Veblen T - La Teoria Della Classe Agiata
December 15, 2016 | Author: Nicola | Category: N/A
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Introduzione Dalla lettura de La teoria della classe agiata abbiamo appreso, con nostro dispiacere, che essa non è sicuramente l’opera di Thorstein Veblen più indicata per cogliere immediatamente la critica che questi rivolse alla società capitalista, ché di Veblen avremmo voluto commentare il pungente sarcasmo piuttosto che la lezione di metodologia che, a nostro avviso, è contenuta, appunto, ne La teoria della classe agiata. Tuttavia, non può negarsi che il tempo da noi impiegato per comprendere e riflettere sull’opera non sia stato inutilmente consumato, avendo noi, comunque, assunto la prospettiva evoluzionistica istituzionale dell’autore per trarre lo stimolo ad alcune riflessioni con cui concluderemo questo nostro lavoro. La lettura del testo di Veblen non è stata per niente facile vista la complessità e la lunghezza del discorso, ma siamo sicuri che, sostenuti da un’adeguata letteratura, avremmo potuto lavorare con maggiore celerità e soddisfazione. Infine, per cercare di cogliere tutti gli elementi importanti de La teoria della classe agiata abbiamo suddiviso il nostro scritto in tre parti con cui trattiamo, nell’ordine, del metodo d’analisi vebleniano, della sintesi dell’opera, di alcune riflessioni personali cui avevamo già accennato, nella speranza che ciò possa essere sufficiente per concludere in modo più che degno un primo ciclo di studi universitari. È stato un parto lungo e difficile, ma pensiamo di aver fatto del nostro meglio.
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Della metodologia Riteniamo che La teoria della classe agiata, apparsa nel 1899 dalla penna di Thorstein Veblen, sia da considerarsi più un’opera di sociologia che d’economia, ma riteniamo altresì che per il suo autore in realtà non vi dovesse essere una sostanziale differenza tra queste due scienze, non perché trattassero lo stesso oggetto, ma perché era proposito di Veblen superare la distinzione tra scienze sociali onde addivenire ad una sorta di scienza sociale unificata. Secondo un’idea molto diffusa al tempo in cui Veblen operò, infatti, il limite di ciascuna disciplina sociale consisteva nella mancanza di una degna comunicazione con le altre, come a voler affermare di ciascuna la propria autosufficienza. Durante la seconda metà dell’Ottocento l’economia politica fu duramente messa alla prova da più parti: dai primi veri economisti, che ne riscontravano la non puntuale coerenza interna, ai socialisti, che la vedevano come la scienza del capitalismo e dello sfruttamento dei lavoratori, da un po’ tutti gli osservatori, che notavano notevolissime incongruenze tra la teoria e la pratica. Mentre la gran parte degli studiosi, però, in un tale contesto cercò di correggere la teoria classica e perfezionarla, Veblen preferì colpirla al cuore, nella sua metodologia, dacché era proprio lì che avevano origine tutti i problemi della scienza economica. L’economia politica, che a partire da Marshall prese a chiamarsi semplicemente “economia”, era accusata da Veblen di non essere scientifica in quanto pre-darwiniana e teleologica, non essendo essa altro che pura teoria, vale a dire un’astratta costruzione intellettuale definita a partire da talune ipotesi e collocata in una dimensione astorica. Questa visione dell’economia fu imposta dal successo del modello ricardiano il quale, mirando a darle le stesse caratteristiche di una qualsiasi scienza naturale (per esempio la fisica) volle che fossero definiti dei postulati e delle leggi universali per sempre valide nella convinzione che, anche per quanto atteneva alle dinamiche economiche, esistessero delle leggi di natura: questa concezione della scienza economica fece sì che essa si sviluppasse ignorando che esistesse una realtà dinamica. Nel 1859 apparve di Charles Darwin The Origin of the Species e Veblen ne fu molto colpito: da quel momento egli apprese a considerare la realtà come se in costante cambiamento evolutivo e l’individuo come determinato dalle condizioni ambientali. Ecco, la scienza economica non poteva più ignorare il fatto che l’uomo perfettamente razionale, il cosiddetto homo oëconomicus su cui aveva fondato la sua teoria, nella realtà non esistesse così come non poteva negare che la comprensione dell’economia doveva passare necessariamente dalla comprensione di come le istituzioni si modificano nel corso del tempo. Inoltre, essa non poteva ancora per molto reggersi sulla convinzione dell’esistenza di un equilibrio di lungo periodo che, considerato 2
come il fine a cui tendeva naturalmente l’ordine economico, era anche il risultato postulato prima che l’analisi iniziasse (questa era l’accusa di teleologia), per cui lo studioso non formulava un’ipotesi e ne provava in seguito la validità, bensì costruiva tutta una teoria per arrivare all’ipotesi di partenza. Insomma, la teoria ortodossa era sbagliata perché poggiata su delle idee che in realtà erano delle vere e proprie dogmatiche “verità di fede”: l’individuo perfettamente razionale, l’equilibrio di lungo periodo, l’egoismo produttore di benefici pubblici, l’equa distribuzione del reddito nel lungo periodo, l’esistenza dei mercati concorrenziali, tutte ipotesi non provabili empiricamente. Se le scienze sociali fossero unificate, doveva pensare Veblen, l’economia conoscerebbe meglio l’uomo tanto attraverso la psicologia, che sottolinea come l’individuo sia fortemente condizionato dai suoi istinti più intimi, quanto con l’antropologia e l’etnologia, che spiegano come il comportamento sia determinato dalle combinazioni ereditarie che si sviluppano a partire dai temperamenti caratterizzanti ciascun tipo umano e come maturano gli abiti mentali. Impossibile è dunque conoscere le dinamiche economiche insistendo solo sulle forze economiche. Ma cosa ha spinto Veblen a fondare il più importante filone del pensiero economico eterodosso? Oltre alla sua vasta cultura scientifica, di cui abbiamo già accennato, non può certo dimenticarsi che molto egli deve alla sua cultura di base “germanica”, data la sua origine norvegese: non potrebbe, infatti, dirci qualcosa che l’ottica evoluzionistica fosse già presente, in qualche modo, nell’approccio storicistico della Scuola Storica Tedesca, con cui Veblen ha in comune la convinzione che la teoria economica non debba essere astratta, non sia valida sempre ed ovunque, e che il sistema economico sia passato attraverso vari stadi? Anche il marxismo, che muove dall’hegelismo (e che quindi è “germanico”) ha influito sul pensiero vebleniano: Veblen, anzi, più di Karl Marx denunciò con superba ironia l’aspetto primitivo, perché legato alla vita di rapina, del capitalismo e la sua profonda ingiustizia. Nonostante che la distinzione marxiana tra forze di produzione e rapporti di produzione richiamino alla mente la dicotomia vebleniana tra istituzioni finanziarie ed istituzioni industriali, però, non sembra che Veblen possa essere considerato un complemento di Marx come una certa letteratura faziosa vorrebbe far credere. Innanzitutto, Veblen non teorizzò l’avvento della società comunista e per sfuggire al rischio di teleologia e perché secondo lui erano anche possibili o una svolta nazionalistica, se la classe dei lavoratori e degli ingegneri avessero ceduto alle ambizioni imperialistiche delle classi finanziarie, o l’affermazione di una vera e propria tecnocrazia. Va anche sottolineato che in Veblen sembra mancare l’idea della lotta di classe giacché, nonostante la competizione per la sopravvivenza, più che una guerra vi è un in corso un tentativo delle classi inferiori di elevarsi al rango di classe agiata assumendone, volutamente o 3
inconsciamente, i comportamenti e i modi di pensare. Infine, dalla lettura della teoria della classe agiata non traspare minimamente l’idea dell’alienazione. Ovviamente, queste nostre conclusioni sul rapporto tra Veblen e Marx possono essere erronee, dato che abbiamo voluto farle solo per andar contro una certa letteratura che spopola su internet e che tende a rendere proprio patrimonio esclusivo tutto ciò che le è di gradimento. Tuttavia, quello che ci appare pacifico è la diversità degli intenti dei due pensatori. Infatti, pur dovendosi ammettere un’innegabile somiglianza dei metodi, Veblen e Marx hanno avuto scopi diversi: il secondo, preso dal profetizzare il comunismo, si interessò più che altro a fornire la dimostrazione della debolezza del capitalismo; il primo, invece, legò la sua analisi critica dell’economia e del capitalismo al problema di dare il carattere della scientificità alla teoria economica e alla dimostrazione di come elementi atavici siano ancora presenti nelle menti degli uomini e siano tali da ostacolarne il progresso.
