritas dans la législation de Sulla, in “Rev. Hist. Droit” XIX, 1959, p. 153 sgg. Come è detto espressamente nel testo, nell’anno 70, essendo consoli Pompeo e Crasso, si arrivò alla liquidazione di ciò che rimaneva dei provvedimenti antidemocratic i di Sulla, non del restante complesso dei suoi ordinamenti, che continuarono ad essere in vigore come espressione delle istanze della nobiltà rimasta detentrice del potere. Peraltro que i provvedimenti antidemocratici avevano caratterizzato la riforma costituzionale di Sulla, e pertanto appare legittimo continuare a parlare di un crollo della costituzione sullana, nonostante le troppo sottili distinzioni di U. L AFFI , in “Athenaeum”, LV 1967, p. 177 sgg. Un’eco del contrasto in seno alla nobilitas fra oppositori e fautori del ristabilimento dei pieni poteri tribunizi si può cogliere in C IC ., De leg. III 22; 26. Quivi le riserve degli oppositori appaiono così enunciate per bocca di Quinto Cicerone: in ista quidem re vehementer Sullam probo, qui tribunis plebis sua lege iniuriae faciendae potestatem ademerit, auxilii ferendi reliquerit, Pompeiumque nostrum ceteris rebus omnibus semper amplissimis summisque effero laudibus, de tribunicia potestate taceo. Nec enim reprehendere libet nec laudare possum. Al fratello l’oratore replica osservando: Pompeium vero quod una ista in re non it a valde probas, vix satis mihi illud videris attendere non solum ei quid esset optimum videndum fuisse, sed etiam quid necessarium. Sensit enim deberi non posse huic civitati illam potestatem; quippe quam tanto opere populus noster ignotam expetisset, qui posset carere cognita? Sapientis autem civis fuit, causam nec perniciosam et ita popularem ut non posset obsisti, perniciose populari civi non relinquere. Su Sertorio e le vicende della resistenza democratica in Spagna (fonti principali P LUT ., Vite di Pompeo e di Sertorio; A PPIAN ., Bell. civ. I 108 sgg.), v. specialmente A. S CHULTEN , Sertorius, Leipzig 1926.
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Sulla ripresa della guerra mitridatica e sulla personalità d i Lucullo, v. K. E CKHARDT , Die armenischen Feldzüge des Lucullus, in “Klio” IX (1909) pp. 400-412 e X (1910) pp. 72-115 e 192-231; J.J. VAN O OTEGHEM , Lucius Licinius Lucullus, Bruxelles 1959. Sulle rivolte degli schiavi e dei gladiatori, e in particolar e sulla figura di Spartaco, v. G. R ATHKE , De Romanorum bellis servilibus capita selecta, Berlin 1904, S.J. K OVALEV - A.A. M OTUS , in “Vestn. Drevn. Istor.’’ II (1956) e III (1957), J.P. B RISSON , Spartacus, Paris 1959; B. D OER , Spartacus, in “Altertum” VI (1960) t p 217 sgg. Sugl’inizi della carriera politica di Pompeo, M. G ELZER , Cn. Pompeius Strabo und der Aufstieg seines Sohnes Magnus, in “Abhandl. Berlin. Akad.”, Philos.-Hist Klasse, 1941, I D ., Pompeius, München 1949 2 ; su Crasso, oltre D RUMANN -G ROEBE , Geschichte Roms, cit. IV, p. 84 sgg., cfr. A G ARZETTI , in “Athenaeum” XIX,1941, pp.1-37; XX, 1942, pp. 12-40; XXII-XXIII, 1944-5, pp. 1-62. Sulle imprese di Pompeo in Oriente, P. G ROEBE , Zum Seeräuberkriege des Pompeius Magnus (67 v. Chr.), in “Klio” X, 1910, p. 374 sgg.; G.C. A NDER SON , Pompey’s campaign against Mithridates, in “Journ. Hell. Stud.’’ XII (1922) p. 99 sgg.; D. M AGIE , Roman rule in Asia Minor, Princeton 1950, I, p. 351 sgg.; II, p. 1220 sgg.; G. V ITUCCI , Gli ordinamenti costitutivi di Pompeo in terra d’Asia, in “Rend. Acc. Lincei”, ser. VIII, vol. lI, 1947. Sull’ammontare del bottino e delle nuove entrate procurate al bilancio statale dalle imprese di Pompeo, notizie particolareggiate e sostanzialmente attendibili riportano P LIN ., Nat. hist. XXXVII 16; P LUT ., Pomp. 45, 3; A PP ., Mithr. 116. Dopo aver distribuito al suo esercito, fra ufficiali e soldati, 384 milioni di sesterzi (A PP ., l.c.: “16 mila talenti”), Pompeo versò una somma altrettanto ingente nelle casse dello Stato, e, con i tributi imposti in Oriente, portò le entrate annue da 200 a 340 milioni di sesterzi (P LUT ., l.c.).
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IX Il declino della repubblica e la monarchia di Cesare.
1. Le ambizioni di Crasso e gl’inizi di Cesare. Durante gli sviluppi sempre più favorevoli della campagna in Oriente, il corso delle vicende politiche in Roma non poteva certamente ignorare l’irresistibile ascesa di Pompeo, anzi si svolse in buona parte nell’aspettativa del suo ritorno. A quali nuove mète avrebbe egli indirizzato la sua ambizione e la sua ineguagliabile potenza? Ne erano impensieriti sia la oligarchia nobiliare, nel timore che potesse verificarsi una crisi dell’equilibrio costituzionale, sia coloro che di tale equilibrio non si preoccupavano se non per romperlo a proprio favore, in primo luogo Marco Licinio Crasso. Sfumata la momentanea convergenza stabilitasi al tempo delle elezioni consolari per l’anno 70, Crasso aveva cercato in vario modo di ostacolare le fortune di Pompeo, e la sua azione si era fatta più scoperta soprattutto durante l’assenza del rivale. Ebbe per qualche tempo l’appoggio di Gaio Giulio Cesare, il giovane patrizio che, ricco di un’antichissima nobiltà, ma sprovvisto di mezzi necessari a contendere con gli altri nobili nella gara dei pubblici onori, si era volto alla parte popolare carezzandola con atteggiamenti che avevano suscitato l’entusiasmo dei nostalgici di Mario. Crasso poteva fornire a Cesare il denaro indispensabile per 162
coltivare il favore delle masse, Cesare poteva attirare su Crasso quella popolarità che, con tutte le elargizioni, egli non era in grado di cattivarsi da solo. Nel 65, mentre Cesare come edìle curule mandava in visibilio il popolino con l’offerta di ludi di grandiosa magnificenza, Crasso faceva avanzare dai tribuni una proposta in base alla quale gli veniva conferito l’imperium con l’incarico di procedere all’annessione dell’Egitto, lasciato in eredità al popolo romano da Tolomeo XI Alessandro II (morto nell’80), ma rimasto in possesso di Tolomeo XII Aulete. Un simile comando in Egitto avrebbe potuto in qualche modo bilanciare la potenza di Pompeo, ma la proposta cadde per l’opposizione sia degli ottimati sia degli equites, fedeli a Pompeo, e allora Crasso puntò sulla carta di Catilina, sostenendone le sue aspirazioni al consolato. Di antica casata patrizia, Lucio Sergio Catilina aveva anch’egli a suo tempo approfittato delle proscrizioni sullane per costituirsi una fortuna ma, al contrario di Crasso, l’aveva completamente dilapidata, ed ora cercava con ogni mezzo di rimettersi in sesto. Dopo la pretura, rivestita nell’anno 68, aveva tenuto per due anni il governo della provincia d’Africa, ma suscitando con la sua rapacità tali lamentele che il console presidente dei comizi non lo ammise come candidato al supplemento di elezioni consolari che nell’ottobre del 66 si tennero per il 65. Le precedenti elezioni, in quell’anno 66, si erano svolte all’insegna della più sfacciata corruzione, tanto che ai due eletti fu vietato di entrare in carica ed essi vennero sostituiti dai due competitori che li avevano accusati e che risultarono poi eletti nelle elezioni supplementari. 163
Per togliere di mezzo costoro fu imbastita una congiura che, se anche non ebbe attuazione, mise peraltro in chiara luce le intenzioni sovversive di Catilina, uno dei suoi principali artefici. Si disse che dietro a questi torbidi si agitava l’ombra di Crasso, ma non è certo, mentre è un fatto che nel 64 egli si diede a sostenere la candidatura di Catilina al consolato dell’anno 63, sperando di farne strumento delle sue mire. Ma anche questa volta la sua manovra era destinata al fallimento. I precedenti lontani e vicini di Catilina erano tali, che la nobiltà era a ragione impensierita di ciò che poteva accadere quando egli avesse avuto in mano le leve della suprema magistratura e allora, in mancanza di meglio, si decise ad appoggiare la candidatura di un homo novus, di Cicerone, che sia pure per pochi voti riuscì a battere Catilina. Deluso nei suoi piani, Crasso cercò di aprirsi un altro spiraglio facendo avanzare nel 63 dal tribuno Publio Servilio Rullo una proposta di legge per una larghissima distribuzione di terre in favore dei cittadini non abbienti; della distribuzione doveva occuparsi un collegio di decemviri muniti di imperium straordinario per la durata di cinque anni. Era chiaro che Crasso, a capo di questo decemvirato e con l’appoggio di Cesare, sarebbe stato in grado non solo di aspettare tranquillamente il ritorno di Pompeo, ma di costringerlo a venire a patti quando avesse chiesto terre per i suoi veterani. Ma la proposta, avversata tra l’altro anche dal console Cicerone (che nel 65 si era ugualmente battuto contro la concessione del comando straordinario in Egitto), non fu nemmeno messa ai voti; e mentre Crasso si rassegnava ad abbandonare le sue mene, e 164
Cesare si adoperava con ogni mezzo per mantener vive le sue simpatie presso il popolo, l’Urbe fu percorsa dal brivido della congiura catilinaria. 2. La congiura di Catilina e l’effimero trionfo di Cicerone. - Nell’estate del 63 Catilina aveva ripresentato la candidatura al consolato per l’anno appresso con un nebuloso programma di rivendicazioni economiche giovevoli, più che ai ceti popolari, a quanti come lui desideravano pescare nel torbido della politica per rifarsi una fortuna. Vivacemente contrastato da Cicerone, e ancora una volta battuto alle elezioni, Catilina decise di farsi largo ad ogni costo e, d’accordo con alcuni nobili della sua risma, ordì le fila di una cospirazione per impadronirsi del potere attraverso una serie di azioni terroristiche a cominciare dall’assassinio di Cicerone. Ma questi teneva gli occhi ben aperti e, denunciata la congiura in senato, ne ottenne il decreto che lo autorizzava ad agire per salvare dal pericolo lo Stato. Non avendo però elementi sicuri per procedere immediatamente contro Catilina, Cicerone lo attaccò alcuni giorni dopo in senato con una celebre invettiva (la Prima catilinaria) e lo costrinse ad allontanarsi da Roma (novembre 63). Mentre Catilina raggiungeva a Fiesole le bande armate che un altro dei cospiratori stava apprestando per marciare su Roma, rimanevano in città gli altri capi della congiura; lasciati indisturbati, costoro continuarono audacemente a tramare e si prepararono a passare all’azione. Ma le loro mosse erano attentamente controllate dal console, il quale questa volta raggiunse prove più concrete e non
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indugiò ad arrestarli e a farli riconoscere colpevoli dal senato. Convocato ancora il senato perché stabilisse sulla loro sorte (evidentemente, Cicerone voleva sottrarsi all’odiosità di un provvedimento che certo auspicava e, come console, avrebbe potuto senz’altro prendere egli stesso), sulla tesi più benevola e insieme più legalitaria sostenuta da Cesare, che proponeva di evitare i pericoli di una deliberazione troppo affrettata ed eccepiva l’incompetenza dei senatori a giudicare i congiurati, prevalse quella più intransigente propugnata da Catone. Per i prigionieri fu la pena di morte, che venne eseguita immediatamente (dicembre 63); un paio di mesi dopo le bande armate, con Catilina alla testa, venivano sterminate presso Pistoia. L’homo novus Cicerone aveva reso un buon servigio all’oligarchia degli ottimati e ai ricchi cavalieri liberandoli dalla minaccia di una sovversione economica; ne ebbe molte lodi e più ancora se ne diede, ma in fondo non era stato che un episodio di secondaria importanza. Tempi ben più duri si preparavano per la vita della repubblica, e al timone sarebbe occorso un polso assai più fermo del suo. 3. Dal ritorno di Pompeo al “primo triumvirato”. Chiave di volta della situazione politica fu il ritorno di Pompeo alla fine del 62, anche se l’evento tanto atteso, e dai potenti tanto temuto, si svolse in maniera così diversa da quella immaginata. Sbarcato in Italia, il grande conquistatore che aveva avuto ai suoi piedi l’Oriente licenziò l’esercito e si presentò in Roma accompagnato solo da una piccola scorta 166
per chiedere al senato l’onore del trionfo: tutto secondo le regole dell’ossequio più stretto alla costituzione nobiliare. Sembrava quasi incredibile che Pompeo, anzi Pompeo Magno, venisse a sottoporre disciplinatamente i suoi desideri, e forse anche per questo si delineò fra i senatori un atteggiamento di superba freddezza, che li ripagava delle ansie provate al pensiero di ciò che poteva accadere al suo ritorno. Alla richiesta di approvare gli atti da lui emanati in Oriente e di assegnare terre ai veterani essi risposero di no, e a Pompeo non rimase che pentirsi di aver troppo presto congedato le legioni, e attendere il momento della rivincita. Non dovette attendere a lungo. Nell’anno 60 Cesare aveva posto la candidatura al consolato per il 59 ed era riuscito eletto grazie a quel favore popolare che mai l’aveva abbandonato. La consorteria nobiliare, che aveva cercato invano di contrastargli il passo, corse ai ripari facendogli assegnare dal senato, come incarico da svolgere nel 58 in qualità di proconsole, quello di governare “le foreste e i sentieri” (S UET ., Iul. 19), un modo anche ingiurioso di precludergli ogni campo di azione una volta finito il consolato. Ma Cesare non era uomo da lasciarsi scoraggiare e, per parare il colpo, si rivolse a Pompeo chiedendogli l’appoggio della sua influenza e promettendogli in cambio di fargli ottenere quella ratifica dei suoi atti in Oriente che il senato gli aveva negato. L’accordo fu suggellato dal matrimonio fra Pompeo e Giulia, figlia di Cesare, e poco dopo fu allargato con l’adesione di Crasso, anch’egli in urto col senato. Era il “primo triumvirato”, come si suol dire con termine poco preciso riprendendo la 167
denominazione di quello posteriore di Lepido, Antonio e Ottaviano, che fu invece un potere triumvirale legalmente costituito. Forte di questi appoggi segretamente pattuiti, Cesare pose mano senza indugio a realizzare un ampio programma. Tra l’altro, furono ratificati gli atti di Pompeo, fu diminuito (secondo il desiderio di Crasso e dei cavalieri) il canone per l’appalto delle imposte che si riscuotevano dalla provincia d’Asia, fu autorizzata la distribuzione di terre ai proletari e ai veterani di Pompeo. Di poi, con una legge proposta dal tribuno Publio Vatinio, Cesare ottenne per un quinquennio un imperium proconsolare: era proprio quello che più gli stava a cuore per evitare di trovarsi ridotto all’inazione al termine del consolato. Inoltre, per esser più sicuro di lasciarsi alle spalle una situazione favorevole quando avrebbe dovuto partire da Roma, si preoccupò di allontanare dal senato i principali esponenti dei conservatori, Cicerone e Catone. A questo scopo si avvalse dell’opera di Publio Clodio, un mestatore ambizioso e violento che s’era messo al servizio dei triumviri e odiava mortalmente Cicerone. Eletto tribuno per l’anno 58, Clodio fece passare una legge che comminava l’esilio a chi avesse messo a morte cittadini romani senza che fossero stati condannati in un regolare processo. Era chiaro il riferimento a colui che, come console, aveva provocato l’esecuzione sommaria dei congiurati catilinari, e Cicerone dovette rassegnarsi a partire da Roma. Qualche mese prima Catone era stato invece allontanato con l’incarico (fattogli conferire ancora da Clodio) di provvedere all’annessione dell’isola di
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Cipro, che era in potere di un fratello di Tolemeo Aulete. Così per opera di Cesare l’autorità del senato, e quindi il predominio dell’oligarchia, aveva subìto un colpo irreparabile, ed egli poteva intraprendere quell’instancabile e multiforme attività destinata a farne una delle più grandi personalità di ogni tempo. 4. Le prime campagne di Cesare nelle Gallie. - Il campo d’azione che Cesare si era fatto assegnare con la legge Vatinia per esercitare l’imperium proconsolare era l’Illirico e la Gallia Cisalpina (cioè l’Italia a nord della linea Arno-Rubicone). Questo, dunque, era l’ambito entro il quale sperava di compiere qualche fortunata impresa militare per accrescere il suo prestigio personale. L’accordo con Pompeo e Crasso, che gli aveva consentito di spiccare il volo, poteva venir meno da un momento all’altro, ed era urgente costituirsi una posizione di forza per affrontare con la maggiore libertà di movimenti i futuri sviluppi della lotta politica. In un primo tempo fu l’Illirico ad attirare la sua attenzione: una campagna vittoriosa che avesse esteso la signoria di Roma nelle regioni danubiane sarebbe stata impresa tale da assicurargli la desiderata base di potenza. Poi, avendo per decreto del senato ottenuto in aggiunta a quelli della legge Vatinia anche il proconsolato della Narbonese, il suo interesse si spostò verso la Gallia, dove movimenti migratori e conflitti tra Celti e Germani avevano prodotto uno stato di pericolosa tensione. Scegliendo la via della Gallia e dando inizio a un’azione che nel corso di otto anni condusse a inserire stabilmente e attivamente quel paese 169
nell’orbita della civiltà romana, Cesare si acquistava dinanzi alla storia uno dei più grandi titoli di merito. L’impresa, di per sé ardua, fu resa ancor più difficile dalla necessità di seguire attentamente l’evolversi dalla situazione politica in Roma. Infatti questa a un certo momento si complicò al punto da mettere in pericolo il buon esito di tanti sforzi, ma Cesare riuscì a rattopparla quanto bastava a consentirgli di proseguire nella sua azione, poi, quando la crisi scoppiò insanabile, la conquista della Gallia era compiuta ed egli ormai pronto al duello finale. Nella primavera del 58, all’arrivo di Cesare, la provincia Narbonese era minacciata d’invasione da parte degli Elvezi, che si stavano spostando verso occidente alla ricerca di nuove terre. Dopo averli battuti e costretti a rientrare in gran parte nelle loro sedi, Cesare si rivolse contro Ariovisto, il re della gente germanica degli Svevi, che da oltre dieci anni si era insediato in Gallia angariando le popolazioni celtiche dei Sequani e degli Edui. Anche questa campagna si concluse rapidamente nello stesso anno 58: fallito un tentativo di accordo, Ariovisto fu sconfitto e obbligato a ripassare il Reno, e con questo Cesare si assicurava il favore e l’alleanza degli abitanti della Gallia centrale. La sua azione destava però l’ostilità delle bellicose tribù belgiche, stanziate nelle regioni settentrionali della Gallia, e poi quella degli Aremòrici, siti nella Gallia nordoccidentale; le une e gli altri furono debellati con le campagne del 57 e del 56. Il bilancio di questo primo ciclo di operazioni era certamente positivo, ma parlare di un’avvenuta conquista della Gallia era almeno prematuro; se Cesare scrisse a Roma di prepararsi all’annessione della nuova provincia, 170
dovette farlo per rafforzare la sua posizione di fronte alla crisi politica che si era determinata. 5. Torbidi in Roma. Rinnovamento dell’intesa fra i “triumviri”. - Dopo la partenza di Cesare, in Roma si era sviluppato un movimento favorevole al richiamo di Cicerone dall’esilio. Lo stesso Pompeo l’appoggiava, ma l’avversava il tribuno Clodio, sempre animato da un odio inestinguibile verso l’oratore. Il facinoroso mestatore, anzi, alla testa delle sue bande armate mise Roma a soqquadro con una serie di atti terroristici, ma Pompeo ne rintuzzò la violenza contrapponendogli un’altra banda assoldata dal fido Tito Annio Milone, tribuno della plebe per il 57. In questo clima di sanguinosi disordini fu approvato per legge il ritorno di Cicerone, il quale si rituffò ben presto nella politica raccomandando al senato il conferimento a Pompeo di un imperium proconsolare per cinque anni, con l’incarico di curare l’approvvigionamento dell’Urbe, afflitta da una grave carestia. Pompeo, che aspirava piuttosto a un comando che gli permettesse di emulare le imprese di Cesare e vedeva ora aprirsi la via di un’intesa con il senato, chiese l’incarico di rimettere sul trono di Egitto Tolemeo Aulete, che da poco era stato spodestato da lotte di palazzo, ma il senato disse di no, a lui come a Crasso, che aveva avanzato la stessa richiesta. Dunque, i “triumviri” cominciavano ad essere in contrasto e il senato ne approfittava per alzare la testa: troppo grave era la situazione che si delineava perché Cesare non si affrettasse ad abbandonare per un momento le sue legioni e a
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combinare un incontro con Pompeo e Crasso per rinsaldare i vincoli della vecchia collaborazione. Il convegno ebbe luogo a Lucca nel 56 e, grazie all’abilità di Cesare, fu ristabilita la concordia con l’intesa di riportare al consolato per l’anno 55 la coppia Pompeo-Crasso; debellata in tal modo l’opposizione nobiliare, i tre si sarebbero divise le parti assicurandosi ciascuno un comando straordinario. Nonostante i tentativi di resistenza della nobiltà, che provocò un susseguirsi di tumultuose agitazioni, il responso delle urne fu favorevole a Pompeo e Crasso, i quali posero subito mano a realizzare gli accordi dell’anno prima. Su proposta del tribuno Gaio Trebonio fu conferito a Crasso un comando quinquennale sulla Siria per agire contro i Parti, a Pompeo un comando quinquennale nelle due Spagne; quindi i due consoli in persona fecero approvare una legge che prolungava per cinque anni (fino al 50) i poteri proconsolari di Cesare. Pure in sua assenza, il piano di Cesare era pienamente riuscito, ed egli poté concentrarsi nella impresa gallica mentre Crasso, alla fine del 55, partiva per la sua spedizione in Oriente; Pompeo, che al termine del consolato aveva preferito non allontanarsi troppo da Roma, si dedicava personalmente all’incarico degli approvvigionamenti annonari, lasciando governare le Spagne da suoi fiduciari. 6. Conquista e romanizzazione delle Gallie. - Nel 56 Cesare aveva progettato di compiere l’anno appresso una spedizione in Britannia per troncare le relazioni tra quei popoli e le vicine tribù d’Oltremanica, che 172
ne ricevevano incitamenti e aiuti per scuotere il giogo romano. Sopravvenne però l’invasione della Gallia settentrionale da parte dei germani Usìpeti e Tèncteri, e il proconsole dové impegnarsi con tutte le forze per respingerli al di là del Reno. Passato anch’egli il fiume, ma solo per una breve azione dimostrativa in terra germanica, al ritorno prese il mare con due legioni e sbarcò in Britannia nei pressi di Dover (agosto 55). Ma l’autunno era alle porte, la flotta aveva subìto danni dalle tempeste, e dopo poche settimane a Cesare non rimase che ripassare il Canale col proposito di rinnovare l’impresa al ritorno della buona stagione. Nel giugno del 54 sbarcò nuovamente nell’isola con cinque legioni e riuscì ad addentrarsi nel paese battendo le forze del re Cassivellàuno e occupandone la capitale al di là del Tamigi. Ma non era nemmeno da pensare ad una conquista duratura. Per questa sarebbe stato necessario permanere a lungo nell’isola e disporre di basi sicure nella Gallia settentrionale; quivi invece proprio allora cominciava a divampare l’incendio della rivolta antiromana. Cesare s’affrettò a reimbarcare le legioni per ricondurle nel continente, ad intraprendere immediatamente la lotta soprattutto contro gli Eburoni e i Treviri, che furono battuti nel 53. Assai più grave fu la sollevazione capeggiata l’anno dopo da Vercingetorige, giovane principe degli Arverni, intorno al quale si raccolsero da ogni parte tutte quelle forze che aspiravano a scuotere il dominio o l’ingerenza romana. Cesare, che era venuto a svernare nella Cisalpina per seguire più da vicino gli sviluppi della politica in Roma, dovette affrettarsi a ripassare in pieno inverno le Alpi e, 173
ricongiuntosi col grosso delle truppe, mosse alla volta di Gergovia, la capitale degli Arverni, alla ricerca delle forze di Vercingetorige. In un primo scontro questi ebbe la meglio, ma in una successiva battaglia presso Alesia fu gravemente battuto e costretto a rinchiudersi nella città. Mentre stringeva Alesia entro la morsa di un vallo trincerato, Cesare dovette fronteggiare le ingenti forze che accorrevano in aiuto degli assediati e, invece di sloggiare, cinse il suo schieramento di un’altra linea fortificata al riparo della quale rimase insieme assediatore e assediato. Falliti numerosi assalti, le forze celtiche desistettero dai loro tentativi e si sbandarono abbandonando al suo destino Vercingetorige, che poco dopo (settembre del 52) fu costretto ad arrendersi per fame. Privi di un capo di riconosciuta autorità, i Galli non erano più in grado di sviluppare un’azione efficace; seppure fu necessario ancora un anno di guerra per spegnere gli ultimi focolai di resistenza, l’impresa poteva considerarsi felicemente compiuta, e la Gallia, grazie anche alle miti condizioni di pace, s’avviò a un rapido processo di romanizzazione. 7. Fine di Crasso e inizio della lotta fra Cesare e Pompeo. - Nel frattempo, con la scomparsa di Crasso e il graduale passaggio di Pompeo sulle posizioni del senato, dell’equilibrio raggiunto con gli accordi di Lucca non restava più traccia, e la situazione politica precipitava a grandi passi verso la rottura. Crasso era partito per la Siria con la speranza che il suo intervento nella contesa dinastica allora in atto nel regno dei Parti si traducesse in una brillante campagna, capace di dare anche a lui quella gloria 174
militare di cui godevano Pompeo e Cesare. Ma la spedizione si risolse nel più completo disastro e, nell’estate del 53, disfatto presso Carre, egli perdette la vita insieme con la maggior parte dei suoi uomini. Quanto a Pompeo, sulle prime egli si tenne in disparte dai contrasti delle fazioni lasciando che Roma cadesse sempre più in preda dei disordini causati dalle opposte bande di Clodio e Milone. Quando le violenze culminarono nell’uccisione di Clodio, lui solo era in grado di mettere fine al caos con le forze di cui disponeva, e tale fu appunto la richiesta che il senato si vide costretto a rivolgergli. Accettandola, Pompeo diventava lo strumento della politica nobiliare di opposizione alle forze democratiche, ma nello stesso tempo il senato doveva rassegnarsi a subire la prepotente ambizione di Pompeo che, eletto consul sine collega per il 52 in spregio alle norme costituzionali, accumulava nelle sue mani una somma di poteri senza precedenti. Così, mentre le ultime speranze dei popolari si rifugiavano nel ritorno di Cesare, Pompeo e il senato concentravano i loro sforzi per spogliare Cesare di ogni potere alla scadenza ormai prossima del suo proconsolato. Esisteva una legge fatta votare da tutti e dieci i tribuni dell’anno 52 che, concedendo a Cesare di presentare la sua candidatura al consolato pur essendo lontano da Roma a capo del suo esercito, gli avrebbe dato la possibilità di assumere i poteri di console appena scaduti quelli di proconsole; Pompeo ne fece votare un’altra secondo la quale le candidature dovevano esser poste in Roma di persona. Inoltre, nella eventualità che Cesare riuscisse comunque a conseguire l’elezione al secondo consolato, Pompeo 175
si adoperò per impedire che egli potesse poi ottenere subito dopo un nuovo comando proconsolare, e fece passare una legge in base alla quale i consoli potevano esercitare un comando proconsolare solo cinque anni dopo aver rivestito il consolato. Nello stesso tempo, il senato prorogava per altri cinque anni, cioè fino al 47, l’imperium di Pompeo. Contro quest’azione metodica, nulla avevano potuto i filocesariani di Roma, e quando arrivò l’anno cruciale, il 50, tutto faceva prevedere la fine della potenza di Cesare, ritornato privato cittadino e ridotto alla mercé dei suoi potenti avversari. Ma nella lotta politica Cesare era stratega valente non meno che sui campi di battaglia. Seppe abilmente attirarsi dalla sua uno dei tribuni, Gaio Scribonio Curione, già suo fiero nemico, dal quale fece avanzare una proposta equilibrata e ineccepibile: per uscire dalla crisi dovevano essere aboliti i comandi straordinari, quello di Cesare, dunque, ma anche quello di Pompeo. Essendo nota l’avversione di Curione per Cesare, era naturale che di tale proposta sfuggisse sulle prime il lato favorevole a Cesare; comunque essa fu caldeggiata da tutti quelli (ed erano la maggioranza) che desideravano scongiurare il pericolo di una guerra civile, e sulle prime il senato si pronunciò a larghissima maggioranza nel senso che i due proconsoli dovessero deporre i loro comandi. Ma subito dopo, diffusasi forse ad arte la notizia che Cesare marciava su Roma, prese il sopravvento la fazione anticesariana più intransigente e fu preclusa la via ad ogni soluzione di compromesso.
