Uomini Senza Donne - Murakami Haruki

April 5, 2017 | Author: carol | Category: N/A
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Murakami Haruki

Uomini senza donne Traduzione di Antonietta Pastore

Einaudi

Drive my car

Nella sua vita Kafuku aveva visto molte donne alla guida di un’auto, e grossomodo le divideva in due categorie: quelle un po’ troppo aggressive e quelle un po’ troppo prudenti. Le seconde erano molto piú numerose delle prime – cosa della quale possiamo solo rallegrarci. In generale, le donne sono piú corrette e caute degli uomini: e di una guida cauta e corretta è ovvio che nessuno si può lamentare. Anche se a volte, però, può essere esasperante per gli automobilisti intorno. Quanto alle donne appartenenti all’altro gruppo, le «aggressive», di solito si credevano degli assi del volante. Consideravano quelle troppo prudenti delle imbecilli e si vantavano di non essere come loro. Cambiavano corsia all’improvviso, senza rendersi conto che cosí costringevano gli altri automobilisti a frenare sospirando o ricoprendole di improperi. Naturalmente, c’erano anche donne che non appartenevano né all’una né all’altra categoria. Donne che guidavano in maniera del tutto normale, né troppo aggressiva, né troppo cauta. Fra queste, alcune erano davvero brave. Anche in loro, tuttavia, Kafuku percepiva segni di tensione. In cosa consistessero, questi segni, non sarebbe stato in grado di dirlo, ma seduto al loro fianco intuiva una certa asperità che si trasmetteva fino a lui, mettendolo a disagio. Provava uno sgradevole bisogno di inumidirsi la gola, e per colmare il silenzio si lanciava in discorsi futili e superflui. È ovvio che anche fra gli uomini c’era chi guidava bene e chi no. Nella maggior parte dei casi, però, gli uomini al volante non gli davano l’impressione di essere tesi. Non che fossero particolarmente rilassati. Magari in realtà erano un fascio di nervi. Però riuscivano in maniera naturale – forse inconscia – a non lasciar trapelare la tensione nei loro gesti. Pur concentrandosi nella guida, conversavano e si muovevano normalmente. Erano due sfere d’azione diverse. Kafuku non si spiegava il perché di questa differenza di comportamento tra uomini e donne. Nella vita quotidiana, gli capitava raramente di notarne altre. Di percepire, cioè, una qualche differenza tra le capacità di maschi e femmine. Nella sua professione aveva occasione di lavorare sia con gli uni che con le altre, e, a essere sinceri, si sentiva piú a suo agio con le donne. Erano piú attente ai dettagli, e sapevano ascoltare. Ma quando doveva salire su un’automobile, se a stringere il volante, accanto a lui, erano mani femminili, Kafuku per tutto il tempo ne era sgradevolmente consapevole. Però non aveva mai parlato a nessuno di questa sua visione delle cose. Non gli sembrava un argomento di conversazione proponibile. Quindi non si mostrò particolarmente contento quando il suo meccanico Oba, a cui aveva chiesto di trovargli un autista, gli propose una giovane donna. Vedendolo perplesso, Oba sorrise con l’aria di chi pensa: «La capisco benissimo». – Guardi che questa ragazza guida davvero bene, sa, signor Kafuku. Glielo garantisco. Perché non la incontra, una volta? Perché non si fa portare un po’ in giro? – Se me la raccomanda lei, non ho nulla da obiettare, – rispose Kafuku. Aveva bisogno di un autista

al piú presto, e Oba era un uomo affidabile. Erano ormai quindici anni che lo conosceva. Aveva capelli come fil di ferro e l’aria di un folletto, ma in materia di automobili era praticamente infallibile. – Per scrupolo, farei una revisione completa. Se per lei va bene, signor Kafuku, gliela consegno rimessa a nuovo dopodomani alle due. Chiederò alla ragazza di cui le ho parlato di venire qui per quell’ora, cosí potrà metterla alla prova, farsi scorrazzare un poco per il quartiere. Cosa ne pensa? Se non la convince, lo dica tranquillamente. Non ha bisogno di fare complimenti, con me. – Quanti anni ha? – Credo venticinque o ventisei. Ma non gliel’ho chiesto, – disse Oba. Poi proseguí, l’aria perplessa: – Come le ho detto, al volante è bravissima, però… – Però? – Mah, come spiegarle? Ha un lato… diciamo scomodo. – In che senso? – Be’, ecco, è un po’ scontrosa, di poche parole. E fuma ininterrottamente. Quando la vedrà, capirà cosa voglio dire. Non è il tipo della bambolina, insomma. Non sorride mai. A dirla tutta, si potrebbe quasi definire… sí, un po’ rozza. – Non ha importanza. Anzi, meglio se non è una bellezza: non mi sentirei a mio agio, e poi darei adito a pettegolezzi. – Allora è perfetta per lei. – In ogni caso, a guidare è brava, no? Me l’assicura? – Bravissima. E non «bravissima per essere una donna». È davvero in gamba. In assoluto. – Adesso che lavoro fa? – Questo con precisione non lo so. Cassiera in un minimarket, consegna pacchi a domicilio… lavoretti saltuari, insomma, giusto per sbarcare il lunario. Impieghi che può lasciare dall’oggi al domani, se le si presenta un’occasione migliore. È stato un mio conoscente a mandarcela, ma anche da noi la crisi si fa sentire, non possiamo permetterci di assumere un’altra impiegata. Tutto quel che possiamo fare è chiamarla quando ne abbiamo bisogno. Ma penso che sia una ragazza a posto, affidabile. Tanto per cominciare, non beve un goccio d’alcol. A sentir parlare di alcol, Kafuku si adombrò. Senza rendersene conto, portò la mano destra alla bocca. – Allora la vedrò dopodomani alle due, – disse. Quella ragazza scontrosa e taciturna, poco affabile, lo interessava. Due giorni dopo, alle due in punto, la sua Saab 900 cabriolet era pronta. L’ammaccatura sulla parte anteriore destra era scomparsa, sulla carrozzeria ben verniciata adesso non se ne vedeva piú traccia. Oba aveva anche provveduto a controllare il motore, sostituire le pastiglie dei freni e il tergicristallo, far lavare la vettura, lucidare e ingrassare i cerchioni delle ruote. Come sempre, un servizio impeccabile. Erano dodici anni che Kafuku aveva quella Saab, con la quale aveva fatto piú di centomila chilometri. La tela della capote ormai era sgualcita e nei giorni di pioggia forte c’era il rischio che lasciasse passare l’acqua. Ma per il momento Kafuku non aveva intenzione di cambiare automobile. Di grossi problemi la Saab non gliene aveva mai dati, e soprattutto ci era affezionato. Gli piaceva lasciare il tettuccio aperto, in qualunque stagione fosse. D’inverno metteva un cappotto pesante e una sciarpa intorno al collo, d’estate un berretto in testa e gli occhiali da sole. Seduto al volante, provava il sottile piacere di cambiare marcia mentre attraversava la città, e quando era fermo ai semafori guardava le nuvole che si spostavano nel cielo e gli uccelli fermi sui fili della luce. Quell’abitudine era ormai diventata una parte

imprescindibile del suo stile di vita. Kafuku fece un lento giro intorno all’automobile, controllando una cosa qui e una lí, come il proprietario di un cavallo prima di una corsa. L’aveva comprata quando sua moglie era ancora viva. Era stata lei a sceglierla gialla. Nei primi anni la usavano spesso insieme. Sua moglie non guidava, cosí al volante si metteva sempre lui. Avevano anche fatto lunghi viaggi. Izu, Hakone, Nasu… In seguito però, per quasi dieci anni, su quella Saab Kafuku non aveva portato nessuno. Dopo la morte della moglie, aveva avuto diverse storie, ma per qualche ragione non gli si era mai presentata l’occasione di far sedere una donna in macchina accanto a sé. Né gli era piú capitato di spostarsi fuori città, se non per motivi di lavoro. – Be’, cosette da riparare qua e là ce n’erano parecchie, ma è ancora piú che valida, – disse Oba carezzandone amorevolmente il cruscotto, come se fosse il collo di un grosso cane. – È una vettura affidabile. Le automobili svedesi di quegli anni sono eccellenti. Hanno qualche difettuccio al circuito elettrico, va tenuto d’occhio, ma la meccanica di base non dà mai grossi problemi. Comunque l’ha trattata proprio bene, lei. Kafuku aveva firmato i documenti per la riconsegna e stava ascoltando la spiegazione dettagliata della fattura, quando arrivò la ragazza. Era piuttosto alta, forse un metro e sessantacinque, e pur non essendo grassa aveva le spalle larghe e un fisico robusto. Sul collo, a destra, aveva una macchia ovale grande come un’oliva, violacea, alla quale non sembrava dare molta importanza visto che non si preoccupava di coprirla con i capelli, che aveva neri e spessi e per comodità teneva legati sulla nuca. No, Oba aveva ragione, nessuno avrebbe potuto trovarla bella, il suo viso aveva qualcosa di indisponente. Sulle guance le erano rimasti i segni di un’acne adolescenziale. Gli occhi dalle iridi scurissime avevano uno sguardo sospettoso, ma forse davano quell’impressione perché erano molto grandi. Le orecchie a sventola sembravano antenne paraboliche in piena campagna. Indossava una giacca da uomo a spina di pesce un po’ troppo pesante per la stagione – era maggio –, dei pantaloni di tela marrone e ai piedi aveva delle sneakers nere della Converse. Sotto la giacca e la maglietta bianca, il seno era voluminoso. Oba la presentò: si chiamava Watari Misaki. – Misaki si scrive in hiragana. Se lo desidera, posso farle avere il mio curriculum, – disse la ragazza in un tono che non aveva nulla di deferente. Kafuku scosse la testa. – No, per il momento non è necessario. Come se la cava col cambio manuale? – Lo preferisco, – rispose freddamente la ragazza, come una convinta vegetariana a cui avessero chiesto se mangiava l’insalata. – È un modello vecchio, non ha il navigatore. – Non ne ho bisogno. Per un certo periodo ho consegnato pacchi a domicilio. Ho bene in mente la topografia della città. – Be’, allora vogliamo fare un giro di prova qui intorno? È una bella giornata, possiamo lasciare il tettuccio aperto. – Dove vuole andare? Kafuku ci pensò su un momento. Erano vicini a Shinohashi. – Potremmo girare a destra all’incrocio del tempio Tengenji, fermarci nel parcheggio sotterraneo dei grandi magazzini Meijiya, dove devo comprare una cosa, poi salire la collina verso il parco Arisugawa, superare l’ambasciata francese e tornare qui passando da Meiji-dōri. – Perfetto, – disse la ragazza, senza preoccuparsi di verificare il percorso. Prese da Oba le chiavi della macchina, regolò con gesti svelti la posizione del sedile e del retrovisore. Sembrava conoscere benissimo la funzione di ogni pulsante. Schiacciò sull’acceleratore, provò il cambio. Tirò fuori dal taschino della

giacca dei Ray-ban verdi e se li mise. Poi si voltò verso Kafuku e gli fece un piccolo cenno col capo. Come per dirgli che era pronta. – Cassette, – disse come se parlasse da sola, dando un’occhiata all’impianto stereo. – Sí, preferisco le cassette, – rispose Kafuku. – Sono piú facili da usare dei cd. E posso esercitarmi nella parte. – Era da un po’ che non ne vedevo. – Quando ho iniziato a guidare, si usavano ancora gli stereo 8 piste. Misaki non rispose. Dall’espressione, sembrava che non sapesse nemmeno cosa fossero, gli stereo 8 piste. Come aveva detto Oba, al volante era bravissima. Aveva una guida sicura e fluida, senza bruschi scatti. Malgrado il traffico fosse intenso e le soste ai semafori frequenti, badava a mantenere il motore a un numero costante di giri, lo si capiva dal modo in cui spostava lo sguardo dal cruscotto alla strada. E se Kafuku chiudeva gli occhi, non avvertiva quasi i cambiamenti di marcia. Per accorgersene, doveva tendere l’orecchio al ronzio del motore, sentirne le variazioni. Anche il modo di usare freno e frizione era attento e leggero. Ma quello che faceva davvero piacere a Kafuku era il fatto che quella ragazza mentre guidava fosse rilassata, per tutto il tempo. Anzi, sembrava quasi che ogni tensione l’abbandonasse appena metteva le mani sul volante di un’automobile. La sua espressione diventava piú affabile, lo sguardo piú gentile. Ma restava taciturna. Apriva bocca solo per rispondere alle domande. A Kafuku però questo non dava fastidio. Nemmeno lui era molto portato per la conversazione. Parlare con le persone con cui era in confidenza non gli dispiaceva, ma con tutti gli altri preferiva stare zitto. Sprofondato nel sedile accanto a Misaki che guidava, guardava distrattamente le strade. Di solito stava seduto al volante, e vista da questa nuova posizione la città gli faceva un effetto diverso. Sulla trafficata Gaiennishi-dōri, Kafuku chiese piú volte a Misaki di parcheggiare lungo il marciapiede, per prova, e lei ogni volta eseguí la manovra con abilità e precisione. Aveva i riflessi pronti. E ottime funzioni senso-motorie. Durante le lunghe attese ai semafori, fumava. Fumava Marlboro. Ma appena il semaforo passava al verde spegneva la sigaretta, e non ne accendeva mai una mentre guidava. Non aveva rossetto sulle labbra, né smalto sulle unghie. Nemmeno l’ombra di fondotinta sul viso. – Avrei alcune cose da chiederle, – disse Kafuku quando arrivarono al parco Arisugawa. – Prego, – lo incoraggiò Misaki. – Dove ha imparato a guidare? – Sono cresciuta fra le montagne dell’Hokkaidō. Guido da quando avevo quindici anni. Dalle mie parti, senza automobile non si sopravvive. È una cittadina in fondo a una valle, il sole ci arriva poco e per metà dell’anno le strade sono gelate. Che piaccia o meno, si impara a guidare. – Sí, ma a parcheggiare? Non credo si faccia molta pratica di parcheggi, su quelle strade di montagna. La ragazza non rispose, non sembrava ritenerlo necessario. – Il signor Oba le ha spiegato perché ho avuto bisogno di un autista da un giorno all’altro? – Mi ha detto che lei è un attore, – rispose Misaki in tono neutro, guardando dritto davanti a sé, – e che sei giorni alla settimana recita a teatro. Di solito ci va con la sua macchina, e guida lei. La preferisce ai mezzi pubblici. Perché in macchina può esercitarsi a ripetere la parte. Ma poco tempo fa ha avuto un piccolo incidente, in seguito al quale le è stata sospesa la patente. Era positivo all’alcoltest, inoltre ha un problema agli occhi. Kafuku annuí. Aveva l’impressione di sentir raccontare un sogno fatto da un’altra persona. – All’esame della vista presso la struttura che mi ha indicato la polizia, l’oculista ha riconosciuto i sintomi di un glaucoma. Ho un angolo cieco nel campo visivo. All’estremità destra. Io non me n’ero mai accorto.

Riguardo alla guida in stato di ebbrezza, in realtà il tasso alcolico non era molto alto, cosí era riuscito a tenere segreta la notizia, evitando che giungesse fino ai media. Ma per il problema alla vista, non aveva potuto fare a meno di informare il suo agente. C’era il rischio che quell’angolo morto gli impedisse di vedere un’automobile che arrivava da destra. Gli era stato detto di non guidare per nessuna ragione, fino a quando nuove analisi non avessero dato risultati rassicuranti. – Signor Kafuku? – gli chiese Misaki. – Va bene se la chiamo cosí? È il suo vero cognome? – Sí, è il mio vero cognome, – rispose lui. – Contiene la parola fortuna, ma alla mia famiglia non ha mai portato grandi benefici. Nessuno dei miei parenti è ricco. Scese un breve silenzio. Poi Kafuku le disse quanto l’avrebbe pagata al mese per il suo lavoro. Non era una grossa somma, ma era tutto quello che poteva offrire l’agenzia. Kafuku era un attore conosciuto, ma non aveva mai ruoli da protagonista al cinema o alla televisione, e a teatro non si guadagna granché. Per un attore del suo livello assumere un autista, anche solo per qualche mese, era molto oneroso. – L’orario di lavoro varia in funzione dei miei impegni professionali, ma al momento recito soprattutto a teatro, quindi la mattina di solito sarà libera. Potrà dormire anche fino a mezzogiorno. La sera, farò in modo di tenerla impegnata al massimo fino alle undici. Nel caso io finisca piú tardi, chiamerò un taxi. E le darò un giorno di ferie alla settimana. – D’accordo, – rispose Misaki senza scomporsi. – Il lavoro in sé non penso sia faticoso. Può darsi che la parte piú seccante sia restare a disposizione senza fare niente. A questo proposito, Misaki non fece commenti. Tenne le labbra serrate, con l’aria di chi ne aveva viste di peggio. – Quando il tettuccio è aperto, può fumare, ma quando è chiuso vorrei che se ne astenesse, – disse Kafuku. – D’accordo. – Lei ha qualche richiesta? – No, niente in particolare, – fece Misaki. Socchiuse un po’ le palpebre e scalò marcia facendo un lungo respiro. – Mi piace, questa macchina, – disse. Per il resto del tempo non parlarono. Tornarono all’officina meccanica, dove Kafuku chiamò Oba in un angolo per dirgli che aveva deciso di assumere la ragazza. Dal giorno dopo, Misaki divenne l’autista di Kafuku. Ogni pomeriggio, alle tre e mezza, tirava fuori la Saab gialla dal parcheggio sotterraneo del palazzo dove abitava lui, nel quartiere di Ebisu, e lo accompagnava al suo teatro a Ginza. Se non pioveva, lasciava il tettuccio aperto. All’andata Kafuku, seduto accanto a lei, infilava una cassetta nello stereo – un dramma di Anton Čechov, Zio Vania, in un adattamento ambientato nel Giappone dell’era Meiji – e recitava il testo ad alta voce, all’unisono con quello registrato. Interpretava la parte di Vania. Ormai la sapeva a memoria dall’inizio alla fine, ma per sentirsi tranquillo aveva bisogno di ripeterla ogni giorno. Era un’abitudine che aveva da anni. Al ritorno, ascoltava spesso Beethoven nell’esecuzione di un quartetto d’archi. Gli piacevano, le opere di Beethoven per quartetto d’archi, era un genere di musica che non gli veniva mai a noia, e in piú gli permetteva di pensare agli affari suoi, o al contrario di non pensare a nulla. Quando aveva voglia di qualcosa di piú leggero, sentiva vecchio rock americano – i Beach Boys, i Rascals, i Creedence, i Temptations… –, roba di moda quando lui era giovane. Misaki non faceva commenti sulla musica che sceglieva Kafuku, il quale non capiva se le piacesse, se le facesse schifo, o se non l’ascoltasse neanche. Non mostrava mai le sue emozioni, quella ragazza.

Normalmente, Kafuku non riusciva a ripetere la parte davanti ad altre persone, si sentiva a disagio, ma la presenza di Misaki non lo disturbava. Al contrario, apprezzava l’atteggiamento distaccato, quasi scostante di lei. Anche quando parlava a voce molto alta, la ragazza, pur essendo seduta accanto a lui, manteneva un’aria indifferente, come se non lo sentisse nemmeno. Ma forse era proprio cosí, pensava solo alla guida. O magari guidando entrava in uno stato di concentrazione zen. E di lui, che opinione aveva? Kafuku non riusciva a immaginarlo. Lo trovava almeno un po’ simpatico, o non aveva per lui alcun interesse, alcuna curiosità? O addirittura lo trovava repellente, tanto da averne la pelle d’oca, ma sopportava in silenzio per non perdere il lavoro? In ogni caso, di quel che pensava Misaki, a Kafuku non importava nulla. Gli piaceva il suo modo scorrevole e sicuro di guidare, e tanto gli bastava, anzi, apprezzava anche il fatto che lei si tenesse le sue emozioni per sé. Appena finiva di recitare, Kafuku si toglieva il trucco di scena, si cambiava e lasciava in fretta il teatro. Non gli piaceva fermarsi a perdere tempo. Non frequentava quasi i suoi colleghi. Chiamava Misaki col cellulare perché venisse con la macchina all’ingresso degli artisti, in modo che la Saab gialla cabriolet fosse lí ad attenderlo quando usciva. E verso le dieci e mezza era di ritorno al suo appartamento a Ebisu. Questa era la sua routine quotidiana. Gli capitava anche di lavorare in altri posti. Una volta alla settimana doveva andare in uno studio televisivo per registrare la sua parte in un telefilm. Si trattava di una banalissima serie poliziesca, ma l’audience era alta e il compenso ottimo. Kafuku sosteneva il ruolo di un indovino che aiutava una poliziotta, la protagonista. Per immedesimarsi nel personaggio, diverse volte si era travestito da cartomante e per la strada si era messo a leggere la fortuna ai passanti. Tanto che si era fatto la reputazione di essere tagliato per la parte. Nel tardo pomeriggio, appena terminata la registrazione, doveva correre direttamente al teatro. Era la parte piú rischiosa del programma settimanale. Nei weekend, dopo lo spettacolo in matinée, teneva corsi serali agli allievi di una scuola di recitazione. Insegnare ai giovani gli piaceva moltissimo. Il compito di Misaki consisteva nel portare Kafuku avanti e indietro da un posto all’altro. Lo accompagnava puntualmente di qua e di là, senza mai creare problemi, e lui si era abituato a sedere nella Saab di fianco alla ragazza che guidava. A volte finiva addirittura per addormentarsi. Con l’arrivo del caldo, Misaki sostituí la sua pesante giacca maschile con una estiva, piú leggera. In ogni caso, quando guidava indossava sempre una giacca. Forse al posto della divisa. Nella stagione delle piogge il tettuccio restava quasi sempre chiuso. Sul sedile di fianco, Kafuku pensava spesso alla moglie morta. Da quando Misaki gli faceva da autista, per qualche motivo gli tornava in mente di continuo. Di due anni piú giovane, un viso stupendo, era stata attrice anche lei. Kafuku all’epoca era soprattutto un «caratterista», interpretava sovente il ruolo del nevrotico pieno di fissazioni. Con la sua faccia lunga e stretta, e la tendenza precoce a perdere i capelli, non era adatto ai ruoli di protagonista. La moglie invece, con la sua bellezza, era la tipica prima attrice, cui venivano attribuiti ruoli e compensi adeguati. Col passare degli anni, tuttavia, era stato piuttosto lui, bravissimo nell’interpretare i suoi personaggi tipici, ad acquisire notorietà. Comunque i due coniugi riconoscevano i rispettivi meriti professionali, e non era mai successo che la differenza di popolarità e guadagni creasse problemi fra loro. Kafuku amava la moglie. Se ne era profondamente innamorato poco dopo averla conosciuta – all’epoca lui aveva ventinove anni –, e da allora fino alla morte di lei – vent’anni dopo –, il suo sentimento era rimasto invariato. Per tutta la durata del suo matrimonio, non aveva mai avuto rapporti sessuali con altre donne. Le occasioni non gli erano certo mancate, ma non ne aveva mai provato il desiderio. La moglie invece era andata a letto con altri uomini. Con quattro, per quel che ne sapeva Kafuku.

Quattro volte, per periodi limitati, lei aveva avuto un amante. Naturalmente non ne aveva fatto parola al marito, ma Kafuku percepiva immediatamente quando lei, in qualche luogo, stava fra le braccia di un altro. Per carattere era piuttosto intuitivo, ma c’è da dire che qualunque persona veramente innamorata è in grado di cogliere certi segnali, per quanto sgradevoli. Dal tono di voce di lei, capiva anche chi era l’uomo. Si trattava sempre di qualche attore col quale recitava nel film di turno. Di solito piú giovane. La relazione continuava per diversi mesi, finché veniva meno in modo naturale al termine delle riprese. Un copione che si era ripetuto ben quattro volte. Perché lei sentisse il bisogno di andare a letto con altri uomini, Kafuku non l’aveva mai capito. Ancora adesso non riusciva a spiegarselo. Da quando si erano sposati il loro rapporto, sia in quanto marito e moglie, sia in quanto compagni di vita, era sempre stato ottimo. Quando se ne presentava l’occasione, parlavano con passione e sincerità di tante cose, e cercavano la reciproca fiducia. Fra loro c’era un’intesa magnifica, sia in senso fisico che spirituale, pensava Kafuku. Amici e conoscenti li consideravano una coppia unita e ideale. Ciononostante, perché sua moglie aveva avuto altri uomini? Avrebbe dovuto farsi coraggio e domandarlo a lei finché era in vita. Kafuku se lo diceva spesso. Una volta era stato sul punto di chiederglielo. Che cosa cercavi in loro? Che cosa non ti bastava, in me? Era successo pochi mesi prima che lei morisse. Ma davanti alla moglie che stava per andarsene fra terribili sofferenze non era riuscito a proferire quelle parole. Cosí lei aveva lasciato il mondo dei vivi senza dargli uno straccio di spiegazione. Una domanda inespressa, una risposta mancata. Al crematorio, mentre raccoglieva in silenzio le ceneri della moglie, Kafuku era immerso in questi pensieri. Al punto da non sentire nemmeno quello che le altre persone gli sussurravano all’orecchio. Immaginare la moglie fra le braccia di un altro, per Kafuku era stato uno strazio. D’altronde, come avrebbe potuto non esserlo? Se chiudeva gli occhi, vivide immagini si formavano nella sua mente una dopo l’altra. Non che lui cercasse intenzionalmente quelle fantasie, ma non riusciva a reprimerle. Lo trafiggevano con lentezza, senza pietà, come la lama di un coltello. A volte si diceva che sarebbe stato preferibile se fosse rimasto all’oscuro di tutto. Ma era fondamentalmente convinto che – in qualunque circostanza – sapere è sempre meglio che ignorare. Doveva conoscere la verità, per quanto grande fosse il dolore che comportava. Solo la conoscenza della verità rende gli esseri umani piú forti. Ancora piú dolorosi di quelle immagini, tuttavia, erano gli sforzi che doveva fare per stare insieme alla moglie come se nulla fosse, senza farle capire che sapeva tutto. Mostrarsi sereno, mentre dentro di sé si sentiva lacerare il petto e ribollire il sangue. Portare avanti con noncuranza le solite attività quotidiane, conversare in modo naturale, fare l’amore con lei nel loro letto. Non era una cosa alla portata di chiunque. Ma Kafuku era un attore professionista. Distaccarsi da sé e immedesimarsi in un ruolo era il suo lavoro. E recitava mettendoci l’anima. Una recita senza spettatori. Però, a prescindere da questa circostanza – dal fatto, cioè, che lei a volte facesse l’amore di nascosto con altri –, marito e moglie conducevano insieme una vita soddisfacente e tranquilla. Sia l’uno che l’altra erano contenti del loro lavoro e guadagnavano bene. In vent’anni di vita matrimoniale avevano fatto sesso innumerevoli volte, e almeno da parte di Kafuku, sempre con piacere. Dopo che lei era morta – un tumore all’utero se l’era portata via in pochi mesi –, lui aveva incontrato diverse donne e ci era andato a letto. Senza mai ritrovare con loro, però, l’intima gioia che aveva conosciuto con la moglie. Tutto quello che provava era un vago senso di déjà vu, il pallido ricordo di un’esperienza già vissuta. Per pagare Misaki l’agenzia aveva bisogno dei suoi dati, quindi Kafuku le chiese di annotare il suo indirizzo attuale, il domicilio legale, la data di nascita e il numero della patente. La ragazza viveva in un appartamento nel quartiere di Akabane, nella parte nord di Tōkyō. Era domiciliata nel comune di

Kamijūnitaki, nell’Hokkaidō, e aveva appena compiuto ventiquattro anni. Kafuku non sapeva in che parte dell’Hokkaidō si trovasse quella città, quanto fosse grande o cosa facessero gli abitanti. Ma nell’apprendere l’età della ragazza era rimasto colpito. Kafuku aveva avuto una figlia che era vissuta solo tre giorni. Era morta nel nido della clinica, durante la terza notte, senza nessun preavviso. Il cuore si era fermato, cosí, di colpo. Quando era spuntata l’alba, la neonata non respirava piú. I medici avevano ipotizzato che era nata con un difetto congenito alla valvola cardiaca. Ma non c’era modo di provarlo. D’altronde, conoscere la vera causa della morte non avrebbe riportato in vita la bambina. Per fortuna, o forse per disgrazia, ancora non le avevano messo un nome. Se fosse vissuta, ora avrebbe avuto ventiquattro anni. Nell’anniversario della sua nascita, Kafuku calcolava sempre gli anni trascorsi, e diceva una preghiera, in solitudine. Per Kafuku e la moglie, perdere la figlia in modo tanto brusco era stato naturalmente un colpo terribile. Sentivano la sua assenza con dolore profondo. Impiegarono molto tempo a riprendersi. Passavano le giornate chiusi in casa, quasi senza parlarsi. Perché qualunque cosa dicessero, sembrava loro senza significato. Lei prese l’abitudine di bere grandi quantità di vino. Lui per un certo periodo si dedicò con singolare passione alla calligrafia. Tracciando ideogrammi sulla carta candida col pennello imbevuto di inchiostro nerissimo, gli pareva di veder sciogliersi a poco a poco il groviglio che aveva nel cuore. Tuttavia, col reciproco sostegno, gradualmente riuscirono a guarire da quella ferita e a superare quel periodo difficile. E a concentrarsi ancora piú intensamente di prima nelle rispettive carriere. Si dedicavano frenetici alla preparazione dei ruoli che venivano loro assegnati. «Scusami, ma non voglio piú avere figli», disse a Kafuku la moglie. Lui era dello stesso avviso. «D’accordo, farò in modo che non succeda. Se è quello che desideri, per me va bene», rispose. Era stato a partire da quel momento che sua moglie aveva iniziato ad avere delle relazioni con altri uomini, rifletteva Kafuku ripensando a quel periodo. Poteva darsi che il fatto di aver perso una figlia avesse risvegliato dentro di lei quel bisogno. Ma erano soltanto supposizioni. Era soltanto una possibilità. – Posso farle una domanda? – gli chiese Misaki. Kafuku, che stava pensando ai fatti suoi e guardava distrattamente fuori dal finestrino, si voltò sorpreso verso di lei. Erano due mesi che passavano molte ore insieme in macchina, ma Misaki non aveva quasi mai attaccato discorso. – Certamente, prego, – disse. – Perché è diventato attore, signor Kafuku? – Quand’ero all’università, un’amica mi ha invitato a far parte del club di recitazione. In realtà non è che avessi un particolare interesse per il teatro. Avrei voluto entrare nella squadra di baseball. Al liceo me la cavavo abbastanza bene, ero un discreto interbase. Peccato che all’università la squadra fosse di livello ben superiore al mio. Allora mi sono detto che mi conveniva accettare l’invito di quella mia amica. Sono entrato nel gruppo teatrale cosí, tanto per provare, e anche per passare piú tempo con lei. Ma a poco a poco, fra un’interpretazione e l’altra, ho capito che recitare mi piaceva. Quando mi calavo in un ruolo, potevo diventare qualcuno di diverso. E quando finivo di recitare, ritrovare me stesso. Era una sensazione bellissima. – Cosa? Diventare qualcuno di diverso? – Sí. Ma solo a condizione di poter tornare indietro. – Non ha mai provato il desiderio di non tornare? Kafuku ci pensò un po’ su. Era la prima volta che qualcuno gli faceva una domanda del genere. Nel

traffico intenso, avanzavano lentamente lungo l’autostrada metropolitana verso l’uscita di Takebashi. – Be’, dove altro avrei potuto andare? – disse. Misaki non fece commenti. Seguí qualche minuto di silenzio. Kafuku si tolse il berretto da baseball, ne controllò la forma, se lo rimise in testa. La Saab cabriolet stava procedendo accanto a un tir e alla sua serie infinita di ruote. Al confronto, sembrava una fragile barchetta di fianco a un cargo. – Senta, so che non sono fatti miei, ma c’è una cosa che trovo strana, – proseguí Misaki dopo un po’. – Posso… – Prego, – fece Kafuku. – Come mai lei non ha amici? Kafuku si voltò a guardare la ragazza, che vedeva di profilo, con una certa curiosità. – Cosa le fa pensare che non ne abbia? Misaki fece spallucce. – Quando si porta una persona in macchina ogni giorno per due mesi, certe cose si capiscono. Kafuku osservò le ruote del tir. A lungo e con grande concentrazione. – Visto che me lo chiede, è da tanto che non ho dei veri e propri amici, – disse poi. – Non ne aveva neanche da bambino? – Da bambino sí. Giocavamo insieme a baseball, andavamo a nuotare… Ma una volta diventato adulto, non ho piú sentito il bisogno di amicizie. Soprattutto da quando mi sono sposato. – Vuol dire che le bastava sua moglie, che gli amici non erano piú necessari? – Può darsi. Perché eravamo anche buoni amici, io e lei. – A che età si è sposato? – A trent’anni. Ci siamo conosciuti sul set, lavoravamo nello stesso film. Ma lei aveva una parte importante, io un ruolo secondario. La vettura avanzava a singhiozzo nel traffico. Il tettuccio era chiuso, come sempre quando prendevano l’autostrada. – Lei non tocca mai un goccio d’alcol, vero? – chiese Kafuku, tanto per cambiare argomento. – No, sembra che il mio fisico lo rifiuti, – disse Misaki. – Mia madre beveva, abitudine che ha causato tanti guai. Può darsi che c’entri anche questo. – Beve ancora? Misaki scosse piú volte la testa. – È morta. Guidava ubriaca, ha perso il controllo della vettura, è uscita di strada ed è andata a schiantarsi contro un albero. È morta praticamente sul colpo. Io avevo diciassette anni. – Mi dispiace, – disse Kafuku. – Se l’è cercata, – fece Misaki freddamente. – Prima o poi doveva capitare, era solo questione di tempo. Ci fu un altro silenzio. – E suo padre? – Non so dove sia. Se n’è andato di casa quando avevo otto anni, e da allora non l’ho piú visto. Né sentito. Mia madre dava sempre la colpa a me. – Perché? – Ero figlia unica, e lei diceva che se fossi stata una bella bambina, lui non mi avrebbe mai abbandonata. Non faceva che ripetermelo. Che mi aveva lasciata perché ero brutta. – Ma lei non è affatto brutta, – disse Kafuku senza incertezze. – Semplicemente a sua madre piaceva pensare che fosse andata cosí.

Misaki si strinse di nuovo nelle spalle. – Normalmente non lo faceva, ma quando era ubriaca, mia madre era capace di dirmi qualsiasi schifezza. Ripeteva sempre le stesse cose, all’infinito. E mi feriva. So che non è una bella cosa, ma quando è morta, a essere sincera, per me è stato un sollievo. Questa volta, il silenzio che seguí fu molto piú lungo. – E lei ne ha, di amici? Misaki scosse la testa. – No, non ne ho. – Come mai? La ragazza non rispose. Strinse leggermente le palpebre continuando a guardare davanti a sé. Kafuku chiuse gli occhi pensando di dormire un po’, ma non ci riuscí. Anche se Misaki ogni volta inseriva la marcia con delicatezza, la macchina si fermava e ripartiva tutti i momenti. Nella corsia di fianco, il tir era sempre lí, un po’ piú avanti o un po’ piú indietro, come l’ombra gigantesca del destino. Kafuku rinunciò a dormire. – L’ultima volta che mi sono fatto un amico è stata quasi dieci anni fa, – disse riaprendo gli occhi. – Ma forse sarebbe piú esatto dire «qualcosa di simile a un amico». Aveva sei o sette anni meno di me, ed era una brava persona. Bere gli piaceva, per tenergli compagnia bevevo anch’io, e intanto parlavamo di tante cose. Misaki annuí lievemente. Aspettava il seguito della storia. Dopo qualche esitazione, Kafuku si decise a raccontare. – Le dirò la verità, quell’uomo per un certo periodo era andato a letto con mia moglie. Ma ignorava che io lo sapessi. Qualche secondo, il tempo di mandare giú quell’informazione, poi Misaki chiese: – Vuole dire che quell’uomo faceva sesso con sua moglie? – Esattamente. Ha fatto sesso con lei diverse volte, per tre o quattro mesi, credo. – E come è venuto a saperlo? – Be’, non è stata lei a dirmelo, naturalmente, ma io l’ho capito. Ora spiegarle sarebbe troppo lungo. Ma è una cosa di cui sono certo. Non me la sono immaginata. Mentre erano fermi a un semaforo, Misaki regolò la posizione del retrovisore con entrambe le mani. – E il fatto che quell’uomo andasse a letto con sua moglie non le ha impedito di diventare suo amico? – chiese. – Al contrario, – rispose Kafuku. – Ho voluto farmelo amico proprio perché andava a letto con lei. Misaki non aprí bocca, in attesa che lui continuasse. – Come spiegarle, volevo… volevo capire. Capire cosa avesse spinto mia moglie a tradirmi con quell’uomo, quale ragione avesse di farlo. Perlomeno all’inizio, la mia motivazione era questa. Misaki fece un respiro profondo. Sotto la giacca il suo petto si sollevò e scese lentamente. – Non era una sofferenza, per lei? Starsene a bere e chiacchierare con un uomo che si portava a letto sua moglie? – Certo che lo era, è ovvio, – disse Kafuku. – Il mio pensiero, anche non volendo, andava sempre lí. Mi tornavano in mente cose che avrei preferito non ricordare. Ma recitavo. Dopotutto era il mio mestiere. – Diventare un altro personaggio, – disse Misaki. – Appunto. – Per ritornare poi nei propri panni. – Appunto, – ripeté Kafuku. – Ritornare nei miei panni, anche se non ne avevo alcuna voglia. Ma il

fatto è che una volta tornati indietro, non si è piú esattamente quelli di prima, non è possibile. È una regola. Ora cadeva una pioggerella fine fine, Misaki azionò piú volte il tergicristallo. – Ed è riuscito a capirlo? Il motivo per cui sua moglie andava a letto con quell’uomo? Kafuku scosse la testa. – No, non l’ho capito. C’erano alcune qualità che lui aveva, e io no. Cioè… in realtà penso che fossero molte. Ma cosa in particolare avesse attratto mia moglie, non avevo modo di saperlo. Non è che noi agiamo spinti da motivazioni precise. Quando due persone si frequentano, soprattutto un uomo e una donna, come dire…? È una questione piú globale. Piú ambigua, piú arbitraria, piú… piú sofferta. Misaki rifletté qualche secondo su quelle parole. – Non è riuscito a capire, però ha continuato a essere amico di quell’uomo, vero? Di nuovo Kafuku si tolse il berretto e questa volta lo posò sulle ginocchia. Si strofinò il cranio col palmo della mano. – Vede… il fatto è che quando si inizia a recitare una parte, è difficile trovare il momento giusto per smettere. Per quanto stressante sia, finché la recita non trova il suo senso, un senso compiuto, non la si può interrompere. È come nella musica, una melodia non è completa se non si conclude con la nota dominante… Capisce quello che voglio dire? Misaki prese una Marlboro dal pacchetto e se la mise fra le labbra, ma non l’accese. Non succedeva mai che fumasse quando il tettuccio della macchina era chiuso. Si contentava di tenere la sigaretta fra le labbra. – E nel frattempo, quell’uomo continuava ad andare a letto con sua moglie? – No, questo no, – disse Kafuku. – Non ce l’avrei fatta a sostenere un ruolo cosí difficile! Sono diventato amico di quell’uomo poco dopo la morte di lei. – Ma gli era veramente amico? Oppure era soltanto una recita, nulla di piú? Kafuku rifletté. – Entrambe le cose, – disse. – Io stesso non riuscivo piú a distinguere il confine. Ma recitare sul serio significa proprio questo. A Kafuku quell’uomo era rimasto simpatico fin dal primo incontro. Si chiamava Takatsuki. Alto, un bel viso, interpretava spesso la parte del seduttore. Aveva da poco superato la quarantina e nel suo mestiere non si poteva dire eccellesse. Non avendo una forte personalità, poteva sostenere una varietà limitata di ruoli. Di solito gli affibbiavano quello dell’affascinante uomo di mezza età. Sempre sorridente, un’ombra di malinconia a offuscargli ogni tanto il volto. Caratteristiche che conquistavano le spettatrici anziane. Kafuku lo aveva incontrato per caso nella sala d’attesa degli studi televisivi. Takatsuki, sapendo che sua moglie era morta sei mesi prima, si era avvicinato, si era presentato e gli aveva fatto le sue condoglianze. Gli aveva detto con aria contrita che una volta aveva lavorato con lei in un film, e che lei era stata molto affabile. Kafuku aveva ringraziato. Per quel che ne sapeva, cronologicamente Takatsuki era l’ultimo degli uomini con cui sua moglie era andata a letto. Poco dopo la fine di quella relazione, lei aveva fatto delle analisi all’ospedale e aveva scoperto di avere un tumore all’utero a uno stadio già avanzato. – Avrei una richiesta da farle, – disse Kafuku una volta terminati i convenevoli. – Di cosa si tratta? – Se lei è d’accordo, vorrei rubarle un po’ del suo tempo. Potremmo bere qualcosa insieme, e lei magari potrebbe raccontarmi cosa ricorda di mia moglie… Mia moglie parlava spesso di lei. A quella proposta inattesa, Takatsuki parve stupito. Anzi, inquieto. Sollevò un poco le sopracciglia

dalla forma elegante e posò su Kafuku uno sguardo circospetto. Come se si chiedesse se non ci fosse qualcosa sotto. Ma non riuscí a leggere sul suo viso nessun secondo fine. Kafuku aveva assunto l’espressione pacata che ci si aspetta da un uomo che ha perso da poco la moglie, dopo aver passato con lei tanti anni della sua vita. La superficie di un lago che ritrova la quiete quando si placano le onde. – Vorrei solo parlare di mia moglie con qualcuno che l’ha conosciuta, – insistette Kafuku. – Sono sempre in casa da solo, e a dire la verità, a volte è dura. Ma se sono importuno, signor Takatsuki… Takatsuki si tranquillizzò: Kafuku non sembrava essere al corrente della sua relazione. – No, non è affatto importuno! Le dedico tutto il tempo che vuole, – disse. – Se si accontenta di un interlocutore sprovveduto come me… – Sorrise, rughe gentili apparvero agli angoli degli occhi. Un sorriso davvero affascinante. Se Kafuku fosse stato una donna di mezza età, sarebbe di sicuro arrossito. Takatsuki ripassò mentalmente la sua agenda. – Potremmo vederci domani sera, parlare con calma. Per lei andrebbe bene? Kafuku rispose di sí, era libero anche lui. Questo Takatsuki è una persona piuttosto trasparente, pensava intanto con stupore. Il suo sguardo rispecchiava senza ambiguità il suo pensiero. Sembrava non avere né tortuosità né malizia. Insomma, non era il tipo da scavare nottetempo una buca profonda, e aspettare zitto zitto che qualcuno passando ci cadesse dentro. Decisamente, non sarebbe mai stato un bravo attore. – Dove vuole che ci incontriamo? – chiese Takatsuki. – Decida lei. Qualsiasi posto per me va bene, – rispose Kafuku. Takatsuki fece il nome di un noto bar di Ginza. Riservando un séparé, avrebbero potuto parlare in santa pace, senza timore di essere ascoltati, disse. Kafuku sapeva dove si trovava quel locale. I due uomini si salutarono con una stretta di mano. La mano di Takatsuki era morbida, le sue dita lunghe e affusolate. Il palmo era leggermente umido, come se avesse sudato. Forse a causa della tensione. Rimasto solo, Kafuku sedette su una poltrona della sala d’attesa, aprí la mano destra e la osservò. La sensazione lasciata dalla mano di Takatsuki, da quel palmo e quelle dita che avevano accarezzato il corpo nudo di sua moglie – accarezzato lentamente, dalla testa ai piedi –, era ancora lí, vivida. Chiuse gli occhi e fece un respiro profondo. Cosa cercava, con quella manovra, cosa voleva ottenere? Comunque fosse, ormai non poteva tirarsi indietro. Nella quiete del séparé, mentre sorseggiava il suo whisky di malto, Kafuku capí una cosa: Takatsuki era ancora innamorato di sua moglie. E non era ancora riuscito ad accettare la realtà: lei era morta e il suo corpo era ridotto in cenere e ossa. Era un sentimento che Kafuku conosceva bene. Mentre parlavano di lei, notava che a tratti gli occhi di Takatsuki si velavano di lacrime. Tanto che, vedendolo in quello stato, provava quasi l’impulso di confortarlo battendogli sulla spalla. Quest’uomo non riesce a nascondere i suoi sentimenti, pensò. Basterebbe che gli dessi l’abbrivio, e finirebbe col confessare ogni cosa. Dai discorsi di Takatsuki, Kafuku comprese che a metter fine alla loro relazione era stata lei. «Forse è meglio che non ci vediamo piú», gli aveva probabilmente detto, e non l’aveva mai piú cercato. Per quel che ne sapeva Kafuku, le storie d’amore di sua moglie – ammesso che si potessero chiamare cosí – seguivano tutte lo stesso schema: incontri che si susseguivano per alcuni mesi e poi cessavano in modo netto e definitivo. Peccato che Takatsuki, impreparato all’idea di separarsi da lei tanto bruscamente, a quanto pareva avesse sperato in un legame piú duraturo. Quando il tumore era giunto all’ultimo stadio e sua moglie era stata ricoverata fra i malati terminali, Takatsuki aveva chiesto di farle visita, ma anche quella volta lei gli aveva opposto un netto rifiuto. Lí, all’ospedale, non voleva vedere quasi nessuno. A parte il personale medico, nella sua stanza ammetteva solo la madre, la sorella e Kafuku. Takatsuki sembrava rimpiangere che non gli fosse stato concesso di

incontrarla almeno un’ultima volta. Aveva saputo della sua malattia solo poche settimane prima che morisse. La notizia era stata uno shock, e ancora adesso non riusciva a rassegnarsi. Kafuku capiva bene quello che provava. Però non si poteva dire che i loro sentimenti fossero gli stessi. Kafuku aveva visto sua moglie consumarsi giorno dopo giorno, al crematorio aveva raccolto ciò che restava di lei. Aveva superato la fase dell’accettare o meno la realtà. Ed era una differenza importante. Sembra quasi che sia io a consolare lui, si diceva Kafuku mentre con Takatsuki si scambiavano tanti ricordi. Se mia moglie potesse vederci, che effetto le farebbe? A quell’idea provava una strana sensazione. Ma i morti con ogni probabilità non avevano piú né pensieri né sensazioni… Dal suo punto di vista, era uno dei vantaggi della morte. Quella sera Kafuku capí un’altra cosa di Takatsuki: beveva troppo. Nel suo ambiente professionale, di etilisti ne incontrava tanti – perché mai gli attori erano quasi tutti degli alcolizzati? –, e pensava che si dividessero in due categorie: quelli che bevevano per acquisire qualcosa, e quelli che bevevano per liberarsi di qualcosa. Takatsuki apparteneva chiaramente al secondo gruppo, ed era una reazione naturale e tutto sommato positiva. Di cosa cercasse di liberarsi, Kafuku non lo sapeva. Forse della propria debolezza, forse della ferita ricevuta in passato. Oppure di problemi presenti che lo assillavano. O tutte queste cose insieme. In ogni caso, dentro di lui c’era qualcosa che «potendo, avrebbe voluto dimenticare», e per dimenticarlo, o per sfuggire al dolore che gli procurava, doveva bere. Nel tempo che Kafuku ci metteva a vuotare un bicchiere, lui ne scolava due o tre. Un ritmo impressionante. A meno che il motivo non fosse la tensione. In fin dei conti, Takatsuki si trovava di fronte al marito di una donna con cui un tempo aveva avuto una relazione clandestina. Sarebbe stato strano che non fosse teso. Ma non doveva essere la sola ragione. Fondamentalmente, quell’uomo non riusciva a moderarsi nel bere, pensò Kafuku (che invece seguiva il proprio ritmo, mentre lo teneva d’occhio). Vedendo che man mano che beveva Takatsuki sembrava rilassarsi, gli chiese se avesse famiglia. Lui rispose che era sposato da dieci anni, e aveva un figlio di sette. Ma che per diverse ragioni l’anno precedente si era separato dalla moglie. Probabilmente in tempi molto brevi avrebbe divorziato, e si preparava ad affrontare il problema dell’affidamento del bambino. Voleva a tutti i costi ottenere di poter vedere suo figlio quando gli pareva. Aveva bisogno di lui. Ne mostrò la foto a Kafuku: era un bambino molto carino, dall’aria giudiziosa. Come la maggior parte degli alcolizzati, Takatsuki diventava piú loquace a ogni bicchiere che beveva. Raccontava quello che non avrebbe dovuto, e che nessuno desiderava sentire. Ormai Kafuku, che aveva assunto il ruolo dell’ascoltatore, lo incoraggiava, e se riteneva il caso di consolarlo, gli diceva qualche parola per rincuorarlo. E intanto cercava di raccogliere quante piú informazioni poteva. Si comportava come se provasse per Takatsuki una gran simpatia. Cosa che, essendo una persona che sapeva ascoltare, non gli riusciva affatto difficile, lo trovava davvero simpatico. Inoltre i due uomini avevano qualcosa di molto importante in comune: sia l’uno che l’altro continuavano a essere innamorati di una donna affascinante ormai scomparsa. Nessuno dei due era riuscito a superare quella perdita, quindi, malgrado avessero avuto con la defunta dei rapporti di natura molto diversa, avevano tante cose da dirsi. – Se è d’accordo, signor Takatsuki, potremmo vederci di nuovo. Mi ha fatto veramente piacere parlare con lei. Sa, era da tanto tempo che non provavo qualcosa di simile, – disse Kafuku al momento di separarsi. Aveva già provveduto a pagare le consumazioni. Perché il pensiero che in quel bar qualcuno dovesse regolare il conto non sembrava sfiorare Takatsuki. Evidentemente l’alcol gli faceva dimenticare tante cose. Anche cose importanti, forse. – Certamente, – disse Takatsuki sollevando il viso dal bicchiere. – Spero proprio di vederla ancora, ci tengo. Ora che ho parlato con lei, anch’io mi sento molto piú sollevato.