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Sintesi dell’opera 1 Le società umane sono state sempre e dovunque organizzate su una base discriminatoria tale da distinguere gli individui di uno stesso gruppo per rango e per appartenenza a determinate classi sociali: così l’antropologia ci insegna che all’interno di una società primitiva si fanno differenze tra religiosi e guerrieri da un lato e resto della tribù dall’altro; in società più prossime a noi queste differenze riguardano aristocratici ed ecclesiastici contro masse contadine; e, infine, nell’attuale stadio evolutivo, vale a dire la società industriale, la vita comoda è prerogativa del mondo finanziario. Inevitabile, dunque, appare che all’interno di una società vi sia sempre un ristretto numero di individui che ha avuto accordato il privilegio di non svolgere alcuna attività lavorativa e che, nonostante ciò, pratica uno stile di vita sfarzoso e per nulla faticoso con la possibilità-capacità di determinare la stessa natura delle strutture sociali. Ebbene, è proprio pensando a queste categorie di persone che Veblen coniò il concetto di classe agiata. L’esistenza della classe agiata fa sì che le istituzioni umane siano costantemente squilibrate e fondate sulla contrapposizione tra classi produttive e classi che consumano ciò che altri hanno faticosamente prodotto. Ma come è possibile che uomini razionali siano arrivati a questo punto? Secondo Veblen la prima forma di discriminazione che si affermò nella storia fu di carattere sessuale, riguardando la distinzione tra uomini e donne: in un tempo assai remoto, quando l’umanità era ancora ben lontana dalla conoscenza scientifica e le sue relazioni con la Natura erano guardate in termini magici, le funzioni religiose e, soprattutto, quelle venatorie erano viste come mezzi per dominare gli elementi e per questo motivo i santoni e coloro che tornavano vittoriosi da una battuta di caccia erano tenuti in somma considerazione. I cacciatori, però, lo erano più degli altri, perché non solo avevano sfidato le violente forze della Natura dimostrando così di avere molto coraggio e molta virtù, ma perché avevano anche consentito alla tribù di sfamarsi. Questi uomini erano ritenuti talmente degni di un particolare rispetto che finirono con l’essere oggetto di una vera e propria venerazione in quanto persone dalle qualità “eccezionali”: insomma, nonostante contribuissero con la loro attività ai bisogni del gruppo, erano considerati degli eroi e alla loro vita quotidiana era connesso un certo sacro cerimoniale. Tuttavia, non fu propriamente questa la prima distinzione di sostanza tra gli uomini, quanto quella che vedeva le mansioni più umili e servili rimesse alle donne: questo permetterà a Veblen di affermare che tutte le future attività industriali si svilupperanno a partire dalle primitive funzioni femminili. Perché la donna era discriminata? Lo era perché incapace, assieme a taluni rappresentanti poco degni 5
del sesso forte, di affrontare la Natura e domarla, in quanto giudicata debole e fisicamente e psicologicamente. Se l’origine della classe agiata è stata così individuata, quello che adesso bisogna capire è il motivo per il quale essa si è perpetuata e la forma che ha di volta in volta assunto. 2 Per capire tutti i passaggi che hanno realizzato la conservazione, seppure secondo modalità diverse, della classe agiata è prima necessario chiarire che dalle sue letture di antropologia Veblen apprese che non tutte le specie umani denotano le medesime caratteristiche, essendo, invece, possibile distinguere gli uomini per tipi. Per quanto attiene al mondo occidentale, i tipi umani sono tre, il dolicocefalo biondo, il brachicefalo bruno, il mediterraneo, e ciascuno di essi ha dei propri tratti caratteriali esclusivi: un uomo, dunque, non matura casualmente il proprio temperamento, ma lo acquista per trasmissione ereditaria. Se è vero che parte del carattere è fornito dagli ascendenti, è però altrettanto vero che ogni individuo risponde diversamente ai propri istinti: dai suoi studi di psicologia il Nostro ricavò che l’uomo risponde agli istinti di parentela, di curiosità, di bravura e di acquisizione. Veblen, insomma, mostrando come un individuo sia frutto delle combinazioni tra temperamento e istinti da un lato e tra tipi umani dall’altro, mirò a spiegare in modo del tutto scientifico, ossia basandosi su delle conoscenze certe, le determinanti del pensare e dell’agire, contrapponendo così la sua realistica idea di uomo all’erronea ipotesi di hom oëconomicus tanto cara alla scienza economica. Una volta definito in tal modo l’essere umano, semplice e comprensibile diventa capire come, sotto la spinta della maggiore forza economica, le istituzioni abbiano potuto svilupparsi e la classe agiata prosperare. Questa forza economica prende il nome di emulazione finanziaria. La parola emulazione viene spesso usata nel linguaggio corrente quale sinonimo di imitazione sulla base di una certa somiglianza, che in effetti esiste, tra i due termini. Tuttavia, il primo raccoglie il significato del secondo per poi superarlo. L’azione di emulare consiste in due fasi: nella prima, ha luogo la ripetizione delle gesta di un superiore che si ammira e si stima per le sue straordinarie capacità; nella seconda, però, l’imitazione lascia il posto alla volontà di superare il modello di riferimento, ormai divenuto uno scomodo antagonista. L’emulazione comporta, dunque, l’assunzione di un comportamento competitivo. La competizione è un elemento che da sempre caratterizza l’uomo, poiché frutto di uno dei suoi maggiori istinti: essa è cara alla teoria economica tradizionale, ma questa non spiega perché gli uomini competono fra di loro. Veblen ha la risposta. L’emulazione ha lo scopo di selezionare gli individui che vivranno secondo agiatezza: essa, dunque, è alimentata 6
dall’aspirazione degli uomini a far parate della classe agiata. Concretamente, come opera l’emulazione finanziaria? Essa si manifesta come accumulazione antagonistica, giacché solo chi ha qualcosa in più rispetto agli altri può essere rispettato e tenuto in somma considerazione. Ora, se è vero che le popolazioni primitive erano fondamentalmente pacifiche, è altrettanto vero che ad un certo punto, quando alcuni uomini furono innalzati al rango di semi-dei, la venerazione raggiunse livelli troppo alti per non scatenare delle reazioni opposte: gli uomini cominciarono a competere per superarsi reciprocamente in quanto a coraggio e forza, e quando queste virtù furono così diffuse da non esser più facilmente ostentabili, fu il trofeo, il bottino, a costituire il nuovo oggetto della caccia. A quel punto, perché finalizzata all’accumulazione di oggetti di valore e di persone, l’emulazione diventa realmente finanziaria. A differenza della selvaggina il trofeo non è utile alla tribù, ma al solo cacciatore, sempre più guerriero in verità, perché serve unicamente a dimostrare di aver avuto più coraggio e più ferocia di altri sulla base dell’equazione: maggior bottino=maggior virtù e maggiore rispettabilità. In fondo, il parametro che ancora oggi è spesso utilizzato per giudicare un uomo non è forse la sua automobile? Quando lo spirito d’emulazione ha raggiunto il livello in cui sfocia in uno stile di vita rapace e violento, l’evoluzione ha raggiunto il cosiddetto (da Veblen) stadio di rapina, a cui particolarmente incline sembra essere il dolicocefalo biondo. 3 Il passaggio successivo dell’evoluzione è quello che Veblen chiamò industria quasi-pacifica.: questo è lo stadio, che storicamente è rappresentato dal feudalesimo, in cui la classe agiata ha conosciuto la sua massima affermazione. Nello stadio dell’industria quasi-pacifica la crescita della popolazione ed il fenomeno dell’urbanizzazione hanno reso non più praticabile la caccia ai trofei; nello stesso tempo, però, lo sfruttamento del lavoro degli schiavi ha consentito comunque l’esibizione di nuovi beni e l’accumulo competitivo di nuove ricchezze. Proprio l’importanza assunta dalla produzione qualifica questa tappa dello sviluppo come industriale; tuttavia, la permanenza del tipo umano sleale, astuto, invidioso e presuntuoso, connesso alla tendenza a circondarsi di persone con cui condividere per motivi d’ostentazione il proprio agio, fa in modo che questo stadio sia da definirsi più correttamente, come abbiamo già detto, di industria quasi-pacifica. La società diventa vieppiù complessa e sempre più differenziata e stratificata cosicché nuove funzioni ausiliarie a quelle principali (la caccia, la religione, la politica) si vengono a sviluppare per impulso degli stessi signori: la fabbricazione e la manutenzione di armi, arnesi e imbarcazioni da guerra; l’allevamento dei cavalli, dei cani, dei 7