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Verso la fine di dicembre, stando ancora a Ravenna, Cesare inviò al senato una lettera nella quale si dichiarava disposto a deporre il comando se anche Pompeo lo avesse fatto, altrimenti avrebbe saputo provvedere a sé e alla repubblica. Questa espressione minacciosa ebbe l’effetto che il senato s’irrigidì nella richiesta che Cesare fosse privato del suo imperium, e avendo i tribuni Marco Antonio e Quinto Cassio Longino tentato di intervenire con il loro veto, non solo ne furono impediti con la violenza, ma si proclamò lo stato di emergenza. Incaricati i consoli di prendere gli opportuni provvedimenti, il giorno dopo si conferivano a Pompeo i più larghi poteri mentre Cesare, appresa la decisione degli avversari, non esitava ad entrare in azione e “gettava il dado” passando il Rubicone ed entrando in armi nel territorio della repubblica (gennaio 49). Era il primo atto di una guerra in cui culminava l’annoso contrasto fra le forze democratiche e quelle del conservatorismo manovrate dall’oligarchia senatoria, e questa considerazione attenua grandemente le responsabilità di Cesare. La lotta da lui scatenata era infatti destinata a concludersi col definitivo superamento di un regime che aveva dato buona prova nel governo di uno Stato-città, ma era inadatto, anzi contrario, ad allargare le sue basi di pari passo con l’espansione territoriale, chiamando alla collaborazione anche le fresche energie della borghesia municipale e provinciale. E se, alla fine, dal dominio di un’oligarchia la repubblica cadde nel dominio di uno solo, ed ebbe inizio la lunga serie dei Cesari, ciò non fu solo per sua colpa. Lo affermarono gli storici romani (generalmente di 177
tendenze conservatrici) nel nostalgico rimpianto della libertà repubblicana, ma della fine di questa libertà erano anche responsabili coloro che l’avevano voluta mantenere un privilegio di pochi. 8. Dal Rubicone alla morte di Pompeo. - La mossa di Cesare colse di sorpresa il senato e soprattutto Pompeo, sulle cui spalle gravava il compito di difendere le istituzioni. Nella previsione, forse, che Cesare non avrebbe osato passare così presto all’azione, Pompeo non aveva richiamato nessuna delle legioni di Spagna, che erano tutte ai suoi ordini, né aveva fatto preparativi di sorta. Pertanto da contrapporre alla legione con cui Cesare era partito da Ravenna non si trovavano in Italia che due legioni accampate a Capua, ma queste fino all’anno prima avevano militato in Gallia, e non v’era da illudersi che si sarebbero impegnate contro il loro antico comandante. In queste condizioni, mentre Cesare con marcia travolgente scendeva attraverso l’Italia centrale, a Pompeo non rimaneva che decidere, assai opportunamente, di sgombrare da Roma e poi dall’Italia. A Brindisi ebbero rapidamente inizio le operazioni d’imbarco dei maggiorenti anticesariani, con alla testa i consoli, e per quanto Cesare s’affrettasse a marce forzate non riuscì a impedire, anche per mancanza di una flotta, la felice conclusione della ritirata strategica di Pompeo. Questi aveva stabilito di raggiungere i paesi greco-orientali, ancora risonanti delle sue gesta vittoriose, ove sarebbe stato agevole raccogliere in gran copia gli uomini e i denari necessari per organizzare la riscossa attraverso un’azione 178
combinata con le legioni di Spagna. A Cesare, però, era rimasta l’Italia con la possibilità di arruolarvi esperti ufficiali e soldati di ben altra capacità, senza dire delle legioni che già erano affluite dalla Gallia, ed egli riprese subito l’offensiva rivolgendosi contro le forze pompeiane in Spagna. Naturalmente, si fermò prima alcuni giorni a Roma per assicurarsi il controllo della situazione, e fra le prime cose si fece autorizzare dal senato (composto di quei pochi che non avevano seguito Pompeo) ad attingere largamente dal pubblico tesoro. Ben nove erano le legioni di stanza in Spagna agli ordini di Pompeo, e non fu facile piegare la resistenza di quelle truppe agguerrite. La campagna si complicò anche perché Cesare volle assicurarsi le spalle occupando Marsiglia, che da un momento all’altro poteva trasformarsi in una base nemica, e poiché i Massalioti erano decisi a mantenersi neutrali fu necessario un assedio di alcuni mesi per espugnarla. Disciolte le forze pompeiane in Spagna, Cesare rientrò a Roma alla fine di quell’anno 49 e rivestì la dittatura che il pretore Marco Emilio Lepido, uno dei suoi principali fautori, gli aveva fatto conferire quando si trovava ancora a Marsiglia. Con tali poteri in appena undici giorni realizzò un notevole programma di distensione (richiamo di esiliati politici, alleviamento di debiti), convocò i comizi che lo elessero console per il successivo anno 48 e, dopo aver abdicato dalla dittatura, raggiunse a Brindisi l’esercito che si preparava ad imbarcarsi per l’Oriente. Pompeo aveva posto il quartier generale a Tessalonica (Salonicco) e s’era dato a concentrare 179
ingenti forze, anche di mare, che tenevano sotto controllo le acque dell’Adriatico. Piuttosto modesta era la flotta che Cesare aveva racimolato e la stagione non adatta alla navigazione, ma di questi elementi a sfavore egli seppe trarre profitto per un ardito colpo, e ai primi di gennaio del 48 riuscì a sbarcare inosservato con sette legioni presso Orico (Paleocastro, in Albania). Occupata la vicina Apollonia, mosse contro Dirrachio (Durazzo), ma Pompeo, avvertito tempestivamente, si affrettò ad accorrere e a presidiare la città accampandosi nelle vicinanze. A questo punto la posizione di Cesare cominciò a divenire ogni giorno più difficile: circa una metà dell’esercito era rimasta sull’altra sponda dell’Adriatico incapace di violare il blocco, le vettovaglie scarseggiavano, e fu fortuna che Pompeo si mantenesse sulla difensiva, sicuro com’era di aver ragione dell’avversario senza bisogno di affrontarlo. In primavera arrivarono i sospirati rifornimenti e rinforzi; anche le altre legioni erano riuscite a passare il mare, e Cesare tentò di portare un attacco a fondo alle posizioni nemiche ma fu duramente respinto. Allora si ritirò in direzione della Tessaglia per ristorare l’esercito, seguito da Pompeo che continuava a lasciargli l’iniziativa limitandosi a controllarne le mosse. Ma questa condotta passiva creò un grande nervosismo fra i pompeiani che alla fine imposero al loro duce di non sottrarsi ulteriormente a una prova decisiva. Lo scontro avvenne nell’agosto a Farsàlo, e l’ardore dei legionari cesariani ebbe la meglio sulle schiere contrapposte, più numerose ma meno affiatate. Delineatasi la disfatta, Pompeo abbandonò il campo e con una piccola scorta raggiunse Mitilene 180
donde salpò per l’Egitto. Quivi sperava di trovar riparo presso Tolemeo XIII, figlio del suo protetto Tolemeo Aulete, ma i ministri del re giudicarono ugualmente pericoloso sia l’accoglierlo, nel timore di compromettersi con Cesare, sia il respingerlo, nel timore che si rivolgesse a Cleopatra, la sorella e rivale di Tolemeo, e appena Pompeo fu sbarcato a Pelusio lo fecero assassinare. 9. Il potere monarchico di Cesare e le idi di Marzo. Una fine così imprevedibile del grande duello con Pompeo giovava certamente a Cesare, che vedeva di colpo sparire l’unica personalità capace di cementare la coalizione avversaria, ma più ancora giovò a Roma per emergere più presto dal flagello della lotta fratricida, anche se gli strascichi della guerra furono ancora più sanguinosi. Arrivato ad Alessandria poco dopo la morte di Pompeo, Cesare s’intromise nella contesa dinastica tra Tolemeo e Cleopatra risolvendola a favore di quest’ultima, di cui s’era invaghito. I partigiani di Tolemeo provocarono però un’insurrezione popolare che lo ridusse a mal partito, costringendolo ad asserragliarsi con i suoi uomini nella reggia, e solo parecchio tempo dopo, ricevuti i rinforzi, poté imporre il rispetto della sua volontà. Anche troppi erano stati i nove mesi di permanenza in Egitto, e ora Cesare dové accorrere in Asia Minore ove Farnace del Ponto, figlio di Mitridate, stava rinnovando le clamorose gesta del padre mettendo in pericolo con le sue conquiste i domini romani. Fu una campagna-lampo, e dopo la vittoria di Zela (nel Ponto, agosto del 47) Cesare ne diede notizia al senato col celebre veni, vidi, vici. 181
Era tempo, ormai, di rientrare in Roma, ove la sua presenza era richiesta per ristabilire l’ordine turbato dalle mene di alcuni demagoghi. Occorreva anche restaurare la disciplina fra le truppe che Marco Antonio stava radunando in Campania per la prossima spedizione contro i pompeiani d’Africa, e anche questo riuscì facile al grande prestigio di Cesare, sicché alla fine dell’anno 47, cessata la seconda dittatura ed eletto console per la terza volta, poté imbarcarsi da Lilibeo. In Africa la fazione senatoria e gli anticesariani in genere, grazie anche all’appoggio di Giuba, re della Mauretania, avevano raccolto forze notevoli con alla testa uomini di gran nome come Quinto Cecilio Metello Scipione e Marco Porcio Catone, ma ad esse difettava l’unità di comando. Cesare le disfece con la vittoria di Tapso (aprile 46); non molti scamparono rifugiandosi in Spagna, i più perirono e fra questi Catone, che per non cadere nelle mani del vincitore si tolse la vita a Utica (Catone Uticense) e fu poi esaltato nei secoli come martire della libertà e contrapposto a Cesare “tiranno”. La contrapposizione vera, però, era ancora una volta in seno alla stessa nobilitas fra la tendenza ciecamente conservatrice e quella innovatrice, fra un vecchio e un nuovo ideale politico, cui il pensiero greco offriva l’etichetta rispettivamente della “fermezza” (teorizzata dagli stoici) e quella della “magnanimità” (teorizzata dai peripatetici). La rigida intransigenza di Catone non va immune dal sospetto che, attraverso la preservazione dell’austera disciplina tradizionale, mirasse a perpetuare i privilegi di un’esigua 182
minoranza; la generosità di Cesare, pur se esagerata come motivo propagandistico, non ignorava i bisogni e le speranze di strati più larghi, per i quali la libertà strenuamente propugnata da Catone era poco più che una vana parola. Costituita la provincia di Africa nova col regno tolto a Giuba e tornato a Roma, Cesare celebrò successivamente quattro splendidi trionfi (sui Galli, sull’Egitto, sul Ponto, sull’Africa) che superarono in magnificenza quelli celebrati a suo tempo da Pompeo. Restavano però ancora in piedi gli ultimi residui dell’opposizione, che al comando dei due figli di Pompeo, Sesto e Gneo, si erano concentrati in Spagna assicurandosi anche la collaborazione degli indomiti Lusitani e Celtiberi. Cesare li debellò nella primavera del 45 con la vittoria di Munda (nell’odierna provincia di Cordova), riportata dopo un’aspra battaglia che per poco non lo vide cadere prigioniero mentre, come al solito, partecipava personalmente all’azione. Celebrato un quinto trionfo, egli ebbe agio di sviluppare il piano di riforme che già in precedenza, e specialmente l’anno prima, aveva incominciato ad attuare. Si trattava anzi tutto, dopo il crollo del sistema oligarchico, di dare un nuovo assetto allo Stato migliorando le condizioni dei ceti inferiori, in Roma e in Italia, ma anche dei provinciali duramente soggetti all’arbitrio dei governatori. Un riordinamento così radicale poteva essere attuato soltanto disponendo di un potere assoluto capace di trionfare dell’immancabile reazione conservatrice, e quindi la crisi costituzionale non poteva sboccare che nella monarchia di Cesare.
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La configurazione e il nome di questo potere personale, sia che Cesare aspirasse a un monarcato teocratico di tipo ellenistico (come vogliono alcuni), sia che volesse risuscitare la vetusta monarchia romana (come vogliono altri), era problema più formale che sostanziale, anche se nell’infuocato tramonto della repubblica l’idea che in Roma tornasse a dominare un rex, accortamente sfruttata dagli oppositori, era tale da destare la più profonda emozione. Ma Cesare seppe guardarsi dalla tentazione del titolo regale, tanto pomposo quanto inutile per chi, come lui, dal favore popolare e da un senato prono all’ossequio aveva ripetutamente ottenuto non solo poteri e privilegi eccezionali (consolati per cinque e dieci anni, nomina a dittatore perpetuo, conferimento della cura morum e del titolo di imperator a vita), ma anche onori divini come Iuppiter Iulius. Inoltre si era consolidata la pretesa che in Giulo (figlio di Enea e nipote di Venere) avessero il loro divino capostipite i Giulii, i quali in tal modo restavano inseriti nella leggendaria origine troiana di Roma. Forte di questa assoluta preminenza, che gli consentì di mostrarsi assai generoso verso gli avversari (e anche la sua Clementia fu deificata), Cesare accentrò nelle sue mani il controllo delle magistrature e dei governi provinciali, ed emanò una serie numerosa di provvedimenti intesi a mettere nuovo ordine in ogni campo della vita pubblica e privata, compresa la riforma del calendario che da lui ebbe quella sistemazione che ancor oggi conserva, salvo il piccolo ritocco apportato nel 1582 dal papa Gregorio XIII. Fra le misure di carattere sociale a favore del proletariato e dei veterani va 184
ricordato il vasto programma di colonizzazione, destinato anche a dare impulso allo sviluppo della romanità al pari dell’ammissione in senato di elementi provinciali e della concessione della cittadinanza romana alla Transpadana, onde l’unità d’Italia, dalle Alpi allo stretto di Messina, fu realizzata per la prima volta da Cesare. Si compiva così un altro grande passo verso la creazione di uno Stato universale, che secondo i progetti di Cesare doveva allargare i suoi confini in Oriente fino a comprendere l’impero dei Parti. La conquista partica sarebbe stato il coronamento della sua opera di fondatore dell’impero romano, ma alle idi di Marzo del 44, pochi giorni prima della partenza per l’impresa, egli cadeva sotto i colpi di Bruto, di Cassio e di quanti altri speravano di risuscitare, col suo assassinio, l’antica libertas repubblicana. Sulla figura e l’opera di Cesare (fonti principali i suoi stessi scritti e, accanto a quelli di Cicerone, Sallustio bell. Catilin., la Vita plutarchea, quella di Suetonio, Appiano Bell. civ. e, della sezione superstite della Storia romana di Cassio Dione, i libri dal XXXVI al XLIV per i fatti dal 69 al 44 a.C.) v. in generale A. F ERRABINO , Cesare, Torino 1941; M. G ELZER , Caesar, der Politiker und Staatsmann, 6a ed., Wiesbaden 1960. In particolare, sugl’inizi della sua carriera politica, E. S TRASSBURG ER , Caesars Eintritt in die Geschichte, München 1938; O. S EEL , Zur Kritik der Quellen über Caesars Frühzeit, in “Klio” XXXIV (1941) p. 196 sgg. Un quadro panoramico de i contrapposti schieramenti politici dell’epoca in L. R. T AYL OR , Party Politics in the Age of Caesar, Berkeley - Los Angeles, 1949. Dell’opera di Cicerone come politico (fonti principali i suoi stessi scritti, in primo luogo l’epistolario; poi (oltre la Vita d i Plutarco) Sallustio, Appiano e Cassio Dione, loc. cit.; di Livio ci è stata conservata la pagina del libro CXX con la descrizione della morte) la storiografia moderna ha dato varie ricostruzioni e giudizi parecchio contrastanti: da quelli fortemente negativi (così, dopo il M OMMSEN , Storia di Roma antica, trad. ital., Firenze 1960, p. 1274
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sgg., J. C ARCOPINO , Les secrets de la correspondance de Cicéron, I-II, Paris 1947; ma v. A. P IGANIOL , in “Rev. Hist.” CCI, 1949, p. 224 sgg.) a quelli di tendenza quasi panegiristica (v., p. es., E. C IACERI , Cicerone e i suoi tempi, Roma 1927-29). Sull’inserirsi dell’Arpinate nel gioco delle principali correnti che si scontravano sulla scena politica di Roma, v. J. K LASS , Cicero und Caesar. Ein Beitrag zur Aufhellung ihrer gegenseitigen Beziehungen, Berlin 1939. Sulle mene di Catilina, con riguardo specialmente alla loro reale portata (fonti principali le Catilinarie di Cicerone e il bellum Catilinae di Sallustio), v. L. P ARETI , La congiura di Catilina, Catania 1935; R. S EAGER , The first Catilinarian conspiracy, in “Historia” XIX (1964) p. 338 sgg.; da vedere anche C HR . M EIER , Pompeius Rückkehr aus dem Mithridatischen Kriege und die Catilinarische Verschwörung, in “Athenaeum” N. S. XI, (1962) p. 103 sgg.; Q. Y AVETZ , The failure of Catiline’s conspiracy, in “Historia” XII (1963) p. 485 sgg. Sull’azione politica svolta da Cesare nell’anno del suo primo consolato e sul maturare della situazione che sboccò negli accordi del cosiddetto primo triumvirato, v. C HR . M EIER , Zur Chronologie und Politik in Caesars erstem Konsulat in “Historia” X (1961) p. 68 sgg.; H. A. S ANDERS , The so-called first trumvirate, in “Mem. Amer. Acad. Rome” X (1932) p. 55 sgg.; R. H ANSLIK , Cicero und das erste Triumvirat, in “Rhein. Mus.” XCVIII (1955) p. 324 sgg. Su Clodio: L. G URLITT , Lex Clodia de exilio Ciceronis, in “Philologus” LIX (1900) p. 578 sgg.; F. B. M ARSH , The policy of Clodius from 58 to 56 B.C., in “Class. Quart.” XXII (1927) p. 30 sgg. Sul proconsolato gallico di Cesare, e in particolare sulle operazioni di guerra per l’assoggettamento della Gallia, è più che mai pregiudiziale il problema critico dell’attendibilità della nostr a principale fonte d’informazione, rappresentata dai Commentarii de bello Gallico dello stesso Cesare. L’elemento propagandistico è certamente presente nell’opera (cfr. p. es., C. E. S TEVENS , The Bellum Gallicum as a work of propaganda, in “Latomus” XI 1952), ma troppo negative appaiono su questo punto posizioni come quelle di L. R AMBAUD , L’art de la deformation historique dans les Commentaires de César, Paris 1953; cfr. S. M AZZAR INO , Il pensiero storico cit., II, 1 p. 196. Sullo svolgimento delle successive campagne, oltre a C. J ULLIAN , Histoire de la Gaule, vol. II, e a G. V EITH , Geschichte der Feldzüge C. Julius Caesars, Wien 1906, v. E. K ÖSTERMANN , Caesar und Ariovistus, in “Klio” XXIV (1941) p. l96 sgg.; L. P ARETI , Problemi sulla conquista romana della Belgica, in “Riv. Filol. Class.” N. S. XXI (1943) p. 22 sgg.; J. L E G ALL , Alesia: archéologie et histoire, Paris 1963. Sulla spedizione partica e la fine di Crasso, A. G UNTHER , Beiträge zur Geschichte der Kriege zwischen Römer und Parther, Berlin
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1922; D. T IMPE , Die Bedeutung der Schlacht von Carrhae, in “Mus. Helv.” XIX (1962) p. 113 sgg. Sull’acuirsi della lotta per il primato fra Pompeo e Cesare, e sul precipitare della situazione sino allo scoppio della guerra civile, v. A.E. B OAK , The extraordinary commands from 80 to 48 B.C., in “Amer. Hist. Rev.” XXIV (1918-19), p. 21 sgg.; E. H OHL , Caesar am Rubico, in “Hermes” LXXX (1952) p. 246 sgg. Il passaggio del Rubicone (od. Fiumicino, presso Savignano), che secondo il calendario ufficiale dell’epoca avvenne intorno al 10 gennaio del 49, in realtà ebbe luogo nel novembre (astronomico) dell’anno precedente; il calendario ufficiale era allora in anticipo per la omissione di varie intercalazioni, e sta di fatto che quando qualche anno dopo (nel 46) Cesare provvide a regolarlo, dovette inserire circa novanta giorni; cfr. S UETON ., Div. Iul. 40: inter Novembrem ac Decembrem mensem interiecit duos alios, fuitque is annus, quo haec constituebantur, quindecim mensium cum intercalario, qui ex consuetudine in eum annum inciderat. Sulla guerra fra Cesare e Pompeo, oltre gli Antike Schlachtfelder, cit., II, p. 401 sgg., v. K. B ARWICK , Caesars Bellum civile. Tendenz, Abfassungszeit und Stil, Berlin 1951; A. S CHOBER , Zur Topographie von Dyrrachium, in “Jahresh. Oesterr. Arch. Inst.” XXII (1926) p. 231 sgg.; M. R AMBAUD , Le soleil de Pharsale, in “Historia” III (1955) p. 346 sgg. Sull’attività riformatrice di Cesare, E. G. H ARDY , Some problems in Roman history. Ten essays bearing on the administrative and legislative work of Julius Caesar, Oxford 1924; M. C ARY , The municipal legislation of Julius Caesar, in “Journ. Rom. Stud.” XXVII (1937) p. 48 sgg. Sui particolari aspetti dell’amministrazione finanziaria, R. K NAPOWSKI , Die Staatsrechnungen der römischen Republik in den Jahren 49-45, Frankfurt am Main 1967. Sull’interpretazione del travaglio politico-costituzionale che si concluse alle Idi di marzo, E D . M EYER , Caesars Monarchie und das Principat des Pompeius, 2a ed., Stuttgart 1919; A. A LFÖLDI , Studien über Caesars Monarchie, Lund 1953. Sul confronto tra le personalità di Cesare e di Catone nella famosa pagina di Sallustio (Bell. Catil. 52, 2-54), cfr. S. M AZZARINO , Il pensiero storico cit., II, 1, p. 453 sg. Sugli onori divini che furono decretati a Cesare ancora in vita, v. fra l’altro C ASS . D IO , XLIV 6, 4: “e infine gli diedero l’appellativo di Iuppiter-Iulius e decretarono che fosse eretto un tempio a lui e alla sua Clemenza, nominandone Antonio sacerdote con le attribuzioni di un flamen Dialis”.
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X Conclusione delle guerre civili. Il principato augusteo.
1. Dalla morte di Cesare al triumvirato di Lepido, Ottaviano e Antonio. - I congiurati, soprattutto per gli scrupoli di Bruto, si erano limitati ad eliminare il “tiranno” senza toccare i suoi principali collaboratori: Marco Emilio Lepido, che rivestiva la carica di magister equitum di Cesare dittatore, e Marco Antonio, collega nel consolato di Cesare per l’anno 44. Sicuro dei sentimenti, ancora compressi, della plebe romana turbata per l’uccisione di colui che tante volte l’aveva beneficata, e con l’appoggio di Lepido, il console Antonio seppe condurre un’abile manovra che sboccò in un accordo con gli anticesariani: si concedeva l’amnistia ai cesaricidi, ma nello stesso tempo si convalidavano gli atti del defunto dittatore. Impadronitosi delle carte e di buona parte dei denari lasciati da Cesare, Antonio continuò poi a destreggiarsi tra cesariani e repubblicani con la mira di aumentare la propria influenza su entrambe le fazioni; ma il suo giuoco fu ben presto complicato dal sopraggiungere di Gaio Ottavio, pronipote di Cesare che nel testamento lo aveva adottato come figlio e designato fra i suoi eredi. Sebbene Cesare avesse dato molti altri segni della sua stima verso il giovane (e si proponeva di farne il suo magister equitum nella spedizione partica) si trattava soltanto 188
di una designazione ad erede del patrimonio privato, non ad una successione politica cui era ancora lontano dal pensare. Ma l’ambigua atmosfera che regnava in Roma per effetto del compromesso fra le due opposte fazioni porse occasione ad Ottavio di atteggiarsi a difensore della memoria di Cesare, che egli lamentava offesa e tradita, e il suo dissidio con Antonio andò sempre più accentuandosi nel tempo stesso che sfumava l’intesa fra Antonio e i repubblicani. In tale situazione si delineò una convergenza fra i repubblicani e Ottavio, che ne approfittò per realizzare il disegno di soppiantare Antonio a capo dei cesariani. Sebbene privo di esperienza, il giovane sapeva muoversi con estrema accortezza negl’intrighi della politica; e quando fu chiaro che fra breve l’ultima parola sarebbe toccata alle armi, egli non esitò a crearsi un esercito attirando dalla sua parte con ingenti donativi due legioni che Antonio aveva richiamato dalla Macedonia. Pressato da due parti, Antonio decise di trascurare per il momento Ottavio e di affrontare il pericolo rappresentato dall’esercito dei repubblicani che Decimo Bruto (diverso dal Marco Bruto capo della congiura) aveva ai suoi ordini come governatore della Cisalpina. Mentre Antonio assediava Bruto a Modena e, spirato l’anno del consolato, continuava abusivamente ad esercitare il comando, Ottavio s’intendeva col senato che ai primi del 43 legalizzò la sua posizione militare conferendogli un regolare imperium propretorio. I “repubblicani”, con Cicerone alla testa, potevano rallegrarsi di aver diviso i due capi dei cesariani, e cioè di aver trovato in Ottavio un ottimo strumento 189
per combattere Antonio, ma li attendeva la più amara delusione. Ottavio dapprima unì le sue forze a quelle che il senato aveva affidato ai consoli del 43 per accorrere in aiuto di Decimo Bruto, e collaborò alla disfatta di Antonio costringendolo a rifugiarsi nella Gallia Narbonese presso Lepido; di poi, essendo rimasto l’unico comandante dell’esercito per la caduta in combattimento di entrambi i consoli, ne approfittò per reclamare l’elezione a console e non si fece scrupolo di schiacciare le resistenze del senato marciando su Roma. Ottavio non aveva ancora compiuto i vent’anni quando il 19 agosto del 43 ascese al consolato: era la violazione più grave che mai avessero subìto le regole dell’ordinamento costituzionale repubblicano. Munito della potestà consolare, egli ebbe cura in primo luogo di far legalmente convalidare la sua adozione (il suo nome diventò allora ufficialmente quello di Gaio Giulio Cesare Ottaviano); quindi, alle manovre ostili della fazione senatoria, rispose da un lato facendo revocare l’amnistia per i congiurati, dall’altro riavvicinandosi ad Antonio e a Lepido, con i quali alla fine di ottobre strinse un accordo destinato a dar origine al “secondo” triumvirato. Infatti, istituita poco dopo, con una legge fatta votare dal tribuno Publio Tizio, la magistratura straordinaria dei triumviri rei publicae constituendae, Lepido, Antonio e Ottaviano furono rivestiti di imperium consolare per cinque anni (fino al 31 dicembre del 38) e praticamente si impadronivano di tutte le leve di comando.
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2. Rotta degli anticesariani e rivalità fra i triumviri. I tre si preoccuparono anzitutto di spazzare l’opposizione senatoria, e si ritornò al sistema delle proscrizioni, di cui una delle vittime più illustri fu Cicerone, mortalmente odiato da Antonio per i violenti attacchi che gli aveva sferrato con le “Filippiche”. Restavano però ancora in piedi le forze che in Oriente si raccoglievano agli ordini di Marco Bruto e di Cassio, e fu deciso che ad affrontarle sarebbero partiti Antonio e Ottaviano, mentre Lepido sarebbe rimasto in Roma. Lo scontro decisivo avvenne nell’ottobre del 42 a Filippi, nella Macedonia, e la vittoria fu merito esclusivo di Antonio, che sconfisse in due battaglie prima Cassio e poi Bruto (già vincitore di Ottaviano) costringendoli a darsi la morte. Dal trionfo finale sui cesaricidi usciva grandemente rafforzata la posizione di Antonio, che ora avrebbe potuto anche mettere in disparte Ottaviano, ma non lo fece, forse per dedicare tutte le energie al piano di conquista in Oriente che aveva in animo di intraprendere come fedele continuatore dell’opera di Cesare. Infatti egli si riservò il comando su tutte le province orientali oltre che sulle Gallie e parte dell’Africa; ad Ottaviano rimasero il resto dell’Africa, la Spagna, la Sicilia, la Sardegna e la Corsica, mentre Lepido veniva escluso da questa ripartizione con l’accusa di essersi accordato con Sesto Pompeo. Era questi il superstite della battaglia di Munda, cui all’inizio del 43, per assicurarsene l’appoggio nella guerra contro Antonio, il senato aveva conferito il comando delle forze navali, e che in seguito, con una serie di azioni fortunate, si era costituito un potere personale che lo portò ad 191
impadronirsi della Sicilia, della Sardegna e della Corsica minacciando la posizione di Ottaviano. Tale complessa situazione politica doveva semplificarsi nel giro di pochi anni. Dopo Filippi, mentre Antonio si intratteneva in Oriente, Ottaviano era tornato in Italia con l’incarico di procedere alla distribuzione di terre ai veterani, compito difficile non solo per l’opposizione della borghesia conservatrice, a cui quelle terre venivano confiscate, ma anche per i gravi contrasti suscitati dagli antoniani con a capo Lucio Antonio (il fratello del triumviro, che nel 41 era console), e soprattutto da Fulvia, la facinorosa moglie di Marco Antonio. Contro di questi Ottaviano combatté nell’inverno dal 41 al 40 il bellum Perusinum, così denominato dalla città in cui Lucio Antonio fu stretto d’assedio. Espugnata Perugia, gli avversari di Ottaviano si rifugiarono parte in Oriente (come Fulvia, che si affrettò a portare le sue lamentele ad Antonio) e parte in Sicilia presso Sesto Pompeo. Si profilava l’eventualità di un accordo fra Antonio e Sesto Pompeo contro Ottaviano, ma questi parò il colpo avvicinandosi a Pompeo con un matrimonio politico e, ripudiata la prima moglie Clodia, passò a nuove nozze con Scribonia, sorella di Lucio Scribonio Libone, suocero di Sesto Pompeo. Antonio mosse in forze dall’Oriente contro Ottaviano, ma non riuscì a sbarcare a Brindisi né ad ottenere alcun successo militare; d’altra parte si trattava di una lotta che nessuno dei due aveva interesse di spingere a fondo, sicché poco dopo, per l’intromissione di amici comuni come Mecenate e Asinio Pollione, si venne ad un’intesa sancita nel trattato di Brindisi (ottobre 40). A 192
suggellare l’accordo (in forza del quale ad Antonio veniva assegnato l’Oriente, ad Ottaviano l’Occidente, esclusa l’Africa riservata a Lepido) Antonio, rimasto vedovo di Fulvia, sposava Ottavia, la sorella di Ottaviano. L’equilibrio generale poteva sembrare raggiunto col trattato di Miseno, concluso l’anno dopo, che riconosceva a Sesto Pompeo il predominio su Sicilia, Sardegna e Corsica, ma non si trattava che di un equilibrio instabile. Il segno della rottura fu il ripudio di Scribonia (a. 39) da parte di Ottaviano, che l’anno dopo passò in terze nozze con Livia Drusilla, già moglie di Tiberio Claudio Nerone, e ben presto divampò la lotta aperta per il possesso della Sicilia. Ottaviano la iniziò dapprima con l’ostilità di Antonio, che fece una nuova minacciosa apparizione a Brindisi, poi, ristabilita nella primavera del 37 la concordia con il trattato di Taranto (che portò al rinnovamento per un altro quinquennio dei poteri triumvirali scaduti alla fine del 38), la continuò con l’aiuto di Antonio e la concluse nel 36 con la vittoria navale di Naulòco (presso Messina). All’eliminazione di Sesto Pompeo seguì, nello stesso anno 36, l’accantonamento di Lepido. Questi nella guerra di Sicilia aveva cercato di sollevare le legioni contro Ottaviano, ma abbandonato dalle sue truppe finì per essere spogliato dei poteri di triumviro e relegato nell’ombra, conservando il solo pontificato massimo. 3. Il duello conclusivo fra Ottaviano e Antonio. - A dominare l’impero del popolo romano restavano così due uomini, Antonio e Ottaviano. Li legava il 193
vincolo di parentela per il tramite di Ottavia, ma li divideva l’ambizione, se con una sola parola fosse possibile definire quel complesso di ragioni per cui la visione politica dell’uno non poteva essere e non fu quella dell’altro. Alla spedizione contro i Parti, che Antonio intraprese nel 36 e nell’ottobre dello stesso anno si concluse con un insuccesso, Ottaviano non aveva inviato quel contingente di 20.000 uomini che in base al trattato di Taranto era tenuto a fornire; ma l’incendio della guerra civile tardò ancora qualche anno a scoppiare. Ottaviano era assorbito dalla sistemazione della Pannonia e dalla lotta contro i pirati della costa adriatica, Antonio dalla guerra di rivincita contro i Parti, nel corso della quale riuscì ora a conquistare l’Armenia e a stabilire nei paesi orientali un certo equilibrio fondato sulla più stretta collaborazione tra Roma e l’Egitto. Infatti, anziché creare in Oriente nuove province, Antonio vi costituiva una serie di Stati vassalli sotto una dinastia romano-egiziana cui egli donava i vari territori, e i dinasti erano, oltre la regina madre Cleopatra, i figli Alessandro Helios, Tolemeo e Cleopatra Selene (nati da lui) e Cesarione (nato da Cesare). Questa sistemazione dell’Oriente porse ad Ottaviano uno dei più efficaci argomenti propagandistici per la lotta che egli aveva in animo di scatenare, quasi che Antonio volesse porre al centro dell’impero l’Egitto e non più l’Italia, allo stesso modo che, ripudiando Ottavia, dava la preferenza a Cleopatra. Come prova delle sue tendenze orientalizzanti e antiromane, ad Antonio venne imputato di aver celebrato in Alessandria e non a Roma il trionfo sull’Armenia, anche se allora, 194
più che di un vero e proprio trionfo, si trattò forse di una cerimonia dionisiaca inserita negli sviluppi della politica religiosa attuata dal triumviro. Infatti, per assicurarsi la devozione dei popoli orientali, Antonio si era inoltrato sulla strada della divinizzazione che già Cesare aveva imboccato, e si era atteggiato a novello Dioniso, identificato in Egitto con Osiride. Dopo quest’abile preparazione ideologica, Ottaviano aprì la lotta all’inizio del 32; essendo scaduti alla fine dell’anno precedente i poteri triumvirali, egli riuscì ad imporsi con un colpo di forza debellando in Roma l’opposizione degli antoniani e costringendo a fuggire i due consoli e trecento senatori. Restavano dalla sua parte gli altri settecento senatori, e più ancora il sostegno di un solenne giuramento di fedeltà col quale l’Italia e le province occidentali lo riconobbero capo della guerra che, per evitare l’odiosità di un nuovo bellum civile, Ottaviano fece dichiarare a Cleopatra, mentre Antonio, suo alleato, veniva bollato come hostis publicus. Ingenti erano le forze di cui Antonio disponeva, ma alla prova del fuoco la sua posizione apparve notevolmente indebolita per effetto della sua politica orientalizzante, la quale non solo aveva suscitato nelle popolazioni greco-asiatiche una reviviscenza di spiriti nazionalistici e l’aspirazione a una maggiore autonomia dal governo di Roma, ma aveva anche depresso l’ardore delle sue legioni, che sentivano di battersi per una causa contraria alla assoluta supremazia romana. Questo, soprattutto, dà ragione del corso a lui sfavorevole delle operazioni che culminarono, il 2 settembre del 31, nella 195
battaglia navale di Azio (sulla costa ionica della Grecia centrale); l’anno dopo era presa Alessandria e, mentre Antonio e Cleopatra si toglievano la vita, l’Egitto fu ridotto a provincia. Finita la guerra civile, debellati i nemici esterni, Ottaviano si apprestava a soddisfare l’universale desiderio di pace e nel 28, con solenne cerimonia, faceva chiudere il tempio di Giano rimasto aperto per più di due secoli. 4. Ottaviano “Augusto” e “principe” dell’impero. Dopo lo sfacelo del regime oligarchico e l’eliminazione del competitore, restava ad Ottaviano di dare un nuovo ordinamento allo Stato di cui s’era fatto padrone, ed egli vi si dedicò con un lungo e paziente lavoro che fu sostanzialmente di rivoluzione, nonostante i suoi sforzi per presentarlo come di restaurazione dell’antica res publica. Si trattava, in primo luogo, di dar veste costituzionale al suo potere personale, e a questo si venne soprattutto nel corso di due memorabili sedute del senato nel gennaio del 27. Secondo l’espressione che più tardi l’imperatore stesso usò quando scrisse l’index rerum a se gestarum destinato a essere scolpito nel bronzo dinanzi al suo mausoleo (le cosidette Res gestae divi Augusti), egli si spogliò allora della potestas eccezionale che aveva fino a quel momento esercitata, ma ottenne in cambio, oltre a vari onori, il riconoscimento della sua auctoritas, cioè di una superiorità personale che lo poneva al di sopra di tutti gli altri magistrati dello Stato. Al riconoscimento di una tale auctoritas faceva riscontro il conferimento del titolo di Augustus, che come auctoritas deriva dalla stessa radice del verbo augeo. E Augustus significava “accresciuto”, innalzato al di 196
