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September 13, 2017 | Author: r4dn4v | Category: Nyingma, Dzogchen, Vajrayana, Tantra, Indo Tibetan Buddhism
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Tulkl.J Urgyen Rinpoche

IL

RISVEGLIO Gli ultimi insegnamenti

Vedi la visione del non vedere. Allenati alla medi­ tazione senza nulla su cui meditare. Metti in atto la condotta del non fare. Consegui la realizzazione in cui nulla viene realizzato.

Ubaldi ni Editore - Roma

TuLKU U RGYEN RrNPOCHE

IL RISVEGLIO Gli ultimi insegnamenti In quanto comuni esseri senzienti, sia­ mo coinvolti in un incessante flusso di pensieri. Il pensiero ingannevole si è protratto ininterrottamente per vite in­ numerevoli, fino ad ora. Questa attività mentale non è qualcosa che possiamo semplicemente fermare. Non possiamo neppure liberarcene. Non puoi bruciare i tuoi pensieri, spazzarli via con un sec­ chio d'acqua o farli saltare in aria. Tut­ tavia, il pensiero può essere l'antidoto di se stesso. In altre parole, riconosci la na­ tura del soggetto che pensa; riconosci la vuota conoscenza soffusa di consapevo­ lezza. Nel momento in cui la vedi, sei purificato da infiniti eoni di karma ne­ gativo e di oscuramenti. La gioia e il do­ lore vengono considerati come uguali nella grande estensione dell'equanimità. In questo mondo attraversiamo tutti i tipi di gioia e dolore. Il termine tradi­ zionale tibetano per mondo è 'regno delle possibilità'. Qui niente è impossi­ bile. Dove si manifestano tutte queste possibilità? Nel regno della mente. Per­ ché? Non è la mente che sperimenta tut­ to ciò che è piacevole, sgradevole o neu­ trale? In questo mondo solo la mente può sperimentare. Chi sperimenta è il soggetto che pensa, il pensatore. Non appena il pensatore si dissolve, rimane la sveglia presenza libera dal pensiero. Una persona comune è intrappolata nel pensiero; un buddha è stabile nello sta-· to di non pensiero. Di solito la mente è occupata a pensare alle cose più dis­ parate: "Voglio fermarmi; voglio andare;

voglio fare questo; voglio fare quello". Invece, riconosci la natura del soggetto che pensa, e nel medesimo momento il pensiero svanisce senza lasciare tracce.

TuLKU U RGYEN RrNPOCHE, nato nel T ibet orientale nel 1920, è stato un famoso maestro buddhista vajrayana del ventesi­ mo secolo. Studioso e praticante delle scuole tibetane Kagyu e Nyingma, era il detentore di importanti insegnamenti dzogchen e di terma risalenti al guru Padmasambhava. Si distingueva per le sue profonde realizzazioni meditative e per lo stile d'insegnamento chiaro e con­ ciso, capace di condensare in parole semplici, di immediata rilevanza per lo stato d'animo presente dell'ascoltatore, le sottigliezze della filosofia buddhista. Tulku Urgyen Rinpoche è mancato il 13 febbraio 1996 al suo eremo Nagi Gom­ pa. Tra i suoi libri ricordiamo Dipinti di arcobaleno. L:essenza del tantra: dzog­ chen e mahamudra, e La natura che tutto pervade, che costituisce il primo volume dei suoi ultimi insegnamenti, pubblicati in questa stessa collana.

€ 17,00

IL RISVEGLIO GLI ULTIMI INSEGNAMENTI

di TULKU URGYEN lùMPOCHE

Titolo originale dell'opera AS IT IS VOLUME II

(Rangjung Yeshe Publications, Hong Kong)

Traduzione di GIUSEPPE BAROETTO

© ©

2000, Tulku Urgyen Rimpoche & Rangjung Yeshe Publications 2006, Casa Editrice Astrolabio - Ubaldini Editore, Roma

Prefazione

Gli insegnamenti qui raccolti sono estratti principalmente dai discorsi te­ nuti da Kyabje Tulku Urgyen Rinpoche tra il1994 e il1995. Mentre il volu­ me La natura che tutto pervade metteva in risalto lo stadio dello sviluppo, questo libro verte maggiormente sullo stadio del compimento. Nel Risveglio abbiamo voluto mostrare l'intimità e il calore che si stabili­ vano tra Rinpoche e i suoi studenti. Abbiamo cercato di illustrare fedel­ mente il suo stile mostrando i suoi metodi di interazione. La nostra aspira­ zione è stata di dare al lettore un assaggio di cosa significava stare alla pre­ senza di un maestro che sapeva essere così giocosamente abile, diretto e ispirante. Per rispettare il sigillo di segretezza che vige su questi insegnamenti, è stato necessario omettere alcuni punti delicati. Se ciò dovesse aver lasciato tracce di confusione, vi preghiamo di perdonare l'imposizione. La trasmis­ sione dello Dzogchen non può essere ricevuta solamente tramite libri. E non può essere estrapolata dal corpo di insegnamenti di cui costituisce il pinnacolo, tralasciando il resto. Il lavoro qui condotto sottolinea quanto sia importante ricevere istruzioni di questa natura personalmente da un maestro qualificato, detentore di un lignaggio della tradizione buddhista tibetana. , La natura che tutto pervade includeva brani tratti dalle interviste rilasciate dai figli di Rinpoche dopo la sua morte. Nel Risveglio compaiono invece come introduzione estratti di testimonianze di altri grandi lama; siamo rico­ noscenti di aver ottenuto il permesso di pubblicarli. Ringraziamo sentita­ mente tutti gli amici nel Dharma che hanno lavorato al libro: il revisore Kerry Moran, i correttori di bozze Lynn Schroeder e Michael Y ockey, il trascrittore Dell O'Conner, il direttore dei lavori Michael Tweed, e il finan­ ziatore della pubblicazione Richard Gere. Vi preghiamo di perdonare le ripetizioni; Rinpoche stesso diceva che i suoi discorsi erano come il canto del passero, sempre uguali! Consideriamo Il risveglio un'offerta agli studenti di questa tradizione. Allo stesso tempo,

8 Prefazione speriamo che i nuovi studenti imparino come si richiedono e si praticano le istruzioni sulla mente. In conclusione, qualsiasi merito ottenuto dalla partecipazione a questo lavoro possa aiutare tutti gli esseri a realizzare la Grande Perfezione, e pos­ sa accelerare il ritorno della reincarnazione del nostro prezioso insegnante Kyabje Tulku Urgyen Rinpoche.

MARCIA BINDER ScHMIDT Nagi Gompa, aprile 2000

Introduzione

La vera umiltà discorso di Tarzk Rinpoche Non ho molto da dire, se non queste poche parole. Tulku Urgyen Rinpo­ che e io vivevamo nella medesima regione del Tibet orientale, eppure era come se fossimo molto distanti l'uno dall'altro. All'epoca non potevamo usufruire della tecnologia moderna. Non c'erano aerei, treni o automobili, perciò si viaggiava a piedi oppure a cavallo. Così, un tragitto che oggi pos­ siamo percorrere facilmente con un mezzo moderno, a quei tempi appariva molto, molto lungo. Naturalmente avevamo sentito parlare l'uno dell'altro, ma entrammo in contatto solo quando giunsi per la prima volta nella valle di Kathmandu. Tulku Urgyen viveva già a Kathmandu quando arrivai in Nepal. Cono­ scendolo di fama, insistetti finché acconsentì compassionevolmente a darmi la trasmissione dei Cento potenziamenti del Cho. Allora ero molto povero, quindi non potei fare nessuna offerta significativa per la trasmissione. Sic­ come lui era estremamente gentile ed entrambi provenivamo dalla medesi­ ma regione, ebbi la fortuna di ricevere tutti i potenziamenti. Da quel mo­ mento in poi abbiamo mantenuto una connessione di samaya molto pura, intatta, senza nessun danno o rottura, come un guscio d'uovo delicato ma intero. Tulku Urgyen era estremamente buono e aveva un forte senso della lealtà, perciò quando arrivava a conoscere bene qualcuno non mutava mai i suoi sentimenti verso quella persona. Rispetto alla pratica del Siitra e del Tantra, era più esperto negli insegna­ menti tantrici, e riguardo alle tradizioni Sarma e Nyingma, era più abile nel­ le pratiche Nyingma. Non gli si poteva chiedere apertamente della sua rea­ lizzazione personale. Non l'ho mai sentito affermare di aver avuto esperien­ ze speciali o di aver conseguito un alto livello di realizzazione. Ma sono con­ vinto, senza alcun dubbio, che è stato davvero un praticante straordinario. Chiunque lo incontrasse poteva rendersi conto che era privo di presunzio-

10 Introduzione ne, non aveva ambizioni di grandezza o fama, e non serbava rancore. Trat­ tava tutti con gentilezza e cordialmente, e mai voltò le spalle a un amico. Tulku Urgyen non conosceva l'inganno e la doppiezza. Se diceva qualco­ sa, potevate sempre star certi che il suo cuore e le sue parole erano in armo­ nia. Non agiva con ipocrisia, dicendo una cosa e facendone un'altra. Nelle sue relazioni con le persone non era mai disonesto né inaffidabile. Riguardo alle sue relazioni spirituali, era in connessione con il xvr Kar­ mapa, uno dei lama più importanti nei grandi lignaggi della pratica. Il Kar­ mapa è allo stesso livello del Dalai Lama, di Panchen Rinpoche e Sakya Tri­ chen. Tulku Urgyen è uno dei guru del Karmapa, giacché gli offrì molti po­ tenziamenti e insegnamenti tratti dal Chokling Tersar. Sebbene la sua condizione fosse tale che il Karmapa lo venerava immagi­ nandolo sulla propria testa, Tulku Urgyen non divenne pieno di presunzio­ ne né approfittò di questa fama. Quando si trovava in un gruppo di lama o sedeva in un grande consesso religioso, si rifiutava sempre di presiedere co­ me capo, insistendo ogni volta per sedersi in basso. Prendere il posto più basso è un segno della conseguita sottomissione della propria mente, e que­ sto era il suo comportamento consueto. Eppure, siccome era il guru del Karmapa, per lui sarebbe stato perfettamente lecito mantenere una posizio­ ne importante; invece, essendo un ngakpa, un praticante tantrico, era solito considerarsi inferiore a qualsiasi altro lama o anche a un comune monaco pienamente ordinato. La vera umiltà è un segno dell'esperienza e della realizzazione che abbia­ mo conseguito. Senza esperienza e realizzazione ci lasciamo prendere dagli atteggiamenti mondani, dalla presunzione nei confronti di persone inferio­ ri, dalla gelosia verso persone superiori e dalla competitività rispetto a chi è pari. È inevitabile, perché le cinque emozioni velenose dell'attaccamento, della rabbia, dell'ottusità, dell'orgoglio e dell'invidia sono ancora vive nel nostro essere. Anche se ci si può travestire da monaco che rinuncia al mon­ do o da yogi, queste emozioni negative continuano a manifestarsi di quan­ do in quando. Ma Tulku Urgyen non era per nulla così. La nostra relazione era quella di due fratelli; mi trattava da pari a pari, come se avessimo avuto gli stessi genitori. Quando condivideva con me i suoi pensieri, non c'era mai nessuna discrepanza tra le sue parole e ciò che sentiva veramente. Non intendo dire che altri lama siano inattendibili, ma per me era come se Tulku Urgyen fosse l'unico in cui potessi davvero con­ fidare dandogli tutta la mia fiducia. Forse ciò è dovuto al fatto che io sono all'antica o che i tempi sono cambiati, ma per me era la persona principale a cui mi sarei affidato. In tutti i veicoli buddhisti si insegna che non dovreste considerare la vo­ stra guida spirituale come una persona comune. Nella pratica del Vajrayà­ na, in modo particolare, ogni cosa dipende dal vostro guru; è la base di tut-

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t i i conseguimenti. Perciò invocatelo sinceramente, visualizzatelo nel cielo davanti a voi, fondete la vostra mente con la sua in modo indivisibile e rice­ vete i quattro potenziamenti. Così facendo, avrete ben presto l'esperienza e la realizzazione, e potrete percepire in un solo istante la realtà innata, il Buddha interiore. Questo vale anche quando il guru non è più nel corpo; se lo invocate, potete ancora realizzare la sua natura. Allora, tutti voi disce­ poli, vi prego di fare molta attenzione a mantenere il legame del samaya con il guru. Inoltre ricordatevi ripetutamente delle sue parole che avete udito di per­ sona e applicate la mente a comprenderne appieno il significato. In breve, riguardo all'apprendimento, alla riflessione e alla meditazione, dovreste riu­ nire le parole da voi udite, riflettere sul loro significato e poi metterle in pratica. Così facendo realizzerete gli auspici del vostro guru. Questa vien detta l'offerta della pratica, che è ben al di là delle generose offerte di og­ getti materiali. Naturalmente le offerte materiali sono un'ottima cosa sotto un certo aspetto, ma nulla è superiore a questa 'offerta della pratica'. Appli­ catevi a parole e nei fatti con una fiducia incrollabile, e invocate il guru per­ fettamente concentrati. È di questo che tutti abbiamo bisogno, vi prego di ricordarvene. Forse non occorre che vi accenni, comunque considero i figli di Tulku Urgyen persone straordinarie. Appartengono alla stirpe di Tsangsar, che si ritiene abbia avuto origine da esseri divini. In questa stirpe ci sono stati moltissimi maestri realizzati, tutti straordinari, degni di stima e nobili d'ani­ mo. Credo che i figli di Rinpoche faranno onore al loro retaggio. Questo è per tutti i discepoli di Tulku Urgyen: se continuate a mantene­ re la connessione del samaya con lui per tutta questa vita, durante il bardo e nella prossima vita, di sicuro ne trarrete beneficio. Seguite i consigli che vi ha dato e servitelo come potete. Non c'è nulla di più grande. Soddisfacen­ do il guru siete in grado di rimuovere gli ostacoli. Recargli dispiacere o of­ fenderlo equivale a commettere le cinque cattive azioni più gravi. Qui sta la base che consente di ottenere la realizzazione. Il guru è ritenuto più impor­ tante sia della divinità yidam sia dei protettori del Dharma. La devozione per il guru è la panacea universale. Molti di voi discepoli avete udito le parole di Tulku Urgyen con le vostre orecchie. Vi prego di continuare a seguire i suoi consigli e a mantenere la vostra connessione del samaya. Non c'è nulla di meglio per questa vita, il bardo e la vita futura. Dedicate i meriti che create e pregate con purezza che i suoi auspici si compiano. Per dimostrare che ogni cosa è impermanente, anche un essere sublime come il Buddha Sakyamuni, che era al di là della nascita e della morte, morì a Kusinagara, anche se ciò accadde soltanto al livello della realtà apparente. Similmente, Tulku Urgyen rimane nel dharmadhiitu ed è determinato a ri-

12 Introduzione tornare. Ma il ritorno dipende del tutto dall'interesse e dalle inclinazioni degli esseri senzienti. Non pensate che un maestro morto rimanga passivo; ci sono molti altri regni oltre a questo dove gli esseri possono essere benefì­ cati. La creazione di una connessione per il futuro richiede una grande quantità di meriti. Dunque, fate del vostro meglio per creare meriti e realiz­ zare i suoi auspici. Questo è tutto ciò che posso dire. Vi prego tutti di ricor­ darvene.

Un autentico yogi dello Dzogchen discorso di Tenga Rinpoche Vorrei parlarvi brevemente delle meravigliose qualità di Tulku Urgyen Rinpoche. All'incirca un secolo fa, un nobile maestro che era l'emanazione del principe Murub Tsenpo si incarnò come un grande terton. n suo nome era Chokgyur Lingpa e tutti lo accettarono senza discussioni. È nella stirpe di questo rivelatore di tesori che Tulku Urgyen scelse coscientemente di in­ carnarsi. Da giovane Tulku Urgyen studiò alla perfezione i temi generali ed esote­ rici del sapere. Poi, crescendo, sedette ai piedi del suo eccelso padre nonché di Rigpey Dorje, il XVI Karmapa, e ricevette tutte le istruzioni autentiche. In seguito praticò molto al centro di ritiro di Tsurphu, conosciuto come Pema Khyung Dzong o Dechen Choling. Grazie a questa pratica realizzò l'ultima delle quattro visioni degli insegnamenti dzogchen, quella finale conosciuta come 'consumazione nella dharmatii'. Sulla base di questa realizzazione, Rigpey Dorje, il XVI Karmapa, richiese a Tulku Urgyen gli insegnamenti ter­ ma di Chokgyur Lingpa. n Karmapa era in grado di vedere davvero il passa­ to, il presente e il futuro, inoltre poteva percepire direttamente la morte e la rinascita di tutti gli esseri. Ebbene, il Karmapa, che nella terra innevata del Tibet è acclamato da tutti come essere autentico e perfetto, accettò Tulku Urgyen come proprio guru radice, il signore del mandala. Avendo accettato Tulku Urgyen come proprio guru radice, il Karmapa ricevette nella loro interezza, correttamente e perfettamente, i potenzia­ menti che fanno maturare, le istruzioni che liberano e le trasmissioni di so­ stegno tramite la lettura dei profondi insegnamenti dzogchen e degli inse­ gnamenti !erma di Chokgyur Lingpa. È per questa ragione che considero senza alcun dubbio Tulku Urgyen un autentico yogi dello Dzogchen, il quale ha raggiunto il livello della consumazione nella dharmatii, nonché uno straordinario, grande maestro, pienamente qualificato e perfetto. In questi ultimi anni tutti i detentori di lignaggi del Karma Kamtsang (Shamar Rinpoche, Situ Rinpoche, Jamgon Rinpoche, Gyaltsab Rinpoche, nonché Dabzang Rinpoche e molti altri) hanno accettato Tulku Urgyen co-

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me loro guru radice, lo hanno invocato come il signore del mandala e han­ no ricevuto da lui gli insegnamenti terma completi di Chokgyur Lingpa. Anche da questo punto di vista lo considero senza dubbio un maestro dzogchen realizzato che ha conseguito il livello della consumazione nella dharmatii. Ha trascorso la vita praticando e in ritiro. Gli ultimi anni li ha vissuti nell'eremitaggio di Nagi Gompa. Qui, portata a termine la pratica, compiu­ te tutte le attività e conclusa l'esistenza, ha manifestato la dissoluzione tem­ poranea della sua presenza fisica, allo scopo di ispirare alla pratica noi di­ scepoli che ci aggrappiamo alla permanenza e continuiamo a vivere con at­ taccamento. Credo che fra non molto avremo la grande fortuna di contem­ plare il volto dorato di un sublime nuovo tulku, la cui salute e vita saranno indistruttibili come un diamante. Egli sarà insediato per compiere le azioni notevoli di illimitata messa in moto delle profonde e vaste ruote del Dhar­ ma, proprio come altri nobili esseri e bodhisattva che mai abbandonano il Buddhadharma e gli esseri senzienti. Tulku Urgyen Rinpoche è stato immensamente gentile con me; conferen­ domi i potenziamenti, le istruzioni e le trasmissioni tramite la lettura dello Dzogchen Desum, le Tre sezioni della Grande Perfezione, mi ha accordato con benevolenza la sua compassione. Perciò lo considero uno dei miei spe­ ciali guru radice, un maestro dalla bontà incomparabile.

All'altezza della sfida uno scritto di Tarthang Tulku Uno dei più grandi maestri degli ultimi tempi fu il rivelatore di tesori Chokgyur Dechen Lingpa (1829-1870), considerato un'incarnazione del fi­ glio del re Trisong Deutsen. Gli eminenti lamaJamgon Kongtriil eJamyang Khyentse Wangpo ne rispettavano moltissimo la saggezza e gli ottenimenti, e fu grazie a loro che i suoi insegnamenti ebbero un vasto impatto. Rivelò più di 250 dei testi contenuti nel Rinchen Terdzo, ed è onorato non solo nella tradizione Nyingma, ma anche nelle scuole Karma Kagyii, Drukpa, Drigung, Taklung e Sakya. In verità, dall'epoca di RigdzinJigmey Lingpa, è il più grande dei maestri di terma. li lignaggio di Chokgyur Dechen Lingpa continuò tramite la figlia, Semo Konchok Paldron, che a sua volta lo trasmise ai quattro figli. Uno di essi, Tsangsar Chimey Dorje, fu il padre del nostro amato Tulku Urgyen. Perfettamente dotto nelle tradizioni particolari di Chokgyur Dechen Lingpa, Tulku Urgyen fu anche un grande maestro degli insegnamenti Ka­ ma e Terma della tradizione Nyingma, e fu uno dei più completi detentori di lignaggio dei nostri tempi. Come il XVI Karmapa, suo discepolo, maestro

14 Introduzione e fratello nel Dharma, ricevette insegnamenti da Karsey Kongtriil, figlio del

xv Karmapa e incarnazione di Jamgon Kongtriil.

La devozione mostrata da Tulku Urgyen per Longchenpa, Chokgyur Lingpa, Jamyang Khyentse e J amgon Kongtriil ispirava tutti coloro che lo conoscevano. Negli anni '50 ricevette insegnamenti dal mio guru radice, il secondo J amyang Khyentse Chokyi Lodro, e a questo fine viaggiò a Lhasa e Gangtok. Oltre a ricevere iniziazioni, ebbe molti dialoghi personali con questo grande maestro. Jamyang Khyentse Chokyi Lodro, Dudjom Rinpo­ che e Dilgo Khyentse Rinpoche annoveravano Tulku Urgyen tra i loro con­ siglieri e amici spirituali. Tulku Urgyen non fu soltanto buono, saggio e compassionevole, ma an­ che umile e mite. Era conosciuto come uno yogi e, sebbene non avesse vis­ suto la vita di un eremita di montagna come Milarepa, la sua mente manife­ stava tutte le qualità di quei maestri realizzati. Fu con grande modestia che Tulku Urgyen servì il XVI Karmapa come assistente e consigliere sia nelle questioni spirituali sia in quelle pratiche, dandogli inoltre insegnamenti sul­ l' Atiyoga. Da confidente di fiducia offrì un'assistenza indispensabile in que­ stioni delicate come la lunga disputa sul tempio di Swayambhu. Nell'adem­ piere a tali responsabilità non trascurò mai di portare a compimento un im­ pegno. Tulku Urgyen non era molto noto come studioso, tuttavia la profondità della sua reale comprensione era insuperata, e molti maestri Nyingma e Kagyii avevano soggezione della sua estesa conoscenza. Aveva studiato e praticato perfettamente l'Atiyoga, e i suoi insegnamenti sullo Dzogchen tra­ sformavano la vita di coloro che toccava con gentile e penetrante chiarezza. Come insegnante di meditazione e maestro delle iniziazioni era senza pa­ ri. Noi siamo particolarmente fortunati ad aver ricevuto da lui i profondi insegnamenti del lignaggio di Chokling, grazie ai quali Avalokitesvara e Gu­ ru Padmasambhava si manifestano nella nostra vita. Questi sadhana chiari e diretti rendono accessibili i complessi insegnamenti del Vajrayana. Oltre alla sua grandezza in quanto detentore di lignaggio e al suo valore come insegnante, Tulku Urgyen era abile in tutte le arti e i mestieri. Eccel­ leva in calligrafia, pittura, scultura, creazione di torma, e aveva una cono­ scenza enciclopedica in molti campi del sapere umano. Aveva una notevole conoscenza della storia, comprese le relazioni del Tibet con la Cina e la Mongolia, la storia delle province Kham, Nangchen e Derge, e le biografie dei grandi detentori di lignaggio. Tulku Urgyen è stato molto gentile con i miei figli e me. Lui e io abbia­ mo viaggiato insieme a lungo più di trent'anni fa, e negli ultimi anni mi ha trasmesso diversi importanti insegnamenti, tra i quali il lignaggio orale del Gyu Chubdun (i Diciassette tantra dzogchen) e gli insegnamenti di Chokgyur Dechen Lingpa. L'aver incontrato questo grande lama, il fatto di aver stu-

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diato con lui, ricevuto la sua compassionevole guida e goduto della sua pre­ senza, è veramente una grande benedizione. Le sue amorevoli espressioni e il suo meraviglioso cuore hanno donato a noi tutti una gioia illimitata. An­ che se altri gli sono stati più vicini, posso dire che la sua natura mite, imme­ diatamente evidente a tutti coloro che lo incontravano, era davvero unica. Tulku Urgyen portava la sua conoscenza e i suoi ottenimenti con legge­ rezza. Diversamente da alcuni dotti maestri, che sembrano far lezione ogni volta che aprono la bocca, egli parlava con una tale gentilezza e profonda sensibilità che nessuno esitava a porgli delle domande. Usava la sua cono­ scenza per toccare il cuore di chiunque incontrasse, rendendo la conversa­ zione un piacere. Manifestava così bene la bellezza della compassione, che aveva il dono di far sentire ognuno come il favorito del lama. I suoi disce­ poli rispondevano con una profonda devozione personale e un ardente de­ siderio di apprendere di più. Erano seri nel loro studio e spesso trovavano il modo di fare lunghi ritiri. In questi tempi di Kali Yuga, quando grandi problemi gravano sul Tibet, Tulku Urgyen si è mostrato all'altezza della sfida. Viaggiando in un nuovo paese, ha creato le basi per il Dharma e ha reso largamente accessibili gli speciali tesori dello Dzogchen e del lignaggio di Chokling. Ha grandemen­ te beneficato il Sangha fondando centri, offrendo gli insegnamenti e tra­ smettendo la sua conoscenza. Oggi ci sono più di trenta monasteri nella val­ le di Kathmandu, e personalmente ritengo che gran parte di questa attività scaturisse dalla luce che irradiava da Nagi Gompa, dove confluivano la pre­ senza di Tulku Urgyen, gli insegnamenti di Chokling e le benedizioni di Guru Padmasambhava. Sinceramente, qualsiasi cosa un maestro possa rea­ lizzare, Tulku Urgyen l'ha manifestata perfettamente. Quando ho avuto la fortuna di fermarmi a N agi Gompa, ho percepito in una visione che, tramite le benedizioni di Padmasambhava, il Dharma un giorno si sarebbe diffuso da questa piccola valle, rivitalizzato e di nuovo po­ tente. Ora che il nostro amato insegnante se n'è andato, prego che la sua durevole influenza contribuisca alla realizzazione di questa visione.

Esperienza e realizzazione straordinarie discorso di Thrangu Rinpoche L'esperienza e la realizzazione di Tulku Urgyen Rinpoche erano straordi­ narie, un fatto risaputo ovunque. Non lo devo dire io. È a tutti evidente che era diverso da chiunque quando indicava la natura della mente e si assicura­ va che le persone la riconoscessero e ne facessero l'esperienza reale. In que­ sto senso era straordinario e credo di essere nel giusto se non ne parlo trop­ po. Senza scendere nello specifico, ricordiamo che Tulku Urgyen era nato

16 Introduzione nella famiglia di Chokgyur Lingpa, una stirpe unica. Inoltre è il padre del­ l'attuale tulku di Chokgyur Lingpa, e anche questa è una cosa straordinaria. DOMANDA: Cosa significa il fatto che un lama rimanga in tukdam? RISPOSTA: Il tukdam accade quando qualcuno in vita è rimasto quieto nella sveglia presenza luminosa del samadhi. La durata del tukdam nello sta­ to post mortem dipende dall'esperienza del samadhi. Grazie alla forza del samadhi il calore non abbandona il corpo, la pelle non cambia colore e il corpo può rimanere nella postura seduta con la schiena diritta. La presenza di questi segni visibili dopo la morte indicano che la persona è in tukdam. Quando un praticante muore, si verifica un'esperienza chiamata 'unione delle luminosità madre e figlia'; significa che la luminosità della base e quel­ la della pratica personale si fondono indivisibilmente. In quel momento l'esperienza della sveglia presenza è molto forte. Semplicemente si rimane nel proprio stato di quiete in modo naturale. Questo vuol dire che un grande lama, o qualcuno che abbia un'esperien­ za e una realizzazione profonde, si dissolverà o si espanderà naturalmente nello stato del samadhi. Quando la luminosità della base risplende da se stessa, la riconosce, quindi rimane nell'equanimità; ciò vien detto 'rima­ nere in tukdam'. Anche le persone comuni sperimentano la luminosità della base, ma non essendosi preparate a quell'esperienza in vita, non la riconoscono; e sicco­ me non riescono a riconoscerla, sono incapaci di rimanere in tukdam. Di­ versamente, i grandi maestri fondono naturalmente le luminosità madre e figlia. Nel preciso istante in cui la luminosità della base si rivela loro come un'esperienza diretta, essi riconoscono tale stato fondamentale e rimangono in samadhi. Questo vien detto 'rimanere in tukdam'. D.: Cosa indica un segno come quello del 'cielo terso e la terra senza pul­ viscolo'? R.: Tulku Urgyen Rinpoche preferiva restare nell'ombra, nel senso che non si metteva in mostra. Nascondeva le sue qualità e occultava la sua vera condizione, spesso dicendo: "Non sono nulla di speciale, non sono istrui­ to". Siccome non si metteva in evidenza, al momento della morte il segno del cielo terso e della terra senza pulviscolo si manifestarono a causa del po­ tere e della forza del suo straordinario samadhi. Probabilmente nascose qualunque altro segno, come gli arcobaleni, i raggi di luce, e così via. D.: Qual è stato il rapporto tra il XVI Karmapa e Tulku Urgyen Rinpo­ che? R.: La XVI incarnazione nella linea del Gyalwang Karmapa considerava la stirpe di Tulku Urgyen davvero speciale e perciò ricevette molti dei po­ tenziamenti dei terma di Chokgyur Lingpa da Tulku Urgyen. Inoltre, erano molto vicini l'un l'altro, dal momento che Sua Santità aveva fiducia in Tulku Urgyen come suo consigliere personale nelle questioni sia spirituali

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sia secolari. Come sappiamo, il Karmapa mostrava spesso quanto tenesse in alta considerazione Tulku Urgyen.

Una gemma nella corona discorso di Orgyen Tobgyal Rinpoche

È impossibile giudicare davvero un'altra persona, quindi non potremo mai sapere realmente quale grande maestro fu Tulku Urgyen. Solo un Bud­ dha come Sakyamuni può conoscere perfettamente un altro essere. Tutta­ via, nel ventesimo secolo ci sono stati alcuni maestri di cui si diceva che era come se il Buddha in persona fosse apparso nel mondo. Insieme al XVI (!yalwang Karmapa, Rangjung Rigpey Dorje, e a Kyabje Dudjom Rinpoche, inviato di Guru Padmasambhava, c'è stato anche Kyabje Dilgo Khyentse Rinpoche. All'interno delle scuole contemporanee Kagyii e Nyingma nessun altro è stato più straordinario e ha avuto un impatto altrettanto grande sul Buddhadharma. Tuttavia, tutti e tre questi maestri hanno accolto Tulku Urgyen tra i loro guru radice. Se hanno stimato Tulku Urgyen come loro co­ rona, anch'io ritengo che dovremmo considerarlo speciale. Tulku Urgyen Rinpoche sosteneva tanto l'insegnamento quanto la stirpe di Chokgyur Lingpa. Mantenne vivo questo lignaggio di potenziamenti, istruzioni e trasmissioni tramite la lettura, non solo praticandolo di persona, ma anche assicurandosi della sua continuazione; a questo fine lo trasmise al Karmapa e a Dudjom Rinpoche, così come a molti altri. La sua attività a be­ neficio di questo lignaggio di Dharma è un'espressione di immensa bontà che considero davvero speciale. La stirpe di Tulku Urgyen deriva dalla fi­ glia di Chokgyur Lingpa, Konchok Paldron, e il di lei figlio Chimey Dorje, che fu padre di Tulku Urgyen. Così lui discendeva direttamente dal grande terton. Una vòlta Konchok Paldron chiese a Jamyang Khyentse e Jamgon Kong­ triil cosa sarebbe stato meglio per lei, se diventare monaca o sposarsi. En­ trambi i maestri risposero: "Dovresti prendere marito; in futuro nella tua discendenza apparirà qualcuno che beneficherà gli esseri. È molto impor­ tante". Dunque sposò un figlio della famiglia Tsangsar. La coppia ebbe molti fi­ gli, tra cui lo zio di Tulku Urgyen, il grande maestro Samten Gyatso, che fu di immenso beneficio alla continuazione degli insegnamenti Tersar e riuscì a compiere grandi imprese. Questo lignaggio continua grazie ai molti figli di Tulku Urgyen, che sono ancora tutti vivi e vegeti. Sebbene ciascuno ab­ bia un titolo e la responsabilità di sostenere il proprio lignaggio, spero che praticheranno personalmente e trasmetteranno anche gli insegnamenti di Chokgyur Lingpa, il lignaggio personale del loro padre.

18 Introduzione Oggi molti sono convinti che Tulku Urgyen Rinpoche fosse unicamente uno yogi dello Dzogchen che viveva nel suo eremo montano, N agi Gompa, dedicandosi solo alla pratica, e concludono che era un buon lama con un'alta realizzazione. Siccome minimizzava le proprie capacità, pare che so­ lo poche persone conoscano nei particolari le sue qualità al di là di questi semplici fatti. Ma quando rifletto su ciò che so personalmente, mi rendo conto che era anche un notevole studioso. Tulku Urgyen non era conosciuto come un erudito. Tuttavia, se investi­ ghiamo scendendo nei dettagli, a partire dalle sue abilità nella lettura, ve­ diamo che era uno studioso in grado di leggere diversi tipi di caratteri, comprese le rare varietà di lantsa e wardu. Era esperto di grammatica, poe­ sia e delle scienze comuni, tanto che è difficile scoprire qualcosa in cui fos­ se ignorante. Riguardo alla conoscenza interiore del buddhismo, aveva in­ contrato molti dotti maestri, ed era particolarmente versato nel Ngakso, nel Lamrim Yeshe Nyingpo e nel Guhyagarbha Tantra.1 Era un notevole calli­ grafo, edotto su diversi sistemi di scrittura oggi praticamente dimenticati. Non solo era esperto di lantsa e wardu, ma anche di uchen e umey. Consi­ derando tutto questo, personalmente ritengo che fosse molto istruito. Tulku Urgyen Rinpoche era anche un abile artista. Sapeva scolpire statue originali, a differenza degli scultori professionisti che in genere non fanno altro che ripetersi, perciò le sue sculture di divinità spesso avevano propor­ zioni più belle. Alcune di queste creazioni possono essere viste nei templi dei protettori del Dharma a Ka-Nying Shedrub Ling. Nel gonkhang, o tem­ pio dei protettori Nyingma, c'è una straordinaria maschera di Mahakala, mentre nel tempio Kagyii c'è una maschera di Bernakchen, il 'Mantato di nero'. Quando contemplo queste maschere ho la sensazione che nessun ar­ tista comune avrebbe potuto produrre opere simili. E se qualcuno vuole co­ noscere la sua abilità nel cucire, sarò lieto di mostrare la corona che fece per il Tulku di Chokling. Ricreò a memoria la corona di Chokgyur Lingpa, un'impresa non certo facile. C 'è una cosa strana a cui vorrei accennare. Le espressioni della realizza­ zione non appaiono sempre con perfetta chiarezza. Spesso ho avuto modo di notare nei discorsi di Dilgo Khyentse Rinpoche, o nei suoi scritti, come tutto ciò che diceva scaturiva con eloquenza e fluidità. Ma altre volte sem­ brava impedito nella parola. La stessa cosa accadeva a Tulku Urgyen; di tanto in tanto aveva molta difficoltà a leggere e la sua vista peggiorò al pun­ to che dovette sottoporsi a un'operazione agli occhi. Quando affrontava problematiche mondane era molto abile. Tante volte

1 Il Ngakso Drubchen è stato pubblicato con il titolo Ocean o/Amrita. La serie Li­ gh t o/Wisdom (Rangjung Yeshe Publications) include alcuni insegnamenti sul Lam­ rim Yeshe Nyin gpo.

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le persone non riescono a decidere cosa fare anche se studiano il problema insieme. Ma Rinpoche era sempre in grado di prendere una decisione in ar­ monia con le consuetudini religiose e sociali; sembrava che sapesse ogni volta quale fosse il miglior piano d'azione, dando consigli senza esitare. Spesso le persone scoprivano di non aver neppure pensato alla soluzione da lui proposta che, una volta sentita, appariva la più ovvia. Erano tranquilliz­ zati dalla sua decisione, ed erano sicuri che fosse la soluzione migliore. Ec­ co un altro esempio del potere della sua intelligenza. C'è un noto detto Kagyii: "La devozione è la testa della meditazione". La devozione si basa sul proprio guru, quindi il metodo più importante è cre­ dere con devozione che il proprio guru sia davvero il Buddha. Realizzare il desiderio del guru perfettamente e servirlo in qualsiasi maniera è il modo corretto di applicare le istruzioni orali. A questo riguardo, il senso di fidu­ èia, lealtà e samaya di Tulku Urgyen nei confronti degli altri maestri fu co­ stante. Considerava i suoi maestri come il Buddha in persona. Dal momen­ to in cui stabiliva un collegamento con un maestro ricevendo da lui il po­ tenziamento e le istruzioni, la sua fiducia era incrollabile. Se si presentava l'occasione di realizzare il desiderio del guru, era disposto a dar via genero­ samente tutto ciò che possedeva, senza preoccuparsi degli stenti. In caso di necessità sarebbe stato pronto a sacrificare persino la vita senza esitazione o rincrescimento. Una volta Rinpoche assunse la responsabilità di una dispu­ ta legale per conto di Gyalwang Karmapa, e la cosa si trascinò per anni e anni. Rinpoche alla fine vinse, ma non ne guadagnò nulla perché fu solo a beneficio del suo maestro. Tulku Urgyen Rinpoche era un uomo capace di avvalorare le sue parole con l'azione. Nelle questioni sia religiose sia secolari non si limitava a dire ciò che occorreva fare, bensì lo faceva direttamente. Non rimaneva impi­ gliato in una rete di concetti; invece prendeva una decisione senza mai du­ bitare né esitare. Ecco com'era. Quando si parla delle scritture buddhiste (la Via di Mezzo, la Prajiiiipii­ ramitii, e così via) il 'lignaggio dell'esposizione' punta a spiegare la sintassi e l'intento. Ma l'erudizione non è soltanto questione di conoscenza delle pa­ role e del loro significato; c'è anche la trasmissione del significato autentico. Tulku Urgyen era un pm:ufita nel vero senso della parola. Un volta andai a trovare Tulku Urgyen per chiedergli chiarimenti su un verso tratto dal nono capitolo del Bodhicaryiivatiira (La via del bodhisattva) di Santideva: Quando davanti all'intelletto non ci sono più né la concretezza né la sua assenza, in quel momento non c'è nessun'altra forma mentale, quindi c'è pace totale senza concetti.

20 Introduzione L'avevo studiato diverse volte e ne avevo chiesto spiegazione a molti khenpo, eppure continuavo a ritenere che nessuno di loro mi avesse dato una risposta adeguata. Domandai a Tulku Urgyen anche a proposito di al­ cuni punti negli insegnamenti della Pra;naparamita dove si dimostra la va­ cuità, per esempio l'affermazione che la vacuità non ha forma, suono, e così via. Soltanto Tulku Urgyen fu in grado di provare logicamente la veridicità di queste affermazioni. Per me la sua logica dimostrava davvero la vacuità, mentre gli altri studiosi la dimostravano soltanto a parole. Una volta la reincarnazione di Neten Chokling, Tulku Pema Wangyal, salì a Nagi Gompa insieme ad alcuni di noi per trascorrere qualche giorno con Tulku Urgyen ponendogli domande. In quell'occasione lui espose con chiarezza la logica che dimostra la vacuità. La sua chiarezza ci sorprese. La spiegazione di come tutti gli esseri senzienti abbiano la natura di buddha prova anche che essa è una qualità intrinseca. Questa dimostrazione è spe­ cifica della più alta scuola della Via di Mezzo conosciuta come Shentong. Nelle biografie di molti grandi lama leggiamo che, per mostrare rispetto al­ la natura di buddha, arrivavano anche a inchinarsi davanti a vecchi cani e a circumambularli dicendo: "Mi rifugio nella natura di buddha". Tulku Urgyen aveva una fiducia e una fede assolutamente pure, basate sulla comprensione personale, diretta, del fatto che la natura di buddha è presente realmente in ogni essere senziente. Così come l'olio è presente in ogni singolo seme di sesamo, ogni essere senziente può realizzare lo stato ri­ svegliato, quindi possiede la base dell'illuminazione. Perciò Tulku Urgyen mostrava rispetto per ogni essere senziente e non si opponeva mai a nessu­ no. Non era un atteggiamento superficiale, bensì qualcosa che sentiva dal profondo del cuore. Tulku Urgyen dimostrava anche una vasta comprensione del significato dell'Uttaratantra, del Hevajra Tantra e del Pro/onda significato interiore, i testi preferiti nel lignaggio Kagyii. All'interno della scuola Nyingma aveva un'incredibile conoscenza sia del testo radice del Lamrim Yeshe Nyingpo sia del suo commentario composto da Jamgèin KongtriU. Aveva memorizza­ to la maggior parte del testo radice e aveva studiato più volte i commentari di Rinchen Namgyal e Khenpo Jokyab. Era molto esperto di Vajrayana, avendo studiato il Guhyagarbha Tantra, L'essenza segreta della rete magica. Nel corso di un colloquio con Dilgo Khyentse Rinpoche mi fu chiaro che Tulku Urgyen aveva anche una perfetta comprensione del Guhyagarbha Tantra. Durante il primo Ngakso drubchen svoltosi a Ka-Nying Shedrub Ling, ebbi l'opportunità di porre a Tulku Urgyen alcune domande sui dieci signi­ ficati del mantra. Le chiare spiegazioni che ricevetti mi fecero apprezzare la sua erudizione nel Guhyagarbha Tantra. Aveva anche una conoscenza ap­ profondita di molti altri tantra ed era particolarmente acuto nel definire i

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kiiya e l e saggezze, i 'cakra delle nuvole di lettere', i suoni e i l significato del mantra. In breve, il titolo di 'pa?Jcfita del senso definitivo' gli si addiceva al­ la perfezione. Rispetto alle cerimonie tantriche, Tulku Urgyen Rinpoche era esperto dei mandala per le attività di accrescimento, dei quali conosceva le propor­ zioni e i relativi rituali della danza sacra e di esorcismo. Era un abile creato­ re di torma nonché un esperto umdzey, maestro di canto. Aveva una note­ vole conoscenza di architettura e di tutti gli altri indispensabili campi del sapere collegati alla pratica buddhista tibetana. Mentre alcuni umdzey si li­ mitano a cantare le cerimonie dall'inizio alla fine, il canto di Tulku Urgyen era impregnato di una particolare benedizione che poteva indurre devozio­ ne. Quando conferiva un potenziamento, anche se il rituale non consisteva in nient'altro che nel porre un vaso sulla testa di qualcuno, i partecipanti ·avevano la sensazione che fosse realmente qualcosa di speciale. Pure il mo­ do in cui guardava le persone faceva loro capire che non era per nulla un uomo comune. Quando conferiva il potenziamento a un'assemblea di migliaia di perso­ ne, seduto su un trono di cuscini di broccato, non dava mai l'impressione di essere fuori posto. li suo contegno e portamento, solenne e nobile, non ap­ pariva mai artificioso. Era davvero straordinario. Rinpoche usava sempre toccare con la propria la testa di chiunque lo av­ vicinasse, anche il più povero operaio nepalese, chiedendogli: "Come stai?". E sul volto di quella persona avreste potuto vedere una felicità supe­ riore che se avesse ricevuto migliaia di rupie. Il solo fatto che qualcuno ci chieda della nostra salute e ci tocchi la fronte con la sua non giustifichereb­ be una tale contentezza, eppure la gente ne era felice. Molti stranieri hanno cambiato totalmente la loro visione della vita in seguito a un solo incontro con Rinpoche, dal quale hanno sentito di essere straordinariamente bene­ detti. I praticanti ritenevano di ricevere benedizioni e anche la gente comu­ ne era convinta che accadesse qualcosa di inusuale. Chiunque si trovasse al­ la sua presenza non provava mai stanchezza, neppure quando l'incontro durava diverse ore. L'opposto di ciò che accade incontrando certi politici, quando non si vede l'ora di andarsene. Per quanto mi riguarda, non mi so­ no mai stancato di stare con Tulku Ugyen; ho provato soltanto felicità. In tutti i suoi discorsi non c'era mai traccia di pregiudizi. Toccando le questioni religiose o quelle secolari, parlava sempre con onestà e chiarezza, senza mai mostrarsi presuntuoso o mentire. Aveva anche una buona memo­ ria, e parlava di eventi del lontano passato come se fossero accaduti il gior­ no prima. Nessuno voleva lasciare la sua presenza; la gente desiderava sem­ pre fermarsi più a lungo e semplicemente non se ne andava. Si dice che ab­ bia rimproverato qualcuno, ma non ho mai conosciuto nessuno che sia sta­ to davvero rimproverato. Non l'ho mai sentito usare parole dure. Nel me-

22 Introduzione desimo tempo, chiunque vivesse accanto a lui o lo conoscesse da molti anni provava soggezione e un senso di timore reverenziale. La sua stessa presenza era potente. Per esempio, se dovevate rientrare nella sua stanza poco dopo esserne usciti, vi avrebbe salutato con il medesi­ mo rispetto e voi avreste continuato a sentirvi intimoriti. Inoltre, di fronte a lui non avreste potuto dire sciocchezze; dovevate scegliere le parole con sincerità. Le qualità di chi ha tagliato del tutto i legacci dell'egoismo e persegue soltanto il beneficio altrui non sono necessariamente visibili. Ma è difficile trovare una persona più altruista di Tulku Urgyen. Quando ci concentria­ mo sul beneficio altrui, i nostri obiettivi si realizzano automaticamente sen­ za alcuno sforzo intenzionale da parte nostra. La costruzione di un mona­ stero è un'impresa molto difficile, che a volte sembra comportare ostacoli insuperabili. Ma la maggior parte delle persone non sa quanti templi abbia costruito Tulku Urgyen. E nessuno sa neppure con esattezza quanti anni sia rimasto in ritiro, quali pratiche abbia fatto e quante recitazioni di mantra abbia completato. La gente è in grado di dire vagamente che fece il ritiro una o due volte in Tibet e una ancora in India, ma oltre a ciò nessuno sa nulla. Immagino che abbia dedicato approssimativamente metà della vita alla pratica intensiva in ritiro. Non ci sono resoconti precisi di quali potenziamenti, trasmissioni e inse­ gnamenti abbia ricevuto. Ma è probabile che abbia ricevuto la maggior par­ te degli insegnamenti Kama e Terma della scuola Nyingma, tutti gli inse­ gnamenti Kagyii e il sistema Lamdrey della scuola Sakya, nonché molti altri lignaggi. Ogni volta che si affrontava un particolare insegnamento e se ne chiedeva spiegazione a Tulku Urgyen, sembrava che lui ne detenesse la tra­ smissione. Aveva ricevuto un oceano di insegnamenti. Le sue uniche prati­ che del cuore erano il Chetsiin Nyingtig e il Kiinzang Tuktig, appartenenti alla Grande Perfezione. Tutti lo riconoscono unanimemente come un gran­ de yogi dello Dzogchen. Non sta a me parlare del suo conseguimento della grande realizzazione, ma nel1985, dopo un colloquio con Dilgo Khyentse Rinpoche, Sua Santità mi disse che Tulku Urgyen aveva raggiunto il livello del 'culmine della con­ sapevolezza'. Chi è arrivato al culmine della consapevolezza non ha nient'altro da realizzare che la 'consumazione nella dharmatii', dunque ave­ va conseguito la realizzazione finale della Grande Perfezione. In breve, è perfettamente giusto considerarlo un maestro sia studioso sia realizzato. Da un punto di vista personale posso affermare di non aver mai incon­ trato qualcuno superiore a Tulku Urgyen. Nessuno più di lui sapeva davve­ ro perseguire perfettamente lo scopo del Bodhicaryiivatara di Santideva. Senza preoccuparsi della fatica personale, aspirava sempre a fare tutto il possibile per beneficare gli esseri senzienti. Era anche molto umile e schivo,

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in totale accordo con l'ideale del bodhisattva espresso da Siintideva. Tratta­ va tutti, indipendentemente dall'importanza di ciascuno, con il medesimo affetto e attenzione, insegnando loro allo stesso modo. Per arrecare il mag­ gior beneficio, cercava sempre di comunicare usando il linguaggio più adat­ to a chi lo ascoltava. L'ideale bodhisattvico dell'attività simile all'oceano si rifletteva non solo nel suo insegnamento, ma anche in tutte le conversazioni che aveva. Non l'ho mai visto donare la propria testa, le braccia o le gambe come si racconta di alcuni bodhisattva, sono assolutamente certo che è sta­ to un grande bodhisattva in grado di compiere quei gesti. Per quanto riguarda il Vajrayiina, aveva perfezionato le pratiche di en­ trambi gli stadi dello sviluppo e del compimento. So che fece almeno quat­ tro ritiri di tre anni praticando siidhana e recitazione. In seguito rimase in ciò che potreste chiamare 'ritiro a vita' nel suo eremitaggio di Nagi Gompa. Le scritture menzionano ciò che viene chiamato il 'triplice raccogliere' e il 'triplice divampare' , conseguito col perfezionamento delle pratiche degli stadi dello.sviluppo e del compimento. Sono convinto che possedesse que­ ste realizzazioni completamente. Poteva dare un potenziamento, l'istruzione o la trasmissione tramite la lettura, eppure prestava sempre la massima attenzione, preoccupandosi di beneficare gli uditori, in modo particolare quando dava i sublimi insegna­ menti dzogchen. Era diverso da molti insegnanti che, essendo inconsistenti, in apparenza danno insegnamenti sullo Dzogchen ma insegnano soltanto le parole. Quando Tulku Urgyen impartiva l'istruzione dell'indicazione diret­ ta, indicava la nuda realtà direttamente. Una volta in Taiwan vidi Tulku Urgyen dare l'istruzione dell'indicazione diretta a un raduno di più di mille persone. Nonostante la dimensione del gruppo, indicò la nuda realtà direttamente, senza tralasciare nulla. Questo è un esempio di ciò che viene chiamato 'espressione della capacità compassio­ nevole', perché fu all'altezza della situazione grazie al potere della sua realiz­ zazione. Disse: "L'istruzione orale è come una candela: finché l'avete con voi potete vedere, ma quando la lasciate non c'è più luce. Siccome voi tutti vi sie­ te presi il disturbo di venire qui, confidando di sentirmi parlare, credo di non potermi rifiutare di darvi l'istruzione dell'indicazione diretta". Quindi diede l'istruzione sulla visione a faccia a faccia della propria natura, e lo fece in mo­ do impareggiabile, tanto che neppure i grandi Khyentse, Kongtriil o Long­ chenpa avrebbero potuto fare di meglio. Tuttavia, in seguito incontrai sol­ tanto poche persone in quel gruppo che riconobbero davvero la loro natura. li modo in cui Urgyen Tulku presentava i lineamenti generali della base, della via e del frutto della Grande Perfezione non era straordinario in con­ fronto a quello di altri maestri, ma se gli chiedevate a proposito di una sola parola, per quanto sottile o profonda fosse la connotazione, la sua risposta era ugualmente sottile e �rofonda. Dzongsar Khyentse e io ritenevamo che,

24 Introduzione invece di dedicare mesi e anni allo studio di libri e alla meditazione analiti­ ca, era più benefico trascorrere alcune ore ponendo domande a Tulku Urgyen e ascoltando le sue risposte. Gli feci visita a Nagi Gompa molte vol­ te e ricevetti diversi potenziamenti, ma penso che la rivelazione degli inse­ gnamenti effettivi avvenisse nel corso delle comuni discussioni. Oggi ci sono persone che dicono: "Conosco gli insegnamenti ma non mi piace praticare il sadhana in grandi assemblee. Non mi piace fare tutti quei canti". Davvero, ci sono persone che me l'hanno detto, il che dimostra la loro mancanza di comprensione. Chiunque comprenda realmente gli inse­ gnamenti, in modo particolare il Vajrayana, sa che vengono applicati nel sadhana di gruppo, con l'allenamento allo sviluppo e al compimento, e con il canto. È questa l'applicazione del Vajrayana, e se qualcuno chiacchiera ma non pratica, certamente non è una persona dotata di conoscenza. Lo stesso Tulku Urgyen sapeva tutto delle infinite attività del Vajrayiina e mai sottovalutò la loro applicazione. Era molto attento all'esecuzione di tut­ ti i riti importanti, comprese le cerimonie del drubchen.2 Nella prima metà della sua vita, per poter essere di beneficio agli altri, apprese queste cerimo­ nie fin nei minimi dettagli, senza perdersi un solo giorno. Tulku Urgyen non sottovalutava neppure la conseguenza di qualsiasi azione karmica. Senza dover chiedere donazioni di proposito, riuscì a raccogliere fondi in una maniera che pareva priva di sforzo. Tulku Urgyen fu capace di costrui­ re tutti i templi e i monasteri che volle. Ma questi progetti vennero realizza­ ti completamente come attività secondarie; non li considerò mai il suo sco­ po o la sua occupazione principale. Nell'ultima parte della vita abbandonò praticamente qualunque coinvol­ gimento in attività concettuali e non dedicò nessuno sforzo evidente alla co­ struzione di edifici religiosi. Tuttavia sembrava che i templi continuassero a sorgere di continuo e furono portati a termine molti lavori. I soldi che en­ travano in una giornata li spendeva invariabilmente e al tramonto non ave­ va nulla. Non si atteneva a un programma per i vari progetti, e non l'ho neppure visto inviare quelle lettere di raccolta fondi così abbondanti di questi tempi, né ho sentito che l'abbia mai fatto. Nondimeno pare che sia riuscito a costruire più templi di tutti gli altri lama contemporanei, senza considerare lo sforzo da loro profuso. Quindi credo che sia riuscito a realiz­ zare i suoi obiettivi senza difficoltà. Sono convinto che non ci sia la minima differenza tra lo stato della men­ te di Tulku Urgyen e Samantabhadra. Per chi lo considera Vajradhara in persona, il perfetto guru radice e il sostegno delle loro invocazioni, è senza dubbio straordinario. 2 Le cerimonie del drubchen (sgrub chen) sono pratiche collettive di siidhana pro­ tratte ininterrottamente per sette giorni. (N.d.T.)

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Da vivo Tulku Urgyen ha avuto molti discepoli, alcuni dei quali speciali. Tra i suoi figli, Chokyi Nyima Rinpoche in particolare è un abile scrittore. Dunque, dovremmo proprio scrivere una biografia di Tulku Urgyen, inco­ minciando dalla sua nascita e dagli anni giovanili, quando il xv Karmapa Khakyab Dorje gli diede il nome di Karma Urgyen Tsewang Chokdrub e lo riconobbe come un tulku di Lachab Gompa, per continuare fino alla sua morte. Ritengo che questa biografia dovrebbe essere scritta senza aggiunge­ re o togliere nulla. Non possiamo scrivere la storia della sua vita interiore, perché non parlò mai delle visioni o delle profezie che ricevette, quindi non c'è niente di straordinario da scrivere. Ciò che possiamo scrivere è sempli­ cemente quello che ha fatto, senza nessuna alterazione. Vi prego di non ri­ tenere che una biografia priva di eventi mistici straordinari non abbia im­ portanza. Anche il Buddha apparve in un comune corpo umano e fu perce­ pito dagli altri come un essere umano, quindi per la maggior parte delle persone sarebbe di beneficio una biografia semplice e chiara. Ripeto che, secondo me, dovremmo scrivere semplicemente la sua storia, senza ingigan­ tire o minimizzare nulla. Anziché avere diversi resoconti contrastanti della vita di Tulku Urgyen, vorrei vedere una biografia con un racconto franco su cui tutti possano tro­ varsi d'accordo; una storia che includa tanto le cose belle quanto quelle non belle, con parole comuni e semplici. In questo libro mi piacerebbe vedere più fotografie possibile. Il testo di base dovrebbe essere scritto prima in ti­ betano; successivamente il libro potrebbe essere tradotto in altre lingue. Oggi ci sono ancora delle persone anziane collegate a Tulku Urgyen: do­ vrebbero essere intervistate finché sono vive. Se ciò verrà fatto, in futuro la gente avrà qualcosa da leggere. Penso che un progetto simile avrà successo. Quindi, cerchiamo di realizzarlo. In breve, Tulku Urgyen è stato un maestro incredibile, tanto uno studio­ so quanto un realizzato. Ne sono sempre stato convinto, ma fino a questo momento non ho mai avuto la possibilità di esaminare le sue virtù spiegan­ dole a una a una. Perché non ne ho parlato prima? A causa del grave mo­ mento in cui viviamo, quando ognuno sembra glorificare la propria scuola o lignaggio. Anche nella scuola Nyingma non dovrebbe esserci nessuna dif­ ferenza di prestigio tra i 108 terton maggiori, dal momento che tutti i terma provengono da Padmasambhava. Ma, quando sento qualcuno proclamare che "i nostri terma sono migliori dei loro", come posso mettermi a parlare della grandezza dei terma di Chokgyur Lingpa, oppure dei suoi poteri mi­ racolosi e dei suoi grandi atti? Anche se è vero ed è appropriato parlarne, non mi sento proprio di farlo. Dunque, non c'era ragione perché uno come me esaltasse le virtù di Tulku Urgyen Rinpoche: piuttosto, quando il sole risplende in cielo nessu­ no può negare la sua luce radiosa. Ma ora è come se il sole fosse tramonta-

26 Introduzione to dietro le montagne occidentali. Perciò, dal momento che tutti i grandi maestri di questo tempo, il Karmapa di incomparabile bontà, Kyabje Dudjom Rinpoche e Dilgo Khyentse Rinpoche, hanno venerato Tulku Urgyen come uno dei loro guru radice e una gemma nella loro corona, non c'era assolutamente nessun bisogno che io motivassi tale stima. Gli insegna­ menti devono essere dati sempre su richiesta, quindi, siccome mi è stato ri­ chiesto chiaramente di farlo, ho detto ciò che so e ho attestato di persona.