– In questo nostro incontro vedo la mano del destino, – disse Kafuku. – Chissà che non sia stata mia moglie a farci avvicinare. E in un certo senso era vero. Si scambiarono il numero di cellulare, si salutarono con una stretta di mano. Fu cosí che divennero amici. Compagni di bevute ben affiatati. Si telefonavano, si davano appuntamento in qualche bar della città, e fra un sorso e l’altro discorrevano tranquillamente. Ma non succedeva mai che cenassero insieme, andavano sempre e solo al bar. Non una sola volta Kafuku vide Takatsuki servirsi degli stuzzichini che accompagnavano le ordinazioni. Al punto che si chiedeva se quell’uomo mangiasse, ogni tanto. E a parte qualche birra occasionale, ordinava solo whisky, whisky di malto. I due uomini parlavano di tanti argomenti, ma gira e rigira il discorso finiva sempre sulla defunta. Kafuku raccontava episodi della giovinezza di lei, Takatsuki ascoltava con espressione compunta, quasi raccogliesse materiale per un libro di memorie. Kafuku si rese conto di gustare quelle conversazioni. Una sera si trovavano in un piccolo bar di Aoyama. Un locale che non dava nell’occhio, in una viuzza sul retro del museo Nezu. Il barista era un uomo taciturno sulla quarantina. Su uno scaffale, acciambellato in un angolo, dormiva sempre un gatto grigio, piuttosto magro. Un gatto randagio approdato in quel bar per caso. Vecchi dischi di jazz giravano sul piatto dello stereo. Sia a Kafuku che a Takatsuki quell’atmosfera piaceva, erano già stati in quel locale diverse volte. Per qualche ragione misteriosa, quasi sempre pioveva, quando si vedevano, e anche quella sera cadeva una pioggerella leggera. – Era veramente una donna straordinaria, – disse Takatsuki guardando le proprie mani, che teneva posate sul ripiano del tavolino. Mani belle, per un uomo che aveva superato la mezza età. Poche rughe, unghie ben curate. – È stato molto fortunato, signor Kafuku, a sposare una donna cosí, a vivere con lei. Di sicuro era un uomo felice. – Sí, ha ragione, – disse Kafuku. – Probabilmente ero felice. Ma è proprio la felicità a portare la sofferenza, a volte. – Cioè? Che genere di sofferenza? Kafuku fece girare i grossi pezzi di ghiaccio nel suo bicchiere di whisky con acqua. – Il timore di perderla un giorno. Solo a immaginare quest’eventualità, provavo un dolore in petto. – Sí, so bene cosa vuol dire, – fece Takatsuki. – Lo sa? – Be’… – Takatsuki esitava, cercava le parole giuste. – Perdere una donna meravigliosa come lei… – Parlando in generale? – Sí, certo, – disse Takatsuki, poi annuí diverse volte, come per convincere se stesso. – È una cosa che posso soltanto immaginare. Kafuku taceva. Prolungò al massimo, al limite estremo, quel silenzio. – In conclusione, però, l’ho persa, – disse infine. – L’ho persa poco per volta mentre era ancora in vita, e poi del tutto. Come se venisse lentamente erosa, finché è stata trascinata via, con tutte le radici, da una grande onda. Capisce cosa voglio dire? – Credo di sí. No, questo non lo puoi sapere, pensò Kafuku. – La cosa piú dolorosa, per me, – proseguí, – è che non sono riuscito a capirla, o perlomeno a capire una parte importante di lei. E adesso che è morta, so che probabilmente non la capirò mai, e me ne

andrò cosí. Lasciando un piccolo scrigno sepolto in fondo al mare. A questo pensiero, mi si stringe il cuore. Takatsuki rifletté sulle parole che aveva appena sentito. – Sí, signor Kafuku, – disse poi, – ma chi è che può capire del tutto un’altra persona? Anche amandola profondamente. – Abbiamo vissuto insieme per vent’anni, eravamo una coppia molto unita, e al tempo stesso eravamo amici, avevamo fiducia uno nell’altra. Ci dicevamo apertamente qualsiasi cosa. Perlomeno, era quello che pensavo. Ma forse non era cosí. Come spiegarle… è possibile che ci fosse in me un angolo cieco a cui non potevo sfuggire. – Un angolo cieco… – ripeté Takatsuki. – Non sono riuscito a vedere qualcosa di molto importante nella sua personalità. O forse l’ho visto, senza darvi il giusto peso. Takatsuki si morse le labbra, poi vuotò d’un fiato il bicchiere e chiese al barista un altro whisky. – So bene cosa vuol dire, – fece Takatsuki. Kafuku lo guardò dritto in faccia. Takatsuki per un po’ sostenne il suo sguardo, poi distolse gli occhi. – Come fa a saperlo? – chiese in tono pacato Kafuku. Il barista portò un altro whisky con ghiaccio, sostituí il sottobicchiere bagnato con uno nuovo. In sua presenza i due uomini rimasero in silenzio. – Come fa a saperlo? – ripeté Kafuku quando il barista si fu allontanato. Takatsuki rifletté a lungo. Nei suoi occhi qualcosa vacillava. Quest’uomo sta esitando, pensò Kafuku. Sta combattendo strenuamente contro il desiderio di confessare. Alla fine però Takatsuki non cedette. – Il fatto è che noi non possiamo capire fino in fondo cosa pensa una donna, non crede? – finí col rispondere. – Volevo dire solo questo. Mi riferivo alle donne in genere. Quindi non è solo in lei che esiste un angolo cieco, non mi sembra, perlomeno. Se la sensazione di cui mi ha parlato la consideriamo un angolo cieco, l’abbiamo tutti, ci accompagna per tutta la vita. Quindi farebbe meglio a non sentirsi in colpa, signor Kafuku. – Sí, ma lei sta generalizzando, – disse Kafuku dopo averci pensato un po’ su. – Ha ragione, – ammise Takatsuki. – Io sto parlando di mia moglie e di me. Preferirei evitare le facili generalizzazioni. Takatsuki tacque a lungo. – A mio parere, – disse poi, – sua moglie era davvero una donna straordinaria. Naturalmente quello che io so di sua moglie non è nemmeno un centesimo di quello che sa lei, signor Kafuku, però sono convinto di quello che le sto dicendo. Comunque stiano le cose, lei deve essere grato di aver passato vent’anni della sua vita con una donna cosí. Lo penso sinceramente. Per quanto ci sia comprensione reciproca con una persona, per quanto la si ami, non si può leggere nel cuore di qualcun altro come in un libro aperto. Se ci proviamo, andiamo incontro solo a sofferenza. Ma se cerchiamo di guardare nel nostro cuore, se ci sforziamo davvero di farlo, alla fine ci riusciremo, questo sí. Quindi, in conclusione, quello che dobbiamo fare è venire a patti col nostro cuore. Se desideriamo davvero capire qualcuno, possiamo soltanto guardare dentro noi stessi. Questo è ciò che penso. Quelle parole sembravano emergere da qualche luogo situato nel profondo dell’uomo che si chiamava Takatsuki. Solo per qualche istante, una porta nascosta si era socchiusa per lasciar uscire la voce della sua anima. Era chiaro che non stava recitando. Non ne sarebbe stato capace, non era tanto bravo. Kafuku lo guardò in silenzio negli occhi. Lui questa volta non distolse lo sguardo. Si scrutarono a lungo. E negli occhi l’uno dell’altro videro una luce. Una luce come lo sfavillio di una stella distante.

Quando si salutarono, si strinsero la mano. Fuori piovigginava. Takatsuki, che indossava un impermeabile beige, aprí l’ombrello e si allontanò nella pioggia, mentre Kafuku, come faceva sempre, rimase a osservare la propria mano. Pensando, come faceva sempre, che quella di Takatsuki aveva carezzato il corpo nudo di sua moglie. Quella considerazione, tuttavia, non gli procurò l’usuale senso di oppressione. Sono cose che possono succedere, si limitò a pensare. In fin dei conti, si trattava soltanto del suo corpo, ormai tutto quel che ne restava era qualche osso e un po’ di cenere, si ripeteva Kafuku come per farsene una ragione. C’erano sicuramente cose che contavano di piú. Quello era forse il suo angolo cieco, doveva ammetterlo, ma lo avevano tutti, un angolo cieco. Le parole di Takatsuki gli restarono a lungo nelle orecchie. – Siete rimasti amici per molto tempo? – chiese Misaki guardando la fila di macchine davanti a loro. – Circa sei mesi, fra una cosa e l’altra… Piú o meno ogni due settimane ci davamo appuntamento in qualche bar e bevevamo insieme, – rispose Kafuku. – Poi ho smesso di vederlo. Lui mi ha chiamato, ma io ho preferito ignorarlo. Né da parte mia l’ho piú cercato. Cosí anche lui ha finito col non telefonarmi piú. – Gli sarà parso molto strano. – Forse. – Può anche darsi che ne sia rimasto ferito. – Sí, può darsi. – Come mai tutt’a un tratto non ha piú voluto vederlo? – Perché non era piú necessario recitare. – E non essendo piú necessario recitare, non aveva piú bisogno di essergli amico? – C’era anche questa ragione, – disse Kafuku. – Ma non è tutto. – Cioè? Kafuku rimase a lungo in silenzio. Misaki, la sigaretta sempre fra le labbra, ogni tanto gli lanciava un’occhiata. – Se ha voglia di fumare, fumi pure, – le disse Kafuku. – Come? – Può accenderla. – Anche se il tettuccio è chiuso? – Non importa. Misaki abbassò il vetro e con l’accendisigari della macchina si accese la Marlboro. Aspirò profondamente il fumo, gli occhi socchiusi. Lo tenne per un po’ nei polmoni, poi lo soffiò lentamente fuori dal finestrino. – Potrebbe esserle fatale, lo sa? – le disse Kafuku. – Be’, se è per questo, la vita stessa è un rischio fatale. Kafuku rise. – È un modo di vedere le cose, – ammise. – Non l’avevo mai vista ridere, signor Kafuku, – disse Misaki. – Già, ora che mi ci fa pensare, forse è vero. A parte quando recito, mi succede raramente di ridere, – rispose lui. – Senta, è da un bel po’ che voglio dirglielo: a guardarla bene, lei è piuttosto carina. Non è affatto brutta. – La ringrazio. Neanch’io penso di essere brutta. Semplicemente non sono bella. Come Sonia, – disse Misaki.

Sorpreso, Kafuku si voltò a guardarla. – Ha letto Zio Vania? – le chiese. – Lei ne recita ogni giorno dei brani presi a caso qua e là, cosí mi è venuta voglia di conoscere la storia intera. Sono una persona curiosa, – disse Misaki. – «Ah, che brutta cosa non essere bella! È terribile! E io lo so di non essere bella, lo so, lo so…» È un’opera molto triste. – Una storia senza speranza, – disse Kafuku. – «Oh Dio mio… Ho quarantasette anni; se, putacaso, arrivo ai sessanta, me ne restano ancora tredici. È lunga! Come li vivo questi tredici anni? Che cosa ci faccio, come li riempio?» 1. All’epoca la gente viveva in media una sessantina d’anni. Lo zio Vania poteva ritenersi fortunato di non essere nato oggi… – Ho fatto una piccola verifica. Lei ha la stessa età di mio padre. Kafuku non rispose. Prese in silenzio alcune cassette e passò in rassegna i titoli scritti sull’etichetta. Ma non ne infilò nessuna nello stereo. Misaki teneva la sigaretta accesa fuori dal finestrino. La metteva per un momento fra le labbra solo quando doveva cambiare marcia, per avere la mano libera. Intanto la fila di vetture avanzava lentamente. – Per dirle tutta la verità, avevo pensato di punire quell’uomo. Quell’uomo che era andato a letto con mia moglie, – riprese Kafuku col tono di chi fa una confessione, mentre rimetteva al loro posto le cassette. – Di punirlo? – Di farlo soffrire in qualche modo, soffrire terribilmente. Conquistarne la fiducia fingendomi amico, trovare il suo punto debole, e colpirlo proprio lí. Misaki corrugò la fronte, pensando al significato di quelle parole. – Un punto debole? Quale, ad esempio? – Non sono riuscito a scovarlo. Ad ogni modo era uno che quando beveva abbassava la guardia, e questo mi avrebbe permesso di inventare qualcosa. Me ne sarei servito per far scoppiare uno scandalo – non è molto difficile imbastire una storia che screditi una persona –, in conseguenza del quale gli avrebbero tolto l’affidamento del figlio nella causa di divorzio. Un colpo cui lui non avrebbe retto. Non si sarebbe piú ripreso. – Che brutto programma. – Sí, bruttissimo. – Voleva vendicarsi di lui perché era andato a letto con sua moglie? – Vendicarmi? No, non è esatto, – disse Kafuku. – Ma non riuscivo a dimenticare. Mi sforzavo, mi sforzavo davvero, di non pensarci piú. Non serviva a nulla! Vedevo sempre mia moglie nelle braccia di lui. Una visione che tornava di continuo, come un fantasma che non trova pace e resta attaccato a un angolo del soffitto, a controllare quello che succede in basso… Dopo che mia moglie è morta, mi dicevo che col tempo questa sensazione mi avrebbe finalmente abbandonato. Invece no, era sempre presente. Anzi, era piú forte e vivida di prima. Avevo bisogno di liberarmene. E a questo scopo dovevo sciogliere qualcosa dentro di me, qualcosa che somigliava tanto alla collera. Chissà perché, si chiese Kafuku, sto raccontando tutte queste cose a questa ragazza che viene da Kamijūnitaki nell’Hokkaidō, e che ha l’età che avrebbe mia figlia. Eppure, una volta iniziato, non riusciva piú a fermarsi. – Cosí ha pensato di punire quell’uomo, – disse Misaki. – Esatto. – Però in pratica non ha fatto nulla. – No. Nulla, – disse Kafuku. A quelle parole Misaki sembrò tranquillizzarsi. Tirò una boccata di fumo, poi gettò la sigaretta

ancora accesa dal finestrino. Forse è una cosa che a Kamijūnitaki fanno tutti, pensò Kafuku. – Non saprei spiegarle il perché, ma tutto a un tratto quella storia perse importanza. Come se una maledizione si fosse sciolta, – disse. – Non provavo piú collera. O forse non si trattava veramente di collera, ma di qualcos’altro. – Be’, tanto di guadagnato per lei, su questo non ci sono dubbi. Cioè, il fatto che non abbia ferito nessuno, in alcun modo. – Sí, lo penso anch’io. – Però non ha mai capito perché sua moglie abbia fatto sesso con quell’uomo, e perché proprio con lui. – No, non l’ho capito. È un dubbio che mi porto ancora dentro. Era un uomo simpatico, e anche franco. E amava davvero mia moglie. Non se l’era portata a letto solo per divertirsi. La sua morte gli ha causato uno shock profondo. E il rifiuto di lei di farlo entrare nella stanza, quando era andato all’ospedale per vederla un’ultima volta, lo faceva ancora soffrire. Non potevo impedirmi di pensare che fosse una cara persona, tanto che avrei anche potuto essergli davvero amico. Kafuku fece una pausa per seguire il corso delle sue emozioni. Cercava le parole per avvicinarsi il piú possibile alla verità. – Però, a dire il vero, non era un individuo di grande valore. Probabilmente aveva un buon carattere. Era un bell’uomo e aveva un sorriso affascinante. E perlomeno non era un superficiale. Ma non era il genere di persona che infonde rispetto. Era sincero, ma mancava di spessore. Aveva molte debolezze, e come attore non valeva granché. Mia moglie al contrario era una donna forte, e di grande profondità spirituale. Poteva passare molto del suo tempo a riflettere. Allora perché si è innamorata di quell’uomo da poco, perché è finita nelle sue braccia? Questa domanda mi tormenta ancora adesso, è una spina nel fianco. – Vuole dire che la sente come un insulto nei suoi confronti? Kafuku ci pensò su. – Sí, può darsi, – ammise. – Ma sa, forse sua moglie non era affatto innamorata di lui, – disse Misaki con molta semplicità. – Per questo ci è andata a letto. Kafuku si voltò a guardare Misaki, come se osservasse un paesaggio lontano. Lei azionò piú volte il tergicristallo per pulire il parabrezza. Le lame nuove facevano contro il vetro un rumore stridente, come strilli di bambini capricciosi. – Sono cose che a volte le donne fanno, – aggiunse Misaki. Kafuku non sapeva cosa rispondere. – È un tipo di comportamento per cosí dire patologico, signor Kafuku. Non è qualcosa che si possa controllare razionalmente. Anche mio padre che ci ha lasciate, e mia madre che mi trattava male, lo hanno fatto perché erano squilibrati. Arrovellarsi su cose del genere non serve a niente. Tutto quel che possiamo fare è cercare di sopravvivere, mandare giú e andare avanti. – Allora tutti dobbiamo recitare? – Sí, piú o meno è cosí. Kafuku si sistemò bene sul sedile e chiuse gli occhi per concentrarsi su una cosa sola, cogliere il momento in cui Misaki cambiava marcia, ma non ci riuscí. Tutto avveniva in modo troppo morbido e sicuro di sé. Alle sue orecchie arrivava solo una leggera variazione nel ronzio del motore, come se sentisse un insetto andare e venire. Pensò di dormire un poco. Farsi un sonnellino breve ma profondo. Dieci o quindici minuti. Poi sarebbe di nuovo salito sul palco. Avrebbe recitato la sua parte sotto i riflettori. Il pubblico avrebbe

applaudito, e sarebbe calato il sipario. Per un determinato lasso di tempo sarebbe diventato un’altra persona, per tornare poi a essere se stesso. Non esattamente quello di prima, tuttavia. – Faccio un sonnellino, – disse. Misaki non rispose. Continuò a guidare senza parlare. Kafuku le fu grato di quel silenzio.

1 Anton Čechov, Zio Vania, traduzione di Luigi Lunari, Rizzoli, Milano 2008 [N.d.T.].

Yesterday

Per quel che ne so io, la sola persona che abbia mai provato a tradurre Yesterday dei Beatles in giapponese – anzi, nel dialetto del Kansai – è stato un ragazzo chiamato Kitaru. La cantava spesso nel bagno di casa sua. Ieri è l’altro ieri di domani il domani dell’altro ieri… Ricordo che l’incipit era qualcosa del genere, ma è passato tanto di quel tempo che non sono sicurissimo che facesse proprio cosí. In ogni caso erano parole sconclusionate, dall’inizio alla fine. Erano… come dire… una roba davvero assurda che faceva il verso al testo originale senza assomigliarci neanche un po’. La familiare melodia originale, cosí bella e malinconica, associata alla cadenza un po’ indolente – priva di pathos, si potrebbe dire – del dialetto del Kansai, formavano un abbinamento strano, un’accoppiata talmente priva di senso da risultare quasi ardita. Perlomeno, alle mie orecchie produceva quest’effetto. Mi faceva ridere, la trovavo sciocca, ma al tempo stesso vi percepivo un messaggio segreto. In ogni caso mi limitavo ad ascoltarla sconcertato. Kitaru, pur essendo nato e cresciuto nel quartiere di Dennenchōfu a Ōta, nella cintura di Tōkyō, parlava il dialetto del Kansai in modo praticamente perfetto. Io invece, che ero nato e cresciuto nel Kansai, mi esprimevo in un giapponese standard quasi impeccabile – quello che si parla a Tōkyō, insomma. Ora che ci penso, eravamo un’accoppiata davvero singolare. L’avevo conosciuto quando lavoravo part-time in un caffè vicino all’ingresso principale del campus di Waseda. Io stavo in cucina, Kitaru serviva ai tavoli. Nei momenti di calma chiacchieravamo volentieri. Entrambi ventenni, eravamo nati a una settimana di distanza l’uno dall’altro. – È un nome insolito, Kitaru, – gli dissi. – Sí, è vero. Non ce ne sono molti, – fece lui, col suo forte accento del Kansai. – C’era un lanciatore dei Lotte che si chiamava cosí. – Sí, ma non c’entra niente con la mia famiglia. Anche se una qualche relazione probabilmente ci sarà, visto che è un nome piuttosto raro. All’epoca frequentavo il secondo anno di Lettere dell’Università di Waseda. Lui era rōnin 1 e seguiva un corso preparatorio all’esame di ammissione, per il secondo anno di fila, ma non dava certo l’impressione di impegnarsi sul serio. Nel tempo libero leggeva cose che non avevano il minimo rapporto con lo studio. La biografia di Jimi Hendrix, manuali di shōgi, Origine del cosmo… roba del genere. Mi disse che veniva ogni giorno al lavoro da casa dei suoi a Ōta. – Casa dei tuoi? – chiesi. – E io che ero sicuro che fossi del Kansai! – Figurati! Sono nato e cresciuto a Dennenchōfu. A quelle parole rimasi disorientato.

– Scusa, ma allora perché parli nel dialetto del Kansai? – Be’, mi sono messo d’impegno e l’ho imparato. Ce l’ho messa davvero tutta. – Ti sei messo d’impegno? – Sí, davvero, l’ho studiato seriamente. I verbi, i sostantivi… insomma, è come studiare l’inglese o il francese. Sono anche andato a far pratica sul luogo. Impressionante. Era la prima volta che sentivo di qualcuno che «si metteva d’impegno» per imparare il dialetto del Kansai, come fosse una lingua straniera. A Tōkyō c’era veramente di tutto, mi dissi. Mi sentivo come Sanshirō, l’ingenuo protagonista dell’omonimo romanzo di Sōseki che dalla provincia va a studiare nella capitale. – Sono sempre stato un tifoso degli Hanshin Tigers, fin da bambino. Non mi sono mai perso una loro partita, quando giocavano a Tōkyō. Mettevo l’uniforme bianca a righe nere e andavo a piazzarmi nella sezione dello stadio riservata ai tifosi ospiti. Ma non c’era niente da fare, col mio accento di Tōkyō, appena aprivo bocca nessuno mi degnava piú di uno sguardo. Non c’era verso di farsi accettare nella comunità. Devo imparare il dialetto del Kansai, ho pensato a quel punto. Mi sono rimboccato le maniche e ho studiato tanto da sudare sangue. – E l’hai imparato cosí bene solo a questo scopo? – chiesi stupefatto. – Certo. Gli Hanshin Tigers per me erano tutto. Da allora ho sempre parlato nel dialetto del Kansai, sia a casa che a scuola. Persino quando parlo nel sonno, parlo nel dialetto del Kansai, – disse Kitaru. – Come lo trovi il mio accento, non è perfetto? – Assolutamente. Sembri proprio uno del Kansai, – gli risposi. – Solo che non è veramente l’accento dell’area Hanshin, ma piuttosto quello di Ōsaka. La parlata dell’entroterra, insomma. – Questo lo so. Quando ero al liceo, durante le vacanze estive ho fatto una vacanza studio a Ōsaka, nel quartiere di Tennōji. Mi sono divertito un casino. Ho persino fatto un giro allo zoo. – Una vacanza studio? – domandai. Da non crederci! – Già, se mettessi nella preparazione del concorso lo stesso ardore che ho messo nello studio del dialetto del Kansai, adesso non sarei rōnin per il secondo anno consecutivo… – fece Kitaru. Proprio cosí, pensai. Anche il vizio di fare un’idiozia e poi darsi del cretino era tipico del Kansai. – E tu? Di dove sei? – Della zona di Kōbe. – Dove, di preciso? – Ashiya. – Accidenti! I quartieri alti! Avresti dovuto dirlo subito, invece di girarci intorno. Cercai di spiegargli. Quando mi chiedevano da dove venivo, se rispondevo «da Ashiya» la gente pensava subito che la mia famiglia fosse ricca. Ma ad Ashiya c’erano famiglie di ogni classe sociale. I miei non erano ricchi. Mio padre era impiegato in una ditta farmaceutica, mia madre segretaria in una biblioteca. Abitavamo in una casa piuttosto piccola, la nostra macchina era una Toyota Corolla beige. Quindi, se qualcuno mi chiedeva da dove venivo, per evitare che si facesse idee sbagliate, avevo deciso di rispondere sempre «dalla zona di Kōbe». – Be’, per me è uguale! – disse Kitaru. – Abito a Dennenchōfu, ma nella parte piú squallida del quartiere, se devo essere sincero. Vieni a vedere, una volta. Non ci crederai. «Come è possibile? Questo sarebbe Dennenchōfu?» Ma perché preoccuparsi di certe cazzate? È solo un indirizzo. Al contrario di te, io gliela sparo in faccia: «Allora? Sono nato e cresciuto a Dennenchōfu, io!» Lo ammirai. E diventammo amici. Ci sono diverse ragioni per le quali, dopo essermi trasferito nella capitale, ho smesso di parlare nel

dialetto di Ōsaka. Per tutti gli anni del liceo, fino all’esame di maturità, non mi ero mai espresso in altro modo. Dopo aver passato un mese a Tōkyō, però, mi resi conto, con un certo stupore, che ne avevo adottato la parlata con facilità e naturalezza. Chissà, forse ho la natura di un camaleonte. Oppure ho orecchio per le lingue. Comunque sia, quando dicevo che venivo dal Kansai, nessuno mi credeva. Un altro motivo che mi ha indotto ad abbandonare il mio dialetto era il desiderio di diventare un’altra persona. Quando sono venuto a Tōkyō per iniziare l’università, nel treno che mi portava nella capitale non ho fatto altro che riflettere e ripercorrere mentalmente i miei diciotto anni di vita: della maggior parte delle cose che mi erano successe, potevo solo vergognarmi. No, non sto esagerando. La mia esistenza era stata un susseguirsi di idiozie che preferivo dimenticare. Piú ci pensavo, piú mi trovavo detestabile. Naturalmente c’era anche qualche ricordo bellissimo. Alcune esperienze pulite, alcuni pensieri elevati, li avevo avuti. Lo riconosco. Ma le cose di cui arrossire, per le quali potevo solo prendermi la testa fra le mani, erano in numero molto maggiore. Anche il mio modo di vedere la vita, ripensandoci, era talmente banale, talmente limitato, che non vale nemmeno la pena di parlarne. Un cumulo di idee prive di fantasia, ciarpame da borghesucci. Roba che avrei voluto impacchettare e cacciare in fondo a un cassetto. Oppure darvi fuoco e ridurla in cenere – quale fumo ne sarebbe uscito? In ogni caso, desideravo solo sbarazzarmi di tutto quanto e iniziare a Tōkyō una vita nuova, da persona nuova. Sperimentare nuove possibilità. Quindi per me abbandonare il dialetto del Kansai e adottare un altro modo di esprimermi era un mezzo pratico – e al tempo stesso simbolico – per arrivare allo scopo. Perché in conclusione il linguaggio che parliamo ci presenta come persone. Perlomeno, è quello che pensavo quando avevo diciotto anni. – Vergognarti? Di che cosa ti vergognavi tanto? – mi chiese Kitaru. – Oh, un po’ di tutto… – Avevi problemi con i tuoi? – No, non si può dire che avessi dei problemi. Comunque mi vergognavo. Anche solo a stare in loro compagnia. – Sai che sei davvero strano? Perché mai uno dovrebbe vergognarsi a stare con i propri famigliari? Io ci sto benissimo, con i miei. Non risposi. Non riuscivo a spiegarmi bene. Né avrei saputo dire cosa ci fosse di sbagliato in una Toyota Corolla beige. In fondo rivelava semplicemente che la strada davanti a casa era stretta, e che mio padre e mia madre non erano persone da buttare soldi per le apparenze. – Tutti i santi giorni i miei me ne dicono di tutti i colori perché non studio, una bella rottura, credimi, ma che ci posso fare? È il loro compito. Non bisogna prendersela troppo per queste cose. – Beato te, che te ne freghi! – dissi sinceramente ammirato. – La ragazza ce l’hai? – mi chiese Kitaru. – Al momento no. – E prima? – Sí, fino a poco tempo fa. – Vi siete lasciati? – Esatto, – risposi. – Come mai? – È una lunga storia, in questo momento non ho voglia di parlarne. – Era una ragazza di Ashiya? – insistette Kitaru. – No, non di Ashiya. Era di Shukugawa. Lí vicino, insomma. – Hai fatto tutto, con lei? C’è stata?

Scossi la testa. – No, non ha voluto. – È per questo che vi siete lasciati? – Anche per questo, – risposi dopo averci pensato un po’. – Cioè, avete fatto tutto, tranne quello? – Praticamente quasi tutto. – Sí, ma fin dove siete arrivati? Concretamente, cioè. – Non ho voglia di parlarne. – Anche questa è una delle cose di cui dici di vergognarti? – Esatto, – risposi. Anche quella era una delle cose che preferivo non ricordare. – Certo che sei ben complicato, tu! – fece Kitaru perplesso. La prima volta che avevo sentito Kitaru cantare Yesterday nella sua strana versione ero davanti al bagno di casa sua a Dennenchōfu. Né la casa né la zona erano squallide come pretendeva lui. Erano normalissime. La casa era vecchia, ma piú grande della mia. Semplicemente non si poteva dire che fosse bella. Per inciso, l’automobile parcheggiata davanti era una Golf blu penultimo modello. Appena entrato, lui aveva voluto farsi il bagno. E non usciva piú dalla vasca. Cosí avevo portato nello spogliatoio uno sgabello rotondo, mi ci ero seduto, e parlavo con lui attraverso la porta socchiusa. Ero costretto a rifugiarmi lí per sfuggire ai discorsi interminabili della madre, discorsi che andavano sempre a parare sul fatto che quel suo figlio strampalato non studiava. Nella vasca, Kitaru cantava ad alta voce – probabilmente per farsi sentire da me, ma non ne sono sicuro – quella canzone cui aveva messo quelle parole assurde. – Ma non significano niente! – dissi. – A me sembra soltanto che tu stia facendo il verso a Yesterday. – Non dire cazzate! Non sto facendo il verso a niente. E poi, anche se fosse, a John dopotutto le cose assurde piacciono, no? Dico bene? – Guarda che le parole di Yesterday le ha composte Paul. – Veramente? – Ne sono sicuro, – sentenziai. – La musica e le parole di quella canzone le ha composte Paul, è andato da solo nello studio di registrazione e l’ha cantata accompagnandosi alla chitarra. Il quartetto d’archi è stato aggiunto dopo. Gli altri membri della band non hanno voluto saperne. Perché trovavano la canzone un po’ troppo «tenera», per i Beatles. Anche se poi è stata attribuita alla coppia LennonMcCartney. – Ah. Be’, non sono erudito come te. – Non è che sono erudito io. Sono cose che sanno tutti. – Senti, chi se ne frega, di questi dettagli… – disse Kitaru, immerso nell’acqua calda, in tono noncurante. – Nel bagno di casa mia canto quel cavolo che mi pare. Mica sto pubblicando un disco… Non violo il diritto d’autore, non do fastidio a nessuno. Piantala di criticarmi su tutto. E si rimise a cantare con la sua voce robusta, distrattamente come si fa nella vasca. Era intonato anche nelle note alte. «E dir che fino a ieri | lei era qui con me…» e avanti cosí. Col palmo delle mani batteva sull’acqua per fare l’accompagnamento. Forse avrei fatto bene a unirmi a lui, ma non ne avevo voglia. Fare discorsi sconclusionati per un’ora, attraverso una porta a vetri, con uno che se ne sta immerso nell’acqua del bagno, non è che sia proprio una goduria. – Senti, sono secoli che sei nella vasca. Ormai sarai tutto raggrinzito! – dissi. Al contrario di lui, io il bagno l’ho sempre fatto in fretta, fin da bambino. Restare a mollo nell’acqua calda mi viene subito a noia. Non si può leggere né ascoltare la musica. E passare il tempo senza musica

e senza libri mi riesce difficile. – Stando nella vasca il cervello si rilassa, e vengono buone idee… – Buone idee? Tipo le parole che hai messo a Yesterday? – Ecco, tanto per dirne una, – fece Kitaru. – Saranno anche delle buone idee, ma se hai tutto questo tempo, non faresti meglio a studiare di piú? – Ehi! Che rompipalle! Sembri mia madre. Alla tua tenera età, non dovresti metterti a fare prediche. – Sí, ma sei già al secondo anno da rōnin, non sei stufo? – È ovvio che è una rottura. Figurati se non mi piacerebbe entrare all’università e starmene in pace, prendermela comoda, finalmente! E uscire con la mia ragazza quanto mi pare. – Be’, basterebbe che studiassi con un po’ piú di impegno. – Sí, ma vedi… – disse Kitaru svogliatamente. – Se potessi, l’avrei già fatto da un pezzo. – L’università è un posto del cavolo, – feci. – Quando ci entrerai, rimarrai deluso. Su questo non ci sono dubbi. Ma se uno non passa da lí, è molto peggio. – È un ragionamento piú che valido. Nessuna obiezione. – E allora perché non studi? – Perché non sono motivato. – Non sei motivato? – ripetei. – Il desiderio di uscire con la tua ragazza non è una motivazione sufficiente? – Sí, ma vedi… – disse di nuovo Kitaru. Poi, dal fondo della gola, emise un suono a metà tra il sospiro e il gemito. – Se mi metto a raccontare, rischiamo di andare per le lunghe. Dentro di me c’è qualcosa, qualcosa come una scissione… Kitaru stava con una ragazza fin dai tempi delle elementari. Era sempre stata la sua amica del cuore, per cosí dire. Avevano la stessa età, ma lei aveva superato l’esame di ammissione alla Sophia University e frequentava il corso di letteratura francese. Era membro del club di tennis. Kitaru mi mostrò la sua fotografia: era cosí bella che senza volerlo mi lasciai sfuggire un fischio. Aveva anche un bel fisico, e l’espressione vivace. Adesso però loro due non si vedevano. Dopo averne parlato a lungo, avevano deciso che era meglio evitare di incontrarsi finché Kitaru non fosse entrato all’università, in modo che potesse studiare senza distrazioni. Era stato lui a suggerirlo. «Be’, se lo dici tu…», aveva risposto lei, dando il suo consenso. Si sentivano spesso al telefono, ma si vedevano a malapena una volta alla settimana, e i loro incontri non si potevano veramente definire tali. Prendevano insieme un tè, si raccontavano quello che era successo nel frattempo all’uno e all’altra. Si tenevano per mano. Si davano baci leggeri. Ma evitavano di andare oltre. Una cosa molto all’antica, insomma. Kitaru non era particolarmente un bel ragazzo, ma aveva lineamenti fini. Pur non essendo alto, era snello, vestiva con semplicità e buongusto, aveva un ottimo taglio di capelli. A condizione che stesse zitto, sembrava un ragazzo sensibile, di buona famiglia, nato e cresciuto in una grande città. Accanto a lei faceva la sua figura. Se proprio bisognava trovargli una pecca, con il suo viso delicato dava l’idea di essere un debole, un tipo poco determinato. Ma appena apriva bocca, quella prima impressione crollava come un castello di sabbia sotto le zampe di un golden retriever scalmanato. Il suo forte accento del Kansai e la sua voce robusta, stentorea, coglievano tutti di sorpresa. Stonavano terribilmente col suo aspetto. Anch’io, all’inizio, davanti a quello squilibrio ero rimasto confuso. – Ma senza una ragazza, non ti senti solo? – mi chiese un giorno Kitaru. – No, non mi sento solo, – risposi. – Ascolta, Tanimura, non avresti voglia di uscire con la mia ragazza, per caso?

Non capivo bene cosa stesse cercando di dirmi. – Uscire? In che senso? – È una ragazza eccezionale, sai? È bella, ha un bel carattere, ed è anche intelligente. Non faresti un cattivo affare, a uscire con lei, te lo garantisco. – Non mi interessa, che sia un buon affare o meno, – dissi, anche se continuavo a non cogliere il significato del discorso. – Ma vorrei sapere perché dovrei uscire con la tua ragazza. Mi sfugge lo scopo. – Perché sei una brava persona, – disse Kitaru. – Altrimenti non ti proporrei una cosa del genere. Non era una spiegazione. Tra il fatto che io fossi una brava persona, ammesso che fosse vero, e la possibilità che uscissi con la ragazza di Kitaru, non c’era alcuna relazione di causa ed effetto. – Erika (lei si chiama Erika) e io abbiamo fatto tutte le scuole insieme, dalle elementari alle medie al liceo, – proseguí Kitaru. – Praticamente, è come se avessimo passato insieme la vita intera. Ci è venuto naturale fidanzarci, e tutti approvavano. Gli amici, i nostri genitori, gli insegnanti… Eravamo una coppia legatissima, unitissima, eravamo cosí, noi due… – Kitaru appoggiò le mani palmo contro palmo. – Se avessimo continuato d’amore e d’accordo fino alla laurea, saremmo vissuti felici e contenti, ma io ho fatto un fiasco clamoroso all’esame di ammissione, e ora eccomi ridotto come mi vedi. Cosa diavolo sia successo non lo so, ma a poco a poco tante cose hanno cominciato a non funzionare. Evidentemente non è colpa di nessuno, ma la responsabilità è solo mia. Io ascoltavo in silenzio. – Di conseguenza il mio io si è per cosí dire spaccato in due, – proseguí Kitaru, separando i palmi delle mani. Il suo io si era spaccato in due? – In che senso? – chiesi. Kitaru rimase un momento in silenzio a osservarsi il palmo delle mani. – Cioè, una parte di me è terribilmente in ansia, – riprese poi. – Mentre io frequento quel corso preparatorio del cavolo e preparo quell’esame del cavolo, Erika si gode la vita universitaria. Va a giocare a tennis, fa di tutto e di piú. Si è fatta dei nuovi amici, e magari esce anche con un altro. Quando mi nascono questi pensieri, all’idea che solo io vengo lasciato indietro, mi sento andare il cervello in fumo. Capisci quello che provo? – Sí, certo, – risposi. – Un’altra parte di me, però, al contrario si sente sollevata. Insomma, se noi due avessimo continuato ad avanzare insieme nella nostra facile vita, senza problemi, senza fare sbagli, dove ci avrebbe portato tutto questo? Non è meglio provare per un certo periodo a percorrere strade separate? Se poi ci accorgiamo che abbiamo bisogno l’uno dell’altra, a quel punto possiamo tornare insieme. Non faccio che pensare che dovremmo avere questa possibilità di scelta. Lo capisci questo? – Sí, mi sembra di capirlo, ma non ne sono sicuro, – risposi. – Insomma: prendere la laurea, trovare un lavoro, sposare Erika, diventare con la benedizione di tutti una coppia ben assortita, fare un paio di bambini, mandarli alla scuola elementare di Dennenchōfu che conosciamo come le nostre tasche, la domenica andare tutti insieme a divertirci sulle rive del fiume Tama, e obladí obladà… certo, non si può dire che sarebbe uno schifo di esistenza. Eppure non so, ho il dubbio che passare una vita cosí – una vita facile, piacevole, senza intoppi – non sia proprio il massimo. – Cioè, il problema sarebbe questo? Passare una vita facile e senza intoppi? È questo che vuoi dire? – Sí, piú o meno. Di nuovo non capivo: quali problemi avrebbe comportato una vita del genere? Ma per evitare che il discorso andasse per le lunghe, evitai di approfondire. – D’accordo, ammettiamo pure che sia cosí. Ma io cosa c’entro? Perché la tua ragazza dovrebbe

uscire con me? – domandai. – Be’, se deve mettersi con un altro, meglio che sia tu. Perché ti conosco bene. E ti potrei chiedere di lei, sapere cosa dice, cosa fa… Il discorso non stava in piedi, ma l’idea di incontrare la sua fidanzata era molto allettante. A giudicare dalla foto era di una bellezza mozzafiato, e mi interessava sapere perché una ragazza cosí si fosse messa con uno squinternato come Kitaru, cosa mai trovasse in lui. Sono sempre stato piuttosto timido, ma molto curioso. – E con lei, fino a che punto sei arrivato? – chiesi. – Nel sesso, vuoi dire? – Sí, ovvio. Avete fatto tutto? Kitaru scosse la testa. – No, escluso. Ci conosciamo fin da bambini, quindi toglierle i vestiti, toccarla, carezzarla… non so, sono cose che mi mettono in imbarazzo. Con un’altra ragazza sarebbe diverso, credo, ma con lei, già solo immaginare di infilarle una mano nelle mutande o roba del genere mi sembra brutto. Lo capisci, no? No, non capivo affatto. – Naturalmente ci baciamo, ci teniamo per mano. Le carezzo il seno da sopra i vestiti. Ma sempre un po’ per scherzo, quasi per ridere… Ci eccitiamo, ma la cosa finisce lí, nessuno dei due sembra voler andare oltre. – Be’, siete voi che in una certa misura dovete sforzarvi di alimentare una corrente, – dissi. Quella che di solito si chiama desiderio sessuale. – No, ti sbagli. Nel nostro caso è diverso. Cioè… Non so spiegarmi bene, – fece Kitaru, – ma ad esempio, quando uno si masturba, deve pensare concretamente a una ragazza, no? – Be’, sí… – dissi. – Ecco, io non riesco assolutamente a pensare a Erika. Se lo facessi, ho l’impressione che non funzionerebbe. Quindi penso a qualche altra. Magari a una che non mi piace piú di tanto. Secondo te perché? Ci pensai un po’ su, ma non riuscii a trovare nulla che assomigliasse a una spiegazione. Cosa ne sapevo io del modo di masturbarsi di un altro? Ci capivo poco persino del mio. – Senti, perché non ci vediamo tutti e tre insieme, una volta? Tanto per provare, – propose Kitaru. – Poi ci potrai riflettere con calma. Kitaru, la sua ragazza (che si chiamava Kuritani Erika) e io ci incontrammo il pomeriggio della domenica seguente, in un caffè vicino alla stazione di Dennenchōfu. Erika era alta piú o meno come Kitaru, abbronzata, indossava una camicetta bianca a maniche corte stirata alla perfezione e una minigonna blu. La tipica ragazza di buona famiglia nata e cresciuta nei quartieri alti, e iscritta a un’università femminile. Era bellissima, come sulla fotografia, ma a vederla di persona, piú che l’avvenenza del viso, quello che attirava in lei era una sorta di franca energia vitale che emanava da tutta la sua persona. L’esatto opposto di Kitaru, insomma, che invece dava un’impressione di evanescenza. Kitaru fece le presentazioni. – Sono contenta che Aki si sia fatto un amico, – disse Erika. Il nome proprio di Kitaru era Akiyoshi. – Che esagerazione! Ne ho un sacco, di amici, – obiettò lui. – Non è vero, – disse freddamente Erika. – Come potresti farti degli amici? Basta guardarti! Ti esprimi nel dialetto del Kansai nonostante tu sia di Tōkyō, e apri bocca solo per parlare degli Hanshin

Tigers e di shōgi, sembra che tu lo faccia apposta. Uno fuori di testa come te non può andare d’accordo con le persone normali! – Guarda che a proposito di gente fuori di testa, anche lui non scherza, sai? – ribatté Kitaru indicandomi. – Pensa che viene da Ashiya, e parla come quelli di Tōkyō. – Be’, a me sembra una cosa piuttosto normale. Piú normale che non il contrario, perlomeno. – Ehi, questa si chiama discriminazione culturale! – disse Kitaru. – Tutte le culture si equivalgono. Non puoi dire che il linguaggio di Tōkyō sia meglio di quello del Kansai. – Senti, si equivarranno pure, ma dalla Restaurazione Meiji in poi, il linguaggio di Tōkyō è diventato grossomodo il giapponese standard, – disse Erika. – Se vuoi una prova, non esiste una traduzione nel dialetto del Kansai di… di Franny and Zooey di Salinger, ad esempio. – Se la pubblicano, la compro subito, – fece Kitaru. Anch’io l’avrei comprata, probabilmente, ma non lo dissi. Meglio evitare interventi estemporanei. – Ad ogni modo, quello che ti sto dicendo è solo comune buonsenso. Nel tuo cervello c’è una strana distorsione. – Una strana distorsione? Cosa significa? A me sembra che la discriminazione culturale sia una distorsione ben piú pericolosa, – ribatté Kitaru. Evitando prudentemente di avanzare su quel terreno, Erika decise di cambiare argomento. – Nel mio club di tennis c’è una ragazza di Ashiya, sai? – disse rivolta a me. – Si chiama Sakurai Eiko. La conosci? – Sí, la conosco, – risposi. Sakurai Eiko. Era una ragazza alta e allampanata, con un naso dalla forma strana, i cui genitori gestivano un vasto campo da golf. Se la tirava ed era poco simpatica. Piatta come un’asse da stiro. Solo a tennis era brava, fin da bambina, tanto che partecipava a tornei importanti. Possibilmente, avrei fatto volentieri a meno di rivederla. – Senti, lui è un tipo a posto, solo che in questo momento non ha la ragazza, – disse Kitaru a Erika. Si riferiva a me. – Certo fisicamente non è granché, ma è beneducato e al contrario di me non ha idee strampalate. Conosce un sacco di cose e legge libri impegnati. Non sembra un contaballe e non mi pare che abbia brutte malattie. È quel che si dice un giovane di belle speranze, insomma. – Okay, – rispose Erika. – Nel mio club ci sono diverse nuove iscritte molto carine, te ne posso presentare qualcuna. – No, no. Non è questo che ti chiedo, – fece Kitaru. – Perché non ci esci tu, con lui? Io sono ancora rōnin, come faccio a stare con te? Diciamo che potrebbe prendere il mio posto. Sono sicura che ti troveresti bene, a uscire con lui. E io mi sentirei piú tranquillo. – Piú tranquillo? Cosa vuoi dire? – chiese Erika. – Be’, vi conosco tutti e due, quindi sarei piú contento di saperti con lui, piuttosto che con uno che non ho mai visto. Erika strinse un po’ gli occhi e guardò in faccia Kitaru come se osservasse il quadro di un paesaggio in cui il senso della prospettiva fosse sbagliato. Poi pronunciò lentamente queste parole: – Mi stai dicendo che dovrei mettermi con lui, con Tanimura? Mi stai esortando a stare con lui, come una donna sta con un uomo cioè, perché «è un tipo a posto»? Stai parlando sul serio? – Be’, non è poi una cattiva idea, no? Perché, stai già con qualcun altro, per caso? – No. Non sto con nessuno, – disse Erika in tono pacato. – Allora faresti bene a metterti con lui! Sarebbe una specie di scambio culturale, diciamo cosí. – Uno scambio culturale, – ripeté Erika. Poi si voltò a guardarmi. Consapevole che qualunque cosa avessi detto avrei solo peggiorato la situazione, preferii stare zitto. Finsi di osservare con interesse il cucchiaino da caffè che tenevo in mano. Neanche fossi un archeologo

allo studio di un reperto trovato in un’antica tomba egizia. – Cosa intendi con «scambio culturale»? – chiese Erika rivolgendosi a Kitaru. – Be’, considerare le cose da una prospettiva un po’ diversa, accettare punti di vista nuovi… Per noi due non sarebbe affatto una cosa negativa, non credi? – Questa sarebbe la tua idea di scambio culturale? – Sí, ma quello che vorrei dire… – Benissimo! – decise Erika. Se avesse avuto a portata di mano una matita, l’avrebbe di sicuro spezzata in due. – Visto che lo suggerisci, diamoci pure a questo scambio culturale –. Poi bevve un sorso di tè, posò la tazza sul piattino, e si voltò verso di me. Sorrise. – Allora, Tanimura. Visto che Aki, qui, si è tanto impegnato per combinare questa cosa, la prossima volta usciamo solo in due, tu e io. Sarà bellissimo! Quando ti va bene? Non sapevo cosa rispondere. Non trovare le parole adatte nei momenti critici è uno dei miei problemi. Avevo cambiato città e modo di parlare, ma non ero riuscito a liberarmi di quel difetto di base. Erika prese dalla borsa un’agendina di pelle rossa e la sfogliò per controllare i suoi impegni. – Questo sabato sei libero? – mi chiese. – Sí, per sabato non ho programmi, – dissi. – Perfetto, allora è deciso. Sabato. Dove potremmo andare, noi due insieme? – A lui piace il cinema, – intervenne Kitaru. – Sogna di scrivere sceneggiature di film, in futuro. Si è pure iscritto a un gruppo che studia sceneggiatura. – Ottimo, allora andiamo al cinema. Che cosa potremmo vedere? Be’, decidi tu. A me non piacciono i film horror, ma a parte quelli, mi va tutto bene. – Figurati che lei si spaventa per nulla, – mi disse a quel punto Kitaru. – Una volta, da bambini, al luna park, nella casa dei fantasmi per tutto il tempo mi ha tenuto la mano… – E dopo il film, – lo interruppe Erika, – possiamo cenare insieme tranquilli da qualche parte –. Proferite lentamente quelle parole, scrisse il suo numero di telefono su un notes, strappò il foglietto e me lo porse. – Questo è il mio numero. Quando hai deciso il posto e l’ora dell’appuntamento, mi chiami? Io all’epoca non avevo il telefono (vorrei che comprendeste che tutto questo accadeva quando i cellulari non esistevano nemmeno nella fantasia), quindi le diedi il numero del caffè dove lavoravo. Poi gettai un’occhiata al mio orologio. – Scusatemi, ma ora devo andare, – dissi, cercando di assumere il tono piú disinvolto. – Devo terminare una relazione entro domani. – Ma cosa te ne frega, di quella roba? – fece Kitaru. – Visto che siamo qui tutti e tre, stiamo ancora un po’ insieme a parlare. Qui vicino c’è un posto dove fanno degli ottimi soba… Erika non si pronunciò. Io posai sul tavolino quel che dovevo per il mio caffè e mi alzai. – Scusate, ma è una relazione molto importante, – farfugliai. Anche se in realtà non lo era affatto. – Domani o dopodomani ti chiamo, – dissi a Erika. – Aspetto la tua telefonata, – rispose lei, facendomi un bellissimo sorriso. Fin troppo affabile per essere sincero, pensai. Dopo aver lasciato gli altri due nel caffè, mentre camminavo verso la stazione, continuavo a chiedermi cosa diavolo ci facessi in quel posto. Anche rimuginare sulle decisioni prese era uno dei miei problemi. Il sabato succesivo, con Erika ci incontrammo a Shibuya e andammo insieme a vedere un film di

Woody Allen ambientato a New York. Perché dopo aver parlato un poco con lei, mi ero fatto l’idea che Woody Allen le sarebbe piaciuto. Inoltre pensavo che Kitaru non era il tipo da portarla a vedere quel genere di film. Per fortuna ci avevo azzeccato, uscimmo dal cinema tutti e due soddisfatti e di buonumore. Ormai era sera. Dopo una breve passeggiata nel quartiere di Sakuragaoka, entrammo in un ristorantino dove mangiammo una pizza e bevemmo del Chianti. Un posto alla buona, non molto caro. Le luci erano basse, su ogni tavolo c’era una candela accesa (all’epoca, nella maggior parte dei ristoranti italiani si cenava a lume di candela, e le tovaglie erano a quadri). Parlammo di tante cose, del film appena visto, delle nostre giornate da studenti, dei nostri interessi. Il genere di conversazione che possono avere un ragazzo e una ragazza al secondo anno di università la prima volta che escono insieme (per cosí dire). Il nostro dialogo fu piú vivace di quanto avessi previsto, lei rise di gusto diverse volte. So che non spetta a me dirlo, ma ho un vero talento per far ridere le ragazze. – Ho saputo da Aki che ti sei separato da poco dalla tua ragazza, con la quale stavi fin dai tempi del liceo, – mi disse Erika. – Sí, – risposi. – Siamo stati insieme quasi tre anni, ma alla fine non ha funzionato. Peccato, però. – Aki mi ha detto che vi siete lasciati per problemi di sesso. Cioè… Insomma, lei non ti dava quello che tu volevi? – È stata una delle cause. Ma non l’unica. Se l’avessi amata davvero, profondamente, avrei portato pazienza. Se avessi avuto la certezza di esserne innamorato, insomma. Ma non lo ero. Erika annuí. – Anche se avessimo fatto tutto, sarebbe finita allo stesso modo. Quando sono venuto a Tōkyō, con la distanza, a poco a poco me ne sono reso conto. Certo è un peccato che sia andata cosí, ma era inevitabile, credo. – Ed è stato difficile, per te? – In che senso? – Cioè, ritrovarti solo, tutt’a un tratto. – In certi momenti sí, – risposi sinceramente. – Forse, però, da giovani è necessario fare qualche esperienza dolorosa, passare qualche momento difficile. In una certa misura. È un modo per crescere, no? – È quello che pensi? – Sí. È come per gli alberi. Per diventare alti e robusti, hanno bisogno di resistere a un inverno lungo e rigido. In un clima mite, mai troppo freddo, il tronco non potrebbe formare un anello dopo l’altro. Provai a figurarmi gli anelli che si erano formati dentro di me. L’unica immagine che mi apparve fu quella di una fetta di Baumkuchen vecchio di tre giorni. Quando glielo dissi, lei rise. – È vero, forse le persone hanno anche bisogno di attraversare un periodo duro, – aggiunsi. – A condizione di sapere che prima o poi finirà. Di nuovo lei rise. – Tranquillo, – mi disse. – Ora che ti conosco un po’, sono sicura che presto troverai una brava ragazza. – Magari, – risposi. Già, magari. Per qualche minuto Erika rimase in silenzio, stava riflettendo. Nel frattempo io mangiavo la mia pizza. – Senti, vorrei parlarti di una cosa. Hai voglia di ascoltarmi? – mi chiese poi. – Naturalmente, – dissi. Ci risiamo, pensavo intanto, si sta mettendo male. Sentirmi chiedere consiglio su qualche questione grave da gente appena conosciuta era un altro dei miei problemi. Inoltre

qualcosa mi diceva – le probabilità erano alte – che Erika stava per tirar fuori un argomento non particolarmente piacevole per me. – In questo momento ho molti dubbi, – esordí lei. I suoi occhi si mossero lentamente da destra a sinistra, come quelli di un gatto che stia cercando qualcosa. – Di sicuro ti sarai reso conto anche tu che Aki, nonostante sia già al suo secondo anno da rōnin, non sta affatto studiando per l’esame di ammissione. Al corso preparatorio ci va quando ne ha voglia. Di conseguenza non lo passerà nemmeno questa volta, ci puoi scommettere. Naturalmente, se mirasse a un’università di livello piú basso, da qualche parte riuscirebbe a entrare, ma non so perché, lui ha in mente solo Waseda. È convinto che Waseda sia l’unica opzione. A me pare un’idea del tutto senza senso, ma qualsiasi cosa gli dica, qualsiasi cosa gli dicano i suoi genitori e gli insegnanti, da quell’orecchio non ci sente. Ma allora perché non si mette a studiare sul serio, perché non si impegna? Invece non fa un bel niente. – Secondo te perché non studia? – Perché è convinto che per passare un esame di ammissione basta avere fortuna, – disse Erika. – Per lui preparare un concorso equivale a sprecare il proprio tempo, a dissipare la propria vita. Non riesco a capire dove sia andato a pescare un’idea tanto assurda, c’è da non crederci. Anche quello era un punto di vista, pensai, ma naturalmente me lo tenni per me. Erika fece un sospiro. – Alle elementari, – proseguí, – studiava, era bravissimo. Era sempre fra i primi della classe. Ma dalle medie in poi ha cominciato a prendere voti sempre peggiori, era come se scivolasse giú per una china. Ha un lato geniale, ed è intelligente, ma non è portato per lo studio metodico, non è nel suo carattere. Non è adatto al sistema-scuola, fa solo quello che gli pare, fa sempre di testa sua. È l’opposto di me. Io non sono tanto intelligente, ma studio con diligenza, con perseveranza. Per quel che mi riguardava, non avevo passato molto tempo sui libri, ma ero entrato all’università senza problemi. Probabilmente avevo solo avuto fortuna. – Io ad Aki voglio bene. Ha tanti lati bellissimi, come persona. Ma a volte trovo le sue idee eccessive, non riesco a seguirlo. Prendi questa cosa del dialetto. Perché qualcuno, nato e cresciuto a Tōkyō, deve sforzarsi di parlare nel dialetto del Kansai? Non ha senso. All’inizio pensavo che lo facesse per gioco, ma non è cosí. Fa sul serio, e lo proclama. – Può darsi che volesse cambiare, che volesse diventare una persona nuova, – dissi. Insomma, che facesse il mio stesso percorso, in senso inverso. – E a questo scopo deve parlare sempre e solo nel dialetto del Kansai? – Già, è vero che è un’idea un po’ eccessiva. Erika prese in mano una fetta di pizza e ne addentò un pezzo delle dimensioni di un francobollo. Lo masticò a lungo con considerazione, poi disse: – Senti, Tanimura, se ne parlo a te, di questa cosa che sto per dirti, è perché non saprei a chi altri parlarne. Ti secca? – No, affatto, – risposi. Che scelta avevo? – In genere, quando due ragazzi stanno insieme da tanto tempo, di solito lui desidera fisicamente lei, no? – Be’, sí, in genere credo che sia cosí. – Dopo averla baciata, dovrebbe cercare di spingersi oltre, no? – Sí… cioè, normalmente è quello che succede. – Succedeva anche a te?