sopra degli altri, un concetto non famigliare ai Greci che tradussero Augustus con Sebastòs (“venerato”, da sébomai), ove è già un accenno a quella concezione sacrale del nuovo potere destinata a manifestarsi ben presto nel culto prestato (anche in Italia) alla divinità dell’imperatore vivente. Augusto, come da questo momento possiamo chiamarlo, riceveva inoltre l’imperium proconsulare per dieci anni, poi periodicamente rinnovato, sulle province non pacificate (che furono dette “imperiali”, mentre quelle pacificate furono dette “senatorie”), e ciò significava il supremo comando sulle forze armate, che per lo più erano stanziate appunto in tali province. In questo modo l’esercito professionale, che con la sua devozione ai condottieri aveva alimentato le guerre civili e contribuito al tramonto del regime repubblicano, veniva stabilmente inserito nel nuovo sistema politico attraverso la sua diretta dipendenza dall’imperatore. Al precedente imperio proconsolare dovevano aggiungersi qualche anno dopo, nel 23, un nuovo imperium proconsulare maius et infinitum e la tribunicia potestas che, rinnovata di anno in anno, consentiva all’imperatore di convocare il senato e di far votare leggi, quasi fosse un tribuno del popolo (mentre tale non era, e quindi non sottostava alle limitazioni della collegialità e dell’annualità). Tutti questi poteri si rispecchiavano nella titolatura ufficiale del capo dello Stato, che oltre alla menzione della tribunicia potestas comprendeva i titoli di Imperator (divenuto, anzi, un vero e proprio prenome in luogo di Gaius), di Augustus, di pontifex maximus, (dal 12, dopo la morte di Lepido), di pater patriae, e nell’insieme delineava la figura del princeps. 197
Questo termine, che peraltro non assunse mai un valore ufficiale, fu prescelto dallo stesso Augusto a definire la sua posizione nello Stato; egli infatti non volle, a differenza di Cesare, assumere la figura del dittatore, che in Roma aveva sempre avuto e conservato un carattere straordinario ed eccezionale, ma preferì essere “principe”, cioè Primo cittadino tra gli altri cittadini, e “principato” fu il nome del regime costituzionale da lui creato. 5. Compromesso tra vecchio e nuovo regime nelle riforme augustee. - Per il funzionamento della macchina statale Augusto chiamò alla collaborazione i ceti più elevati della cittadinanza romana e fondò il nuovo ordine sul privilegio della classe senatoria e della classe equestre. Ciò vuol dire che nella complessa amministrazione dell’impero determinate funzioni erano riservate esclusivamente ai senatori o ai cavalieri. Così, per esempio, la carica di governatore di provincia non poteva essere rivestita che da un senatore, e ugualmente solo i senatori potevano raggiungere il grado più elevato dell’ufficialità, il comando di una legione, che essi esercitavano come luogotenenti dell’imperatore. Ancora, solo a personaggi dell’ordine senatorio erano accessibili le antiche magistrature: la questura, il tribunato della plebe, l’edilità, la pretura, il consolato; ma è appena necessario aggiungere che la mutata situazione politica aveva svuotato queste magistrature della maggior parte del loro contenuto. Prima esse avevano costituito gli organi per l’attuazione del programma politico della classe dirigente: ora invece, che il potere era nelle mani dell’imperatore, non rappresentavano più che 198
qualifiche per poter esercitare determinate funzioni. Esser console, per es., aveva un tempo significato aver raggiunto la posizione più elevata nel governo dello Stato, ora significava essere qualificato per ottenere i più alti incarichi, ad esempio l’ufficio di governatore di un’importante provincia. Nello stesso tempo il senato, pur conservando svariate attribuzioni (tra cui importantissimo, se non si fosse sempre più ridotto a una semplice formalità, il diritto dell’investitura imperiale), perdeva l’antica funzione di supremo moderatore della vita politica dello Stato, e mentre per secoli era stato come il fortilizio della nobilitas, nella quale solo pochi homines novi erano riusciti a penetrare attraverso la gestione delle magistrature, ora invece era in balìa dell’imperatore, che aveva la facoltà di introdurvi chi volesse. Questa immissione di nuovi elementi non riuscì peraltro a incidere troppo sulla fisionomia del consesso, che in generale rimase a lungo ancorato agli antichi ideali politici; i rapporti fra imperatore e senato furono spesso improntati a reciproca diffidenza, ma l’opposizione senatoria assai di rado diede luogo a episodi di violenta ribellione, e tra i patres il principe trovò sempre volenterosi collaboratori. La classe dei cavalieri (equites), cioè la ricca borghesia che da oltre un secolo aveva con varia fortuna lottato contro l’oligarchia nobiliare per ottenere una parte di maggior rilievo nella vita pubblica, ebbe anch’essa riconosciuta dalla costituzione augustea una posizione di privilegio, la quale anzi col tempo andò sempre aumentando a detrimento del senato. Nell’ordinamento militare, gli appartenenti all’ordine equestre avevano il comando 199
dei corpi ausiliari che fiancheggiavano le legioni: le alae di cavalleria e le cohortes di fanteria, reclutate nelle province. Nelle legioni, composte di cives Romani, essi potevano raggiungere solo il grado di tribunus militum, in sottordine al comandante (legatus legionis), che era di rango senatorio. Poiché in Roma le forze navali furono generalmente considerate a un livello inferiore rispetto alle forze di terra, a cavalieri anziché a senatori venne affidato da Augusto il comando delle due flotte principali, dislocate a Miseno e a Ravenna. Ma un impiego assai più importante trovarono gli appartenenti all’ordine equestre nei numerosi uffici che Augusto organizzò per le varie branche dell’amministra-zione imperiale, riservando appunto a loro i posti direttivi col titolo di praefectus o di procurator. Così fu appannaggio dei cavalieri l’ufficio di praefectus praetorio (il comandante dei pretoriani), destinato a diventare in seguito una delle cariche più elevate, mentre ai tempi di Augusto fu di rango alquanto modesto. Infatti era allora più importante la carica di praefectus Aegypti, cioè di governatore dell’Egitto, unica provincia affidata al governo di un cavaliere e non di un senatore. Notevoli erano anche, fra le cariche riservate ai cavalieri, quella di praefectus vigilum, il comandante delle sette coorti di vigiles istituite con funzioni di polizia urbana e specialmente di vigili del fuoco, e quella di praefectus annonae, cioè di preposto a un servizio assai complesso e delicato dovendo curare l’approvvigionamento della plebs urbana. Così si chiamava la massa dei cittadini domiciliati in Roma e non appartenenti alle classi senatoria o equestre; non era un termine spregiativo, 200
come può sembrare, anche se di fatto larghi strati della cittadinanza romana erano scaduti a popolino pronto a tumultuare quando non otteneva ciò che soprattutto chiedeva, panem et circenses. Augusto sembra si proponesse di restituire queste masse all’antica dignità di cittadini e per un certo tempo ripristinò i comizi popolari, ma i disordini che si verificarono nell’assemblea lo dissuasero dal continuare su tale strada, e i comizi decaddero per sempre. Tale decadenza si verificò in connessione col fatto che il popolo cessò di aver parte effettiva sia nell’approvazione delle leggi (emananti ora sempre più direttamente dall’autorità dell’imperatore), sia nella scelta delle magistrature di maggior rilievo, determinata ora anch’essa dal beneplacito del principe di intesa con un apposito comitato elettorale misto di senatori e cavalieri. Su questo punto dell’attività riformatrice di Augusto, piuttosto oscuro fino a non molto tempo fa, nuova luce è venuta dal recente trovamento della tabula Hebana, così chiamata dal luogo del fortuito ritrovamento, la città di Heba in Etruria. Di non poca importanza, nel quadro delle riforme augustee, fu poi il riordinamento dell’amministrazione finanziaria, suddivisa in vari uffici di cui erano a capo numerosi procuratores, appartenenti di norma, come si è detto, all’ordine equestre. Tale riordinamento, che accanto all’antico tesoro dello Stato, l’aerarium populi Romani, vide sorgere due nuove casse, l’aerarium militare e il fiscus imperiale, fu imposto dall’obbligo di assicurare le entrate necessarie per la pubblica spesa, specie per il mantenimento dei funzionari e, soprattutto, dell’esercito. Si trattava di quasi una trentina di 201
legioni e di numerosi corpi ausiliari (che Augusto stanziò stabilmente fuori d’Italia sia perché fossero più pronti alla difesa dei confini, sia perché non avessero a costituire una minaccia al suo potere) oltre alle truppe che invece furono accasermate in Roma (cosa inaudita nell’età re- pubblicana!): i praetoriani, i vigiles e gli urbaniciani. Questi ultimi erano alle dipendenze del praefectus urbi, titolare di un ufficio assai antico e ora riplasmato da Augusto per esercitare un’alta sorveglianza sull’ordine pubblico. 6. Pacificazione e riordinamento dell’impero. - Su questo organismo, destinato a durare per secoli, Augusto fondò la sua politica, che fu soprattutto una politica di consolidamento della pace e della sicurezza, anche se talvolta fu necessario far ricorso alla guerra. Sopiti i contrasti all’interno, almeno nelle forme violente, esaltato come restauratore della famiglia e della religione e come fondatore della pax Augusta (l’eco più bella di questa esaltazione risuona nella poesia di Virgilio, di Orazio, di Ovidio), l’imperatore si preoccupò anche di provvedere alla tranquillità delle province periferiche. Pacificata definitivamente la Spagna per merito di Marco Vipsanio Agrippa, uno dei più valorosi collaboratori e genero di Augusto, furono poi assoggettati la Rezia (odierni Tirolo e Baviera) e il Norico (il resto dell’odierna Austria, con la parte settentrionale della Slovenia) ad opera di Tiberio Claudio Nerone, figliastro dell’imperatore, che portò il confine al riparo del Danubio. Contemporaneamente Druso, fratello di Tiberio, si 202
spingeva vittoriosamente oltre il Reno nel cuore della Germania e alla sua morte, nel 9 a.C., l’impresa veniva condotta a termine da Tiberio (reduce dalla sottomissione della Pannonia, fra la Dalmazia e il Danubio), che completava l’assoggettamento del territorio fino all’Elba. Ma quest’ultima fu conquista poco duratura perché i Germani, incitati alla ribellione da Arminio, inflissero una tremenda disfatta al governatore romano Publio Quintilio Varo, annientando le sue tre legioni nella selva di Teutoburgo (9 d.C.). Anche per le complicazioni di una grave rivolta in Pannonia, non rimase che arretrare sul vecchio confine del Reno, e la rinuncia alla riscossa ebbe l’effetto di lasciare per sempre la Germania fuori del mondo romano. Al di là dell’Eufrate, che con il Reno e il Danubio segnava per grandi linee la demarcazione dell’impero, si estendeva il regno dei Parti. Verso costoro Augusto abbandonò i propositi aggressivi, che già erano stati di Cesare e poi di Antonio, e intraprese una lunga ed accorta azione diplomatica che nel 20 a.C. portò al riconoscimento del prestigio di Roma: fra l’altro, si ottenne la restituzione delle insegne che oltre trent’anni prima erano state strappate a Crasso. Si trattava però di una situazione assai fluida per le contrastanti mire dei due Stati ad assicurarsi il controllo dell’Armenia, e il dissidio non tardò a riaffiorare in forma violenta. A un quadro così sommario dell’opera politica di Augusto bisogna almeno aggiungere un cenno alla riorganizzazione territoriale e amministrativa dell’Italia (ripartita in 11 regiones) e dell’Urbe (suddivisa in 14 regiones, comprendenti ciascuna numerosi vici), all’impulso dato alle opere pubbliche 203
(di Roma poté dire che l’aveva trovata di mattoni e la lasciava di marmo; cfr. Suet., Aug. 28), all’incremento dei centri cittadini in Italia e nelle province. Fu protetto lo sviluppo delle autonomie comunali, e nelle varie regioni dell’impero ebbe inizio una splendida fioritura di città grandi e piccole, fra cui numerose nuove colonie che furono altrettanti centri d’irradiazione del romanesimo. In un clima tanto propizio le arti e le lettere romane attinsero vette assai alte, e nella nuova atmosfera del principato, che un’abile propaganda seppe trasformare nel regno della pace universale finalmente donata al mondo da Augusto, Roma si avviò a diventare il principale centro di cultura, oltre che il centro politico dell’impero. Nella solenne festività dei ludi saeculares celebrati nel 17 a.C., per bocca di un coro di pueri e puellae, le intatte speranze del domani, saliva al cielo l’augurio di Orazio: Alme sol possis nihil urbe Roma visere maius. 7. La conservazione del principato nel problema della successione. - Informandosi ai severi dettami della filosofia stoica, Augusto concepì la sua lunga opera come un dovere e vi attese, soleva dire, con l’animo del soldato incrollabilmente fermo al suo posto, senza lasciarsi abbattere dagl’incomodi di una salute cagionevole e da una serie di avversità domestiche. Si preoccupò anche, e assai per tempo, di trasmettere l’impero nelle mani di un uomo capace di reggerne l’immensa mole, naturalmente scegliendolo nella cerchia dei famigliari, come imponeva il carattere sacrale e personale del suo potere.
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In mancanza di discendenza maschile (non aveva avuto che una sola figlia, Giulia, nata nel 39 dalla seconda moglie Scribonia), egli pensò dapprima al giovane Marco Claudio Marcello, figlio di sua sorella Ottavia, cui nel 25 diede in sposa la giovanissima Giulia. Ma due anni dopo, appena ventenne, Marcello, venne improvvisamente a morte, e allora le speranze dell’imperatore si appuntarono su Marco Vipsanio Agrippa, il valente suo collaboratore, cui nel 21 fece l’onore di accoglierlo come secondo marito di Giulia e nel 18 rese compartecipe dell’imperium proconsulare e della tribunicia potestas. Morto nel 12 anche Agrippa, restavano i figli da lui avuti con Giulia, e Augusto sperò di trovare il successore nei primi due di questi nipoti, che adottò come figli (chiamandoli Gaio Giulio Cesare e Lucio Giulio Cesare) e colmò di onori straordinari avviandoli all’arte del governo. Ma la sorte sembrava accanirsi contro questi suoi piani, e i due giovani morirono prematuramente, Lucio nel 2 e Gaio nel 4 d.C. Nella famiglia imperiale non restava che il sedicenne Agrippa Postumo, l’ultimo dei cinque figli di Giulia, ma l’imperatore, ormai prossimo alla settantina, non ebbe la forza di coltivare questa nuova speranza e si rassegnò a lasciare che la successione andasse al figliastro Tiberio, già maturo di anni e di esperienza. Questi era nato nel 42 dall’omonimo senatore patrizio Tiberio Claudio Nerone e da Livia Drusilla, sposata da Augusto in terze nozze nel 38, e sebbene si fosse largamente distinto anche come diplomatico avveduto e valente condottiero, non era mai entrato nel cuore del patrigno, che l’aveva posposto anche all’altro figliastro Druso, suo fratello minore (morto 205
nel 9 a.C.). Negli ultimi tempi, amareggiato per le preferenze dimostrate ai giovanissimi Gaio e Lucio Cesari, Tiberio si era appartato soggiornando a Rodi per ben otto anni; ora, dopo la morte di Gaio Cesare, venne adottato da Augusto (e cambiò il nome di Tiberio Claudio Nerone in quello di Tiberio Giulio Cesare), ma nel medesimo tempo, sebbene avesse già un figlio, fu costretto ad adottare (perché un giorno gli succedesse) Germanico, figlio del fratello Druso. Si costituiva così, per via adottiva, la famiglia imperiale giulio-claudia. Come già a suo tempo aveva fatto con Vipsanio Agrippa, Augusto rivestì Tiberio dell’imperium proconsulare e della tribunicia potestas che, innalzandolo alla posizione di correggente, gli spianavano la via a succedergli. Caduto tre anni dopo in disgrazia, forse per i maneggi di Livia, e relegato in un’isola il giovane Agrippa Postumo, esiliata già da tempo Giulia, che il padre aveva implacabilmente voluto punire per la sua vita scostumata, nessun ostacolo si frapponeva ormai alla successione di Tiberio (che nel 13, per effetto del conferimento di nuove attribuzioni, aveva salito un gradino ancora più alto nella scala del potere), ed egli la raccolse nel 14, quando Augusto venne a morte all’età di settantasei anni. Su questo periodo, che rappresenta una delle svolte d i maggiore interesse nella storia di Roma, sono andate in massima parte perdute le opere degli autori contemporanei, a cominciare da quelle di due storici di così grande importanza (anche per la diversità della loro “tendenza”) come Asinio Pollione e Livio. Da Cicerone (Filippiche e Lettere, fino all’anno 43) si passa a scrittori d i piena età augusteo-tiberiana, come Nicolao di Damasco (Vita di Augusto) e Velleio Patercolo; quindi ai più tardi Plutarco (Vite d i
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Cicerone, di Bruto, di Antonio), Suetonio (De vita Caesarum, I e II), Appiano (Guerre civili e libro Illirico), Cassio Dione (libri XLV-LVI). La tradizione a noi pervenuta rispecchia, com’è ovvio, prevalentemente il punto di vista favorevole ad Augusto (e, perciò stesso, contrario ai suoi avversari, a cominciare da Antonio), frutto della elaborazione di quei motivi propagandistici di cui la prima eco può cogliersi nelle celebrazioni della poesia augustea (Virgilio, Orazio, ecc.). Va anche tenuto presente il cospicuo apporto delle fonti documentali, soprattutto del materiale epigrafico, che consente di meglio approfondire vari punti; basti pensare, per esempio, alle Res gestae divi Augusti, su cui v. appresso. Sul vario gioco delle fazioni che dopo le Idi di marzo si contendevano il campo, e sulle accorte mosse di Gaio Ottavio per inserirsi fra i cesariani e gli anticesariani, v. T. R ICE H OL MES , The architect of the Roman empire, I, Oxford 1928; W. S CHMITTHENNER , Oktavian und das Testament Caesars, München 1952. Quelle stesse mosse dovevano più tardi essere presentate come i primi sacrifici durati in difesa delle libere istituzioni della repubblica: Annos undeviginti natus exercitum privato consilio et privata impensa comparavi, per quem rem publicam a dominatione factionis oppressam in libertatem vindicavi (Res gest. 1). Sulla parte di primo piano avuta dalle forze armate ne l decidere le sorti dei contrasti politici, cfr. H. B OTERMANN , Die Soldaten und die römische Politik in der Zeit von Caesars Tod bis zur Begründung des Zweiten Triumvirats, München 1967. Con riferimento al bellum Philippense e alla disfatta de i cesaricidi, un interessante esempio del prevalere della tradizione filoaugustea a scapito di Marco Antonio può cogliersi nella notazione registrata nel Calendario Prenestino al 23 ottobre (cfr. A. D EGRASSI , Inscr. Italiae, XIII 2, Roma 1963, p. 135; 524): [imp. Caesar A]ugustus vicit Philippis posteriore proelio Bruto occiso. Sui contrasti che ben presto presero a dividere i triumviri r. p. c. fino a trasformarsi di lì a poco in guerra guerreggiata (bellum Perusinum), e in particolare sui contrasti fra Ottaviano e Lepido nell’anno 42, una testimonianza interessante è costituita dalla cosiddetta laudatio Turiae. Questo testo, che ci è stato trasmesso in un’epigrafe frammentaria (D ESSAU , I. L. S. 8393; cfr. M. D URRY , Éloge funèbre d’une matrone romaine, Paris 1950), contiene la celebrazione di una defunta (di malsicura identificazione) fatta tra l’8 e il 2 a.C. dal marito, il quale fra l’altro esalta l’affetto dimostratogli dalla sposa in un momento terribile, quando egli era stato proscritto da Lepido e lei riuscì a farlo fuggire, salvandogli la vita con grande rischio della sua, e poi a ottenergli la grazia da Ottaviano (I 27 sgg.: Rara sunt tam diuturna matrimonia finita morte, non divertio in[terrupta; nam contigit] nobis, ut ad annum XXXXI sine
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offensa perduceretur. Utinam vetust[um ita extremam sub]isset mutationem vice m[e]a, qua iustius erat cedere fato maiorem... (II 21 sgg.). Acerbissimum tamen in vi[ta] mihi accidisse tua vice fatebo[r, reddito iam non inutili] cive patriae benificio et i[ud]icio apsentis Caesaris Augusti [quom per te] de restitutione mea M. L[epi]dus conlega praesens inter[pellaretur et ad eius] pedes prostrata humi, n[on] modo non adlevata, sed tra[cta et servilem in] modum rapsata, livori[bus c]orporis repleta, firmissimo animo eum [admone]res edicti Caesaris cum g[r]atulatione restitutionis me[ae, auditisque verbis eti]am contumeliosis et cr[ud]elibus exceptis volneribus pa[lam ea praeferres], ut auctor meorum peric[ul]orum notesceret. Quo noc[uit mox quod fecit!] Quid hac virtute efficaciu[s]? Praebere Caesari clementia[e locum et cum cu]stodia spiritus mei not[a]re importunam crudelitatem [egregia tua] patientia? Pacato orbe terrarum, restituta re publica, quieta deinde n[obis et felicia] tempora contigerunt. Fue[ru]nt optati liberi, quos aliqua[mdiu sors inviderat. Si fortuna procede[re e]sset passa sollemnis inservie[ns, quid utrique no]strum defuit? Procedens a[et]as spem [f]iniebat ...”. Sul progressivo deterioramento delle relazioni fra Antonio e Ottaviano, con particolare riguardo alla politica orientalizzante di Antonio che offrì ad Ottaviano il destro di incentrare la sua offensiva ideologica nell’alternativa “Roma o Alessandria”, v. R. S YME , The Roman revolution, Oxford 1939 (trad. ital. 1962); H. B UCHHEIM , Die Orientpolitik des Triumvirn M. Antonius, Heidelberg 1960. Sulla battaglia di Azio, v. M.A. L EVI , in “Athenaeum” n.s. X (1932) p. 1 sgg.; sulla fine di Cleopatra, T.C. S KEAT , The last days of Cleopatra, in “Journ. Rom. St.” XLIII (1953) p. 98 sgg. Per l’intelligenza più piena della riforma costituzionale augustea, consistente in ultima analisi nell’inserzione dei poteri del princeps entro i vecchi schemi del reggimento repubblicano, fondamentale la formulazione dello stesso Augusto circa l’assoluta superiorità della sua auctoritas, che lo collocava al di sopra di tutti coloro che pure furono rivestiti di una potestas (consolare, proconsolare o tribunizia) pari alla sua (Res gest. 34, 1 sgg.: In consulatu sexto et septimo [= a. 28 e 27], p[ostquam be]lla [civil]ia exstinxeram per consensum universorum [po]tens [reru]m om[n]ium, rem publicam ex mea potestate in senat[us populique Rom]ani [a]rbitrium transtuli. Quo pro merito meo, senatu[s consulto Au]gust[us appe]llatus sum et laureis postes aedium mearum v[estiti] publ[ice coronaq]ue civica super ianuam meam fixa est [et clu]peus [aureu]s in [c]uria Iulia positus, quem mihi senatum pop[ulumq]ue Rom[anu]m dare virtutis clement[iaequ]e iustitiae et pieta[tis caus]sa testatu[m] est pe[r e]ius clupei [inscription]em. Post id tem[pus a]uctoritate [omnibus praestiti, potest]atis au[tem n]ihilo ampliu[s habu]i quam cet[eri qui m]ihi quoque in ma[gis]tra[t]u conlegae f[uerunt]. Qui si rivela anche la insufficienza della famosa teoria del Mommsen, secondo cui in Roma si sarebbe instaurata una
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“diarchia”, cioè una divisione del potere fra principe e senato, e a ragione quella teoria non ha più avuto seguito. Sulle componenti della auctoritas dell’Augusto, con particolare riguardo agli elementi sacrali ad essa inerenti, ci si limiterà a ricordare W. E NSSL IN , Gottkaiser und Kaiser von Gottes Gnaden, in “Sitzb. Bayer. Akad.” 6, 1943, pp. 26 sgg.; W. S ESTON , Dioclétien et la tétrarchie, Paris 1946, p. 193 sg.; M. G RANT , From Imperium to Auctoritas, Oxford 1946; A. M AGDELAIN , Auctoritas principis, Paris 1947; G. E. F. C HILVER , Augustus and the Roman constitution, in “Historia” 1 (1950), p. 420 sgg. All’inizio del passo sopra citato delle Res gestae si trova un’indicazione illuminante circa il fondamento dei poteri esercitati da Ottaviano fra il 32 e il 28: uno dei punti più dibattuti nella recente bibliografia. Scaduti il 31 dicembre del 33 i poteri de l secondo triumvirato, nel quinquennio successivo Ottaviano considerò giustificata la sua posizione di arbitro dello Stato in base alla continuazione di quel consensus universorum che gli aveva consentito di potiri rerum omnium per aver posto fine alle guerre civili nel novembre del 36 (quando, appunto, tolti di mezzo Sesto Pompeo e Lepido, gli venne conferita dal senato la tribunicia potestas a vita). Cfr. L.A. M ASCKIN , Il principato di Augusto, trad. ital., Roma 1956, e spec. S. M AZZAR INO , in G IANNELLI -M AZZARINO , Trattato di storia romana, II, p. 76. Sui vari aspetti tecnici e organizzativi della riform a dell’amministrazione statale (territoriale, finanziaria, militare ecc.) v. i contributi di vari autori pubblicati nel volume “Augustus. Stud i in occasione del bimillenario augusteo”, Roma 1938. Circa la pretesa dell’imperatore di voler essere considerato, anche nell’esplicazione di questa sua attività riformatrice, come un restauratore dell’ordine antico, è significativo, per esempio, che egli risuscitasse dopo qualche secolo di obliterazione la figura del praefectus urbi. Però, mentre a suo tempo il prefetto urbano veniva nominato ne urbs sine imperio foret (T AC ., Ann. VI 11), ossia per esercitare l’imperium in Roma durante l’assenza di quelli che normalmente ne erano rivestiti, ora invece chi portava quell’antico titolo non era altro che un funzionario imperiale incaricato d i sovraintendere all’ordine pubblico (e destinato a diventare poi uno degli organi più importanti del governo cesareo: cfr. G. V ITUCCI , Ricerche sulla praefectura urbi in età imperiale, Roma 1956). Del resto, con riferimento alla ripartizione della città in qualche centinaio di vici, si deve tener presente che ogni vicus aveva come centro sacrale un compitum, cioè una cappella che sorgeva a un crocicchio; in queste cappelle da tempo assai antico si usava venerare le immagin i dei Lari: ora vi si aggiunse il Genius dell’imperatore (da venerare,
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dunque, ad ogni angolo di strada), cfr G. V ITUCCI , s.v. Lares, in “Diz. epigr.”, cit., vol. IV p. 402 sgg. Riguardo alla celebrazione dei ludi saeculares, del 17 a.C., uno dei momenti più significativi nell’ambito della restaurazione religiosa e morale dello stato, sarà interessante richiamare due provvedimenti intesi a metterne in risalto la particolare solennità. Il primo è un senatusconsultum, emanato su proposta del console Gaio Silano, per concedere in via eccezionale di poter assistere ai ludi a coloro che l’anno prima erano caduti sotto le sanzioni della legislazione demografica di Augusto (C.I.L. VI 32323 = R ICCOBONO , Leges, Roma 1943 2 , p 274 sg.): [d(e) e(a) r(e) i(ta) c(ensuerunt), ut quoniam ludi iei] religio[nis] causa sun[t in]stituti neque ultra quam semel ulli mo[rtalium eos spectare licet..... ludos] quos [m]ag(istri) XVvir(um) s(acris) f(aciundis) [ed]ent, s(ine) f(raude) s(ua) spectare liceat ieis qui lege de marita[ndis ordinibus tenentur]. Il secondo provvedimento è rappresentato da un editto dei quindecimviri sacris faciundis (C.I.L. VI 32323 = R ICCOBONO , op. cit., p. 317 sg.): XVvir(i) s. f. dic(unt): Cum bono more et proinde celebrato frequentibus exsemplis, quandocumq[ue i]usta laetitiae publicae caussa fuit, minui luctus matrona[r]um placuerit, idque tam sollemnium sacroru[m l]udorumque tempore referri diligenterque opserva[r]i pertinere videatur et ad honorem deorum et ad [m]emoriam cultus eorum, statuimus offici nostri esse per edictum denuntiare feminis, uti luctum minuant. Nel campo dell’amministrazione provinciale è da rilevare l’importanza degli editti augustei ritrovati a Cirene pochi decenni or sono (su cui v., p. es., P. D E V ISSCHER , Les édits d’Auguste découverts à Cyrène, Louvain 1940). A parte le altre questioni particolari, qui si può osservare come il principe esercitasse i suoi poteri eminenti anche nelle province “senatorie”: il suo imperium proconsulare maius et infinitum - oltre che la sua auctoritas - gli consentivano di sovrapporsi al normale imperium proconsulare de l governatore (proconsul) della provincia “senatoria” di Creta e Cirene. Ma ancor più importante, nel quadro della documentazione di recente acquisita, è la testimonianza contenuta nella cosiddetta tabula Hebana. Questa tabula di bronzo, scoperta occasionalmente presso la etrusca Heba, od. Magliano in provincia di Grosseto (cfr. U. C OLI , in “Notizie degli Scavi di Ant.” ser. VIII vol. I, 1947, p. 55 sgg.), contiene una legge sulle onoranze funebri da tributare a Germanico (morto nel 19), in cui fra l’altro si dispone che alle diec i centurie senatorio-equestri intestate a Gaio Cesare e Lucio Cesare e istituite da Augusto nel 5 d.C. per procedere alla destinatio dei consoli e dei pretori se ne aggiungeranno ora altre cinque intestate al defunto Germanico. Su queste norme - prima ignote - relative al conferimento delle magistrature più elevate, sono da notare brevemente almeno
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due cose: da un lato che la scelta preliminare dei candidati (destinatio) era diventata dall’anno 5 d.C. frutto di una collaborazione col principe dell’ordine senatorio integrato da una rappresentanza qualificata dell’ordine equestre; dall’altro che tali operazioni della destinatio si svolgevano sotto la “protezione” de i defunti (ed eroizzati) giovani principi della famiglia imperiale, ed erano quindi circonfuse di quell’atmosfera di religiosità che Augusto volle presente in ogni suo atto di governo. Il sistema della destinatio, di cui ci ha informati la tabula Hebana, funzionò ancor a per qualche tempo, e infatti sappiamo che venne “aggiornato” nel 23, alla morte di Druso minore (figlio di Tiberio), con l’istituzione di altre cinque centurie destinatrici (sempre miste di senatori e cavalieri) intestate appunto all’eroe Druso. Poi, ancora sotto Tiberio, i cavalieri vennero messi da parte, cioè la nobiltà senatoria riuscì a ottenere dall’imperatore di estromettere l’ordine equestre dall’ingerenza che, a partire dal 5 d.C., aveva avuto nella carriera dei senatori, e d’allora in poi l’elezione di costoro alla pretura e al consolato fu un atto di esclusiva competenza dell’assemble a senatoria (sentiti, naturalmente, i desideri del principe): cfr. M AZZARINO , Trattato cit. p 555 sgg. Una testimonianza molto interessante circa la crescente esaltazione della persona dell’Augustus e i connessi sviluppi del culto imperiale è rappresentata da un editto emanato nel 10/9 a.C. dal proconsole d’Asia Paolo Fabio Massimo e a noi pervenuto in via epigrafica (D ITTENBERGER , O. G. I. S. 458; cfr. U. L AFFI , Le iscrizioni relative all’introduzione ecc., in “St. Class. e Or.” XVII 1967). Con tale editto il proconsole invitava le poleis della provincia (che erano formalmente autonome così come solo formalmente si può parlare qui di un invito e non di un ordine) ad abbandonare il vecchio calendario e ad introdurne uno nuovo avente come capodanno il 23 settembre, giorno natale di Augusto. Nel preambolo introduttivo dell’editto, e a sua motivazione, l’imperatore viene celebrato con le seguenti espressioni (all’inizio il testo è lacunoso): “.... se sia un giorno più felice o più utile quello natalizio del divinissimo Cesare, che giustamente potremmo considerare essere uguale al principio di tutte le cose, e se non nell’ordine naturale certo nel rispetto dell’utilità, giacché tutto ciò che decadeva e volgeva in rovina egli raddrizzò, e dette un altro volto a tutto il mondo, che avrebbe accolto con gran gioia la distruzione se non fosse nato Cesare, la comune felicità di tutti; perciò giustamente uno potrebbe ritenere che principio della vita e del vivere sia stato per lui quello in cui ha smesso di affliggersi d i esser nato”; cfr. S. M AZZAR INO , Il pensiero storico, cit., II 2 p. 387 sg.
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A penetrare nell’atmosfera ufficiale di devoto attaccamento verso l’imperatore e la sua famiglia ci è di guida anche un testo contenente le deliberazioni prese nel 4 d.C. dalla colonia di Pisa in segno di lutto per la morte di Gaio Cesare (C.I.L. XI 1421 = I. L. S. 140): ..... cum a. [d. II]II nonas Apriles (il 2 aprile) allatus esset nuntius C. Caesarem, Augusti patris patriae [po]ntif(icis) maxsumi custodis imperi Romani totiusque orbis terrarum praesi[dis filium, divi nepotem, post consulatum quem ultra finis extremas populi Ro]mani bellum gerens feliciter peregerat, bene gesta re publica, devicteis aut in [fid]em receptis bellicosissimis ac maxsimis gentibus, ipsum volneribus pro re pu[bli]ca exceptis ex eo casu crudelibus fatis ereptum populo Romano, iam designatu[m i]ustissimum ac simillumum parentis sui virtutibus principem coloniaeque no[st]rae unicum praesidium, eaque res nondum quieto luctu, quem ex decessu [L. C]aesaris fratris eius, consulis designati, auguris, patroni nostri prin[c]ipis [iu]ventutis, colonia universa susceperat, renovasset multiplicassetque ma[er]orem omnium singulorum universorumque, ob eas res universi decurio[ne]s colonique .... consenserunt ..., oportere ex ea die, qu[a ei]us deces(s)us nuntiatus esset usqu[e] ad eam diem qua ossa relata atque co[nd]ita iustaque eius manibus perfecta essent, cunctos veste mutata, templisqu[e d]eorum immortalium balneisque publicis et tabernis omnibus clausis, co[nv]ictibus sese apstinere, matronas quae in colonia nostra sunt sublugere di[em]que eum quo die C. Caesar obit, qui dies est a. d. VIIII K. Mart(ias) (il 21 febbraio), pro Alliensi lu[gub]rem memoriae prodi, notarique in praesentia omnium iussu ac vo[lun]tate caverique, ne quod sacrificium publicum neve quae supplica[tio]nes nive sponsalia nive convivia publica postea in eum diem eo[ve d]ie qui dies erit a. d. VIIII K. Mart(ias) fiant concipiantur indicantu[rve], nive qui ludi scaenici circiensesve eo die fiant spectenturve. Sulle imprese militari di Augusto, da lui stesso elencate nell’Index a partire dal cap. 26, è da vedere l’ampio commentario del M OMMSEN nella seconda edizione delle Res gestae, Berlin 1883. In particolare, per la sua politica con i Parti (su cui D. M AGIE , Roman rule, cit. I, p. 482 sgg.; II, p. l343 sgg.) è da tener presente anche la documentazione numismatica rappresentata, fra l’altro, d a due denarii (cfr. H. M ATTINGLY , Coins of the Roman empire in the British Museum, vol. I, p. 3 sg.) dei quali l’uno raffigura un Parto in ginocchio, che porge un vessillo, e reca la leggenda CAESAR AUGUSTUS SIGN(IS) RECE(PTIS), l’altro raffigura un re armeno in ginocchio e reca la leggenda CAESAR DIVI F(ILIUS) ARME(NIA) CAPT(A). Su Arminio e l’abbandono della politica di conquista in Germania, E. H OHL , in “Hist. Zeitschr.” 1943, p. 457 sgg.; I D . in “Sitzb. Deutsch. Ak. Berlin” 1951, p. 1 sgg. Per gli sviluppi del problema successorio, di recente L. L ESUISSE , L’aspect héréditaire de la succession impérial sous les JulioClaudiens, in “Les Étud. Class.” XXX (1962) p. 32 sgg.
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XI Consolidamento del regime imperiale. I giulio-claudi.
