Via Chanel N 5 Daniela Farnese

December 19, 2016 | Author: dartie90 | Category: N/A
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Via Chanel N 5 Daniela Farnese...

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Prima edizione ebook: agosto 2012 © 2012 Newton Compton editori s.r.l. Roma, Casella postale 6214 ISBN 978-88-541-4476-7 www.newtoncompton.com

Edizione elettronica realizzata da Gag srl

Daniela Farnese

Via Chanel N° 5

Newton Compton editori

A mia madre

RINGRAZIAMENTI

Grazie a Michela, Sara, Claudio, Elena, Valeria, Daniela, Giulia, Axi, Maurizio, Mafe e Filippo. Ognuno di loro sa il perché. Grazie a Francesca Mancini. Grazie alla caffeina. Grazie a Coco Chanel.

Di quante preoccupazioni ci si libera quando si decide, non di essere qualcosa, bensì qualcuno. Coco Chanel

1 SPECCHIETTO PER LE ALLODOLE

I passeggeri del vagone caldo e affollato della metropolitana che mi videro entrare correndo, sui miei tacchi dodici, un attimo prima che le porte si chiudessero alle mie spalle, non potevano immaginare di trovarsi di fronte la donna più felice del mondo. Il mio trasferimento a Milano era stato approvato, avevo appena firmato un contratto per uno splendido appartamento in affitto e stavo per confidare all’uomo che amavo che sarei andata a vivere nella sua stessa città. Avevo conosciuto Niccolò un anno prima, alla festa di compleanno della mia migliore amica, Emma, che mi stava ospitando per qualche giorno nella “metropoli”, tenendomi lontana da Venezia e dal mio appena diventato ex fidanzato. Io e Pietro eravamo stati insieme cinque anni. Lui era un informatico con una grande passione per la fotografia e mi aveva conquistata con un bellissimo ritratto in bianco e nero, che mi aveva scattato il pomeriggio in cui ci eravamo conosciuti. Un mese dopo eravamo andati a convivere, innamorati e felici. Avevamo vissuto momenti bellissimi, ci eravamo divertiti, avevamo girato il mondo, trascorso lunghe domeniche sul divano davanti alla TV, fatto grandi progetti per il futuro. Poi, erano iniziate le incomprensioni, le bugie, i debiti per comprare la casa, le prime liti sul colore delle mattonelle per il bagno, “sei come tua madre”, “sei peggio di tuo padre”, fino al giorno in cui lo avevo trovato a letto con una sua collega, bionda e grassoccia, taglia 48, supposi, e indignata l’avevo sbattuto fuori di casa. Mi aveva tradito con una che era, come minimo, una 48. La sera che conobbi Niccolò indossavo una giacchetta di tweed, sulla quale avevo appuntato una camelia, e un paio di jeans attillati che mi slanciavano e mi facevano sembrare almeno quattro chili più magra. Al collo, un lungo filo di perle che avevo annodato sul petto. Passavo il tempo a evitare di ingozzarmi di noccioline e a criticare la donna che avevo trovato nel mio letto, avvinghiata all’uomo con il quale condividevo il mutuo della casa. «Ti rendi conto che mi ha tradita con una che porta la 48?», continuavo a ripetere, sconvolta e disgustata, bevendo prosecco in cucina e masticando carote e finocchi. «Non riesco a credere che l’uomo che ha ascoltato per anni le mie lamentele sul peso forma e sui miei chili in eccesso sia stato così crudele da tradirmi con una con quei fianchi da balena. Alla fine, lui preferiva le ciccione. E io, l’idiota, sono stata a pane e acqua per anni». Emma, esausta per le mie continue lamentele, continuava a scuotere il capo e ripeteva: «Tu sei fuori di testa. Ma cosa te ne importa del peso, ti ha tradita, capito? È questo che conta!». «È più forte di me. Chiudo gli occhi e mi appaiono vestiti microscopici, ventri piatti, digiuni forzati, abbuffate catartiche, tisane depurative, diete a base di carboidrati, e poi senza carboidrati, con proteine e senza proteine, beveroni miracolosi, pane e acqua, bilance giganti...», le dissi, addentando un finocchio. «Da quando ti conosco non fai che parlare del tuo aspetto fisico, ma non ti sei stancata?! Sei bella, intelligente, spiritosa. Cos’altro vuoi da questa maledetta vita?», rispose.

Avevo trentadue anni e mi consideravo una donna “abbastanza” carina. Portavo una 44, che in alcuni periodi di maggiore rotondità mi strizzavo addosso, pur di non ammettere di aver bisogno di una taglia in più; avevo un sedere sodo, un seno piccolo, ma che riscuoteva un discreto successo, due occhioni castani da cerbiatta e labbra grandi e morbide. Non ero mai stata una bellezza da copertina, di quelle che fanno voltare gli uomini per strada, che spezzano il cuore a tutti e che si concedono solo ai veri principi azzurri, però, appena superata la maledetta adolescenza, avevo capito che potevo piacere. L’umorismo e l’ironia che da ragazzina mi avevano condannato a essere “l’amica simpatica”, quella che – per intenderci – fa da spalla alle “amiche bionde e un po’ snob” che tutti vorrebbero sedurre, da adulta avevano fatto di me una tipa impertinente e fascinosa. Come era accaduto agli esseri umani ai quali Madre Natura aveva deciso di non concedere bellezza e avvenenza, anche io avevo puntato tutto sulla personalità e, orgogliosa, mi ero portata a casa le mie belle tacche sul pugnale. «Hai ragione», ammisi. «Ma non riesco a pensare ad altro». «Credi davvero che la bellezza sia così importante?», disse Emma, versandosi da bere. «Coco Chanel ripeteva che la bellezza serve alle donne per essere amate dagli uomini, mentre la stupidità serve ad amarli», risposi. «Be’, detta così, può essere una grande verità», esclamò Emma alzando il calice e brindando alla mia salute. Mentre continuavo a sgranocchiare verdurine, a imprecare contro il mio ex e a visualizzare bilance mastodontiche, suonò il citofono. Pochi attimi dopo, fece il suo ingresso trionfale un uomo bellissimo, gli occhi neri come il carbone, i capelli spettinati e la barba di un paio di giorni, nel suo completo di sartoria antracite, senza cravatta. Il sorriso largo e caldo stampato sul suo volto faceva sembrare tutti gli altri sorrisi del mondo dei piccoli e insignificanti ghigni. Lo capii subito. Niccolò era un uomo sicuro di sé, carismatico, spiritoso e decisamente sexy. Tutte le donne presenti alla festa sembravano conoscerlo molto bene. Dopo aver salutato gli amici, baciato guance e stretto mani, si sfilò la giacca, la gettò sul divano e venne diritto verso la cucina. Nel percorso tra la sala e la cucina iniziò ad arrotolarsi le maniche della camicia bianca, lentamente e con precisione, lasciando intravedere i suoi splendidi avambracci. Lo confesso, ho una grande passione, forse anche un po’ morbosa, per gli uomini in camicia. Quando poi le maniche si fermano appena sotto il gomito mostrando braccia muscolose, perdo completamente il controllo. È più forte di me. Mentre Niccolò si avvicinava al bancone della cucina in cerca di alcol, immaginai, io fui ipnotizzata dalle sue braccia. E siccome il destino è beffardo, lui mi fissò per un breve istante e poi mi rivolse la più scontata delle domande: «Sei un’appassionata di orologi?», chiese, destandomi dal principio di una fantasia erotica che nasceva dal suo gomito. «Scusa?», risposi fissandolo come una triglia fissa il pescatore prima di essere gettata sul fondo della barca. «Mi sembrava stessi guardando il mio orologio, pensavo fossi un’intenditrice». «L’orologio, certo!», dissi ingoiando di colpo un boccone di verdure e rischiando la morte per asfissia davanti a uno degli uomini più belli che io avessi mai visto. «Sì, sono un’appassionata di orologi. Il tuo è davvero un bell’oggetto. Valorizza il polso». «Strano, non avevo mai pensato agli orologi come a strumenti di “valorizzazione di polsi”. A te piacciono?».

Io detesto gli orologi. L’idea di portare legato al braccio il simbolo del tempo che passa mi sembra spaventosa e ridicola. Come se non bastasse la vita a ricordarci che ogni ventiquattr’ore invecchiamo sempre un po’ di più. «Oh, mi piacciono moltissimo. Non li porto perché... ehm, perché sono allergica», risposi a Niccolò, stupefatta dalla mia stessa incontrollata idiozia. «Sei allergica agli orologi?». Ripetuta da lui, la frase sembrava ancora più cretina. Per fortuna, in quel momento Emma rientrò in cucina, interrompendo la nostra conversazione surreale, e io provai l’impulso di saltarle al collo per ringraziarla di quell’intervento riparatore. «Ehi, vi siete già presentati?», chiese mentre afferrava una bottiglia di rum dalla mensola. «A dire la verità, no», rispose lui, sorridendomi. «Rebecca, per gli amici Coco». «Come la grande Chanel», aggiunse Emma sogghignando. «Rebecca è la sua fan numero uno». «Già, sono una sua grande ammiratrice», sorrisi timidamente, mentre gli porgevo la mano. «Niccolò», rispose, stringendomela. E quanto è sexy la tua mano, pensai. «Rebecca è una mia amica d’infanzia. Andavamo a scuola insieme. Abita a Venezia ed è qui per qualche giorno». «Benvenuta a Milano, Rebecca», sorrise ancora. «Che fai di bello nella vita?». Una delle cose che detesto di più è l’abitudine di chiedere informazioni sul lavoro che fa una persona non appena la si conosce. Come se poi dovesse comunque essere bello! Nessuno ti chiede mai se ascolti Battisti o Lou Reed, se preferisci le Hogan alle All Star, se vai nei villaggi turisti o in campeggio, se ti fa ridere Vanzina o i fratelli Coen. Sono queste le cose che fanno la differenza, non il tuo stramaledetto lavoro. «Mi occupo di eventi», risposi vagamente. Lavoravo in una grande agenzia che organizzava eventi e congressi in tutta Europa. Ai profani poteva sembrare un lavoro affascinante: party, cene di gala, abiti da sera e centrotavola con fiori esotici. In realtà, io mi occupavo di noiosi congressi medico-scientifici e le cose più emozionanti che potevano capitarmi erano corsi di formazione per proctologi o seminari sui disagi della prostata. «Bello, potrei chiederti qualche consiglio sul vernissage che sto organizzando per lanciare il mio nuovo studio. Sono un architetto», disse, portandosi alla bocca il bicchiere e piegando il braccio in modo tale da evidenziare ancora di più il suo splendido bicipite. Ero già la sua schiava d’amore. Passammo tutta la serata a chiacchierare. Oltre a essere bello, Niccolò era colto, intelligente, ironico e galante. Si premurava di riempirmi il bicchiere ogni volta che lo svuotavo e mi chiedeva ogni cinque minuti se stavo bene e se mi divertivo. Ero ormai ubriaca, di vino e di lui, e per tutto il tempo mi dimenticai del mio ex fedifrago e della sua compagna balena. A fine serata, Niccolò mi baciò su una guancia e mi lasciò il suo biglietto da visita, prima di infilarsi nuovamente la giacca ed essere inghiottito dalla notte milanese. «Non detesti anche tu questa nuova abitudine che hanno gli uomini di lasciarti il loro numero?», chiesi a Emma, ipnotizzata dal cartoncino bianco. «Ti sei offesa perché non sei abituata a fare la prima mossa?», domandò lei. «Non riesco ancora ad accettare che i tempi siano cambiati, che gli uomini abbiamo smesso di essere

cacciatori e abbiano iniziato a diffondere il loro recapito, aspettandosi di essere richiamati», affermai, mentre bevevo l’ultimo calice di prosecco. «Quanto sei all’antica!». «All’antica? Credo nell’assoluta parità tra uomo e donna, ma rimango convinta che sia l’uomo a dover prendere in mano il telefono e chiamare. È una questione genetica, come pagare la cena, montare le mensole, aprire la portiera dell’auto e caricarsi le valigie in vacanza». «Questa sì che è vera emancipazione!», rise Emma. Alla fine della serata, con la testa che mi girava e mentre provavo a contare quante calorie avevo ingerito, capii che per Niccolò sarei stata pronta a fare un’eccezione. Al diavolo la genetica! Il giorno successivo, con i postumi della sbronza ancora tutti presenti all’appello, dopo aver studiato con Emma la strategia giusta, feci un bel respiro profondo e composi quel dannato numero. Fu tutto molto facile. Rividi Niccolò la sera stessa. Avevo fatto colpo, dovevo ringraziare i miei jeans attillati. Era venuto a prendermi, mi aveva aperto la portiera, aveva scelto la musica perfetta e ordinato un vino strepitoso. Mi sentivo la sua dea. Indossavo un tubino nero che valorizzava il mio discreto décolleté e che mi avvolgeva con delicatezza i fianchi, mascherando qualche curva di troppo. Lui avevano notato i miei splendidi sandali di Sergio Rossi e mi aveva fatto i complimenti per le caviglie sottili. «Adoro le scarpe», gli confessai, mentre cenavamo. «Ne possiedo più di cento paia». «Complimenti! Una bella collezione», rispose stupito. «Lo so, potrei sembrare la classica donna che spende tutto il suo stipendio in stiletti e stivali e che ogni sera ne indossa un modello diverso, nelle sue folli notti mondane. In realtà, le compro, le accumulo e poi non so mai quando metterle. Alcune giacciono ancora nuove di zecca nella scarpiera. Ma sapere che ci sono, che sono lì ad aspettarmi, mi mette di buonumore. A volte, penso addirittura che alcune di loro abbiano iniziato a volermi bene», risi di gusto. Niccolò mi faceva volare. «Sei stramba, Coco», mi disse, lasciandomi parlare ancora di scarpe, senza annoiarsi mai e mostrando anche un certo interesse. Mi sembrava di vivere un sogno. Chiacchierammo tutta la sera, come se ci conoscessimo da anni. Gli raccontai del mio ex, delle nostre incomprensioni, dell’amore che finisce, di come ci si senta vulnerabili quando si viene traditi, e lui mi parlò della sua storia d’amore finita un anno prima, delle nozze andate in fumo, delle bomboniere restituite, del cane che aveva lasciato a lei, di quanto sentisse la mancanza di quel cucciolo e della sua vita da single trentacinquenne a Milano. Parlava con una voce calda, rilassata. Mi fissava e ogni tanto sorrideva. Ascoltare i suoi trascorsi affettivi, le sue sofferenze d’amore, il suo lato romantico, me lo rendeva ancora più sexy. Era l’uomo perfetto per me. Scoprimmo di avere gusti simili, un po’ per coincidenza, un po’ perché, per non deluderlo, mentivo, in buona fede. A lui piaceva il rock, la musica elettronica, i gruppi cattivi e arrabbiati. Io ero cresciuta ascoltando cantautori che parlavano d’amore, strimpellando alla chitarra le canzoni di Battisti, seguendo tutte le finali del festival di Sanremo e scommettendo con gli amici su chi sarebbe stato il vincitore. «Ti piacciono i Tools?», mi chiese. «E gli Incubus?» «Ma certo!», risposi, anche se non avevo neppure capito i nomi. «Li seguo da anni», mentii, sperando

non mi chiedesse di cantargli il mio pezzo preferito o di citare alcuni dei loro album meglio riusciti. A lui piacevano gli scrittori americani, a me i russi, ma perché non assecondarlo mentre mi raccontava per filo e per segno la trama dell’ultimo noiosissimo romanzo di Don Winslow? Ero disposta a stravolgere tutta me stessa per un uomo come lui. Se me l’avesse chiesto, avrei anche potuto mangiare carboidrati a cena e indossare biancheria color carne. Non riuscivo a credere che mi fosse piovuto da cielo così presto, a ricucirmi il cuore appena fatto a pezzi. E, soprattutto, ero felicissima che anche lui fosse così tanto attratto da me. Finimmo la serata nell’appartamento di Niccolò. L’arredamento era stato scelto con cura e ogni particolare sembrava trovarsi lì per un servizio fotografico di qualche rivista di design. Mi fece accomodare sul divano e fece partire la musica, poi mi guardò negli occhi e mi disse che ero bella. Quando Niccolò pronunciò quelle parole, avvicinai la mia bocca alla sua e lo baciai. Quello era il paradiso e io l’avevo conquistato. Facemmo l’amore per ore, senza alcun imbarazzo, come se ci conoscessimo da sempre. A parte un’insignificante sveltina con un collega sbronzo, alla fine di un noioso congresso di ginecologi, non avevo mai tradito Pietro e mi ero abituata al suo corpo e ai suoi gesti. Niccolò mi mise subito a mio agio, sapeva esattamente dove e come toccarmi, cosa baciare e cosa dire. Eravamo in perfetta sintonia. Quando, intorno alle quattro, gli chiesi di chiamarmi un taxi per rientrare, redarguita da Emma sulle nuove usanze dei single, che non restano quasi più a dormire a casa dei loro partner, lui mi esortò a restare: «Mi piacerebbe molto poterti preparare il caffè al risveglio». A stento trattenni le lacrime. Ed ora eccomi qui. Io e Niccolò avremmo finalmente vissuto nella stessa città. A piazza del Duomo scesi per prendere la coincidenza con la linea rossa, verso Porta Venezia. Camminavo lentamente perché le scarpe erano nuove e i tacchi impegnativi. Indossavo un pantalone bianco che mi fasciava il sedere e rendeva poco liberi i miei movimenti. Sopra, una maglietta a righe bianche e blu, stile marinaro, e in testa il mio cappellino Panama portafortuna. L’appuntamento era alle cinque al Jack. Avevo prenotato un tavolo per non rischiare di dover restare in piedi, pigiati nei pressi del bancone, all’ora dell’aperitivo. Avevo intenzione di ordinare champagne e assaporare l’espressione felice di Niccolò alla mia grande notizia. Ci frequentavamo ormai da un anno. Era stato un anno di cenette romantiche, fiumi di vino, film, concerti e sesso di altissima qualità. Ogni due fine settimana, saltavo felice sul treno e raggiungevo il mio uomo ideale. Un paio di volte, era venuto lui a trovarmi in laguna e avevamo passeggiato tra le calli, baciandoci su ogni ponte come due adolescenti. Sapevo che stavamo per diventare una vera coppia. Nei giorni in cui non ci vedevamo, lunghissimi e noiosi, trascorrevamo ore su Skype, a scambiarci musica e film, a raccontarci delle nostre giornate e a parlare del sesso fatto, immaginato e da fare. Mi aveva presentato qualche suo amico e io gli avevo fatto conoscere le mie amiche più care che si erano trasferite a Milano. Ogni tanto ci concedevamo lunghi aperitivi tutti insieme e lui mi abbracciava, mi baciava sulla guancia ed esclamava: «Siamo una bella squadra, no?!».

Un giorno avevamo incrociato suo padre e lui mi aveva presentata come “la sua amica Rebecca”. Ci ero rimasta un po’ male, ma poi avevo capito che la questione era delicata, che i genitori sono sempre molto sensibili rispetto alla vita affettiva dei figli, che in fondo eravamo anche ottimi amici e che potevo lasciar correre. Avevo sorriso e – nonostante detestassi da sempre i matrimoni – per un istante mi ero augurata che quel vecchio signore diventasse mio suocero. Era stato un anno intenso. C’erano state liti, malintesi, qualche piccolo allontanamento. Niccolò era un uomo passionale, riservato, suscettibile e molto solitario. Avevo imparato a lasciargli i suoi spazi, a fidarmi di lui, a non chiedere mai cosa facesse nei weekend in cui non ci vedevamo, per non sembrare troppo asfissiante, insicura o gelosa. Lui riteneva che io fossi una donna forte, spiritosa, ironica e sicura di sé e io di rado gli avevo mostrato le mie tante fragilità. Volevo essere la donna vincente che lui si aspettava e, forse, meritava. Una volta, mentre ci stavamo baciando, dopo aver fatto l’amore, mi aveva detto: «Mi piace il tuo corpo morbido. La tua è una bellezza rinascimentale». Quella frase mi aveva paralizzata. Il mio aspetto fisico continuava a essere il mio punto debole, anche se lui non perdeva occasione per dirmi che ero meravigliosa. Dopo quell’affermazione, mi ero congedata sforzandomi di sorridere, mi ero chiusa in bagno e avevo iniziato a piangere, fissandomi allo specchio e desiderando che il suo scroto avvizzisse di colpo. Poi mi ero sciacquata la faccia ed ero tornata a letto, impassibile. Sono una donna vincente, sono una donna vincente, sono una donna vincente... nessun commento sciocco sul mio aspetto fisico potrà buttarmi giù, mi ripetevo come un mantra. Ero innamorata e gli perdonavo tutto, anche il fatto che non si accorgesse di alcune mie debolezze. In fondo ero io a proteggerlo dai miei difetti, perché è questo ciò che fa l’amore. A volte, quando pranzavamo o cenavamo fuori, ci divertivamo a giudicare le altre donne sedute ai tavoli intorno a noi. Io davo dei voti e Niccolò mi diceva se le avrebbe mai sedotte o meno. Una sera, in cui eravamo particolarmente brilli, mi fece una confessione. «Io ho un grandissimo talento nel far innamorare le donne disperate», mi disse. «Complimenti», risposi, iniziando a ridere come una matta. Mi sentivo chiamata in causa. Non gli avevo mai confidato i miei sentimenti. Ero una donna vincente. Non volevo spaventarlo né mettergli fretta. Aspettavo che fosse lui a fare la prima mossa. Aspettavo che fosse pronto, che si sentisse sicuro, che avesse davvero capito che non poteva fare altro che passare tutto il resto della sua vita con me. Nel frattempo, però, avevo fatto domanda di trasferimento nell’agenzia milanese del gruppo per cui lavoravo e, una volta che era stata approvata, avevo iniziato a cercare un bilocale in affitto. Avevo nascosto a Niccolò tutti i miei piani, volevo che fosse una sorpresa. Ero sicura che avrebbe fatto i salti di gioia. La linea rossa della metropolitana puzzava come un carro bestiame. In piedi, cercando di mantenere l’equilibrio senza appoggiarmi a nessuna superficie per non sporcare i pantaloni bianchi, cercavo di specchiarmi nei finestrini per verificare che la mia perfezione non svanisse all’ennesimo sobbalzo del vagone. Scesi alla fermata di Porta Venezia, rimasi qualche istante sulla banchina, cercando nella borsetta uno specchietto. Controllai che il trucco fosse al suo posto, impeccabile, mi sistemai cappello e capelli e mi avviai verso le scale mobili. Le scarpe nuove che indossavo per l’occasione iniziavano a farmi male, colpa anche del caldo che mi

stava gonfiando i piedi. La mia falcata, lungi dall’essere sexy, sembrava quella di un tirannosauro con problemi di stitichezza. Una volta sbucata in superficie, assalita da una folata di aria caldissima, mi incamminai verso il locale, con passi indecisi e lenti, mascherando con il sorriso un principio di cancrena ai piedi. Una volta nel locale, mi gettai sulla sedia come se fossi stata in piedi un mese intero e mi sfilai lentamente le scarpe, sotto il tavolino, cercando di non dare nell’occhio. Niccolò arrivò con un quarto d’ora di ritardo. Era bello, abbronzato e rilassato e indossava una delle sue splendide camicie fatte su misura, con le iniziali ricamate, che tanto erano servite a farmi innamorare di lui. Si avvicinò al tavolino, sorrise intravedendo i miei piedi scalzi, mi baciò su una guancia, si sedette e disse: «Bellissime scarpe!». «Grazie, sono nuove, fanno un male cane». «Ne vale la pena, però». «Lo penso anche io». «Allora, come mai questa visita improvvisa durante la settimana? Ti mancava così tanto Milano?». «Mi mancavi tu!». Sorrisi, ammiccante, e feci un gesto al cameriere per farlo avvicinare a prendere le ordinazioni. Nelle ultime settimane ero stata così impegnata a organizzare la mia nuova vita che ci eravamo visti pochissimo. Per lasciare che mi concedessero il trasferimento, avevo sbrigato e archiviato tutte le pratiche sospese della passata stagione e avevo lavorato anche nei fine settimana. «Ho grandi novità». «Anche io», rispose, battendosi una mano sulla coscia. «Bene, allora ordiniamo due calici di champagne e iniziamo». Niccolò mi fissò negli occhi e divenne improvvisamente serio e curioso. «Allora, quali sono queste grandi novità?» «Be’, ecco, mi trasferisco a Milano». «Ma come? Quando? E il lavoro?» «Sono stata trasferita nella sede di Milano». «Che notizia! E dove andrai a stare?» «Ho trovato un bilocale molto carino in zona Porta Romana. Trasloco questo fine settimana». «Incredibile!». «Mi sarebbe piaciuto trovare qualcosa di più vicino a te, ma il mercato in zona non offre tantissimo. E quello che è disponibile è fuori dal mio budget. Per vederci, mi toccherà infilarmi in metro». «Potrai fare questo sforzo, ogni tanto». «Ogni tanto? Mi toccherà farlo tutti i giorni, mi sa!», scoppiai in una sonora risata e gli presi la mano. Che lui ritrasse. In quel momento il mio stomaco si chiuse all’improvviso, quasi intuisse il pericolo imminente e corresse ai ripari. Qualcosa stava andando storto. «A questo proposito...», disse Niccolò, fissando un punto imprecisato del tavolino, «dobbiamo parlare...». Eccolo, era arrivato, lui, il maledetto “Codice”. L’uomo che amavo alla follia stava cominciando a usare il Codice.

Il Codice è composto da tutta quella serie di frasi, modi di dire, atteggiamenti, pose, sguardi che le coppie usano, spesso inconsciamente, quando qualcosa nella storia inizia ad andare male. “Non riesco a darti quello che...”, “Non sei tu, sono io”, “È meglio per tutti e due”, “Non posso più vederti così”, “Non riesco a fare di meglio”, “Non faccio altro che deluderti” sono alcuni fondamenti intramontabili del Codice. Niccolò aveva preferito un banalissimo “Dobbiamo parlare...”. Dopo la sua affermazione, seguì un silenzio interminabile. Il cameriere appoggiò i due calici di champagne sul tavolo e io rimasi a fissare il mio come se fosse un meteorite appena precipitato dal cielo. Non riuscivo a sollevare gli occhi dal bicchiere. Mi feci coraggio, deglutii, poi mi ricordai che ero una donna vincente e tutte quelle balle lì, alzai la testa, guardai Niccolò e gli chiesi: «Di cosa vuoi che parliamo?». Lui mi fissò a lungo, concentrandosi sulla mia fronte e sui miei capelli, che ricadevano sulle spalle, poi prese il bicchiere, si concesse un sorso e rispose: «Di Anna». «Di chi?» «Di Anna, della tua amica Anna». Cosa cazzo c’entrava la mia amica Anna con me, Niccolò, lo champagne, i tavolini prenotati, il caldo pazzesco, i sandali nuovi che facevano un male cane, il trucco che colava e il mio trasferimento a Milano? «An-na?», chiesi, fissandolo negli occhi. «Sì, Anna». «Tu conosci Anna?» «Sì, me l’hai presentata tu un paio di mesi fa. Eravamo a quel reading noiosissimo a cui mi avevi trascinato e c’era anche lei. Ricordi?». Ricordavo. Alcuni amici avevano messo su uno spettacolo di letture di racconti, in un piccolo locale molto carino, e avevamo passato la serata a trattenere le risate per l’imbarazzo (erano davvero pessimi!) e a bere vino. Anna era arrivata tardi e aveva preso posto al tavolo accanto al nostro. La conoscevo da qualche anno, era amica di una mia cara cugina che frequentava il nostro stesso stabilimento balneare nelle Marche. Era di qualche anno più giovane di me, alta, bionda e magra e aveva il sorriso più dolce che una donna potesse avere. I suoi lineamenti erano così perfetti che le bastava un filo di rimmel per essere splendida, mentre noi comuni mortali passiamo ore davanti allo specchio a stendere strati di fondotinta, spatolate di cipria, ombretti, blush e rossetti, per sembrare la versione migliore di noi stesse. Quella famosa sera le avevo presentato Niccolò, avevano scambiato qualche battuta, chiacchierato un po’ al bancone del bar e poi si erano salutati. E adesso me la ritrovavo citata in una conversazione che stava prendendo una pessima piega, mentre il mio champagne si scaldava e la nausea cominciava a montare. «Ti ho presentato Anna un paio di mesi fa, certo», dissi lentamente, controllando il tremolio della voce, «posso sapere cosa c’entra adesso lei?» «Ecco... non so come dirtelo. In fondo tu e io siamo sempre stati una bella squadra. Tu sei una donna vincente, ti adoro per questo, sei una che riesce a controllare le emozioni, sicura di sé. Non ti lasci intimorire, non ti spaventa invecchiare. Io sono stato single a lungo, lo sai, sono diventato un orso. Ho già trentasei anni e non sono più un ragazzino...».

«Sì, credo di conoscerti abbastanza bene», sicuramente più di quanto lui conoscesse me... «Certo! Vedi, arrivato a questo punto della mia vita, ho scoperto, soprattutto grazie a te, alle nostre lunghe chiacchierate, a nostri bei momenti insieme, alla nostra complicità, che mi mancava qualcosa. Ho scoperto di aver bisogno di qualcuno da amare». Le mie gambe avevano iniziato a tremare. «E credo di aver trovato la persona giusta per me. Anna». Ricapitoliamo tutto, ho bisogno di fare un attimo il punto della situazione: conosco un uomo splendido, mi innamoro follemente, andiamo d’accordissimo, il sesso è strepitoso, io cambio città e lavoro per lui e lui, finalmente, decide di iniziare ad amare sul serio... un’altra! Lui-si-innamora-di-un’altra. Lui-si-innamora-di-Anna. Afferrai il mio calice di champagne, con la mano tremante e una terribile sensazione di vertigine. Provai a berne un sorso e poi posai di nuovo il bicchiere sul tavolino, rischiando di rovesciarlo. Un brivido freddo mi attraversò la schiena, nonostante l’afa milanese. «Ti senti bene?», chiese, guardandomi un po’ perplesso. Fu allora che la donna vincente smise di preoccuparsi del trucco perfetto, dei pantaloni bianchi, dei capelli in ordine, della gente che le sedeva attorno, e iniziò a singhiozzare come una bambina. «Coco, oddio, che succede?» «Che succede?!», provai a biascicare tra lacrime e singhiozzi. «Che succede?! Mi vuoi dire che non l’hai capito?». Iniziai a fissarlo, tra le lacrime. Possibile che il mio uomo ideale fosse in realtà il cretino che mi stava di fronte e mi feriva mortalmente? Possibile che durante quel lungo anno lui non si fosse accorto di cosa significasse per me? «Non volevo ferirti. So quanto ci tieni a me, ma le cose succedono, l’amore arriva e non scegli tu quando e con chi. Lo capisci, vero?». Era ufficiale, era un imbecille. «Ma come fai a chiedermi questo? Come? E io? E noi?» «Rebecca, il sesso tra noi era splendido, avevamo una sintonia meravigliosa, ma tu sei una donna libera, indipendente, forte. Non hai bisogno di qualcuno che ti protegga. Ti piace vivere da sola, adori divertirti. Anche senza la nostra relazione, sarai sempre la numero uno. Sono stato benissimo con te, ma poi è arrivato l’amore e io non ho potuto farci nulla. Mi sono innamorato, tutto qua». In quell’esatto momento compresi che non avevo capito niente. Mentre io l’amavo, l’amavo dall’attimo esatto in cui l’avevo conosciuto, lui aveva cercato in me solo compagnia, in attesa della donna della sua vita. Mentre io passavo i mesi a pensare che stessimo costruendo qualcosa, lui mi usava come cuscinetto emotivo per trovare l’amore vero. Non avevo capito niente. Forse il cretino non era lui. Forse l’unica, vera cretina ero io. Niccolò, incapace di arginare la mia valle di lacrime, disse la cosa più stupida che un uomo possa dire subito dopo aver preso il cuore di una donna e averlo dato in pasto ai lupi: «Non ti preoccupare, non ci perderemo. Rimarremo grandi amici. Ci tengo a te». Mi girai lentamente verso di lui. Il rimmel mi aveva sfigurato il viso, mescolandosi al fondotinta. Lo fissai a lungo, cercando di trattenere i singhiozzi e poi, con una voce debolissima, confessai: «Ti amo». Niccolò indietreggiò, serrando le labbra. Mi fissò per un breve attimo, poi iniziò a scuotere il capo. «Non è possibile, ti stai sbagliando!». «Sbagliando?! Ti amo dal primo momento che ti ho visto. Ti ho amato per tutto questo lunghissimo fottuto anno!».

«No... no. Tu adesso sei triste perché mi perdi come amante...». «Ma cosa stai dicendo?» «Tu non mi ami, ora sei confusa! Me l’avresti detto! Hai sempre sostenuto di essere una donna forte, indipendente. Mi hai sempre raccontato di non aver bisogno di smancerie e protezione». «Lo dicevo per non metterti fretta, per non spaventarti. Eri così felice nella tua condizione di scapolo impenitente. Non volevo forzarti, volevo che capissi da solo che anche tu mi amavi». «Ma è una cosa stupida!». Scoppiai nuovamente in lacrime. Non solo mi stava distruggendo il cuore. Mi dava anche della stupida. «Ma io... io...», iniziai a balbettare, stremata. «Rebecca, perché non mi hai mai parlato dei tuoi sentimenti? Non credo che sarebbe cambiato qualcosa, forse a noi è mancata quella scintilla in più. Ma se avessi capito che eri davvero innamorata, che per te ero di più di un complice e un amico speciale, avrei fatto le cose per bene, avrei interrotto prima la nostra relazione. Anna non ha nulla a che fare con la nostra amicizia. Ti chiedo soltanto di capirmi. Non ho scelto io di innamorarmi di lei, è successo. Se fosse accaduto a te, io l’avrei accettato. L’amore non concede alternative. Spero che un giorno tu possa tornare a essere mia amica, che un giorno, non troppo lontano, potremmo continuare a essere la bella squadra che eravamo». Una bella squadra. Adesso iniziavo a capire cosa significasse per lui essere una bella squadra. Eri una bella squadra quando andavi a letto con un amico senza provare niente, quando non complicavi le cose, quando permettevi all’uomo che ti aveva rubato il cuore di amare una tua amica che fino a due mesi prima avevi dimenticato di conoscere. Un’amica che indossava la 40. Mi alzai dal tavolino, scalza, prendendo in mano i sandali. Non avrei potuto infilare quegli arnesi infernali in quelle tragiche condizioni. Guardai Niccolò con uno sguardo vacuo e disperato. «Dove stai andando?», sussurrò lui, con la stessa voce calda che mi aveva fatto perdere la testa la prima volta che l’avevo incontrato. «Mi hai spezzato il cuore, Niccolò». «Non volevo, lo sai. Adesso non esagerare». Sì, era proprio un cretino. «Tra qualche giorno ti passerà e capirai di non essere mai stata veramente innamorata di me. Ci siamo divertiti, tutto qua. Allora tornerai e io ti accoglierò a braccia aperte». «Addio, Niccolò». Lo fissai come se fosse la prima volta che lo vedevo. Davvero non riconoscevo più l’uomo che fino a un’ora prima avevo amato alla follia. Mi voltai e iniziai a camminare. Niccolò non si scompose, ma continuò a gridare dal tavolino: «Rebecca, dove vai? Torna qui!». Non sapevo cosa fare, dove andare. Senza considerare che l’asfalto era bollente e a piedi nudi non sarei arrivata lontano. Mi limitai a girare l’angolo della strada e mi sedetti sul bordo del marciapiede, incurante dei pantaloni, togliendomi il cappello che mi ero rimessa in testa e stringendolo tra le mani, sperando che lui ci ripensasse, si accorgesse che senza di me non poteva vivere e mi corresse dietro per abbracciarmi e tenermi con lui per sempre. Non lo fece. Non mi corse dietro. Dopo una mezz’ora, che mi era parsa un’eternità, mi sollevai a fatica e mi avviai zoppicando alla metropolitana. I ragazzi fuori dai locali, con i bicchieri dell’aperitivo in mano, mi fissavano come fossi un fantasma. Scesi nella metropolitana, attesi il treno, poi, con i pantaloni ormai sudici, mi accasciai su un lurido sedile. I passeggeri del vagone vuoto e maleodorante che mi osservavano, in lacrime, con le scarpe in mano, non potevano immaginare di trovarsi di fronte la donna più infelice del mondo.

2 CITTÀ NUOVA, VITA NUOVA

Abitavo a Milano da una settimana. Una settimana che era durata un anno. Non avevo più avuto notizie di Niccolò. In alcuni momenti di debolezza, avevo pensato di chiamarlo o di scrivergli una e-mail, ma poi avevo desistito. Ero troppo ferita e fragile per rischiare una nuova umiliazione. Subito dopo la nostra conversazione surreale, ero tornata a Venezia. Avevo viaggiato con la testa appoggiata al finestrino del treno, con le lacrime che mi rigavano il viso, asciugate a malapena dall’aria condizionata che, gelida, invadeva il vagone. Avevo raggiunto casa a piedi, ignara di quello che mi accadeva intorno, di dove fossi, di cosa mi stesse succedendo. Avevo continuato a singhiozzare, senza pudore, incurante degli sguardi dei passanti che incrociavo per le calli, con il rimmel che aveva disegnato sul mio viso un’inquietante maschera di carnevale. Arrivata davanti al mio palazzo, avevo fatto le scale a fatica, con i piedi doloranti e, giunta di fronte alla porta, lentamente ero scivolata a terra, continuando a piangere. Non avevo mai pensato di poter produrre così tante lacrime. Credevo che, a un certo punto, il corpo disidratato avrebbe smesso di far zampillare acqua dai miei occhi. Invece, i dotti lacrimali continuavano a fare il loro dovere, merito, forse, dei due litri e mezzo di acqua che bevo religiosamente ogni giorno, anche controvoglia, per contrastare la maledetta cellulite sempre in agguato. L’appartamento era silenzioso e in disordine. Ero in affitto in un piccolo trilocale nel sestiere di Cannaregio da quando il mio ex e io avevamo messo in vendita la casa che avevamo comprato insieme. Adesso quel posto mi sembrava un rifugio perfetto per nascondermi, uno spazio vuoto in cui non c’erano ricordi di uomini che mi avevano ferita. Mi ero spogliata, struccata e poi infilata a letto. Avevo passato due giorni interi tra le lenzuola, alzandomi solo per andare al bagno e per mangiare qualche biscotto al burro che avevo nascosto in cucina. Nascondevo sempre i dolci, per non averli davanti agli occhi nei momenti di fame improvvisa. Ma quella si era rivelata un’emergenza. C’era stato un terremoto che aveva raso al suolo tutti i miei organi interni, c’era un cuore a pezzi da curare, brandelli della mia autostima sparsi in tutti gli angoli del cervello. I dolci mi erano necessari. Quando il cuore va in frantumi succede questa cosa strana: il tempo si azzera. Non importa che ore siano o in che giorno della settimana ci troviamo. Tutto quello che ci interessa è nascosto nel nostro petto. Sono quelle piccole schegge piantate nei nostri organi vitali, nell’organo che pulsa più di tutti e che ci fa sentire le assenze, che freme in attesa dei ritorni, ritorni che spesso non ci saranno. Viviamo con un nodo fortissimo tra la gola e il petto, che non ci lascia dormire, che non ci permette di respirare. Il tempo è fermo e noi non facciamo altro che tornare indietro per ricostruire tutto quello che c’è stato, cerchiamo risposte nei dettagli, proviamo a capire come sarebbe andata se avessimo agito in maniera differente, se avessimo detto qualcosa di diverso. Quando soffriamo per amore ci disperiamo come

animali in gabbia che hanno conosciuto la libertà, ci sentiamo svuotati e senza speranza. Tutto quello che sembrava importante appare perduto. L’amore è una cosa meravigliosa quando ci travolge. Ci fa sentire potenti, allegri, frivoli, attraenti, leggeri, felici, in una sola parola: immortali. Quando, però, finisce, quando a noi rimane l’ingrato compito di continuare ad amare chi non ci ama più (o non ci ha mai amati), è come se improvvisamente morissimo di una morte violenta. L’euforia lascia il posto alla disperazione e l’incanto si trasforma in mostruosità. Avevo controllato in continuazione il telefono nella speranza di una dichiarazione di Niccolò, un messaggio di pentimento, la conferma che si era reso conto che non poteva vivere senza di me, che ero io la donna “da amare” e non un’Anna qualsiasi dal bel viso e dal vitino di vespa. Ma niente, il silenzio più profondo. Speravo che un meteorite si schiantasse sulla sua bella casa milanese, distruggendo tutti i suoi oggetti di design. Il terzo giorno avevo recuperato un po’ di forze e di coraggio per liberarmi delle lenzuola che stavano diventando il mio sudario e mi ero guardata allo specchio. Avevo un aspetto terribile. Mi ero infilata nella doccia e ci ero rimasta a lungo, provando a lavarmi di dosso tutta la tristezza che portavo dentro, sperando che il getto di acqua calda potesse spazzare via i pensieri infelici, la delusione e l’infinita sofferenza. Una volta fuori, il mio sguardo era caduto sulla bilancia bianca accanto al lavello, la mia più grande nemica di sempre. In quel momento di disperazione, in cui non desideravo altro che lasciarmi andare al dolore, soffrire fino al limite estremo di sopportazione, avevo deciso che farmi del male salendo sull’arnese infernale poteva essere un buon esercizio di autolesionismo. Ero salita sulla bilancia come un condannato a morte sale al patibolo e... sorpresa! Avevo perso un chilo. Non ero riuscita a trattenere un sorriso: finalmente una buona notizia. Erano bastati due giorni di lacrime e digiuno, intervallati da qualche biscottino al burro, per farmi perdere un chilo. Quello era un aspetto delle pene d’amore che non avevo considerato. Mi ero specchiata di nuovo: le occhiaie infossate e gonfie per le lacrime, la pelle grigiastra, lo sguardo triste. Non sarebbe stato facile dimenticare e ricominciare, ma potevo farcela. Avevo finto di essere una donna forte, adesso era giunto il momento di esserlo sul serio. Ero corsa in camera avvolta nell’accappatoio e avevo osservato gli scatoloni del trasloco ammassati in un angolo, gli unici che mi avevano fatto compagnia in quei giorni di disperazione. Avevo iniziato a riempirli con foga, senza alcun criterio, infilandoci dentro qualsiasi cosa mi capitasse a tiro. Avevo deciso di trasferirmi a Milano per un uomo. Adesso che quest’uomo non c’era più (e che rischiava di essere schiacciato da un meteorite) era ora di iniziare a pensare a me stessa. Mi sarei trasferita a Milano per iniziare una nuova vita, da sola. Due giorni dopo, tutti i miei averi raggiunsero l’isola del Tronchetto, dove furono sistemati su un furgoncino diretto nella metropoli. Sebbene il mio stomaco continuasse a rimanere sigillato e avessi perso il piacere del cibo, avevo smesso di sospirare e di guardare il telefono, nella speranza di uno di quei ritorni che – lo sappiamo benissimo – succedono solo nei film. Potevo farcela anche da sola, mi ripetevo, potevo farcela anche da sola. E così ero giunta a Milano.

«Devi riprendere a vivere, devi uscire, conoscere gente nuova», mi ripeteva Emma, nella speranza che prima o poi mi decidessi a reagire a quella depressione “post cuore spezzato”. La prima settimana milanese avevo dovuto sbrigare diverse pratiche burocratiche, avevo svuotato scatoloni, riempito scaffali e librerie, pulito casa, fatto numerose spedizioni al supermercato per comprare detersivi, ero corsa all’Ikea per recuperare importanti complementi d’arredo senza i quali avrei fatto fatica a vivere (candele alla vaniglia, un tavolino da PC, un quadro raffigurante una mucca, dei bicchieri da vino), e poi avevo passato lunghe serate in compagnia di Emma a lamentarmi fino a notte fonda sul divano nuovo. Avevo ancora dei giorni di ferie prima di iniziare a lavorare nella nuova agenzia e passavo tutto il tempo a rendere il mio nuovo nido accogliente e protettivo. Avevo sistemato in bagno i ritagli di foto d’epoca di Chanel, vicini alla scatola che conteneva le perle, e ogni tanto la guardavo sperando mi desse delle risposte. Lei però rimaneva a fissarmi in silenzio, con in testa il suo splendido e inseparabile cappellino nero. La cosa più faticosa era stato mettere in ordine le scarpe, alle quali avevo dedicato quasi mezza camera da letto e che sembravano, nelle loro scatole, una grande muraglia che mi proteggeva dal mondo. Mi tenevo occupata per non pensare a lui, mi tuffavo felice nel bricolage per liberare la testa. La sera evitavo di uscire per paura di incontrarlo insieme a quella che aveva scelto di amare. «Non essere sciocca, Coco», mi disse una sera Emma. «La città è enorme, vivete in due quartieri diversi e, a parte qualche amico in comune, al quale è stato tassativamente vietato di parlarti di lui, non frequentate gli stessi ambienti». «E se, per una coincidenza, dovesse aver voglia di fare due passi sotto casa mia?» «Quindi, morirai tra queste quattro mura pur di non incontrarlo?» «Potrebbe essere un’idea». «Non puoi continuare a vivere così». «Ho il terrore che si materializzi dietro a ogni angolo», ammisi. «Mi sembra di vederlo in metro, dentro tutti i bar in cui ordino un cappuccino, sopra ogni guglia del Duomo. Ho la sensazione di camminare in un campo minato». «Vorrei poterti aiutare in qualche modo. Mi sembra che stia diventando un’ossessione», fece preoccupata Emma. «Prima, quando il mio cuore era ancora tutto intero e funzionava a pieno regime, per arrivare dal punto A al punto B seguivo la strada più semplice, la linea retta. Arrivavo dritta dove volevo andare, senza perdermi, con passo sicuro. Da quando lui mi ha lasciata, procedo a zigzag, evito i percorsi che penso possa fare anche lui, rifiuto gli inviti, cammino attaccata ai muri, sempre pronta a nascondermi in un portone o dietro un palo». «Non riesco a vederti così inconsolabile». «Ho un solo pensiero che mi fa stare bene: la speranza che gli cadano tutti i capelli, che gli cresca la pancia e che non possa fare figli». «Be’, la speranza è un inizio». «Vorrei avere la forza di reagire». «Devi riprendere in mano la tua vita, Coco». Emma aveva ragione. Mi stavo facendo logorare dalla sofferenza per l’abbandono e non riuscivo a venirne fuori. Stavo ancora molto male. Inoltre, a Milano conoscevo poche persone e quando cambi città, invece, hai bisogno di affetto e calore umano. Cerchi disperatamente amici veri, colleghi simpatici, il barista di fiducia, l’idraulico onesto che chiami disperata ogni volta che il lavandino gocciola, il tabaccaio all’angolo che ti saluta, l’estetista, il

parrucchiere, la panettiera che ti tiene da parte la baguette fragrante anche se fai tardi in ufficio. C’era tutta un’umanità di cui avevo bisogno e che non avevo ancora incontrato. «Sai qual è la cosa che mi manca di più?», dissi a Emma. «Cosa?» «Gli abbracci. Ho voglia di abbracciare ed essere abbracciata, da chiunque. Ho bisogno di contatto umano, di spalle grosse che mi diano protezione, che mi dicano, senza bisogno di parole, che andrà tutto bene». «Lo so. Gli abbracci possono essere più importanti del sesso, più dei soldi, più delle giornate di sole, più dei bignè al cioccolato. Vieni qui, fatti stritolare un po’». Appoggiai la mia testa sul suo petto e sussurrai: «Nulla è più importante dei bignè al cioccolato». «Finalmente! Questo è lo spirito giusto, tesoro mio», disse Emma, ridendo e abbracciandomi forte. Dopo sette lunghi giorni trascorsi a Milano, mentre mi trovavo sul mio nuovo balconcino a osservare, annoiata, i passanti e a pensare agli abbracci mancati, un ammasso di ciccia e peli mi sfiorò le gambe, terrorizzandomi. Abbassai lo sguardo e trovai, appollaiato a due passi dalle mie ciabatte bianche, rubate in un hotel di lusso durante uno dei convegni a cui partecipavo per lavoro, un enorme gatto nero, che mi fissava sornione con i suoi occhioni gialli. Dopo essermi ripresa dallo shock, cominciai a guardarmi intorno per capire come avesse fatto a intrufolarsi nel mio appartamento. Mi reputo una donna razionale, ma una parte di me non può fare a meno di essere superstiziosa. Evito sempre di iniziare le cose importanti di martedì o di venerdì, se per errore verso un po’ di sale sulla tovaglia, poi ne getto sempre un po’ dietro una spalla, non lascio mai cappelli sul letto e, soprattutto, non attraverso la strada quando incontro un gatto nero. Sono perfettamente consapevole che tutti questi piccoli gesti, come leggere l’oroscopo, anche se non ci credo davvero, siano del tutto inutili, ma nel mio inconscio più profondo mi dico sempre che, anche nel caso non esistesse, avere un po’ di rispetto per la sfortuna non può certo fare male. Trovarmi un gatto nero tra i piedi mi mise in agitazione. Prima ancora di riuscire a capire da dove venisse, mi importava sapere se la sua presenza fosse foriera di fortuna o meno. Pare che i gatti neri in strada portino immensa sfiga, mentre, tra le pareti di casa, proteggano dalle sventure. Ero immersa in quei pensieri, quando la grassa palla di pelo, con un agile balzo, saltò sulla ringhiera del balcone, fece qualche passo e si gettò nel terrazzino accanto, per poi sparire dietro la porta finestra. Non era un fantasma venuto a distruggermi o a proteggermi: era solo il gatto dei vicini finito per sbaglio in casa mia. Mi sentii molto sollevata. Decisi che la visita improvvisa del felino era un’ottima occasione per andare finalmente a presentarmi alle persone con cui condividevo il mio bel pianerottolo. Mi infilai un paio di ballerine (se le avesse viste Niccolò! Avrebbe di sicuro storto il naso in segno di disprezzo. «Una donna in ballerine è sexy come un cavallo col rossetto», amava ripetere), e mi diressi alla porta del vicino. Non appena suonai il campanello, sentii un grande trambusto arrivare dall’interno dell’appartamento, seguito da grida incomprensibili che interpretai come «Sto arrivando – PAROLACCIA – sto arrivando!». Pochi attimi dopo, un ragazzo bassetto e grassoccio, con una lunga barba nera e una calvizie incipiente mi aprì la porta, sorridendo. «Ciao, sono la nuova vicina di casa».

«Ciao, perdona il casino, stavo friggendo dei peperoni e ho dovuto spegnere il fornello per evitare di dare fuoco a tutto lo stabile». «Ehm... mi dispiace, non volevo disturbare. È solo che credo che il tuo gatto sia appena venuto a farmi visita». «Sì, non si smentisce mai, è un curiosone. Spero non abbia fatto danni. Veroooooo Gatto?», gridò rivolto verso l’animale, che intravedevo accovacciato su un divano. «Il tuo gatto si chiama Gatto?» «Be’, certo. È un gatto. Non potevo mica chiamarlo Cane o Koala. In realtà è tutta colpa di Colazione da Tiffany. Lo conoscerai, no?» «Certo. Chi non impazzisce per lo splendido tubino di Audrey! Scusami, non mi sono nemmeno presentata: mi chiamo Rebecca, Rebecca Bruni». «Io sono Claudio, Claudio Mastroianni». «Ah, Mastroianni... come l’attore?» «Già», fece lui sorridendomi. «Purtroppo, però, non c’è nessuna parentela... e nessuna somiglianza!», e scoppiò in una risata argentina che mi mise subito di buonumore. «Ti prego, accomodati. Lascia che ti offra almeno un caffè». «Grazie, volentieri!». «Non fare caso al disordine, non aspettavo visite». Mi fece accomodare in un salottino perfettamente in ordine, con tantissime foto alle pareti e le tende chiare alle finestre. «Mi sembra tutto perfetto, invece». «La mia saggia nonnina diceva: “quando sei in disordine dentro, il mondo fuori ti sembra sempre troppo perfetto!”». Quel ragazzo mi piaceva. Ci sedemmo in cucina e iniziammo a parlare del più e del meno, del mio trasferimento a Milano, del lavoro che odiavo, della sua passione per la cucina, della sua vita da giornalista freelance. Avevo ormai raccontato a così tante amiche, in interminabili chiacchierate al telefono, la mia recente rottura con Niccolò e la mia disperazione da principessa abbandonata, che riuscii a descrivere tutta la faccenda in soli diciassette minuti. Claudio ascoltò con interesse, mentre preparava la moka e poggiava le tazzine sul tavolo. «Adoro le persone che preparano il caffè con la macchinetta», gli dissi, osservandolo mentre riempiva il filtro di caffè fino all’orlo. «C’è qualcosa che mi emoziona nel rituale di lavaggio, inserimento dell’acqua, pigiatura della polvere di caffè... e poi quell’inconfondibile rumorino brulicante». «Oh, lo amo anch’io», rispose lui accendendo il fuoco e poggiando la caffettiera sul fornello. «Mi piace aspettare che il caffè filtri, che si faccia strada fino ad arrivare in cima, che lasci le persone sorprese dal suo aroma intenso che si manifesta all’improvviso». Claudio versò la bevanda bollente, aprì una finestra e si accese una sigaretta. «Fumo poco, solo per vezzo e non per vizio, ma questa sigaretta la voglio dedicare a te Rebecca, al tuo cuore infranto e al tuo arrivo a Milano». Sorrisi, come non facevo da giorni, e gli chiesi di offrirmene una. Sono una non fumatrice accanita. Non ho mai fumato, l’ho sempre considerato un vizio stupido e dispendioso. Detesto gli aliti che sanno di fumo, l’odore di sigaretta sulle mani, sui vestiti, sui capelli. Ma quello mi sembrava il momento giusto per concedermi il lusso di provare qualcosa di nuovo. Accesi la sigaretta e aspirai. Poi iniziai a tossire in maniera convulsa. Era una vera schifezza! Tutta la solennità e l’eleganza che avevo messo nel gesto catartico dell’accensione della mia prima sigaretta fu

vanificato dal disgusto che mi provocò quell’insieme di tabacco, catrame e nicotina. Claudio iniziò a ridere come se fosse stato posseduto da uno spirito maligno. «Sei davvero molto sexy», mi disse, mentre due piccole lacrime iniziarono a colargli ai lati degli occhi. La sua risata era così contagiosa che spensi la sigaretta e iniziai a ridere di gusto anch’io. E continuai a ridere, di me, del mio dolore, del mio trasloco, della mia fuga, della buffa e triste situazione in cui mi trovavo, di Milano, di Gatto e di tutto quello che stavo vivendo. Appena ci riprendemmo dall’attacco di ridarella, Claudio si sedette accanto a me e mi disse: «Rebecca, non disperare. Vedrai, Milano ti regalerà molte belle sorprese. Questa è la città delle occasioni, degli incontri, del divertimento. Sei una bella donna, intelligente e molto autoironica. Sono sicuro che non ci metterai molto a dimenticare il passato e a proiettarti nel futuro». Quella frase fatta, un po’ banale, e quel complimento così spontaneo mi fecero molto bene. Terminai il caffè sentendomi più leggera, poi continuai a raccontare la mia storia e tutte le altre storie della mia vita, senza mai fermarmi, fino all’ora di cena. Ringraziandolo per il bel pomeriggio passato insieme, tornai al mio nido. Claudio aveva un appuntamento e la fortunata che sarebbe arrivata di lì a poco avrebbe assaggiato i suoi famosi peperoni. Nei giorni successivi incontrai molte altre volte Claudio, era diventato la mia guida personale. Mi indicava i supermercati migliori, i negozi più alla moda, i locali carini in cui andare a cena e quelli famosi per gli aperitivi. Avevo ancora qualche giorno di vacanza e il mio nuovo amico aveva deciso che dovevo imparare tutto di Milano il più in fretta possibile. Aveva tanto tempo da dedicarmi perché lavorava da casa e quindi poteva gestire le giornate come meglio credeva. Mi piaceva passare il tempo con lui, mi faceva sentire leggera. Una sera fui anche tentata di abbracciarlo, ma poi desistetti, per paura che potesse fraintendere il mio gesto. Claudio frequentava una collega, da qualche mese, ma continuava a pensare che lei non fosse la sua anima gemella. Era un inguaribile romantico e non si lasciava abbindolare dalle promesse di sesso facile. Nonostante le continue delusioni sentimentali, sperava sempre in un colpo di fortuna. «Mamma diceva sempre che i miracoli accadono tutti i giorni!», ripeteva, citando Forrest Gump. Voleva essere corteggiato, come una donna. E in quello eravamo molto simili. Entrambi volevamo essere desiderati. Non ci dispiaceva il sesso occasionale, (non dispiace quasi mai, quando capita, soprattutto se si tratta di prestazioni ai limiti della decenza), ma desideravamo farlo con amore, sentire che c’era sintonia, chimica. «Forse siamo troppo esigenti per essere due single che hanno superato i trenta», mi disse una sera a cena. Claudio aveva un anno meno di me, era a Milano da sette anni e aveva collezionato un’innumerevole serie di storielle, tutte finite male. «Forse abbiamo solo avuto sfortuna», risposi. «Credo che il mondo sia pieno di donne ideali», aggiunse. «Solo che, chissà per quale strano motivo, nessuna vuole stare con me». Io pensavo ancora a Niccolò, in continuazione. La sera prima di andare a dormire mi mancava il fiato e scoppiavo spesso in lacrime. Allora prendevo il telefono e chiamavo Emma, anche quando era troppo occupata con il lavoro per passare a trovarmi. «Come va, Coco?»