– Certo. – Ad Aki invece no. Lui non cerca mai di andare oltre i baci, nemmeno quando siamo soli. Ci misi un po’ di tempo per trovare una risposta sensata, le parole adatte. – Ma è una cosa che cambia da individuo a individuo, ognuno di noi desidera cose diverse. Kitaru ti ama, è ovvio, ma forse la tua presenza per lui è troppo familiare, troppo ovvia, ed è per questo che il suo sentimento non si sviluppa nella direzione che ci si aspetterebbe. – Lo pensi veramente? – Non è che ne sia sicuro al cento per cento, – dissi scuotendo la testa. – Perché non ho mai avuto un’esperienza simile. Dico solo che «magari è quello che sta succedendo». – A volte mi chiedo se lui mi desideri davvero. – Figurati se non ti desidera! Semplicemente si vergogna ad ammetterlo. – Ma abbiamo tutti e due vent’anni! Non ci si dovrebbe piú vergognare, alla nostra età. – Forse il tempo trascorre in modo diverso per ognuno di noi, – dissi. Erika ci pensò su. Quando rifletteva su qualcosa, lo faceva con concentrazione, senza distrarsi. – Forse lui, nel suo modo particolare, unico, sta seriamente cercando qualcosa, – proseguii. – In maniera pulita, onesta, con i suoi tempi. Però ancora non sa bene cosa. Di conseguenza non riesce a progredire in armonia con tutto quello che lo circonda. Quando non si hanno le idee chiare, la ricerca diventa qualcosa di estremamente difficile. Erika alzò il viso e per qualche secondo mi guardò dritto negli occhi, senza parlare. Nelle sue iridi nere la fiamma della candela accendeva due punti luminosi. Non riuscii a sostenere il suo sguardo, tanto era bello. – Naturalmente tu lo conosci molto meglio di me, – dissi con l’aria di giustificarmi. Lei fece un altro sospiro. – Senti, – disse poi, – voglio dirti la verità: oltre ad Aki, ho un altro. Un ragazzo del mio stesso club di tennis, uno del terzo anno. Questa volta fui io a restare in silenzio. – Ad Aki voglio molto bene. Non credo che potrei nutrire per un altro il sentimento profondo e istintivo che ho per lui. Stare lontana da Aki mi addolora, fisicamente, mi provoca delle fitte nel petto. Come quando si ha un dente cariato. Sul serio. Una parte del mio cuore gli appartiene. Al tempo stesso, però… al tempo stesso c’è in me il forte desiderio di conoscere altro, di provare altro. Chiamala curiosità, o voglia di mettermi alla prova… E anche questo è qualcosa di molto naturale, che non potrei reprimere nemmeno volendo. Come una pianta robusta che non si riesce a contenere in un vaso, pensai. – Quando dico che sono confusa, intendo proprio questo. – In tal caso, è meglio che ne parli apertamente a Kitaru, – risposi scegliendo attentamente le parole. – Se gli nascondi che ti vedi con un altro, e per qualche ragione lui lo viene a sapere… be’, gli farai veramente una brutta cosa, ne resterà ferito. – Ma credi che lui possa accettarlo? Il fatto che io stia con un altro, cioè? – Sí, credo che sia in grado di capire quello che provi… – Lo pensi davvero? – Be’, sí, però… Kitaru probabilmente poteva comprendere i vacillamenti e le esitazioni che turbavano il cuore di Erika. Perché li conosceva anche lui. In quel senso, quei due avevano senza dubbio molto in comune. Tuttavia non ero affatto sicuro che riuscisse a digerire senza problemi quello che lei stava – forse –

facendo. Da quel che potevo giudicare, Kitaru non era una persona molto forte. Ma probabilmente avrebbe sopportato ancora meno che lei gli nascondesse qualcosa, o che gli mentisse. Erika osservò in silenzio la fiamma della candela che tremolava al soffio d’aria proveniente dal condizionatore. – Faccio spesso un sogno, – disse a un certo punto. – Sono con Aki su una nave. Una grande nave che fa una lunga traversata. È notte fonda, noi siamo nella nostra piccola cabina, e dall’oblò vediamo in cielo la luna piena. Ma è una luna fatta di ghiaccio trasparente. La metà inferiore è immersa nel mare. «Quella sembra la luna, ma in realtà è un pezzo di ghiaccio spesso forse venti centimetri, – mi spiega lui. – Domani mattina, quando si leverà il sole, si scioglierà. Quindi guardala bene adesso, finché la puoi vedere». È un sogno che ho fatto e rifatto non so quante volte. Un sogno molto bello. La luna è sempre la stessa. Lo spessore pure, venti centimetri. La metà inferiore è immersa nel mare. Io sono appoggiata contro Aki e la luna splende, stupenda. Siamo noi due soli, il rumore delle onde è piacevolissimo. Eppure quando mi sveglio provo sempre una gran tristezza. Perché la luna di ghiaccio non è piú visibile. Erika fece una pausa. – Se Aki e io potessimo restare indefinitamente cosí, noi due soli su quella nave, sarebbe meraviglioso. Ogni sera ci stringeremmo l’uno all’altra e guarderemmo la luna di ghiaccio dall’oblò. Il mattino la luna si scioglierebbe, ma la sera apparirebbe di nuovo. Oppure no. Forse una sera non la si vedrebbe piú. Questo pensiero mi spaventa. Mi chiedo che sogno farò domani, e provo una paura tale che sento il mio corpo contrarsi tutto. Il giorno dopo, quando incontrai Kitaru nel caffè dove lavoravo, lui mi chiese subito com’era andata con Erika. – L’hai baciata? – No, figurati! Perché avrei dovuto farlo? – risposi. – Mica me la prendo, sai? – Comunque sia, non l’ho baciata. – Ma le hai tenuto la mano fra le tue… – No, neanche quello. – Allora cos’avete fatto? – Siamo andati al cinema, abbiamo passeggiato, abbiamo cenato insieme, parlato. – Tutto qui? – Di solito, la prima volta che si esce insieme, mica si fa niente. – Ah, davvero? – fece Kitaru. – Sai, non ho molta esperienza in questo campo. Non ne so granché. – Però sono stato bene con lei. Se fosse la mia ragazza, non mi staccherei mai da lei, mai, in nessun caso. Kitaru rifletté un momento sulle mie parole. Stava per dire qualcosa, poi cambiò idea e se lo tenne per sé. – E cos’avete mangiato? – chiese poi. Gli raccontai della pizza e del Chianti. – Pizza e Chianti? – Kitaru pareva sorpreso. – Non sapevo che le piacesse la pizza. Con lei andiamo sempre a mangiare soba o roba del genere. In posti a menu fisso. Ah, cosí le piace il vino? Non sapevo nemmeno che reggesse l’alcol. Kitaru era astemio. – Ci sono tante cose di lei che non conosci, – dissi. Su richiesta di Kitaru, feci un resoconto dettagliato dell’incontro. Voleva sapere tutto: com’era il film

di Woody Allen che avevamo visto (dovetti raccontare per filo e per segno persino la trama), il ristorante (a quanto era il menu fisso? Avevamo pagato metà per uno?), com’era vestita lei (aveva un abito di cotone bianco, e i capelli tirati su), che biancheria intima aveva addosso (come potevo saperlo?), di cosa avevamo parlato… Naturalmente non gli dissi che si era messa con uno un po’ piú grande di lei. E nemmeno del sogno in cui appariva una luna di ghiaccio. – Vi siete accordati per incontrarvi di nuovo? – No. – Perché? Lei non ti piace? – Anzi, la trovo fantastica. Ma non è una cosa che possa continuare. È la tua ragazza, no? Di baciarla proprio non me la sento. Anche se non hai nulla in contrario, come dici. Di nuovo Kitaru ci pensò un po’ su. – Sai, verso la fine della scuola media, ho cominciato ad andare periodicamente dallo psicologo. Sono stati i miei genitori a volerlo, e anche gli insegnanti. Perché a scuola creavo problemi. Insomma, dicevano che non ero «normale». Ma non è che andare dallo psicologo mi sia servito a qualcosa, non mi pare proprio. Quelli se la tirano tanto, ma sono una manica di cialtroni. Se basta ascoltare la gente dicendo «sí, sí…» e facendo finta di capire tutto, sono buono anch’io. – Ci vai ancora, dallo psicologo? – Sí, circa due volte al mese. Tanto varrebbe buttare i soldi nel cesso. Non te l’ha detto, Erika? Scossi la testa. – Sinceramente, non capisco perché tutti trovino che nel mio cervello c’è qualcosa che non va. A me sembra di fare cose normalissime in modo normalissimo. Invece mi sento sempre ripetere che sono strano. – Be’, è vero che ci sono aspetti un po’ insoliti, nella tua personalità, – dissi. – Ad esempio? Quali? – Ad esempio, ’sta cosa di parlare nel dialetto del Kansai. Fin troppo bene, per essere di Tōkyō. Kitaru riconobbe che su questo avevo ragione. – Lo ammetto, è un po’ fuori dell’ordinario. – È una cosa che può anche dare fastidio. – Sarebbe a dire? – Be’, la gente normale di solito non arriva a tanto. – Sí, può essere… – Però, da quel che posso vedere io, per quel che ne so io, in realtà non rompi le scatole a nessuno, anche se fai cose strampalate. – Per adesso. – E allora dov’è il problema? – sbottai. In quel momento ero forse un po’ irritato (ma non so bene con chi ce l’avessi), e mi rendevo conto di parlare in tono brusco. – Cosa c’è che non va? Se «per adesso» non dai fastidio a nessuno, non è sufficiente? O pensi che possiamo capire qualcos’altro, al di là di quanto succede ora? Se vuoi parlare nel dialetto del Kansai, fallo! Fallo quanto vuoi, fino a creparne! Se non vuoi studiare per l’esame di ammissione, non studiare. Se non vuoi infilare la mano nelle mutande di Erika, nessuno ti obbliga. È la tua vita. Fai quel cavolo che ti pare! Cosa te ne frega di dar fastidio agli altri! Impressionato, Kitaru mi guardava a bocca aperta. – Sei davvero un tipo a posto, tu, Tanimura, – mi disse. – Anche se ogni tanto ti comporti in modo un po’ troppo normale. – Non ci posso fare niente, – risposi. – Non posso cambiarmi il carattere.

– Hai ragione. Il carattere non lo si può cambiare. È esattamente quello che voglio dire. – Sí, però Erika è una ragazza fantastica. E con te fa sul serio. Cerca di non lasciartela scappare, qualunque cosa accada. Perché una cosí non la trovi piú. – Lo so. Lo so bene. Ma saperlo non mi basta, non mi serve a niente. – Be’, tu te la canti e te la suoni! Due settimane dopo, Kitaru lasciò il lavoro al caffè. Tutt’a un tratto non si fece piú vedere, senza dare alcun preavviso. In quel periodo c’era molto da fare, e il padrone del locale era furibondo. «Un bell’incosciente, quello lí!», sbraitava. Kitaru non tornò neanche per farsi dare la paga dell’ultima settimana. Il padrone mi chiese se sapessi dove abitava, ma io dissi di no. Era la verità, non conoscevo né il suo numero di telefono, né il suo indirizzo esatto. Avrei saputo ritrovare la sua casa a Dennenchōfu, e avevo il numero di Erika, ma era tutto. Kitaru non mi aveva messo al corrente della sua intenzione di lasciare il lavoro, e anche dopo non si fece sentire. Scomparve completamente dalla mia vita. E io ci rimasi molto male. Credevo che mi fosse veramente amico, e il fatto che mi avesse piantato in asso con tanta facilità era duro da mandar giú. All’infuori di lui, a Tōkyō non avevo fatto altre amicizie. Una cosa però mi dava da pensare: negli ultimi due giorni Kitaru era diventato stranamente taciturno. Anche quando ero io a parlargli, spesso non rispondeva. Poi era sparito cosí, di punto in bianco. Avrei potuto telefonare a Erika e chiederle di lui, ma per qualche ragione non mi andava di farlo. Che se la vedessero tra di loro, quei due, non erano affari miei. Questo pensavo. Non volevo essere coinvolto oltre nella loro complessa relazione, non mi pareva una cosa sana. Bene o male, dovevo continuare a vivere nel piccolo mondo insignificante cui appartenevo. Capii subito che era lei, Kuritani Erika. L’avevo vista solo due volte in vita mia, e dall’ultima erano passati sedici anni. Eppure ero sicuro di non sbagliarmi. Aveva ancora un viso espressivo e vivace, era ancora bellissima. Indossava un vestito di pizzo nero, scarpe nere dai tacchi alti, e al collo flessuoso aveva due fili di perle. Anche lei mi riconobbe subito. La incontrai a una degustazione di vini che aveva luogo in un albergo di Akasaka. Trattandosi di un party formale, anch’io indossavo un abito scuro e avevo messo la cravatta. Se dovessi spiegare perché mi trovassi in un posto del genere, andrei per le lunghe. Lei faceva parte dell’agenzia pubblicitaria che aveva sponsorizzato l’evento, della cui realizzazione era la responsabile. E a quanto pareva, aveva lavorato molto bene. – Perché dopo quella volta non mi hai piú chiamata, Tanimura? – mi chiese. – Avrei voluto parlarti ancora di tante cose. – Perché eri un po’ troppo bella per me. Lei sorrise. – Fa piacere sentirselo dire, anche se è una lusinga. – Non ho mai fatto lusinghe in vita mia. Il suo sorriso si accentuò. Però io avevo detto la verità, non era mia intenzione lusingarla. Erika era troppo bella perché io potessi pensare seriamente a mettermi con lei. Sia all’epoca, sia ora. Inoltre il suo sorriso era troppo soave per essere sincero. – Poco tempo dopo ho chiamato il caffè dove lavoravi, ma mi hanno detto che te n’eri andato. Dopo la scomparsa di Kitaru, il lavoro mi era venuto terribilmente a noia, cosí, passate due settimane, mi ero licenziato. Erika e io ci raccontammo a grandi linee cos’avevamo fatto dall’ultima volta che ci eravamo visti. Dopo la laurea, io avevo trovato posto in una piccola casa editrice dove avevo lavorato per tre anni, poi

avevo dato le dimissioni e da allora mi dedicavo soltanto alla scrittura, per conto mio. A ventisette anni mi ero sposato. Per il momento non avevo figli. Erika invece era ancora single. Lavorava molto – la facevano sgobbare dal mattino alla sera – e non aveva certo il tempo di pensare al matrimonio, disse scherzando. Ma qualcosa in lei faceva supporre che in quei sedici anni avesse avuto molti fidanzati. Fu lei a parlarmi per prima di Kitaru. – Adesso Aki fa il cuoco a Denver. Fa sushi, – disse. – A Denver? – Sí, in Colorado. Perlomeno, è quello che ha scritto in una cartolina che mi ha mandato due mesi fa. – E perché a Denver? – Non lo so! La cartolina precedente, che risale a circa un anno fa, veniva da Seattle: anche lí lui faceva sushi. Ogni tanto sembra ricordarsi di me e mi scrive. Sempre cartoline illustrate demenziali, sulle quali butta giú due righe. Non mette neanche il suo indirizzo. – Cosí si è messo a fare il cuoco di mestiere… – dissi. – Quindi in conclusione all’università non ci è andato? Erika fece cenno di no. – Quell’anno, verso la fine dell’estate, improvvisamente ha dichiarato che rinunciava all’esame d’ammissione. Che continuare a prepararsi era solo una perdita di tempo. E si è iscritto a un corso di cucina a Ōsaka. Diceva che voleva studiare seriamente la cucina del Kansai, e avere la possibilità di andare allo stadio Kōshien quando gli pareva. Naturalmente gli ho chiesto che cosa avesse in mente: prendere da solo una decisione cosí importante e trasferirsi a Ōsaka… e con me, cos’aveva intenzione di fare? – E lui cos’ha detto? Erika taceva, le labbra serrate. Come se volesse dire qualcosa, ma temesse di non riuscire a frenare le lacrime appena avesse aperto bocca. Con il rischio di rovinare il trucco accurato degli occhi. Cambiai subito argomento. – L’ultima volta che ci siamo visti, abbiamo bevuto Chianti in un ristorante italiano di Shibuya. E oggi ci incontriamo a una degustazione di vini californiani della Napa Valley. Se ci pensi, è una strana coincidenza. – Ricordo bene, – disse lei, che si era ripresa. – Quel giorno abbiamo visto un film di Woody Allen. Che film era? Le dissi il titolo. – Un bel film, divertente. Concordavo con lei. Era una delle prime opere del regista. – E con quel tuo compagno del club di tennis, com’è poi andata? – chiesi. Erika scosse la testa. – Non bene, purtroppo. Perché… Non so, ci mancava qualcosa per essere veramente in sintonia. Siamo stati insieme sei mesi, poi ci siamo lasciati. – Posso farti una domanda? Una domanda un po’ indiscreta. – Certo. Ammesso che possa rispondere. – Non ti offendere, per favore. – Ci provo. – Ci sei andata a letto, con quel ragazzo? Erika mi guardò con aria sbalordita. E arrossí leggermente. – Scusa, Tanimura, ma perché a questo punto te ne vieni con questa cosa?

– Già, perché? Il fatto è che questo dubbio mi ha sempre intrigato un po’. Ma ho detto un’idiozia, ti chiedo perdono. Erika fece cenno di no. – No, non importa, – disse. – Non sono offesa. Semplicemente stupita, non mi aspettavo una domanda del genere, di punto in bianco. Su qualcosa che è accaduto tanto tempo fa. Mi guardai lentamente attorno. Gente vestita in abiti formali assaggiava vini da bicchieri che teneva inclinati. Bottiglie di pregio venivano stappate una dopo l’altra. La giovane pianista suonava Like Someone in Love. – La risposta è yes, – disse Erika. – Con quel ragazzo ho fatto sesso non so quante volte. – Per curiosità, desiderio di metterti alla prova… Erika accennò un sorriso. – Esatto. Ero curiosa, e volevo mettermi alla prova. – È cosí che formiamo gli anelli del nostro tronco. – Se lo dici tu… – E magari hai avuto per la prima volta un rapporto completo con lui poco dopo il nostro incontro a Shibuya… Erika sfogliò le pagine della memoria. – È vero. È successo circa una settimana dopo, credo. Mi ricordo bene di quel periodo. Perché per me «quella» era un’esperienza nuova. – Quindi Kitaru aveva visto giusto, – dissi guardandola negli occhi. Lei distolse lo sguardo, prese fra le dita le perle della collana, una dopo l’altra, come se volesse controllare che ci fossero tutte. Poi fece un lieve sospiro, quasi le fosse tornato in mente qualcosa. – Già, è proprio come dici tu. Aki aveva visto giusto. – Ma in conclusione con quel ragazzo non ha funzionato. Erika fece cenno di no. – Purtroppo sono un po’ imbranata, io, – disse. – Ho sempre bisogno di prendere le cose alla larga, di fare delle diversioni. Probabilmente è quello che continuo a fare ancora adesso. Tutti noi facciamo sempre delle diversioni, avrei voluto dirle, ma rimasi in silenzio. Tirar fuori frasi fatte tutti i momenti è un altro dei miei problemi. – Credi che Kitaru si sia sposato? – chiesi. – Per quel che ne so io, è ancora single, – rispose Erika. – Perlomeno, non mi ha mai mandato una partecipazione di nozze. È possibile che non siamo fatti per il matrimonio, né lui né io, dopotutto. – Oppure ognuno di voi sta semplicemente facendo una lunga diversione. – Può darsi. – Non è ipotizzabile che prima o poi vi incontriate di nuovo, e vi rimettiate insieme? Erika abbassò lo sguardo ridendo, con un piccolo cenno di diniego. Un gesto di cui non compresi bene il significato. Forse voleva dire che escludeva quella possibilità. Oppure che immaginare una cosa del genere non serviva a nulla. – Sogni ancora la luna di ghiaccio? – le chiesi. Lei sollevò il viso di scatto, sorpresa, e mi guardò. Finalmente un vero sorriso apparve sul suo volto. Lentamente, mettendoci tutto il tempo necessario. Un sorriso sincero e spontaneo. – Ti ricordi ancora di quel sogno? – Sí, non so perché. – Anche se non l’hai sognato tu? – I sogni all’occorrenza si possono prendere in prestito, ne sono sicuro –. Decisamente non sapevo

evitare le frasi fatte. – È un pensiero bellissimo, – disse Erika. Il sorriso le aleggiava ancora sulla bocca. Qualcuno alle sue spalle la chiamò. Era ora di tornare al lavoro. – No, ormai quel sogno non lo faccio piú, – mi disse alla fine. – Ma ancora adesso lo ricordo perfettamente. La scena, l’atmosfera, quello che provavo… non è qualcosa che possa dimenticare. Non lo dimenticherò mai, credo. Dette queste parole, Erika guardò un punto lontano, oltre le mie spalle. Come se cercasse una luna di ghiaccio nel cielo notturno. Poi si voltò bruscamente e si allontanò a passo veloce. Forse andava alla toilette a rifarsi il trucco agli occhi. Se per caso, quando sto guidando, alla radio sento Yesterday dei Beatles, il mio pensiero va subito a quei versi assurdi che Kitaru cantava nella vasca da bagno. E rimpiango sempre di non averli annotati da qualche parte. Erano talmente strani che per un certo periodo li ho tenuti a mente, poi ho cominciato a confonderli, finché li ho scordati quasi del tutto. Ne ricordo solo alcuni passaggi, ma non sono sicuro che siano proprio identici a quelli che cantava Kitaru. I ricordi cambiano di continuo, è inevitabile. Quando avevo piú o meno vent’anni, diverse volte mi sono sforzato di tenere un diario, ma non ci sono mai riuscito veramente. Intorno a me accadevano una dopo l’altra tante di quelle cose che riuscivo a malapena a starci dietro, e non avevo certo il tempo o la possibilità di fermarmi per prendere nota di ogni singolo evento. In piú, gran parte di questi eventi non erano di natura tale da farmi ritenere indispensabile segnarli da qualche parte. Per quel che mi riguardava, era già tanto se riuscivo a tenere gli occhi aperti, respirare regolarmente e avanzare di qualche passo nel forte vento di prua che mi investiva in pieno. Stranamente, però, conservo un vivido ricordo di Kitaru. Siamo stati amici solo per qualche mese, ma ogni volta che dalla radio mi arrivano le note di Yesterday, mi rivedo insieme a lui, rammento le sciocchezze di cui parlavamo per ore nel bagno di casa sua: le carenze della line up degli Hanshin Tigers, i vari problemi che comportava il sesso, l’inutilità di studiare per l’esame di ammissione… e la cronistoria della scuola elementare di Dennenchōfu, la differenza concettuale tra l’oden 2 e la cucina del Kantō, la ricchezza emotiva del dialetto del Kansai… E ricordo la volta – l’unica – in cui, indotto da Kitaru, uscii con Erika. Tutto quello che ci dicemmo in quel ristorante italiano, seduti uno di fronte all’altra con una candela accesa tra noi. Sono cose ancora fresche nella mia memoria, come se fossero accadute ieri. La musica ha il potere di resuscitare i ricordi con tale fedeltà, con tale intensità, che a volte fanno male. Ma quando cerco di rievocare i miei vent’anni, l’unica cosa che mi torni in mente è la mia sconfinata solitudine. Non avevo un amore che mi scaldasse il corpo e il cuore, né un amico cui poter confidare senza remore i miei sentimenti. Non sapevo cosa fare delle mie giornate, non riuscivo a immaginare il mio futuro. Me ne stavo quasi sempre chiuso in me stesso, al punto da non parlare con nessuno anche per una settimana intera. Ho vissuto cosí per un anno. Un anno lunghissimo. Quel periodo è stato per me un duro inverno, ma non saprei giudicare se abbia formato dentro di me anelli preziosi. Era come se a quell’epoca anch’io ogni sera vedessi, al di là di un oblò, una luna di ghiaccio. Una luna dura, gelida e trasparente, dello spessore di venti centimetri. Accanto a me però non c’era nessuno. La guardavo da solo, senza condividere con altri l’impressione di fredda bellezza che mi trasmetteva. Ieri è l’altro ieri di domani il domani dell’altro ieri…

Spero davvero che a Denver, o in qualche altra città in capo al mondo, Kitaru conduca una vita felice. O se non proprio una vita felice, se è chiedere troppo, gli auguro perlomeno di passare questa giornata bene, senza problemi. Nessuno può sapere cosa sogneremo domani.

1

In origine, samurai che non ha piú un signore. Attualmente il termine indica uno studente che, non avendo superato l’esame

d’ammissione all’università, trascorre l’anno scolastico a preparare il concorso per l’anno seguente [N.d.T.]. 2 Piatto della regione del Kansai. Sorta di stufato brodoso che contiene diversi ingredienti: uova sode, polpo, patate, uova di quaglia

fritte, alga, pesce o carne e altro ancora [N.d.T.].

Organo indipendente

Ci sono persone che, pur essendo prive di particolari tortuosità e inquietudini, riescono a complicarsi la vita in maniera sorprendente. Non sono moltissime, ma a volte se ne incontrano. Il dottor Tokai era una di queste. Gli individui di tal fatta, per poter adattare la propria personalità, per cosí dire rettilinea, al tortuoso mondo circostante, in qualche misura sono obbligati a effettuare degli aggiustamenti, senza rendersi conto che finiscono col guastarsi le giornate con fastidiosi stratagemmi. Sono fermamente convinti di condurre una vita semplice e onesta, priva di zone d’ombra, esente da espedienti. Cosí, quando per qualche episodio fortuito una luce nuova viene tutt’a un tratto a mostrare l’artificiosità e l’innaturalezza del loro operato, finiscono col trovarsi in situazioni a volte amare, a volte comiche. Ovviamente molte di queste persone sono tanto fortunate (non le si può definire diversamente) da non avere mai, per tutta la vita, questa illuminazione. Vorrei raccontare qui brevemente quanto sono venuto a sapere riguardo al dottor Tokai. La metà di queste informazioni le ho avute direttamente da lui, ma in parte mi sono state raccontate da persone affidabili che lo conoscevano bene. Altre sono mie congetture personali, basate sull’osservazione diretta del suo comportamento abituale – di ciò che faceva e diceva. Come una pasta stesa a riempire le fessure tra un fatto e l’altro. Insomma, non è un ritratto basato su dati obiettivi e autentici quello che vi propongo. Di conseguenza, signori lettori, in quanto autore posso solo consigliarvi di considerare le cose qui narrate alla stregua di una prova processuale, o di una documentazione a conferma di una transazione (di che genere di transazione potrebbe trattarsi, non riesco nemmeno a immaginarlo). Tuttavia, vi prego di indietreggiare di qualche passo (prima dovreste controllare che alle vostre spalle non ci sia un precipizio) e contemplare questo ritratto da una certa distanza: vi renderete conto che sapere se i dettagli siano veri o falsi è irrilevante. Avrete un’immagine tridimensionale e vivida del personaggio del dottor Tokai – perlomeno è quello che l’autore spera. Lui… come dire? Lui era un uomo che non lasciava spazio a fraintendimenti. Con questo, non sto cercando di farlo passare per una persona semplice e trasparente. Almeno in parte, era un uomo complesso, difficile da comprendere. Quali tenebre celasse in fondo alla propria coscienza, quale peccato originale si portasse sulla schiena come un fardello, io naturalmente non lo posso sapere. Tuttavia, visto che il suo operato aveva una coerenza formale, mi sento di dire che la sua immagine globale è relativamente facile da presentare. Forse vi sembrerà un giudizio arbitrario, ma in qualità di scrittore professionista, questa è l’impressione che ebbi di lui all’epoca. Il dottor Tokai aveva quasi cinquantadue anni, ma non si era mai sposato. Né aveva mai convissuto con una donna. Da molti anni viveva solo in un appartamento di due camere e cucina al sesto piano di un palazzo signorile del quartiere di Azabu. Era insomma uno scapolo di ferro. Delle faccende di casa – cucinare, lavare, stirare, spolverare – si occupava lui stesso senza lamentarsi, solo due volte al mese

ricorreva a una donna di servizio. Amava la pulizia, quindi rimboccarsi le maniche non gli pesava. All’occorrenza sapeva anche preparare dei buoni cocktail, e in cucina se la cavava piuttosto bene, le sue specialità andavano dal polpettone al branzino al cartoccio (come la maggior parte dei cuochi per hobby, non badava a spese nel procurarsi ingredienti di qualità, di conseguenza preparava piatti ottimi). Non aveva mai sentito la mancanza di una donna in casa, non si annoiava a stare solo, dormire solo non gli metteva tristezza. Perlomeno, questa era la situazione fino a un certo momento. Era un chirurgo estetico. Dirigeva la Clinica estetica Tokai a Roppongi. L’aveva ereditata dal padre, che faceva lo stesso lavoro. Le occasioni di incontrare delle donne, va da sé, non gli mancavano. Non si può certo dire che fosse un bell’uomo, ma aveva un viso dai tratti piú o meno regolari (curiosamente non aveva mai pensato di sottoporsi lui stesso a un’operazione di chirurgia estetica), nella gestione della clinica era molto in gamba, e i suoi introiti erano elevati. Persona beneducata, dai modi eleganti, possedeva una buona cultura e sapeva conversare. Sulla testa aveva ancora tutti i suoi capelli (cominciavano a notarsi quelli bianchi, però), e con l’assidua frequentazione della palestra riusciva a eliminare i chili di troppo che tendeva a metter su, conservando cosí un fisico giovanile. Di conseguenza – questo modo franco di esprimermi mi attirerà forse l’antipatia di molti – non gli erano mai mancate donne con cui andare a letto. Per qualche ragione, Tokai non aveva mai avuto il desiderio di sposarsi e farsi una famiglia. Convinto, chissà perché, di non esser tagliato per la vita matrimoniale, aveva sempre evitato di frequentare le donne, anche le piú affascinanti, che vedevano in lui un possibile futuro marito. Risultato: si metteva sempre e solo o con la moglie di un altro, o con qualcuna che aveva già un fidanzato, diciamo cosí, «prioritario». Se restava all’interno di questi confini era al sicuro, dato che cosí di certo non avrebbe corso il rischio di ritrovarsi sposato con qualcuna. In parole povere, Tokai per loro era o uno spensierato «fidanzato di riserva», o un comodo partner per una relazione adulterina. E a dire la verità, Tokai era un maestro nell’arte di mantenere questo genere di rapporto e mettere le signore a loro agio. Una relazione di tipo diverso, un legame in cui gli venisse chiesto, ad esempio, di prendersi la sua parte di responsabilità, lo avrebbe reso nervoso e di cattivo umore. Il fatto di non essere il solo a tenere le sue amanti fra le braccia, di condividere questo privilegio con altri uomini, non gli creava alcun problema. Un corpo, in fondo, è solo un corpo. Ne era convinto lui (soprattutto dal suo punto di vista di medico), e ne erano convinte le donne (soprattutto dal loro punto di vista di donne). A Tokai bastava che non avessero in mente un altro quando stavano in sua compagnia. Quello che pensavano o facevano prima o dopo, erano affari loro. Non spettava a lui preoccuparsene. Né metterci becco, questo era addirittura impensabile. Per Tokai, già solo pranzare o cenare con queste signore, bere e conversare con loro, era un sincero e genuino piacere. Il sesso era soltanto un modo di prolungarlo: un appagamento supplementare, diciamo cosí. Non era quello il suo obiettivo ultimo. A lui interessava soprattutto il rapporto confidenziale e intelligente con donne seducenti. Il resto veniva dopo. Motivo per cui queste ne rimanevano facilmente affascinate e apprezzavano senza ripensamenti il tempo passato con lui. Col risultato che lo accoglievano con gioia nella loro intimità. Secondo me la maggior parte delle donne (tanto piú quelle che hanno fascino) considerano gli uomini che pensano solo al sesso dei molesti e superficiali egocentrici. Ma questa è soltanto una mia opinione personale. A volte Tokai si diceva che avrebbe dovuto contarle, le donne con le quali aveva avuto, in un arco di quasi trent’anni, questo tipo di relazione. Ma non nutriva alcun interesse per la quantità. Gli interessava soltanto la qualità. E non dava molto peso nemmeno all’aspetto delle sue amanti. Gli bastava che non avessero difetti tali da attirare il suo interesse professionale, e non fossero banali al punto da annoiarlo. L’aspetto, se lo si vuole veramente, e si spende il denaro necessario, lo si può cambiare (in quanto

esperto in materia, conosceva un numero sorprendente di casi del genere). No, le donne che Tokai apprezzava veramente erano quelle provviste di un cervello brillante, senso dell’umorismo, e spessore intellettuale. Quelle a corto di argomenti invece, quelle incapaci di formarsi un’opinione personale, piú erano belle, piú lo demoralizzavano. Non c’è operazione estetica che possa alzare le capacità intellettive di una persona. Conversare piacevolmente, durante una cena, con una donna in gamba dotata di presenza di spirito, o scherzare e dire mille sciocchezze con lei nel letto, pelle contro pelle: per Tokai erano quelli i momenti piú preziosi. Non gli era mai successo di trovarsi nei guai a causa di un’amante. Non aveva alcuna propensione per i torbidi viluppi emotivi. Se per qualche motivo vedeva addensarsi all’orizzonte infauste nubi foriere di complicazioni, era bravissimo a uscire di scena senza creare scompiglio e, nella misura del possibile, senza ferire la signora in questione. In modo rapido e naturale, cosí come l’ombra delle cose si disperde all’approssimarsi della sera. Da scapolo inveterato qual era, eccelleva in questa tecnica. Separarsi dalle sue amanti era un evento periodico. La maggior parte delle donne fidanzate, a un certo punto gli dicevano: «Sono desolata, ma non mi sarà piú possibile vederti. Fra poco mi sposo». Di solito erano ben determinate a convolare poco prima dei trent’anni, altre volte dei quaranta. Forse per lo stesso motivo per cui si fa caso ai calendari soprattutto verso la fine dell’anno. Di solito Tokai accoglieva quegli annunci con un sorriso tranquillo in cui metteva una giusta dose di tristezza. Come a dire che era davvero desolato, ma si doveva rassegnare. L’istituzione del matrimonio non faceva per lui, però era sacra. Andava rispettata. In quelle occasioni comprava un regalo di nozze di valore, e lo accompagnava con parole d’augurio: «Tutte le mie congratulazioni, spero davvero che tu sia felice. Te lo meriti, sei intelligente, bella e affascinante». Parole che esprimevano con sincerità i suoi sentimenti: quelle ragazze gli avevano dato dei momenti meravigliosi, gli avevano dedicato, per genuina simpatia (probabilmente), un periodo prezioso della loro vita. Era un motivo sufficiente per esser loro grato. Cos’altro poteva desiderare, lui? Tuttavia, circa un terzo delle sue amanti che convolavano a giuste e liete nozze, passati alcuni anni, un bel giorno gli telefonavano. «Senti, perché non ci vediamo, non facciamo qualcosa?», gli dicevano. E tornavano a stringere con lui un piacevole legame che non aveva nulla di sacro. Da un facile rapporto tra single, passavano a un rapporto un po’ piú complicato tra una donna sposata e un single (cosa che aveva il suo fascino). Ma quello che facevano con Tokai – a parte un notevole miglioramento tecnico – in pratica era lo stesso. I restanti due terzi delle donne che lo avevano lasciato per sposarsi, non lo cercavano piú. Probabilmente conducevano una vita matrimoniale serena e soddisfacente. Erano diventate ottime padrone di casa, e avevano messo al mondo dei bambini. I loro splendidi seni che un tempo lui aveva accarezzato con dolcezza, adesso forse allattavano dei neonati. Contente loro, contenti tutti. Gli amici di Tokai erano quasi tutti sposati. E avevano dei figli. Tokai andava spesso a trovarli, ma non aveva mai provato invidia per loro. I bambini finché erano piccoli erano abbastanza carini, ma quando diventavano adolescenti, tutti, senza eccezioni, cominciavano a odiare e disprezzare gli adulti, a cercare una qualche rivalsa, combinando guai e provocando ulcere ed esaurimenti ai loro genitori. Che, del resto, pensavano solo a far entrare i propri rampolli in scuole prestigiose e discutevano fra loro di continuo, addossandosi reciprocamente la responsabilità dei risultati deludenti e degli insuccessi scolastici dei figli, motivo perenne di irritazione. Quanto ai figli, a casa non aprivano quasi bocca, si chiudevano nelle loro stanze dove chattavano all’infinito con gli amici, oppure passavano le ore assorti in qualche videogioco porno di natura non identificabile. Tokai non sentiva proprio la mancanza di siffatta prole. Gli amici avevano un bel dirgli, tutti quanti, che i figli, comunque la si metta, sono

preziosi, non era il tipo da credere a frasi fatte. Forse cercavano semplicemente di condividere con lui il fardello che portavano sulla schiena. Tante persone sono convinte, chissà perché, che tutti abbiano il dovere di patire le loro stesse disgrazie. Per quel che mi riguarda, mi sono sposato giovane e da quel giorno ho sempre vissuto con mia moglie, ma, non avendo figli, in una certa misura posso capirlo, Tokai. La sua convinzione può essere un po’ parziale, esagerata, un filo retorica, ma tutto sommato penso che abbia ragione. Certo, lo so anche io che non esistono solo i casi disperati. Fortunatamente in questo vasto mondo esistono anche le belle famiglie felici in cui genitori e figli vanno d’amore e d’accordo dall’inizio alla fine (esistono sí, ma con la frequenza di una tripletta a calcio). Ma dubito che sarei potuto entrare nell’esiguo numero di questi genitori fortunati, né penso (anzi, sono convinto del contrario) che ci sarebbe riuscito Tokai. Capitemi bene: Tokai era, per sintetizzare, una persona socievole. Privo (almeno in apparenza) di quei difetti che inevitabilmente guastano l’equilibrio di una persona – testardaggine, complesso d’inferiorità, invidia, eccessivo orgoglio, suscettibilità –, non si arroccava su pregiudizi e idee politiche irremovibili. Tutti quelli che gli stavano intorno amavano il suo atteggiamento franco e aperto, la sua correttezza e la sua buona educazione, la sua allegra positività. A beneficiare delle sostanziali qualità di Tokai, era soprattutto il gentil sesso – circa la metà del genere umano, cioè. La capacità di mostrarsi attento e premuroso verso le donne è un talento di cui le persone che lavorano nel suo campo non possono essere privi; nel caso di Tokai tuttavia non si trattava di una tecnica acquisita a posteriori, ma di una dote naturale e congenita. Come una bella voce o delle dita affusolate. Di conseguenza (naturalmente a questa virtú si sommava la professionalità, questo è sicuro), la clinica che dirigeva aveva un successo strepitoso. Anche se non faceva pubblicità sulle riviste specializzate, le prenotazioni erano sempre al completo. Come sicuramente i lettori sapranno, le persone «socievoli» a volte mancano un po’ di spessore, non è raro che siano mediocri e poco interessanti. Non era il caso di Tokai. A me faceva davvero piacere, ogni fine settimana, passare un’oretta con lui bevendo una birra. Sapeva conversare e non era mai a corto di argomenti. Il suo senso dell’umorismo non era complicato, andava dritto al punto. Mi ha raccontato diversi episodi divertenti connessi alla chirurgia estetica (senza mai rivelare segreti professionali, s’intende) e mi ha dato informazioni molto interessanti sulle abitudini femminili. Questi discorsi però non sono mai scesi a livello di maldicenza. Parlava delle donne con rispetto e affetto, e faceva sempre molta attenzione a non dare informazioni da cui si potesse risalire alla persona. – Un gentiluomo non parla delle tasse che ha pagato, e delle donne con cui è andato a letto, – dichiarò una volta. – Chi è che l’ha detto? – L’ho detto io, – rispose imperturbabile Tokai. – Anche se ogni tanto, col mio commercialista, di tasse devo parlare. Per Tokai, avere contemporaneamente due o tre fidanzate era una cosa normale. La precedenza nello stabilire gli orari spettava a loro, che avevano ognuna un marito o un fidanzato, lui doveva accontentarsi del tempo che avanzava. Motivo per cui non giudicava scorretto mantenere piú di una relazione, ma alle sue amanti, ovviamente, questo non lo diceva. Nella misura del possibile cercava di non mentire, ma le informazioni che non era necessario dare non le dava. Ecco, a grandi linee era questa la sua politica. Nella clinica di Tokai lavorava, da molti anni, un segretario di eccezionale bravura, che gestiva per lui, con la perizia di un esperto controllore di volo, il programma densissimo delle sue giornate. Oltre a occuparsi dell’organizzazione dell’attività professionale, a poco a poco aveva preso l’abitudine di sovraintendere anche all’impiego del tempo che Tokai dedicava a questa o quella signora. Conosceva la

vita privata del dottore nei minimi dettagli, non diceva mai una parola di troppo, non si lamentava mai per l’eccesso di lavoro e svolgeva i suoi compiti con distaccata competenza. Regolava abilmente il traffico in modo che gli appuntamenti con le diverse amanti non interferissero l’uno con l’altro. So che è difficile crederlo, ma teneva a mente perfino il ciclo di ognuna delle donne che Tokai frequentava in un determinato periodo. Se Tokai faceva un viaggio con una di loro, procurava i biglietti del treno e prenotava la camera d’albergo. Senza quel segretario di straordinaria efficienza, di sicuro la vita privata di Tokai non sarebbe stata altrettanto brillante. Lui gliene era estremamente grato, e quando se ne presentava l’occasione faceva a quel giovane attraente (ovviamente gay) dei bei regali. Non era mai successo, per fortuna, che qualcuno scoprisse la relazione della moglie o della fidanzata con Tokai, che gli creasse delle grane o montasse uno scandalo. Tokai, da uomo prudente qual era, le aveva avvisate di muoversi con ogni cautela. Di non fare le cose in modo precipitoso o innaturale, di non seguire sempre lo stesso schema, e, se proprio era necessario dire una bugia, di trovare la scusa piú semplice. Questi erano i tre consigli essenziali che dava loro (piú o meno era come insegnare a volare ai gabbiani, ma per scrupolo non mancava mai di farlo). Il che non significa che riuscisse sempre a evitare i guai. Non sarebbe stato possibile portare avanti per tanti anni relazioni tanto complicate con diverse amanti, senza che si verificasse a volte qualche problema. Arriva il giorno in cui anche una scimmia cade dall’albero. C’erano donne che non prestavano abbastanza attenzione, fidanzati sospettosi che telefonavano in ufficio e facevano mille domande sulla sua vita personale e sulla sua moralità (ci pensava il suo bravissimo segretario a intortarli con la sua parlantina), e c’erano donne sposate che, troppo coinvolte nella relazione con lui, finivano col perdere la lucidità. Una di loro era addirittura sposata con un noto campione di lotta libera. Questi fatti però non avevano mai portato a gravi conseguenze. Tokai non aveva mai trovato nessuno che gli spaccasse la faccia. – Non è solo una questione di fortuna? – dissi. – Forse, – rispose lui ridendo. – Forse sono stato fortunato. Ma non si tratta solo di questo. Non posso certo dire di essere particolarmente astuto, ma in queste cose ho un certo tatto. – Tatto… – Diciamo che… quando intuisco che le cose stanno prendendo un brutta piega, di colpo il mio cervello si mette al lavoro, – mormorò Tokai. Come se avesse qualche scrupolo a dirlo ad alta voce, o cercasse invano un esempio che illustrasse le sue parole. – Sa, in un vecchio film di Truffaut 1 c’è una scena in cui una donna dice a un uomo: «Al mondo ci sono persone educate, e persone che hanno tatto. Naturalmente educazione e tatto sono entrambe delle belle qualità, ma di solito la seconda vince sulla prima». Lo ha visto, quel film? – chiesi. – No, non mi pare, – rispose Tokai. – La donna si spiega facendo un esempio concreto: un uomo apre la porta di una stanza e vede una donna che si sta cambiando, è nuda. L’uomo educato prima di richiudere subito la porta dirà: «Mi scusi, signora». L’uomo che ha tatto invece dirà: «Mi scusi, signore». – Ah, in effetti… – fece Tokai, impressionato. – Un esempio divertente. A essere sincero, lo trovo molto sensato, essendomi trovato io stesso diverse volte in situazioni del genere. – E con il suo tatto se l’è cavata bene? Tokai sembrò corrucciarsi. – Non vorrei sopravvalutare le mie capacità. Fondamentalmente, ho sempre avuto molta fortuna. Sono un uomo beneducato, che è sempre stato assistito dalla sua buona stella. Forse è piú prudente pensare cosí. In ogni caso, la fortuna del signor Tokai durò una trentina d’anni. Un lungo periodo. Finché un

giorno accadde qualcosa che non si sarebbe mai aspettato: si innamorò perdutamente. Anche la volpe piú astuta prima o poi finisce nella tagliola. La donna di cui si innamorò era sposata da sedici anni, con un uomo di poco piú vecchio di lei che lavorava presso la It, un’impresa finanziata da capitali stranieri. Aveva una figlia piccola che non andava ancora a scuola. – A lei non è mai capitato di decidere che si sta innamorando troppo, e cercare disperatamente di fare marcia indietro, signor Tanimura? – mi chiese un giorno Tokai. La relazione con quella donna durava da circa diciotto mesi. Eravamo all’inizio dell’estate, e da quando l’avevo conosciuto era passato poco piú di un anno. Risposi di no, non ricordavo nulla di simile. – Nemmeno a me era mai successo. E invece eccomi qui preso al laccio, – disse Tokai. – Si sta sforzando di non innamorarsi troppo di qualcuno? – Esattamente. È l’obiettivo su cui sto concentrando le mie energie in questo momento. – Per quale ragione? – Una ragione semplicissima. Perché altrimenti soffrirò. Soffrirò in modo atroce. E dato che il mio cuore non sembra poter reggere a una tale prova, faccio tutto il possibile per non innamorarmi troppo di una certa donna. Sembrava parlare sul serio. Non aveva la sua solita espressione divertita. – In pratica, cosa fa? – chiesi. – Per non innamorarsi, intendo… – Oh, provo di tutto! Fondamentalmente, però, cerco di pensare solo ai suoi difetti. Faccio la lista del maggior numero possibile di cose che in lei «non vanno tanto bene». E me la ripeto di continuo, come un mantra, dicendomi al tempo stesso «questa donna non mi deve piacere piú di quanto sia necessario». – E funziona? – No, poco, – rispose Tokai scuotendo la testa. – Tanto per cominciare, non riesco a trovarle molti difetti. Ma la cosa grave è che a sedurmi sono proprio quelli. Inoltre, non capisco bene cosa sia necessario per il mio cuore e cosa non lo sia. Non vedo la linea di demarcazione. È la prima volta in vita mia che provo un trasporto cosí irrefrenabile, cosí incondizionato. Gli chiesi se davvero non avesse mai nutrito un sentimento tanto sconvolgente per una donna, malgrado ne avesse conosciute tante. – No, assolutamente, – rispose il dottore senza esitare. Poi andò a ripescare nella memoria un ricordo lontano. – Cioè, quando ero al liceo ho provato qualcosa del genere, anche se è durato poco. Sentire una fitta in petto quando si pensa a qualcuno, e non pensare quasi a nient’altro… Ma era un amore non ricambiato, senza speranza. Ora la situazione è diversa. Ora sono un adulto che ha fatto molta strada, e ha con le donne dei rapporti fisici. Ed eccomi in preda alla confusione. Quando penso a lei, ho l’impressione che persino i miei organi interni siano scombussolati. Soprattutto quelli che servono a respirare e a digerire. Tokai rimase qualche minuto in silenzio, come se stesse auscultando i propri polmoni e il proprio stomaco. – Dalle sue parole, sembra che lei faccia di tutto per non innamorarsi troppo di quella donna, ma al tempo stesso speri di non perderla, – dissi. – Appunto, è proprio cosí. Evidentemente è una contraddizione. Una scissione del mio io. Desidero una cosa e il suo contrario. Per quanti sforzi faccia, non è possibile che funzioni. Eppure non riesco a rassegnarmi. Non posso accettare di perderla. Se questo dovesse mai accadere, mi perderei io stesso.