1. La personalità e il programma di Tiberio. - Il trapasso del principato nelle mani di Tiberio ebbe luogo senza scosse. Era il momento più delicato per la continuità del nuovo regime, ma Augusto con troppa cura aveva predisposto ogni cosa perché potesse verificarsi qualche sorpresa. Con i suoi poteri di correggente, Tiberio aveva già nelle mani le leve dello Stato; l’unica incognita, ma solo fino ad un certo punto, restava l’atteggiamento del senato, cui spettava l’investitura ufficiale del nuovo imperatore. Non era infatti da escludere che nel consesso potesse delinearsi, se non addirittura una corrente favorevole alla restaurazione della repubblica, almeno un movimento di opposizione al nuovo principe ad opera di qualche esponente della nostalgica nobilitas. Simili timori, che i fatti ben presto dimostrarono vani, è incerto se e fino a qual punto Tiberio realmente li concepisse. Così sembrerebbe dai resoconti piuttosto tendenziosi che alcuni storici, a cominciare da Tacito, ci hanno lasciato su questi avvenimenti, ove a Tiberio si attribuisce una grande ambizione mascherata da un’ancor più grande ipocrisia; invece, a veder le cose senza malanimo, si trattava soltanto della naturale circospezione da parte di Tiberio nell’intavolare le 213
prime relazioni col senato in veste di principe, e il malanimo di Tacito verso Tiberio, a più di mezzo secolo dalla sua morte, derivava dal giudicarlo colpevole di essersi fatto strumento, proprio lui che era un diretto discendente della più antica nobilitas, del definitivo consolidamento del nuovo regime. Legittimata dal senato la sua posizione di princeps, Tiberio mostrò di concepire il potere imperiale in maniera alquanto diversa dal suo predecessore. Legato per nascita alle antiche tradizioni nobiliari e ad esse molto più sensibile del padre adottivo, che proveniva da famiglia di sola dignità equestre, Tiberio rinunciò ad alcuni di quegli attributi che avevano sottolineato la preminenza personale di Augusto. Pertanto ricusò il titolo (o meglio, il nome) di imperator e quello di pater patriae e fu anche incerto se accettare l’epiteto di Augustus, ma poi si piegò ad assumerlo per non scardinare le basi ideologiche del nuovo regime, anche se fermamente rifiutò ogni forma ufficiale di onori divini. Il suo ideale sarebbe stato quello di instaurare una stretta collaborazione col senato nel governo dell’impero per conservare a Roma e all’Italia l’antica posizione di preminenza; ma il sistema del principato per sua natura rendeva oltremodo difficile tale collaborazione, e Tiberio, con tutto il suo buon volere, non ne ricavò che fama di ambiguità e d’ipocrisia. Eppure per lunghi anni egli si sobbarcò a una fatica per vari rispetti più difficile dell’opera rivoluzionaria di Augusto, quella cioè di mantenere il regime sui binari del “principato civile” resistendo a quanti avevano interesse alla sua trasformazione in un assolutismo dispotico.
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2. L’opposizione senatoria e il lungo ritiro di Tiberio. - In rispondenza con un simile programma di conservazione, Tiberio proseguì una politica estera fatta di cautela e moderazione. Ponendo un freno allo spirito avventuroso del figlio adottivo Germanico, che da tre anni operava oltre il Reno senza pervenire a risultati concreti e proporzionati agli sforzi, egli considerò lavata l’onta di Teutoburgo con la vittoria riportata nel 16 nel campo Idistaviso (sulla riva destra del Visuris, odierno Weser), e richiamò Germanico per affidargli una missione diplomatica presso i Parti. Raggiunto un accordo col re Artabano III, che aveva inaugurato una politica nazionalistica di tendenze apertamente antiromane, Germanico sulla via del ritorno morì improvvisamente in Siria (a. 19). Alimentata da coloro che odiavano Tiberio, si diffuse ben presto la voce che era stato proprio lui a far togliere di mezzo il figlio adottivo, geloso delle generali simpatie che quello riscuoteva a preferenza di Druso, suo figlio naturale. Vere o infondate che fossero queste dicerie, intorno alla famiglia di Germanico si raccolse un circolo di opposizione che ben presto fu bersagliato da una serie di processi di “lesa maestà” ispirati dalle mire ambiziose di Lucio Elio Seiano, il prefetto del pretorio di Tiberio. Questo cavaliere, oriundo di Volsinii (Bolsena), dopo essersi cattivate le simpatie del vecchio imperatore, si era audacemente proposto d’impadronirsi in qualche modo del potere facendo il vuoto nella famiglia imperiale, e per prima cosa gli riuscì (a. 23) di eliminare col veleno Druso (il figlio di Tiberio) dopo averne sedotta la moglie Livia, di cui peraltro invano chiese la mano all’imperatore. 215
Qualche anno dopo, mentre Tiberio si ritirava a Capri nauseato dai malintesi e dall’equivoco che sempre più avevano caratterizzato i suoi rapporti col senato, Seiano metteva nella peggior luce presso di lui la vedova di Germanico, Agrippina, provocando la deportazione di lei e del figlio maggiore. Nel 31 la potenza del prefetto toccò il culmine; Tiberio lo innalzò a suo collega nel consolato e ormai tutto sembrava autorizzarlo alle più rosee speranze. La prolungata assenza dell’imperatore (erano quattro anni che non rimetteva piede a Roma) già aveva fatto di Seiano l’arbitro dell’Urbe e dell’impero; ora egli ritenne fosse giunto il momento propizio per l’ultimo passo e ordì un complotto per sbarazzarsi di Tiberio. Ma questi, messo finalmente sull’avviso dalla cognata Antonia, la vedova di suo fratello Druso, ebbe tempo di aprire gli occhi e, senza abbandonare la sua solita cautela, di architettare un piano per la cattura e la soppressione dell’infedele ministro (a. 31). Le malefatte e il tradimento dell’uomo in cui aveva riposto tanta fiducia resero sempre più cupo e sospettoso l’ormai settantatreenne imperatore e lo spinsero a restarsene lontano dagli intrighi della capitale soggiornando a preferenza nell’isola di Capri. Secondo i malevoli racconti di Tacito e di Svetonio, egli avrebbe consumato i suoi ultimi anni nei più turpi piaceri, trascurando le cure di governo e abbandonando Roma in preda al terrore di una sequela di processi politici. Viceversa è un fatto che egli continuò ad adempiere ai suoi doveri di principe, come mostra il suo energico intervento nel 35 contro Artabano III per impedirgli d’insignorirsi dell’Armenia. 216
Anche il pensiero della successione fu per Tiberio causa di tormento. Costretto dai fondamenti ideologici del principato, come già Augusto, a non uscire dalla cerchia della famiglia imperiale, non aveva da scegliere che tra un uomo maturo (Claudio, figlio di suo fratello Druso) e due giovanissimi (Gaio, figlio di Germanico, e Tiberio Gemello, figlio di suo figlio Druso). Scartato il primo perché gli sembrava inetto al grave compito, non seppe decidersi fra gli altri due, e si astenne da una designazione preferenziale pur prevedendo che la successione sarebbe andata al maggiore d’età, Gaio, inviso a lui ma largamente popolare come figlio di Germanico. E proprio Gaio s’impadronì del potere all’indomani della sua morte, avvenuta in una villa presso Miseno il 16 marzo del 37. 3. L’esperimento assolutistico di Caligola (37-41). Quando all’età di 25 anni assumeva il principato nelle forme ormai consuete (investitura del senato, giuramento di fedeltà dei magistrati, dei cittadini, dei provinciali, oltre che dei soldati), Gaio, che era stato sempre tenuto nell’ombra da Tiberio, non aveva dato alcuna prova di sé. Ma, come figlio di Germanico, aveva dalla sua il favore del popolo e soprattutto dell’esercito. Erano stati i soldati ad affibbiargli l’affettuoso nomignolo di “scarponcino” (Caligola è da càliga, la calzatura dei legionari con cui, da bambino, aveva fatto la sua apparizione al seguito del padre durante le campagne oltre il Reno del 14-16), e le simpatie si erano moltiplicate dopo l’immatura morte di Germanico e le persecuzioni subite dalla sua famiglia ai tempi di Seiano.
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Il suo avvento fu salutato con favore anche dai ceti più elevati, che auspicavano un cambiamento dei sistemi piuttosto duri instaurati da Tiberio negli ultimi anni, e in effetti il giovane principe ispirò i primi mesi di governo ad una politica moderata e, almeno apparentemente, liberale arrivando finanche a ripristinare i comizi popolari. Ma di lì a poco si verificò un totale rivolgimento e Caligola scivolò rapidamente verso uno sfrenato assolutismo, che si manifestò anche nell’imporre il culto divino della sua persona (giunse anche a progettare d’introdurre una sua statua nel tempio di Gerusalemme, e fu solo per la sua morte repentina che fu evitata una tragedia). Attento a blandire il popolino con la più bassa demagogia, in rotta con la nobiltà vessata nelle persone e negli averi (le confische erano diventate un cespite ordinario per sopperire ai bisogni di una politica di larga spesa), l’imperatore non seppe nemmeno sfruttare l’enorme potenziale bellico di cui disponeva per rinverdire la gloria militare ereditata dal padre. Nel 39 passò il Reno alla testa di un forte esercito, ma poco dopo rientrò in Gallia senza aver nulla concluso; l’anno appresso mise in moto una grossa spedizione per la conquista della Britannia, ma nemmeno questa volta, pare, con serietà d’intenti. In quegli anni l’impero andò avanti per forza d’inerzia; unica via d’uscita era la morte dell’imperatore e, dopo il fallimento di due congiure, una terza riuscì e Caligola fu soppresso (24 gennaio del 41). 4. L’avvento di Claudio e i primi sviluppi della burocrazia. - La congiura, cui avevano partecipato 218
elementi dell’ordine senatorio, cavalieri e liberti del palazzo imperiale, si era prefissa soltanto l’eliminazione di Caligola, senza affrontare, come sembra, il problema della successione. Ma era un problema che s’imponeva con tutta l’urgenza e il senato, immediatamente convocato dai consoli in Campidoglio, prese a dibatterlo esaminando anche, nientemeno, l’opportunità di una restaurazione del regime repubblicano. Per noi è difficile dire quanti fossero i fautori di un simile indirizzo politico, che a un pacato esame della situazione non poteva apparire che un’utopia. Si trattava, in breve, di sovrapporre all’edificio pazientemente costruito da Augusto, e collaudato dalle prove di vari decenni, quelle stesse pericolanti strutture sulle cui rovine Augusto aveva edificato. Pertanto è da ritenere che la grande maggioranza del senato, lasciando cadere il progetto di una riforma costituzionale, si sia piuttosto soffermata sulla scelta di una personalità capace di raccogliere l’eredità dei Cesari e di continuarne l’opera nel maggior rispetto dei suoi privilegi. Però, assai prima che fra i senatori si delineasse un accordo, i pretoriani davano al problema la loro soluzione acclamando imperatore Claudio, fratello di Germanico e zio di Caligola, e il senato dové piegarsi a riconoscere il fatto compiuto, mostrando quanto fosse infondata la speranza sia di un cambiamento di regime, sia di avere un successore estraneo alla famiglia imperiale. Claudio aveva allora 51 anni; appassionato di studi storici (era stato istruito da Tito Livio) e amante dell’erudizione, era vissuto appartato dalla vita pubblica, alla quale sembrava negato soprattutto per certi difetti che ne compromettevano la 219
prestanza fisica. Suo zio Tiberio lo aveva giudicato inetto a succedergli, anche per la debolezza del carattere; ma si trattava di persona tutt’altro che sprovveduta, e debbono considerarsi esagerazioni malevole quelle degli autori antichi che lo descrivono come uno sciocco e un incapace. Se si tralasciano le poco onorevoli traversie in cui lo coinvolsero le malefatte delle mogli Messalina e Agrippina, Claudio appare, tra i principi della casa giulio-claudia, uno dei più validi continuatori dell’opera di Augusto. Fedele alla concezione del “principato civile”, egli si preoccupò infatti di consolidare il regime rendendolo più efficiente mediante la creazione di una burocrazia capace di coadiuvare l’imperatore nel disbrigo dei molteplici affari di governo. Per le varie branche dell’amministrazione furono istituiti appositi uffici, e la direzione ne venne affidata non a personaggi dell’ordine senatorio o equestre, ma a liberti della famiglia imperiale. Come nelle case della più ricca nobiltà una schiera di liberti e servi sbrigavano le più diverse incombenze, così servi e liberti imperiali accudivano nel palazzo alle più svariate mansioni, e poiché non esisteva una delimitazione precisa tra affari pubblici e privati dell’imperatore, alcuni di questi liberti, da segretari privati, si trasformarono in veri e propri funzionari imperiali. Si ebbe così un liberto a rationibus, capo dei servizi finanziari, un liberto a cognitionibus, preposto al funzionamento del tribunale imperiale (ufficio destinato ad assumere importanza sempre maggiore con lo allargarsi della diretta ingerenza del principe nella amministrazione della giustizia), un liberto ab epistulis per la corrispondenza ufficiale 220
dell’imperatore, un liberto a libellis (suppliche e petizioni in genere); e alcuni capi di questi uffici, come Pallante, Polibio, Narcisso e Callisto, raggiunsero una potenza pressoché illimitata. Questi “ministri”, che per le loro origini non si sentivano vincolati al rispetto delle tradizioni nobiliari, seppero infondere nella politica di Claudio una tendenza innovatrice che si manifestò, per esempio, nel conferimento ai notabili della Gallia del diritto di accedere alle magistrature e al senato (e invano la gelosa nobilitas cercò dì opporvisi), in larghe concessioni della cittadinanza romana a provinciali, nell’accrescere l’importanza dei cavalieri ammettendoli al governo di alcune province minori col titolo di procuratores. 5. Le altre realizzazioni di Claudio. - Anche nella politica estera la burocrazia di palazzo fece sentire la sua influenza, e fu sotto la spinta di Narcisso che Claudio si decise a intervenire in Britannia, per regolare una contesa dinastica tra due capi locali, e quindi a organizzare un corpo di spedizione che intraprese l’assoggettamento dell’isola. Dopo i successi del primo anno di guerra (43) veniva ridotta a provincia la regione sud-orientale, e mentre Claudio celebrava uno splendido trionfo, aveva inizio una serie di campagne per allargare la conquista e difenderla dalla minaccia delle popolazioni che premevano dal nord. Per il resto Claudio si attenne, sulle orme di Augusto e di Tiberio, a una prudente difesa dei confini, rinforzando le fortificazioni sul Reno e sul Danubio e riducendo nella condizione di provincia il regno vassallo di Mauretania, ove era scoppiata una 221
violenta rivolta antiromana. Meno fortunata fu la sua azione per affermare il prestigio di Roma nei confronti dei Parti; questi, anzi, sotto il re Vologese I recuperarono il loro predominio sull’Armenia gettando le premesse di un nuovo conflitto. Una cura particolare fu dedicata allo sviluppo delle opere pubbliche, fra cui si ricorderà la costruzione di due nuovi acquedotti, la sistemazione di un nuovo porto ad Ostia, il prosciugamento nell’Abruzzo, presso Avezzano, del lago Fucino (che se anche non riuscì completamente, rimane una delle opere più ammirevoli dell’antica ingegneria idraulica); in somma, tutto un fervore di opere in relazione con la vigorosa ripresa economica dopo gli sprechi di Caligola. Durante il principato di Claudio, verso il 49, si ebbe in Roma il primo provvedimento anticristiano. Le sue prime persecuzioni (o, piuttosto, vessazioni) il cristianesimo le aveva subite ad opera soprattutto dei Giudei, e - secondo alcuni - per reazione a questa ostilità l’imperatore Tiberio, visto che le aspettazioni messianiche dei cristiani non erano rivolte contro l’autorità romana, mentre l’intransigenza religiosa dei Giudei spesso esplodeva in sommosse antiromane, avrebbe proposto nel 35 al senato di riconoscere la nuova fede come religio licita. Il senato però avrebbe negato il prescritto riconoscimento ufficiale, lasciando il cristianesimo nella condizione di superstitio illicita (e, in quanto tale, perseguibile). Mentre l’intervento favorevole di Tiberio rimane dubbio, è invece un fatto che Claudio, come si legge in Svetonio (Claud. 25), “espulse da Roma i Giudei che incessantemente tumultuavano aizzati da 222
un certo Chresto”. Nel riportare tale notizia, Svetonio, o meglio la sua fonte, non comprese che in realtà non si trattava di una delle solite insurrezioni dei Giudei, capeggiata questa volta da un agitatore di nome Chresto, ma di disordini provocati in seno alla comunità giudaica di Roma dall’attiva propaganda dei primi fedeli di Cristo. Quanto poi al drastico provvedimento di Claudio, è chiaro che egli lo adottò senza potersi render conto che dietro a quelle infrazioni contro l’ordine pubblico fermentava un movimento spirituale capace di realizzare la trasformazione del mondo antico. Di non poco detrimento fu per Claudio la condotta della moglie Valeria Messalina, non solo per il disonore nella vita privata, ma anche per il capriccioso procacciamento di cariche e onori ai suoi favoriti, senza che l’imperatore riuscisse a tenerla a freno. Nel 48, invaghitasi di Gaio Silio, un ambizioso patrizio, Messalina non esitò a sposarsi segretamente con lui accordandosi per la destituzione di Claudio; questa volta però, messo sull’avviso da Narcisso, l’imperatore riuscì a superare la solita debolezza verso la moglie e lasciò che fosse soppressa. Per nulla più rispettabile si dimostrò Giulia Agrippina, che Claudio (pur essendo suo zio) sposò l’anno dopo; si trattava, inoltre, di una donna molto ambiziosa che, per essere figlia di Germanico e di Vipsania Agrippina (e, dunque, diretta discendente di Augusto), riteneva di aver diritto a un posto di primo piano nella vita dell’impero. Dal precedente marito Agrippina aveva avuto un figlio, Lucio Domizio Enobarbo, ed ella si propose di assicurargli 223
la successione al principato a danno dei due figli di Claudio e Messalina, Tiberio Claudio Britannico e Ottavia. Dopo aver fatto fidanzare con Ottavia il giovanissimo Domizio, ottenne l’anno dopo (50) di farlo adottare da Claudio (onde quello cambiò il suo nome in Nerone Claudio Druso Germanico Cesare) e quindi di metterlo sullo stesso piano di Britannico (ma col vantaggio di avere quattro anni di più). Naturalmente queste manovre suscitarono la reazione di quanti erano interessati alla successione di Britannico, tra cui il potente Narcisso; ma quando Agrippina si accorse che il suo piano stava per fallire, non ebbe scrupolo di fare avvelenare Claudio. Con l’appoggio di Afranio Burro, il prefetto del pretorio che doveva la nomina al suo favore, fece sì che il figlio fosse acclamato imperatore dai pretoriani di guardia al palazzo; e anche il senato, come già era accaduto per Claudio, non potette che limitarsi a dare il suo riconoscimento (13 ottobre 54). 6. Nerone e il consolidarsi dell’assolutismo. - Il potere imperiale era così venuto nelle mani di un giovane appena diciassettenne, ma gl’inizi del nuovo principato, oltre che dal giubilo popolare, furono accompagnati dalle più liete speranze della nobiltà. Forte dell’appoggio devoto e autorevole di Afranio Burro, Nerone risentiva anche i benefici influssi dell’alta personalità del suo precettore, il filosofo Seneca, ed egli inaugurò il suo governo con la solenne dichiarazione di voler rispettare le attribuzioni del senato e dei magistrati e di voler tenere ben distinte la sua domus e la res publica (ciò che il predecessore non aveva fatto). Però a questo 224
impegno, che pareva tradurre in atto la dottrina stoica del suo maestro sul “governo dell’uomo migliore”, Nerone rimase fedele solo per alcuni anni. Il suo cattivo genio fu dapprima la madre Agrippina; ostacolata nelle mire di imporre i suoi voleri come regina-madre, costei intraprese un pericoloso gioco minacciando di appoggiare le rivendicazioni dinastiche di Britannico, ma con l’unico risultato di provocarne l’eliminazione da parte del fratellastro. Per le stesse ragioni, quattro anni dopo (59), Agrippina fu irremovibile nell’opporsi all’ingresso nella famiglia imperiale di una donna ambiziosa come Poppea Sabina; ma Nerone, che era fermamente deciso a ripudiare Ottavia per sposarla, non indietreggiò dinanzi al matricidio e la fece assassinare. Ufficialmente si parlò di suicidio: Agrippina si sarebbe tolta la vita per il fallimento di un suo complotto contro il figlio, ed essendo noti i suoi intrighi la voce trovò credito; del resto la sua scomparsa fu generalmente accolta con grande sollievo. Purtroppo, era un gran freno che veniva a mancare per Nerone, ed egli cominciò a sottrarsi a mano a mano anche al controllo di Seneca e di Burro. Questi morì nel 62 (avvelenato, si disse), e poco dopo, avendo anche Seneca lasciato il suo ufficio a corte, il regime neroniano subiva un radicale mutamento di indirizzo. Fino a quel momento esso era stato ispirato da una tendenza nettamente favorevole agl’interessi della classe senatoria, riconoscibile soprattutto in provvedimenti di carattere finanziario, come la restituzione al senato del diritto di emettere moneta d’oro e d’argento (aurei e denarii; la concessione risulta poi 225
revocata intorno al 62-63), o la proposta, poi non attuata, di un’abolizione delle imposte indirette. Al contrario nel 64 venne effettuata una riforma monetaria consistente nel ridurre di peso sia l’aureus sia il denarius, con profitto non solo dello Stato, ma anche della piccola e media borghesia; questa infatti aveva nel denarius la sua moneta, ed ora il rapporto fra oro e argento risultava mutato a favore di quest’ultimo. Animato da una grande passione per la poesia e dotato di un certo talento istrionico, il principe non ebbe ritegno di esibirsi in pubblico e di blandire le masse popolari, cercando anche di diffondere un’atmosfera di gusti ellenizzanti propizia alle sue pretese di assolutismo. Ma, a parte l’odiosità attiratasi con l’uccisione di Ottavia, falsamente accusata di adulterio, la necessità di spremere denaro da ogni parte per alimentare la sua vita fastosa gli alienò anche le simpatie popolari, e quando, nel luglio del 64, Roma fu in gran parte distrutta da un terribile incendio, la voce pubblica lo additò come colpevole del disastro. Si disse che, mentre le fiamme divoravano gli edifici, egli ne traesse ispirazione per cantare la caduta di Troia, o anche che aveva gettato nel lutto tante famiglie per il capriccio di ricostruire più bella la città; tutte cose assai probabilmente non vere, ma che gli fecero temere una sommossa, onde cercò di placare gli animi addossando ai cristiani la responsabilità del flagello. 7. Dalla prima persecuzione cristiana alla fine di Nerone. - Già da qualche tempo l’opinione pubblica era ostile alla comunità cristiana, considerata una 226
raccolta di malfattori e di “odiatori del genere umano”. Per volere di Nerone, che cercava anche con questo mezzo di blandire le masse, l’autorità stava dando libero corso alle accuse contro i cristiani, rei di professare una religione non ufficialmente ammessa (superstitio illicita), e incolpati di ateismo (essi veneravano un solo Dio e non riconosciuto), di lesa maestà e di tradimento dei costumi nazionali. Ora poi venne scatenata la persecuzione, per fortuna limitata alla sola città di Roma, e secondo la tradizione cristiana, non molto distante dai fatti e pienamente attendibile, subirono allora il martirio gli apostoli Pietro e Paolo. L’anno dopo la scoperta di una vasta congiura ordita dal consolare Gaio Calpurnio Pisone diede l’avvio a un nuovo bagno di sangue (anche Seneca fu costretto ad aprirsi le vene), e la repressione fu tanto più spietata quanto maggiori erano le sostanze da confiscare ai condannati. Preso da una frenesia di godimenti e di piaceri, Nerone dedicò i due anni successivi (66-67) ad un viaggio in Grecia, ove partecipò ai giuochi istmici e a varie gare, naturalmente mietendo allori dovunque ed esaltandosi al punto di concedere la libertà alla Grecia. Questa concessione fece aumentare il malcontento delle altre province, oppresse dal più rapace fiscalismo per contribuire al fasto della corte imperiale, e specialmente delle province occidentali, ove ben presto scoppiarono vari moti di ribellione. Il primo a sollevarsi fu il governatore della Gallia Lugdunense Gaio Giulio Vindice, un senatore di origine gallica, e poco dopo all’insurrezione si unirono Servio Sulpicio Galba, che reggeva la Spagna citeriore e Marco Salvio Otone, governatore 227
della Lusitania. Vindice fu battuto dall’esercito di Germania rimasto fedele a Nerone, ma Galba alla testa delle sue legioni passò in Italia senza incontrare ostacoli. Nerone poteva contare sull’appoggio dei pretoriani, ma quando anche questi si ribellarono e (allettati dalla promessa di un forte donativum) acclamarono imperatore Galba, non gli rimase che togliersi la vita (9 giugno del 68). Troppo solide erano ancora le fondamenta dell’edificio imperiale se esso riuscì ad emergere indenne dal malgoverno neroniano. Le antiche tradizioni saldamente radicate in tanta parte della nobiltà, l’infaticabile intraprendenza della borghesia, l’efficienza degli eserciti erano evidentemente forze tali da operare quasi automaticamente in favore della conservazione dell’impero nonostante le carenze del governo centrale. Così il valente generale Gneo Domizio Corbulone, al termine di una lunga e brillante campagna, ottenne che il principe partico Tiridate si assoggettasse a ricevere la corona dell’Armenia dalle mani di Nerone come suo vassallo (a. 66). Venne anche rinsaldato, dopo il fallimento della rivolta capeggiata dal la regina Budicca (a. 60-61) il dominio sulla Britannia, mentre fu assai più difficile venire a capo della grande insurrezione giudaica scoppiata nel 66 e destinata a cessare solo quattro anni dopo con l’assedio e la distruzione di Gerusalemme. E quando, con Nerone, si estinse la famiglia giulio-claudia e scomparve l’ultimo detentore della auctoritas augustea per privilegio ereditario, quelle stesse forze fecero sì che l’inevitabile crisi si componesse rapidamente in un nuovo assetto che, senza rinnegare il passato,
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assicurava l’apporto di fresche energie alle fortune dell’impero. Tra le principali fonti letterarie a noi pervenute sul principato di Tiberio figurano l’operetta del contemporaneo Velleio Patercolo, pubblicata nell’anno 30, e poi opere del II sec. (gli Annales di Tacito, libb. I-VI; la Vita di Svetonio) e del III sec. (la Storia Romana di Cassio Dione, libb. LVII e LVIII). Com’è noto, lo scritto di Velleio Patercolo è ispirato da una “tendenza” encomiastica in netto contrasto con quella più o meno accentuatamente sfavorevole che anima gli autori posteriori, a cominciare da Tacito: donde un grosso problema critico che parte dalla ricerca delle fonti primarie e si sviluppa nell’analisi dei diversi interessi materiali e delle varie istanze ideologiche che confluirono nel determinare la fisionomia dei singoli filoni della tradizione. La bibliografia sugli autori citati è vastissima; qui basterà rinviare a S. M AZZARINO , Il pensiero storico classico, cit., II, 2. Tra le numerose monografie dedicate a studiare complessivamente la figura e l’opera di Tiberio, v. F.B. M ARSH , The reign of Tiberius, London 1931; E. C IACERI , Tiberio successore di Augusto, Milano 1944 2 . Di grande interesse, e assai dibattuto, è il problema sulla posizione ufficiale che Tiberio aveva al momento di assumere la successione. Fondamentale su questo punto è il passo di Velleio Patercolo (II 121): cum ... senatus populusque Romanus postulante patre eius (cioè Augusto), ut aequum ei (cioè a Tiberio) ius in omnibus provinciis exercitibusque esset, quam erat ipsi, decreto complexus esset (etenim absurdum erat non esse sub illo, quae ab illo vindicabantur, et qui ad opem ferendam primus erat, ad vindicandum honorem non iudicari parem). Il conferimento a Tiberio (decretato dal senato nell’anno 13 d.C. a richiesta di Augusto) di un aequum ius in omnibus provinciis exercitibusque introduceva nell’esercizio del potere imperiale, in luogo della precedente collegialità disuguale, una collegialità uguale (ad vindicandum honorem parem)? Stante l’estrema vecchiezza d i Augusto, il problema non può evidentemente avere riflessi d i carattere sostanziale ma soltanto formale, e sotto questo rispetto si deve rispondere che all’ideologia del potere imperiale allora vigente l’ipotesi di una collegialità uguale non poteva non essere estranea. In proposito, v., di recente, D. T IMPE , Untersuchungen zur Kontinuität des frühen Prinzipats, in “Historia” Suppl. V (1962); L. D UPRAZ , Autour de l’association de Tibère au principat, in “Mus. Helv.” 1963, p. 172 sgg. Sull’articolarsi dell’opposizione a Tiberio, da un lato, negli stessi ambienti di palazzo, una corrente fautrice di una politica di
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dichiarato assolutismo (capeggiata da Antonia, figlia del triumviro e vedova di Druso maggiore, e pertanto cognata di Tiberio), dall’altro la “resistenza” dei circoli senatorii, v. W. A LLEN , The political atmosphere of the reign of Tiberius, in “Trans. Proc. Amer. Phil. Ass. ” LXXII (1941) p. 1 sgg. Lo studio dei rapporti tra principe e senato ha dato stimolo a vari lavori dedicati a una presentazione panoramica dei personaggi che componevano l’assemblea e di cui si sia conservato il ricordo. Tali lavori, in ultima analisi, rientrano nella più ampia cornice delle ricerche di carattere prosopografico, intese cioè ad offrirci una serie alfabetica di “medaglioni” ridotti all’essenziale dei personaggi grandi e piccoli del mondo romano antico (E. K LEBS , H. D ESSAU , P. VON R OHDEN , Prosopographia imperii Romani saec. I-III, Berolini 1897-98; in corso di pubblicazione la seconda edizione iniziata nel 1933 da E. G ROAG e A. S TEIN e giunta ora alla lettera I (Berolini 1966). Per quanto riguarda la composizione del senato nell’età giulio-claudia, v. S.J. D E L AET , De Samenstelling van den Romeischen Senaat gedurende de eerste eeuw van het Principat (28 voor Ch., 68 na Chr.), Antwerpen 1941; LT. S CHNEIDER , Zusammensetzung des römischen Senates von Tiberius bis Nero, Diss., Zürich 1942. Sulla posizione che, scostandosi da quella di Augusto, Tiberio assunse di fronte al potere imperiale, sono assai significativi sia i suoi atteggiamenti contrari agli onori divini (v. M. R OSTOVZEV , L’empereur Tibère et le culte imperial, in “Rev. hist.” 1930 p. 26 sgg.), sia la rinuncia a certe mediazioni per una più larga intesa tra classi sociali, in particolare fra ordine senatorio e ordine equestre; illuminante su questo punto l’abbandono del sistema introdotto da Augusto per la destinatio dei magistrati più elevati (vedi il capitolo precedente). Per l’iniziativa di Tiberio, favorevole al riconoscimento del cristianesimo come religio licita, il punto di partenza è un passo d i Tertulliano (Apol. V 2 sg.): Tiberius ergo, cuius tempore nomen Christianum in saeculum introivit, adnuntiata sibi ex Syria Palaestina, quae illic veritatem ipsius divinitatis revelaverant, detulit ad senatum cum praerogativa suffragii sui. Senatus, quia non ipse probaverat, respuit. Caesar in sententia mansit, comminatus periculum accusatoribus Christianorum. Ciò che soprattutto lascia dubbiosi circa l’attendibilità di questa notizia è la necessità di ammettere che in un senatusconsultum dell’età di Tiberio - cui il dato di Tertulliano dovrebbe risalire - si sapesse far chiaramente quella distinzione fra Giudei e Cristiani che invece risulta ancora oscura ai tempi di Claudio. Per il principato di Caligola, fonti principali restano la Vit a svetoniana e il lib. LIX di Cassio Dione, mentre il racconto d i Tacito è andato interamente perduto nella lacuna che ha inghiottito i libri VII-X degli Annales. Tra le opere dedicate a uno studio
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complessivo dell’opera e della personalità di Caligola, si ricorda quella di J.P.V.D. B ALSDON , The emperor Gaius, Oxford 1934. Nel parlare di una sua “pazzia” le fonti, specie Svetonio, hanno esasperato l’espressione della loro ostilità verso l’indirizzo assolutistico impresso al governo imperiale. Una delle linee direttrici del nuovo regime fu la netta contrapposizione ai precedenti tiberiani, ed è sotto questa luce che si deve valutare la restaurazione dei comizi popolari, che Tiberio aveva finito per abolire come ormai superati dalla situazione costituzionale creata dal principato. Uno degli aspetti più caratteristici della nuova concezione teocratica del potere imperiale si riflette in un passo della Vita di Svetonio (Calig. 35, 3) ove nella cornice di un episodio di crudeltà e di capriccio è in realtà da scorgere un intervento dell’imperatore per regolare l’arcaico sacerdozio del rex Nemorensis, intervento cui egli si indusse per essersi identificato con Iuppiter Latiaris (cfr. S. M AZZARINO , Trattato cit. p. 167). Per il principato di Claudio fonti principali restano gli Annales di Tacito (libb. XI e XII, relativi agli anni dal 47 al 54), la Vita di Svetonio, Cassio Dione nei libri LX e LXI (quest’ultimo nell’epìtome di Xifilino). Da ricordare anche l’Apocolokyntosis di Seneca, in cui raggiunge i toni più aspri la “tendenza” delle fonti generalmente avversa alla figura di Claudio. Questa è stata nell’insieme largamente rivalutata dalla storiografia moderna; cfr. per esempio V. M. S CRAMUZZA , The emperor Claudius, Cambridge Mass., 1940; T.F. C ARNEY , The changing picture of Claudius, in “Acta Class.” III (1960) p. 94 sgg. Sulla realizzazione di Claudio che più appare meritevole d i favorevole apprezzamento, vale a dire l’impianto di un organismo burocratico capace di assicurare una maggiore efficienza nel funzionamento dell’amministrazione imperiale, vedi in generale H.G. P FLAUM , Les procurateurs équestres sous le Haut-Empire romain, Paris 1950, p. 36 sgg. Nel quadro di questa attività di potenziamento e di riorganizzazione degli organi di governo, una cura particolare fu dedicata a migliorare il funzionamento degli uffici annonarii e delle distribuzioni di frumento (frumentationes) che si tenevano periodicamente e gratuitamente a beneficio dei cittadini di Roma: un impegno fattivo che peraltro non giunse all’abolizione della praefectura frumenti dandi a suo tempo istituita da Augusto (cfr. G. V ITUCCI , Nota al cursus honorum di L.Iulius Romulus ecc. in “Riv. Filol.”, 1947, p. 252 sgg. Un altro degli aspetti più notevoli dell’attività novatrice di Claudio, la sua politica di apertura verso le istanze dei maggiorenti della Gallia, ci è testimoniato, oltre che dal racconto di Tacito (Ann. XI 23-25), anche da un documento di primario interesse, la cosiddetta tabula Claudiana di Lione (C.I.L. XIII 1668= I.L.S. 212),
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un’epigrafe che ha parzialmente conservato il testo del discorso pronunziato in senato dall’imperatore nell’anno 48 per sostenere la sua proposta de iure honorum Gallis dando. Sulla conquista della Britannia, dopo H AVERFIELD , The Roman occupation of Britain, Oxford 1924, si veda E. Birley, Roman Britain and the Roman army, Kendal 1953. Per il principato di Nerone fonti principali restano i libri dal XIII al XVI degli Annales di Tacito (il libro XVI s’interrompe ai fatti dell’anno 66), la Vita di Svetonio, Cassio Dione (libri LXII e LXIII nell’epìtome di Xifilino) e vari accenni negli scritti di Seneca. L’esame critico della tradizione rappresentata da questi autori è oggetto di un’apposita ricerca di K. H EINZ , Das Bild Kaisers Nero bei Seneca, Tacitus, Sueton und Cassius Dio, Diss., Bern 1946, ed è anche alla base della ricostruzione della figura e dell’opera di Nerone fatta da M.A. L EVI , Nerone e i suoi tempi, Milano 1949. Vedi anche G. W ALTER , Néron, Paris 1955. Particolari aspetti di vita romana in età neroniana (e non nel III sec., come volle anche il Niebuhr) si riflettono nel Satyricon di Petronio; cfr. S. M AZZARINO , Trattato cit., p. 171 sg. Sui primi anni di governo “costituzionale”, fino a quando non scoppiò insaziabile il dissidio con l’assemblea senatoria, cf. F.S. L EPPER , Some reflections on the quinquennium Neronis, in “Journ. Rom. Stud.” XLVII (1957), p. 95 sgg. La svolta in senso assolutistico, preceduta dal matricidio e dall’allontanamento di Seneca, si sviluppò attraverso una serie di provvedimenti che, mentre danneggiavano la classe nobiliare, parallelamente favorivano l’economia dei ceti inferiori. Dopo un fallito tentativo di riforma tributaria consistente nell’abolizione delle imposte indirette, come i dazi e le dogane, una delle tappe più significative di questo sviluppo fu la riduzione del peso dell’aureus da 1/40 a 1/45 di libbra (cioè da grammi 7, 70 circa a g. 7, 30 circa) e del denarius da 1/84 a 1/96 di libbra (cioè da grammi 3,90 circa a g. 3, 40 circa). Fu un’operazione che si svolse a tutto vantaggio dello Stato (cioè dell’imperatore, che con la stessa quantità d’oro emetteva adesso non più 40, ma 45 aurei, e con la stessa quantità d’argento non più 84, ma 96 denarii) e della piccola borghesia che, per pagare i suoi debiti ai ricchi signori, disponeva ora di un nominale - il denarius di diminuito valore reale (cfr. E.A. S YDEN HAM , The coinage of Nero, London 1920; L.C. W ESP , Gold and silver coin standards in the Roman empire, New York 1941). Un altro provvedimento importante nel campo dell’amministrazione finanziaria era stato quello di sottrarre la gestione del vecchio Tesoro (aerarium Saturni) ai magistrati che la esercitavano per antica tradizione (i questori, poi per qualche tempo, i pretori) e di affidarla a due funzionari imperiali, i praefecti aerarii Saturni (T AC ., XIII 28 sg.).