«Sempre a pezzi. Stavo ripensando ai nostri fine settimana insieme, alle parole che a me, solo a me, erano sembrate promesse». «Smettila di torturarti in questo modo». «Non ci riesco. Mi ripeto, ormai a memoria, le frasi che lui mi scriveva in chat e provo a immaginarmi come sarebbe stato se gli avessi confessato prima che l’amavo. Avrebbe davvero cambiato le cose?» «Io credo di no, anche se non è questo che vuoi sentirti dire. Le persone ti scelgono, Rebecca. Se ti vogliono, superano paure, tentennamenti, indecisioni. Se Niccolò avesse davvero voluto stare con te, ti avrebbe presa, gli bastava soltanto allungare la mano: tu eri lì, per lui». «Già. Invece lui cercava altro, cercava degli occhioni dolci che lo facessero sentire più uomo di quanto non riuscissi a fare io, cercava una donna diversa, più dolce, più carina, più giovane, più sorridente. Spero che il sedere di Anna si riempia di cellulite!». «Dovresti odiarlo per quello che ti ha fatto, invece sembri quasi giustificarlo». «È una cosa terribile. Invece di essere arrabbiata con lui, cosa che mi farebbe molto bene, sono arrabbiata con me stessa per non essere stata la donna perfetta per lui, per non avergli dato quello che cercava, per non essere stata abbastanza». «Smettila. Tu sei perfetta così come sei. Quando si soffre per amore, la rabbia è un buon segnale di guarigione. È sana, come il desiderio di vendetta. Nel momento in cui riusciamo ad arrabbiarci con chi ci ha spezzato il cuore, stiamo meglio. Siamo meno disperati, ci liberiamo dei sensi di colpa e ci incazziamo con chi ci ha fatto soffrire». «Ma non riesco a odiare sul serio Niccolò. Continuo a pensare che avrei potuto cambiare le cose, che avrei dovuto essere diversa...». «Ti fai solo del male, così». «Lo so, sono in una fase terribilmente autolesionista, ma aspetto con ansia il giorno in cui starò meglio e inizierò a desiderare di prendere tutte le sue camicie perfette con le iniziali ricamate e ridurle in brandelli». Emma rise. Come avrei fatto senza di lei? Intanto, Milano iniziava a piacermi. Abituata alla bellezza romantica di Venezia, mi sembrava strano non trovare la stessa meraviglia architettonica, gli stessi scorci incantevoli, gli angoli che sembrano essere concepiti per finire in un dipinto a olio, la bellezza mozzafiato dei tramonti sul Canal Grande. Però, Milano mi faceva sentire a casa. «È raro non sentirti fuori luogo, forestiero, estraneo», mi disse una sera Claudio, mentre bevevamo il caffè in un piccolo bar del centro. «Milano è una città che accoglie tutti, che a tutti concede una possibilità. È democratica. Non è bella come Parigi, non ha il fascino di Roma né l’energia di New York, ma è una città che si prende cura di te, ti trova uno spazio, non ti rifiuta, sa sempre regalarti un angolino in cui farti sentire protetto». «Vero», ammisi, mescolando un cucchiaino di zucchero di canna nella mia tazzina. «Quello che ho notato è che Milano è una città di dettagli. Non è bella nell’insieme, ma ha angoli, strade, parchi, a volte un muro o soltanto un edificio che hanno un fascino particolare. L’insieme è un po’ caotico, disordinato eppure pratico e invitante». «È una città da scoprire», disse il mio nuovo amico, bevendo il suo caffè tutto d’un sorso. «È come una donna timida e riservata. Hai bisogno di tempo per capirla e imparare ad amarla». Da qualche giorno giravo per il quartiere di Porta Romana e iniziavo a sentirmi a casa. Avevo

individuato il mio supermercato di fiducia, il bar che faceva il cappuccino e le brioche migliori, l’edicola dove compravo le riviste di moda, il negozio di fiori che aveva delle margherite gialle profumatissime. Il venerdì ero anche stata al grande mercato del quartiere e avevo comprato frutta, verdura e un paio di vestitini un po’ troppo stretti per me, nella speranza di dimagrire. Avevo perso altri due chili e, se avessi continuato a consumarmi ancora per un po’, sarei riuscita ad arrivare al peso che avevo sempre desiderato. È strano, passiamo l’intera vita a lottare con la bilancia e poi una “banale” tribolazione amorosa risucchia in un sol colpo tutti i nostri rotoli di ciccia. L’amore dovrebbe essere rappresentato dallo stomaco, non dal cuore. Avevo anche smesso di contare le calorie ogni volta che ordinavo alcolici e, visto che Milano è la città da bere, mi capitava di ordinarne diversi... Certe sere buttavo giù un paio di bicchieri di vino e qualche pezzo di focaccia. L’ebbrezza che mi avvolgeva mi faceva sentire finalmente felice. Emma mi spingeva a uscire. «Hai bisogno di stare tra la gente!», diceva. «Non devi passare il tempo chiusa in casa». Il mio fegato probabilmente sarebbe esploso nel giro di qualche settimana. Pochi giorni prima di iniziare il nuovo lavoro, mi presentai in ufficio per ritirare il contratto. L’agenzia aveva sede in un imponente edificio in viale Zara. Firmate tutte le scartoffie, mi avvicinai all’ascensore, con gli occhi incollati su quei fogli. Leggere mentre camminavo non si rivelò un’idea brillante. Dopo qualche passo, inciampai in un tavolino e persi l’equilibrio, finendo tra le braccia di qualcuno che si trovava nel corridoio. Alzai gli occhi per guardare chi mi avesse salvato miracolosamente l’osso sacro e mi ritrovai davanti a un ragazzo alto, biondo, con gli occhi di un azzurro così intenso da ricordare il colore del mare. «Tutto bene?», chiese, mentre provava a rimettermi in piedi. «Bene... Scusami... Grazie...». Sentii le guance avvampare per la vergogna. «È stato un piacere. Non capita tutti i giorni che le donne mi cadano tra le braccia». Che figuraccia! Mi fissava con un sorriso splendido stampato sul viso e io volevo solo sparire, all’istante. «Grazie ancora per avermi salvato la vita...». Recuperai il cappellino che mi era caduto nell’urto e chiamai in fretta l’ascensore, sperando di potermi nascondere al suo sguardo. «Se avessi voglia di precipitare ancora, spero di essere nei paraggi». Aveva un delizioso accento straniero. Mi infilai nell’ascensore, lanciandogli un sorriso veloce e imbarazzato. Durante l’ultimo fine settimana di libertà decisi di farmi bella: avevo bisogno di un restauro con i fiocchi. Stavo per iniziare una nuova vita e dovevo essere uno schianto. Gli uomini si sarebbero dovuti voltare a guardarmi. Gli uomini... Mi stavo illudendo ancora, nel profondo della mia testolina mora, ma in realtà sapevo che l’unica persona che volevo colpire e affondare era Niccolò. Volevo togliergli il fiato. Prima tappa: parrucchiere. «Devi fare qualcosa ai capelli», aveva detto Emma, consigliandomi un prestigioso e costosissimo salone in centro.

«Ma li ho sempre portati così, il lungo piace. Ci fa sembrare tutte delle sante remissive e gli uomini apprezzano, a quanto pare». «Dev’essere una sorta di richiamo sessuale. Forse risale all’età della pietra, quando con una botta di clava riuscivano a stordire le loro donne e potevano trascinarle ovunque desiderassero afferrandole per i capelli. Adesso, però, è giunto anche per te il momento di darci un taglio. Cambi vita, cambi testa». E taglio fu. Al posto di quella noiosissima e banale chioma nera faceva bella mostra di sé un insolente caschetto. «Ecco la mia Valentina», disse Emma, entusiasta. «Certo, una copia non all’altezza dell’originale». «E smettila di buttarti giù. Stai da urlo. Era ora». «Cos’aveva che non andava la vecchia Rebecca?». «Ehm... Passava tutto il tempo a frignare per un cretino, per esempio?!». «Touchée», risi. Emma non aveva peli sulla lingua. Con quei capelli, mi sentivo davvero rinata. Seconda tappa: salone di bellezza. Mi rimisero a nuovo. Ero secoli che non avevo una pelle così liscia e morbida, avevo dimenticato cosa significasse non avere peli sulle gambe. «Sta molto meglio, adesso, signora», mi disse l’estetista soddisfatta, alla fine dei lunghi trattamenti. «Rebecca è tornata!», gridai sorridente, volando verso la porta. Sabato sera ero pronta ad affrontare Milano. Claudio aveva promesso di portarmi a bere sui Navigli e volevo passare una bella serata senza pensare a nulla. Scelsi con cura le scarpe che avrei indossato, un paio di sandali gioiello di Caovilla, e le abbinai a un bellissimo tubino marrone chiaro. Adoro i tubini, non posso proprio farne a meno. Mi piace la loro storia, così femminile, così trasgressiva. Tutti conoscono il tubino grazie a Audrey Hepburn e alla sua meravigliosa interpretazione in Colazione da Tiffany. Molti ignorano, però, che quel geniale abito fu inventato, tanti anni prima, da Coco Chanel. Chanel era una rivoluzionaria, nella moda e non solo. Quante altre donne cresciute in orfanotrofio possono vantare di essere diventate icone di stile ed eleganza? Per il solo fatto di aver tolto i bustini alle donne e di aver fatto indossare loro i pantaloni, meritava tutta la mia eterna riconoscenza. E nonostante fosse una donna di grande successo, ha avuto una vita sentimentale travagliatissima. Mi sentivo proprio come lei, un’eterna mademoiselle. Maledetto amore! Quando Claudio bussò per venirmi a recuperare, esclamò: «Coco, se continui così, mi farai perdere la testa!». Ridemmo e ci avviammo verso i Navigli, al tramonto. Iniziavo ad amare Milano. Arrivati sulla riva del placido fiume, ci sedemmo ai tavoli di una storica osteria e ordinammo una bottiglia di Gewürztraminer. Volevamo goderci la serata, la nuova vita, l’amicizia, la libertà dell’essere single e giovani e la fortuna

di esserci conosciuti. Mentre brindavamo con il terzo bicchiere, ormai rilassati e sereni, fissai distrattamente il lato opposto del canale e intravidi una sagoma che mi sembrava familiare. Per un lungo momento mi mancò il fiato. In piedi, davanti a un locale, con una camicia bianca con le maniche arrotolate, c’era Niccolò. Affascinante, come sempre, sorridente e rilassato. Claudio notò la mia agitazione e mi chiese se qualcosa non andasse. «C’è Niccolò!», dissi sottovoce, come se potesse sentirmi dall’altro lato del canale, e cercai di nascondermi dietro la borsetta. «Cosa?», chiese Claudio. «C’è Niccolò!», ripetei in preda al panico. Claudio fissò l’altra riva. «Non male!», esclamò. «Non fissarlo! E grazie! Non c’è bisogno che mi ricordi quanto è bello». «Figurati, cercavo solo di dirti che hai del buongusto». «Adesso che faccio? Cosa dovrei fare?» «Be’, vai da lui. Sei bellissima, lo farai morire». «Dici? Oddio, che incubo, non so che fare... Ma forse hai ragione tu, dovrei andare a dirgli quanto si è comportato male con me e fargli vedere quanto sto bene. Perché sto benissimo, vero?!». Claudio si limitò a sorridere e io mi feci coraggio. Dopotutto avevo speso 400 euro per tutto quel restyling e non potevo perdere l’occasione. Dovevo farlo impazzire, anzi, meglio, morire. Mi alzai dalla sedia barcollando, poi recuperai l’equilibrio e grazie al vino bevuto a stomaco vuoto mi sentii la donna più affascinate dei Navigli. Salii lentamente le scale e cominciai a percorrere adagio il ponte. Arrivata più o meno a metà, vidi una figura avvicinarsi a Niccolò. Era lei. Anna. Indossava un abito color panna, che le sottolineava il suo vitino di vespa. Aveva i capelli lunghi e biondi che le svolazzavano al vento. Niccolò le carezzò la nuca, l’avvicinò a sé e la bacio con passione. Vederli per la prima volta insieme fece scattare qualcosa dentro di me. Era un sentimento che conoscevo bene e aveva impiegato tempo ad apparire. Ero arrabbiata, furiosa. All’improvviso mi resi conto che avevo sprecato il mio tempo prezioso a piangere per uno stronzo che si era ricostruito una vita idilliaca in sole due settimane, un uomo che mi aveva sostituita con un’altra senza nemmeno soffrire un po’, un uomo che mi aveva usata solo per sentirsi ancora più maschio. Lo odiavo, lo detestavo. Lo volevo vedere morto. Non riuscivo a tenermi in piedi, le gambe mi tremavano per la collera e avevo voglia di vomitare. Senza sapere più cosa fare, decisi di tornare al mio tavolo. Non volevo più sprecare tempo per quell’imbecille. Provai a percorrere, più in fretta che potevo, il ponte, ma il tacco della scarpa destra si piegò, facendomi inciampare e scivolare rovinosamente a terra. Il tonfo fu così forte e la caduta così goffa che tutte le persone nelle vicinanze si girarono a guardare la brutta copia di Valentina intenta a interpretare una delle sua scene più imbarazzanti. Il mio look, almeno, non era passato inosservato. Pregai che Niccolò non avesse assistito a quel siparietto, ma quando girai lo sguardo nella sua direzione, notai che si era staccato dalla sua bella e si stava avvicinando a me. Sentii il desiderio di scappare il più lontano possibile. Cercando di fare appello a tutte le forze che mi erano rimaste, zoppicando nelle scarpe scomode, scesi le scale del ponte e scappai via, nascondendomi tra la folla, inseguita da Claudio che provava a

raggiungermi urlando: «Vai più piano, o perderò un polmone!». La serata della mia riscossa si era conclusa con un triste epilogo, e avevo anche distrutto uno dei miei sandali preferiti. Tutta colpa di quel bastardo di Niccolò. Iniziavo a odiare Milano.

3 PIZZI, CONFETTI E BOMBONIERE

Quella notte non ero riuscita a chiudere occhio. Pensavo a Niccolò, alla mia figuraccia, alla sua mano che accarezzava la nuca bionda di Anna, alla mia solitudine, al sentimento di fallimento che mi schiacciava. Non ero nemmeno riuscita a vendicarmi. Mentre fissavo la luce verde della mia sveglia, che scandiva lentamente le ore che stavo rubando al sonno, riflettevo sull’amore. L’amore è strano, sembra così difficile, ma poi si rivela essere il più elementare dei sentimenti. Appare, quasi sempre, in maniera del tutto inaspettata. Come un fiore di campo. Ci scopriamo innamorati improvvisamente, e improvvisamente ci sentiamo felici. L’amore è un sentimento intimo, personale, che ci nasce dentro, e cresce a velocità e intensità diverse. Capita che sia ricambiato, allora è un miracolo. È qualcosa che completa la vita, che riempie il cervello, la pancia, che dà un senso alle giornate. Ma se non raggiunge l’altro, la potenza che emana si trasforma in un fardello che ci schiaccia e annienta. Pensavo all’amore e non riuscivo a chiudere occhio. Ogni tanto qualche lacrima bagnava il cuscino e allora mi giravo dall’altra parte, sospirando. La mattina mi alzai dal letto con gli occhi gonfi e la testa pesante. Preparai il caffè lentamente, guardando fuori dalla finestra. Mi aspettava un giorno importante e avrei dovuto mettere da parte ansie e sofferenze. Mi infilai nella doccia, poi mi avvicinai all’armadio per scegliere cosa indossare. Ogni volta che iniziavo un lavoro nuovo mi sentivo come il primo giorno di scuola: nervosa, spaventata, ma anche eccitata. Il mio armadio ospitava una vasta scelta di tubini, tailleur, pantaloni di ogni foggia, giacche, magliette a righe, cappellini, che indossavo nelle occasioni speciali, maglioncini di cachemire, trench, longuette e camicie, che detestavo stirare e mandavo sempre in lavanderia. Non avevo comprato nulla di nuovo per l’occasione, ma non me ne preoccupavo. «L’eleganza non consiste nell’indossare un vestito nuovo» e io, come diceva Chanel, ero convinta di poter essere impeccabile anche con qualcosa che avevo usato in più di un’occasione. Scelsi un tubino grigio chiaro, con una scollatura tonda e lo abbinai a un paio di cap toe bianche e nere, in perfetto stile Chanel, dal tacco medio, per evitare che i miei piedi soffrissero troppo. Ultimo tocco: sei giri di perle intorno al collo. Mi truccai appena, cercando soprattutto di mascherare le occhiaie, e poi spruzzai, come in ogni occasione importante, qualche goccia di N° 5, il mio prezioso portafortuna. Mi guardai allo specchio e mi sentii soddisfatta: professionale, seria, elegante. Infilai un grande paio di occhiali da sole, afferrai la borsa di Marni – una delle mie preferite – come al solito pesantissima (le borse delle donne contengono sempre troppe cose) e uscii di casa, con un po’ di ansia e una leggera fitta allo stomaco. Quella mattina, nel mio vagone, strette tra pendolari assonnati e indolenti, si erano date appuntamento tutte le coppiette di Milano. Le loro carezze appena accennate, le mani che si sfioravano, le parole

appena sussurrate mi irritavano non poco. Bisognerebbe vietare alle coppie di amoreggiare in pubblico. Per quale motivo si dà per scontato che l’umanità tutta dovrebbe essere testimone dei palpeggiamenti altrui? Trattenni la rabbia e cercai di pensare il meno possibile al mio cuore spezzato. Giunta davanti all’ufficio, come mio solito, con largo anticipo, mi infilai in un bar e ordinai un cappuccino, posizionandomi vicina alla finestra per osservare che tipo di gente arrivava. Poi mi feci coraggio ed entrai anche io. I colleghi sembravano tutti molto giovani e alla moda. Erano vestiti in modo casual, gli auricolari dei loro smartphone/lettori mp3 nelle orecchie e si salutavano con grandi sorrisi. Avevo appuntamento con il direttore e non sapevo esattamente dove andare. Mentre cercavo di interpretare la mappa che indicava la disposizione degli uffici, vidi avvicinarsi il ragazzo che, qualche giorno prima, mi aveva soccorsa dopo la mia rovinosa caduta. Indossava una camicia bianca con le maniche arrotolate fino al gomito. Era-così-sexy. Portava un enorme scatolone, che probabilmente avrebbe dovuto consegnare a qualcuno che lavorava nello stabile. Doveva essere un fattorino. Il fattorino più carino che avessi mai incontrato. Mi si avvicinò con il suo sorriso perfetto e con gli occhi divertiti: «Ci si rivede... Sono contento che questa volta tu riesca a reggerti sulle tue gambe». Mi sentivo un’imbecille. In quel momento, avrei desiderato che si aprisse una botola sotto di me, per sprofondare nelle cantine e sparire per sempre. «Sì... Ecco, mi sto sforzando di mantenere l’equilibrio», risposi, cercando di essere spiritosa. Continuava a fissarmi con insistenza e, per sfuggire al suo sguardo di ghiaccio, mi rimisi a studiare la mappa degli uffici, mentre sentivo il rossore salirmi fino alla punta delle orecchie. «Ti sei persa?», mi chiese gentilmente, avvicinandosi. Aveva un buonissimo profumo. «In effetti... sì! È il mio primo giorno e non conosco ancora la disposizione dei diversi uffici. Ho appuntamento con il dottor Parisi. Sai dirmi dove si trova?» «Certo, secondo piano, seconda porta a sinistra», rispose indicandomi l’ascensore. «Sto andando nella stessa direzione». Il suo accento era molto elegante. Francese, ne ero sicura. L’ascensore si fermò al piano e lui galantemente mi invitò a entrare. Provai a chiacchierare del più e del meno, per superare l’imbarazzo e per riscattarmi dalla figura meschina che avevo fatto. Volevo essere gentile e dimostrargli che non ero una completa idiota. «Dev’essere un bel lavoro il tuo», commentai sorridendo. Mi guardò un po’ perplesso. «Be’, consegnare pacchi in giro per Milano... conoscerai un sacco di gente...», mentre pronunciavo quelle parole mi resi conto di quanto ridicole potessero sembrare alle orecchie di uno sconosciuto. E infatti rise: «Oh, oui. È veramente un bel lavoro, si incontrano molto persone interessanti», disse, fissandomi con quei suoi occhi grandi come fanali. «Sono molto pesanti i pacchi che consegni?». Bel colpo, Coco! Sai fare davvero domande intelligenti... «Be’, consegno pacchi di ogni tipo: grandi, piccoli, enormi». Sorrideva e non mi staccava un secondo gli occhi di dosso. Aveva uno sguardo magnetico. Arrivati al secondo piano, mi fece strada verso l’ufficio del capo. Forse doveva consegnare proprio a lui l’enorme scatolone che stava trasportando. «Sei molto carina quando cammini senza inciampare». Mi colse alla sprovvista e diventai bordeaux in un solo istante.

«Grazie... Ti assicuro che, di solito, non crollo tra le braccia di sconosciuti», dissi, fissandomi i piedi per non incrociare il suo sguardo. Giunti davanti alla porta del direttore, bussò leggermente per segnalare la sua presenza e poi entrò. «C’est moi!». Avevo fatto centro, era francese. «Vieni pure», disse una voce giovane dall’interno. Sembravano conoscersi molto bene. Mi aspettavo un uomo distinto, sulla cinquantina, con un completo a due bottoni e le scarpe eleganti. Dall’altro lato dell’enorme scrivania, posizionata al centro della stanza, trovai, invece, un sorridente ragazzo della mia età, che indossava un paio di jeans e una T-shirt dei Clash. «Ti ho portato i documenti che stavi cercando», disse il fattorino, con tono sicuro. «E poi ho trovato un nuovo acquisto in ascensore». Mi fissarono entrambi, sorridendo. «Lei dev’essere la nostra nuova risorsa veneziana», disse scrutandomi e indicandomi una sedia sulla quale accomodarmi. «Sono Rebecca Bruni». «È un piacere conoscerla, Rebecca. Se permette, potremmo darci del tu». «Volentieri». Mi metteva sempre in imbarazzo il tono formale con i miei coetanei. «Grazie Étienne», disse al giovane dagli occhi blu, che aveva appoggiato lo scatolone sulla scrivania. «Bene, vi lascio soli», replicò lui, avviandosi verso l’uscita. «Spero di rivederti presto, Rebecca, magari al prossimo giro in ascensore», terminò, guardandomi con un sorriso ironico. Ricambiai il suo con un sorriso timido. Mi sentivo un po’ disagio. Appena il bel fattorino ci ebbe lasciati soli, Paolo mi scrutò per un momento, poi iniziò: «Dunque, tu hai lavorato per circa cinque anni alla One, occupandoti di congressi medico-scientifici». «Esatto». «Il nostro reparto congressi è già al completo, però, come ti era stato comunicato in sede di colloquio». «Sì, ne ero al corrente. Ma sono molto contenta di poter cambiare settore. Mi piacerebbe provare a lavorare a qualche evento diverso». «Bene, mi piacciono le persone che amano cambiare. Il tuo nuovo reparto sarà una divisione che abbiamo inaugurato da poco, ma di cui andiamo molto fieri: ti occuperai di matrimoni». Matrimoni? Io? Ci doveva essere stato un grosso malinteso. Non sapevo nulla di matrimoni, se non che fossero feste noiose, costose, organizzate sempre in ville con i vialetti di ghiaia che ti rovinano i tacchi, e piene di parenti che detestavo incontrare, che mi chiedevano in continuazione «E tu? Quando ti sposi?». Non mi erano mai piaciuti e adesso che ero single e con il cuore a pezzi mi piacevano ancora di meno. Non avevo nessuna voglia di aiutare qualche appiccicosa coppia innamorata a coronare il proprio sogno d’amore. «Matrimoni?», domandai con un tono perplesso. «Credevo che mi avreste messa a organizzare qualche evento mondano, inaugurazioni di boutique, vernissage...». «Sono tutti reparti già coperti. Abbiamo bisogno di menti nuove per le nostre nuove sposine». Organizzare matrimoni non era il lavoro per me. Potevo fare qualsiasi cosa, anche occuparmi di sfilate di cani, ma i matrimoni no. Assolutamente no. Detestavo le spose, le musiche melense, le torte piene di calorie, i vestiti pieni di pizzi, merletti e chiffon. E soprattutto, non volevo lavorare in nome dell’amore. Io odiavo l’amore. «Scusa, Paolo... Posso chiamarti Paolo?» «Certo Rebecca».

«Scusa, ma io non credo di essere portata per questa faccenda dei matrimoni. Non mi sono mai sposata, i miei genitori si sono separati quando io ero giovanissima. Non credo di avere molto feeling con un evento nuziale. E per di più, sono single». «Non ti preoccupare, Rebecca, all’inizio sarai affiancata da una collega che ti spiegherà tutto quello che c’è da sapere su marce, torte, vestiti, fedi, colombe bianche e bouquet. Seguirà la tua formazione fino a quando non sarai autonoma. Faremo di te la miglior wedding planner sul mercato». Sorrise e si alzò in piedi, come a indicarmi che il mio tempo era finito. Avrei organizzato matrimoni. Anzi, di più: sarei diventata la più brava organizzatrice di matrimoni d’Italia, o meglio, dell’intero universo. Un leggero senso di vertigine mi fece perdere l’equilibrio per alcuni secondi. Accompagnandomi alla porta, Paolo mi indicò l’ufficio di colei che mi avrebbe introdotta alle gioie degli sposalizi, poi mi strinse la mano e disse: «Benvenuta Rebecca, con noi, ogni giorno sarà un evento», citando il famoso spot che aveva reso celebre l’agenzia. L’entusiasmo che a fatica ero riuscita a raccogliere mi stava lentamente abbandonando. Decisi di farmi coraggio e di resistere, almeno fino alla fine della giornata, prima di chiudermi in bagno e scoppiare a piangere. Ripresi l’ascensore per il quinto piano e controllai nello specchio lo stato delle mie occhiaie: erano profonde e verdognole. Diciamo che non ero proprio al massimo della forma. Arrivata al reparto wedding planning, chiesi di Valentina De Bois. Contai velocemente cinque persone. Mi venne incontro una ragazza bassina, strizzata in un paio di jeans ai quali era stata abbinata una camicetta di seta blu che lasciava intravedere un generoso décolleté. Il tutto era corredato di un paio di stivali leopardati, con tacchi vertiginosi, sui quali sembrava a suo agio, come se indossasse delle ciabatte di spugna. Il colorito della sua pelle era così scuro da farla assomigliare alla scrivania color mogano dalla quale si stava allontanando. Lampade, pensai. Quel finto sorriso stampato in faccia non prometteva niente di buono. Sentii subito che era simpatica come un’incudine che ti precipita sull’alluce. «Sono Valentina, tu devi essere Rebecca», mi disse porgendomi una mano con le unghie laccate di azzurro. «Sì, sono Rebecca Bruni, piacere». «Simpatico il tuo tubino, ha un gusto così... come dire... démodé». «Be’, “La moda passa, ma lo stile resta”, amava ripetere qualcuno...», pronunciai indispettita. «I miei jeans Dolce&Gabbana non affermerebbero la stessa cosa». Ok, era una stronza! Non dovevo raccogliere la provocazione. «Quella nell’angolo è la tua scrivania. Come immagino avrai capito, in questo reparto organizziamo matrimoni. “Trasformiamo il tuo giorno più bello in un evento unico”. Insomma, lavoriamo per spose isteriche e futuri mariti pieni di soldi». Detta così, la faccenda assumeva un’aria decisamente più allettante! Stavo quasi per saltare sulla scrivania per l’entusiasmo. «Noi ci occupiamo della scelta del vestito, delle fedi, della location, dei pasti, dell’orchestra, della scelta dell’auto che accompagnerà la sposa in chiesa o in Comune fino al sapore che avranno i confetti. Facciamo servizio completo. E siamo i migliori. Capito: i migliori». Disse guardandomi orgogliosa. Poi aggiunse: «E io coordino tutto», dimostrando la sua enorme modestia. Raggiunsi la scrivania in silenzio e iniziai a visionare i documenti che qualcuno aveva inserito nella cartellina REBECCA del computer.

C’era un po’ di tutto: slide, foto di eventi, tabelle di contabilità per gestire i budget, documenti contenenti la storia e la mission aziendale. Passai mezza mattinata a leggere tutto il materiale, poi feci una pausa e mi fiondai alla macchinetta del caffè. Ai distributori di merendine incontrai due ragazze dall’aria simpatica, che si presentarono, sorridendomi. Si chiamavano Marika e Sara e lavoravano al reparto marketing. Quando seppero che Valentina era la mia tutor, risero e all’unisono dissero: «In bocca al lupo!». Mentre terminavo il mio pessimo cappuccino al cacao, mi si avvicinò Étienne con un sorriso divertito. Doveva essere in pausa anche lui. «Rebecca, quindi». «Sì... Étienne». Gli tesi una mano per le presentazioni formali. Lui la strinse continuando a sorridere. «Come sta andando la tua mattinata?», chiese mentre selezionava un caffè espresso dalla macchinetta. «Sto provando ad ambientarmi. I colleghi, le nuove mansioni, la faccenda dei matrimoni, Valentina...». «Eh eh, lei è un osso duro, vero?». «La conosci anche tu?» «Ho avuto modo di incrociarla... per qualche consegna». «Perché i dirigenti assumono persone con quella faccia? Dovrebbero capire subito di che pasta è fatta la gente, no?! Il loro lavoro è formare squadre che funzionino anche dal punto di vista umano... Vabbe’, scusa lo sfogo. Ho sempre reputato la classe dirigente un po’ ottusa». Mi strizzò uno dei sui occhi blu. «Dai, resisti! I primi giorni sono quelli più difficili, ma vedrai che poi sarà divertente». Con dei fattorini così affascinanti, forse non aveva tutti i torti! «Grazie, resisterò». Gettò il suo bicchiere nel cestino e si girò per tornare al suo lavoro. Dopo tre passi, si voltò e aggiunse: «A proposito: belle perle!», e se ne andò. Rimasi qualche istante a fissarlo, mentre percorreva il corridoio, poi mi accorsi che per terra c’era una busta da lettere. Sul retro, con una grafia molto elegante, c’era scritto il suo nome. Doveva essergli caduta dalle tasche dei jeans. Provai a chiamarlo, ma ormai era lontano. E adesso? Provai il desiderio immediato di aprirla, ma come potevo tradire tutti i miei principi per un paio di occhi blu? Si trattava della vita privata di uno sconosciuto e non avevo alcun diritto di violarne l’intimità. L’avrei tenuta io fino al prossimo incontro. Poteva essere un’ottima scusa per attaccare di nuovo bottone. Poi mi feci forza e tornai dalla mia simpaticissima Valentina. Quando rientrai, era seduta alla mia scrivania e fissava la mia borsa, gettata su una sedia. «È una pelle molto morbida», mi disse. «Sì, l’ho presa a una svendita in un grande magazzino di Mestre. È stato un vero affare». «Posso farti una domanda?», mi chiese, guardandomi con aria sorniona. «Certo». «Come mai ti sei trasferita a Milano? L’hai fatto per un uomo, vero?». La sua invadenza cominciava a darmi sui nervi. «No, mi sono trasferita qui per crescere professionalmente». «Certo, come no? Magari hai anche ambizioni da manager». Rise sguaiatamente. «Sicura di non aver deciso, invece, per qualche bel milanese?». Non capivo perché quella donna priva di gusto dovesse farmi il terzo grado sulla mia vita sentimentale. Non fosse stato il mio capo, l’avrei mandata a quel paese senza pensarci due volte.

«No, sono single». «Single a Milano. La concorrenza comincia a farsi spietata», disse con tono sarcastico. Perché non si faceva gli affari suoi? «Quale posto migliore per ricominciare se non Milano?» «Tutto chiaro. Hai pensato che in una città grande ci fosse più carne disponibile per saltare la cavallina. Chissà quanto rimorchierai con questi bei vestitini della nonna...», disse fissando il mio tubino. Desideravo staccare il monitor del computer e scagliarlo contro la sua testolina bionda. «Non mi interessa saltare la cavallina», risposi scandendo le parole e alzando la voce. «Voglio solo fare carriera, conoscere gente nuova, e magari, un domani, trovare anche un ragazzo con cui condividere tutto questo. È sufficiente?», stavo per perdere la pazienza, sentivo la rabbia montarmi dentro, ma piangere davanti ai miei nuovi colleghi non sarebbe stato un buon biglietto da visita. «Uh, ma come siamo romantici! L’amore, due cuori e una capanna...». Non capivo perché continuasse a provocarmi. Qual era il suo obiettivo? Ridicolizzarmi davanti a tutti, minare le mie poche certezze per poi schiacciarmi con la sua personalità dirompente? Iniziai a respirare profondamente e provai a calmarmi. «Sei proprio un’ingenuotta di provincia», continuò. «Non penserai ancora di trovare il principe azzurro? Gli uomini sono tutti degli stronzi. Sapessi quanti maritini a cui organizzo il matrimonio mi vorrebbero portare a letto». Bene! Una wedding planner dedita alla causa. «Posso tornare al mio lavoro, adesso?», dissi, cercando di togliermela dalle scatole. «Sei qui per questo, tesoro». Tesoro, un corno! «Inizia a studiare quelli», disse indicandomi due faldoni enormi che si trovavano alle mie spalle. «Così almeno non passerai il tempo a pensare ai tuoi fidanzatini immaginari». Poi balzò giù dalla scrivania e andò a importunare qualche altra collega. Mentre cercavo di concentrarmi sui due pallosissimi faldoni, mi ricordai della lettera. Ero curiosissima. La afferrai di nuovo e notai che da un lato era aperta. Forse avrei potuto dare una sbirciatina? Forse conteneva qualcosa di importantissimo e dovevo restituirgliela al più presto. Ero così combattuta, la giravo e rigiravo tra le mani tremanti, e proprio quando stavo per metterla via per dar retta all’angioletto puro di cuore appoggiato alla mia spalla destra, un foglio leggero planò con garbo sul mio grembo. Il destino aveva scelto per me. Abbassai lo sguardo, era scritta in francese, la mia seconda lingua. Dovevo leggerla, il destino era stato chiaro, non potevo tirarmi indietro proprio adesso. Mi bastarono poche righe per capire che si trattava di una passionale dichiarazione d’amore e finiva così: «Vuoi sposarmi, Étienne? Tua, Juliette». Ero imbarazzata. Il mio giovane uomo dagli occhi blu era fidanzato. E stava per sposarsi. Provai una strana sensazione, come se tutto ciò avesse a che fare con me, come se quella lettera fosse stata scritta perché io la leggessi. Ma perché improvvisamente sentivo di dover fare qualcosa, perché avevo la sensazione di conoscere già la risposta di Étienne? Ero sconvolta, quella lettera mi faceva sentire strana. Non riuscivo a staccarmi da quelle parole appassionate e avevo il cuore in gola. Mentre la rileggevo per la terza volta, sentii l’arpia avvicinarsi. «Ti paghiamo forse per farti gli affari tuoi?». Colta con le mani nel sacco! Le mie guance diventarono rosso fuoco. «Io... scusa... mi rimetto subito al lavoro». «Senti cocca, non so com’eri abituata nella tua piccola, umida città, ma qui veniamo per lavorare e se ti dico di fare una cosa, tu la fai, subito».

Mi puntò addosso i suoi piccoli occhi cattivi, circondati da lunghe zampe di gallina. Poi si voltò e tornò alla sua scrivania. Non riuscii a trattenere una linguaccia liberatoria. Avevo bisogno di sentire una voce amica e di raccontarle la piega ironica che la mia vita stava prendendo, così decisi di chiamare Emma. «Ciao, sono io, hai qualche minuto?», le chiesi non appena rispose al telefono. «Ciao Coco, allora, come sta andando?» «Ecco, volevo parlarti proprio di questo... mi hanno messa a organizzare matrimoni». «Cosa?», Emma iniziò a ridere di gusto. «Tu che organizzi matrimoni? Ma gli hai raccontato di quella volta che si è sposata mia cugina?» «Quando sono inciampata nel tavolino che reggeva la torta di cinque piani e l’ho fatta precipitare? Ti sembra un racconto divertente?» «Avresti dovuto! È stata una scena bellissima. I miei parenti australiani ancora se la ricordano. In tutte le e-mail che mi scrivono, chiedono di te». «Vedi? Che tragedia che sono, ma come posso organizzare matrimoni?» «Secondo me la stai prendendo troppo seriamente. È lavoro, Coco! Forse il tuo karma vuole comunicarti qualcosa. È ora di smettere di pensare che l’amore non tornerà più. Forse, aiutando altre donne a organizzare il loro giorno più bello, troverai anche tu un motivo per ricominciare a credere nell’amore». «A proposito dell’amore, ho fatto una cosa orribile...». «Hai fabbricato una bambola voodoo con le sembianze di Niccolò?» «Eh eh eh, non ancora. Ho letto una lettera indirizzata a un’altra persona». «Proprio tu? Miss “La privacy è sacra”?» «Ehm, sì. Ma è stato un caso... C’è questo ragazzo carinissimo che lavora come fattorino da noi. La sua lettera mi è caduta tra le mani... non volevo leggerla!». «Certo, immagino...». «Era una dichiarazione d’amore. Emma, che parole di fuoco! Io non ho mai avuto il coraggio di dire cose del genere a un uomo». «Perché credi troppo poco in te stessa». «È vero. Vorrei provare a essere più forte, più sicura. C’è un segreto per stare meglio?» «Certo che c’è! Vivi quello che ti capita e prova a rilassarti!». Adoravo Emma. Sapeva sempre come tirarmi su di morale. In fondo aveva ragione: cosa avevo da perdere? Vivevo a Milano, avevo un lavoro in un’agenzia prestigiosa e un’amica meravigliosa che non mi avrebbe mai abbandonata. Ero una donna fortunata e dovevo ripetermelo ogni giorno. E se, per il momento, l’amore mi sembrava un miraggio, non era detto che il mio cuore sarebbe rimasto in un congelatore per sempre. Dovevo iniziare a credere in me stessa, nonostante Niccolò, Anna, Valentina. «Grazie Emma, ti voglio bene!». «Anch’io ti voglio bene, Coco. E ricordati, io sono qui per te, sempre». Le mandai un bacio e chiusi la conversazione. Non avevo ancora pranzato, ma il mio stomaco non avrebbe digerito neppure una nocciolina. Decisi di bere un succo, per addolcirmi un po’ la bocca, e lo sorseggiai facendo due passi nella zona intorno all’ufficio. La città era piena di gente che andava di fretta. Uomini che sfrecciavano in macchina, persone accalcate

alla fermata del tram, ragazze che facevano la fila ai banconi del bar per consumare un panino veloce. Com’era tutto diverso dai miei ritmi veneziani. Mentre camminavo con passo veloce per rientrare in ufficio, notai una coppia di anziani seduta su una panchina. Lui continuava ad accarezzare la mano di lei, mentre la moglie sorrideva e chiacchierava. Mi fermai a fissarli per un momento. Erano bellissimi. Sembravano due adolescenti. Chissà da quanto tempo erano insieme. La dolcezza con cui l’uno si rivolgeva all’altra mi commosse e, finalmente, le lacrime che trattenevo dalla mattina uscirono fuori, lente, a rigarmi il volto. Quello era l’amore che cercavo e che forse non sarebbe mai arrivato. Mi asciugai gli occhi con un fazzoletto e rientrai in ufficio. Mi infilai nei bagni del piano terra per rifarmi il trucco e mi chiesi cosa avrebbe detto Niccolò se mi avesse vista in lacrime, lui che mi credeva così forte e decisa. Poi mi resi conto che l’unico modo per stare bene era smettere di farmi domande su di lui. Dovevo dimenticarlo, cancellarlo. Dovevo andare avanti, una volta per tutte. Lui amava un’altra e, soprattutto, non aveva mai amato me. Per riuscire a rifarmi una vita, dovevo smettere di pensare al passato e guardare solo al futuro, a quello che sarebbe venuto. Se il karma mi stava mettendo alla prova, non mi sarei di certo tirata indietro. Dovevo organizzare feste di matrimoni? Bene, l’avrei fatto e sarei diventata la regina dei wedding planner. Avevo pianto abbastanza ed era ora di smettere. Piangere fa venire le rughe. Non potevo permettermelo. «La natura ti dà la faccia che hai a vent’anni; è compito tuo meritarti quella che avrai a cinquant’anni», diceva Mademoiselle Coco. E io volevo arrivare ai cinquanta bella e realizzata. E ci sarei riuscita.

4 IL TUBINO TAGLIA 42

Le prime settimane di lavoro furono frenetiche e faticose. Ero scioccata dalla quantità di cose che dovevo imparare. E io che credevo fossero sufficienti un bel vestito bianco sporco (il bianco ormai è fuori moda), un paio di fedi, rigorosamente in oro bianco, (quello giallo andava secoli fa), una chiesetta in campagna (lo stile bucolico è molto chic) e un ristorante, che poi non è proprio un vero ristorante, tipo un laghetto, una spiaggia caraibica, il tetto di un palazzo (più è un “non ristorante” e meglio è). E soprattutto, un marito che non scappi via la mattina delle nozze. Ero nella fase della formazione e seguivo scrupolosamente le indicazioni della mia simpaticissima tutor Valentina, che non perdeva mai occasione per sottolineare quanto io fossi lenta, pigra, impreparata eccetera. Mi era stata affidata una cerimonia per circa cinquanta invitati, in una piccola villa fuori Milano, e cercavo di fare al meglio il mio lavoro. La sera tornavo stanchissima a casa, con la testa pesante e lo stomaco sempre chiuso. Ogni tanto andavo a bussare alla porta di Claudio per fare due chiacchiere o bere una birra prima di cena. Eravamo tutti e due alla ricerca dell’amore folle. Io, però, mi stavo arrendendo, mentre lui continuava a sperare, credeva nel destino, sapeva che la donna che stava aspettando sarebbe arrivata, prima o poi. Non forzava i tempi e, anche se si sentiva solo e si abbandonava nelle braccia di amanti occasionali per addolcire un po’ l’attesa, sapeva che prima o poi “lei” lo avrebbe trovato. Io ero convinta di aver perso, con Niccolò, l’occasione della mia vita e facevo fatica ad attendermi qualcosa di bello e di nuovo. Ogni tanto Claudio mi indicava qualche ragazzo carino e mi spingeva a provarci, a presentarmi, a flirtare, a fare qualsiasi cosa che potesse attirare la sua attenzione. Io non riuscivo a farmi piacere nessuno. Erano tutti troppo imperfetti, troppo noiosi, troppo bruttini o troppo stupidi. Era forse troppo presto per buttarmi in una storia nuova. Una sera in cui avevamo invitato a bere anche Emma ed eravamo già al secondo calice di vino, un ragazzo si avvicinò al nostro tavolo e mi chiese se ci fossimo già incontrati da qualche parte. Era un bel ragazzo moro, alto e ben proporzionato, indossava una bella camicia e un paio di occhiali da vista molto alla moda. Non mi sembrava di averlo mai visto in vita mia, ma Emma insistette per farlo sedere al nostro tavolo e lui fu molto gentile e carino e mi offrì un altro bicchiere di vino (il terzo, a stomaco vuoto). Si chiamava Marco e faceva il dentista. Scoprimmo che ci eravamo incontrati qualche mese prima a un convegno organizzato dalla mia agenzia. Lui si ricordava i miei abiti, diceva che il mio stile lo aveva affascinato. Sapevo che puntare sull’eleganza alla lunga mi avrebbe premiata. Lo sapeva anche Coco Chanel. Chiacchierammo tutta la sera, ordinammo ancora da bere e mangiammo qualcosa, soprattutto per evitare che io svenissi. Marco era simpatico, brillante e molto dolce. Mi riempì di complimenti e io mi lasciai lusingare dalle

sue attenzioni. Emma e Claudio, vedendomi a mio agio, inventarono una scusa per lasciarci soli e sparirono all’improvviso. Erano settimane che non mi sentivo così leggera e continuai a parlare con Marco per un paio di ore, fino a quando decidemmo di andare a fare due passi. Era una serata calda e limpida e il quartiere di Porta Romana era pieno di gente che passeggiava. Camminammo senza una meta precisa e ci raccontammo un po’ della nostra vita. Solo aneddoti leggeri, niente di importante o di troppo faticoso da confessare. Lui mi parlò dei suoi pazienti più buffi, del terrore sul loro volto quando chiedeva di divaricare bene la bocca, del sorriso dei bambini senza più i denti da latte che gli metteva sempre allegria. Io gli parlai del nuovo lavoro, di quella volta che avevo rovinato le nozze della cugina di Emma, della mia abitudine di leggere gli oroscopi e della mia collezione di scarpe. Procedevo senza sapere dove andare, facendomi allietare dalle chiacchiere di uno sconosciuto che non sapeva nulla di me. Per un momento dimenticai le notti insonni, le lacrime e lo stomaco chiuso. Davanti alle vecchie mura spagnole che circondavano le terme di Milano, Marco mi mise una mano attorno ai fianchi, mi strinse a sé e mi baciò. Mi abbandonai al suo bacio, ritrovandomi a mordicchiare le labbra di uno sconosciuto nel bel mezzo di una calda notte milanese. Volevo solo essere di nuovo felice e sentirmi bella e corteggiata. Chiusi gli occhi, gli misi una mano dietro la nuca e continuai a baciarlo, a lungo. A un certo punto, mi allontanò leggermente e mi sussurrò all’orecchio: «Casa tua?». Lo guardai negli occhi, cercando di capire se avevo davvero voglia di fare l’amore con lui. Avevo sofferto così tanto per un uomo, che forse meritavo di essere corteggiata un po’ più a lungo, prima di concedermi al maschio successivo. Volevo essere desiderata, volevo che il sesso non fosse solo una ginnastica impersonale, fatta per smaltire le calorie dell’aperitivo e liberare un po’ di ossitocina. «Scusami, Marco, ma non so se me la sento. Sta succedendo tutto così in fretta». «Lo capisco, ma è colpa tua. Sei così bella che non riesco a resisterti». Una scusa un po’ datata, ma efficace. «Grazie, sono lusingata, ma vedi, esco da una relazione difficile e ho bisogno di un po’ di tempo. Ho paura che non sarei esattamente a mio agio se finissimo a letto insieme adesso. Mi capisci?» «Ti capisco, ma ti assicuro che farei di tutto per farti stare bene. Tu mi piaci, mi piace come ti muovi, la tua leggerezza. E sono sicuro di piacerti anche io. Perché non ci regaliamo questa serata e proviamo a rilassarci per qualche ora?». Forse aveva ragione. Forse dovevo lasciarmi andare. In fondo ero una donna, avevo superato i trent’anni, ero single, vivevo in una grande città: cosa mi impediva di fare un po’ di sano sesso con un ragazzo carino che avevo appena incontrato? «Be’, in effetti, potremmo...». «Meraviglioso», disse lui stringendomi e baciandomi sul collo. «Anche perché non so quando potrò avere ancora un’altra serata libera». «In che senso?» «Mia moglie è in vacanza con i bambini a casa dei miei suoceri e un’occasione del genere non mi capita molto spesso, ti assicuro». Aveva una moglie? Era un uomo sposato e andava tranquillamente in giro a rimorchiare sconosciute al bar? «Sei sposato?!».

«Sì». «E la fede?» «Ah, l’ho tolta per giocare a tennis. Devo essermela dimenticata nella borsa», disse come se fosse la cosa più normale del mondo. «Non è un problema, vero?». Non è un problema, vero?! Quello era IL problema. Possibile che non esistesse un uomo che poteva dedicarsi a me e solo a me? Ero stata tradita dal mio compagno storico con una balena, l’uomo che amavo mi aveva preferito una donna secchissima e biondissima e il primo ipotetico amante che conoscevo a Milano aveva moglie e figli. Ero stanca di essere la numero due. Io volevo essere la numero uno! «In effetti», dissi lentamente, allontanandolo con una mano da me, «è un problema, è un grandissimo problema. Cosa ti fa credere che io intenda intraprendere una relazione con uno sposato?» «Relazione? Ehi, aspetta un attimo! Chi ha parlato di relazione? Sei una donna carina e sono stato bene con te, tutto qua... avevo solo voglia di passare una bella serata in tua compagnia». “Solo voglia di passare una bella...”. Certo che gli uomini sono tutti degli stronzi, aveva ragione quella perfida di Valentina. Volevo solo andarmene a casa. Da sola. Ero disgustata. «Piuttosto che passare una bella serata in tua compagnia, me ne resto sul divano ad aspettare la menopausa. Cercatene un’altra! Buonanotte», quelle sarebbero state le mie ultime parole. «Non ti facevo così bigotta. Alla tua età, soprattutto». Siccome ero una single sopra i trenta, non dovevo lasciarmi scappare nessuna occasione? Dovevo smettere di essere selettiva e portarmi a letto tutti gli uomini di Milano, sposati o no? Lo fissai con una smorfia, poi mi voltai sdegnata e mi avviai verso casa. Era incredibile che razza di cafoni girassero a piede libero per la città. Rimase qualche istante a fissarmi, poi mi urlò, ironico: «Addio, Rebecca!». Rientrai a casa, mi tolsi le chanel che avevo ai piedi e mi gettai sul divano. Ero incazzata nera. Chissà se la moglie del dentista aveva mai usato parole dolci come quelle della lettera di Étienne. Non aveva avuto molta fortuna con un marito del genere. Bevvi un paio di bicchieri d’acqua per cercare di diluire l’alcol e per contrastare la ritenzione idrica, mi struccai e mi infilai a letto. L’indomani mattina avrei avuto qualcosa di interessante da raccontare ai miei amici, almeno. Il giorno dopo arrivai in ufficio con un gran cerchio alla testa. Avevo provato a mandarlo via con ettolitri di caffè, ma non aveva funzionato. Arrivata alla mia scrivania, mentre controllavo la posta, trovai subito l’e-mail di Emma che mi chiedeva, con tono ammiccante, com’era andata la serata. Le risposi in fretta, prima di mettermi a lavorare, e la sua reazione immediata fu: «Bastardo!». Fui felice di sapere che anche lei la pensava come me. Dopotutto, non ero poi così bigotta! Ero solo una che aveva dei valori. Valentina si avvicinò alla mia scrivania, porgendomi alcuni documenti. Sbadigliai. Mi fissò un istante ed esclamò, nervosa: «Sua Maestà è dei nostri, oggi, o sta ancora sognando tra lenzuola di seta?» «Scusa, sono solo un po’ stanca». «La dolce Biancaneve ha fatto le ore piccole?» «Già, credo di avere esagerato con il vino». Pensai ad alta voce, pentendomi subito di averlo fatto. L’arpia mi guardò con la sua fastidiosa espressione sarcastica. «E lui, com’era?»