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Pensiamo, ricordiamo, progettiamo, e l'attenzione così impiegata si dirige verso un oggetto e lo segue. Tale movimento mentale viene chiamato pensiero o mente concettuale. In tibetano ci sono molte espressioni differenti per descrivere il modo di operare di questo at­ teggiamento basilare della mente, della coscienza estroversa inconsa­ pevole della sua natura. La mente ignorante afferra gli oggetti, forma concetti su di essi, quindi rimane coinvolta e impigliata nei concetti che ha creato. Questa è la natura del samsara, e continua da innume­ revoli vite fino al momento presente. Tutti questi coinvolgimenti non sono altro che false creazioni; non sono lo stato naturale. Si basano sui concetti di soggetto e og­ getto, chi percepisce e ciò che è percepito. Tale struttura dualistica costituisce, insieme alle emozioni disturbanti e al karma che esse ge­ nerano, le forze che ci conducono da un'esperienza samsarica all'al­ tra. Nondimeno, c'è sempre la natura fondamentale, che non è fatta di nulla. È totalmente increata e vuota, c nel medesimo tempo è consapevole: ha la qualità di poter conoscere. Questa unità indivisi­ bile di vuoto e conoscenza è la nostra base originaria che non viene malmeno. Ciò che perdiamo è il riconoscimento del fatto che il nostro stato naturale è l'unità indivisibile di vacuità e conoscenza. Ci manca quel riconoscimento perché la mente è sempre alla ricerca di qualcos'al­ tro. Anziché riconoscere la nostra effettiva presenza conoscitiva, sia­ mo sempre occupati a cercare altrove, fuori di noi stessi. E conti­ nuiamo questo processo ininterrottamente. Santideva dice: "A meno

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che non conosciate il punto chiave segreto, qualunque cosa facciate mancherete il bersaglio" . n punto chiave segreto della mente è che la sua natura è una spontanea sveglia presenza originaria. Per identifi­ care il punto chiave dobbiamo ricevere l'istruzione dell'indicazione diretta. Essa dice e mostra che "la natura della propria mente è la mente di buddha stessa" . In questo momento siamo come lo sciocco che, essendosi perso ad Asan Tol (nel centro di Kathmandu) , corre qua e là e si lamenta dicendo: "Mi sono perso! Dove sono? " . L'istru­ zione dell'indicazione diretta equivale a dirgli: " Sei tu ! " . Per tutta la durata del samsara senza inizio gli esseri senzienti non ritrovano se stessi, finché qualcuno dice: " Sei esattamente qui " . È una metafora per introdurre il punto chiave segreto della mente. Se non fosse per l'insegnamento dei buddha, tutti gli esseri sen­ zienti sarebbero totalmente smarriti, perché devono essere indirizza­ ti verso la base fondamentale che è sempre presente, eppure mai ri­ conosciuta. Ecco lo scopo dell'istruzione dell'indicazione diretta os­ sia, letteralmente, 'l'istruzione che vi conduce a faccia a faccia con la vostra essenza'. A questa istruzione si danno nomi solenni come Ma­ hamudra, la Grande Via di Mezzo o la Grande Perfezione. Tutti questi insegnamenti puntano verso la medesima natura basilare. So­ no l'esatto opposto del pensiero concettuale che concepisce un sog­ getto e un oggetto, la struttura dualistica della mente inconsapevole della propria natura. Non è necessario che sia così. Possiamo conoscere la nostra natu­ ra. Possiamo realizzarla applicando le istruzioni essenziali della Ma­ hamudra, della Grande Via di Mezzo e della Grande Perfezione. An­ che se la nostra natura è illuminata sin dal principio, non ne siamo consapevoli. Perciò dobbiamo d-illuminarci. Prima di tutto dobbia­ mo riconoscere la nostra natura; poi ci alleniamo a quel riconosci­ mento; infine otteniamo la stabilità del riconoscimento. Una volta ri­ illuminati, non dobbiamo più vagare nel samsara. La natura di buddha è precisamente l'identità in cui il corpo, la parola, la mente, le qualità e le attività di tutti i buddha sono com­ pleti. È dalla loro espressione che appaiono il corpo, la parola e la mente di tutti gli esseri. Infatti, il corpo, la parola e la mente di qual­ siasi essere senziente hanno la medesima origine del corpo, della pa­ rola e della mente degli esseri risvegliati. n corpo, la parola e la men­ te non possono scaturire dalla terra, dalla pietra o dalla materia. La

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qualità immutabile è chiamata corpo vajra, la qualità incessante è chiamata parola vajra, e la qualità priva di illusione è chiamata men­ te vajra. La loro unità indivisibile è esattamente il senso di natura di buddha. Non riconoscendo nella nostra esperienza la qualità immutabile di questa natura di buddha, abbiamo assunto il rivestimento di un cor­ po fisico di carne e ossa. La nostra parola è rimasta presa nel movi­ mento del respiro per diventare voce e parole. Appare e scompare. La coscienza ha iniziato a concepire un soggetto che percepisce se­ parato dal percepito. In altre parole, è diventata una fissazione sulla dualità, un processo a singhiozzo che appare e termina ogni momen­ to. I pensieri appaiono di continuo, uno dopo l'altro, come una fila interminabile. Questa sfilza interminabile di pensieri esiste da tempo senza inizio e continua all'infinito. Ecco com'è lo stato normale della mente. Se non riconosciamo la nostra natura nel corso di questa vita, non conquistiamo la dimora naturale dell'immutabile sveglia presen­ za spontanea. Al contrario, rincorriamo un pensiero impermanente dopo l'altro, come se sgranassimo un rosario. È così che il samsara diventa senza fine. Quando siamo dominati da questo coinvolgimen­ to nel pensiero, siamo realmente impotenti. Chi può interrompere il samsara per noi? Non c'è nessuno oltre a noi. Anche se tutti gli esseri senzienti dei sei regni si mettessero in fi­ la e voi gridaste: "Vi prego, aiutatemi a non !asciarmi sopraffare dal mio pensiero ! " , ebbene, non uno di loro potrebbe aiutarvi. È triste essere controllati da questo coinvolgimento nel pensiero, giorno e notte, vita dopo vita ! Potremmo tentare di far esplodere una bomba atomica per fermare il samsara, ma non servirebbe. Le bombe ato­ miche possono distruggere città, e anche stati, ma non possono im­ pedire alla mente di pensare. A meno che non ci liberiamo del pen­ siero concettuale, è assolutamente impossibile porre fine al samsara e risvegliarsi davvero all'illuminazione. È una grande pace quando il pensiero concettuale si acquieta, si tranquillizza, e ciò può accadere. I pensieri in realtà sono un' espres­ sione della natura di buddha. Sono espressioni del nostro volto natu­ rale. Se riconosciamo davvero la natura di buddha, in quel medesi­ mo istante qualsiasi pensiero svanisce da se stesso, senza lasciare tracce. È questo che pone fine al samsara. C'è un metodo supremo per arrivarci. Quando lo conosciamo, non abbiamo bisogno di sape-

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re nulla di più alto. Questo metodo è già disponibile in noi stessi. Non è qualcosa che debba essere ottenuto da qualcun altro; non dobbiamo acquistarlo né procurarcelo corrompendo qualcuno, e neppure ricercarlo e infine conseguirlo. Un tale sforzo non è per nul­ la necessario. Quando riconoscete il vostro volto naturale, avete già trasceso i sei regni del samsara. Cos'è il metodo? È ciò che si richiede al maestro quando lo si pre­ ga di dare le istruzioni su come riconoscere l'essenza della mente ed esercitarsi in tale riconoscimento. L'essenza della nostra mente è in­ credibilmente preziosa. È l'eredità naturale che possediamo già ora. Ricevere insegnamenti su come riconoscere l'essenza della mente e applicarli in modo corretto è detto 'il Buddha viene messo sulla pal­ ma della propria mano'. Il senso di questa analogia è che nel mo­ mento in cui venite introdotti all'essenza e la riconoscete, non avete bisogno di cercare lo stato risvegliato altrove. Raccogliete tutti i sol­ di, tutta la ricchezza del mondo intero e fatene un grande cumulo da un lato. Dall'altro lato mettete il riconoscimento della natura di bud­ dha, la natura della vostra mente. Cos'ha maggior valore? Se vorrete in qualche modo compararli, posso assicurarvi che il fatto di ricono­ scere l'essenza della mente, il 'meraviglioso buddha interiore', vale di più, è un miliardo di volte più prezioso. Se invece continuiamo a ingannarci, facciamo semplicemente quel che abbiamo fatto da sempre. Quanti problemi e quanta sofferenza abbiamo sopportato nel samsara tra i sei regni? Vogliamo continuare così? Quant'altra sofferenza dovremo ancora patire attraversando i diciotto inferni e quelli contigui? Il Buddha ha insegnato che ogni essere senziente ha bevuto più metallo liquido incandescente negli inferni di quanto potrebbe contenerne un oceano. È un esempio del­ la sofferenza che abbiamo sopportato. Ce ne siamo dimenticati com­ pletamente soltanto perché siamo esseri comuni ottusi. Se non rea­ lizziamo questo stato naturale, non c'è modo di smettere di vagare nei sei regni del samsara. Nessun altro vi eviterà di continuare a va­ gare, e di sicuro il processo non si fermerà da solo. Cos'ha vero valore? Dobbiamo pensarci con la nostra testa. Quan­ do facciamo un affare e ci guadagniamo, siamo contenti. Se subiamo una perdita, cadiamo nella disperazione. Proviamo a paragonare il nostro capitale economico alla natura di buddha, simile a un gioiello che esaudisce i desideri. Se non utilizziamo questo gioiello, ci attende

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il samsara senza fine. Non è davvero incredibilmente stupido, non­ ché gravoso, gettare via la propria ricchezza? Dobbiamo rifletterei. Non sto ripetendo queste parole a memoria. E non è neppure una menzogna. Questo è il vero punto cruciale. Se non avessimo una na­ tura di buddha, nessuno potrebbe biasimarci. Ma ce l'abbiamo, una natura di buddha che è l'identità dei tre kaya di tutti i buddha. Tut­ tavia, come disse Jamgon Kongtriil: 1 Sebbene la mia mente sia il Buddha, non lo riconosco. Sebbene il mio pensiero sia il dharmakiiya, non lo realizzo. Sebbene la non contraffazione sia l'innato, non riesco a mantenerlo. Sebbene la naturalezza sia lo stato fondamentale, non ne sono convinto. Guru, pensami. Presto, guardami con compassione! Benedicimi affinché la consapevolezza naturale sia liberata in se stessa.

Dobbiamo capire cos'è la mente nella sua essenza. Come ho detto spesso, in questo mondo la mente è importantissima, per la semplice ragione che è la mente a capire e sperimentare. A prescindere dalla mente, nient'altro percepisce. I cinque elementi esterni, terra, acqua, fuoco, vento e spazio, sentono qualcosa? In verità, non c'è nulla che sperimenti oltre alla mente. L'intero universo consiste nei cinque elementi principali, che in se stessi sono insensibili; non conoscono nulla. Similmente, il corpo fi­ sico degli esseri senzienti è costituito dei cinque elementi secondari. Le ossa e la carne per le loro proprietà equivalgono all'elemento ter­ ra. Il sangue e gli altri liquidi assomigliano all'elemento acqua. La temperatura del corpo essenzialmente è simile al fuoco. Il respiro è il vento, mentre gli spazi vuoti nel corpo, le diverse aperture, le cavità, e così via, nella loro essenza equivalgono allo spazio. Questi cinque elementi non sperimentano, non percepiscono nulla. A meno che in quel corpo non ci sia una mente, il corpo stesso non sente nulla. 1 Questa citazione è tratta da Calling the Guru/rom A/ar, A Supplication to Pierce your Heart with Devotion ("Invocando i guru da lontano. Intensificare la devozione

nel proprio cuore") composto dal primo Jamgon Kongtriil, Lodro Thaye. Ci sono diverse traduzioni: una in Viaggio senza meta di Chogyam Trungpa (Astrolabio, Ro­ ma 1983), una di Michelle Martin insieme a Ringu Tulku, e una pubblicata da Rangjung Yeshe con l'aggiunta dei versi dedicati ai maestri del lignaggio.

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Gli elementi principali esterni e quelli secondari interni sono simi­ li anche nella loro struttura. Il nostro corpo con la carne e le ossa può essere paragonato alla superficie di questo pianeta, con la terra e le rocce. La vegetazione e i cespugli che crescono sul pendio posso­ no essere rapportati ai nostri pori e ai peli. Ci sono foreste all'esterno e sulla nostra testa crescono i capelli. Quando scavate nel terreno di solito trovate l'acqua, in un punto o nell'altro. Similmente, se ci ca­ pita di ferire il nostro corpo, inizia a sgorgare del liquido. Il calore del corpo ha la medesima proprietà del calore che si trova ovunque all'esterno. Il vento che circola nei nostri polmoni è lo stesso vento o aria all'esterno. Gli spazi vuoti nel corpo sono la medesima cosa del­ lo spazio vuoto esteriore. C'è una notevole somiglianza tra gli ele­ menti interni ed esterni. In un certo senso sono identici, giacché gli elementi da se stessi non percepiscono. Inoltre abbiamo i cinque sensi, le cinque porte dei sensi: gli occhi, le orecchie, il naso, la lingua e la pelle, con la sua capacità di perce­ pire le caratteristiche esterne degli oggetti attraverso il tatto. Nondi­ meno, in realtà questi cinque sensi in se stessi non percepiscono nul­ la. Se non ci fosse una mente o coscienza collegata ai cinque sensi, gli organi sensoriali da se stessi non sperimenterebbero niente. Un ca­ davere ha occhi, orecchie, naso, lingua e pelle, ma se gli mostrate qualcosa, sebbene abbia gli occhi aperti, non vede niente; e non per­ cepisce neppure i suoni. Un cadavere non ha la capacità di odorare o gustare, e se lo premete non prova neppure una sensazione tattile. Poi ci sono i cinque oggetti sensoriali, le impressioni delle forme fisiche ricevute tramite gli occhi, i suoni uditi attraverso le orecchie, i diversi sapori che possiamo gustare con la lingua, i profumi perce­ piti con il naso, e le sensazioni tattili che possiamo percepire tramite il corpo. Anche gli oggetti dei cinque sensi non hanno la capacità co­ noscitiva. Non sperimentano nulla. A meno che non ci sia una men­ te a percepirli, gli oggetti da se stessi non percepiscono. Fondamen­ talmente un essere senziente non consiste in nient'altro che nella mente. Oltre alla mente, non c'è nulla in questo mondo che percepi­ sca alcunché. Senza la mente questo mondo sarebbe del tutto vuoto: nulla verrebbe conosciuto e sperimentato. Esisterebbe la materia, certo, ma essa non conosce niente; è del tutto vuota di coscienza. In questo mondo non c'è nulla che sia più essenziale della mente, eccetto una cosa: la natura di questa mente, la natura di buddha, il

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sugatagarbha. Tutti gli esseri senzienti hanno tale natura, senza una sola eccezione. Essa è presente in ognuno, dal buddha dharmkaya

Samantabhadra fino al più minuto insetto, anche la più piccola entità che potete vedere soltanto al microscopio. La natura di buddha è identica in tutti gli esseri. Non c'è nessuna differenza di misura o qualità. La natura di buddha non differisce mai nella qualità o quan­ tità. Non è come se Samantabhadra avesse una grande natura di buddha e un piccolo insetto ne avesse una piccola, oppure come se il Buddha avesse una natura di buddha superiore e la mosca ne avesse una inferiore; non c'è nessuna differenza. Dunque, dobbiamo distinguere tra la mente e l'essenza della men­ te. L'essenza della mente degli esseri senzienti e la mente risvegliata dei buddha sono identiche. Buddhità significa essere del tutto stabili nello stato che precede la manifestazione del pensiero dualistico. Un essere senziente come noi, non comprendendo la propria essenza, ri­ mane intrappolato nel proprio pensiero e diventa confuso. Nondi­ meno, l'essenza della nostra mente e l'essenza propria di tutti i bud­ dha risvegliati sono identiche sin dal principio. Gli esseri senzienti e i buddha hanno la medesima sorgente, la natura di buddha. I bud­ dha sono diventati illuminati perché hanno realizzato la loro essenza. Gli esseri senzienti sono diventati confusi perché non hanno com­ preso la loro essenza. Quindi c'è una sola base o fondamento e due vie differenti. La mente è ciò che pensa, ricorda e progetta tutti i nostri svariati pensieri. In tibetano 'pensiero' si dice namtok. Nam sta a significare l'oggetto, ciò che viene pensato. Tok vuoi dire creare idee e concetti riguardo a quegli oggetti. Namtok è qualcosa che la mente sforna di continuo, giorno e notte. Un buddha è qualcuno che riconosce l'es­ senza in quanto tale, e grazie a ciò è risvegliato. Un essere senziente è qualcuno che non lo fa, e che è confuso a causa del proprio pensie­ ro. Chi non è riuscito a riconoscere l'essenza della mente viene chia­ mato 'essere senziente'. Si dice buddha chi ha compreso la natura in quanto tale e si è stabilizzato in quella comprensione. Non è forse vero che la mente crea un'infinità di pensieri? Ricor­ da, progetta, pensa, si preoccupa. Lo fa da innumerevoli vite, giorno e notte, senza interruzione. Istante dopo istante, la mente crea pen­ sieri su una cosa dopo l'altra, e non soltanto nel corso di questa vita. Il pensiero sorge perché non si vede l'essenza della mente. La mente

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pensa a una cosa, crea pensieri ed emozioni riguardo a essa, un pro­ cesso che continua senza interruzione. È come lo scorrere dei grani di un rosario su un fìlo infinito, vita dopo vita in una successione in­ cessante. Questo viene chiamato samsara. È il pensiero che perpetua il samsara. Il samsara continuerà all'in­ finito, a meno che il pensiero non cessi. Come ho già detto molte volte, la mente non è una cosa che ha forma fisica, suono, odore, sa­ pore o sensazione tattile. La mente è vuota. Anche lo spazio è vuoto. Ovunque andiate nello spazio, non c'è limite, confine, margine. Se viaggiaste su una navicella spaziale in un'unica direzione per cento miliardi di anni, non raggiungereste la fine dello spazio. Potreste at­ traversare la terra e uscire dall'altra parte, eppure non trovereste il fondo dello spazio. E se viaggiaste per altri cento miliardi di anni, ancora non trovereste il fondo da nessuna parte. La stessa cosa vale per le altre direzioni: potete viaggiare eternamente, ma non raggiun­ gerete mai un luogo dove finisce lo spazio. Ora, una cosa che non ha limiti come può avere un centro? Non è possibile, vero? Ecco perché si insegna che lo spazio non ha centro e periferia. Il Buddha ha utilizzato l'esempio dello spazio per indicare la natura della mente. Ha detto che la mente è vuota come lo spazio: così come lo spazio non ha limiti in nessuna direzione, la mente non ha né centro né periferia. In effetti, ovunque ci sia lo spazio è pre­ sente la mente. E il Buddha ha insegnato che in tutto lo spazio, ovunque si estenda lo spazio, ci sono esseri senzienti. E ovunque ci siano esseri senzienti, ci sono emozioni disturbanti e creazione di karma. E ovunque ci sia creazione di emozioni disturbanti e karma, c'è anche la natura di buddha. La mente risvegliata dei buddha per­ vade tutto. In breve, la natura di questa mente è vuota nella sua es­ senza; è come lo spazio. Siccome non ha forma, odore, sapore, suo­ no o sensazione tattile, è del tutto vuota. Lo è sempre stata, sin dal principio. Essendo vuota, la mente sembra simile allo spazio. Ma c'è una differenza: lo spazio non è cosciente; non prova piacere o dolo­ re. La nostra mente è spaziosa, aperta e vuota, nondimeno prova pia­ cere e dolore. A volte viene chiamata 'mente che sempre conosce ed è cosciente'. La mente conosce qualunque cosa sia presente. Quando la mente entra in funzione, può inventare qualsiasi cosa, anche la bomba atomica. La mente crea tutti questi meravigliosi ag­ geggi, registratori, aerei che possono volare in cielo. Tali invenzioni

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non pensano, ma sono state create dalla mente pensante. Gli esseri senzienti creano il samsara che c'è ora. La creazione del samsara alla fin fine non ci sarà di nessun aiuto. La mente è invisibile e intangibile. Ecco perché la gente non co­ nosce la mente. Ecco perché ci si chiede: "Ho riconosciuto davvero la natura della mente? " . Se fosse una cosa concreta, gli scienziati l'avrebbero già compresa da parecchio tempo. Ma così non è, perciò non è detto che gli scienziati sappiano cos'è la mente. Se lo sapesse­ ro, tutti gli scienziati sarebbero illuminati! Ma avete mai sentito par­ lare di scienziati che sono diventati illuminati grazie alla scienza? Certamente conoscono tantissime altre cose. Possono creare telefoni che vi consentono di comunicare all'istante con chiunque in qualsia­ si parte del mondo. E possono costruire macchine che trasportano in volo nel cielo centinaia di persone nel medesimo tempo. Possono far transitare i treni direttamente sotto le montagne. Tutto ciò è pos­ sibile. Se la mente entra in funzione, è un tesoro inesauribile; eppure ciò non vuoi dire illuminazione. Quando la mente viene utilizzata a qualche scopo e ne rimane presa, questo non porta all'illuminazione. Dobbiamo conoscere la natura essenziale della mente. È la mente che proprio ora pensa a tutte queste svariate cose. Fin­ ché il pensiero non si dissolve, non otteniamo l'illuminazione. Il coinvolgimento nei pensieri è precisamente il senso del girare in ton­ do nel samsara, come la ruota in -un congegno. Con le ruote nell'au­ tomobile potete andare ovunque nel mondo, giusto? In quale modo si dissolvono i pensieri, li si elimina totalmente !asciandoli svanire? Il Buddha conosceva una tecnica per eliminare il pensiero. È questo lo scopo dell'istruzione sull'indicazione diret­ ta data da un maestro qualificato. Quando andate a scuola dovete ripetere l'ABC all'insegnante, cosicché possa capire se avete impa­ rato l'alfabeto o no. Finché non abbiamo imparato la lezione, è ne­ cessario che qualcuno ci insegni, ci spieghi. Finché non conoscia­ mo l'essenza della mente, abbiamo bisogno di un insegnante. È semplicissimo. In caso contrario il nostro pensiero gira in tondo come le ruote di un'automobile. Quando le ruote girano, trascinano l'automobile qua e là. Come le ruote di un'automobile in corsa, il nostro pensiero non si è mai fermato in tutte le innumerevoli esistenze. Se cerchiamo di fermarlo è peggio. Il pensiero è paragonabile all'ombra della nostra

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mano: provate a liberarvene! Potete ordinare ai pensieri di fermarsi, ma non vi ascolteranno. Ovunque vada la mente, i pensieri la seguo­ no, come l'ombra del corpo. Ma finché il pensiero non si esaurisce, il samsara non si ferma. Samsara vuol dire ruotare, girare continua­ mente in tondo. Oltre il riconoscimento dell'essenza della mente non c'è nessun altro modo di impedire alla mente di pensare. Il sistema operativo di questo girare in tondo viene chiamato 'i dodici anelli dell'origine dipendente', e il primo anello è l'ignoranza, la mancanza di conoscenza. L'ignoranza della non conoscenza vuol dire non riconoscere la nostra vera natura. L'ignoranza forza i cinque skandha a continuare: le forme fisiche, le sensazioni, i concetti, le formazioni e le coscienze che fanno sì che la nascita segua ripetuta­ mente la morte. La mente non muore. Quando resta ignorante della sua natura, di nuovo perpetua il raggruppamento dei cinque skan­ dha per creare un nuovo corpo in uno dei quattro modi: tramite un utero, come nel caso di un essere umano; attraverso la nascita istan­ tanea; tramite il calore e l'umidità; o attraverso un uovo. Sono questi i quattro modi distinti di rinascere nei tre regni e tra le sei categorie di esseri. Provate a verificare quanti esseri senzienti vivono soltanto sul fian­ co di una montagna. Osservate quanti insetti vivono in un solo lago. Sono tutti esseri senzienti. Se contaste gli insetti qui presenti sulle pendici del monte Shivapuri dietro al mio eremitaggio, probabil­ mente scoprireste che superano il numero degli esseri umani in tutto il mondo. I corpi umani sono pochissimi in confronto al numero de­ gli altri esseri senzienti. Anche se siamo nati come esseri umani, se in questa vita non otteniamo la realizzazione riconoscendo la nostra na­ tura, continueremo a rinascere in qualche altro stato di esistenza nel samsara. Il Buddha ha insegnato che se raccogliessimo il sangue fuo­ riuscito a ogni morte da noi sperimentata (non le morti di tutti gli es­ seri, ma unicamente quelle di un solo essere senziente) , sarebbe così tanto che neppure l'oceano potrebbe contenerlo. Le nostre vite pas­ sate sono state così numerose. Se continuiamo a girare in tondo nei regni del samsara, questo processo finirà in qualche modo da solo? Niente affatto ! Proprio ora abbiamo ottenuto ciò che viene descritto come un prezioso corpo umano. Siamo a un punto che equivale a un bivio stradale: una stra­ da porta più in alto, l'altra più in basso. Ora ci troviamo esattamente

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in quel punto. Se riconosciamo e realizziamo la nostra natura di buddha, possiamo salire fino all'illuminazione. Se siamo negligenti e non vogliamo riconoscerla, non dobbiamo sforzarci per addentrarci nel samsara: accade automaticamente. Il karma negativo non richie­ de un grande sforzo. La mente comune pensa soprattutto a essere contro qualcosa, attaccata a qualcosa, oppure rimane istupidita, sen­ za preoccuparsi di nulla. Ciò crea karma negativo in modo automati­ co, perpetuando ulteriormente il samsara. La vera virtù, l'autentica bontà, scaturisce dal riconoscimento del­ la nostra natura di buddha, lo stato naturale. Riconoscere la nostra natura è di per sé la via dell'illuminazione. Non riconoscere la natu­ ra di buddha è di per sé la via del samsara. Ci sono queste due stra­ de. La loro base è una sola: la natura di buddha. Ci sono due scelte, due vie. Una è la via della conoscenza, la sveglia presenza che cono­ sce la propria natura. L'altra è la via della non conoscenza, non rico­ noscere la propria natura e lasciarsi prendere da ciò a cui si pensa, tramite la coscienza collegata sensorialmente agli oggetti. Questo processo mette in moto di continuo la ruota del samsara. Ecco per­ ché una celebre massima afferma: Riconoscere è la via del nirvana; non riconoscere è la via del samsara.

Le persone comuni quando vedono un oggetto, per esempio un rosario, pensano: "Questo è un rosario" . Dopo si chiedono: " Ci so­ no un centinaio di grani? Dov'è stato fatto? Forse in Cina o forse in India, non so". Ci sarà un pensiero dopo l'altro. Tale concettualizza­ zione di un oggetto è namtok. L'oggetto è il rosario e tutte le idee che abbiamo nei suoi riguardi sono i concetti. "È giallo, è indiano, forse cinese, mi piace, è ben fatto" . Un pensiero viene fatto seguire a un altro. Per la persona comune c'è l'oggetto osservato, il rosario. Il soggetto è la mente, ciò che conosce. Uno yogi praticante, invece, non si fissa sull'oggetto, bensì riconosce la natura del soggetto. C'è la conoscenza. La mente di qualsiasi essere senziente è nel me­ desimo tempo vuota e conoscitiva, ed è l'aspetto conoscitivo che può riconoscere la propria natura. Nel medesimo istante del riconosci­ mento vedete la vuota essenza. Questa vuota essenza viene chiamata il dharmakaya dei buddha. L'aspetto conoscitivo viene chiamato il

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sa112bhogakaya dei buddha. I due di fatto sono indivisibili, e tale indi­ visibilità è il nirma�Jakaya. L'indivisibilità di vacuità e conoscenza è una qualità naturale, proprio come la condizione liquida dell'acqua o il calore di una fiamma. Sono una cosa sola. Non potete separare il calore da una fiamma. Inoltre, il riconoscimento del proprio volto naturale viene chiamato svabhavikakaya. Essere a faccia a faccia con i tre kaya dei buddha è questo, e in tutto il mondo non possiamo tro­ vare nulla di più grande. Riconoscete la vostra mente e, in assenza di una cosa concreta, ri­ manete liberi. Dopo un po' ci lasciamo di nuovo coinvolgere dai pensieri. Ma, grazie al ripetuto riconoscimento, ci abituiamo sempre più allo stato naturale. È come imparare qualcosa a memoria: dopo un po' non si ha bisogno di pensarci. Tramite questo processo il no­ stro coinvolgimento nei pensieri diventa sempre più debole. L'inter­ vallo tra i pensieri dura sempre più a lungo. A un certo punto, senza dover eliminare il pensiero, per un periodo di mezz'ora non ci sarà nessun concetto. L'essenza della mente, che è sin dal principio vuota e senza radice, non equivale a tenere a mente l'idea della vacuità, e non consiste nel cercare continuamente di percepire il vuoto. Tutto ciò non serve granché. Abituandoci sempre più a questa vacuità naturale e origina­ ria, ci diventa familiare. Allora ci sarà un periodo di vuota consape­ volezza che durerà tutto il giorno, dal mattino alla sera, incantami­ nato dalle nozioni degli oggetti percepiti e della mente che percepi­ sce. Corrisponde all'ottenimento dei livelli del bodhisattva, le bhumi. Quando non c'è nessuna interruzione per tutta la durata del giorno e della notte, è la buddhità, la vera e completa illuminazione. Dal punto di vista dell'essenza della mente, le interruzioni dei pensieri sono come nuvole in cielo. La vuota essenza in se stessa è come lo spazio del cielo. La nostra capacità conoscitiva è come la lu­ ce del sole. Il cielo non muta mai, sia esso sereno o nuvoloso. Simil­ mente, quando realizzate lo stato risvegliato dei buddha, tutti i pen­ sieri paragonabili alle nuvole sono svaniti. Ma le qualità della saggez­ za, vale a dire la sveglia presenza originaria, sono pienamente svilup­ pate, manifeste, anche in questo momento, quando i pensieri sono presenti. Dobbiamo allenarci a divenire sempre più familiari con il riconoscimento dell'essenza della mente. Ciò dissolverà il nostro kar­ ma negativo e le emozioni disturbanti. In tale riconoscimento è im-

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possibile essere contaminati dal karma e dalle emozioni, così come non è possibile dipingere nell'aria. Vorrei citarvi un noto passo del Hevajra Tantra: Tutti gli esseri senzienti sono buddha, ma sono ricoperti da oscuramenti temporanei.

L'oscuramento temporaneo è il nostro pensiero. Se non avessimo già la natura di buddha, vale a dire una natura identica a quella di tutti i risvegliati, non saremmo mai illuminati, nonostante qualsiasi nostro tentativo per diventarlo. Il Buddha utilizzò l'esempio del lat­ te da cui si ricava il burro tramite la zangola. Gli esseri senzienti han­ no in se stessi il latte da cui scaturisce il burro, ossia questa condizio­ ne fondamentale. Non è paragonabile all'acqua: potete frullarla per un miliardo di anni e non ne ricaverete mai il burro. Tutti gli esseri senzienti possiedono in se stessi l'essenza della buddhità. Ma se ignorate questa preziosissima essenza presente in voi stessi, conti­ nuerete a girare in tondo nei tre regni dolorosi del samsara. Il samsara è doloroso perché impermanente. Per esempio, c'è l'inevitabile dolore della morte. Non c'è nulla al mondo che possiate fare per evitare la morte. Sarebbe bello se non morissimo mai! Op­ pure, se la mente morisse alla morte del corpo, be', anche in questo caso non sarebbe poi così male. Ma in realtà accade che il corpo muore alla finè,di ogni vita, e la mente ne sperimenta la morte e con­ tinua. Continuiamo a sperimentare. Anche quando ci distendiamo per riposarci, continuiamo a sognare per tutta la notte. La morte è analoga; la mente continua. Comprendere che l'essenza della mente è vuota conoscenza e realizzare tale essenza ci consentirà di attraver­ sare il bardo. Dopo che abbiamo ricevuto l'istruzione dell'indicazione diretta dobbiamo giungere a una risoluzione: non soltanto riconoscere, ma anche venire alla determinazione che questo è il modo di risolvere il problema fondamentale del samsara. Se abbiamo questo tipo di fi­ ducia e anche l'impegno diligente a praticare, ci accade ciò che dice il famoso proverbio secondo cui "il figlio di un ricco riceve natural­ mente l'eredità" . Se il padre è ricco e ha un figlio, senza dubbio que­ sti erediterà la ricchezza. Ci siamo lasciati sfuggire l'occasione di es­ sere illuminati sin dal principio, come tutti i buddha, i bodhisattva, i

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�aka, le �akini e i protettori del Dharma con l'occhio della saggezza. Nondimeno, se riconosciamo la nostra natura e ci alleniamo a tale ri­ conoscimento con diligenza, abbiamo la possibilità di essere ti-illu­ minati, proprio come il figlio di un ricco riceve l'eredità. Cosa vuol dire 'costruito'? Uno stato della mente costruito vuol dire che devi pensare a qualcosa affinché ci sia quel momento. Non costruito si­ gnifica che non c'è bisogno di nessun pensiero. Ecco la differenza. Il momento di presenza o quiete di cui abbiamo parlato è costruito o non costruito? S T U DE N TE : Credo che sia non costruito. RI N P O C H E : Questo momento di apertura consiste in parti diver­ se, come passato, presente e futuro? S T U DE N TE : Non so. Vorrei che fosse lei a dirmelo. RI N P O C H E : Conservare nella mente una nozione di qualsiasi cosa passata oppure presente o futura significa essere contaminati dalla struttura concettuale della mente. Ma c'è anche la possibilità di non essere contaminati da nessun concetto del passato, presente e futuro. Se non concettualizzi questo momento di sveglia presenza, i tre tem­ pi non ci sono. In breve, se non fosse per questa sveglia presenza, il corpo sarebbe un cadavere. E se questa sveglia presenza ricercasse qualcosa, sarebbe ciò che chiamiamo mente pensante. In altre paro­ le, non cercare niente. Aderire al pensiero è la struttura dualistica della mente. Non ade­ rire al pensiero è la sveglia presenza spontanea. A volte si afferma che la mente è simile allo spazio, perché non si può dire che lo spa­ zio sia arrivato, se ne sia andato o giunga da un posto e vada in qual­ che direzione. La struttura dualistica della mente, invece, va e viene. È come una nuvola; si forma e di nuovo si dissolve. L'espressione 'modo di vedere' si riferisce al nostro stato fondamentale, immutabi­ le come lo spazio. Questo modo di vedere non è oscurato dal pensie­ ro. Tuttavia, il pensiero può oscurare il modo di vedere. Accade quando iniziamo a formulare un concetto su com'è. Il modo di vede­ re, ossia lo stato fondamentale, è come lo spazio. Sfugge totalmente a ogni formulazione concettuale, come il concetto di possederlo o non possederlo, realizzarlo o perderlo. S T U D E N T E : Cos'è la meditazione in questo contesto? STUDENTE:

RI N P O C H E :

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RIN P O C H E : Gli insegnanti dicono: "Adesso meditate" , allora uno si siede e pensa che dovrebbe immaginare la vacuità. Non è questo il senso, piuttosto vuoi dire non divagare, non divagare. Ascoltando la parola 'meditare', sembra che ci sia qualcosa da fare. Ma non c'è as­ solutamente nulla da fare che sia un atto di meditazione. È come questo spazio, un'apertura del tutto priva di concretezza. Prova a immaginarlo, immagina lo spazio. Puoi immaginare lo spazio? Puoi immaginare che è vuoto, ma si tratta di un pensiero. Tale pensiero serve a qualcosa? Meditare su una cosa vuoi dire farla venire in men­ te, ma puoi farti venire in mente lo spazio? Bene, lo spazio è vuoto. Tenerlo a mente è un altro pensiero. Ma senza pensare a nulla, medi­ ta sullo spazio. Ce la fai? Non è meglio !asciarlo non immaginato, non meditato? Ecco perché si afferma:

La suprema meditazione è non meditare. Il supremo allenamento è non tenere nulla a mente.

Non c'è nessun bisogno di meditare sullo spazio. È molto meglio lasciare che rimanga privo di fantasie! n messaggio 'medita, medita' ' in realtà inganna la gente, ci inganna. Quando lo sentiamo, pensia­ mo: "Ci deve essere qualcosa da fare, da tenere a mente" . In definiti­ va, non meditare è la suprema meditazione. Mentre rimani libero da qualsiasi necessità di immaginare alcun­ ché, come lo spazio, non distrarti neppure un istante. Chi si allena in questo modo può essere chiamato davvero uno 'yogi dello spazio'. Uno yogi è un individuo che si unisce a ciò che è naturale. Spazio si­ gnifica ciò che è sempre. Rimani senza immaginare nulla, senza me­ ditare su niente. Se inizi a meditare sullo spazio, diventa una contraf­ fazione. Semplicemente lascia che lo spazio non sfugga. Rimani non distratto. I pensieri non hanno nessun impulso a ritornare. Un pen­ siero è un modo mentale di formulare qualcosa, ossia la nostra atten­ zione formula un pensiero. Il pensiero non ha altra sorgente. Se non pensiamo, da dove potrebbe scaturire un pensiero? Rimani non di­ stratto nello spazio fondamentale che è inconcepibile. Lascia che la tua consapevolezza indescrivibile rimanga non distratta nel nudo sta­ to dello spazio fondamentale. Non deve essere immaginato, perché questo spazio fondamentale del tutto nudo è già la nostra natura. Non occorre che tu lo immagini in questo modo.

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Immagina lo spazio ! Non è un oggetto del pensiero. Smetti di pensare e rinuncia al pensato, tanto il presente quanto il futuro. Il passato se n'è già andato. Adesso abbandona il presente e il futuro. Allora cosa rimane? Richiamare qualcosa alla mente equivale a pensare alla forma di un buddha. Per prima cosa immagini la faccia, poi le braccia. Quan­ do appaiono, la faccia se n'è andata. Adesso immaginiamo le gambe, e le braccia se ne sono andate, così dobbiamo ricominciare daccapo. È abbastanza difficile. Senza immaginare nulla, ecco la suprema me­ ditazione. Per quanto mi riguarda, lo stadio dello sviluppo è piutto­ sto laborioso. Lo stadio del compimento è incredibilmente facile! La gente cerca di farmi fare un po' di esercizio fisico ogni giorno. E forse è un bene, ma non è facile. Lo stadio dello sviluppo equivale a fare ginnastica. Quando muovi il corpo, diventa agile, flessibile. Esercitando l'immaginazione, diventa flessibile e ne derivano dei be­ nefici. Non è una cosa inutile. Certamente i tre aspetti della divinità, del mantra e del samadhi non sono inutili. Ma nel momento in cui si riconosce la natura di buddha, i tre (la divinità, il mantra e il sama­ dhi) sono completamente presenti in modo automatico, senza nessu­ no sforzo. Nel buddhismo tibetano dobbiamo allenarci agli stadi dello svi­ luppo e del compimento. Ecco un modo semplice di praticare: Immagina la presenza fisica della divinità. Sviluppa questa pura convinzione: "Io sono la divinità, la mia voce ha la natura del man­ tra, il mio stato mentale è il samadhi" . Ricordarsi di questo è lo sta­ dio dello sviluppo. Quando dici: "Io sono " , è soltanto la mente che formula un concetto. Un concetto non rimanda a nessuna entità concreta che esista da qualche parte come una persona. Quando ri­ conosci l'identità di ciò che pensa 'io', in quell'istante di visione il pensiero si è dissolto, è svanito, e sei giunto allo stadio del compi­ mento.

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Benedizioni e illuminazione

STUDENTE:

nedizione'?

Potrebbe Rinpoche spiegare esattamente cos'è la 'be­

RI N P O C H E : Ciò che di solito la gente considera benedizioni le chiamerei 'benedizioni superficiali'. Spesso, quando avete qualcosa di cui volete liberarvi, chiedete: "Ti prego, benedicimi affinché sia li­ berato da ciò che non mi piace" . Può trattarsi di malattia o dolore, oppure un attacco di spiriti maligni. Può anche essere una cosa mon­ dana come gli affari che non vanno bene, e così via. La gente chiede i cordini di protezione da legare al collo, le sacre medicine da ingeri­ re, e forse un rito da celebrare. Quando guarisce, quando gli spiriti maligni sono stati respinti, gli affari vanno di nuovo bene, o quant'al­ tro, allora dice: "Ho ricevuto le benedizioni". Queste sono conosciu­ te come behedizioni convenzionali. Le vere benedizioni, invece, so­ no le istruzioni orali su come diventare illuminati nel corso di una sola vita, le istruzioni che potete ricevere da un maestro qualificato. Vi prego di considerare il fatto che il nostro attuale corpo è un prezioso corpo umano. In questo mondo ci sono innumerevoli esse­ ri senzienti. Tra tutti gli esseri la forma migliore è questo prezioso corpo umano. È molto difficile attenerlo più volte. Potete nascere in questo corpo soltanto se avete creato abbastanza meriti nelle vite passate. È impossibile ottenere un prezioso corpo umano tramite i demeriti, le azioni karmiche nocive. Possiamo giungere in un corpo umano solo grazie a un karma positivo incredibilmente grande. Na­ scere come essere umano equivale ad arrivare su un'isola di gioielli. Ma se non prendiamo nessun gioiello, se rimaniamo con le braccia

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conserte e torniamo a casa, qual è il vantaggio? Essendo nati come esseri umani, è importante valorizzare questa vita. Come la valorizza­ te? Praticando una via spirituale. Diversamente, la vostra vita è quel­ la di un uomo comune. Un uomo comune è un essere che ha un corpo umano e sembra umano. Se quella vita non è congiunta a una via spirituale, i suoi sco­ pi non sono realmente differenti da quelli di un animale. Tra tutti gli esseri umani, noi ora abbiamo un prezioso corpo umano. Possiamo ascoltare gli insegnamenti quando vengono spiegati; possiamo anche metterli in pratica. Sprecare l'occasione di un prezioso corpo umano è una grande perdita. Non potrebbe esserci un fallimento maggiore. In tutta onestà, vorrei incoraggiarvi decisamente a praticare il Dharma. Praticare il Dharma vuol dire, soprattutto, sviluppare le qualità della fiducia, diligenza e intuizione. Fiducia significa confida­ re negli insegnamenti e in chi li ha insegnati: il Buddha e il Sangha, coloro che sostengono gli insegnamenti. La diligenza è ciò che vi conduce fino al compimento. Diversamente, qualunque sia il vostro lavoro, se lo iniziate e non lo finite, come può essere completato? L'intuizione scaturisce dall'ascolto degli insegnamenti, dal pensarci sopra e dall'applicarli. Quando ascoltate qualcosa e ne siete sicuri, allora avete l'intuizione, vale a dire la conoscenza derivata dall'ap­ prendimento. li pensarci sopra è la conoscenza della riflessione. Infi­ ne c'è la conoscenza acquisita grazie alla pratica della meditazione, ossia l'esperienza personale tramite l'allenamento. La fiducia è indispensabile, e la diffidenza è un grande difetto. Qualcuno potrebbe essere indifferente, come chi vede buddha e bo­ dhisattva volare in cielo e dice: "Si stanno solo pavoneggiando " . Op­ pure, se vedete una creatura giacere con la pancia aperta e i visceri fuoriusciti, potreste !imitarvi ad alzare le spalle dicendo: "È il suo karma, in fondo tutti muoiono" . Se non si ha compassione e fiducia, è molto difficile scoprire il cuore del Dharma. Sviluppate l'apprezzamento dal profondo del cuore, anche per quattro versetti di insegnamenti del Buddha. Pensate: "Che meravi­ glia! È incredibilmente prezioso ! ". Quando considerate gli altri, fa­ telo sempre in questo modo: " Sono i miei genitori, ma soffrono. Cosa posso fare? Mi assumo la responsabilità di aiutarli" . Così alle­ natevi alla compassione verso tutti gli esseri senzienti, non banal­ mente, ma dal profondo del vostro cuore. La compassione e la de-

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vozione non dovrebbero essere di facciata, ma sinceri. Avere fiducia negli insegnamenti del Buddha vuol dire puro apprezzamento. Per me è davvero incredibile che si possa cambiare la propria vita con poche parole dell'insegnamento. L'effettiva applicazione degli inse­ gnamenti può mutare le cause della rinascita nei regni inferiori; vale a dire, il Dharma può rovesciare il samsara completamente. È a que­ sto livello che scaturisce la fiducia, ed è questo il tipo di fiducia che è necessario. È anche possibile simulare fede e devozione, e mormorare senza sincerità banalità come: "Che meraviglia ! ". Queste parole vuote non servono a niente. Dobbiamo avere una fiducia così profonda che ci vengono le lacrime agli occhi, ci si rizzano i peli e semplicemente non possiamo rimanere passivi. Le sole parole non servono. Quando pensiamo agli altri esseri dovremmo cercare di provare una vera compassione. Riflettiamo sul fatto che sono i nostri genitori e che semplicemente non sanno cosa fare. Poiché non hanno nessuna idea della verità ultima, il vero stato del samiidhi, procurano a se stessi immenso dolore e sofferenza. Vagano da una vita all'altra in stati samsarici equiparabili agli anelli di un'interminabile catena. Quando si prova sinceramente un tale sentimento, vengono le lacrime agli oc­ chi. Questa emozione travolgente è il genere di compassione che do­ vremmo avere. La persona piena di travolgente compassione per tutti gli esseri senzienti e di devozione per gli illuminati riceverà, senza alcun dub­ bio, le benedizioni di tutti i buddha e i bodhisattva. Agire superfi­ cialmente come se si provasse pietà per gli esseri senzienti e rispetto per gli illuminati, affettando una finta devozione, non basta per rice­ vere le benedizioni. Ci deve essere totale sincerità. Se non dovete più cercare di provare compassione è un segno che avete ricevuto le be­ nedizioni nel vostro flusso di coscienza; il sentimento sorge sponta­ neo. Inoltre non dovete cercare intenzionalmente di essere rispetto­ si; lo siete in modo naturale. Ecco i segni delle benedizioni. Avere fi­ ducia nella conseguenza del karma è vera realizzazione della pratica del Dharma. Autentica realizzazione vuol dire essere compassionevoli e devoti. Potete sentir dire che qualcuno è chiaroveggente, che fa divinazioni esatte, o che può fare piccoli miracoli, o leggere i pensieri degli altri. Questa non è vera realizzazione, niente affatto. Non è nulla di spe-

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ciale. Molte persone comuni ottengono certe capacità dagli spiriti. Non è così raro che accada. È possibile che non abbiano fiducia ne­ gli illuminati, o nessuna compassione per gli esseri senzienti. Potreb­ bero non essere convinte delle conseguenze karmiche delle loro azioni. Eppure tali persone hanno la fama di essere dotate di benedi­ zioni e poteri di realizzazione. E nondimeno il loro flusso mentale potrebbe rimanere duro come la pietra, insensibile nei confronti de­ gli altri, privo di compassione, privo di una vera comprensione dei sacri insegnamenti. Possono essere attaccati unicamente a stati sam­ sarici. Da quando si svegliano al momento in cui vanno a dormire, cercano di sopraffare i nemici e aiutano soltanto gli amici. Questo è descritto come essere 'benedetti da spiriti senza forma'. Oppure, può darsi che non abbiate molta conoscenza del Dhar­ ma; ma se avete fiducia nei tre Gioielli e siete benevolenti verso gli altri esseri, oltre ad aver compreso profondamente che in questa vita nulla è eterno, avete già ricevuto le benedizioni dei tre Gioielli. Il punto essenziale è se abbiamo o no ricevuto le loro benedizioni. Al­ trimenti, di solito la mera conoscenza di una gran quantità di inse­ gnamenti non determina altro che presunzione, il pensiero: "Ho pra­ ticato moltissimo, tanti anni di samatha e samadhi" . Se le persone che hanno alle spalle una lunga esperienza di pratica diventano solo più taccagne e grette, è una prova che non hanno nessuna benedizio­ ne e che gli insegnamenti non hanno avuto effetto. S T U D E N T E : Cos'è esattamente l'illuminazione? RI N P O C H E : Ci sono diversi livelli di illuminazione. C'è l'illumina­ zione di un arhat, di un mahabodhisattva, e l'illuminazione perfetta e completa di un buddha. Le 'cinque vie' e le 'dieci bhumi' sono gli stadi progressivi che conducono gradualmente alla completa e per­ fetta illuminazione. La via della completa e perfetta illuminazione consiste nell'unire il mezzo e la conoscenza, ossia la grande compas­ sione e la comprensione intuitiva della vacuità. Quando la vacuità e la compassione sono inseparabili, questo è di per sé la vera via che conduce alla completa e perfetta illuminazione di un buddha. Ora, la compassione è immensamente profonda, perché il nostro collegamento a tutti gli altri esseri è un fatto. Non soltanto in gene­ rale ma anche in profondità, giacché non c'è un solo essere senzien­ te che, prima o poi in tutte le nostre innumerevoli vite passate, non sia stato nostra madre. Così siamo collegati da un legame di grande

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amore. Tuttavia, allo stesso tempo, non sapendo come evitare le cause della sofferenza e di un'ulteriore rinascita nel samsara, tutti gli esseri senzienti si trovano su una sentiero totalmente sbagliato. Quando prendete a cuore con sincerità questo dolore universale, non potete assolutamente voltare le spalle a tutti gli esseri sofferen­ ti, convinti che sia sufficiente ottenere l'illuminazione soltanto per voi stessi. Così, quando si pratica la via, la compassione è estremamente im­ portante. Al momento della completa illuminazione, l'attività a be­ neficio degli altri scaturisce dalla compassione. Avendo realizzato il dharmakaya a proprio beneficio, e percependo chiaramente la condi­ zione degli altri esseri e ciò che occorre, un buddha manifesta conti­ nue attività a scopo altruistico. Non sta semplicemente a guardare ri­ lassato. Tutta questa attività abile scaturisce dalla compassione. Il grande maestro Karmapa Rangjung Dorje ha indicato un'altra ragione per sviluppare la compassione, intesa come amore: Nel momento dell'amore la nostra vuota essenza appare nuda.

Il vero amore può essere sia la devozione per gli esseri illuminati sia la compassione per gli esseri non illuminati. Nell'istante in cui ab­ bandonate qualsiasi attaccamento egoistico e la mente è piena sol­ tanto di devozione o compassione, nessun concetto può far deviare la realizzazione della vacuità. È questa la suprema salvaguardia: spe­ riment� la realizzazione della vacuità soffusa di compassione. Ecco perch é il sistema buddhista dei Sutra afferma che il vero sentiero dell'illuminazione consiste nell'unione di compassione e compren­ sione intuitiva della vacuità. La compassione sorge dalla chiara visione della condizione altrui. Se allontanate l'attenzione dal vostro esclusivo interesse personale, iniziate a sintonizzarvi con il sentire degli altri esseri. In breve tempo vi rendente conto che c'è totale contraddizione tra i loro obiettivi e ciò che in realtà riescono a ottenere. Ognuno desidera essere felice e libero, ma il coinvolgimento portato avanti tramite il pensiero, la pa­ rola e l'azione per lo più crea ulteriore dolore, altra confusione. Quando lo si comprende chiaramente, la compassione diviene tra­ volgente. Quando si sperimenta una compassione travolgente, la comprensione intuitiva della vacuità è totalmente libera da qualsiasi

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deviazione, cosicché si può realizzare l'essenza originaria pura e libe­ ra sin dal principio, la natura di buddha presente in tutti gli esseri. Ecco perché nel sistema dei Sutra la compassione è così importante. Unire il mezzo e la conoscenza, la compassione e la vacuità, è pro­ prio l'essenza, il cuore degli insegnamenti generali del buddhismo. ll Vajrayana ci dice che la natura della mente di tutti gli esseri è ri­ coperta da due oscuramenti. Uno è il cosiddetto 'oscuramento emo­ tivo': il desiderio, la rabbia e l'ottusità. Il secondo, 'l'oscuramento conoscitivo', è la sottile fissazione sul soggetto, sull'oggetto e sulla lo­ ro interazione, quando la consapevolezza devia nell'attaccamento dualistico. Questi due tipi di oscuramento devono essere dissolti e purificati. Ciò si ottiene tramite la raccolta delle due accumulazioni: l'accumulazione dei meriti e l'accumulazione della saggezza, ossia l'allenamento alla sveglia presenza originaria. Raccogliendo le due accumulazioni manifestiamo i due tipi di conoscenza suprema: la co­ noscenza che percepisce tutto ciò che può esistere e la conoscenza che percepisce la natura così com 'è. Manifestando i due tipi di cono­ scenza suprema realizziamo i due kaya: il dharmakaya e il rupakaya. Rupakaya vuoi dire 'corpo della forma' e ha due aspetti: il sat?Zbhoga­ kaya, ossia la forma di luce d'arcobaleno, e il nirma1Jakaya, che può assumere la forma fisica di carne e ossa. Questo è un sommario del sentiero del Vajrayana. La vera benedizione consiste nel praticare ta­ le sentiero e ottenere l'illuminazione. La completa e perfetta illuminazione di un buddha possiede in­ concepibili grandi qualità di amore e compassione, saggezza-cono­ scenza, attività continua, e capacità di salvare e liberare gli altri. Lo stato risvegliato della mente non è paragonabile allo spazio inerte, insensibile e arido. Nello spazio non c'è nulla che senta: non è pre­ sente nessuna qualità, nessuna saggezza e nessuna compassione. Lo spazio non soffre, però è anche privo di saggezza. Lo spazio non fini­ sce all'inferno a causa di azioni malvagie, e non consegue neppure la liberazione. Semplicemente è vacuo, un vuoto. Se lo stato risvegliato fosse identico allo spazio, non avrebbe nessun senso ricercarlo, per­ ché la ricerca non porterebbe da nessuna parte. Però, in realtà, lo stato risvegliato non è identico allo spazio. Lo stato risvegliato della mente è sia cognitivo sia vuoto. La mente non è fatta di nulla: non consiste in nessuna sostanza materiale, niente di concreto. Tuttavia, quando è completamente e perfettamente risvegliata, include per na-

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tura qualità straordinarie. Sia la saggezza che percepisce tutto ciò che esiste e la sveglia presenza originaria che vede la natura esatta­ mente così com'è, sia la compassione, la capacità di agire a beneficio degli altri, tutte queste qualità sono pienamente presenti, a differen­ za dello spazio inerte. Non possiamo conseguire il risveglio a meno che non vengano eliminati i due oscuramenti che ci impediscono di essere pienamente risvegliati. Il modo di eliminarli consiste nel por­ tare a termine le due accumulazioni. La nostra natura fondamentale non è per nulla differente da quella di un buddha. È simile al puro spazio, il quale, che sia un cie­ lo oscurato da nuvole o un cielo terso e limpido, rimane lo stesso nella sua fondamentale natura essenziale. Ma se avete la pretesa che la vostra natura sia già illuminata e non progredite sul sentiero eli­ minando gli oscuramenti, allora la vostra natura illuminata non si manifesta. Perciò, dobbiamo guardare alla realtà effettiva, ai fatti. Abbiamo o no oscuramenti? Se vedete che ci sono ancora oscura­ menti, non potete evitare il compito di eliminarli raccogliendo le due accumulazioni. Se la nostra natura non fosse già illuminata, non potremmo risve­ gliarci a essa, per quanto intenso possa essere il nostro sforzo. La na­ tura di buddha non può essere creata. La nostra natura è illuminata sin dal principio, ma attualmente è oscurata dal nostro corpo, dalla nostra parola e dal nostro pensiero discorsivo. La natura della nostra mel)te, la natura di buddha, è come lo spazio, ma uno spazio oscura­ to d�lle nubi. Lo scopo di tutta la pratica del Dharma è rimuovere le nuvòle e lasciare che si manifesti ciò che c'è già: lo stato risvegliato della mente, la natura di buddha. La natura della nostra mente è pu­ ra sin dal principio, illuminata sin dal principio. I due oscuramenti vengono eliminati tramite le due accumulazioni: allenandosi nella virtù condizionata e nello stato incondizionato della sveglia presenza originaria. Ci risvegliamo all'illuminazione riconoscendo e realizzando appie­ no l'essenza pura sin dal principio, già presente come la nostra natu­ ra. È così che si può essere un buddha risvegliato. Anche se lo stato illuminato in realtà è già presente, immaginare o creare un concetto dell'illuminazione non vi fa illuminare. Equivale a essere affamati e guardare un piatto di cibo cercando di immaginarne il sapore. Allo­ ra, a cosa serve immaginare: "Uhm, sto mangiando, non ho più fa-

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me"? Potete farlo a lungo, in effetti continuamente, eppure ciò non cancella la vostra fame. Quando mettete davvero il cibo in bocca, sentite che è gustoso, e soddisfate l'appetito. La stessa cosa vale per l'esperienza. Essa accade in un modo diretto, nella realtà effettiva, non grazie a una teoria del sapore. Se la vostra pratica della medita­ zione consiste soltanto nell'esercitarvi a immaginare tenendo a men­ te qualcosa, non è esperienza diretta bensì solo teoria. Spesso sentite insegnare che tutte le cose sono vuote e prive di una propria identità, che nell'individuo non c'è un'identità persona­ le, e che tutti i fenomeni sono privi di una natura propria. Il sempli­ ce ascolto di questo insegnamento, o anche la sua comprensione in­ tellettuale, non significa granché. L'unico modo di realizzarlo consi­ ste nel riconoscere la nostra essenza, la sveglia presenza spontanea che è per natura vuota. Non è immaginando la vacuità che diventia­ mo liberi, bensì sperimentando la vacuità naturale. Possiamo capire che la mente in se stessa è priva di una forma vi­ sibile, di suono, sapore, odore o sensazione tattile. Ma questa com­ prensione non è la realtà: è soltanto un'idea di com'è realmente. Non è sufficiente. Se lo fosse, potreste dire: " Sono un buddha" , e sareste un buddha. Ma, onestamente, non è ciò che accade. Lo stato risvegliato, la nostra sveglia presenza spontanea, non de­ ve essere falsificato o alterato in nessun modo. È vacuità naturale. Va­ cuo vuoi dire privo di forma visibile, suono, odore, sapore o sensa­ zione tattile. Il suffisso ità è la conoscenza, la qualità conoscitiva. Dobbiamo renderei conto che è così, che non solo è vuoto, ma che è anche per natura conoscitivo. E non solo dobbiamo rendercene con­ to e sperimentarlo, ma anche farne l'abitudine. L'abitudine a tale sta­ to purifica dagli oscuramenti, dalle azioni negative e dal karma pas­ sato, ed elimina l'illusione alla radice. Ecco come si diventa illumina­ ti, ed è questa la radice delle benedizioni. Limitarsi a comprendere com'è l'illuminazione non illumina realmente. Per conseguire l'illuminazione dovete sperimentare direttamente la vacuità della mente. Vuoto vuoi dire non sorgere, non rimanere e non cessare. È come lo spazio qui attorno. Da dove scaturisce? Dove si ferma? E dove finisce? È la stessa cosa. Nel medesimo modo la vuota essenza della mente è al di là di tutti i concetti limitati della mente, nondimeno ha la capacità di conoscere. Se assimilate questo insegnamento, dovete condividere ciò che il Buddha ha insegnato: la

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natura della mente è una vuota conoscenza sconfinata. È ovvio, e perché? Vuoto significa che non c'è nulla da vedere. Tuttavia c'è un sapere, una qualità cosciente che chiamiamo conoscenza, la quale vede che non c'è niente da vedere. li vuoto e la conoscenza non sono separati; mentre siete vuoti potete comunque conoscere; mentre co­ noscete, l'essenza della mente continua a essere vuota. Se i due fos­ sero separati, l'essenza della mente sarebbe o uno stato vuoto o un'entità cosciente. Ma non è uno dei due: è un'unione naturale di entrambi. La natura della mente è davvero una vuota conoscenza sconfinata. La qualità della vuota essenza è ciò che chiamiamo dhar­ makaya, la natura conoscitiva è il saf!lbhogakaya, e la capacità sconfi­ nata è il nirma1}akaya. Se il nostro stato fondamentale si limitasse a essere vuoto, equi­ varrebbe ad aver perso i sensi, a essere inconsapevoli, incoscienti. Non ci sarebbe nessuna esperienza di niente; saremmo incapaci di vedere, udire, conoscere. Invece sappiamo per certo che ne siamo capaci, che la nostra capacità non è bloccata bensì sconfinata. Men­ tre percepiamo, l'essenza della mente è vuota. Sebbene sia vuota, percepiamo. Quando udiamo, la mente è vuota; sebbene sia vuota, possiamo continuare a udire. In breve, la mente è un'unità indivisibile di vuota conoscenza. Po­ tete cercare la vostra mente per un miliardo di anni, senza mai trova­ re niente di concreto o materiale. È vuota, priva di tangibilità. Se fos­ se qualcosa di concreto o materiale, dovrebbe esserci un'entità da ve � ere, udire, odorare, gustare o afferrare in qualche modo, vero? Ma�on troverete nulla del genere, pur cercando per un miliardo di . anni, perché la mente è vuota. N atura conoscitiva significa che possiamo conoscere qualsiasi co­ sa, tutto ciò che è presente. Solo la mente degli esseri senzienti può conoscere. Gli elementi esterni, l'acqua, la terra, il fuoco e il vento, non conoscono niente. Anche la carne, il sangue, l'aria nel corpo, le cavità all'interno del corpo non conoscono niente. Similmente, le co­ se viste, i suoni, gli odori, i sapori e le sensazioni tattili da soli non conoscono nulla. 'Conoscere' vuoi dire sentire piacere o dolore. La terra, il fuoco, l'acqua e il vento sentono qualcosa? E che dire del corpo, della carne e del sangue, del respiro e del calore, sentono qualcosa? Ecco perché la mente è più importante. Soltanto la mente può conoscere.

