Umberto Furioso
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Questa non è una novella satirica e non vuole fare di esponenti politici oggetto di pubblico sberleffo. Si tratta di un ...
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Fabio Larcher
Umberto furioso Dedica All’eccellentissimo e molto onorevole senatore Umberto Bossi, dedichiamo questa novella favolosa e senza senso, scritta alla maniera del signor François Rabelais e di Ludovico Ariosto, il suo umile Fabio Larcher Come convenuto mi accingo a esporvi i terribili fatti dei quali fui testimone. Andò così. Era la fine di agosto, alla festa della Lega di Isorella. Rigiravo da ore, ormai, l’impasto in cui l’assessore ai servizi sociali Rondelli friggeva le rane e le boze e avevo il braccio sinistro tutto indolenzito. Il Senatur (ospite d’onore della festa) stava mangiando una scodella di trippa. L’odore delle salamine sfrigolanti e della porchetta ancora fumante, metteva in fregola i nasi di tutti i cristiani nel raggio di settanta volte sette chilometri; e la musica della fisarmoni-
ca titillava mollemente le orecchie di vecchi e giovani galantuomini e sempreverdi maestre d’amore. Tutto filava liscio. O, meglio, “a suon” di liscio, quando... L’assessore Papaluga e il consigliere di minoranza Giangiorgio Pampigola cominciarono a insultarsi e a picchiarsi a causa di un pezzo appetitoso di salsiccia. Entrambi calzarono pignatte forate e scolapasta a guisa d’elmetto; imbracciarono coperchi anneriti; impugnarono zamponi e prosciutti come mazze; e si abbandonarono a una sconcia zuffa, la quale si comunicò, per simpatia, a tutti i padani festanti. Così, senza ordine né misura, la bella festa adorna di danze declinò in rissa e il demone della discordia non risparmiò né povero né ricco, né operaio né industriale, né commesso né commerciante... Ciascuno mulinava intorno a sé turbini di sberle e sganassoni, pestava, picchiava, bestemmiava, sputava, gridava, ululava, orinava addosso ai nemici e faceva marameo. L’assessore Papaluga e il consigliere di minoranza Giangiorgio Pampigola si trovarono improvvisamente divisi da un muro di marmaglia vociante e malmenante. L’assessore
lanciò allora un grido di frustrazione guerriera e si gettò con il suo grande prosciutto nello sciame dei lottatori, mandandoli tutti a gambe all’aria,finché non riebbe tra le mani il consigliere Pampigola... Ma per poco, giacché il disgraziato si spaventò a tal punto del fumo che usciva dalle narici dell’avversario che, immediatamente, scappò a nascondersi in mezzo alla folla. Allora Papaluga abbrancò una pesante forma di Grana Padano e, chiamando a raccolta tutte le sue forze smisurate, la scagliò contro il fuggiasco. Ahimè, gesto folle e insensato! Il Grana mancò del tutto il proprio bersaglio! Fischiò sulle teste per lo più ammaccate della gente, simile a una palla di cannone dal colore spettrale, o a una luna usata in guisa di palla da birillo. E fu come canta il divino poeta Oibaf Rehcral nel suo poema La follia di Umberto: La forma di formaggio orbita fece su tutti i padiglioni e le bandiere, sfiorando appena appena (quanto lece) le fronde ai pioppi, gli orli del cantiere; e poi nel firmamento color pece sparì né più si vide ricadere.
Intano Umberto, placido, magnava la trippa e sui padani lacrimava. — Amici — borbottava, — ce l’ho duro (il cuore, intedo) a udir come deriso è l’intelletto vostro e che cianuro vi versa nelle orecchie e sopra il viso la classe dei politici: canguro non salta quanto lor né più deciso, di palo in frasca, in voli di Pindàro, né il succo di menzogna, per denaro... Ma sul “denaro” il flusso si interruppe, perché, fischiando, giunse come un lampo, facendo del cervel sanguigne zuppe, il folle cacio che non lascia scampo. La testa a Umberto Bossi al sommo ruppe. Un grido si levò attraverso il campo: — Aiuto, o Dio, ché Umberto, in terra, langue, l’erba nutrendo e il prato, col suo sangue. Il Senatur crollò a terra, zampillando sangue dal cranio spaccato. A quella vista la confusione ammutolì. Mille bocche si aprirono in un’ “o” di stupefazione; mille occhi furono sgranati per la meraviglia; mille nasi gocciolarono per la
costernazione. E, a poco a poco, dalle viscere di quel popolo fiero, spaccone e provinciale, uscì un urlo d’angoscia che i tragediografi elleni se lo sognano e che riempì lo spazio teso fra cielo e terra. Come quando, a mezzanotte, i bambini chiamano , per il timore del buio ricco di mostri, così i padani della Bassa bresciana chiamavano Umberto. E li udirono il cielo dalle ciane chiome e il monte dall’elmo frastagliato. Ma non il superbo Despota, non l’Architetto dei Meli. E io stesso, folgorato dal terrore, scappai dalla festa. Fu allora che il corpo del Senatur scomparve. Solo dopo accurate ricerche riuscii a ricostruire le dinamiche che causarono l’incidente di Isorella e la scomparsa apparente del Senatur. Adesso vi narrerò come si svolsero i fatti. Sappiate che l’urlo angosciato dei padani non cadde nel nulla: giunse alle orecchie forbite di Dio, proprio mentre Egli fumava la pipa. Dio balzò in piedi e convocò una riunione straordinaria del Consiglio Beato.