«Cosa ti fa credere che ci fosse un lui?». L’invadenza di quella donna aveva qualcosa di patologico. «C’è sempre un lui di mezzo quando una donna esagera col vino. Allora? Un nuovo flirt?» «Nessun nuovo flirt... Solo una cena tra amici». «Che noia! Io ieri sera sono uscita con un nuovo arrivato in Love-me. Devi assolutamente iscriverti. Magari riesci a rimorchiare anche tu. Era molto carino, abbiamo passato una notte favolosa. Peccato che stamattina sia corso dalla sua fidanzata...». E iniziò a ridere sguaiatamente. Avrei dovuto chiedere il numero di telefono al tipo sposato e darlo a lei. Sarebbero stati una coppia perfetta. «L’altra sera», continuò senza nemmeno rendersi conto che ero del tutto disinteressata all’argomento, «sono uscita con uno che ti sarebbe piaciuto molto. Un ragazzo segaligno, che indossava abiti vintage. Mi sembra, a naso, che abbiate moltissime cose in comune. Perché non visiti il suo profilo?» «Grazie per l’interessamento, ma al momento sto bene così». Non avevo nessuna intenzione di iscrivermi a un sito di incontri. «Come credi, ma prima o poi dovrai rilassarti un po’. Non puoi mica fare la suorina per sempre. Fa bene anche al tuo lavoro. Fare sesso stimola la creatività. È per questo motivo che sono la più brillante dell’ufficio», disse, continuando a ridere. Dopo quell’uscita infelice, decisi di inserire Valentina in cima alla lista delle persone che odiavo di più. Anche più della balena. Appena si fu allontanata dalla scrivania, mi misi a riflettere un po’ su quello che mi era accaduto la sera prima e sulle relazioni. Ormai era del tutto normale avere una vita sessuale movimentata, che si sia in coppia o meno. La fedeltà ha smesso di essere un valore assoluto ed è diventato un vezzo. Si è fedeli per dimostrare di essere persone dal forte autocontrollo, non per evitare di ferire l’altro. Io, invece, completamente in controtendenza, credevo ancora nella monogamia. Non in senso assoluto – trovo che sia impossibile e poco intelligente pretendere di frequentare un solo uomo per tutta la vita – ma in senso relativo. Mi piaceva l’idea di sentirmi unica per qualcuno, di poter soddisfare tutti i desideri del mio uomo. Non avevo mai pensato di tradire il mio compagno, semplicemente perché non ne avevo mai sentito il desiderio. La fedeltà sessuale non era mai stata un peso per me, era qualcosa che faceva parte della mia natura. Per tutto l’anno che avevo frequentato Niccolò, nei lunghi weekend in cui ero rimasta da sola, non avevo mai pensato a un altro uomo. Adesso, dopo che lui mi aveva ferita e abbandonata, mi chiedevo spesso quante altre donne avesse incontrato nei periodi in cui ci vedevamo. Chissà se sapere che usciva con altre ragazze avrebbe cambiato quello che provavo per lui. In fondo, non avevo mai preteso che mi fosse fedele, perché non avevo mai avuto il coraggio di parlargli di sentimenti. E fino a quando non entrano in ballo i sentimenti, la fedeltà sessuale non viene mai presa in seria considerazione, si sa. Sapevo di pensarla diversamente dalla maggior parte dei ragazzi della mia età. Prendiamo Marco, il marpione della sera prima. Se aveva deciso di tradire sua moglie, in fondo non era un problema mio. Avrei potuto fregarmene e regalare alla poveretta un bel cappellino di corna, dal momento che non avevo nessun obbligo nei suoi confronti, però non me l’ero sentita. Forse ero solidale con tutto il genere femminile. Oddio, non proprio tutto tutto... Questo era il mio limite. Sapevo amare soltanto in esclusiva. Mi piaceva pensare di avere uno stile originale anche nelle relazioni sessuali. In fondo, se il mio

esempio era una delle donne più anticonformiste del secolo scorso, potevo concedermi il lusso di essere diversa dagli altri, di avere qualche vezzo in più. Sentirmi una piccola rivoluzionaria dell’amore mi faceva stare bene: non sarei diventata cinica come tutti gli altri. Non avrei smesso di sognare. Sarei rimasta l’inguaribile romantica che ero, nonostante tutto. Anzi, nonostante tutti. Annusai la pashmina che portavo al collo, impregnata di Chanel N° 5, e mi rimisi a lavoro. In pausa pranzo ricevetti la telefonata di Claudio, anche lui curioso di sapere come fosse andata a finire la sera precedente. Claudio si era rivelato un grande amico. Non avevo mai avuto rapporti così profondi con maschi eterosessuali. Quasi sempre, l’attrazione fisica o una serie di inspiegabili pudori rendevano complicate le amicizie con gli uomini. Con Claudio, invece, era stato facile, naturale. Eravamo due grandi amici, niente di più. Sapevo che lui mi trovava attraente e spesso mi riempiva di complimenti, ma tra di noi non c’era chimica e questo ci aveva permesso di essere amici, veri amici. Pochi giorni prima, mi aveva citato il finale di Casablanca, uno dei suoi film preferiti: «Louis, credo che questo sia l’inizio di una bella amicizia». Io mi ero quasi commossa. Avevo bisogno di una persona come lui a Milano. Mi faceva sentire meno sola e, soprattutto, evitava che Emma prima o poi mi mandasse a quel paese. Al telefono, la prima cosa che mi chiese, ridendo, fu: «Hai segnato una nuova tacca sul pugnale?». Risi anch’io. In fondo era un aneddoto divertente da raccontare. «No, l’amico era sposato». «Ah, e sapeva di essere sposato quando ha iniziato a flirtare spudoratamente con te?» «Non lo riteneva un problema». «E per te lo è?» «Direi di sì. Ci ho pensato a lungo e credo di meritarmi un amante senza famiglia a carico». «Capisco. Non hai idea di quando abbia sofferto io per essermi fatto abbindolare da donne sposate». «Non riesco a capire come faccia la gente a scindere così facilmente il sesso dall’amore, anche quando c’è passione». «Mi sa che quelli strani siamo noi, Coco. Ormai passione e sentimento sono due cose completamente diverse. Donne e uomini impegnati riescono ad avere tantissime relazioni extraconiugali pur continuando a dire di amare i loro legittimi partner. Contenti loro!». «Io sarei massacrata dai sensi di colpa». «Perché sei una romantica». «Sia chiaro, in passato ho avuto anch’io i miei bei rapporti solo sesso e rock’n’roll, però, se il piccolo Cupido faceva capolino, smettevo subito di regalarla in giro come se non fosse mia». «Ah, ah, ah. E hai mandato in bianco il povero dentista!». «Non lo so, non ero nemmeno sicura di voler andare a letto con lui. Anche tu sei convinto che l’unico modo per dimenticare qualcuno che ci ha spezzato il cuore sia farlo con chiunque?» «Coco, la verità è che non esiste una risposta che vada bene per tutti. Alcuni riescono a dimenticare i vecchi amori solo innamorandosi di una persona nuova. Altri fanno molta meno fatica e riescono ad alleggerire le pene d’amore con il sesso. Altri ancora hanno solo bisogno di tempo. Tempo che, comunque, aiuta sempre a stare meglio. Forse per te è ancora troppo presto per buttarti in nuove relazioni. O forse sei solo in attesa della persona giusta. Chi lo sa». «A essere sincera, speravo che qualcuno potesse indicarmi la retta via!». «Lo capisco. E so che per te non sarà di nessun conforto, ma sappi che ci siamo passati in tanti. Soffrire per amore è tra le cose più dolorose che ci possano capitare. È come se fosse sempre la prima volta.

All’amore non si arriva mai preparati. Ti colpisce, ti stravolge e poi ti abbandona come se nulla fosse stato. La sua è una potenza misteriosa e insondabile. E noi, sciocchi essere umani, non possiamo niente al suo cospetto. Soccombiamo e perdiamo, sempre». «Ma credi che questo strazio finirà, prima o poi?» «Certo, te lo prometto! E il giorno che finalmente sarai guarita, andremo a festeggiare. E quel giorno ti vieterò assolutamente di bere a stomaco vuoto!». Rise ancora e fece ridere anche me. In fondo, prendere con un po’ di ironia quello che stavo vivendo non poteva che farmi bene. «Vado a mangiare qualcosa, ci sentiamo stasera per una birretta?» «Stasera sono a cena con la mia collega preferita. Sentiamoci domani». «A domani, allora. Buona serata!». Finita la chiacchierata, andai al bar a ordinare il mio solito toast e poi feci due passi. Passeggiare mi rilassava. A volte prendevo la metro per scoprire nuovi posti e nuovi angoli in cui provare a sentirmi a casa. Mi imbattevo in nuovi atelier, piccoli supermercati cinesi, negozi di manicure stravaganti, boutique deliziose. Camminare mi faceva sentire come a Venezia, anche se l’inconfondibile suono delle gondole che accarezzavano l’acqua mi mancava da morire. Mentre rientravo in ufficio, decisi che nel tardo pomeriggio mi sarei regalata almeno due ore di shopping. Abitavo a Milano da settimane e non ero ancora mai andata a fare acquisti. Una vergogna! Era arrivato il momento di sfoderare un po’ la mia carta di credito e di aggiungere qualche nuovo pezzo al mio guardaroba. Quando sbucai fuori dall’uscita della metropolitana in via Manzoni e mi diressi verso le vetrine di Armani, erano quasi le sette. Imboccai via Montenapoleone, il tempio della moda, e provai ad accelerare il passo. Volevo assolutamente comprare qualcosa, prima che i negozi chiudessero. La moda mi ha sempre affascinata. È un universo pieno di creatività, di fantasia, di bellezza, e aiuta la gente a sognare. Non sono mai stata una che spende tutto lo stipendio per un abito firmato, io ho il mio stile, cerco capi che si adattino alla mia personalità e al mio modo di pensare. Gli abiti, come le donne, devono essere unici. Coco Chanel diceva che la moda è fatta per diventare fuori moda. Ogni stagione cambia, si rinnova. E ogni nuova stagione le nostre carte di credito fumano per comprare le ultime novità. Esistono, però, gli intramontabili: il tubino, mia fedele divisa (ne possedevo anche uno della maison Chanel, comprato in una boutique di Londra), i pantaloni neri, i tailleur, i maglioni di cachemire, i trench. Passai davanti alle vetrine di Versace, Prada, Valentino, Etro, Gucci. Poi mi infilai in una piccola stock house, che faceva degli sconti da capogiro: una tentazione irresistibile. Mi guardai un po’ intorno, cercando qualcosa che potesse fare al caso mio, che non fosse troppo vistosa né troppo classica. Evitai accuratamente tutti gli abiti in stile animalier, tutte le gonne troppo corte e i capi in pelliccia, e iniziai a guardare gli abiti. Con la mia solita prevedibilità, tirai fuori un bel tubino Dolce&Gabbana, taglia 44, e decisi di provarlo. Entrai nel camerino, mi spogliai velocemente e infilai il vestito. Notai, con enorme sorpresa, che mi stava un po’ grande. Possibile? Chiesi consiglio alla commessa e lei, dopo avermi fissato per un momento, si allontanò, recuperò lo stesso modello di una taglia più piccola, ritornò nei camerini e me lo porse. Avevo il cuore in gola: stavo davvero entrando in un tubino taglia 42? Infilati lentamente il vestito, poi con mani tremanti tirai su la lampo. Si chiudeva. E senza che

trattenessi il fiato. Ero emozionatissima. Finalmente ero riuscita a raggiungere il peso forma, la taglia che avevo sempre sognato. Non riuscivo a credere che l’amore, quello non corrisposto, quello che mi aveva spezzato il cuore e dilaniato le membra, avesse fatto il miracolo: ero dimagrita. Mi sfilai il tubino, felice come non lo ero da settimane, e lo consegnai alla commessa, quasi gridando per la gioia: «Lo prendo!». Non credevo che sarebbe mai successo: Rebecca Bruni entra in un tubino taglia 42. Era una notizia da prima pagina dei quotidiani. Ero così contenta che non mi preoccupai neppure del prezzo. Afferrai il sacchetto che conteneva il mio successo e uscii nella tiepida serata milanese. Davanti alle vetrine di Gucci, mentre continuavo a camminare con passo spedito e distrattamente, urtai contro qualcuno, rovesciando a terra il mio e i suoi sacchetti. Mi chinai, scusandomi per essere stata così maldestra, e, quando alzai lo sguardo per restituire le borse che avevo fatto cadere, mi trovai di fronte due inconfondibili occhi azzurri. «Riusciremo una volta a incontrarci in una situazione più, come dire, “equilibrata”?», rise Étienne, mentre raccoglieva i sacchetti. «Scusami, ho sempre la testa per aria!». Notai che aveva fatto acquisti da Versace e da Gucci e indossava un paio di jeans di Armani, con sopra una bella camicia fatta su misura. Non sapevo che i fattorini guadagnassero così bene. «Vestiti nuovi?», mi chiese osservando il mio sacchetto dell’outlet. «Be’, sì. Ne avevo bisogno», risposi sorridendo e pensando al tubino che rappresentava il mio ingresso ufficiale nella taglia 42. «Io adoro lo shopping e Milano è la città ideale per fare acquisti». La mia carta di credito iniziava a rendersene conto. Mi chiedevo se anche il credito dell’uomo dagli occhi di ghiaccio fosse agli sgoccioli, dopo il suo saccheggio. Con molta naturalezza mi chiese: «Ti va un caffè?». Non era proprio l’ora giusta per un caffè, ma qualcosa mi diceva che dovevo accettare. Mi ero ripromessa di restituirgli la lettera, che conservavo in borsa, ma in quel momento mi sentii così in imbarazzo che decisi di rimandare. Ci infilammo in un elegantissimo bar e ordinammo due espressi. «Mi piace moltissimo il caffè italiano. A Parigi, ho una moka che uso tutte le mattine». «Quindi sei di Parigi? Torni spesso in Francia?», cominciavo a essere molto curiosa. «Ogni volta che posso», sorrise, e notai una punta di ironia nella voce. «Hai ancora dei legami lì?». Non potevo confessargli di aver letto la lettera e di aver scoperto che aveva una fidanzata, e che stava per sposarsi. Mi guardò con aria perplessa. «Ho la mia famiglia». D’accordo, non voleva parlare di Juliette. Erano fatti suoi e io ero intenzionata a rispettare la sua privacy. Almeno questa volta... «Sei fidanzata?». Mi colse alla sprovvista. Non era uno che faceva grandi giri di parole. «No... Sto facendo un corso per imparare a diventare più indipendente!», stavo provando a essere divertente. Non potevo confessare a quest’uomo perfetto di essere stata scartata da tutti i cretini che avevo incontrato. «Mi piacciono le donne indipendenti». Sfoderò il suo sorriso magnetico e sentii qualche farfalla

agitarsi nella pancia. Terminammo il caffè e continuammo a fare due passi. Era molto piacevole chiacchierare con lui. Passando in via Sant’Andrea mi fermai a guardare le vetrine della boutique di Chanel. La collezione non tradiva lo spirito originario di Coco: dominavano il bianco, il nero e i lunghi giri di perle che abbellivano i colli dei manichini. «Adoro Chanel», gli confessai, mentre lui studiava con cura la vetrina. «A Venezia avevo una zia che vestiva solo Chanel. Era stata educata in un prestigioso collegio e tutte le sue istitutrici indossavano austeri tubini neri. Lei ne rimase così affascinata che per tutta la vita comprò solo abiti Chanel. Indossava rigorosamente sei giri di perle intorno al collo e fumava sempre sigarette lunghissime, e dato che ero la sua unica nipote, da bambina mi faceva provare tutti i suoi tailleur, le giacche di tweed e i suoi splendidi vestiti. È stata lei a darmi il soprannome con cui ancora oggi mi chiamano tutti: Coco. È morta qualche anno fa. I suoi averi sono andati tutti all’asta, perché aveva vissuto sempre al di sopra delle sue possibilità ed era piena di debiti. Poco prima di morire, però, è riuscita a regalarmi la sua borsa 2.55. La conservo ancora come un cimelio». «È una bella storia», disse sorridendomi. «Quindi posso chiamarti Coco anche io?». Arrossii, annuendo. Poteva chiamarmi con qualsiasi nome, con quella voce così calda e profonda. «Se conosci così bene la maison, ti andrebbe di farmi da personal shopper? Devo comprare un regalo per mia madre e sono ancora indeciso. Domani rientro a Parigi e la sera festeggeremo il suo compleanno». «Sei sicuro? Credo che i prezzi siano piuttosto proibitivi». Di solito, avendo un budget ridotto, mi limitavo a guardare le vetrine e non entravo quasi mai nell’atelier. Rise divertito. «Ho qualche risparmio da parte». «Perfetto!». L’avrei aiutato molto volentieri... stavo per fare shopping nella boutique dei miei sogni. Entrammo nel negozio e iniziammo a dare uno sguardo agli immancabili tailleur, abiti da sera e meravigliosi tubini bianchi e neri. «Questo negozio ti somiglia», disse guardando il tubino che mi ero appoggiato al corpo. «Grazie, è un grande complimento». «Sei diversa dalle altre donne. Ricordi un po’ le foto in bianco e nero di mia madre». Mi stava dando della vecchia? «Non credo sia proprio quel genere di cosa che una donna vorrebbe sentirsi dire...». Rise allegramente, passandosi una mano tra i suoi capelli biondi. «Scusami, non volevo essere scortese. Intendevo dire che hai un fascino di altri tempi, qualcosa di intramontabile». Era dolcissimo e continuava a farmi arrossire. Dopo i vestiti, passammo agli accessori. C’erano deliziose spille a forma di camelia, eleganti guanti di pelle e meravigliosi cappelli. «Come mi sta?», chiesi, indossando una mini bombetta in feltro. «Benissimo. Faresti impallidire Charlie Chaplin». «Mmh, ho capito, non è il modello per me», risposi con una smorfia. Rise ancora. «Sei buffa, Coco». Sentirmi chiamare Coco da lui mi fece venire la pelle d’oca. Mi piaceva. «Stiamo per chiudere, signori». Una commessa in tailleur scuro ci invitava a fare in fretta. Dovevamo ancora scegliere il regalo.

I miei occhi caddero subito su una borsa bianca con inserti in metallo dorato. La afferrai, era di una pelle morbidissima. Avrei dovuto risparmiare mesi per poterla acquistare. «Dici che questa potrebbe andare?». Étienne si avvicinò e iniziò a studiare la borsetta. «Non so che cifra tu avessi in mente... È costosa». «Per mia madre, non bado a spese!». Consegnò la borsa alla commessa e tirò fuori la sua carta di credito. Sua madre era una donna sfacciatamente fortunata. Uscimmo dal negozio, entrambi soddisfatti. «Grazie per avermi aiutato, senza di te sarebbe stata dura». «Grazie a te per avermi dato una scusa per entrare da Chanel». Ci salutammo e lui si diresse verso la metropolitana. «A presto, Coco», mi gridò mentre si allontanava. Lo salutai con un cenno della mano. Speravo di averlo convinto che non ero un’imbranata totale. Sorridendo, continuai a passeggiare fino a San Babila, da lì fino al Duomo e poi, dal Duomo, lungo Corso di Porta Romana, fino a casa. Era stato davvero un bel pomeriggio. Avevo fatto acquisti da Chanel e avevo comprato un tubino taglia 42. Camminai a lungo, sempre con il sorriso sulle labbra e con la testa leggera, dimenticandomi del dentista fedifrago, di Valentina, del lavoro che ancora non riuscivo a svolgere come volevo e dei miei sospiri per Niccolò. Mi godetti la passeggiata, contenta di essere riuscita a trasformarmi almeno un po’ nella versione che avevo sempre sognato di me stessa. Adesso non dovevo far altro che lavorare sull’interno, con calma, senza fretta, prendendomi tutto il tempo necessario per diventare una donna forte, per sentirmi sicura anche senza un uomo, per riuscire a stare bene di nuovo, senza troppi sensi di colpa. Cosa mi mancava per essere indipendente? Forse un po’ di fiducia in me stessa, più coraggio. Coco Chanel era caduta tante volte, ma si era rialzata sempre, perché credeva nel suo talento, perché aveva un sogno. Aveva anche chiesto soldi in prestito ai suoi amanti, senza pudore, e li aveva, ogni volta, restituiti, centesimo su centesimo. Dovevo smetterla di sentirmi incompleta senza un uomo accanto. Non ero una sciocca principessina in attesa di un cavaliere temerario. Ero una donna determinata, con un bel lavoro e una taglia 42. Avevo tutto quello che mi serviva. Dovevo solo farlo vedere. Arrivai finalmente a casa, salutai con un cenno della testa la signora Leoncini, la buffa vicina del primo piano, intenta a innaffiare le piante sul balcone, presi l’ascensore, entrai nel mio appartamento e festeggiai il mio piccolo traguardo, da sola, con un bicchiere di cabernet e tre cioccolatini che avevo nascosto, per le emergenze, nella scarpiera. A volte basta davvero molto poco per essere felici.

5 IL PAPPAGALLO DI SOFIA

Il sabato successivo al mio trionfale ingresso nella mitica 42, provai tutti gli abiti che avevo nell’armadio per capire se qualcuno di loro avesse bisogno di essere modificato da una sarta. Mi ero sistemata davanti al grande specchio della camera da letto e non facevo altro che uscire ed entrare da gonne e vestiti. Alcuni mi cadevano a pennello, a causa della mia ormai nota abitudine di comprare capi più stretti nella speranza di dimagrire, altri avevano bisogno di essere sistemati da mani abili. Adoravo così tanto la mia nuova silhouette che non riuscivo a staccarmi dallo specchio, mi sentivo un narciso in gonnella, sorridevo e facevo delle smorfie con la bocca, simulando ipotetici dialoghi leziosi con maschi invisibili. La casa era silenziosa e dalla finestra entrava un timido sole che illuminava le pareti e il parquet della camera. Mentre ero intenta a tirare su la lampo di una longuette che non ero mai riuscita a chiudere del tutto, avvertii un grido provenire dalle scale. «Ramón, dove sei? Ramóóóóóón!». Mi avvicinai alla porta per capire meglio di cosa si trattasse. Una donna cercava disperatamente questo Ramón e non accennava a smettere di urlare. Aprii la porta e trovai Claudio in pantaloncini corti, con una tazzina di caffè in mano, che discuteva con il vicino del piano di sotto. «Cos’è successo?», gli chiesi, cercando di capire cosa fosse tutto quel trambusto. «La signora Leoncini ha perso il pappagallo». Claudio mi aveva raccontato che in passato Sofia Leoncini era stata una famosa cantante lirica e si era esibita nei teatri più famosi del mondo. Qualcosa poi doveva essere andato storto e adesso si ritrovava sola a innaffiare le piante sul terrazzino, a suonare il pianoforte la sera o a canticchiare alla finestra, quando c’era bel tempo. Il resto dei condomini era convinto che fosse matta. Appresi in quell’istante che viveva con una grossa ara ararauna, un pappagallo giallo e blu che in quel momento si era dato alla fuga all’interno dell’edificio. «Meglio che tenga lontano Gatto», disse Claudio, rientrando verso il suo appartamento. «Non vorrei che gli saltasse in mente di fare colazione a base di volatile». «Sarebbe una bella tragedia», aggiunsi. «Bella gonna!». Non mi ero resa conto di essere uscita dalla porta dell’appartamento indossando, sotto la maglietta del pigiama azzurro, l’elegante longuette che, ormai, mi entrava alla perfezione. «Grazie, stavo facendo delle prove...». «Quanto sei bella, Coco. Ora è meglio che rientri, dico sul serio». Schioccò un bacio nell’aria e poi scomparve nel suo appartamento. La signora Leoncini continuava a urlare, disperata.

Dal quinto piano giunse una voce: qualcuno aveva avvistato il pappagallo sul lucernaio e stava provando a farlo avvicinare offrendogli dei cracker. «Il mio Ramón non mangia cracker», disse Sofia con un filo di sdegno nella voce. Poi la vidi sparire e dopo pochi secondi la sentii sussurrare: «Piccolo mio, vieni dalla tua mamma, non avere paura». Gli parlava con una voce così dolce che per poco non mi commossi. Il pappagallo sembrava non avere nessuna intenzione di tornare dalla sua padrona. Forse aver assaporato quel momento di libertà gli aveva fatto montare la testa e credeva di pover sopravvivere nella afosa giungla metropolitana. «Vieni qui, su!», continuava a intimare la signora Leoncini, mentre tutti noi condomini attendevamo con il fiato sospeso l’epilogo di quella bislacca avventura. A un tratto, Ramón aprì le ali, gridò con la sua voce roca: «Argentinaaaa», e saltò giù dal lucernaio, planando sul braccio di Sofia. Scattò, quasi ci fossimo messi d’accordo, un lungo applauso e la signora Leoncini, scendendo le scale con il suo fido Ramón sulla spalla, ringraziava tutti, come se fosse stata a una prima alla Scala. Arrivata al mio piano, la donna mi sorrise. «Deve aver preso un bello spavento», dissi, rispondendo al suo sorriso. «Ho temuto di averlo perso per sempre». «È un bell’esemplare». «Non è solo un uccello, sa? È un amico». Pensavo che solo i pirati avessero dei pappagalli come amici. «La cosa che più gli invidio», continuò, «è il fatto di poter volare. Se avessi anche io le ali, forse sarei già andata molto lontana da qui». «Se tutti potessimo volare, non ci sarebbe più il problema dei parcheggi». Cercavo di essere spiritosa, ma mi accorsi che era meglio tacere. La signora mi guardo ancora un attimo, perplessa, poi sorrise e mi salutò. Ricambiai il saluto e rientrai nel mio appartamento. Con calma terminai la cernita dei vestiti, sorridendo allegramente. All’ora di pranzo avevo appuntamento con Emma e con altre due sue amiche in corso Como. Indossai dei pantaloni beige, una camicetta nera, un paio di sandali e una pochette Chanel. In realtà, odiavo portare le borse in mano. Chanel diceva di aver aggiunto sottili cinturini alle borsette proprio per evitare questo strazio alle donne. Aveva avuto un’ottima idea. Mi sistemai il mio fermaglio a forma di camelia tra i capelli e mi diressi alla metropolitana. Era ormai metà ottobre, ma l’estate sembrava non voler lasciare il passo all’autunno. Faceva molto caldo e la gente, ancora abbronzata, chiacchierava seduta ai tavolini dei bar o delle gelaterie. Arrivai al ristorante con un po’ di anticipo e ne approfittai per fare un giro dell’annesso concept store che vendeva pezzi di diversi stilisti, accessori, oggetti di design e libri. Annusai la pelle meravigliosa di una borsa che costava quanto un mese di stipendio e mi lasciai affascinare, come d’abitudine, dalle meravigliose scarpe esposte. Poi mi accomodai nel bel giardino e iniziai a osservare le persone sedute agli altri tavoli. Mi sembravano tutte bellissime. Eleganti, trendy, silenziose (amavo le persone discrete), erano il ritratto di tutto quello che apprezzavo della città: la moda, la cultura e la buona educazione. Emma arrivò un po’ in ritardo, chiacchierando con le sue amiche che dovevo aver già incontrato a qualche cena, ma i cui volti avevo completamente rimosso. Indossavano entrambe due microabiti e avevano un’abbronzatura perfetta, frutto di un sapiente dosaggio

di sole e lampada. Si accomodarono al tavolo. «Rebecca, è un piacere». «Io sono Marta», disse una della due, con capelli biondissimi. «E io Serena», aggiunse l’altra, rossa come il fuoco. Scambiammo qualche chiacchiera, poi ordinammo da mangiare. Emma era molto felice perché quella settimana il suo studio aveva ottenuto un grosso lavoro e le avevano promesso una buona gratifica in busta paga. «E tu, Rebecca? Emma ci ha raccontato che sei una wedding planner», disse la rossa, mentre i camerieri ci servivano l’antipasto. «Sì, ho cominciato da poche settimane». «Deve essere affascinante organizzare matrimoni. E anche molto divertente, no?», aggiunse l’amica bionda. «Sì, se si esclude l’ansia delle spose, la reticenza degli sposi a spendere e la presenza ingombrante delle suocere, che mettono bocca in qualsiasi affare!». «Credo sia anche un lavoro molto romantico», disse sospirando la bionda. «Organizzare una grande festa per due persone che si amano, assecondare i loro desideri, aiutare la sposa a scegliere l’abito, ordinare le torte con le decorazioni più melense... dev’essere tutto così tenero». «In effetti, le coppie che ci chiedono di organizzare il loro matrimonio sembrano felici e innamorate e, a parte lo stress da evento, sono tutte molto emozionate», risposi sospirando. «Io ho fatto tutto da sola», intervenne la rossa. «Ma è stata una fatica tremenda, alla quale si è aggiunta l’ansia di dover scegliere chi invitare e chi no. Uno strazio. Alla fine è andato tutto bene, ma se potessi tornare indietro, anche io mi affiderei a un’agenzia». «Potrai farlo al tuo prossimo matrimonio», disse Emma, ridendo. «Per carità!». Rispose la rossa, ridendo anche lei di gusto. «Ho fatto così tanta fatica a trovare marito e a mettere la testa a posto che non ho nessuna intenzione di lasciarmelo scappare!». Continuammo a ridere, mentre i camerieri portavano via i piatti degli antipasti. «A proposito di mettere la testa a posto», disse la bionda, «avete saputo chi ha finalmente deciso di appendere i boxer al chiodo e diventare un bravo ragazzo?» «Chi?», chiese la rossa molto incuriosita. «Niccolò!». Sentii un tonfo all’interno della mia cassa toracica e lo stomaco si serrò in un secondo. Emma mi fissò, con sguardo preoccupato e con l’aria di una che non vedeva l’ora di porgermi delle scuse. «Non ci credo!», continuò la rossa, ignara del fatto che il mio cuore si stesse lentamente sgretolando. «Il mitico Nic si è finalmente accasato?» «Sembra abbia trovato la donna della sua vita, almeno è quello che si dice in giro». La bionda bevve un sorso di vino e proseguì con il pettegolezzo che sembrava starle molto a cuore. Forse era stata anche lei una delle vittime del fascino dell’uomo che mi aveva rubato l’anima. «Sono già andati a convivere. Dev’essere davvero una cosa seria se Mister Single Felice ha deciso di dividere il suo prezioso spazio con una donna». Non avevo più appetito e lottavo a fatica per trattenere le lacrime. Da quando avevo imposto a Emma il divieto di parlarmi di lui, non avevo più avuto notizie di Niccolò. Preferivo non sapere cosa facesse, come vivesse. Speravo addirittura di dimenticarmi della sua esistenza e l’unico modo per riuscirci era cancellarlo dalle discussioni e dai pensieri. Le due oche abbronzate, però, non potevano saperlo e avevano scelto il momento più sbagliato per fare

due chiacchiere su di lui. E il pretesto per parlarne l’avevano trovato grazie agli stupidi matrimoni che organizzavo. Odiavo il mio lavoro. Emma continuava a fissarmi, con le labbra serrate e scuotendo il capo. Era stata molto brava a difendermi dal dolore e dalla rabbia e sapevo che ora si sentiva profondamente in colpa per non aver potuto evitare quella conversazione. «Tu conosci Niccolò?», mi chiese la rossa, mentre i camerieri servivano i piatti successivi. «Eravamo amici, qualche tempo fa». Non sapevo cos’altro rispondere. «Ma non ci frequentiamo più da tempo», tagliai corto, in maniera molto secca e con la voce che mi tremava. La bionda, intuendo la tensione nelle mie parole, guardò Emma e, forse grazie a un cenno della mia amica, cambiò subito argomento. Io continuai a fissare il mio piatto, cercando di ricacciare indietro quelle due piccole lacrime che già si erano piantate ai lati degli occhi. Bevvi un lungo sorso di acqua, poi trovai di nuovo il coraggio di alzare la testa. Emma mi sorrideva con dolcezza. Qualche giorno prima, mentre chiacchieravamo sul suo comodo divano, mi aveva detto: «Non cercare di essere forte per forza. Nessuno te lo chiede. Se hai voglia di piangere, piangi. Se hai voglia di abbandonarti alla malinconia, fallo. Se hai voglia di rompere piatti e bicchieri, distruggi. Sappi solo che, una volta esaurite le lacrime e la nostalgia, devi trovare la forza per sorridere di nuovo. Con un sorriso alla volta, supererai tutto questo, vedrai». Mi ricordai delle sue parole e mi sforzai di sorridere. Poi addentai controvoglia la prelibatezza che avevo nel piatto e masticai molto lentamente. Non avrei permesso al passato di rovinarmi una così bella giornata. Le amiche di Emma ci salutarono e noi due rimanemmo su corso Como a passeggiare e a fissare le vetrine dei negozi. «Mi dispiace per prima, Coco», disse Emma sentendosi ancora in colpa. Aveva preso molto seriamente il compito di difendermi dall’effetto Niccolò. «Non ti preoccupare. Sapevo che cancellarlo dalla mia vita sarebbe stato lungo e faticoso. E sono convinta che, prima o poi, mi capiterà di incontrarlo di nuovo. Spero solo di essere meno fragile, quel giorno. E di avere qualche oggetto contundente a portata di mano». Mi abbracciò a lungo e poi cambiammo argomento. Trascorremmo le ore successive a parlare di scarpe, di vestiti, dei suoi buffi amanti, dei viaggi che avremmo voluto organizzare, di Milano e del suo lavoro. Lentamente, rimossi la discussione del pranzo e il mio cuore tornò a pompare regolarmente. Era sempre meno doloroso. Forse è vero che il tempo lenisce tutte le ferite. Prima di salutarci, Emma mi chiese di Étienne «Come va con il bel biondino dagli occhi azzurri? Gli hai restituito la lettera?» «Ecco, stavo per farlo, ma poi ho pensato che non fosse il momento giusto». «Hai bisogno di un momento giusto? Non sei tu quella che ha chiesto la sua mano». «Lo so. È che mi sento in colpa. Quella lettera mi ha toccato il cuore. Non voglio che pensi che io l’abbia letta». «Ma l’hai fatto...». «Ehm, certo. Ma se lui non verrà mai a saperlo, è come se non fosse mai successo». «Come devo fare con te?», rise e mi stampò un bacio sulla guancia. Rientrai a casa nel tardo pomeriggio. Mentre cercavo le chiavi del portone del palazzo, intravidi la signora Leoncini che innaffiava le piante sul balcone, canticchiando spensierata.

Aveva la testa piena di bigodini, nascosti da un elegante foulard, e sembrava essersi completamente ripresa dallo shock della mattina. Quella donna aveva, nel suo modo di fare, nel suo stile principesco, nella sua stravaganza, qualcosa che mi metteva allegria. Decisi di comportarmi da brava vicina e, cercando di non alzare troppo la voce, le chiesi: «Signora Leoncini, tutto bene con il suo pappagallo?». Lei mi fissò a lungo, cercando di mettere a fuoco il mio viso. «Sono Rebecca, del terzo piano. Ci siamo incrociate questa mattina, quando ha avuto problemi con il suo Ramón». Mi fissò ancora un attimo e poi sorrise, contenta che mi dimostrassi così interessata a tutta la faccenda. «È tutto a posto, grazie», disse con una voce intensa. «Bene, sono contenta». Mi sorrise ancora. Doveva essere una donna molto sola. «Stavo per preparami un po’ di tè, vuole farmi compagnia?». L’offerta mi colse impreparata. Non avevo programmato di prendere un tè con quella buffa signora. Però, mi sembrava un invito cortese e non mi andava di essere sgarbata. Inoltre, non avevo niente di meglio da fare. «Grazie, molto volentieri», gridai, rendendomi conto solo allora che urlare per strada era un’abitudine veneziana che non si addiceva molto alla mia nuova vita milanese. Mi infilai nel palazzo, feci una rampa di scale e raggiunsi la porta di Sofia. Suonai il campanello e udii la sua voce allegra che canticchiava: «Arrivoooooo!». Quando aprì la porta, me la ritrovai davanti raggiante. Era corsa a indossare una vistosa veste da camera con il collo di piume. Sotto la vestaglia, si intravedeva il pizzo di una lussuosa camicia da notte. Aveva delle ciabattine con il tacco, tempestate di swarovski e, al petto, un paio di occhiali maculati, sostenuti da un filo di perline. Si era messa in tiro per me. Che tenerezza. Mi fece accomodare in un piccolo salottino tappezzato di foto dei suoi concerti. In un angolo, c’era un tavolino con sopra diverse targhe che doveva aver vinto in passato e, a fianco, un divano di tessuto damascato e ricoperto di tantissimi cuscini. All’altro angolo della stanza, il trespolo su cui dormiva, beatamente, l’ormai celebre Ramón. Nell’aria avvertivo un buon odore, molto familiare. «Scusi il disordine, non aspettavo ospiti». I milanesi avevano tutti quest’abitudine di scusarsi per il disordine, anche se le loro case erano ordinate in un modo che io consideravo al limite del patologico. «Non si preoccupi, è una casa deliziosa la sua. Posso chiederle, se non sono indiscreta, cos’è questa meravigliosa fragranza che sento?» «Ma certo, cara, è Gardénia di Chanel». Amavo quella donna. Mi fece accomodare sull’importante divano e sparì in cucina. Rientrò con un grande vassoio e mi offrì una tazza di tè. La scelta della miscela molto profumata mi piaceva molto. «È un tè alla cannella e scorza d’arancia. Una miscela dei Mariage Frères di Parigi. Non la trova deliziosa?» «È buonissima!». «Non credo di conoscere il suo nome...». «Ha ragione, non mi sono presentata. Mi chiamo Rebecca Bruni e mi sono trasferita qui qualche settimana fa». «Lietissima di conoscerla, Rebecca. Io sono Sofia Leoncini. Ormai abito qui da così tanti anni che non

ricordo nemmeno più quanti». Guardò fuori dalla finestra, poi iniziò a intonare sottovoce l’aria di qualche operetta. Era davvero una donna singolare, ma non capivo perché il resto dei condomini si ostinasse a definirla un po’ fuori di testa. A me sembrava solo una donna di una certa età che si era ritrovata, suo malgrado, sola. «È lei la donna ritratta nelle foto alle pareti?», chiesi, cercando di riportarla alla realtà. Intanto Ramón si era svegliato e aveva iniziato a camminare su e giù per il suo trespolo, al quale la padrona l’aveva scrupolosamente legato, forse a causa della sua fuga mattutina. «Sono io. Un tempo ero una cantante lirica, sa? Una delle più grandi. Quando cantavo io, a teatro non volava una mosca. Li ipnotizzavo. Ero così felice... Le luci, l’adrenalina, gli applausi...», si interruppe e si alzò. Si rimise a dare l’acqua alle piante e si dimenticò di me. Improvvisamente, sembrava molto lontana. Cominciavo a sentirmi un po’ a disagio. Ero curiosa di sapere come mai avesse abbandonato il palcoscenico e la vita di sfarzi e onori che le foto sembravano testimoniare. «E non canta più?», chiesi, timidamente, cercando di attirare la sua attenzione. Lei si voltò e mi fissò a lungo, come se si fosse completamente dimenticata della mia esistenza. Poi poggiò a terra l’innaffiatoio e si avvicinò al pianoforte. «Lei suona?», mi chiese. «Purtroppo no, anche se mi sarebbe sempre piaciuto». Come diceva la mia Chanel, anche io non mi pentivo di nulla della mia vita, eccetto di quello che non avevo fatto. «Peccato!». E improvvisamente, come se avesse trovato un interlocutore a lungo desiderato, iniziò: «Quando Ramón è andato via, ho smesso di fare tutto. Non mangiavo più, non dormivo più, non vivevo più». Ci misi un attimo a realizzare che il Ramón di cui parlava non era l’uccello che si stava ingozzando di semi di girasole nell’angolo del suo salotto. «La mia vita non aveva più senso. Anche la musica non mi interessava più. Lui aveva portato via tutto. Tutto». Non sapevo cosa dire. Decisi di non interromperla per non sembrare scortese e mi limitai a sorridere. Non ero nemmeno convinta che si ricordasse chi fossi e perché mi trovassi lì. «Era partito per tornare. Me l’aveva promesso. Diceva che sarebbe andato in Argentina per dire alla moglie che era finita, che amava solo me, che nulla poteva più dividerci. Io l’aspettavo con ansia e intanto sognavo un futuro insieme. Senza Ramón mi mancava l’aria, il cielo si era fatto nero e la terra mi risucchiava». Avevo la pelle d’oca. «Poi, non tornò. Passarono le settimane senza alcuna notizia. Ero inconsolabile. La notte non dormivo e passavo ore a guardare fuori dalla finestra, nella speranza che apparisse all’improvviso. Ero disperata». In quel momento, il mio cuore era il suo. Sapevo esattamente come si sentiva. «Non potevo credere che mi avesse abbandonata. Lui mi amava. Smisi di andare alle prove. Dimenticai di lavarmi i capelli e di vestirmi. Passavo le giornate in camicia da notte, senza mangiare. Mi consumavo, lentamente, nella speranza che tornasse da me...». Mi fissò e mi accorsi che aveva gli occhi lucidi. «Poi un giorno arrivò il telegramma», riprese. «Un telegramma del fratello dall’Argentina. C’era stato un terribile incidente. Una tragedia... La tragedia...». Si sedette pesantemente sul divano, accanto a me. Sembrava esausta.

«L’aereo su cui stava viaggiando non aveva superato una brutta tempesta. Era precipitato. Ci erano volute settimane per recuperare i resti di Ramón. Aveva con sé l’agenda con la mia foto. Il fratello ci aveva messo un po’ a trovare il mio indirizzo e, quando c’era riuscito, aveva avuto il buon cuore di avvisarmi. Non sono mai riuscita a capire se la disperazione fu più forte quando credetti di averlo perso per un’altra o quando scoprii di averlo perduto per sempre. Da allora non canto più, se non per Ramón». Si asciugò una lacrima che le aveva sfiorato le rughe, si alzò dal divano e andò ad accarezzare la schiena del suo enorme uccello. Come se nulla fosse, poi, si girò a fissarmi e mi chiese: «È delizioso questo tè, non trova? Ne gradisce un’altra tazza?». Mi congedai dalla signora Leoncini e rientrai nel mio appartamento. La sua storia così dolorosa mi aveva impressionata. Era incredibile come l’amore potesse stravolgere la vita di una persona. L’amore è un sentimento così potente che bisognerebbe avere il porto d’armi per poterlo usare. Continuavo a pensare alla storia di Sofia e Ramón, alla scelta disperata di rimanere fedele a un ricordo, quando mi vennero in mente Chanel e il suo Boy Capel. Arthur Capel, detto Boy, era stato il grande amore della vita di Coco. Aveva sempre creduto in lei e fu proprio grazie al suo sostegno economico che Coco prese il volo. Per un certo periodo vissero insieme a Parigi e si racconta che Boy le avesse chiesto addirittura di sposarla, ma che lei, preoccupata per la dipendenza economica, avesse rifiutato l’offerta. Gabrielle Chanel era sempre stata una donna indipendente. Il divario sociale che esisteva tra i due (Chanel era una povera orfana e Capel proveniva dall’alta borghesia) avrebbe, in ogni caso, impedito il matrimonio. Ma l’amore che li legava era indissolubile e anche quando Boy si sposò con una donna molto ricca, per rafforzare la sua posizione sociale, i due continuarono a frequentarsi. Fino al giorno del tragico incidente d’auto che tolse la vita ad Arthur, appena trentottenne. Sembra che dopo la morte del suo amante, per superare il dolore, Chanel abbia deciso di dedicarsi anima e corpo al lavoro e sia diventata la più grande stilista del secolo scorso. Colei che ha rivoluzionato il concetto di femminilità e si è imposta come personaggio fondamentale nella moda e nella nostra cultura popolare. Restava in lei aperta la ferita di un amore spezzato e, forse, proprio per questo era rimasta per tutta la vita un’elegante mademoiselle. Rimasi un po’ a pensare a quelle due storie d’amore tragiche, a come il sentimento, a volte, sia così forte da non morire mai, a come si possa amare a tal punto da decidere di dedicare a qualcuno che non c’è più tutta la propria esistenza, nonostante l’immensa solitudine. Dal primo piano arrivò il suono dolce di un pianoforte che suonava. Quella sera, quella musica, raccontava molte cose. Quelle note delicate sembravano suonate per tutti gli amori infelici del mondo. Spensi la luce, mi avvicinai alla finestra, chiusi gli occhi e mi misi ad ascoltare.

6 L’INGREDIENTE SPECIALE

Al termine del primo mese di lavoro in agenzia, fui convocata da Paolo per fare il punto sulla mia formazione e sugli incarichi successivi. Quella mattina indossavo un paio di pantaloni a palazzo grigi, una camicetta bianca e una giacca di tweed nero, alla quale avevo tirato un po’ su le maniche. Il tutto impreziosito da un paio di orecchini pendenti con le perle. Avevo un aspetto serio e professionale. Peccato che la sera prima, come sempre più spesso accadeva, avessi fatto le ore piccole bevendo e chiacchierando con Emma. Oltre alla scarsissima voglia di lavorare, avevo anche una soglia di attenzione talmente bassa che, dopo tre caffè bevuti di seguito, continuavo a sbadigliare come se mi fossi appena svegliata. Paolo mi ricevette nel suo ufficio, mi fece accomodare e mi chiese se gradivo un caffè. Una quarta dose di caffeina avrebbe fatto la differenza, sperai. «Allora Rebecca, come va? Ormai sei sulla nostra barca da quattro settimane». Detesto l’abuso delle metafore marinare per descrivere le aziende e i team di lavoro, ma decisi comunque di non farlo notare. «Mi pare di riuscire a stare a galla decentemente», risposi, sperando di sembrare brillante con la mia contro-metafora al sapore di mare. «Bene! Questo è lo spirito giusto per sopravvivere alle burrasche della vita. Avrai notato che non è difficile remare nella giusta direzione quando il team è compatto». Inutile! Quella mattina si sentiva il capitano di un vascello e non mi restava che assecondare il suo desiderio di salpare verso i meravigliosi lidi degli eventi. «Sì, l’ho notato». «E adesso che ti abbiamo fornito il remo giusto, a te non resta che impegnare tutte le tue forze per spingere la nostra barca il più lontano possibile». A essere sincera, piuttosto che mettermi a remare, sarei tornata volentieri a letto. Però, per non deluderlo, cercai di restare il più concentrata possibile, con un sorriso finto stampato sul viso. «Il tuo periodo di formazione è concluso. Adesso comincia per te la parte più complicata della navigazione. Ti senti pronta?». Era già complicato immaginare di organizzare matrimoni, riuscire a pensare di solcare i mari mi sembrava impossibile. «Ehm, certo». Giurai a me stessa che non avrei mai più fatto le ore piccole, se non durante il fine settimana. «Non sembri molto entusiasta. C’è qualche problema?» «No, no, va tutto benissimo. Non vedo l’ora di iniziare e spero di riuscire a fare al meglio il mio lavoro. Anche se...». «Anche se?» «Anche se faccio ancora fatica a immaginarmi come una wedding planner». «Secondo quanto mi ha riferito Valentina, sembri essere molto portata, invece». Allora la stronza, oltre a rendermi la vita un inferno con la sua invadenza e con la sua fissazione per

quei maledetti siti, aveva anche osservato il mio lavoro! Per un attimo pensai addirittura di rivalutarla. «Davvero?» «Sì, davvero. Dice solo che ti manca “l’ingrediente”». «L’ingrediente?» «Sì, qui in agenzia diciamo sempre che ognuno di noi ha un ingrediente speciale per rendere ogni evento un successo. Può essere una piccola cosa, ma è quella che fa la differenza, che rende ogni meeting, conferenza, party che organizziamo un successo. È la personalizzazione, qualcosa di innato in ciascuno di noi e in cui Five crede molto. Tu devi solo scoprire qual è il tuo e usarlo per condire ogni matrimonio che organizzerai». Dalle navi alle cucine. Ma mi piaceva la storia dell’ingrediente unico e speciale: sarei riuscita a individuare il mio? Avrei fatto la differenza anche io? «Non mi resta che cercare il mio ingrediente, allora», dissi al mio capo, cercando di trattenere uno sbadiglio. «Ci riuscirai, mi fido di te. Ti do un suggerimento, pensa a qualcosa che rende unico ogni momento bello della tua vita». Ecco, sarebbe stato più complicato del previsto. «Ci penserò». «Bene, allora al lavoro! Non vogliamo mica perdere tempo in coperta mentre tutti gli altri marinai sono già ai loro posti?». No, anche io volevo meritarmi la mia cambusa... Salutai Paolo e mi diressi verso il mio piano. Continuavo a pensare invano a quale potesse essere la formula per trasformare il mio lavoro in un successo. Mentre ero ancora sovrappensiero, la voce stridula di Valentina mi assalì: «Finalmente ti sei fatta viva! Oggi è una giornata molto impegnativa e siamo già in ritardo». Provai a scusarmi, dicendole che ero stata dal capo, ma non volle ascoltare giustificazioni. «Non abbiamo tempo da perdere: oggi inizieremo a lavorare a un grande matrimonio e abbiamo pochi mesi per organizzarlo. Cliente straricca, famiglia nobile, circa seicento invitati. Non possiamo permetterci di sbagliare nemmeno un piccolo dettaglio. Ho deciso di dare priorità a questo evento e di seguirlo io in prima persona, con l’aiuto di Rebecca. Ci divideremo il lavoro, per riuscire a farlo al meglio. Dal momento che la nostra collega non è ancora molto esperta, potrei avere bisogno del contributo di tutti gli altri, quindi vi prego di rendervi disponibili. E adesso, si inizia a sgobbare». L’agitazione faceva crescere in me l’adrenalina e finalmente iniziavo a riprendermi dal torpore che mi aveva avvolta tutta la mattina. Gli ordini erano stati pochi e decisi: avrei lavorato per tutto il grande evento fianco a fianco con la persona più fastidiosa del pianeta. E come se non bastasse, non avevo ancora nulla che rendesse speciale il mio lavoro. Mi mancava l’ingrediente. «Spero tu sia pronta per il tuo primo grande matrimonio. Non voglio correre il rischio di fare un fiasco», disse Valentina, seguendomi alla scrivania. «Sì, credo proprio di essere pronta». Fino ad allora avevo seguito solo piccole cerimonie, facilmente gestibili dalla mia scrivania e con qualche veloce sopralluogo. Questo sembrava essere un evento molto importante. La famiglia della sposa era una famiglia molto influente e l’azienda aveva intenzione di fare una splendida figura. «Bene, perché ho bisogno di gente sveglia e attiva».

«Puoi contare su di me». «Perfetto! Oggi mi sembri anche vestita come una del nostro secolo, non male». Feci un bel respiro profondo e decisi di non replicare. «Oggi pomeriggio incontreremo gli sposi nella villa di lei. I colloqui con i futuri marito e moglie sono sempre molto delicati, bisogna capire cosa si aspettano, che tipo di atmosfera desiderano durante la loro cerimonia, quanta magia vogliono. Ancora più che negli altri eventi, nei matrimoni i desideri, i sogni e le aspettative dei clienti sono fondamentali. Bisogna rendere unico il giorno più bello della loro vita». Annuii, pensando che quelle fossero parole più che scontate. «Anche se poi si accorgeranno che il matrimonio è solo l’inizio di un inferno», aggiunse Valentina, ridendo con il suo solito cinismo. Non ero certo una paladina dell’amore coniugale. Anzi, in quel periodo cominciavo davvero a pormi molte domande sulla felicità delle persone sposate, quindi non replicai e abbozzai un sorriso, sperando di poter essere lasciata sola qualche minuto, per riuscire a scappare alla macchinetta del caffè e prendermi il tanto agognato quinto espresso della giornata. Passai tutta la mattina a lavorare al nuovo incarico, telefonando a fornitori per richiedere preventivi, fissando appuntamenti per visitare location, inviando e-mail ai ristoratori per avere i menu più esclusivi, sfogliando pile di riviste per farmi venire qualche idea geniale. Eravamo tutti molto concentrati sui nostri eventi e l’entusiasmo degli altri riuscì, finalmente, a contagiare anche me. Mi sentivo parte di un team. Alle due del pomeriggio, dopo un pasto veloce e il sesto (e ultimo) caffè della giornata, io e Valentina ci infilammo nell’automobile aziendale in direzione della sontuosa villa della sposa, appena fuori Milano. In un mese avevo imparato molte cose: come funzionava la cerimonia, quali erano i preparativi più importanti, come si facevano le partecipazioni, chi aveva le bomboniere migliori, come si organizzavano i tavoli, quali erano le location più adatte ai matrimoni tradizionali e quali quelle per le feste più alternative. C’erano molte regole dettate dalla tradizione, dall’educazione, dalla moda, dal gusto e perfino dalla superstizione. Avevo immagazzinato tutte le informazioni possibili su quella macchina infernale ed era giunto il momento di mettermi alla prova. Mi rincuorava sapere che potevo contare sull’aiuto dei miei colleghi in caso di bisogno: la mia decennale avversione per i matrimoni non poteva essere superata in un mese soltanto. La cosa che preoccupava di più Valentina era il poco tempo a disposizione. «La maggior parte delle persone, l’avrai capito, si sposa tra maggio e settembre. Approfittano delle belle stagioni, così possono festeggiare all’aperto, indossare abiti leggeri e scattare milioni di foto stucchevoli in qualsiasi posto e posizione», mi raccontò mentre viaggiavamo verso i nostri due sposini. «Nel nostro caso, lui è figlio di un ricco industriale e si trasferirà presto con la futura moglie negli Stati Uniti, quindi non potevano aspettare. Il giovane ha fretta di farsi mettere il cappio al collo. Festeggeranno a fine marzo e dovremo prevedere un matrimonio invernale. La famiglia è di origini nobili e con tanti soldi da buttare, quindi è molto probabile che richiederanno una cerimonia classica e, ti assicuro, sono tra quelle più difficili da organizzare!». Dovevo ammettere che, per quanto fosse una persona sgradevole, era molto professionale e preparata. Nonostante il suo cinismo, credo che amasse davvero il nostro lavoro. Spinta dalla caffeina, dal traffico che ci teneva bloccate e dalla curiosità, mi permisi di farle una domanda personale: «Tu non hai mai pensato di sposarti?». Rimase in silenzio per qualche istante, fissando la strada, poi mi guardo, abbozzò un mezzo sorriso e

rispose: «Io sono già stata sposata». Mi resi conto di aver fatto una gaffe. Quella che sembrava essere la single più impenitente di Milano, in passato aveva avuto una relazione così importante da convolare a nozze. «Eravamo giovani e felici. Io ero ancora più bella di adesso. Ci siamo sposati e siamo stati insieme molti anni». «E, poi?», non riuscii a trattenermi, adesso ero diventata io quella indiscreta. «Poi è finita. Forse soprattutto perché all’epoca io non volevo figli e lui sì. Tanto non sarebbe stato lui a trasformarsi in un ippopotamo. O forse è finita perché semplicemente alcune persone non sono destinate a stare insieme tutta la vita. Alla lunga ti rompi le scatole, specialmente se sposi un fallito come lui. Ci siamo separati e poi abbiamo divorziato. Adesso sono di nuovo una donna libera». Per una volta mi sembrò di cogliere nella sua voce una sottile vena di umanità. Incredibile come tutte le persone che mi circondavano avessero, in passato, sofferto per una relazione che non aveva funzionato. Continuavo a desiderare, più di ogni altra cosa, di innamorarmi ancora, ma iniziavo a pensare davvero che la faccenda dell’amore fosse molto più complicata di come l’avevo immaginata. «Su, non fare quella faccia», mi disse riprendendo il suo solito tono da donna di mondo. «Sto benissimo. Esco con tantissimi uomini e mi diverto da matti. Ieri sera ho conosciuto un ragazzo carinissimo e ce la siamo spassata. Gli uomini servono a questo: a farci divertire. Dovresti provare anche tu, sei così rigida». Forse aveva ragione. «Ho notato, sai, il tuo sguardo sempre un po’ triste, da cane bastonato», aggiunse lei. «Secondo me hai bisogno di divertirti, di uscire con uomini nuovi, di toglierti un po’ di ragnatele di dosso. Non dirmi che pensi ancora a quello sfigato del tuo ex! Devi reagire. Sei giovane, e nonostante il tuo strano modo di vestirti, hai diritto anche tu ad avere una vita sessuale. Da quanto tempo non fai sesso?». Stava di nuovo superando il limite. «Preferirei non parlare di queste cose...». «Ah ah ah, lo sapevo! Fidati di me: non fai sesso da troppo tempo e hai bisogno di sfogarti un po’. Se hai voglia, ti organizzo un appuntamento questo fine settimana con un mio amico». Forse dovevo solo dire di sì, per una volta, e andare a uno dei suoi famosi appuntamenti al buio, passare una serata in compagnia di qualcuno e poi archiviare la faccenda per sempre. L’unico modo per farla smettere era, probabilmente, accettare la sua insistente proposta. «Va bene. Organizza pure per questo fine settimana. Di certo, non può farmi male». «Bene! È questo lo spirito giusto. Vedrai che mi ringrazierai». Chissà perché, ma avevo qualche dubbio. Arrivammo alla grande villa in cui ci attendevano i nostri clienti. Superato l’enorme cancello, percorremmo un lungo viale alberato che portava fino a un’imponente magione. Doveva essere una famiglia molto influente per vivere in un tale lusso. Anche io, come Chanel, adoravo il lusso e ne rimanevo sempre affascinata. Coco diceva: «Alcune persone pensano che il lusso sia l’opposto della povertà. Non lo è. È l’opposto della volgarità», e io la pensavo esattamente come lei. Fummo ricevute in un grande salotto, decorato con grandi quadri alle pareti, tappeti ed eleganti poltrone. A un lato della sala, c’era un camino sul quale era poggiato un vaso prezioso che conteneva bellissimi fiori rossi. «Prego, accomodatevi», ci disse la madre della sposa, che indossava un bellissimo tailleur sportivo

blu. Ci presentammo e ci adagiammo sui comodi divani. «Gradite un caffè?». Avevo già consumato la scorta giornaliera di caffeina tollerabile per un essere umano, quindi ringraziai, declinando l’offerta, e chiesi un bicchiere d’acqua. Oltre a noi e alla madre della sposa, erano presenti la futura moglie, la sorella maggiore e il fidanzato. «Possiamo iniziare?», chiese garbatamente Valentina, estraendo dalla borsa il suo inseparabile iPad, sul quale conservava tutti i documenti più importanti e che le serviva anche da blocco per gli appunti. «Certo», fece la sposa. Si chiamava Giulia ed era una ragazza molto bella: alta, magra, capelli biondi raccolti in uno chignon e un collo lunghissimo. «Abbiamo così tante cose da organizzare in così poco tempo!», aggiunse, sinceramente eccitata. «Dunque», Valentina prese subito in mano la discussione, «la cosa da fare immediatamente è scegliere e spedire le partecipazioni, per dare tempo a tutti gli invitati di rispondere...». «Certo», interruppe la madre, «abbiamo invitati da tutte le parti del mondo. La fretta non è una buona consigliera, si sa, ma molti di loro sono stati già informati della data e si aspettano soltanto una conferma formale». «In seguito», aggiunse Valentina con un tono sempre professionale e ignorando la madre della sposa, «bisognerà scegliere le fedi». «Abbiamo già accordi con Tiffany», affermò Giulia con orgoglio. «Perfetto. Poi bisognerà pensare al vestito e alle scarpe», mi intromisi nella discussione. Ormai sapevo che la scelta dell’abito era una delle cose che metteva più in agitazione qualsiasi donna che avesse scelto di andare all’altare. «Ho fissato le prove in due prestigiosi atelier domani pomeriggio, se lei fosse disponibile». Valentina fece un gesto di assenso. «Non sto più nella pelle!», gridò la ragazza, raggiante, e prese tra le mani quelle della sorella. «Ho sempre sognato di indossare l’abito bianco». Sorrise e guardò il suo compagno, che restava seduto a lasciar parlare noi. I matrimoni, in Italia, sono da sempre faccende di donne. «Inoltre bisognerà prenotare i fiori. Il mese di marzo non è il periodo più fortunato per la scelta, ma le serre dei nostri fornitori sono ben fornite», riprese la parola Valentina. «Potremmo usare le camelie», la interruppi. Le camelie erano il fiore preferito di Chanel e anche il mio. «Marzo è il periodo perfetto». «Camelie bianche», disse Giulia, battendo le mani. «Ottima idea. Le adoro». L’arpia riprese la parola: «E bisognerà confermare quanto prima la chiesa». «A questo proposito, un nostro lontano parente si è offerto di offrirci la location per la cerimonia e il rinfresco», aggiunse la madre con voce orgogliosa. «Ci metterà a disposizione un castello sul lago di Como con una meravigliosa cappella del 1600». «Questo ci facilita molto le cose», dissi, guardando la mia collega. Avevo passato tutta la mattina a cercare posti abbastanza grandi ed eleganti per un evento del genere e avevo avuto diverse difficoltà a trovare qualcosa che potesse essere all’altezza dei nostri clienti. «Vorrei inventarmi qualcosa di speciale», disse la sposina. «E se distribuissimo a ogni invitato delle lanterne volanti? Potrebbero accenderle al tramonto ed esprimere un desiderio. Creano molta atmosfera e sono anche un portafortuna», proposi. «Oh, ma è stupendo». Giulia era entusiasta. «Bene», disse Valentina. Mi guardava sorpresa, come se pensasse che non potessi avere anche io delle

idee brillanti. Stava andando tutto bene e, nonostante la testa pesante e il cuore che mi batteva a mille, mi stavo comportando da vera professionista. Definimmo gli ultimi dettagli con la famiglia e poi ci congedammo. Ero soddisfatta, mi ero sentita per la prima volta una vera wedding planner. Tirai fuori dalla borsa la mia inseparabile bottiglia d’acqua e brindai in silenzio per festeggiare. Mentre ci avvicinavamo all’auto per rientrare a Milano, un’Audi nera entrò lentamente nel giardino. Avevo l’impressione di conoscere quella macchina. Si accostò al portone del palazzo e si fermò. Dal lato conducente uscì un corpo mozzafiato, fasciato in un abitino nero, molto corto. Anna. La maledetta Anna. Anna la-donna-da-amare. Guidava la macchina di Niccolò, da brava fidanzatina. Ero indecisa se scappare via o andare a prenderla a schiaffi. Cosa ci faceva lì? Mentre saliva le scale che conducevamo al portone, si girò leggermente e mi vide immobile accanto alla macchina aziendale. Assunse la stessa espressione inebetita delle mucche al pascolo. Si fermò un momento, poi mi sorrise timidamente. «Rebecca... quanto tempo!». Un’eternità, stronza, considerato che dopo avermi rubato l’uomo non ti sei nemmeno degnata di farti sentire. «Cosa ci fai tu qui?», chiesi, mascherando a malapena l’odio che provavo. «Sono venuta per recuperare alcune carte. Sai, sono clienti di papà». Ma certo! Il suo ricchissimo padre avvocato, per il quale lei lavorava. Si era fatta tutta da sola. Continuavo a fissarla con odio. «Mi dispiace tanto per quello che... Ehm... È successo tra te e Niccolò. Niccolò dice che eravate grandi amici». «Niccolò dice un sacco di stronzate, è un farabutto e un fedifrago. Stai attenta, dolcezza, magari la prossima volta tocca a te». Anna rimase senza parole. Valentina suonò il clacson impaziente. Aveva già acceso il motore. «Devo andare Anna, salutami il mio grande amico Niccolò», dissi stampandomi un bel sorriso finto in faccia. Durante tutto il viaggio di ritorno Milano, continuai a sorridere. Ero molto fiera di me stessa, finalmente avevo fatto uscire un po’ del veleno che conservavo dentro. Arrivate in ufficio, mentre Valentina restava alla sua scrivania per inviare le ultime e-mail della giornata, spensi il computer e mi avviai verso l’uscita. Nell’atrio del palazzo incontrai Étienne. Indossava un elegante abito scuro e portava una piccola valigetta nera. «Che eleganza! Stai andando a fare qualche consegna a un pezzo grosso?», chiesi, fissando il vestito che gli calzava a pennello. Con quell’abito era ancora più sexy. «Bisogna avere classe in ogni lavoro che si fa, Coco. E tu? Hai in programma di cadere tra le braccia di qualche altro bel giovane, stasera?» «Molto spiritoso!», risposi. Mi guardò e uno splendido sorriso gli si disegnò sul volto. Sentii lo stomaco strizzarsi come una spugna. Non era difficile immaginare perché la famosa Juliette gli avesse chiesto di sposarla. «Grazie ancora per avermi aiutato a scegliere la borsa. A mia madre è piaciuta moltissimo».