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Molte persone dicono: " Se la mente fosse vuota, non potrebbe co­ noscere nulla" . Non pensate mai che la mente sia soltanto vuota; è vuota conoscenza. In questo mondo, oltre alla mente, cos'è che può conoscere? Cosa c'è che conosce? Senza la mente tutto sarebbe iner­ te. Cos'è che crea le bombe atomiche? È la mente degli esseri sen­ zienti. Dobbiamo conoscere con precisione la natura fondamentale di questa mente. Il modo di conseguire l'illuminazione consiste nell'allenarsi a rico­ noscere l'essenza della mente e a diventare stabili in questo ricono­ scimento. Non è possibile farlo in nessun altro modo. Se non ricono­ scete la natura della mente, non potete trascendere le sei classi di es­ seri. La definizione di 'essere senziente' è chi non sa come si ricono­ sce la natura della mente. Quando sappiamo come riconoscerla, sen­ za troppa fatica possiamo avanzare negli stadi chiamati sravaka e bodhisattva, e alla fine diventare un buddha. Diversamente, in quan­ to esseri comuni, non siamo molto diversi da una vacca: ci limitiamo a mangiare e dormire, niente di più. Il sentiero che conduce all'illuminazione si basa in modo diretto sulla mente. Come dice una celebre sentenza: "Al di fuori della men­ te non c'è nessun altro buddha". Non si riferisce al vecchio stato del consueto coinvolgimento nel pensiero, bensì al puro stato originario in cui consiste l'essenza della mente. Questo puro stato originario si manifesta da se stesso e si libera da se stesso di continuo. Siccome esiste senza essere stato creato, non c'è assolutamente nessun biso­ gno di crearlo. Ecco perché lo chiamiamo 'puro stato originario'. Per quanto riguarda l'esperienza pratica, il suo riconoscimento adesso potrebbe non durare molto, forse soltanto alcuni secondi. Ciò per­ ché da innumerevoli vite questo puro stato originario è rimasto in­ trappolato nel pensiero. Se il riconoscimento dura soltanto un atti­ mo, dobbiamo ripeterlo molte volte. Conformemente all'istruzione essenziale del vostro maestro, ap­ plicate l'attenzione come un pastore che osserva il gregge. Senza tale 'ricordo' , un principiante non può riconoscere. È come la luce elet­ trica nella mia stanza: dobbiamo premere l'interruttore affinché ci sia la luce. Diversamente, potrebbe la luce scaturire da se stessa? L'atto di premere l'interruttore equivale a essere attenti. Nell'istante del riconoscimento raggiungete la vuota conoscenza sconfinata sen­ za dover fare nient'altro. Non pensate che la natura della mente sia

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qualcosa di sorprendente. Non pensate che debba essere qualcosa di fenomenale. Non correggete la sveglia presenza immediata. Questo riconoscimento non è un atto di meditazione; non c'è il benché mi­ nimo sforzo. Se pensiamo: "Vuoto, vuoto" , diventa soltanto una me­ ditazione. In altre parole, si tratta di un'imitazione, una contraffazio­ ne della vacuità. Invece dobbiamo solo riconoscere lo stato natural­ mente vuoto, senza radice e privo di base. Prima di iniziare questo tipo di allenamento, dobbiamo chiarire la questione se la mente sia vuota. Questo è il primo passo, ed è estre­ mamente importante farlo, affinché in seguito non si esiti pensando: "Forse è vuota, ma potrebbe anche non esserlo" . ll Buddha ha inse­ gnato che la mente senza alcun dubbio è vuota. Poi dobbiamo stabilire con certezza che la mente è anche per na­ tura conoscitiva. Se fosse soltanto vuota, come lo spazio, come po­ trebbe esserci la saggezza, la sveglia presenza? Come potrebbero es­ serci la compassione, l'attività e la capacità di aiutare altri esseri? Da dove scaturirebbero quelle qualità? Sono tutte qualità di questa co­ noscenza naturale. Se essa è bloccata, equivale a essere ciechi. Se il vostro obiettivo è soltanto diventare incoscienti, è sufficiente che qualcuno vi colpisca con forza la testa facendovi perdere i sensi, co­ sicché non percepite più niente. Quando siete privi di sensi non ve­ dete nulla, a meno che vi risvegliate. Questo temporaneo venir meno dell� conoscenza viene chiamato 'impedimento della capacità' . La capa�tà naturale, tuttavia, è sconfinata. Un sinonimo di capacità potrebbe essere energia. Quando i fisici parlano di materia vuota dicono che è vuota e che nondimeno c'è energia. È simile a quando gli occidentali dicono: "Non c'è niente da vedere, eppure c'è energia, una capacità" . Questa capacità di cono­ scere è ciò che chiamiamo capacità, in tibetano tukje. La medesima parola può anche significare gentilezza. Quando chiediamo a qual­ cuno: " Sii gentile" , in realtà stiamo chiedendo di attivare l'aspetto amorevole della sua capacità! Nel contesto dei tre kaya è il terzo: la vuota essenza, la natura conoscitiva e la capacità sconfinata. Tale tri­ plice natura è il nostro bene più prezioso. Capite che la mente è sia vuota sia conoscitiva? Non aggrappatevi a questa comprensione. Non datele nomi dicendovi: "Ecco, ho capi­ to" . È soltanto un ulteriore pensiero. Non aggrappatevi alla com­ prensione. Dare nomi è attaccamento. La mente risvegliata di un

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buddha non prova attaccamento. Quando in uno specchio appaiono i riflessi, lo specchio non dà loro nomi, non si aggrappa. La mente di un essere senziente si fissa e poi si aggrappa. Capite che dobbiamo allenarci a tale assenza di attaccamento? Adesso vi spiego come ci si allena. State lavorando, e nel mezzo del lavoro vi ricordate di riconoscere l'essenza della mente. Poi con­ tinuate a lavorare con solerzia, e di nuovo riconoscete l'essenza della mente. Questo viene chiamato 'sostenere la pratica'. All'inizio non possiamo sostenere la pratica senza interruzione per tutto il giorno. Così continuiamo a fare il nostro lavoro consueto, e di nuovo a un certo punto ci ricordiamo di riconoscere l'essenza. Ciò viene chia­ mato 'ricordare'. Quando ve ne ricordate, semplicemente limitatevi a questo. È così che ci si allena per diventare esperti. . Senza questo allenamento, non saremo mai in grado di vincere il nostro attaccamento, la nostra rabbia e l'illusione. Nell'attimo in cui si riconosce l'essenza della mente, ecco i tre kaya dello stato risve­ gliato. In quell'istante i tre veleni sono impotenti, hanno perso. Quando ci abituiamo a riconoscere la natura della mente, i tre veleni non hanno più un appiglio, non possono nuocere. Mentre si è in cammino verso la buddhità, i tre veleni non svaniscono immediata­ mente, però si indeboliscono sempre più. Se il riconoscimento pro­ segue ininterrotto dal mattino alla sera, ciò viene detto la bhitmi del bodhisattva. Se tale sveglia presenza perdura ininterrotta per tutto il giorno e la notte, incessantemente, allora i tre veleni sono annientati completamente. A questo punto, il corpo è quello di un essere uma­ no, ma la mente è quella di un vero buddha. S T U D E N T E : Cosa significa realmente essere uno yogi? R I N P O C H E : Possiamo essere tutti d'accordo che la mente è vuota conoscenza; rendersene conto non è così complicato o impossibile, niente affatto. Se la nostra mente fosse soltanto vuota come lo spa­ zio, non saremmo in grado di vedere, udire, odorare, gustare o toc­ care alcunché. Potete negare di vedere, udire, odorare, gustare o provare sensazioni tattili? È innegabile. L'essenza della mente non è soltanto o vuota o conoscitiva. I due aspetti sono inseparabili. Questi due aspetti, il fatto di essere vuota e conoscitiva, hanno un unico sapore. Come ha detto Padmasambhava: " L'unico sapore del­ la vuota conoscenza soffusa di consapevolezza". Ecco la frase fonda­ mentale. Non è più vuota che conoscitiva, né più conoscitiva che

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vuota. I due aspetti hanno un unico sapore, nel senso che sono inse­ parabili. La differenza decisiva sta nella presenza o no della consape­ volezza che riconosce quell'unico sapore. Anche per un comune es­ sere senziente la mente è un unico sapore di vuota conoscenza, ma è soffusa di inconsapevolezza. Ciò perché la qualità della sveglia pre­ senza è volta all'esterno e si aggrappa a qualsiasi cosa venga speri­ mentata. Allora l'attenzione rimane coinvolta nei tre veleni: "Quant'è bello, mi piace" , oppure: "Quant'è brutto, non mi piace" . I tre veleni (l'avversione, l'attaccamento e la stupidità) diventano una realtà pressoché costante. La pratica di un vero yogi consiste nel riconoscere lo stato libero dai tre veleni e rimanervi continuamente allenandosi a non distrarsi. Prima di tutto, riconoscete; in seguito, allenatevi; alla fine, ottenete la stabilità. n grado di non distrazione è precisamente ciò che definisce gli stadi verso la completa illuminazione. La completa non distrazio­ ne è paragonabile a un limpido cielo senza nubi, libero da qualsiasi oscuramento e soffuso di luce solare. L'unica sfera del dharmakaya, rigpa, è completamente priva di distrazione. Per uno yogi, è vitale la differenza che intercorre tra la distrazione e la non distrazione. In questo momento non è mattina o pomeriggio, ma mezzogior­ no. A quest'ora non potete separare davvero lo spazio vuoto dalla lu­ ce s�lare, quindi l'indivisibilità dello spazio e della luce diurna è una sinfùitudine dell'illuminazione completa. Gli esseri senzienti non so­ no più lontani dai buddha di quanto non lo sia questa zona ombrosa dall'essere illuminata. È solo questione di riconoscere o non ricono­ scere. Ciò a cui dovremmo essere introdotti, e che dovremmo riconosce­ re, è lo stato della non meditazione. Grazie all'allenamento, questa non meditazione diventa stabile, viene perfezionata. Tale stato è chiamato 'il trono dharmakaya della non meditazione'. Non si conse­ gue lo stato della non meditazione meditando. Il seme, la causa pri­ ma, non può essere differente dal risultato. Se piantate un'erba me­ dicinale, non diventerà un'erba tossica; e se piantate un'erba tossica, non diventerà un'erba medicinale. Ciò a cui ci alleniamo sin dall'ini­ zio, ciò che riconosciamo, dovrebbe essere in essenza uguale alla completa illuminazione. Non sentirete mai l'espressione 'trono dhar­ makaya della meditazione'. È sempre il 'trono dharmakaya della non meditazione'. Ciò che dovremmo riconoscere all'inizio, e ciò a cui

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dovremmo allenarci in quanto sentiero, è lo stato della non medita­ zione. Il modo di allenarsi consiste nel non distrarsi. È la non distra­ zione che cambia tutto. La distrazione distrugge ogni cosa. Il trono dharmakaya della non meditazione descrive la meta del sentiero della Mahamudra. Nello Dzogchen viene chiamato 'consu­ mazione della mente concettuale e dei fenomeni'. Mente concettuale vuoi dire la mente percettiva che si fissa su qualcosa. Fenomeni vuoi dire gli oggetti percepiti: i cinque elementi e tutte le diverse entità nella nostra vita. Dobbiamo trascendere chi percepisce e ciò che vie­ ne percepito. Quando mentalmente non ci si aggrappa a qualcosa come se fosse solido, i cinque elementi, i cinque oggetti sensoriali, e così via, vengono conosciuti così come sono in realtà: una presenza priva di sostanza, vuota, non esistente. Sono come arcobaleni, senza sostanza eppure apparentemente presenti. Lo yogi che realizza appie­ no questo stato non è danneggiato dai cinque elementi. Un vero yo­ gi può passare attraverso la materia solida, non sprofonda nell' ac­ qua, non è bruciato dal fuoco e non è ostacolato dal vento. Ecco il segno della piena realizzazione della consumazione. Dovremmo alle­ narci allo stato del rigpa originariamente puro. Sebbene l'essenza sia illuminata sin dal principio, lo yogi deve d-illuminarsi. Siamo caduti nell'illusione. Il conseguimento della stabilità nella non illusione vie­ ne chiamato ri-illuminazione. Nello Dzogchen la prima cosa a cui veniamo introdotti è lo stato della non meditazione, la comprensione intuitiva priva di concetti, li­ bera dal concetto dell'osservatore e della cosa osservata. Se iniziate col meditare su una cosa, qualsiasi risultato ottenuto tramite questa meditazione sarebbe similmente concettuale. In questo caso, da do­ ve scaturirebbe mai la compassione dei buddha? Una yogi dovrebbe essere come un cigno, una creatura che quando beve può separare acqua e latte. Lo yogi dovrebbe essere capace di separare il latte del­ la sveglia presenza innata dall'acqua dell'ignoranza. Saraha ha detto: "Abbandonate il soggetto che pensa e l'oggetto pensato". Ecco il modo reale di beneficare gli esseri. Ma l'abbando­ no di tutto non comporta l'abbandono del riconoscimento. Abban­ donate il fare, ma non abbandonate il non fare. Se abbandonate il ri­ conoscimento, ne risulta uno stato di indifferenza. Abbandonate l'esperienza concettuale, ma non abbandonate la sveglia presenza non concettuale. Il rigpa è come il vostro corpo nudo, e la mente

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dualistica è come i vestiti. Liberatevi di tutti i vestiti e rimanete nudi. Spogliatevi di tutti i pensieri dualistici e rimanete come il nudo stato del dharmadhatu libero da pensieri. Quando indossate i vestiti non siete nudi, giusto? Similmente, quando avete un pensiero non c'è il nudo rigpa. Spogliandovi potete essere nudi. Il corpo nudo non può essere buttato via; è il vostro corpo. Senza immaginare, non pensan­ do a nulla, la consapevolezza è sin dal principio vuota e senza radice. Chiunque lo comprenda è un vero yogi. Yoga vuoi dire sperimenta­ re realmente lo stato naturale. Chi lo fa può essere chiamato uno yo­ gi. Se il modo di vedere, la meditazione e la condotta sono mescolati a concetti, una tale persona non è uno yogi dello Dzogchen. Quando avete riconosciuto lo stato naturale, in altre parole, quando esso è una realtà nella vostra esperienza quotidiana, la gente vedendovi en­ trare nella stanza può dire davvero: " Lo yogi è arrivato" ! Il vostro corpo è ancora quello di un essere umano, ma la vostra mente è Ma­ hamudra.

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S T U D E N T E : Quando riconosco il rigpa tutti i pensieri si dissolvo­ no, ma l'apparenza degli oggetti visivi, dei suoni, e così via, non sva­ nisce. Qual è la differenza tra l'esperienza e il pensiero? RI N P O C H E : Non è necessario bloccare l'esperienza. Semplice­ mente evita di fissarti sull'esperienza e di definirla. È molto difficile evitare di sperimentare. In realtà, se vuoi davvero annullare l' espe­ rienza dovresti farti mettere K. o . da qualcuno con una spranga ! Se vuoi smettere realmente di percepire qualsiasi cosa, e vuoi sperimen­ tare l'assenza della mente, delle esperienze, fa' in modo che un ami­ co ti colpisca forte sulla testa. Allora ci riuscirai, almeno per un mo­ mento. Quando cessano tanto il pensiero quanto la percezione, c'è uno stato privo di coscienza e senza pensieri che chiamiamo 'totale oblio'. Quello stato assomiglia alla causa originaria dell'ignoranza. Quando il pensiero e il percepito vengono interrotti, il tuo stato samsarico è soltanto sospeso, latente. La via giusta consiste nell'essere 'incontaminati dalla mente che percepisce e non alterati dalla fissazione sugli oggetti percepiti', ma questo non significa che la sveglia presenza sia in qualche modo in­ terrotta, niente affatto. Se ti eserciti per fermare il pensiero e l' espe­ rienza, devi farti mettere K. o . da qualcuno. Oppure, se preferisci, potresti farlo da te. Non hai bisogno che sia qualcun altro a metterti K . O . Ogni volta che ti risvegli, afferra la spranga, se è questo il tuo allenamento, e datti una botta in testa. Dopo un po' potresti riuscirei molto bene! È molto facile. Non appena riprendi conoscenza e hai un pensiero, immediatamente colpisciti sulla testa! Il tuo mezzo di

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meditazione sarebbe la spranga. Se vuoi interrompere sia le sensazio­ ni sia i pensieri, usa la spranga. Ti aiuterà a conseguire la suprema ottusità ! Questa era l'istruzione dell'indicazione diretta per lo stato ottuso del completo oblio. L'esperienza, come ad esempio una sensazione fisica, e il pensiero su di essa si manifestano insieme. Per esempio, se qualcuno ti infila un ago nella pelle, in te sorge un pensiero provocato da quella sensa­ zione: "Fa male" . La sensazione fisica può essere presente ovunque sul corpo. Quando ti tocchi con un ago, non te ne rendi conto im­ mediatamente? È facile indicare la sensazione, ti basta prendere un ago e pungerti. Non usare un coltello, è un po' troppo rischioso ! Non morirai a causa d i un ago. Ma infilza l'ago in un cadavere e non sentirà niente. Non ci sarà nessuna reazione, vero? Proprio ora c'è una mente in questo corpo, così se vuoi essere completamente libero dalla sensazione fisica devi morire. Un cadavere non prova nulla. Questo riguardava l'esperienza sensoriale. Quando si riconosce l'essenza della mente, la sensazione è pre­ sente, ma è una sensazione vuota. Questo vuol dire che le impressio­ ni dei cinque sensi vengono sperimentate chiaramente; tuttavia sono inseparabili dalla vacuità. Gli oggetti visivi sono vuote visioni; i suo­ ni sono risonanze vuote. Nell'istante in cui vedete la vuota essenza, qualsiasi oggetto �el cinque sensi appare come vacuità. Non viene interrotto; continua a essere percepito, sperimentato totalmente. Tutto ciò che i tuoi occhi percepiscono viene chiamato vuota visio­ ne. Qualsiasi cosa le tue orecchie percepiscano si tratta di vuoti suo­ ni. Per la lingua è vuoto sapore. Per il naso è vuoto odore. Non di­ venti completamente insensibile, un vuoto. Continua a esserci la sensazione, l'esperienza. Se vuoi essere del tutto libero dalla sensa­ zione, non hai altro da fare che diventare un cadavere ! Oppure si può sperimentare la sensazione e non aggrapparsi a essa; è assoluta­ mente corretto. Il punto importante è questo: è impossibile fissarsi su qualcosa mentre si vede l'essenza. Nel medesimo tempo c'è una consapevolezza di tutto ciò che accade. Qualsiasi cosa vista è vuota visione, ciò che viene udito è vuoto suono: in quell'istante non c'è nessuna fissazione. Quando non si vede l'essenza manca la qualità vuota, non è così? Nell'istante in cui si vede la vuota essenza non c'è legame, attacca­ mento, fissazione; eppure c'è la consapevolezza. I cinque sensi sono

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completamente aperti; ogm cosa è chiaramente presente. Ecco un'istruzione profonda: Completamente sveglia, con i cinque sensi aperti. Completamente aperta, con la consapevolezza non fissata su nulla.

Questa completa apertura, chiamata zangtal in tibetano, vuoi dire nessun attaccamento, nessuna fissazione su alcunché. È proprio l' op­ posto dello stato mentale di una persona comune che si aggrappa e si fissa su ogni cosa. L'apertura del rigpa, l'apertura di uno yogi, non si fissa su nulla; non si aggrappa a niente. Dobbiamo abituarci a que­ sto tipo di apertura. I tuoi cinque sensi sono completamente aperti, svegli e tuttavia liberi dal pensiero. Rimanete in quello stato, del tut­ to aperti. Tale apertura è come il vetro nitido di una finestra che non ostacola la visione di alcunché dall'esterno: è totalmente trasparente. Questa trasparenza equivale a non aggrapparsi a niente, non fissarsi su niente, un'apertura che non ha nessuna divisione tra esterno e in­ terno. Similmente al vetro della finestra, non c'è niente che ostacoli la vista di ciò che si trova all'esterno e all'interno. È diverso da que­ sto muro che non è né trasparente né aperto. Potremmo utilizzare il muro come simbolo dello stato privo di coscienza, dovuto al colpo della spranga. Quello è davvero incosciente ! Proprio ora la mia esperienza visiva non è bloccata, ostacolata. Avviene tramite gli occhi. Posso vedere ogni singolo volto; nessuno è confuso, ognuno è distinto e chiaro. Non attacco parole a ciò che ve­ do, né mi fisso su qualche particolare. Il campo dell'esperienza non è bloccato ed è intensamente limpido. In modo simile, nell'istante in cui riconoscete l'essenza della mente c'è un senso di aperta presenza. Quando non ci si fissa su ciò che viene sperimentato, l'esperienza in se stessa non è affatto dannosa. Fissarsi vuoi dire attaccare concetti a ogni dettaglio: "Questo è così, quello è cosà", eccetera. Ecco una ci­ tazione del Dharmadhatu Kosa di Longchenpa: Quando gli esseri senzienti guardano al di fuori di se stessi, tutto sembra solido e concreto. Quando lo yogi riconosce lo stato del rigpa completamente libero, comprende che è aperto come il cielo, e che le apparenze di questo mondo sono uno spettacolo meraviglioso.

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Le apparenze sembrano tutte reali, ma in effetti non lo sono, pro­ prio come un miraggio, un riflesso, un arcobaleno. Forse sapete di certe sostanze allucinogene. Cosa accade quando avete delle alluci­ nazioni? Se volete conoscere con precisione la natura dell'esperien­ za, chiedete a chi fa uso di droghe. Quando l'effetto della droga fini­ sce, dove sono le allucinazioni? Le apparenze sono simili ad alluci­ nazioni. Ogni cosa è così. Accade proprio ora! Nei suoi scritti Longchenpa afferma spesso che tutte queste espe­ rienze, tutto ciò che percepiamo, sembrano esistere, paiono reali, ma in effetti non lo sono. Gli esseri senzienti mantengono tenace­ mente la convinzione che le cose siano reali. La scorsa notte proba­ bilmente avete fatto ogni genere di sogno. Dove finiscono con preci­ sione i sogni nel momento in cui vi svegliate? Dove sono adesso? Da dove provengono e dove vanno esattamente? Scoprite dove finisco­ no i vostri sogni. Scoprite se sono reali o illusori. Tutti i diversi tipi di esperienza di veglia sono manifestazioni della mente; sono creati dalla mente. Ecco perché i miracoli sono possibili. Quando, nell'istante dell'il­ luminazione, svanisce la manifestazione della mente illusa, si com­ prende che le comuni apparenze sono soltanto illusioni. Lo yogi rea­ lizzato non è bruciato dal fuoco. Può camminare sull'acqua e attra­ versare la materia solida. Una persona comune come noi certamente viene bruciati dal fuoco, trascinata dal vento e sommersa dall'acqua. Com'è che lo yogi riesce a sperimentare gli elementi in un altro mo­ do? La mente di un buddha non si aggrappa a niente, perciò le ap­ parenze non possono arrecare alcun danno. Ecco perché si afferma di continuo: non aggrappatevi a niente, non fissatevi su nulla. Sem­ plicemente riconoscete lo stato del rigpa e diventate stabili in quello stato. L'allenamento dello Dzogchen è tutto qui. La capacità di ope­ rare miracoli non scaturisce dall'aver intravisto lo stato risvegliato un paio di volte. Si manifesta soltanto quando ottenete la stabilità nel rigpa, nell'essenza della mente. È a causa della stabilità nel rigpa che tutti i grandi maestri dell'India e del Tibet non furono danneggiati dal fuoco, schiacciati dalle montagne o sommersi dall'acqua. Non si tratta soltanto di alcuni maestri, ci sono stati moltissimi es­ seri realizzati. Un canto del maestro tibetano Gotsangpa dice:1 1 Gyalwa Gotsangpa Gonpo Dorje (rgod tshang p a mgon p o rdo rje, 1 189·1258). Uno dei grandi maestri del lignaggio Drukpa Kagyii.

62 Il risveglio Tutte queste apparenze sono un inganno illusorio. Questa realtà relativa è come uno spettacolo di magia. La roccia dietro la mia schiena è trasparente.

Uno yogi come Gotsangpa poteva attraversare la solida roccia, co­ me la montagna alle spalle del mio eremo. Come mai? Perché aveva ottenuto la stabilità nel rigpa. Non che fosse tanto forte da riuscire ad aprirsi un varco nella montagna. La ragione è che in realtà tutte le apparenze sono un inganno magico. Nell'esperienza di Gotsangpa tutta la fissazione era stata consumata. La realtà relativa è davvero come uno spettacolo di magia. Sapete cos'è la magia? In India ci sono stati dei maghi che, grazie a mantra e a particolari sostanze, erano in grado di manifestare un palazzo e invi­ tare dei re con l'intero seguito a entrare e rimanere in quel magico pa­ lazzo, 'sperimentato senza esistere realmente'. Si racconta che una volta un mago invitò in un tale palazzo il Buddha con il suo seguito di cinquecento Arhat e offrì loro del cibo magico. n Buddha agì come se non si rendesse conto e mangiò il cibo. n mago pensò: "Sono riuscito a ingannarlo" . Alla fine il Buddha dedicò i meriti, continuando ad agi­ re come se non capisse, e se ne andò insieme al seguito. Allora il mago cercò di dissolvere la creazione magica, ma il Buddha aveva gettato un incantesimo sul palazzo affinché restasse lì. n mago ne fu sconvolto, si recò dal Buddha e gli disse: " Sono pentito di aver cercato di ingan­ narti. Ti prego di perdonarmi e lasciare che la magia svanisca" . Allora il Buddha schioccò le dita e l'intero spettacolo magico si dissolse. Un'apparizione magica non ha la benché minima realtà. È creata soltanto grazie all'uso di mantra e di particolari sostanze. Potete far apparire qualcosa alla vista, mentre in effetti non esiste. È una me­ tafora della condizione di ogni cosa, il mondo e tutti gli esseri che lo abitano. Il samsara, il nirvana, il sentiero: tutto è simile a una crea­ zione magica. Tradizionalmente ci sono otto analogie dell'illusione, tra le quali la magia, il riflesso, un arcobaleno, un sogno e un mirag­ gio. Sono tutti esempi di ciò che viene percepito come esistente, ma che in effetti non esiste realmente. I fenomeni sono paragonabili a una spettacolo di magia creato da un mago. Tutte le apparenze, ciò che percepiamo, sono così: prive di sostanza e vuote di vera esisten­ za. Più ci stabilizziamo nel rigpa, più vediamo i quattro elementi esterni così come sono: visibili eppure non esistenti, come un arco-

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baleno in cielo. Prima eravamo semplicemente ingannati da queste apparenze non esistenti. Diventando stabili nel rigpa comprendiamo che qualsiasi cosa venga percepita è un'illusione creata da noi stessi. È un'esperienza personale illusoria. Come dice Tilopa a Niiropa: Figlio, non sei legato dal percepito, ma dall'attaccamento. Quindi taglia il tuo attaccamento, Naropa.

Quando, grazie all'istruzione essenziale del vostro maestro, com­ prendete dall'interno che l'attaccamento è senza radice e privo di ba­ se, allora qualsiasi cosa percepiate non può né danneggiare né aiutare in nessun modo. Qualsiasi cosa sperimentiate è la vostra percezione individuale, e tutta la percezione individuale è vuota. Proprio ora po­ tremmo pensare: "Percepisco questo pezzo di legno, allora come può essere vuoto?". Siccome può essere bruciato e distrutto totalmente, è vuoto di un'esistenza inerente, non solo a un certo punto in futuro ma già adesso. Ci sarà un momento in cui sette fuochi consumeranno l'intero universo completamente, come un pezzo di carta distrutto da una fiamma. Ciò che rimane, lo spazio vuoto, non può essere distrut­ to. Il fatto che l'universo per prima cosa si formi, poi continui e alla fine si disintegri prova che è davvero vuoto. Il Buddha ha detto: La forma è vuota e anche la vacuità è forma. La forma non è nient'altro che vacuità; la vacuità non è nient'altro che forma.

Tutte le cose che percepite sono forme vuote. Cercate di capire, piano piano e con attenzione. Se una cosa non fosse vuota sarebbe indistruttibile. Non potrebbe essere distrutta dal fuoco. Ma quando un pezzo di legno è stato bruciato e le ceneri disperse, non rimane nulla, neanche un atomo. La mente è vacuità perché non potete nep­ pure bruciarla; lo potete? Potete spazzarla via con l'acqua? Potete sotterrarla? Solo la natura di buddha è realmente vera. Ecco un nota citazione: Si afferma che tutto è vuoto, ma il sentiero del Buddha non deve essere vuoto dei kiiya e delle saggezze.

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La vacuità della mente è indistruttibile; non può essere bruciata dal fuoco, spazzata via dall'acqua e sotterrata. Ogni altra cosa, anche le più solide montagne di questo mondo, si disintegrerà completa­ mente nelle immense fiamme dell'ultimo fuoco del kalpa, fuoco che poi svanirà in se stesso. L'universo costituito da un miliardo di siste­ mi di mondi svanirà senza lasciare un solo atomo. Non è una prova del fatto che tutto è vuoto? Ma la vacuità della mente non può esse­ re distrutta dal fuoco; non può essere dispersa nell'aria. Non potete sbarazzarvene; è come lo spazio. Siete in grado di bruciare lo spazio? Sapete disperderlo? Potete spazzarlo via o sotterrarlo? La natura di buddha è simile allo spazio. Ogni cosa percepita è vuota, ma la realtà della natura di buddha trascende tanto il vuoto quanto il non vuoto. Vi prego di capire que­ sto punto importante. Al momento del riconoscimento della natura di buddha non avete bisogno di fare tante cose: semplicemente rico­ noscete l'identità di ciò che vuole 'fare', di ciò che pensa. Quando c'è il riconoscimento si vede all'istante che non c'è base o radice di nulla. Questa essenza priva di base, di radice, non è un concetto. Non serve a niente avere un concetto di qualcosa che è non concet­ tuale. Un concetto della vacuità è inutile. A noi interessa la vacuità naturale. Nell'istante in cui riconoscete l'essenza della mente c'è già la sua visione. Non è facile? Se il Buddha avesse detto che c'era qual­ che 'cosa' da vedere e voi non riusciste a vederla, sareste nei pasticci. Ma non c'è nessuna 'cosa' da vedere; è vacuità. È questo che dobbia­ mo vedere. Quando lo vediamo, non manca nulla, non rimane nulla che non abbiate già visto. Nell'istante in cui si riconosce l'essenza, non c'è pensiero; l'essenza è libera dal pensiero. Non è un'entità che lentamente entra in voi come se foste posseduti da uno spirito. Nel medesimo istante in cui avviene il riconoscimento, proprio in quel at­ timo, c'è la visione della vuota essenza. Semplicemente vedendo la vuota essenza non rimane nessun pensiero: il pensiero si dissolve, si libera. È piuttosto facile, non è vero? Non c'è niente da portare sulle spalle, niente da costruire, niente da realizzare, niente da immagina­ re. Non è meravigliosamente semplice e facile? "Il non vedere nulla è la suprema visione" . Quando osservate gli oggetti non vedete la mente, eppure sono tutti sperimentati dalla mente. È la mente che vede gli oggetti. Quando si tratta di ricono­ scere l'essenza della mente, non è necessario rincorrerla come se fos-

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se un oggetto, perché è la mente che sperimenta gli oggetti. In quell'istante di riconoscimento gli oggetti non hanno importanza; non influiscono sull'essenza. Gli oggetti in se stessi non sperimenta­ no. La terra non vede l'acqua; l'acqua non vede il fuoco; il fuoco non vede il vento, e così via. Solo la mente può sperimentare. È vuota, ma non è inchiodata qui; ogni esperienza si può manifestare. Non ci si deve aggrappare al fatto di essere lo sperimentatore di una particolare esperienza. Quando lasciate che ogni cosa sia aperta, rimanendo liberi dall'attaccamento e dalla fissazione, scoprite che i concetti del soggetto che percepisce e dell'oggetto percepito cessano naturalmente. Il combustibile di ulteriore samsara consiste esatta­ mente in questi concetti dualistici. Nell'istante in cui il soggetto che percepisce e l'oggetto percepito svaniscono naturalmente cosa c'è a tenere in vita il samsara? Esercitatevi. È come attraversare cento fiu­ mi passando su un solo ponte! È come tagliare gli 84.000 rami di un albero insieme al fogliame grazie a un solo colpo alla radice princi­ pale; tutti gli 84 .000 rami essiccheranno nello stesso tempo. Se ta­ gliate la radice di questa mente dualistica, simultaneamente elimina­ te gli 84.000 tipi di emozione disturbante. È a questo che ci si deve esercitare, soltanto questo. Ci credi? Ne sei convinto ora? STUDENTE: Sì. RI N P O C H E : A cosa serve essere soltanto vuoti? Pensi che sia utile? STUDENTE: No. RI N P O C H E: La qualità vuota dell'essenza è il dharmakaya, la qua­ lità conoscitiva è il sat?Zbhogakaya e l'unità del vuoto e della cono­ scenza è chiamato nirmii?Jakaya. Nell'istante in cui riconosci l'essen­ za della mente sei a faccia a faccia con i tre kaya. Quando non la ri­ conosci sperimenti i tre veleni. Per eliminare i tre veleni, riconosci l'essenza della mente. "La conoscenza di una sola cosa libera da tut­ to" . Quando riconosci questa unità di vuoto e conoscenza, tutti gli 84.000 tipi di emozione disturbante si dissolvono simultaneamente. "La conoscenza di una sola cosa libera da tutto" : la conoscenza di quest'unica essenza libera da tutti gli stati della mente dualistica. Ma è anche possibile "conoscere cento cose e mancare l'unica" . Oppure, come spesso si afferma: "Non conoscendo la realtà della mente, qualsiasi cosa facciate è un pasticcio" . La realtà della mente è quell'attimo in cui capite che non c'è niente da vedere, che è vuota. Tuttavia c'è la conoscenza. Ciò significa che l'esperienza è vuota e,

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nel contempo, c'è anche un'esperienza del tutto aperta, non impedi­ ta. Questa è la 'realtà' della mente, la vera condizione della mente. Mancando la conoscenza di tale realtà, qualsiasi cosa facciate è un pasticcio. Tutta la realizzazione scaturisce dal riconoscere questa ve­ ra condizione, la realtà della mente. Senza tale riconoscimento, qual­ siasi cosa facciamo è un pasticcio. Rigpa è come uno specchio che può riflettere ogni cosa. Quando una immagine si riflette in uno specchio, quest'ultimo non insegue il riflesso; non lo ricerca, né tenta di alterarlo in nessun modo. Noi esseri umani, invece, seguiamo gli oggetti; ricerchiamo qualsiasi co­ sa venga sperimentata. Rigpa è come lo specchio; ha la capacità di riflettere, e qualunque cosa si può riflettere nello specchio. La no­ stra essenza è vuota, la nostra natura è conoscitiva, e la nostra capa­ cità è sconfinata. È in questa capacità sconfinata che può sorgere qualsiasi cosa, come il riflesso in uno specchio. Se non fosse per questa capacità, saremmo inconsapevoli, insensibili, privi di cono­ scenza. Se volete essere inconsapevoli, mettetevi K . o . con la tecni­ ca della spranga ! Potete esaminare ogni singola cosa in questo intero mondo, ma non troverete mai un'istruzione superiore a quella che vi insegna a riconoscere la natura della mente. Vi sto dicendo com'è. È il sentiero percorso da tutti i buddha del passato. Chiunque si risvegli in questo momento segue questo sentiero; tutti i buddha futuri si risveglieran­ no soltanto seguendo questo sentiero. È anche chiamato la grande Madre dharmakiiya, Prajfiaparamita. Non è letteralmente una sorta di vecchia signora. La grande Madre dharmakiiya è la vuota cono­ scenza sconfinata. Dovete abituarvi a questo stato tramite l'esercizio, che non consi­ ste in un atto intenzionale di meditazione, ma soltanto nel riconosce­ re. Nell'istante del riconoscimento c'è la visione dello stato. Nell'istante della visione c'è la liberazione. Quella liberazione non dura necessariamente a lungo. Il fatto che non ci sia nessuna 'cosa' da vedere viene visto così com 'è. Non rimane nascosto; è una realtà. Brevi momenti, però ripetuti molte volte. Dovete esercitarvi in quel modo. E quando siete ben allenati, non avete bisogno di pensarci su due volte. Per fare qualcosa che sapete a memoria non dovete pen­ sarci, vero? Per recitare OM MAN I PA D M E H U M , dovete pensarci? Ogni volta che dite OM avete bisogno di pensare a ciò che segue?

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Certamente ci deve essere il pensiero iniziale: "Adesso canterò O M " MANI PAD M E H U M . Nel medesimo modo, all'inizio dobbiamo ri­ cordarci di riconoscere l'essenza della mente. Ma non dobbiamo preoccuparci di ciò che viene dopo O M , e dopo MA, vero? Quando dite OM MANI PADME H U M , OM MANI PADME H U M , vi capita mai di doverci pensare su due volte? Questo viene chiamato allenamen­ to. È così. Il più alto livello di allenamento consiste nel riconoscere l'essenza, in modo naturale, da quando vi svegliate al mattino fino a quando andate a dormire, senza meditare intenzionalmente, eppure rimanendo del tutto non distratti. Riconoscete la vuota conoscenza sconfinata. Siate presenti, aperti. Rimanete non distratti, senza una 'cosa' su cui meditare. Cosa vor­ rebbe dire rimanere in quello stato di continuo per tutto il giorno? Se fosse spontaneo e incessante per tutto il giorno e la notte, come sarebbe? La conoscenza che sa tutto, la compassione amorevole, l'at­ tività illuminata sono qualità che si manifestano spontaneamente, senza che debbano essere generate con la meditazione. S T U D E N T E : Sembra che per i praticanti la speranza e il timore siano inevitabili. Noi che seguiamo il sentiero temiamo di perdere molto tempo; speriamo di passarlo saggiamente e conseguire la rea­ lizzazione. Eppure ci viene insegnato che quando manteniamo il mo­ do di vedere dell'essenza delle mente, la speranza e il timore lo dan­ neggiano. Come superare questa speranza e questo timore? R I N P O C H E : Ci sono due aspetti qui: il modo di vedere e la con­ dotta. Devi distinguerli. Sono due aspetti differenti che non puoi, e non devi, fondere insieme. Se smarrisci il modo di vedere nella con­ dotta, vuoi dire che continui ad accettare e rifiutare. Potresti pensa­ re continuamente a qualcosa che deve essere conseguito e qualcosa che deve essere abbandonato. Questo vien detto smarrire il modo di vedere nella condotta. Al contrario, se smarrisci la condotta nel modo di vedere, pensi che non ci sia nulla da accettare o rifiutare e di poter fare qualsiasi cosa, perché il bene e il male non esistono. Questo è un errore anche maggiore. Il proprio comportamento deve essere in armonia con i valori mondani. Tuttavia, il Dharma mischiato con il lavoro monda­ no non è il Dharma perfetto, mi rincresce dirlo. li Dharma e gli sco­ pi mondani sono contraddittori, quindi mantieni nella mente queste due cose separate e distinte. Il lavoro mondano implica sempre un

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po' di contaminazione. Le azioni malvagie sono un ostacolo sul sen­ tiero spirituale. Per praticare il Dharma devi abbandonare le azioni malvagie. Il corpo e la parola sono i servi della mente, che è il creato­ re di tali azioni. Ogni qual volta la mente è presa dai tre veleni, le no­ stre azioni sono malvagie. Non dobbiamo gravarci di azioni negative. Il modo di vedere dovrebbe essere libero dai tre veleni. Nella mente di una persona comune non c'è nulla oltre ai tre veleni, c'è so­ lo speranza e timore. È impossibile condurre le attività mondane senza speranza e timore. Non puoi fare niente in questa vita senza accettare e rifiutare. Cercare di farne a meno diventa un grosso pro­ blema. Quindi non puoi praticare il Dharma senza speranza e timo­ re, senza accettare e rifiutare. Questo non significa che si debba esse­ re come una persona comune, il cui modo di vedere è quello dei tre veleni (questa è la definizione di una persona comune) e il cui com­ portamento consiste nel mettere in atto i tre veleni. Non si intende questo. Il flusso mentale di una persona comune viene chiamato 'estensione nera', nel senso che non c'è nient'altro che un continuo, incessante flusso di schemi di pensiero negativi, per tutto il giorno e la notte. Nel caso delle persone comuni manca il modo di vedere dell'essenza della mente. Secondo questo modo di vedere non c'è niente da accettare e rifiutare. Tuttavia, se non si accetta ciò che è bene e non si rifiuta ciò che è male, se non si accetta il Dharma e si rifiutano gli scopi mondani, semplicemente si continua a vivere un'esistenza comune. In breve, devi distinguere tra il modo di vede­ re e la condotta. Il modo di vedere è libero da speranza e timore. La condotta è con speranza e timore. Quando si tratta di allenarsi al modo di vedere, allora è certamen­ te vero che la speranza e il timore, l'accettazione e il rifiuto, devono essere tralasciati. Non c'è equanimità finché non si tralascia l'impul­ so ad accettare e rifiutare. Sono soltanto due forme di attaccamento, e sono entrambe pensieri concettuali. Per agire, per mettere in atto la condotta, devi accettare e rifiutare; non c'è alternativa. Dobbiamo praticare il Dharma, e non dobbiamo creare azioni malvagie, anche se spesso si verificano automaticamente. Le persone comuni sono in­ fluenzate dal pensiero. La radice delle azioni negative è il pensiero. I pensieri di un essere senziente non sono spirituali; sono soltanto rab­ bia, desiderio e ottusità. Le persone comuni sono attratte da un og­ getto a causa del desiderio, vi si oppongono con l'aggressione, oppu-

La tecnica

della spranga

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re lo ignorano per ottusità. In altre parole, non c'è nient'altro che i tre veleni. Devi abbandonare le azioni negative. Devi applicare il Dharma. Quindi, è impossibile praticare il Dharma nella propria vita senza speranza e timore, senza accettare e rifiutare. È solo nel contesto del modo di vedere che non c'è niente da accettare e rifiutare con la spe­ ranza e il timore. Tanto la speranza quanto il timore sono pensieri. Il modo di vedere è libero da entrambi, ma non lo è la condotta. Lo scopo delle quattro trasformazioni della mente, per esempio, è accet­ tare e rifiutare. Accettare ciò che dovrebbe essere adottato, ossia il sentiero del Dharma. Rifiutare ciò che dovrebbe essere abbandona­ to, vale a dire i modelli di vita mondani. Per diventare un praticante spirituale si deve certamente accettare e rifiutare, il che si basa sulla speranza e sul timore. Non c'è nulla di sbagliato. È nel modo di ve­ dere che non dovrebbero esserci l'accettazione e il rifiuto. Guru Rin­ poche ha detto: Non smarrite il modo di vedere nella condotta; Se smarrite il modo di vedere nella condotta, non potrete mai liberarvi. Non smarrite la condotta nel modo di vedere. Se smarrite la condotta nel modo di vedere, deviate nell'estensione nera.

Smarrire la condotta nel modo di vedere vuol dire che il modo di vedere, ossia la vacuità, è sovrapposto a tutte le proprie azioni. Qual­ cuno potrebbe dire: "Il bene è vuoto, anche il male è vuoto, ogni co­ sa è vacuità, quindi niente ha importanza". Così si diventa incuranti, superficiali, e non si distingue tra ciò che aiuta e danneggia, tra il be­ ne e il male. Questo vien detto smarrire la condotta nel modo di ve­ dere. Vi prego di fare attenzione a evitare questo errore! L'altro estremo consiste nello smarrire il modo di vedere nella condotta, pensare soltanto in termini di bene e male, ciò che è vir­ tuoso e non virtuoso. Guru Rinpoche ha anche detto: "Se smarrite il modo di vedere nella condotta, non potrete mai liberarvi" . È grazie al modo di vedere che ci si libera. Se smarrite il modo di vedere nella condotta, non avrete mai la possibilità di essere liberi. Se smarrite la condotta nel modo di vedere, allora ignorate la differenza tra il bene

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e il male. È molto importante mantenere distinti il modo di vedere e la condotta. Vi prego di distinguere attentamente tra i due ! Guru Rinpoche ha pure detto: "Anche se il modo di vedere do­ vrebbe essere vasto come il cielo, mantenete la vostra condotta fine come la farina d'orzo" . Non confondeteli. Quando vi esercitate nel modo di vedere potete essere equi, imparziali, vasti, immensi e scon­ finati come il cielo. La vostra condotta, invece, dovrebbe essere il più possibile attenta a distinguere ciò che è benefico e dannoso, ciò che è bene e male. Si possono unire il modo di vedere e la condotta, ma non confondeteli e non smarrite l'uno nell'altro. È molto importante. 'Modo di vedere come il cielo' vuol dire che non ci si aggrappa a nulla in nessun modo. Non ti fissi su niente. In altre parole, non c'è discriminazione in merito a ciò che va accettato e rifiutato; non viene tracciata nessuna linea di demarcazione tra una cosa e l'altra. 'Con­ dotta fine come la farina d'orzo' significa che c'è il bene e c'è il male, e si deve distinguere tra i due. Abbandona le azioni negative; pratica il Dharma. Nel tuo comportamento, nella tua condotta, è necessario accettare e rifiutare.

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Samath a e vipa§yana

S T U D E N T E : Poco fa mi ha detto di esercitarmi senza meditare. L'ho fatto nel corso dell'ultima settimana, e mi sembra che la mia di­ strazione sia aumentata. Cosa dovrei fare adesso? RI N P O C H E : La frase tradizionale è: "Coltiva samatha; alienanti al­ la vipasyana" . Il buddhismo non dice mai che samatha e vipasyana sono superflui, dovrebbero essere ignorati o messi da parte comple­ tamente. Neppure io lo insegnerei. Ma ci sono dei momenti in cui sembra che io critichi un po' samatha. C'è una ragione e dipende soltanto dal contesto specifico. Il contesto degli insegnamenti generali tiene conto di un essere senziente che sperimenta una confusione ininterrotta: un pensiero o un'emozione dopo l'altra, come la superficie burrascosa dell'oceano, senza mai riconoscere l'essenza della mente. Questa confusione è qontinua, non c'è quasi nessuna interruzione, vita dopo vita. Dire a .Ama tale persona che samatha non è necessario non è affatto il modo corretto di insegnare, perché la sua mente è come un elefante ubria­ co o una scimmia impazzita: semplicemente non rimarrà tranquilla. È una mente abituata a seguire il pensiero, senza nessuna compren­ sione intuitiva. Samatha è un mezzo abile che consente di trattare questo stato. Quando i pensieri confusi si sono acquietati un po', è più facile riconoscere la chiara visione della vacuità. Perciò non si in­ segna mai che samatha e vipasyana non sono necessari. Gli stili di insegnamento sono adatti a due tipi principali di men­ talità: una orientata verso gli oggetti percepiti, l'altra verso la mente cognitiva. La prima mentalità insegue gli oggetti della vista, i suoni,

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gli odori, i sapori, le sensazioni tattili e gli oggetti mentali, ed è insta­ bile nella natura di buddha. Questa è la situazione della 'triplice con­ fusione': la confusione dell'oggetto, della facoltà sensoriale e della percezione sensoriale che causa la rinascita in un corpo comune. A causa di questa abitudine radicata a !asciarci coinvolgere da un pen­ siero dopo l'altro, andiamo avanti e indietro nel samsara. Per stabi­ lizzare una mente siffatta, gli insegnamenti iniziali devono spiegare come si trova la calma, come si ottiene o induce una qualità incrolla­ bile in quel tumulto. È analogo a ciò che accade con l'acqua torbida: finché l'acqua non è chiara, non potete vedervi il riflesso della vostra faccia. Similmente, le istruzioni su samatha sono essenziali per chi si lascia trascinare dai pensieri. I pensieri scaturiscono dalla nostra vuota conoscenza. Non sorgo­ no soltanto dalla qualità vuota. Lo spazio non ha pensieri, e neanche i quattro elementi. Gli oggetti della vista, i suoni e le altre sensazioni non pensano. Le cinque porte sensoriali non pensano. I pensieri so­ no nella mente, e questa mente, come ho detto spesso, è l'unità di vuoto e conoscenza. Se fosse soltanto vuota, i pensieri non avrebbero modo di sorgere. Essi scaturiscono soltanto dalla vuota conoscenza. I veicoli comuni affermano che il metodo di samatha è necessario al fine di dimorare nella quiete. Per contrastare la nostra tendenza a creare pensieri continuamente, i buddha ci hanno insegnato ad affi­ darci a un sostegno. La nostra attenzione, abituandosi a tale soste­ gno, si stabilizza, diventando capace di rimanere ferma. A questo punto è più facile capire l'indicazione della natura dell'attenzione come vuota conoscenza. Ma vi prego di ricordare che il solo dimo­ rare, il solo restare nella stabilità della pratica di samatha non garan­ tisce il riconoscimento dello stato nudo della sveglia presenza spon­ tanea. In generale la mente ha molte caratteristiche differenti: alcune buone, altre cattive, alcune calme, altre riottose. Ci sono persone do­ minate dal desiderio, altre sono più aggressive; ci sono molti tipi di­ versi di atteggiamenti mondani. Se volete che la vostra mente diventi quieta e calma, allenandovi abbastanza a lungo diventerà quieta e calma. Lo diventerà certamente, ma questo non è uno stato liberato. Il processo di acquietamento è paragonabile a una persona che impara a sedersi invece di vagare confusa. Tuttavia, l'osservazione di quell'individuo che se ne sta seduto non dà necessariamente nessuna

Samatha e vipafyanà

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informazione sulla sua vera indole. E, come sapete, gli esseri umani hanno personalità differenti. Qualcuno può essere molto gentile, di­ sciplinato, una persona molto buona, e non lo saprete osservandolo mentre se ne sta seduto. Qualcun altro può essere molto rozzo, col­ lerico e violento, ma anche in questo caso non lo saprete. Tali carat­ teristiche si manifestano quando i pensieri riprendono ad agitarsi. Allora di solito rimaniamo coinvolti nell'illusione. Nel contempo però la nostra natura è sin dal principio libera dall'oscuramento del­ le emozioni e dei pensieri. I pensieri e le emozioni sono soltanto temporanei. La reale 'indole' della mente consiste nella sveglia pre­ senza spontanea, lo stato realizzato da tutti i buddha. Le istruzioni dello Dzogchen, della Mahamudra e della Via di Mezzo insegnano tutte che qualsiasi pensiero sorga è libero da for­ ma, suono, sapore, sensazione tattile, e così via. Tutto il movimento è vuoto, un movimento vuoto. Un'emozione è vuota, eppure sembra manifestarsi. Il movimento del pensiero può verificarsi perché la no­ stra natura è vuota conoscenza. Lo stato di un essere senziente con­ siste nel lasciarsi trascinare da un pensiero. Anziché !asciarvi trasci­ nare, riconoscete che il vostro stato fondamentale è l'essenza, la na­ tura e la capacità che costituiscono i tre kaya dei buddha. Rimanete nella naturalezza non alterata per brevi momenti ripetuti molte vol­ te. Potete abituarvi a tale naturalezza. I brevi momenti possono· dura­ re sempre di più. In un solo istante di naturalezza non alterata ci si può purificare dal karma negativo di un kalpa. Un istante di natura­ lezza trasforma un kalpa di karma negativo. Dovete soltanto permettere il momento di naturalezza non altera' ta. Anziché meditare sulla naturalezza, vale a dire concentravi su di essa, semplicemente permettetele di essere naturalmente. Mentre vi allenate in questo modo, è più una questione di abitudine che di meditazione (per fare un gioco di parole, perché in tibetano le parole 'allenare' e 'meditare' suonano uguali). Più vi abituate all'essenza della mente, e meno meditate su di essa in modo deliberato, più faci­ le diventa il riconoscimento, e più semplice è la sua continuazione. Il fugace riconoscimento dell'essenza della mente, che all'inizio durava solo pochi secondi, a poco a poco diventa mezzo minuto, poi un minuto, mezz'ora, ore, finché è ininterrotto per tutto il giorno. Avete bisogno di questo tipo di allenamento. Lo dico perché, se la meta dell'allenamento principale è la costruzione di uno stato in cui

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i pensieri sono svaniti, uno stato che sembra molto limpido e quieto, si tratta ancora di un allenamento dove si mantiene deliberatamente uno stato particolare. Tale stato è il risultato di uno sforzo mentale, una ricerca. Perciò non è né lo stato ultimo né l'originario stato na­ turale. La nuda essenza della mente non è conosciuta in samatha, rimane nascosta, perché la mente è occupata a dimorare nella quiete. Tutto ciò che si fa in samatha è soltanto non seguire il movimento del pen­ siero. Ma l'illusione a causa del movimento del pensiero non è l'uni­ ca illusione: c'è anche l'illusione dovuta al dimorare nella quiete. La preoccupazione di essere calmi blocca il riconoscimento della sveglia presenza spontanea, e blocca pure la conoscenza dei tre kaya dello stato risvegliato. Questa calma consiste soltanto nell'assenza del pen­ siero, nell'attenzione che dimora in se stessa senza tuttavia conosce­ re se stessa. La radice del samsara è il pensiero. Il 'padrone' del samsara è il pensiero. Nondimeno, l'essenza stessa del pensiero è il dharmakaya, vero? Dobbiamo allenarci a riconoscere questa essenza del pensiero: le 'quattro parti senza le tre'. Tale allenamento non è un atto di me­ ditazione su qualcosa, ma è un 'abituarsi'. Tuttavia, non equivale neppure a memorizzare, come quando si mandano a memoria dei vers1. Meditazione di solito vuol dire fare attenzione. Ma in questo caso dobbiamo allenarci a essere liberi dall'osservatore e dall'osservato. In samatha c'è un osservatore e un oggetto osservato. Quindi, fran­ camente, samatha è anche un allenamento a bloccare la vacuità. Samatha abitua la mente alla quiete e la impegna a essere quieta. C'è sempre qualcosa che viene mantenuto. Questo tipo di stato è il pro­ dotto di una tecnica. Si fa molto sforzo per creare un certo stato pro­ dotto dalla mente. E qualsiasi stato che sia il prodotto di un allena­ mento non è la liberazione. La sola capacità di rimanere quieti non fa dissolvere la confusione. L'oceano può sembrare totalmente calmo, se riuscite in qualche modo a far quietare le onde, però nell'acqua ogni genere di sedimen­ to continua a fluttuare. Può essere privo di onde, ma non è privo di detriti. Nel medesimo modo, quando si mantiene uno stato di quie­ te, le tendenze abituali agli ottanta stati di pensiero innati, ai cin­ quantuno eventi mentali, e a tutte le emozioni virtuose e non virtuo-

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se sono presenti in latenza. Possono non essere evidenti; possono non essere attivi; tuttavia non sono svaniti. Ciò che sto criticando è l'idea che la quiete della mente libera dal pensiero sia in definitiva preferibile oppure una meta in se stessa. L'insegnamento del Buddha lo nega: la quiete in quanto tale non è la liberazione. Ricercandola si possono ottenere lunghi momenti di completa tranquillità, ma questo non equivale alla vera liberazione. Lo stato risvegliato del rigpa, invece, è completamente aperto. Non si fissa su niente, come l'oceano in cui non rimane nessun sedi­ mento. Quando mettete della terra nell'acqua, quest'ultima diventa torbida. Allo stesso modo, non ottenete l'illuminazione soltanto tra­ mite iamatha. Avete bisogno di vipaiyana, la qualità della chiara vi­ sione, la quale è presente per natura nella vacuità al di là della mente concettuale. A tutti i livelli della pratica buddhista questi due aspetti devono procedere assieme: la quiete e la chiara visione, iamatha e vipaiyana. All'inizio della pratica di iamatha si può utilizzare un sasso oppure il respiro come oggetto dell'attenzione, ma in questo caso c'è sempre dualità: la separazione tra l'oggetto dell'attenzione e la stessa consa­ pevolezza che è attenta, ciò che tiene d'occhio l'oggetto da cui non ci si dovrebbe distrarre. Nello Dzogchen, invece, proprio all'inizio c'è l'introduzione allo stato nudo del dharmakaya. Nel contesto dello Dzogchen a volte si afferma che la quiete non è affatto necessaria. Questo ha senso soltanto per una persona con capacità superiori; non vale per chiunque. Fare a meno di iamatha non è un insegna­ mento Dzogchen generale, niente affatto. Nello Dzogchen, nella Ma­ hamudra e nella Via di Mezzo non si insegna mai che iamatha non è necessario; ciò che deve essere evitato è soltanto il suddetto difetto di iamatha. Dunque, iniziate con iamatha e continuate finché riuscite a man­ tenere bene uno stato di calma. A questo punto la visione della vo­ stra nuda essenza è molto più facile. È come voler vedere il proprio viso riflesso in una pozza d'acqua; non serve a nulla agitare di conti­ nuo la superficie dell'acqua. Piuttosto dovete lasciare che si acquieti. Per avere la comprensione intuitiva della vipaiyana prima è necessa­ rio lasciare che la mente si calmi, in modo da poter vedere chiara­ mente la propria essenza. Questo è indispensabile secondo il sistema buddhista comune.