falconi; la preparazione degli apparati sacri. Attraverso un meccanismo posto in rilievo per la prima volta da François Quesnay, è possibile vedere come gli artigiani vivessero grazie agli ordini dei proprietari terrieri e come il loro relativo benessere derivasse direttamente dai signori: questa fu chiamata da Veblen agiatezza derivata. A cosa era finalizzata l’agiatezza derivata? Essa non era motivata dalla generosità dell’agiato principale (come abbiamo visto sono tutte negative le virtù del tempo), ma dall’emulazione finanziaria: poiché tutte queste attività si sviluppavano attorno al castello del signore e ne testimoniavano la ricchezza, egli era interessatissimo a che la “pompa” che lo circondava fosse il più possibile accresciuta, onde permettergli di conseguire maggiore rispettabilità presso i simili ed il popolo. Di agiatezza derivata, però, vivevano anche molti nobili minori e decaduti. I primi erano coloro che, seppur di alto rango, non avevano i mezzi per poter vivere facendo mostra di ampia ricchezza e di illimitata generosità: essi spendevano le loro fortune per curare il “cerimoniale” attraverso l’acquisto di abiti di ottima foggia e di cavalli e carrozze, ma in prossimità delle ore di pranzo e di cena dovevano “necessariamente” onorare la tavola di un più titolato aristocratico. I decaduti, invece, erano quelli che non avevano rinunciato a niente e che si erano infine indebitati smisuratamente fino a dipendere interamente da altri. Queste persone popolavano la corte e facevano la felicità del signore, il quale, sempre più ambizioso e sempre più onnipotente, organizzava festini e banchetti per il piacere dei suoi invitati e l’invidia dei suoi avversari. Oggi noi chiameremmo queste persone “scrocconi”, ma all’epoca erano dal popolo riveriti. 4 L’industria si sviluppò con il solo scopo di alimentare il processo dell’emulazione finanziaria, ma ad un certo punto essa divenne importante per sé, cioè, per il solo fatto di produrre ricchezza ed efficienza: quando ciò accadde, dall’epoca dell’industria quasi-pacifica si passò a quella dell’industria pacifica, in cui venne progressivamente meno la strutturazione classistica della società e apparve la figura del lavoratore salariato. In linea generale, poiché gli interessi collettivi di una comunità progredita vengono adesso a consistere nell’efficienza della sua industria, l’utilità dell’individuo risiede nella produttività di cui è capace: le virtù necessarie, quindi, in questo nuovo ambiente sono l’onestà, la diligenza, l’amor di pace, la buona volontà, il riconoscimento dei nessi causali. Le comunità stesse cessano di essere in competizione per i mezzi di sussistenza e per il diritto all’esistenza, salvo i casi in cui non siano le loro classi dirigenti ad alimentare la guerra e la rapina; nessuna di esse ha più l’interesse materiale nel sopraffarne altre. La stessa cosa, però, non è altrettanto vera tra gli individui, dato che la 8
società si fa sempre più individualista e votata alla competizione. Affinché una società industriale moderna possa essere al massimo del suo funzionamento, occorre che le qualità anzi dette siano costituenti, in maggioranza o tutte insieme, del temperamento degli uomini: dato che, però, esse sono presenti solo in misura minore presso il tipo predatore, bene si spiega perché le persone con caratteri ereditari in prevalenza arcaici forniscono una minore utilità alla comunità. Ciò che caratterizza lo stadio dell’industria pacifica è, però, il fatto che la distinzione tra classe agiata e resto del mondo viene a corrispondere con quella tra istituzioni finanziarie e istituzioni industriali. Le istituzioni finanziarie sono dette anche istituzioni d’acquisto perché, al contrario di quelle industriali, non producono niente, avendo a che fare solo con il commercio, la pubblicità e le attività di marketing. Nonostante ciò, esse sono guardate con maggior rispetto che quelle industriali, tenute in una certa considerazione solo quando entrano in rapporto con le prime; e ancora, malgrado abbiano un interesse esclusivamente commerciale verso le istituzioni industriali, sono proprio loro, quelle finanziarie, a prendere le decisioni relative agli affari della comunità. Il rapporto tra le due istituzioni è, dunque, tutto sbilanciato a favore delle finanziarie che, pur non essendo connesse alla produzione, permettono un maggior arricchimento mediante l’appropriazione di beni industriali: nei confronti di quelle industriali, le istituzioni finanziarie assumono un comportamento che, in buona sostanza, è parassitario e fondamentalmente dannoso per la società. L’analogia fra questa situazione e quella con la quale ebbe origine l’era della rapina ci consente di capire perché coloro che agiscono secondo le istituzioni finanziarie costituiscono la classe agiata dei nostri giorni. Veblen non poté, comunque, negare l’importanza della funzione svolta dai maggiori rappresentanti della moderna classe agiata, proprietari e imprenditori (chiamati capitani d’industria), nello stimolare l’industria (“qui non si vuole per niente deprezzare la funzione economica della classe proprietaria o dei capitani d’industria”); tuttavia, non può disconoscersi il fatto che, con le loro scelte tutt’altro che disinteressate, essi hanno finito col selezionare le istituzioni a loro più congeniali per l’acquisto di una maggiore ricchezza finanziaria: ne sono esempi l’inviolabilità della proprietà, l’obbligatorietà dei contratti e la facilità delle operazioni finanziarie. Insomma, stabilendo le regole e gli indirizzi dello sviluppo e foggiando a proprio comodo i processi industriali, cioè cosa si dovrà produrre e in quale quantità, quali prodotti dovranno fare tendenza e quali no, cosa dovrà essere stimato utile e cosa inutile, le istituzioni finanziarie definiscono da sole gli assetti della società ed il sistema dei valori . L’aspetto veramente negativo è, però, un altro: costretta a produrre i beni inutili richiesti dal mondo finanziario,
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l’industria spreca molte delle sue risorse in attività che, non favorendo lo sviluppo, pongono in costante ritardo le istituzioni rispetto alle reali necessità sociali. Come le istituzioni finanziarie si distinguono da quelle industriali, è similmente possibile separare gli impieghi finanziari da quelli industriali. Gli impieghi finanziari, come le corrispondenti istituzioni, sono quelle occupazioni che hanno a che fare con la proprietà e con tutti i processi relativi alla sua acquisizione e accumulazione; gli impieghi industriali sono relativi, invece, alla produzione. Nonostante che i beni di cui la comunità ha bisogno siano forniti da chi opera nell’industria, sono gli impieghi finanziari a determinare un alto grado di rispettabilità. Il motivo di questa drammatica verità risiede nella persistenza nell’uomo del carattere della rapina e di tutto ciò che ad esso è connesso: come nella barbarie viene considerato maggiormente meritevole di rispetto e di onorabilità colui che accumula ricchezza sottraendola a chi l’ha prodotta, così nell’epoca industriale pacifica rispetto ed onore toccano a chi riposa sul lavoro delle classi produttive. Per esempio, il capitano d’industria, che sintetizza un po’ tutte le qualità ed i vizi della nuova classe agiata, tra cui figurano anche politici, ecclesiastici e sportivi, è un uomo più astuto che ingegnoso, più legato al mondo degli impieghi finanziari che, come farebbe intendere il nome, all’industria: ebbene, non è un caso che egli affidi la sua attività a persone tecnicamente più competenti e più capaci di lui. Gli impieghi finanziari non sono tutti dello stesso rango, ma di essi è possibile stilare una classifica secondo livelli diversi di rispettabilità. La posizione più alta e più onorevole è occupata da chi dispone della proprietà, poi viene chi è impegnato nella difesa della stessa (carriera giudiziaria) e nella sua accumulazione tramite operazioni finanziarie (banche e uomini d’affari); il gradino più basso è occupato dalle attività commerciali. Dato che i parametri adottati per attribuire buona reputazione alle varie attività finiscono per alimentare antagonismo, lo stile di vita degli addetti agli impieghi finanziari permette la sopravvivenza della cultura di rapina. Anzi, “lo schema convenzionale del vivere onorevole richiede un esercizio notevole delle caratteristiche barbariche”. Per gli impieghi industriali il discorso è diverso, perché le persone che li ricoprono non sono coinvolti nello sforzo emulativo e nello spirito antagonistico tipico degli impieghi finanziari, ma chiamati a svolgere compiti utili alla vita umana e a risolvere problemi concreti, coordinando i fatti e valutandoli alla luce dei nessi causali. I massimi valori che queste persone apprendono nei loro ambienti di lavoro sono ispirati alla cooperazione, piuttosto che alla competizione, e al benessere dell’intera collettività. L’evoluzione istituzionale che ha luogo con il passaggio alla matura società industriale manifesta la tendenza a creare due nuovi tipi umani con due psicologie, attitudini e 10