Come sciami di api ronzano intorno al miele dolce e giallo, così arrivarono i Santi. Dio, nel palazzo di vetro del Cielo (con la dorata stilografica tra le dita terribili) chiese la parola. I Santi ammutolirono. — Il prode Umberto, mio prediletto fra gli uomini, dorme il sonno della morte. Chi è quel trinca orina figlio di pubblica moglie che ha istigato i padani alla zuffa? Chi è quel malandrino sparpaglia briciole che ha guidato il formaggio contro Umberto? Nella schiera dei Santi (solitamente ronzante di chiacchiere mondane e ultramondane) cadde il silenzio. Non si sentiva volare neanche l’anima di una mosca. All’improvviso, con timore reverenziale mascherato da protervia e travestito da falso orgoglio, si fece avanti una figura con le guance rigate da sempiterne lacrime di sangue e disse: —Sono stato io! Era san Gennaro. Dio diventò paonazzo. — Lo sapevo! E perché lo hai fatto? San Gennaro si impettì. — Perché quello scarafone di acqua dolce si pigliava troppe libertà nei confronti dei
miei fedeli napoletani. Voleva rovinare il Meridione. Non lo potevo permettere. Dio sbriciolò la stilografica d’oro. — Balle! Di’ la verità, o ti appendo per gli alluci alla Luna! San Gennaro inghiottì duro, ma gli toccò umiliarsi di fronte allo strapotere del Papà Universale. — Ebbene sì! Ho fatto quel che ho fatto perché odiavo il Senatur. Lo odiavo, perché si credeva superiore ai meridionali. E nessun polentone con il cervello pieno di nebbia deve permettersi di credere una cosa simile: deve limitarsi a tirare fuori il grano e zitto! L’ho fatto perché sono razzista! Il Consiglio Beato si fece ancora più silenzioso. Dio ordinò che il Santo napoletano corresse a riparare il malfatto. — No — disse san Gennaro, con ostinazione (ma le lacrime rosse si moltiplicarono sulle sue guance). Il Consiglio Beato rumoreggiò. Alcuni gridarono allo scandalo. — Ricuci la testa di Umberto! — urlò Dio, con la bava alla bocca. — O comanderò al Vesuvio di seppellire Napoli!
Le ginocchia di san Gennaro si sciolsero al calore della paura edipica. Il Santo, atterrito, raggiunse il Senatur e lo sanò. O, meglio, sanò il corpo, lasciando il poveretto privo di senno e lasciando che si aggirasse per il mondo, simile a un violento troglodita. Non sarò falsamente modesto: se il senno del nostro Senatur venne recuperato fu in gran parte merito mio. Vi stupirò, forse, dicendovi che trovai Umberto nella villa del Cavalier Ridolini? Aveva viaggiato a lungo, del tutto fuor di cervello, finché si scontrò con i trattori dei Cobas del latte. Allora fu preso dalle Erinni che infondono il furore e la mania. Al posto dei trattori vide meretrici che attraversavano nude la tangenziale sud di Brescia e scambiò i contadini e i poliziotti per maiali grufolanti. Pieno di pazzia scagliò se stesso contro i trattori, immaginando che fossero giganti, e li ridusse a pezzi. A un certo punto prese addirittura quattro aratri e, con estrema facilità, cominciò a palleggiarli come un giocoliere. Io passavo di lì per puro caso ed ero ancora sconvolto dagli avvenimenti della notte
precedente; ma quel turbamento scomparve all’istante, cedendo il posto a una viva emozione, allorché vidi il mio Sanatur vivo e vegeto – ancorché impazzito a quel modo. Lo seguii a distanza, mentre lui continuava, infaticabile, a marciare, palleggiando gli aratri. E solo quando arrivammo in provincia di Milano, vicino alla villa del Cavalier Ridolini, si fermò. Qui i gorilla del Cavaliere lo assalirono in numero di duemilaottocentotrentatrè (senza contare le donne e i bambini) e riuscirono miracolosamente a catturarlo, a prezzo di durissime perdite. I centocinque superstiti (contando le donne e i bambini) lo portarono in uno stadio il quale era gremito di folla e nel quale venne schierato il Milan al gran completo. Da una tribuna il Cavalier Ridolini prese la parola, annunciando che quella sera si sarebbe tenuta un’ordalia, per decidere se la Lega potesse vantare voce in capitolo nel governo del Paese. Solo se il Senatur avesse vinto un’impari partita a calcio contro il Milan avrebbe potuto far applicare i punti del programma politico che interessavano la Lega, altrimenti...
Con ciò il povero illuso credeva di avere messo il Senatur a mal partito. Ma questi ammazzò tutti i calciatori a colpi di bischero in testa (e alcuni ne infilzò come casoncelli al burro!) tra le acclamazioni della folla (pagante). Quindi il bestiale Senatur si gettò sull’erba fresca, ronfando per la grande stanchezza. Solo a quel punto potei introdurgli nell’orecchio la piccolissima rotella che aveva perso quella notte infame, a Isorella, e che io mi ero trovato in tasca chissà come. E fu così che potei restituirgli il senno perduto a causa di un Santo dispettoso. Fine
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