– Sí, ma lei è sposata e ha una figlia. – Per l’appunto. – Ma questa signora cosa pensa della sua relazione con lei, dottore? Tokai assunse un’espressione perplessa, cercò le parole giuste. – Su quello che lei pensa della nostra relazione, posso solo fare delle congetture, e queste congetture riescono solo a confondermi ancora di piú. L’unica cosa certa è che al momento sostiene di non voler divorziare dal marito. Perché ha una figlia, e non vuole distruggere la sua famiglia. – Però vuole continuare la storia con lei. – Per adesso cerchiamo di vederci quando possiamo. Ma cosa ci riservi il futuro non lo so. Lei ha paura che il marito venga a sapere di me, quindi può darsi che prima o poi mi lasci. A meno che non siamo costretti ad allontanarci perché il marito scopre tutto. O semplicemente a un certo punto le verrò a noia. Non ho la minima idea di quello che può accadere domani. – E questo la spaventa piú di ogni altra cosa. – Sí. Quando comincio a figurarmi tutte le eventualità possibili, non riesco piú a pensare ad altro. Anche il cibo mi si ferma in gola. Il dottor Tokai e io ci eravamo conosciuti nella palestra vicino a casa mia. Lui arrivava nei fine settimana, il mattino, con una racchetta da squash sotto il braccio. Dopo qualche tempo avevamo cominciato a fare qualche partita insieme. Tokai era un uomo molto corretto, fisicamente robusto, e non gli interessava vincere o perdere. Era il partner perfetto per godersi una partita in santa pace. Io avevo qualche anno in piú, ma appartenevamo alla stessa generazione (sto parlando di cose avvenute molto tempo fa) e anche nello squash eravamo piú o meno di pari livello. Dopo aver sudato abbondantemente correndo dietro alla palla, andavamo in un locale lí vicino a berci una birra alla spina. Come la maggior parte delle persone di buona famiglia che hanno ricevuto un’ottima educazione e non hanno mai conosciuto difficoltà economiche, il dottor Tokai fondamentalmente pensava solo a se stesso. Tuttavia – l’ho già detto –, era capace di conversare in modo gradevole mostrando interesse per il suo interlocutore. Quando seppe che di professione facevo lo scrittore, a poco a poco dai soliti argomenti generici passò a raccontarmi le sue faccende personali. Probabilmente riteneva che gli scrittori, come gli psicologi e i preti, avessero il diritto (o forse il dovere) di ascoltare chi voleva parlare di sé e dei propri problemi. Non era il solo a pensarlo, la stessa cosa mi era successa in precedenza con tante altre persone. Detto ciò, a me ascoltare gli altri non dispiace, e soprattutto non mi stancavo mai di ascoltare lui. Era onesto e sincero, e riusciva a vedersi in maniera relativamente imparziale. Né temeva di mostrare i suoi punti deboli. Poca gente al mondo ha tutte queste qualità. – Mi è capitato non so quante volte di stare con donne piú avvenenti di lei, donne che avevano un fisico molto piú bello, che erano piú intelligenti e avevano un gusto piú raffinato. Ma è un confronto che non ha senso. Per qualche motivo, lei per me è un essere speciale. La amo nella sua totalità. Tutte le sue qualità hanno come un nucleo comune, un nocciolo, qualcosa di suo e solo suo… non ha senso estrapolare una sola caratteristica e fare paragoni con un’altra persona. È qualcosa in quel nucleo che mi seduce irresistibilmente. Come un magnete potentissimo. Al di là di ogni ragione. Bevevamo Black and Tan in grandi bicchieri, piluccando sottaceti e patatine fritte. – C’è un tanka che fa: Dopo averti incontrato | in confronto a ciò che provo | ora per te nel mio cuore | è come se mai prima | avessi amato, – disse Tokai. – Sí. Di Gonchūnagon Atsutada, – continuai, chiedendomi perché mai ricordassi una cosa del genere. – Dopo averti incontrato sta a indicare la relazione fisica tra l’uomo e la donna, mi hanno spiegato

all’università. All’epoca ho soltanto pensato «ah, davvero?», ma da quando mi trovo in questa condizione, ho finalmente capito, in pratica, che sentimento provava l’autore di quel tanka. È quel profondo senso di perdita che ti assale quando devi separarti dalla donna amata, dopo averla incontrata ed esserti unito a lei. Quella fatica che fai a respirare. Se ci pensa, è un sentimento che è rimasto uguale da piú di mille anni. E io che fino a oggi non avevo mai provato personalmente questa emozione, in quanto essere umano non ero completo. Me ne rendo conto soltanto ora, e con dolore. Un po’ troppo tardi, però. Dissi che in questo genere di cose non ha senso parlare di troppo tardi o troppo presto. Meglio tardi che mai, no? – Sí, ma è un’esperienza che forse è meglio fare da giovani, – rispose Tokai. – Cosí si possono formare degli anticorpi. A me non sembrava un problema che si potesse risolvere tanto facilmente. Conosco un certo numero di persone che portano dentro di sé i germi latenti di brutte malattie, senza mai essersi formati degli anticorpi. Ma non lo dissi, il discorso si sarebbe fatto troppo lungo. – Ormai è un anno e mezzo che mi vedo con lei. Il marito va spesso all’estero per lavoro, e in quelle occasioni io e lei pranziamo insieme, poi andiamo a casa mia e facciamo l’amore. Si è messa con me dopo aver saputo che il marito la tradiva. Il marito le ha chiesto scusa e ha promesso di lasciare l’amante e non fare mai piú una cosa del genere. Ma questo non è bastato a calmarla. Ha iniziato questa relazione con me per ritrovare l’equilibrio. Parlare di vendetta è forse un po’ esagerato, ma le donne hanno bisogno di fare questo tipo di percorso. Succede sovente. Non ero del tutto sicuro che quel genere di cose «succedesse sovente», ma ad ogni buon conto ascoltavo in silenzio. – Finora è andato tutto bene, siamo sempre stati d’incanto, insieme. Conversazioni stimolanti, segreti intimi di cui siamo al corrente solo noi due, sesso fatto con perizia, senza fretta. Penso che abbiamo condiviso delle ore stupende. Mi capitava spesso di farla ridere. Ridere di cuore. Man mano che la relazione è andata avanti, però, mi sono innamorato sempre piú, tanto da non poter tornare indietro. Cosí ho cominciato a riflettere seriamente, negli ultimi tempi. A chiedermi che cosa sono io. Avendo l’impressione di non aver sentito le sue ultime parole (o piuttosto di averle sentite male), lo pregai di ripetere. – Che cosa sono io. Di questi tempi me lo domando spesso. – Ardua questione, – dissi. – Infatti. Molto ardua, – ripeté Tokai. E fece cenno di sí piú volte con la testa, come a confermarne la difficoltà. Non sembrava aver colto la leggera ironia delle mie parole. – In fin dei conti, che cosa sono io? – proseguí. – Come chirurgo estetico, finora ho svolto il mio lavoro senza farmi tante domande. Mi sono specializzato in chirurgia presso la facoltà di Medicina. All’inizio aiutavo mio padre facendogli da assistente, poi, quando lui si è ritirato per problemi alla vista, ho preso il suo posto alla direzione della clinica. Non dovrei dirlo io, ma nella mia professione penso di essere bravo. Il mondo della chirurgia estetica in realtà è un miscuglio di pietre preziose e di sassi, la facciata è splendida, ma la sostanza assai meno, ci sono molti dilettanti. Nella mia clinica, invece, si fa tutto in modo scrupoloso, dall’inizio alla fine, non abbiamo mai avuto problemi seri con i pazienti, nemmeno una volta. Per me è una questione di orgoglio professionale. Non ho particolari frustrazioni. Ho molti amici, e per il momento sono in buona salute. Mi godo la vita a modo mio. Eppure di recente mi succede spesso di chiedermi «che cosa sono io?» Di chiedermelo seriamente. Se perdessi la mia carriera e il mio talento di chirurgo estetico, se venissi privato delle mie confortevoli condizioni di vita e

venissi lasciato nel mondo cosí come sono, un individuo nudo, senza che mi venisse fornita nessuna spiegazione, cosa sarei? Cosa diventerei? Tokai mi guardò dritto in faccia. Come se sperasse in una risposta. – Perché tutt’a un tratto le vengono in mente certe idee? – chiesi. – Ho cominciato a farmi questa domanda poco tempo fa, dopo aver letto un libro sui campi di concentramento nazisti. Credo sia questa la ragione. Un medico ebreo che esercitava a Berlino, un giorno è stato preso insieme alla famiglia e mandato in un campo di concentramento. Fino a quel momento quell’uomo era amato dai famigliari e rispettato dalla gente, godeva della fiducia dei pazienti e conduceva una vita piena di soddisfazioni in una bella casa. Aveva quattro cani e la passione del violoncello, suonava insieme agli amici musica da camera di Schubert e Mendelssohn. Un’esistenza piacevole, tranquilla e agiata, insomma. Poi tutto è cambiato e lui è finito in un vero e proprio inferno, un inferno in terra. Un posto dove non era piú un cittadino abbiente di Berlino e un medico rispettato, dove non era quasi piú un essere umano. Separato dalla sua famiglia, veniva trattato alla stregua di un cane randagio e non riceveva quasi cibo. Provvisoriamente gli era stata risparmiata la camera a gas perché il comandante del campo, sapendo che era un medico di fama, si era detto che poteva tornare utile, ma la situazione poteva mutare da un giorno all’altro. Bastava il malumore di una guardia perché venisse ucciso a bastonate. Tutti gli altri membri della sua famiglia erano probabilmente già morti. Tokai fece una pausa. – A quel punto mi è venuto un dubbio. La sorte terribile di quel medico, in luoghi e tempi diversi, poteva benissimo capitare a me. Se io per qualche ragione – anche se non so immaginare quale – un giorno venissi all’improvviso spogliato della vita che conduco adesso, privato di ogni privilegio, e degradato a un semplice numero… cosa rimarrebbe di me, che cosa sarei? Ho chiuso il libro e mi sono messo a riflettere. A prescindere dalla mia abilità e dalla fiducia di cui godo in quanto chirurgo estetico, non ho alcun merito, alcuna capacità particolare, sono soltanto un uomo di cinquantadue anni. Anche se sono nel complesso in buona salute, non ho piú le stesse energie di quando ero giovane. Non sono piú in grado di fare pesanti lavori manuali a lungo. Sono bravo soltanto a scegliere un buon Pinot nero, a tenermi informato sui ristoranti, i posti dove si mangia il miglior sushi e i bar alla moda, a trovare accessori eleganti da regalare alle donne… so anche suonare un po’ il piano, uno spartito facile lo leggo a prima vista. Piú o meno è tutto. Ma se venissi mandato ad Auschwitz, a cosa mi servirebbero queste mie capacità? Ero d’accordo. Conoscere i vini, saper suonare o raccontare, in un posto del genere probabilmente non sarebbe stato di grande utilità. – Mi scusi, signor Tanimura, ma a lei non vengono mai questi pensieri? Se perdesse la capacità di scrivere, a cosa si ridurrebbe in sostanza la sua persona? Cercai di spiegargli. Io era partito da zero, all’inizio non ero nessuno. Mi ero lanciato nella vita praticamente nudo. Avevo cominciato a scrivere per caso, avevo avuto fortuna, e bene o male riuscivo a mantenermi con la mia scrittura. Di conseguenza, per riconoscere di essere un semplice essere umano, senza meriti né capacità particolari, non avevo bisogno di postulare un’ipotesi su vasta scala come il campo di concentramento di Auschwitz. Sentendo le mie parole, Tokai si mise a riflettere seriamente. Il mio modo di pensare sembrava essere per lui un’assoluta novità. – Ah, ecco! – disse. – Può darsi che la vita sia piú facile, per le persone come lei. Gli feci timidamente notare che la vita non è proprio una passeggiata, per una persona che parte da zero. – Naturalmente, – disse lui. – Naturalmente, lei ha ragione. Partire da zero, nella vita, dev’essere

un’esperienza dura. Da questo punto di vista, penso di essere stato fortunato. Quando si arriva a una certa età, però, quando si è acquisito un certo stile di vita e si è raggiunta una certa posizione sociale, può essere molto penoso mettersi a dubitare, a quel punto, del proprio valore in quanto persona. Si finisce col pensare che l’esistenza che si è condotta fino a quel momento non ha alcun senso, alcuna utilità. Da giovani c’è ancora la possibilità di cambiare, di sperare. Ma alla mia età, il pesante fardello del passato ci schiaccia. Non è qualcosa che si possa cambiare. – E ha iniziato a porsi queste domande dopo aver letto un libro sui campi di concentramento nazisti? Vuole dire che è stata questa la causa scatenante? – chiesi. – Sí. Quella lettura è stata per me uno shock che ha coinvolto direttamente la mia persona, chissà perché. Inoltre non so come andrà a finire la storia con la mia amante, e da un po’ soffro di quella leggera depressione tipica della mezza età. «Che cosa sono io?»: non faccio altro che pormi questa domanda. Ma per quanto ci rimugini su, non riesco a trovare una via d’uscita. Continuo a girare in tondo. Tante cose che ho sempre fatto con piacere, non mi divertono piú. Non ho voglia di comprare vestiti, di fare sport, persino aprire il pianoforte mi annoia. Ho perso l’appetito. E a stare fermo senza agire, mi viene in mente soltanto lei. Penso sempre a lei, anche sul lavoro, davanti alle pazienti. Finisco quasi col fare il suo nome cosí, senza rendermene conto. – Con quale frequenza la vede, quella signora? – Dipende dalle volte. Dagli spostamenti del marito. Anche questo per me è un tormento. Quando lui sta via per molto tempo, ci vediamo di continuo. In quelle occasioni lei lascia la figlia dai suoi genitori, o fa venire una baby-sitter. Quando il marito è in Giappone, però, possono passare settimane senza che ci incontriamo. E per me è dura. Finisco col pensare che non la vedrò mai piú. Scusi il luogo comune, ma mi sento spezzare il cuore in due. Ascoltavo in silenzio quanto mi stava raccontando. Non si esprimeva in maniera particolarmente originale, ma non era neanche banale. Anzi, le sue parole erano molto efficaci a rendere l’idea. Prese un lungo, lento respiro. – Ho avuto molte amanti. Forse le sembrerà sconcertante, ma a volte anche quattro o cinque alla volta. Se non potevo vedere l’una, vedevo l’altra, o l’altra ancora. E la cosa non presentava nessun problema. Ma da quando mi sono innamorato di quella donna, le altre non mi attirano piú. È strano, lo so. Quando sto con un’altra, in testa ho sempre lei. Non riesco a togliermela dalla mente. È una situazione disperata, glielo assicuro. Una situazione disperata, pensai. Mi apparve l’immagine di Tokai che telefonava per chiamare l’ambulanza: «Pronto? Un’ambulanza, presto, è urgente! È una situazione disperata! Mi manca il respiro, il cuore mi si può spezzare in due da un momento all’altro…» – Sí, è grave, – proseguí Tokai. – Piú la conosco, piú mi innamoro. Sto con lei da un anno e mezzo, ma adesso sono molto piú preso che all’inizio. Ormai ho l’impressione che il mio cuore e il suo siano profondamente legati. Quando il suo si muove, trascina anche il mio. Come due barche attaccate l’una all’altra da una corda. Anche volessi tagliarla, quella corda, non ho strumenti abbastanza affilati per farlo. È un sentimento che non avevo mai provato in vita mia. Mi mette ansia. A cosa porterà tutto questo? Come finirà? – Capisco, – dissi. Ma Tokai voleva una risposta piú sostanziosa. – Cosa devo fare, signor Tanimura? – Be’, come lei possa affrontare concretamente la situazione, io non lo so. Ma a giudicare da quello che mi ha detto, penso che il sentimento che prova sia qualcosa di normale, di coerente. Amare significa proprio questo. Si perde il controllo del proprio cuore, si ha l’impressione di venire travolti da una forza irragionevole. Non sta facendo un’esperienza assurda, lontana da ogni buonsenso, dottor

Tokai. Si è semplicemente innamorato di una donna, innamorato sul serio. E non vuole perderla. Vorrebbe stare sempre con lei. Se non potesse piú vederla, il suo mondo andrebbe in pezzi. È un’emozione naturale, frequente. Non è né strana né speciale. È uno degli eventi piú comuni, nella vita di una persona. Il dottor Tokai si mise a braccia conserte per considerare quello che gli avevo appena detto. Come se ci fosse qualcosa che non lo convinceva. Era probabile che non riuscisse ad accettare l’idea che la sua esperienza fosse del tutto banale. Forse la considerava qualcosa di piú di un semplice «amore». Finimmo di bere le nostre birre, e al momento di andarcene, lui mi disse, come se mi facesse una confidenza: – Sa, signor Tanimura, la cosa che io al momento temo di piú, che mi confonde di piú, è la collera che sento dentro di me. – La collera? – gli chiesi un po’ sorpreso. Mi sembrava un sentimento poco in sintonia col personaggio di Tokai. – Collera nei confronti di cosa? Lui scosse la testa. – Non lo so. Di sicuro non ce l’ho con la mia amante. Ma quando non la vedo, quando non ci possiamo incontrare, sento montare dentro di me questa gran rabbia. Non so contro cosa, non riesco a capirlo. Ma è una rabbia tremenda, quale non ho mai provato in vita mia. Mi viene voglia di gettare dalla finestra tutto quello che trovo a portata di mano. Le sedie, il televisore, i libri, i piatti, i quadri, tutto quanto. Tanto peggio se rischio di colpire in testa dei passanti, che crepino pure, chi se ne frega! So che è un’idiozia, ma in quei momenti lo penso sul serio. Per ora la mia collera la tengo a bada, naturalmente. Non farei mai una cosa del genere. Ma può darsi che venga un giorno in cui non riesca piú a controllarmi. Che finisca col fare veramente del male a qualcuno. E questo mi fa paura. Perché piuttosto preferirei far del male a me stesso. Non ricordo cosa risposi al riguardo. Probabilmente mi limitai a dire qualche vaga parola d’incoraggiamento. Non capivo bene che significato avesse quella sua collera, cosa suggerisse. Avrei fatto meglio a dargli qualche consiglio concreto. Ma anche se l’avessi fatto, ho l’impressione che non avrei cambiato il suo destino. Pagammo il conto, ci salutammo e ce ne tornammo ognuno alla propria casa. Lui salí su un taxi, la racchetta sotto il braccio, e dall’interno della vettura mi fece un cenno con la mano. E quella fu l’ultima volta che lo vidi. Settembre stava per finire e la temperatura era ancora estiva. Da quel giorno Tokai non si fece piú vedere in palestra. Nei fine settimana io ci andavo spesso, nella speranza di incontrarlo, ma non lo trovavo mai. Nessuno ne sapeva nulla. Sono cose che succedono, nelle palestre. Qualcuno che veniva considerato un frequentatore assiduo, un bel giorno scompare. Una palestra non è un luogo di lavoro. Andarci o meno è una scelta personale. Di conseguenza non attribuii molta importanza alla sua assenza. Passarono cosí due mesi. Un venerdí pomeriggio, verso la fine di novembre, ricevetti una telefonata dal segretario di Tokai. Si chiamava Gotō. Parlava con un tono basso e suadente che mi ricordava la musica di Barry White. Il genere di musica che si sente spesso alla radio nelle notti d’estate. – È triste per me darle questa notizia per telefono, e cosí all’improvviso, signor Tanimura, ma mercoledí della settimana scorsa il dottor Tokai è mancato. Le esequie hanno avuto luogo lunedí, alla sola presenza delle persone intime. – È mancato? – chiesi sbalordito. – Ma se l’ho visto l’ultima volta due mesi fa, e sembrava in ottima salute! Cosa è successo? Dall’altra parte del filo, Gotō esitava a rispondere.

– Senta, c’è un oggetto che il dottore, quando era ancora in vita, mi ha incaricato di consegnarle, signor Tanimura, – disse poi. – So di chiederle molto, ma non potremmo vederci un momento? Penso che in quell’occasione potrò spiegarle tutto. Mi dica dove e quando, e io ci sarò. – Potremmo vederci oggi, questo pomeriggio, – proposi. Gotō rispose che per lui andava bene. Gli indicai un caffè in una via laterale di Aoyama-dōri. Alle sei. Era un posto dove avremmo potuto parlare tranquilli, senza timore di venir disturbati. Gotō non lo conosceva, ma lo avrebbe trovato facilmente. Quando arrivai, alle sei meno cinque, Gotō era già seduto, e vedendomi avanzare verso di lui si alzò immediatamente. Dal timbro basso della sua voce al telefono, mi ero immaginato un uomo dal fisico massiccio, invece era alto e magro. Aveva un bel viso – come mi aveva detto Tokai –, indossava un abito di lana marrone, una camicia bianca coi bottoni al colletto, e una cravatta color mostarda. Un abbigliamento impeccabile. Anche i capelli, piuttosto lunghi, erano molto curati e gli scendevano morbidamente a coprirgli la fronte. Doveva essere sui trentacinque o trentasei anni, e se non avessi saputo da Tokai che era gay, non lo avrei mai indovinato: aveva semplicemente l’aria di un bravo ragazzo vestito in maniera del tutto normale (c’era ancora in lui qualcosa di adolescenziale). La barba era ben rasata ma si intuiva che doveva essere stata folta, cosa rara per un giapponese. Stava bevendo un doppio espresso. Dopo aver scambiato con lui un breve saluto, ordinai la stessa cosa. – Quindi è morto all’improvviso, vero? – chiesi. Gotō socchiuse le palpebre, come se venisse colpito da una forte luce. – Sí. Una morte che ci ha veramente colti di sorpresa. Ma al tempo stesso, una morte terribilmente lenta e dolorosa. In silenzio, aspettavo il seguito. Ma Gotō per un po’ non aggiunse nulla, probabilmente attendeva che mi portassero quello che avevo ordinato. – Io avevo un rispetto sincero per il dottor Tokai, – disse il giovane per cambiare argomento. – Era straordinario, sia come persona, sia come medico. Con infinita pazienza mi ha insegnato un mucchio di cose. Per quasi dieci anni ho avuto l’onore di lavorare nella sua clinica, e se non fosse stato per lui, adesso non sarei quello che sono. Era un uomo franco e sincero, sempre di buonumore, mai arrogante, attento in egual misura a tutte le persone che aveva intorno, e tutte infatti gli volevano bene. Non l’ho mai sentito parlare male di qualcuno, neanche una volta. Dovevo convenire che anche in mia presenza non aveva mai criticato nessuno. – Il dottor Tokai parlava spesso di lei, – dissi. – Era convinto che senza di lei gestire la clinica gli sarebbe stato impossibile, e nella vita privata avrebbe avuto mille complicazioni. Alle mie parole, sulle labbra di Gotō apparve un vago e triste sorriso. – No, non ero tanto prezioso. In quanto segretario, cercavo soltanto di essergli utile, facevo del mio meglio. A modo mio, credo di avercela messa proprio tutta. Per me era una gioia. Quando la cameriera, dopo avermi portato il caffè, si allontanò, finalmente Gotō riprese a parlare della morte di Tokai. – La prima cosa di cui mi sono accorto è che il dottore non pranzava piú. Fino ad allora, nella pausa di mezzogiorno aveva sempre mangiato qualcosa, anche solo un boccone. In questo era piuttosto metodico, pur essendo spesso oberato di lavoro. Ed ecco che a un certo punto ha cominciato a saltare il pranzo. «Perché non prende qualcosa?», gli chiedevo, ma lui mi diceva di non preoccuparmi, semplicemente non aveva appetito. Questo succedeva all’inizio di ottobre. A me quel cambiamento inquietava. Perché il dottore non amava cambiare abitudini, non era quel genere di persona. Dava un’estrema importanza alla regolarità delle sue giornate. E non c’era soltanto il problema del pranzo.

Ben presto aveva smesso anche di frequentare la palestra. Prima ci andava regolarmente tre volte alla settimana. Nuotava, giocava a squash e faceva ginnastica senza risparmiare le energie. Ma aveva perso ogni interesse nell’attività fisica. E aveva iniziato a trascurare il suo aspetto. Lui sempre cosí pulito ed elegante, a poco a poco… come dire? Si era lasciato andare, era sciatto. Gli capitava di mettere gli stessi vestiti anche per tre giorni di fila. Ed era diventato sempre piú taciturno, sembrava assorto tutto il tempo in qualche profonda riflessione, finché non ha piú detto nemmeno una parola. Cadeva sempre piú spesso in uno stato di intontimento. Gli parlavo, ma lui pareva non sentire. E non incontrava piú le sue amanti dopo le ore di lavoro. – Lei era ben piazzato per essere al corrente di quel che faceva, visto che si occupava di organizzare il suo tempo. – Infatti, è cosí. Tanto piú che per il dottore incontrare le sue amanti era l’evento cruciale della giornata. Era la fonte della sua energia. Il fatto che a un certo punto questi incontri si fossero ridotti a zero, comunque la si rigiri, era molto strano. Cinquantadue anni non è un’età in cui si comincia a invecchiare. Probabilmente sa anche lei, signor Tanimura, che il dottor Tokai, per quel che riguardava le donne, aveva sempre condotto una vita piuttosto attiva. – Già, non ne faceva alcun mistero. Ma neppure se ne vantava, era semplicemente molto franco, a questo proposito. Gotō annuí. – Sí, su questo argomento era molto franco. Anche a me raccontava un sacco di cose. Quindi il suo cambiamento improvviso è stato uno shock. Non mi diceva piú niente. Qualunque cosa gli capitasse, se la teneva per sé, non ne parlava. Naturalmente cercavo di fargli delle domande. Le è successo qualcosa di sgradevole? C’è qualcosa che la preoccupa? Ma il dottore si limitava a piegare la testa di lato, senza rivelare quello che aveva nel cuore. Non mi rivolgeva quasi piú la parola. E dimagriva a vista d’occhio, si era ridotto pelle e ossa. Era evidente che non si nutriva a sufficienza. Ma non potevo mettere il naso negli affari suoi piú di tanto. Il dottore era una persona schietta, però non ammetteva quasi nessuno nella sua sfera privata. Per molti anni sono stato il suo segretario personale, ma non sono quasi mai entrato in casa sua. Soltanto quando mi chiedeva di andargli a prendere qualcosa che aveva dimenticato. Le uniche persone che vi avevano libero accesso, forse, erano le donne a cui il dottore era piú intimamente legato. Io potevo soltanto guardare da lontano e fare congetture ansiose. Dette queste parole, Gotō sospirò. Come se si arrendesse di fronte alle «donne a cui il dottore era piú intimamente legato». – Dimagriva a vista d’occhio? – chiesi ripetendo le sue parole. – Esatto. Aveva gli occhi incavati e il viso pallido come carta. Camminando vacillava, non riusciva piú a tenere in mano nemmeno il bisturi. È ovvio che non era piú in grado di fare operazioni chirurgiche. Per fortuna aveva un bravo assistente che temporaneamente operava al posto suo. Ma la situazione non poteva protrarsi a lungo. Io non facevo che telefonare a destra e a manca per disdire gli appuntamenti, la clinica stava rischiando di chiudere. Finché un giorno il dottore ha smesso del tutto di venire. Sí, non si è piú fatto vedere. Questo verso la fine di ottobre. L’abbiamo chiamato a casa, ma non rispondeva. Per due giorni non abbiamo avuto sue notizie. Dato che avevo le chiavi del suo appartamento – me le aveva date lui –, il mattino del terzo giorno sono andato a casa sua e sono entrato. Sapevo che non era una cosa corretta, ma l’apprensione era tale che non ho resistito. Quando ho aperto la porta, ho sentito un odore tremendo. Per terra c’era di tutto, sparso ovunque. Giacche, pantaloni, cravatte, biancheria intima… vestiti che si era tolto e aveva gettato sul pavimento. Probabilmente erano mesi che non metteva ordine lí dentro. Le finestre erano chiuse e l’aria stagnava. Il dottore era sdraiato nel letto, l’aria tranquilla –. Gotō doveva rivedere la scena, perché chiuse gli occhi

e scosse lievemente la testa. – Appena l’ho visto, ho pensato che fosse morto. Stava per venirmi un colpo. Invece era vivo. Ha voltato verso di me il viso scarno e livido, ha aperto gli occhi e mi ha guardato. Ogni tanto batteva le palpebre. Respirava, anche se molto debolmente. Ma non si muoveva, le coperte tirate fino al collo. Ho provato a parlargli: nessuna reazione. Le sue labbra secche e serrate sembravano cucite. La barba gli era cresciuta parecchio. Prima di tutto andai ad aprire la finestra, per cambiare l’aria nella stanza. Visto che non c’erano misure urgenti da prendere, e il dottore non sembrava soffrire, mi sono messo a fare un po’ d’ordine nell’appartamento. Perché era in uno stato davvero terribile. Ho raccolto i vestiti sparsi ovunque, ho messo in lavatrice le cose che si potevano lavare, infilato in una sacca quelle da portare in tintoria. Ho svuotato la vasca che era piena d’acqua sporca, e l’ho pulita. Dalle incrostazioni che vi si erano formate, ho dedotto che non veniva svuotata da molto tempo. Una cosa impensabile per il dottore, un uomo che è sempre stato attento all’igiene. A quanto pareva anche la donna delle pulizie aveva smesso di venire, perché su ogni mobile c’era un velo di polvere. Soltanto una cosa faceva eccezione, il lavello della cucina, che era immacolato. Il che significava che la cucina non veniva piú usata. Alcune bottiglie di acqua minerale erano rotolate a terra, ma di cibo non c’era traccia. Aprii il frigo: ne uscí un odore nauseabondo, indescrivibile. Le cose all’interno – nattō 2, verdura, frutta, latte, sandwich, prosciutto… – erano marcite. Ho messo tutto in una grossa busta di plastica e l’ho portata nello sgabuzzino della spazzatura nel seminterrato del palazzo. Il giovane prese in mano la tazza ormai vuota e la osservò, tenendola inclinata. Poi sollevò di nuovo lo sguardo. – Per riportare l’appartamento a uno stato decente mi ci sono volute tre ore. Per tutto il tempo ho tenuto le finestre aperte, e il cattivo odore alla fine non si sentiva quasi piú. Ma il dottore non aveva ancora detto una parola. Si limitava a seguirmi con gli occhi mentre mi davo da fare nella stanza. Nel suo volto smagrito, gli occhi apparivano molto piú grandi e lucenti del solito. Però non esprimevano alcuna emozione. Mi guardavano, ma non mi vedevano. Mi… mi seguivano soltanto, come lenti di telecamere fisse regolate in modo da sorvegliare tutto ciò che si muove nel campo visivo. Ma se fossi io o meno, cosa stessi facendo, al dottore non sembrava importare nulla. Erano occhi tristissimi. Finché vivrò, non li dimenticherò mai. Poi sono andato a prendere il rasoio elettrico e gli ho rasato la barba. Gli ho passato un asciugamano bagnato sul viso. Lui non opponeva nessuna resistenza. Subiva passivamente qualsiasi cosa. A quel punto ho chiamato il medico di famiglia. Quando gli ho spiegato la situazione, è venuto subito. L’ha visitato e auscultato. E il dottor Tokai restava sempre zitto, nemmeno una parola. Ci guardava con quei suoi occhi assenti, privi di ogni calore. Non so se mi esprimo nel modo giusto, ma non sembrava piú un essere vivente. Sembrava… ecco, qualcuno che ha digiunato per diventare una mummia, ma non ci è riuscito, incapace di liberarsi delle passioni terrene… un sepolto vivo che viene fuori strisciando dalla terra. So che è un’immagine spaventosa, ma è l’impressione che mi fece in quel momento. La sua anima ormai se n’era andata. E non c’era da sperare che tornasse. Semplicemente il suo corpo non aveva ancora ceduto e continuava a muoversi in modo indipendente dalla sua volontà. Pronunciando queste ultime parole, il giovane annuiva convinto. – Chiedo scusa, – proseguí, – mi sto dilungando troppo. Cercherò di essere piú breve. In sintesi, il dottor Tokai soffriva di una forma di anoressia. Non mangiava piú nulla, si teneva in vita solo con un po’ d’acqua. Cioè, parlare di anoressia forse non è esatto. Come lei saprà, è una patologia che di solito colpisce le giovani donne. Vogliono dimagrire per essere piú belle e cercano di mangiare il meno possibile, finché il fatto in sé di perdere peso diventa l’obiettivo principale e non riescono piú a ingoiare nulla. Nei casi estremi, il loro ideale è ridurre il proprio peso a zero. Di conseguenza non è pensabile

che un uomo di mezza età diventi anoressico. Nel caso del dottor Tokai però si trattava di un fenomeno simile. Naturalmente lui non lo faceva per un problema estetico. Se aveva smesso di nutrirsi, a mio parere era perché il cibo non gli passava piú per la gola, alla lettera. – Era quel che si dice «consumarsi per amore»… – Forse, qualcosa del genere, – rispose il giovane Gotō. – Chissà, magari il suo desiderio profondo era di ridursi a zero. Annullarsi. Altrimenti non avrebbe potuto sopportare le sofferenze che dà la morte per fame, le persone normali non ce la fanno. La gioia di vedere il proprio corpo consumarsi era piú forte del dolore. La stessa cosa che provano le ragazze che soffrono di anoressia man mano che perdono peso, insomma. Cercai di immaginare Tokai disteso sul letto, che in preda a un amore cieco dimagriva fino a diventare fragile come una mummia. Ma quella che mi veniva in mente era soltanto l’immagine solare di lui, allegro, sano, elegante e amante della buona tavola. – Il medico gli ha fatto un’iniezione di sostanze nutritive, poi ha chiamato un’infermiera e ha preparato l’occorrente per la flebo. Ma le iniezioni nutritive sappiamo quanto valgono, e riguardo alla flebo, volendo poteva staccare il tubo da solo. Né io potevo restare giorno e notte accanto a lui. Se l’avessimo forzato a mangiare qualcosa, avrebbe di sicuro vomitato. Per il ricovero in ospedale era necessario il suo consenso, non potevamo farlo portare via contro la sua volontà. Ormai il dottor Tokai aveva perso il desiderio di vivere, era determinato a ridursi a zero. Non c’erano cure o iniezioni nutritive che tenessero, non saremmo mai riusciti a invertire la corrente di quel fiume. Potevamo solo incrociare le braccia e guardare i morsi della fame divorare il corpo del dottor Tokai. Sono stati giorni penosissimi. Bisognava fare qualcosa, ma in pratica eravamo impotenti. Ci consolava solo il fatto che il dottore non sembrava soffrire. Perlomeno, io non gli ho mai visto un’espressione sofferente sul viso. Andavo a casa sua ogni giorno, prendevo la posta nella cassetta delle lettere, facevo le pulizie, poi mi sedevo accanto a lui sul letto e gli parlavo di tante cose. Informazioni che ero tenuto a dargli in quanto segretario, discorsi piú frivoli… ma lui non ha mai detto una parola. Non ha mai avuto una reazione. Non sapevo nemmeno se fosse cosciente o meno. Stava fermo in silenzio e mi guardava con i suoi grandi occhi inespressivi. Occhi stranamente trasparenti. Avevo l’impressione di poter vedere dall’altra parte. – È successo qualcosa con una donna? – chiesi. – Lui stesso mi ha raccontato di avere un’intensa relazione con una donna sposata e madre di famiglia. – Sí, è vero. Il dottore da qualche mese si era legato a quella donna in modo sincero, profondo. Cioè, non era la solita relazione occasionale e poco impegnativa. Dev’essere successo qualcosa di grave con lei. Qualcosa che gli ha tolto la voglia di vivere. Ho provato a telefonare a casa di quella signora. Ma non ha risposto lei, è stato il marito a venire al telefono. Gli ho detto che volevo parlare a sua moglie riguardo all’appuntamento che aveva preso alla clinica. Mi ha risposto che la moglie non abitava piú lí. Allora gli ho chiesto dove avrei potuto trovarla, ma lui mi ha detto in tono gelido che non lo sapeva, e ha riattaccato. Gotō rimase qualche secondo in silenzio, quindi riprese: – Per farla breve, poi sono riuscito a rintracciarla. Aveva lasciato il marito e la figlia per andare a vivere con un altro uomo. Per un attimo restai senza parole. Non ci capivo piú nulla. – Mi sta dicendo che alla fine ha piantato sia il marito che il dottor Tokai? – Esatto, in parole povere è cosí, – disse il giovane con una certa riluttanza, e contrasse un poco il viso. – Aveva un terzo uomo. Non conosco la storia nei particolari, ma pare sia uno piú giovane di lei. Questa è solo la mia opinione personale, ma qualcosa mi dice che deve trattarsi di un poco di buono.

Pare che la donna abbia preso il volo con lui, servendosi del dottor Tokai come di una pedana per il salto. L’ha usato come le faceva comodo, insomma. Tutto lascia pensare che il dottore abbia dilapidato una fortuna per lei. Controllando il suo conto in banca e la carta di credito, ho trovato strani movimenti di denaro, grosse somme. Credo che abbia speso un patrimonio in regali costosi. O che le abbia fatto dei prestiti. Di queste elargizioni non sono rimaste prove e i dettagli non sono chiari, ma in ogni caso i soldi che sono stati prelevati in quel periodo ammontano a una cifra importante. Feci un breve sospiro. – Dev’essere stato un colpo terribile, per lui, – dissi. Gotō annuí. – Sí. Se lei lo avesse lasciato dicendogli: «Senti, non posso abbandonare mio marito e mia figlia. Di conseguenza la nostra relazione finisce qui», penso che lui avrebbe potuto accettarlo. Di sicuro sarebbe piombato nello sconforto, perché l’amava veramente, come non aveva mai amato nessuna donna in vita sua, ma non sarebbe giunto a cercare la morte di propria volontà. Insomma, quello che voglio dire è che una volta toccato il fondo, prima o poi sarebbe tornato a galla. Ma scoprire che c’era un terzo uomo, rendersi conto di essere stato cinicamente usato, per il dottore è stata una pugnalata al cuore. Non feci commenti, limitandomi ad ascoltare. – Quando è morto, pesava trentacinque chili. La metà di prima, visto che di solito era un poco sopra i settanta. Le ossa del torace erano cosí sporgenti che sembrava una costa rocciosa con la bassa marea. Si faceva fatica a guardarlo. Mi ricordava le immagini di un documentario che ho visto tanto tempo fa, sui prigionieri ebrei appena liberati da un campo di concentramento nazista, ridotti pelle e ossa. I campi di concentramento. Già. In un certo senso, Tokai aveva avuto una premonizione. «Che cosa sono io? Di recente me lo chiedo spesso». – Dal punto di vista medico, – proseguí il giovane, – è morto per insufficienza cardiaca. Il suo cuore non aveva piú la forza di pompare il sangue. Se posso esprimere il mio parere, però, è stato l’amore a ucciderlo. È morto d’amore, alla lettera. Piú volte ho telefonato a quella donna e l’ho pregata di venire a trovarlo, spiegandole la gravità della situazione. L’ho supplicata in ginocchio. «Venga almeno una volta, anche solo per qualche minuto. È in pericolo di vita, se continua cosí non ce la fa». Ma lei niente. Naturalmente non penso che al dottore sarebbe bastato vederla per riprendersi. Lui aveva già deciso di morire. Ma chissà, forse sarebbe potuto succedere un miracolo… O perlomeno sarebbe morto in condizioni di spirito diverse… A meno che lo stupore di trovarsela davanti non finisse per aggravare la sua confusione mentale, e causargli un’ulteriore e inutile sofferenza. Come posso saperlo? A essere sincero, di questa storia non ci capisco granché. Tranne una cosa, una sola: nessun altro al mondo è mai morto d’inedia per una delusione d’amore. Non lo crede anche lei? Ero d’accordo. In effetti non avevo mai sentito nulla del genere. In questo senso, il dottor Tokai era stato veramente un uomo eccezionale. Quando glielo dissi, il giovane Gotō si coprí la faccia con le mani, e per un po’ tacque. Di sicuro aveva voluto molto bene a Tokai. Avrei voluto consolarlo, ma non c’era nulla che potessi fare. Poco dopo smise di piangere, prese dalla tasca dei pantaloni un fazzoletto bianco pulito e si asciugò le lacrime. – Scusi la debolezza, mostrarmi in questo stato… – Piangere per qualcuno non è una debolezza, – dissi. – Soprattutto per una persona cara che ci è venuta a mancare. Gotō mi ringraziò. – Le sono riconoscente. Le sue parole mi sono d’aiuto, – disse. Poi prese da sotto il tavolo una racchetta da squash nella sua custodia e me la porse: era una magnifica Black Night nuova di zecca. – Questa me l’ha affidata il dottor Tokai. L’aveva ordinata on line, ma quando è arrivata, non aveva

piú la forza di usarla. Cosí mi ha incaricato di regalarla a lei, signor Tanimura. Poco prima di morire, all’improvviso ha ripreso coscienza per qualche minuto e mi ha dato diverse disposizioni importanti. Una riguardava questa racchetta. Se le fa piacere, la usi, per favore. La presi ringraziando. Poi gli chiesi cosa ne sarebbe stato della clinica. – Per il momento abbiamo sospeso l’attività, ma prima o poi verrà chiusa. Oppure verrà venduta con tutti i muri, – rispose lui. – Naturalmente ci sono da organizzare le varie pratiche, quindi credo che potrò dare una mano ancora per qualche tempo. Dopo non so. Anch’io ho bisogno di fare ordine nella mia anima. Non sono ancora in condizioni di pensare seriamente al futuro. Auguravo sinceramente a quel giovane di riprendersi dallo shock e vivere una vita felice. – Signor Tanimura, – mi disse quando ci salutammo, – so di chiederle molto, ma vorrei pregarla di una cosa: non dimentichi mai il dottor Tokai. Perché era una persona dal cuore infinitamente puro. Inoltre penso che la sola cosa che possiamo fare per i morti sia cercare di ricordarli il piú a lungo possibile. Ma è piú difficile farlo che dirlo. Non è qualcosa che ci si possa aspettare da chiunque. Risposi che aveva ragione. Conservare il ricordo delle persone scomparse non è semplice come tutti pensano. Promisi che avrei fatto ogni sforzo per non scordare il dottor Tokai. Non ero in grado di giudicare fino a che punto il suo cuore fosse puro, ma sapevo per certo che non era una persona banale, e valeva la pena riservargli un posto nella memoria. Ci separammo con una stretta di mano. Di conseguenza, per non dimenticare il dottor Tokai, sto scrivendo questo testo. Per me, mettere le cose per iscritto è il mezzo piú efficace per non lasciarle cadere nell’oblio. Al fine di non recar danno a nessuno ho cambiato i nomi di persone e luoghi, ma i fatti sono autentici, e sono avvenuti esattamente come li ho raccontati. E spero tanto che il giovane Gotō, dovunque sia, legga queste pagine. C’è un’altra cosa che ricordo bene, riguardo al dottor Tokai. Ora non rammento perché fossimo venuti a parlare di quest’argomento, ma una volta lui mi espose la sua opinione sulle donne in genere. Era sua convinzione personale che ogni donna nascesse dotata di un organo speciale, un organo per cosí dire indipendente, che le permetteva di dire bugie. Quali bugie, in quali circostanze e in quale modo, dipendeva da una donna all’altra, con piccole variazioni. Ma tutte a un certo punto mentivano, senza esitazioni. Sia su dettagli di poco conto, sia su cose gravi. In quei momenti la loro espressione, il loro tono di voce, non si alteravano. Perché non erano loro, le donne in questione, ad agire, ma l’organo indipendente di cui erano provviste. Ragion per cui non succedeva mai che la consapevolezza di mentire turbasse la loro coscienza o impedisse loro di dormire serenamente – a parte alcuni casi eccezionali. Parlava in tono cosí sicuro quella volta, il dottor Tokai, che lo ricordo ancora benissimo. Quanto a me, fondamentalmente non posso che essere d’accordo con lui, ma su alcuni punti dissento. Forse lui e io, arrampicandoci per sentieri diversi, siamo arrivati sulla stessa malagevole vetta. È certo che prima di morire ha avuto modo di verificare, senza trarne alcuna gioia, quanto la sua teoria fosse esatta. Non è necessario dire che mi fa molta pena, rimpiango dal profondo del cuore che se ne sia andato cosí. Ci vuole molta determinazione per rifiutare il cibo e lasciarsi morire resistendo ai morsi della fame. La sofferenza, sia fisica che spirituale, dev’essere tale che solo chi l’ha provata la può comprendere. Tuttavia, il fatto che lui abbia amato una donna – a prescindere dal valore di lei – al punto da desiderare l’annullamento della propria persona, in un certo senso lo ritengo invidiabile, non posso fare a meno di pensarlo. Volendo, avrebbe potuto continuare a condurre la sua vita brillante e godere di tante piacevolezze nel suo angolo della città. A frequentare diverse donne contemporaneamente, a bere ottimo Pinot nero, a suonare My Way sul piano a coda del suo appartamento. Invece era caduto in preda a un amore tanto profondo da non riuscire piú a ingoiare

nulla, da inoltrarsi in un territorio del tutto sconosciuto e vedere paesaggi mai visti prima, infine cercare intenzionalmente la morte. Per usare le parole del giovane Gotō, il dottor Tokai si era ridotto a zero. Quale delle due esistenze fosse per lui piú autenticamente felice, o quale fosse piú vera, non sta a me giudicarlo. Al pari di Gotō, non so quale via predestinata lui abbia seguito quell’anno da settembre a novembre, non ci capisco niente. Gioco ancora a squash, ma dopo la morte di Tokai, anche perché nel frattempo ho traslocato, ho cambiato palestra. In quella che frequento adesso, di solito gioco con un allenatore professionista. Costa, ma è molto piú semplice cosí. La racchetta che mi ha lasciato Tokai non la uso quasi. È un po’ troppo leggera per me. E quando la tengo in mano, quando la soppeso, non posso fare a meno di pensare al suo corpo ridotto pelle e ossa. «Quando il suo cuore si muove, trascina anche il mio. Come due barche attaccate l’una all’altra da una corda. Anche volessi tagliarla, quella corda, non ho strumenti abbastanza affilati per farlo». Col senno di poi, viene da pensare che si fosse legato alla barca sbagliata. Ma possiamo dare un giudizio del genere con tanta facilità? A mio avviso, come quella donna (forse) ha mentito in balia di un organo indipendente, allo stesso modo per il dottor Tokai innamorarsi è stato un atto subordinato, qualcosa che la sua volontà non era in grado di impedire in alcun modo. Anche se le implicazioni sono diverse. È troppo facile dall’esterno, a posteriori, mettere in discussione con supponenza il comportamento di qualcuno o scuotere la testa con commiserazione. Se nel nostro operato non intervenisse un organo che ci spinge ad altezze vertiginose o ci fa precipitare storditi in fondo al baratro, un organo che a volte ci mostra splendide visioni, a volte ci induce a cercare la morte, la nostra vita sarebbe una cosa ben squallida. Si ridurrebbe a una serie di abitudini. Cos’abbia pensato o provato Tokai di fronte a una morte che aveva scelto di sua volontà, naturalmente non possiamo saperlo. Ma nel suo profondo dolore, nella sua profonda angoscia, tornò in sé, seppure per un momento, per dire di consegnarmi la sua racchetta da squash. Può darsi che abbia affidato a quel dono un qualche messaggio. Che volesse farmi sapere di essere riuscito a trovare, arrivato vicino alla fine, una risposta alla domanda: «Che cosa sono io?» È questa la mia impressione.

1 Baci rubati, del 1968 [N.d.T.]. 2 Fagioli di soia bolliti e fatti fermentare [N.d.T.].

Shahrazād

Ogni volta che facevano sesso, la donna gli narrava una storia bellissima, appassionante. Come la Shahrazād delle Mille e una notte. È ovvio che Habara, contrariamente al sultano della leggenda, non aveva alcuna intenzione di tagliarle la testa al sorgere del sole (tanto per cominciare, lei non era mai rimasta fino al mattino). La donna semplicemente amava raccontare. O forse desiderava anche portare qualche conforto a lui, obbligato a stare tutto il tempo solo e chiuso in casa. Ma non doveva essere l’unico motivo, supponeva Habara, probabilmente apprezzava il piacere di parlare con un uomo, accanto a lui nel letto, nel languore e nell’intimità che seguono a un rapporto sessuale. Habara la chiamava Shahrazād. Era il nome che segnava nella sua agenda nei giorni in cui la donna veniva da lui. Poi riassumeva brevemente la trama dell’ultima storia, ma in modo che nessuno, leggendo quelle note, ci capisse qualcosa. Habara non sapeva nemmeno se le storie che lei raccontava fossero realmente accadute o frutto della sua fantasia, se fossero in parte o del tutto inventate. Verità e immaginazione, osservazione e sogno erano confusi in modo inestricabile, e orientarsi in questo groviglio non gli era possibile. Di conseguenza si limitava ad ascoltare senza porsi domande. Tanto per lui, nelle sue condizioni, che le storie fossero vere o no, che fossero complicati mosaici di realtà e fantasia, che importanza poteva avere? In ogni caso, Shahrazād aveva la capacità di catturare la sua attenzione. Di qualunque genere di vicenda si trattasse, raccontata da lei diventava qualcosa di straordinario. Il tono, il modo di ritmare le pause, di procedere nella narrazione, tutto era perfetto. Shahrazād sapeva suscitare l’interesse di una persona, tenerla perfidamente sulla corda, farla riflettere e ipotizzare, e alla fine darle esattamente quello che cercava. La sua abilità, tanto perfetta da essere addirittura detestabile, faceva scordare all’ascoltatore la realtà, anche solo per un’ora. Come uno straccio umido passato su una lavagna, faceva scomparire ricordi sgradevoli che non se ne volevano andare, preoccupazioni cui si preferiva non pensare. E tanto bastava, si diceva Habara. Anzi, dimenticare, in quel momento, era la sua aspirazione piú grande, quello che desiderava piú di ogni altra cosa. Shahrazād aveva trentacinque anni – quattro piú di Habara –, essenzialmente era una casalinga (benché avesse il diploma d’infermiera e ogni tanto, all’occorrenza, venisse chiamata per qualche lavoro), aveva due figli in età scolare e un marito impiegato in una ditta. Abitava a una ventina di minuti in macchina da Habara, e questo era piú o meno tutto quello che gli aveva detto di se stessa. Naturalmente lui non aveva modo di controllare se fosse vero o falso. Né vedeva qualche ragione particolare per metterlo in dubbio. Il suo nome non gliel’aveva detto. «Che bisogno hai di saperlo?», gli aveva chiesto. E aveva perfettamente ragione. Per lui era soltanto Shahrazād, e per il momento era sufficiente. Nemmeno lei lo chiamava mai «Habara»; evitava con prudenti giri di frasi di dire il suo nome – che doveva per forza conoscere –, quasi che pronunciarlo fosse qualcosa di infausto o disdicevole. Anche a essere molto generosi, non si poteva paragonare Shahrazād a una delle incantevoli

principesse che comparivano nelle Mille e una notte. Era una casalinga di provincia che aveva iniziato a metter su grasso superfluo in varie parti del corpo e si avviava seriamente a entrare nel territorio della mezza età. Il mento le si era ispessito, agli angoli degli occhi le si erano formate piccole rughe. Anche nel taglio dei capelli, nel modo di vestirsi e di truccarsi, benché non fosse trascurata, non la si poteva certo definire elegante. Il suo viso non era affatto brutto, ma era insignificante e passava inosservato. Incrociandola per la strada, salendo con lei nello stesso ascensore, la maggior parte della gente non l’avrebbe degnata di un’occhiata. Forse una decina di anni prima era stata anche lei una ragazza carina e piena di vita, e piú di un uomo si era voltato a guardarla. Ma anche ammettendo che fosse cosí, su quei giorni a un certo punto era calato il sipario. E per il momento nulla lasciava pensare che si sarebbe alzato di nuovo. Shahrazād veniva alla «house» due volte alla settimana. Non a giorni fissi, però non capitava mai che si presentasse nel weekend. Probabilmente il sabato e la domenica li trascorreva con la famiglia. Circa un’ora prima di arrivare, telefonava. Strada facendo passava da un supermercato a comprare dei prodotti alimentari e li caricava in macchina – una Mazda azzurra di piccola cilindrata, un vecchio modello con un’appariscente ammaccatura sul paraurti posteriore e i cerchioni delle ruote neri di sporcizia. Parcheggiava nello spazio riservato alla «house», sollevava il portellone, prendeva la busta della spesa, e tenendola con tutte e due le braccia suonava il campanello della porta d’ingresso. Habara, dopo aver controllato dallo spioncino che fosse Shahrazād, girava la chiave, toglieva la catena e apriva. Lei andava direttamente in cucina, suddivideva le vettovaglie acquistate e le metteva nel frigo. Poi faceva la lista delle cose da portare la volta dopo. Doveva essere una padrona di casa efficiente, perché lavorava con gesti esperti, senza spreco di energia. Mentre sbrigava le sue faccende, non parlava quasi. Conservava per tutto il tempo un’espressione seria e concentrata. Una volta terminata quell’operazione, i due, senza che l’iniziativa venisse dall’uno o dall’altra, si spostavano con naturalezza verso la camera da letto, come portati da una corrente invisibile. Lí si toglievano in fretta e in silenzio i vestiti, e si infilavano tra le lenzuola. Si abbracciavano quasi senza scambiarsi una parola e facevano sesso attenendosi grossomodo alle fasi usuali, quasi unissero le forze per assolvere insieme un compito. Quando lei aveva le mestruazioni, per ottenere lo scopo usava le mani. Il suo tocco esperto e professionale ricordava sempre a Habara che era un’infermiera diplomata. Terminato il rapporto sessuale, restavano distesi uno accanto all’altra a parlare. Cioè era lei che parlava, lui si limitava a fare ogni tanto un cenno, o una breve domanda. E quando le lancette dell’orologio segnavano le quattro e mezza, Shahrazād si interrompeva, anche se era nel bel mezzo della storia (stranamente, succedeva sempre sul piú bello), usciva dal letto, raccoglieva gli indumenti che erano rimasti sparsi sul pavimento, si rivestiva e si preparava ad andarsene. Perché doveva andare a cucinare la cena, diceva. Habara la riaccompagnava fino all’ingresso, richiudeva la porta con tanto di catena, e da uno spiraglio nelle tende guardava la malconcia automobile azzurra allontanarsi. Verso le sei si preparava una semplice cena con gli ingredienti che trovava nel frigo, e mangiava da solo. Per un certo periodo era stato cuoco, quindi cucinare per lui non era un problema. Durante i pasti beveva acqua minerale (non toccava alcol), poi si faceva un caffè, guardava dei film in dvd, oppure leggeva (poteva leggere per ore, di preferenza libri che meritavano piú di una lettura). Cosí passava le sue giornate. Non aveva nessuno con cui parlare. Nessuno cui telefonare. Privo anche di un computer, non poteva accedere a internet. Non riceveva i giornali, né guardava la televisione (c’era un valido motivo). E naturalmente non poteva uscire. Se per qualche ragione Shahrazād non si fosse piú fatta vedere, avrebbe perso ogni contatto col mondo esterno e sarebbe rimasto solo come un naufrago su un’isola deserta, letteralmente. Questa possibilità però non lo metteva in ansia. Habara sapeva di essere in una situazione che

doveva sistemare con le sue forze. Una situazione difficile, dalla quale tuttavia sarebbe venuto fuori. Non si trovava su un’isola deserta, lui «era» un’isola deserta, si diceva. Alla solitudine era abituato e non lasciava che agisse sui suoi nervi. Quello che lo preoccupava, piuttosto, era il fatto che se fosse rimasto del tutto solo, non avrebbe piú potuto parlare con Shahrazād nel letto. O, piú esattamente, non avrebbe potuto sentire il seguito della storia che lei gli stava raccontando. Poco dopo essersi assuefatto alla «house», Habara iniziò a farsi crescere la barba, che aveva piuttosto folta. Naturalmente voleva cambiare l’aspetto del suo viso, ma non era l’unica ragione. Il motivo principale era l’ozio forzato. Con la barba lunga, tutti i momenti poteva portare la mano al mento, alle basette, ai baffi e godere di quella sensazione. Poteva passare parecchio tempo a modellarne la forma con forbici e rasoio. Fino ad allora non ci aveva mai fatto caso, ma farsi crescere la barba era un ottimo antidoto alla noia. – Nella mia vita precedente ero una lampreda, – gli disse una volta Shahrazād a letto. Senza scomporsi, come se gli spiegasse una cosa ovvia, tipo che il Polo Nord si trova a settentrione. Che aspetto aveva una lampreda? Come viveva? Habara non ne aveva la minima idea. Di conseguenza non fece commenti. – Sai come fa una lampreda a mangiare una trota? – gli chiese Shahrazād. – No, non lo so, – rispose Habara. Era la prima volta che sentiva che le lamprede mangiavano le trote. – Le lamprede non hanno mento. È la grossa differenza con le anguille. – Perché? Le anguille ce l’hanno? – L’hai mai guardata bene, un’anguilla? – fece lei meravigliata. – Qualche volta l’ho mangiata, ma non ho mai avuto occasione di vederne una intera. – Be’, una volta prova a osservarne una. Magari vai all’acquario. L’anguilla ha il mento e ha i denti. La lampreda invece non ha la mascella inferiore. In compenso la bocca è una specie di ventosa, una ventosa con la quale si attacca alle rocce in fondo ai canali e ai laghi. Poi si capovolge e si mette a fluttuare. Come un’alga, insomma. Habara provò a immaginare tante lamprede in fondo all’acqua che fluttuavano come alghe. Era una scena distaccata dalla realtà. Ma sapeva bene che la realtà a volte si distacca da se stessa. – In pratica le lamprede vivono grazie alle alghe, fra le quali si nascondono. E quando una trota passa sopra di loro, vanno su veloci e si attaccano alla sua pancia. Con la ventosa. Aderiscono alla trota come sanguisughe e vivono a spese sue. All’interno della ventosa c’è una specie di lingua fornita di denti, che usano come una lima per aprire un buco nel corpo del pesce e mangiarne a poco a poco la carne. – Be’, non vorrei essere una trota, – disse Habara. – Si dice che nell’antica Roma avessero delle vasche dove le allevavano, le lamprede, gli schiavi disobbedienti e ribelli venivano gettati vivi lí dentro e dati loro in pasto. Non avrei nemmeno voluto essere uno schiavo nell’antica Roma, pensò Habara. Né nell’antica Roma né in nessun’altra epoca, a dire il vero. – Ho visto per la prima volta una lampreda quando ero alle elementari, all’acquario, e quando ho letto le spiegazioni sul loro modo di vita, tutt’a un tratto mi sono resa conto che quello era stato il mio mondo precedente, – disse Shahrazād. – Ne ho dei ricordi molto vividi. Stavo attaccata alle rocce in fondo all’acqua, fluttuavo camuffata tra le alghe e guardavo in alto le grasse trote che passavano sopra di me. – Ricordi di averne mangiata una?