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Sull’incendio di Roma, che certamente non fu doloso, e la persecuzione dei Cristiani, v. F.W. C LAYTON , Tacitus and Nero’s persecutions of the Christians, in “Class. Quart.”, XLI (1947), p. 8l sgg.; K. B UCHNER , Tacitus über die Christen, in “Aegyptus”, XXXIII (1953) p. 181 sgg.; J. B EAUJEU , L’incendie de Rome en 64 et les Chrètiens, in “Latomus”, XIX (1960) p. 65 sgg., 291 sgg.
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XII Dai Flavi agli Antonini. L’ascesa della borghesia italica e provinciale.
1. La svolta degli anni 68-69. - Alla morte di Nerone quattro principi si susseguirono nel giro di un anno e mezzo alla testa dell’impero contendendosi il primato con l’appoggio degli eserciti: nella carenza di un prestigio personale, sia pure ereditario, il nuovo imperator non poteva affermarsi che con la forza delle armi vittoriose. Al vecchio Galba, che non aveva saputo destreggiarsi tra le opposte fazioni del senato, e per di più aveva disgustato i pretoriani con la sua severità, le maggiori difficoltà cominciarono a venire dagli eserciti di Germania, verso i quali aveva mostrato la sua avversione per il soffocamento del moto di Giulio Vindice. Questi eserciti acclamarono imperatore il loro comandante Aulo Vitellio e si prepararono a marciare su Roma, ove qualche giorno dopo una tempesta ancora più rovinosa si abbatteva sul capo di Galba. Infatti nel gennaio del 69 i pretoriani insorgevano contro di lui, l’assassinavano ed acclamavano imperatore Salvio Otone. Assicuratosi con abile azione il favore del senato e del popolo, ottenuto il consenso dell’Italia e il giuramento di fedeltà degli altri eserciti, Otone si apprestò a fronteggiare la calata delle legioni di Germania e quindi mosse a incontrarle nell’Italia
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settentrionale. La battaglia decisiva si svolse in aprile a Betriacum (presso Cremona); quivi Otone scontò il duplice errore di non aver atteso i rinforzi delle legioni delle province danubiane e di non aver partecipato di persona al combattimento, e per non sopravvivere alla disfatta si diede la morte. Entrato in Roma alla testa delle sue truppe, Vitellio si preoccupò soprattutto di ricompensarle immettendole largamente nelle coorti pretorie e urbane; per il resto lasciò mano libera ai suoi generali (sebbene ostentasse il massimo ossequio verso il senato) e si abbandonò alla crapula e ai divertimenti. L’esito del conflitto aveva però lasciato un grande scontento fra le legioni dell’esercito danubiano, arrivate troppo tardi in soccorso di Otone; anche nell’esercito di Oriente il giuramento di fedeltà a Vitellio era stato prestato senza entusiasmo, e ai primi di luglio tutte queste forze furono concordi nell’acclamare imperatore Tito Flavio Vespasiano, che dal 67 dirigeva le operazioni contro gl’insorti della Giudea. Dalla loro parte era non solo il vantaggio numerico, ma anche quello di una maggiore efficienza, perché le truppe di Vitellio durante il soggiorno in Italia e in Roma si erano infiacchite nei bagordi, e soprattutto avevano molto sofferto per il cambiamento di clima. Così, senza attendere l’arrivo delle legioni d’Oriente, riuscì a quelle dell’esercito danubiano di battere i vitelliani (ancora a Betriacum, nell’ottobre) e di risolvere la situazione in favore di Vespasiano. Prima dell’ingresso dei vincitori in Roma, il praefectus urbi Tito Flavio Sabino, fratello di Vespasiano, cercò di concludere un accordo con Vitellio per una pacifica abdicazione, ma i pretoriani 235
si opposero ad ogni compromesso, ed espugnato ed incendiato il Campidoglio, dove Sabino si era asserragliato, lo uccisero e si apparecchiarono alla più strenua resistenza. Dopo aspri combattimenti per le vie della città, i castra praetoria vennero presi d’assalto, Vitellio fu trucidato (20 dicembre) e il giorno dopo Vespasiano, rimasto unico capo dell’impero, otteneva il riconoscimento del senato. 2. Il principato “borghese” di Vespasiano. - Tito Flavio Vespasiano era nato presso Rieti nel 9 d.C. da famiglia di sola dignità equestre, ma era riuscito a percorrere una brillante carriera raggiungendo sotto Claudio il consolato. La mediocrità delle sue origini e la modestia del suo tratto, unite alle solide qualità dimostrate nei vari incarichi, l’avevano raccomandato a Nerone per conferirgli l’importante comando della guerra giudaica; quelle stesse qualità, tipiche della borghesia italica, si affermavano ora con lui alla testa dell’impero, contendendo all’antica nobiltà romana il monopolio delle cariche goduto fino a quel momento. Infatti era soprattutto una nuova mentalità che con l’avvento di Vespasiano si affermava nel governo della cosa pubblica, meno incline al fasto del luxus nobiliare e più sensibile alle esigenze di una sana amministrazione. Debitore all’esercito della sua elezione, ma fermamente deciso a mantenere il regime sui binari del “principato civile”, egli cercò anzitutto di risolvere il problema costituzionale dei suoi poteri personali. Considerandosi, e ben a ragione, non sufficientemente dotato di auctoritas per fondarvi il suo primato nella direzione dell’impero, si fece conferire dal senato e dal popolo un esplicito 236
mandato attraverso la promulgazione della cosiddetta lex de imperio Vespasiani, ove tra l’altro si legge che egli veniva autorizzato a compiere qualsiasi atto nell’interesse dello Stato utique quaecumque ex usu rei publicae maiestate divinarum huma[na]rum publicarum privatarumque rerum esse censebit, ei agere facere ius potestasque sit, ita uti divo Aug(usto) Tiberioque Iulio Caesari Aug(usto) Tiberioque Claudio Caesari Aug(usto) Germanico fuit. Forte di questa solenne investitura, che lo sottraeva ai mutevoli umori degli eserciti, l’imperatore poté attendere a una severa restaurazione della disciplina militare, smarritasi in due anni di guerre civili, e quindi procedere alle opportune riforme. Da buon borghese, si preoccupò in particolar modo di rimettere in sesto la finanza statale, e vi pervenne sia con una politica di rigide economie, accompagnata da un fiscalismo anche troppo esoso, sia incrementando i redditi del patrimonio imperiale, che per effetto delle continue confische si era dilatato al punto da fare dell’imperatore il più grande proprietario terriero. Più difficile gli riuscì invece realizzare il desiderio di mantenere sul piano della cordiale collaborazione i suoi rapporti col senato. Infatti, nonostante egli vi avesse introdotto nuovi elementi presi dal fior fiore della borghesia italica e delle province occidentali, nell’assemblea continuarono a prevalere taluni atteggiamenti dell’antica nobilitas ispirati ad una certa sostenutezza verso il principe, tuttavia senza dar luogo a conflitti insanabili. Risolti i principali problemi di governo, Vespasiano ebbe cura di rimettere ordine nei diversi campi dell’amministrazione periferica, e tale scopo 237
fu raggiunto anche mediante la creazione di nuovi organismi cittadini (colonie e municipi) e col promuovere l’assimilazione dei provinciali attraverso larghe concessioni del diritto di cittadinanza romana o, almeno, del “diritto latino” (che fu esteso a tutta la Spagna). A questo fervore di opere per il consolidamento delle basi politiche e sociali dello Stato si accompagnò un’energica politica per la difesa dei confini e la conservazione della pace. La rivolta dei Batavi, che scoppiata nel clima turbinoso dell’anno 69 sembrò per un momento sfociare nella secessione della Gallia, fu prontamente domata l’anno appresso, e la saggia rinuncia a troppo drastici provvedimenti repressivi fece sì che la pax Romana tornasse ben presto a regnare in quelle regioni. Assai più dura, a causa del suo carattere, fu nell’estate dello stesso anno 70 la conclusione della guerra giudaica che il figlio Tito portava a termine con l’espugnazione di Gerusalemme, la distruzione del Tempio, la riduzione del paese a provincia romana (provincia imperiale di Giudea). La vittoria fu sottolineata dalla celebrazione di un magnifico trionfo e più tardi dalla dedica dell’arco che ancor oggi si erge sulla via Sacra. Altre operazioni furono condotte sui confini del Reno e del Danubio, per fortificarvi il sistema difensivo, e in Britannia, ove la conquista fu allargata fino alla Scozia. Nell’assiduo sforzo di consolidare l’impero, Vespasiano si preoccupò anche di assicurare la continuità del regime e perseguì una vera e propria politica dinastica, preparando assai per tempo la successione a Tito. Fin dal 71 gli fece conferire la tribunicia potestas, lo ebbe collega in sette consolati, e, 238
cosa più importante e a un tempo inconsueta, lo nominò prefetto del pretorio (carica riservata ai cavalieri), evidentemente per garantirsi la fedeltà dei pretoriani; e quando dopo dieci anni di principato morì, il 23 giugno del 79, il potere passò senza scosse nelle mani di Tito (Titus Flavius Vespasianus, primogenito e dunque omonimo di suo padre). 3. Tito e Domiziano. L’impero sotto i Flavii. Eccellenti erano le prove di intelligenza e di capacità che per tanti anni Tito aveva dato a fianco del padre, ma erano note anche una certa sfrenata ambizione e una tendenza ai piaceri smodati che a molti facevano temere si preparasse l’avvento di un nuovo Nerone. Accadde invece che la responsabilità dell’impero, ormai tutta sulle sue spalle, gl’ispirò consigli di moderazione e di prudenza, e in breve egli seppe conciliarsi quelle simpatie che gli valsero l’epiteto di “delizia del genere umano”. Qui si esprimeva soprattutto la soddisfazione degli ambienti tradizionalisti, e quindi in primo luogo dei circoli senatorii, per il fatto che Tito, anche se perdutamente innamorato della principessa giudaica Berenice, la bellissima sorella del re Erode Agrippa II, si era ben guardato dal prenderla in moglie e dal rinnovare, così, lo scandalo che a suo tempo avevano dato Antonio e la sua unione con l’egizia Cleopatra. Purtroppo il suo principato venne funestato da un susseguirsi di calamità. Nell’agosto del 79 una terribile eruzione del Vesuvio seppelliva le città di Pompei, Stabia ed Ercolano (e vi perì anche Plinio il Vecchio, il dotto naturalista che, per studiare troppo da vicino il fenomeno, fu una delle prime “vittime 239
della scienza”). L’anno dopo un nuovo incendio, paragonabile quasi a quello neroniano, distruggeva una gran parte dell’Urbe, e per di più faceva la sua apparizione lo spettro della pestilenza. Per la ricostruzione di Roma e per soccorrere le vittime di tanti flagelli Tito stanziò somme enormi, e con una generosità tale, che il suo successore si trovò poi in gravi difficoltà finanziarie. Un’improvvisa malattia lo stroncava, a soli 42 anni, il 13 settembre dell’81, e il principato passava nelle mani del fratello Tito Flavio Domiziano. Nato il 24 ottobre del 51, Domiziano stava per compiere i trent’anni quando l’acclamazione dei pretoriani e il riconoscimento del senato lo consacravano principe dell’impero. Non aveva, dunque, una età troppo giovanile, ma era sprovvisto di esperienza perché sia il padre sia il fratello, pur pensando alla eventualità di una sua successione, l’avevano tenuto in disparte dagli affari di governo giudicando il suo carattere ribelle e ambizioso. Giunto al potere assai prima di quanto potesse sperare, Domiziano avvertì immediatamente il disagio di non possedere alcun prestigio personale e, abbandonata la politica conciliante col senato già seguita dal padre e dal fratello, imboccò la via del più autoritario dispotismo. Pertanto ebbe cura di potenziare la burocrazia di palazzo, di accrescere l’importanza del consilium principis, formato dai suoi consiglieri privati, e soprattutto di assicurarsi il favore degli eserciti e del popolo, premesse indispensabili per imporre la pretesa di essere ubbidito come dominus e venerato come deus. Assillato ben presto dalle difficoltà finanziarie, cercò di aumentare le entrate con vari mezzi, fra i 240
quali non ultimo una serie di confische a danno della ricca nobiltà, che con il suo atteggiamento ostile gli offriva continue occasioni di imbastire processi di lesa maestà. Del resto il suo fu un malgoverno più dal punto di vista formale (per il carattere assolutistico e l’abbandono delle tradizioni del “principato civile”) che sostanziale, come mostrano l’assiduo controllo esercitato di persona sul funzionamento della amministrazione centrale e sul comportamento dei governatori di provincia. Domiziano cercò anche di restaurare il culto tradizionale arginando il propagarsi delle nuove religioni orientali; infierì specialmente contro i Giudei, ma anche i Cristiani vennero perseguitati (a. 95), e fra costoro caddero vittime anche Tito Flavio Clemente, cugino dell’imperatore, e sua moglie Flavia Domitilla. Sarà appena il caso di dilungarsi a rilevare quanta strada avesse già fatto il proselitismo cristiano: gli autori classici, legati alla tradizione pagana, passano la cosa sotto uno sprezzante silenzio, ma è un fatto che già nel corso del primo secolo un senatore di rango consolare, come Flavio Clemente, aveva abbracciato la nuova fede. Assai notevole fu anche la ripresa della politica di espansione sui confini dell’impero. Allargata ulteriormente la conquista della Britannia e avviata l’opera di romanizzazione dell’isola, l’imperatore condusse anche una guerra vittoriosa contro la gente germanica dei Catti e ne occupò il territorio procedendo ad una rettifica del confine assai vantaggiosa per la difesa. Meno brillante fu l’esito della lotta contro il re dei Daci, Decebalo, che si concluse con una pace di compromesso, ma servì a 241
contenere per il momento la minaccia di quei barbari sulle province danubiane. Nonostante questi innegabili successi, Domiziano si trovò sempre più invescato nella lotta contro l’opposizione senatoria, e la necessità di difendersi da una serie di congiure lo portò a instaurare negli ultimi anni un regime di terrore che rese ancora più cupo il carattere tirannico del suo principato. Dopo vari tentativi falliti, riuscì un complotto ordito da personaggi delle classi più elevate d’accordo con liberti e schiavi imperiali, e il 18 settembre del 96 Domiziano fu pugnalato nei suoi appartamenti. Con lui si estingueva la dinastia dei Flavii, che nell’insieme aveva largamente meritato dell’impero preservandone la coesione contro la minaccia delle incipienti tendenze separatiste e, soprattutto, attuando un’illuminata politica, fatta insieme di conservazione e di innovazione. Conservazione specialmente del costume e della disciplina tradizionali (le ripetute espulsioni dei filosofi greci da Roma risposero ad un bisogno di difesa contro le distruttive ideologie anarcoidi da essi professate), innovazione specialmente per l’immissione nella classe dirigente di nuovi elementi attinti dalle aristocrazie municipali dell’Italia e delle province. A tale proposito è notevole che proprio in questo periodo si ebbe in Roma la istituzione di scuole superiori a spese dello Stato; evidentemente, l’imperatore avvertiva l’esigenza di promuovere e indirizzare la preparazione di una nuova classe di governo, mentre in precedenza tale istruzione aveva sempre rivestito un carattere privato.
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E fu appunto il progressivo inserimento di queste nuove forze che, continuando ad allargare le basi politiche dell’impero a scapito della gelosa nobiltà di Roma (e pertanto ostinata nella sua opposizione), preparò e contribuì al fulgore dell’era successiva. Di pari passo, intanto, procedeva il diffondersi della humanitas romana, e se l’Italia continuò a restare (ma ancora per poco) al centro del movimento artistico e letterario, ad essa già si affiancavano le province più romanizzate, come la Gallia, la Spagna e l’Africa ormai pronte a raccogliere e sviluppare l’antica tradizione culturale. 4. Nerva e il principato “adottivo”. - Alla morte di Domiziano il senato elesse imperatore il vecchio consolare Marco Cocceio Nerva, uomo di antica nobiltà patrizia, che era stato fra gli esponenti della congiura. Egli però non aveva un passato di condottiero, e la sua elezione provocò il malumore dei pretoriani, sia per il loro attaccamento a Domiziano, sia perché avrebbero preferito scegliere essi stessi il successore. Nonostante la promessa del solito donativum, il malumore non tardò a trasformarli in ribelli, e l’imperatore, dopo una vana resistenza, dovette subire l’umiliazione di consegnare loro alcuni fra i congiurati, che furono immediatamente passati per le armi. Dopo questo sconcertante episodio ritornò una certa calma, ma a Nerva apparve subito l’estrema debolezza della sua posizione e pensò di rafforzarla adottando come figlio un uomo capace di riscuotere i consensi del senato e dell’esercito. La sua scelta cadde su Marco Ulpio Traiano, allora governatore della Germania, che all’atto stesso della sua 243
adozione (nell’autunno del 97) venne designato alla successione e rivestito poco dopo della potestà tribunicia e dell’imperium proconsulare. Aveva inizio così la serie dei principi “adottivi”, sotto i quali l’impero toccò il suo apogeo traducendo in vigorosa spinta di espansione in ogni campo tutte le sue energie, senza più soffrire troppo il travaglio della lotta tra principe e senato. La nobiltà senatoria, abbandonato ormai da tempo ogni sogno di un’impossibile restaurazione repubblicana, auspicava che il potere imperiale venisse acquisito non per diritto di sangue, ma per meriti personali capaci di contraddistinguere nel suo seno “l’uomo migliore”. La natura del principato, al contrario, era tale da esigere quasi di necessità una politica dinastica, come già Augusto per primo aveva mostrato. Ora la circostanza che gl’imperatori da Nerva ad Antonino Pio non avessero discendenza maschile rese possibili, mediante l’adozione del successore, sia la scelta del “migliore” sia la continuità dinastica di padre in figlio (adottivo). La nuova atmosfera politica, così diversa da quella che aveva regnato sotto i Flavii, e specialmente sotto Domiziano, venne salutata dalla nobilitas con l’entusiasmo che si può cogliere, per esempio, nelle parole di Tacito (Agr. 3) quando scriveva che Nerva aveva mostrato come si potessero “conciliare due cose un tempo inconciliabili, il principato e la libertà”. Naturalmente, non era nemmeno da pensare che il principato facesse qualche passo indietro o soltanto si fermasse sulla parabola che stava percorrendo verso il più rigido assolutismo. Il senato, invece che 244
trascurato o perseguitato, si vide restituito nella sua dignità; ma nel tempo stesso che gli mostrava la sua deferenza, il principe continuava ad accentrare nelle sue mani il potere, e quindi a sviluppare una burocrazia sempre più invadente nei campi un tempo riservati alla competenza dei senatorimagistrati. Ad ogni modo una distensione vi fu, e vi concorse anche il fatto che, mentre il senato si veniva rapidamente mutando, se non nei suoi ideali, nella sua composizione per effetto dell’ingresso sempre più largo di elementi provinciali, ugualmente provinciali (cioè romani di famiglia residente in provincia) furono due dei più grandi imperatori di questo periodo, Traiano e Adriano. E fu appunto nel corso del II secolo che il sistema amministrativo del principato, attraverso una più armonica fusione e il perfezionamento delle sue strutture, raggiunse il grado più alto di efficienza. La determinazione sempre più precisa dell’ambito delle funzioni pubbliche e la loro inserzione nella cornice di un rigoroso ordine gerarchico vennero anche esteriormente espresse nei titoli, diventati di uso comune sotto Marco Aurelio, di clarissimus per gli appartenenti all’ordine senatorio e di egregius per gli appartenenti all’ordine equestre (o anche di perfectissimus o di eminentissimus per i gradi più elevati). Fu specialmente la carriera equestre che venne inquadrata entro schemi determinati fino a raggiungere stabilità di struttura sotto Adriano. Avvenne allora che, divenuta completamente pubblica l’amministrazione del palazzo imperiale, ne scomparvero i liberti che dirigevano i vari dicasteri per cedere il posto a procuratores, e questi erano 245
cavalieri al pari degli altri procuratores preposti ai vari uffici amministrativi in ogni parte dell’impero. Anche le prefetture, all’apice della carriera equestre, vennero ordinate secondo una scala gerarchica che dal tempo di Traiano si svolse secondo i gradi della prefettura dei vigili, dell’annona, dell’Egitto, del pretorio. Sorvolando su altri particolari, è almeno da ricordare che sempre nel II secolo venne migliorata la situazione fiscale col passaggio della riscossione dei tributi dal sistema delle società appaltatrici (publicani) a quello della gestione diretta. Nell’insieme, l’impero vide attenuarsi in certo grado la sua fisionomia di organizzazione per lo sfruttamento delle province a beneficio della città dominante, e dall’accrescersi dei consensi sempre maggior impulso doveva ricevere la diffusione della romanità, sentita come apportatrice di ordine e di pace universale. Questo processo toccò ora il suo apogeo, favorito dall’esistenza di un’unica grande area monetaria, dalla tendenza verso un comune sistema giuridico, dall’affermarsi del latino in tutto l’occidente (nel mondo orientale il greco aveva tradizioni culturali troppo valide, e continuò a imporsi come seconda lingua dell’impero). Agricoltura, industria, commerci, potenziati anche da una fitta rete stradale (ma per i trasporti si usò a preferenza la più economica via marittima o fluviale), prosperarono di pari passo con la vita intellettuale. Poeti, oratori e letterati, a parte quelli di lingua greca, provennero non solo dall’Italia, ma anche dalla Spagna e specialmente dall’Africa. Dappertutto, poi, vi fu una notevole fioritura delle arti, specie dell’architettura, creatrice di monumenti che ancor oggi da un capo all’altro del Mediterraneo 246
parlano con la più grande immediatezza della civiltà di Roma. 5. Traiano e la ripresa dell’espansione territoriale. Dopo il breve principato di Nerva, il nuovo clima politico si rispecchia nell’impero di Traiano (98117). Oriundo della Spagna, una delle province più romanizzate, il nuovo imperatore era un tipico rappresentante di quella borghesia municipale che i Flavii avevano inserito nella classe dirigente. Figlio di un consolare, Traiano aveva anch’egli raggiunto il consolato ordinario nel 91 per i suoi meriti di valoroso condottiero e di prudente amministratore. L’adozione di Nerva lo raggiunse mentre, come governatore della Germania, stava curando il rafforzamento delle difese sull’alto Reno, ed egli continuò ad attendervi anche dopo aver ricevuto la notizia che alla morte del padre adottivo (27 gennaio del 98) il potere era passato nelle sue mani. Sicuro che in Roma nessun pericolo poteva minacciarlo, si trattenne ancora un anno a sistemare la frontiera dell’alto Danubio e quindi, nella primavera del 99, fece il suo ingresso nella capitale fra le più entusiastiche accoglienze. Con una consumata abilità di politico che uguagliava le doti di capitano, Traiano seppe improntare a reciproco rispetto le sue relazioni col senato, mostrandosi in ogni occasione pieno di ossequio verso l’assemblea, che lo ripagò col titolo di optimus. Tutto questo, peraltro, non portò ad alcun sostanziale mutamento del rapporto fra attribuzioni del senato e poteri del principe, che continuarono a restare preminenti nella direzione 247
politica dell’Italia e dell’impero. Pertanto è difficile dire se fu veramente sotto l’influenza del senato, oppure no, che egli svolse all’interno un’azione per vari aspetti conservatrice. In quest’ambito sono almeno da ricordare le sue provvidenze intese a impedire che l’incipiente declino economico, sociale e demografico facesse decadere l’Italia dalla secolare funzione di spina dorsale dell’impero. Pertanto, riallacciandosi a un progetto di Nerva, egli sviluppò l’istituto degli alimenta, consistente nel sostenere l’agricoltura mediante la concessione di prestiti ipotecarii a modico interesse ai proprietari di terre, e nel devolvere poi gli interessi introitati all’allevamento e all’educazione di un certo numero di ragazzi. Ma il campo in cui egli certamente impose la sua personalità fu quello della politica estera, ove due problemi in particolare si ponevano per la sicurezza dell’impero. Si trattava, da un lato, di allontanare dalle province danubiane il pericolo dei Daci, già fattosi minaccioso sotto Domiziano, dall’altro di arrivare ad una stabile sistemazione dei rapporti con i Parti, l’ormai secolare e irriducibile nemico di Roma sul confine orientale. Della risoluzione di questi due problemi egli fece il centro del suo programma, e stimò che solo con le armi avrebbe potuto raggiungerla in maniera radicale. La campagna contro i Daci si svolse in due riprese, negli anni 101-102 e 105-106 e, al termine di un’aspra lotta (raffigurata negli episodi più salienti sulla colonna che ancora si erge nel foro Traiano), si concluse con la disfatta del re Decebalo e la riduzione a provincia di un vasto e ricco territorio al di là del Danubio. La Dacia divenne così il baluardo 248
avanzato dell’impero nell’Europa centrale, e fu rapidamente romanizzata mediante il trapianto di numerosi coloni, la cui lingua ancor oggi si continua nei dialetti romeni. Alla lotta contro i Parti Traiano dedicò gli ultimi tre anni del suo principato. Preceduta dalla riduzione a provincia dell’Arabia (cioè del regno degli Arabi Nabatei, che dei territori compresi fra l’Asia Minore e l’Egitto era l’unico rimasto ancora soggetto a Roma nella forma indiretta del vassallaggio), la guerra prese le mosse da uno dei tanti episodi della lunga contesa per il predominio dell’Armenia, ove il re dei Parti Cosroe aveva imposto la sovranità del fido Partamasiri. Entrato nell’Armenia nei primi mesi del 114, Traiano non accettò le profferte di vassallaggio di Partamasiri e dichiarò la regione provincia romana; quindi avanzò vittoriosamente fino al Golfo Persico e, occupate una dopo l’altra Babilonia, Seleucia e la capitale Ctesifonte, istituì le altre due province di Mesopotamia e di Assiria, mentre Cosroe era costretto a fuggire. Il successo era stato folgorante, e mai prima di allora l’impero aveva abbracciato territori così vasti. Ma proprio mentre sarebbe stato assai opportuno un periodo di raccoglimento per consolidare le nuove conquiste, scoppiava in Egitto e in Cirenaica, provocata dall’elemento giudaico, una furiosa rivolta antiromana che si propagò anche nei territori appena occupati, ove i Parti ripresero la lotta guidati dal principe Partamaspate. Costretto a ridimensionare il suo programma di conquista, Traiano si rassegnò a lasciar sopravvivere un regno partico, mutilato della Mesopotamia, e ne incoronò sovrano Partamaspate come vassallo di Roma. Poté 249
quindi provvedere a domare la rivolta giudaica, ma intanto Cosroe stava per tornare alla riscossa; si rendevano necessari nuovi grandiosi preparativi e l’imperatore partì alla volta di Roma, ma durante il viaggio si ammalò e morì in Cilicia a Selinunte (agosto 117). Troppo impegnativo si era rivelato il piano di distruggere lo Stato partico, e soprattutto troppo pericoloso per l’economia generale della difesa dell’impero; tale almeno lo giudicò Publio Elio Adriano, che, appena salito al principato, si affrettò a dare un diverso indirizzo alla politica orientale di Roma. 6. Il nuovo corso di Adriano. - Anche la successione di Adriano era stata preceduta da un’adozione, fatta da Traiano quasi in punto di morte; lo affermò Plotina, la vedova dell’imperatore, e sebbene molti ne dubitassero (a ragione, probabilmente), nessuno osò sollevare obiezioni. Raggiunto in Antiochia dalla notizia della morte del padre adottivo, Adriano vi fu acclamato imperatore dalle truppe e poco dopo gli arrivò il riconoscimento del senato. Al pari di Traiano, Adriano era un romano di Spagna (erano nati entrambi a Italica, la colonia fondata nel 206 a.C. da Scipione presso Siviglia), e anch’egli aveva percorso una brillante carriera distinguendosi da ultimo nella guerra partica. Partendo per l’Italia, Traiano gli aveva lasciato il comando delle forze in Oriente; ora, a quarantun anni, si trovava sulle spalle il pesante fardello dell’impero, e in primo luogo la responsabilità dell’impresa contro i Parti rimasta incompiuta. Su 250
questo punto egli non ebbe esitazioni, e, considerando poco profittevole per l’impero la ripresa della politica aggressiva di Traiano, rinunziò senz’altro alle nuove conquiste oltre l’Eufrate e alla stessa provincia di Armenia, che tornò nell’antica condizione di stato vassallo. L’Arabia e la Dacia furono invece conservate e potenziate mercé il loro definitivo inserimento nel sistema provinciale come province “imperiali”. Fermamente convinto della necessità di non espandere ulteriormente l’impero, ma di aumentarne piuttosto la coesione migliorando l’organizzazione in tutti i campi, Adriano provvide a sviluppare i quadri degli uffici amministrativi e intraprese un’instancabile azione di diretta sorveglianza che si esplicò attraverso una serie di lunghi viaggi nelle varie province. Nel corso di tali viaggi ispezionò di persona gli eserciti e i loro apprestamenti, controllò le finanze locali, diede impulso all’amministrazione della giustizia e ai lavori pubblici, ovunque cementando con la sua presenza i vincoli dell’unità imperiale e guadagnandosi l’entusiastica adesione dei sudditi che, specie in Oriente, gli attestarono la loro devozione venerandolo come dio. Oggetto di cura particolare fu la sicurezza dei confini, che egli cercò di assicurare con grandiose opere di difesa, tra cui si deve almeno ricordare la costruzione in Britannia di una linea fortificata, comprendente anche un muro, largo circa 3 metri e alto 6, che per 117 km tagliava tutta l’isola dal Solway Firth al Mare del Nord (Newcastle upon Tyne). Naturalmente, il programma difensivo dell’imperatore, che si concretò anche in un potenziamento dell’esercito, non poteva del tutto 251
escludere le guerre, tra cui la più impegnativa fu quella combattuta dal 132 al 135 contro i Giudei, che erano nuovamente insorti e opposero la più accanita resistenza prima di lasciarsi piegare. In politica interna Adriano si mostrò rispettoso del senato come Traiano, anche se il suo programma di riorganizzazione amministrativa dell’impero lo portò di necessità a intromettersi in campi tradizionalmente riservati alla competenza dei senatori, destandone il più vivo malcontento. E, in ultima analisi, fu proprio lui ad avviare quel processo evolutivo che si concluse sotto Diocleziano con la riduzione a provincia dell’Italia e con il suo livellamento alle altre province. Adriano divise infatti l’Italia in quattro distretti, preponendo a ciascuno un consularis, cioè un alto funzionario imperiale che vi esercitava la giurisdizione civile (cfr. S.H.A., Vita Hadr. 22). Sebbene fosse appassionato cultore di lettere ed arti, non trascurò di dedicare la sua attenzione a nessuno dei problemi di governo, e, fra l’altro, con l’approvazione dell’editto “perpetuo” provvide ad una definitiva codificazione delle norme di diritto emanate annualmente dai pretori. Negli ultimi anni, che trascorse nella sua splendida villa presso Tivoli (Villa Adriana), l’imperatore si preoccupò della successione; non avendo avuto figli, adottò prima (a. 136) il giovane Lucio Ceionio Commodo (poi L. Aelius Caesar), che gli premorì, poi Tito Aurelio Antonino, che gli successe pochi mesi dopo, il 10 luglio del 138. 7. Gli Antonini e la fine dell’impero liberale. - Tito Aurelio Antonino (ora Imp. Caes. T. Aelius Hadrianus 252
Antoninus Aug.), che era nato nel Lazio, a Lanuvio, ma da famiglia originaria della romanizzatissima Gallia Narbonese, aveva allora 52 anni, e i molti uffici di governo lodevolmente ricoperti lo indicavano come degno continuatore dell’opera dei suoi predecessori. Le fonti mettono in rilievo la dirittura del suo carattere, la nobiltà dei sentimenti, l’attaccamento al dovere che informarono la sua azione a grande equilibrio e decoro: ciò che va posto in relazione con il suo atteggiamento conciliante verso l’assemblea senatoria. Con questa, che aveva avuto di che dolersi per l’invadente politica accentratrice di Adriano e che minacciava di negare al defunto imperatore la consueta apoteosi (cioè di consacrarlo ufficialmente divus), Antonino seppe abilmente destreggiarsi; con qualche concessione riuscì a placarne i risentimenti verso il padre adottivo e ne ottenne per sé il cognome di Pio. Ma il suo programma differiva da quello di Adriano solo per il desiderio di instaurare una più stretta intesa col senato, senza sacrificare nessuna delle prerogative del potere imperiale; per il resto si propose anch’egli di perfezionare l’organizzazione civile e militare dell’impero e di potenziare il sistema di sicurezza dei confini sia con una complessa azione diplomatica, sia con la costruzione di opere difensive (come la nuova linea fortificata in Britannia, circa 100 Km a nord di quella di Adriano). Quando Antonino Pio venne a morte, il problema della successione non si poneva; essa era già stata regolata più di vent’anni prima secondo la volontà di Adriano che, nell’atto stesso di adottare Antonino, gli aveva fatto adottare il diciassettenne 253
Marco Annio Vero e il piccolo Lucio Ceionio Commodo (figlio di Lucio Elio Cesare). Annio Vero, vissuto dopo l’adozione col nome di M. Aelius Aurelius Verus Caesar nel palazzo imperiale presso Antonino, ne aveva sposato la figlia Annia Galeria Faustina, e il 7 marzo del 161 gli successe col nome di Marco Aurelio Antonino (Imp. Caes. M. Aurelius Antoninus Aug.). Marco Aurelio era allora sui quarant’anni, e li aveva trascorsi interamente fra gli studi nutrendosi specialmente di dottrina stoica, senza mai partecipare agli affari di governo. Quest’ultima circostanza lo metteva in condizione d’inferiorità rispetto ai predecessori, ma dai severi dettami dello stoicismo egli attinse tutta l’energia necessaria ad affrontare i nuovi doveri, resi più ardui da un complesso di avversità e di pericoli. Uno dei suoi primi atti fu quello di innalzare a correggente dell’impero il fratello (per adozione) Lucio Ceionio Commodo, che si chiamò ora Imperator Caesar L. Aurelius Verus Augustus. Così, per la prima volta, titolari della potestà imperiale furono allora due Augusti; ma la collaborazione non si dimostrò proficua, del che nelle fonti si dà la colpa a Lucio Vero, il quale avrebbe continuato nella sua vita di ozi e di piaceri. Eppure più che mai opportuno sarebbe stato per Marco Aurelio riuscire a realizzare una collaborazione a così alto livello; infatti, mentre tanta parte restava da attuare della politica di pacifico sviluppo dell’impero promossa da Adriano e da Antonino Pio, egli dovette invece sobbarcarsi a una lunga serie di campagne di guerra. Non per questo tralasciò di affrontare i complessi problemi della riorganizzazione amministrativa, e 254
sebbene fosse rispettoso del senato non esitò (seguendo l’esempio già dato da Adriano con l’istituzione dei quattro consulares) a sottrargli il governo dell’Italia per riordinarlo ed affidarlo a nuovi funzionari imperiali, i iuridici. Ma ad imporsi con eccezionale gravità erano ancora i problemi che Traiano aveva tentato di risolvere con la forza delle armi, quello della frontiera danubiana e quello della frontiera partica. Già peggiorate sotto Antonino Pio, le relazioni con i Parti arrivarono alla rottura per l’aggressività del re Vologese III, che, dopo aver imposto una sua creatura sul trono d’Armenia, invase anche la provincia di Siria. Furono necessari cinque anni di guerra, dal 162 al 166, per ripristinare la situazione, che fu anche migliorata con l’occupazione dell’Osroene al di là dell’Eufrate. Appena terminata la guerra partica, si profilò per l’impero una nuova e assai più grave minaccia ad opera delle popolazioni barbariche dell’Europa centrale che, spinte da un vasto movimento migratorio, invasero la Dacia e superarono il Danubio arrivando anche in Italia, ove posero l’assedio ad Aquileia. A tutto questo si aggiungeva poi il flagello di un’epidemia di peste. Marco Aurelio s’impegnò personalmente nella difesa, e la guerra si svolse in due fasi: la prima (167-168) si concluse con la cacciata degli invasori al di là del Danubio; la seconda, che l’imperatore condusse da solo essendo morto nel 169 Lucio Vero, si svolse dal 169 al 175 per sottomettere le popolazioni dei Quadi, dei Marcomanni e degli Iazigi. Durissimi furono i disagi e i pericoli che l’esercito romano dovette affrontare in questa campagna oltre il Danubio, e la ferocia 255