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Man mano che procedete passando ad altri veicoli, scoprite che il significato di samatha e vipasyana è più profondo. Per esempio, ci so­ no lo samatha e la vipafyana ordinari e straordinari. Alla fine si affer­ ma che "la mente di buddha è l'unità di samatha e vipasyana" , ma questo tipo di samatha e vipafyanii non è quello ordinario, il tipo con­ cettuale che consiste nella quiete indotta seguita da una comprensio­ ne che viene conseguita. La definizione impiegata a questo punto è "famatha e vipafyanii che allietano i tathagata" . In altre parole, essi sono rallegrati da questo tipo straordinario perché è perfetto. I termi­ ni sono gli stessi, il significato è differente: lo famatha e la vipasyanii ordinari e straordinari sono diversi quanto il cielo e la terra. Ancora una volta, non pensate che samatha e vipafyanii non siano necessari. Nel rigpa la quiete innata è samatha e la qualità della sve­ glia presenza è vipasyanii. La quiete priva di pensiero è lo samatha ul­ timo. Essere liberi dal pensiero mentre si riconosce la propria essen­ za è l'unità indivisibile di famatha e vipasyanii che allieta i tathagata. Anche lo Dzogchen utilizza i termini famatha e vipasyanii, ma in questo caso non si riferiscono a un risultato della pratica. Il Tesoro del Dharmadhiitu di Longchenpa dice: La natura originaria, totalmente libera da tutti i pensieri, è lo famatha ultimo. La conoscenza naturale, presente spontaneamente come la radiosità del sole, è la vipafyana del tutto non alterata e presente per natura.

Da questa prospettiva dzogchen, samatha è la qualità immutabile della quiete innata, mentre il senso naturale della sveglia presenza spontanea è l'aspetto della vipafyanii. Nessuno dei due è prodotto o creato in alcun modo. L'affermazione secondo cui famatha non sa­ rebbe necessario si riferisce alla quiete creata mentalmente. Quando prima ho detto di non meditare, intendevo la meditazione creata dal­ la mente. È quel tipo di famatha che vi ho detto di non praticare. La chiara visione, vipafyanii, è la vostra vuota conoscenza, la vo­ stra nuda consapevolezza al di là del crescere e decrescere. Questa affermazione ha un significato meraviglioso. Nello Dzogchen si rife­ risce al vero riconoscimento del rigpa, mentre nella Mahamudra è chiamato la realtà innata, ossia quando ciò che è reale viene ricono-

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sciuto. Può essere chiamato in molti modi, ma in breve è la visione dell'essenza della mente nel medesimo momento in cui si osserva. "Vista quando si osserva. Libera quando è vista" . Non c'è un solo pensiero che possa introdursi in quello stato. Tuttavia, dopo un po' scoprite che di nuovo state osservando qualcosa di percepibile. In quel momento è arrivato il pensiero. Allora dovete applicare il ricor­ do della consapevolezza e ancora una volta, immediatamente, l' os­ servatore svanisce. Rilassatevi in quella naturalezza non alterata!

(Rinpoche rimane in rigpa per conferire la trasmissione diretta, quindi riprende a parlare.)

Quando rimanete senza fare alcunché, c'è un totale lasciar andare. Nel medesimo momento c'è anche un senso di essere pienamente svegli; c'è una qualità sveglia che non è creata. Simultaneamente alla dissoluzione del pensiero c'è una qualità sveglia che è come la fiamma radiosa di una candela, la quale esiste da se stessa. Quella qualità sveglia non deve essere sostenuta tramite la meditazione, perché non è qualcosa che viene coltivato. Siccome il suo riconoscimento dura soltanto un momento, è necessario richia­ marlo di nuovo alla mente. Ma, sinceramente, quanto ci vuole per esserci? Quando alzate il dito per toccare lo spazio, quanto dovete tendere la mano prima di raggiungere lo spazio? Allo stesso modo, quando riconoscete l'essenza della mente, la vedete nel medesimo istante in cui osservate. Non è che la vedrete a un certo punto in se­ guito, oppure che dovete ricercarla di continuo. Qui non accadono simultaneamente due cose diverse. Il riconoscimento della vacuità viene realizzato nell'istante in cui osservate. "Non vedere nessuna 'cosa' è la suprema visione" . Quan­ do vedete la vacuità non avete bisogno di fare assolutamente nulla. La parola chiave è 'non artefatto', nel senso che non dovete alterare quella condizione in nessun modo; !asciatela soltanto così com'è na­ turalmente. Allora siete completamente senza lavoro; non c'è niente che dobbiate fare. In altre parole, a questo punto non è necessario nessun atto di meditazione. Ecco cosa intendo con 'non meditate' . Perché in quel momento qualsiasi cosa facciate nel tentativo di man­ tenere, oppure prolungare lo stato naturale, lo avviluppa soltanto in un'ulteriore azione e complessità, il che non è davvero ciò di cui ave­ te bisogno. Lo abbiamo fatto comunque ininterrottamente da innu­ merevoli vite.

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Il perfetto dharmakaya è quando si lascia che il pensiero svanisca. Gli esseri comuni sono dominati dal pensiero. È questione di ricono­ scere o no. Nello Dzogchen l'essenza è vista nell'istante in cui si os­ serva. Eppure, la dharmata non è una cosa da vedere. Se lo fosse, sa­ rebbe un prodotto della mente.

(Ancora una volta Rinpoche dà l'indicazione diretta rimanendo in rigpa.)

Gli esseri senzienti si aggrappano a questo momento. Nel momen­ to presente il passato non c'è più e il futuro non è ancora arrivato. Siate liberi dai tre tempi, così non c'è niente eccetto l'essere vuoti. Il Trekcho è come tagliare una corda; non c'è nessun pensiero a concet­ tualizzare il passato, il futuro o il presente. Libera dai pensieri dei tre tempi, la vostra fresca, sveglia presenza è rigpa. Lo famatha da cui vi ho detto di essere liberi, nel senso di non me­ ditare, è la pace creata dalla mente. È estremamente importante che l'abbiate abbandonata. La pace creata dalla mente non è la perfetta via della liberazione. Esistenza e pace, samsara e nirvana: dobbiamo essere liberi da entrambi. Quello è il perfetto stato di illuminazione. Lo stato naturale della consapevolezza completamente nuda ha la qualità del non impedimento; quella è la vera libertà. Riconoscete il momento della consapevolezza del tutto aperta e senza impedimen­ ti, la quale non si aggrappa a nulla né dimora su alcunché. Non è la semplice assenza di attività del pensiero, come nella tranquillità in­ dotta. Questa è una grande differenza. È anche la ragione principale per cui famatha di per sé non è la vera via della liberazione; deve es­ sere unita alla chiara visione della vipafyana a ogni livello fino alla completa illuminazione. La realizzazione ultima tramite la pratica di famatha, con una vi­ sione parziale, e non la completa e chiara visione della vipafyana (il riconoscimento dell'essenza della mente) , vuoi dire conseguire il nir­ vana dell'arhat, non l'illuminazione non dimorante, vera e completa, di un buddha. Dovremmo aspirare sempre alla completa illumina­ zione che non dimora né nel samsara né nel nirvana. È anche possibile sperimentare un intenso stato meditativo di quiete ma non essere liberati. A questo riguardo c'è un aneddoto. Una volta mi trovavo con mio padre a casa di un benefattore. L'uo­ mo che ci portò il tè era un meditante. Mentre oltrepassava la porta con il tè, improvvisamente si fermò con il bollitore a mezz'aria. Uno

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dei ragazzi volle richiamarlo, ma mio padre disse: "No, !asciatelo sta­ re; se fa cadere il bollitore col tè è un guaio; !asciatelo così". Rimase in quella posizione per ore, e quando il sole stava per tramontare, mio padre gentilmente lo chiamò per nome sussurrandogli all'orec­ chio. Lui tornò lentamente in sé. Qualcuno disse: "Cos'è successo? " . L'uomo rispose: "Che significa cos'è successo? Sto portando il tè" . Gli dissero: "Quello accadeva stamattina, adesso è pomeriggio" . Lui replicò: "No, no, è adesso, sono appena entrato col tè" . Gli doman­ darono di nuovo della sua esperienza, e lui rispose: "Non sperimen­ tavo niente; ero totalmente vuoto e non avevo nulla da esprimere o spiegare, ero solo totalmente tranquillo" . Quando gli dissero che erano trascorse diverse ore, fu molto sorpreso, perché non aveva l'impressione che fosse passato del tempo. Il punto importante in questo contesto è: 'non meditate'. Non vuoi dire che dovreste rammaricarvi per tutti gli anni dedicati a eser­ citarvi nella meditazione. Quell'allenamento è stato benefico in quanto avete molti meno pensieri. Tuttavia, non è benefico continua­ re a ricercare uno speciale stato mentale libero dal pensiero. Piutto­ sto, siate semplicemente nello stato naturale libero da ogni contraffa­ zione. Questa naturalezza non alterata è in se stessa il rimedio ai pensieri o alle emozioni. La mente è meravigliosa: si afferma che è come un tesoro che esaudisce i desideri, uno scrigno pieno di ogni cosa. Tutto ciò a cui rivolgete la mente, essa lo può produrre. Il vero modo di trascende­ re la quiete è questo: ogni qualvolta sperimentate la tranquillità data dall'assenza di pensieri ed emozioni, riconoscete chi sperimenta, os­ sia cos'è ciò che sente la tranquillità, cos'è che dimora tranquillo. In quel momento diventa trasparente; in altre parole, la fissazione sulla quiete si disintegra. Quando 1:q samatha viene distrutto o si disintegra, allora c'è la ve­ ra vacuità, una vacuità non coltivata, una vacuità naturale. Questa vacuità primordiale è il dharmakaya inseparabile dal sat?Zbhogakaya e dal nirmaJJakaya. È la natura dei tre kaya: un istante di essenza della mente. Samatha contamina i tre kaya col lavoro. I tre kaya in se stessi sono totalmente liberi dallo sforzo. La nostra aspirazione dovrebbe essere questa: "Senza vagare con­ fusi nell'esistenza samsarica, né dimorare nella tranquilla pace del nirvana, si possa liberare tutti gli esseri" . Certo che riconoscendo

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l'essenza della mente siamo liberi dalle emozioni disturbanti che creano ulteriore samsara. Ma ottenere la pace data dall'assenza di emozioni disturbanti non è sufficiente per essere al di là del nirvana. Quindi prendete la risoluzione di trascendere entrambi. C'è un solo modo di essere sicuri al cento per cento che la propria pratica spirituale vada nella giusta direzione, e consiste semplice­ mente nelle tre eccellenze. Qualunque sia il livello della pratica che state facendo, ricordatevi sempre di iniziare con il rifugio e il bodhi­ citta. Non importa quanto siate in grado di praticare totalmente libe­ ri dai concetti; semplicemente allenatevi al meglio delle vostre capa­ cità durante la parte principale della seduta di pratica. Terminate sempre dedicando i meriti a tutti gli esseri senzienti ed esprimete pu­ re aspirazioni. Se vi dedicate alla pratica spirituale con queste tre ec­ cellenze, siete sicuri di procedere nella giusta direzione. In caso contrario, è facile 'meditare' in un modo che non conduce necessariamente più vicino alla vera liberazione. Nel samsara ci sono determinati stati chiamati regni senza forma. Molti ritengono che la vera pratica meditativa sia la causa dei regni senza forma. Coltivan­ dola, però, ne deriva soltanto una visita prolungata a tali regni. Trat­ tenere in mente qualcosa in modo deliberato col tempo diventa sem­ pre più facile, perché la mente si abitua. Alla fine si è portati a crede­ re che non ci sia nessuno sforzo. Potreste esercitare uno sforzo intenso per fissarvi sull'idea della vacuità o sulla sensazione di chiarezza e quiete. Così 'ottenete' tale stato, ma siccome è un prodotto, alla fine svanisce. Morendo al re­ gno divino senza forma, vi risvegliate dopo una lunga, meravigliosa permanenza in quel regno di meditazione, e scoprite che il vostro corpo a un certo punto, nel lontano passato, è morto. Adesso capite: "Sono morto, e non mi sono liberato nonostante tutta la meditazio­ ne, che non è servita a nulla" . In quel momento il risentimento che provate per la futilità dei vostri sforzi diventa la causa diretta delle ri­ nascita in uno dei regni inferiori. Perciò la vostra opinione attuale su cos'è lo stato meditativo, e la motivazione con cui praticate, hanno un peso enorme. Per molte persone samatha può essere una preparazione ai regni senza forma. Può anche trattarsi semplicemente di tranquillizzare la mente, oppure di immaginare uno stato di vacuità. Si cerca più volte di calmare la mente, di acquietarla e mantenere l'idea della vacuità

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con intensità, senza la reale conoscenza del soggetto che mantiene ta­ le idea. Abbiamo bisogno di combinare lo samatha con la chiara visio­ ne dell'essenza della mente. In questo contesto tale visione è chiamata vipasyana, ed è del tutto al di là di ciò che dimora e dell'oggetto su cui si dimora. È il momento in cui samatha e vipasyana sono un'unità. La comprensione di questo punto è estremamente importante. Il Buddha stesso ha descritto il sentiero come una progressione at­ traverso stadi di pratica meditativa: Similmente ai gradini di una scala, dovreste esercitarvi un passo dopo l'altro e dedicarvi con impegno ai miei profondi insegnamenti. Senza saltare nessun gradino, procedete con gradualità sino alla fine. Proprio come un bambino che sviluppa gradualmente il corpo e la forza, i miei insegnamenti sono siffatti, dai primi gradini dell'accesso fino alla completa perfezione.

Alcuni insegnanti spiegano che la frase 'completa perfezione' qui significa Grande Perfezione, ossia gli insegnamenti dzogchen. Que­ sta citazione vuoi dire anche che gli insegnamenti dipendono da chi li riceve. Siccome le persone sono differenti, e possono essere intelli­ genti, mediocri o con capacità inferiori, un buddha volendo benefi­ carle deve insegnare accordandosi al loro livello. Un insegnate può voler insegnare lo Dzogchen a tutti, ma non è possibile se ogni sin­ gola persdpa non ha capacità elevate. Sarebbe meraviglioso, ma non è realistico:Anche un buddha pienamente illuminato non può evita­ re di insegnare i nove veicoli graduali. Non serve dare insegnamenti di un certo livello a persone non ancora pronte. Similmente, non si danno insegnamenti inferiori a qualcuno con capacità superiori. Ec­ co perché è indispensabile avere nove differenti livelli di veicoli. Meraviglioso: quest'increata, sveglia presenza dell'attimo è il vero Samantabhadra da cui non siete mai stati separati neppure per un istante. Riconoscendola, rimanete nella naturalezza.

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È un verso molto importante, e lo spiegherò riga per riga. Inizia con l'esclamazione ema, che significa 'meraviglioso'. La prima riga dice: "Quest'increata, sveglia presenza dell'attimo" . L'espressione 'sveglia presenza dell'attimo' è la stessa che significa coscienza o mente; è ciò che sperimenta proprio ora. (Rinpoche schiocca le dita.) Sentite il suono, vero? Non ci sono dubbi a questo riguardo. C'è l'ascolto di un suono. Ciò è dovuto al fatto che in questi corpi c'è la sveglia presenza dell'attimo. Nel corpo c'è una mente proprio in questo attimo, perciò è possi­ bile sentire tramite le orecchie. Quando la mente, la qualità della sveglia presenza, lascia il vostro corpo, che diventa un cadavere, pos­ so schioccare le dita davanti alle vostre orecchie cento volte, ma non ci sarà nessun ascolto. Non c'è la coscienza che ascolta, nessuna co­ noscenza del suono, perché la mente se n'è andata. Ciò che speri­ menta non è il corpo: è ciò che si trova nel corpo proprio ora, in questo momento, adesso, non nel passato o nel futuro, bensì proprio nell'istante presente. Quando qualcuno schiocca le dita come ho appena fatto, avviene subito l'ascolto. n che è possibile soltanto perché c'è la sveglia pre­ senza dell'attimo. Nient'altro può ascoltare il suono. Le orecchie di per sé non possono ascoltare, come nel caso di un cadavere. I cinque elementi, e così via, non odono; i cinque organi sensoriali di per sé non odono; soltanto la mente ode. Quest'increata, sveglia presenza dell'attimo (increata vuol dire naturale) dovrebbe essere lasciata così com'è naturalmente. Spesso (forse troppo spesso! ) porto un esempio molto semplice di naturalezza. Un albero che cresce in montagna è naturale; ma se vie­ ne tagliato e trasformato in un tavolo, non è più la forma naturale del legno. La parola 'increato' in questo contesto significa che si de­ ve lasciare la propria sveglia presenza dell'attimo esattamente così com 'è, senza modificarla in nessun modo. Niente viene accolto o evi­ tato, non c'è nulla da mantenere, accettare o rifiutare, nulla da ana­ lizzare. Senz'alcuna speranza o paura, semplicemente lasciate che la sveglia presenza dell'attimo sia così com'è. Questa è la prima riga: "Quest'increata, sveglia presenza dell'attimo" . L a seconda riga dice: "È il vero Samantabhadra" . Samantabhadra è la piena maestria della natura presente in tutti gli stati del samsara e del nirvana; è la vostra natura di buddha che pervade tutto ma è

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pienamente realizzata. Il vero Samantabhadra è la realizzazione della vostra sveglia presenza dell'attimo. La terza riga dice: "Da cui non siete mai stati separati neppure per un istante" . In nessun momento, mai, la vostra natura è andata per­ duta. La mente e la sua essenza non sono mai separate, come nel­ l'esempio del sole e dei suoi raggi che non sono separati. Ciò viene chiamato rangjung yeshe, sveglia presenza spontanea. La natura di buddha è come il sole; i raggi di luce sono come i pensieri della men­ te degli esseri senzienti. La mente e la sua essenza non sono separate. Anche la saggezza innata e l'ignoranza innata sono inseparabili come il fuoco e il fumo. Non siamo mai stati separati da questa essenza neppure per un istan­ te. La nostra vera natura è Samantabhadra, la natura che pervade tanto il nirvana quanto il samsara. Sebbene sia stata sempre presen­ te, questo di per sé non è sufficiente, perché non è stata riconosciu­ ta. Dobbiamo riconoscerla. La quarta riga dice: "Riconoscendola, rimanete nella naturalezza". Dovete trascendere l'intelligenza dualistica. Andate oltre l'osservato­ re e l'osservato; andate oltre la dualità. Proprio adesso la nostra in­ telligenza è l'atto di pensare a qualcosa. L'attimo dell'originaria, sve­ glia presenza spontanea è libero dal pensiero. Dobbiamo riconoscer­ lo, allenarci e ottenere la stabilità del riconoscimento. Il riconosci­ mento è esemplificato dal neonato che cresce fino a diventare un uo­ mo di venticinque anni. L'allenamento sin dall'infanzia consiste nel riconoscere e continuare a riconoscere fino alla piena maestria. Che voi siate il Buddha Samantabhadra o un minuscolo insetto, non c'è nessuna differenza nella qualità o nella dimensione della na­ tura di buddha. Ecco cos'è che fa la differenza: nel caso di un essere senziente frion c'è la conoscenza di sé, perciò la qualità conoscitiva si aggrappa a, ciò che viene sperimentato. In altre parole, dall'ignoran­ za scaturisce una confusione che si ripete all'infinito. I sentieri e i livelli che conducono all'illuminazione descrivono gradi di stabilità nel riconoscimento. Dobbiamo riconoscere la vuo­ ta conoscenza: cos'è realmente questo attimo di sveglia presenza in­ creata. Lasciate semplicemente che sia così com 'è, rimanete nella na­ turalezza. Ecco l'intero insegnamento in poche parole. Dopo il rico­ noscimento, allenatevi grazie alla naturalezza non alterata. Alla fine ottenete la stabilità. Ripeto le quattro righe:

84 Il risveglio Meraviglioso: quest'increata, sveglia presenza dell'attimo è il vero Samantabhadra da cui non siete mai stati separati neppure per un istante. Riconoscendola, rimanete nella naturalezza.

Ogni essere senziente conosce. La conoscenza è incessante, per­ ché è la nostra natura. È nella natura della mente conoscere. La sve­ glia presenza esiste sempre, in ogni momento. Se l'attuale attimo di sveglia presenza viene lasciato com'è senza alterarlo, è proprio l'es­ senza della mente nuda. Il passato è cessato, il futuro non è arrivato e il presente non è concettualizzato in nessun modo. L'attuale attimo di sveglia presenza non contraffatta viene visto nel momento stesso in cui osserviamo. A volte lo si chiama mente del presente, mente or­ dinaria, mente nuda. Mente ordinaria significa che non è né peggio­ rata né migliorata. Ordinaria vuoi dire che la sveglia presenza inces­ sante esiste in tutti gli esseri da Samantabhadra agli insetti più minu­ ti. Questa sveglia presenza incessante è il vero Samantabhadra. Di solito alteriamo la nostra sveglia presenza dell'attimo con la speranza e il timore, accettando e rifiutando. Ma adesso, dopo il ri­ conoscimento della sua natura, non dovete fare nient'altro. Non de­ ve essere trattenuta o mantenuta in nessun modo, perché è per natu­ ra così di per sé. Se la lasciamo semplicemente così com'è senza farle nulla, è al di là del miglioramento o della rovina. Sinceramente, non è come se in Samantabhadra ci fosse una buo­ na natura di buddha e in un insetto ce ne fosse una cattiva. La men­ te di ognuno di noi ha la medesima qualità della natura di buddha. È così vicina e così facile che non ci crediamo. È così vicina e così faci­ le che la maggior parte delle persone non riesce a credere che sia suf­ ficiente soltanto lasciar essere! Ma la differenza tra il samsara e il nir­ vana è solo una questione di riconoscimento o non riconoscimento. Nell'istante stesso in cui riconoscete, non c'è nulla di più semplice. Nell'istante in cui vedete l'essenza della mente, essa è già riconosciu­ ta; non c'è nient'altro da fare. In quel medesimo momento non è ne­ cessario meditare su niente. Samatha deve essere meditato, coltivato. Questa vacuità non ha un atomo di nulla su cui si debba meditare. Dopo il riconoscimento perdiamo la continuità, certo. Ci distraia­ mo. Perdere la continuità, distrarsi, è di per sé lo stato dell'illusione. Meditare sulla natura di buddha come se fosse un oggetto è il lavoro

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della mente concettuale. È proprio la mente concettuale che ci fa va­ gare di continuo nel samsara. 'L'immediatezza della propria sveglia presenza dell'attimo' vuol dire non pensare più al passato, e non pianificare più il futuro. Il pensiero del passato se n'è andato, e il pensiero del futuro non è an­ cora arrivato. Nel presente può apparire uno spazio, un intervallo, ma gli esseri senzienti lo chiudono continuamente; ci ricolleghiamo ai pensieri, anziché lasciare che ci sia quello spazio privo di concetti. Invece di affrettarvi a chiudere quello spazio, semplicemente rima­ nete nella sveglia presenza dell'attimo. La nuda mente ordinaria, ciò che esiste per natura, è presente. Non dovete fare nulla affinché ap­ paia. Questo trascendere i pensieri dei tre tempi è il significato es­ senziale delle 'tre porte della liberazione' menzionate nei Siitra. In quel momento non dovete intervenire in nessun modo sulla vo­ stra sveglia presenza dell'attimo; è già così com 'è. Ecco il vero signifi­ cato della nuda mente ordinaria, tamal kyi shepa, una famosa espres­ sione in tibetano. Mente ordinaria vuol dire non alterata. Lì non c'è nessuna 'cosa' che debba essere accettata o rifiutata; è semplicemen­ te così com'è. La parola 'mente ordinaria' è il modo più immediato e diretto di descrivere la natura della mente. Qualunque sia la termi­ nologia utilizzata nella Via di Mezzo, nella Mahamudra o nello Dzogchen, 'nuda mente ordinaria' è l'espressione più semplice. È la maniera più immediata di descrivere com'è realmente la nostra natu­ ra. Significa che niente deve essere accettato o rifiutato; è già perfet­ ta così com 'è. Non proiettate all'esterno, non ritirate all'interno, non dirigete la sveglia presenza in nessun luogo intermedio. Che l'attenzione sia di­ retta all'esterno o all'interno, non è necessario collocarla in uno sta­ to di c ma forzata. Dobbiamo essere liberi dai pensieri dei tre tem­ pi. Non c'è niente di più facile. È come indicare lo spazio: quante co­ se dovete fare prima di indicare lo spazio? È la stessa cosa. Quello è il momento in cui non dovete fare assolutamente nulla. 'L'essenza della mente è sin dall'origine vuota e senza radice'. Conoscerla è di per sé sufficiente. Certo che potete conoscere la vostra mente! 'Coltivare samatha e allenarsi alla vipasyana' è come imparare l'al­ fabeto. Se non lo impariamo, non saremo mai in grado di leggere e scrivere. Quando la meditazione si è dissolta nella spaziosità della propria natura fondamentale, allora 'è più facile vedere ed è più faci-



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le mantenere'. 'Più facile vedere' vuoi dire che riconoscere è sempli­ ce. 'Più facile mantenere' significa essere esperti della naturalezza. Senza proiettare, senza concentrarvi, liberi dal pensiero, abituatevi alla continuità. Per farla breve: "Non meditate mai, ma non perdete mai l'essen­ za". Non è un atto di meditazione come samatha. Però, se vi dimen­ ticate dell'essenza e vi distraete, ricadete nella confusione. Non me­ ditate mai, e non distraetevi mai. Quando vi dimenticate dell'essen­ za, applicate la presenza mentale. Senza questa attenzione, il vecchio schema prende di nuovo il sopravvento. La vecchia abitudine di non vedere l'essenza della mente ed essere di continuo coinvolti nel pen­ siero è chiamata 'estensione nera'. Senza l'attenzione, senza il ricor­ do, non c'è niente che ci ricordi di riconoscere l'essenza della mente.

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Trasformare le emozioni

Che l'emozione sia il desiderio, la rabbia, la gelosia, l'orgoglio o l'ottusità, il principio della liberazione per ognuno dei cinque veleni è esattamente lo stesso. La natura della mente in tutte queste situazioni è sempre una vuota conoscenza sconfinata. Se la conoscenza fosse li­ mitata, allora tutte le sue qualità sarebbero ostacolate. Limitazione equivale a incoscienza, come ricevere un colpo in testa con una spranga: tutto ciò che accade è che perdete i sensi e siete inconsape­ voli di qualsiasi cosa. L'attimo in cui riconoscete la vostra mente non è uno stato privo di coscienza, tuttavia è impossibile che vi rimanga qualunque normale emozione disturbante. Di nuovo, vi prego di ren­ dervi conto che non c'è differenza nel modo in cui svaniscono i cin­ que veleni. Quando riconoscete l'indivisibile vuota conoscenza, le emozioni si dissolvono. Ciò che rimane è l'originaria sveglia presenza. Ecco una citazione dal Lamrim Yeshe Nyingpo di Padmasambhava:

cJt

appare il pensiero di attaccamento verso un oggetto Quan desitlerato,� Non eliminatelo né incoraggiatelo, ma lasciate che svanisca nella nuda, sveglia vacuità.� Senza aggrapparsi al piacere, l'esperienza è risvegliata dall'interno.� Ciò viene chiamato saggezza discriminante. �

Quando la mente è sospinta dal desiderio, non aggrappatevi al piacere, ma semplicemente riconoscete la sua vuota essenza. Rima­ nete nella nuda consapevolezza. Il modo di vedere è la sveglia pre-

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senza spontanea. Spontanea vuol dire vuota, mentre la sveglia pre­ senza è la qualità conoscitiva. La sveglia presenza spontanea che esi­ ste in tutti gli esseri è precisamente ciò che tutti i grandi maestri del passato hanno indicato. Il suo riconoscimento è la base della via. La sua conoscenza dissolve il desiderio e tutte le altre emozioni. Non equivale a cercare di non sentire il desiderio, il che non sa­ rebbe così facile, perché le emozioni disturbanti sorgono e attraver­ sano la nostra mente. Gli altri veicoli hanno tecniche per eliminare le emozioni. Possono esservi di aiuto per eliminare temporaneamente il desiderio, ma continuate a non vedere la radice del desiderio, la sua natura fondamentale. Per esempio, nel sistema del Theravada imma­ ginate che la persona dalla quale vi sentite attratti sia uno scheletro o un cadavere in decomposizione. Tramite questa immagine negativa cercate di non provare attrazione. Questa tecnica funziona per un po', ma è come cercare di costruire una diga su un fiume pieno di acqua fangosa. Il fango non scompare; viene soltanto trattenuto per un po'. Non c'è stata decantazione, perché quando l'acqua può ri­ prendere a scorrere continua a essere impura. Nel sistema dello Dzogchen, riconoscere l'essenza della mente equivale a trovarsi a faccia a faccia con i tre kaya indivisibili. Il punto essenziale è sapere come riconoscere la vuota consapevolezza. L'essenza dei cinque vele­ ni è le cinque saggezze. I metodi che eliminano i veleni non rivelano le saggezze. Così come l'oscurità non può permanere quando sorge il sole, nessuna emozione disturbante può perdurare nell'istante in cui si riconosce l'essenza della mente. È l'attimo in cui si realizza la sve­ glia presenza originaria, e questo vale per ciascuno dei cinque veleni. Dobbiamo far cessare le comuni nozioni che solidificano la realtà. L'unico modo di farlo davvero consiste nel riconoscere che la natura stessa del piacere è vuota, priva di qualsiasi sostanza. Quel riconosci­ mento può purificare completamente dall'attaccamento al piacere, dalla brama del piacere. Se non si è riconosciuta la natura della men­ te, almeno si possono praticare le tre pure nozioni della divinità, del mantra e del samadhi. Tuttavia, al fine di perfezionare davvero l'alle­ namento, dovete riconoscere che la natura della mente è vuota cono­ scenza. Questo vale nel caso che ci sia desiderio, rabbia, gelosia, or­ goglio, ottusità, avidità o ignoranza. Qualsiasi delle cinque, sei o set­ te emozioni disturbanti sia presente, la vuota conoscenza non è ciò in cui dobbiamo trasformare l'emozione. L'essenza dell'emozione è

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già questa vuota conoscenza indivisibile. Il suo aspetto vuoto è il dharmakaya, l'aspetto conoscitivo è il saf!lbhogakaya, e la loro indivi­ sibilità è il nirma!Jakaya. Quando riconoscete la natura dei tre kaya,

non avete bisogno di trasformare l'essenza del veleno in ciò che la natura stessa del veleno è già. Quando non c'è il riconoscimento, co­ me accade per gli esseri comuni, l'espressione dell'essenza si manife­ sta come i cinque veleni. Il riconoscimento dell'essenza in realtà fa sì che le emozioni disturbanti semplicemente svaniscano. Questo è il vero sentiero. La radice della mondana condizione samsarica è il coinvolgimen­ to senza freni nei tre veleni. La radice della buddhità è la visione a faccia a faccia dei tre kaya. Detto in breve: conoscendo i tre kaya co­ me la nostra natura, siamo illuminati; !asciandoci dominare dai tre veleni, vaghiamo nel samsara. Il desiderio è la vostra mente che prova attrazione, nient'altro; la rabbia è il vostro sentimento di avversione, nient'altro. Nessuno ne è privo. Tutti gli esseri senzienti, anche gli insetti, i cani, i maiali, e così via, hanno il desiderio; vogliono tutti sperimentare il piacere. Il desi­ derio crea il samsara; ecco perché il Buddha ha insegnato, prima di tutto, che i suoi discepoli dovrebbero diventare monaci e monache. Il desiderio è una preoccupazione potente che rende incapaci di pra­ ticare il Dharma. Si fanno figli a causa del desiderio samsarico; senza figli, il samsara si svuoterebbe. Per prima cosa trovate un partner, quindi fate i figli. Poi i figli hanno bisogno di cibo, di un casa dove vivere, e di indumenti. Si ammalano, hanno bisogno di una forma di educazione, e voi avete questa costante fonte di preoccupazione e di­ strazione. Invece, se siete monaci o monache non avete figli, e quan­ do non li avete non create ulteriore apprensione samsarica in quel modo. Pertanto avete il tempo libero per praticare il Dharma con tutto il vostro essere. L'intento di ciò che il Buddha ha insegnato nel Pratimok�a Sutra e in altri testi simili è di aiutare i discepoli a evitare molte distraponi. L'astinenza, e dunque il non essere distratti dalla pratica spiiituale, è un modo esteriore di affrontare il desiderio. Il semplice fatto di evitare le azioni negative e compiere le dieci azioni virtuose certamente condurrà a una rinascita superiore, ma non ga­ rantisce la liberazione dal samsara. Gli insegnamenti più elevati sono dunque necessari, perciò il Buddha ha insegnato il Mahayana, il vei­ colo dei bodhisattva, e in modo particolare il Vajrayana.

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Il Vajrayana è la via veloce perché insegna come i cinque veleni possono essere purificati nelle cinque saggezze. L'essenza dei cinque veleni è spazio e saggezza. Spazio e saggezza sono un sinonimo di vuota conoscenza sconfinata, che è la natura dei tre kaya. Quando ri­ conosciamo che l'essenza di un'emozione, in questo caso il deside­ rio, è vuota conoscenza, non abbiamo bisogno di trasformarla. Non è che l'emozione debba essere trasformata nella vuota conoscenza; essenzialmente è già vuota conoscenza. Un'emozione è soltanto un moto della mente che non conosce se stessa. Tutti e tre i livelli di insegnamenti buddhisti, i tre yana, descrivo­ no metodi per affrontare le emozioni: abbandonarle, trasformarle e riconoscere la loro essenza. Mai, a nessun livello, si insegna che è possibile essere un buddha illuminato rimanendo coinvolti nelle emozioni disturbanti. Ma il modo in cui i vari livelli affrontano le emozioni è differente. Le emozioni spesso sono paragonate per analogia a una pianta tossica. In Tibet c'è una radice straordinariamente tossica chiamata tsenduk; non avete bisogno di ingerirne granché per morire. Allo stesso temp o, questa pianta può anche essere utilizzata come una medicina. E il veleno più potente, ma è anche una delle più potenti piante medicinali. Utilizzando questa radice come metafora delle emozioni, diciamo che un praticante del Hinayana è paragonabile a chi ritiene che la pianta sia pericolosamente tossica e non dovrebbe essere lasciata proliferare. Costui metterà una grossa pietra sopra il germoglio per bloccarlo, così non nuocerà a nessuno. Un praticante del Mahayana vedrà che la radice c'è ancora e può continuare a cre­ scere. Perciò estirperà il germoglio, affinché non possa più crescere. Ma un praticante del Vajrayana riconosce l'utilità della pianta come medicina. Anziché bloccarla o sradicarla, scartandola in entrambi i casi, costui la utilizza abilmente come medicina ed è capace di cura­ re la malattia. Questi tre livelli sono chiamati rinuncia, cambiamento e riconoscimento. La terza modalità, il riconoscimento, si basa sulla capacità di rico­ noscere la natura della mente ogni qualvolta si è coinvolti nelle emo­ zioni disturbanti, e si basa sul fatto che l'essenza stessa presente nel­ l' emozione è fondamentalmente pura. Quando la loro essenza viene riconosciuta, i cinque veleni diventano le cinque saggezze. Ricono­ scere la vuota conoscenza al momento dell'ottusità viene chiamato

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saggezza del dharmadhatu. Riconoscere la pura natura al momento della rabbia viene chiamato saggezza simile a uno specchio, e così via. In questo modo la natura fondamentalmente pura di ogni stato emotivo viene riconosciuta come uno degli aspetti della sveglia pre­ senza originaria, noti come le cinque saggezze. Ogni stato emotivo è in essenza puro sin dal principio. Quando vi ricordate di riconoscere, non avete bisogno di eliminare l'emozione. E non avete neppure bisogno di gettarla via o sradicarla. Può essere utilizzata come la via. Certo l'emozione negativa è impura, ma a se­ conda di come viene considerata il suo effetto può essere molto di­ verso. Nel Vajrayana l'unico antidoto è il riconoscimento del rigpa. La base delle emozioni negative è il pensiero. L'essenza del pensiero è il dharmakaya. Ciò che dovete riconoscere è questo rigpa del dhar­

makaya.

Ripeto che in essenza i cinque veleni sono le cinque emozioni. Si deve conoscere ciò che è, cost' com'è. Per riuscire a trasformare il ve­ leno in medicina avete certamente bisogno di istruzioni essenziali. Grazie a tali istruzioni, la sofferenza di un essere senziente può esse­ re trasformata in saggezza. La via dell'Ati Yoga equivale a possedere la panacea, il rimedio universale che può curare tutte le malattie. Il nostro stato fondamentale, che consiste nell'essenza, nella natura e nella capacità, è identico ai tre kaya quando viene riconosciuto ! L'essenza dei tre veleni è vuota e priva di sostanza. In effetti tutti gli oggetti, terra, acqua, fuoco, vento e spazio, sono vuoti, e lo sono sempre stati. In questo momento possono sembrare sostanza solida, ma ogni cosa che sembra solida può essere totalmente distrutta, bru­ ciata e dispersa, e in seguito c'è di nuovo lo spazio. Ogni cosa si ma­ nifesta dalla vacuità e si dissolve nella vacuità. La natura della mente di tutti gli esseri è l'identità dei tre kaya, quando viene riconosciuta. Quando non viene riconosciuta, gli esse­ ri si fanno trascinare dai tre veleni. La prima causa è l'ignoranza. Da essa si è dispiegato il samsara senza fine. Se non si applica nessun veicolo dei mezzi abili, il samsara senza dubbio continuerà. Per que­ sta ragione,)Illando l'atto comune di attivare il desiderio non viene abbracciato da nessun metodo, non fa altro che perpetuare il karma nocivo e gli oscuramenti, e il samsara continua. Nessuno deve inse­ gnare a un cane o un maiale come accoppiarsi; lo sanno tutti molto bene. Solo gli esseri umani sembrano doverlo imparare. Ma tutti gli

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animali, anche i più minuti insetti, danno l'impressione di saperlo spontaneamente. li Vajrayiina è molto prezioso perché ci avvicina maggiormente al­ la natura della mente. L'obiettivo ultimo è riconoscere questa vacuità naturale. Alcune persone possono negare l'esistenza delle divinità, ma in realtà le divinità sono le qualità della presenza spontanea, in­ trinseche alla purezza primordiale della nostra natura. Ecco perché le divinità appaiono quando ci si dedica alla pratica del Toga!, oppu­ re nello stato del bardo dopo la morte. Non scaturiscono dal nulla. Secondo l'Ati Yoga, fanno parte della nostra natura. Mahii e Anu Yoga insegnano che le divinità dimorano nel corpo, e che in questo modo il proprio corpo è il mandala dei vittoriosi, i buddha che al momento della morte appaiono dal corpo. L'affermazione "ogni cosa percepita è vacuità" significa anche che tutte le percezioni sono vuote, non soltanto il piacere. L'imperma­ nenza è anche un segno della vacuità. Il percepito è impermanente, ma la natura della mente che percepisce, la sveglia presenza sponta­ nea, non è affatto impermanente. La nostra mente è in essenza vuota e per natura conoscitiva. È vuota conoscenza indivisibile, non sog­ getta all'impermanenza. Cercate di capire la differenza tra il sogget­ to che percepisce e l'oggetto percepito, l'esperienza e la vacuità. L'essenza della mente non è nulla che possa svanire. Le qualità della natura di buddha sono sempre complete. Il samsara, invece, può es­ sere distrutto perché è impermanente. Gli elementi e il mondo intero sono in essenza spazio vuoto. Lo spazio in se stesso non può essere modificato o distrutto in nessun modo. Gli altri quattro elementi sono apparenze, e le apparenze pos­ sono essere distrutte. Il soggetto che percepisce tali apparenze è la mente, che in essenza è vuota conoscenza, l'identità dei tre kaya. Questa essenza non è dominata dal karma e dalle emozioni distur­ banti. Permettetemi di ripetere il verso precedentemente citato: Si afferma che tutto è vuoto, . ma il sentiero del Buddha non deve essere vuoto dei kiiya e delle saggezze.

Se la nostra natura fosse vuota dei kaya e delle saggezze, il conse­ guimento dell'illuminazione non sarebbe nient'altro che un vuoto. Il

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percepito è impermanente, ma ciò che percepisce, che in essenza è vuota conoscenza, i kaya e le saggezze, non è impermanente. Altri­ menti a cosa servirebbe ricercare la buddhità, se fosse impermanen­ te e venisse persa di nuovo? Il mondo e gli esseri sono vacuità; lo possiamo affermare con cer­ tezza. A un certo punto tutto l'universo sarà distrutto. Ogni cosa vie­ ne distrutta nel grande fuoco alla fine del kalpa, e non rimane nep­ pure un atomo. I corpi degli esseri senzienti, le loro voci, ogni cosa svanirà. Ma lo spazio stesso non può essere alterato o distrutto in nessun modo. Tuttavia lo spazio non ha qualità innate, non prova piacere o dolore, nulla. L'essenza della mente di tutti gli esseri sen­ zienti ha effettivamente molte qualità intrinseche. I pensieri possono svanire, certo. Ma l'essenza della mente, che è i tre kaya, non è qual­ cosa che possa dissolversi. Quando muore un essere senziente, la co­ scienza rimane per continuare. In quella situazione la coscienza è la cosiddetta coscienza del bardo, che è costituita di skandha. Non ha l'aggregato fisico della forma, ma gli altri aggregati permangono. I cinque aggregati devono essere trasformati nei cinque buddha. Lo skandha della forma si deve trasformare nel buddha Vairocana. Questo è possibile soltanto quando c'è il risveglio, quando si realizza la natura dei tre kaya. In realtà, l'unico modo di essere illuminati è riconoscendo rangjung yeshe, la sveglia presenza spontanea. Diversa­ mente, come accade a qualsiasi altro essere, non c'è nessuna vera via di illuminazione. Questo riconoscimento è come un unico ponte che passa su cento fiumi. Senza il riconoscimento, anche se aveste la lin­ gua per recitare l'intero Tripitaka un milione di volte al giorno, non diventereste mai illuminati. S T U D E N TE : Come facciamo offerte ai buddha e ai protettori del Dharma? Come dovremmo farle, e chi sono coloro a cui le offriamo, e da dove provengono? R I N P O C H E : Ci sono modi diversi di fare offerte, a seconda degli invitati. Di solito parliamo di quattro tipi di invitati. Il primo tipo in­ clude gli invitati ragguardevoli, i tre Gioielli. Vengono poi gli invita­ ti idonei, i protettori e guardiani del Dharma. Poi ci sono gli invitati miserevol�, tutti gli esseri senzienti. Gli invitati inferiori sono gli ospiti ostaJ:olanti, gli spiriti che creano ostacoli e i nostri creditori karmici. 1

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Questi quattro tipi vengono trattati differentemente. Per esempio, quando offrite una bevanda ai tre Gioielli e ai protettori del Dhar­ ma, immaginate che nelle vostre mani alzate ci sia un immenso ocea­ no di delizie sensoriali. Non gettate l'offerta a terra; la donate in mo­ do rispettoso perché gli invitati possiedono grandi qualità. Quando si offre agli esseri senzienti o ai creditori karmici, non lo si fa con molti riguardi. Agli esseri senzienti si dà con semplicità, su un piano di uguaglianza, invece l'offerta a chi ostacola e ai creditori viene get­ tata a terra. C'è anche un modo particolare di tenere l'offerta. Quan­ do viene data a chi è superiore, si afferra il fondo del recipiente. Se l'invitato è un proprio pari, si afferra il recipiente nel mezzo. Per gli invitati inferiori le offerte vengono tenute dall'alto, anche mettendo un dito nel recipiente, e poi le si getta fuori. Dove si trovano questi esseri? Gli esseri di saggezza dimorano nel regno del dharmadhatu Akani�tha, da cui sono inseparabili: in altre parole, sono immateriali, non manifesti. Quando si manifestano, ap­ paiono in un istante grazie al solo pensiero di chi le invoca. Non do­ vete credere che si trovino in un luogo particolare e che debbano viaggiare in una determinata direzione per comparirvi davanti e rice­ vere l'offerta. Essi appaiono semplicemente grazie al vostro pensiero. Non è necessario immaginare tutti i dettagli del loro aspetto. È come quando invitate qualcuno. Non pensate che sono vestiti in un certo modo; gli invitati arrivano indossando i loro particolari indumenti. È la stessa cosa. Ci sono anche modi diversi di invitare gli esseri. Agli esseri di sag­ gezza si dice: "Vi prego di avvicinarvi" . Ai protettori o agli esseri che sono al proprio livello si dice: " Radunatevi qui". A quelli inferiori si dice: "Venite qui a prendere questo ! " . Ci sono pure atteggiamenti differenti. Per esempio, quando invocate i protettori secondo il Vaj­ rakila dite: "Vajrakila ti prego di avvicinarti dal palazzo Akani�tha del dharmadhatu insieme al tuo corteo di infiniti guardiani" . Dove si trovano queste divinità, i protettori di saggezza? Dimorano nel cam­ po di buddha del dharmakaya, a un livello che è totalmente non ma­ nifesto. Certamente le diverse invocazioni ai protettori contengono detta­ gli differenti. A volte, richiamando le divinità da diverse direzioni, una liturgia potrebbe dire: "Vi prego di avvicinarvi dalla direzione orientale del campo di buddha del dharmakaya, oppure dalla dire-

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zione occidentale di Akanistha" . In alcuni casi ci sono dei riferimen­ ti a luoghi reali. Per esempi� , Rahula ed Ekajati spesso sono invocati indicando un determinato luogo geografico, oppure dicendo sempli­ cemente: "Dalla vostra dimora naturale" . Questa dimora naturale in realtà allude alla natura conoscitiva inseparabile dalla vuota essenza. I protettori di saggezza vengono invocati sempre pensando che di­ morino nella natura conoscitiva. A volte i guardiani hanno molti nomi e diversi titoli che devono essere elencati, leggendoli tutti come se fosse un appello, una lunga lista delle loro identità. Potete ripetere un bel po' di epiteti e titoli come: " Il Grande Assassino dello Tsang, il Grande Dralha del tal luogo" . Accade sovente nei riti dei protettori. S T U D E N T E : Qual è l'importanza delle invocazioni alla fine della meditazione? R I N P O C H E : È molto importante esprimere nobili desideri e aspi­ razioni quando si compiono buone azioni. Altrimenti il risultato del karma positivo non maturerà nella giusta direzione. Ogni qualvolta si compiono azioni virtuose, si dovrebbe esprimere sempre questo desiderio: "Possa servire per la completa illuminazione. Possa io di­ ventare la grande guida, come il comandante di una nave in grado di portare tutti gli esseri senzienti all'altra sponda. Possa io conseguire velocemente la completa illuminazione, e avendo ottenuto lo stato di un buddha, possa guidare tutti gli esseri senzienti alla liberazione e allo stato risvegliato". Questo genere di aspirazione è molto prezioso e da esso dipende se il karma buono matura come un piacere fugace, oppure serve a condurre alla liberazione e all'illuminazione. Osservate gli innumerevoli esseri in questo mondo. La rinascita umana è il risultato di azioni karmiche positive, ma pochissimi esseri umani hanno interesse per la pratica spirituale. Il motivo è che nella maggior parte dei casi non uniscono le loro buone azioni a nobili de­ sideri e aspirazioni. Al contrario, ci sono persone che vengono in Nepal viaggiando da paesi molto lontani. Non sono obbligati a veni­ re proprio a Nagi Gompa, o in Oriente. Perché spendono tutti quei soldi e percorrono una tale distanza con tante difficoltà? È perché il loro buon karma del passato è stato unito a pure aspirazioni. È la forza di quelle aspirazioni che li porta fin qui per ricevere insegna­ me�d. Altrimenti non avrebbe senso venire qui, sarebbe solo una gros�a scocciatura. Così vedete la differenza tra il numero enorme di

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esseri umani in questo mondo e il piccolo numero di persone che utilizzano davvero l'esistenza umana per seguire il sentiero spiritua­ le. Si afferma che quest'ultimo sia esiguo quanto le stelle nel cielo mattutino. Le pure aspirazioni sono molto preziose e molto rare. Se poteste trascorrere tutto il tempo, giorno e notte, nel continuo riconoscimen­ to della natura di buddha, sarebbe di certo la cosa migliore. Grazie a ciò otterreste sicuramente la vera e completa illuminazione nel corso di una vita, ma non è così facile. Se non siete capaci di praticare in quel modo, almeno unite tutti i vostri buoni sforzi, cioè tutta la prati­ ca del Dharma, a pure aspirazioni. Se lo fate, potete star certi che per lo meno nelle prossime vite rientrerete in contatto con il Dharma e sarete in grado di praticare sempre più. Prima o poi potrete ottenere la completa illuminazione. Questo è davvero importante. Non dovreste mai interessarvi al Dharma soltanto per un breve periodo, come fanno alcune persone, e poi smettere se non accade subito niente di speciale. Alcuni sono interessati, smettono, fanno un po' di pratica e smettono di nuovo. Voi, invece, proseguite con rego­ larità per tutto il tempo ! Abbiate questo intento risoluto: "Non ab­ bandonerò mai la pratica spirituale ! Anche se non faccio progressi veloci, non tornerò mai indietro ! ". Gli oggetti del rifugio, i tre Gioielli, non vi abbandonano mai. Se confidate nel Buddha, nel Dharma e nel Sangha, vi assicuro che non sarete mai delusi, né in questa vita, né nel bardo, e neppure nelle vite future. Il Buddha è il completamente risvegliato, mentre il Dharma corri­ sponde alle scritture, l'insieme degli insegnamenti, ciò che viene in­ segnato. Il vero Sangha indica i nobili esseri alle dieci bhumi, i bo­ dhisattva, nonché gli arhat che hanno conseguito la liberazione. C'è anche il 'sangha somigliante', composto da chiunque si rasi e indossi lo scialle e la gonna rossi. Possono non essere illuminati o non avere nessuna qualità eccezionale, ma a causa della loro somiglianza col Sangha, rendere omaggio a tali persone è comunque fonte di benedi­ zioni. Il nobile Sangha, invece, è estremamente importante; son:l es­ seri che possono mantenere e continuare il lignaggio dei buddha tra­ smettendo gli insegnamenti. Se una coppia non ha figli, s'interrompe la linea di discendenza. Senza il nobile Sangha, la linea di discenden­ za dei buddha verrebbe meno.

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Voglio stuzzicarvi un po'. Il Buddha ha detto: "Finché la mente continua a lasciarsi trascinare, il numero dei veicoli non avrà fine". Il coinvolgimento mentale è i pensieri, quindi, sino a quando si conti­ nua ad avere pensieri, ci saranno sempre delle domande. Perciò le ri­ sposte, i veicoli degli insegnamenti, non avranno fine. Praticare è es­ senziale. Cercate di conoscere 'l'unica cosa che libera da tutto', ossia la pratica dell'essenza della mente. Questa è la cosa più importante.