– No, questo no. – Meno male… – fece Habara. – Non ricordi altro di quando eri una lampreda? Solo che ondeggiavi in fondo all’acqua? – Non è che si possa ricordare tutto in modo chiaro, del mondo precedente, – disse lei. – Se si è fortunati, a volte ce ne torna in mente un frammento per associazione di idee. Come se all’improvviso si guardasse dall’altra parte di un muro attraverso un forellino. Di quello che c’è al di là, se ne vede soltanto un pezzetto. Tu ti ricordi qualcosa, della tua vita precedente? – No, nulla, – rispose Habara. E a dire la verità non aveva nemmeno voglia di ricordarla. Quella presente bastava e avanzava. – Non era male però vivere in fondo all’acqua, sai? Con la bocca saldamente attaccata a una roccia, a guardare i pesci che passavano sopra di me. C’erano anche tartarughe enormi. Viste dal basso sembravano scure e gigantesche, come le astronavi dell’Impero in Guerre stellari. Grandi uccelli bianchi dal becco lungo e affilato attaccavano i pesci come fossero dei sicari. Visti dal fondo dell’acqua, gli uccelli sembravano nuvole che vagavano nel cielo azzurro. Ma a noi, che vivevamo giú, camuffate in mezzo alle alghe, non potevano fare niente. – È uno scenario che riesci ancora a vedere? – In modo chiarissimo, – disse Shahrazād. – La luce che c’era, la sensazione dell’acqua che scorreva… Ricordo anche le cose che pensavo all’epoca. E a volte riesco persino a entrarci, in quello scenario. – Le cose che pensavi? – Sí. – Perché? Pensavi a qualcosa, là sotto? – È ovvio. – E a cosa pensa, una lampreda? – Pensa cose da lampreda. Argomenti da lampreda, contesti da lampreda… ma non si possono tradurre nel nostro linguaggio. Perché sono idee appartenenti alle creature che vivono nell’acqua. È come per i bambini che sono ancora nell’utero. Sappiamo che hanno delle idee, ma non le possono esprimere con le parole che usiamo noi che siamo al mondo. Non credi? – Non dirmi che ricordi anche quello che pensavi quando eri nella pancia di tua madre, – fece Habara stupito. – Certo che lo ricordo, – disse Shahrazād in tono noncurante. E inclinò un poco la testa che teneva posata sul petto di lui. – Tu no? No, rispose Habara. – Be’, prima o poi te ne parlerò. Del tempo in cui ero ancora un feto. Quella sera Habara segnò sulla sua agenda Shahrazād, lampreda, mondo precedente. Se qualcuno avesse letto, non avrebbe capito nulla. Aveva incontrato Shahrazād quattro mesi prima. Era stato mandato in quella «house» che si trovava in una piccola città nel Nord del Kantō, e si era visto assegnare come «addetta al collegamento» una donna che viveva nelle vicinanze. Il compito di questa donna era comprare per lui, che non poteva uscire, generi alimentari e tanti altri prodotti d’uso quotidiano, e portargli il tutto a casa. Gli procurava anche i libri, le riviste e i cd che lui le indicava. Succedeva anche che arrivasse con qualche film in dvd (con quale criterio li scegliesse, Habara non l’aveva mai capito). Quando Habara si era abituato alla sua nuova condizione, dalla settimana seguente Shahrazād l’aveva portato a letto, quasi fosse uno sviluppo ovvio del loro rapporto. Si era anche munita di profilattici. Poteva darsi che fosse una delle «attività di

supporto» che le erano state assegnate. In ogni caso, la proposta era venuta da lei senza imbarazzo o esitazioni, inserendosi in modo naturale nel corso degli eventi, quindi Habara non aveva osato opporsi. Si era docilmente infilato con lei nel letto e l’aveva presa tra le braccia, senza capire bene la logica della situazione. Il sesso con Shahrazād non si poteva certo dire che fosse appassionato, ma nemmeno una cosa soltanto tecnica. Anche supponendo che all’inizio lei lo considerasse solo uno dei suoi compiti (o doveri), da un certo punto in poi aveva iniziato a trovarvi – almeno in parte – un certo piacere. Habara lo sentiva dai sottili cambiamenti che percepiva nel suo corpo, e ne era piuttosto contento. Comunque la si mettesse, lui non era un animale selvatico messo in gabbia, ma una persona dotata di una delicata emotività. Un atto sessuale finalizzato solo a soddisfare la sua libido, benché in una certa misura gli fosse necessario, non lo appagava piú di tanto. Detto ciò, non riusciva a distinguere fino a che punto Shahrazād lo facesse per dovere, e quanto invece attenesse alla sua sfera personale. E non si trattava soltanto del sesso. Tutte le mansioni che la donna svolgeva per lui rientravano nei suoi compiti oppure erano qualcosa che faceva di sua iniziativa, per un suo desiderio (ammesso che si potesse parlare di desiderio in questo caso)? Anche questo Habara non lo sapeva. Shahrazād era una donna di cui era difficile capire sia le emozioni che gli intenti. Ad esempio, di solito indossava semplice biancheria di cotone, priva di fronzoli. Il genere di cose che mette una casalinga fra i trenta e i quarant’anni (una congettura di Habara, che da parte sua non aveva mai avuto rapporti con casalinghe di quell’età). Roba che aveva probabilmente comprato in saldo in qualche grande magazzino. In certi giorni però sfoggiava completi intimi provocanti, concepiti per sedurre. Dove se li procurasse non era chiaro, ma si trattava di capi di eccellente qualità. Capi delicati di colore intenso, di splendida seta e pizzo raffinato. Da dove nascevano quelle differenze estreme, in quali circostanze e con quale scopo? Per Habara non era possibile venirne a capo. Un’altra cosa che lo impensieriva era che l’atto sessuale con Shahrazād e le storie che lei gli raccontava formavano una cosa sola: sesso e storie erano legati al punto che non riusciva piú a separarli. Isolare l’uno o l’altro elemento gli era semplicemente impossibile. Essere coinvolto in modo cosí profondo, diciamo pure essere legato mani e piedi, a una donna di cui non era innamorato, per la quale non nutriva una particolare passione, era una condizione per lui del tutto nuova che lo confondeva un po’. – Quando ero adolescente, – attaccò una volta Shahrazād mentre erano a letto, – ogni tanto mi intrufolavo di nascosto nella casa dei vicini. Habara – come succedeva riguardo alla maggior parte delle storie che lei gli raccontava – non riuscí a fare un commento pertinente. – A te è mai capitato, di intrufolarti di nascosto in casa di qualcuno? – No, mai, credo, – si limitò a rispondere Habara. – Sono cose che se le fai una volta, poi prendi il vizio. – Ma è illegale. – Infatti. Se ti beccano, finisci in galera. La violazione di domicilio con furto, o tentativo di furto, è un crimine piuttosto grave. Eppure, anche se sapevo che era male, non riuscivo a farne a meno. Habara ascoltava il seguito senza fiatare. – La cosa piú bella, quando si entra in casa di qualcuno in sua assenza, è il silenzio. Non so perché, ma c’era sempre una pace assoluta. Avevo l’impressione di essere nel posto piú quieto del mondo. In quell’atmosfera, se mi sedevo sul pavimento e non mi muovevo, potevo tornare facilmente al tempo in

cui ero una lampreda, – disse Shahrazād. – Era una sensazione fantastica. Ti ho raccontato, vero, che nella vita precedente ero una lampreda? – Sí, me l’hai raccontato. – Be’, provavo di nuovo le stesse cose: attaccata con la ventosa a una roccia sul fondo, portavo la coda in alto e fluttuavo dolcemente nell’acqua. Come le alghe intorno a me. Il silenzio era profondo, non si sentiva il minimo suono. E del resto, forse, non avevo neppure le orecchie. Nei giorni di sole la luce arrivava dalla superficie dell’acqua dritta come una freccia. A volte si scomponeva in un prisma luccicante. Pesci di forme e colori diversi mi passavano sopra la testa. Non pensavo a nulla. O diciamo che avevo solo idee da lampreda. Idee confuse, eppure limpide. Non trasparenti, cioè, ma prive di impurità. E io ero me stessa, ma contemporaneamente non lo ero. Provare questa sensazione era qualcosa di meraviglioso. La prima volta che Shahrazād si era intrufolata in casa d’altri, frequentava il secondo anno di liceo – il liceo pubblico del quartiere – e si era innamorata di un suo compagno di classe. Un ragazzo alto che giocava a calcio e aveva ottimi voti in tutte le materie. Non si poteva dire che fosse bello, ma era molto simpatico e sempre in ordine. Peccato che non ricambiasse la passione di Shahrazād, come spesso succede negli amori fra liceali. Non la degnava di uno sguardo, probabilmente innamorato a sua volta di una ragazza di un’altra classe. Non le aveva mai rivolto la parola e forse non si era nemmeno accorto della sua esistenza. Eppure Shahrazād non riusciva a mettersi il cuore in pace. Ogni volta che lo vedeva, per l’agitazione le veniva l’affanno, a volte addirittura la nausea. Doveva fare qualcosa, se non voleva impazzire. Ma dichiarargli il suo amore non sarebbe stata la mossa giusta. Al contrario: sarebbe stata pura follia. Un giorno Shahrazād saltò la scuola e andò a casa di quel ragazzo. Dalla propria abitazione, ci mise una quindicina di minuti a piedi. In quella famiglia non c’era piú il padre – un uomo che aveva lavorato in un cementificio ed era morto alcuni anni prima in un incidente stradale. La madre insegnava giapponese in una scuola media del comune vicino. Anche la sorella minore frequentava le medie, quindi all’ora di pranzo in casa non doveva esserci nessuno. Lei lo sapeva perché prima aveva raccolto le informazioni necessarie. La porta naturalmente era chiusa a chiave. Shahrazād provò a guardare sotto lo zerbino davanti all’ingresso. La chiave era lí. In quel tranquillo quartiere residenziale di quella cittadina di provincia non c’erano criminali in giro, e la gente non si preoccupava molto della sicurezza. Succedeva spesso che si lasciasse la chiave sotto lo zerbino o sotto un vaso, nel caso qualcuno della famiglia restasse chiuso fuori. Ad ogni buon conto, Shahrazād suonò il campanello e aspettò un poco, ma non successe nulla. Dopo essersi guardata intorno per controllare che non la vedesse nessuno dei vicini, aprí. Entrò e chiuse a chiave dall’interno. Si tolse le scarpe, le infilò in una busta di plastica e le mise nello zainetto che aveva sulle spalle. In punta di piedi salí la scala. Come aveva previsto, la stanza di lui si trovava al primo piano. Il letto dalla struttura in legno era rifatto alla perfezione. C’erano scaffali carichi di libri, un armadio, una scrivania. Su un cassettone vide un mini-stereo e alcuni cd. Alle pareti color crema erano appesi solo un calendario della squadra di calcio del Barcellona e una specie di gagliardetto, nient’altro, né poster né quadri. Alla finestra c’erano tendine bianche. Tutto era pulito e ordinato. Niente libri o vestiti lasciati in giro. Sulla scrivania ogni cosa – penne, matite, gomme… – era al suo posto. La stanza rivelava chiaramente il carattere scrupoloso del suo proprietario. Ma forse era la madre a rimettere tutto perfettamente in ordine. O magari entrambi. Shahrazād era tesa. Perché in una camera trasandata e sottosopra, se lei inavvertitamente avesse spostato qualcosa, nessuno se ne sarebbe accorto. Sarebbe stato preferibile, pensò. Invece cosí

doveva muoversi con molta attenzione. Al tempo stesso era contenta di aver trovato una stanza semplice e pulita, tenuta con cura. Rifletteva bene la personalità di lui. Si sedette sulla sedia davanti alla scrivania e per un po’ rimase lí senza fare niente. Al pensiero che lui, ogni giorno, studiava seduto dov’era lei adesso, sentí accelerare i battiti del cuore. Prese in mano a uno a uno gli oggetti che erano sul ripiano, dal primo all’ultimo – le matite, le forbici, il righello, la spillatrice, il calendario da tavola… – e li carezzò, li annusò, li baciò. Appartenevano a lui, e tanto bastava perché quelle cose banali brillassero per lei di luce propria. Poi aprí uno dopo l’altro i cassetti della scrivania e ne ispezionò attentamente il contenuto. Nel primo c’erano fogli e quaderni e, in un angolo, un souvenir di qualche viaggio. Nel secondo cassetto c’erano i quaderni che lui usava a scuola, nel terzo (il piú basso) altri fogli, vecchi fascicoli e verifiche corrette. Solo materiale che aveva a che fare con lo studio o con la squadra di calcio. Nessun oggetto importante. Non trovò nulla di quello che sperava, un diario o delle lettere… Nemmeno una fotografia. Le sembrò un po’ strano. Possibile che quel ragazzo, a parte la scuola e il calcio, non avesse alcun interesse personale? Oppure quel genere di cose le teneva nascoste da un’altra parte, in un posto dove non rischiavano di finire sotto occhi indiscreti? Tuttavia, già solo a stare seduta sulla sua sedia, a guardare i fogli dove aveva scritto lui, Shahrazād si sentiva colma di felicità. Di quel passo, forse sarebbe uscita di senno. Per calmarsi, si alzò e si sedette sul pavimento. Alzò gli occhi al soffitto. Tutt’intorno regnava sempre un silenzio assoluto. E fu cosí che si trasformò in una lampreda in fondo all’acqua. – Tutto qui? Sei entrata nella sua stanza, hai preso in mano vari oggetti, e sei rimasta cosí, senza fare niente? – No, non è tutto, – disse Shahrazād. – Volevo avere qualcosa di suo. Volevo portarmi a casa qualcosa che lui usava ogni giorno, che si metteva addosso. Ma non poteva essere un oggetto cui teneva. Altrimenti si sarebbe accorto subito della sua mancanza. Quindi gli ho soltanto rubato una matita. – Una matita? – Sí, una matita già usata. Ma non penso di aver commesso un banale furto. Sarei stata una ladruncola da quattro soldi. Avrei perso la mia dignità di persona. Invece ero una «ladra d’amore». «Ladra d’amore», pensò Habara. Sembrava il titolo di un film muto. – In compenso, ho voluto lasciare un segno, prima di andarmene. Una prova che ero stata lí. Per dimostrare che non si era trattato di un furto, ma di uno scambio. Però cosa potevo lasciare? Non mi veniva in mente nulla di adeguato. Ho frugato nello zainetto e nelle tasche, alla ricerca di qualcosa che potesse assumere il significato di un segno, ma non ho trovato niente. Avrei dovuto pensarci prima, ormai era tardi… non mi restava che lasciare lí un tampax. Un tampax non ancora usato, naturalmente, che ho preso dal pacchetto. Li avevo con me perché ero vicina al ciclo. Ne misi uno nell’ultimo cassetto della sua scrivania, in fondo, non l’avrebbe trovato facilmente. Forse a causa dell’agitazione, quella volta le mestruazioni mi sono venute subito dopo. Una matita e un tampax, pensò Habara. Doveva scriverlo nella sua agenda. Ladra d’amore, matita, tampax. Sfidava chiunque a capirci qualcosa. – Quella volta, credo di essere rimasta lí al massimo una quindicina di minuti. Era la prima volta che entravo di nascosto in casa d’altri, quindi per tutto il tempo sono stata in ansia, temevo che qualcuno tornasse all’improvviso e avevo fretta di andarmene. Dopo aver gettato uno sguardo per la strada sono scivolata fuori, ho di nuovo chiuso a chiave la porta, e ho rimesso la chiave al suo posto sotto lo zerbino. Poi sono andata a scuola. Con la preziosa matita che aveva usato lui.

Arrivata a questo punto, Shahrazād per un po’ non aprí bocca. Sembrava che stesse rivedendo mentalmente quegli eventi passati. – Per tutta la settimana successiva, ogni giorno mi sentivo soddisfatta come non lo ero mai stata prima, – proseguí Shahrazād. – Tutti i momenti scrivevo sul quaderno con la matita di lui, anche se non era necessario. La annusavo, la baciavo, me l’appoggiavo sulla guancia, la strofinavo con le dita. A volte la leccavo persino. Col risultato che diventava sempre piú corta, cosa che mi rattristava molto. Ma non ci potevo fare nulla. Quando si sarebbe consumata del tutto, bastava che andassi a rubarne un’altra. Ecco cos’avevo in mente. Nel contenitore delle penne sulla sua scrivania, di matite usate ce n’erano parecchie. Se ne mancavano una o due, non l’avrebbe notato. Forse non s’era nemmeno accorto che in fondo a un cassetto c’era il mio tampax. A quel pensiero mi sentivo molto eccitata. Provavo uno strano prurito alla schiena. Per sopportarlo dovevo sfregare forte le ginocchia sotto il banco. Non aveva importanza se nella vita reale quel ragazzo non mi vedeva neanche, non si accorgeva nemmeno che esistessi. Perché a sua insaputa mi ero procurata qualcosa che era parte di lui. – Era una specie di rituale magico, insomma, – disse Habara. – Esatto. In un certo senso, forse era un atto di magia. In seguito, quando ho letto dei libri sull’argomento, mi sono venute in mente alcune cose. Ma all’epoca ero ancora al liceo e il mio pensiero non si spingeva fin lí. Ero semplicemente trascinata dal mio desiderio di lui. Quando si prendono certi rischi, prima o poi può essere fatale. Se venivo colta in flagrante mentre entravo in casa d’altri in assenza dei proprietari, sarei stata espulsa da scuola, la cosa si sarebbe saputa e non avrei piú potuto vivere in questa città, probabilmente. Non facevo che ripetermelo. Ma non serviva a nulla. Non ero piú in condizioni di ragionare lucidamente. Trascorsi dieci giorni, di nuovo Shahrazād saltò la scuola e andò a casa del ragazzo. Erano le undici del mattino. Come la prima volta, prese la chiave da sotto lo zerbino davanti all’ingresso ed entrò. Salí direttamente al primo piano. Trovò la camera di lui in ordine perfetto, il letto rifatto con cura. Tanto per cominciare, prese in mano una lunga matita già usata e la mise con devozione nel proprio portapenne. Poi, con molta titubanza, si sdraiò sul letto. Tirò giú bene l’orlo della gonna, incrociò le mani sul petto e guardò il soffitto. Era lí che lui dormiva ogni notte. A quel pensiero il cuore le si mise a battere all’impazzata, in affanno. L’aria non le arrivava ai polmoni. La gola troppo secca le faceva male ogni volta che inspirava. Si rassegnò ad alzarsi, stirò bene con le mani il copriletto, poi si sedette sul pavimento, come la volta precedente. Alzò lo sguardo al soffitto. Era troppo presto per sdraiarsi sul suo letto, si disse. Era un’emozione troppo forte. Quella volta rimase nella camera una mezzoretta. Prese da un cassetto uno dei quaderni e lo sfogliò. Lesse un commento fatto dal ragazzo su un libro di Natsume Sōseki, Il cuore delle cose. Era stato uno dei compiti delle vacanze estive. Da quell’allievo eccellente che era, aveva riempito i fogli di bei caratteri precisi, senza errori né omissioni. La valutazione era «ottimo». Nulla di strano. A un testo scritto in ideogrammi cosí belli, qualunque insegnante avrebbe dato il massimo dei voti anche senza leggerlo. Poi Shahrazād aprí l’armadio e passò in rassegna i vestiti. La biancheria intima e le calze. Le camicie, i pantaloni. L’uniforme della squadra di calcio. Tutto era piegato metodicamente. Non c’era nemmeno un capo sporco o rovinato. Tutto in ordine, tutto pulito. Era il ragazzo che piegava la roba? O sua madre? Probabilmente quest’ultima. Provò una forte invidia per quella donna che ogni giorno poteva occuparsi di lui. Mise il naso nei cassetti e aspirò l’odore degli indumenti, a uno a uno. Era il profumo di cose lavate bene e asciugate al sole. Tirò fuori una maglietta grigia in tinta unita, la dispiegò, se la posò sul viso.

Sperava che sotto le ascelle restasse l’odore del sudore di lui. Invece niente. Ciononostante, se la tenne sulla faccia per molto tempo, respirando dal naso attraverso la stoffa. Le venne voglia di prendersi quella maglietta. Ma era troppo pericoloso. Quei vestiti erano tenuti con tanta cura che di sicuro il proprietario (e se non lui, sua madre) ricordava esattamente quante magliette c’erano nei cassetti. Se ne fosse mancata una, sarebbe successo un putiferio. Alla fine rinunciò a quell’idea. Piegò di nuovo la maglietta come l’aveva trovata e la rimise al suo posto. Doveva fare molta attenzione. Non era il caso di correre rischi. Quella volta, oltre alla matita, decise di prendere un piccolo distintivo a forma di pallone da calcio che trovò in fondo a un cassetto. Era una cianfrusaglia cui lui non doveva tenere molto, probabilmente l’aveva da quando giocava nella squadra della scuola elementare. Mai piú si sarebbe accorto della sua scomparsa. O perlomeno, prima che se ne accorgesse sarebbe passato un sacco di tempo. Già che c’era, Shahrazād volle controllare se il tampax che aveva messo nell’ultimo cassetto della scrivania la volta precedente c’era ancora. Sí, era sempre lí. Chissà cos’avrebbe pensato la madre, se avesse trovato un tampax nascosto in uno dei cassetti del figlio… Ne avrebbe parlato direttamente a lui? «A cosa ti serve questa roba? Vorrei proprio saperlo!» Oppure avrebbe taciuto, facendo in cuor suo mille congetture? Shahrazād non riusciva a immaginare quale reazione potesse avere una madre in un caso del genere. Ad ogni buon conto il tampax non lo toccò. Era il primo segno che aveva lasciato, dopotutto. Questa volta, lasciò in cambio tre suoi capelli. La sera prima si era strappata tre capelli, li aveva avvolti nella pellicola trasparente, poi li aveva chiusi in una piccola busta sigillata. Prese dallo zainetto la busta che aveva preparato e la mise in un cassetto, infilata fra due vecchi quaderni di matematica. Erano tre capelli neri, né troppo lunghi né troppo corti. A meno di non analizzarne il Dna, non era possibile sapere a chi appartenessero. Ma bastava un’occhiata per capire che erano i capelli di una giovane donna. Shahrazād uscí da quella casa e andò a scuola, seguí le lezioni del pomeriggio. E per i dieci giorni seguenti si ritenne soddisfatta. Aveva la sensazione di essere entrata in possesso di altre parti di lui. Ma il discorso non finiva certamente lí. Entrare di nascosto in casa d’altri, come aveva detto lei stessa, era diventato un vizio. Arrivata a quel punto, Shahrazād guardò l’orologio sul comodino. – Ah, adesso devo andare, – disse come parlando a se stessa. Scese dal letto e cominciò a vestirsi. Le lancette dell’orologio segnavano le quattro e trentadue. Rimise le semplici mutandine bianche, si allacciò il reggiseno sulla schiena, infilò in fretta i jeans e la maglietta blu col marchio della Nike. Nel bagno si lavò bene le mani col sapone, diede qualche colpo di spazzola ai capelli. Poi salí sulla Mazda azzurra e se ne andò. Rimasto solo, Habara, che non aveva granché da fare, ripercorse col pensiero tutte le cose che Shahrazād gli aveva raccontato a letto, una dopo l’altra, come le mucche quando ruminano il cibo appena mangiato. Come sarebbe finita, quella storia? Non riusciva proprio a immaginarlo, come sempre con tutte le sue storie. Gli era difficile anche figurarsi lei al secondo anno di liceo: chissà se era carina, a quel tempo, se era snella… Aveva le trecce? Portava l’uniforme del liceo con i calzini bianchi? Non avendo ancora appetito, prima di mettersi a preparare la cena cercò di andare avanti nella lettura del libro che aveva iniziato, ma non riuscí assolutamente a concentrarsi. La scena di Shahrazād che entrava di nascosto in quella villetta di due piani, che si metteva sul viso la maglia del suo compagno di classe, che ne aspirava l’odore, continuava a tornargli in mente. Voleva conoscere il seguito il piú presto possibile.

Shahrazād tornò tre giorni dopo, passato il fine settimana. Come sempre, estrasse da una grossa busta di carta una serie di vettovaglie che sistemò in vari posti, cambiò l’ordine di disposizione del cibo nel frigorifero, controllò che non ci fossero prodotti scaduti, verificò la provvista di conserve in vetro e in lattina, quella dei condimenti, fece la lista delle cose da comprare. Mise in frigo altre bottiglie d’acqua minerale. Per finire posò sul tavolo i libri e i dvd nuovi che aveva portato. – C’è qualcosa che manca, o che desideri in particolare? – chiese. – No, non mi viene in mente nulla, – rispose Habara. Come al solito, i due andarono a letto e fecero sesso. Dopo brevi preliminari, Habara mise un preservativo e la penetrò (lei gli aveva chiesto di usare un profilattico dall’inizio alla fine) e dopo una durata di tempo adeguata eiaculò. Un rapporto forse non puramente meccanico, ma nemmeno coinvolgente. Lei stava sempre attenta a evitare che si mettesse in quell’atto un eccesso di passionalità. Come un istruttore di scuola guida che preferisce non avere allievi troppo emotivi. Shahrazād controllò con occhio professionale che Habara avesse versato senza sbagliare nel preservativo un’adeguata quantità di sperma, poi iniziò a raccontare. Dopo essere entrata per la seconda volta in casa del ragazzo, aveva passato una decina di giorni felice e contenta. Ogni tanto, durante le lezioni, accarezzava il distintivo col pallone, riposto al sicuro nel portapenne. Mordicchiava la matita, ne leccava la mina. Pensava alla stanza di lui. Alla sua scrivania, al letto dove dormiva, al suo armadio pieno di vestiti, ai suoi semplici boxer bianchi, e al tampax e ai tre capelli che aveva nascosto nel cassetto della sua scrivania. Da quando aveva iniziato a intrufolarsi in quella casa, aveva perso ogni voglia di studiare. In classe o sognava a occhi aperti, o si concentrava nel gesto di carezzare la matita e il distintivo di lui. A casa faceva fatica ad applicarsi ai compiti che le erano stati assegnati. Prima era stata un’allieva discreta. Pur senza distinguersi, aveva sempre studiato seriamente – era nel suo carattere – e ottenuto voti al di sopra della media. Di conseguenza, quando non riusciva a rispondere alle domande degli insegnanti, questi, piú che arrabbiarsi, si stupivano. L’avevano anche convocata in sala professori durante l’intervallo, per chiederle se ci fosse qualcosa che non andava, se avesse dei problemi. Ma lei non era stata in grado di dare una risposta soddisfacente. «Negli ultimi tempi non sono tanto in forma…», era solo riuscita a balbettare. Naturalmente non poteva dire la verità: che si era innamorata di un ragazzo e durante la giornata entrava di nascosto in casa sua, che gli aveva rubato delle matite e un distintivo, che giocherellava trasognata con queste cose e non riusciva a pensare ad altro che a lui. Era un suo segreto, oscuro e pesante, di cui nessuno era a conoscenza. – Il bisogno di entrare periodicamente in casa sua era diventato impellente, – disse Shahrazād. – Capirai anche tu che la cosa era rischiosissima. Non potevo continuare indefinitamente a camminare sulla fune. Lo sapevo benissimo anch’io. Prima o poi sarei stata scoperta, e a quel punto sarei di sicuro finita al commissariato di polizia. A quel pensiero provavo un’ansia insopportabile. Ma una volta iniziato a rotolare giú per la china, non riuscivo piú a fermarmi. Passati di nuovo dieci giorni, i piedi mi hanno portato da soli davanti a casa sua. Altrimenti sarei uscita di senno. Ma a ripensarci adesso, mi dico che probabilmente ero già un po’ fuori di testa. – Saltare spesso le lezioni non ti ha creato problemi, a scuola? – chiese Habara. – I miei genitori erano commercianti, sempre sovraccarichi di lavoro, e non badavano molto a me. Non avevo mai dato preoccupazioni, né disobbedito apertamente ai loro ordini. Di conseguenza erano convinti di poter allentare la presa sul guinzaglio. Le giustificazioni per la scuola riuscivo a falsificarle facilmente, adducevo qualche motivo banale imitando la scrittura di mia madre e firmavo.

All’insegnante responsabile della classe avevo detto che in quel periodo non stavo bene e ogni tanto dovevo assentarmi qualche ora per andare dal medico. Nella mia classe c’erano diversi allievi che non si presentavano a scuola per lunghi periodi, quindi i professori avevano già problemi a sufficienza, nessuno dava molta importanza al fatto che io saltassi qualche volta le lezioni del mattino. A quel punto Shahrazād gettò un’occhiata all’orologio sul comodino, poi riprese: – Di nuovo tolsi la chiave da sotto lo zerbino, aprii la porta ed entrai. La casa era silenziosa come sempre, anzi no, piú del solito. Il rumore del termostato del frigo in cucina stranamente mi fece sobbalzare, sembrava il sospiro di un grosso animale. Poi tutt’a un tratto squillò il telefono. A quel suono forte e sgradevole, il cuore mi si fermò quasi nel petto. Mi inondai di sudore dalla testa ai piedi. Ma ovviamente nessuno rispose a quella chiamata, e dopo una decina di volte gli squilli cessarono. Quando il telefono tacque, scese un silenzio piú profondo che mai. Quel giorno era rimasta a lungo distesa sul letto. Il cuore non le batteva piú all’impazzata come la volta precedente, il suo respiro era regolare. Percepiva la presenza del ragazzo che dormiva tranquillo accanto a lei, le bastava protendere un braccio per toccare il suo braccio robusto. Era una sensazione cui si era abituata. Ma in realtà di fianco a lei non c’era nessuno, naturalmente. Un sogno a occhi aperti l’avvolgeva come una fitta nebbia. Le venne una voglia irresistibile di sentire l’odore di lui. Si alzò dal letto, e andò a frugare tra le magliette in un cassetto dell’armadio. Erano tutte perfettamente pulite, asciugate al sole e arrotolate con precisione come tanti salsicciotti. Nessuna traccia di sporcizia o di odore. Come la volta precedente. A quel punto le venne un’idea. Magari avrebbe funzionato. Scese in fretta al pianterreno. Nello spogliatoio del bagno trovò la cesta della roba sporca e ne sollevò il coperchio. C’erano indumenti di lui, della madre e della sorella. Probabilmente quelli usati il giorno prima. Nel mucchio, Shahrazād trovò una maglietta da uomo. Una maglietta bianca girocollo della Bvd. La annusò. Era impregnata del sudore di un giovane maschio, senza possibilità di dubbio. Un odore un po’ soffocante – lo stesso che sentiva quando stava vicino ai suoi compagni di scuola. Non si poteva dire che le allargasse il cuore, eppure, venendo da lui, la rendeva felice. Si portò al viso il pezzo sotto le ascelle e aspirò a fondo: provò la sensazione che lui l’avvolgesse, che la stringesse forte tra le braccia. Con la maglietta in mano, Shahrazād salí al primo piano e di nuovo si distese sul letto. Se la mise sul viso e respirò a lungo quell’odore, senza stufarsi. Intanto cominciava a provare uno strano torpore all’altezza delle reni. Sentí che i capezzoli le si indurivano. Stavano per venirle le mestruazioni? No, non era possibile. Era troppo presto. Capí che erano sensazioni provocate dal desiderio sessuale, ma non sapeva come gestirlo e controllarlo. In ogni caso, in quel posto non poteva fare proprio nulla. Dopotutto era nella stanza di lui, sul letto di lui. Decise di portarsi via quella maglietta impregnata di sudore. Naturalmente era pericoloso. Sua madre si sarebbe accorta che mancava. Anche senza andare a immaginare che qualcuno l’avesse rubata, si sarebbe chiesta dove fosse finita. Vista la cura e la pulizia meticolosa con cui teneva la casa, quella donna doveva amare l’ordine in modo ossessivo. Notando che c’era una maglietta in meno, avrebbe messo le stanze sottosopra, decisa a non arrendersi finché non l’avesse scovata. Un vero cane da guardia severamente addestrato. A quel punto, nella camera da letto del suo prezioso figlio avrebbe trovato le tracce lasciate da Shahrazād. Ma lei non voleva separarsi da quella maglietta, pur rendendosi conto di fare una cosa rischiosa. Il suo cuore non voleva sentir ragioni. In cambio, cosa mai poteva lasciare?, si chiese. Magari un capo di biancheria intima… Le mutandine banali, semplici, relativamente nuove, che aveva messo quel mattino. Poteva nasconderle in fondo all’armadio a muro dov’erano riposti futon e coperte. Le sembrava un oggetto di scambio assolutamente

appropriato. Quando se le tolse, tuttavia, si rese conto che erano umide. Colpa del desiderio che provava per lui, si disse. Provò ad annusarle: non avevano nessun odore. Ma considerando per quale motivo le aveva sporcate, si disse che non poteva nasconderle in quella stanza. Se avesse fatto una cosa del genere, avrebbe finito col disprezzarsi. Si rimise le mutandine, e decise di lasciare qualcos’altro. Ma cosa? Arrivata a quel punto della storia, Shahrazād tacque. Per lunghi minuti non disse una parola. A occhi chiusi, respirava quietamente dal naso. Anche Habara, sdraiato accanto a lei, taceva in attesa che riprendesse a parlare. – Senti, Habara, – fece lei alla fine riaprendo gli occhi. Era la prima volta che lo chiamava per nome. Lui la guardò. – Senti, Habara, ti va di prendermi ancora una volta? – Be’, direi proprio di sí, – rispose Habara. Di nuovo si abbracciarono. Lei adesso era molto diversa da prima. Il suo corpo era caldo, umido fino in profondità. La sua pelle splendeva, molto piú soda ed elastica. Habara immaginò che stesse rivivendo ciò che aveva provato da ragazza, quando si era intrufolata in casa del suo compagno di classe. O forse aveva veramente risalito il fiume del tempo ed era tornata ad avere diciassette anni. Come quando tornava alla sua vita anteriore. Shahrazād era in grado di farlo. Riusciva a esercitare su se stessa la forza straordinaria della sua arte di narratrice. Allo stesso modo in cui i piú bravi ipnotizzatori possono ipnotizzare se stessi servendosi di uno specchio. Fecero l’amore con un trasporto diverso. A lungo e con passione. E alla fine lei raggiunse chiaramente l’orgasmo. Il suo corpo si contrasse piú volte. In quei momenti, anche i lineamenti del suo viso sembrarono stravolgersi. Vedendola cosí, Habara riuscí a immaginare la ragazza che doveva essere a diciassette anni, quasi potesse scorgere un paesaggio guardando da uno spiraglio. Quella che teneva ora fra le braccia era un’adolescente assillata da un pensiero, e imprigionata per caso nel corpo di una casalinga di trentacinque anni. Habara si rese conto che lei, a occhi chiusi, trasognata, tremando leggermente, stava aspirando l’odore della maglietta sudata di un giovane uomo. Quando finirono, Shahrazād non ricominciò a raccontare. Né controllò scrupolosamente il preservativo usato da Habara. I due rimasero cosí, in silenzio uno accanto all’altra. Lei teneva gli occhi aperti e fissava il soffitto. Come le lamprede, quando dal fondo di un lago guardano in su la superficie luminosa dell’acqua. Che felicità, pensava Habara, se fosse diventato anche lui una lampreda in un mondo diverso, in un tempo diverso! Non un determinato individuo che si chiamava Habara Nobuyuki, ma una semplice lampreda senza nome… Sarebbero stati entrambi due lamprede, lui e Shahrazād, uno di fianco all’altra si sarebbero attaccati con le rispettive ventose a una pietra e avrebbero guardato verso l’alto fluttuando dolcemente, in attesa che passasse qualche grossa trota altezzosa. – E alla fine cos’hai lasciato, in cambio della maglietta? – chiese rompendo il silenzio. Lei tacque ancora per qualche momento, poi disse: – Niente, alla fine non ho lasciato niente. Perché non avevo nulla con me che valesse quanto quella maglietta impregnata del suo odore. L’ho presa e sono andata via. E in quell’istante sono diventata una vera ladra. Dodici giorni dopo, quando Shahrazād andò per la quarta volta a casa di lui, trovò la serratura cambiata: illuminata dai raggi del sole quasi allo zenit, brillava come l’oro, solida, orgogliosa. E la chiave non era sotto lo zerbino. Probabilmente la madre si era accorta che dalla cesta della roba sporca era sparita una maglietta del figlio. Aveva ispezionato con occhio attento tutta la casa, e si era resa conto

che accadevano cose strane. Che qualcuno forse entrava quando non c’era nessuno. E subito aveva fatto sostituire la serratura. Una conclusione ben fondata, e una reazione tempestiva. Davanti a quella serratura nuova, Shahrazād si era scoraggiata, ma al tempo stesso aveva provato un senso di sollievo. Come se qualcuno da dietro fosse venuto a toglierle un peso dalle spalle. Ormai non aveva piú bisogno di intrufolarsi in casa altrui, pensò. Se la serratura non fosse stata cambiata, avrebbe di sicuro continuato, lasciandosi trascinare in una spirale sempre piú rischiosa. E prima o poi sarebbe andata incontro a una catastrofe. Qualcuno della famiglia sarebbe rientrato all’improvviso mentre lei era su al primo piano. E in tal caso non avrebbe avuto scampo. Sarebbe successo, fatalmente. Ora invece non correva piú il pericolo di cacciarsi in quella disastrosa situazione! Doveva essere riconoscente alla madre di lui, ai suoi occhi di falco, anche se non l’aveva mai incontrata. Ogni sera Shahrazād, prima di dormire, annusava la maglietta che si era portata via. Se la teneva accanto. Quando andava a scuola la avvolgeva in un pezzo di carta e la nascondeva in un posto sicuro. Dopo cena, quando restava sola nella sua stanza, la prendeva, la accarezzava, ne sentiva l’odore. Temeva che col passare dei giorni andasse affievolendosi, ma non era successo. Come un ricordo prezioso, quell’odore avrebbe impregnato quella maglietta per sempre. Sapendo che ormai doveva rinunciare a intrufolarsi in casa del ragazzo (meglio cosí!), a poco a poco Shahrazād ritrovò la sua normale condizione di spirito. La sua mente riprese a funzionare come prima. In classe, gradualmente smise di sognare a occhi aperti, tanto che le succedeva persino di sentire quello che diceva l’insegnante. Ma piú che prestare attenzione alle lezioni, osservava lui. Lo teneva d’occhio di continuo: non c’era per caso qualcosa di cambiato nel suo atteggiamento? Non dava segni di nervosismo? No, era sempre lo stesso ragazzo che rideva spensierato a bocca aperta, rispondeva con prontezza quando veniva interrogato, e dopo le lezioni si allenava con passione nella squadra di calcio. Gridava molto, sudava molto. Nulla lasciava pensare che intorno a lui fosse successo qualcosa di strano. Era un ragazzo terribilmente a posto, pensava lei con ammirazione. Non aveva un solo difetto. Lei però conosceva il suo punto debole, pensò Shahrazād. O qualcosa che ci andava vicino. Con ogni probabilità era l’unica persona a esserne al corrente, a parte forse la madre. La terza volta che era entrata in casa sua, in fondo all’armadio a muro aveva trovato una pila di riviste pornografiche. Riviste piene di foto di donne nude. Donne con le gambe aperte che mostravano generosamente i genitali. C’erano anche foto di coppie che facevano sesso in posizioni estremamente innaturali. Membri grossi come bastoni che penetravano la vagina della donna. Era la prima volta in vita sua che vedeva foto del genere. Si era seduta alla scrivania e aveva guardato con grande interesse quelle riviste, pagina dopo pagina. Aveva immaginato che davanti a quelle immagini lui si masturbasse. La cosa però non le dava fastidio. Non si sentiva delusa nello scoprire quella sua condotta, la trovava del tutto naturale. Doveva pur liberarsi da qualche parte dello sperma che produceva. Il fisico dei maschi era fatto cosí (un po’ come le donne avevano il ciclo mensile). In quel senso, lui era come tutti i ragazzi della sua età. Né un eroe, né un santo. Conoscere quel suo lato le dava un senso di sollievo. – Dopo che ho smesso di intrufolarmi in casa sua, il sentimento fortissimo che provavo per lui lentamente è andato attenuandosi. Come l’acqua con la bassa marea si ritira a poco a poco dalla riva del mare. Non so perché, non provavo piú la stessa esaltazione nell’annusare la sua maglietta, e mi capitava sempre meno sovente di accarezzare trasognata le sue matite o il distintivo. L’ardore si stava spegnendo, cosí come cala la febbre. Non si era trattato di «qualcosa di simile a una malattia», ma di una malattia vera e propria. Una sorta di forte febbre che per un certo periodo mi aveva sconvolto il cervello. Può darsi che tutti, nella vita, attraversino un periodo di incoerenza cosí. O forse è un’esperienza che ho fatto solo io, un’esperienza molto speciale. A te non è mai successo?

Habara ci pensò su, ma non gli venne in mente nulla del genere. – No, niente di altrettanto straordinario, – rispose. A quelle parole, Shahrazād parve un po’ delusa. – In ogni caso, quando ho finito il liceo a un certo punto l’ho dimenticato. Talmente in fretta che ne ero stupita io stessa. Non riuscivo nemmeno a ricordarmi cosa mi avesse attratto tanto in lui, quando avevo diciassette anni. La vita è proprio strana. Qualcosa che in un certo momento ti sembrava splendido e perfetto, qualcosa per cui eri pronta a buttare via tutto quello che avevi, basta che passi un po’ di tempo, o che lo guardi da un angolo diverso, e lo trovi sorprendentemente scialbo. Finisci col chiederti cosa vedevano davvero i tuoi occhi. Questa è la storia del periodo in cui entravo di nascosto in casa altrui. A Habara venne in mente il «periodo blu» di Picasso. Ma comprendeva bene quello che lei voleva dire. La donna diede un’occhiata all’orologio digitale sul comodino: era quasi ora di andare via. Lasciò passare qualche secondo, poi riprese: – In verità, però, la storia non finisce qui. Quattro anni dopo, quando ero al secondo anno del corso per diventare infermiera, per una strana combinazione l’ho incontrato. In quell’occasione anche sua madre ha fatto una sensazionale entrata in scena, era invischiata in una vicenda che assomigliava a una storia di fantasmi. Non sono sicura che mi crederai. Vuoi sentire com’è andata? – Assolutamente, – disse Habara. – Allora te lo racconto la prossima volta, – concluse Shahrazād. – Perché è una storia piuttosto lunga, e ora devo tornare a casa per preparare la cena. Si alzò, si rimise slip e reggiseno, infilò le calze, la sottoveste, la gonna e la camicetta. Habara, ancora nel letto, la osservava compiere quella serie di gesti. Preferiva quasi vederla vestirsi che spogliarsi. – C’è qualche libro che vuoi che ti porti? – gli chiese Shahrazād prima di uscire. Lui rispose di no, nessun libro in particolare. Perché voleva soltanto conoscere il seguito di quella storia, pensò, ma non lo disse. Aveva l’impressione che esprimere quel desiderio avrebbe allontanato indefinitamente il momento atteso. Quella sera Habara andò a letto piú presto del solito e si mise a pensare a Shahrazād. Poteva anche darsi che non si facesse piú vedere. Un’eventualità che non era esclusa e che lo metteva in ansia. Tra lui e Shahrazād non c’era alcun patto personale. Il loro era un legame creato da qualcuno che poteva interromperlo quando gli pareva, a suo capriccio. Insomma, erano uniti in modo precario da un filo sottilissimo. Probabilmente un giorno, anzi, «sicuramente un giorno» sarebbe arrivato l’annuncio che tutto era finito. Che il filo era stato spezzato. Prima o poi sarebbe successo, non c’era da dubitarne. E quando lei fosse andata via, Habara non avrebbe piú potuto sentirla raccontare. La narrazione si sarebbe interrotta e tante altre storie nuove sarebbero rimaste per sempre inascoltate. Oppure gli sarebbe stata tolta ogni libertà, col risultato che avrebbe perso non solo Shahrazād ma tutte le donne. La probabilità che accadesse era alta. In tal caso, non avrebbe mai piú potuto penetrare in fondo al loro corpo umido. Mai piú avrebbe potuto sentirle vibrare leggermente. Ma la prospettiva davvero insopportabile per lui, piú che la preclusione dell’atto sessuale in sé, era di non poter piú passare insieme a loro momenti di intimità. Perdere le donne in conclusione significava proprio questo. Perché le donne offrivano un tempo speciale che annullava la realtà, pur restandovi immerse. Era qualcosa che Shahrazād gli aveva regalato in quantità generosa, eppure inestinguibile. Per Habara, dover rinunciare un giorno a tutto questo era forse la piú penosa delle prospettive. Chiuse gli occhi e smise di pensare a lei. Pensò alle lamprede. Alle lamprede che non avevano

mento, e fluttuavano dolcemente attaccate a una roccia, dissimulate fra le alghe. Si trasformò in una di loro e attese che passasse una trota. Ma per quanto aspettasse, di trote non ne vide arrivare nemmeno una. Né grassa, né magra, né nulla. Poi il giorno finí e tutto venne avvolto da tenebre profonde.