della lotta traspare anche dalla sua descrizione sui bassorilievi della colonna Antonina (in piazza Colonna). I barbari furono obbligati a riconoscere il protettorato romano, obbligandosi a fornire truppe ausiliarie; ma non ebbe tregua l’imperatore costretto nello stesso anno 175 a muovere verso l’Oriente, ove l’ambizioso governatore Gaio Avidio Cassio aveva usurpato il potere imperiale. Ristabilita in quelle regioni la sua autorità, Marco Aurelio ritornò sulla frontiera danubiana, ove Quadi, Marcomanni e Iazigi avevano ripreso le armi, ma non riuscì a concludere la guerra. Stroncato dalla peste il 17 marzo del 180 a Vindobona (Vienna), suggellava con la morte nell’accampamento la sua vita di filosofo-imperatore, che con impegno di stoico aveva tenuto fino all’ultimo il suo posto di responsabilità. Con la scomparsa di Marco Aurelio aveva termine la serie degli imperatori adottivi e, insieme, la politica liberaleggiante degli Antonini. Già nel 177 Marco Aurelio, rinnovando l’esperimento già fatto con Lucio Vero, si era associato all’impero come Augustus Lucio Aurelio Commodo, nato dal suo matrimonio con Annia Galeria Faustina. Sperava forse in un miglioramento delle pessime inclinazioni del giovane, oppure riteneva di non poter altrimenti assicurare un più pacifico trapasso dei poteri alla sua morte; ad ogni modo nel 180 l’impero si trovò nelle mani di un diciannovenne infatuato di sé e sfrenatamente dispotico. Atteggiandosi a novello Ercole, Commodo si curò solo d’ingraziarsi popolino e pretoriani; per la nobiltà senatoria ricominciarono le persecuzioni e, col terrore, si
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diffuse dovunque il disordine amministrativo e l’indisciplina negli eserciti. Sembrava di essere tornati ai tempi più cupi di Domiziano, e come allora si ebbe un susseguirsi di macchinazioni finché, nell’ultimo dell’anno del 192, Commodo cadde vittima di una congiura di palazzo che portò all’impero del prefetto urbano Tito Elvio Pertinace. Sul costituirsi e sul valore della tradizione a noi pervenut a intorno agli avvenimenti dei 68-69 (principalmente Tacito, Historiae libri I-III e Svetonio, Vite di Galba, Otone e Vitellio; inoltre anche Plutarco, Vite di Galba e di Otone) v. P. Z ANCAN , La crisi del principato nell’anno 69 d.C., Padova 1939. Perdutosi il seguito delle Historiae di Tacito dopo la parte iniziale del V libro, e ridotto il racconto di Cassio Dione (libri LXIV-LXVII) al compendio di Xifilino, fonte principale per l’età dei Flavi rimangono le biografie di Svetonio (su cui v. p.es., H.R. G RAF , Kaiser Vespasian. Untersuchungen zu Suetons Vita divi Vespasiani, Stuttgart 1937). Per i fatti della guerra giudaica e le varie sue connessioni, fonte assai importante è il contemporaneo Flavio Giuseppe, su cui vedi W. W EBER , Josephus und Vespasian, Berlin 1921. Sull’emergere della figura di Vespasiano fra i pretendent i all’investitura imperiale, G.E.F. C HILVER , The army in politics, A.D. 68-70, in “Journ. Rom. Stud.” XLVII (1957) p. 29 sgg. La cosiddetta lex de imperio Vespasiani è edita in C.I.L. VI 930 = I. L. S. 244; su di essa v. M.A. L EVI , in “Athenaeum” N. S. XVI (1938) p. 85 sgg. Sul risanamento delle finanze e il riordinamento dell’organizzazione tributaria, v. C.H.V. S UTHERLAND , Aerarium and fiscus during the early empire, in “Am. Journ. Philol.” LXVI (1945) p. 151 sgg.; F. M ILLAR , The fiscus in the first two centuries, in “Journ. Rom. Stud.” LIII (1963) p. 29 sgg. Il dato di Svetonio (Vesp. 16, 3) sull’ammontare delle entrate che Vespasiano avrebbe dichiarato necessario per evitare squilibri nel bilancio statale è sicuramente da, respingere. Si legge, in fatti, che l’imperatore fu ... ad manubias et rapinas necessitate compulsum summa aerarii fiscique inopia; de qua testificatus sit initio statim principatus, professus quadringenties millies opus esse, ut res p. stare posset. Quattrocentomila volte (quadringenties millies) centomila sesterzi (sottinteso, secondo l’uso) fanno 40 miliardi di sesterzi, cifra assolutamente esagerata, derivante da un probabile errore di trascrizione, e da ridurre forse a 400 milioni d i sesterzi (cfr. S. M AZZARIN O , Trattato, cit. p. 246 sg.). Come punto
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di riferimento si può tener presente P L IN ., Nat. Hist. XII 84, dove si valuta in cento milioni di sesterzi all’anno lo squilibrio della bilancia commerciale derivante dalle importazioni dall’Oriente. A proposito dei rapporti fra imperatore e senato, un quadro panoramico dei componenti l’assemblea in B. S TECH , Senatores Romani qui fuerint inde a Vespasiano usque ad Traiani exitum, (“Klio” Beib. X) Leipzig 1912. Sull’incremento dato alla diffusione della romanità, specialmente nella Spagna, R.K. M C E LDERRY , Vespasian’s reconstruction of Spain, in “Journ. Rom. Stud.” VIII (1918) p. 53 sgg. e, in generale, M. R OSTOVZEV , Storia economica e sociale dell’impero romano, cit., p. 123 sgg. Sulla rivolta dei Batavi, v. R. A NDREOTTI , La lealtà gallic a nella rivolta di Giulio Civile, in “Atti V Congresso Studi Romani”, II, Roma 1940, p. 526 sgg.; sull’ampliamento della conquista nella Britannia, E. B IRLEY - T. D AVIES P R ICE , The first Roman occupation of Britain, in “Journ. Rom. Stud.” XXV (1935) p. 58 sgg. Su Tito, H. P RICE , Titus amor ac deliciae generis humani, in “Class. Weekly” XXXIX (1945-6) p. 58 sgg.; J. A. C ROOK , Titus and Berenice, in “Amer. Journ. Philol.” LXXII (1951) p. 162 sgg. Su Domiziano, e la tendenza a lui avversa che predomin a nella storiografia antica, v. H. N ESSELHAUF , Tacitus und Domitian, in “Hermes” LXXX (1952) p. 222 sgg.; sui caratteri e sulle manifestazioni del suo assolutismo teocratico, K. S COTT , The imperial cult under the Flavians, Stuttgart - Berlin 1936, p. l02 sgg. Sulle cure di Domiziano per il buon funzionamento della amministrazione provinciale, H.W. P L EKET , Domitian, the senate and the provinces, in “Mnemosyne” XIV (1961) p. 296 sgg. Sulle sue imprese militari H. B R EUNERT , Zum Chattenkriege Domitians, in “Bonn. Jahrb.” CLIII (1953) p. 97 sgg.; E. K ÖSTLIN , Die Donaukriege Domitians, Tübingen 1910; C. P ATSCH , Der Kampf um de n Donauraum unter Domitian und Traian, in “Sitzb. Akad. Wien” 1937, p. 38 sgg. Per il periodo da Nerva a Commodo il racconto di Cassio Dione, che occupava i libri LXVIII-LXXIII, ci è giunto nel compendio di Xifilino, e nemmeno completo perché si è perduta la storia del principato di Antonino Pio e dei primi anni di M. Aurelio. Perdute anche le biografie imperiali (da Nerva a Elagabalo) composte da Mario Massimo al tempo dei Severi, perduta la parte iniziale delle Res gestae di Ammiano Marcellino, che prendevano le mosse da Traiano (il primo dei libri superstiti è il XIV, relativo ai fatti dal 353 in poi), non ci restano che le operette di Aurelio Vittore, di Eutropio, di [Rufio] Festo, la Epitome de Caesaribus, le Historiae adversus paganos di Orosio e, di gran lunga più importante, la Historia Augusta. Sotto questo nome si suole designare una grossa raccolta di biografie imperiali, da Adriano a Numeriano, che
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abbracciano dunque gli anni dal 117 al 285, salvo una lacuna per il periodo dal 244 al 253, da Filippo l’Arabo all’inizio di Valeriano. Le biografie si presentano come opera di sei autori diversi (Elio Sparziano, Giulio Capitolino, Vulcacio Gallicano, Elio Lampridio, Trebellio Pollione, Flavio Vopisco) e, recando quasi tutte una dedica o a Diocleziano o a Costantino, si presentano altresì come composte in età dioclezianeo-costantiniana. In esse non mancano notazioni precise - sorrette talvolta anche dalla citazione d i documenti autentici - ma queste rimangono come affogate in un contesto di notiziole assurde e di aneddoti manifestamente fantastici, presentati anch’essi con l’appoggio di documenti che sono certamente falsi. Senza dire, poi, dei molti anacronismi e dell’uso che in alcune biografie si riscontra delle opere di Aurelio Vittore e di Eutropio. È, nell’insieme, una strana caratteristica, e fu grande merito del Dessau quello di aver intuito e preso a dimostrare che le Vite della Historia Augusta erano opera di un solo autore vissuto non al principio, ma alla fine del IV secolo (H. D ESSAU , Ueber Zeit und Persönlichkeit der Scriptores Historiae Augustae, in “Hermes” XXIV, 1889, p. 337 sgg.). Si apriva allora la Historia Augusta-Forschung, uno dei capitoli più interessanti della storiografia antica, e l’indagine continua ancora oggi con grande fervore per chiarire sempre meglio la “tendenza” del compilatore e, soprattutto, gli scopi che egli si prefisse nella sua “falsificazione”. In breve, può dirsi che l’autore delle Vite va considerato come espressione dei circoli senatorii romani dell’età a cavallo fra il IV e il V secolo e delle loro idee: a cominciare dall’impegno in difesa della tradizione pagana di fronte al cristianesimo trionfante. Della vastissima bibliografia sull’argomento, v. da ultimo S. M AZZARINO , Il pensiero storico, cit., II, 2 p. 214 sgg. Per concludere questo cenno sulle fonti, si ricordi che “dalla morte di Marco Aurelio” e cioè dal regno di Commodo, cominciano le Storie di Erodiano, uno storico contemporaneo e di notevole valore, del quale F. C ASSOLA ha dato recentemente una bella traduzione con introduzione e note (ed. Sansoni, Firenze 1968). Per i contemporanei sviluppi de l cristianesimo, la fonte principale è rappresentata dalla Storia ecclesiastica di Eusebio, libri III-V. Sul breve principato di Nerva la monografia più recente è quella di A. G ARZETTI , Nerva, 1950. Si discute in vario senso sui risultati della sua politica economica, e anche su certe sue riforme nel campo delle distribuzioni gratuite di frumento in favore della plebe di Roma, cioè delle frumentationes, di cui egli avrebbe restituito al senato la direzione; su ciò v. G. V ITUCCI , Plebei urbanae frumento constituto, in “Archeol. class.” X, 1958, p. 310 sgg. Sulla figura e sull’opera di Traiano, oltre che dalle font i sopra elencate, importanti notizie si ricavano da Plinio (Panegirico e
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libro X dell’Epistolario). Come opera d’insieme è da ricordare R. P ARIBENI , Optimus Princeps. Saggio sulla storia e sui tempi dell’imperatore Traiano, I e II, Messina 1926-1927. Sul programma “alimentario”, a noi documentato soprattutto dalla “tavola ipotecaria di Veleia” (C.I.L. XI 1147 = I. L. S. 6675) e dalla “tavola dei Liguri Bebiani” (C.I.L. IX 1455 = I. L. S. 6509), v. di recente R. D UNCAN J ONES , The Purpose and Organisation of the alimenta, in “Pap. Brit. Sch. Rome ” XIX (1964) p. l23 sgg. Sulla conquista della Dacia, oltre il lavoro del P ATSCH citato nel capitolo precedente, v. I.A. R ICHMOND , in “Pap. Brit. Sch. Rome” XIII (1935) p. 1 sgg. (a proposito dei rilievi della colonna traiana, su cui vedi anche G. B ECATTI , La colonna coclide istoriata, Roma 1960, p. 26 sgg.) e C. D AICOVICIU , Dacia capta in “Klio” n. s. XXXVIII (1960) p. 174 sgg. Sull’impresa pertica, J. G UEY , Essai sur la guerre partique de Trajan (114-117), Bucarest 1937; P.A. L EPPER , Trajan’s Parthian War, Oxford 1948. Sulla figura e sull’opera di Adriano gli studi complessivi più recenti sono quelli di B.W. H ENDER SON , The life and principate of the emperor Hadrian, London 1923, e B. D’O RG EVAL , L’empereur Hadrien. Oeuvre législative et administrative, Paris 1950. Sui mutamenti nella composizione dell’assemblea senatoria, nella quale sempre più consistente si fa la rappresentanza delle aristocrazie provinciali, v. P. L AMBRECHTS , La composition du sénat romain de l’accession au trône d’Hadrien à la mort de Commode (117-192), Antwerpen 1936. Sul potenziamento dell’amministrazione statale, e sullo sviluppo della burocrazia, ora non più imperniata sull’attività dei liberti imperiali (come quando era stata istituita da Claudio), ma sul lavoro regolarmente retribuito di funzionari scelti nella classe dei cavalieri, v. H.G. P FLAUM , Les procurateurs équestres, cit., p. 58 sgg. Sull’impegno personale dell’imperatore nel rendersi conto de visu della vita e dei bisogni delle comunità provinciali, v. M. R OSTOVZEV , Storia economica e sociale, cit., p. 415 sgg. Per l’Africa, P. R OMANELL I , Storia delle province romane dell’Africa, Roma 1959, p. 332 sgg. Sul vallum costruito in Britannia, di recente E. B IRL EY , Research on Hadrian’s Wall, Kendal 1961. Per la modificazione dell’editto, v. S. R ICCOBONO , La definizione del ius al tempo di Adriano, in “Bull. Ist. Dir. Rom.” 1950 p. 5 sgg. Per gli onori divini, A.E. R AUBITSCHEK , Hadrian as the Son of Zeus Eleutherios, in “Am. Journ. Arch.” XLIX (1945) p. 128 sgg. Per il principato di Antonino Pio, alle fonti sopra elencate si deve aggiungere l’orazione A Roma di Elio Aristide, su cui v. J. H. O LIVER , The ruling power. A study of the Roman empire in the second century after Chr. through Roman oration of Aelius Aristides, in “Trans. Proc. Am. Philol. Assoc.” XLIII (1953) p. 871 sgg. Oper a d’insieme: W. H ÜTTL , Antoninus Pius, I-II, Praha 1933-1936; M. H AMMOND , The Antonine monarchy, “Mem. Am. Acad. Rome”, 1959.
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Sul nuovo vallum in Britannia, A.S. R OBERTSON , The Antonine Wall, Glasgow 1960. Per una più completa comprensione della figura di Marco Aurelio, alle fonti sopra elencate si devono aggiungere i suoi Colloqui con se stesso ( Ta; eij " eJ a utov n ). Tra le opere d’insieme, sono da ricordare U. VON W ILAMOWITZ , Kaiser Marcus, Berlin 1931; A.S.L. F ARQUAHRSON , Marcus Aurelius. His life and his world, Oxford 1951; F. C AR RATA T HOMES , Il regno di Marco Aurelio, Torino 1953. Un’analisi della tradizione (particolarmente avversa) su L. Vero, in P. L AMBRECHTS , L’empereur Lucius Verus. Essai de réhabilitation, in “Ant. class.” III (1934) p. 173 sgg. Circa i movimenti migratori in Asia, e le loro ripercussioni sulla spinta dei Germani oltre il confine danubiano, v. L. H ALFEN , in “Cambr. Anc. Hist.”, XII, p. 104 sgg.; sulla liberazione di Aquileia e le relative misure difensive, A. D EGRASSI Il confine nord-orientale dell’Italia romana, Bari 1954, p 113 sgg. Sulla colonna antonina e la sua storia sceneggiata delle campagne combattute fra il 171 e il 175, W. Z WIKKER , Studien zur Markussäule, I, Amsterdam 1941 e G. B ECATTI , La colonna coclide, cit. Sul tentativo insurrezionale di Avidio Cassio, J. K ENYON , The revolt of Avidius Cassius, in “Arch. f. Papyrusf.” VI, 1913, p. 213 sgg. Sul regno di Commodo si ricorda anzitutto il lavoro di J. S TRAUB in “Reallex. f. Ant. u. Christ.” III (1957) p. 251 sgg. Un’ampia monografia complessiva è ora quella di F. G ROSSO , La lotta politica al tempo di Commodo, Torino 1964, fondata su un minuzioso riesame della tradizione letteraria e del materiale documentale.
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XIII La crisi del terzo secolo e il tramonto del principato.
1. Evoluzione politica e declino economico. - L’uccisione di Commodo concludeva un primo ciclo di sviluppo del sistema politico creato da Augusto. Nei progetti del suo ideatore il nuovo regime risultava dall’inserzione del potere personale del principe, pacificatore dei contrasti civili, nei tradizionali schemi repubblicani incentrati nel senato, espressione dell’antica nobiltà romana. Arbitro assoluto delle forze armate, e in misura sempre crescente delle finanze, della giustizia, delle leggi, l’imperatore aveva preso in pugno le principali leve del comando, ma aveva lasciato varie attribuzioni al senato e ai magistrati inaugurando un sistema di collaborazione capace di caratterizzare come “civile” il suo potere. Peraltro la coesistenza, necessariamente equivoca, fra poteri del princeps e istituzioni repubblicane richiedeva un grande equilibrio per non scivolare nell’assolutismo, come accadde durante le esperienze “tiranniche” di Caligola o di Nerone o di Domiziano o di Commodo, e soprattutto esigeva negli imperatori un prestigio personale (auctoritas) capace di coordinare il contrastante gioco delle varie forze e dei rispettivi 262
interessi. Quando una di queste forze, quella degli eserciti provinciali, prese il sopravvento e volle fare dell’imperatore l’esclusivo rappresentante dei propri interessi, il principato civile doveva cedere ineluttabilmente il passo alla monarchia militare, e questa a sua volta preparò l’avvento della forma assolutistica del “dominato” attraverso una crisi che riempie di sé tutto il III secolo. Gli aspetti di questa crisi furono molteplici: Settimio Severo, il vincitore della lotta scatenatasi alla morte di Commodo fra vari pretendenti, era ben consapevole che della vittoria egli era debitore unicamente agli eserciti che avevano appoggiato la sua candidatura, e che per mantenersi al potere doveva assicurarsi il favore dell’elemento militare Questo egli ottenne non soltanto con l’elargizione di donativi e benefici vari, ma militarizzando, per cosi dire, il governo dell’impero. Gli appartenenti alle antiche aristocrazie dirigenti vennero in tal modo via via esclusi da quei posti che per antico privilegio occupavano negli uffici militari e civili, e costretti a far largo ad un buon numero di nuovi elementi più o meno “barbari”, che si erano distinti nel servizio militare risalendo dai gradi più bassi fino ai comandi più elevati. Sulla fedeltà di questi funzionari l’imperatore poteva tranquillamente fare affidamento così come quelli potevano contare sui vantaggi del suo favore. Ma un tale sistema portava ad una grande instabilità del potere imperiale. Gli eserciti provinciali, stanziati l’uno assai lontano dall’altro e ormai reclutati non più in Italia, ma fra le popolazioni locali, avevano bisogni e desideri diversi. Una volta verificatasi la possibilità, per le 263
forze dislocate su un settore della frontiera, di imporre come imperatore il loro comandante, e quindi di ricavarne particolari benefici, era naturale che anche gli altri eserciti alla prima occasione sostenessero un loro candidato e lo contrapponessero a quello sostenuto da altri. Il progressivo aggravarsi di questa caotica situazione, per cui ad un certo punto la monarchia militare sfociò nell’anarchia militare, aveva come effetto non solo di compromettere la difesa dei confini dalle incursioni dei barbari, ma anche di svuotare le casse dello Stato. Per trovare i denari necessari a pagare stipendi e donativi ai suoi soldati, l’imperatore seguiva la duplice via delle confische e del più esoso fiscalismo. La pressione tributaria nelle province fu spinta al massimo e, per assicurare la riscossione delle tasse nei vari centri, ne furono dichiarati responsabili i cittadini più abbienti che dovevano versare di tasca loro quanto mancava a raggiungere la somma stabilita. Ancora più disastrosa fu l’introduzione della annona militaris, l’imposta in natura o, piuttosto, un sistema di requisizioni adottato per ovviare agli inconvenienti del continuo svilimento della moneta. Settimio Severo per primo, come sembra, vi aveva fatto ricorso per assicurare l’approvvigionamento degli eserciti, e la borghesia provinciale fu trascinata sull’orlo della rovina. Quanto poi alle confische, esse colpivano soprattutto i grandi latifondisti della classe senatoria e contribuirono ad acuire l’ostilità del senato verso gl’imperatori del III secolo. Fu una lotta talora scoperta (come nel caso di Massimino, che il senato dichiarò hostis publicus), ma per lo più sotterranea, 264
nel corso della quale gl’imperatori a poco a poco tolsero ai senatori quasi tutti i loro privilegi amministrativi e, con Gallieno, giunsero ad escluderli dai comandi militari e, quindi, dal governo di buona parte delle province. 2. Mistica dell’assolutismo e trasformazione culturale. - In tal modo, con l’appoggio dell’esercito, gli imperatori piegavano l’opposizione dei senatori, ma nello stesso tempo ancor più li umiliavano e, quindi, indirettamente, toglievano importanza a quel riconoscimento ufficiale del senato che ancora costituiva un elemento indispensabile per legalizzare il loro potere. La naturale conseguenza di ciò fu che verso la fine del secolo gl’imperatori smisero addirittura di chiedere il riconoscimento del senato dopo l’acclamazione dei soldati, e cercarono una nuova base di legittimità al loro potere promuovendo lo sviluppo di una vera e propria mistica dell’autorità imperiale, che ne consacrava il carattere sovrumano. L’intrinseca aridità dei culti ufficiali, insufficienti ad appagare l’ansia interiore dell’individuo, aveva da tempo favorito la diffusione fra tutte le classi sociali delle religioni orientali, così ricche di speranze nell’avvento di un mondo migliore (e si è notato che già nel 95 un console era cristiano). Nella generale atmosfera di aspettazione l’imperatore si presentò alle masse come l’unico capace di realizzarne le aspirazioni e le avviò ad accogliere una nuova forma di assolutismo teocratico che da una parte ribadiva la natura divina della sua persona, dall’altra proclamava l’origine divina dell’investitura imperiale. “Imperatore-Dio” e 265
“Imperatore per grazia di Dio” furono quindi due concezioni che per un certo tempo si svolsero parallelamente mentre in seguito, con l’avvento degli imperatori cristiani, la seconda ebbe la prevalenza fino ad escludere l’altra. Ma bastava un malcontento fra le truppe, o l’insorgere di un fortunato pretendente, per trascinare nella polvere il dominus et deus. Innumerevoli furono gl’imperatori del III secolo caduti per mano di quei soldati che li avevano innalzati alla porpora imperiale, sicché può dirsi che in quest’epoca la nomina ad imperatore equivaleva ad una condanna a morte a più o meno breve scadenza. Di una tale caotica situazione gl’imperatori erano, dunque, più le vittime che gli artefici, costretti nello stesso tempo ad assicurarsi la dubbia fedeltà dei soldati e a resistere all’opposizione interna capeggiata dal senato e dai ceti abbienti rovinati dalle enormi spese militari; costretti a difendere i confini dalle incursioni dei barbari e, nello stesso tempo, a lottare contro gli avversari suscitati dai vari pronunciamenti militari. Anche l’unità dell’impero fu più volte in pericolo; una via di salvezza fu escogitata da Diocleziano con la suddivisione del potere nelle mani di due Augusti e di due Cesari, ma anche questo espediente, in fondo, ebbe l’effetto di assecondare l’azione delle forze disgregatrici e di spianare la via alla divisione dell’impero stesso. Contemporaneamente si accentuava lo svolgimento dei tradizionali valori artistici e culturali: i primi con risultati di grande validità specie nell’architettura e nella ritrattistica, gli altri, naturalmente, con vari riflessi sulla 266
letteratura storica. Di questa non poca parte è andata perduta, e se pure con l’ausilio delle superstiti fonti documentali (iscrizioni, papiri, monete) è possibile tracciare un quadro complessivo degli sviluppi del III secolo, meno agevole riuscirà distinguere, in una rapida sintesi, la personalità e l’opera dei singoli imperatori, anche perché in genere la loro azione si svolse, per così dire, sui binari obbligati della lotta contro i pretendenti, dell’affermazione del loro assolutismo contro il senato, della difesa dei confini contro la minaccia barbarica. 3. La dinastia dei Severi. - Publio Elvio Pertinace, il quale come s’è detto rivestiva l’alta carica senatoria di praefectus urbi alla morte di Commodo, fu acclamato imperatore, dopo solo tre mesi cadde vittima della indisciplina dei pretoriani, che lo sostituirono con un altro consolare, Lucio Didio Giuliano, il pretendente che li aveva comprati con l’offerta del più alto donativum. Ma la posizione di costui era troppo debole per resistere alla vigorosa azione intrapresa dal governatore della provincia danubiana della Pannonia, Publio Settimio Severo, nato in Africa da famiglia equestre e salito per le doti di condottiero fino alle più alte cariche militari della carriera senatoria. Alla testa delle sue legioni, che lo avevano acclamato imperatore, Settimio Severo, atteggiandosi a vendicatore di Pertinace, marciò su Roma, ottenne il riconoscimento del senato (giugno 193) e, dopo l’immediata eliminazione di Didio Giuliano, si sbarazzò anche dei più validi sostenitori di quello, i pretoriani, sostituendoli con elementi tratti dal suo esercito. Da 267
allora in poi anche le coorti pretorie, come le legioni, sarebbero state composte di provinciali, un altro aspetto del crescente affermarsi di costoro di fronte all’elemento italico. Quasi contemporaneamente a Severo si erano sollevati il governatore della Britannia, Decimo Clodio Albino, e quello di Siria, Gaio Pescennio Nigro. Dopo aver tenuto a bada in un primo momento Clodio Albino con il conferimento del titolo di Caesar, che implicava associazione al potere imperiale e designazione alla successione, Severo li batté entrambi (Nigro ad Isso nel 194; Albino a Lione nel 197) e rimase unico padrone dell’impero. Per dare maggiore autorità al suo potere e, insieme, per assicurarne la trasmissione ai figli, Severo si autoadottò nella famiglia degli Antonini. Dopo avere, cioè, ottenuta dal senato la riabilitazione e la divinizzazione di Commodo, egli si proclamò ufficialmente nella titolatura divi Commodi frater, e quindi divi Marci filius, divi Antonini Pii nepos, divi Hadniani prònepos, ecc. e fece assumere al maggiore dei suoi due figli (comunemente detto Caracalla) il nome di Marco Aurelio Antonino. Non si trattava, però, soltanto di un espediente di governo, ma anche di una solenne dichiarazione programmatica in favore della continuità di quella politica che già gli Antonini avevano avviata, cioè la politica dell’inserimento dell’elemento provinciale romanizzato fra le forze direttive dello Stato. Uno degli aspetti di questa politica, che mirava in fondo ad eliminare la differenza di rango fra cittadini e sudditi dell’impero, fu anche l’impulso dato alla rielaborazione del diritto, attenuando la rigidità dell’antico ius civile e preparando quel 268
livellamento che poi Caracalla attuò con l’estensione del diritto di cittadinanza romana a tutti i liberi abitanti dell’impero. Questa venne effettuata con la emanazione della famosa constitutio Antoniniana del 212, la quale, secondo Cassio Dione, perseguiva soprattutto l’intento di allargare il numero dei cives su cui gravavano particolari imposte come, per esempio, la vicesima hereditatium (la tassa di successione). Fortemente impregnato delle superstizioni orientali (la moglie, Giulia Domna, era una principessa siriaca della famiglia dei re-sacerdoti del dio Baal), Settimio Severo ne favorì la diffusione nell’impero; contro la resistenza senatoria condusse una ferma politica di repressione e riformò l’amministrazione statale militarizzandola nel modo che s’è già accennato. Al termine di una vittoriosa spedizione contro i Parti (a. 197), istituì le nuove province di Mesopotamia e di Osroene, ma non riuscì nemmeno lui a chiudere il secolare conflitto. Gli ultimi anni li dedicò a consolidare il dominio della Britannia, ove i Caledonii avevano superato la linea fortificata di Antonino Pio e minacciavano di superare anche quella di Adriano, e morì a Eburacum (York) il 4 febbraio del 211. A capo dell’impero restavano i due giovani figli di Settimio Severo, Marco Aurelio Antonino, nato nel 186, e Publio Settimio Geta, nato nel 189, che egli già aveva innalzato alla dignità di correggenti (Antonino Caesar dal 196 e Augustus dal 198, Geta Caesar dal 198 e Augustus dal 199). Dopo circa un anno Antonino si sbarazzò del fratello trucidandolo di sua mano e inaugurò un regime di ferreo dispotismo. 269
Ambizioso e maniaco (dalla mania di portare un lungo mantello barbarico, detto caracalla, gli rimase per sempre questo nomignolo), egli continuò la politica del padre per l’innalzamento dei provinciali (cui concesse, come già s’è detto, il diritto di cittadinanza romana mediante la constitutio Antoniniana del 212), e volle emularne la gloria militare riprendendo nel 215 la lotta contro i Parti. I risultati della spedizione furono peraltro di scarso rilievo e nell’aprile del 217, presso Carre, egli cadde vittima di una congiura ordita da Macrino, il suo prefetto del pretorio. Marco Opellio Macrino, il primo cavaliere che assunse la porpora imperiale, cercò di mantenersi al potere col favore dei militari e del popolino di Roma, ma dopo un anno (giugno 218) fu travolto dalle macchinazioni della famiglia dei Severi, che provocarono la ribellione dell’esercito. Il pretendente contrapposto a Macrino era il quattordicenne Eliogàbalo, figlio di Giulia Soemiade (una nipote di Giulia Domna). Gran sacerdote del dio Elagabal, da cui fu soprannominato, al momento dell’acclamazione a imperatore egli assunse il nome di M. Aurelio Antonino, già portato da Caracalla. La continuità dinastica era stata così restaurata, ma con poco profitto della stabilità di governo perché il ragazzo, che era completamente dominato dalla forte personalità della nonna, Giulia Mesa, dopo aver fatto di Roma il teatro delle sue stravaganze di principotto orientale, nel marzo del 222 fu eliminato dalla solita rivolta dei pretoriani. Gli succedeva suo cugino Alessiano Bassiano (nato da Giulia Mamea, l’altra figlia di Giulia Mesa), che la nonna gli aveva
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fatto adottare col nome di M. Aurelio Severo Alessandro. Severo Alessandro fu per vari aspetti principe migliore di Caracalla e di Eliogàbalo, anche se nella storiografia antica, specialmente nella Historia Augusta, la sua figura venne sottoposta a un processo di idealizzazione ed esaltata come modello di virtù. In stridente contrasto col nome che portava, quello del grande Alessandro (nome nel quale si esprimevano le profonde aspirazioni di quell’età verso la fondazione di una monarchia universalistica), il nuovo principe era debole di carattere e subì dapprima la volontà della nonna, l’ambiziosa Giulia Mesa ai cui intrighi doveva il trono, poi quella della madre; del resto, quando era stato chiamato all’impero non aveva che diciassette anni. Tuttavia fu merito della mitezza della sua indole se Roma non fu insanguinata dalle consuete violenze, anche se non è da credere (come raccontarono taluni storici antichi) che veramente per sua opera si realizzasse un ritorno all’antico “principato civile”. Più esattamente si deve ritenere che il senato non fu restaurato nelle antiche attribuzioni, ma solo trattato con maggior riguardo. Durante il principato di Severo Alessandro gravi pericoli si delinearono in Oriente, ove sul trono dei Parti alla dinastia degli Arsacidi era succeduta quella dei Sassànidi, fondatori di un nuovo impero persiano ben organizzato e fortemente espansionista. Il giovane imperatore, che non aveva attitudini militari, fu costretto a intraprendere una difficile campagna per la difesa dei confini (a. 231-232), ma i risultati furono poco brillanti; addirittura disastrosi, poi, quelli della 271
guerra contro gli Alamanni che avevano invaso la Gallia (a. 234-235). Il comportamento troppo incerto e quasi vile di Severo Alessandro, che si abbassò a comprare la pace a peso d’oro, suscitò la rivolta dell’esercito, e il principe fu assassinato insieme con la madre (marzo 235). 4. Il periodo della “anarchia militare”. - Alla morte di Severo Alessandro ebbe inizio un vorticoso susseguirsi di imperatori, acclamati dai vari eserciti e costretti a restare quasi sempre sul campo per difendere i confini dai barbari e, più ancora, il loro potere da numerosi pretendenti. È il periodo della “anarchia militare”, che durò fino alla morte di Gallieno. Gaio Giulio Vero Massimino (detto comunemente Massimino il Trace), pervenuto all’impero dopo una lunga carriera militare incominciata dai gradi più bassi, dedicò i tre anni del suo impero (235-238) a respingere le invasioni di Germani, Sarmati e Daci spremendo tutte le risorse dell’impero per i bisogni del suo esercito e tartassando senza alcun riguardo senato e ricca borghesia. Sollevatosi in Africa il proconsole Marco Antonio Gordiano, il senato riconobbe imperatori lui e l’omonimo figlio e, dopo aver istituito un alto commissariato per la difesa dello Stato (i vigintiviri consulares ex senatus consulto rei publicae curandae), preparò la guerra a Massimino condannandolo come hostis publicus. Mentre i due Gordiani, dopo circa un mese di regno (aprile 238), erano soppressi dal comandante della legione III Augusta di stanza in Africa, che non aveva aderito alla rivolta, Massimino scese in Italia, ma incontrò gravi difficoltà 272
nell’assediare Aquileia, e nel maggio cadde vittima del malcontento delle sue truppe. Il senato, dopo l’uccisione dei due Gordiani, aveva cercato di farsi arbitro della situazione proclamando imperatori due dei vigintiviri consulares, Decimo Celio Calvino Balbino e Marco Clodio Pupieno Massimo; ma questa soluzione non incontrò il favore della plebe romana, infatuata di un suo ideale dinastico, tanto che si dovette venire a un compromesso: designare alla successione imperiale, col titolo di Caesar, il giovinetto Gordiano, nipote dei precedenti. Ma questa nuova formula, in cui la preminenza l’aveva il senato, non risultò di gradimento dei pretoriani, i quali circa l’agosto di quello stesso anno 238 assassinarono Balbino e Pupieno e proclamarono Augusto il cesare Gordiano. Gordiano (III) era solo un ragazzo di circa dodici anni, ma poté reggersi al potere fino al 244 grazie all’appoggio del suocero, il valente prefetto del pretorio Gaio Furio Sabinio Aquila Timesiteo, che ottenne brillanti successi sulla frontiera del Danubio e dell’Eufrate. Morto Timesiteo, forse per gl’intrighi di Marco Giulio Filippo, questi gli successe nella prefettura del pretorio e ben presto seppe insinuarsi nelle grazie dell’esercito, che massacrò Gordiano ed elesse lui imperatore. Filippo (detto l’Arabo per la sua origine), resistette al potere fino all’autunno del 249 distinguendosi nella difesa del confine danubiano, ed ebbe la ventura di celebrare il 21 aprile del 248 il primo millenario della fondazione di Roma. L’anno appresso fu battuto e ucciso da Traiano Decio, generalmente noto per la violenta persecuzione 273
contro i cristiani, la quale va considerata come un aspetto della politica di restaurazione dei valori tradizionali, anche religiosi, tentata dall’imperatore. Decio, che fu il primo imperatore romano a morire in battaglia, cadde nel 251 combattendo contro i Goti, e dopo due anni di lotte convulse, nei quali si succedettero al potere Ostiliano, figlio di Decio, Gaio Vibio Treboniano Gallo (251-253), Gaio Vibio Volusiano (251-253) e Marco Emilio Emiliano (253), il potere venne nelle mani di Publio Licinio Valeriano, proveniente da famiglia di antica dignità senatoria. Con la sua elezione il conflitto tra imperatore e senato si assopiva ancor più che sotto Decio, ma intanto cresceva da ogni parte la minaccia sui vari settori del confine; associatosi come correggente il figlio Publio Licinio Gallieno, Valeriano si divise con lui i compiti della difesa assumendo per sé la direzione della guerra contro i Persiani. Dopo qualche successo, nel 260 patì una disastrosa rotta ad Edessa e rimase prigioniero nelle mani del re Shahpur I. Restava unico imperatore Gallieno, che già aveva combattuto sul Reno e sul Danubio dal 254 al 258, e ora dovette continuare la guerra da solo, per di più in condizioni generali tanto disperate, da far sembrare compromessa l’unità stessa dell’impero. Infatti in Occidente i disastri causati da una nuova invasione di Franchi e di Alamanni portarono la Gallia ad organizzare, per meglio difendersi, uno Stato separato (comprendente anche la Spagna e la Britannia) con a capo l’imperatore Marco Cassianio Latinio Postumo (258-267), uno dei generali che Gallieno aveva lasciato sul posto per sorvegliare la situazione. 274
D’altra parte in Oriente la città di Palmira (sita al centro di un’oasi nel deserto siro-arabico, a metà strada fra il Mediterraneo e l’Eufrate), dopo aver costituito un valido baluardo contro i Persiani sotto il governo del principe indigeno Odenato, alla morte di costui, venuto il potere nelle mani della vedova Zenobia e del figlio Vaballato, intraprendeva una nuova politica di autonomia e di espansione antiromana, arrivando fino ad invadere l’Egitto. Gallieno tentò invano di stroncare questi due moti separatisti, anche perché impegnato a respingere dall’Italia un’invasione degli Alamanni e costretto a difendersi da un nugolo di pretendenti. Questi durante il suo regno furono tanto numerosi, da indurlo al provvedimento di escludere i senatori dai comandi militari, sostituendoli con elementi dell’ordine equestre; in realtà i comandanti militari di rango senatorio, col loro maggior prestigio, più facilmente degli altri erano spinti a tentare la scalata del potere. Fu mentre assediava in Milano il pretendente Aureolo che Gallieno venne eliminato da una congiura (marzo 268). 5. La ripresa sotto gli “imperatori illirici”. Scomparso Gallieno, a capo dell’impero si susseguirono alcune figure di valenti condottieri che con la loro energia seppero frenarne il processo di disgregamento. Si tratta degli “imperatori illirici”, così detti perché originari delle province danubiane. Il primo di essi fu Marco Aurelio Valerio Claudio (Claudio II), soprannominato il Gotico per la grande vittoria riportata nel 269 a Naissus (odierna Nisch, in Serbia).