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Per prolungare la durata del riconoscimento della natura di buddha dobbiamo soltanto abituarci di più a riconoscerla. Tale abi­ tudine non implica un/are qualcosa per mantenere uno stato tra due pensieri. Il riconoscimento della natura di buddha non è una 'cosa' che possiamo tenere stretta e mantenere. L'unico modo di lasciare che quell'intervallo continui è attraverso la naturalezza non alterata. Ecco il senso dei 'brevi momenti ripetuti'. Se cerchiamo di prolunga­ re la durata ne consegue soltanto uno stato mentale concettuale. I brevi momenti sono liberi dalla mente concettuale. Ripetendoli mol­ te volte ci abituiamo a riconoscere la natura di buddha, ne acquisia­ mo l'abitudine, ci diventa sempre più familiare. Rangjung yeshe vuoi dire sveglia presenza spontanea. La parola rangjung, spontanea, significa che non è il risultato di sforzo, come se cercassimo di fare qualcosa e all'improvviso ci fosse questa sveglia presenza spontanea. L'espressione 'sveglia presenza', yeshe, si riferi­ sce allo stato originario del risveglio che non viene mai meno, che non è mai distratto. Non appare o scompare. Che voi siate un bud­ dha che lo ha realizzato, o che siate un essere senziente che non lo ha realizzato, è esattamente il medesimo stato fondamentale. Indipen­ dentemente dal nostro riconoscimento o dalla mancanza di ricono­ scimento, è sempre presente come la nostra natura fondamentale. Non è un'entità creata. In un essere senziente la natura di buddha viene dominata dalla speranza e dal timore. Lo stato mentale è distratto, artificioso, distur­ bato. Nello stato della buddhità, la natura increata, non costruita, è

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spontanea, ma in questo caso la sveglia presenza non è distratta. Gli esseri senzienti sono caduti nella distrazione e sono dominati dal pensiero concettuale. Ci siamo abituati a questa 'meditazione negati­ va' della distrazione, inconsapevoli di essere distratti o di contraffare. Lo abbiamo fatto vita dopo vita. Potete capire il significato di queste parole quando un maestro vi introduce alla natura fondamentale, quando riconoscete la naturalezza non alterata della vostra mente. La naturalezza non alterata non è qualcosa da /are, anche se l'im­ pressione è che si debba rimanere nella naturalezza e si debba evita­ re di alterare. Quando sentiamo queste parole, a causa della nostra abitudine e degli oscuramenti ci sembra che mantenere lo stato na­ turale sia qualcosa che dovremmo /are, ma in realtà è l'opposto del fare. Non si fa nulla. Se vi lasciate più e più volte nello stato della naturalezza non alte­ rata, diventa automatico. Non pensate che ci sia un lungo intervallo tra due pensieri che dovete in qualche modo afferrare e trattenere. Non sarebbe automatico ma costruito. Anziché cercare di migliorare il riconoscimento della natura di buddha, rimanete completamente tranquilli. La sveglia presenza spontanea si deve abituare a se stessa. Non cercate di mantenere lo stato di naturalezza. Lo stato si man­ terrà da solo come conseguenza naturale della vostra crescente fami­ liarità con esso. Non distraetevi. Brevi momenti, ripetuti più volte. Se non ripetiamo il riconoscimento dell'essenza della mente, non ci abitueremo mai. I 'brevi momenti' garantiscono che è la reale, au­ tentica naturalezza. Per un principiante il riconoscimento dello stato autentico non dura più di un istante. 'Più volte' vuoi dire che dob­ biamo diventare sempre più familiari con questo stato. È il punto principale del modo di praticare secondo Longchen Rabjam. L'es­ senza di tutti i suoi Sette tesori può essere colta in questa frase: "bre­ vi momenti, molte volte" . Anziché sedersi per lunghi periodi poche volte al giorno, sono meglio brevi momenti ripetuti più volte per tut­ to il giorno. Se cerchiamo di mantenere lo stato naturale per lunghi periodi, scivoliamo inevitabilmente nello stato della mente concet­ tuale. Sensazioni come " devo fare questo, devo rimanere naturale, adesso non devo alterare" , sono idee sempre mischiate a un atteggia­ mento concettuale. Lo spazio è l'esempio dell'essenza della mente, perché lo spazio è increato. Ma l'essenza della mente non è identica allo spazio, poiché

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lo spazio non può pensare. Lo spazio non ha conoscenza. La nostra mente è una vacuità che conosce, vuota come lo spazio, ma con una conoscenza naturale. L'unione di conoscenza e vacuità viene vista quando c'è il riconoscimento. È immediato, come nell'esempio pre­ cedente del dito puntato a mezz'aria. Per toccare lo spazio con il di­ to non dovete attendere di alzare il braccio; state già toccando lo spazio, continuamente. Non dovete allungare la mano; il contatto sta già awenendo, e awiene in ogni momento della vita. Tutto ciò che dovete fare è riconoscere che awiene. La stessa cosa vale per l'essen­ za della mente. Prima di tutto, ricordatevi di riconoscere l'essenza della mente secondo l'istruzione essenziale del vostro maestro. In quel medesimo istante iniziale vedete che non c'è niente da vedere. Sfortunatamente, di solito non abbiamo fiducia in questo breve mo­ mento. Ecco perché non è stabile. Invece di aver fiducia, creiamo dubbi con i pensieri concettuali chiedendoci: "È questo ? " , oppure "Forse non è questo" . Quando i brevi momenti si ripetono molte volte, il riconoscimen­ to diventa automatico. Diventa stabile in se stesso. Qualsiasi atto di meditazione è un coinvolgimento concettuale: è proprio quel che ci alleniamo a non fare. La cosa più importante è essere rilassati e la­ sciar andare nell'istante del riconoscimento. Allora, quando il rico­ noscimento sfugge, possiamo semplicemente ripeterlo. Ciò a cui cerchiamo di allenarci non è in nessun modo costruito; non è uno stato creato tramite la pratica. Allenandoci così, la nostra consapevolezza dello stato naturale diventa ininterrotta. Di solito in noi lo stato innato della sveglia presenza spontanea è interrotto dalla distrazione. La mente dualistica è paragonabile alla corrente elettrica che arriva fin qui, a Nagi Gompa: non è continua; ci sono ripetute interruzioni, cali di tensione, e così via. Ma il rigpa è continuo, come la corrente di un fiume. La natura spontanea del rigpa è paragonabi­ le a un gioiello naturale. Rigpa è anche come il vetro di questa fine­ stra, che non ostacola in nessun modo la luce, ma è totalmente aper­ to e trasparente. La comune mente pensante è ostacolata. Quando un pensiero si dissolve, ciò a cui stavate pensando, qualunque cosa fosse, svanisce. C'è costante interruzione. Anche se in realtà non siamo separati dal rigpa neppure per un istante, è la mancanza di conoscenza a creare la divisione tra la rea­ lizzazione del rigpa e il rimanere nell'ignoranza. A questo riguardo ci

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sono due aspetti: la sveglia presenza intrinseca e l'ignoranza intrinse­ ca. Rigpa è l'essenza della mente, quindi è intrinseco alla mente. Ogni altra cosa, qualsiasi stato samsarico, è superfluo, estraneo. Lo stato realizzato di qualunque buddha è come il lato interno della vo­ stra mano. Quando realizzate perfettamente la sveglia presenza spontanea, potete vedere i tre tempi chiaramente come le linee sulla vostra palma. Il samsara è come il dorso della vostra mano, per nulla manifesto. L'essere ignorante e l'essere risvegliato sono paragonabili ai due lati della medesima mano, non sono davvero separati l'uno dall'altro. Gli esseri senzienti e i buddha non hanno due menti; sono i due lati della stessa mano. Essi condividono la medesima mente, solo che i buddha conoscono mentre gli esseri senzienti sono igno­ ranti. Quando c'è la conoscenza, tutte le qualità intrinseche dei buddha sono perfettamente presenti. È come quando sorge il sole, o si accende la luce: all'improvviso non c'è più oscurità e possiamo ve­ dere tutto con chiarezza. Quando, essendo esseri senzienti, siamo immersi nell'ignoranza e nel pensiero concettuale, lo stato originario in un certo senso sfugge. In quel momento la mancanza di conoscen­ za della propria natura e il successivo pensiero concettuale oscurano lo stato fondamentale della sveglia presenza originaria. Essere igno­ ranti significa non rendersene conto. Anche se ci proviamo, non sia­ mo in grado di sapere ciò che accadrà domani. Non sappiamo nep­ pure cosa sta accadendo altrove. I buddha, invece, possiedono la perfetta chiaroveggenza. All'inizio si cerca di avvicinarsi allo stato naturale acquietando la mente. Altrimenti la forte abitudine negativa al coinvolgimento nel pensiero di questo e quello mantiene l'attenzione molto occupata, cosicché sorge una gran quantità di pensieri differenti. Dunque, il punto di partenza consiste nel lasciar andare, rilassarsi e acquietarsi completamente. Si tratta nondimeno di un'attività mentale, perché acquietare i pensieri vuoi dire cercare di rimanere tranquilli e in uno stato particolare. Mentre i pensieri sorgono, continuano e si dissol­ vono, si cerca di mantenere la qualità del rilassamento e della stasi. Ciò richiede sforzo, quindi non è lo stato naturale privo di sforzo. Il nostro stato fondamentale non ha bisogno che facciamo nulla per essere così com 'è. Cercare di mantenere la calma mentale e di ri­ manere quieti non è lo stato naturale; è il tentativo di creare una sta­ to di tranquillità. Ma al contempo è utile, perché quando la mente

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diventa più quieta e calma, è più facile riconoscere cos'è che si sente quieto, cos'è che rimane calmo. Quando si riconosce la natura non sostanziale del soggetto dimorante, si diventa liberi dal dimorare. Questo è l'aspetto vipafyana. La qualità quieta di famatha è impor­ tante perché diventate più stabili, e diminuisce il movimento menta­ le. Grazie a questo esercizio è più facile riconoscere e mantenere lo stato naturale. Quando la vostra mente, la vostra attenzione, non è più così in­ daffarata, potete vedere che non è un'entità. Questo vedere è l'aspet­ to vipafyana. Vipafyana vuoi dire chiara visione. Vedete chiaramente che non c'è nessuna entità che dimora nella quiete. A differenza del famatha, la qualità della vipafyana non richiede nessuno sforzo. È l'aspetto sveglio e conoscitivo della vostra mente, che è del tutto tra­ sparente e ricco di grandi qualità. Il rigpa è libero dal nascere, dimo­ rare e scomparire. Cercare di mantenere la mente quieta è un lavoro. Samatha mantiene la mente occupata. Siccome è l'azione mentale a farci vagare nel samsara, la mente deve essere senza lavoro. Lasciate la mente disoccupata. Nella sua essenza la mente è senza nascita, non dimora e non scompare. Dobbiamo essere introdotti, riconoscere e poi allenarci alla vuo­ ta conoscenza spontanea. In altre parole, non è un effetto. Non dobbiamo rendere vuota l'essenza della nostra mente, è già vuota. Non dobbiamo rendere conoscitiva la nostra natura, è già conosciti­ va. Queste due qualità, indivisibili, sono spontanee. Lo sono sempre state; non sono qualcosa di nuovo. La vuota conoscenza è uno stato originario che non va mai perduto. Deve solo essere conosciuto. Abbiamo bisogno di riconoscere la vuota conoscenza spontanea, abbiamo bisogno del riconoscimento stesso della sua natura vuota e conoscitiva. In caso contrario sperimentiamo soltanto lo stato di un comune essere senziente, il quale pure è vuoto e conoscitivo, e an­ che spontaneo, ma non sa di esserlo. In quanto esseri senzienti ignoriamo la reale natura della nostra mente, la reale vuota cono­ scenza. A causa di ciò, ci lasciamo trascinare più volte dalla mente che si aggrappa agli oggetti dei sensi attraverso le aperture sensoria­ li, e che con questo collegamento crea pensieri ed emozioni. In tal modo perpetuiamo l'esistenza samsarica. Siamo disorientati dal non conoscere. È come se fossimo ammaliati dalla creazione illusoria di un mago.

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Lo yogi non ha bisogno di continuare a creare ulteriore illusione karmica. In un istante riconosce i tre kaya: la qualità vuota come dharmakaya, la qualità conoscitiva come sarttbhogakaya e la qualità sconfinata come nirma1Jakaya. n nocciolo dell'introduzione all'essen­ za della mente consiste nel riconoscere che è vuota, conoscitiva, spontanea, soffusa di consapevolezza. È così che ci si allena a ricono­ scere la natura della mente. La mente vuota e conoscitiva soffusa di inconsapevolezza continua a vagare nel samsara. n punto essenziale, dopo l'introduzione e il riconoscimento, è non /are nulla rispetto allo stato naturale. Non dobbiamo cercare di mi­ gliorare questa vuota conoscenza, oppure correggerla in qualche modo particolare che richieda sforzo da parte nostra. In realtà non abbiamo bisogno di fare nulla per rendere la nostra mente vuota e conoscitiva. Non serve nessun lavoro. Questo non fare stesso è l'alle­ namento, ed è l'opposto di ciò che facciamo abitualmente. Allenate­ vi soltanto a non correggere la vuota conoscenza, che è il nostro sta­ to naturale. Questo è il modo di sperimentare. Ed è ciò che gli esseri senzienti non fanno. Invece di farlo, oscurano sempre se stessi. Cer­ cano sempre di modificare lo stato naturale o creare uno stato altera­ to, e lo fanno con la speranza e il timore, accettando e rifiutando. La differenza tra i buddha e gli esseri senzienti è che i secondi so­ no occupati ad alterare. La nostra sveglia presenza spontanea diven­ ta alterata, costruita. Diventa contraffatta. Fintanto che è così, conti­ nuiamo a vagare nel samsara. Invece dobbiamo riconoscere la natu­ ra della mente. Proprio adesso vi sto spiegando questo affinché pos­ siate farvene l'idea, arrivare a capire com'è la natura della mente. Il passo successivo per voi è sperimentare. Non basta capire intellet­ tualmente in cosa consiste la natura: dovete assaporarla realmente, e alla fine realizzarla. Allenatevi fino a quando il riconoscimento non diventa incessante! C'è l'introduzione alla qualità vuota. Ciò che riconosce tale qua­ lità è la sveglia presenza consapevole di sé. La sveglia presenza non costruita è la conoscenza. Ogni individuo ha questo potenziale. La vostra essenza è vuota e la vostra natura è conoscitiva, così come la natura del fuoco è calda. L'essenza della mente è vuota, mentre la sua natura è in grado di conoscere, è per natura conoscitiva. Questi due aspetti sono uniti in quanto vuota conoscenza. È molto impor­ tante comprendere questo punto. Altrimenti potremmo pensare che

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lo stato illuminato sia una cosa da creare o ottenere, che forse ci vie­ ne data da un maestro oppure che produciamo in seguito a molti anni di pratica. Non è così. Il cuore della questione è soltanto uno: l'essere o non essere distratti dalla consapevolezza della propria sve­ glia presenza dell'attimo. Un essere senziente è distratto; un buddha non è distratto. Non essere distratti significa riconoscere l'essenza. Non c'è sforzo nel riconoscimento effettivo dell'essenza; è privo di sforzo. C'è un'analogia tra lo spazio soleggiato e il modo d'essere del no­ stro stato fondamentale. Lo spazio è vuoto, e non è creato da nessu­ no. Allo stesso tempo, il sole continua a risplendere in cielo. Forse da dove ci troviamo non riusciamo a vedere il sole, ma anche se ab­ biamo l'impressione che se ne sia andato, in realtà non ha lasciato lo spazio. Il sole non va in un luogo privo di spazio; non abbandona mai il cielo. Il sole e il cielo sono inseparabili. Questa è un'ottima rappresentazione dei tre kaya, la nostra condizione fondamentale. La qualità vuota dello spazio è un esempio del dharmakaya; la luce sola­ re è il sa111bhogakaya; e l'inseparabilità di questi due è il nirma1Jaka­ ya. I tre kaya permangono come l'essenza della vostra mente. Sono i tre kaya da cui non siamo mai separati. Quando riconosciamo l'es­ senza della mente così com 'è, ecco lo svabhavikakaya, il corpo dell'es­ senza. Tale conoscenza è la caratteristica distintiva di tutti i buddha che hanno realizzato i tre kaya. Così come l'oscurità non può perma­ nere quando c'è la luce solare, o un capello non può permanere nel fuoco, il karma e le emozioni disturbanti non permangono quando si riconosce l'essenza della mente. Questi sono esempi di com'è il rico­ noscimento della sveglia presenza spontanea. Lo stato naturale è in noi; si tratta soltanto di riconoscerlo. Gli esseri senzienti seguono i pensieri e ricercano oggetti esterni. La loro mente, ciò che percepisce dall'interno, si perde negli oggetti percepiti all'esterno. Tra il soggetto e l'oggetto ci sono i cinque sensi. Quando moriamo e abbandoniamo il corpo sperimentiamo il bardo. A causa del potere delle tendenze abituali dei nostri cinque sensi, è come se avessimo un corpo con cinque sensi. Poi, sospinti dalla for­ za di questa mente concettuale, rinasciamo in uno dei sei regni del samsara. Creiamo gli stati futuri del samsara ricercando oggetti concreti nei quattro luoghi di rinascita, laddove la mente che percepisce diventa

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il viandante che viaggia da una vita all'altra. È un processo che per­ petua se stesso. I quattro tipi di rinascita sono quella istantanea, dal ventre, dall'uovo, e la nascita da calore e umidità. Senza la presenza di padre e madre, quando ci sono le condizioni come l'umidità e il calore, nascono insetti di ogni genere. Da bambi­ no abitavo vicino a uno stagno in cui monaci e monache gettavano i loro capelli tagliati dopo il ritiro di tre anni. Alcune settimane dopo la conclusione del ritiro mi recai allo stagno a vedere. I capelli erano pieni di vermi di diversa grandezza e genere. All'epoca pensai che fossero nati dai capelli, ma la verità è che nascevano grazie alla com­ binazione di calore e umidità, uno dei quattro tipi di rinascita. In questo modo ci sono innumerevoli esseri senzienti. E pure ognuno di questi vermi e insetti, che sono innumerevoli, ha la natura di bud­ dha. Anche loro hanno la mente. Sentono dolore; provano piacere; e se potessero in qualche modo ricevere insegnamenti, praticare e per­ fezionare l'allenamento, diventerebbero buddha. Ma se questo non accade, se la loro vuota conoscenza è piena di inconsapevolezza, continuano a vagare nell'esistenza samsarica a causa delle azioni ne­ gative. n samsara è realmente senza fine. In breve, nell'essenza della nostra mente ci sono i tre kaya della sveglia presenza spontanea. Ciò può essere ovvio quando non siamo soggetti al pensiero concettuale. n buddha e i bodhisattva hanno in­ terrotto il pensiero, il pensiero concettuale, proprio all'origine e han­ no ottenuto la stabilità. Ecco come l'essenza della mente viene indi­ cata in questi versi del Tesoro del Dharmadhatu: L'essenza originaria è simile al sole radioso, per natura luminoso e sin dal principio informe.

La nostra essenza originaria non è oscurata in nessun modo. Tutti gli stati samsarici si manifestano a causa dei concetti di attaccamento e fissazione. Lasciandoci dominare dall'attaccamento dualistico agli oggetti percepiti e dalla fissazione sul soggetto che percepisce, noi siamo diventati esseri senzienti. È per via dell'attaccamento agli og­ getti esterni che siamo nati in una delle sei categorie di esseri sen­ zienti. La mente che si fissa è il pensiero concettuale. Proprio ora, tramite la pratica, lasciando la mente naturale e inalterata, liberi dal concetto, senza sperare e temere, raggiungiamo l'essenza originaria,

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il punto di partenza. Non allontanarsi dalla luminosità naturale vuoi dire essere senza pensieri. La saggezza dell'uguaglianza è la nostra luminosità naturale, la sveglia presenza originaria libera dall'accetta­ zione e dal rifiuto, dalla speranza e dal timore. Non è corretto lascia­ re che la semplicità sia ostacolata dalla complessità. Vi prego di capi­ re questo punto vitale, anche se divago un po'. Dobbiamo iniziare ad allenarci a riconoscere l'essenza della men­ te, il che non equivale a mantenere la mente calma e quieta. Pratica­ re la vacuità di samatha richiede sforzo. È un allenamento in cui si cerca di porre rimedio all'irrequietezza del movimento mentale. In definitiva i fenomeni non nascono, non dimorano né cessano di esi­ stere. La pratica di samatha consiste nel cercare di dimorare su qual­ cosa, ed è possibile conseguire qualche tipo di realizzazione in tale pratica. A meno che il praticante non abbia ricevuto la guida appro­ priata, a questo punto si può rallegrare dicendo: "Oh, riesco a rima­ nere nella quiete per lunghi periodi. Non ho pensieri, nessuna emo­ zione disturbante. Ho persino poteri di chiaroveggenza; sono in gra­ do di vedere cosa accadrà domani, e cosa sta accadendo altrove. Ora ci sono davvero ! " . Samatha può produrre un leggero grado di chia­ roveggenza e di conoscenza paranormale. A quel punto si può pen­ sare di essere un praticante straordinario, e credere di aver raggiun­ to un alto livello. Forse qualcuno pensa: "Non c'è nessuno che abbia raggiunto uno stato così alto" . Si potrebbe addirittura concepire il pensiero: " Sono illuminato ! " . L'esaltazione per gli ottenimenti temporanei non è vera realizza­ zione, perché mantenere la quiete non è lo stato naturale così com'è. Il nostro stato originario è al di là del nascere, dimorare e cessare. Non potete affermare che la nostra natura di buddha, la vuota cono­ scenza spontanea soffusa di consapevolezza, sorga, dimori e si dis­ solva da qualche parte. Tuttavia, allo stesso tempo, così pare. Sembra che la nostra natura di buddha sia entrata in qualche modo in questo corpo. Sembra che dimori in questo corpo, anche se non possiamo indicarne il luogo. Non potete dire che stia nel cervello, nel cuore o sulla punta delle dita. Ovunque tocchiate, vi sembra di provare una sensazione. C'è una qualità di conoscenza, ma non potete localizzar­ la perfettamente. Similmente, non potete dire che la natura di buddha cessi di essere, anche se sembra cessare quando moriamo. Un tantra afferma: "Sebbene l'essenza di tutti i buddha sia al di là

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del nascere, dimorare e cessare, opera come se nascesse, dimorasse e cessasse" . S e avete una domanda particolare potete farla adesso. STUDENTE: Potrebbe parlare della linea di separazione tra il sam­ sara e il nirvana, perché non è esattamente lì che ci troviamo ora? R I N P O C H E : In breve, il samsara è le sei categorie di esseri; il nir­ vana è tutti i buddha e i campi di buddha. Uno stato è sofferenza; l'altro è libero dalla sofferenza. La natura di buddha è presente ugualmente in entrambi gli stati. La pura natura di buddha è il mo­ do in cui sono presenti i tre kiiya. li corpo vajra è l'aspetto immuta­ bile, la parola vajra è l'aspetto non ostacolato, e la mente vajra è la qualità priva di illusione. Nello stato di sofferenza questi tre vajra vengono sperimentati come i tre veleni. In realtà, i tre kiiya dei vittoriosi pervadono tutto il samsara e il nirvana. I tre kiiya sono completi nella nostra natura di buddha. Il corpo, la parola e la mente ordinari degli esseri senzienti sono le espressioni o i riflessi del corpo immutabile, della parola non ostaco­ lata e della mente priva di illusione. Essi scaturiscono come l'espres­ sione dei vittoriosi, allo stesso modo in cui la luce irradia dal sole. Gli esseri senzienti non sono mai separati dai buddha, neppure per un istante. Nondimeno gli esseri senzienti si dibattono nell'esistenza samsari­ ca perché sono confusi. Fondamentalmente tutto si riduce allo stato confuso degli esseri senzienti o a quello non confuso dei buddha. Se dormiamo sogniamo. Se non siamo addormentati non sogniamo. In quanto esseri senzienti, non abbiamo interrotto il grande sonno. Sic­ come i buddha non si addormentano mai, non sognano. Sono liberi dall'illusione e svegli. Noi viviamo nell'illusione, e mentre dormiamo sogniamo la miriade di sogni del pensiero concettuale. La natura di buddha, conosciuta anche come i tre kiiya, pervade tanto il samsara quanto il nirvana, i buddha e gli esseri. Il dhar­ makiiya è come lo spazio, il saf!lbhogakiiya è come la luce solare, e il nirmii1;1akiiya è come un arcobaleno, l'uno dipendente dall'altro. I tre esempi si basano su un solo aspetto: lo spazio. Senza lo spazio, come potrebbe splendere il sole? Senza il sole, come potrebbe esserci l' ar­ cobaleno? I tre kiiya possono essere considerati esterni, ma i tre kiiya interni ci sono quando riconosciamo l'essenza della mente. Non ve-

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dremo mai l'essenza della mente come se fosse una 'cosa'. Nessuno può vedere la propria mente, perché la mente non è una cosa da ve­ dere, e questa è la qualità del dharmakaya. La nostra vuota essenza non sostanziale è anche conoscitiva: la qualità del saf!lbhogakaya. Le due qualità sono inseparabili, e questo è il nirma!Jakaya. Quindi i tre kaya sono una sola unità. Essi sono completi nella mente degli esseri senzienti, anche se costoro non lo sanno. La linea di separazione tra il samsara e il nirvana si trova fonda­ mentalmente tra il conoscere e il non conoscere. Quando c'è la co­ noscenza è il nirvana; quando c'è la non conoscenza è il samsara. Cos'è che deve essere conosciuto? Si tratta di conoscere che la no­ stra natura è l'unità della vuota conoscenza, che i tre kaya dei bud­ dha non sono all'esterno, bensì sono completi nell'essenza della mente, la vostra stessa mente. Riconoscere e sapere questo è il nirva­ na. Non sapere come si riconosce che i tre kaya della buddhità sono presenti in se stessi significa non conoscere, ed è il samsara. Per esempio, quando con gli occhi vediamo un bellissimo oggetto, ci piace, giusto? Se vediamo un brutto oggetto, non è vero che non ci piace? E quando una cosa è neutrale, non ce ne curiamo; ci sentia­ mo indifferenti. Così funziona la mente dualistica. In modo simile, se udiamo un suono gradevole, ci piace. Questo piacere è desiderio, at­ taccamento. Se il suono è stridulo, non ci piace. Questa è rabbia, av­ versione. Ogni suono intermedio di cui non ci curiamo, fondamen­ talmente lo ignoriamo. Questa è ottusità. Gli ignoranti esseri sen­ zienti sono sempre in preda a questi tre veleni. Invece di perpetuare i tre veleni, riconoscete la vostra mente. La conoscenza dell'essenza della mente viene anche chiamata rig;pa. Proprio ora siamo sulla linea di divisione tra il samsara e il nirvana. Siamo pronti per conoscere, ed è la via dei buddha. Fino a questo momento, in quanto esseri senzienti, abbiamo ripetuto la non cono­ scenza, ossia l'ignoranza. Invece di rimanere nell'ignoranza, dovrem­ mo riconoscere lo stato della conoscenza. Non intendo spiegare nei dettagli i due stati. Ci sono centinaia e centinaia di volumi che spiegano lo stato impuro del samsara. A par­ te questi testi, pensate soltanto a tutti i libri disponibili su argomenti come la medicina, la scienza, l'architettura, l'ingegneria, le automo­ bili, gli aerei, la legge, e così via. È la vecchia storia del samsara. Quando morite, nessuno di questi libri vi sarà di aiuto. Non vi forni-

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ranno la benché minima assistenza. Portarsi in giro libri come quelli serve solo ad appesantirsi. Ci sono anche centinaia di volumi di scrit­ ture incentrate sul nirvana, il Kangyur e il Tengyur, e così via. Quan­ do le condensate tutte, il loro punto essenziale è questo: riconoscete la vostra natura. Tutto qui. Ecco l'essenza di migliaia di parole. Se volete conoscere perfettamente il contenuto del Tripitaka e di tutti i commentari, non basterebbero cento anni, anche se studiaste giorno e notte. Nessuno sarebbe in grado di ricordare tutti gli innu­ merevoli dettagli dell'aspetto puro del nirvana, anche se riuscisse a studiare tanto a lungo. È meglio 'conoscere l'unica cosa che libera da tutto', e riconoscere l'essenza della propria mente. Rendetevi conto che non è una cosa da vedere, e questo è il dharmakaya. Ciò che se ne rende conto, la qualità conoscitiva, è il sat!Jbhogakaya. Vedere che i due aspetti sono inseparabili è il nirma1;1akaya. C'è qualcosa di più facile? Potete trovare qualcosa di più semplice? Questo vien detto 'conoscere l'unica cosa che libera da tutto'. Se la conoscete, proprio questa conoscenza è la base della via della buddhità. Potete analizzare tutti gli insegnamenti di questo mondo nei più minuti dettagli, come se setacciaste la farina, e non troverete nessu­ na istruzione superiore a questa. Esaminate attentamente ogni cosa, ogni singola cosa di questo mondo, e non troverete nessun consiglio più profondo. Questo è il sentiero seguito da tutti i buddha del pas­ sato. È la via che tutti i buddha del presente stanno percorrendo. Anche tutti i buddha del futuro seguiranno questo sentiero. Viene pure chiamato la grande Madre dharmakaya. Sembra una vecchia signora, eh? È la vecchia madre di tutti i buddha del passato, del presente e del futuro. E c'è il vecchio padre, chiamato dharmakaya Samantabhadra. La vecchia madre è chiamata grande Madre dhar­ makaya. Tutti i buddha e gli esseri senzienti sono la progenie di questa coppia, che non è una coppia di entità reali, ma la vuota co­ noscenza sconfinata. La qualità vuota è Samantabhadd, la grande Madre dharmakaya, anche conosciuta come Vajravarahi o Jestiin Tara. La qualità conoscitiva è il buddha dharmakaya Samantabha­ dra, anche conosciuto come Vajradhara o Vajrasattva, il nostro vec­ chio padre. La loro progenie, il loro figli, sono tutti gli esseri sen­ zienti dei sei regni. Sfortunatamente non siamo rimasti accanto ai nostri genitori, ma ci siamo smarriti negli stati del bardo e nei sei regni. Fino a questo

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momento siamo rimasti intrappolati nei tre veleni, dibattendoci nei tre regni del samsara. Abbiamo perso completamente il contatto con i nostri vecchi genitori. Se volete rimanere con i vostri veri genitori, allora seguite la via del riconoscimento della vuota conoscenza. Se volete ritornare alla vostra natura originaria, avete a disposizione i tre grandi modi di vedere della Mahamudra, dello Dzogchen, della grande Via di Mezzo, nonché il modo di vedere della Prajiiapara­ mita. Queste sono le vie che dovreste seguire. A volte la gente si domanda come mai non c'è un'unica via, per­ ché ci devono essere diverse vie. È come dirigersi verso Bodhgaya da quattro direzioni differenti: da ovest, sud, nord o est. Se viaggiate partendo da una di queste direzioni, il luogo che raggiungete è sem­ pre Bodhgaya, la stessa destinazione. C'è una sola buddhità, un solo stato risvegliato, un'unica destinazione ultima. In Tibet ci sono le scuole Kagyii, Sakya, eccetera, così la gente può pensare che ci sia un'illuminazione Kagyii, oppure Sakya, Geluk o Nyingma. In realtà non è così. La vera essenza della buddhità è la vuota conoscenza in­ divisa soffusa di consapevolezza. Questa è la natura fondamentale della vostra mente. È la stessa per un seguace della scuola Sakya, Ge­ luk, Nyingma o Kagyii, perché tutti devono seguire quella via dell'il­ luminazione. Non ci sono diversi tipi di vera illuminazione; si tratta soltanto di termini diversi, ma il significato è lo stesso. L'identico significato è: riconoscete l'essenza della mente. È così semplice, così facile. Ma gli esseri senzienti non confidano in questo insegnamento. Invece si trascinano in attività senza senso creando di continuo la loro stessa sofferenza. Quando si rinasce c'è la sofferen­ za della nascita. Poi c'è la sofferenza della malattia, l'infelicità della vecchiaia, il dolore della morte. In seguito sperimentiamo la pena del perderei nel bardo privi di aiuto. In seguito, se rinasciamo in uno dei tre regni inferiori, non c'è un solo istante di piacere. Proprio ora possiamo rendercene conto molto bene, ma non continuiamo a in­ gannarci? ll mio insegnamento non è incomprensibile. Tutto si riduce a que­ sto: abbiamo davvero il coraggio di confidare negli insegnamenti del Buddha? Quando guardiamo in alto non vediamo nessun campo di buddha o regno celeste. Vuol dire che non esistono? E se guardiamo in basso, a terra, non vediamo nessun regno inferiore. Vuol dire che non esistono? Utilizzare il nostro ignorante stato samsarico come un

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valido mezzo di conoscenza per stabilire cos'è reale e cosa non lo è, cos'è possibile e cos'è impossibile, non significa un gran che. Per for­ tuna abbiamo di più. È mai tornato qualcuno dai campi di buddha o dai regni inferiori? La risposta è sì! li Buddha ha visto e sperimenta­ to tutte queste cose con molta chiarezza. Per essere praticanti della via buddhista non possiamo basarci completamente soltanto su ciò che sperimentiamo con i nostri sensi in questo momento. Dobbiamo basarci anche sulle parole del Buddha; altrimenti la nostra pratica non serve a niente. Sinceramente non c'è molta scelta. Tuttavia continuiamo a non confidare nelle parole del Buddha. Alcune persone dicono: "Non ho ancora deciso quale via seguire, devo pensarci sopra". Se potessimo pensarci sopra completamente da soli e seguire la nostra convinzione, allora perché gli esseri sen­ zienti non si illuminano? "Mi prenderò il tempo necessario e ci pen­ serò sopra piano piano". Il Buddha ci ha già pensato con molta chia­ rezza. Siccome il Buddha era chiaroveggente e aveva al contempo la saggezza senza limiti, dovrebbe bastare. Se, invece di seguire ciò che il Buddha ha detto, vogliamo capire tutto da noi stessi, dovremmo averne la capacità. Per sfortuna non ce l'abbiamo. Gli insegnamenti del Buddha sono realmente validi. Se vogliamo, prima di tutto, accertare ogni cosa con l'analisi, potrebbe­ ro volerei anni. E se alla fine arriviamo al punto di decidere di confi­ dare nel Buddha, dobbiamo trovare un insegnante qualificato e ini­ ziare a imparare. A quel punto forse è già trascorsa metà della nostra vita. Potremmo scoprire di avere già cinquant'anni. Supponendo di vivere cent'anni, metà della nostra vita se n'è an­ data. L'altra metà la trascorreremo dormendo. Col passare del tempo è sempre più difficile seguire la via. Possiamo fare una richiesta: "Vi prego di !asciarmi vivere più a lungo, perché adesso voglio praticare il Dharma" . Aggiungete la richiesta della salute: "Vi prego, d'ora in poi vorrei non ammalarmi mai, così ho più tempo per praticare" . Sfortunatamente la nostra vita non ci darà ascolto. Non appena ini­ ziamo ad ammalarci o a soffrire di un grave disturbo, la pratica di­ venta quasi impossibile e ci sembra di non avere nessuna opportu­ nità. Come dice Patriil Rinpoche: "Da giovani ci controllavano gli al­ tri e non potevamo praticare. Da adulti rincorrevamo le cose deside­ rabili e non potevamo praticare. Adesso che siamo vecchi, abbiamo perso le forze e non possiamo praticare. Ahimè! Cosa fare? " .

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Siamo come dei viaggiatori che visitano un'isola di gioielli e se ne stanno lì con le mani in mano. Il nostro corpo fisico, custodito con tanta cura, alla fine verrà abbandonato. Lasceremo questa vita con uno stacco netto, come un capello viene tolto dal burro, senza por­ tarci dietro nulla. Nel bardo non abbiamo nessun potere di scelta del luogo in cui andare. E continueremo a vagare nel samsara. È ciò che accadrà con ogni probabilità. A meno che non pratichiate, non pote­ te fare assolutamente nulla al mondo per evitare di restare intrappo­ lati nel samsara. La mente dualistica crea il karma negativo. Ogni nostro pensiero, nessuno escluso, è mischiato ai tre veleni. Così come il veleno porta alla morte quand'è ingerito, le tre emozioni velenose uccidono la li­ berazione quando vengono consentite. Forse non ci rendiamo nep­ pure conto che la nostra mente è piena dei tre veleni che generano karma negativo. Ma il signore dei tre veleni è la nostra mente, e i ser­ vi sono il nostro corpo e la nostra voce. Quando eseguiamo il co­ mando dei tre veleni, continuiamo ad aggirarci nel samsara, voltando le spalle ai tre kaya, che sono la base stessa di tutto il samsara e il nir­ vana. Così creiamo le cause dei tre regni inferiori.

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Come si genera la perseveranza? La perseveranza, per quanto riguarda il riconosci­ mento dell'essenza della mente, dovrebbe essere come il flusso inces­ sante di un fiume. C'è un momento in cui il Gange smette di scorre­ re? No, certo che no. È un continuo flusso incessante. Nessuno lo spinge o lo tira lungo l'alveo. Semplicemente scorre. È ovvio che può esserci una differenza nel volume e nell'intensità a seconda della quantità d'acqua che defluisce, ma il flusso basilare non si interrom­ pe mai. Un altro esempio è la tensione della corda di un arco. Quan­ do avete piegato l'arco e tesa la corda, essa non diventa a volte più tesa e altre più lenta, bensì la tensione rimane regolare. Questo è il tipo di perseveranza che dovremmo avere: costante, in modo da non alternare la lotta e la costrizione in alcuni momenti e il totale abbandono in altri. Com'è possibile esercitarsi senza altalena­ re? È possibile allenandosi a ciò che chiamiamo non meditazione senza distrazione. Senza distrazione vuoi dire non dimenticare. Non meditazione significa non forzare, non immaginare. La costanza o continuità sorge dall'assenza di distrazione, e non dobbiamo forzar­ ci a non essere distratti, perché è non meditazione. Non c'è il /are, nel senso della meditazione deliberata. Questo è il punto essenziale: non meditazione senza distrazione, essere non distratti mentre non si medita. Allenatevi. Se persistete, a un certo punto il vostro allena­ mento diventa come il continuo flusso incessante di un fiume. La parola 'riconoscere' letteralmente significa incontrare la pro­ pria natura a faccia a faccia. Si dà molto rilievo al riconoscimento, STUDENTE:

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perché se non riconoscete la vostra natura siete sempre coinvolti nei pensieri, sia nel senso di essere contro, a favore o indifferenti. Per gli esseri senzienti non c'è nessuna interruzione nel coinvolgimento; continua incessante, come un grande fiume fangoso. Questa 'esten­ sione nera' è la ricerca ininterrotta, giorno e notte, quando l'atten­ zione inconsapevole di sé rimane coinvolta nei tre veleni, il deside­ rio, l'avversione o l'ottusità. È un processo che continua senza inter­ ruzione. Eppure, nel medesimo tempo, ciò che rimane coinvolto è già e sempre in essenza vuota conoscenza, che naturalmente è i tre kiiya intrinseci. Nondimeno, fino a quando non c'è la consapevolez­ za della propria natura fondamentale, lo stato normale di un essere senziente è una costante estensione nera. Per fortuna è possibile ri­ conoscere il volto naturale, perché non è mai andato smarrito. Non è necessario rimanere presi per sempre nell'estensione nera. Senza la natura di buddha non avreste nessuna possibilità di farcela. Quando non conosciamo la natura innata rincorriamo la catena dei pensieri. In altre parole, ogni qualvolta salta su qualcosa, imme­ diatamente, senza esitare neppure un secondo, ci lasciamo coinvol­ gere. Appare un'altra cosa e noi la seguiamo. E lo stesso con una ter­ za e una quarta. Non c'è nessun intervallo. Ciò è dovuto ai due gran­ di furfanti, i due tipi di ignoranza. Il grande demone dell'ignoranza innata consiste soltanto nella dimenticanza del proprio stato natura­ le. L'ignoranza che concettualizza si manifesta quando dimentichia­ mo l'essenza della mente, e iniziamo subito a creare un pensiero di ciò che abbiamo appena sperimentato. Questi due pericolosi demo­ ni ingannano tutti gli esseri senzienti, ma in realtà scaturiscono sol­ tanto dalla propria mancanza di consapevolezza. Gli esseri senzienti fondamentalmente si ingannano di continuo. Però l'inganno non è indispensabile. Quando la sveglia presenza spontanea diventa stabi­ le come non meditazione senza distrazione, la duplice ignoranza non esercita più nessun controllo su di noi. Finché ciò non accade, cerca­ te di rimanere nella consapevolezza naturale. Non è forse vero che un attimo dopo sopraggiungono le due ignoranze? Di nuovo ricono­ scete l'essenza della mente ed esse svaniscono senza lasciare tracce. Ecco come ci si abitua al rigpa. Questa è la radice del vero allena­ mento alla meditazione. Quando vedete che l'essenza della mente non è una 'cosa' da ve­ dere, proprio in quell'istante, non avete più bisogno della dualità di

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oggetto visto e soggetto che vede. Questa unità naturale viene chia­ mata non meditazione, perché non è creata. Oltre alla non medita­ zione dobbiamo allenarci alla non distrazione. In questo modo la non distrazione diventa sempre più facile e i momenti di rigpa hanno una durata sempre maggiore. L'allenamento rimane lo stesso: non meditazione senza distrazione. Il riconoscimento dell'essenza della mente ha questo fine, che è l'intento dell'istruzione sull'indicazione diretta. Ecco alcuni versi di un noto canto chiamato Dorje Changchenma, una supplica ai grandi saggi del lignaggio Kagyii: 1 Assolutamente niente, eppure tutto sorge d a lì. A questo meditante che sperimenta il gioco senza fine concedi le tue benedizioni affinché io possa realizzare l'inseparabilità di samsara e nirvana [. . . ] Concedi le tue benedizioni affinché la mia meditazione sia libera dal concetto.

"Assolutamente niente" vuol dire che l'essenza della mente non è una cosa concreta. Quando la riconoscete, capite che è come uno spazio totalmente puro. La natura della mente non consiste in nes­ sun pensiero o concetto, ne è completamente libera. È un fatto evi­ dente, che viene visto davvero nell'istante in cui riconoscete l'essen­ za della mente. Allora vedete che nell'essenza stessa non c'è il ben­ ché minimo concetto. Il canto continua: " eppure tutto sorge da lì" , nel senso che tutte le esperienze avvengono per via della qualità del­ la conoscenza, che è inseparabile dalla vuota essenza. La nostra ca­ pacità naturale di percepire non è bloccata in nessun modo, è senza ostacoli. L'essenza non è soltanto vuota e non è neppure una 'cosa' che percepisce, non ha questi limiti. Non c'è divisione o barriera tra il vuoto e la conoscenza. L'immagine utilizzata spesso è quella di un limpido specchio. Lo specchio non è ostacolato in nessun modo, ma allo stesso tempo ha una limpidezza, una capacità naturale di riflette­ re. Questa immagine rappresenta la vuota conoscenza indivisibile. Essa è priva di impedimenti. L'aspetto del vuoto è il dharmakaya. L'aspetto della conoscenza è il saf!Zbhogakaya, e la loro inseparabilità 1 La recita del Dorje Changchenma è molto diffusa in tutti i centri Kagyii d'Occi­ dente. Un'ottima traduzione è stata fatta da Chogyam Trungpa Rinpoche.

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è il nirmiù;akiiya. I tre kiiya sono presenti come la natura della mente di ogni essere senziente. Quando viene indicata dal maestro e la si ri­ conosce, è lo svabhiivikakiiya. Questo fatto, ossia che la mente è vuo­ ta conoscenza sconfinata, viene realizzato nell'istante in cui si rico­ nosce la natura della mente, proprio quando la si vede. Nell'istante del riconoscimento, lasciate la natura della mente com'è, comunque sia. Non è necessario meditare in anticipo sulla na­ tura della mente. Non pensate mai: "Bene, la riconoscerò, ma deve essere in un certo modo, e se non è all'altezza, allora devo correggere un po' la mente, devo migliorarla" . Oppure: "Forse non è proprio questa la natura della mente. Deve essere uno stato più elevato" . Non pensate: "È vuota adesso? " . "Adesso conosce ! Sarà questa la qualità conoscitiva? " . "Questa è l'unità di vuoto e conoscenza, cre­ do ... in effetti, forse non è così" . Questo tipo di meditazione non ser­ ve affatto. I testi delle istruzioni affermano ripetutamente che, quan­ do riconoscete l'essenza della mente, dovete abbandonare tutti i pre­ concetti. L'essenza della mente non deve essere migliorata da noi. Possiamo costruire la natura della mente? È un'entità che può es­ sere immaginata e poi tenuta a mente? Cercate di immaginare ciò che è del tutto vuoto; è impossibile, giusto? In modo simile, potete immaginare la qualità conoscitiva? Non lo si può davvero. Se la vo­ stra pratica meditativa è soltanto un esercizio di immaginazione del­ l'essenza della mente, non diventa allora una vostra invenzione? Non si afferma spesso che l'essenza della mente non coincide in effetti con l'idea che ce ne facciamo? "La mente ordinaria non alterata è la strada maestra di tutti i vittoriosi" . Ecco la pratica essenziale. Non siate come un uccello che è stato preso in trappola. Sapete come i bambini preparano una trappola, e quando si avvicina un uc­ cello, la tirano per catturarlo. Nelle istruzioni sulla meditazione si af­ ferma che un uccello che riesce a scappare dopo essere rimasto in­ trappolato è sempre all'erta. Si posa a terra, dà una beccata, e per paura vola via immediatamente. La nostra pratica della meditazione potrebbe essere analoga, se in noi c'è il costante timore di sbagliare. Qualcuno pensa: "Oh, non è così. Questa sveglia presenza ordinaria non può essere la mente di buddha. C'era quella cosa fantastica chia­ mata 'istruzione dell'indicazione diretta', e quando l'ho ricevuta ho riconosciuto l'essenza della mente. Adesso la riconosco, la vedo. Ma la mente di buddha deve essere tutt'altro. Questa non può essere la

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mente di buddha. La mente di buddha deve essere uno stato più ele­ vato" . Pensando in questo modo potrebbe esserci un costante im­ pulso a creare e sperimentare qualcos'altro, uno stato diverso dal­ l'immediatezza della vuota conoscenza. Quando riceviamo insegnamenti per la prima volta, di solito si tratta di una spiegazione ampia che copre tutti gli argomenti del Dharma, il cosiddetto significato provvisorio e quello definitivo. A quel punto veniamo introdotti al fatto che il significato definitivo ri­ guarda la natura di buddha, l'essenza della mente, ciò che alla fine dobbiamo realizzare. Riceviamo un'esposizione generale, una visione d'insieme, quindi gradualmente mettiamo a fuoco il punto più im­ portante di tutti gli insegnamenti del Buddha. Così ci concentriamo sulla cosiddetta 'istruzione dell'indicazione diretta', grazie alla quale veniamo introdotti a questa natura della mente, la natura di buddha, e siamo in grado di riconoscerla. L'attimo in cui la riconosciamo equivale a percepire un profumo. Un carnivoro a caccia deve innan­ zitutto fiutare il cervo, e dopo può cacciarlo. L'istruzione dell'indica­ zione diretta consente a questo piccolo carnivoro di fiutare la natura di buddha. Una volta che l'abbiamo fiutata, non dobbiamo più ri­ fletterei sopra. Finalmente siamo sulle sue tracce. La cosa più impor­ tante è fiutare la natura di buddha. Prima che ciò accada, va bene trascorre del tempo ad analizzare. Ma una volta che ne avete perce­ pito il profumo, non avete più bisogno di riempire la mente di spe­ culazioni intellettuali. Ecco cosa significa percepire il profumo. A un certo punto il vo­ stro guru si china verso di voi e dice: "Adesso dobbiamo parlare a tu per tu. Quando riconosci l'essenza della mente cosa vedi? " . Un buon discepolo direbbe: " Sinceramente non vedo niente " . Il guru replica: "Bene, è esatto; è proprio così. La tua natura è vuota. Ma nell'istante in cui riconosci che la tua mente è vuota, in quel momen­ to sei del tutto vacuo e inconsapevole? Sei incosciente ? " . Un buon discepolo direbbe: " No. Sperimento ciò che è presente" . Allora il guru potrebbe dire: "Non è vero che questa vacuità e questa cono­ scenza sono un'unità, e che quando c'è uno c'è anche l'altro? " . Il di­ scepolo risponderebbe: "È vero" . Quindi il guru continua: "Quello stato non è una vivida sensazione d'essere sveglio, che è al contempo vuota, totalmente priva di attaccamento? " . In questo modo si è in­ trodotti gradualmente al profumo della natura di buddha.

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Dopo di ciò, non è più necessario immaginare di seguire le tracce del cervo, perché è già stato fiutato. Non dovete più sognare la vuo­ ta conoscenza. Non dovete più pensare a com'è. Non dovete abban­ donarvi a fantasie come quelle che ho riferito, immaginando come potrebbe essere la natura di buddha e cercando di tenere a mente di continuo quella fantasia. Una volta che abbiamo ricevuto l'istruzione dell'indicazione diretta e abbiamo riconosciuto la natura di buddha, l'allenamento non consiste nel meditare, nel senso di immaginare la natura di buddha; l'allenamento consiste nel non perdere le sue trac­ ce, nel senso di non essere distratti. Non dobbiamo immaginare la natura di buddha: è già presente. Non serve a nulla cercare di crear­ la. La vacuità in cui consiste la natura di buddha è originaria; la sua natura conoscitiva è originaria. L'unità del vuoto e della conoscenza è originaria, non è così? Non abbiamo bisogno di creare tale unità tramite la pratica. È un fatto che diventa assolutamente chiaro con il riconoscimento. La pratica meditativa non consiste più nel rendere la mente vuota e conoscitiva, niente affatto. Ma ecco che ce ne dimentichiamo, ci distraiamo. Qui entra in gio­ co l'allenamento. Esso consiste soltanto nel riconoscere di nuovo la natura della mente. Dobbiamo riconoscere ciò che essa è già. Poi ac­ cade che ci distraiamo di nuovo e veniamo trascinati dall'ignoranza innata e da quella che concettualizza. La prima è semplicemente la perdita delle tracce, ossia la dimenticanza, la distrazione. L'ignoran­ za che concettualizza si presenta quando, nel momento in cui siete distratti, iniziate a pensare a ciò per cui vi siete distratti. Questo va eliminato. La duplice ignoranza non è l'azione di qualcun altro; non proviene dall'esterno. La duplice ignoranza è una vostra manifesta­ zione, equiparabile alla vostra ombra. È un'espressione dell'essenza, però diretta all'esterno. L'allenamento consiste soltanto nel lasciare che la tendenza abi­ tuale a fissarsi su qualcosa diminuisca a poco a poco grazie al ripetu­ to riconoscimento. Più ci alleniamo in questo modo, e più facile di­ venta il riconoscimento. È come memorizzare, anche se non è pro­ prio la stessa cosa. Quando canto alcune volte l'invocazione Dusum Sanzye, non devo pensarci un secondo per ripeterla dall'inizio alla fi­ ne. E automatico, perché è già impressa nella 'base di tutto', alaya. Così, quando siamo diventati più stabili nel riconoscimento, esso continua per un po', non in modo intenzionale ma automatico.

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Non siamo mai stati separati dalla natura della mente neppure per un istante, perciò essa non è qualcosa su cui meditare, bensì qualco­ sa a cui abituarsi. La distrazione crea una divisione tra questi due stati, quello meditativo e quello non meditativo. Abbiamo bisogno della non meditazione senza distrazione. Se recitate una preghiera a memoria, dovete forse pensarci? È una cosa automatica. L'assenza di distrazione dovrebbe essere automatica, ossia non richiedere nessun pensiero intenzionale. Non avete bisogno di rallegrarvi ogni volta di­ cendo: "Oh, adesso riconosco l'unità della vuota conoscenza. E adesso la riconosco di nuovo" . Questo è un pensiero, non è vero? Se conoscete a memoria la preghiera Dusum Sangye, non appena avete detto il primo verso, "Dusum sangye guru rinpoche", non dovete pensare: "Ora, qual è il prossimo verso? Ah, è così e così". Non do­ vete affatto pensarci. Quando conoscete una preghiera a memoria, non vi serve pensare per recitarla. Il rigpa non richiede nessun pen­ siero. Una volta che vi siete abituati al rigpa, è automatico. Quando un maestro insegna ai suoi studenti la conoscenza diretta della natura di buddha, è come se introducesse un carnivoro all'odo­ re del cervo. Non appena conoscete l'odore lo fiutate, perché è lì presente. Avete percepito la fragranza del dharmakaya: non c'è nien­ te da vedere. E avete percepito il profumo del sa111bhogakaya: anche se non c'è niente da vedere, c'è comunque la conoscenza. Infine, avete percepito il profumo del nirma1Jakaya: i due sono inseparabili. Semplicemente continuate a fiutare la natura di buddha, come un animale che segue le tracce della preda in montagna. È meraviglioso, non è vero? È seguendo questa via che possiamo conseguire la buddhità. Viene chiamata la via del non fare, riguardo alla quale si afferma: Quest'unico non fare eclissa qualsiasi azione.

Il non fare eclissa qualunque coinvolgimento nelle emozioni di­ sturbanti. Tutti gli 84 .000 tipi di emozione disturbante richiedono un agente e un'azione, soggetto e oggetto. Ma qui non si immagina nulla; è totale non fare. Esso dissolve in un istante tutte le 84.000 emozioni disturbanti. Quando si riconosce questa sveglia presenza consapevole, è come se si afferrasse una scure per tagliare alla radice un immenso albero con migliaia di rami e decine di migliaia di fo-

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glie. Non appena l'albero viene tagliato, anche i rami con le fogli ca­ dono nel medesimo istante. Com'è possibile? Le 84.000 emozioni di­ sturbanti, quali che siano, non sono altro che pensieri. Lo stato fon­ damentale della sveglia presenza consapevole è libero dai pensieri. Nell'istante in cui si riconosce lo stato privo di pensieri, ciascuno de­ gli 84.000 tipi di pensiero si dissolve nel medesimo momento. Se la sveglia presenza della conoscenza non duale fosse concettuale, allora non potrebbe eliminare i pensieri. Non potete abbandonare un pen­ siero aggrappandovi a un altro. Nell'istante in cui riconoscete l'au­ tentica sveglia presenza priva di pensieri, viene distrutto qualsiasi movimento del pensiero discorsivo. In effetti, una volta che avete riconosciuto lo stato genuino della sveglia presenza, il samsara non è più il consueto problema. Nel co­ mune stato mentale sperimentiamo gioia, sofferenza; ci sono tutti questi pensieri, le preoccupazioni e i progetti. Ma nell'istante in cui si riconosce la sveglia presenza priva di pensieri, non c'è nessun proble­ ma. In quel momento il samsara è molto piacevole, e c'è un senso di grande uguaglianza, espansiva e molto aperta. Potete sperimentare la felicità, ma se riconoscete l'essenza della mente, non eccedete e non ne rimanete coinvolti. Potete sperimentare il dolore, ma se riconosce­ te la vostra essenza, non cadete nella depressione, totalmente presi dalla sofferenza. Ecco perché viene chiamata grande uguaglianza. Di solito, quando tutto va bene, la gente si esalta a tal punto da non riuscire a tenere il cappello in testa! Ma se in quel momento ri­ conoscete la vostra essenza, che importanza ha la felicità per i feno­ meni passeggeri? Ogni cosa viene considerata come uguale. In altri momenti la gente si abbatte e piange infelice. Ma se riconoscete la vostra essenza, per cosa mai potete deprimervi? Quindi questo rico­ noscimento è il vostro migliore amico tanto nella gioia quanto nel dolore. Se continuate ad allenarvi in questo modo, otterrete ottimi risultati. Diversamente, be', non c'è molto da divertirsi in questo mondo. Tutto cambia; non possiamo fare affidamento su nulla. Il samsara ha una natura incostante, e niente è eterno. Dobbiamo rico­ noscere l'immutabile stato naturale della consapevolezza. La vita non è così significativa se dovete rimanere una persona totalmente samsarica. Tutto muta; non c'è stabilità da nessuna parte nel mondo, tra gli esseri senzienti o nelle esperienze. Istante dopo istante, tutto cambia. In questa essenza, invece, non c'è nulla che cambia.

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Potrebbe parlare dei samaya?2 Yeshe Kunchog afferma che non si dovrebbe bere acqua nella medesima valle in cui c'è qualcuno che ha violato il sa­ maya.3 Tuttavia, sinceramente, non sappiamo chi ha trasgredito il sa­ maya e chi no. Solo il Buddha può saperlo. Non si può valutare per­ fettamente un'altra persona. li Buddha ha detto: "Solo io e qualcuno come me possiamo conoscere un'altra persona" . Non abbiamo mo­ do di sapere chi ha violato gravemente il samaya, e chi no. E in effet­ ti non è questo il punto. Se noi o qualcun altro abbiamo rotto il sa­ maya, possiamo ripetere il mantra delle cento sillabe4 e riconoscere l'essenza della mente. Per il resto, non c'è molto da fare. Non si può sapere davvero chi mantiene puri samaya e chi non li mantiene. I vecchi maestri dicevano: " Il mio miglior compagno è il guru; il mio peggior nemico è chi viola il samaya" . Molti maestri realizzati del passato non potevano essere uccisi con armi: sarebbe stato come tagliare l'aria. Ma morivano non appena entravano in contatto con qualcuno che aveva violato il samaya. Nient'altro poteva nuocere lo­ ro; eppure la rottura del samaya può stroncare la vita di un lama. I samaya insegnati nei tantra del Maha, dell'Anu e dell'Ati sono incredibilmente profondi. La connessione con qualcuno che pratica gli insegnamenti della divinità, del mantra e del samadhi arreca im­ menso beneficio. Si afferma che chiunque entri in contatto con un vero praticante non finirà nei regni inferiori. Al contrario, il contatto con qualcuno che si rivolta contro questi insegnamenti può trasci­ narci in basso. Senza alcun dubbio, la relazione con l'uno o l'altro ti­ po di persona ha un effetto. Certamente il samaya può essere rotto, ma può anche essere rista­ bilito tramite la recita di Vajrasattva e riconoscendo l'essenza della mente. La ripetizione del mantra di cento sillabe mentre si riconosce l'essenza della mente fa sciogliere tutte le impurità o gli influssi nega­ tivi come fiocchi di neve che cadono su una pietra rovente. I fiocchi di neve non possono assolutamente ricoprire una pietra rovente, veSTUDENTE:

RI N P O C H E : Lo

2 Nella tradizione tantrica il samaya in generale è un impegno, voto o regola. (N.d.T.) 3 Lo Yeshe Kunchog è una richiesta di perdono associata alle divinità pacifiche e irate. Fa parte del Tantra della pura richiesta di perdono. Una traduzione è inclusa nel banchetto rituale del Kunzang Tuktig. 4 n mantra esteso di Vajrasattva. (N.d.T.)

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ro? Svaniscono, scompaiono. Ma se si continua a rimanere in uno sta­ to normale, è come se i fiocchi di neve cadessero sull'acqua fredda: essa gela e pian piano diventa uno spesso strato di neve ghiacciata. In Kham si racconta di un vecchio che dice a un lama: "Quando parli dei benefici del Dharma, è evidente che non hai nessun proble­ ma. Anche questo vecchio peccatore probabilmente eviterà di rina­ scere all'inferno. Ma quando parli degli effetti delle azioni negative, di sicuro andrò all'inferno. Chissà che anche tu non ti troverai nei guai ! " . Centomila ripetizioni del mantra di cento sillabe con purezza d'animo e rimorso certamente estirpano tutto il proprio karma nega­ tivo senza !asciarne alcuna traccia. Ascoltando questa spiegazione, si ha la sensazione che non ci sia nessun problema: "Anche questo vec­ chio peccatore non avrà nessun problema" . Ma ascoltando l'insegna­ mento sugli effetti negativi dell'uccisione anche di un piccolo inset­ to, è come dice il vecchio: "Chissà dove andrai pure tu, un lama, do­ po la morte" . Ci sono molti dettagli che riguardano tutte l e implicazioni del sa­ maya, incluse le centomila sezioni dei precetti samaya, e così via. Tut­ te queste considerazioni possono essere riassunte nei principi basila­ ri, che sono i samaya del corpo, della parola e della mente. Il samaya del corpo vuol dire visualizzare la divinità yidam, ricordare che la propria forma è quella divina dello yidam. Il samaya della parola è ri­ cordarsi di ripetere il mantra. Il samaya della mente è riconoscere l'essenza della mente. Questi sono i principi basilari del Vajrayana, conosciuti come divinità, mantra e samadhi. Per quanto concerne il samaya con il guru, non nuocete al suo corpo. Non picchiatelo o feritelo fisicamente in nessun altro modo. Non trasgredire il suo ordine vuol dire non disobbedirgli se vi chie­ de di fare qualcosa. Riguardo alla mente del guru, non fate nulla che possa irritarlo o recagli dispiacere. Oltre a mantenere il samaya rela­ tivo al corpo, alla parola e alla mente del guru, si devono mantenere anche i samaya del proprio corpo, della propria parola e della pro­ pria mente come divinità, mantra e samadhi. Questa duplice serie di samaya del corpo, della parola e della mente, in rapporto al guru e a se stessi, include tutti gli altri samaya. È molto importante mantenere il collegamento con la divinità, il mantra e il samadhi. Da dove provengono queste istruzioni? Le rice­ viamo dal nostro maestro personale. Rivoltarsi contro il maestro da

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cui si sono ricevute le istruzioni orali sulla divinità, il mantra e il

samadhi è un'immensa espressione di ingratitudine. Si può anche danneggiare il samaya con il corpo, la parola e la mente del guru de­

prezzando le sue parole, oppure dando poca importanza al suo cor­ po o a come si sente. Rispetto allo Dzogchen, 'Grande Perfezione' significa che tutto ciò che deve essere abbandonato e realizzato è completamente per­ fezionato. Questo è il re di tutti i veicoli. I samaya relativi agli inse­ gnamenti dzogchen hanno due aspetti: la purezza primordiale e la presenza spontanea, kadag e lhundrub. Purezza primordiale si riferi­ sce al modo di vedere del Trekcho, il 'taglio totale'. Presenza sponta­ nea si riferisce all'allenamento meditativo chiamato Togal. Entrambi hanno due samaya. Quelli specifici della pratica del Trekcho sono chiamati non esistenza e diffusione. I samaya dell'allenamento del Togal sono unicità e presenza spontanea. Quindi ci sono quattro sa­ maya: non esistenza, diffusione, unicità e presenza spontanea. Sicco­ me essi includono tutto, sono conosciuti come i samaya regali. Tutti i fenomeni del samsara e del nirvana sono completi in questi quattro

samaya.