temperamenti differenti. Per quanto riguarda la linea evolutiva relativa all’uomo impegnato in impieghi finanziari, questa ha la propensione a conservare maggiormente i caratteri arcaici dell’egoismo, della dignità di casta e del comportamento cerimoniale; la linea evolutiva che riguarda l’uomo occupato in impieghi industriali sviluppa, invece, un atteggiamento non antagonistico e l’efficienza produttiva. Ora, non solo la classe agiata è un’esclusiva di chi riveste impieghi finanziari, ma essa non accoglie neppure coloro che non manifestano spiccate qualità predatorie. Nella vita reale la distinzione tra queste due categorie di persone non è così chiara, perché gli impiegati nell’industria sono sempre più coinvolti anche in attività finanziarie: questo fa sì che, malgrado l’accresciuta importanza dell’industria e dei suoi valori, molti elementi arcaici siano ancora in grado di condizionare le istituzioni sociali che, così, manifestano la tendenza ad essere costantemente in ritardo rispetto alla parte più attiva della società. 5 Oggi noi utilizziamo correntemente il termine “istituzioni” per indicare qualcosa che non vediamo, ma che riusciamo comunque a percepire in quanto tratti strutturali della nostra società i quali, in primo luogo, incarnano l’idea di “potere pubblico” e, secondariamente, lo implementano quotidianamente: l’impiego comune del termine è, dunque, quello giuridico. Nel linguaggio sociologico tanto caro a Veblen, invece, le istituzioni sono i modi di pensare e di giudicare, nonché i comportamenti che gli uomini hanno adottato nel corso dei secoli per affrontare e risolvere particolari problemi sociali e che per la loro efficacia vengono mantenuti uguali a sé stessi per lungo tempo e percepiti come se immodificabili e naturali. Poiché, però, i problemi variano nel tempo, anche i modi di pensare e d’agire debbono cambiare, facendo sì che l’evoluzione delle istituzioni si venga a configurare come un processo di adattamento detto selettivo perché volto a selezionare le istituzioni più adeguate alle contingenze: tale processo, tuttavia, non è armonico, giacché la sua maggior tendenza è il conservatorismo. Il conservatorismo è sia un fenomeno culturale che un fenomeno legato alla fisiologia dello sviluppo istituzionale. Il motivo per il quale i membri della classe agiata si schierano decisamente per la conservazione è ovvio: il loro desiderio è di mantenere le posizioni di comando e di prestigio; per ottenere tale risultato essi si opporranno in tutti i modi e in tutte le sedi ai propositi riformistici provenienti dal basso. Inoltre, è da notare che la classe agiata non avverte il disagio tra istituzioni e realtà, dunque, nemmeno comprende la necessità del cambiamento. Le forze sociali che spingono verso la definizione di istituzioni aggiornate, allora, non possono che essere quelle popolari, quelle, cioè, che alimentano i ranghi degli 11
impieghi industriali. Nondimeno, ci sono due motivi altrettanto validi che spiegano perché il conservatorismo non sia solo un atteggiamento della classe agiata. Il primo è che, esasperate dalla urgenza di reperire mezzi di sussistenza in modo competitivo, le classi inferiori svilupperanno, o meglio riscopriranno, i caratteri egoistici ed antagonistici tipici dell’uomo rapace, tendendo così a non differenziare di molto i propri comportamenti da quelli della classe agiata. Poi, se la classe agiata può razionalizzare la sua emotiva avversione per le novità negli assetti sociali adducendo il caos che si genererebbe con i cambiamenti, per il popolo il cambiamento richiede un’enorme spesa in termini di costi e sforzi per l’apprendimento di un nuovo codice morale, di nuove abitudini, di nuove forme d’interazione, ma essendo esso preoccupato per il reperimento dei mezzi di sussistenza, come potrebbe mai rendersi disponibile ad impiegare risorse ed energie in attività di “riconversione” della propria coscienza? “…l’istituzione di una classe agiata concorre a rendere conservatrici le classi inferiori, togliendo loro fin dove è possibile i mezzi di sussistenza e riducendo così il loro consumo e conseguentemente la loro energia utile, a un punto tale da renderle incapaci dello sforzo richiesto per apprendere e adottare nuove abitudini mentali”, ne deriva che la classe agiata ostacola il progresso a causa della sua inerzia, della sua tendenza all’opulenza e attraverso la costituzione di una società che distribuisce la ricchezza prodotta in modo diseguale. Il secondo motivo è che, in armonia con lo spirito d’emulazione, le classi inferiori tendono ad assumere gli stessi deleteri comportamenti della classe agiata: le classi popolari, cioè, non vogliono abbatterla, bensì aspirano ad elevarsi al suo stesso livello assumendo a loro volta comportamenti cerimoniali e disvalori come norme di condotta. La conclusione di questo paragrafo è che si è dimostrato come la classe agiata riesce a far coincidere, volutamente o meno, le istituzioni su quelle che sono le sue aspettative quando sarebbe, invece, più opportuno che tale coincidenza fosse relativa agli interessi della classe industriale. 6 Quali sono questi comportamenti della classe agiata che ostacolano il progresso e corrompono lo stile di vita degli strati produttivi di una società? Essenzialmente essi possono essere definiti come agio vistoso e consumo opulento. Come abbiamo già visto, essendo stata assunta ad un certo punto dello sviluppo umano la ricchezza a base convenzionale su cui giudicare gli uomini, questi, a prescindere dalla classe sociale a cui appartengono, sono stati stimati positivamente solamente in virtù di una buona ricchezza. Ma come è possibile conoscere le potenzialità finanziarie di un tale senza che questi ne faccia sfoggio? E di che 12
utilità sarebbe la ricchezza se non permettesse l’acquisto di ottima fama e reputazione? La vita agiata deve allora consistere non nella saggia amministrazione del proprio patrimonio, ma nello spreco del proprio denaro perché solo chi può dimostrare di avere una capacità di spesa illimitata è veramente ricco e, dunque, degno di ammirazione e rispetto. Un individuo comincia a vivere secondo il criterio dell’agio vistoso non tanto apprendendo a non svolgere alcuna attività lavorativa, quanto imparando a sprecare il maggiore dei beni che consegue non lavorando: il suo tempo. L’agiatezza viene definita da Veblen proprio in questi termini, cioè, come “tempo speso senza un lavoro produttivo”. Insomma, fin quanto l’agiato vive pubblicamente tutti possono vedere come egli stia di tutto facendo pur di non calarsi in un’attività indegna quale il lavoro, ma chi può offrire la garanzia che anche nella sua vita privata l’agiato non stia lavorando? Ecco perché nel momento storico della massima affermazione della classe agiata egli dovrà dimostrare di aver sciupato il suo prezioso tempo ed ecco perché a tal fine nulla è più utile di una lunga serie di attività inutili fra le quali l’apprendimento di una lingua non più parlata come il latino o il greco (meglio se entrambe) e delle buone maniere, la scrittura di trattati di falconeria, la pratica di attività sportive, la speculazione metafisica, l’addestramento dei servi. Le buone maniere sono state elaborate sulla distinzione tra superiori ed inferiori, vale a dire tra l’atteggiamento di chi assume funzioni e portamento di comando per mostrare la sua superiorità e quello servile di chi si presta a rendere un servizio ad un altro. “Una simbolica pantomima della padronanza da una parte e della sommissione dall’altra”: ecco cosa sono le buone maniere ed ecco perché si affermano col regime di casta e si estinguono con l’estinzione di quelle. Sotto le buone maniere c’è il rapporto servo-padrone e, quindi, l’istinto di rapina, tuttavia: “Nell’opinione popolare, le buone maniere sono presentemente diventate detentrici di una sostanziale utilità in sé stese; esse hanno acquisito un carattere sacramentale, in gran parte indipendente dai fatti di cui erano in origine i simboli”. Proprio perché simbolo dell’agio, le buone maniere verranno acquistate anche dal popolo allorché potrà, tanto che al giorno d’oggi tutto si può accettare fuorché l’ineducazione. Particolarmente dispendioso è poi l’addestramento dei servi. I servi non sono che poveri ignoranti avvezzi agli stenti, alla puzza e all’ineducazione strappati dalla generosità del signore al loro anonimo destino: riuscire a farli odorare, a mantenerli in salute e ad insegnar loro l’arte della sottomissione richiede senz’altro un grossissimo sforzo finanziario. Ecco spiegato il motivo per cui fin dall’antichità il numero dei servi è indice di rispettabilità. Inoltre, i servi sono vestiti di livree che, seppur testimoniando l’appartenenza alla categoria, sono seconde in bellezza ed in qualità solo agli abiti dei loro padroni. Campare senza muovere un dito: questa è l’agiatezza! L’agio vistoso, però, ha un 13