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Ucciso dalla peste nel 270 dopo appena due anni di governo, ebbe un degno continuatore della sua opera in Lucio Domizio Aureliano, un brillante ufficiale che proveniva dai gradi più bassi. Liberata l’Italia dalla minaccia degli Iutungi, che erano calati fino nell’Umbria, Aureliano riuscì a restaurare l’unità dell’impero annientando da una parte le mire autonomistiche di Palmira, dall’altra battendo Tetrico, successore di Postumo, e ponendo fine all’esperimento separatistico della Gallia. Ma i pericoli restavano gravissimi (tanto che l’imperatore si preoccupò di fortificare con una nuova cinta muraria la stessa Roma, le maestose “mura Aureliane”), mentre scemavano i mezzi di difesa, e si dovette abbandonare la Dacia riportando in quel settore il confine sul Danubio. Dopo aver introdotto varie riforme nell’amministrazione civile, soprattutto con l’istituzione dei correctores Italiae (che rappresentò un altro passo verso quel pareggiamento dell’Italia alle province che fu poi definitivamente attuato da Diocleziano), Aureliano si preparava ad una grande spedizione contro i Persiani, ma presso Bisanzio cadde vittima di una vendetta privata (275). Rimasto senza imperatore, l’esercito (cosa inusitata) chiese al senato di nominare il successore, e l’assemblea, dopo lunghe esitazioni, designò il vecchio consolare Marco Claudio Tacito, dando in tal modo la misura delle sue reali possibilità di fronte al problema del potere imperiale. Si trattava infatti di un uomo di settantacinque anni, che aveva percorso una carriera essenzialmente civile; se mai aveva esercitato comandi militari di un qualche rilievo, egli doveva essere allora inesperto delle importantissime innovazioni tattiche e strategiche 276
introdotte da Gallieno in poi nell’esercito per renderlo più adatto alla guerra di movimento. Sta di fatto che, dopo appena un anno, Tacito fu travolto dal malcontento dei militari, che lo sentivano estraneo al loro ambiente e ai loro ideali, e gli successe un altro illirico, Marco Aurelio Probo, degno continuatore dell’opera di Aureliano. Nei sei anni del suo regno (276-282) Probo si spostò infaticabilmente da un settore all’altro del confine per ristabilirvi la sicurezza, battendo sul Reno i Franchi e gli Alamanni, sul Danubio i Burgundi, i Vandali e i Sarmati, in Egitto i Blemmi. Rispettoso del senato, ma non, come vorrebbe una tradizione tendenziosa, al punto da reintegrarlo nelle sue antiche funzioni di governo (ciò che del resto non aveva fatto nemmeno Tacito, l’imperatore eletto dal senato), Probo si preoccupò di mantenere nell’esercito la più severa disciplina, provocando però alla lunga con i suoi rigidi sistemi il malcontento delle truppe. Su questo stato di cose fece leva un movimento sedizioso capeggiato dal prefetto del pretorio Marco Aurelio Caro, e l’imperatore, ormai incapace di tenere in pugno i suoi uomini, restò travolto. Marco Aurelio Caro è soprattutto da ricordare come il primo imperatore che, dopo l’acclamazione dell’esercito, non si curò più di ottenere il riconoscimento del senato. Questo perdeva allora definitivamente il diritto di partecipare, sia pura in maniera formale, all’investitura imperiale, il che rappresenta uno degli aspetti più caratteristici del passaggio dal “principato” al “dominato”. Caro, che si era associato all’impero i due figli Carino (cui affidò la difesa dell’Occidente) e 277
Numeriano, condusse in Oriente una brillante spedizione, ma trovò la morte l’anno dopo presso il Tigri (283). Il comando dell’esercito fu allora preso da Numeriano e, in suo nome, dal prefetto del pretorio (Lucio Flavio?) Apro; costui per impadronirsi del potere assassinò Numeriano, ma non ebbe il favore dell’esercito, che acclamò invece imperatore Gaio Valerio Diocle, un ufficiale di origine dalmata. Assunto il potere col nome di Gaio Aurelio Valerio Diocleziano (284), questi marciò contro Carino che, seppure vittorioso, fu eliminato da una congiura (285). Tutto era ormai nelle mani di Diocleziano e in lui l’impero aveva trovato l’uomo capace di realizzare le riforme che s’imponevano d’urgenza in ogni campo.
Tra le fonti letterarie più importanti per la ricostruzione dell’età dei Severi è la già ricordata opera del contemporaneo E RODIANO (libb. II-VI). L’altro contemporaneo C ASSIO D IONE (che raggiunse il consolato per la seconda volta sotto Severo Alessandro nel 229, data terminale delle sue Storie) vi dedicò i suoi ultimi libri, dal LXXIV all’LXXX, giunti a noi nel compendio di X IFILINO tranne il LXXIX e l’LXXX, che in buona parte si sono conservati nel testo integrale. Poi i breviarii del IV sec., già menzionati nel capitolo precedente, e, soprattutto notevoli, le biografie della Historia Augusta. Sull’attività legislativa degl’imperatori, parecchi elementi si possono ricavare dalle constitutiones inserite nel Codex Iustinianus e dagli estratti dei giureconsulti raccolti nei Digesta. Indicazioni sulla durata del regno e sul dies natalis degl’imperatori si trovano nel calendario romano pubblicato nell’anno 354 da un anonimo che viene denominato “il Cronografo del 354”, su cui vedi, per esempio, H. S TERN , Le calendrier de 354, Paris 1953. Della Storia ecclesiastica di E USEBIO si riferisce all’età dei Severi il libro VI. Opere complessive di informazione e di orientamento sull’età dei Severi (e, più in generale, della storia del III sec.): M. B ESNIER , L’empire romain de l’avènement des Sévères au Concile de Nicée
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(nella Histoire Générale fondée par G. G LOTZ ), Paris 1937; il vol. XII della già citata Cambridge Ancient History (Cambridge 1939); A. C ALDERINI , I Severi. La crisi dell’impero nel III sec., Bologna 1949. Sui principali aspetti dell’evoluzione economica e sociale , sempre di grande importanza la già citata sintesi di M. R OSTOVZEV , Storia economica ecc., cit., p. 459 sgg., del quale peraltro non si può condividere la concezione del III secolo come di un’età caratterizzata dal conflitto tra le borghesie cittadine da un lato, e dall’altro le masse dei diseredati soggette alla dura vita militare o al faticoso lavoro dei campi. Con una simile interpretazione sono in contrasto, oltre che il noto passo di H ER ODIAN . VII, 3, 3 sulle spoliazioni di Massimino, anche le suppliche di comunità agricole a Gordiano III e ai Filippi perché abbiano a cessare le vessazioni e le requisizioni cui sono sottoposte dai militari: cfr. D ITTENBERGER , Syll. 3 888; O.G.I.S. 519. Per i mutamenti verificatisi nella composizione dell’assemblea senatoria, nella quale appaiono in aumento gli elementi di provenienza orientale, vedi P. L AMBRECHTS , La composition du sénat romain de Septime Sévère à Dioclétien (193-284), Budapest 1937; G. B ARBIERI , L’albo senatorio da Settimio Severo a Carino, Roma 1952. Sull’ascesa della classe equestre (nella quale peraltro cominciano a entrare, attraverso i gradi della bassa ufficialità, molti elementi provinciali) vedi C.W. K EYES , The rise of the equites in the third century of the Roman empire, Princeton 1915; G. L OPUSZANSKI , La transformation du corps des officiers supérieurs dans l’armée romaine du Ier au IIIe siècle ap. J.-C., in “Mel. d’arch. et d’hist. ” LV, 1938. In questa cornice la prefettura del pretorio, divenuta il gradino più elevato della carriera equestre, s’avvia alle funzioni e alla dignità di vicariato imperiale: cfr. A. P ASSERIN I , Le coorti pretorie, Roma 1939, p. 233 sgg.; L.L. H OWE , The pretorian prefect from Commodus to Diocletian, Chicago 1942. Sugli sviluppi del culto imperiale, oltre il già citato W. E NSSLIN , Gottkaiser und Kaiser von Gottes Gnaden, vedi G. H ERZOG H AUSER , in R.E., s.v. Kaiserkult, Suppl. IV, col. 806 sgg. Sulla mistica della vittoria imperiale, che si nutre delle concezioni della teologia solare, F R . C UMONT , La théologie solaire du paganisme romain, in “Mem. Acad. Inscr. Bell. Lettr.” XII, 2 (1913) p. 447 sgg.; A. A LFÖLDI , Insignien und Tracht, cit., p. 84 sgg. Sulla figura e sull’opera di Settimio Severo le due trattazioni complessive di M. P LATNAUER , The life and reign of the emperor L. Septimius Severus, Oxford 1918, e di J. H ASEBROECK , Untersuchungen zur Geschichte des Kaisers Septimius Severus, Heidelberg 1921. Nella vasta bibliografia sul regno di Caracalla, una part e cospicua è dedicata ai problemi relativi all’estensione del ius civitatis: la sua portata, la sua data, il suo significato. Nemmeno
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menzionato da Erodiano, il provvedimento si conosceva unicamente da un sommario cenno del Digesto (I 5, 17: in orbe Romano qui sunt ex constitutione imp. Antonini cives Romani effecti sunt), a cui vari decenni fa si è aggiunta la testimonianza di un papiro (Pap. Giessen, 40). Purtroppo il documento ci è pervenuto lacunoso, e uno dei punti più controversi è rappresentato dalla espressione (che vi si legge alla l. 9) cwrªi; ; " º tw' ª n deºdeitikiv w n , cioè “a esclusione dei dediticii”. Si discute su ciò da cui i dediticii venivano esclusi (e pare che si trattasse appunto della concessione del diritto di cittadinanza), e poi su chi fossero i componenti la categoria de i dediticii (nei quali saranno con ogni probabilità da vedere le masse indigene rimaste del tutto estranee al processo di romanizzazione). Su queste interpretazioni, v. S. M AZZAR INO , Trattato, cit., p. 397 sgg. La data finora generalmente accolta per l’emanazione della constitutio (il 212) è stata di recente posta in discussione: F. M ILLAR , The date of the Constitutio Antoniniana, in “Journ. Egypt. Arch.” XLVIII (1962), p. 124 sgg. vorrebbe spostarla al 214, mentre secondo W. S ESTON (in Mélanges offerts à J. Carcopino, Paris 1966, p. 877 sgg.) la data più probabile sarebbe quella dell’estate-autunno 213. Sui risultati della campagna partica, celebrata con la leggenda VIC(TORIA) PART(HICA) che compare nella monetazione del 217 (M ATTINGLY -S YDENHAM , The Roman Imperial Coinage, IV, 1, p. 257), è da tener presente lo studio di A. G ÜNTHER , Beiträge zur Geschichte der Kriege zwischen Römern und Parthern, Berlin 1922. Nel continuo peggioramento della moneta, il denarius argenteo, che all’inizio dell’impero aveva avuto un contenuto di fino pari al 90% circa, aveva visto ridursi tale contenuto a meno della metà; al conseguente rincaro dei prezzi Caracalla cercò di ovviare col mettere in circolazione un nuovo denarius di peso quasi doppio, il cosiddetto “antoniniano” (cfr. L.C. W EST , Gold and Silver Coin Standards, cit., p. 121). Contemporaneamente veniva “ritoccato” anche il peso dell’aureus, che Nerone aveva portato a g. 7,28 e ora fu ulteriormente abbassato a g. 6,54: ma la situazione economica continuò a peggiorare. Con l’ampia notizia di Cassio Dione (LXXVII 9) circa l’oppressione fiscale messa in atto da Caracalla non è che in apparente contrasto quanto si legge in un nuovo documento, ossia nel rescritto indirizzato il 216 dallo stesso Caracalla ai cittadini della colonia di Banasa nella Mauretania (cfr. R. T HOUVENOT , in “Compt. Rend. Acad. Inscr.”, 1946, p. 548 sgg.): Obsequium et fidem vestram remunerans, omnia quaecumque sunt debita fiscalia frumentaria sive pecuniaria, pendentium quoque causarum, concedo vobis ecc. Se qui, in sostanza, l’imperatore condona gli arretrati delle imposte dovute sia in denari sia in natura, ciò è solo perché i Banasitani possano in appresso meglio assolvere ai loro obblighi verso il fisco, come viene espressamente sottolineato dalla
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successiva espressione del rescritto: praesumo omnes de cetero annuas pensitationes sive in frumento seu in pecunia eo promptius daturos quo me reputabitis non expectasse quin ultro offerrem neque petentibus vobis neque sperantibus nova remedia et magnificam indulgentiam. Al tempo di Caracalla risulta testimoniato per la prima volt a il “correttorato dell’Italia”, istituzione destinata ad avviare il livellamento amministrativo dell’Italia alle province; su ciò vedi le note all’ultimo capitolo. Sul breve tentativo di Macrino, v. H. M ATTINGLY , The reign o f Macrin, in “Studies to D.M. Robinson”, II, Saint Louis 1953, p. 962 sgg.; su Elagàbalo (oltre gli antiquati O.F. B UTLER , Studies in the life of Heliogabalus, New York 1908, e J. S TUART H AY , The amazing emperor Heliogabalus, London 1911), si veda K. G ROSS , in “Reallex. f. Ant. u. Christ.” IV (1959), p. 987 sgg. Più e meglio studiata la figura e l’opera di Severo Alessandro, anche in connessione co l progredire degli studi sulle biografie dell’Historia Augusta, nel cui ambito la vita di questo imperatore occupa un posto particolare. Infatti la già notata “tendenza” di reazione paganeggiante all’impero cristiano, dalla quale fu ispirata la composizione delle Vite, portò a idealizzare (dunque, a deformare) la rappresentazione di Severo Alessandro, facendone un modello di imperatore del buon tempo antico. Per queste interpretazioni della Historia Augusta sono fondamentali le ricerche di J. S TRAUB (fra l’altro: Studien zur Historia Augusta, Bernae 1952; Vom Herrscherideal im Spatantike, Stuttgart 1939). Il principe, che nel suo nome di Alessandro proclamava l’aspirazione dei tempi verso la fondazione di una monarchia universale, dovette invece sostenere una dura lotta in difesa del confine orientale (contro l’aggressività della nuova dinastia sassanide: cfr. A. C HR ISTENSEN , L’Iran sous les Sasanides, 2 a ed., Copenhagen 1944, p. 86 sg.) e del confine renano, ove gli venne meno l’appoggio dell’esercito e fu massacrato (in generale: A. J ARDÉ , Études critiques sur la vie et le règne de Sévère Alexandre, Paris 1925). Di contro al ristagnare del paganesimo tradizionale è da osservare da una parte l’ondata di nuovo fervore religioso introdotto in Roma dalle principesse siriache della casa dei Severi (si ricordi che fu per impulso di Giulia Domna che F ILOSTRAT O scrisse la Vita del santone Apollonio di Tiana), dall’altro il largo diffondersi della fede cristiana sino a dar luogo ai contrasti che divisero il papa Callisto da Ippolito, eletto vescovo di Roma dai suoi partigiani e contrapposto a lui. L’informazione di cui disponiamo per la storia dell’impero dopo i Severi è ancora più angusta. Il racconto di Erodiano cessa con la morte di Massimino, e si deve far ricorso soprattutto alle Vitae della Historia Augusta, oltre che ai più volte ricordati breviarii. Di grande importanza sarebbe stato poter disporre delle opere del
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contemporaneo P UBLIO E RENNIO D EXIPPO , autore di Chronika che andavano dalle origini fino al 268, e di Skythikà che trattavano il periodo 238-270, ma non si sono conservati che pochissimi frammenti (editi in J ACOBY , FGrHist II A, p. 452 sgg.). I Chronika furono continuati da E UNAPIO DI S ARDI , i cui Hypomnèmata historikà andavano dal 270 al 404; anche questi, come gli scritti di Dexippo, sono andati perduti, ma noi li utilizziamo indirettamente perché da essi attinse Z OSIMO , la cui opera ci è pervenuta. Zosimo era un funzionario dell’impero d’Oriente che verso la fine del V sec. scrisse una Nuova Storia in 6 libri, di cui il primo offre un compendio della storia dei primi tre secoli dell’impero. Nella Storia Ecclesiastica di E USEBIO si tratta del periodo fra i Severi e Diocleziano nei libri VI e VII. Sulla figura e l’opera di Massimino il Trace, v. G.M . B ERSANETTI , Studi sull’imperatore Massimino il Trace, Roma 1940 (con aggiunte in “Epigr.” III, 1941, p. 5 sgg. e in “Riv. di Filol.” n.s. XX, 1942, p. 214 sgg.), nonché C. D I S PIGNO , L’attività politicomilitare dell’imperatore Massimino il Trace, in “Rend. Acc. Lincei”, ser. VIII, vol. III, 1948, p. 123 sgg. Stabilire la precisa successione dei fatti di quell’anno 238 che vide, oltre la fine di Massimino, anche quella di altri quattro Augusti: i due Gordiani, Balbino e Pupieno) dà luogo a non poche perplessità; cfr. G. V ITUCCI , Sulla cronologia degli avvenimenti del 238, in “Riv. di Filol.” N.S. XXXII (1954) p. 372 sgg. Sulla politica di Gordiano III, cfr. P.W. T OWNSEND , in “Yale Class. St.” IV (1934), p. 59 sgg. In particolare, sulle sue imprese contro la Persia è da ricordare una testimonianza di carattere eccezionale. Si tratta della grande iscrizione trilingue scoperta a Persepoli una trentina di anni fa e contenente il racconto delle gesta compiute dal re Shahpur I (241-272), onde si suole denominarla Res gestae divi Saporis per analogia con le Res gestae divi Augusti, cfr. G. P UGLIESE C ARRATELLI , Res gestae divi Saporis, in “La Parola del Passato” II (1947), p. 209 sgg.; E. H ONIGMANN - A. M ARICQ , Recherches sur les Res Gestae Divi Saporis, Bruxelles 1953. Su Filippo e il millenario di Roma cfr. J. G AGÉ , Saeculum novum. Le millénaire de Rome et le templum urbis sur les monnaies du III e siècle ap. J.-C., in “Trans. Int. Num. Congr.”, London 1938, p. 179 sgg. Su Decio, F.S. S AL ISBURY , The reign of Trajan Decius, in “Journ. Rom. St.” XIV (1924) p. l sgg. A proposito della persecuzione (da considerare anzitutto come un atto di difesa del paganesimo, e poi, indirettamente, di lotta al cristianesimo) è da ricordare che i papir i egiziani ci hanno conservato un certo numero di documenti molto interessanti, i libelli. Si tratta di attestati che si rilasciavano a chi avesse compiuto il prescritto atto di culto agli dei, e servivano a proteggerlo dal pericolo delle gravi pene previste per i trasgressori
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(cfr A. B L UDAU , Die ägyptischen libelli und die Christenverfolgung des Kaisers Decius, in “Röm. Quartalschr.”, Suppl. XXVII, 1931). Riguardo ai brevi regni degl’imperatori succedutisi fra la morte di Decio e l’avvento di Valeriano (su cui la nostra informazione dipende in non poca parte dal materiale numismatico), v. H. M ATTINGLY , The Reigns of Trebonianus Gallus and Volusian and of Aemilian, in “Num. Chron.” VI (1946) p. 36 sgg. Su Valeriano, A. A LFÖLDI , Die Hauptereignisse der Jahre 253-261 n. Chr. im Orient im Spiegel der Münzprägung, in “Berytus” IV (1937) p. 41 sgg.; G.M. B ERSAN ETTI , Valeriano ed Emiliano, in “Riv. di Filol.” N. S. XXVI (1948), p. 257 sgg. Sulle nuove persecuzioni contro i cristiani, che Valeriano promosse più o meno nello stesso spirito d i quelle di Decio, cfr. P. P ASCHIN I , in “Studi romani” VI (1958), p. 130 sgg. Su Gallieno, in generale, E. M AN NI , L’impero di Gallieno. Contributo alla storia del III sec., Roma 1949; in particolare, sulle sue riforme amministrative, H.E. P ETERSEN , Senatorial and equestrian governors in the third century A.D., in “Journ. Rom. St.” XLV (1955), p. 47 sgg.; sulle riforme militari A. A LFÖLDI , Zur Kenntnis der Zeit d. röm. Soldaten-Kaiser. I: Der Usurpator Aureolus und die Kavalleriereform des Gallienus, in “Zeitschr. Num.” XXXVII, l927, p. 197 sgg. Sull’imperium Galliarum, v. R. A NDREOTTI , L’usurpatore Postumo nel regno di Gallieno, I, Bologna 1939; sullo stato palmireno, J.G. F EVRIER , Essai sur l’histoire politique et économique de Palmyre, Paris 1931. Su Claudio II, vedi in generale P. D AMERAU , Kaiser Claudius II. Gothicus, in “Klio” Beih. XX 1934; su Aureliano L. H OMO , Essai sur le règne de l’empereur Aurélien, Paris 1904, aggiornato per quanto riguarda la documentazione epigrafica da G. S OTGIU , Studi sull’epigrafia di Aureliano, Cagliari 1961. Sulle nuove mura di Roma, I.A. R ICHMOND , The city wall of imperial Rome, Oxford 1930, p. 27 sgg. Sulla restaurazione dell’unità imperiale, R. D USSAUD , Un témoin archéologique de la fin dramatique de Palmyre, in “Syria” XXII (1941) p. 194 sgg.; G. E LMER , Die Münzprägung der gallischen Kaiser in Köln, Trier und Mailand, in “Bonn. Jahrb.” CXLVI (1941). Sul tentativo d i raddrizzare la rovinosa situazione finanziaria con una riforma monetaria (che resta piuttosto oscura nei particolari), v. di recente C. G ATTI , La politica monetaria di Aureliano, in “La Parola de l Passato” XVI (1961) p. 93 sgg. Sull’inconsistenza della tradizione relativa ad una restaurazione dei privilegi del senato ad opera di Tacito, vedi G.M. B ER SANETTI , in “Riv. Indo-Gr.-Ital.” XIX (1935) p. 19 sgg. Lo stesso tema viene ripreso ancora una volta senza fondamento per Probo, ma vedi per questo e, in generale, sulla figura e sull’opera dell’imperatore, G. V ITUCCI , L’imperatore Probo,
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Roma 1952. Sugli ultimi predecessori di Diocleziano è da vedere la esauriente monografia di P. M ELONI , Il regno di Caro, Carino e Numeriano, Cagliari 1948, accurata nell’analisi delle fonti e generalmente plausibile nella ricostruzione di un periodo storico per vari aspetti così tormentato e oscuro.
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XIV Il dominato. Da Diocleziano alla fine dell’impero d’Occidente.