I quattro aspetti del samaya vengono spiegati in questo modo. Non esistenza, o letteralmente 'assenza', significa che la vuota, pura essenza primordiale non è una realtà creata, è totalmente priva di qualsiasi sostanza concreta. Come lo spazio, è pura sin dal principio. La parola 'diffusione' si riferisce alla non interruzione nella pura, sveglia presenza primordiale, oppure alla non distrazione da quello stato. Nell'istante del riconoscimento c'è anche un senso di conti­ nuità. Questa qualità penetrante implica la non interruzione, la qua­ lità del coprire o pervadere tutto. Presenza spontanea è l'altro samaya del Togal. Dallo spazio puro sin dall'origine si manifesta naturalmente la presenza spontanea. È l'aspetto apparente (nangcha). Quindi kadag e lhundrub sono in realtà inseparabili, come la vacuità e l'esperienza. Il samaya, allora, consiste nel riconoscere che l'essenza della propria sveglia presenza è una purezza primordiale libera dai concetti e che la sua qualità co­ noscitiva è la natura spontaneamente presente. Si parla anche dei tre aspetti della sveglia presenza, vale a dire che è vuota in essenza, spontaneamente presente per natura e indivisibile in quanto vuota esperienza.

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La nostra essenza, che chiamiamo lo spazio basilare del dharma­ dhatu, è già vuota e non esistente sin dal principio. Nel medesimo

tempo, abbiamo una conoscenza naturale che è presente spontanea­ mente: questo è l'altro aspetto. I due aspetti sono le qualità principa­ li. Vale a dire, nell'istante in cui riconosciamo la condizione reale della nostra essenza, c'è una sveglia presenza spontanea che conosce o vede questa purezza primordiale. Perciò potete dire che la purezza primordiale e la presenza spontanea sono indivisibili, oppure, in al­ tre parole, che lo spazio basilare e la sveglia presenza sono indivisibi­ li. Tale indivisibilità è il senso dell'unicità, il quarto samaya. L'essen­ za è vuota ma anche per natura conoscitiva. Questi due aspetti sono indivisibili. La presenza spontanea non è creata in nessun modo. Ri­ peto che il samaya dell'unicità è l'indivisibilità di kadag e lhundrup. Dovete capire i samaya in questo modo: lo stato risvegliato del rig­ pa non è affatto un atto di meditazione o una creazione. Quando sie­ te perfettamente allenati, e questo stato diventa ininterrotto, c'è solo lo stato risvegliato del rigpa. È il momento in cui trascendete la divi­ sione tra il mantenimento e la rottura degli impegni. Quando supera­ te qualsiasi stato mentale, non c'è più nessun concetto di manteni­ mento o rottura. Siccome a questo punto l'esperienza è un continuo stato di rigpa, il praticante non deve aggrapparsi a nessun concetto di osservanza o non osservanza, mantenimento o non mantenimento, rottura o non rottura, riconoscimento o non riconoscimento. È ciò che la tradizione chiama ' trascendere il confine tra il mantenimento e la rottura dei samaya'. In breve, il senso dei quattro samaya della pu­ rezza primordiale e della presenza spontanea è che, oltre a riconosce­ re la natura della mente, non c'è nessuna 'cosa' da fare per mantene­ re il legame o il collegamento con lo stato risvegliato di tutti i buddha. Quando rimaniamo coinvolti nella mente dualistica, senza dubbio ci sono samaya da mantenere e samaya che possono essere rotti. Ma quando la mente concettuale si dissolve nello spazio della consape­ volezza non duale, non c'è più nessun samsara da abbandonare e nessun altro nirvana da realizzare. Ecco che trascendete i concetti di mantenimento e rottura. Fino ad allora, tuttavia, senza dubbio ci so­ no samaya da mantenere. Vi prego di non fraintendere questo punto. Vorrei che prendeste dimestichezza con tre parole tibetane: digpa, dribpa e bagchag; esse sono in rapporto con il nostro corpo, la parola e la mente. La prima, digpa, vuoi dire misfatto o cattiva azione. Si ri-

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ferisce alla condotta nociva, negativa, cattiva, come rubare, mentire o uccidere. Digpa crea karma negativo, e il coinvolgimento in tali azioni impedisce la realizzazione della natura di buddha. La seconda parola, dribpa, vuoi dire oscuramento, velo o copertura. Dribpa può essere paragonato ai muri di questa stanza: essi ci impediscono di ve­ dere ciò che accade all'esterno. La nostra visione è ostacolata. Que­ sti oscuramenti sono qualcosa di più sottile che ci impedisce di rea­ lizzare la natura così com 'è. Bagchag significa tendenza abituale, ed è ancora più sottile. Si può comprendere bagchag facilmente se si con­ sidera l'esempio dello stato di sogno. Qualsiasi cosa sembri accadere nel sogno scaturisce dalle tendenze abituali e non può essere afferra­ ta. Nulla è tangibile, eppure tutto può essere sperimentato. Questo genere di illusione che si verifica a un livello molto sottile viene chia­ mato tendenza abituale. Nondimeno, la nostra natura fondamentale, quella della sveglia presenza consapevole di sé, essenzialmente non può essere oscurata da digpa, dribpa o bagchag. È pura sin dal principio e rimane tale. A riprova di ciò, osservate il momento in cui siete coinvolti nel pensie­ ro concettuale, e siete felici o tristi, pianificate il futuro o ricordate il passato. Nell'istante in cui riconoscete la vostra natura, la vedete di nuovo come totalmente pura. La nostra natura permane non oscura­ ta e incontaminata dai misfatti, dagli oscuramenti e dalle tendenze abituali. Un attimo dopo, eccoci un'altra volta impegnati a pensare in una modalità dualistica, alle prese con il pensatore e il pensato, il soggetto e l'oggetto. Lasciandoci trascinare da tale dualismo, creia­ mo di nuovo karma negativo che oscura e dà origine a tendenze abi­ tuali. È inutile fingere l'opposto! Per liberarci dall'inconsapevole ed erroneo attaccamento alla dua­ lità che continua da sempre nel samsara, iniziamo a coltivare l'atten­ zione. L'attenzione, però, ha una precisa connotazione dualistica. Equivale a infilare un uncino in un pezzo di carne e tenerio lì. C'è un soggetto che tiene d'occhio l'oggetto. Poi c'è un livello più sottile chiamato vigilanza, che consiste nella semplice osservazione, ma an­ ch'essa è sottilmente dualistica. Ancora più sottile della vigilanza è la consapevolezza. Questo è il punto di separazione tra sem e rigpa. Sem, la condizione mentale dualistica, significa coinvolgimento nei pensieri del passato, del presente o del futuro. Rigpa vuoi dire sem­ plicemente non coinvolgimento nei pensieri dei tre tempi.

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La mente di buddha, rigpa, è l'indivisa vuota conoscenza. Quando ci rendiamo conto che è così e lo vediamo realmente, viene chiamata 'indivisa vuota conoscenza soffusa di consapevolezza'. 'Vuota' signi­ fica informe sin dal principio, non creata in base a nessuna causa e condizione, già vuota di qualsiasi sostanza concreta. 'Conoscenza' si­ gnifica che, anche se è vuota, la capacità di conoscere è presente spontaneamente. 'Indivisa' vuol dire che i due aspetti, la vacuità informe sin dal principio e la conoscenza presente spontaneamente, sono indivisibili. Sono sempre stati un'unità indivisibile, e tutti gli in­ segnamenti di tutti i buddha vertono su tale unità. In Kham c'è un detto: " Rotea il martello in aria, ma colpisci il pun­ to giusto sull'incudine" . L'incudine è dove si appoggia il ferro roven­ te. Potete agitare il martello, ma c'è un solo punto da colpire, là dove il ferro è incandescente. Se colpite qualsiasi altro punto, non potrete modellare il ferro, mentre il lavoro del fabbro consiste proprio in quello. Similmente, ci possono essere moltissimi dettagli nei diversi insegnamenti dei Siitra e dei Tantra, ma alla fin fine riguardano sol­ tanto un punto, che è l'indivisa vuota conoscenza soffusa di consape­ volezza. Vi prego di capire che la vuota essenza è il dharmakaya, la natura conoscitiva è il sal?lbhogakaya e la loro indivisibile unità è il nirma1Jakaya. Tale comprensione, nell'istante in cui si riconosce la propria essenza, non è dovuta alla concentrazione o alla meditazione. Quando semplicemente vi lasciate essere in questa natura, non avete bisogno di unire o fondere insieme la vacuità e la conoscenza: sono già un'unità. A questo punto non c'è una 'cosa' da fare o creare. Ecco il punto fondamentale di tutti gli insegnamenti del Buddha. È il punto vitale che va compreso, ed è anche ciò di cui dovrem­ mo avere esperienza. È proprio di questo che tutti gli esseri senzienti sono inconsapevoli. Quando c'è inconsapevolezza della vuota cono­ scenza indivisa, si afferma che è 'soffusa di inconsapevolezza' , di ignoranza. È come l'uomo che ha una gemma che esaudisce i deside­ ri, ma ignaro del suo valore, la getta via per raccogliere una finta gemma. Anche se esprimete ogni sorta di desiderio davanti a essa, non accade nulla. C'è un unico punto essenziale che include il modo di vedere, la meditazione, la condotta e la realizzazione, una sola frase che ho menzionato più volte: 'vuota conoscenza indivisa soffusa di consape­ volezza'. Solo questo è importante. La vuota conoscenza indivisa è la

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nostra natura fondamentale, ed è esattamente la stessa se siamo buddha o esseri senzienti. Ciò che fa la differenza è se è soffusa di consapevolezza o inconsapevolezza. La differenza consiste soltanto nel suo riconoscimento o non riconoscimento. Un comune essere senziente è inconsapevole della propria natura. I comuni esseri sen­ zienti sono 'vuota conoscenza indivisa soffusa di inconsapevolezza', coinvolta nei tre veleni. Uno yogi, un vero praticante, è qualcuno che è stato introdotto a tale stato naturale ed è 'vuota conoscenza indivi­ sa soffusa di consapevolezza', i tre kaya. Uno yogi non considera suf­ ficiente il riconoscimento. Senza l'allenamento, la forza di quel rico­ noscimento non sarà mai perfezionata, e non c'è stabilità. Uno yogi si allena fino alla perfezione, alla realizzazione dei tre kaya. Non accontentatevi soltanto di riconoscere la natura della mente, è anche essenziale che vi alleniate nel modo spiegato da Padma­ sambhava in questi quattro versi del Lamrim Yeshe Nyingpo: La vuota conoscenza dell'unico sapore, soffusa di consapevolezza,� è la vostra natura autentica, lo stato originario non modificato,� Senza alterare ciò che è, lasciate che sia così com'è,� e lo stato risvegliato è spontaneamente presente proprio ora.�

Così com 'è qui significa realmente. 'Realmente' vuoi dire vedere la condizione effettiva, non un'idea o un concetto. Riconoscendo la na­ tura del soggetto che pensa, si comprende che la vacuità e la cono­ scenza sono un'unità indivisibile. Il fatto non rimane più nascosto; viene sperimentato. Quando si lascia che questa realtà sia così com 'è, non è modificata in nessun modo. Allora lo stato di un buddha, lo stato risvegliato, proprio ora è spontaneamente perfezionato. Tutti gli oscuramenti si sono dissolti. Le parole di questi quattro versi di Padmasambhava stesso sono molto significative. Esse racchiudono il senso dell'allenamento al modo di vedere, alla meditazione, alla con­ dotta e alla realizzazione. Ripeto che non è sufficiente riconoscere la natura della mente co­ me vuota e conoscitiva. Dobbiamo allenarci a perfezionare la forza del riconoscimento. Ho già spiegato in cosa consiste tale allenamen­ to, ossia nel riconoscere più volte. Quando riconosciamo la vuota conoscenza indivisa, quello è il rigpa. Ma non è maturo: non è lo sta­ to adulto, è il rigpa bambino. Il livello di riconoscimento in cui ci

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troviamo ora è detto rigpa bambino. Deve crescere, perché al mo­ mento non sa essere autonomo o operare appieno. Dobbiamo cre­ scere fino allo stadio di un essere umano che ha 'sviluppato la forza', che ha raggiunto l'età di diciassette, diciotto o diciannove anni, è di­ ventato indipendente e sa badare a se stesso. Ecco la stabilità. Mfin­ ché ciò accada, dobbiamo allenarci spesso. È essenziale ! Nello Dzogchen la parola 'semplicità' è molto importante. Vuoi dire assenza di elaborazioni mentali, libertà dai concetti estranei. Un noto aforisma dice: Vedi la visione del non vedere. Allenati alla meditazione senza nulla su cui meditare. Metti in atto la condotta del non fare. Consegui la realizzazione in cui nulla viene realizzato.

Questo aforisma è incredibilmente profondo; è molto importante comprenderne con precisione il significato. Fa riferimento alla sem­ plicità, al non fare, alla non azione, al fatto che la nostra natura inna­ ta non è una visione da concepire come un nuovo punto di vista che si acquisisce in qualche maniera. Il vero modo di vedere non è affat­ to così. La complessità oscura la semplicità. In tutti gli altri veicoli, dal veicolo degli sravaka fino a quello dell'Anu Yoga incluso, ci sono principi da comprendere e oggetti da tenere a mente. Ci sono azioni da compiere e risultati da conseguire. Ma il modo di vedere, la medi­ tazione, la condotta e la realizzazione dell'Ati Yoga trascendono ogni cosa eccetto il riconoscimento di ciò che è presente sin dall'inizio co­ me la nostra natura. Questo veicolo consiste soltanto nel riconoscere che la propria essenza è già una vuota conoscenza indivisa. Perché immaginare la vacuità di ciò che è già vuoto? Non c'è alcun bisogno di concepire una vacuità che non è nient'altro che ciò che già è. Questo è il significato di "vedi la visione del non vedere" . Il verso successivo è : " allenati alla meditazione senza nulla s u cui meditare" . Meditare vuoi dire tenere qualcosa a mente. Dobbiamo tenere a mente la vuota conoscenza o invece riconoscere ciò che è già presente? E in ogni caso, come immaginare la vuota conoscenza? Non è necessario fare qualcosa di speciale; semplicemente vedete la realtà come già è.

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Riguardo al "mettere in atto la condotta del non fare", in tutti gli altri veicoli c'è qualcosa da fare con cui tenersi occupati, ma qui la condotta suprema consiste nell'abbandonare le nove attività. Si af­ ferma: "Non affannatevi a fare e ad agire" . Fare e agire indica un'at­ tività che implica soggetto e oggetto, e oscura lo stato della non azio­ ne. Si dice anche: "Essendo liberi dal fare e dall'agire, avete raggiun­ to il non fare". È il punto più importante. In questo insegnamento dobbiamo soltanto riconoscere lo stato originario della vuota cono­ scenza. In quell'attimo non c'è nessuna 'cosa' su cui concentrarsi, nessuno sforzo per realizzare alcunché. Tutti gli insegnamenti sono compiuti nella Grande Perfezione. Tutti i siitra iniziano con: "Nella lingua indiana il titolo è così e co­ sì" ; mentre la frase conclusiva è questa: " Qui termina il siitra intito­ lato così e così". La parola 'termina' significa 'finito, compiuto'. Vale a dire, quando si riconosce la natura della mente, tutti i veicoli sono compiuti. Grande Perfezione significa che la nostra stessa natura è già totalmente perfetta. Non dobbiamo purificare la nostra vuota es­ senza; è pura sin dal principio. Non dobbiamo far sì che la nostra natura basilare sia conoscitiva; è già spontaneamente perfezionata come conoscitiva. E non deve essere costruita neppure la capacità che tutto pervade. Sinceramente, come potreste creare la vuota co­ noscenza o la natura conoscitiva? Sono presenti spontaneamente, senza alcuno sforzo. Allenatevi a questa assenza di sforzo !

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Integrare la pratica con la vita quotidiana

Come integro la pratica con la vita quotidiana? Nel comune sistema buddhista di solito c'è una diffe­ renza tra lo stato della meditazione e quello post-meditativo. Nel contesto del sistema del Siitra lo stato della meditazione è come lo spazio, mentre quello post-meditativo è come l'illusione della magia. Uno, lo stato della meditazione, è considerato una seduta; l'altro è l'interruzione della seduta. Durante la seduta si pratica; con l'inter­ ruzione della seduta ci si muove, si parla, si mangia e si dorme. In questo modo lo stato della meditazione durante la seduta con­ siste nell'essere liberi da elaborazioni mentali, come lo spazio. Lo stato post-meditativo è paragonato alle otto analogie dell'illusione. La prima è la metafora di un mago che può evocare cose irreali gra­ zie a mantra e sostanze magiche. li mago crea persone, esseri ed edi­ fici che sembrano realmente esistenti. Non hanno nessuna esistenza concreta, eppure vengono sperimentati dagli astanti, i quali credono nella realtà di queste illusioni. Tuttavia, la verità è che si tratta sol­ tanto di una creazione magica. Ogni cosa, tutta la nostra realtà quo­ tidiana, è come una creazione magica. Le altre analogie dell'illusione sono l'eco, un miraggio, un riflesso, una città di Gandharva, un so­ gno, un arcobaleno, e la luna che appare nell'acqua. Tali illusioni so­ no esempi di come gli esseri senzienti credono ingannevolmente nel­ la realtà dei fenomeni. Secondo il sistema del Siitra, durante lo stato post-meditativo si dovrebbe sovrapporre l'idea dell'illusione magica a tutto ciò che vie­ ne sperimentato nel corso delle attività della vita quotidiana ricorSTUDENTE:

RINPOCHE:

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dandosi che " questo non è nient'altro che un sogno, è irreale" . Ci si allena a considerare tutta l'esperienza come caratterizzata da questa non sostanzialità. L'allenamento durante le sedute consiste nel non trattenere nulla nella mente. Perciò si insegna che lo stato della me­ ditazione è non elaborato come lo spazio, mentre lo stato post-medi­ tativo è come l'illusione della magia. Nel contesto del modo di vedere della Mahiimudrii, dello Dzog­ chen e della grande Via di Mezzo, non si fa nessuna distinzione es­ senziale tra le sedute e le interruzioni. Non dovete dividere la pratica, facendo una pratica per lo stato della meditazione e un'altra per lo stato post-meditativo. Qui lo stato della meditazione continua finché non ci si distrae dalla consapevolezza, per cui si ritorna allo stato po­ st-meditativo. In realtà, l'allenamento è lo stesso, senza considerare se uno sta seduto, cammina, parla, è sdraiato o si muove. Nell'istante in cui vi ricordate di riconoscere l'essenza della mente, vedete subito com'è. Vedete la vacuità. Ecco, proprio quello è il modo di vedere. Non ha nessuna importanza se riconoscete l'essenza mentre siete in piedi o sedete, mentre mangiate, parlate o vi muovete. La seduta consiste nel non essere distratti, l'interruzione nell'essere distratti. Non create nessuna divisione tra il riconoscimento dell'essenza durante la seduta e le interruzioni. Rimanete nel modo di vedere non distratto, nel rigpa, per tutto il tempo e in tutte le attività. La pratica, come affermo spesso, consiste in brevi momenti ripetuti più volte. Ciò che adesso potrebbe durare a lungo è la costruzione di una stato di meditazione simile allo spazio. Non costruite nulla; rimanete nella naturalezza. In questo allenamento non è necessario mantenere un concetto della naturalezza. E un allenamento allo stato della medita­ zione naturale, che è soltanto lo stato originario della vuota cono­ scenza sconfinata. Il modo di vedere è sin dal principio vuoto e co­ noscitivo; è l'indivisibilità del vuoto e della conoscenza. Sin dal prin­ cipio, la qualità vuota è il dharmakaya, la qualità conoscitiva è il saf!Z­ bhogakaya, e la loro unità viene chiamata nirma1Jakaya. Abituatevi a riconoscere la vuota conoscenza in ogni momento. Lo stato originario non è una nostra creazione. Questa compren­ sione è il perfetto modo di vedere. Non sto dicendo che tale modo di vedere è buono, mentre non lo sono altrettanto i modi di vedere dei veicoli inferiori; però c'è una differenza riguardo al grado di con­ cettualizzazione del modo di vedere. Si potrebbe dire convinti:

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"Questo è lo stato della meditazione! Con ogni probabilità questa è la vacuità" . Invece è la sovrapposizione della vacuità alla propria esperienza. In altre parole, non è lo stato naturale così com 'è. Simil­ mente, ricordarsi durante le attività della vita quotidiana che "è tut­ to un'illusione magica" , è ancora un concetto. L'attaccamento a un particolare concetto è paragonabile a un uc­ cello che sbatte le ali cercando di volare, ma senza riuscirei, perché è legato da una catena. L'allenamento a questo vero modo di vedere non consiste nel mantenere concetti, per quanto sottili siano. Si trat­ ta di riconoscere ciò che è già presente di per sé. L'essenza della no­ stra mente è per natura vuota e conoscitiva; non è una nostra crea­ zione. Non è necessario mantenerne un concetto. In altre parole, quando vi ricordate di riconoscere l'essenza, vedete subito che non c'è niente da vedere. Eccola. In altri momenti ci si dimentica e la consapevolezza dell'essenza viene meno. Prima di tutto dobbiamo riconoscere la sveglia presenza sponta­ nea. Piano piano, dobbiamo ripetere gli istanti di naturalezza non al­ terata, sviluppando la forza del riconoscimento. Quando conseguia­ mo la stabilità, l'assenza di distrazione continua per tutto il giorno e la notte; lo spazio e la consapevolezza si sono fusi. La nostra mente è stata dominata dall'attaccamento dualistico e dalla fissazione così a lungo che abbiamo finito per considerare dualità ciò che è non dua­ lità. Perciò è difficile abituarsi subito allo stato risvegliato. Ci siamo allenati a fare l'opposto del riconoscere l'essenza della mente, e que­ sto è esattamente ciò che è stato il samsara in tutte le nostre vite pas­ sate, fino a questo momento. Abbiamo questa abitudine negativa e profondamente radicata. Adesso dobbiamo trasformarla nell'abitu­ dine a riconoscere l'essenza della mente. Per un principiante la dura­ ta del riconoscimento è molto breve, perciò dobbiamo ripeterlo mol­ te volte. Per ripetere il riconoscimento dell'essenza non dovete ne­ cessariamente sedervi a terra. Non fate nessuna distinzione tra l'alle­ namento da seduti e quando vi muovete nelle situazioni della vita quotidiana, mentre camminate, parlate, mangiate e siete distesi. Non limitate la pratica alle sedute. n modo di vedere è rigpa, l'allenamen­ to della meditazione è rigpa, e la condotta è rigpa. Questo è il modo di abituarsi allo stato risvegliato. Dobbiamo prendere dimestichezza con il rigpa. Dobbiamo alle­ narci alla realtà effettiva. Per ora la visione dell'essenza della mente

Integrare la pratica con la vita quotzdiana

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non può durare a lungo, perché siamo principianti rispetto al rico­ noscimento della sveglia presenza spontanea. Qualsiasi successo nel mantenere a lungo lo stato meditativo non è che un'imitazione, una costruzione, ed è proprio ciò a cui non dobbiamo allenarci. Invece, ripetete più volte i brevi momenti di vera sveglia presenza. Avendo frequentato la scuola, sapete che l'apprendimento dipende dall' ap­ plicazione. All'inizio era difficile, poi è diventato più facile. Qualsiasi allenamento è analogo. Noi, così come tutti gli esseri senzienti, pur avendo la natura di Samantabhadra, abbiamo preso abitudini negati­ ve. Siccome non lo sappiamo, siamo dominati da tendenze abituali, come nell'esempio delle esperienze oniriche o dell'errare nel bardo. Le tendenze abituali sono paragonabili a coperte; quindi possono es­ sere tolte. Se volete integrare questa pratica con la vita quotidiana, non fate differenze tra le sedute e le interruzioni. Interruzione o stato post­ meditativo vuoi dire essere distratti, finire in balia della distrazione che distoglie dallo stato naturale, come esemplificano gli otto tipi di illusione. Analogamente a tali illusioni, anche l'intero samsara è pri­ vo di sostanza ed è insensato perseguirlo. La caratteristica principale del samsara è la distrazione. Si insegna sempre che il modo di vedere è al di là dei concetti, che la consapevolezza naturale non è elaborata. Il modo di vedere della Prajiiaparamita, il modo di vedere della grande Via di Mezzo, della Mahamudra e dello Dzogchen sono tutti privi di concetti. Non coin­ cidono mai con il modo di vedere concettuale di una persona comu­ ne, che è l'incessante creazione di pensieri, giorno e notte. Si afferma che "non c'è risveglio tramite il fare" . La vostra mente vi incatena; la mente concettuale attacca concetti a qualsiasi cosa venga percepita. Ma il puro modo di vedere stesso deve essere libero dai concetti mantenuti nella mente. Questa sveglia presenza dell'attimo è priva di concetti. Voi dovete riconoscere la sveglia presenza dell'attimo nel momen­ to in cui il passato è cessato e il futuro non è arrivato. Non ricoprite la sveglia presenza dell'attimo con un altro pensiero. Gli esseri sen­ zienti lo fanno di continuo: ogni nuovo pensiero è seguito dal suc­ cessivo e poi da un terzo, ininterrottamente. Non collegate nulla al­ la sveglia presenza dell'attimo. Non accettate né rifiutate. Non affer­ mate e non negate. Non accogliete né evitate. Rimanete senza tratte-

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nere alcunché: questo viene chiamato essenza della mente. Potete chiamarla rangjung yeshe, sveglia presenza spontanea, oppure pote­ te dire che è il modo di vedere della Mahamudra. La Via di Mezzo la chiama verità ultima. Mentre la verità convenzionale sta a signifi­ care la condizione concettuale della mente, verità ultima vuoi dire realtà autentica. Viene anche chiamata conoscenza trascendente, prajfiiipiiramitii. Nello Dzogchen è conosciuta come 'l'immacolato dharmakiiya della vuota consapevolezza'. Se gli insegnamenti del Dharma non utilizzassero parole e nomi, non ci sarebbe nulla da di­ re, giusto? Il significato viene rivelato tramite parole e nomi. Se vi li­ mitate a stare seduti gesticolando come un muto, non possiamo co­ gliere il punto ! Come disse Saraha: "Abbandonando il soggetto che pensa e ciò che è pensato, sperimentate come un bimbo privo di pensieri" . Un bambino piccolo non ha molti concetti, anche se non vede la pro­ pria natura, oppure la vede ma non ne ha la certezza. La radice del­ la creazione dei concetti sta nel trattenere nella mente ciò che viene percepito. Per esempio, potreste pensare: "Questa è una tazza. C'è un coperchio. È ricoperto di disegni. Contiene ancora un po' di tè" . Questa serie di pensieri viene chiamata fissazione sul percepito tra­ mite l'attività mentale, il movimento mentale. Lo yogi, invece, nel­ l'istante in cui vede una tazza, riconosce la natura della mente che vede la tazza. Così cessa la produzione di concetti, e nella sua men­ te non c'è nessuna fissazione su alcunché. Quando svaniscono i concetti sia del soggetto sia dell'oggetto, cessa il samsara. Speri­ mentarlo realmente vuoi dire stabilire il modo di vedere. Se non trattenete nessun concetto tanto del soggetto quanto dell'oggetto, è sufficiente. Come un bimbo di un anno, che impara a camminare, non siamo ancora abituati a questo stato privo di concetti; lo siamo solo un po'. Il bimbo si alza sulle gambe e poi cade; si alza di nuovo e ricade. Adesso la nostra pratica è simile, perché la stabilità innata non è an­ cora diventata una realtà effettiva. Quando avete due anni siete più stabili, e a tre anni lo siete ancora di più. A diciotto anni avete otte­ nuto la stabilità; siete adulti. Avete la capacità di correre o di fare tutto ciò che volete. Il raggiungimento della maturità nell'allenamen­ to viene indicato come 'la realizzazione della stabilità naturale del

rigpa'.

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Quando non c'è più nessuna distrazione per tutto il giorno e la notte, siete molto vicini al trono dharmakaya della non meditazione. Potete sedere insieme al Buddha Samantabhadra nel palazzo dhar­ makaya di Akani�tha. n beneficio per gli altri esseri che scaturisce da questo stato è spontaneo e automatico. Non avete bisogno di dire: "Adesso io voglio beneficare gli esseri " . Questo pensiero non è ne­ cessario. È come quando risplende il sole: non dovete render/o caldo e luminoso, vero? Il sole lo è naturalmente quando risplende. Nel momento in cui conseguite la stabilità, potete davvero beneficare un numero infinito di esseri senzienti. Una volta realizzata la natura del dharmakaya, è come il sole libero da nubi. n suo splendore, il calore, la luce, rifulge spontaneamente ovunque nel mondo. Quando si rea­ lizza il dharmakaya per il proprio beneficio, il beneficio degli altri è privo di sforzo. Questa realizzazione spesso è descritta come glorio­ so splendore, in sanscrito si dice Hi, in tibetano palden. La propria gloria consiste nel realizzare il dharmakaya. Manifestare il corpo del­ la forma, il riipakaya, costituisce la gloria per gli altri. Ecco perché i buddha vengono chiamati 'gloriosi buddha'. Nel frattempo, affrontando le vostre faccende quotidiane vi di­ straete, non c'è modo di evitarlo. n dharmakaya è in noi, ma siccome non abbiamo stabilizzato il suo riconoscimento, rimaniamo coinvolti nei pensieri. Nondimeno l'essenza dei pensieri, quando viene ricono­ sciuta, è il dharmakaya. Un pensiero è soltanto l'espressione della co­ noscenza, della consapevolezza, ma è un'espressione rivolta all'ester­ no. Nell'istante in cui si riconosce la natura del soggetto che pensa, non c'è modo che questa espressione, il pensiero, continui a manife­ starsi. In quel momento la vostra nuda essenza è una realtà. In questa esperienza il pensiero non può continuare, proprio come una goccia d'acqua non può rimanere a mezz'aria. Quando avete preso dimesti­ chezza con questo modo di affrontare un pensiero, non avete biso­ gno di eliminare l'attività del pensiero. Non avete bisogno di correg­ gerla. Non avete bisogno di sperare di ottenere lo stato risvegliato o di temerne la perdita. Perciò si afferma che 'la convinzione del modo di vedere è libera dalla speranza e dal timore'. Non dovete sperare di essere liberi dai pensieri o temere di averne, perché nell'istante in cui vedete l'essenza, il pensiero si dissolve. Capite? È chiaro? Non aspettatevi mai di sperimentare qualcosa di straordinario. Sinceramente, nulla è più sorprendente del riconoscimento del rigpa

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in cui non può rimanere nessun pensiero. I cinque veleni e le ten­ denze abituali di fronte al rigpa diventano impotenti. Se non lo co­ nosciamo rimaniamo intrappolati nel pensiero. La maggior parte de­ gli esseri senzienti non sa riconoscere il rigpa e viene trascinata dai pensieri. Nell'istante in cui vi ricordate di riconoscere l'essenza della mente, l'avete già vista. "Non vedere nulla è la somma visione " . È così vicina che è difficile crederci. Non è un atto di immaginazione. Essendo così facile, è difficile esserne convinti ! Non c'è assoluta­ mente nulla da coltivare con la meditazione. Eppure dobbiamo abi­ tuarci, abituarci a riconoscere questa natura di vuota conoscenza. Allenatevi così per il resto della vita, e non avrete nessun timore della morte. Un vero yogi è felice nella malattia ed è lietissimo al mo­ mento della morte. Perché dovreste essere felici di ammalarvi? Per­ ché quando morite diventate illuminati. Di solito non si muore senza prima ammalarsi, e senza la morte il corpo non se ne va. Grazie a questa pratica, nell'ora della morte la sveglia presenza originaria svincolata dalla mente dualistica sarà come un garuçla che vola libe­ ro. La vostra mente, in quanto sveglia presenza originaria, si fonderà con il dharmakaya. E voi giungerete al trono regale del dharmakaya; avrete conquistato il regno del dharmakaya. Attualmente gli esseri senzienti hanno conquistato il regno della stupidità. Quando questo vagare inconsapevole ha fine, non c'è nient'altro che il regno della sveglia presenza originaria. Finché ciò non accade, il re Ignoranza ha cinque ministri, i cinque veleni. I loro rappresentanti sono i ventuno eventi mentali non virtuosi e gli ottan­ ta stati di pensiero innati. I sudditi sono le 84.000 emozioni distur­ banti. Questo tiranno governa il regno del samsara senza fine. Noi tutti viviamo in questo regno, e pensiamo che sia fantastico ! Tuttavia, al momento della morte perdiamo completamente il controllo. Tutti i nostri beni sono perduti; tutto ciò che abbiamo fat­ to va in rovina e non ci può aiutare in nessun modo. Quando moria­ mo la mente continua tutta sola, come un capello tolto dal burro. Es­ sa viaggia e viaggia, senza alcuna libertà di scegliere dove stare, dove andllre. ll regno della stupidità è davvero un luogo senza speranza. Eppure, sebbene sia infruttuoso, ci attacchiamo a esso. È impossibi­ le perfino essere realmente felici; non abbiamo nessun controllo sul nostro destino. Se lo controllassimo, potremmo rimanere così come siamo nel vasto palazzo della stupidità. Ma siccome non c'è nessuna

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libertà, il grande regno della stupidità non è di alcun aiuto. Se questa ignoranza non cessa, nulla è di aiuto, niente è di alcun beneficio. Certamente c'è qualche beneficio temporaneo nel compiere buone azioni virtuose, ma "a meno che non conosciate il segreto punto chiave della mente, qualunque cosa facciate è un pasticcio" . n punto chiave della mente è essere liberi dai pensieri dei tre tempi, rimanere nella sveglia presenza dell'attimo, non costruita e aperta. Se non co­ noscete questo punto, qualsiasi cosa facciate è un pasticcio. C'è un proverbio Khampa: " Non serve unire le palme in segno di riverenza mentre cadete all'indietro " . In altre parole, se l'ignoranza non viene eliminata dalla nostra condizione basilare, continueremo a ritornare nell'esistenza samsarica. C'è una sola cosa indispensabile, ed è il guardiano chiamato atten­ zione, la sentinella che sta in guardia per avvertirci quando ci lascia­ mo trascinare nella disattenzione. Come sapete, "sulla via della distra­ zione i briganti Mara stanno in agguato" . Possiamo pensare che ci siano spiriti cattivi pronti ad assalirci, ma il vero Mara è questa mente distratta. È come afferma il noto detto: "Quelli che ostacolano sono i vostri stessi pensieri; è dalla vostra mente che scaturiscono quelli che ostacolano" . Quando siete privi di distrazione per tutto il giorno e la notte, nessuna forza ostacolante può riuscire a dominarvi" . In breve, la capacità di integrare il riconoscimento dell'essenza della mente con la vita quotidiana deriva soltanto dall'allenamento. Senza allenamento il riconoscimento dell'essenza della mente è solo una visione fugace che svanisce subito. Possiamo riconoscerla di nuovo, ma svanisce ogni volta. Continuiamo a dimenticare, a distrar­ ci. La nostra radicata abitudine a non riconoscere l'essenza della mente, rinforzata in tutte le vite passate, è semplicemente troppo po­ tente. In definitiva non c'è nessun'altra soluzione che allenarsi nel modo già indicato: brevi momenti ripetuti molte volte. Che voi se­ diate o camminiate, l'allenamento in essenza è lo stesso: brevi mo­ menti molte volte. Se non li ripetiamo molte volte, non potremo mai abituarci. È importantissimo riconoscere ripetutamente l'essenza. Acquisendo sempre più dimestichezza con il riconoscimento, e quin­ di sempre più stabilità, la durata di questi momenti aumenterà in modo naturale. I periodi di non riconoscimento diventeranno sem­ pre più brevi e diminuiranno. L'allenamento a ricordarsi di ricono­ scere è cruciale, finché non c'è un periodo continuo, ininterrotto, di

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sveglia presenza originaria che viene chiamato lo stato della comple­ ta illuminazione. Fino a quando ciò non accade, avete bisogno di al­ lenarvi ripetutamente. Il modo in cui ci si allena ora consiste nel ricordarsi di riconosce­ re l'essenza durante le attività quotidiane. Questa attenzione o 'pie­ no ricordo' è il cuore della pratica del Dharma. Man mano che di­ ventate sempre più stabili nell'attenzione, e nel riconoscere l'essenza della mente durante le attività quotidiane, mentre camminate, man­ giate, vi stendete per dormire, e così via, siete in grado di ripetere il riconoscimento con maggior frequenza. Tuttavia, se non cercate di ricordarvi di riconoscere, non c'è riconoscimento. E senza riconosci­ mento siete del tutto inconsapevoli di cos'è veramente la vostra na­ tura di buddha. Vivere in questa sorta di oblio equivale a essere co­ me un cadavere, uno zombi incosciente. Senza le qualità dell'illumi­ nazione pienamente perfezionate, possiamo sembrare degli esseri umani, vivi e svegli, ma finché ignoriamo la nostra natura, in realtà siamo degli zombi. Mi dispiace dirlo, ma tutti gli esseri senzienti so­ no simili a cadaveri che camminano. (Rinpoche ride.) S T U D EN T E : Come eliminiamo le emozioni negative molto vio­ lente? RI N P O C H E : Se sapete come farlo, un'emozione può essere elimi­ nata in un secondo; non per sempre, è ovvio, ma in quell'istante è svanita completamente. Ogni emozione è un pensiero, e ogni pensie­ ro è la mente che si muove. Quando pensate, la vostra attenzione si muove verso un oggetto, quindi verso un altro, poi un terzo, giusto? La radice stessa dell'emozione è la vostra attenzione in movimento. Per tagliare la radice di questo movimento dovete vedere da dove l'attenzione si muove. In quel medesimo istante, la rabbia o il desi­ derio si dissolvono immediatamente. Quando lo vedete davvero, non c'è nessun pensiero, ma soltanto la sveglia presenza libera da pensie­ ri. Nel momento in cui si riconosce l'essenza vuota per natura, il pensiero si dissolve. Poi appare un altro pensiero, di nuovo c'è il ri­ conoscimento, e il pensiero svanisce. Per esempio, vi arrabbiate: riconoscete chi si arrabbia e la rabbia si dissolve. Applicando questo allenamento, piano piano, la vostra propensione ad arrabbiarvi si indebolisce sempre più. E lo specchio della vostra mente diventa più limpido. Qualunque sia il pensiero, in quel momento riconoscete il soggetto che pensa. È come spolverare

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una piccola parte di uno specchio. Potete vedere chiaramente il vo­ stro riflesso solo dove avete tolto la polvere. Jamgon Kongtriil ha detto a questo riguardo: "Nel pensiero ho scoperto il non pensiero. Nel non pensiero ho scoperto la sveglia presenza originaria" . Quan­ do uno specchio è ricoperto di polvere, non vedete nessuna immagi­ ne. Se prendete un ago e con la sua punta togliete una piccola quan­ tità di polvere, potete vedere una minuscola porzione di specchio. n nostro pensiero ignorante è come la polvere sullo specchio. Più spol­ verate lo specchio, e più chiara diventa l'immagine. Quando sapete come riconoscere l'essenza in un pensiero, la pro­ cedura è la stessa per qualsiasi altro pensiero. È come quando si reci­ ta il testo di una puja: se alcuni versi ritornano uguali alla fine di cia­ scuna strofa, il testo non li ripete ogni volta, ma si limita a indicarlo dicendo 'eccetera'. Non avete bisogno di leggerli ogni volta, perché li conoscete già. Lo stesso vale per il riconoscimento dell'essenza del­ la mente. Non dovete seguire ogni volta un processo faticoso; sem­ plicemente riconoscete, ed è tutto lì. n pensiero gradualmente diven­ ta sempre più debole e sorge sempre meno. Così la durata degli in­ tervalli tra i pensieri aumenta sempre più in modo naturale. La stabi­ lità naturale si estende da sé: diventa un minuto, alcuni minuti, un'ora, un paio d'ore. Tutto questo deriva gradualmente dall'allena­ mento. A un certo punto i cinque veleni vengono eliminati per sem­ pre. "Non ci sono pensieri, ma ogni cosa è conosciuta chiaramente" . Quando siamo privi d i pensieri, come può sorgere uno qualunque dei cinque veleni? Qual è la questione in questo momento? Dovete semplicemente abituarvi al processo di dissoluzione dei pensieri tramite l'allena­ mento. Quando un'emozione è molto potente, potete affermare che è del tutto impossibile riconoscere la sveglia presenza originaria? No, certo che no. La dissoluzione funziona indipendentemente dalla potenza di una particolare emozione. Voi non siete stabili al cento per cento, ovviamente. Chi lo è adesso? È come nell'esempio che ho fatto prima: siamo simili a un bimbo di un anno che cerca di cammi­ nare; si alza e subito ricade. Non siamo allenati perfettamente. Ab­ biamo solo avuto il riconoscimento; non abbiamo perfezionato la forza. Non siamo cresciuti. Quando cresce, il bambino diventa indi­ pendente. Noi siamo come un bimbo che non ha molta forza e che si sta soltanto orientando.

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Quando riconoscete l'essenza della mente, non c'è niente da vede­ re. Se ci fosse qualcosa e voi non riusciste a vederla, potreste esserne rattristati. Ma si afferma che "non vedere nulla è la somma visione". Non c'è niente da vedere: è soltanto questo che dovete vedere. Siete d'accordo? Questo è essere d'accordo, in tibetano si dice letteral­ mente 'toccare le corna', che significa restare in contatto. Se ci fosse un'unica testa, le corna non si toccherebbero, giusto? Voi non siete in contatto con un altro. Quando dico: "Non c'è niente da vedere, la mente è vuota", se riconoscete l'essenza della vostra mente e vedete che non è una 'cosa', allora le nostre corna si sono toccate. S e il Buddha avesse detto: "La vacuità ha forma, odore, sapore, sensazione tattile, e così via" , e noi guardassimo ma senza vedere nulla, allora di sicuro saremmo nei pasticci. Non avremmo ancora compreso il suo insegnamento. Ma non l'ha detto. Il Buddha ha det­ to: "La vacuità non ha forma, suono, odore, sapore, sensazione tatti­ le" , vero? Per quanto noi cerchiamo la mente, non scopriamo mai che ha forma, suono, sapore, odore o sensazione tattile, vi pare? Non vedere niente nell'istante del riconoscimento vuol dire 'essere in contatto' con il Buddha. Quando lo vedete davvero, rimanete senza parole. È semplice­ mente al di là del pensiero, della parola e della descrizione. Potete descrivere com'è? Allenatevi soltanto a questo non vedere nulla; non tralasciatelo. Dovete vedere ripetutamente che non è una cosa da ve­ dere. Lasciate che sia così com'è naturalmente. Allora, inizierà da sé a durare di più. Invece, se cercate di estenderne la durata deliberata­ mente, diventa concettuale. Non estendetene la durata intenzional­ mente, e non interrompetela neppure. Il modo di vedere dovrebbe essere libero dal concetto, giusto? Sedersi a congetturare non aiuta a liberarsi dai concetti. S T U D E N T E : Cosa dovremmo fare riguardo al sottile attaccamento che non scompare quando si riconosce l'essenza della mente? R I N P O C H E : Se riconosci davvero lo stato del rigpa, in modo ge­ nuino, in quel momento non può rimanere nessun pensiero, nessuna emozione disturbante o tendenza abituale. Considera per esempio il ricordo di una canzone; è una tendenza abituale o impronta. Il rigpa di per sé ne è libero. Se sembra tali impronte non si dissolvano, ciò è dovuto alla mancanza di stabilità nel rigpa. L'acqua versata nella ter­ ra si mescola con essa. Se vi versate del mercurio, invece, non si me-

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scola affatto; rimane intatto, incontaminato. Il rigpa è come il mercu­ rio; non si mescola con le tendenze abituali. Ma è possibile speri­ mentare qualcosa che assomiglia al rigpa ed è mischiato con la men­ te dualistica. È come la polvere della mente dualistica. Il rigpa non è coinvolto né nell'oggetto percepito, né nell'organo sensoriale attraverso il quale ha luogo la percezione. Non è coinvol­ to nella mente percettiva dualistica. Il rigpa non è mai coinvolto in nulla; perciò viene descritto come il dharmakiiya immacolato, vale a dire senza difetti. Se il rigpa fosse minimamente influenzato da qual­ che tendenza abituale, non lo si chiamerebbe senza difetti. Rigpa si­ gnifica lo stato che è totalmente incontaminato da qualsiasi oscura­ mento, karma negativo o impronta abituale, proprio come il mercu­ rio che non è influenzato da qualunque cosa tocchi. I tantra dello Dzogchen distinguono tra sem e rigpa, insegnando che il rigpa è come il mercurio, mentre la mente dualistica (sem) è come l'acqua. Gli oggetti percepiti, gli organi sensoriali e la condi­ zione mentale che percepisce sono come la terra. Il mercurio non vi rimane irretito, non vi rimane coinvolto in nessun modo. Esso rima­ ne separato, non influenzato. Ma non appena la condizione mentale dualistica, simile all'acqua, tocca la terra, si mescola con essa e di­ venta fango. Il rigpa è per natura stabile; non è coinvolto nella dua­ lità di soggetto e oggetto. Il sem, come l'acqua, non possiede una sta­ bilità innata. L'acqua, non appena la versate sulla terra, vi penetra completamente. In ogni essere senziente c'è la mente. L'essenza della mente, sia es­ sa conosciuta o no, è rigpa. Gli esseri senzienti possiedono sia la mente sia il rigpa. Un vero yogi, un praticante di questa via, abban­ dona la condizione mentale dualistica, lasciando che rimanga lo sta­ to del rigpa mentre il sem svanisce. Al monastero femminile di Shuk­ seb, nel Tibet centrale, la grande maestra Ani Lochen, ogni volta che qualcuno chiedeva le sue benedizioni, esprimeva un solo augurio. Toccando la testa delle persone con un oggetto che teneva in mano, diceva queste parole: "Possa tu riconoscere l'essenza della mente" . L e ripeteva a ogni persona che benediceva: "Possa tu riconoscere l'essenza della mente". Diceva sempre la medesima cosa. Non diceva mai: "Possa tu riconoscere la mente" , intendendo sem. Diceva sem­ pre: "Possa tu riconoscere l'essenza della mente" . In altre parole, possa tu non essere più intrappolato nella mente dualistica, come

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l'acqua che penetra nella terra, bensì possa tu essere stabile per na­ tura, come il mercurio. È essenziale distinguere tra sem e rigpa. Se rimani intrappolato nel sem, allora sei un semchen, che significa essere senziente; ma se pa­ droneggi il rigpa sei un rigpa dzinpa, che vuoi dire vidyadhara, un de­ tentore di conoscenza. Padmasambhava ha conseguito i quattro li­ velli di vidyadhara. n primo è il cosiddetto livello del vidyadhara del­ la completa maturazione. Il secondo è il livello del vidyadhara che padroneggia la vita. Il terzo è il vidyadhara della Mahamudra. Il quarto viene chiamato vidyadhara della perfezione spontanea. È in questo modo che si progredisce lungo la via.

9 Il dubbio

Cosa dire del dubbio? Come dovrei trattarlo? Chiunque tu sia, finché non raggiungi la prima bhu­ mi, sei ancora una persona comune e a volte sperimenterai il dub­ bio. Quasi tutti nutrono dei dubbi. Tuttavia, c'è qualche dubbio che sia separato dal pensiero? È semplicemente un altro pensiero. E se tu riconosci la natura del soggetto che pensa, quel pensiero non può più rimanere. Scopri la natura di chi pensa, ed ecco che hai conquistato il tuo dubbio. Non hai bisogno di nessun altro antido­ to. In ogni persona possono sorgete tutti i diversi tipi di dubbio, e questo a prescindere da chi tu sia. Finché non raggiungi la certezza in merito allo stato naturale, è facile che tu rimanga irretito nel dub­ bio. Potresti pensare: " Sto confondendo ciò che non è per ciò che è? " , oppure: "Ciò che ho compreso non è la vera realtà ultima. For­ se c'è qualcosa di meglio, qualcosa di immutabile, che devo ancora . scopnre " . Devi comprendere chiaramente che il dubbio è soltanto un altro pensiero. Se riconosci la sua essenza, il pensiero svanisce in modo naturale. Il pensiero non può rimanere nel riconoscimento dell'es­ senza. Ogni forma di fissazione svanisce completamente. L'assenza di fissazione, di attaccamento, rivela naturalmente la sveglia presenza dell'attimo. n pensiero non può rimanere; per sua stessa natura esso svanisce non appena si riconosce l'essenza della mente. n nostro sta­ to fondamentale è quello della vuota conoscenza sconfinata. Il pen­ siero non è una parte intrinseca della natura di buddha, non può es­ serlo in nessun modo. Nella natura di buddha non ci sono pensieri. S T U D ENTE:

RI N P O C H E :

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Se poteste individuare con precisione la qualità vuota e quella cono­ scitiva proprio qui, avreste ragione a dire che c'è un rimedio concre­ to al pensiero concreto. Noi creiamo i pensieri, e creiamo il rimedio. Il rimedio ultimo consiste nel non creare nulla. Il riconoscimento dell'essenza della mente, della vuota conoscen­ za naturale, elimina la base che consente ai pensieri di rimanere. Per un meditante, il modo più efficace di trattare il dubbio, anziché cer­ care di risolverlo con risposte intellettuali o applicare qualche anti­ doto per contrastarlo, consiste nell'utilizzarlo come rimedio a se stes­ so. Riconosci la natura di ciò che dubita, l'identità di chi pensa. L'origine di qualsiasi pensiero è la stessa: il pensiero scaturisce dalla vuota conoscenza. Non appena riconosci lo stato originario, il dub­ bio non è in grado di rimanere come un'entità concreta, una sorta di massa sospesa a mezz'aria. Semplicemente svanisce. È naturale che sorgano dei dubbi. Tu puoi pensare: "Il mio guru ha parlato di uno stato del rigpa, e il mio stato non sembra lo stesso. Mi domando cosa sia, perché questo stato non è quello giusto. For­ se il mio modo di vedere è sbagliato " . È un dubbio che può conti­ nuare per giorni. "Forse dovrei andare in India, ovunque pur di non restare qui". Possiamo avere tutti questi diversi pensieri. Per­ ché no? La nostra natura di buddha adesso è intrappolata in questo corpo di skandha e ayatana, aggregati e basi sensoriali. A causa di tali circostanze attraversiamo dei cambiamenti; siamo irretiti nel samsara. Quando il dubbio cerca di bloccarti, devi renderti conto che non è nient'altro che un pensiero. Ripeto che i pensieri scaturiscono dalla sveglia presenza non concettuale. Quando riconosci questa base di sveglia presenza non concettuale, il pensiero si dissolve. Se possiamo rimanere nella nostra vuota conoscenza sconfinata, tutti i pensieri, incluso il dubbio, semplicemente svaniscono. Se sorge un dubbio, ri­ conosci chi dubita. Così vedrai l'essenza. Quando prendi dimesti­ chezza con il riconoscimento, allora hai fiducia in te stesso. Hai con­ quistato il dubbio. Capirai per conto tuo. Non devi temere il dub­ bio. E non devi neppure pensare: " Non voglio preoccuparmi del dubbio" . Questo è soltanto un altro pensiero. È come la lampadina della luce elettrica. Quando viene accesa non c'è oscurità. La 'sveglia presenza della conoscenza', rigpey yeshe, è come la lampadina accesa. Può l'oscurità rimanere di fronte alla

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lampadina? L'oscurità è un esempio della non conoscenza, mentre la luce rappresenta la conoscenza. Non può esserci oscurità quando c'è la luce. Non può esserci la non conoscenza quando c'è la conoscen­ za. Nell'istante in cui riconosci l'essenza della mente, i tre veleni o qualsiasi altro pensiero non possono rimanere, così come l'oscurità non può rimanere quando la luce è accesa. Semplicemente riconosci la tua natura. Quando c'è la luce, non c'è oscurità. Quando c'è l'oscurità, non c'è luce. L'oscurità è il pen­ siero, mentre la luce è il rigpa. Devi riconoscere la natura del pensie­ ro, perché pensare non è rigpa; il pensiero ingannevole non è lo stato risvegliato di tutti i buddha. Non appena si riconosce l'essenza, il pensiero si dissolve, svanisce nel rigpa. Non devi sbarazzarti del pen­ siero e produrre rigpey yeshe. Sarebbe soltanto un'altra contraffazio­ ne. Semplicemente riconosci il rigpa, e il dubbio scompare. Non trat­ tenere dubbi e diffidenze; invece, riconosci il rigpa. Devi diventare stabile nella sveglia presenza spontanea. Non essere troppo rigido, sii rilassato. C'è questo detto: Più sei rilassato, e più facile è la visione della tua natura. Più sei rigido, e più nascosta diventa.

Qualunque cosa accada, la pratica è sempre la stessa. Se ti incam­ mini da qui verso Bodhgaya, ci sono salite, discese e tratti pianeg­ gianti. Se non ti perdi d'animo e continui a camminare, a un certo punto arrivi a Bodhgaya, vero? Similmente, la tua sveglia presenza spontanea adesso vive in un corpo fisico fatto di cinque aggregati, dodici basi sensoriali ed elementi che sono in costante cambiamento. Senza considerare questi cambiamenti temporanei, tu continui a camminare verso Bodhgaya, continui ad allenarti. Allenati di conti­ nuo alla non meditazione senza distrazione, senza assolutamente nul­ la su cui meditare, ma anche senza dimenticare neppure un istante. Quando riconosci la non meditazione, ossia quando rimani non di­ stratto mentre non crei niente con la meditazione, non c'è nessun pensiero. Solo dopo che ci si distrae si inizia a pensare. L'istruzione ultima di Longchenpa è questa: Brevi momenti, molte volte; come si accumula acqua dalla gronda.

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(Rinpoche schiocca le dita tre volte.) Per un principiante la genuina sveglia presenza spontanea non dura più di alcuni secondi. Da tempo senza inizio siamo stati dominati ininterrottamente dai pensieri. Allo stadio iniziale, il fatto che il riconoscimento sia così breve non costi­ tuisce un problema. Non è come negli insegnamenti dei Siitra, secon­ do i quali si deve entrare in uno stato di meditazione alcune volte al giorno e mantenere lunghe sedute. Lo stato di samatha può durare a lungo, ondeggiando tra l'agitazione e il torpore. Certamente, stando seduti molto a lungo ci si sente intorpiditi o agitati. (Schiocco di dita.) Un breve momento, alcuni secondi, e in questo periodo, nell'istante stesso in cui avviene il riconoscimento, lasciate che sia così com'è. È impossibile trovare una parola in grado di descrivere adeguatamente com'è, questo ineffabile volto naturale della consapevolezza. Non puoi lodarlo abbastanza; e non puoi neppure trovare parole per criti­ carlo. Il rigpa è davvero indescrivibile. La consapevolezza del rigpa è senza difetti ed è dotata di tutte le perfette qualità. Non puoi trovare una parola adeguata a tradurre rigpa, un concetto che lo racchiuda pienamente, e neanche un'analogia esauriente. Il rigpa trascende la conoscenza concettuale. Questo è il vero senso della prajiiapiiramita. Neppure gli scienziati possono capirlo. Gli scienziati capiscono ciò che riescono ad afferrare, ma 'conoscenza trascendente' vuoi dire ciò che è al di là della capacità della mente concettuale. Come si afferma: La conoscenza trascendente è al di là del pensiero, della parola e della descrizione. Non sorge né finisce, come l'identità dello spazio. È il dominio della sveglia presenza individuale consapevole di sé. A questa madre dei buddha dei tre tempi rendo omaggio.

Lo stato risvegliato, rigpa, non è in nessun modo un prodotto. Non sorge e non nasce; è come l'essenza dello spazio. Tuttavia è nel dominio della nostra esperienza, in ciascuno di noi individualmente. Lo possiamo sperimentare; è alla nostra portata. Non puoi ricono­ scere la natura della mente di qualcun altro, bensì solo la tua. È qui. Non si trova altrove. È il dominio della tua sveglia presenza consape­ vole di sé. Questa sveglia presenza consapevole di sé è all'interno della tua esperienza. Può essere conosciuta da te stesso. Tu indivi­ dualmente puoi sperimentarla.