«Non avevo dubbi. In materia di Chanel, sono una vera autorità». «Devo scappare, adesso», mi disse indicandomi un taxi che lo aspettava all’uscita dell’edificio. Quell’uomo doveva vivere molto al di sopra delle sue possibilità, pensai, sempre più sbigottita. «È sempre un piacere, Coco». Lo salutai con un sorriso timido e mi avviai allegra verso la metropolitana. Il pomeriggio successivo ci ritrovammo con la futura sposina. L’appuntamento era in un elegante atelier che confezionava vestiti da sposa esclusivi. Aveva servito molte dive del cinema e la nostra cliente non desiderava essere da meno. Era la prima volta che mi ritrovavo in un negozio di abiti da sposa e, nonostante la mia avversione per i matrimoni, rimasi affascinata dalla bellezza di alcuni capi, dai tessuti e dagli ornamenti. «Gran parte della famiglia del mio fidanzato vive a Londra o negli Stati Uniti», disse la ragazza, eccitata come un bambino in un negozio di caramelle. «Quindi bisognerà tenere conto anche delle loro tradizioni». «Ho capito», rispose sorridente Veronica, «Something old, something new...». «Something borrowed, something blue...», aggiunse la giovane. «...And a silver sixpence in her shoe!», terminarono insieme la filastrocca, ridendo. Lo sapevano tutti. La tradizione anglosassone, ormai diventata anche italiana, richiede che la sposa, il giorno del suo matrimonio, indossi qualcosa di vecchio, a indicare il suo legame con il passato, con i familiari e i vecchi amici, qualcosa di nuovo, come augurio per una vita nuova che inizia, qualcosa di prestato, meglio se da qualcuno già felicemente sposato, qualcosa di regalato e qualcosa di blu, a rappresentare la fedeltà e la purezza. Era una consuetudine sempre più diffusa e molte spose ci tenevano moltissimo a rispettarla. «Troveremo tutto quello che ti serve!», disse Valentina, mentre una modella aveva iniziato a sfilare, indossando il primo meraviglioso modello del negozio. «Ho già quasi tutto», rispose la sposina. «Il collier di diamanti di mia madre, la giarrettiera con il nastro blu, regalo della mia migliore amica, i miei vecchi orecchini di brillanti... mi manca qualcosa di nuovo!». In quel momento, mi si accese una lampadina. Come avevo fatto a non pensarci prima! Chiesi a Valentina di scusarmi. Dovevo allontanarmi dall’atelier per pochi minuti, per recuperare una cosa importantissima. Lei mi lasciò andare, un po’ seccata, e io mi lanciai in strada, correndo come se si trattasse di vita o di morte. Mentre arrivavamo in macchina al negozio, avevo intravisto una profumeria, dovevo ritrovarla. Dopo circa mezz’ora, ero di nuovo nell’atelier. La sposa aveva appena indossato il suo primo abito e si guardava estasiata allo specchio. Estrassi dalla borsa un piccolo pacchetto e glielo porsi, sperando di aver fatto la cosa giusta. Mi guardò sorpresa e mi chiese cosa contenesse. «Aprilo, è un regalo. Qualcosa di nuovo da indossare. È una cosa molto importante per me e spero ti porti fortuna!», le dissi, ansiosa. «Chanel N° 5!», esclamò la ragazza mentre apriva il pacchetto. «Ho sempre pensato che fosse il profumo dell’amore, quando arriva. Indossalo al tuo matrimonio e durante la prima notte di nozze». Lei mi guardò e in uno slancio di felicità, mi abbracciò.

Avevo finalmente trovato il mio ingrediente speciale: Chanel. Mi aveva accompagnato per tutta la vita e, anche adesso, sarebbe stata la cosa che mi avrebbe permesso di fare la differenza. Mi separai dal sincero abbraccio della sposa e mi asciugai una lacrima che timidamente mi stava rigando il volto. Poi mi sedetti e continuammo a guardare i vestiti. Valentina, mentre la sposa era rientrata nel camerino per provare l’abito successivo, si voltò verso di me, scuotendo il capo. «La prossima volta che prendi una delle tue bizzarre iniziative, avvisami». Sapevo di averla lasciata di stucco. Ero stata brava. Sorrisi tra me e me, soddisfatta. Grazie Coco.

7 L’APPUNTAMENTO AL BUIO

Il sabato successivo alla mia vera promozione a wedding planner ero così stanca che avrei passato tutto il giorno a dormire. Mi alzai, invece, molto presto, perché avevo l’agenda piena di impegni. Avevo promesso a Valentina che mi sarei presentata a uno dei suoi famosi appuntamenti al buio e sapevo di aver bisogno di un bel “restauro”. Passai dal parrucchiere per ravvivare un po’ il colore (e coprire tre fastidiosi capelli bianchi che erano apparsi precocemente sulla mia chioma scura) e optai per una piega liscissima che valorizzasse il caschetto. Subito dopo, raggiunsi Emma e Claudio per il brunch in una caffetteria americana in zona Duomo e mi ingozzai di carboidrati, zuccheri e tanto succo d’arancia. I ragazzi erano più emozionati di me per il primo vero appuntamento dopo la débâcle amorosa e avevano entrambi voglia di darmi consigli e spettegolare un po’. Tutti e due conoscevano il mio rapporto difficile con Valentina ed erano curiosi di sapere come sarebbe stato l’uomo che da settimane cercava di presentarmi. Mentre addentavo il secondo pancake, Claudio iniziò a stuzzicarmi con domande impertinenti. «Se dovesse essere un ragazzo carino, perfetto per i canoni della nostra mademoiselle Coco, pensi che ti concederai carnalmente a lui?» «Mi sembra una domanda molto indiscreta», risposi, innaffiando di sciroppo d’acero la sofficissima crêpe che stavo divorando. «Dai, non fare la timida», si intromise Emma nella conversazione. «Potrebbe rivelarsi un uomo favoloso e questa per te potrebbe essere una grande serata. La rivincita tanto agognata!», disse mentre si tuffava in una macedonia gigantesca. «Conoscendo Valentina e i suoi gusti, non mi aspetto granché. Probabilmente sarà un esaltato con la passione per le discoteche e le lampade». «Sarebbe carino se ti portasse a ballare, ti farebbe bene. Da quanto tempo non passi una serata divertente?», mi domandò Claudio. «Io mi diverto sempre quando sto con voi». «Certo, non lo mettiamo in dubbio», aggiunse Claudio con tono ironico. «Ma io intendevo qualcosa di più entusiasmante che parlare di quanto sei sfortunata in amore e del fatto che non troverai mai più un uomo che ti amerà sul serio». Emma rise. Avevano ragione. Da quando mi ero trasferita a Milano ero diventata una noia mortale. Non facevo altro che piangere e compatirmi e parlare del passato. «Devo ammetterlo, sono una lagna. Ma ho davvero deciso di mettere un punto e ricominciare. Stasera sarà un piccolo passo, ma pur sempre un inizio. Certo, forse le scarpe che ho scelto non sono proprio adatte alla disco!». «Sentiamo, che sfoderi stasera?», chiese curiosa Emma.

«I tronchetti di Gucci che mi hanno regalato al compleanno». «Aggressiva!». Anche la mia amica aveva una grande passione per le scarpe. Spesso, da ragazzine, andavamo a passeggiare per il sestiere di San Marco solo per guardare le vetrine delle grandi griffe e sognare di possedere, un giorno, tutte le scarpe esposte. «Be’, se devo fare questo passo, voglio farlo con i piedi infilati in un bel paio di scarpe, non c’è dubbio. Non so come andrà a finire la serata, non voglio aspettarmi né programmare nulla. Non ho mai avuto un appuntamento al buio, potrei anche scappare dopo tre minuti esatti». In effetti, mi sembrava strano avere un appuntamento con una persona che non avevo mai visto in faccia. Valentina mi aveva mostrato la foto del profilo del suo amico, ma era a una risoluzione così bassa che si intuiva appena avesse sembianze umane. Da un lato, però, ero curiosa. Anche se erano state settimane dense di novità, incontri e riflessioni, uscire con un uomo per trascorrere una serata leggera e spensierata era una cosa che mi mancava molto. Avevo voglia di rimettermi in gioco, di riscoprire la mia sensualità. Mi ero resa conto che, senza nemmeno volerlo, da qualche tempo avevo smesso di contare le calorie di tutto quello che mangiavo. Stavo cominciando ad accettarmi, a volermi più bene. Continuavo ancora a saltare i pasti, quando mi sentivo troppo gonfia o quando esageravo a un pranzo o a una cena, ma avevo imparato a essere più indulgente con me stessa. Avevo scoperto che quanto meno pensavo al cibo e al peso, tanto più il mio corpo mi dimostrava di essere felice, e io reagivo con entusiasmo alla vita. «È arrivato il momento di mettere un po’ di pepe nella tua vita. Non hai voglia di toccare di nuovo un uomo?», chiese Emma, addentando la sua torta al cioccolato. «Be’, ma io tocco un sacco di uomini». «Esclusi Claudio e quel fattorino tra le cui braccia cadi spesso, intendo». «Che significa? Chi è questo fattorino?», chiese Claudio curioso. «Solo un bel ragazzo che lavora nella mia agenzia». «Coco ha letto una sua lettera e ha iniziato a fantasticare sulla sua vita amorosa». «Perché hai letto la sua lettera?» «Non ho deliberatamente letto la sua lettera! Me la sono ritrovata tra le mani, senza volerlo e...». «Certo, è un classico. Le lettere che ti atterrano tra le mani», ridacchiò Emma. «E cosa c’era scritto?». Claudio era più curioso delle donne. «Fuoco e fiamme. C’è questa donna folle di lui che gli ha fatto una dichiarazione d’amore con i fiocchi. Poi gli ha chiesto la mano», mi anticipò Emma. «Che donna emancipata!», sospirò Claudio. «Già... Mi ha molto colpita», dissi io un po’ confusa. «Lui ti ha parlato di lei?», mi incalzò Claudio. «No. E non sa che ho letto la sua lettera. Ma adesso, basta. Parliamo d’altro», volevo mettere fine a quello scambio di battute perché non sapevo ancora cosa fare con quella maledetta lettera. Ero molto combattuta e imbarazza. «Sai, Coco ci tiene alla sua reputazione di ragazza discreta». Emma mi pizzicò un braccio e scoppiò in una grassa risata. «Va bene, rispettiamo i voleri di nostra Maestà Coco. Aspetteremo trepidanti la seconda puntata della serie: il fattorino e la lettera d’amore», mi schernì Claudio. Finito il pranzo, allegri e spensierati, decidemmo di fare due passi davanti al sagrato del Duomo. Mi è sempre piaciuta la confusione nelle piazze, si respira una sana euforia che ti spinge a sorridere a tutti gli sconosciuti che incrociano il tuo sguardo. Decidemmo di immortalare il momento e chiedemmo a

un passante di farci una foto con il mio smartphone. In quella foto, che conservo gelosamente, siamo tre amici che si vogliono bene e si sentono una grande famiglia. Rientrata a casa, dopo una breve telefonata con mia madre, che sentivo sempre troppo poco da quando mi ero trasferita, riempii la vasca da bagno, ci gettai dei sali profumati e mi immersi nell’acqua calda, stando bene attenta a non rovinare la messa in piega. Fare il bagno era un lusso che mi concedevo ogni volta che avevo tempo. Mi piace stare in ammollo, a lungo... È un modo per riordinare i pensieri, per ammorbidire gli spigoli, per rilassarsi. L’acqua è sempre stata il mio elemento. Avevo deciso che, se il tipo dell’appuntamento al buio non mi fosse piaciuto, avrei simulato un’emergenza e sarei scappata. Se fosse stato carino, invece, mi sarei goduta la serata, sul serio. Restai ancora un po’ nella vasca, lasciando liberi i pensieri, poi uscii e iniziai a massaggiarmi con lozioni e creme. Ne avevo una specifica per ogni zona: braccia, seno, cosce, addome, mani, glutei. È incredibile quante creme una donna riesca a spalmarsi nell’arco di una sola giornata! Dopo essermi rilassata per bene, mi preparai una tisana e accesi la televisione. Claudio mi aveva mandato un sms in cui mi avvisava che stavano trasmettendo un vecchio film di Frank Capra, Angeli con la pistola, che lui amava molto. Nel messaggio aveva aggiunto: «Ti aiuterà a sognare un po’». Mi affascinava la sua passione per i vecchi film. Riusciva sempre a citare frasi bellissime e a commuovermi con quelle strazianti storie d’amore. Mi distesi sul divano e trascorsi il resto del pomeriggio a poltrire, poi, avvicinatasi l’ora dell’appuntamento, iniziai a prepararmi. Infilai un paio di pantaloni color crema e un golfino di cachemire, che stavano benissimo con le scarpe che avevo scelto per la serata. Scelsi un piccolo cappellino color perla, con fiore bianco su un lato, che mi incorniciava perfettamente il viso e si abbinava alla mie fedeli perle. Mi truccai appena gli occhi, ma decisi di indossare un rossetto deciso. Recuperai il trench chiaro dall’armadio e uscii. Avevamo deciso di vederci per l’ora dell’aperitivo in un elegante locale in zona parco Sempione. Arrivai in taxi, per evitare la fatica di muovermi sui mezzi pubblici con tredici centimetri di tacco. Per una volta non ero in anticipo e non sarebbe toccato a me aspettare con ansia l’arrivo dell’altro. Intravidi un uomo solo a un tavolino all’angolo e pensai subito si trattasse di lui. Era alto, magro, un po’ stempiato, ma niente male. Indossava una bella camicia e un golf morbido, che ne sottolineava il fisico asciutto. Mi avvicinai e un po’ timidamente chiesi: «Francesco?». Si alzò in piedi, mi porse la mano sorridendo e si presentò: «Sì, ciao, è un piacere conoscerti. Valentina mi ha tanto parlato di te, ma non pensavo fossi così bella». Primo complimento andato! Obiettivo raggiunto. Potevo ritenermi soddisfatta. «Il piacere è mio. Rebecca». Mi sedetti e subito un giovane cameriere accorse a prendere l’ordine. Chiesi un bicchiere di vino rosso, mentre Francesco ordinò un cocktail che non avevo mai sentito nominare. Continuavo ad amare il vino, nonostante Milano e i suoi Negroni sbagliati. Mentre aspettavamo i nostri drink, iniziammo a parlare del più e del meno. Non era facile riuscire a rompere il ghiaccio. In fondo eravamo due sconosciuti che si incontravano nella speranza che Cupido scoccasse una delle sue frecce. Servivano a questo gli appuntamenti al buio e io mi sentivo un po’ agitata.

Lui, che doveva essere molto più esperto di me in queste cose, mi fece subito la domanda di rito. «Allora, com’è organizzare matrimoni?» «Non male. Ho appena iniziato, prima mi occupavo di tutt’altro, vedremo... E tu cosa fai nella vita?» «Lavoro in banca». «Ah, devi essere una persona molto precisa e ordinata». Ma perché mi era uscita una considerazione così idiota? «Sei stata gentile a usare queste parole, in realtà, credono tutti che chi lavora in banca sia una persona noiosa e poco creativa, non so perché. A me piace andare in moto, adoro la velocità e sono anche un appassionato di rafting». Un uomo che amava vivere pericolosamente... Per una pigra cronica come me, sarebbe stato difficile riuscire a stargli dietro. «Ho pensato anche di iniziare a fare parapendio», aggiunse. «Hai mai provato?» «Stai scherzando?», esclamai. «Lo sport più avventuroso che faccio è correre per prendere al volo il tram». «Dovresti provare, invece. L’adrenalina fa benissimo». Prima Valentina con la storia che dovevo fare più sesso, poi il suo amico che mi consigliava sport estremi. Davo l’impressione di essere così tanto disperata? «A Venezia andavo in canoa, ogni tanto, ma per prendere il sole». Il cameriere ci interruppe per servirci. Decidemmo di fare un brindisi al nostro incontro. «A noi», disse Francesco. Sorrisi, guardandolo negli occhi mentre i nostri due bicchieri si toccavano. «Come ti trovi a Milano?», mi chiese. «Bene. Non è una città facilissima, ma ho incontrato persone splendide e mi sono subito sentita a casa. Nonostante il traffico, il rumore e l’inverno alle porte, non si sta male». «Io ci sono nato e cresciuto. Sono qui da sempre, a parte un paio di anni passati a Boston. L’ho sempre trovata una città entusiasmante». «E poi è la capitale della moda!», aggiunsi. «Su quello credo di non essere un grande esperto. Detesto fare shopping. Lascio che mammina mi compri i vestiti che preferisce». Forse quella era la peggiore battuta dell’incubo che stavo facendo e tra pochi istanti mi sarei risvegliata?! Quest’uomo, all’età di trentasette anni, si faceva comprare i vestiti dalla madre? E la chiamava: mammina?! «Tua madre ti compra i vestiti?!», balbettai incredula. «Certo, è una cosa che la diverte molto. So che non dovrei approfittare di lei, ma ha un gran gusto. Hai visto questa camicia, l’ha scelta lei. Non è male, no?». Ero senza parole. «Se compra lei i vestiti, trova anche quelli più facili da lavare o stirare. Sa che sono di ottima qualità». Sua madre gli comprava i vestiti e poi li lavava e stirava. Volevo suicidarmi con un salatino. «Tua madre ti lava e stira i vestiti, bene...». «Certo, ti ripeto, si diverte a prendersi cura di me. Sono figlio unico e, a parte dedicarsi a mio padre, non le rimane molto altro da fare da quando è andata in pensione». Ero uscita con un mammone, una delle peggiori specie di uomo latino. «Magari ti prepara anche la cena», non riuscii a mascherare un po’ di sarcasmo nella voce, ma lui non lo colse. C’era da aspettarselo.

«Cucina per tutti. La sera mangiamo sempre tutti insieme». «Tutti insieme?», desideravo una morte veloce. «Vivi con i tuoi?» «Certo! Ho fatto diventare la mansarda un delizioso monolocale, così sono vicino a loro, ma ho comunque la mia intimità». Pronunciò l’ultima parte della frase con fare malizioso. La mia collega mi aveva organizzato un appuntamento con un bancario, amante del parapendio, che viveva nella mansarda dei suoi genitori e che lasciava alla madre il compito di fargli da personal shopper, cuoca e cameriera. Se avessi deciso di avere un rapporto sessuale con lui, mi avrebbe portata nella sua cameretta, per poi chiedere alla madre di prepararci una limonata fresca? Mi venivano i brividi al solo pensiero. Decisi che il mio primo appuntamento al buio poteva concludersi lì. Mi scusai e mi alzai per andare al bagno. Avrei messo in pratica il piano B, che avevo studiato con Emma. Entrata in bagno, afferrai il telefonino e la chiamai. «Ti disturbo?», sentivo un gran trambusto. Probabilmente Emma era in uno dei suoi aperitivi mondani pieni di architetti e artisti vari. «Siamo già al piano B?», gridò per farsi sentire. «Ti faccio un veloce riepilogo: trentasette anni, lavora in banca e vive con i suoi. La mamma gli compra i vestiti». «Oh, mio Dio! Scappa, adesso». «Esatto. E ho il terrore che se dovessimo uscire ancora potrebbe iniziare a chiedermi di lavargli e stirargli le mutande», risi al telefono, cercando di non alzare troppo la voce. «Ho capito tutto. Mi dai dieci minuti?» «Certo!». «A dopo, allora». Uscii dal bagno e tornai a sedermi al tavolino. Francesco aveva già finito il suo cocktail e ne aveva ordinato un altro. «Piaceresti molto ai miei genitori», disse, mettendomi un po’ in imbarazzo. «I tuoi vivono a Venezia?». Non parlavo quasi mai della mia famiglia. «Mia madre vive a Venezia. Mio padre si è risposato ed è a Roma. Non lo vedo molto spesso». «Deve essere molto difficile per te». Aveva un tono di sincera pena nella voce. «Non so cosa farei se i miei si separassero. Per fortuna non succederà mai». Ero sempre più disgustata. Dopo circa una decina di minuti, mi squillò il telefono. Mi allontanai dal tavolo, pronunciai qualche parola concitata, poi tornai affranta in direzione di Francesco. «Non so come scusarmi, ma c’è stato un imprevisto. Devo andare». «Ma come, è sabato sera e ci stavamo divertendo...». «Eh, lo so, lo so, è terribile. Ma purtroppo un amico si è sentito poco bene e ha bisogno del mio aiuto». «Caspita, spero non sia nulla di grave». «Nulla di grave, ma devo davvero andare. Grazie per il bicchiere di vino. È stato un piacere conoscerti». «Possiamo rivederci?» «Ma certo, anche se, sai com’è? È un periodo un po’ difficile sul lavoro e non esco spesso. Facciamo così: ti chiamo io appena sono più libera».

«Ci conto!», disse Francesco, visibilmente deluso. Si alzò, mi baciò sulle guance, poi si sedette di nuovo a bere il suo cocktail. Fermai il primo taxi e gli chiesi di portarmi a Porta Romana, dove sapevo che avrei incontrato Emma. Mi dispiaceva aver piantato in asso il poveretto, la mia non era stata una mossa molto cortese. Però il mio piano B aveva funzionato: farmi chiamare da Emma, simulando un contrattempo, era stata una buona mossa. Meritavo un Oscar per la mia interpretazione. Gli appuntamenti al buio non facevano per me. Mi sentivo un po’ in colpa per Francesco, ma lui sarebbe di sicuro tornato a casa e avrebbe passato una bella serata a guardare la televisione in compagnia di mamma e papà. Eravamo troppo diversi. Chissà se si portava la madre sulle spalle, quando volava con il parapendio. Pagai la corsa e mi infilai in via Muratori. La strada, piena di deliziosi localini, era sempre affollata, soprattutto il sabato sera. Passando davanti alla Bottega, un’osteria che aveva degli ottimi vini, mi sentii chiamare. «Coco, Coco!». Mi voltai e seduto a un tavolino all’aperto, circondato da un gruppo di persone in piedi, con i calici pieni in mano, vidi Claudio. «E il tuo appuntamento al buio? Già terminato?», mi gridò senza pudore. «Sono dovuta ricorrere al piano B», mi avvicinai e cercai di abbassare il tono della conversazione. Claudio rise e mi abbracciò. La mia avventura, in fondo, faceva ridere anche me. «Siediti con noi, allora. Sono qui, in compagnia di un vecchio amico che non vedevo da tantissimo tempo. Lui è Cristian», e mi indicò un ragazzo dai capelli ricci, la pelle ambrata e gli occhi scuri come la notte. Mi presentai e gli strinsi la mano, sorridendo. Era davvero attraente. «È un attore di teatro. Viene dalla Bolivia. È in tournée in Italia con la sua compagnia per un paio di settimane e finalmente siamo riusciti a vederci. Ci siamo conosciuti tanti anni fa, in Messico, quando ero volontario per un’associazione non governativa e lavoravo con i bambini di strada. Cristian era uno dei nostri animatori. Poi è entrato in una grossa compagnia che lavora sulle Ande e adesso fa l’artista giramondo». Cristian rise: «Mi fa un certo effetto essere considerato “un artista”, soprattutto se a dirlo è un giornalista di talento come te». Dovevano essere buoni amici. Mi sedetti con loro, affascinata dal sorriso luminoso di quell’uomo che veniva da lontano, e decisi che Emma avrebbe aspettato. «Parli benissimo italiano», gli dissi, mentre cercavo di intercettare un cameriere per ordinare un bicchiere di Chianti. «Ho lavorato molto con gli italiani e ho tanti amici qui». «State portando lo spettacolo in giro per l’Italia?» «Resteremo a Milano due settimane e poi partiremo per Spagna, Belgio, Germania e Francia». «Dev’essere bello esibirsi in giro per il mondo», commentai con un certo entusiasmo nella voce. «Molto», mi sorrise e mi fissò per un momento, «hai degli occhi molto belli», aggiunse. «Fermo lì, playboy!», lo interruppe Claudio ridendo, «Rebecca è una mia cara amica e non ti permetto di rubarle il cuore. Smetti subito di utilizzare il tuo fascino selvaggio». Ridemmo tutti e tre. La serata stava prendendo una piega interessante. Mandai un sms a Emma e decisi di fermarmi con loro. Passammo un paio di ore a bere vino, a mangiare focaccia, salumi e formaggi e a ridere delle avventure e degli aneddoti di Cristian. Quel ragazzo aveva qualcosa di magnetico. Era bello, colto, interessante e aveva un’innata capacità di far sentire a proprio agio le persone con le quali parlava.

Mi piaceva e non riuscivo a staccargli gli occhi di dosso. Claudio aveva intuito la situazione e mi aveva sussurrato all’orecchio: «Finalmente qualcuno degno dell’attenzione di Mademoiselle!». Avevo riso in maniera smorfiosa e gli avevo dato un piccolo pugno su una spalla. A un certo punto, Claudio vide due colleghi al bancone del locale e si alzò per andare a salutarli. Cristian e io rimanemmo da soli al tavolo e lui, in silenzio, mi fissò sorridendo. «Mi piacerebbe rivederti», disse con un accento sudamericano decisamente sexy. Non riuscivo a credere che un bel ragazzo, con tutte le carte in regola per essere il mio uomo ideale, mi stesse chiedendo di uscire. Avevo iniziato a perdere tutte le speranze. Inoltre, avevo già scoperto che, al momento, non aveva altre relazioni. Single, bello e affascinante, tutto per me, anche se solo per due settimane. Mi sembrava un sogno. «Anche a me. Che ne dici di domani sera?», gli proposi, audace. «Domani sera finirò tardi, ma possiamo vederci per colazione, che ne dici?». Detestavo alzarmi presto durante il fine settimana, ma per un uomo come lui avrei puntato la sveglia anche all’alba. «Va bene! Mi sembra perfetto. Dove vuoi che ci vediamo?» «Casa tua andrebbe benissimo!». Rise del mio sguardo perplesso e poi aggiunse: «Stasera mi fermo a dormire da Claudio e lui mi ha detto che abitate sullo stesso pianerottolo». «Ah, ecco. Va bene, colazione tutti insieme, mi piace!». «Perfetto, noi andremo a comprare i dolci e tu preparerai il caffè». «Un piano impeccabile», risi di gusto. Claudio tornò al tavolo e lo mettemmo a parte dei nostri piani. «Domani abbiamo vinto un invito a colazione», gli disse Cristian. «Vuoi dire che Rebecca aprirà i suoi appartamenti per noi poveri sudditi di prima mattina?», replicò Claudio. «Scemo, ho deciso di prepararvi il mio miglior caffè solo perché il tuo amico boliviano si è impegnato a portarmi le brioche più buone di Milano». «Ho capito! Domattina ci aspetta un’impresa titanica». Riuscire a trovare delle brioche decenti, la domenica mattina, a Milano, non era affatto facile. Ma Claudio avrebbe di sicuro tirato fuori un coniglio dal cilindro, e io avrei avuto le mie brioche appena sfornate. Ci alzammo e facemmo due passi verso casa. Era una serata fredda, l’autunno stava cedendo il posto all’inverno. Il vino, per fortuna, scaldava gli animi. Arrivammo nel palazzo, immerso in un silenzio irreale e prendemmo l’ascensore, senza proferire parola. Arrivati davanti alle nostre rispettive porte, ci salutammo sottovoce, dandoci appuntamento per la mattina successiva. Prima di entrare in casa, Cristian mi diede un bacio lieve sulla guancia. Per un attimo fui avvolta dal suo profumo e percepii una piccola scarica elettrica all’altezza della nuca. Aveva un odore buonissimo. In fondo, «la felicità non è altro che il profumo del nostro animo», diceva Chanel e io ero molto d’accordo con lei. Quella notte andai a dormire felice. Chiudendo gli occhi, cominciai a fantasticare su quell’uomo stupendo. Era così bello riuscire a desiderare qualcuno che non fosse Niccolò. È proprio vero quello che dicono del cuore: fino a quando non decidi di liberarlo delle cose vecchie, non ci sarà mai spazio per le nuove.

Quella mattina avevo giurato ai miei amici che, finalmente, dopo ripetute promesse non mantenute, avrei voltato pagina. E il nuovo era arrivato, più bello che mai, con gli occhi scuri e le dita affusolate. Mi addormentai felice. Di notte, sognai di essere a Venezia, in barca, d’estate, con il sole alto e la brezza leggera. Da lontano, riuscivo a vedere il campanile di San Marco e l’isola di San Giorgio. Alle spalle, un uomo guidava deciso l’imbarcazione, giocando con le onde. Mi sentivo sicura e serena.

8 LA SERA CHE INCIAMPAI IN DUE INCREDIBILI OCCHI SCURI

Dopo solo sei ore di sonno, al suono della sveglia, aprii gli occhi più riposata che mai. Mi alzai e mi tuffai sotto la doccia calda. Indossai un paio di jeans, una maglietta a righe e un golfino di lana leggera, poi applicai un po’ di mascara, per dare intensità allo sguardo che aveva conquistato Cristian. Non riuscivo a smettere di canticchiare stupidi motivetti. Mi sentivo allegra, e bellissima. Avevo appoggiato tazze e tazzine sul tavolo, affettato della frutta fresca, messo il caffè sul fuoco e sistemato su un vassoio fette biscottate, burro e marmellata. Per fortuna, quella settimana ero andata a fare la spesa e il mio frigo non era una landa desolata come sempre. Alle dieci in punto, i due ragazzi suonarono alla porta. «Benvenuti cari», li accolsi con tono solenne. «Scusate il disordine», aggiunsi per sentirmi una vera milanese. «Buongiorno Coco», Claudio mi diede un bacio in fronte, «per la prima volta, casa tua non è un campo di battaglia». «Gentile! È solo che il mio appartamento è abitato dai fantasmi, non te l’avevo detto?». Ridemmo tutte e tre di gusto. «Portato il bottino?» «Brioche appena sfornate!», disse Cristian porgendomi un sacchetto dalla fragranza deliziosa. «Non ti preoccupare, è tutto ipocalorico», aggiunse Claudio, strizzandomi l’occhio e prendendomi in giro. «Accomodatevi. Il caffè è pronto». «Abbiamo incontrato la signora Leoncini per le scale. È una donna un po’ stramba», disse Claudio mentre tirava fuori le brioche. «È una donna intensa». Ora la conoscevo bene e sapevo cosa nascondeva il suo cuore. «Sì, era uscita di casa con un bellissimo fiore tra i capelli... Solo che aveva dimenticato di indossare la gonna sopra la sottoveste!». Claudio addentò una brioche alla crema e la sua barba e i suoi baffi diventarono di colpo tutti bianchi. «Anche tu sembri un tipo un po’ strano, in questo momento», affermò Cristian ridendo, mentre il nostro comune amico cercava di capire cosa ci fosse che non andava in lui. «Mi ricordi qualcuno...», dissi ridendo a crepapelle. «Babbo Natale», aggiunse Cristian. «Oh, ti prego Babbo Natale, portami tanti regali. Sono stata buonissima quest’anno». Non riuscivo a smettere di ridere. Claudio si alzò e andò a guardarsi allo specchio. «Siete troppo divertenti». Gli porsi un tovagliolo, cercando di tornare seria.

«Anche io sono molto sbadata in questo periodo. L’altra sera ho fatto partire la lavatrice senza il detersivo. A fine lavaggio, ho dovuto farle fare un secondo giro... e per la seconda non ho messo il detersivo!». «Stai lavorando troppo, Coco, dovresti divertirti di più», disse Claudio mentre provava a ripulirsi la faccia dallo zucchero. Ormai era diventato un mantra che mi ripeteva chiunque: non mi divertivo abbastanza. Forse ero troppo pigra per godermi la vita. «Non vorrai organizzarmi un appuntamento al buio anche tu!». «Per carità, non sarò di certo io a spingere la mia cara amica tra le braccia di uno squallido quarantenne». «Bene, perché ho deciso che per il momento va bene così. Quando incontrerò la persona giusta, uscirò di nuovo». Percepii lo sguardo di Cristian su di me e arrossii. Per fortuna, Claudio in quel momento era distratto dalla seconda brioche e non si accorse del mio imbarazzo. «Ricorda che “non può piovere per sempre”», disse, ricorrendo alla solita citazione cinefila e terminando, con un solo boccone, il dolce che aveva tra le mani. «Anche io lavoro troppo, comunque», intervenne Cristian, servendosi la seconda tazzina di caffè. Ero contenta che gli piacesse. Sono sempre stata molto brava a prepararlo, è una mia specialità. «Ma il tuo è un lavoro bellissimo, non vale!», gli risposi, mentre terminavo la mia brioche al miele e cereali. «È vero, sono fortunato. Faccio quello che amo e mi sento un privilegiato. Però è pur sempre faticoso. Abbiamo le prove, le trasferte, ogni sera in una città diversa, le anonime camere d’hotel». «Certo, però hai il pubblico, gli applausi, i riconoscimenti...», continuai io. «Vuoi dire che nessuno ti applaude quando fai bene il tuo lavoro?», Claudio quella mattina si era svegliato di buonumore. Stare insieme al suo vecchio amico gli faceva bene. «Certo, ogni volta che riesco a trovare il vestito da sposa giusto, partono gli applausi a scena aperta e mi lanciano bouquet di fiori», risposi a tono. «Attenta a non afferrarne uno, altrimenti ti toccherà organizzare il tuo, di matrimonio!». Ridemmo ancora. Continuammo a bere caffè e a chiacchierare. Il cielo era un po’ coperto e il sole sembrava essersi trincerato dietro le nuvole. Una folata improvvisa di vento entrò dalla finestra che avevo lasciato socchiusa e io mi alzai per chiuderla. Cristian approfittò del fatto che fossi anche io in piedi per sistemare tutte le tazzine nel lavello. Fu un gesto così carino che gli sorrisi dolcemente. «Non ti preoccupare, faccio io!», gli dissi mentre correvo verso di lui. «Figurati! Mi fa piacere», rispose con quel sorriso disarmante. Oltre a essere bellissimo, era anche educato. Un vero gentleman. Aveva un difetto quell’uomo? Anche Claudio si alzò, prese la macchinetta del caffè e i piatti e li poggiò sul piano di lavoro della cucina, poi, come se gli fosse venuto in mente in quel momento, disse: «Scusate ragazzi, ma devo proprio andare. Nel tardo pomeriggio il circolo di cui sono socio inizia il ciclo Jodorowsky. Proietteranno El Topo e devo andare a dare una mano agli organizzatori. Se sei libera, passa Coco». «Ti ringrazio, ma credo che me ne resterò a casa e andrò a letto presto». «Come vuoi, scappo. Tu Cristian, rimani se vuoi, hai la copia delle chiavi». «Grazie, allora resto un altro po’». Mi fissò con i suoi occhi nerissimi e io abbassai lo sguardo, sorridendo timidamente.

Non appena Claudio ci ebbe lasciati soli, un silenzio un po’ imbarazzante calò tra di noi. Sistemai i piatti sporchi nella lavastoviglie, mentre Cristian sbirciava i libri nella libreria. Dopo qualche attimo, si avvicinò e mi chiese: «Hai voglia di andare a fare due passi? Sono libero fino alle quattro e mi andrebbe molto di rivedere un posto che frequentavo spesso nei brevi periodi in cui ho vissuto a Milano». Sarei andata anche sulla luna con lui, se me l’avesse chiesto, quindi accettai senza esitazione. «Mi infilo un paio di scarpe e sono pronta». «Scarpe comode, mi raccomando! Ci sarà da camminare un po’». Infilai delle Converse, poi presi una lunga giacca di tweed, un berrettino e le chiavi. Scrutai il cielo dalla finestra. Il sole sembrava non aver nessuna voglia di venire fuori. C’era il rischio che iniziasse a piovere, ma decisi di essere ottimista. «Non può piovere per sempre», pensai. Cristian conosceva perfettamente la rete della metropolitana. Doveva aver passato molto tempo in città perché si muoveva come se fosse a casa sua. Ci infilammo nella linea gialla, poi cambiammo in Centrale e prendemmo la linea verde. Arrivati alla fermata Cimiano, scendemmo e percorremmo un pezzo di viale Palmanova, poi svoltammo per una laterale. Non riuscivo a capire dove volesse portarmi, però continuavo a seguirlo fiduciosa. Mi piaceva stare con quel ragazzo. Mentre camminavamo, mi raccontò dello spettacolo che stavano portando in giro, dei suoi colleghi e delle cose buffe che gli capitavano ogni volta che cambiava città. Svoltammo per una stradina, scendemmo una rampa di scale e ci ritrovammo di fronte a un fiumiciattolo, circondato da un prato e da un’isola pedonale, con annessa pista ciclabile. C’erano numerose persone intente a fare jogging, qualche coppietta seduta sulle panchine e molta gente stesa a leggere o mangiare. «Dove siamo?», chiesi incuriosita da quell’angolo verde della città che ignoravo. «Siamo sul naviglio della Martesana, il Naviglio Piccolo. Non ci eri mai stata?» «No, non lo conoscevo». Stavo scoprendo angoli nascosti di Milano grazie alla guida di un ragazzo che veniva dall’altra parte del mondo. Era stato un autunno mite e gli alberi non avevano ancora perso le loro foglie. Le case sul fiume avevano i giardini circondati da cespugli lussureggianti e il fiume era ancora pieno di anatre, simpatiche lontre e rane che gracidavano insistentemente. «È molto bello qui», gli dissi, continuando a guardarmi intorno, sorpresa. «Sì, è un posto magico. Non diresti che siamo a due passi da via Padova, una delle strade più popolari e pericolose della città». «Vero! Come lo sai?», ero colpita da quanto Cristian conoscesse bene Milano. «Anni fa, ho avuto una fidanzata che abitava da queste parti», mi disse sorridendo. Mi sentii un po’ gelosa di quella fortunata milanese. «Non sono mai stata in Sudamerica. Com’è?» «La Bolivia? È un posto bellissimo, ma molto povero». «La tua famiglia vive lì?» «Sì, la mia famiglia è di origini spagnole, era una famiglia molto ricca e, fino a un paio di secoli fa, avevano anche degli schiavi». «Schiavi?», l’affermazione mi lasciò perplessa. «Sì, purtroppo l’abolizione della schiavitù è recente nel mio Paese. È folle vero? È anche per questo motivo che faccio un certo tipo di teatro. Lo faccio per riscattare gli errori dei miei antenati, per far conoscere la storia, perché nessuno dimentichi. Credo che l’arte possa arrivare dove la politica fallisce». Gli sorrisi annuendo.

Una bicicletta sfrecciò a tutta velocità lungo il fiume, scampanellando per farsi strada. Cristian mi afferrò un braccio e mi tirò a sé, per evitare che mi investisse. Il movimento fu così veloce che ci ritrovammo incollati a due passi dal ciglio del fiume. Sentii di nuovo il suo buon profumo e il cuore cominciò a battermi forte. Lentamente, mi lasciò il braccio. Continuavamo a rimanere vicinissimi. Mi spostò una ciocca di capelli dal viso e mi accarezzò una guancia. Sperai che mi baciasse, invece, si allontanò da me e sorridendo mi disse: «Sei molto bella, Rebecca». Ultimamente raccoglievo più complimenti di quanti ne avessi mai ricevuti in tutto l’arco della mia vita, ma erano tutti inutili, a quanto pareva! «Mi piacerebbe passare del tempo con te, sapere come vivi, cosa fai, cosa ami e cosa detesti», mi disse con voce appassionata e con il suo splendido accento. «Anche a me piacerebbe conoscerti meglio». «Però non c’è molto tempo. Tra due settimane andrò via e non so se e quando ritornerò. Non posso prometterti nulla. Sei così bella, dolce, divertente. Sei elegante e hai questi occhi che sembrano raccontare mille storie. Avresti bisogno di un uomo che ti protegga, che sia in grado di leggerti il cuore...». Decisi che era meglio non lasciarlo continuare. Ero commossa. Quello straniero, che il destino mi aveva fatto incontrare una sera qualunque, per caso, mi aveva capita. Sapeva che cosa cercavo. Gli gettai le braccia al collo e lo avvicinai a me. Poi piegai leggermente il collo all’indietro, alzai un po’ il mento, chiusi gli occhi e lui poggiò le sue labbra sulle mie. Fu un bacio intenso, lungo, appassionato. Mi mise una mano sulla nuca e io mi persi del tutto. In quel momento, iniziarono a cadere le prime gocce di pioggia, e noi lasciammo che il cielo ci bagnasse. Poi ci separammo e io aprii lentamente gli occhi. Cristian aveva un sorriso splendido. «Forse è il caso di ripararci». Corremmo, felici, sotto la pioggia, cercando una tettoia. Trovammo delle giostre per bambini e ci infilammo dentro una struttura a forma di castello. Ridendo come un ragazzino, mi disse: «Si accomodi, principessa». Poi continuammo a baciarci mentre il temporale lacerava il cielo. Ci salutammo nel primo pomeriggio. Lui andò in teatro per le prove e io ritornai a casa. Rimasi un po’ a fantasticare sul divano, fino a quando lo squillo del telefono non mi riportò alla realtà. «Ciao Coco, cosa combini?», era Emma. Di sicuro si era svegliata da pochissimo, conoscendo le sue abitudini festaiole del sabato sera. «Ciao, sono sul divano e mi sto innamorando». «Cooooosa?». Le raccontai cosa era successo, e senza neppure darmi la possibilità di finire la storia, esclamò: «Ma è bellissimo! E lui com’è? Quando lo conoscerò? Quanto riparte?» «Ecco, preferirei non pensarci. Abbiamo solo due settimane a disposizione e ho deciso che voglio godermele tutte, senza pensare al domani». «Sana decisione. A volte non sappiamo cosa il destino abbia in serbo per noi. A te è capitato un bell’attore che arriva dall’altra parte del mondo e ti sistema il cuore in due settimane. A me è capitata la grande sbronza di ieri sera». Scoppiammo a ridere entrambe. «C’è qualcosa in lui che mi attrae moltissimo. Non è solo una questione fisica. È qualcosa di più intenso, profondo». «Ci farai l’amore?»

«Oh, Emma, lo spero tanto». «Coco, sai che non riesco a mentirti su queste cose, quindi sarò molto diretta: non innamorarti di quest’uomo. Non riusciresti a reggere un altro abbandono. Ne sono certa». «Non preoccuparti. Lo so che finirà, sono preparata stavolta. Voglio solo godermi due settimane da sogno e basta». «Sai cosa direbbe Claudio? Che stai vivendo i tuoi Ponti di Madison County». «Adoro quel film. Anche se Cristian è molto più bello di Clint Eastwood!». «Addirittura! Lo devo assolutamente conoscere, non puoi avere una storia senza il mio consenso, lo sai», rise ancora. «Quando vi rivedrete?» «Ha promesso di chiamarmi stasera, dopo lo spettacolo». «Un ottimo motivo per rinunciare al sonno, direi». «Puoi dirlo forte!». Ci salutammo e le promisi che l’avrei richiamata il giorno dopo per raccontarle i dettagli di quella che speravo si rivelasse una notte indimenticabile. Ero così felice della bellissima giornata trascorsa che non mi accorsi nemmeno che erano quasi ventiquattro ore che non pensavo a Niccolò. Il cervello è fatto così: sostituisce i volti, i nomi, le sensazioni e anche gli odori. Per settimane ti ossessiona con pensieri fissi, sempre gli stessi, anche contro la tua volontà. Ti ritrovi a pensare e ripensare alle cose che ti fanno soffrire senza riuscire a smettere. Succede, però, che all’improvviso qualcosa cambia: un incontro, il suono di una canzone, un film, un raggio di sole modificano il filo dei pensieri e inizi a fantasticare su altro, ad avere nuove idee, a rimuovere il vecchio e a sostituirlo con il nuovo. Vivere è un’esperienza strana. A volte ti sembra che tutto sia perduto, che niente tornerà come prima, che la serenità si sia esaurita di colpo, portata via da amori finiti, da fallimenti di diversa natura. Poi arrivano le novità e con loro cose belle. Bisogna solo essere disposti a riconoscerle e accoglierle. Mi preparai una macedonia di frutta (avevo saltato il pranzo, troppo intenta a divorare di baci la bella bocca di Cristian) e mi stesi sul letto per riposare qualche minuto. Mi addormentai, invece, profondamente, rilassata e sorridente. Fui risvegliata dal suono del telefono. Quando aprii gli occhi il buio era già calato sulla città. Guardai il display dello smartphone e il cuore iniziò a battermi forte. Il mio uomo aveva terminato lo spettacolo e, come promesso, mi cercava per rivedermi. «Ehi Cri, come stai?», cercai di essere il più disinvolta possibile. «Ciao Rebecca, ti disturbo?», mi chiese con quella sua voce irresistibile. «Ma cosa dici? Stavo sbrigando un po’ di faccende, niente di serio», continuavo la pantomima. «Ti ho pensato tutto il giorno, ho voglia di rivederti, adesso. Ti va di incontrarci per un bicchiere di vino sotto casa tua?» «Certo!», capitolai. «Tra mezz’ora dovrei essere in zona. Possiamo vederci al Moma, lo conosci?» «Sì, tra mezz’ora va benissimo. Ci vediamo lì». «Arrivo». La passione che Cristian metteva nelle cose mi stordiva. Mi sentivo desiderata, voluta. Ero l’oggetto del desiderio di qualcuno, qualcuno che mi piaceva da morire. Avevo mezz’ora di tempo per trasformarmi in uno schianto. Mi alzai di scatto dal letto e iniziai a ispezionare l’armadio per trovare qualcosa di sexy da indossare. Alla fine decisi per un paio di pantaloni

stretti, una maglietta a righe bianche e nere, sopra alla quale indossai un golfino di lana molto scollato, e un paio di décolleté nere con un fiore d’organza applicato in punta. Era un look seducente, ma non troppo elegante, perfetto per un bicchiere di vino a due passi da casa con l’uomo dei sogni. Inoltre, avevo della biancheria intima da urlo, che avevo comprato mesi prima e che non avevo mai ancora avuto occasione di usare. Era giunto il momento di ammortizzarne la spesa. Stesi un filo di lucidalabbra sulla bocca e mi spazzolai i capelli. Poi decorai il mio caschetto con un piccolo fermaglio di piume nere. Ero pronta. Sapevo già come sarebbe andata a finire la serata. La tensione che c’era tra noi due era troppo forte ed entrambi avevamo voglia di fare l’amore. Mi sarei concessa a lui e nulla avrebbe potuto rovinare una serata così speciale. Tutto sembrava essere dalla mia parte. Infilai il trench e presi la borsa di pelle trapuntata. Prima di uscire indossai due gocce di Chanel. Chiusi la porta alle mie spalle e mi avviai, allegra, verso il Moma. Trovai Cristian in piedi, fuori dal locale, con un bicchiere di vino in mano. «È molto che aspetti?», gli chiesi, sfiorandogli le labbra. «Da tutta una vita», rispose, abbracciandomi e baciandomi con passione. Lo so, era una frase un po’ fatta, ma forse anche grazie al suo talento da grande attore, la disse con una tale profondità che le ginocchia iniziarono a tremarmi. Ordinai anch’io un bicchiere di vino e mi lasciai andare all’amore. Quella sera era il mio nuovo inizio e volevo che fosse tutto perfetto. Cristian mi raccontò di come era andato lo spettacolo, mentre mi baciava delicatamente sul collo. «Hai un buon profumo», mi disse e io ringraziai Chanel di aver creato il prezioso N° 5. Del resto, anche Marilyn Monroe ne indossava due gocce prima di andare a dormire e io quella sera mi sentivo bella come una diva del cinema. Finimmo di bere e ci avviammo verso il mio appartamento. Ogni due passi, lui mi abbracciava e mi baciava. Ci mettemmo quasi un’ora a percorrere i cinquecento metri che separavano il locale da casa mia. Arrivammo davanti al palazzo continuando a stare appiccicati come due adolescenti. Sulla porta, mentre cercavo le chiavi, Cristian mi sussurrò: «Facciamo che questa notte duri un’eternità». Gli presi la mano e lo condussi in camera da letto. Ci spogliammo lentamente, tra baci e carezze. Poi lasciammo che l’eternità si impossessasse di noi.