Kino

L’uomo sedeva sempre allo stesso posto. L’ultimo sgabello in fondo al bancone, che di solito era libero, a meno che il bar fosse affollato. Ma tanto per cominciare, succedeva di rado che ci fosse molta gente in quel locale, e poi gli avventori non apprezzavano particolarmente quella posizione defilata. A causa della scala sul retro il soffitto in quel punto scendeva in diagonale, e alzandosi si rischiava di battere la testa. Ma l’uomo, pur essendo alto, sembrava prediligere quel posto scomodo. Kino ricordava bene la prima volta che l’uomo era venuto. Prima di tutto aveva il cranio perfettamente rasato (dalla sfumatura azzurrognola, sembrava fresco di tonsura), inoltre, nonostante fosse magro, aveva le spalle larghe e una luce vigile negli occhi. Gli zigomi sporgenti e il mento forte. Età: fra i trenta e i trentacinque anni. Indossava un lungo impermeabile grigio, anche se non pioveva né minacciava di piovere. Motivo per cui Kino si era chiesto se non fosse uno yakuza. Si era subito sentito un po’ teso, già in allarme. Era una sera piuttosto fresca verso la metà di aprile, appena passate le sette e mezza, e non c’erano altri clienti. L’uomo andò a sedersi sull’ultimo sgabello in fondo, si tolse l’impermeabile, l’appese a un attaccapanni sul muro, ordinò una birra con voce tranquilla, poi si mise a leggere in silenzio uno spesso volume. Dall’espressione del viso, sembrava totalmente assorto nella lettura. Circa una mezzora dopo, quando terminò la birra, alzò una mano per chiamare Kino e ordinò un whisky. Alla domanda se avesse delle preferenze riguardo alla marca, rispose di no. – Possibilmente un normale scotch, doppio. Con la stessa quantità d’acqua, e poco ghiaccio, per favore. Possibilmente uno scotch? Kino versò in un bicchiere del White Label, vi aggiunse altrettanta acqua, spezzò del ghiaccio con il punteruolo e scelse due pezzi piccoli ben riusciti. L’uomo bevve un sorso e disse che andava benissimo. Lesse per un’altra mezzora, poi si alzò, chiese il conto e pagò in contanti. Per non cambiare banconote, diede giusti anche gli spiccioli. Quando se ne andò, Kino tirò un sospiro di sollievo. L’ombra della presenza di quell’uomo, tuttavia, continuò ad aleggiare nel bar. Mentre preparava degli stuzzichini per accompagnare le bevande, Kino ogni tanto alzava la testa e gettava un’occhiata allo sgabello dov’era seduto fino a poco prima. Come se si aspettasse di vederlo lí, a sollevare una mano per chiedergli qualcosa. L’uomo prese l’abitudine di frequentare il bar di Kino. Veniva una o anche due volte alla settimana. Ordinava prima una birra, poi un whisky (White Label, la stessa quantità d’acqua, poco ghiaccio). Succedeva che ne chiedesse un secondo, ma di solito si limitava a un bicchiere. Certe sere sceglieva di mangiare qualcosa di leggero fra le proposte del menu scritto sulla lavagna. Era un uomo taciturno. Anche dopo essere diventato un avventore abituale, non apriva mai bocca, se non per ordinare. Quando incontrava lo sguardo di Kino faceva un breve cenno con la testa, quasi dicesse: «Mi ricordo bene di te, sai?» Arrivava relativamente presto con un libro sotto il braccio, lo posava sul bancone e si metteva a leggere. Uno spesso volume rilegato. Kino non l’aveva mai visto con

un libro in edizione tascabile. Quando si stancava di leggere (c’era da supporre che si stancasse), alzava gli occhi dalla pagina e guardava le bottiglie sullo scaffale di fronte a lui, una per una. Come se esaminasse animali rari impagliati, provenienti da paesi lontani. Una volta abituatosi alla sua presenza, però, Kino smise di sentirsi a disagio trovandosi solo con quel cliente. Kino stesso era taciturno, e stare in compagnia di qualcuno senza parlare non gli dava alcun fastidio. Mentre l’uomo era assorto nella lettura, lui lavava i bicchieri, preparava una salsa, sceglieva i dischi da mettere sullo stereo, oppure si sedeva a leggere il giornale, come se fosse solo. Non conosceva il nome di quell’uomo. Mentre l’uomo, invece, sapeva che lui si chiamava Kino. Come il suo bar. L’uomo non si presentò mai, e Kino non gli chiese mai nulla. Era soltanto un cliente abituale che veniva, beveva una birra e poi un whisky, leggeva in silenzio, pagava in contanti e se ne andava. Non disturbava nessuno. Cos’altro c’era da sapere? Kino aveva lavorato per diciassette anni in una ditta di articoli sportivi. Quando frequentava la facoltà di Educazione fisica eccelleva nella corsa su media lunghezza. Ma al terzo anno, a causa di un’infiammazione del tendine di Achille, aveva dovuto rinunciare alla carriera professionistica, e dopo la laurea, su raccomandazione del suo allenatore, era stato assunto in quella ditta, dove si occupava soprattutto del settore delle scarpe da corsa. Il suo lavoro consisteva nel cercare di aumentarne la distribuzione nei negozi di articoli sportivi in tutto il paese, e di far crescere, almeno di uno, il numero degli atleti importanti che sponsorizzavano le scarpe di quella marca. Quell’impresa di media grandezza con sede a Okayama non aveva il prestigio della Mizuno o dell’Asics. Né poteva investire grosse somme di denaro per assicurarsi contratti esclusivi con campioni mondiali, come facevano la Nike o l’Adidas. Non dava a Kino nemmeno i soldi necessari per invitare qualche atleta famoso. Se voleva offrire una cena a uno di loro, doveva tagliare sulle spese di viaggio, o pagare di tasca propria. Eppure la sua ditta produceva onestamente scarpe da corsa di prima qualità fatte a mano, e non erano pochi gli sportivi che apprezzavano quel modo di lavorare preciso e coscienzioso. «Quando si lavora bene, i risultati si vedono», era l’opinione del presidente, che era anche il fondatore. Probabilmente quella politica imprenditoriale sobria, controcorrente rispetto ai tempi, era nelle corde di Kino. Pur essendo un uomo schivo e di poche parole, riusciva infatti a svolgere decorosamente il suo ruolo di rappresentante. Proprio perché non era un imbonitore, sapeva conquistare la fiducia di molti allenatori e la simpatia di alcuni atleti. Si faceva spiegare da ognuna di queste persone quale tipo di scarpa gli servisse, e una volta tornato in sede trasmetteva le richieste agli incaricati della fabbricazione. Era un lavoro tutto sommato interessante, e Kino lo faceva volentieri. Lo stipendio non si poteva dire buono, ma c’era la soddisfazione di occuparsi di qualcosa che sembrava fatto su misura per lui. Ormai non poteva piú correre, ma guardare gli atleti in piena crescita che si allenavano in pista con stile ed energia era un vero piacere. Se Kino aveva lasciato la ditta, quindi, non era certo perché ne fosse scontento. Vi era stato spinto da un problema scoppiato come un fulmine a ciel sereno, un problema di coppia: aveva scoperto che un suo collega, quello con cui era piú in confidenza, aveva una relazione con sua moglie. Kino passava piú tempo in viaggi di lavoro che a Tōkyō. Girava per tutto il paese con una sacca piena zeppa di scarpe da corsa, andava da un negozio di articoli sportivi all’altro, si presentava nelle università e nelle ditte che avessero una squadra di atletica. E in sua assenza quei due si vedevano. Lui non era il tipo da fare attenzione a certi indizi. Era convinto di andare d’amore e d’accordo con la moglie e non aveva mai dubitato di lei. Se una volta, per puro caso, non fosse rientrato con un giorno di anticipo, forse non si sarebbe mai accorto di niente. Dalla città dov’era stato per lavoro, era tornato direttamente al suo appartamento nel quartiere di Kasai, e aveva trovato la moglie e quell’uomo nudi, una sopra l’altro, nella camera di casa sua; nel letto

matrimoniale dove aveva sempre dormito con lei. La situazione non lasciava spazio a fraintendimenti: sua moglie era accovacciata su quell’uomo, in una posizione tale che, quando Kino aprí la porta, se la trovò davanti, di faccia. Vide i suoi bei seni andare avanti e indietro. All’epoca lui aveva trentanove anni, lei trentacinque. Non avevano figli. Kino si voltò, si chiuse alle spalle la porta della stanza, riprese la sacca con la roba sporca di una settimana, uscí di casa e non fece piú ritorno. Il giorno dopo diede le dimissioni. Kino aveva una zia nubile, la sorella maggiore di sua madre. Era una donna con un bel viso che aveva sempre voluto molto bene a quel nipote. Da diversi anni aveva un fidanzato piú vecchio di lei (forse sarebbe meglio dire un amante) che con grande generosità le aveva offerto una villetta nel quartiere di Aoyama. Una storia degna dei bei tempi antichi. Lei viveva al primo piano, e al pianterreno aveva aperto un caffè. C’era anche un piccolo giardino, con un magnifico salice dalla fronda rigogliosa. Si trovava in una stradina dietro il museo Nezu, una posizione poco favorevole a un’attività commerciale di quel genere, ma sua zia aveva il talento di calamitare la gente, e gli affari le andavano piuttosto bene. Purtroppo però la zia, che aveva piú di sessant’anni, soffriva di dolori alla schiena e a poco a poco trovava sempre piú faticoso gestire il locale. Cosí aveva deciso di chiudere e trasferirsi in un residence con terme annesse a Izukōgen, nella penisola di Izu. Il posto era anche equipaggiato per la fisioterapia. Di conseguenza, tre mesi prima che Kino scoprisse che la moglie lo tradiva, gli aveva proposto di prendere il suo posto quando lei si fosse ritirata. Lui le aveva risposto che apprezzava molto quell’offerta, ma per il momento non era sua intenzione accettare. Subito dopo essersi licenziato in ufficio, Kino telefonò alla zia per chiederle se avesse già ceduto il locale. No, la vendita era stata affidata a un’agenzia immobiliare, ma non si era ancora presentato un acquirente affidabile, gli rispose lei. – Mi piacerebbe mettere su un bar, lí. Prenderlo in affitto, se possibile, pagandoti un tanto al mese… – propose Kino. – E come fai col lavoro in ditta? – Mi sono appena licenziato. – Tua moglie è d’accordo? – Da mia moglie divorzierò molto presto, credo. Kino non disse il motivo, la zia non fece domande. Dall’altra parte del filo ci fu un breve silenzio. Poi la zia gli disse quanto gli avrebbe chiesto al mese per affittargli eventualmente il locale, una somma molto inferiore a quella che lui aveva immaginato. Se le cose stanno cosí, pensò Kino, forse ce la farò. – Riceverò anche una piccola liquidazione, quindi non ho intenzione di crearti problemi, zia, – disse. – Di questo non mi preoccupo affatto, – tagliò corto lei. Non è che Kino e sua zia si fossero parlati molto negli anni (sua madre non vedeva di buon occhio troppa confidenza fra loro), eppure stranamente si erano sempre capiti. La zia sapeva bene che tipo d’uomo fosse il nipote: se faceva una promessa, la manteneva. Usando la metà dei suoi risparmi, Kino ristrutturò l’interno del locale trasformandolo in un bar. Lo ammobiliò nel modo piú semplice possibile, con un’asse di legno lunga e spessa si fece costruire un bancone, comprò delle sedie nuove. Tinteggiò le pareti in colori tranquilli, cambiò le luci con altre piú adatte a un luogo dove si beveva alcol. Portò da casa i dischi della sua modesta collezione e li dispose su uno scaffale. Installò un buon sistema stereo – della Thorens, gli amplificatori invece erano della Luxman, e le casse Jbl 2ways – che aveva comprato, con molto sforzo, prima di sposarsi. Gli era sempre piaciuto ascoltare vecchio jazz registrato in analogico. Era il suo solo hobby, un hobby che non

condivideva con nessuno dei suoi amici. Inoltre da studente aveva lavorato part-time in un pub di Roppongi, e con i cocktail se la cavava. Il bar lo chiamò «Kino». Non gli venne in mente un nome migliore. La prima settimana non vide nemmeno un cliente. Ma era una cosa che si aspettava, quindi non si lasciò scoraggiare. Non aveva detto a nessuno dei suoi conoscenti che avrebbe aperto un locale. Non aveva fatto pubblicità né appeso all’esterno un’insegna appariscente. Semplicemente attendeva che qualcuno scoprisse quel bar aperto da poco in fondo a una stradina laterale, e lo trovasse di suo gusto. Gli restavano ancora un po’ dei soldi della liquidazione, e la moglie, dalla quale si stava separando legalmente, non pretendeva gli alimenti. Lei ormai conviveva con l’ex collega di Kino, quindi l’appartamento di Kasai dove avevano abitato insieme non serviva piú. L’avevano venduto, avevano estinto il mutuo, e diviso a metà fra loro la somma restante. Kino decise di sistemarsi nell’alloggio sopra il bar. Per qualche tempo poteva tirare avanti. Nel locale deserto, Kino si gustava finalmente il piacere di ascoltare la musica o di leggere quanto voleva. Accolse la solitudine e il silenzio con molta naturalezza, come il terreno arido assorbe la pioggia. Metteva spesso sul giradischi un assolo al piano di Art Tatum. Si addiceva perfettamente alle sue condizioni di spirito in quel momento. Per qualche ragione, non provava né collera né rancore verso la moglie e il suo ex collega che se l’era portata a letto. Naturalmente all’inizio lo shock era stato forte, ma bene o male era riuscito a rimuovere quel pensiero, e dopo un po’ di tempo era arrivato alla conclusione che «tanto non ci poteva fare niente». Era una fine annunciata. In vita sua non aveva mai ottenuto nulla, prodotto nulla. Non era capace di rendere felice nessuno, e ovviamente neppure se stesso. E poi cos’era la felicità? A quel punto Kino non lo sapeva piú. Dolore e collera, delusione e rassegnazione… erano emozioni che non riusciva piú a provare veramente. Quello che riusciva a malapena a fare era crearsi un luogo a cui ancorarsi, per impedire al suo cuore, che delle emozioni aveva perso la profondità e il peso, di andare alla deriva. «Kino», quel piccolo locale nascosto in fondo a una stradina, era la manifestazione concreta di quel luogo. Col risultato che era diventato un posto dove ci si sentiva stranamente a proprio agio. Prima ancora degli esseri umani, a scoprire quanto si stava bene da «Kino» era stato un gatto randagio dal pelo grigio. Era un giovane maschio con una bella coda lunghissima. Sembrava che gli piacesse particolarmente uno scaffale incavato in un angolo del locale, perché si metteva sempre a dormire raggomitolato lí. Kino cercava di non occuparsene troppo. Probabilmente voleva solo essere lasciato in pace. Una volta al giorno gli dava da mangiare e gli cambiava l’acqua. Altre cose per lui non ne faceva. Gli aveva soltanto aperto una gattaiola in modo che potesse entrare e uscire liberamente. Ma il gatto, chissà perché, preferiva passare dalla porta come le persone. Poteva anche darsi che quel gatto avesse portato con sé un flusso positivo. Perché gli avventori, seppur gradualmente, cominciarono ad arrivare. Ad attirarli era l’atmosfera di quella villetta in fondo alla strada – l’insegna poco appariscente e il magnifico salice vecchio di anni, il giovane titolare taciturno… e gli lp che giravano sul piatto dello stereo, il menu che contava pochi piatti leggeri ma sempre diversi, il gatto grigio acciambellato in un angolo… Alcuni clienti venivano con regolarità e a volte portavano con sé altra gente. Kino era ancora lontano dal guadagnare bene, ma riusciva almeno a rientrare del costo dell’affitto. Per lui era piú che sufficiente. L’uomo dalla testa rasata era entrato per la prima volta nel locale circa due mesi dopo l’apertura. E ne passarono altri due prima che Kino venisse a sapere il suo nome. Si chiamava Kamita. «Si scrive con

gli ideogrammi che significano “divinità” e “risaia” 1, ma non si legge Kanda, si legge Kamita», aveva detto. Non stava parlando con Kino, però. Quella sera pioveva. Non tanto, quel che bastava per chiedersi se convenisse prendere l’ombrello o no. Nel locale, oltre a Kamita, c’erano due uomini vestiti di scuro che erano venuti insieme. Erano circa la sette e mezza. Kamita, come sempre, aveva occupato lo sgabello tutt’in fondo al bancone e leggeva bevendo White Label. I due uomini invece erano seduti a un tavolo e bevevano vino. Quando erano entrati avevano tirato fuori una bottiglia di Médoc da un sacchetto di carta e avevano chiesto se potevano berla lí, pagando cinquemila yen per il disturbo. Dato che non c’era la fila, Kino, non avendo motivo di rifiutare, disse di sí. Aveva stappato la bottiglia e portato loro due bicchieri da vino. Insieme a un piattino di snack. Non era un gran disturbo. Il problema era che i due fumavano in continuazione, e Kino, cui il fumo dava fastidio, non era molto contento della loro presenza. Visto che non c’erano altri clienti, si sedette su uno sgabello ad ascoltare un lp di Coleman Hawkins in cui era inclusa Joshua Fit the Battle of Jericho. L’assolo del contrabbassista Major Holley era straordinario. I due uomini all’inizio bevevano chiacchierando amichevolmente, ma a un certo punto qualcosa scatenò una discussione. Di cosa parlassero, Kino non riusciva a capirlo, ma sembravano avere opinioni opposte su un determinato argomento perché a poco a poco, fallito ogni tentativo di trovare un compromesso, si infiammarono a un punto tale che trasformarono quella che era stata una discussione educata in un vero e proprio litigio. A un certo punto uno dei due si alzò, e nella foga sollevò da un lato il tavolino facendo cadere a terra il posacenere pieno di sigarette e uno dei bicchieri, che si ruppe in mille pezzi. Kino andò a prendere la scopa, pulí il pavimento, portò un altro posacenere e un altro bicchiere. Kamita – in quel momento Kino non sapeva ancora che si chiamasse cosí – non faceva niente per nascondere quanto trovasse riprovevole il comportamento arrogante dei due uomini. Benché non avesse cambiato espressione, con le dita della mano sinistra continuava a tamburellare sul bancone, come un pianista che provi una chiave interessante. È necessario metter fine a questa lite, pensò Kino. Era uno di quei casi in qui doveva assumersi lui la responsabilità della situazione. Tornò al tavolino dei due uomini, si scusò, e chiese loro gentilmente di abbassare il tono di voce. Uno dei due sollevò lo sguardo su di lui. Nei suoi occhi c’era irritazione. Si alzò in piedi. Fino a quel momento Kino non ci aveva fatto caso, ma era grande e grosso. Non eccessivamente alto, ma con un torace ampio e braccia spesse. Avrebbe potuto facilmente essere un lottatore sumo. Probabilmente non aveva mai perso una zuffa fin da quando era bambino. E non era abituato a sentirsi dire quel che doveva fare. Kino, quando frequentava la facoltà di Educazione fisica, ne aveva visti parecchi, di tipi cosí. Non erano il genere di persona con cui si può discutere tranquillamente. L’uomo che lo accompagnava era molto meno grosso. Mingherlino, il colorito livido, aveva un viso astuto. Dava l’impressione di essere bravissimo a manipolare gli altri. Anche lui si alzò. Ora Kino era in piedi di fronte ai due. Sembrava avessero deciso di sospendere momentaneamente la discussione e occuparsi di lui. Come per incanto sembrò che il loro respiro si fosse sincronizzato. Quasi che entrambi sapessero quale piega avrebbero preso gli avvenimenti. – Come ti permetti di interrompere la gente quando parla, tu? – chiese quello grosso. Entrambi indossavano vestiti in apparenza costosi, che a un esame piú attento si sarebbero probabilmente rivelati di qualità mediocre. Forse non erano dei veri e propri yakuza, ma ci andavano vicino. In ogni caso, né l’uno né l’altro sembravano il genere di persona che svolge un mestiere onesto. Il piú grosso aveva i capelli a spazzola, il piú basso – che li aveva tinti castani – li portava legati in una specie di coda di cavallo che ricordava la pettinatura dei samurai. Kino sapeva che si stava mettendo nei guai. Il sudore gli colava a rivoli sotto le ascelle.

– Scusate, – fece una voce alle sue spalle. Voltandosi, vide che Kamita era sceso dal suo sgabello e si era avvicinato. – Fatemi il favore di non prendervela con il gestore, – disse Kamita indicando Kino. – Sono io che l’ho pregato di chiedervi di abbassare il tono di voce, eravate molto rumorosi. Sto leggendo e non riesco a concentrarmi. Kamita aveva parlato a voce meno alta di quanto faccia di solito la gente, e prolungando le pause. Eppure si aveva l’impressione che qualcosa, da qualche parte, avesse lentamente iniziato a muoversi. – Sta leggendo e non riesce a concentrarsi nella lettura, – ripeté parola per parola il mingherlino. Come se verificasse che non ci fosse qualche errore di sintassi nella frase. – Non ce l’ha una casa, lei? – chiese il grosso. – Sí che ce l’ho, – rispose Kamita. – Abito qui vicino. – Allora perché non se ne torna a leggere a casa sua? – Perché mi piace leggere qui, – disse Kamita. I due compari si scambiarono un’occhiata. – Me lo presti, il suo libro, – fece il mingherlino. – Glielo leggo io. – A me piace leggere in pace da solo, – disse Kamita. – Perché non sopporto quando la gente confonde gli ideogrammi. – Divertente, questo qui, – disse il grosso. – Che ridere… – Come si chiama, lei? – chiese l’altro. – Kamita. Si scrive con gli ideogrammi che significano «divinità» e «risaia», ma non si legge Kanda, si legge Kamita –. Fu cosí che Kino venne a sapere il nome di quell’uomo. – Lo terrò a mente, – disse il grosso. – Buona idea. I ricordi in qualche modo danno forza, – fu il commento di Kamita. – Senta, perché non andiamo a parlare fuori? Credo che ci potremo spiegare meglio, – propose il mingherlino. – D’accordo. Andiamo pure dove vuole. Prima però dobbiamo pagare il conto, altrimenti è il gestore che ci perde. – Certamente, – disse il mingherlino. Kamita chiese il conto a Kino e lasciò la somma precisa che doveva, inclusi gli spiccioli, sul bancone. Coda-dicavallo tirò fuori dal portafoglio una banconota da diecimila yen e la gettò sul tavolino. – Con questo siamo a posto anche per il bicchiere rotto, no? – È piú che sufficiente, – rispose Kino. – Un bar da poveracci, – fece il grosso. – Il resto non lo vogliamo, usalo per comprare dei bicchieri da vino decenti, – disse a Kino Coda-dicavallo. – In quelli che ci hai dato, anche il vino di qualità fa schifo. – Sí, proprio un bar da poveracci, – ripeté il grosso. – Infatti, questo è un bar da poveracci dove vengono dei poveracci, – gli disse Kamita. – Non è adatto a voi. Ce ne sono altri, di bar adatti a voi. Non chiedetemi dove, però… – Ma dice cose divertenti, questo qui, – fece il tipo grosso. – Che ridere… – Rida piú tardi, per favore, quando ci ripenserà con calma, – gli rispose Kamita. – In ogni caso, non tocca a lei dirci dove dobbiamo andare e dove no, – fece Coda-di-cavallo. Poi tirò fuori la lingua per leccarsi lentamente le labbra. Sembrava un serpente davanti a una preda. L’uomo grosso aprí la porta e uscí, seguito da Coda-dicavallo. Il gatto dovette percepire l’atmosfera minacciosa, perché scappò fuori malgrado la pioggia. – Tutto a posto? – chiese Kino a Kamita.

– Non c’è motivo di preoccuparsi, – rispose lui con un accenno di sorriso sulle labbra. – Lei resti qui, signor Kino, non faccia niente e attenda che io ritorni. Non ci metterò molto –. Poi uscí e chiuse la porta. Pioveva ancora, piú forte di prima. Kino andò a sedersi su uno sgabello e aspettò che il tempo passasse, come gli era stato detto di fare. Non c’era pericolo che entrassero altri clienti. Fuori c’era un silenzio sinistro, non si sentiva il minimo rumore. Il libro che Kamita stava leggendo, come un cane ben addestrato, era rimasto aperto sul bancone in attesa del suo padrone. Trascorsi dieci minuti, la porta si aprí e Kamita entrò, solo. – Potrebbe prestarmi un asciugamano, per favore? – chiese. Kino gliene porse uno pulito. Kamita lo usò per strofinarsi la testa bagnata, poi la nuca, la faccia, e infine le mani. – La ringrazio. Ora è tutto a posto. Quei due non si faranno rivedere. E non le daranno piú alcun fastidio. – Ma… che cosa è successo? Kamita scosse piano la testa. Come per dire: «Meglio che non lo sappia». Poi tornò a sedersi al suo posto, bevve quel che restava del suo whisky e riprese a leggere come se nulla fosse. Prima di andare via chiese il conto, ma Kino gli ricordò che aveva già pagato. – Ah, è vero, – fece lui quasi con l’aria di scusarsi; si tirò su il colletto dell’impermeabile, mise in testa il cappello a larga tesa, e uscí. Quando se ne fu andato, Kino uscí a sua volta e fece un giro nei dintorni. Tutto era tranquillo. Non passava anima viva. Non c’erano tracce di rissa, non si vedeva sangue. Cosa poteva mai essere successo? Tornò nel bar e rimase in attesa di clienti. Ma non venne nessuno fino all’ora di chiusura. Non tornò neppure il gatto. Kino si versò in un bicchiere un doppio White Label, ci mise la stessa quantità d’acqua, due piccoli pezzi di ghiaccio e lo assaggiò. Non aveva un gusto speciale. Era quello che era. Ma quella sera Kino aveva bisogno di bere. Da studente, una volta, in una via laterale di Shinjuku aveva assistito a un litigio fra un tipo che doveva essere uno yakuza e due giovani impiegati. Lo yakuza era un uomo di mezza età dall’aspetto malandato, mentre i due giovani sembravano molto piú in forma. Erano un po’ brilli, motivo per cui avevano sottovalutato l’avversario. Probabilmente conoscevano qualche rudimento di boxe. Ma a un certo punto lo yakuza aveva stretto una mano a pugno e senza dire una parola, con uno scatto repentino, li aveva colpiti senza che quelli nemmeno lo vedessero arrivare. E quando erano a terra li aveva presi furiosamente a calci con la suola delle scarpe di cuoio. Dal rumore, c’era da supporre che avesse spezzato loro diverse ossa. Poi l’uomo si era allontanato a piedi come se nulla fosse. Questo è un professionista, aveva pensato Kino quella volta. Uno che non diceva una parola di troppo, decideva in anticipo le mosse, e colpiva velocissimo, prima che l’avversario avesse il tempo di prepararsi. Lo stendeva, poi infieriva su di lui senza pietà. E se ne andava. Un dilettante non aveva nessuna chance di batterlo. Kino immaginò la scena in cui Kamita in pochi secondi metteva fuori combattimento quei due uomini. A pensarci bene, dal suo aspetto fisico si poteva immaginare che fosse un pugile. In ogni caso, Kino non aveva modo di sapere cosa fosse successo in quella sera di pioggia. Né di chiedere spiegazioni a lui. Piú si lambiccava il cervello, piú il mistero si infittiva. Una settimana dopo quell’episodio, Kino andò a letto con una cliente. Era la prima donna con la quale aveva un rapporto da quando si era separato dalla moglie. Doveva avere una trentina d’anni o poco piú. Non la si poteva definire veramente bella, ma aveva lunghi capelli lisci, il naso corto, e

qualcosa che attirava gli sguardi. Nel modo di parlare e di muoversi aveva un ineffabile languore e sul viso un’espressione indecifrabile. Era già venuta diverse volte nel bar di Kino. Sempre insieme a un uomo piú o meno della sua età. L’uomo aveva degli occhiali dalla montatura di tartaruga e il mento ornato da una barbetta in stile beatnik. Capelli lunghi, niente cravatta… dall’aspetto non sembrava un normale impiegato. Lei indossava sempre tubini attillati che mettevano in risalto il suo bel corpo snello. Sedevano ogni volta al bancone e scambiavano qualche parola di tanto in tanto mentre bevevano un cocktail. Non restavano mai a lungo. Kino aveva immaginato che venissero a bere qualcosa prima di andare a letto. Oppure il contrario, dopo aver fatto l’amore. Difficile dirlo. Comunque fosse, nel loro modo di bere c’era qualcosa che per associazione di idee faceva venire in mente un rapporto sessuale. Un rapporto lungo e intenso. Entrambi erano stranamente inespressivi, soprattutto lei, che Kino non aveva mai visto ridere. La donna ogni tanto gli parlava. Sempre a proposito della musica che in quel momento usciva dalle casse. Il nome dei musicisti, la selezione dei pezzi, cose del genere… Amava il jazz, e possedeva anche lei una piccola collezione di dischi in vinile, disse. – Mio padre a casa ascoltava spesso questo tipo di musica. Io preferisco cose piú moderne, ma anche questa non mi dispiace, mi mette nostalgia. Dalle sue parole era difficile capire se a darle nostalgia fosse la musica o il ricordo del padre. Ma Kino non chiese spiegazioni. A dire la verità, cercava di limitare le chiacchiere con quella donna. Perché l’uomo che l’accompagnava non sembrava gradire troppa confidenza. L’unica volta in cui aveva avuto con lei una vera conversazione sulla musica (avevano scambiato informazioni sui negozi di lp di seconda mano e parlato del modo di maneggiare i dischi), l’uomo gli aveva lanciato occhiate fredde e sospettose. E Kino desiderava tenersi possibilmente lontano da quel genere di grane. Tra tutte le emozioni umane, non ce ne sono di peggiori della gelosia e dell’orgoglio. Kino aveva sofferto a causa di tutte e due. Ogni tanto si chiedeva se non avesse in lui qualcosa che faceva emergere di continuo quel lato oscuro delle persone. Tuttavia, quella volta lei venne sola. Non c’erano altri avventori. Era una sera in cui pioveva senza sosta. Quando aprí la porta, l’aria della notte si ingolfò nel locale portando l’odore della pioggia. La donna si sedette al bancone, ordinò un brandy e chiese di metterle un disco di Billie Holiday. – Uno dei primi, se possibile, – disse. Kino posò sul piatto dello stereo un vecchio lp della Columbia che comprendeva Georgia on My Mind. Lo ascoltarono insieme, in silenzio. Poi lei chiese di girarlo sul lato B, e Kino eseguí. La donna bevve tre bicchieri di brandy, mettendoci parecchio tempo, e nel frattempo ascoltò diversi vecchi dischi. Erroll Garner in Moonglow, Buddy DeFranco in I Can’t Get Started. All’inizio Kino era convinto che avesse appuntamento con il solito tipo, ma l’ora di chiusura si avvicinava, e dell’uomo non si vedeva l’ombra. Quanto a lei, non dava veramente l’impressione di aspettarlo. La prova: non guardava mai l’orologio. Ascoltava la musica, seguiva i suoi pensieri, ogni tanto beveva un sorso di brandy. Sembrava che il silenzio non la mettesse a disagio. E il brandy è un genere d’alcol cui il silenzio si addice. Lo si fa oscillare leggermente, se ne osserva il colore, se ne annusa l’aroma… e intanto si fa passare il tempo. Lei indossava un leggero cardigan blu su un abito nero a mezze maniche. Alle orecchie aveva dei piccoli orecchini di perle. – Oggi il suo amico non è venuto? – si decise a chiederle Kino poco prima della chiusura. – No, oggi non viene. Perché sta in un posto molto lontano, – rispose lei; poi si alzò dal suo sgabello, si avvicinò al gatto addormentato e con la punta delle dita cominciò ad accarezzarlo con dolcezza sulla schiena. Il gatto seguitò a dormire senza badarle. – D’ora in poi, non abbiamo intenzione di vederci piú, – proseguí lei come se volesse dare una

spiegazione. O forse stava parlando al gatto. In ogni caso, Kino non sapeva come rispondere. Al di là del bancone, continuò semplicemente a riordinare, senza dire una parola. Pulí il ripiano della cucina, lavò gli utensili e li ripose in un cassetto. – Come dire… – riprese lei smettendo di accarezzare il gatto e tornando verso il bancone: i suoi tacchi alti risuonavano sul pavimento. – Sa, la nostra non è una relazione che si possa definire normale. – Non si può definire normale… – ripeté pedestremente Kino. La donna finí di bere il brandy che restava nel bicchiere. – C’è una cosa che vorrei mostrarle, signor Kino, – disse. Di qualsiasi cosa si trattasse, Kino non aveva alcuna voglia di vederla. Non era obbligato a farlo. Lo sapeva benissimo fin dall’inizio. Eppure in quel momento non riuscí a pronunciare le parole che avrebbe dovuto. Lei si tolse il cardigan e lo posò su uno sgabello. Portò le mani dietro la nuca e tirò giú la cerniera del vestito. Poi voltò la schiena verso Kino. Poco al di sotto della stringa del reggiseno, si vedevano alcuni piccoli lividi. Erano di un grigio carbone sbiadito, e la loro disposizione irregolare faceva pensare a una costellazione invernale. Una serie di scure stelle spente. Potevano essere i segni lasciati da un’eruzione dovuta a una malattia contagiosa. O le cicatrici di una ferita. Per lunghi minuti la donna mostrò a Kino la schiena nuda, senza parlare. Il grigiore dei lividi faceva uno strano contrasto col bianco splendente del reggiseno nuovo. Kino la guardava in silenzio, come qualcuno a cui sia stata fatta una domanda di cui non capisce il significato. Non riusciva a distogliere gli occhi dalla sua schiena. Finalmente la donna tirò su la cerniera e si voltò. Si rimise il cardigan e come per prendere tempo si rassettò i capelli. – Mi hanno spento delle sigarette sulla pelle, – disse con naturalezza. Kino rimase un attimo senza parole. Però doveva dire qualcosa. – Chi le ha fatto una cosa del genere? – le chiese con la gola improvvisamente asciutta. Lei non rispose. Né dava segno di volerlo fare. D’altronde Kino non aveva bisogno di aspettare la risposta. – Chissà se posso prendere ancora un brandy… – disse la donna. Kino le riempí di nuovo il bicchiere. Lei ne bevve un sorso e assaporò il calore dell’alcol che lentamente scendeva fino in fondo al petto. – Sa, signor Kino, – disse poi. Kino, che stava asciugando un bicchiere, si fermò e alzò il viso a guardarla. – Ne ho altri, di questi segni, – concluse lei con indifferenza. – In posti un po’ imbarazzanti da mostrare. Per quale moto del cuore quella sera aveva iniziato una relazione con lei, Kino non lo ricordava. Che quella donna avesse qualcosa di speciale, l’aveva sentito fin dall’inizio. Qualcosa che silenziosamente aveva messo in allarme il suo istinto: con questa qui, meglio non lasciarsi coinvolgere piú di tanto. Oltretutto c’erano quelle tracce di bruciature di sigaretta sulla schiena. Kino era un uomo prudente di natura. Quando provava il bisogno di un corpo femminile, poteva rivolgersi a una professionista. Pagava, e la cosa finiva lí. Inoltre lei non era il suo tipo. Quella sera però, quella donna provava l’intenso desiderio di fare l’amore con un uomo – nella fattispecie con Kino. Il suo sguardo mancava di profondità, solo le sue iridi erano stranamente dilatate. C’era determinazione in esse, un luccichio che non consentiva tentennamenti. Kino non era riuscito a resistere a tanta energia. Non ne aveva la forza. Chiuse il bar e salí con la donna la scala che portava al piano di sopra. Nella camera da letto

illuminata lei si sfilò in fretta il vestito, si tolse la biancheria intima e gli aprí il suo corpo. Gli fece vedere quei posti «un po’ imbarazzanti da mostrare». D’istinto, Kino distolse gli occhi. Per un attimo, poi guardò. Non capiva quale sentimento potesse spingere un uomo ad azioni tanto crudeli, e una donna a sopportare tanto dolore, né aveva voglia di capirlo. Era qualcosa che distava anni luce dal suo mondo, il paesaggio desolato di un pianeta sterile. La donna gli prese la mano e la portò sulle cicatrici delle bruciature. Gliele fece toccare tutte una per una. Ne aveva anche vicino ai capezzoli, vicino al sesso. Guidate dalla mano di lei, le dita di Kino seguirono quei segni scuri e induriti. Come quando con una matita si traccia una linea che unisce dei punti numerati, finché appare una figura. Il perimetro di quei segni gli ricordava qualcosa, ma alla fine non riuscí a collegarlo a nulla. Poi la donna gli tolse i vestiti e fece sesso con lui sui tatami della stanza. Senza conversazioni né preliminari, senza prendere il tempo di spegnere la luce o tirar fuori il futon. Gli spinse la lingua tra le labbra, gli conficcò le unghie nella schiena. Come due belve affamate, sotto la luce accesa, senza parlarsi, i due si saziarono piú volte della carne bramata. Fecero l’amore in tanti modi e tante posizioni, senza quasi fermarsi. Smisero quando fuori dalla finestra cominciava ad albeggiare: si infilarono nel futon e si addormentarono come se venissero trascinati via dalle tenebre. Poco prima di mezzogiorno, quando Kino aprí gli occhi, la donna se n’era già andata. Aveva l’impressione di aver fatto un sogno tremendamente realistico. Ma non era stato un sogno. Sulla schiena aveva ancora i segni profondi delle unghie di lei, sul petto quelli dei suoi morsi, e il pene che lei gli aveva stretto forte era ancora dolorante. Sul cuscino bianco c’erano alcuni lunghi capelli neri che disegnavano dei mulinelli, e nelle lenzuola era rimasto un intenso, strano odore. In seguito, lei era tornata ancora diverse volte al bar. Sempre insieme all’uomo con la barbetta. Si sedevano al bancone, bevevano un cocktail dopo l’altro parlando tranquillamente, e se ne andavano. La donna ogni tanto scambiava qualche parola con Kino, di solito riguardo alla musica. Dal suo tono noncurante, si sarebbe detto che non ricordasse nulla di quella notte. In fondo ai suoi occhi però c’era la luce di un intenso desiderio. Kino la poteva vedere. C’era e brillava come una lanterna in fondo a una galleria buia, senza possibilità di dubbio. A Kino quella luce intensa faceva tornare in mente il dolore provato quando lei gli aveva conficcato le unghie nella schiena o stretto forte il pene, il movimento rotatorio della sua lunga lingua, e l’insolito, intenso odore rimasto nel futon. Gli diceva che non avrebbe mai potuto dimenticare. Mentre Kino e la donna parlavano, l’uomo che era con lei osservava attentamente, con l’occhio di un lettore esperto in grado di leggere fra le righe, l’atteggiamento di Kino, l’espressione del suo viso. Tra quell’uomo e quella donna si intuiva l’esistenza di una sorta di feeling vischioso, appiccicaticcio. Sembravano condividere, loro due soltanto, un pesante segreto. Kino, come sempre, non riusciva a capire se venissero al bar prima di fare sesso o dopo. Ma da una delle due alternative non si scappava, su questo non aveva dubbi. Inoltre, altro dettaglio che trovava strano, né l’uno né l’altra fumavano. Prima o poi la donna, probabilmente in una notte di pioggia tranquilla, sarebbe venuta da sola. Sarebbe venuta quando l’uomo con la barbetta si fosse trovato «in un posto molto lontano». Kino lo sapeva. Glielo diceva quella luce intensa che le vedeva in fondo agli occhi. Si sarebbe seduta al bancone, avrebbe bevuto in silenzio diversi brandy, in attesa che arrivasse l’ora di chiusura. Poi sarebbe salita con lui al primo piano, si sarebbe svestita, avrebbe dischiuso il suo corpo sotto la lampada e mostrato i segni delle bruciature recenti. Insieme avrebbero di nuovo fatto sesso come due bestie. Senza pensare a nulla, finché non fosse arrivata l’alba. Prima o poi sarebbe successo, ma chissà quando… Il momento l’avrebbe deciso lei. A quel pensiero, Kino sentiva la gola seccarsi. E una sete che, per quanta acqua bevesse, non poteva placare.

Verso la fine dell’estate il divorzio divenne finalmente ufficiale, e in quell’occasione per la prima volta Kino incontrò l’ex moglie. Restavano diverse questioni da sistemare, e l’avvocato di lei aveva fatto sapere a Kino che la signora desiderava parlargli a quattr’occhi. Decisero di vedersi al bar di lui, prima dell’apertura. Risolti in fretta tutti i problemi (Kino non si era opposto a nessuna delle richieste presentategli), gli ex marito e moglie firmarono i documenti. Lei indossava un abito azzurro e aveva i capelli molto piú corti di prima. Sembrava anche piú serena e in migliori condizioni fisiche. Aveva pure perso quel filo di grasso che all’epoca aveva iniziato ad accumulare sulle braccia. Insomma, aveva iniziato una vita nuova e probabilmente piú piena. Si guardò attorno e disse che quel bar era davvero un bel locale, che in qualche modo rifletteva la personalità di Kino: tranquillo e pulito, aveva un’atmosfera rilassante. Seguí un breve silenzio. «Ma privo di qualcosa che faccia veramente vibrare il cuore», Kino immaginò che volesse aggiungere. – Bevi qualcosa? – le chiese. – Un sorso di vino rosso, se ne hai. Kino prese due bicchieri da vino e vi versò dello Zinfandel della Napa Valley. Bevvero in silenzio. Non era il caso di brindare alla conclusione della pratica di divorzio. Il gatto si avvicinò e saltò sulle ginocchia di Kino, cosa che faceva raramente. Lui lo accarezzò dietro le orecchie. – Devo chiederti scusa, – disse lei. – Di cosa? – chiese Kino. – Di averti ferito. Perché sei rimasto ferito, no? Almeno un po’… – Be’, sí… – fece Kino dopo una pausa. – Sono anch’io un essere umano, quindi sono vulnerabile. Se tu mi abbia ferito tanto o poco, però, non saprei dirlo. – Se ho voluto vederti, è perché trovavo doveroso scusarmi. Kino annuí. – Tu ti sei scusata, e io ho accettato le tue scuse. Quindi possiamo anche archiviare l’argomento. – Avrei voluto confessarti tutto prima che accadesse quello che è accaduto, ma non ne avevo il coraggio. – Sí, ma comunque la si rigiri, l’esito sarebbe stato lo stesso, no? – È vero, – ammise lei. – Però, se ti avessi parlato… invece ho aspettato, ho aspettato, ed è finita nel peggiore dei modi. Kino portò in silenzio il bicchiere alle labbra. Se doveva essere sincero, cosa fosse successo quella volta non se lo ricordava quasi piú. La sua memoria non riusciva a mettere nel giusto ordine gli eventi. Come l’indice sottosopra di un libro. – Non è colpa di nessuno, – disse. – Forse sarebbe stato meglio che io non fossi tornato a casa con un giorno d’anticipo. Oppure che ti avessi avvisata prima. Avremmo evitato quel finale. La moglie non disse nulla. – Da quanto tempo durava la relazione con lui? – Preferirei non parlarne. – Vuoi dire che è meglio che io non lo sappia? Lei tacque. – Già, forse hai ragione, – riconobbe Kino, riprendendo a carezzare il gatto. Il gatto si mise a fare le fusa, era la prima volta che succedeva. – Forse non toccherebbe a me darti questo consiglio, – disse la donna che era stata sua moglie, – ma faresti meglio a dimenticare tutto al piú presto, iniziare una nuova storia con un’altra persona. – Mah, chissà… – rispose Kino.

– Sicuramente da qualche parte c’è una donna adatta a te. Non penso che avrai difficoltà a trovarla. Io non sono stata capace di diventarlo, e ti ho fatto una cosa crudele. Ne sono veramente desolata. Ma tra noi due, fin dall’inizio, era come… come dei bottoni sfasati rispetto alle asole. Tu sei una persona che può trovare la felicità in modo piú semplice. «Dei bottoni sfasati rispetto alle asole», pensò Kino. Guardò il vestito azzurro che lei indossava. Dato che le sedeva di fronte, non poteva sapere come si chiudesse sulla schiena. Non riuscí a fare a meno di rivedere col pensiero il corpo che sarebbe apparso tirando giú la cerniera o slacciando i bottoni. Un corpo che ormai non gli apparteneva piú. Che non poteva piú né guardare né toccare. Poteva soltanto immaginarlo. Ma se chiudeva gli occhi, sulla schiena bianca e liscia di lei vedeva infiniti segni scuri lasciati da bruciature, segni che si contorcevano irrequieti come uno sciame di insetti vivi e si muovevano strisciando in tante direzioni. Per scacciare quella fantasia sinistra, Kino scosse leggermente il capo due o tre volte. Un movimento di cui sua moglie sembrò comprendere il significato. Posò con dolcezza la mano su quella di Kino. – Ti chiedo perdono, – disse. – Davvero. Quando venne l’autunno, prima sparí il gatto, poi cominciarono a comparire i serpenti. Prima che Kino si accorgesse che il gatto non c’era piú, passarono alcuni giorni. Perché quel randagio senza nome veniva nel locale soltanto quando ne aveva voglia, e succedeva spesso che per un po’ di tempo non si facesse vedere. I gatti sono creature che tengono molto alla loro libertà. Probabilmente trovava del cibo anche in altri posti. Quindi non c’era da preoccuparsi se per una settimana o una decina di giorni non compariva. Quando la sua assenza si prolungò oltre le due settimane, però, Kino cominciò a inquietarsi. Non era mica finito sotto una macchina, per caso? Passate tre settimane, capí che non sarebbe mai piú tornato. Kino a quel gatto si era affezionato. Gli dava da mangiare, gli aveva preparato una cuccia, e cercava di disturbarlo il meno possibile. Anche il gatto sembrava legato a lui, e per essere gentile, o per non mostrarsi ostile, lo ricompensava con la sua presenza. Era come se svolgesse il ruolo di nume protettore del locale. Finché c’era lui, tranquillamente addormentato in un angolo, sembrava che non potesse accadere niente di brutto. Piú o meno all’epoca in cui sparí il gatto, iniziarono a farsi vedere dei serpenti. Il primo era marrone scuro. Piuttosto lungo. Avanzava contorcendosi sotto il salice che faceva ombra al giardino. Kino stava prendendo dalla tasca la chiave di casa, una busta piena di vettovaglie su un braccio, quando lo vide. Vedere un serpente in pieno centro di Tōkyō non è una cosa che capiti tutti i giorni. Ne fu un po’ sorpreso, ma non vi diede molta importanza. Tuttavia due giorni dopo, verso mezzogiorno, quando dall’interno aprí la porta per prendere il giornale, scorse un altro serpente, di nuovo sotto il salice. Questo aveva un colore bluastro. Era piú piccolo del primo e d’aspetto viscido… Percependo la presenza di Kino, si bloccò, alzò leggermente la testa e lo guardò in faccia (perlomeno, questa era l’impressione che dava). Mentre Kino si chiedeva perplesso cosa fare, il serpente abbassò la testa e sparí nell’ombra con un guizzo. Kino non poté fare a meno di provare un senso di repulsione. Perché il serpente sembrava conoscerlo. Fu tre giorni dopo che vide il terzo, quasi nello stesso posto dei primi due. Questo era molto piú corto, e di colore nerastro. Kino non sapeva nulla di serpenti. Però intuí che era estremamente pericoloso. Con ogni probabilità il suo morso era letale, ma come verificarlo? L’aveva visto soltanto per pochi secondi. Perché anche questo serpente, avvertita la sua presenza, si era dileguato nell’erba. Tre serpenti in una settimana erano davvero troppi. Stava succedendo qualcosa, da quelle parti.