forte limite d’applicabilità: esso non è affatto adeguato come comportamento esagerato nelle società che hanno raggiunto un notevole grado di complessità e grandi dimensioni, perché il difetto di conoscenza tra le persone che caratterizza le società suddette, impedisce che sia diffusamente nota la ricchezza di qualcuna di esse. Ciò spiega bene perché, e questo vale ancora nella nostra società, la classe agiata deve praticare il consumo opulento. Durante il feudalesimo il consumo opulento corrispondeva alle due maggiori spese della corte: il cibo e l’arredamento domestico. Il cibo era costoso per due ragioni: la prima era che si dovevano sfamare attraverso banchetti e festini una gran quantità di bocche, costituenti la già citata agiatezza derivata; la seconda consisteva nella tendenza del signore di stupire i propri commensali con piatti sempre più esotici ed abbondanti. Ciò che tuttavia è degno di particolare citazione è che in questa situazione l’agiato doveva necessariamente sviluppare un raffinato gusto per i cibi ed una reale capacità di bene individuare gli ingredienti migliori e che per intrattenere i suoi ospiti doveva imparare ad essere un abile oratore e ad essere competente in molte materie. Tutto ciò ne accresceva l’onorabilità. Per ben figurare davanti ai propri invitati, però, il signore aveva bisogno anche di una casa accogliente che in ogni sua parte provasse lo sciupio del suo padrone: per conseguire tale risultato l’uomo riabilitò la donna, che da serva divenne così la signora della casa. La riabilitazione della donna fu, però, strumentale dacché ad ella fu affidata la funzione di far aumentare le spese del marito. La donna, infatti, per adeguarsi ai canoni della bellezza corrente, deve sottoporsi continuamente fin dall’antichità a numerose cure estetiche e acquistare capi d’abbigliamento ed accessori particolari. Al contempo, dovendo occuparsi del governo della casa quando l’uomo è via per la guerra, ella deve dare giuste disposizioni affinché la casa possa conservare la sua reputazione di prosperità, generosità ed accoglienza. La donna, dunque, fu innalzata a signora non perché i tempi per la fine della discriminazione fossero maturati, ma per la fama, attraverso le sue spese, che avrebbe conferito al suo signore. 7 Un’ulteriore prova del fatto che l’emulazione finanziaria costituisca una delle più significative forze trainanti dello sviluppo istituzionale è che i canoni finanziari influenzano profondamente il senso comune di bellezza, di utilità, di dovere e la direzione della conoscenza scientifica: ne consegue che la stessa condotta morale, la distinzione tra ciò che è bene e ciò che è male, viene determinato in ordine ai principi d’agiatezza e di consumo vistosi. Un esempio è costituito dalla definizione della proprietà come bene sacro ed inviolabile. La proprietà è il requisito che la società moderna richiede per poter far ingresso a 14
pieno titolo nella classe agiata perché rappresentativa della disponibilità finanziaria di una persona: violarla, allora, significherebbe commettere un vero e proprio oltraggio ché, venendo meno la proprietà, verrebbe a mancare la stessa classe agiata. Essendo l’elemento finanziario assunto a canone decisionale, anche la scelta che distingue tra bello e brutto è rimessa all’apprezzamento economico. E’ innegabile che molte cose siano dotate di una bellezza intrinseca perché capaci di stimolare efficacemente le impressioni estetiche degli uomini; questo aspetto delle cose non è tuttavia sufficiente a comprendere in pieno il motivo per cui il pregio estetico si affermi nella dimensione sociale piuttosto che rimanere confinato nell’esperienza soggettiva delle sensazioni. Oggetti come l’oro, i metalli pregiati e le pietre preziose colpiscono certamente i sensi, ma assumono un alto valore estetico definitivo solo quando tutti gli uomini si saranno trovati d’accordo nel conferire loro un tale pregio: l’accordo è raggiunto sulla base del valore finanziario. Possedere un gatto è assai frequente per le famiglie moderne; tuttavia questo animale non aiuta il suo padrone a guadagnare in termini di reputazione e onorabilità, perché il gatto è tanto poco costoso quanto poco incline a porsi con l’uomo in una condizione diversa da quella paritaria, mostrando anzi la tendenza a comportarsi in modo autonomo e ad agire secondo l’istinto predatorio. Si tratta, allora, di un animale senz’altro bello – altrimenti l’uomo non se ne sarebbe appropriato – ma non bellissimo. Il cane gli è di gran lunga preferito, manifestando, questo, aspetti diametralmente opposti al gatto: il cane, infatti, più che fedele è sottomesso e rispondente in tutto e per tutto al desiderio umano di comandare e sentirsi signore; inoltre, è costoso in termini di necessità alimentari e di pulizia, dato che tra gli animali, per parlare alla Veblen, è fra i più sozzi del creato. Avere un cane significa spiegare alla gente che si dispone della ricchezza necessaria a mantenerlo e chi ne possiede uno è più agiato di chi ha un gatto. Il più bel animale che si possa possedere, però, è il cavallo, perché capace di combinare perfettamente l’esigenza del puro senso estetico con lo sforzo della spesa vistosa. Il cavallo ha un portamento nobile, è forte e solo dopo un’accanita lotta si lascia domare; come se non bastasse, mantenerlo è difficilissimo. Ecco perché non tutti se lo possono permettere. Anche la bellezza dei luoghi del culto è misurata in base al loro valore economico. Il primo compito che gli ambienti religiosi debbono assolvere, per esempio, è quello di suscitare nel devoto un senso misto di magnificenza e timore per creare, in ultima analisi, il sentimento della sottomissione alla divinità. Gli stessi riti sono stati elaborati per lo scopo, ma essendosi questi ridotti alla mera ripetizione di formule e di gesti sempre uguali da tempo, essi smettono di originare una comunicazione tra uomo e dio per diventare una sorta di rappresentazione teatrale in cui un signore ordina e tanti servi eseguono. Gli stessi abiti del sacerdote, pesanti e 15
scomodi, dimostrano la sua sottomissione; le chiese denotano un grado di ricchezza superiore alla media delle abitazioni del luogo, non comportando, tuttavia, alcun beneficio al popolo. Fatto sta che è il popolo stesso a ritenerne scontata la necessaria grandezza architettonica, decorativa ed oggettistica, perché non può esistere un retto culto senza sfarzo finanziario. Anche per la bellezza delle persone vale il principio dello sciupio vistoso. Ai tempi dell’antica Grecia la donna veniva considerata bella se robusta e ben posata, ma già nel medioevo la bellezza femminea passava per l’esilità del corpo, i fianchi stretti, i polsi e le caviglie delicate, il volto angelico. Ora, mentre l’idea greca di bellezza era dovuta al fatto che la donna dovesse avere un fisico adatto al lavoro, essendo ella ancora alla stregua di una serva, la donna medioevale è la signora di un uomo rispettabile e, al contrario, deve mostrare di non lavorare, o meglio di non poterlo fare in alcun modo. Vista la sua appartenenza alla vasta schiera di agiati derivati, la donna deve adoperarsi solo per riflettere la ricchezza, la magnanimità e, conseguentemente, la rispettabilità del signore, così come uno specchio riflette ed irradia per rifrazione la luce solare nell’ambiente circostante. A differenza degli altri, però, la signora è la moglie del gentiluomo ed in quanto tale deve distinguersi: ella, quindi, acquisterà una gran quantità di vestiti tra i più costosi e i più eleganti, si truccherà con cari cosmetici e si sottoporrà a qualunque sofferenza fisica pur di adeguarsi al modello di donna bella stabilito dall’abito mentale della società. Il busto ed il tacco alla francese sono due esempi di quanto fondamentalmente doloroso fosse e sia vestire con sfarzo, giacché impossibile appare riuscire ad indossare questi capi per lunghe ore per via della loro scomodità palese. Neanche le mode nel vestiario possono essere estranee alla legge dello sciupio vistoso dato che un vestito tanto più è costoso quanto più sarà elegante e bello. La mutevolezza delle mode testimonia che esiste una costante ricerca dell’affinamento del gusto estetico puro. Comunque, la novità può essere accolta solo se fatta nel rispetto della legge dello sciupio, per esempio, comportando la dismissione di vestiti ancora nuovi e non consumati. Buttare via vestiti non consumati per una famiglia di operai è quasi come bestemmiare contro il dio in cui si crede, ma per gli agiati è l’ennesima dimostrazione della capacità di spendere inutilmente, contando solo, in definitiva, far trasparire dal modo di vestire la propria ricchezza.