1. Diocleziano e il nuovo volto dell’impero. - L’opera riformatrice di Diocleziano fu veramente grandiosa e sotto vari rispetti rappresentò il coronamento di un travaglio durato per tutto il corso del III secolo. E in effetti la personalità di Diocleziano bene s’inquadra fra le figure dei restitutores illirici; saldamente ancorato alla tradizione, egli cercò sempre con grande impegno, anche se non sempre con altrettanta fortuna, di salvare i vecchi istituti politici: un uomo del passato rispetto all’uomo del futuro, a Costantino, che saprà superare la tradizione e gettare le basi di un ordinamento capace di sopravvivere ancora a lungo. L’opera di restaurazione imponeva anzitutto di consolidare il potere imperiale, liberandolo dalla piaga delle continue usurpazioni, e di metterlo quindi nelle condizioni migliori per assicurare la difesa dei confini. Diocleziano, che già nel 285 aveva conferito al suo valoroso collaboratore Marco Aurelio Valerio Massimiano il titolo di Caesar (senza
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tribunicia potestas), affidandogli il compito di restaurare l’ordine nelle Gallie e sul limes renano, l’anno dopo (1° aprile 286) lo innalzava alla dignità di Augustus (con tribunicia potestas) con l’incarico di abbattere l’usurpatore Carausio sollevatosi in Britannia. L’impresa si rivelò più ardua del previsto, e nel frattempo Diocleziano maturò il convincimento che i due Augusti non potevano da soli provvedere agli sterminati compiti della difesa militare e della amministrazione civile. Pertanto nel 293 (10 marzo) a Massimiano venne affiancato, col titolo di Cesare, Gaio Flavio Giulio Costanzo (comunemente detto Costanzo Cloro) e contemporaneamente Diocleziano nominava suo Cesare un altro valente generale, Gaio Galerio Valerio Massimiano. Nasceva così la “tetrarchia”, un sistema che, ripartendo fra quattro capi il governo dell’impero, rappresentava come un naturale sviluppo dell’istituto della correggenza entrato ormai da gran tempo nella prassi costituzionale: esso era destinato sia ad escludere il pericolo delle usurpazioni, in quanto i Cesari erano designati a succedere agli Augusti, sia ad attuare “la scelta del migliore” senza riguardo per i diritti di sangue. Quest’ultima esigenza, in contrasto con la naturale aspirazione dei principi ad assicurare la successione ai loro figli, fu poi la prima ad essere calpestata, ma intanto il potere imperiale acquistò una maggiore stabilità che permise di condurre vittoriose operazioni su tutti i fronti, ristabilendo dovunque la sicurezza dei confini e riportando un certo grado di ordine e di pace. In seno alla tetrarchia Diocleziano conservò una posizione di preminenza non solo sui due 286
Cesari, ma anche rispetto all’altro Augusto, e la sua superiorità fu sottolineata dall’assunzione del titolo di Iovius mentre M. Valerio Massimiano prendeva quello di Herculius. In questi titoli si proclamava la natura divina del potere imperiale, ormai sottratto ad ogni ingerenza del senato ed esaltato dall’ introduzione a corte di un ancor più fastoso cerimoniale orientalizzante; e come Giove era superiore ad Ercole, così Diocleziano Giovio era superiore a Massimiano Erculio. Forte di una tale assoluta e indiscussa autorità, Diocleziano poté realizzare il suo vastissimo piano di riforme. Fra queste un carattere di maggiore originalità rivela il tentativo di risolvere i problemi finanziari dell’impero con l’introduzione del sistema fiscale della capitatio-iugatio. Tale sistema, nel quale si stabiliva l’identità, ai fini della tassazione, fra caput (testa di lavoratore-colono) e iugum, cioè fra unità di forze di lavoro e unità di superficie lavorabile, veniva a incidere profondamente sull’organizzazione dello stato, la cui vita restava rigidamente condizionata dalla quantità di denaro di cui si poteva disporre per far fronte alle necessità fondamentali, a cominciare da quella della difesa militare. E poiché l’imposizione tributaria colpiva soprattutto le plebi rusticane delle province, la riforma fiscale ebbe dirette implicazioni nella riforma dell’amministrazione provinciale. Le antiche province furono da Diocleziano spezzettate in unità minori, oltre un centinaio, col che si voleva anche eliminare il ricorrente pericolo del separatismo, mentre all’esigenza di mantenere la compattezza dell’impero e, insieme, di rafforzare il potere centrale, rispondeva il raggruppamento delle nuove 287
province in dodici distretti maggiori, le diocesi. E appunto nell’ambito di ogni diocesi si computavano sia il numero dei coloni, sia l’estensione delle terre soggette a imposizione (comprese in un apposito catasto), e poi, in base al rapporto fra questi due elementi, si determinava l’ammontare del tributo per ogni caput: ammontare che variava da diocesi a diocesi, essendo inversamente proporzionale alla densità demografica. E come per assicurare la riscossione del tributo si applicava rigorosamente il principio della responsabilità collettiva, così allo stesso fine rispose l’istituzione del più stretto legame fra il colono e la terra, la servitù della gleba. Ma anche il più rigido sistema fiscale non poteva da solo bastare a raddrizzare una situazione economica compromessa, fra l’altro, dalla circolazione di una moneta divisionale come il denarius, ridottosi a un piccolo pezzo di rame imbiancato. A cominciare dai produttori, questi si rifiutavano di cedere la loro merce in cambio di una moneta il cui valore intrinseco era di gran lunga più basso del potere di acquisto attribuitogli dall’autorità statale, e invano Diocleziano sperò di mettere un freno al rincaro dei prezzi con l’emanazione di un calmiere, il famoso edictum de pretiis del 301. Uno dei capisaldi della riforma dell’amministrazione provinciale fu poi la definitiva separazione, già avviata da Gallieno, del potere civile da quello militare. Ai governatori di provincia spettava unicamente la cura dell’amministrazione civile, mentre il comando dei presìdi militari era riservato ai duces, da essi indipendenti; i duces erano poi subordinati ai rispettivi vicarii, i capi delle dodici diocesi, che alla loro volta erano agli ordini dei prefetti del pretorio. 288
Nella cornice dell’instancabile attività con cui Diocleziano cercò d’impedire lo sfacelo dell’impero, vanno messi in rilievo sia il potenziamento dell’esercito con l’istituzione, fra l’altro, di una forza di manovra (i comitatenses) al seguito diretto dell’imperatore, sia l’impulso dato alla costruzione di strade che dovevano giovare alla difesa militare. Tra queste particolarmente notevole la strada fra Bostra (Arabia) e Palmira; un monumento impressionante è poi il palazzo che l’imperatore si fece costruire nel territorio di Salonae in Spalato. Ma la sua figura di restitutor dell’impero, di restauratore anche a costo di adottare provvedimenti rivoluzionari, risalta in special modo dall’opera data al riordinamento amministrativo dell’Italia. Al suo ideale di restaurazione dell’impero egli infatti sacrificò anche una delle istituzioni che vigevano incontrastate dai lontani tempi della repubblica e, annullando l’antica posizione di privilegio che nei confronti delle province aveva goduto l’Italia, provincializzò anche questa dividendola in correcturae e sottoponendola al regime fiscale della capitazione (a. 292). Il nuovo ordinamento fu portato a termine intorno al 298, quando la diocesi Italiciana, risultante dall’insieme delle varie province (correcturae), fu posta sotto l’amministrazione di due vicarii praefectorum praetorio (le altre diocesi dipendevano invece ciascuna da un solo vicarius). Dei due suddetti vicarii, corrispondenti alla divisione dell’Italia in Italia annonaria (a nord) e Italia suburbicaria (quella centromeridionale), il primo ebbe sede in Milano col titolo di vicarius Italiae, l’altro in Roma col titolo di vicarius urbis Romae. Degli antichi privilegi sopravvissero, per i cives Romani domo Roma, quello di 289
ricevere gratifiche di frumento, di caro porcina e di vino a basso prezzo. Un altro aspetto dell’impegno di Diocleziano nel consolidare le pericolanti strutture dell’impero, restaurando l’antica disciplina nel rispetto dei culti tradizionali, si deve forse riconoscere nella grande persecuzione contro i Cristiani che cominciò nel 303 e continuò poi per circa un decennio. Ma la sua ferma convinzione che il risanamento dell’impero dovesse fondarsi sulla fedeltà agli antichi ideali politici e morali non impedì che Roma perdesse importanza a favore di altre città che i tetrarchi scelsero. come sede del loro governo (Nicomedia in Bitinia, Sirmio in Pannonia, Milano, Treviri in Gallia). Era il primo passo verso il definitivo sgretolamento della più grande opera di unificazione politica realizzata nel mondo antico. 2. Fallimento della “tetrarchia”. Costantino e l’impero cristiano. - Fra queste luci e queste ombre erano trascorsi vent’anni di regno quando, nel maggio del 305, Diocleziano metteva in atto il suo proposito di ritirarsi a vita privata (e vi rimase fino alla morte, nel 316) facendo insieme abdicare il collega Massimiano. Diventarono automaticamente Augusti Costanzo Cloro e Galerio, e al loro posto furono scelti come Cesari Flavio Severo e Massimino Daia. Il sistema tetrarchico sembrava funzionare regolarmente e avviarsi al suo consolidamento, ma appena l’anno dopo riceveva un colpo mortale quando, essendo morto Costanzo Cloro, suo figlio Costantino riapriva la serie delle usurpazioni facendosi acclamare imperatore dall’esercito (25 luglio 306). Galerio si rifiutò di riconoscerlo ed 290
innalzò ad Augusto il Cesare Flavio Severo; qualche mese dopo in Roma si sollevavano i pretoriani che proclamavano Augusto Marco Aurelio Valerio Massenzio, il figlio di Massimiano, e infine anche questi s’indusse a rinunziare all’abdicazione riprendendo la porpora. Si scatenava così un nuovo periodo di lotte per la conquista del potere che nemmeno il personale intervento di Diocleziano riuscì a comporre, ottenendo solo che Massimiano tornasse ad abdicare mentre veniva creato Cesare Licinio Liciniano. Eliminato Flavio Severo da Massenzio, morto Galerio nel 311, l’anno appresso Costantino travolse Massenzio nella famosa battaglia di Ponte Milvio mentre in Oriente Licinio si sbarazzava di Massimino Daia (313). Per un decennio l’impero rimase diviso fra Costantino e Licinio finché, venuto meno l’accordo fra i due, Licinio fu vinto nella battaglia di Crisopoli (di fronte a Bisanzio) e Costantino rimase unico imperatore (324). Costantino (Imp. Caes. C. Flavius Valerius Costantinus Aug.) continuò l’opera di Diocleziano rafforzando il potere imperiale nelle forme del più rigido assolutismo teocratico e perfezionando i nuovi ordinamenti militari e burocratici, che strinsero in una ferrea morsa ogni forma di attività pubblica e privata e furono tra le caratteristiche più salienti del “basso Impero”. Per limitarsi a un quadro sommario delle innovazioni di maggior rilievo, basterà osservare che gli uffici un tempo riservati all’ordine equestre vennero o aboliti o affidati a personaggi della classe senatoria. Questa rimase pertanto l’unica categoria donde l’imperatore poteva attingere i grandi funzionari e i dignitari di 291
corte, ma ciò non implicò affatto una maggiore importanza politica del senato, che tra l’altro si trovò sminuito anche per il trasferimento (a. 330) della capitale da Roma a Bisanzio (più vicina al delicato scacchiere danubiano e ribattezzata col nome di Costantinopoli), dove veniva istituito un altro senato. Quanto alle tradizionali magistrature, l’unica a conservare prestigio fu soltanto il consolato, rivestito talvolta anche dagl’imperatori. Si trattava però solo di un’altissima distinzione di rango sociale, senza alcun potere specifico, come quello che invece spettava alle alte cariche dell’amministrazione imperiale. Queste si succedevano secondo un rigoroso ordine gerarchico e disponevano di un personale anche esso gerarchicamente ordinato, come risulta da quella specie di “ruolo organico” rappresentato dalla Notitia dignitatum omnium, tam civilium quam militarium in partibus Orientis et Occidentis e giunto a noi in una edizione risalente al 430 circa. Sopravvivono le antiche prefetture come la praefectura praetorio, la praefectura urbi, la praefectura annonae, la praefectura vigilum, delle quali la prima subisce la più profonda trasformazione; infatti a partire dal 320 il territorio dell’impero venne suddiviso fino a costituire quattro prefetture del pretorio: la prefettura delle Gallie, dell’Italia, dell’Africa, dell’Oriente (con successive diverse strutturazioni), e i relativi prefetti vi esercitarono poteri amplissimi in veste di veri e propri viceimperatori. Fra gli organi dell’amministrazione centrale i più elevati diventano il magister officiorum (una sorta di ministro degli affari interni, da cui dipendono anche le scholae palatinae, cioè la nuova 292
guardia del corpo che sostituisce i pretoriani aboliti da Costantino), il quaestor sacri palatii (specie di ministro della giustizia), il comes sacrarum largitionum (per le finanze), il comes rerum privatarum (per il patrimonio imperiale). Accanto a questi dicasteri, e con la tendenza a invaderne la sfera d’azione, importanza sempre maggiore venne acquistando l’ufficio di praepositus sacri cubiculi; altro organo di particolare rilievo fu infine il consistorium, il consiglio segreto dell’imperatore composto dei più alti dignitari. Ma la figura di Costantino grandeggia specialmente per la nuova politica inaugurata di fronte al Cristianesimo, che da lui ottenne pienezza di libertà e molti privilegi. Scrittori contemporanei raccontarono che, alla vigilia dello scontro decisivo con Massenzio al Ponte Milvio, l’imperatore ebbe una visione che lo spinse a convertirsi, promettendogli in cambio la vittoria. In una conversione avvenuta in tali circostanze alcuni hanno voluto scorgere il frutto di un calcolo opportunistico, ma senza alcuna buona ragione. Certo è, comunque, che poco dopo Costantino dette riconoscimento ufficiale alla nuova religione con l’editto di Milano del 313, invitando poi i sudditi ad abbracciarla e dichiarandosi egli stesso cristiano. Naturalmente, la conversione non trasformò il carattere assolutistico del suo potere, e non deve meravigliare che egli s’intromettesse poi a regolare questioni non solo di disciplina ecclesiastica, ma anche di fede, convocando fra l’altro nel 325 il concilio di Nicea ove vennero definiti i principi della dottrina trinitaria in quella formulazione che
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(ritoccata dal concilio di Costantinopoli del 381) è rimasta il Credo della Chiesa cattolica. Battuti i Goti, accordatosi con i Sarmati, che secondo un sistema inaugurato già nel III secolo furono accolti in gran numero entro i confini, Costantino si preparava a respingere un’invasione dei Persiani quando nel maggio 337 venne a morte presso Nicomedia. 3. I discendenti di Costantino. - Convinto sostenitore, a differenza di Diocleziano, della successione per diritto di sangue, Costantino già nel 335 aveva provveduto a ripartire i territori dell’impero fra i suoi tre figli, Costantino, Costanzo e Costante, e i due nipoti Delmazio e Annibaliano, figli del fratellastro Delmazio. Alla sua morte questi ultimi vennero ben presto eliminati, e dei tre fratelli il primo, Costantino II, assunse il governo dell’Occidente (Imp. Caesar Flavius Claudius Constantinus Aug.), il secondo, Costanzo II, quello dell’Oriente (Imp. Caesar Flavius Iulius Constantius Aug.), mentre Costante, sebbene rivestito anch’egli della dignità di Augusto (Imp. Caesar Flavius Iulius Constans Aug.), restava in sottordine e sotto la tutela di Costantino II. Dopo una vittoria sui Sarmati, Costante si rifiutò di riconoscere la sua subordinazione al fratello, e quando questi nel 340 mosse in armi per imporre la sua supremazia, fu vinto e ucciso presso Aquileia. Rimasto padrone dell’Occidente, Costante intraprese una serie di vigorose operazioni in difesa dei confini mentre in Oriente Costanzo II si batteva con energia, anche se con poca fortuna, per respingere i ripetuti attacchi dei Persiani. 294
Disgustatosi l’esercito con la sua fermezza nel mantenere la disciplina, nel 350 Costante cadde vittima di una congiura che portò al potere Magnenzio, un ufficiale semibarbaro (Imp. Caesar Flavius Magnus Magnentius Aug.). Costui cercò invano di intendersi con Costanzo, che nel 353 invase la Gallia e pose fine all’usurpazione ricostituendo nelle sue mani l’unità dell’impero. Nominato Cesare nel 355 il cugino Giuliano, con l’incarico di riorganizzare la difesa e l’amministrazione delle Gallie, Costanzo dovette tornare a riprendere le armi contro i Persiani; nel 360, pervenutagli la notizia che Giuliano era stato acclamato imperatore, mosse a incontrarlo ma, arrivato in Cilicia, si ammalò e morì (361). L’improvvisa scomparsa di Costanzo II lasciava Giuliano unico signore dell’impero (Imp. Caesar Flavius Claudius Iulianus Aug.) e libero di intraprendere quella politica di restaurazione del paganesimo per cui gli venne il nome di Apostata. Nato nel 331 da Giulio Costanzo, fratellastro di Costantino I, da piccolo era stato educato alla fede cristiana, ma poi l’aveva ripudiata sotto la suggestione di studi filosofici in cui rimase immerso finché il cugino, con la nomina a Cesare, lo chiamò a responsabilità di governo. Dimostrando di possedere attitudini non solo alla meditazione, ma anche all’attività politica, Giuliano si era distinto nelle Gallie, prima liberandole dalla minaccia dei Franchi e degli Alamanni, poi introducendo provvedimenti intesi a lenire la crisi economica, e uguale cura spiegò più tardi nel migliorare l’amministrazione dell’impero. La sua reazione anticristiana, per quanto energica, rimase senza conseguenze anche 295
per la breve durata; infatti il giovane, desideroso di gloria militare, s’imbarcò in una spedizione contro i Persiani senza averne subito alcuna provocazione, e nonostante le sue truppe avessero dato segni di scarso entusiasmo. La campagna si concluse sfavorevolmente; vi trovò la morte lo stesso Giuliano (363) e con lui si estinse la dinastia fondata da Costantino. 4. I barbari nei confini e la bipartizione dell’Impero. Dopo pochi mesi di regno di Gioviano, il più anziano dei protectores domestici (Imp. Caesar Flavius Iovianus Aug.), l’esercito acclamò imperatore Flavio Valentiniano. (Imp. Caesar Flavius Valentinianus Aug.), il quale si associò come Augusto il fratello Valente (Imp. Caesar Flavius Valens Aug.), affidandogli il governo della parte orientale. In Occidente egli condusse alcune brillanti azioni in difesa del limes renano e danubiano, ma per le spese militari fu costretto a un fiscalismo sempre più feroce e rovinoso. Quando nel 375 venne a morte, doveva succedergli il figlio Graziano, già nominato Augusto nel 367 (Imp. Caesar Flavius Gratianus Aug.), ma l’esercito proclamò imperatore il figliastro Valentiniano (Valentiniano II, 375-392: Imp. Caesar Flavius Valentinianus Iunior Aug.) e i due s’intesero per una pacifica divisione del potere. Nel frattempo Valente s’era prodigato a proteggere le province orientali dalla pressione dei barbari, e aveva dovuto accogliere entro i confini i Visigoti, incalzati alle spalle dagli Unni. Qualche anno dopo i Visigoti si ribellarono e, affrontati da Valente, lo travolsero nella sanguinosa battaglia di Adrianopoli (378).
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Allora Graziano nominò Augusto per l’Oriente Teodosio (Imp. Caesar Flavius Theodosius Aug., 379395), e questi riuscì a raddrizzare la situazione militare, cercando anche di stabilire rapporti di convivenza con i barbari per trarne nuove forze a difesa dell’impero. Infatti è appunto da questa epoca che intere tribù di barbari cominciarono ad installarsi entro i confini, organizzandosi in maniera autonoma e fornendo all’esercito imperiale contingenti sempre più numerosi di foederati che combattevano agli ordini di propri capi. Graziano scomparve nel 383 ad opera dell’usurpatore Magno Massimo, ma quando costui volle eliminare anche Valentiniano II, Teodosio intervenne e lo debellò. Fu in quest’epoca che, condannata l’eresia di Ario, si definirono i fondamenti dell’ortodossia cattolica (concilio di Costantinopoli del 381), e questa fu anche l’epoca in cui fiorirono a Roma alcuni ingegni pagani, fra i quali si può ricordare l’oratore Quinto Aurelio Simmaco, mentre senza nome rimane per noi (perché egli volle dissimulare la sua persona) l’autore delle più volte ricordate Vitae della Historia Augusta. Protestando indirettamente contro il regime imperiale, che si era fatto sempre più oppressivo e persecutorio anche col voler imporre il cristianesimo come unica religione di Stato, costoro svolsero un’appassionata polemica contro la nuova fede in nome degli antichi ideali di Roma pagana. Erano le ultime voci che si levavano ad esaltare la passata grandezza e non possono non commuovere, ma quando imputavano la presente miseria all’abbandono delle tradizioni e delle credenze avite, non tenevano conto che il nostalgico richiamo all’antica gloria poteva soddisfare le aspirazioni di 297
un cenacolo aristocratico, non le esigenze delle masse indifferenti a un passato per loro estraneo e protese verso ogni promessa di un avvenire migliore. Alla scomparsa di Valentiniano II, Teodosio tenne per poco il potere da solo, e quando morì (395) lasciò l’impero diviso tra i due figli (Arcadio in Oriente, Onorio in Occidente) affidati alla tutela di Stilicone, un valente condottiero di stirpe vandala. Continuando l’indirizzo filobarbarico di Teodosio, Stilicone cercò di attuare una politica di collaborazione in senso unitario fra Oriente e Occidente, ma con scarsa fortuna perché proprio allora maturavano le condizioni morali e materiali che portarono le due partes dell’impero ad assumere una fisionomia diversa e ad incontrare un diverso destino. 5. L’Impero d’Oriente e la fine dell’Impero d’Occidente. I regni romanobarbarici. - In Oriente Gainas, un generale di origine gotica, incaricato di sedare una ribellione degli Ostrogoti accolti nei confini da Teodosio, aveva fatto causa comune con quei barbari e col loro appoggio si era imposto ad Arcadio, instaurando a Costantinopoli una feroce dittatura. La sua tirannide venne travolta a furore di popolo (400), e allora in Oriente ebbe la prevalenza una ferma politica antibarbarica, appoggiata da una nobiltà consapevole dei suoi doveri verso lo Stato, sollecita dei bisogni delle classi medie, preoccupata di preservare la vita cittadina e ancor forte di una certa floridezza economica. In tali condizioni Costantinopoli non poteva che opporsi a Stilicone, considerato barbaro e protettore dei barbari, e alla 298
sua politica di unione con un Occidente imbarbarito, economicamente dissestato, con una vita cittadina in declino e con una nobiltà preoccupata solo di organizzarsi a difesa dei propri privilegi in forme che preludono al feudalesimo. Da questo momento si apriva la frattura tra l’impero d’Oriente, che si preparava a percorrere la lunga parabola della civiltà bizantina, e l’impero di Occidente, avviato ad operare quel complesso lavorio di reazione fra classicità, cristianesimo e germanesimo che è alla radice della nostra civiltà. L’uno sopravvisse ancora per un millennio; l’altro, sommerso dalle invasioni, stava per “cadere”, o meglio per procedere sulla via della sua trasformazione in nuovi organismi politico-sociali. A puntellare quella vuota impalcatura politicoburocratica, cui era ridotto l’impero d’Occidente, non potevano più bastare vittorie come quelle di Stilicone contro i Goti di Alarico (che però alcuni anni dopo, nel 410, diedero per primi il sacco a Roma) o quella di Aezio nel 451 contro gli Unni di Attila. Costui l’anno appresso irrompeva in Italia e, se si fermò per la distruzione di Aquileia, fu anche per l’intervento di papa Leone I: Roma poteva dirsi salva ma solo per poco, perché nel 455 cadde in potere dei Vandali di Genserico, sbarcati dall’Africa, e fu messa a sacco per la seconda volta. E poi, quelle non erano state vittorie dei Romani sui barbari, ma di barbari su altri barbari, e se l’impero d’Occidente si fa terminare nel 476 con la deposizione di Romolo Augustolo ad opera di Odoacre, il capo ribelle delle milizie germaniche degli Eruli stanziati in Italia, ciò è solo perché più
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nessuno, dopo di quello, assunse in Occidente il titolo di Augustus.
Su questo periodo si vedano in generale L. C ANTARELLI , L a diocesi italiciana da Diocleziano alla fine dell’impero occidentale, Roma 1903; E. D EMOUGEOT , De l’unité à la division de l’Empire Romain, Paris 1951 ; F. G ABOTTO , Storia dell’Italia occidentale nel Medio Evo, III, Pinerolo 1911; F. L OT , La fin du monde antique et les débuts du moyen Age, Paris 1928 ; S. M AZZARINO , Stilicone. La crisi imperiale dopo Teodosio, Roma 1942; ID ., Aspetti sociali del quarto secolo, Roma 1951; A. P IGANIOL , L’empereur Constantin, Paris 1932 ; ID ., L’empire chrétien (325-395), nella “Histoire générale fondée par G. Glotz”, Histoire romaine IV 2, Paris 1947 ; L. R UG GINI , Economia e società nell’Italia annonaria, Milano 1961; O. S EECK , Geschichte des Untergangs der antiken Welt, I-VI, Stuttgart, 1895-1921; W. Seston, Dioclétien et la tétrarchie, Paris 1946 ; E. S TEIN , Histoire du Bas-Empire, I, éd. par J.-R. P ALANQUE , Paris 1959 ; D. V AN B ERCHEM , L’armée de Dioclétien et la réforme constantinienne, Paris 1952 ; J. Vogt, Constantin der Grosse und sein Jahrhundert, 2 a ed., München 1960. In particolare su Diocleziano, oltre la già citata monografia del Seston, cfr., dello stesso autore, Iovius et Herculius ou l’épiphanie des tétrarques, in “Historia” I (1950) p. 257 sgg. Su Costanzo Cloro, R. A NDREOTTI in “Didaskaleion” IX (1930) p. 157 sgg. Sulla politica orientale di Diocleziano, W. E NSSLIN , Zur Ostpolitik des Kaisers Diocletians, in “Sitzb. Bayer. Akad. Wiss.” 1942, Heft 1. Sul passaggio dal comitatus di Diocleziano ai comitatenses di Costantino, cfr. W. S ESTON in “Historia” IV (1955) p. 284 sgg. Per quanto concerne la riforma dioclezianea dell’amministrazione provinciale, una fonte di grande interesse (oltre L ACTANT ., De mortib. persec. 7, 4) è il Laterculus Veronensis, cosiddetto perché conservato nella Biblioteca Veronese, di cui la prima edizione critica fu data nel 1862 dal M OMMSEN nelle “Abhandlungen” dell’Accademia di Berlino (si trova riprodotta in O. S EECK , Notitia dignitatum, p. 247 sgg.). Si tratta di un elenco (laterculus), databile intorno al 300 d.C., delle province, che vi appaiono raggruppate nelle rispettive diocesi. È da notare che, mentre per l’Oriente l’elencazione delle diocesi con le rispettive province è fatta seguendo un ordine geografico, per quanto invece riguarda l’Occidente (salvo Britannia e Pannonia) l’elencazione rispetta un ordine gerarchico di carattere ufficiale che si rispecchiava nel rango dei rispettivi governatori. Tale duplicità di criterio ha fatto pensare, contro l’opinione comune, che la lista non
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sia omogenea, cioè che risalga a due fonti diverse e che sia stata redatta in due periodi diversi (cfr. J. B. B URY , in “Journ. Rom. Stud.” XIII, 1923, p. 127 sgg.). Nell’elencazione, qua e là imprecisa, del laterculus, le dodici diocesi (sei in Oriente e sei in Occidente) appaiono menzionate in quest’ordine: I d. Orientis (con 16 province), II d. Pontica (con 7 prov.), III d. Asiana (con 9 prov.), IV d. Traciae (con 6 prov.), V d. Misiarum (con 11 prov.), VI d. Pannoniarum (con 7 prov.), VII d. Britanniarum (con 6 province), VIII d. Galliarum (con 8 prov.), IX d. Biennensis (= Viennensis, con 7 prov.), X d. Italiciana (con 12 prov.), XI d. Hispaniarum (con 6 prov.), XII d. Africae (con 6 prov.). L’equiparamento della posizione amministrativa dell’Italia a quella delle province ebbe un primo avvio nel “correttorato dell’Italia” testimoniato per la prima volta al tempo di Caracalla, sotto il quale Gaio Ottavio Appio Suetrio Sabino, console ordinario del 214, fu elect(us) ad corrig(endum) statum Ita[l(iae)], secondo la testimonianza di C.I.L. X 5398 = I.L.S. 1159. L’ufficio di corrector Italiae (che aveva funzioni diverse da quelle meramente giurisdizionali spettanti ai iuridici istituiti da M. Aurelio, ed esercitava più sostanziosi poteri di carattere militare e amministrativo) appare poi rivestito, sempre in età di Caracalla, da un Marcellino (Inscrip. Graec. ad res Rom. pertin., I 137), e una cinquantina d’anni dopo da un Pomponio Basso, che sembra il console ord. del 259 e del 271 (C.I.L. VI 31747). Viene poi ricordato nelle fonti letterarie il correttorato di Tetrico, che dopo essere stato battuto da Aureliano come ultimo sovrano del separatistico imperium Galliarum, fu dallo stesso Aureliano onorato con la nomina a corrector totius Italiae secondo S.H.A., Tyr. trig. 24, 5, con la nomina a corrector Lucaniae secondo A UR . V ICT . 35, 5; E UTR . IX 13, 2; S.H.A., Vita Aurel. 39, 1. La discrepanza fra le due notizie non è di poco momento, perché se realmente Tetrico ebbe il correttorato della sola Lucania si dovrebbe ammettere che già sotto Aureliano l’Italia non costituisse più un’unica correttura, ma fosse già stata divisa in varie corretture, cioè in vari distretti amministrativi corrispondenti alle province del posteriore ordinamento dioclezianeo. Ma nonostante tale opinione abbia trovato sostenitori (cfr. R. T HOMSEN , The Italic Regions, cit. p. 201) essa appare meno attendibile dell’altra che vede in Diocleziano, l’uomo che giunse poi a dividere l’Italia in province, l’istitutore dei correctores di singole province. L’iscrizione C.I.L. X 304, ove è menzionato un corrector Campaniae sotto Carino, fu giudicata falsa dal Mommsen. Su Eusebio come autore della Vita Constantini, cfr. F. V ITTINGHOFF , Eusebius als Verfasser der Vita Constantini, in “Rhein. Mus.” XCVI (1953) p. 330 sgg.; F. W INKELMANN , Zur Geschichte der Autentizitäts-problem der Vita Constantini, in “Klio” II (1962) p. 187
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sgg. Sui problemi relativi alla cronologia della epoca costantiniana, oltre A. P IGAN IOL , Dates constantiniennes, in “Rev. Hist. et Phil. Rel.” XII (1932) p. 360 sgg., sono da tenere presenti le indagini condotte sulla base di un riesame dei dati numismatici da P. B RUUN (del quale si ricordano qui, fra l’altro, gli Studies in Constantinian Chronology, New York 1961), anche se taluna delle sue conclusioni non pare da accogliere, come p. es. lo spostamento della data tradizionale (28 ottobre 312) della battaglia del Ponte Milvio; cfr. R. A NDREOTTI , Recenti contributi alla cronologia costantiniana, in “Latomus” XXIII (1964) p. 537 sgg. Sulla politica religiosa di Costantino, cfr. ultimamente S. C ALDERONE , Costantino e il Cattolicesimo, I, Firenze 1962. Sulla storicità dell’editto di Milano, M. A DRIANI , in “Studi Romani” 1954 p. 18 sgg. Sull’ordinamento dell’organizzazione tributaria, cfr. A. D ELEAGE , La capitation du Bas Empire, Paris 1945, il quale conclude: “Le principe essentiel de Dioclétien fut de déterminer dans chaque région une unité idéale, en fonction de laquelle tous les éléments concrets seraient apprécies” (p. 255); “la diversité des noms de l’unité fiscale correspond seulement à la diversité des éléments imposables qu’elle atteint et non à une différence intrinsèque. Toutes les unités représentent une même valeur et peuvent être additionnées”. Secondo il L OT (Nouvelles recherches sur l’impôt foncier et la capitation personnelle sous le Bas-Empire, Paris 1955, Diocleziano “s’est borné à réprimer les abus des agents du fisc” (p. 31). Sui secondi Flavii, cfr. G. G IGLI , La dinastia dei secondi Flavii, Roma 1959. Su Magnenzio, cfr. W. E NSSL IN , Der Usurpator Magnus Magnentius ein Germane, in “Klio” XIX (1925) p. 478 sgg. Su Giuliano l’Apostata, J. B IDEZ , La vie de l’empereur Julien, Paris 1930; R. A NDREOTTI , Il regno dell’imperatore Giuliano, Bologna 1936; I D ., L’opera legislativa e amministrativa dell’ imperatore Giuliano, in “Nuova Rivista Storica”, 1930, p. 342 sgg.; G. N EGR I , Giuliano l’Apostata, 5 a ed., Milano, 1954; G. R ICCIOTTI , Giuliano l’Apostata, Milano 1956. Sulla datazione del De rebus bellicis, S. M AZZARINO , Aspetti sociali del quarto secolo, cit.; A. D’O R S , Un arbitrista del siglo IV y la decadencia del imperio romano, “Quadernos de la Fondación Pastor” 7 (1963); R. A NDREOTTI , in “Riv. Filol. Class.”, n.s. XXXI (1953), p. 164. Sull’impresa di Giuliano in Oriente, R. A NDREOTTI , in “Historia” IV (1930), p. 236 sgg. Su Valentiniano I, cfr. A. S OLAR I , in “Riv. Filol. Class.”, N.S. X (1932), p. 75 sgg.; R. A NDREOT TI in “Nuova Rivista Storica” 1931, p. 456 sgg. Sulla generalis lex de specierum praebitione di Valentiniano I, cfr. A. P IGANIOL , in “Journ. des Savants” 1955, p. 10: “l’oeuvre propre de Valentinien est naturellement caractérisée par le plus haut sentiment des devoirs de l’Etat”. Sulla battaglia di Adrianopoli, cfr. J. S TRAUB , Die Wirkung der Niederlage bei
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Hadrianopel auf die Diskussion über das Germanenproblem in der spätrömischen Literatur, in “Philologus” 1943, p. 255 sgg. Sulla politica religiosa di Teodosio, cfr. V. E NSSLIN , in “Sitzb. Bayer. Akad. Wiss.”, 1953, H. 2. Si è largamente discusso sull’uso e destinazione de i contorniati, medaglie del basso impero caratterizzate da un solco circolare o “contorno” su entrambe le facce. Secondo A. A LFÖLDI , Die Kontorniaten. Ein verkanntes Propagandamittel der stadtrömischen heidnischen Aristokratie in ihrem Kampfe gegen das christliche Kaisertum, Budapest 1943), i contorniati avrebbero avuto lo scopo di svolgere una propaganda senatoria pagana contro il cristianesimo; ma cfr. S. M AZZARINO , in “Encicl. dell’arte antica classica orientale” II (1959) p. 787 sgg., il quale vede nei contorniati una “pecunia valida solo entro l’ambito della prefettura urbana di Roma”, e per quest a spiegazione si fonda su un editto prefettizio urbano, in cui si menziona la formula pecuniam spectaculis sibi vindicare. Una sintesi dei problemi economici e sociali in A. P IGANIOL , La crise sociale au Bas-Empire (in “Journ. des Savants”, 1955, p. 5 sgg.), che, accettando le conclusioni di S. M AZZARINO (Aspetti sociali, cit.), afferma “renoncer à l’adaeratio n’est donc pas du tout, comme prétendait Mickwitz, dans l’intérêt des bureaucrates, mais dans celui des contribuables”. Altro problema consisteva nel sapere se i limitanei erano contadini soldati, oppure no; ormai si può certamente negare che essi fossero contadini soldati: cfr. S. M AZZARINO , op. cit., e A. P IGAN IOL , in “Journ. des Savants” 1955, p. 12 secondo cui i limitanei “sont des paysans que la brutalité du recrutement arrache à leurs terres”. Quanto ai gentiles (questi, sì, contadini che difendono le loro terre), cfr. G. V ITUCCI , L’imperatore Probo, cit. p. 46, 106; S. M AZZARINO , Note di storia economica tardoromana, in “Economia e storia”, 1966, p. 469. Infine, per il problema dello “chiffre total de la population” di Roma, cfr. ancora A. P IGANIOL , loc. cit., p. 13, il quale accetta il numero di 120.000 e 141.120 gratificati proposto, rispettivamente per il 419 e per il 452, dal Mazzarino. Sulla personalità di S. Ambrogio, cfr. J.-R. P ALANQUE , St. Ambroise et l’empire romain. Contribution à l’histoire des rapports de l’Eglise et de l’Etat à la fin du VI e siècle, Paris 1933; F.H. D UDDEN , The Life and Times of St. Ambrose, I-II, Oxford 1935; P. R OLL ERO , S. Ambrogio e la sua età, 2a ed., Milano 1960.
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