Telefonò a sua zia a Izu. Dopo averle raccontato brevemente come andavano le cose, le chiese se avesse mai visto dei serpenti intorno a quella villetta di Aoyama. – Dei serpenti? – ripeté la zia sbalordita. – Quelli… quelli che strisciano, vuoi dire? Kino le spiegò che per ben tre volte aveva visto dei serpenti nel giardino di casa. – Ci ho vissuto molti anni, lí, ma non ricordo di aver mai visto un serpente, – rispose la zia. – Quindi non è normale, vero? Vederne tre di fila in una settimana… – No che non lo è. Per niente. Può darsi che sia un segno premonitore, che stia per arrivare un forte terremoto. Gli animali sentono in anticipo quando sta per succedere qualcosa, e si comportano in modo anomalo. – In tal caso, è meglio fare scorta di cibo, – disse Kino. – Sí, meglio. Tanto, vivendo a Tōkyō, puoi star sicuro che prima o poi un terremoto arriva. – Ma è normale che i serpenti si preoccupino tanto dei terremoti? La zia gli disse che non sapeva assolutamente di cosa si preoccupassero i serpenti. E naturalmente non ne aveva idea nemmeno Kino. – Però sono animali furbi, – disse la zia. – Nella mitologia antica, spesso fanno da guida agli esseri umani. Stranamente, è una cosa che si ritrova in miti e leggende di tutto il mondo. Ma per capire se portano in una direzione buona o cattiva, è necessario seguirli. Cioè in molti casi può essere al tempo stesso sia l’una che l’altra cosa. – Sono ambigui, insomma, – fece Kino. – Appunto. I serpenti sono per natura animali ambigui. E il piú grande e furbo di tutti, per non venire ucciso nasconde il cuore da un’altra parte. Cosí, se lo vuoi ammazzare, devi entrare nella sua tana quando lui non c’è, trovare il suo cuore che batte e tagliarlo in due. Va da sé che non è una cosa facile. Kino era impressionato da quanto estese fossero le conoscenze della zia. – Lo diceva qualche giorno fa alla televisione un professore di non so piú quale università. Sul canale nazionale c’era un programma in cui paragonavano i miti del mondo. Ti insegnano un sacco di cose utili, alla televisione. La gente sbaglia a parlarne male. Dovresti guardarla di piú anche tu, quando hai tempo. Da quella conversazione con sua zia, Kino aveva capito almeno una cosa: che vedere tre serpenti diversi in una settimana non era normale. A mezzanotte chiuse il locale e salí al primo piano. Fece il bagno, lesse un po’… erano quasi le due quando spense la luce. In quel momento ebbe l’impressione di essere circondato da serpenti. Avevano accerchiato la casa in numero incalcolabile. Riusciva a percepirli acquattati nel giardino. A notte fonda tutto taceva nel quartiere, l’unico rumore che si sentisse ogni tanto era la sirena di qualche ambulanza. I serpenti si avvicinavano strisciando, gli sembrava di sentirli. Per impedire loro di entrare in casa, chiuse la gattaiola inchiodandoci sopra un’asse. Almeno per il momento, non sembravano voler fare nulla di male a Kino. Si accontentavano di circondare silenziosamente, ambiguamente, quella villetta. Ecco forse il motivo per cui il gatto grigio non era piú venuto! Anche la donna con i segni delle bruciature sembrava sparita. Nelle sere di pioggia Kino temeva di vederla entrare da sola, e al tempo stesso, nel segreto del suo cuore, lo sperava. Anche questa era una cosa ambigua. Una sera, poco prima delle dieci, ricomparve Kamita. Ordinò una birra, bevve un doppio White Label, e mangiò persino degli involtini di verza. Non era mai successo che venisse cosí tardi, e che si fermasse tanto a lungo. A tratti alzava gli occhi dal libro che stava leggendo e si metteva a fissare il muro

di fronte a sé. Sembrava assorto in qualche pensiero. Comunque attese l’ora di chiusura, quando l’unico cliente rimasto nel bar era lui. – Signor Kino, – disse con voce diversa, come se avesse fatto le dovute considerazioni, – sono davvero desolato che sia successa una cosa del genere. – Una cosa del genere? – ripeté Kino sorpreso. – Che lei debba chiudere questo locale. Anche solo temporaneamente. Kino lo guardò a bocca aperta. Chiudere il locale? Kamita diede un’occhiata attorno, per assicurarsi che non ci fosse piú nessuno. Poi guardò Kino in faccia. – Sbaglio, o il significato delle mie parole non le è ancora chiaro? – Infatti. Non capisco di cosa lei stia parlando. – A me piaceva, questo posto, – riprese Kamita col tono di chi dà una spiegazione. – Potevo leggere indisturbato, e anche la musica era di mio gradimento. Ero molto contento quando lei l’ha aperto in questa strada. Ma purtroppo pare che siano venute a mancare molte cose. – Molte cose? – Che significato avevano, concretamente, quelle parole? Kino non capiva. L’unica cosa che gli veniva in mente era una ciotola col bordo un po’ sbeccato. – Anche quel gatto grigio non tornerà piú, vero? – chiese Kamita senza dare una risposta. – Almeno per un bel po’. – Non torna perché qui mancano delle cose? Di nuovo Kamita non rispose alla domanda. Kino a sua volta si guardò intorno attentamente, ma non notò nulla di anormale. Semplicemente il locale sembrava avere meno energia vitale e colore del solito, anche dopo l’orario di chiusura. – Lei non è il genere di persona che fa intenzionalmente qualcosa di scorretto. Questo lo so bene. Ma a questo mondo astenersi dal far male non sempre basta. Ci sono persone che credono di cavarsela evitando di agire. Mi capisce? No, Kino non ci capiva niente. Lo disse. – Ci pensi bene, – fece Kamita guardandolo dritto negli occhi. – È un problema grave che ha bisogno di una riflessione profonda. Un problema cui non è facile trovare una risposta. – Cioè, sta dicendo che il problema si è verificato non perché io abbia fatto qualcosa di scorretto, ma perché non ho fatto la cosa giusta. Un problema che riguarda questo locale, oppure la mia persona… Kamita annuí. – Le cose stanno proprio cosí. Ma non ho intenzione di dare la colpa solo a lei. Anche io avrei dovuto rendermi conto della situazione molto prima. C’è stata negligenza anche da parte mia. Non sono soltanto io a sentirmi a mio agio in questo posto, sono sicuro che tutti ci si trovano bene. – Ma io adesso cosa dovrei fare? – chiese Kino. Kamita taceva, le mani infilate nelle tasche dell’impermeabile. – Chiuda il locale per un certo periodo, vada lontano, – disse poi. – Per il momento, pare che non ci sia molto altro che lei possa fare. Se conosce qualche bonzo insigne, si faccia recitare dei sutra e gli chieda degli amuleti da affiggere tutt’intorno alla casa. Di questi tempi però non se ne trovano facilmente, di persone cosí. Quindi è meglio che lei se ne vada da qui prima delle prossime piogge. Scusi l’indiscrezione, ma ha soldi a sufficienza per intraprendere un lungo viaggio? – Be’, dipende dalla durata, ma per qualche tempo dovrei farcela, – disse Kino. – Tanto meglio. A quello che succederà dopo, ci penserà quando sarà il momento. – Sí, ma scusi… lei chi è? – Io sono soltanto Kamita. Si scrive con gli ideogrammi di «divinità» e «risaia», ma non si legge

Kanda. Abito nel quartiere da molti anni. – Signor Kamita, c’è una cosa che vorrei chiederle, – disse Kino d’impulso. – Lei per caso ha visto dei serpenti da queste parti, negli ultimi tempi? A quella domanda Kamita non rispose. – Mi ha capito bene, vero? – disse invece. – Vada lontano e si sposti di frequente, mi raccomando. Un’altra cosa: ogni lunedí e ogni giovedí mi mandi una cartolina illustrata. Cosí saprò che lei è sano e salvo. – Una cartolina illustrata? – Sí, una qualunque, basta che sia del posto dove si trova. – Ma a chi devo indirizzarla? – A sua zia a Izu. Ma non scriva il nome del mittente, e niente messaggi, nemmeno un rigo. Scriva solo il nome e l’indirizzo del destinatario. Non lo dimentichi, è molto importante. – Lei è amico di mia zia? – chiese Kino al colmo dello stupore, guardando l’uomo. – Sí, la conosco bene. A dire la verità, è lei che si è rivolta a me a titolo precauzionale. Mi ha chiesto di tenerla d’occhio, in modo che non le succedesse nulla di brutto. Ma pare che io non sia stato all’altezza delle sue aspettative. Insomma, chi diavolo era quell’uomo, cosa voleva? Ma se non era lui a spiegarglielo di sua iniziativa, Kino non aveva modo di saperlo. – Quando riterrò che potrà tornare, glielo farò sapere. Nel frattempo, si tenga lontano da qui. Sono stato chiaro? Quella notte, Kino fece i bagagli in vista del viaggio. «È meglio che lei se ne vada da qui prima delle prossime piogge». Un avviso troppo brusco, senza una spiegazione. E nessuna logica nel susseguirsi degli eventi. Kino però credeva fermamente alle parole di Kamita. Era una storia assurda, ma per qualche motivo non dubitava che fosse vera. Il discorso di Kamita aveva una strana, irrazionale forza di persuasione. Infilò dei vestiti di ricambio e alcuni effetti personali in una sacca di medie dimensioni. La stessa che portava con sé quando si spostava per lavoro, all’epoca in cui era impiegato nella ditta di articoli sportivi. Sapeva bene cosa fosse necessario e cosa no, per un lungo viaggio. Sul far dell’alba affisse con una puntina da disegno un foglio di carta sulla porta del bar: Chiedo scusa per non aver avvisato prima, ma il locale al momento è chiuso. «Vada lontano», aveva detto Kamita. Ma in pratica non gli veniva in mente nessun posto. Doveva dirigersi a nord? A sud? Non sapeva nemmeno quello, di conseguenza decise di seguire lo stesso percorso che faceva spesso quando vendeva scarpe da corsa. Prese un autobus delle linee interregionali e andò a Takamatsu. Aveva intenzione di fare un giro per lo Shikoku, poi passare nel Kyūshū. A Takamatsu si fermò in un modesto hotel vicino alla stazione e vi passò tre giorni. Girovagò per la città, vide diversi film. I cinema durante la giornata erano quasi vuoti, e proiettavano pellicole mediocri. Al calar della sera tornava in albergo e accendeva la televisione. Guardava soprattutto il programma educativo che gli aveva consigliato sua zia, ma non ottenne nessuna informazione che avrebbe potuto essergli utile. Il secondo giorno – un giovedí –, comprò una cartolina illustrata in un minimarket, l’affrancò e la spedí alla zia. Ci scrisse sopra soltanto il nome e l’indirizzo, come gli aveva detto Kamita. La sera del terzo giorno pagò i servizi di una prostituta. Il numero di telefono glielo diede un tassista. Era una ragazza giovane, sui vent’anni, e aveva un bel corpo liscio e snello. Ma fare sesso con lei fu insipido dall’inizio alla fine. Era soltanto un mezzo per placare la libido, ma a dire la verità non placò un bel niente. Al contrario, a cose fatte Kino aveva piú sete di prima. «Ci pensi bene, – aveva detto Kamita. – È un problema grave che ha bisogno di una riflessione

profonda». Ma per quanto si scervellasse, Kino non riusciva a capire in cosa consistesse il problema. Quella notte pioveva. Non molto forte, era la tipica pioggia autunnale che sembra non dover smettere mai. Senza pause e senza variazioni d’intensità, come una monotona confessione ripetuta piú volte. Kino non ricordava nemmeno quando era iniziata, quella pioggia che portava con sé soltanto una fredda apatia. Non aveva nessuna voglia di uscire con l’ombrello per cercare un ristorante. In realtà poteva anche fare a meno di cenare. Il vetro della finestra accanto al letto era coperto di goccioline d’acqua che si rinnovavano di continuo. Kino non riusciva a staccare gli occhi dai minimi mutamenti che avvenivano su quel vetro, perso in pensieri sconclusionati. Al di là si estendeva la città con le sue strade buie. Da una bottiglietta si versò del whisky in un bicchiere, vi aggiunse la stessa quantità d’acqua minerale e bevve. Senza ghiaccio. Non se la sentiva nemmeno di trascinare i piedi fino al distributore di ghiaccio in corridoio. La sensazione tiepida del liquido era in perfetta sintonia con la fiacchezza che aveva in corpo. Una volta si fermò in un business hotel 2 vicino alla stazione di Kumamoto. Il soffitto era basso, il letto stretto, e tutto nella stanza – televisore, vasca da bagno, frigorifero – era molto piccolo. Lí dentro aveva l’impressione di essere diventato un gigante. Ma quella mancanza di spazio non l’opprimeva. Rimase chiuso in camera tutta la giornata. Anche a causa della pioggia, non mise mai il naso fuori, se non per andare al minimarket piú vicino, dove comprò una bottiglietta di whisky, acqua minerale e dei cracker. Steso sul letto leggeva, quando si stufava guardava la televisione, poi riprendeva a leggere… A Kumamoto rimase tre giorni. In banca gli restava ancora denaro a sufficienza, e volendo avrebbe potuto fermarsi in alberghi migliori. Ma nella situazione in cui si trovava, sentiva che quel genere di posto era piú adatto a lui. Standosene tranquillo in una piccola stanza, non aveva bisogno di preoccuparsi di niente e gli bastava stendere la mano per raggiungere la maggior parte delle cose. Era una situazione che apprezzava. Se avesse anche potuto ascoltare la musica, non gli sarebbe mancato piú nulla. Teddy Wilson, Vic Dickenson, Buck Clayton… a volte gli veniva un desiderio indolente di ascoltare quei musicisti jazz d’altri tempi. Una tecnica sicura, accordi semplici, la gioia genuina di suonare, l’ottimismo addirittura prodigioso… Ciò che Kino desiderava in quei momenti era proprio quella musica, una musica che ormai non esisteva piú. Ma la sua collezione di dischi era lontana, era rimasta in un posto lontano. Gli venne in mente il suo bar ormai chiuso, buio e silenzioso. Il grande salice in fondo alla stradina. Immaginò i clienti che arrivavano, leggevano il foglio attaccato alla porta, e se ne andavano rassegnati. E il gatto, dov’era finito? Anche se fosse tornato, vedendo che non c’era piú possibilità di entrare e uscire, sarebbe andato via deluso. E chissà se quei misteriosi serpenti accerchiavano ancora zitti zitti la casa… Di fronte a quella stanza all’ottavo piano c’era un palazzo di uffici. Era un edificio alto e stretto costruito con materiali scadenti, attraverso le cui finestre, al piano corrispondente al suo, Kino poteva vedere diverse persone lavorare dal mattino alla sera. Qua e là le veneziane erano tirate giú, quindi la visuale era frammentaria e non permetteva di capire in quale settore operasse quella ditta. C’erano uomini in giacca e cravatta che entravano e uscivano, donne che battevano sulla tastiera dei computer, rispondevano al telefono, mettevano in ordine dei documenti. Non era uno spettacolo che lo attraesse particolarmente. Anche le facce e il modo di vestire di quelle persone erano del tutto banali. Se Kino le guardava per ore senza stancarsi, era solo perché non aveva nient’altro da fare. Ma la cosa che trovava strana, anzi, che lo riempiva di stupore, era che quella gente a volte sembrava veramente divertirsi. C’era anche chi ogni tanto si faceva una bella risata. Assurdo! Cosa c’era di tanto piacevole nel lavorare per tutto il giorno in quello squallido ufficio, svolgendo mansioni che Kino non riusciva a immaginare interessanti? Quel posto era depositario di un importante segreto a lui incomprensibile? A quel pensiero Kino si sentiva un po’ inquieto.

Ma era tempo di pensare alla località successiva. «Si sposti di frequente, mi raccomando», gli aveva detto Kamita. Per qualche ragione misteriosa, però, Kino era riluttante a staccarsi da quell’angusto business hotel di Kumamoto. C’erano posti dove gli sarebbe piaciuto andare? Paesaggi che gli sarebbe piaciuto vedere? Non gli veniva in mente nulla. Il mondo era un immenso oceano privo di punti di riferimento, e Kino una barchetta che aveva perso carta nautica e ancora. Quando apriva la cartina del Kyūshū per cercare di capire dove avrebbe potuto dirigere i suoi passi, veniva preso da una leggera nausea, come se avesse il mal di mare. Sdraiato sul letto leggeva, ogni tanto alzava il capo e osservava la gente al lavoro nell’ufficio di fronte. Man mano che il tempo passava perdeva peso e sentiva la pelle diventare quasi trasparente. Il giorno prima, lunedí, aveva comprato al negozio dell’albergo una cartolina raffigurante il castello di Kumamoto, vi aveva scritto il nome e l’indirizzo di sua zia, e incollato un francobollo. Poi con la cartolina in mano era rimasto a lungo a osservare, sovrappensiero, la fotografia del castello. Il genere di veduta perfetto per una cartolina. Una fortezza che si stagliava maestosa contro il cielo azzurro e nuvole bianche sullo sfondo. Anche detto Ginnan-jō. Uno dei tre piú importanti castelli in Giappone, diceva la didascalia. Per quanto lo guardasse, Kino non riusciva a trovare un punto di contatto fra quel castello e se stesso. Allora voltò la cartolina, e nello spazio bianco scrisse d’impulso due righe per la zia: Come stai? Come va la tua schiena? Io sto ancora girovagando da solo. A volte ho l’impressione di essere diventato per metà trasparente. Come se si potessero vedere le mie viscere, come se fossi una seppia appena pescata. Ma a parte questo, sto bene. Prima o poi penso di passare da Izu. Kino. Non sapeva quale moto dell’animo l’avesse spinto in quel momento a scrivere quel messaggio. Kamita gliel’aveva severamente proibito. «Solo il nome e l’indirizzo del destinatario, nient’altro! Non lo dimentichi», gli aveva detto. Ma Kino non era riuscito a trattenersi. Doveva ricollegarsi in qualche modo alla realtà. Altrimenti non sarebbe piú stato se stesso. La sua mano, quasi automaticamente, aveva riempito di ideogrammi minuscoli e precisi il piccolo spazio bianco. Prima di cambiare idea, era subito andato a infilare la cartolina nella buca per le lettere vicino all’albergo. Quando aprí gli occhi, la sveglia digitale sul comodino segnava le 2 e 15 del mattino. Qualcuno bussava alla porta della stanza. Non erano colpi forti, erano brevi, duri e concisi come quelli che dà un bravo carpentiere dalle braccia robuste quando conficca un chiodo nel legno. Inoltre la persona che bussava sembrava sapere bene che quei colpi arrivavano alle orecchie di Kino. Sapeva che lo tiravano fuori dal sonno profondo delle prime ore del mattino, da una breve, compassionevole pausa di riposo, per riportare, instancabili e crudeli, la sua coscienza alla piena lucidità. Kino sapeva chi era, chi gli chiedeva con tanta ostinazione di uscire dal letto e aprire la porta. E sapeva che non poteva aprire la porta dall’esterno. Solo lui, Kino, poteva farlo, dall’interno. Ancora una volta, quella visita era la cosa che piú desiderava, e al tempo stesso piú temeva. Proprio in questo consiste l’ambiguità, nell’occupare lo spazio fra due estremi. «Perché sei rimasto ferito, no? Almeno un po’…», gli aveva chiesto sua moglie. Le aveva risposto che anche lui era un essere umano, quindi vulnerabile, come tutti. Ma non era vero. O perlomeno era una mezza bugia. Non era rimasto ferito abbastanza, non quanto avrebbe dovuto, ammise Kino. Invece di soffrire veramente, aveva represso le sensazioni essenziali. Aveva evitato di affrontare di petto la realtà per risparmiarsi un grave dolore, col risultato che si era svuotato di ogni capacità di provare sentimenti. Cosí i serpenti si erano impossessati di quella cavità e avevano cercato di nascondere lí il loro gelido cuore. «Non sono soltanto io a sentirmi a mio agio in questo posto, sono sicuro che tutti ci si trovano bene», erano state le parole di Kamita. Finalmente Kino capiva cosa aveva voluto dirgli. Si tirò il piumone sulla testa, chiuse gli occhi e si tappò le orecchie con le mani, per rifugiarsi nel suo

piccolo mondo angusto. Non vedo nulla e non sento nulla, disse a se stesso. Ma era tutto inutile. Poteva anche fuggire in capo al mondo e sigillarsi le orecchie con l’argilla: finché fosse stato in vita, finché avesse conservato un barlume di coscienza, il rumore di quei colpi lo avrebbe perseguitato. Non venivano dati alla porta di una camera d’albergo, ma a quella del suo cuore. Era un suono cui nessuno poteva sfuggire. E fino all’alba – ammesso che arrivasse ancora un’alba – dovevano passare lunghe ore. Dopo un tempo che non riuscí a calcolare, a un certo punto si accorse che i colpi erano cessati. La stanza era di nuovo silenziosa come la faccia in ombra della luna. Kino però, sempre nascosto sotto il piumone, non si mosse. Non doveva essere imprudente. Soffocando ogni segno della sua presenza, tese le orecchie e nel silenzio cercò di percepire qualche indizio funesto. Quel «qualcuno» dall’altra parte della porta non era tipo da arrendersi cosí facilmente. Tanto piú che non aveva fretta. In cielo non c’era la luna, solo l’ombra nera di costellazioni estinte. Ancora per qualche tempo il mondo apparteneva a «quelli lí». «Quelli lí» avevano tante modalità diverse. Le loro richieste potevano prendere molte forme. Potevano estendere le loro radici scure fino a raggiungere il centro della terra. Con pazienza, mettendoci tutto il tempo che ci voleva, erano in grado di trovare il punto debole che permetteva di spezzare anche la roccia piú dura. Come Kino aveva immaginato, i colpi ripresero. Questa volta però provenivano da un’altra parte. Anche la vibrazione del suono era differente. Ed erano molto piú vicini di prima, li sentiva letteralmente accanto al suo orecchio. Sembrava che quel «qualcuno» si trovasse fuori dalla finestra di fianco al letto. Era probabilmente aggrappato al muro di quel palazzo di otto piani, con la faccia schiacciata contro il vetro bagnato dalla pioggia, e continuava a picchiare ostinatamente. Non c’era altra spiegazione. Il ritmo però era sempre lo stesso. Due volte di seguito, una piccola pausa, e altre due volte. E questa sequenza si ripeteva senza sosta. Il suono si alzava, poi di nuovo si abbassava. Come il battito del cuore quando si ha paura. Le tende erano rimaste aperte. Prima di addormentarsi, Kino aveva osservato a lungo le gocce di pioggia sul vetro. Se ora avesse sporto la testa dal piumone, immaginava cos’avrebbe visto nel buio fuori dalla finestra. Anzi no, non lo immaginava. Doveva cancellare quel moto della mente che era l’immaginazione. In ogni caso, non doveva vedere «quelli lí». Perché, per quanto vuoto, il suo cuore in quel momento gli apparteneva ancora. Conservava ancora un po’ di calore umano, sebbene fievole. Alcuni ricordi personali, come alghe avvinghiate a un palo sulla spiaggia, attendevano in silenzio che arrivasse l’alta marea. Alcuni pensieri, se recisi, avrebbero versato fiotti di sangue rosso. Non era ancora tempo di mandare il suo cuore a vagare in qualche posto assurdo. «Si scrive con gli ideogrammi che significano “divinità” e “risaia”, ma non si legge Kanda, si legge Kamita. Abito qui vicino», aveva detto Kamita. «Lo terrò a mente», aveva risposto l’uomo grosso. «Buona idea. I ricordi in qualche modo danno forza». Era possibile che Kamita, in qualche forma, fosse legato al vecchio salice in giardino, pensò tutt’a un tratto Kino. Quell’albero aveva protetto lui e la piccola casa. Anche se non ne comprendeva la logica, appena quell’idea gli attraversò il cervello, subito tutta la storia gli parve trovare un senso. Rivide il salice dalla fronda lussureggiante che arrivava quasi a toccare terra. In estate proiettava sul piccolo giardino un’ombra fresca. Nei giorni di pioggia innumerevoli goccioline argentate brillavano sui rami flessibili. Quando l’aria era immobile restava in silenzio, assorto in profonda meditazione, mentre nelle giornate ventose agitava senza speranza il cuore irrequieto. Piccoli uccelli venivano a posarsi su di lui, si parlavano con le loro voci acute tenendosi abilmente in equilibrio, poi riprendevano il volo. Dopo che gli uccellini se n’erano andati, i rami oscillavano a destra e a sinistra con aria contenta.

Rannicchiato sotto le coperte come un insetto, a occhi chiusi, Kino semplicemente pensava al salice. Rievocava il suo colore, la sua forma, il suo ondeggiare. E intanto aspettava l’arrivo dell’alba. Non poteva far altro che resistere in questo modo, in attesa che a poco a poco il cielo schiarisse, che i corvi e i passeri iniziassero la loro giornata. Non poteva far altro che aver fede in tutti gli uccelli del mondo. Tutti quelli che avevano ali e becco. Nel frattempo non doveva svuotare il suo cuore nemmeno per un attimo. Perché il vuoto, quel vuoto assoluto che si generava, attirava «quelli lí». Quando il salice non bastava, Kino pensava al gatto randagio, magro e grigio. Ricordava che gli piacevano le alghe scottate sulla fiamma, le mangiava sempre. Pensava a Kamita che leggeva tutto concentrato, seduto al bancone, ai giovani atleti che allo stadio si allenavano intensamente nella corsa di media lunghezza, a My Romance suonato magnificamente al sassofono da Ben Webster (a metà del disco c’erano due graffi che facevano saltare la puntina). «I ricordi in qualche modo danno forza». Poi rivide la sua ex moglie, con i capelli corti e il vestito nuovo azzurro. Kino sperava che lei conducesse in un altro luogo una vita sana e felice. Che non dovesse mai portarsi addosso delle ferite. Gli aveva chiesto scusa guardandolo in faccia, e lui aveva accolto le sue scuse. Ma non doveva solo dimenticare, doveva anche perdonare. Tuttavia il tempo non sembrava scorrere in modo regolare. Il suo fluire era intralciato dal peso della libido che aveva l’odore del sangue, e dall’ancora arrugginita del rimorso. Lí il tempo non era una freccia che volava in linea retta. Continuava a piovere, le lancette dell’orologio erano disorientate, gli uccelli erano ancora profondamente addormentati, impiegati delle poste senza volto selezionavano in silenzio le cartoline illustrate, sua moglie faceva oscillare i bei seni nel vuoto, qualcuno bussava ostinatamente al vetro della finestra. Con infinita regolarità, come se volesse attrarlo in un labirinto dalle insinuazioni profonde. Toc toc, toc toc. E ancora toc toc. «Non distogliere gli occhi, guarda me», gli mormorava all’orecchio qualcuno. Questa è l’immagine del tuo cuore. I rami del salice continuavano a oscillare alla brezza della prima estate. In una piccola stanza situata in fondo all’anima di Kino, qualcuno tendeva una mano verso la sua e cercava di posarvela sopra. Sempre a occhi chiusi, lui la sentiva calda e morbida… Era qualcosa che aveva a lungo dimenticato. Per tanto tempo ne era stato separato. Sí, sono stato ferito, e molto profondamente, disse Kino rivolto a se stesso. E cosí le lacrime arrivarono. In quella piccola stanza buia. Nel frattempo la pioggia continuava a bagnare il mondo senza fermarsi.

1 Rispettivamente kami e ta [N.d.T.]. 2 Albergo modesto, in stile occidentale, la cui clientela è costituita principalmente da viaggiatori di commercio e impiegati che si

spostano per lavoro [N.d.T.].

Samsa innamorato

Quando si svegliò, nel letto, si accorse di essere diventato Gregor Samsa. Era supino e guardava il soffitto. Gli ci volle un po’ di tempo per abituarsi alla penombra della stanza. Il soffitto non aveva niente di speciale. In origine doveva essere bianco o crema, ma negli anni polvere e sporcizia l’avevano fatto diventare color latte cagliato. Non aveva decorazioni o altre caratteristiche visibili. Né pretese, né messaggi. Svolgeva senza problemi il suo ruolo strutturale di soffitto, e non pareva aspirare ad altro. Su una parete della stanza (quella a sinistra dal punto di vista di Samsa) c’era un’alta finestra, ma era bloccata dall’interno. In sostituzione delle tende di cui una volta doveva essere provvista, erano state inchiodate in senso orizzontale, lungo tutto il telaio, diverse assi di legno. Fra un’asse e l’altra delle fessure di alcuni centimetri – non era chiaro se lasciate intenzionalmente o no – facevano entrare il sole del mattino, che tracciava sul pavimento delle strisce di luce parallele. Perché la finestra era stata sbarrata in modo cosí drastico? Difficile dirlo. Per impedire che qualcuno entrasse? Oppure per impedire che qualcuno uscisse? Ma qualcuno chi? Samsa stesso? O forse stava arrivando un qualche tornado? Sempre supino, muovendo solo la testa e gli occhi, Samsa si guardò attorno. A parte il letto su cui era sdraiato, nella stanza non c’erano mobili. Niente armadi, tavoli o sedie. Nessun quadro o orologio o specchio appeso alle pareti. Non si vedeva alcun tipo di lampada. E sul pavimento, fin dove arrivava il suo campo visivo, non c’erano tappeti o moquette. Un semplice e nudo parquet. La carta da parati aveva decorazioni minute, ma era talmente vecchia e sbiadita che nella penombra – ma forse sarebbe stato lo stesso in piena luce – era impossibile capire che cosa rappresentassero. Sulla parete di fronte alla finestra, alla destra di Samsa, c’era una porta. Con un pomo di ottone annerito qua e là. Forse in origine quella stanza era stata usata come camera da letto. L’atmosfera era quella. Ma al momento ogni traccia di chi l’aveva occupata era stata cancellata. Era rimasto solo il letto, posto nel centro. Ma senza coperte o lenzuola, trapunte o cuscini. Soltanto un vecchio materasso. Samsa non riusciva a immaginare dove si trovasse, né cosa dovesse fare. Capiva a malapena una sola cosa: ormai era un essere umano che si chiamava Gregor Samsa. Come faceva a saperlo? Forse qualcuno gliel’aveva sussurrato all’orecchio mentre dormiva? «Il tuo nome è Gregor Samsa». E poi… chi era, prima? Che cos’era, prima? Se cominciava a seguire questo pensiero, però, la sua coscienza a poco a poco si offuscava. E in fondo alla sua testa si alzava una colonna scura di zanzare che diventava sempre piú spessa e densa, si spostava verso le parti piú molli del suo cervello producendo un leggero brusio. Samsa smise subito di pensare. Per lui, riflettere a fondo su qualcosa, in quel momento era uno sforzo troppo grande. In ogni caso, doveva imparare a muoversi. Non poteva restare per sempre supino a guardare il soffitto. Era troppo vulnerabile. Se avesse subíto un attacco da un avversario in quella posizione – ad esempio da parte di uno stormo di uccelli rapaci – non avrebbe avuto possibilità di sopravvivere. Per iniziare, mosse un dito. Le sue mani ne avevano cinque per una, dieci lunghe dita in tutto. Erano dotate

di numerose articolazioni, che rendevano complicato combinare i movimenti. Come se non bastasse, tutto il suo corpo era intorpidito, quasi fosse immerso in un liquido vischioso e pesante, al punto che gli era difficile trasmettere forza alle estremità. Tuttavia, chiudendo gli occhi e concentrandosi al massimo, provando e riprovando, a poco a poco riuscí a muovere le dita di entrambe le mani. E anche, seppur lentamente, a comprendere come funzionavano le articolazioni. Il controllo delle dita portò gradualmente all’attenuazione dell’irrigidimento che bloccava il suo corpo. Però subentrò – come scure rocce sinistre appaiono al ritiro della marea – un dolore intenso e sempre piú forte. Gli ci volle del tempo per capire che era solo fame. Una fame spaventosa, una fame che non aveva mai provato in vita sua, o perlomeno non ne aveva memoria. Era come se per una settimana intera non avesse mangiato il minimo frammento di cibo; come se nel suo corpo si fosse aperta una voragine. Tutte le ossa gemevano, i muscoli si contraevano, gli organi interni erano in preda a spasmi. Non potendo sopportare oltre quel dolore, Samsa puntò i gomiti contro il materasso e a poco a poco si tirò su. La sua spina dorsale scricchiolò diverse volte. Quanto tempo era rimasto sdraiato su quel letto? Ogni parte del suo corpo, di fronte alla necessità di alzarsi, di cambiare posizione, alzava grida di protesta. Ciononostante, incurante del dolore, concentrando tutte le sue forze, Samsa riuscí a mettersi seduto sul letto. Quant’era brutto! Guardando il suo corpo nudo, toccando le parti che non vedeva, non poté fare a meno di trovarsi orrendo. E come se non bastasse, era sprovvisto di qualsiasi mezzo di difesa. Una pelle bianca e liscia (coperta da una peluria poco piú che simbolica), il ventre privo di protezione, un organo sessuale dalla forma assurda, soltanto quattro arti lunghi e sottili, fragili vene affioranti che sembravano corde bluastre, un collo lungo e fragile che poteva spezzarsi come un fuscello. Una grossa testa deforme, con un fascio di peli lunghi e duri in cima e ai lati due orecchie sporgenti che sembravano due conchiglie. Sono davvero io, questo qui?, non poté fare a meno di chiedersi Samsa. Dovrei sopravvivere con questo corpo cosí irrazionale, assurdo, cosí vulnerabile? Perché non sono diventato un pesce? Perché non sono diventato un girasole? Un pesce o un girasole avrebbero avuto un senso. Piú senso di Gregor Samsa, perlomeno. A quel punto mise giú le gambe e posò a terra le piante dei piedi. Il pavimento era molto piú freddo di quanto avesse immaginato, una sensazione che lo colse di sorpresa. Dopo una serie di tentativi falliti, urtando di qua e di là, finalmente riuscí a mettersi in piedi. Aggrappato con una mano al bordo del letto, per qualche istante rimase fermo in quella posizione. Sentiva la testa pesante e non riusciva a tenere il collo dritto. Il sudore gli colava sotto le ascelle, i genitali per lo sforzo si contrassero. Dovette respirare a fondo alcune volte per rilassare i muscoli. Quando si fu bene o male abituato a stare in piedi, dovette esercitarsi a camminare. Ma camminare implicava una serie di movimenti che costituivano una vera e propria tortura. Avanzare spostando alternativamente la gamba destra e la sinistra era sotto ogni punto di vista un atto irrazionale e contrario alle leggi della natura, mentre la posizione troppo alta dei suoi occhi rispetto al suolo lo faceva vacillare: per trovare l’equilibrio, per imparare a coordinare le articolazioni delle anche e delle gambe, all’inizio dovette fare uno sforzo sovrumano. A ogni passo in avanti provava un terrore tale che le ginocchia gli tremavano violentemente e doveva appoggiarsi al muro con una mano. Tuttavia non era un motivo sufficiente per restare per sempre in quella stanza. Aveva bisogno di trovare del cibo e mangiare, altrimenti i morsi della fame avrebbero finito col consumare la sua carne e distruggerlo. Lentamente, tenendosi aggrappato al muro, avanzò verso la porta. Pur non avendo alcun modo di

misurare il tempo, sapeva che ci stava mettendo ore. Era l’estrema sofferenza a dargliene la sensazione reale. Ciononostante, man mano che si muoveva, imparava a poco a poco a usare articolazioni e muscoli. La velocità era molto ridotta e i movimenti goffi. Non poteva fare a meno di un sostegno. Eppure in qualche modo il suo corpo, pur con tutte le sue difficoltà, forse poteva funzionare. Toccò il pomo della porta, provò a tirarlo. La porta non si mosse. Lo spinse, ma non serví a nulla. Allora provò a girarlo verso destra. La porta si aprí verso l’interno con un lieve cigolio. Non era chiusa a chiave. Samsa si affacciò e guardò fuori. Nel corridoio non si vedeva l’ombra di un essere umano. Il silenzio era assoluto, come in fondo al mare. Mise la gamba sinistra oltre la soglia e senza lasciare il pomo si sporse in avanti con la metà superiore del corpo. Poi portò la gamba destra accanto alla sinistra. Tenendosi saldamente al muro, avanzò nel corridoio a piedi nudi. C’erano quattro porte, inclusa quella da cui lui era appena uscito. Porte tutte uguali, di legno scuro. Cosa ci poteva mai essere al di là? Qualche persona? Aveva una gran voglia di aprirle e guardare. Perché forse avrebbe potuto capire qualcosa della sua stranissima condizione. Trovare una parvenza di filo logico. Invece passò davanti a quelle porte cercando di non farsi sentire. Prima di soddisfare la curiosità, doveva calmare la fame. Riempire al piú presto la voragine che si era aperta nel suo corpo. E sapeva benissimo dove andare per mettere le mani su qualcosa di commestibile. Basta seguire l’odore, pensò Samsa fiutando l’aria. Odore di cibo caldo. Di cibo cucinato. Fluttuava in silenzio attraverso l’aria in particelle infinitesimali e veniva a solleticare le sue narici. Le informazioni percepite dall’olfatto venivano trasmesse al suo cervello, creando un’anticipazione cosí vivida, un desiderio cosí violento, che sentiva le budella torcersi come se fosse nelle mani di un efferato inquisitore. La bocca gli si riempí di saliva. Per raggiungere il luogo in cui si originava quell’odore, però, doveva scendere una rampa di scale. Per lui già camminare in piano era un’impresa ardua, figurarsi fare quei diciassette gradini! Sarebbe stato un incubo. Aggrappandosi al corrimano, iniziò la discesa. A ogni scalino il peso del suo corpo gravava sulle sue fragili caviglie, diverse volte ebbe l’impressione di perdere l’equilibrio e stare per rotolare giú. In quella posizione innaturale, tutte le sue ossa e i suoi muscoli urlavano dal dolore. Intanto, Samsa pensava ai pesci e ai girasoli. Se fosse stato un pesce o un girasole, avrebbe potuto vivere tranquillo fino alla fine dei suoi giorni senza bisogno di salire e scendere delle scale. Perché invece era costretto a compiere movimenti tanto innaturali e pericolosi? Non aveva senso. Dopo essere arrivato bene o male in fondo a quei diciassette gradini, Samsa si raddrizzò, e usando le poche forze rimastegli avanzò nella direzione da cui proveniva l’odore di cibo. Attraversò una hall dal soffitto molto alto ed entrò nella sala da pranzo, la cui porta era aperta. Qui, su un grande tavolo rotondo, erano disposti diversi piatti pieni di cose da mangiare. Intorno c’erano cinque sedie vuote, nella stanza non c’era nessuno. Dai piatti si levava ancora un poco di vapore. Il vaso di vetro posto nel mezzo conteneva una dozzina di gigli bianchi. La tavola era apparecchiata per quattro, ma nessuno sembrava aver toccato le posate o i tovaglioli immacolati. Come se delle persone fossero state sul punto di fare colazione, ma qualcosa di imprevisto le avesse spinte ad alzarsi e scappare. Questa era l’impressione che avevano lasciato. E non doveva essere passato molto tempo da quando era successo. Cos’era accaduto? Dov’erano andati, tutti quanti? O piuttosto, dov’erano stati portati? Sarebbero tornati per finire la loro colazione? Samsa però non poteva permettersi di soffermarsi su questi pensieri. Si lasciò cadere sulla sedia piú vicina, afferrò con le mani il cibo disposto sul tavolo e cominciò a mangiare, senza usare né posate, né tovagliolo. Divorò il pane senza metterci burro o marmellata, addentò tutt’intera una grossa salsiccia bollita, masticò un uovo sodo con tutta la buccia, si mise in bocca manciate di verdure marinate e purè

di patate ancora caldo. Masticò ogni cosa insieme e mandò giú tutto quanto bevendo l’acqua direttamente dalla caraffa. Il gusto non gli importava. Buono o cattivo, aspro o dolce, per Samsa non faceva alcuna differenza. L’essenziale era riempire il buco che aveva nello stomaco. Mangiava assorto, come se lottasse contro il tempo. Al punto che una volta, per addentare quello che teneva in mano, si sbagliò e si morse le dita. Pezzetti di cibo erano sparsi dappertutto sul tavolo, un piatto di portata cadde al suolo e si ruppe, ma lui non ci badò. Il tavolo presentava uno spettacolo indecoroso. Sembrava che un grosso stormo di cornacchie fosse entrato dalla finestra aperta e si fosse disputata le vivande a colpi di becco, poi fosse volato via lasciando i resti sparsi ovunque. Quando Samsa, dopo aver mangiato tutto quello che poteva, finalmente tirò il fiato, sul tavolo non restava quasi nulla di commestibile. Aveva risparmiato soltanto i gigli nel vaso. Se di cibo non ce ne fosse stato a sufficienza, probabilmente avrebbe divorato anche quelli. Tale e tanta era stata la sua fame. Dopo, rimase a lungo seduto dove si trovava, lo sguardo perso nel vuoto. Mentre respirava a fondo, le mani sul tavolo, fra le palpebre socchiuse guardava i fiori bianchi nel vaso. Un senso di sazietà lo invase lentamente, come la marea che arriva a coprire la spiaggia. La voragine nel suo corpo andava colmandosi e togliendo gradualmente spazio alla sensazione di vuoto. Samsa prese allora una caraffa di metallo e si versò del caffè in una tazza di ceramica bianca. L’aroma forte del caffè gli ricordò qualcosa. Non era un ricordo immediato, ma una reminiscenza che gli arrivava in modo indiretto, per fasi successive. Come se si trovasse nel futuro e rivedesse quello che stava vivendo adesso sotto forma di ricordo. C’era questa strana doppia dimensione, la memoria e l’esperienza presente sembravano corrersi dietro in un circolo chiuso, avanti e indietro. Mise parecchia panna nel caffè, girò col dito e bevve. Il caffè non si era del tutto raffreddato. Portò la tazza alla bocca e dopo aver fatto una pausa bevve con concentrazione, un sorso dopo l’altro. Il liquido tiepido calmò un poco il suo nervosismo. Tutt’a un tratto ebbe freddo. Cominciò a tremare con violenza. Prima la fame aveva obnubilato ogni altra sensazione fisica, ma una volta riempito lo stomaco, si era accorto che l’aria del mattino era pungente. Il fuoco nel camino era spento. E come se non bastasse, lui era completamente nudo, piedi inclusi. Sapeva che doveva trovare qualcosa da mettersi addosso. Cosí non poteva resistere. Inoltre farsi vedere in quelle condizioni sarebbe stato indecente. Poteva arrivare qualcuno da un momento all’altro. Le persone che fino a poco prima si trovavano lí – quelle che stavano per fare colazione – sarebbero probabilmente tornate. Se l’avessero trovato nudo, gli avrebbero fatto passare dei guai. Per qualche ragione, Samsa sapeva queste cose. Non erano né supposizioni né cognizioni acquisite, ma pura comprensione. Per quali vie tale comprensione fosse arrivata fino a lui, lo ignorava. Forse si trattava di un altro di quei ricordi che ruotavano nella sua testa. Si alzò, uscí dalla sala da pranzo e si diresse verso l’ingresso. Ormai, seppure in maniera goffa e con lentezza, riusciva a procedere sulle gambe senza bisogno di appoggiarsi a qualcosa. Nella hall, in un portaombrelli di metallo, insieme a un parapioggia c’erano diversi bastoni da passeggio. Ne scelse uno di legno verniciato di nero, in modo da potersi sostenere mentre camminava. La sensazione del solido manico contro il palmo era sufficiente a rassicurarlo e dargli fiducia. E nel caso fosse stato attaccato dagli uccelli, se ne sarebbe servito come di un’arma di difesa. In piedi davanti alla finestra, scrutò all’esterno attraverso uno spiraglio fra le tendine di pizzo bianco. La casa dava su una strada. Non una strada molto larga, però, e quasi deserta. Vide solo poche

persone che camminavano frettolosamente. Tutte indossavano degli abiti, di foggia e colori diversi. Erano quasi esclusivamente uomini, ma passarono anche un paio di donne. Gli uomini e le donne erano vestiti in modo differente. Ai piedi calzavano scarpe di rigido cuoio. Alcuni avevano lucidi stivali. Le suole delle scarpe producevano un rumore sordo sul selciato di ciottoli rotondi. Tutti avevano un cappello in testa. Ognuna di queste persone sembrava trovare del tutto naturale camminare su due gambe e non mostrare i genitali. Samsa si spostò davanti al grande specchio della hall e confrontò il suo aspetto con quello della gente che passava per la strada. Si trovò brutto e miserabile, dava un’impressione di debolezza. Aveva la pancia sporca di grasso e di salsa, i peli pubici pieni di briciole di pane. Cercò di spazzarle via con la mano. Devo trovare qualcosa da mettermi addosso, pensò di nuovo. Poi si girò ancora una volta verso la strada, cercò con lo sguardo gli uccelli. Ma non ne vide. Al pianterreno c’erano la hall, la sala da pranzo, una cucina, e un salotto. Ma verosimilmente in nessuna di queste stanze avrebbe scovato dei vestiti. Non era lí che le persone li toglievano e li indossavano. Dovevano tenerli al primo piano. Si fece coraggio e tornò su. Inaspettatamente, trovò molto piú facile salire le scale che scenderle. Tenendosi al corrimano, fermandosi ogni tanto per riprendere fiato, fece quei diciassette gradini in un tempo relativamente breve, senza provare né paura né affanno. Per sua fortuna – occorre dirlo – nessuna delle porte era chiusa a chiave. Bastava girare il pomo e spingere, perché si aprissero verso l’interno. Al primo piano le stanze erano quattro, e a parte quella in cui si era svegliato, fredda e spoglia, erano confortevoli e ammobiliate. Avevano letti provvisti di lenzuola e coperte pulite, armadi, scrivanie, lampade e tappeti dai motivi complicati. Erano ordinate e ben tenute. I libri erano allineati sugli scaffali, e sui muri erano appesi quadri incorniciati di paesaggi dipinti a olio. Tutti raffiguravano bianche scogliere marine, con candide nuvole simili a ciambelle che vagavano nel cielo. I vasi di vetro erano pieni di fiori dai colori vivaci. Non c’erano finestre bloccate da ruvide tavole di legno. Dalle tendine di pizzo filtrava una luce morbida che era come una benedizione. Sembrava che su ogni letto qualcuno avesse dormito fino a poco prima. Sui cuscini restava ancora l’incavo lasciato dalla testa. Nell’armadio della stanza piú grande, Samsa trovò una specie di veste da camera della sua taglia. Piú o meno poteva andare. Gli altri indumenti, non riusciva a immaginare in che modo si dovessero indossare e combinare insieme, era troppo complicato. C’erano tanti bottoni, era difficile distinguere l’alto dal basso, capire cosa andasse sotto e cosa sopra. Ciò che doveva imparare, riguardo ai vestiti, era troppo. In confronto, la vestaglia era molto piú semplice e pratica, non aveva ornamenti superflui e sembrava proprio adatta a lui. Il tessuto, blu scuro, era leggero e morbido, piacevole sulla pelle. Trovò anche un paio di pantofole dello stesso colore. Infilò la vestaglia sul corpo nudo, e dopo molti tentativi falliti riuscí a stringere la cintura intorno alla vita facendo il nodo davanti. Poi, con quella palandrana addosso e le pantofole ai piedi, si guardò allo specchio. Perlomeno era meglio che andare in giro nudo. Se avesse potuto osservare bene in che modo si vestivano le altre persone, di sicuro avrebbe capito anche lui la maniera giusta di indossare gli abiti. Nel frattempo, doveva accontentarsi di quella vestaglia. Non si poteva dire che fosse sufficientemente calda, ma se restava in casa lo avrebbe piú o meno riparato dal freddo. E soprattutto quello che lo rassicurava era il fatto che la sua pelle tanto vulnerabile non fosse piú esposta agli attacchi degli uccelli. Quando squillò il campanello, Samsa stava sonnecchiando nel lettone (era il piú grande di tutti) nella stanza piú vasta della casa, sotto la trapunta. Avvolto in quel caldo involucro di piume si sentiva bene, come all’interno di un uovo. Aveva sognato. Cosa, non lo ricordava. Ma era un sogno piacevole,

luminoso. Proprio in quel momento il trillo del campanello era risuonato in tutta la casa, cacciando via il sogno e riportando Samsa alla fredda realtà. Si alzò, riannodò bene la cintura della vestaglia, infilò le pantofole blu, prese il bastone verniciato di nero e scese lentamente le scale tenendosi al corrimano. Ci riuscí molto piú facilmente della prima volta. Ma il pericolo di rotolare giú sussisteva. Occorreva fare estrema attenzione. Scese i gradini uno per uno, guardando bene dove metteva i piedi. Nel frattempo il campanello continuava a suonare senza sosta in modo assordante. Chi lo premeva doveva essere una persona impaziente, e ostinata. Arrivato al piano di sotto, tenendo il bastone ben stretto nella mano sinistra, aprí la porta d’ingresso. Bastava girare il pomo e tirare verso l’interno. Al di là della soglia vide una donna. Una donna molto piccola. Un miracolo che fosse arrivata con la mano fino al campanello. A guardarla bene, però, non era affatto bassa. Anzi, probabilmente era di statura normale, ma stava tutta piegata in avanti a causa della schiena curva. Con un elastico aveva legato i capelli sulla nuca, in modo che non le ricadessero sulla faccia. Capelli castano scuro, e molto folti. Indossava una lunga gonna che le copriva le caviglie e una giacca di tweed malandata. Intorno al collo aveva una sciarpa di cotone a righe. Non portava cappello. Le scarpe erano solide, allacciate fino alle caviglie. Doveva avere ventidue o ventitre anni. C’era ancora qualcosa di infantile in lei. Gli occhi erano grandi, il naso piccolo, le labbra un po’ piegate all’ingiú, come una luna sottile. Le sopracciglia dritte e nere le davano un’espressione sospettosa. – Questa è casa Samsa, vero? – chiese, girando la testa in modo da guardarlo da sotto in su. Poi si contorse tutta. Come quando la terra si scuote durante un terremoto. – Sí, esatto, – disse Samsa dopo aver esitato un po’. Visto che lui era Gregor Samsa, quella doveva essere casa Samsa. Chi poteva trovare qualcosa da obiettare? La ragazza tuttavia non parve soddisfatta. Corrugò la fronte. Probabilmente aveva percepito nella voce di lui una lieve esitazione. – Sicuro? È proprio casa Samsa? – chiese in tono severo. Come avrebbe fatto un guardiano esperto davanti a un poveraccio. – Sono Gregor Samsa, – disse lui con tutta la calma di cui fu capace. Su questo era certo di non sbagliarsi. – Be’, in tal caso… – fece la ragazza. Poi sollevò a fatica una grossa borsa nera posata ai suoi piedi. Una vecchia borsa logorata dall’uso, probabilmente ereditata da qualcuno. – Allora procediamo –. E senza attendere la risposta entrò per prima in casa. Samsa chiuse la porta. La ragazza, in piedi nell’ingresso, lo squadrò dalla testa ai piedi, considerando con aria sospettosa la vestaglia e le pantofole. – Pare che io l’abbia tirata giú dal letto, – disse poi in tono gelido. – Oh, non ha importanza, – fece lui, rendendosi conto, dallo sguardo sconcertato di lei, di quanto fosse inadeguato il suo abbigliamento. – Mi scusi se mi presento cosí, – disse, – il fatto è che per una serie di circostanze… La ragazza non fece commenti. – Allora? – chiese secca. – Allora cosa? – Allora, questa serratura che non funziona? – Una serratura? – Sí, la serratura rotta –. Fin dall’inizio la ragazza aveva rinunciato a reprimere l’irritazione nel tono della voce. – Mi è stato chiesto di venire ad aggiustare una serratura rotta. – Ah, già, – fece Samsa. – La serratura rotta…