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Quando ne dubiti devi riconoscere ciò che è al di là del pensiero, della parola e della descrizione. Possiamo diventare incerti. Dopo tutto, siamo stati incerti tante volte in passato, quindi possiamo du­ bitare di nuovo, perché no? Ti prendo in giro un pachino: sarebbe più facile se la natura di buddha ti parlasse e dicesse: "Ecco cosa so­ no, proprio qui; non avere dubbi su di me" . Ma la natura di buddha non ti parla! Devi rassicurarti da solo. "Adesso mi vedi, io sono la natura di buddha. Ora non dubitare! " . La natura di buddha non parla così. La tua natura di buddha né sorge né finisce; quindi non conside­ rarla in un'ottica di minaccia o promessa. Immagina una cosa che non nasce, non cessa, non rimane da qualche parte, ed è totalmente aperta come lo spazio. Può esserci ostacolo nello spazio? Rigpey ye­ she è come lo spazio, l'essenza dello spazio. L'apertura del rigpa è as­ solutamente preziosa. Il pensiero può sembrare incessante, ma è un flusso per natura momentaneo: non appena si forma un nuovo pen­ siero, quello precedente svanisce. I pensieri finiscono. Quando spo­ sti l'attenzione al secondo pensiero, ti dimentichi di quello prece­ dente. Il rigpa, invece, è totalmente incessante; non è ostacolato da nessuno dei tre tempi. Inoltre, da dove sorge il pensiero? Se investighi, non trovi un luo­ go da cui scaturisca; il pensiero è 'non nato'. Poi, dove svanisce? Va da qualche parte? Se qualcuno ti mette K. o . , puoi dire che la mente è bloccata, che la capacità di pensare viene meno. Dimorare equiva­ le a collocare un oggetto in un luogo in modo che rimanga lì. Ebbe­ ne, l'attuale pensiero dimora da qualche parte? Dov'è il pensiero di ieri o di domani? Cerca di scoprire dove si trovano tutti quei pensie­ ri e dove sono finiti. Prima di tutto, ricercane la provenienza, da do­ ve scaturiscono i pensieri. Continua a indagare in questo modo fin­ ché non scopri che non c'è nessuna fonte. Negli insegnamenti dello Dzogchen questo è un punto importante: dedicare del tempo a esa­ minare la fonte dei pensieri, finché non si scopre che non c'è alcuna fonte da nessuna parte. La scoperta che il pensiero non ha origine viene chiamata incontro con il dharmakaya. Continua a cercare dov'è che rimane il pensiero. Indaga dove si trova: è all'esterno o all'interno di questo corpo? È da qualche parte nel mondo? C'è una dimora dove si trova la mente? La comprensio­ ne che il pensiero non dimora da nessuna parte viene chiamata in-

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contro con il satttbhogakaya. Infine, dove va il pensiero? Quando lo analizzi in questo modo, non trovi nessun luogo. La totale certezza che il pensiero non va da nessuna parte viene chiamata incontro con la qualità nirmm;zakaya di tutti i buddha. Ecco perché gli insegnamenti dello Dzogchen sottolineano l'im­ portanza di accertare l'inesistenza del nascere, dimorare e cessare. Questa è considerata una preparazione estremamente importante, perché comprendere l'assenza di un'origine vuol dire incontrare la qualità dharmakaya di tutti i buddha. Comprendere l'assenza di una dimora significa incontrare il satttbhogakaya. Comprendere che il pensiero non va da nessuna parte equivale a incontrare il nirmaJJaka­ ya. In breve, comprendi che queste tre qualità della tua mente sono la vuota conoscenza sconfinata: vuota in essenza, conoscitiva per na­ tura e sconfinata nella sua capacità. Quando riconosci questa vuota conoscenza sconfinata come la tua natura, in quel momento sei a fac­ cia a faccia con i tre kaya. Vacuità significa assenza totale di concretezza, di materialità. Tut­ to ciò che vediamo, udiamo, odoriamo, gustiamo o tocchiamo è con­ creto, ha una certa materialità. La mente non ha niente del genere. Non è così? Non è vero che la mente non ha una forma visibile? Non è un suono. E neppure odora, giusto? Prova a mangiare la mente: che sapore ha? Prova a toccarla: è morbida o ruvida al tocco? Non è vuota come il cielo? Possiamo utilizzare lo spazio come un'analogia, ma solo parziale. La mente può provare gioia o tristezza, mentre lo spazio non ha sensazioni. Osserva lo spazio come un esempio grosso­ lano della condizione della mente. Ma per quanto riguarda il signifi­ cato effettivo, riconosci l'essenza della mente. Allora, dov'è esattamente il tuo dubbio? Ti prego di dirmi dove si trova. C'è qualche dubbio sul fatto che la mente è vuota, oppure che è conoscitiva? C'è qualche dubbio sul fatto che questa vuota cono­ scenza sia o non sia un'unità indivisibile? Puoi pensare qualcosa co­ me: "Ciò che non va è che da qualche parte dovrebbe esserci un'en­ tità chiamata mente, forse una massa sferica, e non sono riuscito a vederla" . È questo il tuo dubbio? n Buddha non ha forse insegnato che la mente in se stessa non ha forma, suono, odore, sapore, sensazione tattile, e non è un oggetto mentale? L'ha chiamata vacuità (Sunyata), a differenza dello spazio che ha definito vuoto (Sunya). n suffisso ta si riferisce alla conoscen-

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za. Il Buddha ha detto: "La mente è vuota conoscenza" . Questo è il modo di discernere tra lo spazio e la mente. Lo spazio è vuoto, inve­ ce la mente è vacuità (Sunyatii). Tii rimanda sempre alla qualità della sveglia presenza conoscitiva. Non si afferma mai che la consapevo­ lezza è vuota: si dice sempre che è vacuità. È vuota, ma è in grado di conoscere. Cosa si intende con 'conoscere'? Proprio ora, in questo corpo, tu puoi vedere con gli occhi, udire tramite le orecchie e odorare con il naso. Considera l'esempio di un cadavere, un corpo privo di mente. Vedono quegli occhi? Odono quelle orecchie? Odora quel naso? Gusta quella lingua? Quel corpo prova sensazioni tattili di morbi­ dezza o ruvidezza? I cinque organi sensoriali di un corpo morto non percepiscono nulla. Non è certo che solo la mente può conoscere? La mente è vuota e conoscitiva. Alcune persone paragonano questa conoscenza a una 'cosa' radiosa che risplende di una luce simile a una 'chiara luce', intendendo un senso di essere svegli, una qualità di aperta e vivida presenza, che è vuota di qualsiasi identità e natural­ mente attenta. Non è soltanto l'uno o l'altro dei due aspetti. Questa indivisibile unità viene chiamata capacità: la capacità della saggezza, della compassione e di aiutare gli altri. Da dove scaturirebbero tutte le attività di un buddha, se non fa­ cessero parte di questa vacuità conoscitiva continuamente presente? Se questa capacità è bloccata, le qualità non possono manifestarsi. Se vuoi bloccare completamente questa capacità, hai bisogno che qual­ cuno ti faccia perdere i sensi di continuo colpendoti in testa con una spranga. Paradossalmente gli esseri senzienti fanno qualcosa di mol­ to simile allenandosi all'incoscienza. Nell'aspirazione di Samanta­ bhadra si legge questo verso: "lncontaminato dall'oscurità dell'inco­ scienza" . Il rigpa non è incosciente, perché la fissazione dualistica è finita. Rigpa è una sveglia presenza spontanea che è incessante: non viene meno in alcuni momenti per ritornare in altri. È ininterrotta come la corrente di un fiume, come il sole risplendente. Hai mai sen­ tito dire che il fiume Gange si sia fermato, oppure che il sole a volte risplenda e altre no? Anche se il sole spesso è oscurato da nubi e a volte si eclissa, nondimeno continua a risplendere. Similmente, que­ sta sveglia presenza spontanea non ti ha mai abbandonato neppure per un istante. Quando riconosci rigpa, non c'è nessun pensiero, nes­ suna attività mentale. Quando sei coinvolto nel pensiero, l'oscurità

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ha il sopravvento su di te e non c'è luce. Allora, dov'è il dubbio adesso? Rimane qualche dubbio? Dov'è? Ti prendo in giro di nuovo. Se rimani coinvolto ancora nel dub­ bio, sarebbe opportuno che la tua natura mettesse fuori la testa e ti dicesse: "Ehi, io sono rigpa ! Eccomi qui " , e poi ti parlasse, ma non lo fa. Sei tu che devi distinguere da te stesso tra la mente e il rigpa. Una delle sei qualità speciali di Samantabhadra è quella di distingue­ re. Noi dobbiamo emulare ciò che è avvenuto nella realizzazione di Samantabhadra. Tu non pensi a Samantabhadra nello stato origina­ rio come a un uomo blu che visse molto tempo fa, vero? Dobbiamo attenerci a quei medesimi principi della realizzazione proprio in que­ sto momento, adesso. Non devi alterare nulla. Quando lasci essere completamente, il coinvolgimento nei pensieri del passato, del presente e del futuro vien meno. Lasciando essere, non sei più coinvolto nei pensieri dei tre tempi. Quando lasci essere completamente, c'è la vivida sveglia presenza. L'esperienza consiste soltanto nel vedere che non c'è nien­ te da vedere. Questo viene visto con chiarezza così com'è. Lasciarsi coinvolgere nei pensieri dei tre tempi non è lasciar essere completa­ mente, giusto? In questo istante non c'è assolutamente nulla da ve­ dere. È ciò che dobbiamo riconoscere. Se ci fosse qualcosa da vede­ re e non ci riuscissimo, allora sarebbe una cosa difficile. Noi dobbia­ mo soltanto vedere che non c'è niente da vedere. Se chiedessimo a cento persone diverse cosa vedono quando riconoscono l'essenza della mente, ciascuna di loro dovrebbe dire che non c'è niente da ve­ dere. Potremmo pensare che ci sia qualcosa da vedere, ma questo è soltanto un pensiero. Non c'è niente. Qualcuno, quando vede la na­ tura della mente, rimane deluso, perché suppone che ci sia qualcosa da vedere e che gli sia sfuggita; pensa di non averla ancora vista. Ma la realtà innata (tathata) è paragonabile alla visione dello spazio. Il Buddha disse: "La gente afferma di vedere lo spazio ma, ditemi, co­ me lo vedono esattamente? " . Uno sravaka chiese al Buddha: "A co­ sa assomiglia la realtà? " . Il Buddha rispose: "Osserva lo spazio" . A cosa assomiglia lo spazio? Puoi dire di vedere lo spazio? Quando la gente dice di non vedere nulla, tale non vedere io lo chiamo 'vedere lo spazio'. La realtà, la natura della mente, assomiglia allo spazio per­ ché non c'è niente da vedere, udire, odorare, gustare o afferrare. È simile ma non identica allo spazio, come ho già spiegato.

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Quando ci si allena non c'è bisogno di riconoscere la mente vuota col pensiero. Un pensiero come "ora è vuota, è vuota" è una vacuità formulata che non serve a nulla. È soltanto un pensiero. La vacuità non è quella immaginata. È così com'è da se stessa, naturalmente spontanea: non devi pensarla affinché ci sia. Formulare l'idea della propria essenza come vuota equivale a creare un pensiero. A che pro creare un altro pensiero, dal momento che il nostro compito è il non coinvolgimento nei pensieri? Si può essere intelligenti, eppure non ca­ pire fraintendendo la vacuità. Creare l'idea della vacuità è un errore. Quando ti abitui di più alla sveglia presenza non concettuale, è come se arrivassi su un'isola interamente d'oro. A un certo punto puoi provare a cercare un pensiero o concetto nella consapevolezza, ma, per quanto intensa sia la tua ricerca, non lo troverai da nessuna parte. Poiché tutto d'oro puro, puoi cercare delle comuni pietre, ma non le trovi. Alla fine sarà così. Però fino ad allora devi allenarti. Non meditare, bensì allenati. Quando ti sei perfettamente abituato all'allenamento al rigpa, puoi provare a cercare un comune pensiero, ma non lo troverai. Fino a quel momento, sii diligente e persevera, non nella medita­ zione ma nell'assenza di distrazione. Meditate, meditate: questa idea ci ha ingannati sin dall'inizio. Quando sentiamo dire: "Non medita­ te, non meditate" , potremmo domandarci: "Perché all'inizio ci han­ no detto di meditare, quando in realtà non c'è niente su cui medita­ re? " . È vero che tutte le cose sembrano accadere. Per esempio, acca­ dono gli 84.000 tipi di emozione disturbante, anche se possono esse­ re condensati nei cinquantuno eventi mentali inclusi nell'aggregato delle formazioni. Tutte le cose che accadono possono essere incluse in questi eventi mentali. Possiamo affrontarli tutti riconoscendo l'es­ senza della mente. È come 'attraversare cento fiumi passando su un solo ponte', se conosci quell'unico ponte. Tutti i diversi corsi d' ac­ qua che discendono dall'alta valle si fondono insieme sotto un ponte al fondo della valle. Questi stati mentali non sono simultanei; sorgo­ no uno dopo l'altro. Ma nell'istante in cui si vede che l'essenza di ciò che pensa è il dharmakaya, le 84.000 emozioni disturbanti, quali che siano, si dissolvono nel medesimo momento. Quando ce ne facciamo un problema, allora c'è un problema. Tut­ ti gli esseri senzienti creano i propri pensieri, anche se possono non esserne consapevoli. Solo gli esseri senzienti creano pensieri. I

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buddha possono cercare un pensiero, ma non ne trovano nessuno. Le saggezze, la compassione, le attività di un buddha sono tutte per­ fezionate. In effetti, la parola tibetana per buddha significa 'purifica­ to e perfezionato'. Il sole è radioso, caldo e luminoso: lo osserviamo e vediamo che questa è la sua natura. Similmente, si tratta soltanto di riconoscere lo stato del rigpa. Quando gli esseri senzienti sono intrappolati nei pen­ sieri, sono intrappolati nelle loro stesse creazioni. Man mano che ci abituiamo a riconoscere la sveglia presenza spontanea, la struttura del pensiero si riduce, finché è completamente purificata e perfezionata. La saggezza della consapevolezza è purificata e perfezionata sin dal principio. Il problema consiste soltanto nel non riuscire a ricono­ scere la propria natura. Alcune persone pensano che se si riuscisse a meditare moltissimo, allora piano piano si potrebbero ricavare le qualità dell'illuminazione e attenerne sempre di più, fino a raggiun­ gere la completezza. Non è affatto così. Le qualità illuminate sono presenti sin dal principio; le possediamo già. Non pensare che grazie a qualche tipo di sforzo macho tu possa riuscire nella via e compren­ dere il rigpa sempre più fino ad accertarlo perfettamente. Non è così che insegnano i buddha. Le qualità illuminate sono presenti in modo naturale e spontaneo sin dal principio. Più meditiamo concettual­ mente, e più le qualità vengono oscurate. Il nostro meditare ricopre ciò che è presente spontaneamente. A volte dubitiamo, e ciò va benissimo. Il modo di affrontare tale dubbio consiste nel riconoscere chi dubita. Allora si vede chiara­ mente così com'è il fatto che non c'è nulla da vedere. È questo che chiarifica il dubbio. Non è certo al cento per cento che non c'è nien­ te da vedere? Oppure qualche volta vedi chi dubita? STUDENTE: No. R I N P O C H E : Proprio ciò che vede è la consapevolezza. Senza di essa non potrebbe esserci il riconoscimento: sarebbe come lo spazio, niente da vedere. Se non ci fosse la consapevolezza, la conoscenza naturale, non ci sarebbe la conoscenza del fatto che non c'è niente da vedere. Questi due aspetti sono un'unità originaria: vuota cono­ scenza. Allora, come possiamo mantenere la convinzione che esiste un 'me' come una cosa, e che c'è una cosa separata, la natura della mente, che è un'entità da vedere? Se la vacuità e la conoscenza sono un'unità, come possono esserci due cose diverse? Non dubitare di

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ciò. Devi dissolvere questo dubbio. Karmapa Rangjung Dorje ha detto nella Aspirazione alla Mahamudra: Quando si osserva più volte la mente non vista, si vede chiaramente così com'è il fatto che non c'è niente da vedere. Eliminando i dubbi su ciò che è o non è la sua natura, possiamo noi riconoscere senza errori la nostra essenza.

Anche il Buddha ha detto: Quando la mente osserva la mente,

il non vedere è vero vedere.

Questo viene insegnato nei sutra più profondi.

Quando volgi l'attenzione verso gli oggetti percepiti, come puoi vedere la natura di questa attenzione? Lascia che la mente percettiva riconosca se stessa, la sua stessa natura. In quell'istante puoi davvero sostenere che non sei in grado di vederla? A un certo punto potresti iniziare ad affermare mentalmente: "Oh sì, è questo che vuol dire essere vuoto" , oppure: "Questa deve esse­ re la conoscenza", e: "Adesso capisco cosa vuol dire unità" . Non dobbiamo concettualizzare in questo modo la nostra comprensione. Il nostro stato fondamentale è già vuota conoscenza sconfinata, lo è da se stesso. Se, dopo tale indicazione, ritieni che questa 'compren­ sione' sia l'allenamento, ti stai solo ingannando con il pensiero. Quando c'è la vuota conoscenza sconfinata non è presente nessun pensiero. Se cerchi di aiutare questa vacuità naturale ricorrendo a una vacuità inventata, cosa accade? Il risultato è solo ulteriori pen­ sieri, che di per sé sono il carburante di altro samsara. Dal momento che dovremmo essere senza pensieri, il fatto di sedere e trattenere al­ tri pensieri determina solamente la continuazione del samsara. La sveglia presenza spontanea è già priva di pensieri; non abbiamo biso­ gno di render/a tale. Se pensiamo a qualcosa per liberare la mente dai pensieri, equivale a tenere per mano il samsara. Il punto chiave è questo: non meditare; non ti distrarre. Non essere troppo amante del dubbio. Non ti identificare con la condizione dubbiosa, perché il dubbio è solo un altro pensiero. Se devi essere libero dal pensiero, non aggrapparti al pensiero ! Il dub-

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bio è sempre soltanto un pensiero. Perciò, se inizi ad avere questo pensiero, riconosci semplicemente la natura di chi dubita. Non ap­ pena la vedi direttamente, il dubbio percepito come una cosa che permane da qualche parte non c'è più; non c'è più quella massa di dubbio in attesa. Essendo vuoto, svanisce nell'istante del riconosci­ mento. Machig Labdron disse al demone: "Neppure io ti vedo. Nep­ pure i buddha dei tre tempi ti vedono". n pensiero è un movimento vuoto in se stesso. Se ti lasci andare al pensiero, esso ti scaglia nei tre regni del samsara. Non appena riconosci la natura del soggetto che pensa, il pensiero svanisce. S T U DE N TE : Può esserci pensiero durante il rigpa? RIN P O C H E : Lo stato del rigpa non è inconsapevole; c'è una lumi­ nosità naturale che consente a ogni cosa di essere riflessa. Questa qualità riflettente viene anche chiamata rang-tsal, che significa espressione naturale. L'espressione naturale può assumere due for­ me: sherab oppure namtok, visione intuitiva o pensiero. "L'espressio­ ne che si muove come sherab è libera. L'espressione che si muove co­ me namtok è confusa". Questo fa una grande differenza. Ma, per es­ sere precisi, nello stato del rigpa non c'è reale movimento. Quando l'espressione si muove come sherab, nel medesimo istante in cui ap­ parentemente si muove, è già libera. Non c'è reale apparire. È un punto molto importante. Non possono esserci nel medesimo tempo sia l'oscurità sia la luce. È essenziale accertare il fatto che non c'è nessun tipo di namtok nello stato del rigpa; è impossibile. L'oscurità non può rimanere quando sorge il sole. Un capello non può rimanere in una fiamma. È solo in un momento di distrazione che si perde la continuità del rig­ pa. Ed è solo in conseguenza di quella perdita, ossia marigpa, man­ canza di conoscenza, che il pensiero può iniziare a muoversi. Questa perdita di continuità, nel senso di dimenticanza e distrazione, viene chiamata ignoranza innata. Ribadisco che pensare significa concet­ tualizzare sulla base dello stato di ignoranza. n pensiero ha inizio so­ lo dopo che si instaura marigpa, ossia con la perdita del rigpa. Du­ rante la non distrazione del rigpa non può avere inizio nessun pen­ siero. Non posso sottolinearlo abbastanza: non c'è nessun pensiero durante lo stato del rigpa ! È evidente che il mantenimento dello stato del rigpa a un certo punto finisce, in modo simile al suono evanescente di una campane!-

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la. La sua continuità alla fine viene meno. In quel momento, dopo la perdita del rigpa, si ripresenta il pensiero. Tuttavia, se riconosci subi­ to il rigpa, quasi simultaneamente al pensiero, c'è ciò che chiamiamo il rangshar rangdrOl del pensiero, il quale 'sorge da te e si dissolve in te'. Questo non accade finché continua il rigpa; è impossibile. Prima di tutto osserva e semplicemente lascia essere. Il riconoscimento continua per un po', proprio come quando hai suonato la campanel­ la. C'è una continuità naturale dell'assenza di distrazione, similmen­ te al suono che continua da solo. Non hai bisogno di suonare di nuo­ vo la campanella affinché il suono continui. Per un principiante que­ sta continuità dura un istante, forse tre secondi. In questo periodo c'è una spontanea stabilità innata: non viene mantenuta deliberata­ mente. Non è che uno pensa: "Adesso devo fare in modo da non di­ strarmi". Non è necessario. C'è un senso naturale di non distrazione.

(Rinpoche esemplifica il riconoscimento e il semplice lasciar essere.)

A un certo punto ti distrai e inizi a pensare. Potrebbe diventare una serie di pensieri. In quel momento hai la possibilità di ricono­ scere di nuovo l'essenza. Se il riconoscimento avviene subito, questo è il rangshar rangdrOl di un pensiero, grazie al quale lo stato del rigpa sembra quasi continuo. Ma, lo ripeto ancora, nel vero stato del rigpa non c'è nessun namtok.

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Ci sono quattro versi di Vairotsana, grande maestro tibetano e tra­ duttore, che dicono così: Nell'inconcepibile nudo stato del dharmadhatu, poni l'ineffabile consapevolezza senza distrarti. Se sorge un pensiero, sorge da te e si dissolve in te. Non c'è nessun fondamentale modo di vedere, meditazione o istruzione superiore a questo.

Questi quattro versi di Vairotsana sono il cuore del modo di vede­ re, della meditazione e della condotta. li mio maestro radice, Samten Gyatso, li spiegò quando fece visita al centro di ritiro sopra Lachab Gompa, in Nangchen, Tibet orientale. Stava per dare due potenzia­ menti chiamati Yabkah e Yumkah, appartenenti al ciclo di terma Sangtik, l'Essenza segreta, insegnamenti del primo Jamgon Kongtriil. Mentre illustrava le qualità superiori di Jamgon Kongtriil, il fatto che fosse un'emanazione di Vairotsana, e così via, restò senza parole per l'emozione. Non riusciva proprio a continuare. Pianse per venti o trenta minuti. Poi ricominciò la spiegazione, e di nuovo crollò. Era la prima volta che mi accadeva di vedere una cosa del genere; non si abbandonava mai alla devozione in quel modo. I potenziamenti ri­ chiesero l'intera mattinata; in realtà furono completati solo a metà pomeriggio. Il maestro utilizzò i quattro versi di Vairotsana come schema di base per l'istruzione su come realizzare il cuore della pra­ tica, il punto essenziale dell'allenamento.

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Forse conoscete l'espressione che definisce l'unità essenziale dello spazio e della consapevolezza, ying e rigpa. Ying è il termine tibetano per dhatu, vale a dire il dharmadhatu, il nudo stato dello spazio basi­ lare. n dharmadhatu non è qualcosa a cui possiate pensare, perché è non concettuale. L'inconcepibile, o letteralmente 'non immaginato', dharmadhatu non è un oggetto del pensiero. Semplicemente lasciate il rigpa, che è ineffabile, in questo stato fondamentale, senza distrar­ vi; lasciate D, liberi dalla distrazione, l'indicibile consapevolezza. Può sorgere un pensiero da voi, ma si dissolve in voi. Un pensiero si muove dalla vostra consapevolezza, ma nell'istante in cui riconosce­ te il soggetto che pensa, il pensiero si dissolve nella vostra essenza. Cosa significa spazio basilare, dharmadhatu? Vuol dire non co­ struito, senza inizio, durata e fine. Non ha nome. È al di là di cause o condizioni, proprio come lo spazio. Non siamo mai stati separati dal­ lo spazio increato, neppure per un istante. È la natura stessa della mente. È la natura innata, sin dal principio vuota e senza radice, la natura della dharmata. Tutte le altre cose scaturiscono da qualche parte, hanno una sorgente; lo spazio increato no. n non riuscire sem­ plicemente a capire che la propria natura è lo spazio increato viene chiamato non conoscenza, ignoranza, marigpa. Il riconoscimento dello spazio basilare tramite la conoscenza naturale viene chiamato rigpa. Senza la natura conoscitiva, che è inseparabile dallo spazio in­ creato, non ci sarebbe la capacità di conoscere la realtà di ciò che è. Tale inseparabilità viene descritta come l'unità dello spazio e della consapevolezza, oppure come l'unità dello spazio e della sveglia pre­ senza. L'unità di queste due qualità è anche simboleggiata da Saman­ tabhadra unito alla consorte. Lo spazio basilare è Samantabhadri, mentre la sveglia presenza della conoscenza è Samantabhadra. Questa unità è la nostra vera natura. La qualità dello spazio è il dharmakaya, la qualità della sveglia presenza consapevole di sé è il saf!lbhogakaya, e l'attimo del riconoscimento di tale unità viene chia­ mato nirma!Jakaya. In realtà i tre kaya sono la nostra natura. Se non riuscite a riconoscere ciò che è reale, l'esperienza condizionata pren­ de il sopravvento in una grande varietà di modi. Ecco che l' espe­ rienza viene vista come oggetti percepiti da una mente percettiva, dando origine a pensieri ed emozioni, alla creazione del karma e de­ gli stati samsarici dell'esistenza, generati all'infinito in svariati modi. Questa condizione viene chiamata 'dharmata dominata dai dharma',

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ossia realtà condizionata dai fenomeni. Tuttavia, quando riconosce­ te il vostro volto naturale, i dharma condizionati si dissolvono nella dharmata.

Ecco un'analogia. In questo mondo abbiamo il giorno e la notte. La dharmata è paragonabile al tempo diurno, mentre i dharma con­ dizionati sono come la notte. Durante il giorno l'oscurità è assente, non potete trovarla da nessuna parte. Allo stesso modo, il non rico­ noscimento del rigpa è paragonabile alla luce che si affievolisce sva­ nendo nell'oscurità. È un esempio grossolano, certo, ma il principio è che l'illusione scompare nell'istante in cui si riconosce il rigpa, pro­ prio come l'oscurità sparisce all'alba. Tutto il samsara e tutto il nirvana, la totalità di questi stati, si ma­ nifestano soltanto nell'unico spazio basilare. Durante tutte queste miriadi di esperienze, potete riconoscere il vostro volto naturale. Quando si riconosce lo spazio basilare, non c'è nessun altro samsara da abbandonare e nessun altro nirvana da conseguire. Per i comuni esseri senzienti ci sono il giorno e la notte. Durante il giorno l'oscu­ rità rimane celata: di notte è la luce diurna a essere celata. Abbiamo due termini differenti, giorno e notte, ma in realtà c'è un solo spazio basilare, che a volte è buio e a volte luminoso. Durante il giorno l'oscurità è latente. Parimenti, i pensieri e la confusione ritornano al­ la latenza. Di notte è la luce a essere latente. Similmente alla luce du­ rante la notte, la sveglia presenza della conoscenza rimane latente, potenzialmente presente, nello stato dell'ignoranza. Questo non si­ gnifica che rigpey yeshe scompaia e venga irrimediabilmente perdu­ to; è soltanto latente quando c'è la mente dualistica. Dopo il ricono­ scimento del rigpa, l'allenamento e la realizzazione di una certa sta­ bilità, i pensieri svaniscono, proprio come la notte che scompare al sorgere del sole. Per il Buddha Primordiale, rigpa, non c'è dualità di samsara e nirvana. Per chi non ha riconosciuto affatto il rigpa, o l'ha solo intravisto, ci sono sicuramente il giorno e la notte, il samsara e il nirvana; ci sono il coinvolgimento nel pensiero oppure l'attimo del rigpa. Quale che sia lo stato presente, l'opposto rimane latente. Continuiamo con i versi di Vairotsana: " Se sorge un pensiero, sor­ ge da te e si dissolve in te" . I pensieri non scaturiscono altrove; sor­ gono dalla propria mente. Se conoscete la vostra natura, i pensieri si dissolvono in voi stessi, come un disegno sulla superficie dell'acqua. L'atto di disegnare sull'acqua e la dissoluzione del disegno avvengo-

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no simultaneamente. Non rimane nessuna traccia, come la scia la­ sciata da un uccello in volo. "Non c'è nessun fondamentale modo di vedere, meditazione o istruzione superiore a questo" . Quando riconoscete il rigpa come il modo di vedere, questo è l'allenamento della meditazione, questa è la condotta, e questa è la realizzazione. In quel momento tutto il samsa­ ra e il nirvana sono inclusi all'istante nello stato del rigpa. Quando sie­ te perfettamente stabili nel riconoscimento del rigpa, il samsara è sva­ nito del tutto nel nirvana e non c'è né distrazione durante il giorno, né confusione durante la notte. C'è un'unica cosa, l'unicità del rigpa. Il significato effettivo dello stato della meditazione nel buddhi­ smo, quando si impiega il termine nyamshak, è uguaglianza, compo­ stezza, equanimità. Nell'istante del riconoscimento del rigpa non c'è bisogno di accettare o rifiutare, evitare o adottare, sperare o temere. C'è imparzialità, indipendentemente dalla situazione. La base di tale equanimità è la sveglia presenza dell'attimo, senza la quale saremmo cadaveri, soltanto corpi fisici, forme materiali. Ma adesso siamo vivi grazie a questa sveglia presenza dell'attimo. Quando riconoscete la sveglia presenza dell'attimo, che non accetta né rifiuta, non afferma né nega, non spera né teme, questo è di per sé sufficiente. Non è la vostra mente di ieri o della scorsa notte, di domani o del prossimo mese. È questo istante, proprio ora. Dov'è? Potete trovarla? Potete trovare questo istante? Riconoscete questa sveglia presenza imme­ diata. Lasciate che la vostra mente riconosca se stessa, e comprende­ rete immediatamente che non c'è nulla da vedere. È proprio come canta Rangjung Dorje, il terzo Karmapa: Osservando gli oggetti, si vede che sono la mente, priva di oggetti. Osservando la mente, non c'è nessuna mente, essendo vuota di un'entità. Osservando entrambi, la fissazione dualistica si dissolve in modo spontaneo. Possiamo noi realizzare la luminosa natura della mente.

Quando esaminate gli oggetti esterni capite che non ci sono og­ getti reali, c'è solo la mente percettiva. Riconoscendo la natura di questa mente, non trovate un'entità. Quando investigate sia il sog­ getto sia l'oggetto, la fissazione sulla dualità si dissolve; l'esistenza di

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un oggetto concreto e di un separato soggetto concreto semplice­ mente vien meno. La dualità di osservatore e osservato scompare. "Possiamo noi realizzare la luminosa natura della mente". Qui 'lu­ minosa' si riferisce al fatto che il ri'gpa è vuoto ed è anche conoscitivo. Lo spazio fisico non può essere luminoso; non ha la capacità di cono­ scere né se stesso né qualcos'altro. Ecco perché il rigpa viene chiama­ to 'sconfinata vuota conoscenza soffusa di consapevolezza'. È l'origi­ nario stato naturale privo di errori. Se non lo alterate in nessun mo­ do, ma lasciate soltanto che sia ciò che è, allora proprio adesso lo sta­ to risvegliato è presente spontaneamente. La vostra immediata, natu­ rale, sveglia presenza dell'attimo è di per sé il vero Samantabhadra. In breve, lasciando andare l'agente e l'azione, rimanete nel non fa­ re. Quando vi allenate a lasciar andare l'agente e l'azione vi accosta­ te alla non azione. Agente e azione si riferiscono alla struttura del soggetto e dell'oggetto. Quando riconoscete l'essenza della mente, trovate un luogo da cui il pensiero scaturisce, in cui dimora e svani­ sce? Proprio lì, in quell'istante, siete giunti alla non azione. Conside­ rate questo: siete mai stati in grado di scoprire un luogo da cui scatu­ risce lo spazio? Un luogo dove lo spazio ha inizio, in cui dimora e scompare? Questo stato viene descritto come 'vuoto di elaborazioni mentali', 'al di là del nascere, dimorare e cessare'. Viene anche chia­ mato 'non azione'. Se qualcosa non nasce, non dimora e non finisce, è certo al cento per cento che è vuoto. Quindi, la mente è vuota, ma se fosse soltanto vuota, sarebbe im­ possibile provare piacere e dolore o avere esperienza dei campi di buddha e degli inferni. Siccome sono certamente possibili, ciò prova che la mente è sia vuota sia conoscitiva. Per questo ci sono il samsa­ ra e il nirvana, il piacere e il dolore, la gioia e la sofferenza, i risultati delle azioni virtuose (i regni superiori e i campi di buddha) e i risul­ tati delle azioni negative (i tre regni inferiori e la sofferenza che ne deriva) . C'è il samsara in basso e c'è il nirvana in alto; in mezzo c'è la via caratterizzata dalle azioni karmiche buone e cattive. Tutto ciò non può essere negato. È come un sogno. Non ci siamo ancora risvegliati dal profondo sonno dell'ignoranza. Di solito, dormendo sogniamo. E al momento del risveglio smettiamo di sognare. I buddha e i bodhisattva sono pa­ ragonabili a chi si è già risvegliato dal sonno. Ci sono tutti questi di­ versi sogni, piacevoli, spiacevoli, avvincenti, terrificanti; ma dove so-

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no quando ci risvegliamo? Dove finiscono? Non essendo altro che tendenze abituali, come possono sorgere da un luogo e finire da qualche parte? Similmente, tutte le diverse esperienze della giornata avvengono nella cornice della mente dualistica. Quando la mente dualistica viene meno nel rigpa, quando il pensiero si dissolve, il ri­ sultato è la sveglia presenza della conoscenza, rigpey yeshe, l'essenza priva di pensiero. Vi ho raccontato la 'storia della mente'. Ora dovete allenarvi alla genuina, sveglia presenza dell'attimo, che è possibile solo grazie al ri­ conoscimento. Sapere come riconoscere l'essenza della mente equi­ vale ad accendere la luce. Essa non si accende a meno che non pre­ miate il pulsante. Quando lo avete premuto, quando c'è la luce, in­ contrate naturalmente la vuota conoscenza soffusa di consapevolez­ za. È esattamente ciò che gli esseri senzienti non fanno mai. Non sanno come riconoscere. Non accendono la loro luce. Se lo facesse­ ro, automaticamente sarebbe presente l'unico sapore della vuota co­ noscenza soffusa di consapevolezza, perché la nostra natura è la dharmatii, la nostra essenza è il rigpa. Ma, anche se gli esseri senzien­ ti a volte hanno una fugace visione dello stato naturale, non sanno cos'è, non lo riconoscono, ed esso diventa lo stato neutrale della 'ba­ se di tutto'. Quando siete a faccia a faccia con la vostra natura, se non iniziate a sforzarvi con famatha e vipafyanii o a creare la comune confusione, avete già visto l'essenza della mente. Sembra che non sia niente. Non essendo nessuna 'cosa', non c'è niente che possiate etichettare o de­ scrivere, niente di cui possiate farvi delle idee. È al di là del pensiero, della parola o della descrizione. Questa è la prajiiiipiiramitii, la cono­ scenza trascendente, giacché trascende qualunque soggetto e ogget­ to da conoscere. Permettetemi di ripetere la famosa citazione:

/

La conoscenza trascendente è al di là del pensiero, della parola e della descrizione. Non sorge né finisce, come l'identità dello spazio. È il dominio della sveglia presenza individuale consapevole di sé. A questa madre dei buddha dei tre tempi rendo omaggio.

Poiché rientra nel dominio individuale della sveglia presenza co­ noscitiva, chiunque può conoscerla. 'Dominio' qui vuol dire che è

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possibile riconoscerla. Ciò che viene riconosciuto non è qualcosa che possa essere pensato, descritto o spiegato tramite esempi. Questo sa­ pere è la madre di tutti i buddha dei tre tempi, chiamata Prajfiapara­ mita, la Grande Madre. La qualità dell'esperienza di tale sapere è il cosiddetto buddha maschile, mentre la qualità del vuoto è il buddha femminile. La loro unità è il Buddha Primordiale Samantabhadra in­ sieme alla consorte, chiamato anche Luce Immutabile. Il suo nome, Luce Immutabile, ha un profondo significato. La natura del Togal è la luce che non muta. In termini colloquiali si dice che il rigpa vive in una casa di luce, e che questa dimora di luce è le divinità, l'aspetto manifesto. Il dharmakaya Samantabhadra vive nella casa delle cinque famiglie di buddha, che è una dimora di luce. S T U D E N T E : So che dovrei integrare la pratica con la vita quoti­ diana, ma la maggior parte delle persone, incluso me stesso, sembra­ no sprecare la vita non facendolo. Come dovrei impostare la mia pratica nell'arco della giornata in modo da diventare esperto in bre­ ve tempo? RI N P O CH E : Devi allenarti alle 'tre eccellenze'. Prima di tutto, quando ti siedi per praticare, hai bisogno di un sostegno, che consi­ ste nel cercare rifugio nei tre Gioielli. Questo è il cuore della pratica del Hinayana. Poi ispirati con il bodhicitta formando questo intento: "Che tutti gli esseri senzienti siano liberi dalla sofferenza, possano tutti trovare la felicità. Possano tutti essere condotti alla completa il­ luminazione! " . Questo è il cuore del Mahayana. Oltre a ciò, ricorda­ ti che il tuo corpo è il mandala dei risvegliati. Va bene pensare che la propria forma sia quella del Buddha Sakyamuni o di Guru Rinpoche o del tuo yidam, chiunque sia. Pensa che la tua voce è l'essenza del mantra. Quest'ultimo può essere OM MA N I PA DME H U N G per Chenrezig, il mantra Vajra Guru per Padmasambhava, oppure TADYATHA O M M U N I M U N I, eccetera, per il Buddha Sakyamuni. Se non hai una divinità particolare, va bene ripetere soltanto OM AH H U N G SVAHA, che è l'essenza di tutti i sugata. Recitando questo mantra, tutta l'apparenza fisica diventa importante in quanto divi­ nità, mentre la voce udibile diventa importante in quanto mantra. Affinché la mente diventi importante, riconosci la tua essenza. Ve­ di con chiarezza che non c'è niente da vedere. Quando si riconosce l'essenza della mente, essa non è qualcosa di occulto o di astratto. È

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una realtà, una vivida presenza che non deve essere analizzata. In questa immediatezza il pensiero passato è già svanito e quello futuro non è ancora arrivato. Non far seguire al pensiero presente un nuo­ vo pensiero. Questo è ciò che fanno tutti gli esseri senzienti, aggiun­ gere continuamente un nuovo pensiero a quello presente. Se non c'è l'aggiunta di un altro pensiero, il collegamento tra i pensieri si inter­ rompe e quell'istante è libero dai tre tempi: non c'è passato, non c'è futuro, e non c'è un seguito del presente. Quando c'è libertà dai concetti dei tre tempi, proprio tale stato è la pura consapevolezza, la natura della mente. Questo viene definito 'sigillare naturalmente l'esperienza durante il giorno'. In realtà si tratta della prima parte di un'istruzione chiamata 'le quattro sedute che uguagliano la buddhità'. La prima, 'sigillare l'esperienza durante il giorno', significa che dovresti semplicemente riconoscere l'essenza della consapevolezza nel corso della giornata. Quando i movimenti della mente priù;a si dissolvono nella sveglia presenza originaria, il processo di inspirazione ed espirazione cessa completamente. Per dare inizio a tale dissoluzione, lascia che l'espi­ razione sia leggera. L'immagine è quella di un sitar con le corde rot­ te. Allora, lascia la mente non coinvolta nei pensieri del passato, del presente e del futuro, come una ruota idraulica da cui sia stato de­ viato il flusso delle acque. Considera qualunque cosa sperimenti, buona o cattiva, in uno stato libero tanto dalla speranza quanto dal­ la paura, similmente a un vecchio che osserva il gioco dei bambini. Rimani nella consapevolezza stabile. Accennerò brevemente agli altri tre aspetti, poi ne parlerò in mo­ do dettagliato. Le due sedute successive sono quelle che riguardano la notte: 'all'imbrunire, ritira i sensi spontaneamente' e 'di notte, trattieni la sveglia presenza nel vaso'. La prima è per la sera presto, l'altra è per la notte, quindi imbrunire e notte. 'All'alba ravviva la consapevolezza naturale', vuol dire spingere in alto la lettera AH mentre si grida HAH nello spazio celeste; si afferma che questo schia­ risce la consapevolezza. Scendendo nei dettagli, al calare della sera si dovrebbe praticare il tummo) che si basa sulla sillaba A-HA N G e sulla visualizzazione del fuocp con il beato calore. L'elemento rosso, che si manifesta sotto l'ombelico nella forma della A breve, ha la natura del calore ed è l'es­ senza di Vajravarahi. L'elemento bianco nella forma della sillaba

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visualizzata capovolta in cima al canale centrale, ha la natura della beatitudine ed è l'essenza stessa di Cakrasaq1vara. Questi due aspetti, i bindu bianco e quello rosso, vengono chiamati 'corpo basi­ lare'. Essi sono Vajravarahi e Cahrasaq1vara, e sono presenti origina­ riamente sin da quando il corpo inizia a formarsi. Dopo che hai rice­ vuto le istruzioni da un maestro, puoi praticare il tummo a fondo. In breve, la visualizzazione della fiamma che divampa e del gocciolio produce il beato calore. Tramite la pratica del tummo immagini di essere purificato da tut­ to il karma negativo creato con il corpo, la parola, la mente e la loro combinazione, nonché da tutti gli oscuramenti e le tendenze abituali che vengono bruciati completamente. Un'offerta della beata vacuità viene fatta ai t/aka e alle t/akinz che dimorano nel tuo corpo, nei ca­ nali, nei venti e nelle essenze. Il tuo corpo diventa perfetto, puro co­ me una sfera di cristallo. Pratica questa forma di tummo per tutta la sera a partire dall'imbrunire. Nel contesto delle 'quattro sedute che uguagliano la buddhità', anche se la parte principale della pratica è priva di sforzo, all'inizio devi esercitare un lieve sforzo per far pro­ gredire lo stato dell'assenza di sforzo. Di notte 'trattieni la sveglia presenza nel vaso'. Questo comporta la visualizzazione della sillaba AH luminosa in un loto con quattro petali nel centro del cuore, allo scopo di facilitare il riconoscimento della luminosità del sonno. Quando vai a dormire, distenditi nella pastura del Buddha coricato, la posizione in cui morì, anche chiama­ ta 'pastura del leone dormiente'. Metti la mano destra sotto la guan­ cia destra, la mano sinistra sulla coscia, e distendi le gambe parallele tra loro. In quel momento non devi immaginare il tuo corpo in una forma particolare; esso è così com'è naturalmente. La parte più im­ portante del corpo è il cuore, perciò immagina nel tuo centro del cuore un loto con quattro petali. Non è una forma fisica, ma un loto rosso con quattro petali in cui c'è la lettera AH, alta un paio di centi­ metri, che simboleggia la mente. Come una lampadina illumina l'in­ terno di una stanza, la sillaba AH illumina l'interno del tuo corpo, ir­ radiando luce intorno a te alla distanza di una freccia scagliata da un arco. La tua mente rimane nel rigpa e risplende illuminando lo spa­ zio intorno a te, 'l'intera valle', come dice il testo. La qualità manife­ sta è quella forma dello stadio dello sviluppo chiamata 'stadio del compimento con attributi'. In questo modo vai a dormire visualizHANG,

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zando la AH luminosa nel centro del cuore. Mentre la tua mente ri­ mane nel rigpa, in quello stato dolcemente ti addormenti. All'inizio dormi, perdi conoscenza per un breve periodo. Tuttavia in quel sonno c'è sempre la possibilità di riconoscere la natura della mente. Quando ciò accade, si parla di 'conquista della luminosità durante il sonno profondo'. L'esperienza non è bloccata, ma aperta. Anche se non vedi ciò che sta intorno a te e il tuo corpo è ancora ad­ dormentato, è come se dal sonno profondo emergesse uno stato completamente sveglio. Con l'allenamento è possibile abituarsi a ta­ le stato. Ripeto che all'inizio si visualizza, poi si rimane semplice­ mente nello stato privo di punto focale. La quarta istruzione è questa: 'all'alba ravviva la consapevolezza naturale'. Al risveglio ti siedi con la schiena diritta ed esclami "HAH l". Nel medesimo tempo immagini che la lettera AH nel centro del cuore esca nello spazio sovrastante passando attraverso la cima della testa. Essa appare con una forma visibile brillante e vivida. Fin­ ché non inizia a svanire, concentra semplicemente l'attenzione su quella immagine. Nel contempo riconosci l'essenza della mente, co­ sicché lo spazio e il rigpa si fondano inseparabilmente. Alla fine, quando la lettera inizia a svanire, immagina che la sua dimensione aumenti fino a diventare inseparabile dalla vastità dello spazio. È un sostegno della sveglia presenza che tutto pervade. Questo tipo di concentrazione è completamente priva di fissazione. Rimani nello stato della consapevolezza senza fissazione. Ci sono due tipi di con­ centrazione: con e senza fissazione. In generale, quando pratichiamo lo stadio dello sviluppo è definita una concentrazione con fissazione. La concentrazione specifica del sistema dzogchen è senza fissazione. Queste quattro istruzioni (sigillare l'esperienza durante il giorno, ritirare i sensi all'imbrunire, trattenere la conoscenza nel vaso duran­ te la notte e ravvivare la consapevolezza naturale all'alba) vengono chiamate 'le quattro sedute che uguagliano la buddhità'. Sono le quattro sedute del giorno e della notte. Uguagliare la buddhità vuoi dire /che, se potete praticare queste quattro sedute, non siete mai se­ par*ti dai buddha. Quando vi allenate a uguagliare la buddhità nei quattro periodi del giorno e della notte, non forzate, non esercitate mai pressione. Ogni cosa deve essere fatta con moderazione e rilas­ samento. Siccome la mente in se stessa è vacuità, non può essere for­ zata. Forzare non serve, vero?

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Per concludere le tre eccellenze, ogni giorno, ogni sera, ogni mat­ tina, ricorda sempre di dedicare il risultato, il beneficio della pratica, e ricorda di fare le invocazioni. Qualunque sia la tua pratica dello yi­ dam, ricorda sempre di dedicare i meriti. S T U D E N T E : La mia sensazione è che, se non trascorro del tempo in ritiro, non sarò in grado di conseguire la realizzazione nel Dhar­ ma. Ma nella mia situazione non posso rimanere in ritiro ininterrot­ tamente. Mi dispiace molto, considerando che ho ricevuto istruzioni tanto profonde. Cosa dovrei fare? R I N P O C H E : In effetti è una buona cosa sentirsi frustrati. La fase successiva consiste nell'agire sulla base di quella sensazione. Se non provi dispiacere o un senso di perdita, non praticherai mai in ritiro. Sappiamo di come hanno praticato i grandi maestri del passato. A loro volta hanno consigliato i discepoli di essere come un 'bambino della montagna' e considerare come compagni i cervi selvatici. Sii così, se vuoi seguire il loro esempio. Tuttavia sembra che non ne siamo realmente capaci. Ci sono pro­ blemi e ostacoli a praticare. Perciò dovresti cercare di trovare il com­ promesso ideale: per esempio, ogni anno potresti rimanere sei mesi in ritiro, oppure ogni tre mesi potresti fare un ritiro. Più ti alleni alla pratica e meno difficile diventa. Potresti anche dedicare due mesi al­ la pratica intensiva, uscire dal ritiro per lavorare e guadagnare, quin­ di tornare in ritiro. Può essere più pratico. È difficile abbandonare ogni cosa per vivere nelle grotte sulle montagne. In particolare, non è così facile se hai già una famiglia e persone che dipendono da te, dal punto di vista finanziario ed emotivo. Se le abbandoni, sarà doloroso per loro. Se è la tua situazione, non puoi !asciarli per sempre. Ma anche in questo caso non è impossibile fare un ritiro. Allora fa due mesi di pratica, come ti ho appena suggerito. C'è una ragione per cui tutti i buddha e i maestri del passato han­ no sempre incoraggiato i praticanti a cercare luoghi remoti dove pra­ ticare in solitudine. La semplice ragione è che in quei luoghi ci sono meno distrazioni. Nella vita ordinaria ci facciamo prendere facilmen­ te da ogni sorta di occupazioni e compiti, che ci consumano al pun­ to che non facciamo nessun progresso reale nel samadhi. Rimanendo in un luogo tranquillo, metà delle distrazioni sono già eliminate. Questa è la ragione per cui tutti i buddha hanno detto: "Rimanete in solitudine sulla montagna o nella giungla".

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Lo stesso Buddha ha indicato la via ai praticanti futuri con l' esem­ pio della sua vita, lasciando il regno, il palazzo e tutti i piaceri di quella condizione. E lo ha fatto senza attaccamento, come se tutte quelle cose fossero uno sputo. Quando lo sputo è a terra, non cerca­ te di riprendervelo, vero? Questo è l'esempio dato dal Buddha ai praticanti. Non avrebbe agito in quel modo se non fosse l'esempio da seguire. Se ci fosse un altro modo d'essere, il Buddha avrebbe agito in quella maniera, avrebbe dato un altro esempio. C'è un motivo preciso. Da vite senza inizio ci siamo completa­ mente radicati nell'abitudine a collegare di continuo tre cose: gli or­ gani sensoriali, gli oggetti sensoriali e le conoscenze. Sinceramente, è difficile trovare in ventiquattro ore un solo istante in cui una persona comune rimanga davvero nella naturalezza inalterata. Questa abitu­ dine è l'esatto opposto della pratica del Dharma. Dobbiamo allenar­ ci all'abitudine del samiidhi. All'inizio sembra molto difficile. A me­ no che non abbandoniamo le occupazioni normali prendendo un po' le distanze, non avremo la possibilità di cambiare le abitudini ne­ gative, profondamente radicate, della nostra mente. Semplicemente non accadrà. Questo è il motivo per cui tutti i buddha e i grandi maestri inco­ raggiano le persone a ricercare luoghi tranquilli per diventare stabili nel riconoscimento della natura di buddha. La tradizione della Ma­ hiimudrii insegna che praticando la 'triplice solitudine' ci si avvicina ai tre vajra innati e li si realizza. La tradizione dello Dzogchen ci dice di abbandonare le nove attività. Non è facile seguire questa profon­ da e meravigliosa istruzione mentre si è presi dalla vita ordinaria. Ec­ co la ragione per cui tutti i grandi maestri incoraggiano i praticanti a rimanere in ritiro. S T U D E N T E : Come dobbiamo impostare un ritiro di Trekcho? Co­ me dividiamo la giornata in sedute e come le impostiamo? R I N P O CH E : Dobbiamo imparare i principi di un gomdra, un riti­ ro di meditazione. Un gomdra non è un drubdra, vale a dire un ritiro di siidhana. Nel ritiro di meditazione spesso i praticanti siedono al­ l'aperto. li ritiro dovrebbe essere moderato, non troppo duro o rigi­ do"'.È molto importante. Sedete per non più di tre ore di seguito. La maggior parte delle persone non può sedere dall'alba al crepuscolo; ha bisogno di intervalli per andare in bagno e mangiare. Inoltre ha bisogno di rilassarsi. Se impostate un ritiro che comporta lo stare se-

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duti continuamente dal mattino alla sera, la maggior parte delle per­ sone si stancherà e abbandonerà tale pratica. Non avrà un buon esi­ to. Il Buddha ha detto che la forma esteriore dell'allenamento do­ vrebbe tener conto del tempo e del luogo del paese. In altre parole, dovrebbe essere adatta alle persone di quell'area. Anche se un praticante può desiderare di iniziare un ritiro, non è detto che abbia compreso perfettamente l'essenza della mente e 'ac­ certato lo stato naturale'. Se nel luogo del ritiro non c'è un maestro che indichi lo stato naturale, dovreste aver ricevuto l'istruzione in precedenza; in questo modo, se non c'è nessun altro insegnante, po­ tete essere il vostro insegnate. Se non c'è nessun altro a guidarvi, do­ vete ripensare a ciò che il guru vi ha insegnato. Inoltre, studiate i ma­ nuali di meditazione. Scoprite come gli insegnamenti corrispondono alla vostra esperienza, finché non comprendete chiaramente il rigpa. Esaminate la vostra esperienza, finché non scoprite che è completa­ mente libera da qualsiasi fissazione sul soggetto e sull'oggetto. E così che potete essere la vostra guida, interiormente. A un certo punto dovreste raggiungere la certezza, cosicché, anche se incontraste cen­ to pa!Jt:/ita, ed essi vi dicessero che siete nell'errore, non avreste nes­ sun dubbio. Nessuno dall'esterno può darvi quella certezza. Che voi siate insieme a un insegnante o da soli, l'insegnante reale è sempre voi stessi e la vostra esperienza. In ultima analisi, voi avete la respon­ sabilità, prima di tutto, di capire ciò che viene spiegato e, in secondo luogo, di appurare se la vostra esperienza corrisponde o no a ciò che è stato spiegato. Il punto essenziale dell'allenamento del rigpa è come segue. Senza meditare su qualcosa 'laggiù', rimanete liberamente. Senza tenervi stretti a 'qualcosa qui', siate onnipervasivi. Senza dimorare su qual­ cosa nel mezzo, rimanete nella totale apertura. Sono questi i tre pun­ ti essenziali del rigpa: rimanere liberamente, essere pervasivi, ed esse­ re totalmente aperti. Qualsiasi altro allenamento meditativo di solito si ferma alla considerazione che ci sia un oggetto 'laggiù' da tenere a mente, oppure si limita alla concentrazione su qualcosa interiormen­ te. Chi non si concentra su niente dentro o fuori di sé, spesso pensa che ci sia uno stato di mezzo da mantenere. Questa meditazione diventa come il samatha convenzionale. - " Lasciando andare questi tre punti di riferimento, c'è una traspa­ renza totale, un'apertura completa che costituisce un aspetto essen-

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ziale del rigpa. In tibetano si dice zangtal, che vuol dire assenza di impedimenti. È come questa finestra, attraverso la quale potete vede­ re senza ostacoli l'intera valle. Un'altra analogia è quella del setaccio che permette all'acqua di passare liberamente, senza essere trattenu­ ta in nessun modo. Quando ci si allena al rigpa, si dovrebbe com­ prendere che la qualità dell'apertura non ostacolata è quella più im­ portante. In altre parole, non fissatevi all'esterno, rimante liberamen­ te. Non concentratevi all'interno. Non mantenete un punto di riferi­ mento intermedio tra l'esterno e l'interno. Questo è zangtal. Adesso vi racconto un aneddoto su un gomdra nel Tibet orientale. Una volta la seconda incarnazione di Chokgyur Lingpa fu invitata al monastero Dzogchen, dove c'era anche un drubdra. Mio padre, Chi­ mey Dorje, andò insieme al Chokling Tulku di cui faceva l'assistente. È da lui che ho sentito questo racconto. Nel gomdra c'erano circa sessanta meditanti, e tutti praticavano all'aperto. Si sedevano rag­ gruppati in cinque o sei file, con la schiena diritta. Dietro e davanti le teste, appena sotto il collo, erano stati tesi dei fili sottili. Se i prati­ canti si fossero addormentati piegando la testa in avanti o indietro, il filo si sarebbe rotto. A quel punto il sorvegliante del gomdra avrebbe detto avvicinandosi: "Ehi, hai rotto il filo ! " . In quel tipo di pratica, durante il periodo della seduta vera e pro­ pria, non ci si deve muovere assolutamente. Durante il rigpa si do­ vrebbe lasciar essere completamente. Inoltre si suppone che il prati­ cante non muova gli occhi. Per i principianti è difficile non battere le palpebre, ma col tempo si può rimanere senza muoverle. Per assicu­ rarsi che i meditanti mantenessero tale disciplina, il sorvegliante del gomdra a volte gli metteva un po' di polvere rossa di sindhura sotto gli occhi. Se avessero battuto le palpebre, la polvere rossa si sarebbe depositata sulle ciglia, prova evidente del fatto. Comunque, anche lì, al gomdra, i praticanti non sedevano di continuo dal mattino alla se­ ra. Pure loro avevano delle sedute. Questo è un esempio dell'allena­ mento all'abbandono totale delle nove attività.

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Senza fissarvi su nulla, lasciate la consapevolezza nello spazio pri­ vo di sostegno. Il rigpa è indeterminabile. Un punto di riferimento potrebbe essere la nozione: "Questo vuoi dire mantenere il rigpa". Se c'è un punto di riferimento, un centro, non c'è la trasparenza si­ mile all'apertura dello spazio. Quando mirate con un fucile, il bersa­ glio è ciò che si definisce un punto di riferimento. Come intendete mirare al cielo? Non c'è un bersaglio a cui mirare. Se c'è un obietti­ vo come "bene, questo è il rigpa ed è il mio scopo", diventa concet­ tuale, limitato. Ripeto che il rigpa ha tre caratteristiche: il fatto di ri­ manere liberamente senza immaginare che ci sia qualcosa, la condi­ zione pervasiva che consiste nel non concentrarsi interiormente, e l'assenza di impedimenti, la totale apertura del non fissarsi su nessu­ no stato intermedio. Nel Bodhicaryavatara di Santideva c'è un'affer­ mazione che esprime il modo di vedere finale della Via di Mezzo: Quando davanti all'intelletto non rimangono né la concretezza né la non concretezza, in quel momento non c'è nessun'altra forma mentale, perciò c'è totale pace senza eccezioni.