9 DUE SETTIMANE DA FIABA

La sveglia del lunedì mattina mi sembrò l’invenzione più crudele che il genere umano avesse mai potuto creare. Avevo dormito una manciata di ore abbracciata a Cristian e l’idea di andare in ufficio mi uccideva. Spensi l’infernale aggeggio al primo biip e mi girai per osservare il suo sonno beato. Poi mi alzai dal letto e mi feci una lunga doccia, nella speranza di recuperare un po’ di energie. Prima di infilarmi sotto il getto dell’acqua, annusai la mia pelle nell’incavo del braccio. Avevo ancora il suo odore addosso. Andai in cucina e decisi di prepararmi una doppia dose di caffè. Di notte, la pioggia era tornata a bagnare Milano e non aveva più smesso. Rientrai in camera per scegliere i vestiti da indossare. Cristian dormiva ancora. Mi dava le spalle e i suoi bei capelli ricci si adagiavano scomposti sul cuscino. Avevo voglia di tornare a baciare le sue spalle nude, ma decisi che era meglio scappare via con il gusto della notte appena trascorsa ancora in bocca. Indossai un paio di jeans, una maglietta a righe con le maniche lunghe e un golfino e poi recuperai un vecchio paio di stivali con il tacco largo, pronta ad affrontare la pioggia. Tornai in bagno per truccarmi e mi soffermai a guardare la mia immagine allo specchio. Avevo le occhiaie, ma la pelle sembrava più brillante e riposata. L’amore fa bene. Al cuore e al corpo. Decisi di lasciare un biglietto a Cristian. Avrei voluto scrivergli parole passionali, come quelle della lettera di Juliette. Ma avevo dormito troppo poco e non avevo voglia di spaventarlo con una dichiarazione. Dopo averci pensato un po’, la sincerità ebbe la meglio sul romanticismo: «È stata una notte bellissima. Spero di rivederti stasera. La caffettiera è pronta, basta accendere il fuoco». Era la cosa più carina che ero riuscita a mettere insieme, con la testa così piena di pensieri. In metropolitana sorridevo, mentre guardavo le facce da lunedì degli altri lavoratori, assonnate e tristi. Nulla avrebbe potuto rovinare l’allegria che sentivo dentro quella mattina. Quando arrivai in ufficio, Valentina stava bevendo uno dei terribili cappuccini del distributore automatico. Le feci un cenno con la testa, poi mi concentrai sul mio caffè. Mi osservò e mi sorrise: «Buongiorno, hai qualcosa da raccontare?». Alzai lo sguardo dalla macchinetta, cercando di capire a cosa si riferisse. Come faceva a sapere della mia notte con Cristian? Mi ci volle un momento per riuscire a mettere a fuoco la situazione. Mi ero completamente dimenticata dell’appuntamento al buio con il suo amico! «Qui sembra che qualcuno abbia fatto le ore piccole...». Doveva avere un radar. Riusciva sempre a capire quando qualcuno di noi aveva riposato troppo poco. Era, probabilmente, la più grande esperta di lettura di occhiaie di tutto il continente. «Già...». Cercai di rimanere sul vago. Non volevo raccontarle nulla della mia nuova avventura e cercavo di guadagnare tempo per inventarmi una scusa e giustificare così quello che era accaduto con il suo amico. «Deduco che tu mi debba ringraziare. Immagino che l’appuntamento sia andato bene», mi disse,

strizzandomi un occhio e toccandomi un fianco con un gomito, con fare malizioso. «A dire la verità, sabato sera ho avuto un imprevisto e sono rimasta molto poco con il tuo amico. Anzi, scusati ancora con lui da parte mia, se hai occasione di sentirlo». Tagliai corto, cercando di correre alla scrivania, per terminare quella imbarazzante conversazione. «Aspetta! Quindi vuoi dire che non è andata? Mi vuoi far credere che TU hai dato buca a un uomo?». Sembrava delusa e un po’ irritata. «Eppure, per una volta non avevi la tua solita espressione da verginella inconsolabile. Credevo avessi fatto sesso». Doveva avere qualche potere magico. Forse era una strega e questo avrebbe spiegato tutto. «Mi sono rilassata molto», risposi, allontanandomi. Mi seguì in silenzio. Dopo qualche passo aggiunse: «Vuoi che ti organizzi un altro appuntamento? Può succedere che le prime volte non vada, non vergognartene. In fondo, non è colpa tua se sei così imbranata e poco attraente». Avevo voglia di strozzarla una volta per tutte, ma ero così allegra quella mattina che decisi di controllarmi. «Grazie, magari più avanti. Per il momento va bene così. Adesso è meglio che mi metta al lavoro. Sono un po’ in difficoltà con la scelta dei fiori e dei tovaglioli. La cliente sembra essere ancora indecisa sulle tonalità di colori», dissi, cambiando abilmente argomento. Se c’era una cosa alla quale Valentina era più interessata della vita sessuale degli altri, quella era il lavoro. «Perfetto! Mettiti subito all’opera». «Ah, un’ultima cosa. Una richiesta». «Sentiamo». «Avrei bisogno di un paio di giorni di ferie. C’è stata un’emergenza e devo provare a risolverla. Pensi che sia un problema?». Cristian sarebbe partito tra poco e io volevo avere qualche ora in più da dedicargli. La barca sarebbe rimasta a galla anche se io non avessi remato per un paio di giorni. «È sicuramente un problema. Ho già programmato il lavoro dei prossimi giorni. Potrei provare a fare uno strappo alla regola e concederti un paio di giornate la prossima settimana. Ma sarebbe un favore personale. Ricordatelo». «Va bene. Grazie». Ero così felice che le sue minacce non mi facevano paura. Sorrisi e mi sedetti alla mia scrivania. Dovevo resistere solo otto ore, poi avrei rivisto il mio cavaliere. Quel lunedì aveva uno spettacolo pomeridiano e aveva promesso di portarmi a cena fuori. Non vedevo l’ora. Tutto stava succedendo così in fretta che non riuscivo quasi a crederci. La cosa più terribile era dover mettere il cronometro per contare i giorni che ci rimanevano. Avevamo così poco tempo per vivere la nostra favola. Poi l’incantesimo si sarebbe rotto e tutto sarebbe finito. Quella sorta di maledizione rendeva tutto più crudele, ma anche più romantico. Iniziai a lavorare, ma non riuscii a smettere di pensare a lui nemmeno per un momento, con la testa volavo alla sera precedente, alle parole di fuoco che mi aveva detto e al resto delle cose che avremmo potuto fare insieme. Mentre bevevo l’ultimo caffè della giornata, prima di affrontare il temporale per tornare a casa, ricevetti un sms di Cristian. C’era scritto: «Grazie per la splendida notte. Stasera non prendere impegni, sei di nuovo mia». Terminato il lavoro, corsi alla metropolitana per arrivare il prima possibile a casa e avere il tempo di

prepararmi. Avevo bisogno di lavarmi i capelli e di indossare qualcosa di caldo. Provai a suonare alla porta di Claudio, per salutarlo e raccontargli della serata, ma non lo trovai. Entrai nell’appartamento, mi diressi verso la sala e accesi la luce. In mezzo al tavolo, dentro al vaso che usavo di solito per tenere gli ombrelli, c’era un enorme mazzo di rose rosse. Mi avvicinai e lessi il biglietto che vi era appuntato. «Un fiore per ogni giornata che mi regalerai. C». Stavo piangendo. Doveva aver trovato le mie chiavi di riserva. Annusai i bellissimi fiori, poi accesi il computer e trovai Emma connessa su Skype, così l’aggiornai sulle ultime novità. Era molto contenta di quello che mi stava succedendo, ma mi sembrava un po’ giù di morale. Ultimamente le cose con il ragazzo che stava frequentando non andavano troppo bene e io mi sentivo quasi in colpa a essere così felice. «Ti sento un po’ giù, c’è qualcosa che non va?», le chiesi. «Mah, niente di grave, sono solo giornate un po’ pesanti». «Con Matteo tutto ok?» «Non ci vediamo da qualche giorno, ci siamo presi una pausa». Non mi aveva detto niente. Forse ero stata così concentrata su me stessa che le era passata la voglia di raccontarmi di lei. «Se hai voglia di parlarne, io sono qui». Emma raccontava poco di sé, ma volevo che sapesse che su di me poteva contare sempre. Le volevo molto bene e desideravo che fosse felice. Se c’era una persona al mondo che se lo meritava, quella era lei. «Non c’è molto da dire. Sai come vanno queste storie. Le prime settimane sembrano perfette, poi passano i mesi e ti accorgi che le persone con cui riesci a stare davvero bene sono poche. Matteo e io ci stiamo frequentando ormai da cinque mesi, ma io non provo per lui quel sentimento che avrei voglia di provare. Non è scoccata la scintilla. Mi sono detta che forse dovevamo riflettere un po’...». Era sempre stata una persona molto decisa. O le cose andavano come voleva lei, oppure basta. Chiuso. Una cosa che le avevo invidiato da quando eravamo ragazzine. «Se hai voglia di parlarne, chiamami, anche di notte». «Grazie Coco. Goditi la tua favola. Io posso aspettare. Sto bene. Non preoccuparti. Anzi, ricordati che hai promesso di presentarmi il tuo bel principe azzurro». Non l’avevo certo dimenticato. «Organizzerò una cena e per l’occasione cucinerò io per tutti». «Ne sei proprio sicura? Ricordo che l’ultima volta che hai cucinato per me abbiamo dovuto ordinare due pizze d’asporto». «Spiritosa! Avevo solo sbagliato a dosare il sale». Sono sempre stata una pessima cuoca. «Per sicurezza, terrò in borsa il numero di telefono del mio ristorante cinese take-away preferito». «Bell’amica!». «Sono la migliore. Ti lascio alla tua serata. Divertiti anche per me». Chiudemmo la conversazione. Mi dispiaceva molto per Emma, ma sapevo che quando sarebbe arrivato il momento giusto, se avesse voluto, mi avrebbe raccontato tutto quello che non andava. Gli amici servono anche a questo: a essere presenti quando c’è bisogno del loro aiuto e ad aspettare quando c’è bisogno di aspettare. Cristian mi chiamò poco dopo. Aveva appena terminato lo spettacolo del pomeriggio e, come promesso, voleva portarmi a cena.

«Ti piace la cucina messicana?», mi chiese. «La adoro», risposi entusiasta. «Bene, allora preparati al messicano più buono della città». «Non vedo l’ora! E non vedo l’ora di riabbracciarti». Terminata la telefonata, mi resi conto di avere una sola ora a disposizione per prepararmi. Volevo qualcosa che lo lasciasse senza fiato. Optai per un tubino color cipria, con un ricamo di pizzo sulla scollatura e delle scarpe T-bar nere dal tacco altissimo. Terminato il trucco e asciugati con cura i capelli, sentii Claudio rientrare nel suo appartamento. Avevo voglia di raccontargli cosa stava succedendo. In fondo era grazie a lui se avevo ricominciato a sorridere. Uscii sul pianerottolo, vestita di tutto punto, e bussai alla sua porta. «La mia dea», mi disse appena mi vide. «Grazie. Avevo bisogno di un complimento per essere sicura che il mio abbigliamento funzionasse». «Hai un appuntamento galante?» «Sì, mi vedo con il tuo amico Cristian». Restò in silenzio per qualche secondo e io pensai di aver combinato un pasticcio. «La cosa non ti dà fastidio, vero? Se così fosse, ti pregherei di dirmelo. Non vorrei creare dei malintesi tra di noi. Sai quanto ci tengo a te», gli dissi, sperando di non averlo ferito. «No, figurati. La cosa mi fa piacere. È che Cristian se ne andrà e ho paura che tu possa soffrire di nuovo». Avevano tutti paura che potessi soffrire ancora. Ma questa volta era diverso. Sapevo già che sarebbe finita, però era la cosa più romantica che mi fosse mai capitata e avevo voglia di vivermela fino in fondo, nonostante tutto. «Sto bene», risposi per rassicurarlo. «Vedrai che non soffrirò. E poi sto imparando che la vita è così piena di imprevisti che non si può mai programmare nulla. Bisogna affidarsi al destino, come dici sempre tu». «Hai ragione. E non poteva capitarti destino migliore di Cristian». Lo abbracciai. Gli dovevo davvero molto. Rientrai in casa, misi un filo di lucidalabbra e poi attesi il mio uomo. Cristian arrivò con mezz’ora di ritardo. Avevo già capito che la puntualità non era il suo forte. Scesi e prendemmo un taxi per raggiungere il locale di cui mi aveva parlato. Nel tragitto non riuscivamo a smettere di baciarci. Poi lui cominciò ad accarezzarmi i capelli e io appoggiai la testa sulla sua spalla, mi sentivo un’adolescente al suo primo appuntamento. Il ristorante era gestito da un suo vecchio amico, che aveva conosciuto quando lavorava in Messico. Ordinai un mojito, senza curarmi, come sempre più spesso accadeva, delle calorie. Cristian prese una birra e andò a salutare il proprietario e tutti i camerieri. Era una persona decisamente socievole. Quella sera era particolarmente allegro e continuava a canticchiare motivetti in spagnolo e ad accarezzarmi le gambe sotto il tavolino. «Com’è andata oggi in ufficio?», mi chiese. «Solito! Bomboniere, confetti, vestiti da sposa e fiori». «Fai un lavoro divertente». «Sì, in un certo senso sì». «Hai mai pensato di sposarti?», la domanda mi colse di sorpresa. No, non ci avevo mai pensato. Ho sempre detestato i matrimoni. Però non volevo sembrare spietata agli occhi del mio nuovo amante. «Non ci ho mai pensato, ma forse perché non ho mai incontrato la persona giusta».

«E se un domani dovesse arrivare l’uomo perfetto?» «Credo che potrei valutare l’ipotesi». Non lo credevo sul serio, e mi sembrava strano parlare di futuro con un uomo con cui avevo, letteralmente, i giorni contati. «Io sono stato sul punto di sposarmi una volta», mi disse mentre continuavo ad addentare nachos con il formaggio fuso. «Davvero? E poi cos’è successo?». «Eravamo molto giovani e innamorati. Soprattutto inesperti. Lei rimase incinta e decidemmo di sposarci. Ci sembrava la cosa più giusta da fare. Poi perse il bambino e qualcosa si spezzò. Ci lasciammo poco tempo dopo, ma adesso siamo buoni amici». «Mi dispiace». «Non dispiacerti. Así es la vida. Lei si è poi sposata con un mio amico e sono molto felici insieme. Hanno due bambini». «Non credo che riuscirei a essere amica di un mio ex». «Vuoi dire che non frequenti nessuno dei tuoi ex fidanzati?» «Certo che no! L’amore non può trasformarsi in un’amicizia. O forse ci vuole tempo, un tempo che non mi sono mai concessa». Inoltre, cosa che non confessai a Cristian, avevo il desiderio di prendere a calci tutti i miei ex perché ciascuno di loro mi aveva fatto un male cane. «Sei molto severa! E noi? Rimarremo amici?». La domanda mi spiazzò. In realtà non avevamo nemmeno avuto il tempo di diventare fidanzati, però mi sarebbe piaciuto restare in contatto con lui. «Certo che rimarremo amici». «Bene! Allora brindiamo all’amicizia!». Ordinammo altri due drink e poi iniziammo a mangiare. Ero già brilla e, a causa del chili piccantissimo e della felicità, la testa mi girava parecchio. Dopo cena, passeggiamo un po’ per smaltire gli eccessi del cibo e dell’alcol. Mentre camminavamo, incrociammo un parco e ci sedemmo su una panchina a baciarci, proprio come due ragazzini. Ci desideravamo tutti e due moltissimo e io non vedevo l’ora di passare un’altra notte con lui. Mentre continuavamo a scambiarci effusioni – era evidente che avevo cambiato idea circa le coppie che si baciano in pubblico – una macchina scura parcheggiò poco distante da noi. Ne uscì un ragazzo dall’aspetto familiare, che parlava al telefono, ridendo. Mi ci volle un attimo per capire che si trattava di Niccolò e per un momento rimasi senza fiato. Possibile che mi si materializzasse davanti proprio quando stavo ricominciare a vivere? Mi nascosi tra le braccia di Cristian, che non si era accorto di nulla, e aspettai che si allontanasse. Sembrava felice e molto rilassato e non si era nemmeno accorto di noi due. Avrei avuto voglia di assalirlo e strappargli i suoi splendidi e morbidi capelli. Mentre si allontanava, sempre parlando al telefono, ebbi un’idea diabolica e decisi di assecondarla. «Ho un po’ freddo, ti dispiace se torniamo a casa?», chiesi a Cristian. «Non vedevo l’ora che me lo chiedessi». Ci alzammo dalla panchina e ci avviammo verso la fermata dei taxi più vicina. Mentre mi avvicinavo alla vettura di Niccolò, infilai una mano nella mia borsetta di Bottega Veneta, comprata usata su eBay, ed estrassi un mazzo di chiavi. Poi, mentre superavamo la preziosa Audi nera, sulla quale l’uomo che avevo tanto amato mi aveva baciata più volte, avvicinai le chiavi alla carrozzeria e lasciai un ricordo indelebile sulla portiera.

Fu un gesto brutto e meschino, ma mi fece sentire subito meglio. Vendetta compiuta. Potevo archiviare per sempre la faccenda Niccolò e lasciare che il mio karma si riequilibrasse. Strinsi forte il braccio di Cristian e gli diedi un bacio su una guancia, sorridendo. «Andiamo a casa», sussurrai. «Ho voglia di passare una notte speciale». Le giornate trascorsero molto in fretta. Troppo. Passavamo tutti i nostri momenti liberi insieme, mangiando, ridendo e facendo l’amore. Avevo scoperto che Cristian era un uomo pieno di risorse. Non era solo un grande attore, sapeva cantare, cucinare e anche aggiustare il mio vecchio rubinetto che perdeva. L’ultima settimana, grazie ai due giorni di ferie che l’arpia mi aveva concesso, avevamo passato un’intera giornata a letto, alzandoci solo per farci docce veloci e per consumare qualche spuntino. La sera del suo ultimo giorno a Milano, decisi di organizzare la famosa cena per presentarlo a Emma. Claudio fu incaricato di portare il vino, la mia amica ebbe l’onere del dolce e io provai a preparare le lasagne, seguendo con scrupolo una ricetta che mi aveva passato mia madre al telefono. Cristian e io eravamo entusiasti, ma anche un po’ malinconici. Erano state due settimane indimenticabili e separarci sembrava impossibile. Per l’occasione avevo indossato un abito elegante e Cristian, per farmi una sorpresa, aveva messo da parte i suoi soliti jeans e aveva comprato un abito scuro. «Ti piaccio?», mi aveva detto sulla porta, mentre gli mettevo le braccia intorno al collo e lo riempivo di baci. «“Un uomo può indossare ciò che vuole. Resterà sempre un accessorio della donna”», gli dissi ridendo. «Gentile!». «È una frase di Coco Chanel», risposi. «Doveva saperne molto in fatto di uomini», rise anche lui. Ci spostammo in salotto e bevemmo due bicchieri del vino che avevo usato per cucinare. Era la nostra ultima sera e passavamo molto tempo a guardarci e a non dire nulla. Claudio arrivò puntuale, aprì una bottiglia del barolo che aveva portato e la lasciò respirare. Pochi minuti dopo, arrivò anche Emma. Aveva portato una deliziosa millefoglie ed era eccitatissima all’idea di conoscere l’uomo dei miei sogni. «Ciao, Emma», disse a Cristian stringendogli la mano e dandogli un bacio per ogni guancia. «Sono la migliore amica di Rebecca e non vedevo l’ora di conoscerti. Mi ha parlato moltissimo di te». «Davvero le hai parlato di me?». Cristian mi guardò divertito. «La mia migliore amica ha omesso di dire che parla sempre troppo», lanciai un’occhiataccia a Emma, che mi sorrise goffamente. Ci sedemmo e iniziammo a mangiare. La mia lasagna era stranamente buona e tutti si servirono due volte. «Hai superato te stessa, Coco», mi disse Claudio, mentre spazzolava l’ultimo pezzo di pasta dal piatto. In quel momento la mia vita sembrava perfetta. Guardavo Cristian e i miei amici e pensavo che, anche se fosse durata solo un istante, quella era la mia idea di felicità. A causa del vino che avevo bevuto iniziai a fantasticare su come sarebbe stato avere Cristian come fidanzato fisso. Avremmo potuto fare le cose da coppia: bere il caffè a letto, andare a fare la spesa e scegliere tutte le cose che ci piacevano di più, trascorrere le serate di pioggia sul divano a farci le

coccole, uscire con gli amici, passare tutta la notte abbracciati... Mentre ero immersa in quei pensieri mi accorsi che forse, mio malgrado, mi stavo innamorando di nuovo ed era un bene che Cristian rimanesse solo un’altra notte. Raccolsi i piatti e raggiunsi Emma vicino al lavello. Aveva controllato tutta la sera il cellulare, e non era da lei. «Va tutto bene?», le chiesi, guardandola negli occhi. «Sì, Coco. Sto solo controllando la posta. E tu come stai?». Era una bella domanda. «Mi sento strana. Quel ragazzo mi piace davvero e non so domani come farò a lasciarlo andare via». «Ti avevo avvisato che non sarebbe stato facile, ti conosco troppo bene». «Hai ragione, ma dovevo farlo, altrimenti l’avrei rimpianto per sempre». «Ti capisco. E so anche che stare con Cristian ti ha fatto bene. Guardati! Sei una persona diversa, allegra, serena. Erano mesi che non ti vedevo così». Aveva ragione. L’attore venuto da lontano era stato per me un’efficace medicina. Mi aveva curato dal mal d’amore e adesso non potevo rovinare tutto, soffrendo ancora. Restammo a chiacchierare ancora un po’, fino a quando non si fece troppo tardi e gli amici ci lasciarono. L’ultima notte che io e Cristian passammo insieme fu perfetta. Entrambi avevamo voglia di assaporare fino all’ultimo minuto che ci rimaneva e non chiudemmo occhio fino a quando l’alba non fece capolino dalla finestra. La mattina dopo, il sabato della sua partenza, gli chiesi se avesse voglia di essere accompagnato in aeroporto. «Preferirei di no», mi disse serio. «Renderebbe tutto più difficile. Lasciamoci qui, a casa tua. Ho voglia di ricordarti spettinata e nuda, bella come non lo sei mai stata». Lo lasciai partire e la casa mi sembrò subito vuota senza di lui. Era rimasto giusto il tempo per ricucirmi il cuore.

10 LA GARA

Il lunedì successivo alla partenza di Cristian avevo il morale a terra. Mi mancava più di quanto avessi immaginato. La cosa più difficile era riuscire a dormire senza di lui. Ancora una volta, mi presentai in ufficio sfoggiando delle occhiaie da competizione. Erano diventate il mio marchio di fabbrica. L’atmosfera in agenzia era elettrica. Erano tutti in fibrillazione: eravamo stati convocati per una riunione straordinaria in cui ci avrebbero comunicato delle importanti novità. In attesa dell’incontro, mi accomodai alla mia scrivania, cercando tra le e-mail qualche notizia del mio Cristian. Trovai un breve messaggio in cui mi salutava dal Belgio e mi mandava baci e abbracci. Sorrisi malinconicamente. Alle nove e trenta ci avviammo tutti verso la grande sala riunioni che si trovava al secondo piano. Paolo era già alla sua poltrona, accanto la sua fedele assistente. Per l’occasione aveva abbandonato Tshirt e felpa e aveva indossato un bel vestito grigio con una cravatta nera sottile. Poi spostai lo sguardo e per poco non svenni. Cosa ci faceva Étienne, con un abito elegante e il viso stanco, seduto accanto a Paolo? Cosa stava accadendo? Perché il mio cuore aveva cominciato a battere così forte? Avevo un terribile presentimento e cominciai a sudare freddo. «Benvenuti a tutti», annunciò Paolo, mentre prendevamo posto. «Grazie per la vostra presenza e per la vostra puntualità». Valentina si sedette vicino a me. Indossava un profumo molto forte e quell’odore così intenso mi ridestò dai pensieri che mi stavano affollando la testa. Un fattorino seduto al tavolo dei capi? Ma perché? La rivoluzione russa aveva finalmente trionfato? «Vi ho convocati perché abbiamo grosse novità. Come alcuni di voi già sanno, da qualche mese abbiamo cominciato a lavorare più a stretto contatto con i nostri partner francesi. Abbiamo ottenuto grossi risultati e siamo tutti molto soddisfatti». Alle sue spalle, su un enorme schermo luminoso, apparivano delle slide che riportavano i dati degli ultimi bilanci, della produttività e del numero di eventi in corso. La curva di crescita era evidente. «Alcuni hanno già avuto modo di incontrare Étienne, direttore dell’agenzia Seven, e hanno già avuto la fortuna di lavorare con lui...». Stavo entrando in iperventilazione, avevo capito bene? Étienne-il-fattorino dagli occhi blu, quello a cui avevo “rubato” la lettera d’amore, era il direttore della Seven? Il capo di una delle più prestigiose agenzie di eventi d’Europa? La testa iniziò a girarmi vorticosamente e sentii un senso di nausea salirmi dallo stomaco. Perché non me l’aveva detto? In quel momento avrei voluto una bacchetta magica per trasformarmi in un paramecio. Avevo bisogno di un incantesimo, subito. Cosa diavolo potevo fare? Mi sentivo un topo in trappola, anzi, una ritardata a un convegno di premi nobel. Lui mi stava sorridendo, mentre il mio viso assumeva tutte le tonalità del rosso. «L’agenzia ha deciso di mettere a disposizione tre settimane di formazione a Parigi per uno di voi», continuò Paolo.

Un brusio si levò dalla sala. Erano tutti emozionati all’idea di poter lavorare tre settimane a Parigi in un’agenzia così famosa. «Abbiamo deciso di lasciare a tutti la possibilità di partecipare alla selezione. Quindi, nei prossimi mesi, controlleremo il vostro lavoro e la vostra produttività e chi di voi dimostrerà di essere all’altezza, sarà mandato a Parigi». Ero sconvolta dalla rivelazione, mi sentivo presa in giro, ma anche stranamente eccitata all’idea che Étienne avesse inventato tutta quella storia per me, solo per me. E poi c’era la gara. Volevo vincere, ma allo stesso tempo sapevo di avere poche speranze, c’era gente molto più in gamba di me che meritava quell’occasione. Osservai Valentina. Sentiva già la vittoria in pugno e non temeva la concorrenza degli altri colleghi. «Non vogliamo mettervi in competizione, sia chiaro. Vogliamo solo premiare la persona che, più delle altre, riuscirà a mettere a frutto le proprie capacità. Continuate a fare il vostro lavoro come sempre e continuate a ricordare che remiamo tutti nella stessa direzione». Partì un forte applauso. La possibilità di andare a Parigi entusiasmava tutti. Étienne sorrise, poi si alzò e prese la parola: «Sarà un piacere per noi collaborare con voi. Ricordate che siamo qui per lavorare, ma anche per divertirci. Abbiamo la fortuna di fare un lavoro bellissimo. Non perdete mai l’entusiasmo e andate avanti come sempre. Che vinca il migliore!». Era carismatico e sicuro di sé. Un vero leader. E io l’avevo scambiato per un fattorino. Ero una cretina, senza alcuna speranza di redenzione. Provai a mettere da parte l’imbarazzo e a concentrarmi sulla notizia del giorno. Non potevo fare altro, se non confondermi tra i colleghi nell’attesa di farmi venire qualche idea brillante per scusarmi con Étienne. L’idea di una gara avrebbe sicuramente aumentato la produttività dell’azienda, ma temevo che la competizione sarebbe salita alle stelle. I nostri capi (ex fattorino compreso) ignoravano che alcuni di noi sarebbero stati pronti a sbranare l’avversario per vincere e il mio diretto superiore, la tigre bionda con la passione per il dating e i pettegolezzi era una di quelle. L’occasione, però, era allettante. Avevo sempre sognato di lavorare a Parigi e finalmente qualcuno mi offriva la possibilità di farlo. Paolo ci salutò e uscì dalla stanza. Tutti si allontanarono borbottando, ridendo eccitati e chiamandosi l’un l’altro per commentare quanto ci era stato appena comunicato. Valentina mi guardò e disse: «Puoi già farmi le congratulazioni». «Ti faccio il mio in bocca al lupo», replicai. Approfittai della folla e mi separai da lei. Avevo bisogno di un momento di pausa per riordinare le idee e studiare la strategia giusta da usare con il “fattorino-capo”. Mentre camminavo, uno dei miei tacchi si infilò nella fessura lasciata da un pezzo di moquette che si era un po’ sollevato e precipitai a terra. Ancora. Paolo, che si trovava lì vicino, venne in mio soccorso. «Tutto bene?», mi disse mentre cercava di sollevarmi. A parte un piccolo dolore al ginocchio, ero tutta intera. «Tutto bene, grazie», risposi prendendo la mano che mi aveva gentilmente offerto e rimettendomi in piedi. Il tacco della scarpa si era scollato dalla suola e riuscivo a malapena a stare in equilibrio. «Purtroppo non posso dire la stessa cosa della mia scarpa», dissi raccogliendo il tacco dal pavimento. «Non preoccuparti. Ho della colla potentissima che risolverà questo piccolo contrattempo», disse Paolo, strizzandomi l’occhio. «La trovi nel cassetto a destra della mia scrivania».

Lo ringraziai e mi avviai zoppicando verso il suo ufficio. Trovai la colla e mi sedetti sul pavimento per stare più comoda mentre cercavo di salvare il salvabile. Quelle scarpe mi piacevano moltissimo e non volevo buttarle. Me ne stavo lì per terra, aspettando che la colla facesse effetto, quando sentii qualcuno entrare nella stanza. Chiuse la porta alle sue spalle e continuò la telefonata nella quale era impegnato. Parlava in francese e sembrava stesse litigando con qualcuno. Era Étienne. Continuava a camminare alzando la voce. A un certo punto si rivolse al suo interlocutore chiamandolo per nome: «Juliette». Era al telefono con lei, la sua fidanzata. Mi ritrovavo nuovamente a violare la loro privacy. Di nuovo avvertii la stessa strana sensazione che avevo provato quando mi ero ritrovata la lettera tra le mani. Era come se quella telefonata fosse stata fatta affinché io la sentissi. Come se qualcuno avesse deciso che io dovessi trovarmi lì in quel preciso istante, ad ascoltare quelle parole. Uno strano destino mi legava a loro, un destino che ancora mi sfuggiva. La scrivania mi nascondeva alla sua vista e non si era accorto della mia presenza. Non sapendo come comportarmi, trattenni il fiato e sperai che uscisse dalla stanza il prima possibile. Pochi minuti dopo, chiuse la conversazione nervosamente e, invece di uscire dall’ufficio, si avvicinò alla finestra che si trovava alle spalle della poltrona di Paolo. Pregai inutilmente di diventare invisibile. Étienne guardò in basso e sgranò gli occhi. «Cosa ci fai qui?», mi disse con fare quasi indispettito. Come dargli torto, d’altronde. «Scusami. Io, io... Non volevo origliare. Mi si è spezzato un tacco e sono venuta a recuperare la colla di Paolo per provare a riparare il danno. Mi dispiace». E senza prendere fiato, continuai. «Mi dispiace di averti scambiato per un fattorino, sono una sciocca, una stupida ragazza con la testa per aria. Una che non sa come sia fatto il mondo. Sono mortificata, non so davvero come...». «Sei veramente buffa», mi interruppe, mentre provavo a rimettermi in piedi. Ormai doveva essersi abituato alle mie maldestre stravaganze. «Eh già, non sono un fattorino, ma il mio lavoro non è poi molto diverso dal portare pacchi in giro per il mondo». «Avresti dovuto dirmelo». Dopo essermi umiliata abbastanza, volevo riguadagnare un po’ di credibilità. «Scusa, Coco. Non volevo prenderti in giro. Ma eri così gentile con me. Mi piaceva, mi hai fatto divertire». «Sono una sciocca». «Avresti dovuto vedere la tua faccia quando l’hai scoperto... Era deliziosa». «Lo credo bene. Per poco non sono svenuta». «Ero lì pronto ad afferrarti». «Spiritoso! Monsieur Étienne, credo lei mi debba delle scuse». «Be’, stavi origliando la mia telefonata. Direi che siamo pari». Abbassai lo sguardo per l’imbarazzo. «Scusami ancora. Davvero, non volevo». «Non preoccuparti. Scusami tu. Pensavo non ci fosse nessuno nella stanza. Potevi anche sederti sulla sedia, sai? Non credo che Paolo avrebbe avuto qualcosa da ridire se una giovane wedding planner avesse osato sedersi sullo scranno del potere».

Avevo fatto la solita figuraccia. Sospirò profondamente, forse ancora nervoso per la telefonata. «Va tutto bene?», gli chiesi. «Be’, è stata una telefonata complicata». «Ehm, non ho capito cosa dicevi. Parlo appena il francese», mentii. «Ho avuto una piccola discussione. Niente di grave». «Con qualcuno di importante?» Sorrise e mi guardò, prima gli occhi e poi i capelli. «Mi piace il tuo taglio. Ti dona». Abile cambio di argomento. Non voleva parlare di Juliette. Recepito. «Grazie...», sussurrai. «Mi piacciono le donne con i capelli corti. Non hanno paura di osare». Mi spostò una ciocca dietro l’orecchio. Sentii un brivido lungo tutta la schiena. Cercai di farmi forza per sostenere il suo sguardo. Lui mi fissava con i suoi profondi occhi azzurri. «Che ne pensi della formazione a Parigi?» «È una grande opportunità. Anche se per me sarà difficile riuscire a superare i colleghi più anziani. Sono tutti molto bravi». «Non essere così pessimista, Rebecca. Tu hai qualcosa di molto speciale. Sei diversa dagli altri, hai uno stile tutto tuo». «Grazie, ma sono ancora molto inesperta». «“Se sei nato senz’ali, non fare mai nulla per impedire loro di crescere”». «Ma è una frase di Coco!». Ero basita. «Non sei l’unica a conoscere gli aforismi giusti», disse sorridendo. Il suo viso, anche se molto stanco, adesso era meno teso. Lo osservai attentamente. Era davvero affascinante. «Berrai ancora il caffè con me, anche adesso che non sono più un fattorino?» «Certo, ma sarai costretto a offrire sempre tu». Mi sorrise, allegro. «Forse è il caso che rientri nel mio ufficio. Valentina si starà chiedendo che fine abbia fatto», gli dissi, dopo aver verificato che il tacco fosse tornato al suo posto. «Buon lavoro, Coco», rispose. «Mi raccomando: lavora bene. Sarebbe bello averti con me». Quella frase mi mise di buonumore. «A presto», risposi. Mi avviai camminando lentamente verso la porta mentre sentivo i suoi occhi di ghiaccio ancora puntati su di me. Appena arrivata alla mia scrivania, mi accorsi subito che l’atmosfera nel reparto matrimoni si era fatta tesa. Tutti avevano gli occhi incollati sui loro computer e Valentina sembrava una despota che osserva i suoi schiavi dall’alto del suo trono. «Eccoti!», esclamò appena misi piede nell’ufficio. «Scusa per il ritardo, mi si era rotto un tacco». «Hai sempre una scusa pronta, vero? Non c’è tempo da perdere. Mettiti subito al lavoro. La mia vittoria dipende anche dal vostro rendimento e non voglio perdere questa bella occasione». Il messaggio era chiaro. Sarebbe andata lei a Parigi, anche se noi avessimo lavorato ventiquattr’ore su ventiquattro. Nelle ultime due settimane mi avevano assegnato altri due eventi. La cosa che piaceva di più ai miei clienti era la mia lucidità: non mi lasciavo mai coinvolgere troppo e

questo atteggiamento mi donava l’autorevolezza giusta per decidere in autonomia, facendomi apparire più pratica ed efficiente. Una vera wedding planner doveva prendere le decisioni migliori, nel più breve tempo possibile. I sentimentalismi li lasciavo ai futuri sposi e ai loro genitori. Iniziai subito a lavorare, per recuperare il tempo perduto a causa del piccolo incidente della mattina. Ogni tanto, tra la scelta dei fiori e qualche telefonata ai fornitori, pensavo a Cristian. Continuavo a chiedermi se avesse già trovato una nuova amante nella città in cui stava recitando, se avesse già sedotto qualche ragazza belga. Insomma, mi sentivo improvvisamente gelosa e questo mi infastidiva un po’. In pausa pranzo ci staccammo tutti dalle nostre scrivanie per andare a mangiare. Tutti tranne Valentina, che restò incollata al computer. «Non vai a pranzo?», le chiesi. «No, ho del lavoro da finire. Sgranocchierò qualcosa nel pomeriggio». Era decisa a vincere a tutti i costi. Sarebbero stati mesi molto impegnativi. Provai a chiamare Emma, che non sentivo dalla sera della cena, ma non rispose al telefono. Mi sembrò molto strano. Non riuscivo a capire cose le passasse per la testa e decisi che dopo il lavoro sarei passata a trovarla per accertarmi che stesse bene. Nel ristorantino dove pranzavo di solito, trovai Paolo ed Étienne che parlavano animatamente davanti a due calici di vino. Li salutai da lontano, cercando un posto in cui sedermi, ma Paolo mi fece segno di avvicinarmi. «Come va la tua scarpa?», mi chiese gentilmente. «Molto meglio, grazie. La tua colla è miracolosa». «Resta con noi», disse Étienne indicandomi la sedia. «Non ti dispiace, vero?», chiese a Paolo, mentre mi accomodavo al loro tavolo. «Niente affatto», il mio capo sorrise. «Fa sempre piacere pranzare con una donna bella e intelligente». Mi sentivo in difficoltà, seduta in compagnia dei miei due capi, soprattutto adesso che Étienne non era più Étienne-il-fattorino-affascinante, ma decisi di superare l’imbarazzo e di provare a rilassarmi. In fondo, avevamo più o meno la stessa età e lavoravamo insieme. Anzi, remavamo nella stessa direzione. «Un po’ di vino?», chiese Étienne. Avevo una grandissima voglia di un bicchiere di Cabernet Sauvignon, ma mi trovavo in compagnia del mio capo e non volevo rischiare di fare brutte figure. «Ehm, nel pomeriggio dovrei tornare a lavorare...», risposi, fissando Paolo per essere sicura di aver detto la cosa giusta. «Un po’ di vino non può che migliorare il tuo lavoro», disse divertito Étienne. «In Francia lo sappiamo bene». «Non iniziamo a parlare di vini francesi e italiani», intervenne Paolo divertito. «Sai già che perderesti in partenza», Étienne rise e mi consegnò la lista dei vini. Ordinai anche io un calice e brindammo al lavoro e ai progetti futuri. «Come ti trovi a Milano?». Mi chiese Paolo mentre condivo la mia insalata. A furia di cenette romantiche con Cristian avevo messo su qualche chilo e cercavo di difendere con i denti la mia 42. «Bene. All’inizio è stato complicato. Non conoscevo molte persone. Però, grazie a qualche caro amico, non sono mai rimasta sola e adesso sono felice di essermi trasferita». «Dev’essere molto diversa da Venezia», aggiunse. Tutte le città del mondo sono diverse da Venezia. «Sì, questo è vero. Mi manca soprattutto il mare. Andavo spesso a passeggiare sulla spiaggia del Lido

quando avevo bisogno di schiarirmi le idee». «Venezia è perfetta per i viaggi di nozze», disse Paolo, mentre Étienne addentava la sua bistecca. «Ottima informazione», rispose senza alzare gli occhi dal piatto. Sembrava un po’ seccato dall’argomento. Forse avevo intuito il perché. Sapevo della lettera, sapevo che quella mattina aveva avuto una discussione con la sua fidanzata. Era normale che non avesse voglia di parlare di viaggi di nozze. «Per il mio viaggio di nozze ho scelto le Maldive. Lo so che non sono stato molto originale, ma sono state due settimane da sogno». Non avevo nemmeno notato che Paolo portasse la fede. Per essere una wedding planner, avevo davvero poco occhio per i particolari importanti. Da quando avevo iniziato quel lavoro, le persone non facevano altro che parlarmi delle loro relazioni e di matrimoni. Era una specie di condanna. Per un attimo mi misi a fantasticare su un mio ipotetico fidanzamento con Cristian. Lui mi avrebbe convinta con milioni di baci a superare la mia avversione e a sposarlo, nella sua citta, a La Paz, in Bolivia. Avrebbe messo l’abito scuro che gli stava così bene e io avrei indossato una lunghissima veste di seta bianca, leggera ed elegante. «Tu non sei sposata, vero?», mi chiese Paolo, curioso. «No, sono sempre riuscita a salvarmi». Rise divertito dalla mia risposta. «A furia di lavorare con coppiette nervose ed eccitate, potrebbe anche passarti la voglia». «Non essere cinico», intervenne Étienne. «Ricordo che eri molto emozionato il giorno delle tue nozze». «È vero, e tu sai quanto sia stato difficile per me mettere la testa a posto», rise ancora. Doveva essere stato un gran libertino. «Sei mai stata a Parigi?», Étienne cambiò argomento. «Ci sono stata tanti anni fa. Ricordo che mi piacque moltissimo. È davvero una città magica». «Dovresti tornarci», mi sentii addosso i suoi occhi profondi. «Potrebbe anche succedere», intervenne Paolo. «Visti i progressi che sta facendo, potrebbe essere proprio lei a vincere il periodo di formazione da voi». Étienne mi sorrise. Il suo sguardo così penetrante mi fece arrossire di nuovo. Abbassai la testa e continuai a mangiare la mia insalata, non sapendo cosa dire. Terminammo il pranzo e tornammo in ufficio. I distributori del caffè erano assediati da persone che continuavano a chiacchierare della novità della giornata. Rientrai nella mia stanza e trovai Valentina alla scrivania. Appena varcai la porta, mi guardò con sguardo torvo e mi chiese come mai avessi pranzato con i capi. Qualcuno doveva avermi visto e l’aveva subito informata. Capii che la competizione si stava facendo accesa e che lei non mi avrebbe mollata un secondo. Ci teneva troppo ad avere quel posto e mi avrebbe reso la vita un inferno. «I tavoli erano tutti occupati e mi hanno cortesemente invitata a sedere con loro». Mi guardò a lungo, indecisa se credere alla mia versione dei fatti. Poi, abbassò il tono della voce e disse: «Ti tengo sott’occhio, sai? Non fare la furbetta. Il tuo aspetto gentile ed elegante non mi frega. So riconoscere una gattamorta quando la vedo». Mi stava accusando di aver provato a sedurre i capi? Era completamente pazza. «Non so di cosa stai parlando», le risposi con calma, cercando di non far trasparire la rabbia che mi cresceva dentro. «Ho solo mangiato un’insalata in compagnia dei miei superiori e non ci trovo niente di male. Lo sanno tutti che sei la migliore qui dentro», dissi con tono velatamente ironico, «non dovresti temere la concorrenza di nessuno». Non colse l’ironia e rispose convinta: «Hai ragione. Io sono la numero uno. Adesso torna al tuo lavoro.

Ho bisogno che tu faccia alcune ricerche per me. Devo trovare una buona orchestra per una serata e quelle con cui lavoriamo di solito per quella data sono tutte occupate. Fatti venire una buona idea», mi ordinò, con tono autoritario. Mi misi subito a lavoro. Sarebbero stati mesi molto pesanti e dovevo stare attenta a come mi muovevo. Ero entrata in guerra. Mi sarebbero servite pazienza e strategia. Fissai il monitor del computer per ore e aspettai che la giornata di lavoro terminasse. Avevo solo voglia di tornare a casa, di farmi un bagno caldo, di scrivere a Cristian e di passare a salutare Emma. Per quel giorno ne avevo già avuto abbastanza di sfide e matrimoni. Nel tardo pomeriggio, rientrai a casa più stanca che mai. Desideravo buttarmi a letto e dormire per le successive dodici ore, ma mi ero ripromessa di passare a salutare Emma. Così mi preparai una veloce tazza di tè, mi cambiai infilandomi dei pantaloni comodi e delle scarpe basse e corsi a prendere la metro. Emma abitava in un bell’appartamento a Isola, un quartiere che stava diventando molto alla moda, circondato da grattacieli e binari della ferrovia. Arrivata quasi all’altezza di casa sua, mi parve di scorgere la sua sagoma sotto il portone. Stava parlando animatamente con una ragazza che non avevo mai visto e sembrava molto nervosa. Mi fermai per osservare la scena. Continuarono a discutere per un po’, poi la ragazza sconosciuta cercò di abbracciare Emma, ma lei si sottrasse, lasciandola con le braccia a mezz’aria. Dopo quel rifiuto, la ragazza si voltò, fece qualche passo, aprì la portiera di una macchina rossa e se ne andò. Aspettai qualche secondo, poi mi avvicinai a Emma, chiamandola da lontano. «Ehi, Emma, ciao». Si girò e mi fissò. Sembrava molto nervosa e forse la mia sorpresa non era stata un’ottima idea. «Cosa ci fai qui?», mi chiese con un tono infastidito. «Volevo farti una sorpresa. Non ci sentiamo da qualche giorno e sono un po’ preoccupata per te». Mi fissò ancora, cercando di controllare la rabbia che doveva aver accumulato nella conversazione precedente. Poi i suoi lineamenti si distesero, chiuse gli occhi e iniziò a massaggiarseli con una mano. «Scusa, Coco. Sono solo un po’ nervosa. Ho appena avuto una brutta discussione con un’amica e sono agitata». Rimasi un po’ delusa del fatto che Emma frequentasse delle amiche che non mi aveva mai presentato, ma mi resi conto che conoscere tutte le persone che i tuoi amici conoscono è una pretesa ridicola. Ero già gelosa di Cristian, non potevo esserlo anche di Emma. «Capisco e mi dispiace. Vuoi fare due passi per schiarirti un po’ le idee?» «Grazie». Iniziammo a passeggiare in direzione di una graziosa piazza piena di bar e ristoranti. «Hai voglia di raccontarmi cosa è successo?», domandai a Emma, mentre entravamo in un locale. «Solo una piccola incomprensione, niente di grave». Avevo il sospetto che mi nascondesse qualcosa, ma non volevo sembrare invadente. «Non insisto, sono cose che succedono, ma ricordati che io sono sempre qui pronta ad abbracciarti e coccolarti. Che ne dici di ordinare due bicchieri di vino e dimenticare questa giornata? Anche per me è stata piuttosto faticosa». «Come sta andando la tua vita senza il bell’attore? Mi sei sembrata radiosa l’altra sera a cena». «Mi manca, ma non mi pento di niente. E poi sto iniziando a credere che il destino esista sul serio. Avevo bisogno di incontrare uno come lui per ritornare tutta intera. Ci sono persone che sanno farti ammalare d’amore e altre che sembrano fatte apposta per guarirti. Cristian è stato la medicina del mio

cuore. Adesso mi sento molto più forte e molto più sicura di me». «Gli uomini sono animali strani, ma mai quanto le donne», disse Emma, mentre studiava con attenzione la lista degli alcolici. «Hai ragione. Più frequento i maschi, più ho bisogno di buon vino», risposi, facendo segno al cameriere di avvicinarsi per prendere l’ordinazione. Rimanemmo un paio di ore a parlare del più e del meno. Emma decise di non dirmi nient’altro sulla discussione alla quale avevo assistito e io colsi l’occasione per raccontarle di Étienne e delle follie di Valentina. Ogni tanto la mia amica sbirciava il telefonino, probabilmente in attesa di qualche telefonata importante o di qualche messaggio. Si comportava in modo strano. Terminato il nostro aperitivo, mi accompagnò verso la fermata della metro. Passando sotto casa sua, che si trovava sulla strada per la fermata di Porta Garibaldi, notammo una figura seduta sulle scale del portone, in attesa. Era la sua amica che, con molta probabilità, la stava aspettando per chiarire. Ci avvicinammo e notai subito gli occhi gonfi della ragazza. Doveva aver appena pianto. «Cosa ci fai qui?», chiese Emma, un po’ in imbarazzo. «Ho bisogno di parlarti», le rispose la ragazza, fissandomi. «Lei è Rebecca, una mia carissima amica. Rebecca, ti presento Elena». Le strinsi la mano, sentendomi un po’ di troppo. «Piacere di conoscerti Elena. Non preoccuparti Emma, posso proseguire da sola. Grazie per l’aperitivo», osservai la sua amica, che aveva iniziato a fissare la punta delle scarpe, non riuscendo a sostenere lo sguardo di Emma, e aggiunsi: «Vi lascio sole. Buona serata». Mi salutarono entrambe con un mezzo sorriso. Mi avviai alla metropolitana e, dopo qualche passo, mi voltai per vedere cosa stesse succedendo. Le due ragazze si stavano abbracciando. Dovevano aver fatto pace. Proseguii per la mia strada. Arrivata a casa, mi preparai una camomilla bollente e mangiai qualche biscotto. Poi scrissi una lunga e-mail a Cristian, raccontandogli della mia giornata. Ero di nuovo sola, ma non ero più triste. Mi sembrava che la vita potesse migliorare da un momento all’altro, senza bisogno di grandi sforzi. Avevo di nuovo fiducia nel futuro.

11 LA CITTÀ DELLA MAGIA

Il lavoro era sempre più impegnativo. Le spose, all’avvicinarsi della fatidica data, diventavano isteriche e chiamavano in continuazione per assicurarsi che tutto fosse perfetto. Litigavo con i fiorai e con i catering per riuscire ad avere esattamente quello che avevo chiesto e per far rispettare consegne e tempistiche. Mi agitavo come una trottola impazzita per la città, tra atelier, gioiellerie, ville e chiese. Consumavo scarpe ed energie. Ero distrutta, ma stavo diventando brava e mi venivano assegnati incarichi ogni giorno più importanti. Valentina continuava a rendermi la vita impossibile, ma era troppo impegnata a incrementare il fatturato dell’azienda per assediarmi con i suoi ridicoli appuntamenti al buio. Il suo unico obiettivo adesso era Parigi, della mia attività sessuale, per fortuna, non si preoccupava più. Io avevo bisogno di una pausa, di staccare un po’ da quel mondo fatto di pizzi, confetti e glassa sulle torte, quindi decisi di passare un fine settimana a Venezia. Avevo voglia di rivedere qualche vecchio amico, di passeggiare tra le calli silenziose del Ghetto, di mangiare pesce fresco e di bere spritz seduta a un tavolo davanti alla laguna. Avevo voglia di tornare a casa. Chiamai mia madre per avvisarla che avrei passato il weekend da lei e il venerdì sera, con il mio trolley e la mia divisa d’ordinanza (tubino e cappotto neri, décolleté di pelle, flap bag), salii su un treno. Destinazione: pace. Arrivata a Venezia, fui subito accolta dalla nebbia fitta che aveva avvolto la città. L’acqua scura dei canali era immobile e densa. Il silenzio acquietava gli animi. Presi al volo un battello fuori dalla stazione Santa Lucia e mi diressi verso il sestiere di Castello, dove abitava mia madre. Presi posto in fondo alla barca, all’aperto, nonostante il freddo, e mi misi ad ammirare il Canal Grande e le facciate dei palazzi illuminati. Scesi alla fermata di Rialto, sotto il famoso ponte, e mi intrufolai per le stradine deserte, in direzione della grande piazza in cui ero cresciuta da bambina, Campo Santi Giovanni e Paolo. Arrivata sotto casa di mia madre, mi fermai un attimo a osservare la piazza. Mi sentivo protetta. Suonai al campanello e attesi che mia madre aprisse la porta. Non la vedevo da mesi e avevo tante cose da raccontarle. Quando mi vide, mi abbracciò con così tanta foga che ebbi difficoltà a ricambiare il saluto. La casa, come al solito, sembrava un campo di battaglia. Le donne della mia famiglia non si smentivano mai. Mia madre aveva sessant’anni, amava vestirsi in modo appariscente e non usciva mai di casa senza un golfino leopardato o un paio di vistosi orecchini. Insomma, due donne, due stili. Ma io l’adoravo. Si era separata ancora molto giovane da mio padre e viveva da sola. Negli anni aveva avuto delle storie con altri uomini, ma aveva sempre preferito conservare la sua libertà. Diceva che dopo aver provato le gioie di un matrimonio fallito, niente funzionava di più di una relazione a distanza. «Ognuno a casa sua», ripeteva e sembrava non essersi mai pentita delle sue scelte. Dopo avermi liberata dal suo abbraccio, mi guardò: «Sei diventata pelle e ossa», disse, prendendo la

mia valigia e dirigendosi verso quella che un tempo era stata la mia camera da letto. «Lavori troppo e ti dimentichi di mangiare?» «Certo che mangio, mamma. Ho solo perso qualche chilo e sono in formissima». «Non starai seguendo una delle tue strampalate diete, vero?» «Ma no! Basta diete, semplicemente mangio bene e il mio corpo lo dimostra! Fidati di me, una volta tanto». «Va bene, stasera ti ho cucinato una cenetta coi fiocchi e non ammetto lamentele. Dovrai mangiare tutto». Mia madre aveva sopportato per anni le mie fissazioni con il cibo e sapeva bene quanto potessi essere pesante quando mi mettevo a parlare di diete e chili in eccesso. Feci una doccia veloce, poi indossai una delle mie vecchie tute e la raggiunsi in cucina. Sul tavolo della cucina facevano bella mostra di sé bigoli con le acciughe, baccalà mantecato e del profumatissimo radicchio trevigiano alla piastra. Mangiai tutto con gusto. Le mie cene milanesi spesso si riducevano a grosse insalate o tè con i biscotti. Forse avevo davvero bisogno di un corso di cucina. «Raccontami un po’ come vanno le cose. Mi manchi tanto... Come va il nuovo lavoro?» «Benissimo. Mi sono finalmente ambientata e adesso riesco a organizzare un intero matrimonio senza bisogno di chiedere aiuto ai colleghi». «Sono fiera di te. Sapevo che ce l’avresti fatta. E l’amore?», chiese mentre mi servivo un’altra porzione di baccalà. «Possiamo passare alla domanda successiva?», risposi ridendo. «Stai ancora pensando a quel cretino che ti ha lasciata per un manico di scopa?». «No, quella è una storia morta e sepolta. Ho frequentato qualcuno in queste settimane, ma niente di serio». Non avevo segreti per lei. Sono figlia unica e abbiamo sempre avuto un legame molto forte. Mia madre non mi ha mai parlato molto di mio padre, ma non ha mai nascosto i suoi sentimenti di rivalsa nei confronti del sesso maschile. Ha avuto, però, una bella vita. È sempre stata una donna affascinante e si è concessa diverse avventure. «Colleghi carini?», era troppo curiosa per mollare. Arrossii, pensando a Étienne, ma subito si materializzò nella mia testa la lettera di Juliette, circondata da un’ingombrante insegna al neon con su scritto “FIDANZATO”. «Mmm... qualcuno. Ma sono ancora in una fase di studio». «Fai bene, divertiti! Fallo adesso che puoi. I trenta sono gli anni migliori per una donna. Sei giovane e carina, non avrai problemi a trovare un uomo che ti ami e ti rispetti. E – ricorda – se quell’uomo non dovesse farsi vivo, potrai sempre dormire in diagonale nel letto. È un lusso che alle persone in coppia non è concesso». Sorrisi. Riusciva a trovare sempre il lato positivo delle cose. Finita la cena, andai a fare due passi. In quei giorni c’era stata un po’ di alta marea e diversi tratti della città erano stati sommersi. L’acqua alta mi è sempre piaciuta. Nonostante i disagi e la necessità di indossare orrendi stivali di gomma alti fino al ginocchio, il fatto che un’intera città sia allagata per molte ore della giornata mi fa pensare a quanto la natura sia potente e quanto piccoli e insignificanti siamo noi. Quella sera riuscii ad arrivare a piazza San Marco senza bisogno di stivali. Non c’era nessuno e la foschia avvolgeva con garbo la basilica, le Procuratie e palazzo Ducale. Mi avvicinai alla riva, all’altezza dell’imbarcadero delle gondole, e respirai l’aria di quel mare fermo e

grigio. Era l’odore di casa. Passeggiai fino al ponte dei Sospiri, incrociando qualche venditore ambulante di rose e coppiette di stranieri innamorati, e rimasi a guardare l’isola di San Giorgio in lontananza. In quel momento pensai a Cristian, mi sarebbe piaciuto essere lì con lui. Avrei potuto mostrargli la mia città e ci saremmo potuti perdere tra le calli magiche della laguna. Scacciai via quel pensiero un po’ triste e rientrando verso casa mi fermai ad ascoltare un gruppo che suonava in una piccola osteria, dove incontrai qualche vecchio amico. Trascorsi una bella serata a bere vino e a chiacchierare e tornai a casa allegra. Non dormivo nella mia camera da molto tempo e sdraiarmi sul mio vecchio letto mi fece sentire una quindicenne, piena di sogni e di speranze. La mattina dopo fui svegliata dall’odore del caffè. Mia madre stava preparando la colazione e canticchiava felice. «Buongiorno», dissi, riemergendo dalle braccia di Morfeo. «Dormito bene, bambina mia?», mi disse con gli occhi che le brillavano. «Come una regina. E ho proprio voglia di una tazzina del tuo ottimo caffè». Avevo imparato da lei a fare un buon caffè. Mia madre ne beveva anche più di me, ma quando il medico le aveva ordinato di ridurre le dosi per controllare la pressione, gli aveva risposto che il caffè era il segreto della sua bellezza e che, se avesse dovuto lasciarsi uccidere da qualcosa, preferiva che quel qualcosa fosse il suo elisir d’amore. «Sono andata a prendere le brioche nella tua pasticceria preferita, sono freschissime». Ne addentai una e sentii la sfoglia sciogliersi in bocca. Era proprio bello, ogni tanto, farsi viziare dalla propria mammina. «Cosa pensi di fare oggi?», chiese, servendomi una seconda dose di caffè. «Pensavo di andare in Giudecca. Ho bisogno di farmi predire il futuro». Annuì e mi sorrise. «Salutami Axi». La mia amica abitava in un bel palazzo con vista sul canale, che aveva ereditato dalla sua famiglia. Nel vecchio cortile coltivava le sue rose che in primavera riempivano di colore e di profumo tutta la zona circostante. Era una donna di quarant’anni, con una folta chioma rossa e un bel sorriso. Faceva la pittrice e aveva trasformato il primo piano del palazzo in uno studio. Si diceva che avesse avuto decine di storie d’amore con i tanti artisti e attori che avevano alloggiato nel lussuoso Hotel Cipriani, a due passi da casa sua, ma nessuno poteva affermarlo con certezza. Axi aveva la passione per le stelle e la cartomanzia. Le amiche, ma non solo, passavano da lei per farsi fare l’oroscopo o farsi leggere i tarocchi. Aveva uno spiccato sesto senso e riusciva a capire al volo le persone. Molti in città la chiamavano “la strega”. Lei andava fiera di quel soprannome e viveva nel suo bel palazzo tutta sola, in compagnia di un enorme gatto persiano che aveva chiamato Cagliostro. Suonai al cirofono e, come sempre, invece di rispondere, Axi si affacciò per controllare chi fosse. Odiava i marchingegni moderni, così diceva. «Coco, che sorpresa! Non sapevo fossi in città», gridò, facendomi segno di entrare. Superai il giardino, ormai spoglio per l’inverno alle porte, e mi diressi ai piani superiori. Mi abbracciò con affetto e io mi sentii di nuovo a casa. Indossava una lunga tunica blu, sporca di vernice. Al collo aveva le sue pietre portafortuna e portava

un anello a ogni dito della mano. «Come mai da queste parti?», mi domandò, sgranando gli occhi. Mi accomodai nel suo enorme studio, eravamo circondate da quadri di donne e cieli stellati. «Avevo nostalgia di casa». «A Venezia nascono tutti viaggiatori, ma tutti hanno bisogno di tornare, prima o poi». Mi sedetti sull’enorme divano di velluto, sul quale faceva accomodare le sue modelle, e Axi corse a riempire il bollitore per il tè. «Come stai?», mi chiese, prendendo posto accanto a me. «Ho pensato spesso a te». Eravamo molto legate. Ogni anno mi preparava l’oroscopo e interrogava le stelle per me. Non credevo molto a queste cose, eppure ne ero morbosamente attratta. Non ero sicura che la posizione dei pianeti e delle stelle potesse influenzare la mia vita, però trovavo consolatorio farmi raccontare cosa ne sarebbe stato di me. «La mia vita è un caos totale. Il trasloco, il lavoro nuovo, le delusioni amorose, uomini che vanno e vengono...». «Meglio una vita complicata che un’esistenza noiosa. Ricordatelo sempre». «Vero, ma in questo momento niente va come dovrebbe. Vorrei soltanto che qualcuno mi regalasse un po’ di felicità, senza chiedere nulla in cambio. Che fine ha fatto la fortuna?». «La fortuna arriva solo quando sei disposta ad accettarla. Devi essere nella condizione giusta per riuscire a farti circondare dall’energia positiva». Axi credeva molto nell’energia, nel karma e nel destino. Ne parlava in maniera così coinvolgente che riusciva ad appassionarti. «Che ne dici se ti leggo le carte?» «Sono venuta per questo», le risposi piena di speranza nella voce. «Bene. Non fa mai male chiedere consiglio ai tarocchi. Se non ti piace quello che raccontano, puoi sempre decidere di non crederci». «Sciocca. Ho un disperato bisogno di credere in qualcosa. Soprattutto nell’amore». «Tutte le donne che si siedono su questo divano hanno bisogno di sentirsi dire che l’amore arriverà presto. Siamo tutte uguali». «Già, delle inguaribili romantiche». «Siamo anche delle stupide. Riusciamo a sacrificare molte cose belle nella nostra vita in nome dell’amore, e spesso, non ne vale la pena». Annuii sorridendo. Era una donna molto saggia. «Vogliamo iniziare?», disse stringendomi le mani. Si alzò dal divano e andò a recuperare un vecchio mazzo di tarocchi che teneva sopra la mensola di una grande libreria. Tolse alcuni oggetti dal tavolino che aveva di fronte e cominciò a mescolare le carte. Poi mi fece sollevare parte del mazzo e iniziò a disporre i tarocchi sul tavolo. «Non hai avuto dei bei mesi». «No, direi che possiamo cancellarne gran parte». «La tua vita però sta per cambiare ancora». Altri cambiamenti? Iniziava a essere davvero faticosa questa faccenda... «Vedi qualche uomo all’orizzonte?», le chiesi per passare subito al sodo. «Vedo un uomo, carismatico e affascinante. Un uomo che conosci». Pensai subito a Cristian. Il destino me l’avrebbe riportato indietro? «È un uomo straniero, misterioso, in cui ti sei imbattuta ultimamente». «Tornerà da me?». Stavo cominciando a sognare.