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Qualche commento 1 A questo punto pensiamo di disporre di tutte le informazioni necessarie sulla teoria della classe agiata per poterci avventurare in qualche riflessione personale. In verità, abbiamo l’impressione di aver bruscamente troncato la sintesi dell’opera, tuttavia ci difendiamo sostenendo che a quel punto Veblen fornisce, con i capitoli conclusivi, una serie di esemplificazioni a dimostrazione della validità della sua teoria, attualizzandola alla luce della società americana del suo tempo. Ma essendo quella realtà lontana da noi tanto geograficamente che culturalmente che, infine, cronologicamente, abbiamo pensato di riflettere un po’ sull’esperienza del nostro vissuto quotidiano a cominciare dal modo in cui noi individui ci comportiamo: inizieremo proprio dalla concezione di uomo perfettamente razionale. Il cosiddetto homo oëconomicus che sta alla base della teoria economica classica e il cui comportamento è stato forse meglio definito dalla sociologia che non dall’economia, è un individuo che agisce in modo egoistico per il soddisfacimento dei propri esclusivi interessi, per esempio il profitto, e per i quali egli assumerà sempre una serie di comportamenti non casuali onde dispiegare una strategia coerente a partire dalla conoscenza della realtà (che tendenzialmente è completa) di cui dispone. Fu Adam Smith ad assumere questo modello di uomo come base per la sua indagine economica e fu su tale base che egli poté definire il funzionamento dei mercati concorrenziali, perché solo su questa conoscenza è spiegabile il motivo per cui, per esempio, un imprenditore si butta in un mercato perché ha determinate caratteristiche piuttosto che in un altro che ne manifesta diverse (quando, cioè, è in equilibrio e non produce profitti). Il vero problema dell’uomo economico, però, non è stato tanto Adam Smith che, va detto per la felicità di Veblen, comunque seguì un certo metodo storico, quanto quel processo di idealizzazione a cui questo modello di uomo è stato successivamente sottoposto fino a diventare un tabù incontestabile nemmeno alla luce del sapere proveniente dalla psicologia. Per Veblen, che si era interessato agli studi condotti in quel periodo da Freud, era chiaro che il comportamento dell’individuo non fosse determinato solo da fattori razionali e dal calcolo egoistico, a cui egli non attribuiva neanche la miracolosa capacità di generare il bene collettivo, bensì dalla combinazione di una pluralità di elementi tra cui, come abbiamo già visto, le caratteristiche del tipo umano d’appartenenza e la risposta agli istinti. Infatti, come giustificare il fatto che il consumatore continui ad acquistare presso un certo commerciante, nonostante questi applichi rinomatamene prezzi (di poco) superiori a quelli medi? La giustificazione è l’istinto di parentela. Quando il consumatore procede ad un acquisto non fonda la sua decisione solo sul prezzo o sul rapporto qualità-prezzo, ma tiene in 17
forte considerazione anche i rapporti che si hanno con il venditore, la prossimità fisica del negozio, la possibilità e la facilità del parcheggio e… l’elenco potrebbe continuare ancora a lungo. Tutto ciò fa andare in crisi le teorie sul comportamento del consumatore e le previsioni degli analisti. Questo, però, non significa che l’individuo non metta nemmeno un briciolo di razionalità nelle sue azioni, anzi, la teoria dell’agire razionale è verificabilissima e catastrofico sarebbe se così non fosse, ma non si può certo negare che l’uomo sia capace di provare sentimenti e che subisca i condizionamenti non indifferenti della storia, della cultura e dei fattori ambientali. Ogni uomo, infatti, essendo uno zoon politycon, vive assieme ai suoi simili in una società organizzata sulla base di un sistema di valori, i quali altro non sono che quei principi che permettono di discernere il bene dal male e che, quindi, spiegano con estrema chiarezza come l’uomo debba comportarsi: pur appartenendo al piano delle idee, esse si manifestano nella realtà prendendo la forma delle norme. I valori, però, non sono eterni ed oggettivi come vengono pensati abitualmente, perché è il fatto che essi vengono appresi nella società e che ad essi ci si abitua prontamente e necessariamente a creare la percezione che essi abbiano le qualità suddette: in effetti, si tratta solo di credenze, opinioni a cui è stata sottratta la suscettibilità del giudizio critico. L’uomo, tuttavia, non può comportarsi sempre allo stesso modo perché l’evoluzione, che rende la società sempre più complessa, richiede un costante aggiornamento dei modi di pensare e dei registri comportamentali, ma si scontra con la tendenza a non mutare i valori, che da mezzi si sono tramutati in fini, i quali dettano azioni e atteggiamenti che a lungo si vengono a configurare come sbagliati perché ormai trapassati. Ciò che Veblen vuole spiegarci è proprio questo: le istituzioni, che sono dalle norme di un determinato momento storico definite affinché si possano affrontare con successo i problemi del momento, una volta mutate le condizioni in cui nacquero sono da ostacolo al progresso e andrebbero, perciò, adeguate. Ma cosa sono le istituzioni se non i nostri stessi abiti mentali? Ecco perché, essendo l’uomo un prodotto della società in cui vive, il suo comportamento non può essere spiegato solo in termini di razionalità e questo fu il primo vero grande errore dell’ortodossia. 2 Da quando è comparso sulla terra l’uomo si è trovato di fronte al problema della sussistenza. Tale problema è ancora oggi nella gran parte del mondo abitato non risolto, ma è senz’altro superato nel mondo occidentale, dove, addirittura, ha avuto inizio, per dirla alla Veblen, una vera e propria società dell’opulenza: la strada intrapresa dalla nostra società in questa direzione non è totalmente spiegabile in termini di agire razionale. Infatti, se ad un certo punto 18
l’uomo riesce a trovare il modo di sfamarsi quotidianamente e sufficientemente, perché comincia a sentire il bisogno di beni e di industrie di dubbia o di nessuna utilità, come lo sport, la pubblicità, l’alta moda, e a spendere consistenti risorse in tali attività? Veblen spiegò che non fu la competizione tra gli uomini, i quali ad un certo punto si accorsero che quei beni erano richiesti e che qualcuno doveva pur fornirli, ad averli generati e ad aver portato agli attuali livelli di benessere l’occidente sulla base di un semplice calcolo, ma la brama di ricchezza e la sua accumulazione, perché quello che successe ad un certo punto fu che la ricchezza venne assunta a base convenzionale per giudicare gli uomini. Insomma, fu un istinto di autocompiacimento che risponde alla legge della maggiore forza economica, vale a dire l’emulazione finanziaria, ad aver spinto verso la società in cui ci sono cose di troppo che si buttano. L’emulazione finanziaria è ciò che porta gli uomini a competere non per sussistere secondo la formula homo homini lupus, cioè per la sopravvivenza, ma per vedere chi è più ricco e dunque più rispettabile, onorabile e venerabile. Tutto è iniziato quando, molto tempo fa, ci si accorse che la caccia, praticata per mantenere la tribù nelle sue necessità alimentari, forniva, sulla base di un sistema primitivo di credenze, onori speciali ai cacciatori che durante la battuta di sé facevano mostra in quanto a coraggio e forza; col tempo, però, essa divenne il luogo della competizione per conseguire le prove che, esibite in pubblico, avrebbero permesso di riconoscere queste virtù in grado maggiore ed ottenere, così, maggiore venerazione ed agiatezza. La lotta tra gli individui non è più, quindi, la stessa competizione che riguarda tutti gli animali, ma è propriamente emulazione finanziaria. 3 “Si stava meglio quando si stava peggio” è il detto che spesso ricorre tra il popolo per indicare che un tempo, nonostante la miseria, la comunità era più a dimensione d’uomo e solidale perché la lealtà, la fiducia e lo spirito di collaborazione la permeavano abbondantemente: tale scenario è rinvenibile ancora oggi tra molte società non occidentali o nei centri periferici (ma molto periferici) del nostro mondo. Non dovrebbero i poveri competere in modo esasperato? Non dovrebbe essere il popolano, alle prese con il problema del mangiare, un homo homini lupus? Tali domande che implicherebbero una risposta prevedibile alla luce del comportamento egoistico, spiegano, invece, come la competizione tra queste persone sia minima e comunque tale da favorire un clima di cooperazione. Perché? Questo discorso si inserisce perfettamente nella dicotomia vebleniana: la distinzione tra impieghi finanziari ed impieghi industriali. Coloro che ricoprono gli impieghi industriali, infatti, sono individui semplici, onesti, leali e costruttivi che guardano la realtà in termini 19