Si sforzava disperatamente di riflettere. Ma appena si concentrava, di nuovo in fondo al suo cervello si formava una scura colonna di zanzare. – A me, riguardo a questa serratura rotta, non hanno detto nulla, – rispose. – Forse è una delle porte al primo piano. La ragazza contrasse il viso e storcendo il collo guardò Samsa da sotto in su. – Forse? – ripeté in tono ancora piú gelido. Poi, inarcando un sopracciglio: – Una delle porte? Samsa si accorse di essere arrossito. Si vergognava di non sapere nulla riguardo a quella serratura. Si schiarí la gola, ma le parole non gli venivano. – Signor Samsa. I suoi genitori adesso non sono in casa? Credo sia meglio che io parli con loro. – No, sono usciti per fare una commissione, – disse Samsa. – Come, sono usciti? – La ragazza era sbalordita. – Che commissione dovevano fare, col caos che c’è in questo momento? – Non lo so, ma quando mi sono alzato, in casa non c’era piú nessuno, – spiegò Samsa. – Cose da pazzi! – disse la ragazza. Poi fece un lungo sospiro. – Eppure erano stati avvisati che qualcuno sarebbe venuto stamattina a quest’ora, per la riparazione. – Sono mortificato. Per qualche secondo lei rimase in silenzio. Poi abbassò lentamente le sopracciglia, e guardò il bastone nero che Samsa teneva nella mano sinistra. – Ha dei problemi alle gambe, signor Gregor? – chiese. – Un pochino, – fu la vaga risposta di lui. Di nuovo la ragazza si contorse tutta, pur restando piegata in avanti. Samsa non capiva che senso o che scopo avessero quei gesti. Ma non poteva fare a meno di provare un’istintiva simpatia per quella complessa sequenza di movimenti. – Be’, non ci possiamo fare nulla, – disse la ragazza rassegnata. – In ogni caso andiamo su e diamo un’occhiata alla serratura di quelle porte. Considerato che ho attraversato il ponte e sono venuta fin qui, dall’altro capo della città, nel bel mezzo di questo pandemonio. Ho quasi rischiato la vita. Sarebbe il colmo che me ne andassi senza fare nulla. «Ah, non c’è nessuno? Be’, fa niente: sarà per un’altra volta…» Non è d’accordo? «Nel bel mezzo di questo pandemonio»? Di cosa stava parlando? Samsa non ne aveva idea. Era successo qualcosa di grave? Decise di non chiedere spiegazioni. Era meglio non mostrare ulteriormente la sua ignoranza. Sempre piegata in due, tenendo la pesante borsa nera con la mano destra, la ragazza si arrampicò su per le scale: sembrava quasi strisciare come un insetto. Samsa, aggrappato al corrimano, la seguiva lentamente. Vederla camminare sollevava in lui una vaga, empatica nostalgia. Arrivata al primo piano, la ragazza si fermò e osservò a turno le quattro porte. – Ha detto che dev’essere una di queste ad avere la serratura rotta, vero? – chiese. Di nuovo Samsa arrossí. – Sí, una di queste, – rispose. Poi, esitando, aggiunse: – Potrebbe essere l’ultima in fondo a sinistra –. Era quella della stanza vuota e disadorna dove si era svegliato quella mattina. – Potrebbe essere… – ripeté la ragazza in un tono inespressivo che faceva pensare a un falò spento. Si voltò e guardò Samsa. – Già, potrebbe… – fece lui. – Signor Gregor Samsa, sa che è divertente parlare con lei? Un vocabolario ricchissimo, proprietà di linguaggio… – disse in tono tagliente. Poi fece un altro sospiro. – Comunque sia, – aggiunse

rinunciando al sarcasmo, – cominciamo da lí, dall’ultima in fondo a sinistra. Andò fino alla porta e provò a girare il pomo. Spinse il battente, che si aprí. All’interno, la stanza era tale e quale l’aveva lasciata Samsa uscendo. L’unico mobile era il letto. Piazzato nel centro dello spazio, sembrava un’isola deserta in mezzo a una corrente oceanica. Sul letto c’era solo il materasso, poco pulito. Era lí che lui si era svegliato nei panni di Gregor Samsa. Non aveva sognato. Il pavimento era nudo e freddo. Alla finestra erano inchiodate assi di legno. Davanti a quello spettacolo però la ragazza non sembrò sorpresa. La sua reazione lasciava pensare che di stanze simili ce ne fossero ovunque, in quella città. Si curvò ulteriormente per aprire la borsa nera, ne tirò fuori un panno di flanella color crema e lo dispiegò sul pavimento. Poi scelse alcuni attrezzi e ve li dispose sopra con ordine. Come un esperto torturatore che allinea con cura i suoi sinistri strumenti davanti alla sua infelice vittima. Prese un fil di ferro di media grandezza, ne inserí un’estremità nel buco della serratura e con gesti sicuri lo mosse in tutte le direzioni. Lo sguardo era attento nei suoi occhi leggermente socchiusi, l’udito teso al minimo rumore. Dopo un po’ scelse un filo piú sottile e ripeté l’operazione. L’espressione contrariata, storse la bocca in una smorfia che ricordava una di quelle appuntite sciabole cinesi. Prese una grossa torcia elettrica e iniziò a esaminare la serratura con espressione severa. – La chiave ce l’ha? – chiese a Samsa. – No, non so assolutamente dove sia, – rispose lui sincero. – Ah, Gregor Samsa, mi fa venir voglia di morire! – disse la ragazza levando gli occhi al soffitto. Dopodiché si disinteressò di lui, prese un cacciavite fra gli attrezzi allineati sul panno e iniziò a staccare la serratura dalla porta. I suoi gesti erano cauti e attenti, non voleva rischiare di spanare le viti. Anche mentre svolgeva quell’operazione, piú volte si fermò per contorcersi tutta. Alle sue spalle Samsa, guardandola muoversi in quel modo, sentí che il suo fisico reagiva in maniera strana. A poco a poco una sensazione di calore pervase il suo corpo, le sue narici si dilatarono. La bocca gli si seccò a un punto tale che quando inghiottí la saliva sentí contro i timpani un suono sordo. I lobi delle orecchie per qualche ragione gli prudevano. E il suo organo sessuale, che fino ad allora era penzolato inerte, gli si indurí, crebbe in spessore e lunghezza, e cominciò a sollevarsi verso l’alto. Il che produsse una protuberanza sul davanti della vestaglia. Ma cosa significava tutto questo? Samsa non ci capiva niente. Dopo aver tolto la serratura, la ragazza la portò vicino alla finestra per esaminarla attentamente alla luce che filtrava fra un’asse e l’altra. La fronte corrucciata, le labbra serrate in una piega storta, la frugò con il fil di ferro e la scosse forte per sentire che rumore faceva. Poi sospirò e si voltò verso Samsa. – L’interno è rotto, – disse. – Aveva visto giusto, la serratura che non funziona è questa. – Oh, bene, – fece lui. – Be’, mica tanto. Non posso aggiustarla qui, adesso, – disse la ragazza. – È un modello un po’ inusuale. Devo portarla a casa e farla vedere a mio padre o a uno dei miei fratelli maggiori. Loro forse potranno ripararla. Io non ne sono capace. Sto ancora imparando, me la cavo solo con le serrature normali. – Capisco, – disse Samsa. Cosí quella ragazza aveva un padre e diversi fratelli maggiori. E tutti quanti erano fabbri. – In realtà avrebbe dovuto venire uno di loro, ma come sa bene anche lei, è successo quel che è successo. Per questo hanno mandato me. La città è tutta un posto di blocco. Detto ciò, la ragazza fece un sospiro che attraversò l’intero suo corpo. – Ma come ha fatto questa serratura a rompersi in questo modo? – proseguí. – Non so chi possa essere stato, ma sembra che qualcuno l’abbia distrutta dall’interno servendosi di uno strumento

apposito. È l’unica spiegazione. Di nuovo si contorse tutta. Quando si contorceva, ruotava le braccia come se praticasse qualche stile particolare di nuoto. Quel movimento affascinava Samsa. Gli faceva battere il cuore. – Posso farle una domanda? – le chiese di punto in bianco. – Una domanda? – ripeté la ragazza scrutandolo sospettosa. – Forza, sentiamo, anche se non riesco a immaginare… – Perché ogni tanto si scuote in quel modo? La ragazza lo guardò a bocca aperta. – Mi scuoto? – Per qualche secondo parve riflettere sulla questione. – In questo modo, vuol dire? – chiese eseguendo il movimento. – Sí. La ragazza lo osservò con occhi che sembravano due pietre. – È per sistemare bene il reggiseno, – disse poi seccata. – Tutto qui. – Il reggiseno? – chiese Samsa. Quella parola non evocava in lui alcun ricordo. – Sí, il reggiseno. Sa cos’è un reggiseno, no? – disse la ragazza come se sputasse fuori le parole. – O trova strano che una gobba come me lo usi? «Gobba?», pensò Samsa. Anche quel termine venne inghiottito nel buio della sua coscienza. Cosa stava dicendo, quella lí? Non ne aveva idea. Ma doveva rispondere qualcosa. – No, non lo trovo affatto strano, – si difese con un filo di voce. – No perché sa, anche io ho due tette come tutte le altre, e ho bisogno di tenerle ferme con un reggiseno. Non voglio mica sembrare una mucca, quando cammino, con le tette che vanno avanti e indietro. – Naturalmente, – disse Samsa, che continuava a non capirci nulla. – Ma dato che sono conciata cosí, trovare un reggiseno che si adatti al mio corpo è impossibile. Perché è un po’ diverso da quello delle altre donne. Allora ogni tanto sono costretta ad agitarmi per rimettere il reggiseno a posto. Per me non è facile, sa, in quanto donna… è molto piú difficile di quanto lei creda! In tanti sensi. Ma a lei piace guardarmi da dietro mentre mi risistemo? La cosa la diverte? – No, no, non è che mi diverta! Mi chiedevo soltanto a che scopo facesse questa cosa strana. Ora Samsa sapeva che un reggiseno serviva a tenere fermi i seni, e che «gobba» indicava la forma peculiare del corpo di lei. Le cose da imparare riguardo al mondo in cui si trovava erano davvero troppe. – Non è che mi sta prendendo in giro, per caso? – chiese la ragazza. – No, affatto. Lei piegò la testa per guardarlo. E comprese che era vero, che non la stava prendendo in giro. Né sembrava malintenzionato. Forse è soltanto un po’ scemo, pensò. Ma sembrava un ragazzo per bene, ed era anche piuttosto bello. Doveva avere una trentina d’anni. Era un po’ troppo magro, aveva le orecchie troppo grandi e un colorito malsano, ma era una persona educata. A quel punto, notò la protuberanza che tendeva ad angolo retto la parte inferiore della vestaglia che lui indossava. – E quello, cos’è? – chiese in tono gelido. – Quel rigonfiamento? Samsa abbassò gli occhi a guardare la montagnola che sollevava la stoffa. A giudicare dal tono di lei, era qualcosa che non si poteva mostrare decentemente in pubblico. – Ah, ecco! Sta pensando «chissà com’è scopare una gobba…» La cosa la incuriosisce, eh? – Scopare? – chiese Samsa. Anche quella parola non l’aveva mai sentita. – Dato che sono piegata in avanti, si sta dicendo che sono in posizione perfetta perché lei mi scopi da

dietro. Giusto? Di tipi come lei, che hanno di queste perversioni, ce ne sono parecchi in circolazione. E tutti sono convinti che noi ci stiamo immediatamente. Ma per sua disgrazia non funziona cosí. – Non so bene di cosa parli, ma se per caso ho fatto qualcosa che l’ha offesa, mi dispiace davvero. Non so come chiederle scusa. Mi perdoni. Non l’ho fatto per malizia. Sono stato malato, e ci sono tante cose che non afferro ancora bene. La ragazza fece un altro sospiro. – Ah, ecco… capisco, – disse. – Lei con la testa non ci sta tanto. Solo il pisello le funziona bene. Non è colpa sua. – Mi scusi, – ripeté Samsa. – Be’, fa lo stesso, – disse la ragazza rassegnata. – Ho quattro fratelli uno peggio dell’altro, di queste cose ne ho viste fino alla nausea fin da quando ero piccola. Lo fanno apposta, per farmi arrabbiare. Sono delle canaglie. Di conseguenza ci sono abituata, mi creda. Si accovacciò sul pavimento per riporre uno per uno i suoi strumenti, avvolse la serratura rotta nel panno color crema e la mise con cura nella borsa nera insieme a tutto il resto. Poi prese la borsa e si alzò. – La serratura la porto a casa. Lo dica ai suoi genitori. Se la si può riparare bene, altrimenti bisognerà sostituirla con una nuova. Ma in questo momento procurarsi una serratura nuova non sarà facile, temo. Quando i suoi saranno di ritorno glielo dica. Ha capito? Se lo ricorderà? Sí, le assicurò Samsa. La ragazza si avviò lentamente giú per le scale, e Samsa piano piano la seguí. Le loro due figure che scendevano uno dietro l’altra erano in forte contrasto. Lei era quasi a quattro gambe, lui stava piegato all’indietro in una posizione del tutto innaturale, eppure avanzavano praticamente alla stessa velocità. Nel frattempo Samsa si sforzava di reprimere «la protuberanza», ma con scarso successo. Tanto piú che a vedere lei camminare, il cuore gli batteva sempre piú forte. Il sangue fresco e vigoroso che gli circolava nelle vene teneva decisamente sollevata la vestaglia. – Come le ho detto prima, in realtà sarebbe dovuto venire mio padre, o uno dei miei fratelli, – disse la ragazza sulla porta di casa. – Ma la città è piena di soldati, ci sono carri armati da tutte le parti. Ci sono posti di blocco a ogni ponte, e molte persone sono state prese e portate via. Quindi gli uomini della mia famiglia non potevano uscire. Se uno viene notato e arrestato, non si sa quando farà ritorno. È troppo pericoloso. Per questo sono venuta io. Ho attraversato da sola tutta Praga. A me forse nessuno fa caso. Conciata come sono, posso tornare utile anch’io, a volte. – Carri armati? – chiese con noncuranza Samsa. – Sí, tantissimi. Dotati di cannoni e mitragliatrici. Anche il suo, di cannone, mi pare bello grosso, – disse la ragazza indicando la protuberanza. – Quelli però sono piú grossi e anche piú aggressivi. Be’, spero che i suoi famigliari tornino a casa sani e salvi. Lei sa dove sono andati, tutti quanti? Samsa scosse la testa. Non ne aveva la minima idea. – Senta, non posso rivederla? – chiese d’impulso. La ragazza piegò lentamente la testa e lo guardò da sotto in su con occhi sospettosi. – Lei vorrebbe rivedermi? – Sí, mi farebbe piacere. – Col pisello dritto come adesso? Samsa gettò un’occhiata alla protuberanza. – Non so spiegarmi bene, ma credo che questa cosa non abbia alcun nesso con quello che provo. Forse è un problema cardiaco. – Ah, ecco, – fece la ragazza. – Un problema cardiaco. È un’interpretazione interessante, sa? Una

novità assoluta, per me. – La verità è che non posso farci niente. – Quindi non c’entra nulla con la voglia di scopare. – Non sto pensando a scopare. Davvero. – Cioè se il pisello le diventa grosso e duro, non è perché lei pensa a scopare, ma perché ha un problema cardiaco. È questo che mi sta dicendo, vero? Samsa annuí. – Lo giura su Dio? – Dio, – ripeté Samsa. Anche quella parola gli tornava nuova. Per qualche secondo rimase in silenzio. La ragazza scosse debolmente la testa. Poi ancora una volta si contorse in tutti i sensi per sistemarsi il reggiseno. – Lasci perdere Dio, tanto credo che se ne sia andato da Praga già da qualche giorno. Forse aveva qualcosa d’importante da fare. Quindi lo dimentichi pure. – Allora possiamo rivederci? – chiese per la seconda volta Samsa. La ragazza sollevò un sopracciglio. Poi sul suo viso apparve un’espressione diversa, come se stesse guardando un paesaggio lontano e nebbioso. – Sta dicendo che vuole davvero vedermi di nuovo? Samsa fece cenno di sí. – E cosa potremmo fare, insieme? – Potremmo parlare. – Parlare di cosa? – Di tutto. – Solo parlare? – Ci sono tante cose che le vorrei domandare. – A che proposito? – Del modo in cui è fatto questo mondo, di lei, di me… La ragazza rifletté un momento. – Non è che vuole soltanto infilare il suo coso dove sappiamo? – No, davvero, – disse Samsa con fermezza. – Semplicemente ho l’impressione che ci siano tantissime cose di cui dobbiamo parlare, lei e io. Dei carri armati, di Dio, dei reggiseni, delle serrature… Un altro silenzio calò fra i due. Si udí il rumore di qualcuno che passava davanti a casa tirando un carretto. Un rumore sinistro che toglieva il fiato. – Sí, ma non so… – disse lei scuotendo lentamente la testa. Il suo tono però non era piú freddo come prima. – Lei viene da una famiglia troppo in alto, rispetto alla mia. I suoi genitori non saranno certo contenti che il loro prezioso figlio si metta con una ragazza come me. Inoltre adesso la città è piena di carri armati e soldati stranieri. Chissà cosa succederà, nei prossimi giorni, nessuno lo può sapere. Naturalmente non lo sapeva nemmeno Samsa. Non capiva nulla del presente e del passato, figurarsi del futuro! Ignorava persino il modo giusto di indossare i vestiti! – Comunque sia, fra qualche giorno tornerò qui da lei, – disse la ragazza. – Per riportarle la serratura. Gliela riporto in ogni caso, che si riesca a ripararla o no. Devo anche farmi pagare. Se lei sarà ancora qui, potremo rivederci. Anche se non so se potremo parlare con calma di com’è fatto il mondo. Davanti ai suoi genitori, però, quella protuberanza è meglio che non la tenga in mostra. Non è il genere di cosa che si possa far vedere come se nulla fosse, nessuno le farebbe i complimenti. Samsa annuí. Non sapeva bene come fare a nasconderla, ma ci avrebbe pensato dopo.

– È strano, però, sa? – disse la ragazza con aria pensosa. – Mentre tutto sta crollando, c’è chi si preoccupa di una serratura rotta, e chi viene a ripararla. A pensarci bene, è assurdo, non trova? Ma forse è meglio cosí, dopotutto. Forse è la cosa giusta da fare. Cioè, anche se il mondo adesso si sta sfasciando, la gente, continuando a occuparsi onestamente di queste piccole cose, forse riuscirà a mantenere l’equilibrio mentale. La ragazza piegò la testa di lato e guardò Samsa in faccia, un sopracciglio sollevato. – Tra parentesi, – continuò, – forse non sono affari miei, ma quella stanza al primo piano, a cosa è servita, finora? Niente mobili, ma una serratura solida come questa. Perché i suoi genitori erano tanto preoccupati che fosse rotta? E perché alla finestra hanno inchiodato delle spesse assi di legno? Non è che per caso lei era rinchiuso lí dentro? Samsa non rispose. Se qualcuno era stato rinchiuso in quella stanza, poteva trattarsi solo di lui. Ma per quale motivo, che necessità c’era di farlo? – Mah, forse non serve a niente chiederle certe cose. Ora devo andare. Se tardo a rientrare i miei si preoccupano. Preghi che riesca ad attraversare sana e salva la città. Che i soldati non degnino di un’occhiata una povera ragazza gobba. Che fra loro non ci sia qualche pervertito cui piaccia fottere una come me. Stanno già fottendo la città, ed è piú che sufficiente. – Pregherò, – rispose Samsa, anche se non capiva cosa significasse quella parola, e neppure «pervertito» o «fottere». Poi la ragazza uscí, piegata in due, la pesante borsa di cuoio nero appesa alla mano. – Ci incontriamo ancora, vero? – chiese di nuovo Samsa alle sue spalle. – Se lo desidera veramente, prima o poi di sicuro ci rincontreremo, – disse lei. Ora nella sua voce c’era una nota di dolcezza. – Faccia attenzione agli uccelli rapaci! – le gridò dietro Gregor Samsa. Lei si voltò e fece cenno di sí. Sulla sua bocca un po’ storta apparve l’accenno di un sorriso. Samsa rimase a guardare attraverso le tendine la figura curva di lei che si allontanava sui ciottoli della strada. Aveva un’andatura goffa, ma procedeva sicura e veloce. Ogni suo gesto gli pareva seducente. Sembrava un girino sulla superficie dell’acqua. Ai suoi occhi, quel modo di camminare appariva molto piú naturale che non avanzare in modo instabile su due gambe. Quando non riuscí piú a vederla, ben presto si rese conto che il suo organo genitale era di nuovo piccolo e molle. La grossa «protuberanza» a un certo punto, chissà quando, era svanita. Il «coso» gli pendeva tra le gambe quieto e inoffensivo, come un frutto innocente. I due testicoli riposavano tranquilli nella loro sacca. Samsa si riaggiustò la cintura della vestaglia, andò a sedersi su una sedia della cucina e bevve il caffè che restava, ormai freddo. Le persone che abitavano in quella casa se n’erano andate. Non sapeva chi fossero, ma probabilmente si trattava dei suoi famigliari. Per qualche oscura ragione erano scappati di corsa. E magari non sarebbero mai piú tornati. Il mondo stava per sfasciarsi… Gregor Samsa non sapeva cosa volesse dire. Non riusciva a immaginarlo. Soldati stranieri, carri armati… era tutto un mistero. Una cosa sola comprendeva bene: desiderava incontrare di nuovo quella ragazza gobba. Anelava a rivederla. Parlare con lei per ore, uno di fronte all’altra. Scoprire insieme, a poco a poco, il mistero del mondo. Voleva guardarla da angoli diversi mentre si scuoteva per rimettere a posto il reggiseno. E possibilmente toccare tutto il suo corpo. Sentire sotto le dita la morbidezza e il tepore della sua pelle. Salire e scendere con lei, insieme, uno accanto all’altra, le scale del mondo. Gli bastava pensare a lei, rivedere mentalmente la sua figura, per sentire un calore in petto. E cominciò a rallegrarsi di non essere un pesce o un girasole. Camminare su due gambe, indossare dei

vestiti, mangiare usando un coltello e una forchetta… tutto questo costituiva una seccatura tremenda, era vero. E al mondo c’era una quantità impressionante di cose da ricordare. Ma se fosse diventato un pesce o un girasole, invece che un essere umano, forse non avrebbe conosciuto quella strana sensazione che gli scaldava il cuore. Cosí gli sembrava. Rimase per molto tempo seduto a occhi chiusi. Assaporava tranquillamente quel calore, come una persona accanto a un falò. Poi si alzò, prese il bastone nero e si diresse verso le scale. Voleva tornare al piano di sopra e cercare di comprendere il modo giusto di indossare i vestiti. Per il momento, questo era il suo compito. Il mondo attendeva che lui imparasse.

Uomini senza donne

Poco dopo l’una, venni svegliato dal suono del telefono. Un suono che in piena notte ha sempre qualcosa di aggressivo. Come se qualcuno cercasse di lacerare il mondo servendosi di un’arma brutale. In quanto membro del genere umano, dovevo farlo smettere. Quindi mi alzai, andai in soggiorno e sollevai la cornetta. Un uomo dalla voce bassa mi diede una notizia: una donna aveva lasciato per sempre questo mondo. La voce era quella del marito. Perlomeno, cosí si presentò lui. Mi disse che la moglie, il mercoledí della settimana precedente, si era suicidata. E che comunque stessero le cose, riteneva doveroso farmelo sapere. Comunque stessero le cose. Da quello che potevo giudicare, nel suo tono non c’era la minima traccia di emozione. Come se dettasse il testo di un telegramma. Nessuna pausa fra una parola e l’altra. Una notizia asettica. Un evento privo di circostanze accessorie. Punto. Come risposi a quell’annuncio? Probabilmente alcune parole le dissi, ma non ricordo piú quali. In ogni caso, seguí un lungo silenzio. Un silenzio che faceva pensare a una profonda buca apertasi improvvisamente nel bel mezzo della strada, e due persone ferme sui due lati a guardarci dentro. Poi l’uomo, senza aggiungere nulla, riagganciò. Cautamente, come quando si posa per terra un fragile oggetto d’arte. Io rimasi in piedi dov’ero, il ricevitore insulsamente in mano. Avevo addosso una maglietta bianca e dei boxer azzurri. Quello che non capivo era come facesse lui a sapere di me. La donna gli aveva fatto il mio nome dicendogli che ero un suo ex fidanzato? A che scopo? E come mai lui conosceva il mio numero di telefono, visto che non ero sull’elenco? Ma soprattutto, perché quell’uomo si era sentito in obbligo di chiamare me per annunciarmi che la moglie era morta? Non riuscivo a credere che lei, nelle sue ultime volontà, avesse lasciato scritto di farlo. Eravamo stati insieme molti anni addietro. E dopo esserci lasciati, non ci eravamo piú rivisti. Nemmeno parlati al telefono. Comunque, tutto questo non aveva importanza. Il problema era che lui non mi aveva dato uno straccio di spiegazione. Sentendo il dovere di informarmi del suicidio della moglie, si era procurato in qualche modo il mio numero. Ma non aveva ritenuto necessario darmi notizie piú dettagliate. Sembrava che il suo scopo fosse stato di piazzarmi in un punto intermedio tra la conoscenza e l’ignoranza. Ma perché? Voleva insegnarmi qualcosa? Cosa, ad esempio? Non ci capivo niente. Andavo moltiplicando i punti interrogativi. Come un bambino che continui a stampare a caso sul quaderno, uno dopo l’altro, timbri di gomma. Di conseguenza ancora adesso non so perché lei si sia suicidata, né quale modo abbia scelto di togliersi la vita. Anche avessi voluto indagare, non ne avevo i mezzi. Ignoravo dove abitasse, e tanto per cominciare non avevo mai saputo che si fosse sposata. Né conoscevo, ovviamente, il suo nuovo cognome (al telefono il marito non si era presentato). A quando risaliva il matrimonio? Aveva dei figli? Eppure presi per buono tutto quello che il marito mi disse al telefono, non dubitai mai che non mi

avesse detto la verità. Dopo essersi separata da me, lei aveva continuato a esistere in questo mondo, si era (probabilmente) innamorata di un uomo, l’aveva sposato, e poi il mercoledí della settimana precedente, per qualche ragione, con qualche mezzo, si era tolta la vita. «Comunque stessero le cose». Nella voce di lui c’era in effetti qualcosa di profondamente legato al mondo della donna morta. Nel silenzio della notte, percepii quel legame. Vidi lo sfolgorio di un filo teso fino allo spasimo. In questo senso – a prescindere dal fatto che fosse intenzionale o meno – telefonarmi all’una del mattino, da parte di lui, era stata una scelta giusta. Se mi avesse chiamato all’una del pomeriggio, forse non avrebbe ottenuto lo stesso risultato. Alla fine posai il ricevitore e tornai a letto. Anche mia moglie si era svegliata. – Chi era? È morto qualcuno? – mi chiese. – No, nessuno. Hanno sbagliato numero, – dissi. Con voce assonnata, strascicando le parole. Naturalmente lei non ci credette. Perché nel mio tono si era insinuata l’ombra della suicida. Il turbamento che crea la morte di una persona ha una fortissima capacità infettiva. Si manifesta in un lieve tremore che si propaga attraverso i fili del telefono, e diventa una vibrazione nella voce che fa oscillare il mondo. Mia moglie però non fece commenti. Distesi uno accanto all’altra nel buio, seguimmo ognuno i propri pensieri, tendendo l’orecchio al silenzio. Era la terza, fra le donne con cui avevo avuto una relazione, che sceglieva di darsi la morte. A pensarci bene, anzi, senza bisogno di pensarci piú di tanto, era un tasso di mortalità altissimo. Stentavo a crederci. Perché non è che fossi stato con tante donne… Per quale motivo si erano tolte la vita una dopo l’altra, ancora giovani? Cosa le aveva obbligate a farlo? Non lo capivo. Purché non fosse colpa mia, mi dissi. Purché io non c’entrassi nulla. Purché non avessero pensato a me come a un testimone oculare, o a qualcuno che registrasse l’evento. Lo speravo sinceramente. Inoltre… come dire? Comunque la si rigiri, lei, la terza donna (per comodità qui la chiamerò Emu), non era il genere di persona che si suicida. Perché Emu avrebbe sempre dovuto essere vegliata e protetta dai robusti marinai del mondo intero! Non posso raccontare che tipo di donna fosse Emu, dove e quando ci siamo conosciuti, quali cose abbiamo fatto insieme. Chiedo scusa, ma se entrassi nei dettagli creerei dei problemi reali. Probabilmente metterei in imbarazzo diverse persone che sono ancora in vita. Di conseguenza tutto quello che posso scrivere, da parte mia, è che molto tempo fa, per un certo periodo, ho avuto con lei un legame assai intimo, e che a un certo punto sono sorti dei motivi per cui ci siamo lasciati. A essere sincero, Emu e io ci conoscevamo da quando avevo quattordici anni. In realtà non è cosí, ma almeno qui supponiamo che lo sia. Ci siamo incontrati a quattordici anni in un’aula della scuola media. Alla lezione di biologia. Si parlava di ammoniti o celacanti o qualcosa del genere. Emu era la mia vicina di banco. Io le avevo chiesto se poteva prestarmi una gomma da cancellare, perché avevo dimenticato la mia, e lei aveva spezzato in due la sua e me ne aveva dato metà. Sorridendomi. E io in un attimo, alla lettera, me ne ero innamorato. Era la ragazza piú bella che avessi mai visto. Perlomeno è quello che pensai quella volta. È cosí che voglio considerare Emu. È cosí che ci incontrammo in un’aula della scuola media. Grazie alla mediazione irresistibile delle ammoniti o dei celacanti. A questo pensiero, tante cose trovano con facilità una spiegazione. Avevo quattordici anni, ero sano e in forma come un pesce appena nato, e ogni volta che soffiava un vento caldo da ovest avevo un’erezione. Ma non era lei a farmelo venire duro. Perché Emu era meglio del vento che soffiava da ovest. Anzi, era talmente straordinaria da sbaragliare tutti i venti, da qualsiasi direzione venissero. Non era certo il caso di avere una patetica erezione davanti a una giovane donna tanto perfetta. Mai una ragazza mi aveva ispirato tali sentimenti.

Io «sento» che quello è stato il mio primo incontro con Emu. In realtà non è andata esattamente cosí, ma pensarlo aiuta a dare un filo logico alla storia. Io avevo quattordici anni, e lei anche. Era quella l’età giusta per incontrarci. In una dimensione ideale. Peccato che in seguito, chissà quando, Emu sia scomparsa. Non la vedevo piú, dov’era finita? Appena avevo distolto per un attimo lo sguardo, qualcosa me l’aveva portata via. Fino a poco prima era lí, e a un certo punto mi sono accorto che non c’era piú. Forse era stata indotta in modo un po’ subdolo a salire su una nave diretta a Marsiglia o in Costa d’Avorio. La mia delusione era piú profonda di qualunque oceano avesse attraversato. Piú profonda di un mare tanto vasto da celare piovre giganti e draghi marini. Cominciai a detestare la mia persona. Non credevo piú a nulla. Ebbene sí, a tal punto ero affascinato da Emu. A tal punto l’amavo. A tal punto ne avevo bisogno. Perché mi ero distratto e avevo guardato da un’altra parte? Paradossalmente, da allora Emu ha continuato a vivere ovunque. La vedevo ovunque. Era presente in molti luoghi, era compresa in molte dimensioni temporali, in molte persone. E io lo sapevo. Ho messo la metà della gomma da cancellare in una bustina di plastica e l’ho portata sempre con me, come fosse un tesoro. O un amuleto. O una bussola. Se l’avessi tenuta sempre in tasca, prima o poi da qualche parte avrei trovato Emu. Ne ero convinto. Era stata incantata dalle lusinghe dei marinai – la sanno lunga, i marinai –, messa su una grande nave e portata in un paese lontano. Perché era una persona che voleva credere alle cose. Che poteva spezzare in due una gomma nuova senza pensarci due volte e darne la metà a qualcuno. Ho cercato di procurarmi a poco a poco dei frammenti di lei prendendoli da gente e da posti diversi. Ma naturalmente erano soltanto dei frammenti. Per quanti ne mettessi insieme, tali restavano. Il nucleo di lei si era dileguato, come un miraggio. L’orizzonte non aveva limite, né sulla terra né sul mare. Mi spostavo di continuo per inseguirlo. Sono andato fino a Bombay, a Città del Capo, a Reykjavík, alle Bahamas. Ho fatto il giro di tutte le città che avessero un porto. Ma quando arrivavo, lei aveva già fatto perdere le sue tracce. Nel suo letto in disordine restava ancora un po’ del suo calore. Appoggiata alla spalliera di una sedia c’era ancora la sciarpa a motivi stampati che portava intorno al collo. Sul tavolo, un libro aperto alla pagina che stava leggendo. Nel bagno le sue calze di nylon appese ad asciugare. Ma lei non c’era piú. I marinai del mondo intero, tempestivi, avevano fiutato la mia presenza e l’avevano portata via di corsa per nasconderla da qualche parte. Naturalmente a quel punto io non ero piú un adolescente. Ero diventato molto piú forte e abbronzato. Avevo la barba piú folta e sapevo distinguere una metafora da una similitudine. Ma una parte di me non era cambiata, aveva ancora quattordici anni. E quella parte di me che avrebbe avuto per sempre quattordici anni attendeva paziente che un dolce vento da ovest venisse a carezzare il mio sesso innocente. Perché lí, nel posto da dove soffiava quel vento, di sicuro c’era Emu. Questo era Emu per me. Non una donna che potesse sentirsi tranquilla in un posto solo. Ma neanche il genere di persona che mette fine alla propria vita. A essere sincero, ora non so piú bene cosa volessi dire qui. Forse intendevo scrivere dell’essenza di qualcosa, non di un fatto reale. Ma parlare di qualcosa di essenziale che non sia anche reale è come dare appuntamento a qualcuno sulla faccia in ombra della luna. Buio pesto, nessun segnale visibile. Inoltre è un luogo troppo vasto. Quello che vorrei dire è che Emu era una donna di cui avrei dovuto innamorarmi quando avevo quattordici anni. Invece è successo molto piú tardi, e all’epoca anche lei (purtroppo) ne aveva tanti di piú. Ci siamo incontrati nel periodo sbagliato. È come se avessimo frainteso il giorno dell’appuntamento. Il luogo e l’ora erano giusti, il giorno no.

Eppure anche dentro di Emu viveva ancora una quattordicenne. In modo globale, certamente non frammentario. Guardando con attenzione, potevo vedere quella ragazzina muoversi dentro di lei. Quando facevamo l’amore, Emu nelle mie braccia poteva diventare molto vecchia o molto giovane. Poteva andare avanti e indietro all’interno del suo tempo personale, lo faceva di continuo. A me piaceva che lei fosse cosí. In quei momenti la stringevo forte a me, tanto da farle male. Forse ci mettevo un po’ troppo ardore. Ma non ne potevo fare a meno. Perché non volevo lasciarla andare via. Tuttavia, com’era naturale che accadesse, a un certo punto l’ho persa di nuovo. Per forza, tutti i marinai del mondo miravano a lei. Non era possibile che fossi il solo a proteggerla. A chiunque succede di distogliere un attimo lo sguardo. È necessario dormire, bisogna andare in bagno. Lavarsi. Affettare le cipolle e sbucciare i fagioli. Controllare la pressione nelle gomme della macchina. Ed è cosí che alla fine ci siamo separati. Cioè, lei si è allontanata da me. C’era di sicuro l’ombra dei marinai, dietro. Un’ombra densa, dotata di vita propria, che si arrampicava sui muri del palazzo. Il bagno, le cipolle e la pressione delle gomme erano soltanto i frammenti delle metafore che quell’ombra spargeva come puntine. Quando lei se n’è andata, sono caduto in un abisso di angoscia di cui nessuno conosce la profondità. È qualcosa che nessuno può sapere. Visto che nemmeno io me lo ricordo tanto bene. Quanto ho sofferto? Quanto dolore ho sentito in petto? Sarebbe bello che a questo mondo esistesse uno strumento per misurare in modo semplice e preciso la sofferenza. Cosí si potrebbe poi quantificarla in cifre e segnare il numero da qualche parte. E se quello strumento lo si potesse tenere sul palmo della mano, sarebbe perfetto. Ci penso ogni volta che regolo la pressione delle gomme. E poi lei è morta. L’ho saputo da una telefonata nel cuore della notte. Non so nulla di questa morte – il luogo, il mezzo, la causa, lo scopo –, se non che Emu ha preso la decisione di togliersi la vita e l’ha messa in pratica. E che ha lasciato in silenzio (probabilmente) questo mondo reale. Anche ricorrendo a tutti i marinai del mondo, servendosi di tutte le loro astute lusinghe, ormai non si può piú tirare fuori – o rapire – Emu dal mondo delle tenebre. Anche tu, se tendi attentamente l’orecchio durante la notte, potrai udire, molto lontano, il canto funebre dei marinai. Insieme a lei, ho la sensazione di aver perso per sempre il me stesso quattordicenne. Come se in una squadra di baseball mancasse un giocatore. La parte della mia vita costituita dal quattordicesimo anno è stata strappata con tutte le radici. È stata rinchiusa in qualche robusto forziere dalla serratura complicata, e buttata in fondo al mare. Forse la porta del forziere non verrà piú aperta, per migliaia di anni. Lo proteggeranno le ammoniti e i celacanti. Anche quel fantastico vento da ovest non soffia piú. I marinai del mondo intero rimpiangono Emu dal profondo del cuore. E anche tutti coloro che sono contro i marinai. Quando sono venuto a sapere della morte di Emu, ho sentito che ero diventato il secondo uomo piú solo e triste al mondo. L’uomo piú solo e triste al mondo naturalmente era suo marito. Gli cedo volentieri il primato. Non so che tipo di persona sia. Non so quanti anni abbia, cosa faccia, cosa non faccia… non so assolutamente nulla di lui. Di lui conosco soltanto una cosa, la sua voce bassa. Ma il fatto che abbia una voce bassa, concretamente non mi dice niente della persona. Che sia un marinaio? Oppure appartenga al gruppo contrario ai marinai? In quest’ultimo caso, è un mio fratello, altrimenti… be’, anche nel primo caso condivido i suoi sentimenti, naturalmente. Mi piacerebbe poter fare qualcosa per lui. Peccato che non possa avvicinarmi a quell’uomo che è stato suo marito. Non conosco il suo nome, non so dove abiti. Può anche darsi che abbia già perso tutto, il nome che aveva, il luogo dove viveva. Perché è l’uomo piú triste e solo al mondo. Nel bel mezzo di una passeggiata mi sono seduto davanti alla statua di un unicorno (si trova in un giardino incluso nel mio percorso abituale) e guardando

l’acqua fredda della fontana ho pensato a lui. Ho cercato di immaginare cosa significhi essere l’uomo piú triste e solo al mondo. Cosa significhi essere il secondo uomo piú triste e solo al mondo, lo so già bene. Il primo però no. Tra il primo e il secondo c’è un fosso profondo. Forse. Profondo, e anche terribilmente largo. Tanto che vi si è accatastata una montagna di uccelli morti, uccelli che a un certo punto hanno perso le forze e non ce l’hanno fatta a volare da un bordo all’altro. Un giorno all’improvviso diventi uno dei tanti uomini che non hanno una donna. Quel giorno viene di colpo a farti visita senza che tu ne abbia il minimo presentimento, senza il minimo preavviso, senza annunciarsi bussando o schiarendosi la gola. Svolti l’angolo, e ti accorgi che ormai sei arrivato lí. Ma non puoi piú tornare indietro. Una volta girato l’angolo, quello diventa il tuo solo, unico mondo. E quel mondo lo chiami «uomini senza donne». Sí, con un plurale di gelo infinito. Quanto sia duro e doloroso essere uno degli «uomini senza donne», solo gli uomini che hanno perso una donna lo sanno. Significa perdere quel fantastico vento da ovest. Venir derubati per sempre – migliaia di anni sono forse vicini all’eternità – del proprio quattordicesimo anno. Sentire lontano il canto triste e sofferente dei marinai. Mescolarsi con le ammoniti e i celacanti in fondo al mare. Telefonare a qualcuno poco dopo l’una di notte. Ricevere la telefonata di qualcuno poco dopo l’una di notte. Darsi appuntamento con uno sconosciuto in un punto intermedio tra la conoscenza e l’ignoranza. Mentre controlli la pressione nelle gomme, versare lacrime sulla strada arida. Comunque sia, davanti alla statua dell’unicorno prego perché quell’uomo un giorno si rimetta in piedi. Prego perché finisca col dimenticare i numerosi fatti complementari, ma non ciò che conta davvero – la sostanza, la chiamiamo semplicemente noi. Sarebbe bene che lui dimenticasse persino di aver dimenticato. Lo spero con tutto il cuore. È importante, no? Perché il secondo uomo piú solo e triste al mondo sta pregando, pieno di compassione, per l’uomo piú solo e triste al mondo (che non ha mai nemmeno incontrato). Ma perché lui ha chiamato proprio me? Non lo sto criticando, però ancora oggi continuo a pormi questa basilare domanda. Perché era al corrente della mia esistenza? Perché si è preoccupato della mia persona? Forse la risposta è semplice. Forse Emu gli aveva parlato di me. Non c’è altra spiegazione. Ma non riesco a immaginare cosa possa avergli detto. Quale valore, quale significato avevo, in quanto ex fidanzato, che lei dovesse rivelare (al marito, di sua volontà)? Era qualcosa di grave che ha una relazione con la morte di lei? La mia esistenza proietta una qualche ombra sulla sua scomparsa? Forse ha detto al marito che io avevo un bel membro. A letto, il pomeriggio, a lei piaceva guardare il mio pene. Lo teneva sul palmo della mano con precauzione, come se ammirasse un gioiello leggendario incastonato in una corona indiana. «Ha una forma stupenda», diceva. Naturalmente non so se sia vero o no. È per questa ragione che il marito di Emu mi ha telefonato? Per deferenza verso il mio pene, all’una passata di notte? Figuriamoci! Non è concepibile! Tanto piú che il mio pene, da qualunque punto di vista lo si consideri, non è niente di speciale. Tutt’al piú è normale. Ora che ci penso, non sono mai stato molto convinto del senso estetico di Emu. Aveva un senso dei valori originale, tutto suo. O forse (è una cosa che mi sto solo immaginando) gli ha detto che una volta in classe, alle medie, mi ha regalato metà della sua gomma da cancellare. Gli ha raccontato quest’episodio di poca importanza senza alcuna intenzione nascosta o malevola. Ma il marito, va da sé, si è ingelosito. Quella mezza gomma che aveva dato a me, ha suscitato in lui una gelosia molto piú acuta che se Emu fosse andata a letto con due autobus di marinai. È naturale, no? Cosa volete che siano due autobus di robusti marinai? In ogni caso, Emu e io avevamo entrambi quattordici anni, e per quanto mi riguardava, all’epoca bastava che soffiasse il vento da ovest perché avessi un’erezione. Ricevere da una ragazza cosí metà di

una gomma che aveva spezzato per me, era già una cosa straordinaria. Come offrire a una tromba d’aria una dozzina di vecchie capanne da sfasciare. Da allora, ogni volta che passo davanti alla statua dell’unicorno, mi siedo lí per qualche minuto e vado col pensiero agli «uomini senza donne». Perché in quel posto? Perché l’unicorno? Chissà, magari anche lui fa parte degli uomini che non hanno una donna. Sí, perché finora non l’ho mai visto accoppiato. Lui – è un maschio, senza possibilità di dubbio – sta sempre solo e protende con forza il suo corno appuntito verso il cielo. Forse dovremmo farne un simbolo di solitudine da portare sulle spalle, in rappresentanza degli uomini senza donne. Dovremmo percorrere in silenzio le strade del mondo con un distintivo raffigurante un unicorno attaccato al petto o al cappello. Senza bisogno di musica, di bandiere, di volantini lanciati in aria a migliaia. Forse (so che uso troppo la parola «forse». Forse). È facilissimo diventare «uomini senza donne». Basta che tu ami profondamente una donna, e lei a un certo punto se ne vada. Nella maggior parte dei casi (ma lo sapete già), a rapirle sono quei campioni di astuzia dei marinai. Le seducono con le loro lusinghe e in quattro e quattr’otto le portano a Marsiglia o in Costa d’Avorio. E noi non possiamo farci quasi niente. Oppure le donne si tolgono la vita di loro volontà, senza che ci sia relazione alcuna con i marinai. Anche riguardo a quest’eventualità siamo impotenti. Lo sono pure i marinai. In ogni caso, è cosí che diventi uno dei tanti uomini senza una donna. In un attimo. E una volta che lo sei diventato, la loro solitudine ti si attacca addosso per sempre, è un colore che ti entra dentro, come una macchia di vino su un tappeto chiaro. Farla sparire è un lavoro improbo. Col tempo può darsi che sbiadisca, ma almeno finché respiri resterà lí, indelebile. Ha le sue prerogative di macchia, che includono a volte il diritto alla parola. E tu dovrai vivere insieme alle sue piccole variazioni, insieme ai suoi contorni che prendono significati mutevoli. In quel mondo, anche la vibrazione dei suoni è diversa. Anche il modo di schiarirsi la gola. E la velocità a cui cresce la barba. Le reazioni del commesso di Starbucks. Persino gli assolo di Clifford Brown ti sembrano differenti. E il modo in cui si aprono le porte dei vagoni della metropolitana. Andando a piedi da Omotesandō a Aoyama 1-chōme, la distanza non ti parrà piú la stessa. E se per caso in seguito incontri un’altra donna, anche se la trovi meravigliosa (anzi, tanto piú se la trovi meravigliosa), da quel momento inizi a pensare che la perderai. Basta un’ombra che ti faccia venire in mente i marinai, il suono della lingua che loro parlano (greco? estone? filippino?) per metterti in allarme. I nomi esotici dei porti del mondo intero ti spaventano. Perché sai bene cosa significhi diventare «uomini senza donne». Sei un tappeto persiano dai colori delicati, su cui la solitudine è una macchia indelebile di Bordeaux. La solitudine viene dalla Francia, il dolore alla ferita dal Medio Oriente. Per gli uomini che hanno perso una donna, il mondo è un grande e doloroso miscuglio, l’immagine stessa della faccia in ombra della luna. La mia storia con Emu è durata all’incirca due anni. Non molto, quindi. Ma sono stati due anni importanti. Certo, si potrebbe dire «solo due anni». Oppure «due lunghi anni». Dipende dai punti di vista, naturalmente. Inoltre parlare di «una storia con lei» forse è fuori luogo, in realtà ci vedevamo due o tre volte al mese. Lei aveva le sue ragioni, e io le mie. E poi, purtroppo, all’epoca non avevamo quattordici anni. Per tutte queste ragioni, tra noi non ha funzionato. E pensare che cercavo di tenerla stretta, perché non se ne andasse. L’ombra densa dei marinai spargeva le puntine aguzze della metafora. La cosa che ancora adesso ricordo meglio di Emu è che amava il genere di musica che si sente negli ascensori. Quella di Percy Faith, ad esempio, o di Enrico Mantovani, Raymond Lefèvre, Frank

Chacksfield… O anche di Francis Lai, Paul Mauriat, Billy Boone, la 101 Strings… roba cosí. A lei quell’innocua musica che io trovavo un po’ fatalista piaceva da morire. Trascinanti orchestre di archi, sentimentali flauti in legno, trombe e sassofoni usati con la sordina, arpe che accarezzano il cuore. Melodie affascinanti che non rischiano di spezzarsi, belle armonie gradevoli come dolci zuccherati, registrazioni in cui si sente un’eco. Quando in macchina ero solo, ascoltavo rock o jazz. Derek and the Dominos, Otis Redding, i Doors… Ma non c’era verso di farli sentire a Emu. Si portava sempre dietro una busta di carta con una dozzina di cassette di musica per ascensore, che infilava nello stereo una dopo l’altra. Facevamo spesso lunghi giri senza una meta stabilita, e nel frattempo Emu muoveva in silenzio le labbra seguendo la melodia di 13 jours en France di Francis Lai. Le sue belle labbra sensuali dal rossetto chiaro. Aveva migliaia di cassette di quel genere. E una conoscenza straordinaria della musica innocua del mondo intero. Avrebbe addirittura potuto aprire un «Museo di musica per ascensore». Quando facevamo sesso, era la stessa cosa. Metteva sempre musica per ascensore. Non so quante volte, mentre facevo l’amore con lei, ho ascoltato A Summer Place 1 di Percy Faith. Mi vergogno un po’ a rivelare questo genere di cose, ma ancora oggi, quando ascolto quella canzone, mi eccito. Il mio respiro si fa affannoso e il sangue mi sale al viso. Credo di essere il solo uomo al mondo a eccitarsi ascoltando l’introduzione di A Summer Place di Percy Faith, potete cercare finché volete. Anzi no, può darsi che ci sia anche suo marito. Lasciamo aperta questa possibilità. Me incluso, ci sono forse solo due uomini al mondo che si eccitano ascoltando l’introduzione di A Summer Place di Percy Faith. Ecco, cosí va meglio. Cosí va bene. Spazio. – Sai, a me piace tanto questo genere di musica, – mi ha detto un giorno Emu. – Può darsi che sia un problema di spazio. – Un problema di spazio? – Sí, perché mentre la ascolto ho l’impressione di trovarmi in un grande spazio vuoto. Uno spazio davvero immenso, privo di divisioni. Niente pareti, niente soffitto. Quando sono lí, non è necessario che pensi a qualcosa, non è necessario che dica qualcosa, che faccia qualcosa. È sufficiente che chiuda gli occhi e mi abbandoni al meraviglioso suono degli archi. Lí non esistono mal di testa, senso di freddo, mestruazioni, periodo d’ovulazione… Tutto è infinitamente bello, confortevole, sicuro… non esistono tentennamenti. Non posso desiderare nulla di piú. – È come stare in paradiso? – Sí. Sono sicura che in paradiso si sente in sottofondo la musica di Percy Faith. Senti, perché non mi accarezzi ancora la schiena? – Sí, certo, – ho detto. – Sei bravo, ad accarezzare la schiena. Henry Mancini e io ci scambiamo un’occhiata furtiva. Con un lieve sorriso agli angoli della bocca. Ormai ho perso anche la musica per ascensore. Lo penso, guidando, ogni volta che sono solo in macchina. Vorrei che mentre aspetto fermo a un semaforo una ragazza che non conosco all’improvviso aprisse la portiera, si sedesse accanto a me, senza dire niente, senza nemmeno guardarmi, e infilasse nello stereo della macchina, senza chiedere il permesso, la cassetta di 13 jours en France. Me lo sogno addirittura. Ma naturalmente certe cose non succedono. Tanto per cominciare, ormai non ho piú uno stereo a cassette. Nella mia automobile attuale ascolto la musica collegando l’iPod a un cavo usb. E naturalmente lí dentro non ci sono la 101 Strings e Francis Lai. Ci sono i Gorillaz e i Black Eyed Peas. Questo significa perdere una donna. E a volte perdere una donna significa perderle tutte. Cosí

diventiamo «uomini senza donne». E naturalmente perdiamo le loro schiene seducenti. E anche Percy Faith, Francis Lai e la 101 Strings. Le ammoniti e i celacanti. Mentre ascoltavo Henry Mancini dirigere Moon River, carezzavo la schiena di Emu seguendo il ritmo di quella musica soave. «Waiting ’round the bend, | My huckleberry friend…» Eppure tutto questo è svanito. È rimasto soltanto un pezzo di gomma da cancellare, e, lontano, il canto sconsolato dei marinai. E l’unicorno che tende verso il cielo il suo corno solitario, sul bordo della fontana. Spero che Emu ora ascolti A Summer Place in paradiso – o in un posto del genere. Che una musica immensa e senza barriere la tenga teneramente fra le braccia. Che lí dove si trova non si sentano i Jefferson Airplane (non credo che Dio sia tanto crudele). E mentre si fa cullare dai violini che suonano in pizzicato A Summer Place sarebbe bello che ogni tanto pensasse a me. Ma è chiedere troppo. Prego perché Emu viva felice, tranquilla, insieme a quella musica per ascensore immortale, anche senza di me. In quanto uno degli uomini senza donne, lo spero dal profondo del cuore. È tutto quello che posso fare. Per il momento. Forse.

1 Tema del film omonimo, del 1959, di Delmer Daves (in italiano Scandalo al sole) [N.d.T.].

Il libro

E se un demone dalle fattezze femminili facesse di tutto per venire a letto con noi? E se un marito decidesse di diventare amico dell’amante della moglie? E se Gregor Samsa si svegliasse una mattina trasformato in un essere umano? Sette storie d’amore e di mistero. Perché d’amore e mistero è fatta la vita, e nessuno sa raccontarla come Murakami Haruki.

«Se la letteratura fosse come la boxe, Murakami avrebbe il dono piú prezioso: la capacità di sferrare un colpo da ko quando l’avversario meno se lo aspetta». «Corriere della Sera» «Murakami Haruki ha la freschezza di chi narra il mondo ricominciando da capo e permettendosi infinite variazioni: non è uno scrittore, ma una serie di scrittori racchiusi in uno». «la Repubblica»

Una mattina Gregor Samsa si sveglia in un letto e scopre con orrore di essersi trasformato in un essere umano. Non ricorda nulla della sua vita precedente. Che fine ha fatto lo spesso carapace che lo proteggeva? E perché adesso è ricoperto da questa sottile, delicata pelle rosa? Chi, o cosa, era prima di quel risveglio? Insomma, adesso Samsa dovrà adattarsi alla nuova e «mostruosa» condizione di uomo. Quando però alla sua porta bussa una ragazza il cui fisico è deformato da un’enorme gobba, Samsa dovrà fare i conti con qualcos’altro di sconosciuto: il desiderio e l’erotismo visto con gli occhi nuovi di chi sa andare oltre le apparenze. Habara, il protagonista di «Shahrazād», è un uomo solo, confinato in una casa nella quale gli è vietato ogni contatto col mondo. Non sapremo mai perché, e in fondo non è importante: quello che sappiamo è che il suo unico svago sono le visite regolari di una donna misteriosa che lo rifornisce di libri, musica, film… e sesso. Ma soprattutto gli racconta delle storie, proprio come faceva Shahrazād. E in queste storie Habara si tuffa come un bambino, finalmente libero. Ecco, è proprio questo che vive il lettore di Murakami: la sensazione di inoltrarsi in un altro universo, di essere «come una lavagna pulita con uno straccio umido, libero da preoccupazioni e brutti ricordi». Almeno fino alla storia successiva. Nove anni dopo I salici ciechi e la donna addormentata, Murakami Haruki regala ai suoi lettori una nuova raccolta di racconti, sette distillati della sua arte e dei suoi temi: il fantastico che irrompe nel quotidiano, la nostalgia per ciò che non è stato, ma soprattutto la ricerca della felicità tra uomini e donne.

L’autore

Murakami Haruki è nato a Kyōto nel 1949 ed è cresciuto a Kōbe. È stato insignito di numerosi premi, tra cui il Franz Kafka Prize e il Jerusalem Prize. Presso Einaudi sono disponibili: Dance Dance Dance, La ragazza dello Sputnik, Underground, Tutti i figli di Dio danzano, Norwegian Wood (Tokyo Blues), L’uccello che girava le Viti del Mondo, La fine del mondo e il paese delle meraviglie, Kafka sulla spiaggia, After Dark, L’elefante scomparso e altri racconti, L’arte di correre, Nel segno della pecora, I salici ciechi e la donna addormentata, i due volumi che raccolgono la trilogia di 1Q84, A sud del confine, a ovest del sole, Ritratti in jazz, L’incolore Tazaki Tsukuru e i suoi anni di pellegrinaggio e Sonno.

Dello stesso autore

La ragazza dello Sputnik Underground Dance Dance Dance Tutti i figli di Dio danzano Norwegian Wood. Tokyo blues L’uccello che girava le Viti del Mondo La fine del mondo e il paese delle meraviglie Kafka sulla spiaggia After Dark L’elefante scomparso e altri racconti L’arte di correre I salici ciechi e la donna addormentata Nel segno della pecora 1Q84. Libro 1 e 2 1Q84. Libro 3 A sud del confine, a ovest del sole Ritratti in jazz L’incolore Tazaki Tsukuru e i suoi anni di pellegrinaggio Sonno

Titolo originale (Onna no inai otokotachi) © 2014 Murakami Haruki. All rights reserved Originally published by Bungeishunjū Ltd., Tōkyō (Koi suru Samsa): © 2013 Murakami Haruki. All rights reserved Originally published in Japan in 2013 in the anthology : Ten Selected Love Stories (Koi Shikute: Ten Selected Love Stories) by Chūōkōron-Shinsha, Inc., Tōkyō © 2015 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino In copertina: © Daniel Egneus / Sara Gentile. Elaborazione grafica di Fabrizio Farina. Questo ebook contiene materiale protetto da copyright e non può essere copiato, riprodotto, trasferito, distribuito, noleggiato, licenziato o trasmesso in pubblico, o utilizzato in alcun altro modo ad eccezione di quanto è stato specificamente autorizzato dall’editore, ai termini e alle condizioni alle quali è stato acquistato o da quanto esplicitamente previsto dalla legge applicabile. Qualsiasi distribuzione o fruizione non autorizzata di questo testo cosí come l’alterazione delle informazioni elettroniche sul regime dei diritti costituisce una violazione dei diritti dell’editore e dell’autore e sarà sanzionata civilmente e penalmente secondo quanto previsto dalla Legge 633/1941 e successive modifiche. Questo ebook non potrà in alcun modo essere oggetto di scambio, commercio, prestito, rivendita, acquisto rateale o altrimenti diffuso senza il preventivo consenso scritto dell’editore. In caso di consenso, tale ebook non potrà avere alcuna forma diversa da quella in cui l’opera è stata pubblicata e le condizioni incluse alla presente dovranno essere imposte anche al fruitore successivo. www.einaudi.it Ebook ISBN 9788858419540

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