«È un uomo che sarà presente nel tuo futuro e che sarà molto importante per te. Devi solo lasciarlo avvicinare di più alla tua anima». Era quello che volevo sentirmi dire. Mi sentii sollevata. Non importava quanto ci fosse di vero in quello che raccontavano le carte. Volevo solo avere un po’ di fiducia. «Mi sembra una buona notizia». «Ottima direi. Le carte dicono che il prossimo anno sarà quello dell’amore. Non era quello che volevi?», mi chiese sorridendo. Era proprio quello che desideravo. «Per fortuna quest’anno sta finendo, allora». «Non sei cambiata, sei sempre la solita pessimista. Ti sarà pur capitato qualcosa di bello?». In realtà mi erano capitate molte cose belle, ma perché accontentarsi di vedere il bicchiere mezzo pieno quando lo si poteva avere colmo? «Ho avuto alti e bassi, come tutti. E anche se sono caduta molte volte, mi sono sempre rialzata». Non esisteva metafora più calzante per me. «Questo è lo spirito giusto! Non bisogna mai perdersi d’animo. Vedrai che tutto andrà per il meglio». Non è meraviglioso quando le persone a cui tieni molto ti dicono che andrà tutto bene? «Grazie Axi. Vedremo se le carte avranno ragione». «E adesso che abbiamo interrogato il futuro, che ne dici di ricambiare il favore e farmi da modella? Te lo chiedo da anni». Aveva provato molte volte a convincermi, ma la mia scarsa autostima mi aveva sempre fatto desistere. Mi metteva in imbarazzo, anche se dovevo farlo per un’amica. «Lo sai che mi vergogno», provai con la scusa di sempre. «Non vergognarti mai del tuo corpo o di quello che sei. La bellezza non ha a che fare con l’aspetto fisico. È qualcosa che si nasconde dentro». «Non credo di essere all’altezza». «Questo lascia che lo decida io». Si diresse verso un cavalletto su cui era posata una tela ancora immacolata. «Dai, su, proviamo». Perché no? In un periodo di grandi cambiamenti, potevo anche permettermi il lusso di farmi ritrarre da una delle mie più care amiche. Axi sistemò una stufetta elettrica vicino al divano, per evitare che prendessi freddo, poi mi diede una vestaglia e mi indicò un paravento, dietro il quale andarmi a spogliare. Non avevo mai fatto una cosa del genere. Appena mi fui liberata dei vestiti, pensai a cosa avrebbe potuto dire Cristian vedendomi in quella situazione. Di sicuro, avrebbe apprezzato la mia audacia. Sorrisi e mi avvicinai al divano. «Sei bellissima!», esclamò entusiasta Axi. «Grazie», mi sentii arrossire. «Cerca una posizione naturale». Mi osservava per capire quale posa mi avrebbe valorizzata di più. Mi sistemai e Axi cominciò a dipingere. Era difficile restare immobile, ma il calore della stufa mi rilassava. Facemmo una pausa veloce a pranzo e poi riprendemmo la sessione di pittura. Voleva che rientrassi a Milano con il quadro e avevamo poco tempo a disposizione. Passai tutto il pomeriggio nuda sul divano di Axi. Lei era concentrata nella pittura e io lasciavo che la mia mente volasse lontano. Pensavo a Cristian, a un suo possibile ritorno e, mentre restavo immobile, a fantasticare sul nostro futuro, mi addormentai.

Al tramonto, Axi mi svegliò. «Abbiamo finito», disse mostrandomi la tela. Rimasi senza parole. La mia sagoma stilizzata riempiva tutto il quadro: ero bellissima. «Grazie, Axi. Mi ha fatto bene stare con te oggi. Mi regali sempre dei momenti unici. Ti farò sapere se le carte hanno detto la verità». «Domani, prima di partire, avrai il tuo dipinto. Dovrebbe essere asciutto». La ringraziai ancora e ci salutammo, abbracciandoci forte. Dopo aver lasciato il palazzo, mi avviai verso l’attracco del battello. Avevo passato una giornata strana e magica e mi sentivo rilassata. All’altezza di casa di mia madre, notai che tutte le luci erano spente. Doveva essere uscita. Decisi di passeggiare ancora per la città ormai buia. Camminare a Venezia era un’esperienza unica. Conoscevo perfettamente ogni angolo della città, eppure riusciva ancora a sorprendermi. La sua bellezza non aveva fine. Arrivata all’altezza di uno dei miei ristoranti preferiti, sentii una voce che mi chiamava. «Rebecca! Coco! Sei tu?». Mi voltai cercando di decifrare il volto dell’uomo che aveva fatto il mio nome. La zona era poco illuminata e dovetti avvicinarmi per capire chi fosse. Era Pietro, il mio ex fedifrago che avevo lasciato poco prima di incontrare Niccolò. «Ciao», lo salutai con freddezza. Non gli avevo ancora perdonato di avermi tradita. Per di più con una balenottera, e nel mio letto. «Ciao, pensavo fossi a Milano». Sorrise imbarazzato. Non era cambiato molto, forse aveva perso qualche chilo. Era particolarmente elegante e indossava una camicia stirata alla perfezione. Con molta probabilità, qualcuno si prendeva cura dei suoi abiti, cosa che io non avevo mai fatto. «Sono qui per il weekend». «Come stai?». Sembrava sinceramente interessato. «Sto. E tu?», non avevo molta voglia di parlare con lui. «Sto bene. Non è stato facile, lo sai. Però adesso va molto meglio». Non era stato facile per colpa sua! Un altro maschio ritardato in arrivo... «Sai», aggiunse, «sto frequentando una persona. È una cosa piuttosto seria». «Buon per te». Ero seccata dalla piega che stava prendendo la conversazione. Non volevo sapere niente della sua vita. Perché gli ex non avevano il buongusto di sparire per sempre dalla faccia della Terra? «Vedi, è un po’ strano... si tratta di Veronica». «Veronica? Chi è Veronica?» «La tua amica del liceo!», asserì quasi infastidito dalla mia smemoratezza. Possibile che le mie amiche non facessero altro che fidanzarsi con i miei uomini? «Bene, vi auguro tanta felicità». Mi voltai e mi allontanai senza neppure salutare. Pietro rimase qualche attimo a fissarmi, senza avere il tempo di replicare, e poi fu inghiottito dal buio. Quando rientrai a casa, incontrai mia madre. Era di ottimo umore. Era stata a cena con un suo amico e doveva essersi divertita molto. Probabilmente aveva una vita sessuale più intensa della mia. «Com’è andata la tua giornata, tesoro?». Si stava preparando una tisana alle erbe. «Benissimo... Fino a quando non ho incontrato Pietro per strada. Sai che si è fidanzato con una mia compagna del liceo?»

«Lo sapevo, cara, parlano già di matrimonio. Ma non pensavo ti importasse». Per mia madre, una volta che un fidanzato si trasforma in ex è da considerare defunto. «I maschi hanno questa incredibile capacità di rifarsi una vita molto in fretta», riflettei io ad alta voce. «Non pensarci. Ormai fa parte del passato. Un maschio morto in più, una donna triste in meno». «Sono stanca di farmi ferire in continuazione dagli uomini», sbottai. «Come diceva la tua amica Chanel? “Nessun uomo ti farà sentire protetta e al sicuro come un cappotto di cachemire e un paio di occhiali scuri”». Le sorrisi. Aveva ragione lei, non era il caso di stare male per l’ennesimo imbecille che non frequentavo più da un anno e mezzo. L’unica cosa importante adesso era il futuro. Passai tutta la domenica in giro con mia madre. Facemmo qualche acquisto al mercato di Rialto, pranzammo in un ottimo ristorantino, e prendemmo il caffè in un bar affacciato sul Canal Grande. Fu una giornata rilassante e finalmente riuscii a non pensare a niente. Era proprio quello di cui avevo bisogno. La sera rientrai a Milano, con il quadro di Axi stretto a me. Arrivata a casa, trovai un pacchetto sullo zerbino. Doveva averlo ritirato qualcuno al mio posto e me l’aveva lasciato davanti alla porta. C’era scritto il mio nome e il mio indirizzo, ma mancava il mittente. Entrai, sistemai la valigia in camera, appoggiai il quadro sul divano, e poi scartai il misterioso pacco. Tra eleganti veli di chiffon era adagiata un’elegante edizione di un libro fotografico su Chanel. Chi mi faceva un regalo così personale? Provai a cercare una dedica o un biglietto, ma non trovai nulla. Qualcuno che mi conosceva molto bene, e voleva restare anonimo, pensava a me. Mi sentii lusingata da quel gesto. Sorrisi un po’ emozionata e sfogliai le pagine del libro, annusando l’odore della carta. Avevo un ammiratore segreto.

12 IL SEGRETO DI EMMA

«Nessuna novità dal tuo spasimante misterioso?», chiese Claudio mentre scolava gli spaghetti. «No, nelle ultime settimane non ho ricevuto più nulla, né regali né messaggi». «Mmm, molto strano...». Addentai una carotina, dopo averla immersa nel pinzimonio. «Potrebbe essere stato Cristian», dissi speranzosa. «Potrebbe. Non ho sue notizie da un po’». «Nemmeno io». La cosa mi rattristava molto, ma immaginavo fosse occupato con la sua tournée. «È fatto così. È un ragazzo molto impegnato e ha sempre la testa tra le nuvole. Una volta è sparito per due anni». Due anni erano lunghissimi. Mi ero molto affezionata a quel ragazzo e volevo restare in contatto con lui. «Sono pronti gli spaghetti?». Morivo di fame e Claudio era un cuoco provetto. «Ecco a lei, mademoiselle. Spaghetti ai frutti di mare cotti al dente per lei». «Come farei senza di te?», dissi affondando la forchetta nel piatto di pasta fumante. «Ti ciberesti di toast al prosciutto e biscotti», rise e si sedette accanto a me. Era stata una domenica molto tranquilla. Avevamo passato il pomeriggio a guardare un vecchio film al computer, poi Claudio aveva iniziato a cucinare e io mi ero messa a guardare distrattamente la TV. «È da un po’ che non sento Emma», gli dissi, mentre succhiavo con voracità una vongola dal guscio. «Già, mi è parsa molto occupata in questo periodo», mi confermò Claudio. L’avevo chiamata diverse volte per invitarla a cena, ma mi aveva sempre detto di essere troppo stanca per uscire. Ero preoccupata. «Domani proverò a chiamarla di nuovo, si comporta in modo strano». «Forse ha solo voglia di stare un po’ per i fatti suoi. Lo so che le vuoi bene, Coco, però dovresti rispettare la sua volontà». Claudio aveva ragione, dovevo smetterla di pensare che avesse dei problemi gravi. «Come procede la vostra agguerrita sfida in ufficio?», mi chiese, mentre mi versava dell’ottimo Vermentino. «Al solito. Lavoriamo tutti come dei matti, mentre l’arpia ci sta sempre con il fiato sul collo». Bevvi un sorso di vino e finii gli ultimi spaghetti rimasti. Claudio mi sapeva prendere per la gola. «E il tuo capo-fattorino?», rise, come faceva sempre quando accennava a lui. «È a Parigi. Quando è lontano, non rischio di fare brutte figure», sospirai. «E non rischi nemmeno di farti i fatti suoi». «Uff, ancora quella lettera... non so come fare a restituirgliela senza rischiare un’altra terribile gaffe. Non voglio pensarci adesso. Tu, invece? Novità? Come procede la storia con la giornalista?», gli chiesi con malizia. «Bene, ci frequentiamo spesso. Devo ammettere che mi piace molto».

«Finalmente una donna che soddisfa il nostro Signor Mastroianni! Dev’essere davvero speciale», adesso ero io a prendermi gioco di lui. «Sì, lo è. È carina, intelligente, brillante. Direi che è molto vicina alla mia donna ideale». «Allora la voglio conoscere subito». «Sarà fatto», disse, servendosi un’altra porzione di pasta. Dopo aver gustato una deliziosa orata al forno con patate e aver fatto fuori l’intera bottiglia di vino, decidemmo di uscire per finire la serata con il bicchiere della staffa. Mentre scendevamo le scale, incontrammo la signora Leoncini, avvolta in una delle sue eleganti vestaglie. Stava fissando delle buffe decorazioni natalizie sulla porta. «Buonasera», disse Claudio divertito. «Oh, buonasera cari», rispose Sofia, mentre sistemava con del nastro adesivo una grossa stella dorata. «Si sta preparando al Natale, signora?» le chiesi quasi emozionata. «È il periodo più bello dell’anno, Rebecca, e io non vedo l’ora che arrivi», rispose lei sorridendomi dolcemente. «Anzi, credo che lo festeggerò già domani», aggiunse, strizzando l’occhio a Claudio, che le rispose con un ampio sorriso. «Ormai è arrivato l’inverno». Mi sistemai la cloche di tweed in testa e cercai nella borsetta un paio di guanti. «Facciamo qualche passo a piedi per scaldarci?», proposi per evitare la metro. «Ci sto! Sempre che non perda l’uso delle dita dei piedi per congelamento». Ci avviammo verso il lungo viale, alle spalle di Porta Romana e camminammo fino alla sede della Bocconi. C’era una bella birreria in zona, accogliente e sempre piena di studenti. «Che ne dici se ci infilassimo qui?», mi propose Claudio d’improvviso. «Hai voglia di ritornare ai tempi dell’università?», lo canzonai. «Questo posto mi ricorda l’inizio di tutto, quando ero uno spiantato cronista alle prime armi in cerca della propria strada». Entrammo. La temperatura era così alta, rispetto a quella esterna, che le nostre orecchie avvamparono di colpo. «Almeno staremo al caldo», commentai sollevata. Detesto l’inverno. Se il mondo fosse un posto perfetto, sarebbe ovunque sempre primavera. «C’è un tavolo libero laggiù». Claudio indicò un tavolino in un angolo, vicino a una lunga tavolata di ragazzi che indossavano le maglie di una squadra di rugby. Appena ci sedemmo, sentii una voce familiare che mi chiamava: «Rebecca! Anche tu qui?». Un brivido di terrore mi percorse la schiena. Avrei riconosciuto quella voce tra mille. «Valentina, ma che sorpresa!», dissi, cercando di mascherare il fastidio che provavo. Si trovava a un tavolo poco distante dal nostro ed era in compagnia di un ragazzo che avrà avuto almeno dieci anni meno di lei. «Come mai da queste parti?», le chiesi, mentre Claudio aveva iniziato a ridacchiare come un cretino. «Pensavo abitassi dall’altra parte della città». Valentina si era alzata e ci stava raggiungendo. Sembrava molto su di giri. Doveva avere bevuto parecchio perché mi baciò sulle guance come fossimo vecchie amiche. «Sono venuta per incontrare Michele», mi indicò il giovane al tavolo. «È carino, no? È la prima volta che usciamo insieme ed è già scattata la scintilla». Non riusciva a stare ferma e continuava a ridere e ad agitare le mani. «Vedo che anche tu sei in buon compagnia. Non mi dire che hai deciso di perdere la verginità?».

Era davvero una donna imbarazzante. «Lui è Claudio», le risposi, ignorando la sua pessima ironia. Claudio sorrideva divertito. «Finalmente hai trovato un uomo», disse ridendo di gusto. «Sono un amico», intervenne Claudio. «Io e Rebecca siamo vicini di casa». «Una storia con un condomino... Comodo! Sapevo che, sotto sotto, eri una porcellina...». «Non dovresti tornare dal tuo cavaliere?», cominciavo a innervosirmi. «Ah, certo, il bel giovine mi aspetta». Era ubriaca. «Ciao vicino, dacci dentro. La nostra Biancaneve ha bisogno di una bella ripassata», strizzò l’occhio a Claudio, che mi fissava allibito. Lasciammo che si allontanasse, continuando a fissarla, senza proferire parola. «Quella sarebbe il tuo temutissimo superiore?», chiese Claudio, mentre studiava la lista delle birre. «È un mostro, non trovi?», ero scioccata. «Credo che non fosse lucida. Spero non sia così anche in ufficio». «Non è mai così su di giri, ma è comunque una bella spina nel fianco». «Vorrà dire che brinderemo a lei». Ordinammo da bere e rimanemmo a chiacchierare. Ogni tanto controllavo il telefono, per vedere se Emma avesse risposto ai miei messaggi, ma anche quella sera non si fece viva. Il giorno dopo arrivai in ufficio molto presto e di ottimo umore. Morivo dalla curiosità di vedere in che condizioni si sarebbe presentata Valentina. I miei colleghi non erano ancora arrivati, così decisi di prendermi un caffè prima di dare il via alla giornata. Mentre mi avvicinavo alla zona relax, mi parve di scorgere qualcuno che stava prendendo a pugni la macchinetta del caffè. «Va tutto bene?», chiesi avvicinandomi. Étienne si girò e mi fissò. Smise di picchiare il distributore e mi sorrise. «Ho inserito le monete, ma il caffè non è uscito», disse, cercando di scusarsi. «Sì, capita. Non solo fa un pessimo caffè, ha anche un pessimo servizio. Cosa ci fai qui a quest’ora? Credevo che i capi potessero permettersi il lusso di arrivare in ritardo». «Sono rientrato ieri sera da New York e il jet-lag non mi ha lasciato dormire. E tu? Tutti fanno a gara per arrivare all’ultimo minuto in ufficio. Non ti facevo così mattiniera». Il mio perenne anticipo mi aveva finalmente fatto fare bella figura. «Sono andata a letto presto e mi sono svegliata con il canto del gallo. Ma ora ho bisogno del caffè per carburare. Che si fa?». Non potevo lavorare senza un’adeguata dose di caffeina nelle vene. «Ho un’idea». Prese il telefono e sfogliò la rubrica. «Pronto, sono Étienne. Potrei ordinare due colazioni a domicilio? Due cappuccini e due brioche alla crema. Mandi pure tutto in sala riunioni, al secondo piano dell’agenzia. Grazie!». Come faceva a sapere che amavo il cappuccino e le brioche alla crema? «Ti consegnano la colazione a domicilio?» «Sono un cliente affezionato del bar, mi conoscono e mi fanno qualche favore ogni tanto». Mi sorrise e io ebbi un capogiro. «Come sapevi della mia passione per le brioche alla crema?». Quell’uomo era pieno di sorprese. «Ti ho vista una volta addentarne una in pausa caffè. La crema ti era colata sul mento e tu cercavi di ripulirla con la lingua». Ricordavo. La crema mi aveva macchiato una gonna di Moschino a cui ero molto affezionata e che avevo dovuto mandare in tintoria. Che figuraccia. «Bando alle chiacchiere. La nostra colazione ci aspetta in sala riunioni».

«Non so se posso. Tra un po’ arriveranno gli altri». L’ufficio era ancora deserto, ma presto i colleghi avrebbero occupato le loro postazioni. «Non lo diremo a nessuno. Sarà il nostro segreto». Una colazione segreta a domicilio. Non era male come inizio settimana. Ci avviammo verso la grande sala. Poco dopo arrivò un ragazzo con una giacca scura che poggiò sul tavolo un elegante vassoio. «Grazie Sandro». «Dovere, signor Étienne. Passo a ritirare tutto dopo». Si voltò e ci lasciò soli. Lo guardai mentre riempiva il suo cappuccino con due bustine di zucchero. «Ti piace amaro, vedo?» «La dolcezza è necessaria, soprattutto al mattino». Sfoderò il suo irresistibile sorriso. «Dove hai imparato l’italiano?». Addentai la mia brioche, facendo attenzione a non macchiarmi. «Ho studiato un anno a Roma. Lo ricordo come un periodo bellissimo». Mi fissò con i suoi occhi blu e per un momento mi dimenticai di me stessa. «Hai degli occhi molto intensi». Sentii una fitta allo stomaco. «Ehm... credo sia merito delle occhiaie». «Mi piacciono le tue occhiaie. Sono sexy». Un altro complimento e il mio cuore sarebbe esploso. Dal corridoio cominciavano ad arrivare le voci dei colleghi, che alla spicciolata entravano in ufficio. Non volevo che mi vedessero lì da sola con lui, quindi finii in fretta il cappuccino e mi alzai di scatto dalla poltrona. «Devo proprio tornare alla mia scrivania», dissi sorridendo, mentre mi avviavo alla porta. «Grazie per la colazione». «Aspetta!». Étienne si alzò e mi venne lentamente incontro. «Non vorrai tornare in ufficio così». Mi appoggiò una mano sulla guancia e con un dito mi sfiorò leggermente il labbro superiore. «Avevi un baffo di cappuccino sulla bocca», mi disse, allontanandosi un po’ da me. Io non mi mossi. Lo guardai per un istante, poi abbassai gli occhi. Avevo la pelle d’oca. «Grazie...», balbettai. «Adesso devo andare». Corsi fuori dalla sala mentre lui rimaneva immobile a fissarmi. Étienne mi aveva turbata. Mi infilai in bagno, mi bagnai le mani e mi rinfrescai il viso. Ne avevo bisogno. Aveva solo cercato di pulirmi la bocca da un baffo di cappuccino e io mi ero imbarazzata come una scolaretta. Possibile che quell’uomo mi facesse sempre sembrare ridicola? Raggiunsi la mia scrivania e trovai i colleghi già ai loro posti. Valentina aveva l’aria stanca e pigiava controvoglia i tasti del computer. «Buongiorno», le dissi, sfoggiando il più falso dei miei sorrisi. La serata precedente doveva averla piegata in due. «’ngiorno», rispose, senza nemmeno sollevare lo sguardo dal monitor. «La macchinetta del caffè è guasta». «Passato una bella serata?», avevo voglia di provocarla. Non potevo perdermi l’occasione di ricordarle che si era resa ridicola (o, meglio, più ridicola del solito). «Non sono fatti tuoi», rispose laconica. Capii che era meglio lasciar perdere e mi accomodai alla scrivania. Aprii la posta e trovai una e-mail di Emma: “Scusami se sono stata un po’ assente in questi giorni, sto passando un momento un po’ complicato. Ci vediamo domani sera all’inaugurazione?”. Lo studio di Emma inaugurava un nuovo spazio e io e Claudio avevamo promesso di passare al

vernissage. Per l’occasione, avrei finalmente indossato il tubino di Dolce&Gabbana che avevo comprato il giorno in cui avevo fatto shopping con Étienne. Avevo voglia di rivedere Emma e di capire cosa le stesse capitando. Mi mancavano le nostre lunghe chiacchierate e volevo assicurarmi che stesse bene. L’indomani, qualche ora prima dell’evento, le telefonai. «Pronto, Emma, finalmente!». Stavo cercando di essere il più naturale possibile. «Ciao Coco, come stai?». Mi sembrava sorpresa di sentirmi. «Io bene, ma pensavo che tu fossi stata rapita dagli alieni. Sto provando a chiamarti da giorni...». «Lo so, scusami. Sono state giornate impegnative...». Mi stava nascondendo qualcosa, ne ero certa, ma non volevo insistere. «Non preoccuparti. L’importante è che tu stia bene. Magari questa sera scambiamo due chiacchiere, ho voglia di raccontarti le mie ultime novità». «Stasera sarà un po’ complicato, ci sarà tantissima gente e dovrò stare dietro a tutti». «Peccato», la mia voce tradì una certa delusione. «Vorrà dire che ci rifaremo più avanti». «Te lo prometto». «Tutto a posto per i nostri inviti?» «Certo, tu e Claudio siete in lista. Fammi sapere se vuoi portare qualcuno, devo aggiungerlo il prima possibile». Purtroppo, non avevo nessuno da invitare. «Saremo solo noi due. Anzi, spero ci sia gente interessante». «Hai intenzione di rimorchiare qualche bell’architetto?» «Perché no! È ora che mi rimetta in pista, non credi?». Appena giunti in via Tortona, vedemmo una lunghissima fila di gente che aspettava di entrare. Ci mettemmo in coda e attendemmo il nostro turno. «Speriamo sia veloce», dissi, mentre mi stringevo nel cappotto. Indossavo un paio di scarpe con i tacchi altissimi e non avevo voglia di rimanere immobile a lungo. Mentre eravamo lì fuori, vedemmo uscire Emma. Indossava un paio di pantaloni di pelle nera, attillatissimi, e cercava di accendersi una sigaretta, proteggendo con una mano l’accendino. «Emma!», Claudio la chiamò e lei si voltò e ci sorrise. «Ciao ragazzi, vi stavo aspettando». Fece un cenno al buttafuori per indicare di farci passare e riuscimmo a superare la fila. «Come stai?», le chiesi, felice di rivederla. Era molto in forma, nonostante il suo viso stanco. La scelta di un look total black esaltava il suo incarnato chiaro. «Sto bene, grazie, entriamo?», ci sorrise distrattamente. «Sì, si gela». Il locale era un ex capannone riconvertito a spazio espositivo. Al centro, in occasione dell’inaugurazione, era stata creata una pista da ballo. Ovunque, dominavano il bianco e il nero e l’illuminazione era studiata in modo che ogni angolo avesse una sfumatura diversa. «È stupendo», gridai, nella speranza che qualcuno mi sentisse. «Grazie, ci abbiamo lavorato per mesi. Ospiterà mostre, eventi e festival importanti. Venite, vi faccio fare un piccolo tour». Mentre ci portava in giro per le sale laterali, nelle quali esponevano dei giovani artisti, sentimmo qualcuno che la chiamava: «Emma, ma dove ti eri cacciata?». Ci voltammo e notammo una ragazza riccia in un elegante abito di pizzo che reggeva due bicchieri di prosecco. L’avevo già vista, ma non ricordavo in quale occasione.

«Ti ho preso da bere», le si avvicinò, porgendole un bicchiere. «Stavo facendo la guida turistica! Lui è Claudio, il mio amico giornalista, e lei è Rebecca, wedding planner. E lei è Elena». «Noi ci siamo già conosciute», disse, guardandomi con un po’ di imbarazzo. Solo allora mi ricordai del pomeriggio sotto casa di Emma in cui le avevo viste litigare. «Certo, mi ricordo...», adesso ero leggermente tesa anche io. «Come stai?» «Bene, grazie, stasera sto molto bene», sorrise. Strinse la mano a Claudio e bevve un sorso del suo vino frizzante. Avvertii una punta di gelosia per quell’amica che, a quanto pare, Emma frequentava spesso. «Andiamo a prenderci qualcosa da bere? Ho bisogno di alcol e siamo gli unici senza bicchiere in mano», disse Claudio, indicandomi il bar. Salutammo e ordinammo anche noi due bicchieri di prosecco. Il locale era pieno di gente che ballava. «Ci buttiamo?», mi chiese Claudio, mentre muoveva i piedi a ritmo di musica. «Non adesso, grazie. Ho i tacchi troppo alti. Ma tu vai pure. Io mi faccio un giretto e provo a spezzare qualche cuore». «Ottima idea. In bocca al lupo!». «Crepi il lupo!». Andai in avanscoperta. Provai a cercare Emma, ma non riuscii a trovarla. C’era così tanta gente che era difficile non perdersi di vista. Mi intrattenni con un paio di colleghi della mia amica che avevo conosciuto a una festa, poi mi diressi verso il bagno. Per raggiungerlo dovevo attraversare un lungo corridoio poco illuminato. Iniziai a percorrerlo, quando mi sorse il dubbio che non fosse la direzione giusta. Mentre mi voltavo per tornare indietro, udii un fruscio provenire dal fondo e notai una coppia che si baciava appassionatamente. Cercai di allontanarmi con discrezione, ma mio malgrado, come mi accadeva sempre più spesso in situazioni delicate, inciampai. Una voce familiare chiese: «C’è qualcuno?». Mi avvicinai per cercare di capire se il mio sospetto fosse fondato e provai a mettere a fuoco le due persone. Solo allora riconobbi un paio di pantaloni di pelle e una folta chioma riccia. «Voi... Voi due...». Non riuscii a terminare la frase, in preda allo shock. «Posso spiegarti tutto», disse Emma, avvicinandosi.

13 IL PIÙ BEL REGALO DI NATALE

«Non riesco ancora a credere che tu me l’abbia tenuto nascosto per così tanto tempo». Mi trovavo sul divano di Emma e bevevo una tazza di tè nero. «Non sapevo come dirtelo. Per me è stata una cosa improvvisa, che mi ha stravolto la vita». Erano passate un paio di settimane da quando avevo scoperto la relazione tra Emma ed Elena e facevo ancora fatica a crederci. Quella sera ero scappata via dalla festa senza dare spiegazioni a Claudio. Mi ero comportata da cretina, ma non sapevo cosa fare. «Ma cosa pensavi che dicessi o facessi? Sei una mia amica e se sei felice tu, sono felice io. Potevi parlarmene». «Come facevo a dirti che mi ero innamorata di una donna?». Era iniziato tutto una sera qualsiasi. Elena era andata a casa di Emma e avevano cenato insieme. Si frequentavano da un po’ di tempo e avevano scoperto di avere molte cose in comune. Quella sera avevano chiacchierato fino a tarda notte, poi si erano messe a guardare un film sul divano, la testa dell’una appoggiata sulla spalla dell’altra. E poi era successo. Si erano baciate, dolcemente e a lungo. Dopo quella sera, però, Emma aveva deciso di non volerla più vedere. Era sconvolta. Il giorno che le avevo viste litigare era stato il giorno della riappacificazione. Avevano scoperto che non potevano stare lontane. L’amore non è mai come ce lo aspettiamo. Ci sorprende e ci complica la vita. «Non avrei mai creduto che tu potessi diventare lesbica», le dissi, pentendomi subito di aver pronunciato una frase così sciocca. «La questione non è lesbica o etereo. Io mi sono innamorata di Elena, punto e basta. Mi sono innamorata di una persona e mi sono accorta di non essermi mai sentita così bene con qualcuno». «E adesso, come ti comporterai con gli altri?», le chiesi un po’ preoccupata. «Vivremo la nostra storia e proveremo a essere felici». Mi sorrise. «Coco, io non mi sono mai sentita così e non mi importa se la gente non riuscirà a capire. In fondo, è amore e nessuno si vergogna dell’amore». Ero contenta per lei. Dopo tante storie con uomini che non l’avevano meritata, finalmente la vedevo serena e innamorata. «Ti adoro Emma». Mi alzai per andare ad abbracciarla. «Grazie, non ero sicura di come l’avresti presa. Scusami ancora per avertelo nascosto». Ricambiò il mio abbraccio e restammo così un po’. «Sei fortunata, ti sei liberata del genere ritardato una volta per tutte». Rise e si versò un’altra tazza di tè. «Come procedono le tue avventure? Novità all’orizzonte?» «Calma piatta. Ho ricevuto un breve messaggio di Cristian che dice che passerà il Natale in Spagna. Solo due righe per chiedermi come sto e per informarmi che è vivo. Non sono nemmeno riuscita a capire se il regalo che ho ricevuto fosse suo». «Ti avevo avvisata di non affezionarti troppo a lui», mi rimproverò Emma. «In compenso, però, mi sto dedicando molto al lavoro e sono diventata piuttosto brava. Mi sto così

tanto appassionando ai matrimoni che, prima o poi, potrei decidere di sposarmi anche io». «Quella sì che sarebbe una novità sconvolgente». «Cosa farai per Natale?». Ingoiai un delizioso pasticcino. «Lo passerò con Elena. Non me la sento di stare con i miei, almeno fino a quando non avrò comunicato la novità». «Capisco. Io sono ancora indecisa se tornare Venezia o passare le feste qui. Potremmo fare qualcosa tutti insieme. Anche Claudio rimarrà a Milano. Adesso che la storia con la sua brunetta va a gonfie vele, le sta sempre appiccicato». «Allora è andata: Natale da me». «Sarò l’unica single», dissi con tono deluso. «Manca ancora qualche giorno. Potrebbe succedere un miracolo», mi prese in giro. In ufficio erano tutti in attesa del party di Natale. Ogni anno l’agenzia organizzava una festa in un locale molto chic della città ed era uno degli eventi più riusciti della stagione. Gli affari alla Five stavano andando bene e quell’anno ci sarebbero state molte cose da festeggiare. Durante la serata, avrebbero annunciato chi sarebbe andato a Parigi e tutti eravamo curiosi di conoscere il responso. Valentina, stranamente, nelle ultime settimane era stata molto distratta, agitata e più nervosa del solito. Un pomeriggio aveva dimenticato di confermare i fiori per un matrimonio di due giovani indiani e, per riuscire a recuperare delle dalie arancioni in tempo per la cerimonia, ci eravamo fatti in quattro. Lei, senza alcun ritegno, aveva dato la colpa a noi. «Mi distraete», aveva commentato, noi ci eravamo guardati increduli e piuttosto arrabbiati, ma non avevamo osato replicare. «Per fortuna, tra qualche giorno sapremo chi andrà a Parigi, così potremo smettere di farci la guerra», aveva detto Fabio, uno dei miei colleghi più simpatici. «A patto che lei non perda la gara», avevo replicato io, mentre cercavo di decifrare un’e-mail di una sposa tedesca che mi chiedeva informazioni su alcuni chalet di montagna per organizzare un addio al nubilato. «Sarebbe davvero un colpo tremendo per lei», aveva ridacchiato Fabio. «Ma noi conquisteremmo la libertà». Le mie giornate erano tutte uguali. Lavoravo molto, tornavo a casa distrutta e uscivo poco. Non c’era nessun uomo all’orizzonte e i miei amici erano sempre più presi dalle loro storie d’amore. A volte mi sentivo un po’ sola, allora mi mettevo a navigare su internet e spendevo l’intero stipendio del mese in scarpe e borse. Conoscevo a memoria tutte le ultime collezioni e in casa ormai non c’era più posto neppure per una molletta. Avevo l’impressione che nulla sarebbe cambiato nella mia vita e mi sentivo molto giù. Ogni tanto ripensavo a quello che mi aveva detto Axi: sarebbe davvero arrivato un grande amore nella mia vita? Pensavo a Cristian e mi chiedevo quando l’avrei incontrato di nuovo. Avevo l’impressione che non sarebbe accaduto mai più. Il giorno prima della festa aziendale, tornai a casa e cominciai a pensare a cosa indossare. Era il primo evento mondano in Five e volevo fare bella figura. A furia di comprare scarpe, il mio conto in banca si era prosciugato e non potevo permettermi un vestito nuovo. Decisi per un tubino di seta grigio, che avrei portato con una stola nera. Non era un capo di alta moda, ma mi faceva sembrare più magra e slanciata.

Era pur sempre un bel risultato. Mi lavai i capelli e con l’asciugamano ancora in testa, controllai la posta. Trovai un’e-mail di Cristian. Mi chiedeva come stavo e cosa avrei fatto per Natale. Avrei voluto raggiungerlo in Spagna e fargli una sorpresa, ma le sorprese, si sa, in amore è meglio evitarle, e poi anche la mia carta di credito si opponeva all’unione. Mi asciugai i capelli, decisi per un smalto rosso vivo, mangiai qualche biscotto con un po’ di latte e mi infilai a letto. La mattina dopo fui svegliata dal suono del citofono. «Un pacco per lei, signora Bruni», gridò il corriere, mentre chiedevo, assonnata, chi fosse. Mi infilai una felpa e scesi a ritirarlo. Mi ritrovai davanti a una grande scatola bianca sulla quale, ancora una volta, non era riportato il mittente. «Chi lo manda?», chiesi al ragazzo senza rendermi conto della stupidità della domanda. «Non saprei, signora», rispose seccato, indicandomi dove dovevo firmare. «Noi siamo solo addetti alla consegna». Lo ringraziai e ritirai il pacco. Ero molto eccitata all’idea che il mio misterioso ammiratore si fosse fatto vivo di nuovo. Appena mi chiusi la porta alle spalle, iniziai a scartare il regalo. Ancora veli di chiffon a proteggere il contenuto. Quando lo vidi, quasi svenni per l’emozione. All’interno della scatola, c’era un tubino nero dal taglio inconfondibile. Chanel. La petite robe noire. Nella confezione, trovai un biglietto. Ero così emozionata che dovetti sedermi prima di leggerlo: “Cerca la donna in un vestito. Se non c’è la donna, non c’è vestito. Coco Chanel”. Il biglietto non era firmato, ma questa volta dal timbro capii che il pacco era partito da Milano. Non poteva essere stato Cristian. Ma allora chi era questa persona che mi conosceva così bene? Sollevai il vestito con mani tremanti e con una certa emozione lo provai. Mi guardai allo specchio e mi sentii la donna più bella sulla faccia della terra. Coco c’est moi, mi concessi di pensare per pochi istanti. Sapevo cosa avrei indossato alla festa. «Davvero non hai alcuna idea di chi possa avertelo mandato?», Claudio stava preparando il caffè, mentre io ed Emma provavamo a scegliere un paio di scarpe da abbinare al vestito. «Nessuna. Lo sai meglio di me. Non ho frequentato nessuno nell’ultimo periodo e non può essere Cristian». «Dev’essere qualcuno che ti conosce bene. Qualcuno che hai già ammorbato con Chanel». Claudio prese una delle scarpe che avevo tolto dalle scatole e messo in fila sul pavimento. «Se non la smetti di collezionare questi trampoli, tra un po’ dovrò prestarti una delle mie stanze». «Le scarpe non sono mai abbastanza», disse Emma, sostenendomi. «Guarda qui, alcune sono ancora avvolte nella velina», Claudio si sedette sul letto e continuò a fissarci sorridendo. «Voi donne siete proprio strane. Delle aliene». «Già, ma non si può mai sapere quando ne avrò bisogno. Per esempio, per stasera avrei dovuto comprarne un paio nuovo, nessuna di questa va bene». «Smettila. Non ricordi neanche più le scarpe che hai. Questo vestito», disse Emma, «merita il pezzo forte della tua collezione». Entrambe guardammo la scatola che si trovava su una mensola in alto dell’armadio.

Conteneva un paio di Louboutin che avevo comprato in un momento della vita in cui mi sentivo molto ricca. Rappresentavano il trofeo che mi ero meritata dopo anni di passione per le scarpe. Non le avevo mai indossate per paura di rovinare la loro preziosissima suola rossa. «Forse hai ragione». Tolsi le preziose calzature dalla confezione e ne accarezzai la pelle morbida. «Forse è giunto il momento di far camminare un po’ le mie bambine». Prima di uscire, mi concessi un bagno rilassante. Continuavo a pensare al vestito. Era il più bel regalo di Natale che avessi mai ricevuto e non sapevo neppure chi ringraziare. Di colpo, mi venne in mente che c’era una persona che sapeva esattamente che la petite robe noire era il mio sogno di bambina. Possibile che fosse opera di Niccolò? Non mi aveva mai regalato nemmeno un mazzo di fiori, ma forse ora aveva capito che ero io la donna della sua vita, e questo era il modo più romantico che aveva trovato per farmelo sapere. Per un attimo, chiusi gli occhi e ci immaginai di nuovo insieme. Io e lui, elegantissimi, che ballavano un lento su una bista da ballo deserta. Poi suonò la sveglia: mi avvertiva che avevo un’ora di tempo per prepararmi e tornai all’amara realtà di donna sola con il cuore spezzato. Riemersi dalle acque e diedi il via ai preparativi. Ero curiosa di sapere chi sarebbe stato spedito a Parigi e in più non vedevo l’ora di godermi i dieci giorni di vacanza che mi aspettavano. Avevo lavorato così tanto che meritavo un po’ di riposo dalle coppie di sposini isterici e tanto innamorati. Dopo aver indossati vestito, scarpe e perle, mi guardai allo specchio. Non ero per niente male. Peccato non avere un accompagnatore. Presi la pochette di seta con il fiocco di raso, mi spruzzai una nuvola di N° 5 e chiamai un taxi. Ero pronta per la serata. Il locale era una vecchia chiesa sconsacrata degli inizi del XX secolo, allestita a disco-bar. I grandi lampadari di cristallo, la scalinata di marmo e le grosse tende di velluto le donavano un aspetto raffinato e intrigante. Era una serata freddissima e le strade erano ricoperte da un sottile strato di ghiaccio. Scesa dal taxi, mi avvicinai all’ingresso facendo attenzione a non scivolare, come mio solito. Il locale era già pieno. Lasciai il cappotto e la stola di alpaca al guardaroba e mi avvicinai alla scala che portava alla pista. Mi avvicinai al bancone del bar e notai subito Valentina che flirtava con un ragazzo. Paolo ed Étienne, in abito scuro, stavano bevendo e parlando con alcune ragazze dell’amministrazione. Non vedevo Étienne dalla nostra colazione segreta e quando incrociai il suo sguardo sentii un tuffo al cuore. Si allontanò dal gruppetto e si avvicinò. «Ciao, Coco. Come stai?» «Molto bene, grazie». Continuavo a fissare il mio bicchiere di spumante, per evitare di guardarlo negli occhi. Ero molto frastornata, quell’uomo aveva il potere di farmi perdere il contatto con la realtà. «Complimenti per l’eleganza. Questo vestito ti sta benissimo», mi fissò per un lungo momento e io arrossii. «Grazie, è un regalo». Cercavo di sembrare il più disinvolta possibile. «Ottimo gusto. Sei emozionata per stasera? Tra un po’ annunceremo chi verrà a Parigi». «Emozionatissima, anche se ho poche speranze». «Staremo a vedere», disse laconico. Aveva gli occhi che gli sorridevano.

«Posso intromettermi?», la voce gracchiante di Valentina interruppe la conversazione. Reggeva in mano un Negroni che, vista l’eccitazione, non doveva essere il primo della serata. «Prego», rispose Étienne divertito. «Spero di non aver interrotto nulla di importante». La tigre mi divorò con lo sguardo. «Stavamo parlando del più e del meno», risposi con tono secco. «Quando comunicherete il nome del vincitore?», incalzò Étienne. «Tra un’ora, quando saranno arrivati tutti», le rispose con garbo. «Sarà un duro colpo per chi non vincerà», gli strizzò l’occhio in maniera confidenziale. Lui si sforzò di ridere. Quella donna riusciva a essere antipatica a chiunque. Pochi istanti dopo, fummo raggiunti da Paolo, che cortesemente ci portò via Étienne. «Devo rubarvi il vostro amato boss francese. Il dovere chiama», disse, infilandogli la mano sotto un braccio. «A dopo», Étienne ci sorrise e si allontanò. Restai da sola con Valentina, che mi fissava con sguardo minaccioso. «Vado a fare un giro», le dissi, allontanandomi senza darle il tempo di aprire bocca. Non mi sarei fatta rovinare la serata da lei. Mezz’ora dopo, erano arrivati tutti. Poco prima del grande annuncio, passai in bagno per rifarmi il trucco. Quando entrai mi ritrovai davanti Valentina, piegata sul lavello. Alzò la testa, tirò su col naso e, mentre si ripuliva dalla polverina bianca che le era rimasta sotto la narice, gridò furiosa: «Non si bussa prima di entrare?» «Scusami... Io... Era aperto...». Chiusi la porta e mi rintanai nel bagno vicino. Ero sconvolta. Ecco perché era sempre così su di giri. Bussò alla mia porta con insistenza. Poi gridò: «Non c’è niente di male, sai? Sono solo un po’ sotto stress per il lavoro. Mi sto concedendo un piccolo aiuto. Non lo dirai a nessuno, vero?». Non avevo nessuna voglia di farle la morale né di raccontare a qualcuno quello che avevo visto. Era adulta e poteva fare quello che credeva, anche comportarsi in maniera stupida. «Non lo dirò a nessuno. Adesso lasciami in pace, grazie». Sentii la porta sbattere e, rimasta sola, presi il mio maquillage dalla borsetta e provai a ripassarmi il trucco. Che brutta scoperta era stata. Avevano abbassato la musica. Tutti aspettavano il discorso di Natale e il responso “parigino”. Paolo prese il microfono e iniziò a parlare: «Grazie a tutti per essere qui e grazie, soprattutto, per l’entusiasmo, la dedizione e la tenacia che mettete nel vostro lavoro. Five sta crescendo molto e ha bisogno di voi per superare tutte le tempeste. È merito vostro, della vostra capacità di remare insieme, del vostro spirito di gruppo e della vostra dedizione se oggi possiamo dire che per noi è stato un anno grandioso. Grazie ancora». Partì l’applauso e alcuni iniziarono a gridare «Bravo!», «Bravo!». «Siete troppi per potervi ringraziare singolarmente, ma sappiate che siamo contenti di ognuno di voi e speriamo di poter continuare a lavorare insieme, anche in futuro». Secondo rumoroso applauso. «E adesso è il momento di comunicare il nome del vincitore della gara di produzione». Étienne si avvicinò a Paolo e prese il microfono. Valentina aveva iniziato a mordersi le labbra e a torturarsi i capelli. «La scelta non è stata facile. Ognuno di voi ha lavorato sodo, dando il meglio di sé. Non ho mai visto le macchinette del caffè così vuote». Scoppiò una risata generale.

«Abbiamo deciso di premiare la persona che più di tutte ha fatto progressi nel suo lavoro, dimostrando che superare i propri limiti è l’unico modo per diventare migliori. La vincitrice della gara è...». Stava parlando di una donna. «Rebecca Bruni!». Aveva fatto il mio nome? Partì un altro grosso applauso. Tutti si voltarono a guardarmi, mentre io, ancora stordita dalla notizia, non sapevo cosa fare. «Rebecca Bruni io?», ma come riuscivo a pronunciare tali idiozie. «Così hai sempre sostenuto di chiamarti», rispose Paolo ridendo e portandomi al centro della sala. Étienne sorrideva. «Abbiamo deciso di premiare Rebecca Bruni perché in pochissimi mesi ha dimostrato di saper organizzare un tipo di evento al quale non aveva mai lavorato prima, e l’ha fatto egregiamente. E perché i suoi matrimoni sono i più profumati del pianeta». I colleghi risero. Sapevano tutti che le mie spose erano impregnate di Chanel N° 5. Non riuscivo a credere a quello che mi stava succedendo. Mentre stringevo le mani a Paolo e a Étienne, vidi Valentina in fondo alla sala, con gli occhi spiritati e una smorfia di disgusto disegnato in volto. I colleghi del reparto matrimoni vennero ad abbracciarmi e a farmi le congratulazioni. Era davvero un Natale speciale. Festeggiai con un altro bicchiere di spumante e ringraziai tutti di nuovo. Ero circondata da una piccola folla quando vidi Étienne avvicinarsi. Mi sorrise di nuovo, con le sue labbra perfette, e mentre le luci si abbassavano e la musica ripartiva, mi sussurrò in un orecchio: «Ti aspetto a Parigi, Coco».

14 PARIS, JE T’AIME

Le vacanze di Natale erano volate. All’orizzonte non era ancora apparso nessun uomo del destino, avevo perso i contatti con Cristian e il mio misterioso ammiratore non si era fatto più vivo. Valentina, dopo la terribile sconfitta, mi parlava solo via e-mail e la tensione aveva reso il lavoro di tutti più difficile. Nonostante fosse una persona spregevole, mi sentivo un po’ in colpa nei suoi confronti. Il suo grande sogno era sempre stato quello di poter lavorare alla Seven e io glielo avevo portato via. Vincere il viaggio a Parigi, però, aveva fatto molto bene alla mia autostima. Lavoravo con più grinta e mi sembrava di aver trovato finalmente lo spirito giusto. Avevo smesso di considerare i matrimoni delle stupide convenzioni sociali destinate al fallimento e iniziavo a considerarli delle belle feste in cui si celebravano grandi amori e forti legami. Ero diventata la cinica più romantica del pianeta. Paolo era molto soddisfatto di me e ogni volta che mi incrociava per i corridoi dell’agenzia mi chiamava “il suo tenente di vascello”. Il giorno prima della partenza, ero stata invitata da Emma per una cenetta di commiato. Avevo preparato i bagagli, infilando nelle due grosse valigie più scarpe che vestiti, e avevo preso un giorno libero per poter mettere in ordine la casa e sbrigare le ultime faccende in sospeso. Mentre provavo a chiudere uno dei grossi trolley, pieno di vestiti e di cosmetici, sentii bussare alla porta. Sul pianerottolo trovai la signora Leoncini che stringeva un pacchetto tra le mani. «Buonasera, signora. Tutto bene?», le chiesi stupita di vederla lì. «Mi scusi se la disturbo, cara. Poco fa, mentre rientravo dalla mia passeggiata, ho incrociato il corriere con un pacco per lei e mi sono permessa di prenderlo io», mi porse un piccolo pacchetto. Anonimo, come sempre. «Lo stava aspettando?» «No, non aspettavo nulla», risposi, guardando con aria interrogativa quella confezione bianca che mi aveva consegnato. «Ho saputo che è in partenza, dove va di bello?». I suoi occhi lucidi mi intenerivano sempre. «Parigi, per tre settimane». «Parigi! Lì ho trascorso i miei giorni più felici in compagnia di Ramón». Le sorrisi dolcemente. «Stia attenta a quella città», aggiunse. «Nessuno torna da Parigi senza averci lasciato il cuore». La ringraziai ancora e lei si congedò. Appena chiusi la porta, strappai velocemente la carta dell’imballaggio e mi ritrovai tra le mani una guida di Parigi. Nella prima pagina, una dedica: “Ho inventato la mia vita dando per scontato che tutto ciò che non mi piaceva poteva avere un opposto, che mi sarebbe piaciuto”. Un’altra frase di Coco Chanel. Più in basso, c’era scritto “Divertiti e sogna”. Nessuna firma. Era di nuovo lui, il mio ammiratore segreto. Sorrisi. Ero pronta a divertirmi e a sognare, ci poteva scommettere!