scientifici, vale a dire come relazioni tra cause ed effetti, e che vedono il loro lavoro non come una condanna, ma come un completamento della propria essenza di uomo. Fra queste persone, sull’istinto predatore prevalgono quelli della parentela, della bravura e della curiosità, gli unici che possono favorire la cooperazione ed il progresso culturale, spirituale e tecnologico; impossibile è rappresentare delle classi industriali completamente pacifiche e dalla competizione immuni, specialmente al giorno d’oggi, ma in questi ambienti secondo Veblen tale comportamento, non raggiungendo livelli distruttivi, funge da stimolo al superamento degli altri e di sé stessi e, quindi, al miglioramento. Lo spirito di competizione è, invece, il tratto caratteristico dei membri della classe agiata, coloro, cioè, che nella nostra società sono gli addetti agli impieghi finanziari: qui la lotta è serrata e la collaborazione è inesistente, visto che ciascuno auspica la sconfitta altrui. In definitiva, l’onore ed il rispetto che queste persone cercano con insistenza è mirata ad un obbiettivo chiaro ed inequivocabile: il prestigio del potere. Perché il potere? Perché consente di realizzare una certa volontà di potenza nel dare ordini agli altri e fare la bella vita oziando sulle fatiche altrui. Non sbaglia affatto Veblen quando afferma che la miglior affermazione della classe agiata è stato il feudalesimo, epoca in cui pochi immorali esseri umani vivevano di festini e di debiti sulle spalle dei contadini. Il potere inteso come rapporto servo-padrone, che è quello che si manifestò nel Medioevo, potrebbe da noi essere definito tribale, perché è una nozione evidentemente troppo rozza di potere; tuttavia, fu questo concetto tribale ad essere presente nelle mente della nobiltà nei suoi tempi d’oro ed è fondamentalmente questa nozione ad essere presente nell’istinto di rapina che alimenta molte istituzioni finanziarie. Quest’ultima considerazione, però, è legata più che altro alla critica del capitalismo di fine Ottocento.
4 Nel mercato la tendenza delle grandi imprese è quella di costituire monopoli dopo che sono state fagocitate o annientate le concorrenti minori: perché i possessori del capitale (diciamo un Bill Gates?) sono così ingordi? Il motivo di ciò è che il loro stile di vita è dispendioso, essendo questo tutto improntato all’ostentazione della propria ricchezza. Nel nostro mondo si biasima spesso il fatto che un uomo venga giudicato solo per via della propria ricchezza ed il capitalismo perché, con la sua morale corrotta, ha stabilito questa legge. In verità, come abbiamo già detto la ricchezza fu assunta a base convenzionale su cui giudicare gli uomini molto tempo prima. In virtù di tale principio, le persone aventi l’abitudine di assecondare 20
l’istinto predatore hanno dovuto costantemente mettere in mostra i propri “averi” alimentando così tutto un cerimoniale che, conservandosi e praticandosi ancora oggi, ha consentito a Veblen di parlare di comportamento cerimoniale legato alle istituzioni finanziarie. L’aspetto cerimonial-teatrale connesso alla vita dei politici, degli ecclesiastici, degli uomini d’affari, di quelli dello spettacolo, degli sportivi, consiste soprattutto nel modo di vestire, ma anche nel modo in cui bisogna loro rivolgersi: i particolari abiti che indossano le loro signore altro non sono che un’eredità della sontuosa pomposità che era l’abbigliamento, per esempio, dei capi tribù. Questi, essendo “costretti” al fin di ricevere la giusta considerazione ad esibire i loro, come li abbiamo chiamati nella sintesi, trofei, dovevano tenere le loro ricchezze in qualche strano modo tutte addosso tanto che alla fine erano molto simili ad un albero di Natale dei nostri tempi: questo spiega quei, a volte buffi, abbigliamenti e monili dei capi tribù indiani o africani o ancora dalle nostre parti l’usanza di guarnire con oro e denaro le statue di taluni santi portati in processione. Ora, visto che l’abito maschile dei nostri tempi è praticamente immodificabile, esso non rappresenta adeguatamente la ricchezza di chi lo indossa e ciò spiega perché è la moglie a dover vestire in modo sfarzoso e costoso. Fino a che il benessere ed il successo erano prerogativa di pochi, il processo di raggiungimento generalizzato dello standard di ricchezza oltre il quale si otteneva considerazione era piuttosto lento; quando, però, la ricchezza cominciò a diffondersi, ecco che quello stesso standard non fu più adeguato e fu quindi innalzato ad un livello superiore, perché nessuno sopporta di condividere il proprio status con molte altre persone. Ma questo innalzamento è anche giustificato in altro modo: l’individuo è assuefatto allo stile di vita fin lì praticato e decide di dover far sfoggio di nuove ricchezze e spostare più in alto il livello del proprio decoro, alimentando così una folta selezione (e qui c’entra Darwin). Tutto ciò può aiutarci a capire perché allora negli ultimi due secoli, ma soprattutto nell’ultimo, le innovazioni si siano succedute ad un ritmo impressionante a differenza che nel passato: la spiegazione non sta nella libertà e nella democrazia in sé stesse come da più parti si sostiene, che in quanto elementi ambientali giocano comunque un ruolo importante, ma in ciò che queste conquiste hanno permesso, cioè, una distribuzione più equa del benessere, il fatto, in definitiva, che la competizione per avere di più degli altri si è allargata smisuratamente fino a riguardare non più poche persone, ma praticamente l’intera nazione. Infatti, nella nostra società, nonostante la distinzione tra impieghi finanziari ed industriali, vi è una sempre maggiore compenetrazione tra le due (per esempio l’operaio acquista un portafoglio di titoli), tale che l’atteggiamento predatore e cerimoniale si è ormai diffuso in qualche modo anche tra gli impiegati dell’industria: basti pensare a come molti beni, che fino a poco tempo fa erano di 21
secondaria e di terziaria importanza, siano ora beni di prima necessità ed inseriti nel paniere ISTAT. La famiglia media italiana, per esempio, lamenta spesso di ricevere dei redditi non sufficienti a coprire tutte le spese familiari mensili. Anche se in molti casi la lamentela è del tutto giustificabile e giustificata, altrettanto molti sono i casi in cui la pochezza dei redditi è legata allo stile di vita che i membri della famiglia ambiscono ad assumere malgrado non potrebbero permetterselo. Tra le voci di spesa che maggiormente gravano sul bilancio familiare di oggi, per esempio, figurano: l’abbonamento alla televisione satellitare, la telefonia mobile, l’abbigliamento, il cibo raffinato, il fine settimana. Avvertiamo che quello che diciamo non è basato su dati statistici, ma sull’osservazione dei nostri comportamenti e di quelli dei nostri simili. La famiglia media italiana è composta da quattro persone, maritomoglie-due figli: ebbene essa dispone di due automobili di cui paga regolarmente spese di benzina, assicurazione, imposta di circolazione, il che è del tutto normale considerando le diverse esigenze di mobilità dei membri della famiglia. Tuttavia, quando sentiamo dire ad una famiglia siciliana di periferia “normale”, cioè a basso reddito se non addirittura mantenuta dalla pensione dei “vecchi”, che si fanno sacrifici per portare l’automobile presso l’autolavaggio ogni due settimane, evidentemente c’è qualcosa che non và. Perché fare il sacrificio di portare l’auto al lavaggio? Per non più sporcarsi le mani e per fare come tutti gli uomini rispettabili senza considerare, però, che chi lava le automobili, di questo passo, diventerà più ricco e rispettabile di chi vuole ostentar la sua posizione facendosi lavare l’auto. Quante volte ci è capitato di partecipare ad un ricevimento matrimoniale e di trovarci di fronte ad un sofisticato menù di pesce: ebbene, essendo abitudine maniacale del popolo giudicare le famiglie degli sposi sulla base del cibo, dei piatti, del servizio, delle forchette, delle tovaglie, quel menù farà guadagnare a chi lo ha offerto una rispettabilità straordinaria, a differenza di chi offre un modesto pranzo di carne. D’altra parte fu lo stesso Veblen a registrare il fenomeno nella sua opera, parlando della ricerca di cibi esotici e sofisticati come esempio di consumo vistoso. Gli emigrati in vacanza ed i turisti si stupiscono sinceramente quando, una volta giunti in Sicilia, si accorgono dell’inatteso alto numero di motorini, seconde case, ville in campagna (i vecchi poderi?) o al mare, a fronte della fama di disagio e di disoccupazione dell’Isola. In verità, gran parte dei siciliani, o beneficiando della riforma agraria dei primi anni dell’era repubblicana o per iniziativa del bravo capo di famiglia, dispone di proprietà terriere e nessun siciliano che si rispetti rinuncia alla sua buona automobile, al suo motorino, al suo telefonino e alle sue relative tariffe; il siciliano medio è ignorante, ma sorprendentemente conosce tutte le tariffe delle compagnie telefoniche, sa tutto delle automobile, ha l’abbonamento alla 22
televisione satellitare, va allo stadio e manda i suoi figli minori ad ubriacarsi in un pub il sabato sera; per non parlare della baggianiria delle moglie e delle figlie. La morale della favola è che l’onorabilità e la rispettabilità tribali vengono prima di qualsiasi altra cosa, così che si preferisce condurre una vita privata e familiare meschina pur di poter ostentare in pubblico una ricchezza superflua ma necessaria. Il pensare e l’agire cerimoniali tipici della classe agiata e che contagia sempre più i lavoratori, gli ingegneri, gli inventori e tutti coloro che militano nella classe industriale, fa in modo che nella nostra moderna società industriale si sia sempre più perduto di vista ciò che è un bisogno primario e ciò che è secondario, cosicché una sorta di malattia per tutto ciò che è superfluo si diffonde e si afferma favorendo la dispersione di energie e di risorse in una serie di attività che producono ricchezza a cascata per pochi, ma che allo stesso tempo non contribuiscono al progresso, come l’industria del calcio e della moda. Anzi, visto lo sciupio che si fa di fattori produttivi, il progresso è decisamente ostacolato. Anche la storia della proprietà privata è interessante per capire come le istituzioni finanziarie si diffondono tra quelle industriali. Durante tutto l’Ottocento e i primi anni del Novecento la proprietà, che tra le istituzioni finanziarie è senz’altro la più importante, veniva definita sacra ed inviolabile, ufficialmente perché rientrante nella cerchia dei diritti di natura, in realtà perché sopra di essa dovevasi fondare l’ordine borghese. Ebbene, malgrado che in quello stesso periodo nuove idee radicali sulla società andavano diffondendosi e movimenti politici dello stesso tono andavano organizzandosi contro quella nuova forma di oppressione, la lotta di classe si concluse quando la proprietà divenne un fenomeno di massa: se la proprietà è, quindi, un furto ed un residuo dello stile di vita rapace della società di casta, affermare che essa è ancora oggi il pilastro dei nostri ordinamenti non vuol forse dire che la classe agiata ha saputo formare le nuove istituzioni in base ai suoi interessi e al suo sistema dei valori? Questa domanda è stata da noi posta per puntare l’attenzione su come un’istituzione finanziaria, seppur inizialmente contestata, sia in grado di diffondersi tra le classi industriali, le quali imparano, così, ad assumere anche comportamenti conservativi. La precisazione è stata da noi fatta per chiarire che per noi la proprietà è del tutto legittima come è naturale la tendenza alla sua acquisizione. 5 L’ultima riflessione riguarderà esclusivamente la Sicilia. Ci sarà chiesto: cosa c’entra Veblen con l’Isola? Lui non c’entra niente, ma la sua teoria della classe agiata ci ha aiutato a sviluppare alcuni pensieri che riteniamo degni di nota perché attinenti ai motivi del ritardo, 23
sotto il profilo economico e non solo, della nostra terra. La nostra idea di partenza è che il vero problema della Sicilia sia l’ignoranza, ma un problema altrettanto grande è riuscire a definire cosa sia l’ignoranza. L’ignoranza siciliana non risiede nella mancanza di scuole ed uffici, di laureati e validi professionisti: essa è più una condizione dello spirito, dovuta alla mancanza degli abiti mentali, le istituzioni, che la Storia di questi tempi esige e questo è dovuto ad un difetto di nascita della Sicilia contemporanea: l’assenza di una solida classe borghese. Cosa c’entra Veblen? Veblen ci fornisce la spiegazione del fatto per il quale alla caduta del feudalesimo non è seguita la costituzione di una forte classe borghese. I siciliani hanno vissuto non anni, bensì secoli in uno stato di semi-schiavitù sotto il giogo di prepotenti signorotti feudali; per secoli, allora, i siciliani alimentarono un sentimenti misto di ammirazione e al contempo di ostilità nei confronti dei loro signori, per i loro modi aggraziati, le loro vesti, le loro carrozze ed i loro castelli, ma anche per le loro angherie e le loro prepotenze. Grazie a Veblen abbiamo scoperto le potenzialità dell’emulazione finanziaria e di come essa stimoli la tendenza all’assunzione di comportamenti esagerati ritenuti degni alla luce della rispettabilità che forniscono, cosa che nelle classi inferiori si traduce come assunzione del comportamento sfarzoso e cerimoniale della classe agiata. Ecco, non avendo avuto per secoli che il solo esempio della “degenerata” nobiltà siciliana, il popolo ha finito per recepirne integralmente il carattere, cosa ben più grave, in un epoca in cui il suo costume è del tutto scaduto, perché decisamente antistorico. Infatti, il carattere del popolo siciliano, di cui si fa un gran parlare per sottolinearne la “specialità” come se la cosa fosse motivo d’orgoglio, non fa altro che rispondere al codice d’onore della cavalleria medioevale. Non è, dunque, un caso se uno dei primo padrini della storia siciliana formò la sua “cultura” presso l’opera dei pupi. L’onore, l’inganno, la meschinità, la slealtà, la viltà, la prepotenza, la consegna del silenzio (un’espressione gentile per dire “omertà”), la spirtizza, a fimmina, sono solo alcuni dei valori della retrograda mentalità siciliana, valori che, invero, guardati dal punto di vista giusto, quello della Storia, quello della borghesia, sono dei veri e propri disvalori. E come se la scala dei valori in Sicilia fosse letta al contrario. In una società che, a dispetto delle apparenze, è intimamente arretrata ed ignorante, perché incapace di distinguere il giusto e l’errore, ovvio appare che lo spirito dell’iniziativa privata, la cultura dell’investimento, il senso dello stato debbano cedere allo parassitismo dell’impiego pubblico, alla rapacità delle imprese delinquenziali e delle piccole imprese esistenti solo sulla carta e, infine, alla criminalità mafiosa.
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