Arrivai sotto casa di Emma con un po’ di anticipo e mi misi a guardare la luna per qualche minuto. Era piena e tanta perfezione mi commosse. Mi sentii stranamente felice. Citofonai e mi avviai su per le scale. Dalla casa non arrivava alcun rumore. Di solito Emma aveva sempre la musica accesa, quel silenzio era molto strano. Mi soffermai un istante sulla porta socchiusa, poi decisi di entrare. Era tutto buio, ma dopo soli due passi la casa si illuminò e mi trovai di fronte ad amici e colleghi che applaudivano e gridavano: sorpresa! Scoppiai a ridere e mi vennero le lacrime agli occhi. «Ti abbiamo organizzato una festa a sorpresa per la partenza!», esclamò Emma. C’erano i colleghi più stretti, gli amici che avevo conosciuto a casa di Emma, alcune vecchie amiche veneziane, Claudio, la sua moretta Lucrezia ed Elena. Tutte le persone a cui tenevo erano raccolte nella stessa stanza. Una serata perfetta. Ero commossa, la luna piena era stata un segno. «Come hai fatto a organizzare tutto?», chiesi a Emma, mentre mi servivo un bicchiere di vino bianco. «Non sei l’unica a saper organizzare un evento», rise e mi abbracciò forte. Passai una bellissima serata, in compagnia delle persone che amavo, e il senso di solitudine mi abbandonò per un po’. Tornai a casa un po’ brilla, e controllai che tutti i bagagli fossero chiusi. Il biglietto e i documenti erano in borsa. Non mancava nulla. L’indomani, finalmente, Parigi. L’agenzia aveva affittato un monolocale nel quartiere del Marais, a due passi dall’Hotel de Ville e dalla cattedrale di Notre-Dame. Arrivata nell’appartamento, trovai su un tavolino un cesto contenente della frutta e un biglietto di benvenuto firmato Seven. Mi sentii subito a casa. Sistemai scarpe e vestiti (avevo davvero portato molto più di quello che mi sarebbe servito), poi uscii per respirare un po’ di aria parigina. Il quartiere era affollato, nonostante il freddo pungente. I tavolini esterni dei locali e bistrot erano pieni di gente che leggeva il giornale e chiacchierava. Mi infilai in una graziosa panetteria, ordinai una baguette farcita e ripresi a camminare per la città. Ero stata a Parigi molti anni prima e mi sembrava più bella che mai. La trovavo così romantica e malinconica, come un acquerello in una casa di campagna. Arrivata in Place du Châtelet attraversai il ponte e mi ritrovai sull’Île de la Cité. Passeggiai un po’ lungo la Senna, soffermandomi a sfogliare i libri antichi dei venditori ambulanti, poi mi fermai davanti alla chiesa di Notre-Dame. Era esattamente come la ricordavo: imponente, affascinante, misteriosa. Dopo aver scattato un paio di foto, attraversai un altro ponte mi infilai nel quartiere latino, alla ricerca di un vecchio caffè che avevo scoperto durante la mia breve vacanza studio. Era ancora lì, ne fui felice, mi sedetti e ordinai un caffè e un pezzo di torta. Ero eccitata. L’indomani avrei iniziato una nuova avventura. Sapere che Étienne sarebbe stato lì, mi tranquilizzava. Dopo la festa di Natale, non aveva avuto più occasione di venire a Milano e non ci eravamo più incontrati. Mi erano mancati i suoi sguardi e il suo sorriso ed ero curiosa di vederlo dirigere la sua agenzia. Passai il pomeriggio a ciondolare tra vari locali, cenai in un piccolo bistrot vicino casa, poi rientrai e mi addormentai sul mio divano-letto. Il giorno dopo sarebbe stato un nuovo inizio.

Quella mattina scelsi con più cura del solito il mio abbigliamento. Ero quasi certa che il mio stile sarebbe stato apprezzato e, di sicuro, non avrei incrociato delle fashion victim intransigenti come la mia collega Valentina. Scelsi uno scamiciato nero, con dei piccoli bottoni all’altezza del petto, al quale abbinai una camicetta di seta bianca. Al collo, le mie amate perle e tra i capelli un fiore d’organza. Indossai un paio di décolleté nere con un po’ di tacco, presi il bauletto di pelle, il cappotto e mi avviai allegra verso l’ufficio. L’agenzia si trovava vicino a piazza della Bastiglia e, uscendo di casa con il mio solito anticipo, decisi di arrivarci a piedi per godermi Parigi. Il profumo di croissant appena sfornati si diffondeva per le strade e feci una sosta per comprarne uno. Chissà quante calorie con tutto quel burro, ma era così buono che valeva il rischio di ingrassare qualche etto. C’era un bel sole, l’aria era frizzante e la gente mi sembrava felice. Mi sentivo la protagonista di uno di quei film romantici che adorava Claudio, peccato che mi mancava l’amore! Un particolare da niente. Quando arrivai davanti al portone del palazzo, feci un bel respiro ed entrai. Il portiere mi indicò il piano della direzione e poco dopo mi ritrovai nel luminoso ufficio di Étienne. «Bonjour et bienvenue!», mi disse sfoderando uno dei suoi migliori sorrisi. «Spero che Parigi ti abbia accolta come si deve». «È splendida come sempre», risposi raggiante, «e il mio francese funziona ancora». Speravo non ricordasse la mia piccola bugia riguardo alla mia conoscenza della lingua. Mi indicò una grande poltrona di pelle. «Posso offrirti un espresso? Ho un’ottima macchinetta, i privilegi di essere il capo». Ne avevo bisogno e accettai volentieri. Il caffè era migliore di quello che avevamo in Five. «Hai fatto un buon viaggio?» «Pessimo, grazie, ma non mi va tediarti con i miei fastidiosi contrattempi. Comunque, appena ho messo piede a Parigi, ho dimenticato tutto. Questa città è meravigliosa». «Lo è. Ti fa perdere la testa», mi puntò addosso i suoi intensi occhi blu e sentii un brivido percorrermi la schiena. «Sei pronta? I colleghi sono tutti curiosi di conoscerti». «Sono nervosa, ma piena di entusiasmo». «Non preoccuparti, andrà tutto bene», mi sorrise ancora e io ricambiai, cercando di sostenere il suo sguardo. «Andiamo?» «Andiamo!», dissi mentre mi perdevo nel suo sguardo. Si alzò dalla scrivania e mi accompagnò a fare un giro veloce dell’ufficio, poi mi condusse nel mio e mi presentò i colleghi. «Lei è Rebecca», disse, mentre i ragazzi mi stringevano la mani. «Lavorerà qui nelle prossime settimane. Ve l’affido. Trattatela bene, dobbiamo restituirla agli italiani tutta intera», risero tutti, e io mi unii a loro. «Benvenuta Rebecca». Un ragazzo dall’aria simpatica mi indicò una scrivania vicina a una grande finestra. «Io sono François e dirigo il reparto. Questa è la tua scrivania. Lavoreremo insieme nei prossimi giorni. Se dovessi avere qualsiasi problema o necessità, parlane pure con me. Sono qui per aiutarti». Per un attimo pensai a Valentina e ridacchiai. Mi sembrava di aver conquistato il paradiso. «Bene, adesso tutti a lavoro!», disse Étienne, mentre usciva dalla stanza. «Ci vediamo dopo», aggiunse guardandomi. Lo salutai con un cenno della testa e mi sistemai davanti al mio computer.

Dopo la pausa pranzo, che passai in compagnia di alcuni colleghi molto simpatici, controllai velocemente la mia posta elettronica. Trovai due messaggi di Claudio ed Emma, che volevano sapere come era andato il viaggio e poi un’email che mi tolse il fiato per qualche secondo: Niccolò. Mi scriveva per sapere come stavo e cosa combinavo. Cercava un riavvicinamento? Voleva tornare a essere “mio amico”? O si era accorto che non poteva vivere senza di me ed era davvero lui il mio ammiratore segreto? Rilessi l’e-mail un paio di volte e poi capii che il miracolo era avvenuto. Non me ne importava più nulla, il mio cuore non aveva perso alcun colpo. Ero andata avanti, l’avevo cancellato, come stavo per fare con la sua e-mail. Alla fine del mio primo giorno di lavoro ero esausta. Avevo voglia di un bagno caldo e di un buon bicchiere di vino rosso. Salutai i colleghi e lasciai l’ufficio, pronta a godermi il tramonto sulla Senna. Mentre uscivo dall’edificio, incontrai Étienne nell’atrio, impegnato in una telefonata. Mi fece cenno di aspettarlo e attesi che terminasse la chiamata. «Alors, com’è andato il tuo primo giorno di lavoro?», chiese raggiungendomi fuori dal palazzo. «Benissimo. I colleghi sono molto gentili e il lavoro è stimolante. Cercherò di dare il massimo». «Hai voglia di andare a bere un bicchiere di vino?», mi chiese a bruciapelo. Non vedevo l’ora. Accettai l’invito e iniziammo a passeggiare, in direzione della Piazza della Bastiglia. La zona era frequentata da giovani studenti e coppiette innamorate. Ci infilammo in un bar in Rue de la Roquette e ordinammo due calici di Bordeaux. Il vino francese era strepitoso. «I vostri vini sono così buoni che rischio di diventare un’alcolizzata», dissi, mentre ne bevevo un sorso. «Noi francesi andiamo molto orgogliosi della nostra produzione vinicola, ma anche voi italiani non scherzate». «Sì, abbiamo dei vitigni niente male anche dalle mie parti». «Sei un’esperta di vino?» «Sono un amante di quello buono», risposi sorridendo. «Sei davvero piena di sorprese», posò il suo sguardo intenso sulle mie labbra. «Grazie, sei gentile», risposi cercando di controllare l’imbarazzo. «Non devi tornare a casa?». Mi chiedevo se Juliette lo aspettasse. «Non ho impegni per la serata». Ognuno ha i suoi spazi. Anche in coppia. Molto francese. «Ti sei poi fidanzata?». Non mi aspettavo una domanda così diretta. Mi colse alla sprovvista. Non mi sentivo molto a mio agio a parlare della mia disastrosa vita sentimentale con lui, che per giunta era il mio capo. Ma decisi di superare anche quella barriera, era arrivato il tempo di fare scelte più coraggiose. «No. Sono ancora in “pausa d’amore”». «Fai bene. Le relazioni richiedono lucidità», disse masticando le noccioline che ci avevano servito insieme al vino. «Hai ragione. Sono una wedding planner, queste cose dovrei saperle, eppure mi sembra sempre più difficile aprire il mio cuore a qualcuno. Se i clienti conoscessero la mia situazione sentimentale, si rivolgerebbero a un’altra agenzia». Rise e scosse il capo. «Non devi raccontare di te. Sai fare bene il tuo lavoro, e questo basta». Abbassò il tono di voce.

«Davvero non c’è proprio nessun uomo nella tua vita?», chiese di nuovo, dopo aver ordinato altri due calici di vino. «Al momento non direi... Anche se, forse non è il caso di dirlo, ma... c’è qualcuno che... non so...», balbettavo. «Qualcuno a cui forse piaccio». Ecco l’avevo detto. «In che senso?» «Un ammiratore segreto», dissi con la voce che ancora mi tremava. «Divertente. E non hai nessuna idea di chi possa essere?» «No, ho ricevuto alcuni regali, ma sui pacchi non c’era mai il mittente». «Intrigante...», disse ridendo. «Sono molto curiosa. Deve conoscermi bene, perché sa della mia passione per Chanel». «Se è davvero così interessato a te, si farà vivo. Sarebbe uno sciocco a lasciarti andare», bevve un altro sorso senza staccarmi gli occhi di dosso. Sentii le guance avvampare e lo stomaco attorcigliarsi. «Sei molto dolce, Coco. E così elegante, educata». Ehm... educata. Avevo sbirciato nella sua vita privata e mi ero appropriata di una lettera d’amore. Altro che educata. Il vino cominciava a fare effetto e prima di rischiare un’altra delle mie figuracce, decisi di andare. «Ora vado», dissi afferrando la borsa e alzandomi in piedi. «È stata una lunga giornata e ho voglia di farmi un bagno caldo». «È stato bello chiacchierare con te». «Già...». Lo guardai senza sapere cos’altro dire, poi mi voltai e raggiunsi la porta. Mentre mi allontanavo, sentii Étienne sussurrare: «A domani, dolce Coco».

15 GLI UOMINI NON SONO MAI QUELLI GIUSTI

La prima settimana a Parigi trascorse in fretta. Avevo iniziato a frequentare una collega molto simpatica e dopo il lavoro uscivo con lei alla scoperta dei locali più carini e delle pasticcerie più buone della città. Elodie aveva la mia età e aveva vissuto molti anni a New York. Ogni sera mi presentava un amico nuovo e sosteneva che avrei dovuto “provare” un ragazzo francese per scoprire perché gli amanti parigini sono famosi in tutto il mondo. Mi piaceva stare con lei. Era una ragazza senza pregiudizi, che sapeva divertirsi, ma sapeva bene quali fossero le cose importanti della vita. Una sera a cena cominciammo a parlare di uomini. «Allora, chérie, c’è qualcuno dei nostri colleghi che ti piace?». Elodie cercava flirt ovunque. «Mmm... Non saprei», le risposi mentre addentavo una deliziosa tartare di carne. «Non mi sembra una buona idea avere delle storie sul posto di lavoro». «Mais oui, invece», disse lei, mescolando la sua enorme insalata. «Le scappatelle in ufficio sono divertenti e stimolanti». «Ma non complicano le cose?» «No, se sono solo avventure. Anzi, a volte creano interessanti complicità». «Non lo so... E la gelosia? Il possesso? L’affetto? Se poi finisce male, è difficile continuare a lavorare insieme. No?», non riuscivo a convincermi. «Sei troppo cerebrale e troppo sentimentale. Il sesso, quello buono, unisce le persone, non le allontana». «Come sei saggia...», le dissi ridendo, mentre mi servivo un altro calice di vino. «È vero. E sono anche molto favorevole alla libertà sessuale». «Lo sei eccome, mia cara!», ridemmo entrambe. «Hai mai avuto storie con qualche collega?» «Oh, be’. Con un paio, ma non ti dirò chi sono. Sai, per salvaguardare la loro privacy», rispose facendomi l’occhiolino. «Ok, allora niente terzo grado». «Sai chi trovo molto carino?», disse mentre spalmava un po’ di burro salato su una fettina di pane fragrante. «Étienne». Ingoiai a fatica il boccone che stavo masticando. «Non è super sexy?», mi chiese, guardandomi negli occhi. «Carino, sì...», risposi con esitazione. «Un tempo pare fosse un inguaribile libertino. Collezionava ragazze come se fossero francobolli. Poi, di punto in bianco, ha smesso. Vai a capire perché». Per Juliette, ecco perché. «Davvero?». Dunque il giovane sexy e gentile dagli occhi di ghiaccio aveva un passato da Don Giovanni. Buono a sapersi. «Si sarà preso una pausa, ma sono convinta che non durerà per sempre. Quando hai assaggiato la vera

libertà, poi fai fatica a rinunciarci». Non ero d’accordo. Probabilmente aveva trovato il vero amore. E quello può cambiare radicalmente una persona, anche lo scapolo più impenitente. «Spero che il giorno che tornerà sui suoi passi, sceglierà me», aggiunse, ridendo. «Lo farà, impossibile resisterti». Le lanciai un piccolo pezzo di pane e continuammo a ridere. La sera, Parigi diventava ancora più magica. Rientrata da Montmartre in metropolitana, decisi di fare due passi per il quartiere. Arrivai fino alla splendida Place des Vosges e rimasi un po’ a passeggiare intorno al giardino centrale, chiuso ai visitatori durante la notte. Le strade erano semideserte e si udivano i passi dei nottambuli che rimbombavano sotto i portici. Era tutto così perfetto: il lavoro, la città, le amicizie. Mancava solo l’amore. Ripensai a Cristian: chissà cosa stava facendo, con chi era, sotto quale cielo si trovava. Mi sarebbe piaciuto rivederlo. Un granello di malinconia si fece spazio nel mio cervello e nel cuore. Provai a scacciarlo con qualche pensiero felice. Non era la città giusta per abbandonarsi alla nostalgia. Mi voltai e ritornai sui miei passi, verso casa. Il lunedì mattina trovai Étienne che mi aspettava alla mia scrivania, mentre beveva il suo immancabile espresso. Mi sembrava di buonumore. «Sapevo che saresti arrivata in anticipo. Sei sempre la prima», mi disse sorridendo mentre poggiavo la mia borsa in pelle matelassé sul tavolo. «Come mai sei qui?», gli chiesi perplessa. «Ti porto a fare un sopralluogo. Voglio farti conoscere alcuni posti che rendono magica questa città. Ti va?». Non avevo nemmeno sfilato cappotto e cappellino. Ero pronta a partire. «Certo, andiamo». «Qual è la prima tappa?», gli chiesi, mentre la macchina si allontanava dal centro della città. «Vedrai, è una sorpresa», rispose misterioso. Mi misi a osservarlo: aveva delle mani molto curate e mi accorsi che non portava l’orologio. Mi ritornarono in mente le parole di Elodie sul suo passato da gran libertino e provai a immaginarmelo mentre seduceva una donna appena conosciuta. Non mi sembrava il tipo. Con me non era mai stato malizioso. Forse, l’amore l’aveva davvero reso una persona diversa. Ci allontanammo dalla città e intravidi un cartello che indicava la direzione per Versailles. «Stiamo andando alla Reggia?». Ero felicissima. «Indovinato! Ci sei mai stata?», mi chiese, voltando leggermente il viso nella mia direzione e staccando, per un breve attimo, gli occhi dalla strada. «No, ma ho sempre desiderato visitarla. Mia madre possedeva un libro illustrato sui giardini di Versailles e quando ero bambina passavo le ore a sognare di regine e principesse. Da grande volevo fare la regina». Rise di cuore. «Quelle francesi non hanno fatto una bella fine». «Lo so, per quello, tutto sommato, sono contenta di essere nata in una repubblica». Rise ancora. «Sei buffa, Coco». Mi guardò per un altro breve istante. Avvertii le farfalle agitarsi nello stomaco. C’era qualcosa in quell’uomo che mi attraeva violentemente,

anche se in sua compagnia mi sentivo sempre inadeguata. Ma forse era colpa mia, lo avevo idealizzato troppo. Étienne si mise in coda per prendere i biglietti e io passeggiai nel piazzale antistante il palazzo. Avevo sempre desiderato visitare il castello, gli appartamenti reali e i giardini, e adesso stava per accadere. Un altro sogno si realizzava. «Caspita. Non credevo che fosse così stupefacente», dissi, mentre visitavamo il Grande Appartamento del Re. «È importante lasciarsi sorprendere dalle cose belle, ogni tanto». «Chissà quante avventure piccanti ha vissuto su quel letto», guardai divertita Étienne, che si era fermato ad ammirare il grande letto di Luigi XIV. «Sembra comodo. Dovrei farmene fare uno uguale», scherzò. Terminato il tour del palazzo, passammo ai giardini. «È un posto splendido», dissi passeggiando tra fontane, statue e siepi perfettamente potate. «Sono magici. Pensa che nel 1999 una violenta tempesta ne ha distrutto buona parte. Poi sono stati sistemati e adesso si avvicinano molto alla loro versione originale». «Avete mai organizzato qualche evento qui? È una location unica». «Sì, ci abbiamo lavorato in occasioni speciali. Volevo mostrartelo per questo motivo: per farti capire quanto possa essere splendido il lavoro che facciamo». «Grazie, è stato molto istruttivo», sorridevo estasiata. Si avvicinò leggermente e mi sfiorò un braccio con la sua mano calda. Sentii una leggera scossa di elettricità attraversarmi i vestiti. Aveva gli occhi puntati su di me e mi guardava senza dire nulla. Il cuore cominciò a battermi all’impazzata. «Monsieur Étienne!», udimmo una voce in lontananza, mentre rimanevamo immobili a guardarci. Un signore in abito grigio camminava a passo veloce nella nostra direzione. Aveva dei baffi appena accennati sul viso e portava un orologio da taschino. «Monsieur Étienne, che piacere rivederla. Le ragazze delle biglietterie mi hanno informato che era qui». Ottimo tempismo, nulla da dire. «Jacques, che sorpresa, pensavo fosse fuori Parigi», disse Étienne, stringendogli la mano. «Rebecca, Jacques è il responsabile degli eventi della reggia. Abbiamo lavorato tante volte con lui in passato e speriamo di farlo ancora in futuro». Gli strinsi la mano, sforzandomi di sorridere. «Sta facendo un sopralluogo nei giardini? Ha in mente qualche nuovo evento?» «Sto solo facendo visitare le meraviglie della zona a una nuova collega. Viene dall’Italia». «Oh, capisco. Allora vi lascio proseguire la visita. Rinnovo i miei saluti e a presto». Gli stringemmo di nuovo la mano e lo guardammo allontanarsi. In macchina chiacchierammo pochissimo, Étienne sembrava un po’ nervoso. «Grazie ancora per la gita», gli dissi, cercando di sembrare disinvolta. «È stata una bellissima giornata». «Sì», disse lui, continuando a fissare la strada. «Una giornata perfetta». Parcheggiamo a due passi dall’ufficio e rientrammo. Era l’ora di pranzo, ma nessuno di noi due sembrava avere fame. «Buon lavoro», mi disse, mentre aspettavamo l’arrivo dell’ascensore. «Anche a te», risposi, entrando e premendo il pulsante del suo e del mio piano. «Be’, a domani, allora», pronunciò quasi sussurrando.

«A domani», replicai, guardandolo sparire nel corridoio, prima che le porte si chiudessero di nuovo. La sera, quando tornai a casa, mi preparai un tè caldo e aspettai che Emma si collegasse su Skype. Non vedevo l’ora di aggiornarla sulla mia vita parigina. «Come stai?», mi chiese accendendo la webcam. «Ti sei già dimenticata di noi?», mi chiese con quel suo sorriso dolce. «Ma che dici! Sto molto bene, però», risposi bevendo dell’ottimo tè dei Mariage Frères che avevo comprato nella loro splendida boutique. Al mio rientro, avrei dovuto portarne un po’ alla signora Leoncini. «Novità? Come va il lavoro?» «Il lavoro va benissimo. I colleghi sono tutti molto simpatici e ho conosciuto questa ragazza strepitosa che mi porta sempre in giro la sera». «Me ne avevi già accennato e comincio a essere un po’ gelosa», rise e si aggiustò un ciuffo ribelle di capelli che le cadeva sulla fronte. «E gli uomini? Come sta andando? Hai già adocchiato un papabile cavaliere senza macchia né paura?» «Non saprei, forse uno...», confessai. «Oh, oh», rispose lei, «Abbiamo un buon candidato per la nostra bella Coco! E chi sarebbe?» «Non direi che è un buon candidato. Anzi, è il peggior candidato che potessi trovare. Sarebbe Étienne». «Stai parlando dello stesso Étienne che hai scambiato per un fattorino i tuoi primi giorni a Milano? Lo stesso Étienne della lettera...», aveva un tono perplesso. «Ehm... Sì». «Lo stesso Étienne che dovrebbe essere il tuo capo». «Già...». «L’Étienne che sta per sposarsi?!», gridò. «Ho capito! Ho capito! Non c’è bisogno di farmi il riassunto della sua biografia. La conosco bene». «Okay, allora dico solo due cose: è il tuo capo ed è fidanzato». «Lo so, per questo, sebbene abbia scoperto una violenta, selvaggia, travolgente attrazione nei suoi confronti, ho deciso di resistere». «Fai come ti senti, Coco, ma non farti spezzare di nuovo il cuore. Ti prego!». Emma era il mio grillo parlante. Diceva sempre quello che era giusto dire. «Non ho intenzione di soffrire un’altra volta. Ho imparato la lezione. E non ho voglia di passare altri mesi sul tuo divano a disperarmi. Con lui mi comporterò in modo professionale ed eviterò di perdermi in quegli occhi così azzurri». Emma rise: «Non cambierai mai». Mi sentivo molto cambiata, invece. L’ultimo anno mi aveva trasformata. Ero più sicura di me sul lavoro e finalmente avevo accettato il mio corpo. Niente più diete assurde né incubi di bilance giganti che mi divoravano. Solo l’amore continuava a rimanere un dramma. Salutai Emma, mi preparai una cena veloce e mi misi a sfogliare una rivista che pubblicizzava tutti gli eventi della settimana parigina. Mentre cercavo qualcosa da fare per la sera successiva, l’occhio mi cadde sulla locandina di uno spettacolo che mi sembrava familiare. Era quello di Cristian! Cominciai a tremare per l’emozione: questo significava che lui si trovava a Parigi, che era sotto il mio stesso cielo. Era tempo che non ci scrivevamo e non avevo idea di dove fosse finito. L’indomani ci sarebbe stata l’ultima replica. Dovevo assolutamente andare. Chiamai Elodie per chiederle di accompagnarmi e poi comprai i biglietti online. Per fortuna, c’era ancora qualche posto

libero. Avrei finalmente rivisto il mio principe azzurro. Forse i tarocchi di Axi avevano ragione. La mattina dopo arrivai in ufficio piena di energie. Mancavano poche ore allo spettacolo e non vedevo l’ora di fare una sorpresa a Cristian. Trovai Elodie al distributore delle bevande. Aveva l’aria di una che aveva dormito molto poco. «Hai fatto le ore piccole ieri sera?», le chiesi, sentendomi, con orrore, la Valentina di turno. «Oui, sono uscita con un amico e abbiamo fatto tardi. Decisamente tardi». «Beata te...». «È uno sporco lavoro, ma qualcuno dovrà pur farlo», disse con il suo solito sorriso smagliante. «Ho preso i biglietti per stasera». «Come mai vuoi andare a teatro? Bisogno di cultura?» «Spero di rivedere un amico che recita con la compagnia». «Ah, ah. Un amico. La faccenda si fa interessante. È quel tipo di amico che immagino io?» «Una specie...», le risposi ammiccante. «Allora hai fatto bene a invitare me. Posso darti un sacco di consigli». «Ti ringrazio, ma credo di cavarmela bene anche da sola», le diedi un pizzicotto sul braccio. «Ma qui sei a Parigi, la città dell’amore. Tutto è diverso qui, anche le avventure». «Ti prometto che sarò molto parigina stasera». «Così si fa». Terminammo di bere e poi ci dirigemmo ognuna alla propria scrivania. Ero molto distratta, non vedevo Cristian da mesi ed ero un po’ agitata all’idea di ritrovarmelo di nuovo davanti. A Parigi, per di più. Fantasticavo su come sarebbe stato il nostro incontro e non riuscivo a concentrarmi. Finalmente il destino sembrava essere dalla mia parte. Tornata a casa, cominciai a pensare a cosa indossare. Volevo che Cristian restasse senza fiato. Optai per un tubino nero dalle maniche lunghe, molto attillato, con una profonda scollatura, e lo abbinai a un paio di décolleté in satin con un fiocchetto sulla punta. Indossai un girocollo di perle e mi truccai in maniera provocante. Mi spruzzai due gocce di profumo, indossai il cappotto e uscii alla ricerca di un taxi. Davanti al teatro, mi aspettava Elodie. Indossava un abito rosa e portava un paio di ballerine ai piedi. «Come sei sobria», le dissi, mentre ammiravo il suo look. «Non volevo farti sfigurare», scherzò. «È la tua serata. È giusto che la più sexy sia tu», mi disse prendendomi a braccetto e trascinandomi dentro. «Hai visto chi c’è?», mi chiese Elodie, avvicinando la sua bocca al mio orecchio e indicandomi un punto della sala. Provai a scrutare in quella direzione. A un angolo del bar, con un elegante giacca scura, c’era Étienne che beveva in compagnia di una bella donna, magrissima. Era lei la famosa Juliette? Aveva un’espressione annoiata e continuava a rigirarsi la borsetta tra le mani. A un certo punto, si alzò, disse qualcosa al suo accompagnatore e si allontanò. «Dici che dovremmo andare a salutarlo?», chiese Elodie. Non sapevo come comportarmi, ma non volevo che mi vedesse e pensasse che lo stavo evitando. «Sì», dissi, incamminandomi verso di lui.

Ci avvicinammo al bancone, facendoci strada tra la folla. Étienne sollevò lo sguardo dal suo bicchiere e incrociò il mio. Per un attimo rimanemmo a fissarci immobili, poi la sua bocca si sciolse in un grosso sorriso. «Rebecca! Elodie! Che sorpresa. Anche voi amanti del teatro?». Sembrava un po’ nervoso e continuava a guardare oltre le nostre spalle. Immaginai che stesse aspettando il ritorno della sua compagna. «Un caro amico recita in questo spettacolo e sono venuta a salutarlo», risposi, un po’ nervosa. «Un amico?», mi fissò curioso. «Già... Ehm... Un conoscente...». Perché mi giustificavo? Non erano fatti suoi. Una campanella segnalò che lo spettacolo stava per iniziare. «Andiamo a prendere posto», disse Elodie, salutando con un gesto del capo Étienne e allontanandosi di qualche passo. «È stato un piacere incontrarti», disse lui. «Anche per me». Sorrisi e raggiunsi Elodie. Ci sedemmo. Avevo già visto un paio di volte lo spettacolo di Cristian, ma mi sentivo comunque emozionata. Uscì sul palco e io trasalii: era bellissimo e non riuscivo a staccargli gli occhi di dosso. «Il tuo amico è quel bel ricciolino?», domandò Elodie, mentre fissavo estasiata la scena, con lo stomaco attorcigliato. «È lui!». «Allora capisco perché volevi rivederlo a tutti i costi. Ottima scelta». «Non vedo l’ora di andare nel camerino a salutarlo». Ero eccitatissima. Terminato lo spettacolo, sgattaiolammo dietro al palco. C’era una lunga coda di ammiratori e aspettammo pazienti il nostro turno. Non riuscivo a vedere Cristian e chiesi a uno degli altri attori dove fosse. Mi rispose che aveva appena lasciato il teatro. Senza preoccuparmi di Elodie, corsi fuori per riuscire a raggiungerlo. Fu allora che lo vidi, bello come una statua greca, mentre si allontanava a piedi. Provai ad accelerare il passo, ma con i tacchi alti era quasi impossibile. Stavo per urlare il suo nome quando mi accorsi che si stava avvicinando a una donna dai lunghi capelli scuri, che lo attendeva dall’altro lato del piazzale. Si fermò poco distante da lei, le sorrise, fece un altro passo e si avvicinò per abbracciarla. Rimasero qualche secondo attaccati l’uno all’altra, poi si separarono lentamente. Cristian le carezzò il viso, le sollevò il mento e la baciò, a lungo. Sentii il cuore smettere di battere. Non c’era altro da fare. Aveva trovato la sua Rebecca francese. Non aveva più bisogno di me.

16 I SOGNI SI AVVERANO

Passai tutte la notte a piangere. Sapevo che non avevamo futuro, ma vederlo baciare un’altra donna mi aveva gettato nella più profonda disperazione. Era stato molto più che un semplice flirt: era stato una speranza. La speranza di ritrovare l’amore, nonostante le delusioni. La speranza di far battere ancora il mio cuore umiliato. Per mesi avevo creduto che i tarocchi di Axi mi avessero parlato di Cristian, l’uomo del destino, e quel pensiero mi aveva fatto andare avanti. Ero stata una sciocca a credere in quella favola e ancora più sciocca a sperare in un ritorno. Gli amori consumati non ritornano mai. Il lieto fine esiste solo nei film. La vita vera è tutt’altro. All’alba mi addormentai. Due ore dopo suonò la sveglia e mi alzai per andare a lavoro. Avevo un aspetto orrendo. Sembravo essere tornata ai tempi di Niccolò. Gli uomini erano la causa principale delle mie occhiaie. Le aziende cosmetiche che vendevano creme per il contorno occhi avrebbero dovuto fare un monumento ai miei ex. Mi feci una doccia, poi mi vestii senza alcuna motivazione, scelsi un paio di pantaloni di lana rosa e un semplice maglione nero. Mi preparai un caffè fortissimo, spalmai un po’ di burro su un pezzo di pane raffermo, infilai le perle, un basco e uscii di casa. Quella mattina, Parigi mi parve meno magica. Arrivata in ufficio, incontrai Elodie nei corridoi. «Ieri sera ti ho persa. Immagino tu abbia trovato il tuo bell’amico e sia fuggita via con lui. Passato una notte di fuoco?». Non mi andava di parlare della serata precedente, ma l’avevo abbandonata e meritava una spiegazione. Dopo aver visto Cristian che baciava quella donna, mi ero infilata su un taxi ed ero corsa a casa, disperata. «Mah... Non è andata come speravo», le risposi, sbadigliando. La stanchezza iniziava a farsi sentire. «Ah. Nessun ritorno di fiamma?» «No, nessuno. Il mio amico aveva di meglio da fare». «Non starci male. Succede. Le persone si allontanano. È fisiologico. Quelli che un tempo ci sono sembrati principi azzurri, spesso si rivelano essere solo dei grossi ranocchi». «Già. Si vede che il nostro era un tempo limitato. Dovevo immaginarlo. Anzi, lo sapevo, ma ho fatto finta che non fosse così». «Ah, cara, gli uomini sono stati creati per deluderci. È per questo che io li cambio spesso. Prendo il meglio da ciascun amante. Però, non bisogna perdere le speranze. Esistono anche delle rare eccezioni». «Non ci credo più alle eccezioni. Ma adesso basta pensare agli uomini. Sono a Parigi, sono giovane e sono carina. Andrà tutto bene». «Giusto. Non lasciarti abbattere da un pomo d’Adamo qualsiasi». Era più facile a dirsi che a farsi. Anche se mi ero così abituata alle delusioni d’amore che i miei tempi di recupero erano decisamente migliorati. Una notte di lacrime poteva bastare per un flirt andato male. Certo, avrei avuto bisogno di moltissimo caffè.

«Sai qual è l’unica cosa da fare quando un uomo ti spezza il cuore?», le chiesi, ritrovando un po’ di entusiasmo. «Andare da Ladurée e mangiare qualche dozzina di macarons?» «Sei matta? Con tutte quelle calorie... No, l’unico modo efficace per ricucirsi in fretta il cuore è andare a comprare scarpe». «Che maestra. Oggi pomeriggio sarò il tuo cavalier servente», disse scoppiando in una grassa risata. Risi anche io e mi dimenticai di Cristian e di tutti gli altri uomini che mi avevano ferita. «Ci vediamo oggi pomeriggio allora», dissi a Elodie, mentre mi dirigevo alla mia scrivania. «Terrò in caldo la mia carta di credito, oh tu, sacerdotessa del tacco dodici!», si avviò verso il suo ufficio, continuando a ridacchiare. A metà mattina, ricevetti una telefonata da Étienne. «Puoi passare nel mio ufficio tra mezz’ora?», mi chiese, mentre cercavo di concludere un ordine per decine di rose bianche e candele. «Ehm, certo!», risposi un po’ perplessa. Di cosa voleva parlarmi? Andai in bagno e mi sciacquai la faccia per riprendermi dal torpore. Quella mattina, avevo un aspetto orrendo. Rispetto alla magrissima e curatissima fidanzata del mio capo, sembravo una casalinga alle prese con le pulizie di primavera. Mi misi un po’ di lucidalabbra e mi avviai verso l’ufficio della direzione. Bussai e attesi un cenno per entrare. «Avanti», sentii gridare da dentro la stanza. Aprii la porta e mi trovai di fronte un Étienne in forma smagliante. Stava parlando al telefono e mi fece segno di accomodarmi. Ero nervosa e mi passavo in continuazione le mani tra i capelli. «Scusa per l’attesa», mi disse, mettendo giù la cornetta e sorridendomi. «Come stai?» «Benissimo», risposi, cercando di trattenere uno sbadiglio. «Piaciuto lo spettacolo, ieri sera?» «Oh, be’. L’avevo già visto un paio di volte...», risposi, sperando che cambiasse argomento. «Bene». Mi fissò per un lungo momento. «E voi, vi siete divertiti?» Non avevo nessuna intenzione di far riferimento alla sua fidanzata, ma volevo interrompere quel silenzio così imbarazzante. «Certo... Bello spettacolo». Non sembrava sincero. «E il tuo amico? Sei uscita con lui dopo lo spettacolo?». Perché era tanto curioso di sapere del mio amico? «Era molto occupato. Sai, gli autografi, le interviste». Non potevo certo raccontargli che – ANCHE LUI – mi aveva preferito un’altra, lasciandomi per strada come una cretina. «Capisco». Mi fissò, serio. «Come ti trovi a Parigi?», mi chiese, cambiando argomento. «Bene, è una città splendida». «E come ti trovi qui da noi? Ti piace il tipo di lavoro?». Ero lì da una decina di giorni e mi sembrava di stare con loro da sempre. Erano un team molto affiatato e non avevo ancora incontrato grandi difficoltà. «Benissimo. Sul serio. Mi piacerebbe poter restare di più. Tre settimane volano via in fretta e tra pochissimo sarò di nuovo a Milano». Mi guardò, come se dovesse dirmi qualcosa di molto importante, poi si sforzò di sorridermi. «Bene, è tutto».

«Tutto qui? Posso andare?», ero un po’ confusa. «Certo, torna pure al tuo lavoro. Volevo solo assicurarmi che ti trovassi bene». Lo salutai perplessa e rientrai alla mia scrivania. Non vedevo l’ora che quella giornata terminasse per andare a fare shopping. Alle sei in punto trovai Elodie fuori dall’edificio, intenta a fumare una delle sue lunghe sigarette. «È stata una giornata veramente faticosa. E schifosa», mi disse baciandomi per l’ennesima volta. Mi sembrava che i francesi si baciassero un mucchio di volte. «Non dirlo a me! Ho dormito due ore e ne ho piante quattro!». «Stamattina Étienne era nervosissimo e ci ha assegnato un sacco di mansioni in più». Anche a me era sembrato piuttosto strano. «Forse dovrebbe scopare di più», aggiunse Elodie, mentre passeggiavamo verso la metropolitana. «Facciamo un patto», le dissi. «Da adesso in poi non si parla più di lavoro. Ci rilassiamo e proviamo montagne di scarpe». «Ti preferisco quando dormi poco. Sei più divertente», sorrise e infilò il braccio sotto al mio. «Lo shopping ci aspetta». Avevamo passato un paio d’ore molto divertenti, ci eravamo fermate a bere due birre in un bar e la tensione della giornata si era sciolta. E io avevo comprato con un bel paio di scarpe nuove. Quando aprii la porta di casa, mi accorsi della lettera. Era in una busta quadrata e riportava soltanto il mio indirizzo. Il mittente, ancora una volta, non era indicato. Mi tolsi il cappotto e mi sedetti sul letto, poi aprii la busta. All’interno vi trovai un cartoncino bianco e nero. Lo rilessi tre volte, per essere sicura di aver capito bene. E avevo capito benissimo, si trattava di un invito a una sfilata di Chanel! Dopo pochi giorni, sarebbe iniziata la settimana della moda parigina e io avevo tra le mani un invito all’evento dei miei sogni. Non riuscivo a crederci. Non poteva essere! Chi mi stava regalando sogni? Il mio ammiratore segreto conosceva anche il mio indirizzo di Parigi. Sempre più strano. Chiunque fosse, mi aveva fatto un regalo splendido. Il più bello della mia vita. Ritrovai subito il buonumore. Avevo un invito alla sfilata di Chanel. Tutto il resto non contava niente. Sistemai il biglietto in bella vista sul comodino e mi buttai sul letto a fantasticare. Piegata dalla stanchezza, mi addormentai, senza nemmeno sfilarmi i vestiti. La mattina dopo, mi svegliai con la gioia nel cuore. Mi voltai verso comodino, avevo il terrore che fosse stato solo un sogno, invece l’invito era ancora lì, immobile ed elegantissimo. Lo afferrai e lo guardai per qualche secondo. Ero ipnotizzata. Mi preparai un caffè, mi tolsi gli abiti del giorno prima e mi infilai nella doccia. La vita, a volte, sapeva essere davvero meravigliosa. Le giornate trascorsero più in fretta di quanto desiderassi. Ormai mancavano cinque giorni al mio rientro in Italia e un solo giorno alla sfilata. Il mio periodo parigino stava per esaurirsi e non volevo tornare a Milano. In Francia avevo ritrovato il sorriso, ero a mio agio con me stessa e con la gente, e lavoravo senza avere accanto quella tigre di Valentina. Cominciavo a pensare che Parigi sarebbe stata la città perfetta per me.

Avevo voglia di riabbracciare Emma e Claudio, però ero sicura che mi sarebbe mancata anche molto Elodie. Da quando avevo ricevuto l’ultimo regalo del mio ammiratore segreto, non avevo mai perso il sorriso. Cominciava a piacermi quel corteggiamento così cortese. Mi faceva sentire una persona speciale. Uscita dall’ufficio, corsi dal parrucchiere per la messa in piega e poi passai dall’estetista. Il giorno successivo mi sarei trovata in uno degli ambienti più chic del mondo e non potevo sfigurare. Avevo tirato fuori dall’armadio il mio splendido tubino di Chanel e non vedevo l’ora di indossarlo. Avevo chiesto un pomeriggio di permesso ed Étienne me l’aveva concesso senza fare domande. Contavo i minuti che mi separavano dall’evento come un bambino che aspetta l’alba per poter aprire i regali di Natale. La sera, provai a chiamare Emma. Ci eravamo sentite molto poco negli ultimi giorni e non avevo avuto il tempo di aggiornarla sulle novità. «Come va?», le chiesi, non appena accese la webcam. «Benissimo. C’è una novità!», disse con voce eccitata. «Di che si tratta?», tremavo sempre quando Emma pronunciava quella parola. «Elena è venuta a vivere da me». Emma che divideva la casa con un’altra persona: questo sì che era sensazionale! «Congratulazioni!», le dissi eccitata. «Sono davvero contenta per voi. Adesso dovrai per forza lasciarle un po’ di spazio nell’armadio». «Fare posto ai suoi vestiti è stato difficile, in effetti. Però abbiamo superato la fase più dura: lo spazio per le sue scarpe». «Bene. Il più è fatto allora. Ti adoro», le dissi con vero trasporto. Rise, visibilmente felice, poi mi chiese: «E tu come stai? Pronta a lasciare Parigi?» «Non voglio pensarci», le risposi, scuotendo il capo e chiudendo gli occhi. «Continuo a fare finta di dover rimanere qui per sempre. Anche se mi mancate moltissimo». «Immagino. Non dev’essere facile. Parigi mi dà l’impressione di una città che ti ruba l’anima». Sospirai. «Altre novità?» «Sì, grosse novità. Il mio ammiratore segreto si è rifatto vivo e mi ha mandato un invito...», pausa solenne per enfatizzare la notizia, «per la sfilata di Chanel!». «Noooo, stai scherzando? Non posso crederci», rispose Emma, battendo le mani per l’eccitazione. «È uno dei tuoi più grandi sogni!». «E domani diventerà realtà, cara amica!». «Sarai emozionatissima...». «Non vedo l’ora. Per fortuna ho già qualcosa da mettermi, altrimenti sarebbe stata una vera tragedia». «Metterai il tubino nuovo?» «Sì! Dio benedica lo spasimante segreto. Chiunque esso sia». «Speriamo continui a farti tutti questi regali. Fortunella!». «Lo sono», risposi sorridendo. «Visto che non passo più le giornate a frignare e a ripetere che sono sfigata?». La fortuna arriva quando tu sei pronta ad accoglierla. Era una grande verità. «Era ora. Stavo per comprare dei tappi per le orecchie...», rise di gusto. «Eh eh eh. È tardi. Meglio che vada letto». «Ti lascio riposare, allora», disse Emma, mandandomi un bacio. «Non vorrai arrivare alla sfilata con le tue solite occhiaie?»

«No, quelle preferirei lasciarle a casa. Buonanotte tesoro!». Chiusi la conversazione, mi feci una maschera idratante e mi infilai a letto, senza mai perdere il sorriso. La mattina della sfilata, arrivai in ufficio portando croissant per tutto il reparto matrimoni. Mi aspettava una splendida giornata e avevo voglia di condividere la mia felicità. All’ora di pranzo, scappai dall’ufficio per prepararmi al grande evento. La sfilata era alle tre del pomeriggio e volevo prima scattare qualche foto alla location e ai partecipanti. Indossai il mio tubino nero, una spilla a forma di camelia in vernice, un cappellino con la veletta in pizzo e un paio di scarpe bicolori, raso e perline, con il tacco alto. Per l’occasione avevo tirato fuori la borsa 2.55 che mi aveva lasciato mia zia. L’avevo portata a Parigi sperando che mi capitasse qualcosa di speciale, e finalmente questo speciale si era fatto vivo! Infilai intorno al collo i sei immancabili giri di perle, presi il mio cappottino nero e, prima di uscire, mi inondai di N° 5. Ero così Chanel che se mi avesse vista Karl Lagerfeld, direttore artistico della maison, mi avrebbe ingaggiata come testimonial. Chiamai un taxi e mi feci portare davanti alla sfarzosa sede in cui si sarebbe tenuto l’evento. All’ingresso, presentai il mio invito e mi fecero accomodare in terza fila. Il front row era pieno di VIP che indossavano abiti elegantissimi e avevano acconciature perfette. Per una volta, non mi sentii fuori luogo. Avevo superato ogni record di eleganza dalla scoperta della pelle animale per scaldarsi ai giorni nostri. Mancavano pochi minuti e mentre le luci si abbassavano, qualcuno prese posto accanto a me. Un profumo buonissimo mi avvolse all’improvviso, e io ebbi la sensazione di averlo già sentito. Quando mi voltai per guardare il mio vicino, per poco non gridai dalla sorpresa: «Étienne, ma cosa ci fai tu qui?» «Shh... Sono venuto a vedere la sfilata». «Sì, certo, ma voglio dire... Qui, adesso, vicino a me?». Non riuscivo a crederci. Possibile che lui...? «Silenzio. Sta per iniziare. Goditi lo spettacolo. Divertiti e sogna». «Divertiti e sogna»... Era la frase che mi aveva dedicato l’ammiratore segreto. Era lui! Il mio capo dagli occhi di ghiaccio era l’uomo del mistero. Mentre provavo ad articolare qualche frase sensata, per riprendermi dallo shock, la musica partì e le modelle iniziarono a sfilare. I vestiti erano splendidi. Mi lasciai rapire dalle linee eleganti, dalla seta, dallo chiffon, dalla perfezione dei tailleur e degli abiti da sera. Era uno spettacolo emozionante. Ogni tanto, quando dalle quinte usciva un abito più sensazionale degli altri, partivano forti applausi e tutti sembravano entusiasti. Fu un evento prodigioso. Avevo passato anni a adorare Chanel e in quel momento mi sembrò che il suo spirito fosse lì, accanto a me. Terminata la sfilata, quando si riaccesero le luci, una piccola lacrima mi stava rigando il viso. «Ti è piaciuta, Coco?», disse Étienne, accarezzandomi la guancia. «È stata bellissima». Non sapevo cosa dire né come ringraziarlo per quel regalo. «Allora...», provai a cercare le parole giuste. «Sei stato tu?». Sorrise e i suoi occhi si illuminarono. «Andiamo a fare due passi, ti va?», mi chiese, mentre continuavo a fissarlo. Camminammo alcuni minuti in silenzio, poi Étienne si fermò e si mise a sedere su una panchina. Feci lo stesso, sorridendo.

Un timido sole rischiarava la città. «Sono stato io», confessò, rompendo il silenzio. «Non l’avevi capito?» «Non so cosa dire. Sono imbarazzata, lusingata, confusa. Non capisco, Étienne. Non capisco cosa voglia dire tutto questo. Sono spaventata». «Ti dispiace averlo scoperto?». Lo guardai negli occhi. Non ero dispiaciuta. Al contrario, provai un inaspettato senso di felicità, di compiutezza. Come se in quel momento tutti i pezzi della mia vita avessero trovato il posto che era stato assegnato loro. Un destino si era compiuto. «Dal primo momento che ti ho vista, da quella volta che mi sei precipitata tra le braccia, ho sentito che c’era qualcosa. Che eri diversa da tutto il resto», mi confessò, mentre restavo in silenzio ad ascoltarlo. «Gli occhi tristi, ma affamati, il modo di muoverti, la grazia nello sguardo, la libertà con la quali pensi e la possibilità che dai agli altri di stupirti. Sei una creatura strana, Coco, e splendida». Mi mancava il fiato. Nessuno aveva mai usato quelle parole per descrivermi, eppure sapevo che erano quelle giuste per me. Quelle che aspettavano solo di essere pronunciate e che io non avevo mai trovato. Mi aveva letto l’anima. «Ogni volta che ti incontravo sembravi così forte e al tempo stesso incredibilmente fragile. Ti ho osservata a lungo, sai? Conosco alla perfezione il tuo modo di mescolare lo zucchero nel caffè, la smorfia che fai quando ti assegnano un lavoro che non ti piace, il tuo modo di giocherellare con i capelli quando ti senti in imbarazzo, il profumo della tua pelle...». Mi afferrò una mano e io sentii il cuore scoppiare. Chiusi gli occhi, e lui appoggiò le sue calde labbra sulla mia bocca implorante. Fu un bacio lungo e appassionato, un bacio nel quale ci raccontammo tutto quello che le parole non erano riuscite a dire. Era tutto così irreale. Quella dichiarazione, quel bacio, quel sentimento che era esploso all’improvviso. Mentre continuava a tenermi la mano, mi venne in mente il volto magro e annoiato di Juliette, la sua lettera, quella dichiarazione d’amore così appassionata, e di colpo, mi ricordai perché avevo deciso di frenare la mia attrazione per lui. «Non posso Étienne, mi dispiace. Non ci riesco...», dissi, cercando di riprendermi dall’emozione. «Cosa c’è? Perché?» «È complicato e crudele», la voce mi tremava, «non voglio essere la tua nuova avventura. Non voglio far parte di una collezione di amanti. Non ho bisogno dell’ennesimo uomo da dividere con un’altra». «Cosa?» «Le persone scelgono. Si scelgono. E tu stai con un’altra». Impallidì e mi fissò in silenzio. «Io... Non è come pensi...». Non gli diedi il tempo di continuare. «È sempre la stessa storia. Ogni volta c’è qualcun’altra che può dare al mio uomo quello che io non gli do. Sono stanca, stanca di essere la numero due. Io voglio essere la numero uno». Mi alzai dalla panchina e mi allontanai da lui. Dopo pochi istanti, mi raggiunse e mi abbracciò. Restammo così per qualche minuto, sotto gli alberi di quel viale deserto. Mentre cercavo di liberarmi dalla sua stretta, mi sussurrò all’orecchio: «Non andartene». Non potevo restare. Non dovevo restare. Feci un altro passo e lui mi lasciò. Mi sentivo di nuovo vuota. Ferita.

Mi incamminai, senza mai voltarmi indietro. Se avessi guardato, anche solo per un istante, quei suoi occhi tristi, non avrei avuto più il coraggio di andare via.

17 L’AMORE NON PUÒ ASPETTARE

Non riuscivo ancora a credere a quello che era appena successo: la sfilata, il bacio, la confessione di Étienne. Avevo bisogno di riflettere per capire cosa mi stava accadendo. Non avevo voglia di avere una storia con un uomo fidanzato. Non potevo sempre essere un ripiego. Dovevo dimenticare quella giornata, i regali, i sorrisi, gli occhi blu. Per fortuna, stavo per tornare in Italia e la distanza mi avrebbe aiutata a rimuovere ogni cosa. Mi sfilai il vestito e lo appoggiai sulla sedia accanto al letto. Ripensai ai nostri sguardi che si incrociavano, alle sue mani che stringevano le mie, alle sue labbra che mi baciavano come se avessero aspettato quel momento da sempre. Provai a cancellare quelle immagini, ma non appena cercavo di pensare ad altro, mi tornavano in mente i suoi occhi, blu come il mare. Avevo bisogno di schiarirmi le idee, di prendere un po’ d’aria, di respirare. Decisi di fare una passeggiata e mi lasciai travolgere dalla folla parigina. Poco dopo, mi ritrovai in un centro commerciale. Era pieno di ragazzini e di turisti che facevano spese o mangiavano nei fast-food. Tutta quella confusione mi fece bene e mi distrasse per un momento dai miei pensieri. Rientrando verso casa, mi regalai una enorme crêpe al cioccolato, che divorai in pochi morsi. Ero ancora una single disperata e stavo per lasciare una delle città più belle del mondo. Il mio cuore era così a brandelli che ci sarebbe voluto un lavoro di alta sartoria per ricucirlo. I giorni seguenti cercai di evitare Étienne, e non fu molto difficile perché, a quanto pareva, aveva molti appuntamenti fuori città. Non sapevo bene cosa dire e se mi avesse di nuovo abbracciata come il giorno della sfilata, non ero sicura di potergli resistere ancora. Sapevo, però, che se avessi ceduto al suo corteggiamento, mi avrebbe distrutta per sempre, non appena avesse deciso che era ora di ritornare dalla sua bella fidanzata. La mattina del mio ultimo giorno di lavoro, i colleghi del reparto organizzarono una piccola festicciola. Avevano portato champagne e pasticcini e durante la pausa pranzo facemmo un brindisi tutti insieme. Avevano provato a invitare anche Étienne, ma quel giorno non si era presentato in ufficio. Per mia fortuna. Sarei partita senza nemmeno salutarlo. Forse, era meglio così. Dopo aver brindato, Elodie mi prese in disparte e mi consegnò un piccolo regalo di arrivederci. Scartai il pacchetto, avvolto in una bella carta rosa, aprii la scatoletta e dentro vi trovai una collanina con un piccolo ciondolo d’argento a forma di Tour Eiffel. «Così indosserai sempre un pezzo di Parigi». «Grazie! È bellissima». «Mi mancherai Coco!».

«Anche tu». «Ricorda che se vorrai tornare qui da noi, ti accoglieremo a braccia aperte». La strinsi forte, cercando di trattenere le lacrime. Odiavo gli addii. Nel tardo pomeriggio, terminai il mio lavoro e mi congedai definitivamente. Dovevo tornare a casa a sistemare le ultime cose. Mentre salutavo i ragazzi che lavoravano negli altri reparti, passai davanti alla stanza vuota di Étienne, e mi sentii infinitamente triste. Avevo fatto un sogno bellissimo, ma adesso era tutto finito. Una volta a casa, preparai le valigie e poi decisi di andare a mangiare in un ristorante kosher lì accanto. Mi sedetti a un tavolino, ordinai un calice di vino e assaporai la mia ultima serata parigina. Ventiquattro ore dopo, sarei stata nel mio appartamento milanese, a disfare valigie, mangiare biscotti e dimenticare. Passai la cena a osservare le coppie sedute ai tavoli intorno al mio. Sembravano tutte bellissime. Parigi rendeva affascinante ogni relazione. Provai a immaginare come sarebbe stato cenare in un bistrot in compagnia di Étienne. Lui avrebbe ordinato il vino, fissandomi negli occhi, mentre io avrei passato il tempo a sorridergli e ad accarezzargli la mano sopra il tavolo. Terminato il dolce, che avevo assaporato senza inutili sensi di colpa, feci due passi per schiarirmi le idee e per dare un ultimo saluto alla città. Era una serata tiepida e il freddo pungente del primo inverno sembrava già un brutto ricordo. Passeggiai fino alla cattedrale di Notre-Dame e mi sedetti su una panchina a osservare la gente che passava. Avevo la sensazione che era troppo presto per lasciare la città, come se ci fosse ancora qualcosa che dovessi fare lì. La mattina dopo mi svegliai all’alba, mi preparai l’ultimo caffè parigino e mi infilai sotto la doccia. Poi mi vestii e chiamai un taxi per l’aeroporto. Arrivata a Charles de Gaulle, trascinando a fatica l’enorme bagaglio, mi misi in fila per il check-in e terminate le operazioni di imbarco, cercai un bar dove comprare l’ultimo croissant. Mentre affogavo la mia malinconia nel delizioso cornetto di pasta sfoglia e burro, sentii una voce che mi chiamava. Una voce che conoscevo bene. A pochi passi da me, nel suo cappotto scuro, c’era Étienne, con un mazzo di camelie in mano. «Perché sei venuto?», chiesi infastidita. «Sono venuto per te», rispose, porgendomi i fiori. Erano camelie bianche, tenute insieme da un delicato nastro di seta. «Non ho molto altro da dirti», gli dissi rifiutando con un gesto della mano i fiori e distogliendo lo sguardo da lui. Non volevo rischiare di perdermi in quegli occhi profondi come l’oceano. «Ho bisogno di parlarti», disse, con tono implorante. «Di cosa? Di noi due? Non potrebbe mai funzionare. Sei fidanzato con Juliette e stai per sposarti, e io vivo in Italia...». La voce mi tremava. «Cosa? Come sai... Chi ti ha detto di Juliette e del matrimonio? Come fai a saperlo?». Iniziò a fissarmi, perplesso, mentre io sentivo le lacrime salirmi agli occhi. «Ecco... Io... Lo so...». «Ma nessuno sa del matrimonio...». «Mi dispiace... Io... Non volevo... Non volevo leggerla...». «Tu, cosa?». Tirai fuori dalla borsa un foglio stropicciato e glielo porsi. «L’ho letta... La lettera. Quella che Juliette ti ha scritto... La dichiarazione d’amore e la richiesta di

matrimonio...». Impallidì, si portò una mano alla bocca e mi fissò con occhi glaciali. «Tu non sai di cosa parli...», scosse il capo, disperato. Avevo bisogno di allontanarmi da lui, prima di scoppiare in lacrime. Mentre provavo ad andarmene, mi afferrò un polso. «Non partire!», disse, puntando i suoi occhi azzurri nei miei. «Devo partire, non ho nulla che mi trattenga qui». «Hai me». «Tu sei l’uomo di un’altra, Étienne». «Dammi almeno il tempo di capire...». Respirai profondamente, chiusi gli occhi e parlai con un filo di voce, rotta dall’emozione. «Io non sono un DVD che puoi mettere in pausa mentre cerchi di capire la tua vita. Non ho tempo né voglia di stare qui ad aspettare che tu prenda una decisione su chi tenere e chi lasciare andare. Ho sofferto troppo. Adesso voglio qualcuno che ami me, solo me. Voglio essere la numero uno». Scosse il capo. «Ho solo bisogno di un po’ di tempo, Coco». «Prenditi tutto il tempo che vuoi, ma io non starò qui ad aspettare». Mi guardò con una sincera disperazione in volto, poi abbasso la testa e lasciò cadere le camelie. «Addio, Étienne», gli dissi. Non rispose, continuando a fissare il pavimento. Mi voltai e iniziai ad allontanarmi da lui. Una parte di me sperava che mi corresse dietro, impedendomi di partire. Ma non lo fece, e ancora una volta sentii un’esplosione al centro del petto e il mio cuore riempirsi di crepe.

18 UN’ETERNA MADEMOISELLE

Il rientro fu triste. Molto triste. Piansi per tutta la durata del volo. Ad accogliermi all’arrivo trovai solo il cielo grigio di Milano. Quando rientrai a casa, con gli occhi ancori gonfi, lasciai le valigie vicino alla porta e andai subito a bussare a Claudio. Avevo bisogno di un amico. Mi aprì la porta Lucrezia, la ragazza di Claudio. «Scusami, non volevo disturbare», le dissi, sentendomi di troppo. «Ma cosa dici! Bentornata. Entra. Claudio sta preparando il caffè». Entrai nell’appartamento e notai che c’era qualcosa di diverso. Alle pareti erano state aggiunte delle foto e vedevo qua e là candele e vasetti colorati. Ci aveva messo lo zampino Lucrezia, ne ero sicura. In un angolo, Gatto dormiva beatamente su una sedia. «Ciao, Coco», disse Claudio, venendomi ad abbracciare. «Ti aspettavamo. Allora, ci devi raccontare un sacco di cose, giusto? E voglio tutti i particolari», mi disse pieno di entusiasmo. «Non saprei da dove cominciare... Sono distrutta. Mi sembra così strano essere di nuovo a Milano». «Posso immaginarlo. Ti va un caffè?». Morivo dalla voglia. Il caffè di Claudio era una delle cose che mi era mancata di più in Francia. «Allora, cominciamo dal principio: come stai?», chiese, porgendomi una tazzina bollente. «Non sembri molto in forma». «Sono uno straccio. Sana e salva fuori e a pezzi dentro». Avevo bisogno di sfogarmi. «Lasciami indovinare...». Presero entrambi posto accanto a me. «Problemi di cuore, vero?» «Già. Sempre quelli. I dannatissimi problemi di cuore. Non è cambiato poi molto dalla prima volta che mi sono presentata alla tua porta». «È un tuo piccolo record, Coco. Riesci a farti spezzare il cuore in ogni città del mondo. Dovresti gareggiare a livello olimpionico nella categoria cuori infranti», disse scherzando. «Hai ragione, sono un disastro», risposi, provando a sorridere. «La cosa positiva è che adesso potrai ascoltare di nuovo, ogni giorno, le mie lamentele». «Se hai bisogno di sfogarti con qualcuno, ci sono anche io», intervenne Lucrezia, sorridendo. «Grazie, ragazzi. Siete dei veri amici. Datemi un paio di giorni e tutto mi sembrerà più facile». «Andrà tutto bene, vedrai», mi disse Claudio. Andrà tutto bene, provai a ripetermi. Quella sera andai a cena da Emma. Elena era un’ottima cuoca e ci avrebbe cucinato le sue famose tagliatelle al ragù. «Finalmente! La mia piccola Coco è tornata». Mi abbracciò forte. «Non ce la facevo senza di te». «Anche tu mi sei mancata molto», le dissi, mentre toglievo giacca e cappellino e prendevo posto sul suo comodo divano. «Emma mi ha parlato in continuazione di te. Le tue avventure parigine erano diventate la sua soap opera preferita», scherzò Elena, mentre stappava la bottiglia di Morellino di Scansano che avevo portato.

«Sono davvero stati giorni intesi. Meravigliosi e crudeli», ammisi, guardando le due ragazze. «Credo mi ci vorrà un po’ per riprendermi da tutte le emozioni che ho vissuto». «Adesso, come stai?», chiese Emma, mentre versava da bere. «Più o meno come quando sono partita: spaesata, entusiasta e malinconica». Presi il bicchiere di vino. «Ah... sempre single, per non sbagliarsi!». «Étienne, giusto?» «Finita come nel peggiore dei film: lui è rimasto con la sua bella e io sono tornata a casa sola e disperata». «Dai, Coco, coraggio. Mettici un punto e via. Lo sai fare. È stata una bella parentesi e basta. Pensala così. Vedrai che prima o poi le cose cambieranno. Guarda noi! Avresti mai pensato che un giorno avrei messo la testa a posto e sarei andata a convivere?», mi sorrise dolcemente. «Eh già. Se non l’avessi visto con i miei occhi, non ci avrei mai creduto. Sono molto contenta per voi». Alzai il mio bicchiere e brindai alla loro unione. Passammo una serata piacevole. Mi lasciai viziare e assaporai il piacere di essere di nuovo a casa. Parigi mi mancava da morire, Étienne mi mancava da morire, ma il loro affetto mi scaldava il cuore. Erano la mia famiglia. Anche se ero stata via solo tre settimane, erano cambiate molte cose. Claudio ed Emma erano andati a convivere con i loro rispettivi compagni e si frequentavano molto meno. Tutti sembravano aver trovato l’amore, mentre io, come al solito, fallivo un’altra volta. Per un attimo mi sentii come Chanel, un’eterna mademoiselle. Scacciai i pensieri tristi dalla testa e mi servii un altro calice di vino. Niccolò, Cristian ed Étienne erano riusciti a portarsi via piccoli pezzi di me, però io ero ancora in piedi. Ed ero diventata molto più forte. Ero ormai in grado di sopravvivere ai terremoti interiori e non avevo voglia di perdere la speranza. Non era rimasto molto del passato, ma avevo ancora tanto futuro. E il futuro è la cosa più incredibile che ci possa capitare. Quando tornai a casa mi buttai sul letto e, senza neppure disfare le valigie, crollai in un sonno profondo. La mattina mi svegliai con un’inaspettata allegria. Avevo finalmente dormito sul mio materasso, dopo lunghe settimane di divano-letto parigino, e mi sentivo molto riposata. Mi preparai un’abbondante colazione, misi in funzione la lavatrice e uscii. Era un marzo particolarmente caldo e quella mattina splendeva il sole. Passeggiai a piedi fino al Duomo, fermandomi un paio di volte per prendere due espressi: mi erano mancati da impazzire. Poi mi immersi nel caos del centro, lasciando che la confusione mi distraesse e allontanasse i brutti pensieri. Arrivata all’altezza di Piazza San Babila, notai un uomo con un enorme pacco tra le mani che usciva da un negozio. Avrei riconosciuto la sua silhouette tra mille: Niccolò! Mi nascosi sotto i portici e l’osservai. Sembrava piuttosto trasandato rispetto al solito. Aveva la barba lunga e i capelli spettinati. Portava un paio di occhiali da sole e l’andatura era meno spavalda di una volta. Non provai niente. Il tempo aveva curato tutte le ferite. Era fuori dalla mia vita. Lo guardai infilarsi in un taxi e partire, poi mi voltai e ripresi a passeggiare serenamente. Il lunedì mattina, per rispettare le buone abitudini, mi presentai in ufficio in anticipo, indossando un tailleur nero e delle comode scarpe con un po’ di tacco. Avevo voglia di rivedere i colleghi e di riprendere il mio lavoro. Arrivata alla mia scrivania, poggiai la borsa a secchiello sulla sedia e mi avviai alla macchinetta del

caffè. I corridoi erano deserti e mi tornò in mente quella mattina in cui avevo fatto colazione con Étienne. Sembrava tutto così lontano, adesso. Qualche minuto dopo, la sala relax cominciò a riempirsi di colleghi. Mi salutarono tutti con affetto e cominciarono a inondarmi di domande. Mi sentii una piccola celebrità e fui felice di raccontare ogni dettaglio di quella bella avventura. Mentre scherzavo con alcune ragazze della differenza tra maschi francesi e maschi italiani, entrò Valentina. Mi fulminò con lo sguardo poi, senza neppure salutarmi, si mise a studiare la lista delle bevande del distributore, che conosceva a memoria. Se quello era il suo gioco, avrei fatto io la prima mossa. Ero stufa delle sue angherie. «Ciao, Valentina», le dissi, con espressione fiera. Non rispose, ma non mollai la presa. «Tutto bene?», continuai senza curarmi della sua finta indifferenza. Si voltò e puntò i suoi occhi cattivi su di me: «Sto bene, mai stata meglio. Ho passato tre splendide settimane». «Be’, adesso sono tornata. Fattene una ragione. Ho imparato molto in queste settimane e ho intenzione di dimostrarlo. Se hai qualche problema con me, dovresti risolverlo. Ho già i miei casini e non ho bisogno che tu me ne crei di nuovi», le dissi tutto d’un fiato, tirando fuori un’energia che non pensavo di avere. Mi guardò per un momento, in silenzio, senza sapere cosa dire. I colleghi intorno continuavano a fissarci senza fiatare. «Non ho nessun problema con te», disse, selezionando un mocaccino. «Ho solo voglia di bere un caffè e di rimettermi a lavoro», continuava a non guardarmi negli occhi. Respirai profondamente per scaricare la tensione. Prima di andarsene, si voltò e disse: «Bentornata». Avevo avuto il coraggio di affrontare le mie piccole paure e avevo detto a Valentina quello che pensavo. Parigi mi aveva cambiata. Tornata alla mia scrivania, cominciai a studiarmi un po’ gli ultimi eventi che mi ero persa. I matrimoni stavano tutti procedendo alla perfezione e non c’erano stati grossi problemi in mia assenza. Mentre controllavo la posta elettronica, ricevetti una telefonata dalla direzione: Paolo voleva vedermi per parlarmi di Parigi. Lo raggiunsi sorridendo. Ero contenta dell’accoglienza calorosa che avevo ricevuto quella mattina e mi ritenevo molto soddisfatta per aver messo a tacere quell’arpia di Valentina. Quando arrivai, trovai la porta aperta. Paolo era in piedi davanti al suo tavolo e sfogliava alcune carte. «È permesso?», chiesi prima di entrare nella stanza. «Rebecca, che piacere vederti. Ti stavo aspettando». Chiusi la porta e mi accomodai su una poltrona. «Allora, com’è andata a Parigi?» «Benissimo, è stata un’esperienza indimenticabile». «Sono davvero contento», disse prendendo posto di fronte a me. «Ho ricevuto stamattina la relazione di Étienne...». Mi si formò un nodo alla gola. «E devo dire che mi ha lasciato piuttosto perplesso». Le mani iniziarono a tremarmi. Possibile che Étienne si fosse vendicato scrivendo una brutta relazione sul mio lavoro? Poteva essere così meschino?

«Posso spiegare...», cercai di articolare qualche giustificazione. «Ma non c’è niente da spiegare! Ti avevo mandata lì per imparare e invece...». «Ehm... invece?» «Invece sembra che il tuo contributo sia stato determinante!». Davvero? Avevo avuto un paio di idee carine per alcune cerimonie ed ero riuscita a risolvere qualche problemino con dei fornitori, ma mi sembrava di aver fatto semplicemente il mio lavoro. «Sono molto orgoglioso di te!», disse Paolo, tendendomi una mano, affinché la stringessi. «Quando sei arrivata qui non sapevo bene cosa pensare. Sembravi spaesata e credevo che non saresti mai riuscita a trovare la spinta giusta per organizzare matrimoni, e invece devo ammettere che mi sbagliavo. Hai tirato fuori una grande grinta e sei diventata una delle migliori». Ero felice e imbarazzata. Non ero abituata ai complimenti e non sapevo cosa dire. Étienne doveva aver mandato una relazione molto buona, nonostante l’avessi abbandonato come un cretino in aeroporto. «Hai fatto onore alla nostra agenzia, Rebecca. Per questo motivo ho deciso di promuoverti. Da oggi sei vice-responsabile della sezione matrimoni e riceverai aumento in busta paga», mi disse, sorridendomi. Non riuscivo a crederci, mi veniva da piangere per la felicità. «Grazie! Non so cosa dire...». «Non devi dire nulla, te lo sei meritato. Ora torna al lavoro e fai del tuo meglio». Gli strinsi di nuovo la mano e mi avviai verso l’ascensore. Era stato un bellissimo rientro. Quando tornai a casa, scrissi a Elodie perché volevo raccontarle della mia giornata e chiederle come stava. Mi mancava molto, la sua allegria e la sua spensieratezza mi avevano alleggerito il cuore in tante occasioni. Dopo aver inviato l’e-mail, mi ricordai del tè che avevo comprato alla signora Leoncini e decisi di andare a farle visita. Quando arrivai davanti alla sua porta, sentii il suono del pianoforte e attesi un po’ prima di bussare. Mi piaceva ascoltare la sua musica. Poi, decisi che era arrivato il momento di interromperla. «Oh, cara», mi disse non appena mi vide, salutandomi con calore come se fossi una vecchia amica. «Non l’aspettavo». «Mi scusi se la disturbo, ma sono appena rientrata da Parigi e le ho portato un pensiero». «Non mi disturba affatto, tesoro. Si accomodi pure». In un angolo del salotto, il grosso pappagallo stava dormendo sul trespolo. Notai subito che sul tavolo aveva tre candele accese e un pezzo di torta. «Sta festeggiando qualcosa?», le chiesi. «Oggi è il nostro anniversario», mi rispose. Parlava del suo amore perduto, mi commosse. «Questo è per lei», le dissi, porgendole una bustina. «Grazie, non doveva scomodarsi». «Si figuri, è stato un piacere. Volevo solo portarle un piccolo ricordo del mio breve soggiorno francese». «Lo apprezzo molto. Le andrebbe di bere un bicchiere di spumante con me?». Accettai volentieri. Condividere le nostre solitudini poteva essere una buona idea. «Oggi sarebbero stati quarantadue anni insieme», mi disse porgendomi un calice e una fetta di torta. «Le manca molto?», chiesi, sperando di non essere stata troppo invadente. «Ogni giorno come il primo giorno». Guardò fuori dalla finestra. «Ha vissuto un grande amore», quella frase mi uscii dal cuore.

«Il più grande». Mi sorrise e si accomodò di nuovo al pianoforte. «Stavo suonando qualcosa per lui, vuole ascoltare un po’?». Annuii. Suonò per tutti gli amori impossibili, per il suo, tragicamente scomparso, e per i miei, mai sbocciati. Nei giorni successivi, il lavoro mi assorbiva la maggior parte del tempo. Diventare vice-responsabile aveva aumentato il mio stipendio, ma anche tutte le mie responsabilità. Valentina si era un po’ ammorbidita, ma continuava a darmi del filo da torcere. Avevo resistito alla tentazione di scrivere a Étienne e lui aveva fatto altrettanto. Mi mancava da morire. Il giorno del grande matrimonio, quello che era stato il mio primo vero incarico in Five, decidemmo di convocare tutto lo staff al completo. Valentina presidiava la cappella per la cerimonia, mentre io e alcuni altri colleghi restavamo nel castello per controllare che fosse tutto pronto per il rinfresco. Il matrimonio fu un successo, complice anche l’inaspettata bella giornata di fine marzo. Mentre salutavamo per andarcene, la sposa ci chiese di rimanere per il lancio del bouquet. Sapeva che io e Valentina eravamo single e voleva rispettare la tradizione: tutte le donne sole dovevano partecipare al lancio dei fiori. Mi piazzai controvoglia alla fine di un gruppetto di amiche della sposa e cercai di dare meno nell’occhio possibile. La sposa si voltò e lanciò il bouquet. Il mazzo di rose bianche, camelie e calle passò sopra le teste di tutte le donne presenti, che gridavano e si agitavano, e atterrò proprio su di me, per poi cadere sul prato. Lo sollevai da terra, un po’ incredula, tra gli applausi della gente. «Congratulazioni, Rebecca», mi disse Valentina, ridendo. «Auguri!», disse la sposa abbracciandomi. «A quanto pare la prossima sarai tu!». Guardai i fiori senza riuscire a sorridere. Il destino era davvero beffardo.

19 L’ABITO GIUSTO, L’UOMO SBAGLIATO

«Non puoi continuare così. Riprenditi! Prima o poi dovrai iniziare a ricostruirti una vita». Emma mi sgridò al telefono, dopo che avevo rifiutato l’ennesimo invito a uno dei suoi aperitivi. «Ho solo voglia di stare un po’ per i fatti miei», le risposi, senza riuscire ad aggiungere altro. Nell’ultimo periodo mi ero trasformata in un orso. Lavoravo moltissimo, anche fino a notte fonda, e la sera uscivo poco. Anzi, pochissimo. Non avevo voglia di stare in mezzo alla gente, non mi andava di truccarmi e vestirmi per finire la serata a bere e a chiacchierare con qualche amico di amici. Emma e Claudio cercavano di farmi accoppiare con qualsiasi maschio disponibile all’orizzonte, lo facevano in buona fede, lo capivo, per far provare anche a me la gioia di avere qualcuno con cui condividere un pezzo di vita, ma era tutto inutile. Io volevo stare sola. «Smettila di pensare a quello che non è stato, devi reagire, Coco. Il mondo è pieno di occasioni, ma non le coglierai mai se rimani a marcire sul tuo divano». «Be’, è un divano comodissimo». Pensavo sempre, sempre, sempre a Étienne, al nostro bacio, a come sarebbe stato se lui non avesse avuto un’altra, a cosa sarebbe successo se fossi rimasta di più a Parigi. Se avessi avuto la possibilità di tornare indietro, avrei cambiato molte cose. «Hai ragione, Emma. È vero, devo reagire. Ma ho bisogno di più tempo. È stato un anno faticoso e non sono pronta a mettere tutto da parte e ricominciare». «Invece, lo devi fare. È l’unico modo che hai per stare bene. Metti da parte i rimpianti e i rimorsi e ricomincia. Guarda il lato positivo: non devi ricominciare da zero. Hai un bel lavoro, hai noi, hai tantissime paia di scarpe bellissime. Ricomincia da questo, da tre, da quattro, da cinque, da quello che credi abbia un valore nella tua vita. Il resto verrà da sé». Il resto non veniva mai da sé. Il resto andava sempre altrove, dove diamine voleva lui. «Grazie Emma, so che ci sei, ma adesso ho voglia di stare qui a mangiare gelato». «Se non vuoi farlo per me, fallo almeno per la tua taglia 42». Aveva toccato un tasto dolente. A furia di ingozzarmi di dolci per la disperazione, rischiavo di ingrassare. «Ok, un punto per te! Hai ragione. Dovrei stare a casa ad autocommiserarmi mentre digiuno». «Stupida!», disse con voce divertita. «Dai, te lo chiedo per l’ultima volta. Infila uno dei tuoi deliziosi tubini e raggiungimi al locale. Ti farà bene». Avrebbe passato tutta la serata a insistere, la conoscevo. «Va bene, vengo. Però sappi che non sarò di compagnia. Sai bene che sono la regina delle lamentele e stasera indosserò un muso lunghissimo». «Vorrà dire che per compensare dovrai indossare una gonna cortissima». Risi. Emma non mollava mai. Mi vestii e mi truccai controvoglia, quasi evitando lo specchio. Un giorno avrei scritto un libro sulle sofferenze d’amore. L’avrei intitolato Dalle stelle alle stalle: storia di una trasandata con il cuore a pezzi.

Indossai un paio di ballerine e uscii di casa, accolta da una leggera brezza che finalmente aveva spazzato via i nuvoloni. Il locale era poco distante da casa, così optai per qualche passo a piedi. Quella sera, avevo voglia di marciare all’infinito e di diventare invisibile. Quanto entrai nel bar, mi misi alla ricerca di Emma ed Elena. C’era troppa gente e non riuscivo a trovarle. Uscii per chiamarle e mentre avevo il telefono incollato all’orecchio e gli occhi che scandagliavano i dintorni, notai una coppia fuori da una pizzeria, dall’altro lato della strada. Erano molto vicini e ridevano in maniera complice. Lo sguardo mi cadde sulla ragazza. Era una biondina magra e mi dava le spalle. Mi parve di riconoscerla, ma poi pensai che non fosse possibile. Era lei? Ancora lei? La maledetta Anna? Mi nascosi dietro un’auto e provai a guardare meglio. In compagnia di un ragazzo alto e ben vestito, c’era proprio la mia grande, scialba rivale. La donna da amare. Rideva, divertita dalle parole del bellimbusto, e il suo corpo si protendeva verso quello di lui, segno evidente che lo trovasse attraente. La stupida sciacquetta stava flirtando. Quindi, non solo mi aveva rubato l’uomo, ma passava anche le serate a fare l’oca con gli altri. Non riuscivo a staccarle gli occhi di dosso, avevo una morbosa voglia di vedere come sarebbe andata a finire. «Eccoti! Sei qui!». Emma era uscita dal locale a cercarmi e mi aveva trovata accovacciata a terra. «Cosa stai facendo?», mi gridò, per contrastare la forte musica che proveniva dall’interno. La zittii con una mano e le feci segno di nascondersi. Non volevo che Anna ci vedesse, anche se la biondina era troppo occupata con il suo Don Giovanni per accorgersi del resto del mondo. «Coco, mi spieghi cosa sta succedendo?», chiese, dopo essersi chinata anche lei dietro la vettura. «C’è Anna». «Chi?» «Anna. Quell’Anna. La ex amica che mi ha rubato l’ex uomo!», le indicai l’altro lato della strada, dove i due continuavano la loro danza della seduzione. «Ma quello non è Niccolò!». «Che occhio! Sei davvero una lince». «Mi pare che i due siano molto...». «L’hai notato anche tu?». Anna si era avvicinata ancora di più all’uomo e gli aveva sussurrato qualcosa all’orecchio. Lui aveva riso e poi le aveva messo una mano su un fianco, stringendola a sé. Lei gli aveva accarezzato i capelli prima di dargli un leggero bacio sulle labbra. «Il nostro comune amico non sarebbe contento di vedere la sua principessa avvinghiata a un altro». «Non credo proprio», ridacchiai. Sentii crescermi dentro un moto di sana soddisfazione. «Credi che lo tradisca?» «Non credo proprio nulla e non mi interessa, ma il Signor Perfettino, Mister “voglio qualcuna da amare”, se l’è scelta proprio bene la compagna della vita», dissi tradendo il mio divertimento. L’Adone le diede un piccolo bacio sul collo e sparirono nella pizzeria. Emma, ancora accovacciata dietro l’automobile, mi guardò sorridendo: «Hai visto che avevo ragione a farti uscire di casa?» «Devo darti ragione, non ero così allegra da giorni». Ci alzammo e tornammo verso il locale. «Non è strano vedere la donna perfetta che flirta con un altro uomo?», mi chiese Emma, mentre ci infilavamo nella confusione del bar.

«È strano, ma anche molto liberatorio. Mi sono chiesta così spesso cosa avesse lei che io non avevo e adesso lo so. È molto più furba di me e molto più gattamorta. Sono contenta di non frequentare più un uomo che desidera stare con una donna del genere». Per settimane intere avevo pianto, soffrendo per non essere lei, e adesso ero di nuovo contenta di essere me stessa: la piccola, leale e fedele Coco. Ordinai un cocktail e passai tutta la sera a ballare e a bere. Avevo avuto un’altra piccola rivincita. La mattina dopo arrivai in ufficio con un gran cerchio alla testa. Stavo riprendendo le mie care, pessime abitudini milanesi. Dopo avere consumato tutta la mia dose quotidiana di caffeina nelle prime ore del giorno, provai a lavorare. Avevamo un altro importante matrimonio alle porte e dovevo accertarmi che tutto fosse come ci era stato richiesto e che le consegne sarebbero state rispettate. Mentre facevo una pausa per scrivere a Elodie, mi arrivò un’e-mail inaspettata quanto curiosa. Era ancora Niccolò, che mi chiedeva se avessi voglia di rivederlo. «Perché dovrei rivederti, idiota?», dissi a bassa voce, imprecando verso il computer. Che tempismo, l’architetto! La sera prima trovavo la sua amata avviluppata a un altro e la mattina dopo lui mi chiedeva di uscire. Cos’era? Una candid camera? Cestinai il suo messaggio senza nemmeno rispondere e ripresi a lavorare, in compagnia del mio mal di testa. Nel tardo pomeriggio, mi chiamò la sposa che sarebbe dovuta convolare a nozze nei giorni successivi. Era in preda a un attacco di panico perché l’atelier che doveva confezionarle l’abito aveva avuto un ritardo con le consegne. Sarebbe partita quella sera per il lago Maggiore, dove si sarebbe tenuta la cerimonia, e non aveva più il tempo di andare a ritirarlo. Dopo aver ascoltato le sue grida disperate al telefono, decisi di immolarmi io per la causa: sarei passata a ritirare l’abito l’indomani pomeriggio, l’avrei tenuto a casa mia, proteggendolo con le unghie, e all’alba mi sarei messa in viaggio per portarglielo. Tranquillizzata la sposa, feci richiesta per ottenere la macchina aziendale per i due giorni successivi e lasciai l’ufficio. Quella sera ero a cena da Claudio per una serata “chili e lacrime”. Lucrezia aveva scelto il film e sapevo già che avrei passato la serata a piangere sul divano del mio amico. Era catartico, e io ne avevo bisogno. «È qui che si piange, stasera?», dissi, non appena Claudio mi aprì la porta. «Stasera non si piangerà, tranquilla», gridò Lucrezia dalla cucina. «Come mai? Vi state disintossicando dai film tristi?» «Abbiamo scelto il più grande classico delle storie d’amore: Cenerentola!». «Ecco, finalmente una storia seria, in cui lui sceglie la donna che indossa le scarpe più belle». Quando finì il film, io nuotavo in una valle di lacrime. «Piangi anche per il lieto fine, Coco?», chiese Lucrezia, passandomi un kleenex. «Ormai piango soprattutto per quelli». Era stato così toccante vedere il Principe Azzurro che cercava la sua bella, tra mille. Cenerentola aveva avuto una fortuna sfacciata. Nessuna delle sorellastre aveva scritto una lettera d’amore al Principe, chiedendolo in marito, e lui aveva potuto scegliere lei senza rimpianti. Cosa che Étienne non aveva fatto... «Lui voleva lei e l’ha scelta tra tutte, non è romantico?» «Vedrai, prima o poi, un principe azzurro sbronzo, in qualche parte remota del pianeta, rinsavirà e verrà a cercare anche te. Non farà fatica a trovarti, se si presenterà con una scarpa in mano», disse

Claudio, sorridendo. Lucrezia e io scoppiammo in una sonora risata. «Anch’io ti voglio bene», gli dissi, abbracciandolo. Il giorno dopo mi aspettava un pomeriggio all’atelier per recuperare il vestito e una giornata di viaggio per andare a consegnarlo all’isterica sposa. Arrivai in ufficio molto presto, sbrigai tutto il lavoro in poche ore, poi pranzai con un paio di colleghe, chiesi in portineria le chiavi della macchina aziendale e mi misi in moto. Il successo del matrimonio dipendeva da me. Mi sentivo come un’agente segreto in missione. Prima tappa: atelier. Fui accolta da una signora di mezz’età, che indossava un elegante tailleur nero e portava i capelli raccolti un piccolo chignon. «Sono qui per ritirare un vestito», le dissi sorridendo. «Certo! Il matrimonio Visconti. Scusi ancora per il ritardo. Lei è la sposa, cara?» «No, io sono solo la wedding planner. Non sono sposata». «È cosa aspetta a farlo?», la signora sorrise, mentre mi accompagnava in un’enorme stanza piena di abiti. «Ehm, forse l’uomo giusto?», ridacchiai. «Ottima osservazione», disse mentre prendeva l’abito. «Le auguro di trovarlo in fretta. Una bella ragazza come lei dovrebbe indossare assolutamente uno dei nostri abiti». «Ehm... Se dovesse capitare, lo farò senz’altro», dissi recuperando il pacco e avviandomi verso l’uscita. «Buona fortuna, cara!». «Grazie», risposi imbarazzata. Anche la commessa mi aveva ricordato quanto fosse triste essere single. Grazie di cuore a tutti. A casa, appesi l’abito alla porta della camera da letto e poi guardai un po’ di televisione. Poco prima di prepararmi la mia solita triste insalata, fui colta da una insana fantasia. Avevo quasi trentaquattro anni e non avevo mai indossato un abito da sposa. Certo, avevo sempre detestato i matrimoni e, considerata la mia fortuna in fatto di uomini, non avrei mai avuto occasione di salire all’altare, però, perché non fare una piccola prova? Giusto per vedere come mi stava. Per semplice curiosità. Poi l’avrei rimesso nella sua confezione e l’avrei consegnato intatto alla legittima proprietaria. Un lavoro pulito. La sposa, a quanto ricordavo, doveva avere più o meno la mia taglia. Mi decisi: afferrai la custodia per abiti e la adagiai sul letto. Aprii lentamente la zip e sfilai il vestito. Era di morbida seta e chiffon e aveva dei semplici ricami e alcune perline sul corpetto. Mi piaceva molto. Mi spogliai con calma, poi lo indossai, facendo attenzione a non rovinarlo. Mi guardai per un lungo momento allo specchio: indossare un abito da sposa stava facendo vacillare tutto il mio cinismo. Forse lo volevo anche io. Forse avevo anche io voglia di un matrimonio romantico e indimenticabile. Mentre continuavo a specchiarmi, sentii suonare alla porta. Doveva essere Claudio che passava a salutarmi. Sarebbe scoppiato a ridere vedendomi così conciata. «Arrivo!», gridai, raggiungendo a fatica alla porta. «Non ci crederai mai...», dissi, convinta di trovare il mio amico a bocca aperta dall’altro lato della porta.

«Ciao», mi sentii rispondere da una voce familiare. Non era Claudio. Era l’ultima persona al mondo che avrei voluto trovare sul mio pianerottolo. Di fronte a me c’era Niccolò, con uno dei suoi soliti vestiti scuri e con una bottiglia di vino in una mano. «Cosa ci fai tu qui?». Ero sconvolta. «Ti ho cercata diverse volte, ma non mi hai mai risposto». E non ti è venuto in mente che non volessi sentirti? «Allora ho trovato il tuo indirizzo, ed eccomi qui», disse, sfoderando uno dei suoi migliori sorrisi da conquistatore. «Chi ti ha fatto entrare nel palazzo?». Avesse citofonato, l’avrei lasciato a marcire per strada. «Una strana donna con un cappellino di piume. Stava uscendo e le ho chiesto di farmi entrare». «Cosa vuoi?» «Ma... Stai per sposarti?», disse incredulo, guardando il vestito. «No... È una lunga storia... E poi non sono fatti tuoi! Allora, cosa vuoi?» «Non mi fai entrare?», chiese con uno sguardo quasi implorante. Ormai era lì, sulla mia porta, mi sembrava di non avere altre possibilità. Dopotutto, ero una persona educata. «Dammi qualche minuto per cambiarmi». Infilai in fretta un paio di pantaloni e una maglietta e lo raggiunsi. Era alle prese con un cavatappi, intento ad aprire la bottiglia che aveva portato. «Ti va un po’ di vino?», mi chiese, mentre mi fissava sorridente. «Sei venuto qui per offrirmi del vino?» «No, hai ragione», stappò la bottiglia e cercò dei bicchieri per versare da bere. Si comportava come se fosse a casa sua e la cosa mi stava innervosendo. Non avevamo più la complicità di un tempo e non poteva venire nel mio appartamento a fare quello che voleva. «Allora? Sto aspettando», gli dissi, cercando di contenere la rabbia. La voce mi tremava e avevo uno strano formicolio alle mani. «Scusami, è vero. Ti devo una spiegazione. Sono venuto per parlarti». «Parlarmi? Non abbiamo più niente da dirci». «Lo so che sei arrabbiata con me, Coco...». «Non chiamarmi Coco. E non sono affatto arrabbiata con te. Semplicemente, tu non esisti più. Ti ho cancellato dalla mia vita e non voglio più avere nulla a che fare con te». Mi fissò per un momento, immobile. Poi riprese a parlare. «Sono successe tante cose, Co... Rebecca. Lo so che mi sono comportato male con te». «Non ti sei comportato male», lo interruppi. «Sei stato un vero stronzo!». «Hai ragione. Mi merito i tuoi insulti e la tua rabbia. Però sono cambiato, sono una persona diversa da quella che hai frequentato tu». Niccolò che cambiava? Mi sembrava impossibile. «Non mi interessa. Non ho voglia di avere a che fare né con il vecchio né con il nuovo». «Sei crudele, Rebecca. Lasciami almeno spiegare». Il carnefice che dava della crudele alla vittima. Il mondo aveva per caso iniziato a girare al contrario? «Vedi», continuò, «ho capito molte cose nell’ultimo periodo. E tra queste, ho capito di aver sbagliato tutto con te. Non avrei dovuto lasciarti andare. Tra di noi c’era qualcosa di speciale». «Be’, pensavo di non essere abbastanza speciale per te. Non ero una “da amare”. Non è per questo motivo che mi hai lasciata per stare con una mia, diciamo, amica?» «È stato un errore imperdonabile. Tu eri giusta per me, non lei».

Lo fissai con più attenzione. Aveva delle profonde occhiaie e sembrava dimagrito. Il collo della camicia non era perfettamente stirato e aveva la barba di qualche giorno. All’improvviso, capii. Anna che flirtava con un altro, Niccolò che veniva a porgermi delle scuse. Era tutto chiaro. «Ti ha lasciato, vero?», gli dissi, non riuscendo a trattenere un sorriso sarcastico. «No... Non esattamente... Non è così...». «Ti ha tradito e poi ti ha lasciato, di’ la verità», iniziai a ridere di cuore. Anna si era comportata davvero da donna ideale, nulla da dire! Applausi. «Sì, mi ha... ci siamo lasciati, è vero. Ma non eravamo fatti l’uno per l’altra. Quando ho capito che lei non era perfetta come te...». «Smettila, Niccolò. Un po’ di dignità. Ti ha lasciato e adesso tu torni da me con la coda tra le gambe perché sei rimasto solo». Non replicò, avevo fatto centro. «Sai cosa ti dico? Non saprei che farmene di uno come te. Un uomo che ha preferito un’altra. Un’altra completamente sbagliata. Uno che è andato dietro a un paio di belle gambe e a una chioma bionda. Sei patetico». Provò a dire qualcosa, ma non gliene lasciai il tempo. «Se fossi tornato da me qualche mese fa, ti avrei accolto a braccia aperte. Ero disposta anche a umiliarmi pur di riaverti indietro. Pensa che stupida! Ho pianto così tanto per te che pensavo che le lacrime non sarebbero mai finite». «Io non...», tentò inutilmente di dire qualcosa. «Ma adesso è diverso. Non sono più la piccola Coco fragile alla quale hai spezzato il cuore. Non so più cosa farmene di uno come te». Provò a toccarmi un braccio, ma mi allontanai. «Esci da casa mia», dissi, indicandogli la porta. «Stai facendo un errore Rebecca», rispose, recuperando un po’ della sua solita arroganza. «Se mi lasci andare adesso, potrei non tornare mai più!». «Vorrà dire che me ne farò una ragione». Aprii la porta e lo fissai, inferocita. «Rifletti, Rebecca». «Ho riflettuto abbastanza. Credimi. Non mi interessi. E, poi, non sai che porta sfortuna vedere una donna in abito da sposa, prima del matrimonio?». Risi di lui. Abbassò la testa, sconfitto, e uscì sul pianerottolo. «Eravamo una bella squadra...», sussurrò. «Forse lo siamo stati», risposi, guardandolo negli occhi. «Ma io, adesso, gioco da sola». Chiusi la porta e rimasi qualche momento immobile a sbollire la rabbia. Avevo fatto la cosa giusta. Ero orgogliosa di me. Sentii il cuore più leggero, come se si fosse liberato di un piccolo sassolino rimasto incastrato per troppo tempo. Mi avvicinai alla bottiglia di vino che Niccolò aveva lasciato sul tavolo e me ne versai un bicchiere, brindando alla mia libertà, agli uomini sbagliati e quelli giusti che, prima o poi, sarebbero arrivati.

20 LA NUMERO UNO

«Per essere insostituibili bisogna essere unici». Chanel aveva ragione. Ero stanca di non essere abbastanza, di rappresentare sempre la seconda scelta, quella a cui preferivano chimere. Io andavo bene così. Ero unica e non avevo più voglia ci cambiare, di trasformarmi per un maschio, di adeguarmi ai suoi desideri. L’uomo della mia vita avrebbe dovuto prendermi per quella che ero: una donna forte e fragile, sicura di sé, ma anche bisognosa di attenzioni, una donna che sapeva quello che voleva e, soprattutto, sapeva quello che non voleva. Avevo cercato tutta la vita di essere un’altra, di rispondere ai desideri di ogni amante. E invece poi avevo scoperto che non c’era nulla di sbagliato in me, io funzionavo, io mi piacevo. I mesi erano passati e mi sentivo a mio agio con me stessa, con il mio lavoro e i miei amici. Avevo trovato un equilibrio ed ero pronta ad affrontare il futuro con grinta ed entusiasmo. Milano era diventata casa mia, anche se spesso ripensavo a Parigi. Quando, alla fine di giornate faticose, mi assaliva la malinconia, mi immaginavo intenta a camminare per gli spaziosi boulevard parigini, a fissare lo scorrere placido della Senna, a godere della brezza lieve sulle panchine del Jardin du Luxembourg. Lì ero ripartita da zero, da me. Chissà se anche Coco si era sentita così nuova e forte, quando era arrivata sotto il cielo della Ville Lumière, con pochi franchi in tasca e i suoi cappellini da vendere. Come lei, dopo ogni delusione amorosa, mi ero tuffata nel lavoro ed ero diventata sempre più in gamba. Avevo iniziato ad amare i matrimoni che organizzavo. In ognuno di loro c’era una promessa, il desiderio di condividere un sogno, di restare insieme nel bene e nel male. In pochi mesi, ero diventata la wedding planner più appassionata dell’agenzia e mi capitava spesso di commuovermi alle cerimonie a cui partecipavo. Desideravo innamorarmi ancora, anche se sapevo che il mio cuore non era ancora pronto. In un angolino di quel muscolo che mi batteva in petto, c’erano ancora i profondi occhi blu di Étienne. Un pomeriggio come tanti, ero rimasta in ufficio oltre l’orario di lavoro per risolvere un problema legato alla consegna di un’enorme torta nuziale. Mi piaceva lavorare nel silenzio e nella solitudine, riuscivo a essere più concentrata e produttiva. Mentre mi arrampicavo su un alto scaffale, su cui erano allineati dei grossi faldoni, uno dei miei sei fili di perle si impigliò in un chiodino. Per liberarmi dalla presa, tirai la collana e in pochi secondi una cascata di perle biancastre precipitò sul pavimento. Scesi dalla scala e mi inginocchiai per raccogliere quel disastro. Mentre ero china sotto la scrivania, vidi due mani avvicinarsi alle mie. Erano curate e lisce, con le dita lunghe e sottili. Mani che non avrei mai potuto dimenticare. Mi girai lentamente, ancora in ginocchio, e lo vidi, a pochi centimetri da me, con il suo profumo inconfondibile e lo sguardo dolce di sempre. «Cosa... Tu... Sei qui?», gli chiesi, con la voce che mi tremava per l’emozione.

«Sono qui. Per te. Devo parlarti, Coco», mi disse Étienne, rialzandosi in piedi e porgendomi una mano. Mi sollevai e lo fissai. Era bellissimo. Non sapevo cosa dire, volevo assaporare di nuovo le sue calde labbra, ma avevo anche voglia di scappare via. «Non sapevo fossi a Milano», gli dissi, distogliendo lo sguardo per non tradire alcuna emozione. «Sono arrivato poco fa. Sapevo che ti avrei trovata qui. Paolo mi ha detto che stai lavorando molto in questo periodo». «Cosa vuoi?». Cercavo di mettere fine a quella conversazione che mi stava turbando moltissimo. Avevo pensato molte volte a come sarebbe stato rivederlo, a cosa avrei provato. Adesso lo sapevo: non ero arrabbiata. Ero triste, ferita, ma continuavo a sentire qualcosa di travolgente. «Non faccio altro che pensare a te, Coco, notte e giorno», mi disse, guardandomi negli occhi. «Da quando sei andata via da Parigi, le giornate sembrano durare un’eternità. Ogni mattina passata senza vedere il tuo sorriso, senza incontrarti per i corridoi dell’agenzia, è una mattina senza senso. Mi manca tutto di te, il sorriso, il profumo, le tazzine di caffè lasciate in disordine sulla scrivania. Perfino le tue giacche di tweed». Sorrisi. «Senza di te ho perso il gusto per qualsiasi cosa, per il vino, il cibo, i tramonti, per i lunghi viaggi in macchina. Nulla ha più sapore. Nulla mi sembra più avere senso». Avrei voluto abbracciarlo e confessargli che anche io provavo le stesse cose. Anche io mi svegliavo con un nodo allo stomaco al pensiero di non poterlo vedere. Anche io non sentivo più i sapori, non distinguevo gli odori, non riuscivo più a ridere senza pensare al suo sorriso. Avrei voluto stringerlo forte a me e perdermi nei suoi baci. Ma non lo feci. Volevo prima sapere la verità. «Hai lasciato Juliette?», gli chiesi con voce speranzosa. «Io... Vedi, Coco, non è facile per me. Ci sono molte cose che non ti ho detto, di lei, di noi...». «Cos’altro c’è da sapere? Cosa c’è da capire?» «È complicato... La lettera che hai letto... Il matrimonio... Non riesco ancora a farlo. Non ci riesco». Rimasi un istante a fissarlo, mentre la delusione cresceva violenta in me e gli occhi si riempivano di lacrime. «Mi dispiace, Étienne, non può funzionare. Se non sei pronto a scegliere me, se non sei pronto a fare di me la sola, l’unica...». «Aspetta!», mi interruppe. «Dammi un altro po’ di tempo». «Aspettare cosa? L’amore non si decide a tavolino, l’amore si vive. In amore ci si lancia senza paracadute. In amore si rischia, anche sapendo di poter perdere tutto. Tu non hai il coraggio di rischiare». Mi afferrò un braccio e puntò le sue pupille blu nelle mie. «Dammi almeno una speranza», mi disse. Presi la sua mano, la allontani dal mio braccio e la strinsi forte. Gli sorrisi, intrecciai le dita nelle sue, poi allentai la presa. Mi voltai a prendere la mia borsa e la giacca e, senza dire una parola, me ne andai. Per la seconda volta. La sera dopo era il compleanno di Claudio e andammo tutti a cena insieme. Aveva prenotato un tavolo in un ristorante molto chic e ci aveva chiesto di essere eleganti. In macchina, mentre Elena guidava, Emma mi chiese come stavo. «Ieri è tornato Étienne».

«Ah! È venuto a trovarti? Davvero? E cosa ti ha detto?», si voltò a guardarmi. «Mi ha chiesto altro tempo...». «Non ha ancora lasciato la sua fidanzata?», Elena si unì alla conversazione. «Sono tutti uguali, pavidi smidollati. Non sa cosa si sta perdendo», commentò Emma. Le poggiai una mano sulla spalla. «Grazie. Sei davvero una grande amica». «Puoi dirlo forte! E, se me lo chiedessi, andrei fino in Francia a prendere a calci il tuo biondino». «Ti ringrazio, ma non ce n’è bisogno», le risposi ridendo. «La verità è che credo di essermene innamorata. Ieri, mentre lo lasciavo andare, ho capito che è così. Lo amo e non so che fare». «Ahia!», disse Emma, fissando la strada davanti a sé. «Speriamo allora che faccia in fretta». «Non tornerà, lo so». «Non perdere la speranza», cercò di rincuorarmi Emma. Ancora la maledetta speranza. Stava per terminare anche quella. Al centro del tavolo, una piccola composizione di fiori bianchi sosteneva una lunga candela. Aspettammo qualche minuto l’arrivo dei nostri amici, iniziando a sfogliare il lungo menu. Avevo lo stomaco chiuso, ma avrei fatto uno sforzo per non rovinare la festa. Claudio e Lucrezia arrivarono poco dopo. Lui indossava un abito nero e lei un bel vestito di seta chiara. «È la prima volta che ti vedo così elegante!», dissi a Claudio, stampandogli un bacio sulla guancia. «È un’occasione speciale», rispose, strizzandomi l’occhio. Diede velocemente un’occhiata ai vini. «Che ne dite se ordinassimo da bere?». Avevamo tutti voglia di tuffarci in un buon calice e lasciammo a lui la scelta. «Come procedono i lavori per la casa nuova?», chiese Lucrezia a Elena. Le due ragazze stavano traslocando in un appartamento più grande che avevano comprato insieme. «Stiamo impazzendo per piastrelle del bagno, però siamo molto soddisfatte». «Finalmente avremo più spazio per le nostre cose», aggiunse Emma. «E tu non invaderai sempre il mio lato dell’armadio con i tuoi nuovi acquisti», le rispose la fidanzata, prendendola in giro. «La convivenza è un’impresa davvero faticosa», disse Claudio. «Lo sapete che ho dovuto mettere negli scatoloni metà dei miei DVD per fare spazio alla collezione di case in miniatura di Lucrezia?». Lei rise e gli diede un piccolo buffetto su una mano. «Ti sei sacrificato per una giusta causa», commentò, ridendo. «Per non parlare del mio bagno, invaso dai cosmetici. Ma dove trovate il tempo per spalmarvi tutte quelle creme, voi donne?» «Siete così dolci che a guardavi uno rischia di andare in iperglicemia», scherzò Emma. Sorrisero entrambi un po’ imbarazzati. Arrivò il momento del dolce. Claudio aveva fatto preparare delle squisite mousse ai lamponi, rivestite di un delicato cioccolato bianco. «Sarà anche piena di calorie», dissi infilandomi in bocca un cucchiaino di quella morbida crema, «ma vale davvero la pena di farsi venire la cellulite per una tale delizia». «Così parla una vera donna!», disse Emma, leccandosi le labbra. «Questo non è un lampone», esclamò Lucrezia, sentendo qualcosa di duro a contatto con il suo cucchiaio. Lo afferrò e il suo viso arrossì all’improvviso. «Non è... Non sarà mica...?», non riuscì a terminare la frase. Claudio le prese il piccolo oggetto sporco di mousse dalle mani e lo gettò in un bicchiere d’acqua. Rimanemmo tutte immobili a fissare la crema che si scioglieva nel liquido, poi Lucrezia infilò la mano

nel bicchiere ed estrasse un anello di oro bianco con un piccolo brillante incastonato. «Io... Io...», disse balbettando. Poi guardò Claudio e terminò la frase: «Non so cosa dire». La sua voce era spezzata dall’emozione. «Lascia parlare me», disse lui, prendendole delicatamente la mano. «Quando ti ho conosciuta cominciavo a credere che il futuro non potesse più riservarmi sorprese. Negli occhi di tutte le altre donne, non avevo mai trovato la luce che vedo nei tuoi. Da quando sei entrata nella mia vita, tutto è cambiato. Il verde è più verde, il rosso è più rosso. Il caffè della mattina ha un sapore più buono, la luce del sole scalda di più». Una piccola lacrima rigò il volto di Lucrezia e lei abbassò lo sguardo. «Non passo giorno senza ringraziare il destino che ti ha condotta a me. E non passo sera senza desiderare di risvegliarmi l’indomani al tuo fianco». Trattenevamo tutte il fiato, in attesa. «Con te ho trovato tutto, tutto quello che mi mancava, tutto quello di cui ho bisogno. So che ci conosciamo da pochissimo, ma io so che tu sei la donna con cui voglio passare il resto della mia esistenza». Si alzò lentamente dalla sedia e si inginocchiò di fronte a lei. «Lucrezia, rendimi l’uomo più felice del mondo. Vuoi diventare mia moglie?». Lei tremava, mentre lui le infilava l’anello al dito. Gli prese entrambe le mani e sorrise. «Lo voglio», disse, singhiozzando. «Certo che lo voglio!». Si lasciarono andare a lungo bacio, mentre noi applaudivamo commosse. Non credevo che Claudio potesse essere così romantico. «Ovviamente», disse lui, dopo aver liberato la sua bella, «sarai tu a organizzare il nostro matrimonio». «Meraviglioso», aggiunse Lucrezia, raggiante. «Sarà un onore», dissi ai futuri sposi. I camerieri portarono una bottiglia di champagne e brindammo alla loro felicità. Il mio migliore amico si sposava. Quando l’amore arriva, non bisogna fare altro che assecondarlo. La primavera era arrivata. La malinconia dell’inverno era sparita, lasciando al sole il compito di dare nuova luce e nuovi colori alla città. Avevo voglia di coccolarmi. Quando non hai qualcuno vicino che ti fa sentire eccezionale, devi volerti molto più bene. Finita la giornata di lavoro, presi una solenne decisione: avevo bisogno di farmi un regalo. Un grosso regalo. Mi infilai in metropolitana e mi diressi verso il centro della città. Mi tuffai nella folla e camminai a passo spedito fino a quella piccola, elegante stradina che avevo soprannominato «Via Chanel». Davanti alle vetrine della mia boutique preferita, mi tornò in mente Étienne. Era passato del tempo ed erano successe molte cose. Sorrisi ed entrai, pronta a usare senza ritegno la mia carta di credito. «Posso aiutarla?», mi chiese una gentilissima e magrissima commessa. «Vorrei provare delle scarpe», le risposi. Mi fece accomodare nel salottino e iniziò a portarmi tutto quello che avevano. Passai più di un’ora a provare e riprovare quelle meravigliose calzature, alla ricerca del modello fatto apposta per me. Fino a che non li vidi: un paio di sandali con il tacco altissimo, finemente lavorato, con un piccolo laccetto sulla caviglia che riportava le due C del marchio. Le mie nuove, perfette, scarpe Chanel. Me l’ero proprio meritate! Dopo una rapida e indolore strisciata di Mastercard, ritirai in cassa il prezioso sacchetto e mi lasciai

avvolgere dalla tiepida sera. Ai tavolini dei bar, la gente chiacchierava e beveva. Un artista di strada intonava una canzone d’amore. Mi avviai verso casa a piedi. La mia nuova me, forte, allegra, decisa, non era per niente male. La vita trascorreva così, tra il mio lavoro, gli amici, le lunghe e-mail a Elodie, i bicchieri di vino, le scarpe e le nuvole di Chanel N° 5. Tutto sembrava aver trovato un equilibrio. Claudio e Lucrezia era occupati con i preparativi del matrimonio e io aggiungevo i miei tocchi speciali. Emma ed Elena si erano trasferite nel loro nuovo appartamento e mi invitano spesso a cena, cucinandomi piatti deliziosi e presentandomi nuovi amici. Valentina aveva smesso di farmi la guerra e si era ributtata a capofitto nel lavoro. Era molto più tranquilla e, probabilmente, aveva anche smesso di fare uso di droga. Ogni tanto, provava ancora a combinarmi qualche appuntamento al buio, ma io rifiutavo sempre, con il sorriso sulle labbra. Spesso passavo a trovare la signora Leoncini. Bevevamo il tè e poi lei suonava il suo vecchio pianoforte scuro. La vita non è fatta solo di amore. È fatta di tante altre cose belle: le risate con gli amici, le giornate di sole, i bicchieri di vino, la colazione con cappuccino e brioche al bancone affollato di un bar, un film strappalacrime, un nuovo lungo filo di perle arrotolato intorno al collo. Una mattina come tante, mentre ero impegnata con le mie solite e-mail di spose impazienti, Paolo mi convocò nel suo ufficio. La luce del sole alto entrava violenta dalle finestre. «Accomodati, Rebecca». Presi posto sulla poltrona e attesi. «Vorrei parlarti di una cosa importante», fece una pausa e poi continuò. «Ormai se qui da noi da quasi un anno. Hai fatto un ottimo lavoro e sono molto orgoglioso di te. Come ti trovi nella nostra agenzia?» «Molto bene, Paolo. Il lavoro mi piace molto». «Sono contento. E come ti trovavi a Parigi? Ti piaceva lavorare in Seven?». Lo guardai per un attimo con aria interrogativa, poi mi schiarii la voce e risposi: «Benissimo. Non fraintendermi, mi piace lavorare con te, ma Parigi è una città diversa...». «Lo capisco», mi disse, con un largo sorriso. «Anche io molte volte ho pensato a come sarebbe stato fuggire laggiù». «Posso sapere come mai mi hai fatto questa domanda?». Ero curiosa. «Dunque, stamattina ho ricevuto una lunga telefonata dalla Francia». Il cuore iniziò a battermi più veloce in petto. «Si è liberato un posto importante nella loro agenzia e hanno fatto il tuo nome». «Ehm, cosa?», mi si fermò il cuore. «Sì, ho parlato a lungo con Étienne e lui mi ha detto che ha scelto te, che se lo vuoi, il posto è tuo, anche da subito». «Cosa ti ha detto?!», le gambe avevano cominciato a tremarmi e mi mancava il fiato. Possibile che lui...? «Che il posto è tuo, anche da domani». «No, l’altra cosa che ti ha detto». «Ah, certo! Mi ha detto di usare proprio queste parole: lui ha fatto la sua scelta e ha scelto te!». Non potevo credere che stesse succedendo. La stanza cominciò a girarmi intorno. «Ha scelto me...», dissi con un filo di voce, senza riuscire ad articolare altro. In quell’esatto momento, con un tempismo perfetto, un fattorino bussò alla porta della stanza.

«Ho una consegna per la signorina Rebecca Bruni», disse, reggendo in mano un enorme mazzo di rose rosse, tra le quali spuntavano delle enormi camelie bianche. Restai seduta, con in mano quello splendido regalo, per un lungo momento. Poi notai un biglietto nascosto tra i petali. Sfilai lentamente il cartoncino bianco dalla sua busta. Sorrisi. Ancora una volta era senza firma. Lo lessi e lo rilessi innumerevoli volte, mentre le lacrime, copiose, mi rigavano le guance. Su quel leggero pezzettino di carta, con una calligrafia incerta, c’erano scritte le più belle parole che un uomo avesse mai saputo dirmi. Erano le parole che aspettavo da tutta la vita, le parole della vita: «Mademoiselle Coco, sei pronta a essere la mia numero uno?».

INDICE

1. Specchietto per le allodole 2. Città nuova, vita nuova 3. Pizzi, confetti e bomboniere 4. Il tubino taglia 42 5. Il pappagallo di Sofia 6. L’ ingrediente speciale 7. L’appuntamento al buio 8. La sera che inciampai in due incredibili occhi scuri 9. Due settimane da fiaba 10. La gara 11. La città della magia 12. Il segreto di Emma 13. Il più bel regalo di Natale 14. Paris, je t’aime 15. Gli uomini non sono mai quelli giusti 16. I sogni si avverano 17. L’amore non può aspettare 18. Un’eterna mademoiselle 19. L’abito giusto, l’uomo sbagliato 20. La numero uno

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