Nelle note del commentario al Lamrim Yeshe Nyingpo, l'illustre maestro Ju Jamyang Drakpa spiega che la concretezza e la non con­ cretezza sono le nozioni dell'esistenza e della non esistenza. In riferi­ mento all'esperienza, se si mantiene la convinzione che il rigpa); una cosa esistente oppure una cosa inesistente, si tratta sempre di pensie-

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ri. Quando non si mantiene nessuna convinzione, nella mente non rimane nient'altro. In altre parole, essere totalmente privi di un pun­ to di riferimento, di una nozione fissa, è il vero modo di vedere. Na­ garjuna ha detto: Mantenere l'idea dell'esistenza vuol dire essere nell'illusione come un animale. Però, mantenere l'idea dell'inesistenza è un'illusione ancora maggiore.

Non si deve pensare che il rigpa sia irreale, e neppure che sia un'entità eterna; infatti, che si pensi in un modo o nell'altro, in en­ trambi i casi si tratta di concetti. Fino a quando c'è qualche nozione o punto di riferimento, esso ricopre la nudità, il libero stato origina­ rio dell'apertura che è il rigpa. Dobbiamo essere liberi dalle idee della permanenza e del nichili­ smo. Permanenza vuol dire credere che qualche entità sia eterna, mentre il nichilismo consiste nel credere che non ci sia nulla. Se si cade in uno di questi due estremi, c'è la fissazione su qualche con­ cetto. Ma noi dobbiamo esserne liberi. Ecco perché Ju Jamyang Drakpa parlava dello stato della mente che non si aggrappa a nulla, né alla nozione dell'esistenza né a quella dell'inesistenza. Quando non ci si fissa su nulla, la mente non è presa dal pensiero. Tutto l'in­ segnamento è incluso in queste tre affermazioni: Rimanere liberamente è non immaginare qualcosa là fuori. Essere pervasivi è non vincolare qualcosa qui dentro. Non impedimento è non dimorare in qualche stato intermedio.

È così che viene descritto il rigpa: non immaginare là, non vincola­ re qualcosa qui, non dimorare su niente nel mezzo. In tutti e tre i ca­ si c'è un'assenza di posizione concettuale. 'Rimanere liberamente' vuol dire non mettere a fuoco o meditare su qualcosa come se si trovasse là. 'Essere pervasivi' vuol dire non vincolare qualcosa come se si trovasse qui dentro di sé. 'Non impe­ dimento' o apertura consiste nel non dimorare su qualcosa nel mez­ zo. Si potrebbe anche dire: non proiettatevi all'esterno, non concen­ tratevi interiormente e non fermate la vostra attenzione su uno stato intermedio. Non fare nulla di tutto ciò è il modo di vedere. Questo è

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sufficiente. Non proiettatevi esteriormente. Non concentratevi inte­ riormente. Non ponete la mente in un luogo intermedio. Allora non c'è niente da fare. Siete arrivati al non fare. Non è vero? Se dite a qualcuno: "Non andare fuori, non stare dentro e non ri­ manere neppure nel mezzo ! ", cosa farà quella persona? Non c'è niente da fare, giusto? Il modo di vedere è il non fare, nel senso che non è una 'cosa' da fare. Dobbiamo comprendere il modo di vedere del non fare, e abbandonare il modo di vedere delle cose che devono essere fatte. 'Fare' si riferisce a ciò che comporta un agente e un'azio­ ne. Se abbandonate tanto l'agente quanto l'azione, che importa? Una volta che avete abbandonato l'agente e l'azione, ciò che rimane è la vera natura dell'agente e dell'azione, che sono Samantabhadra e Sa­ mantabhadri, i quali non hanno assolutamente nulla da fare. Non c'è niente che debba essere fatto; c'è soltanto la realtà com'è. Ecco il mo­ do di vedere che dobbiamo comprendere. In ultima analisi, sino a quando cerchiamo di immaginare, visua­ lizzare o meditare, continuiamo a vincolarci. In quanto principianti non possiamo evitarlo. All'inizio abbiamo bisogno di meditare con un po' di sforzo per poterei avvicinare allo stato del non sforzo. Si afferma che "la via dello sforzo conduce all'assenza di sforzo" . Nella Via di Mezzo lo sforzo deliberato di meditare viene chiamato atten­ zione. L'attenzione è attenta, giacché c'è un senso di essere vigile, scrupoloso e accorto. Alla fine l'attenzione è libera dai quattro limiti e dagli otto concetti. Nella Mahamudra questo sforzo viene chiama­ to vigilanza, paragonabile a un pastore che tiene d'occhio il bestiame osservando con attenzione se beve acqua o mangia erba. Sottolinea­ re l'importanza della vigilanza porta a notare la condizione della mente. In voi ci deve essere qualcuno che mantiene la vigilanza. Nel­ lo Dzogchen ciò viene chiamato presenza, in cui l'attenzione e la vi­ gilanza sono in divisibili. A questo punto l'attenzione e la consapevo­ lezza-rigpa non sono due cose diverse. L'allenamento dello Dzogchen è libero dall'osservatore e dall'os­ servato. La presenza nello Dzogchen è priva del sottile concetto di soggetto-oggetto che di solito rimane nell'attenzione. Nello Dzog­ chen, l'attenzione è rigpa, il rigpa è attenzione. Quando viene accesa, la luce risplende da sola. Questo è il risultato final� di tutti i diversi sentieri: non appena accediamo la luce, non dobbiàmo fare nulla. È evidente che per accenderla avete bisogno di due cose: il pulsante

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sul muro e l'atto di premerlo. La presenza è come la luce che ri­ splende naturalmente. Questo è il punto in cui l'attenzione diventa priva di sforzo, dopo che l'attenzione deliberata è svanita. In breve, l'essenza dei tre grandi modi di vedere è questa: attenzione, vigilan­ za e presenza. Sinceramente, per un principiante, senza l'attenzione del ricordo non è possibile riconoscere l'essenza della mente. Questa viene chia­ mata attenzione deliberata. È la mente dualistica che vi ricorda di ri­ conoscere, ma vedere che non c'è niente da vedere è rigpa, lo stato risvegliato libero dalla dualità. La differenza diventa chiara grazie al­ l'esperienza pratica. In altre parole, uno yogi può vedere distinta­ mente la differenza tra i due stati, ma il principiante non ne è in gra­ do. Perciò, all'inizio è indispensabile 'ricordarsi'. Dopo tutto, il rigpa è rimasto intrappolato nel sem, la mente dualistica, da vite senza ini­ zio. L'essenza si è persa nella sua espressione. Perdersi nell'espressione, o non riuscire a discernere tra l'essenza e l'espressione, equivale a confondere la luce solare con il sole. Se domandate cos'è il sole, c'è chi non è così sicuro se sia la luce solare o l'astro in cielo. Allora qualcun altro dovrà dire: " No, questa luce non è il sole. Guarda in cielo" . Voi guardate e vedete il sole, e dite: "Oh, sì, ecco il sole vero e proprio" . È un esempio della differenza tra l'essenza e l'espressione. Gli esseri ordinari sono intrappolati nel­ l' espressione, nel pensiero. Confondono la luce che risplende nel mondo con il sole. Tuttavia, se esaminiamo la situazione attentamen­ te, giungiamo alla conclusione che la luce non è il sole. Il sole è in cielo. Anche se la sua manifestazione, la sua espressione, può appari­ re nel medesimo tempo in centinaia di migliaia di specchi d'acqua, tutte queste apparenze sono soltanto riflessi, non sono il sole stesso. Possiamo discernere tra la cosa in se stessa e il suo riflesso? Per di­ ventare illuminati dobbiamo vedere la differenza tra l'essenza e l'espressione. Gli esseri senzienti sono intrappolati nell'espressione, mentre la loro essenza è la vuota conoscenza sconfinata. La mente de­ gli esseri senzienti è sempre la vuota conoscenza sconfinata, ma in lo­ ro l'aspetto conoscitivo si aggrappa al soggetto e all'oggetto. Essi per­ cepiscono una dualità là dove non esiste nessuna dualità. Il samsara continua all'infinito a causa di questa fissazione dualistica. I buddha e i bodhisattva non si aggrappano a nessuna dualità, perché riconosco­ no l'essenza della mente. Quindi non sono coinvolti nella loro espres-

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sione e rimangono come l'essenza. In breve, la differenza tra la mente di un essere senziente e quella di un buddha consiste nella differenza tra farsi prendere dall'espressione ed essere stabili nell'essenza. La mente di buddha è l'unità del vuoto e della conoscenza, asso­ lutamente senza fissazione. La mente di un essere senziente è l'unità di vuoto e conoscenza, ma con la fissazione. La differenza non sta dunque nel fissarsi o non fissarsi? Cosa vuoi dire in questo caso fis­ sarsi? La fissazione equivale a credere che il riflesso del sole nell'ac­ qua sia il sole stesso. I buddha e i bodhisattva sono paragonabili a chi comprende che il sole in cielo è il sole reale, quindi non sono in­ gannati dalle sue manifestazioni. Se, mentre l'espressione si manife­ sta, ne riconoscete la sorgente, raggiungete l'essenza. Se seguite l'og­ getto del pensiero, vi perdete nell'espressione. Mfinché l'espressione risplenda come visione intuitiva, dovete riconoscere l'essenza. È co­ me riconoscere il sole stesso. Se pensate che il riflesso sia il sole, non vedrete mai il sole reale, bensì soltanto i suoi riflessi. Ripeto che una persona comune è chi pensa che il riflesso sia il so­ le reale. Il sole e la sua luce sono indivisibili. L'identità di qualsiasi pensiero è l'unità della vuota conoscenza, ma quella persona non lo sa. Se l'attenzione è concentrata sul riflesso, c'è un soggetto e un og­ getto. È così che appare la dualità, e questo è ciò che si intende con la frase 'le apparenze ingannano'. Quando c'è l'acqua, è possibile che appaia un riflesso. C'è un riflesso e c'è il luogo del riflesso: que­ sta è dualità. Ma, nell'istante in cui si riconosce il sole stesso, non c'è dualità. La mente di un essere senziente insegue i propri riflessi e vi rimane intrappolata. Questo è il samsara: lasciarsi prendere dalla fis­ sazione sul soggetto e sull'oggetto. Un vero yogi è chi interrompe il movimento dell'attenzione in questa fase iniziale. Invece di confondere il riflesso nell'acqua con il sole, egli riconosce il sole stesso sin dall'inizio. Riconoscere la realtà effettiva, la nostra vuota conoscenz�, significa riconoscere l'essenza della mente. Se guardate lontano dal sole, seguendo il suo riflesso nell'acqua, potete continuare così per un miliardo di eoni senza mai vedere il sole reale. I pensieri diventano senza fine, incessanti, a cau­ sa del ripetuto collegamento tra soggetto e oggetto, come quando si osservano i riflessi sulla limpida superficie dell'acqua. I buddha e i bodhisattva interrompono il movimento dei pensieri nella sua fase iniziale. Prima che l'attenzione si muova verso un oggetto, c'è il rico-

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noscimento. Perciò non c'è bisogno di farsi coinvolgere nella falsità, nell'illusione. Se non ci si smarrisce nel movimento del pensiero, co­ me può essere creato un samsara? Quando non c'è la dualità di sog­ getto percettivo e oggetto percepito, cosa può creare il samsara? La qualità vuota dell'essenza della mente è come lo spazio; la qua­ lità conoscitiva è come la luce solare. L'unità delle due qualità è pa­ ragonabile allo spazio illuminato dal sole, come il cielo diurno. Quel tipo di cielo è un esempio di ciò che chiamiamo spazio basilare; e la conoscenza di quello spazio è il rigpa. L'unità indivisibile dello spa­ zio basilare e del rigpa è Samantabhadra, il buddha originario. La realizzazione di tale unità viene chiamata il risveglio al fondamento, allo stato originario. Questo è esattamente ciò che noi esseri senzien­ ti non siamo riusciti a realizzare. Abbiamo confuso il fondamento dello spazio basilare, e siamo rimasti intrappolati nella credenza che il riflesso del sole nell'acqua sia il sole stesso. L'acqua è come i tre re­ gni. n soggetto è i sei tipi di esseri senzienti che vagano come riflessi in movimento sull'acqua. In breve, siamo intrappolati nella falsità. È ciò che ci è accaduto e continua ad accaderci. Il nocciolo della questione qui è come riconoscere l'essenza della mente. Riconoscere è il nirvana; non riconoscere è il samsara. Se non sapete dove guardare per vedere il sole, come potrete mai vederlo? È questa la condizione di tutti gli esseri senzienti: possiedono la natura di buddha, ma non riconoscono ciò che già hanno. Abbiamo già in noi stessi il sole reale. Ma siamo scivolati nell'attaccamento al sogget­ to e all'oggetto, chi percepisce e ciò che viene percepito, proprio co­ me se credessimo che il riflesso sia il sole effettivo, cosa che non è. Non sarà mai il vero sole, mai. Uno yogi è chi che non crede che il ri­ flesso sia il vero sole, e perciò sa come vedere il sole. Per costui non c'è la dualità del soggetto che percepisce e dell'oggetto percepito. L'essenza è già vista prima che l'attenzione si muova, cioè senza la­ sciare che l'attenzione si muova verso un oggetto. Gli esseri senzien­ ti, invece, non interrompono il movimento allo stadio iniziale, ma se­ guono ciò a cui pensano. n movimento dell'attenzione non può esse­ re interrotto se non vedendo la sua essenza. Se non si vede l'essenza, il movimento del pensiero continua come le onde sulla superficie dell'acqua o i grani sul filo del rosario, uno dopo l'altro, da tempo senza inizio fino a questo momento, pensando una cosa, un'altra e un'altra ancora, all'infinito.

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L'autentico modo di vedere sta nella modalità in cui si osserva. Se vi perdete, come potete mai ritrovarvi guardando da un'altra parte? Dove potete andare, e quanto lontano, per ritrovarvi? Nello Dzog­ chen si afferma che questa situazione equivale a 'seguire le tracce dell'elefante nella jungla, mentre il pachiderma è dentro la casa di chi lo cerca'. Se volete sintetizzare tutti gli insegnamenti in un solo punto: rico­ noscete la vostra mente. n riconoscimento a volte può essere facilita­ to esclamando la sillaba PHAT, metodo che appartiene al prezioso potenziamento della parola. Quando i pensieri dei tre tempi si sono dissolti, non rimane nient'altro che l'essenza. Tutto ciò che possiamo ricordare, pensare o pianificare appartiene ai pensieri del passato, del presente o del futuro. Quasi tutte le persone quando esclamano un energico PHAT si sentono stordite, hanno una sorta di vuoto mentale, sperimentano uno stacco. Se non c'è il riconoscimento del­ l' essenza, lo stacco mentale diventa uno stato neutrale, indifferente. Ma la condizione di questo stacco, se riconoscete l'essenza della mente, è libera dai pensieri dei tre tempi. Se c'è il riconoscimento, non rimanete intrappolati nella sensazione di stordimento. Ma se sprofondate nella sensazione di stordimento o stacco mentale, cade­ te nell'incoscienza. Questo è l'aspetto inconsapevole della 'base di tutto', da cui scaturisce soltanto il samsara. Nell'istante in cui si esclama PHAT, essendo liberi dai pensieri dei tre tempi, ci deve essere la qualità del riconoscimento, per cui non si è unicamente inconsapevoli o incoscienti. Non è come se qualcuno ci mettesse K. O. con una spranga, nel qual caso non c'è assoluta­ mente il riconoscimento. Essere incoscienti significa solo ottusità. In quello stato non c'è simpatia o antipatia, due dei tre veleni. Tuttavia, nell'incoscienza è presente l'ottusità, il terzo veleno. L'opposto del­ l' ottusità è la qualità della conoscen� dovuta al riconoscimento del rigpa.

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Quando esclama PHAT, lo yogi ritonosce il rigpa. Se praticate co­ sì, siete veri meditanti. Non serve a nulla gridare PHAT a chi non è un meditante. In Kham, alcuni yogi imbroglioni interpretavano il ruolo molto bene. Avevano lunghi capelli raccolti sulla cima della te­ sta e fissavano gli occhi nel vuoto. Guardando la gente con sguardo vacuo dicevano: " Non vedete che ogni cosa è soltanto la mente, e che tutto ciò che è mente è vuoto? Tutto è la magica manifestazione

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della mente ! Non lo vedete? Adesso vi introduco al rigpa". Quindi gridavano con forza PHAT. Ma per introdurre qualcuno al rigpa do­ vete riconoscere personalmente ed essere nello stato del rigpa. Se il maestro è un impostore e lo studente non è pronto, gridare PHAT equivale a scattare un'istantanea della mente dualistica! A meno che non siate stabili nell'essenza, non sperimentate que­ sto tavolo come vuoto. (Rinpoche batte sul tavolo.) Se voi siete stabili nell'essenza, non affondate nell'acqua, non venite bruciati dal fuoco, e la terra non vi è di ostacolo. Uno yogi pretenzioso che dica: "Tutte le apparenze sono la mente, ogni cosa è vuota" , non è a questo livel­ lo di realizzazione. La sua è soltanto una vacuità immaginata. Se per voi è una realtà, se è evidente che tutte le apparenze sono vuote, al­ lora la vostra mente non si fissa su nulla. Una prova di ciò è che al momento della vostra morte lasciate questo corpo come una luce d'arcobaleno. n corpo è arcobaleno e tutte le apparenze sono traspa­ renti. Potete attraversare liberamente montagne o muri. Anche se nell'esperienza dello yogi non c'è nessun impedimento, non è affatto così nell'esperienza generale delle persone comuni. Uno yogi realiz­ zato può fare qualsiasi cosa (nuotare nell'acqua come un pesce o vo­ lare in cielo come un uccello) perché il suo corpo è come un arcoba­ leno. Quando Padmasambhava e i suoi venticinque discepoli se ne andarono, non rimase un solo cadavere da nessuna parte. A Yerpa, nel Tibet centrale, Padmasambhava ebbe ottanta discepoli realizzati (siddha), e in altri luoghi ne ebbe trentacinque, nonché venticinque discepole qakini, e tutti ottennero il corpo d'arcobaleno. Anche molti maestri delle quattro scuole maggiori Kagyii e delle otto scuole minori potevano volare come uccelli, spiegando i loro scialli come ali per librarsi in volo. Tra questi maestri ci sono stati tre uomini del Kham, discepoli di Gampopa; uno di loro si chiamava Seltong Shogom.1 Sulla parete della montagna sovrastante la resi­ denza del re di Nangchen c'è una grotta dove Seltong Shogom di­ venne invisibile e ottenne il corpo celestiale. In quel luogo le qakini crearono uno stupa di sabbia secondo le proporzioni Kadam. Lo stupa nella grotta si trova a un'altezza equivalente a un palazzo di tredici piani. In seguito la gente dovette costruire un tempio di quin­ dici piani per poter arrivare allo stupa. Questo siddha aveva cinque' La storia è spiegata dettagliatamente in Dipinti di arcobaleno (Astrolabio, Roma

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cento discepoli, e anch'essi potevano volare insieme a lui. Ancora oggi potete vedere dove atterravano, perché hanno lasciato le im­ pronte dei piedi sulla roccia, un gruppo di cinquanta o sessanta. Ci sono impronte rivolte verso ovest, lasciate al mattino quando volava­ no in quella direzione. E ci sono impronte rivolte verso est, lasciate al pomeriggio quando ritornavano. Vedendo tutte quelle impronte rimanete stupefatti. Non è soltanto un racconto. Ci sono stati anche molti yogi e molte yogini nelle scuole Drukung e Drukpa Kagyii. Le loro realizzazioni sono dovute alla padronanza del samadhi. S T U D E N T E : Come devo mantenere lo stato di consapevolezza senza smarrire il modo di vedere o cadere nel samatha? R I N P O CHE: Ananda chiese al Buddha: "Ti prego di dirmi come si mantiene il modo di vedere della vacuità; ho delle difficoltà, non so­ lo mentalmente ma anche fisicamente, rispetto alla respirazione, e così via. Non è una cosa facile mantenere il modo di vedere della va­ cuità". Ananda continuò: "Se mi concentro, finisco per irrigidirmi molto, e diventa difficile. Ma se mi rilasso, mi distraggo e inizio a pensare ad altre cose. Cosa dovrei fare?". n Buddha disse: "Tu sai suonare il sitar, giusto? " . Ananda rispose: " Sì, l o suono molto bene" . n Buddha continuò: "Come ottieni il suono perfetto d a ogni cor­ da? Tendendola particolarmente o allentandola del tutto ? " . Ananda replicò: "No, n é tendendola troppo n é allentandola, ma mantenendo un perfetto bilanciamento fra la tensione e l'allenta­ mento" . Il Buddha disse: "Bene, allora già sai. È proprio così che s i man­ tiene il modo di vedere della vacuità". Ananda disse: "Capisco" . S e ci lasciamo andare completamente, ci distraiamo, e s e ci irrigi­ diamo troppo sulla concentraziond, creiamo ostacoli sia fisici sia mentali. Quindi, il modo in cui dovresti praticare è quello insegnato dal Buddha! Forse sai suonare la chitarra; sei capace di accordarla? Cos'è meglio, tendere al massimo le corde o !asciarle allentate? S T U D E N T E : La miglior cosa è una via di mezzo. R I N P O CH E : Giusto ! È così che ha insegnato il Buddha. Se ci rilas­ siamo totalmente !asciandoci andare, la pratica scivola nella distra­ zione. Dobbiamo concentrarci su ciò che è come lo spazio. Ma come

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puoi concentrarti sullo spazio? Prova ad afferrarlo a lungo. Ne risul­ ta qualcosa oltre a una mano stanca? È l'unica cosa che ottieni. Quindi il modo non è la tensione. Ma se ti lasci andare completa­ mente, sei trascinato dalla distrazione, e la_pratica finisce per dissi­ parsi. Non è vero? Invece, fa' come disse Ananda: " Non tendendo troppo, non allentando eccessivamente, ma in un modo bilanciato" . È così che dovresti allenarti alla vacuità. S T U D E N T E : Ci sono dei trucchi a cui i praticanti possono ricorre­ re per ricordarsi di essere attenti tra una seduta e l'altra, come quan­ do sono preso dalle attività della vita quotidiana, il lavoro e così via? Ogni volta che mi ricordo di essere attento, mi rendo conto che è trascorso molto tempo dall'ultima volta che sono stato consapevole. Per me è un po' imbarazzante. Mi chiedevo se ci sono dei trucchi da utilizzare per ricordarsi. RI N P O CH E : Bene, ho una domanda per te. Quando vedi un uc­ cellino che mangia un chicco di grano, noti che immediatamente guarda all'insù e con la testa fa così (Rinpoche imita un uccello che si guarda attorno mentre mangia.) Lo fa in continuazione. Per quale motivo? S T U D E N T E : Ha paura dei rapaci in volo sopra di lui. R I N P O C H E : Sì. Noi possiamo trascorrere facilmente tutta la vita nell'estensione nera del pensiero confuso, il che è molto più perico­ loso di quei rapaci. Qui la perdita è molto più grave che non la vita di un uccello. Come la paura ricorda all'uccello di guardare, guarda­ re, lascia che la paura della disattenzione ti ricordi di essere attento. Se temi il rapace della dissipazione inconsapevole e mantieni in men­ te tale timore, te ne ricorderai spesso, proprio come l'uccellino. Quando ti ricordi di essere attento, riconosci all'istante l'essenza del­ la mente. Se non te ne ricordi, chi altri lo farà? Se non raggiungi la terraferma, chi ti farà uscire dall'acqua? Cos'è più importante per te: il lavoro che ti domina in questa vita o il conseguimento della libera­ zione e dell'illuminazione? S T U D E N T E : Il conseguimento della liberazione e dell'illumina­ zione. R I N P O CH E : Qual è lo scopo effettivo del nostro lavoro in questa vita? Prima di tutto, accumulare denaro; quindi proteggerlo affinché non svanisca; poi aumentare le riserve. Sono queste le tre occupazio­ ni di una persona mondana: accumulare ricchezza, conservarla e au-

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mentarla. Il nostro sforzo principale in questa vita consiste nel fare soldi e ricercare i piaceri che possiamo acquistare con il denaro. La gente affronta tantissimi problemi per riuscire ad accumulare dena­ ro. Poi deve proteggerlo affinché non venga rubato o non scompaia in qualche altro modo. Inoltre non ci accontentiamo di ciò che ab­ biamo; vogliamo avere sempre di più. I nostri investimenti devono crescere. N on è vero che queste attività ti fanno soltanto rimanere nel samsara? Quant'è assurdo! Nessun capitale, per quanto grande, può consentirti di acquistare l'illuminazione e la liberazione! Non è vero al cento per cento? Cos'è più importante per te? È più importante diventare ricco, oppure realizzare la natura innata tramite la meditazione ed essere del tutto libero dalla sofferenza? Generalmente temiamo la sofferen­ za e speriamo nel piacere. Tutti questi piaceri e dolori samsarici, tut­ te queste speranze e timori, cosa possono arrecarci? Il piacere può aiutare in questa vita, ma non nella prossima, o in quelle future. Lo stato del samadhi, il riconoscimento della tua natura innata e la sta­ bilità in quello stato, possono sradicare la sofferenza per tutte le tue vite future. Nelle vite future non sentirai neppure la parola 'sofferen­ za'; passerai da uno stato felice all'altro. Quale delle due condizioni vale di più ed è di maggior beneficio? S T U D ENTE : L'ultima. R I N P O CH E : Il samadhi, giusto ! Non hai bisogno di accumulare il samadhi, non devi proteggere lo stato del samadhi, non devi aumen­ tarlo; puoi abbandonarlo completamente nell'istante del riconosci­ mento. È come ha detto Patriil Rinpoche: "Lascia, lascia ogni cosa; questo lavorare per il beneficio degli esseri". Non hai cibo e vestiti a sufficienza in questo momento? Il tuo corpo è sano, giusto? Renditi conto che non c'è nient'altro da accumulare, da proteggere e aumen­ tare. Diversamente diventi schiavo dellatua ricchezza e dei tuoi pia­ ceri. E ne risulta soltanto ulteriore samsara, i tre regni e i tre stati in­ felici. Oltre a smettere di accumulare e aumentare la tua ricchezza, non c'è niente da fare, giusto? Non avere niente da fare non è un'attività che impegni granché. Quando ti stabilizzi nello stato inattivo dell'es­ senza della mente, superi in modo automatico i tre regni del samsa­ ra, e superi perfino Indra, il re degli dèi. Tu sei più aperto, più spen­ sierato. È come nel famoso detto: "Ovunque tu vada, risplende il so-

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le della felicità. Chiunque ti sia vicino, tu sei tranquillo" . Non è un vantaggio, un buon risultato? Vuoi rinascere un'altra volta nel sam­ sara, morire di nuovo, e poi rinascere ancora? È questo che vuoi? S T U D E N T E : No. R I N P O CH E : Ti sto prendendo in giro. S T U D E N T E : Era un trucco da vero praticante. R I N P O CH E : Tu capisci, e ti ringrazio! Chi capisce merita di essere chiamato praticante. È una persona che trascenderà questo mondo. Tu puoi sedere a fianco di Indra, il re degli dèi, e condividere il suo pasto. Non è meglio anziché mangiare vicino al Signore della Morte, con i suoi servi dalla testa di bue e di capra, come accade dopo la morte? In quella situazione l'unica cosa di cui ti preoccuperai è: "Dove mi porteranno dopo? " . È molto meglio sedere accanto a In­ dra e mangiare felicemente. Dunque, abbiamo due sentieri, e solo uno va in alto. Ho utilizzato Indra come un esempio, ma egli è ancora nel samsara. Ci sono luo­ ghi migliori dove andare, come i campi di buddha nirmii1Jakiiya e saf!Zbhogakiiya. L'altro sentiero conduce in basso. Quando gli accoli­ ti del Signore della Morte, quelli dalla testa di bue e di capra, ti le­ gheranno con le loro corde trascinandoti all'inferno del tormento in­ cessante, cosa dirai? Proprio ora ci troviamo nel punto di separazio­ ne dei due sentieri. Quale sceglierai? S T U D E N T E : Voglio andare in alto ! R I N P O CH E : Devi scegliere in questo preciso momento. È in tuo potere andare in alto, se lo vuoi, oppure in basso. Proprio ora ti trovi al bivio. Non è una mia invenzione. È la realtà insegnata da tutti i buddha e i bodhisattva. La scelta è tua. Loro dicono anche che "non c'è niente di più stupido che ignorare la pratica del Dharma dopo aver ottenuto il prezioso corpo umano" . Sarebbe come orchestrare la propria sconfitta, o sponsorizzare il proprio avvelenamento. Equi­ varrebbe a raggiungere la cima della montagna soltanto per gettarsi nell'abisso. Ti prego di praticare! Come ho già detto, è molto meglio pranza­ re accanto al re degli dèi. Tuttavia Indra e gli altri re degli dèi sono ancora nel samsara. Paragonare Indra al Buddha è come confrontare il dito mignolo con il pollice. C'è una differenza grande quanto il cielo. Indra non è illuminato. Tramite queste istruzioni noi possiamo conseguire l'illuminazione e trascendere lo stato di Indra, il re degli

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dèi. I bodhisattva, come noi, dovrebbero aspirare alla buddhità. Ti sto prendendo in giro. Eppure, tutto ciò ha anche un senso. Ti prego di praticare bene! Se ti alleni bene e diventi più stabile, non avrai molti problemi in questa vita. Questa vita non deve essere così difficile. Sii spensierato. Gli obiettivi, i compiti e i progetti in questa vita sono come sogni, come illusioni. Una persona comune si lascia sopraffare e si abbatte quando le cose vanno male, oppure si lascia trascinare completamente dall'esaltazione quando ha successo. Non dobbiamo essere così. Essere come una persona comune è dif­ ficile, senza alcun dubbio. I poveri hanno il problema di essere pove­ ri, i ricchi hanno il problema di essere ricchi. Nessuno è felice. Nes­ suno pensa di averne abbastanza, mai. I poveri soffrono perché non hanno a sufficienza. I ricchi non possono stare insieme senza essere gelosi l'uno dell'altro; anche loro sono infelici. I ricchi non hanno mai la sensazione "ora mi basta". Mio zio, Tersey Tulku, mi diceva: "Non paragonarti mai a chi ti è superiore, perché non sarai mai felice. Ci sarà sempre qualcuno mi­ gliore di te, più ricco o potente. Piuttosto misurati con chi è inferiore a te. Se ti paragoni a chi è povero pensi: 'Sto molto bene'. Diversa­ mente non sarai mai contento" . Mio zio spesso diceva: "Abbi un esempio inferiore. Così sei più felice. Non guardare a chi è superio­ re, non sarai mai felice". Se vuoi essere felice in questa vita, confron­ tati con i medicanti, i quali vanno in giro con un bastone e un fagot­ to elemosinando il cibo. Se ti paragoni a qualcuno come loro, sarai sempre contento. S T U D E N T E : Come interrompiamo il pensiero al suo sorgere? RI N P O CH E : Riconoscendo l'essenza della mente. In quel medesi­ mo istante si dissolve l'osservatore lasciando che si riveli lo stato ri­ svegliato. L'osservatore è la stessa cosa di sem, la condizione dualisti­ ca della mente. Il soggetto scompare5-viene abbandonato. Il sem scompare; svaniscono i tre o cinque veleni, giusto? Il risultato di ciò è il rigpa. Quando uno yogi riconosce l'essenza della mente, il movi­ mento del pensiero viene interrotto allo stadio iniziale. Cos'altro c'è da fare? Non serve sedersi e pensare: " Non mi lascerò coinvolgere da nessun altro pensiero. Non penserò. Non mi piace questo pensie­ ro. Farò scoppiare centomila bombe atomiche per far cessare il pen­ siero" . Non serve a niente. Cerca di capirlo molto bene. Centomila bombe atomiche possono impedire alla mente degli esseri senzienti

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di pensare? Per fortuna non ne hai bisogno; semplicemente ricono­ sci l'essenza del soggetto che pensa, ossia la vuota conoscenza. Nel­ l'istante in cui vedi questa essenza vuota e conoscitiva, il pensiero si dissolve. È l'unico modo. n pensiero è l'espressione della tua mente: non scaturisce da qualcos'altro. Quando vedi l'essenza, l'espressione si dissolve. Ecco perché si insegna che siamo noi il nostro migliore rimedio. I tuoi pensieri non hanno un'altra sorgente; sono un'espres­ sione della tua essenza. Nell'istante in cui vedi l'essenza, l'espressio­ ne si dissolve. La base o radice di un pensiero è la tua essenza. La visione della sua vacuità ne dissolve l'espressione: il pensiero è sparito, svanito. Se il tuo pensiero non fosse l'espressione della tua essenza, dovresti fare qualcos'altro. Se avesse una sorgente differente, dovresti interrom­ perlo in quel luogo. Ma da dove scaturiscono i tre reami del samsa­ ra? Sono un'espressione della nostra essenza. Non conoscendo l'es­ senza di questa espressione, vaghiamo continuamente nel samsara. Non c'è un'altra causa. Tutti i vari mondi, tutte le differenti esperienze, tutti i diversi tipi di essere, sono espressioni di questa essenza. È l'essenza che, essendo instabile nella propria condizione e sconfinando nell'espressione, consente a tutto questo di accadere. Nell'istante in cui riconosci l'identità del soggetto dell'espressione, dissolvi i tre regni del samsa­ ra. E al loro posto manifesti i regni del dharmakaya, del saf!Zbho­ gakaya e del nirma1Jakaya. Questi nomi superlativi vengono compre­ si tramite il riconoscimento di questa essenza. n non riconoscimento dell'essenza manifesta i regni del desiderio, della forma e quelli sen­ za forma. Il piacere e il dolore, le gioie e le sofferenze degli esseri senzienti, tutto sorge perché essi non riconoscono la loro essenza e rimangono intrappolati nella loro espressione. Conosci le sostanze psichedeliche prese dagli hippy, quelle droghe che procurano ogni tipo di allucinazione? Nessuna di quelle visioni esiste realmente da qualche parte. Sono soltanto la manifestazione ma­ gica della mente. Quando questa magia si dissolve, è come risvegliarsi dal sonno. Quando ti risvegli al mattino, non rimane nulla dei sogni che hai avuto di notte. Il Buddha ha insegnato che ogni cosa è come una magia, come un sogno. È difficile capire l'analogia della magia, perché oggi non ci sono veri maghi; ci sono solo questi imbroglioni che vengono dall'India. Una volta c'erano veri maghi, come ho detto.

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Tuttavia conosci i sogni, giusto? Se hai sognato di trovare tanti soldi, oppure che venivi nominato il re di tutto il mondo, che ne è nel momento in cui ti svegli? Ciò che hai sognato ha una realtà? Op­ pure, puoi sognare di essere ucciso, e che il tuo corpo venga gettato in un fiume. Ma quando ti svegli sei ancora disteso nel tuo letto. Per­ ché? La ragione è che stavi soltanto sognando. Noi sogniamo perché dormiamo; in questo stato sembra che gli eventi illusori accadano davvero. Similmente, lo stato di veglia si manifesta durante il 'sonno del pensiero ingannevole'; tutto ciò che sperimentiamo è come un sogno. I buddha sono coloro per cui l'esperienza illusoria è cessata. Essi si sono risvegliati da questo sogno. Ecco perché spesso si utiliz­ za l'analogia dell'illusione magica o del sogno. Tutto il piacere e il dolore, la gioia e la sofferenza nei tre regni e tra le sei classi di esseri è come un'illusione magica, come un sogno. Se non sappiamo di essere 'il nostro miglior rimedio' e non rico­ nosciamo la nostra natura, certamente non ci rendiamo neppure conto che ciò che consideriamo come la 'nostra vita' è soltanto so­ gno e illusione. Nell'istante in cui riconosci l'essenza della mente, non devi pensare che tutto è sogno e illusione: l'illusione è già cessa­ ta. In effetti, se sei veramente risvegliato, l'intera illusione si è dissol­ ta. Le esperienze illusorie sono come nuvole. Quando le nuvole si di­ sperdono e svaniscono, si possono manifestare le qualità del sole, presenti sin dall'origine.

12 Terminologia dzogchen

Non c'è reale dualità. Visti nell'ottica del Buddha, il samsara, il nirvana e la via sono tutti l'unica sfera del dharmakiiya. Quando la si realizza, ogni cosa è l'originaria sveglia presenza non elaborata. Tut­ tavia, a causa dell'ignoranza, quando l'unicità viene concepita come dualità, è possibile sperimentare un luogo apparente in cui nasce un 'me' apparente. Dal punto di vista dell'essere senziente, senza dub­ bio c'è la vita samsarica e qualcuno che ci si aggira. L'unicità della singola sfera del dharmakiiya non è però un'entità. La sua natura non elaborata preclude perfino il concetto dell'uni­ cità. Quando si realizza appieno l'unica sfera non elaborata del dharmakiiya, è impossibile che permangano idee dualistiche. Perciò non c'è più 'qualcuno' che rinasce in qualche luogo. Affinché sia possibile la nascita ci devono essere i concetti di un luogo e di qual­ cuno che nasce. Per i buddha è impossibile rinascere, perché la dua­ lità si è dissolta. L'errore della dualità deriva dalla mancata comprensione del pro­ prio stato naturale non duale. Nell'esperienza della natura di bud­ dha non c'è vera esistenza di soggetto e oggetto. Tuttavia, a causa della fissazione su ciò che viene sperimentato come oggetto e ciò che sperimenta in quanto soggetto, si manifesta l'apparente dualità di soggetto e oggetto. Essa viene rinforzata ripetutamente finché appa­ re solida e reale. Nella terminologia generale del Dharma, questa condizione duale è chiamata 'esperienza e vacuità', oppure 'apparen­ za e vacuità'. In realtà sono un'unità. Si afferma che "fino a quando la dualità non diventa unicità, non c'è illuminazione" . I due devono

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diventare uno. L'uno è libero dai concetti. Ma ricordate che è un'unità in cui non c'è niente da afferrare. Nello spazio del dharmakiiya che tutto pervade, il saf?Zbhogakiiya si manifesta distintamente, come la luce del sole, mentre il nirmii�Jakiiya, manifestandosi come un arcobaleno, agisce a beneficio degli esseri.

n Trekcho, la pratica del 'taglio completo', consiste nel riconosce­ re la propria natura come purezza primordiale, il dharmakaya simile allo spazio che tutto pervade. Il Togal, la 'traversata diretta', consiste nel riconoscere che l'espressione naturale della purezza primordiale è presente spontaneamente. Il riconoscimento che la presenza spon­ tanea appare senza una natura propria (nel senso che è al di là di qualsiasi sostanzialità o entità indipendente) è l'unità della purezza primordiale e della presenza spontanea; in altre parole, è la non dua­ lità di Trekcho e Togal. Nel momento in cui avviene questa com­ prensione, non c'è né qualcuno che nasce né un luogo di nascita. Non c'è un 'altro', non c'è samsara, ma solo lo stato della buddhità. Tuttavia, noi esseri senzienti non siamo riusciti a riconoscere la no­ stra natura. Non conosciamo l'unità naturale dell'apparenza e della vacuità. Essendo ingannati dall'espressione delle apparenze, cadia­ mo nell'attaccamento alla dualità, nella fissazione sull'oggetto perce­ pito e sul soggetto percettivo. Se non ci fissiamo sulla dualità, il sam­ sara si dissolve nella base primordiale. Allora non abbiamo più biso­ gno di vagare nel samsara. Nella terminologia specifica della Grande Perfezione, lo Dzog­ chen, tale conseguimento viene definito come 'la realizzazione del­ l'unità della purezza primordiale e della presenza spontanea'. È que­ sto che si intende con 'lo stato unificato di un detentore del vajra'. Unificato vuoi dire comprendere appieno l'indivisibilità dell'appa­ renza e della vacuità. Gli esseri senzienti non la conoscono. Essi divi­ dono ogni cosa nell'oggetto e nel soggetto. Non conoscendo l'unità dell'apparenza e della vacuità, le sei classi di esseri appaiono nel samsara perché concepiscono l'uno come due. È qui che interviene la meditazione. Affinché l'unità naturale del­ l'esperienza e della vacuità diventi per noi reale, il Buddha ha inse­ gnato la meditazione. n termine tibetano nyamshak (tradotto come

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'compostezza' o 'equanimità') letteralmente significa 'lasciare nel­ l'uguaglianza'. Nel vero stato dell'uguaglianza o parità del nyamshak la dualità deve dissolversi. Non conserviamo una dualità, ossia da una parte qualcosa che cerchiamo di mantenere e sperimentare, dall'altra qualcosa che cerchiamo di allontanare. Questo atteggia­ mento non porta all'uguaglianza. Perciò, "fino a quando la dualità non diventa unicità, non c'è illuminazione" . Come s i può lasciar essere nella grande uguaglianza? Non è possi­ bile cercando di adottare ed evitare tramite l'accettazione e il rifiuto, l'affermazione e la negazione. Tale allenamento diventa soltanto un esercizio di speranza e timore, e non è questo il senso della frase pre­ cedente: "affinché l'unità naturale dell'esperienza e della vacuità di­ venti reale" . È possibile essere nella grande uguaglianza soltanto se si pratica davvero la meditazione. Siete introdotti allo stato della medi­ tazione tramite l'istruzione dell'indicazione diretta. Lo stato della me­ ditazione inizia solamente quando riconoscete il vostro volto natura­ le. Prima di quel momento c'è sempre lo sforzo di essere nell'equani­ mità, per esempio il tentativo di essere nel rigpa evitando il pensiero concettuale. Quello sforzo di adottare ed evitare non è affatto lo stato di equanimità di tutti i risvegliati, di tutti i buddha. L'equanimità del vero stato della meditazione non ha ancora avuto inizio. Ripeto che per dare inizio allo stato di equanimità nel nostro alle­ namento, prima di tutto dobbiamo riconoscere la condizione della consapevolezza non duale in cui non c'è nulla da accettare o rifiuta­ re. In quel momento il pensiero concettuale si è già dissolto, quindi non si sente il bisogno di sperare e temere. TI modo di vedere consi­ ste soltanto nel riconoscere questo stato come ciò che è, e nel consi­ derarlo il punto di partenza, anziché attendere o cercare qualcosa che lentamente, dopo un lungo allenamento, ci apparirà chiaro. Una volta riconosciuto il modo di vedere, l'allenamento consiste soltanto nel continuare a riconoscerlo. Ciò viene chiamato meditazione. An­ che se utilizziamo l'espressione 'lasciare nell'equanimità' per indica­ re l'allenamento, non si tratta di lasciare una 'cosa'. Vorrei riformu­ larla dicendo 'equanimità al di là del lasciare e non lasciare'. Questa equanimità al di là del lasciare e non lasciare è ciò a cui ci alleniamo. Inoltre, la condotta che regola la nostra vita in tutte le situazioni non è nient'altro che il modo di vedere. Infine, la realizzazione ottenuta non è nient'altro che la stabilità in questo modo di vedere.

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ll grande maestro Jamgon Mipham Rinpoche ha scritto una poe­ sia intitolata L'anelito allllc Grande Perfezione di Mafijufrz. Dice che la base, la via e la realizza:zione della Grande Perfezione, nonché il modo di vedere, la meditazione e la condotta, sono come tre linee tracciate in cielo, tirate a mezz'aria. (Rinpoche /a il gesto di disegnare nel cielo.) Il modo di vedere, la meditazione e la condotta sono co­ me le tre linee. Se guardate il cielo dopo averle tracciate, dove sono le tre linee? Non c'è separazione, nessuna distinzione tra una linea e l'altra. Rigpey yeshe non è un oggetto del pensiero. La sveglia presenza spontanea, vuota in essenza e conoscitiva per natura, non deve esse­ re creata. È questo il suo reale modo d'essere, e questa è la natura su­ periore della Grande Perfezione. Non viene insegnata così chiara­ mente né indicata così direttamente in nessuno dei veicoli inferiori. Non mi sto riferendo solo alle parole. La dimostrazione effettiva del­ l'unica sfera del dharmakaya porta con sé un'incredibile benedizio­ ne. La si sperimenta direttamente, non come un concetto di qualco­ sa che possiamo o no realizzare in seguito, ma come qualcosa di im­ menso valore presente nell'esperienza attuale della persona che rice­ ve tale trasmissione. Un tempo in India questa trasmissione era segreta, così segreta che una frase come 'l'unica sfera del dharmakaya' veniva sussurrata a un discepolo direttamente all'orecchio attraverso un tubo di rame. Nessun altro era in grado di udirla. All'epoca gli spiriti e le forze elementali non avrebbero potuto reggere all'ascolto di parole dall'impatto così profondo. Semplicemente sarebbero svenuti. Oggi, grazie all'attività dei buddha e dei bodhisattva, la situazione è diver­ sa. La società umana è quasi satura di insegnamenti dzogchen. Non è più un grande shock ascoltare parole come 'l'unica sfera del dhar­

makaya'.

Potete accertare il modo di vedere, così com'è, nel momento in cui viene meno la dualità, quando non c'è la benché minima elaborazio­ ne. La vera sveglia presenza spontanea non significa che una divinità esterna discende in voi. Si manifesta quando gli schemi sottili del pensiero vengono meno, si dissolvono, sono distrutti. Qualsiasi altro stato è un modo di vedere creato dalla mente. Per esempio, un modo di vedere creato dalla mente consiste nel pensare: "Mi domando se sia questo lo stato risvegliato. Deve essere questo" . Non fatelo!

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Quando vi allenate allo stato della meditazione, riconoscete sempli­ cemente ciò che è già, ossia il fatto che la vostra natura della mente è vuota, conoscitiva, indivisibile. Non è nient'altro. Non è necessario immaginare uno stato di vacuità e pensare: " Spero che sia questo. Bene, penso che lo sia. Questa deve essere la natura della mente" . Non c'è nessun bisogno di congetturare, perché vedete già cos'è in realtà. Citando Jamgon Mipham Rinpoche: Nell'essenza, la sveglia presenza originaria che è pura sin dal principio, si manifesta la natura, una radiosità spontaneamente presente.

Questa sveglia presenza pura sin dal principio è la qualità vuota della natura della nostra mente. Nell'attimo in cui riconosciamo la nostra natura, non vediamo nessuna 'cosa'. È già completamente pu­ ra e perfetta. È proprio questo ciò che chiamiamo purezza primor­ diale, da cui è inseparabile la qualità della conoscenza: nel medesimo tempo conosciamo. Questa è la presenza spontanea. I due aspetti so­ no indivisibili. Pertanto, non dobbiamo cercare o tentare di scoprire i tre kaya da qualche parte laggiù nel futuro, o comunque separati da questa vuota conoscenza indivisa che possiamo riconoscere imme­ diatamente. Non è in nessun modo nascosta. Questa, l'essenza della Grande Perfezione, è ciò a cui dobbiamo allenarci. È questa natura della mente che gli esseri senzienti non vedono. Non comprendendo cos'è la loro natura, si aggrappano all'apparen­ te dualità e creano le cause dell'infinita esistenza samsarica. Invece, quando riconoscono l'essenza della mente, proprio in quell'istante interrompono la creazione delle cause di ulteriore samsara. li momento in cui vediamo l'unità dei tre kaya è il nostro 'capitale d'esercizio'. Abbiamo qualcosa di enorme valore, che non richiede molte parole. Anche se abbiamo bisogno di parole per capire, vi pre­ go di non confondere le parole con il significato. Quando udiamo le parole, le colleghiamo a un significato. Il suono delle parole e il loro significato si fondono nel pensiero. I.}Abhidharma lo definisce 'il pensiero che percepisce la combinazione di suono e significato'. Ma l'atto di percepire non è il significato. D'altro lato, dobbiamo dipen­ dere dalle parole per comprendere il significato. Vi prego di capire che parole come kadag e lhiindrup, purezza primordiale e presenza

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spontanea, sono estremamente importanti. Rendetevi conto di quan­ to preziosa sia persino{a comprensione delle loro reali implicazioni. Una volta feci visita al grande maestro Dzongsar Khyentse Chokyi Lodro a Gangtok e gli posi alcune domande sullo Dzogchen Desum, le Tre sezioni della Grande Perfezione. Non è un testo lungo, ma è incredibilmente profondo. È un solo libro, le cui pagine misu­ rano un avambraccio. Ho chiesto: "Chiedo scusa, Rinpoche, ma è stato scoperto l'intero terma? Non manca qualcosa? " . Khyentse Chokyi Lodro sorrise e disse: "Esaminandolo non mi risulta che manchi qualcosa. Cosa pensi che manchi? Sai esattamente cosa manca ? " . Risposi: "N o, io sono soltanto un testardo intellettuale; non so niente" . Dzongsar Khyentse continuò: "Non ritengo che sia incompleto in nessun senso. Il semplice fatto che sia breve e conciso non significa che qualcosa manchi o sia stato tralasciato" . Alcuni dei manuali d'insegnamento sulle tre sezioni della Grande Perfezione consistono soltanto in .un paio di pagine. Eppure includono tutto e sono molto profondi. 'Quindi non è che servano molte parole per scoprire il significato essenziale. Ogni cosa dipende dal momento in cui si riconosce l'essenza della mente. In quel medesimo istante in­ contrate i tre kaya. Il sistema del Vajrayana impiega straordinari mezzi abili per in­ trodurre alla realtà di ciò che è. Questo metodo di introduzione spesso è conosciuto come i quattro potenziamenti. Sono potenzia­ menti simbolici. Si utilizzano strumenti e rituali per indicare la realtà della propria vera condizione. Per esempio, il primo potenzia­ mento è quello del vaso. Il maestro visualizza il vaso come il palazzo delle divinità; l'acqua al suo interno viene consacrata come nettare. Il maestro tocca con il vaso la sommità della testa del discepolo, a cui poi dà un sorso di quell'acqua. Questa è la parte esteriore del ri­ tuale. Ciò che in realtà viene rivelato è che i nostri cinque skandha, gli elementi e le basi sensoriali hanno già una natura divina. Questo è il significato dell'affermazione che 'il corpo vajra è il mandala del­ le divinità'. Vale a dire, il potenziamento ci consente di realizzare ciò che siamo sin dall'inizio. Ecco il vero significato del potenziamento del vaso. Poi c'è il potenziamento segreto, conferito tramite il sacramento dato nella tazza del teschio. Il terzo potenziamento rivela il fatto che la sensazione di piacere, il momento di beatitudine, è per natura

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vuoto. Per indicare tale non dualità di beatitudine e vacuità, viene dato il potenziamento della saggezza-conoscenza. Il più importante di tutti i potenziamenti è il quarto, conosciuto anche come il prezioso potenziamento della parola. I primi tre pos­ sono avere molti dettagli e parole, ma qui ogni cosa può essere con­ tenuta in una sola parola. Ecco perché viene chiamato il prezioso po­ tenziamento della parola. La parola può essere formata da due silla­ be: PA e TA. La TA è pronunciata senza vocale, così la combinazione delle due sillabe diventa PHAT. Tale suono viene esclamato dal mae­ stro in modo tale che il discepolo possa riconoscere l'essenza della mente non appena lo ode. Il suono interrompe il flusso dei pensieri concettuali per rivelare lo stato innato della mente originaria che è vuota conoscenza. Essa non è mai stata davvero celata; è soltanto ap­ parentemente celata agli esseri senzienti, perché la loro attenzione è occupata da altre cose. In questo caso potete sentir parlare della na­ tura della mente, ma avete la sensazione che vi sia celata; non è una realtà effettiva. Però quando riconoscete l'essenza della mente, la ve­ dete nel medesimo istante. Non è più celata o lontana, bensì diventa un'esperienza effettiva, il che è lo scopo del quarto potenziamento. È ciò che viene spiegato in tutti i tantra della Grande Perfezione. A questo riguardo ci sono le otto esclamazioni di meraviglia e le dodici battute vajra che descrivono esattamente la condizione di tale stato. Nella tradizione della Mahamudra esso può essere indicato an­ che con queste semplici parole: La sveglia presenza originaria è estremamente sottile. È il centro dello spazio simile al vajra. Tu sei il padre di te stesso. Rilassati nello spazio basilare al di là dell'inizio e della fine.

'Sveglia presenza originaria' indica il nostro stato basilare. 'Estre­ mamente sottile' vuol dire che non consiste in nessuna idea. Di soli­ to la mente di un essere senziente è occupata dal pensiero, in quanto emozione grossolana o come riflessione sottile. Inoltre c'è una condi­ zione concettuale molto sottile chiamata oscuramento cognitivo, che è l'ultimo oscuramento a essere abbandonato lungo la via dell'illumi­ nazione. La sveglia presenza originaria è ancora più sottile, perché è l'indivisibile vuota conoscenza che sta a fondamento di qualsiasi sta-

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to della mente. Non è creata da nulla. Questa è la prima riga: " La sveglia presenza originaria lè estremamente sottile" . L a seconda riga dice: " È il centro dello spazio simile al vajra". Vaj­ ra qui significa 'indistruttibile'. Così come il centro dello spazio, il cielo completamente aperto, è immutabile e fermo, la vostra sveglia presenza originaria non è creata da cause e condizioni. La terza riga, "Tu sei il padre di te stesso" , significa che la tua natura è te stesso. L'essenza o la sorgente di qualunque pensiero è lo stato del rigpa. Il maestro si rivolge allo stato concettuale e dice: "Tuo padre è te stes­ so" . Riconosci l'identità del soggetto che pensa e incontra il rigpa di­ rettamente. La quarta riga, "Rilassati nello spazio basilare al di là dell'inizio e della fine", rivela la natura della mente. Una volta che l'avete ricono­ sciuta, non dovete attendere un altro momento nel futuro. Lo spazio basilare non ha mai inizio e non termina in nessun modo. Il rigpa non inizia mai e non finisce. È totalmente senza fine e inizio. La men­ te non nasce, non ha un inizio. Non viene meno a un certo punto, quindi non ha fine. Non rimane in una condizione intermedia, per­ ciò non ha una posizione di mezzo. Non c'è un momento presente che debba essere localizzato. Il tuo stato basilare ha una stabilità na­ turale, una sorta di dirittura innata, ma non è una 'cosa' concreta da identificare in qualche modo. Certamente possiamo formulare l'idea: " Questa è la condizione del rigpa". Ma è soltanto una nostra idea. Lo stato della conoscenza è in se stesso così com'è. La stabilità natu­ rale è presente quando non dimenticate il rigpa, se non vi distraete. Non appena vi distraete, nel momento in cui divagate, avete l'im­ pressione di aver smarrito la stabilità naturale. La stabilità innata è come un ago, non come un capello. Se pren­ dete un capello e lo esponete al vento si piega; ma un ago, per quan­ to forte possa essere il vento, non si piega. Il capello non ha una sta­ bilità naturale. Il rigpa è incontaminato dalla fissazione sugli oggetti esteriori, e non è alterato dalla concentrazione sul soggetto cono­ scente all'interno. È del tutto aperto. Questa è la fermezza naturale. Per quanto spesso possa essere, un capello continua a fluttua;:e al vento. Il pensiero di un essere senziente non ha stabilità. La natura della mente ha una stabilità naturale, che è evidente quando non sie­ te coinvolti nel soggetto e nell'oggetto, quando non vi concentrate su qualcosa all'esterno o all'interno.

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In questo momento, quando il pensiero passato è svanito e il pen­ siero futuro non è ancora arrivato, non collegatevi di nuovo a qual­ che pensiero. Per usare la terminologia dzogchen, diciamo che si tratta di essere svegli, vivi, limpidi, pienamente presenti. Queste straordinarie parole non richiedono la nostra elaborazione, il nostro fare. Esse indicano ciò che è così naturalmente, anziché ciò che viene sviluppato tramite l'allenamento. Lo stato naturale del Buddha Samantabhadra si esprime attraver­ so i tantra dello Dzogchen, da cui scaturiscono queste meravigliose parole: Incredibile, la consapevolezza naturale è al di là del pensiero. È molto chiara, non c'è oscuramento. Appare nuda, non c'è illusione. Del tutto sveglia, non c'è soggetto e oggetto.

Lo stato innato libero dal pensiero viene sperimentato chiaramen­ te. Non abbiamo bisogno di pensarlo per scoprirlo. Le qualità natu­ rali del rigpa non sono concettuali. È così che viene descritto nello Dzogchen. Chi ha concepito questi insegnamenti dzogchen? È stato Samantabhadra, la sveglia presenza originaria al di là dei concetti. Qualcuno pensa che Samantabhadra sia un uomo molto vecchio vis­ suto tanto tempo fa. Non abbiate questo pensiero. Quando ricono­ scete l'essenza della vostra mente, quale parola potete usare per de­ scrivere la sua vera condizione? S T U D E N T E : Sveglia. R I N P O CH E : È celata oppure è una realtà? S T U D E N T E : È una realtà. R I N P O CH E : In quel momento, può permanere o introdursi un pensiero qualsiasi? S T U D E N T E : No. R I N P O CH E : Il rigpa è completamente privo di difetti; il difetto è il pensiero. Ed è anche pieno di tutte le qualità, perché in se stesso è il dharmakaya immacolato. Quando continua per tutto il giorno e la notte, può rimanere il samsara? S T U D E N T E : No. RI N P O CH E : Giusto. Il samsara si dissolve. Il samsara ha bisogno dei tuoi pensieri per essere ricreato. Siccome è già privo di sostanza,

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non c'è niente che possa continuare. La dissoluzione del samsara non è uno stato di incesqenza completamente vacuo. Non ha senso perpetuare il samsara una volta che si conosce la sua vera natura, quindi perché preoccuparsi? Per ricreare il samsara hai bisogno del­ la nascita e della morte, e a questo fine hai bisogno del pensiero in cui viene meno il riconoscimento della tua natura; hai bisogno del coinvolgimento nel pensiero che non riconosce la tua natura; hai bi­ sogno di turbare nuovamente la tua essenza. È questo il tipo di pen­ siero in cui sono immersi tutti gli esseri senzienti. La differenza tra il pensiero e il rigpa è enorme!

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Vedete la foto sul muro alle mie spalle? Il lama ritratto è Drubwang Shakya Shri, il Signore dei Siddha. L'ultima parte della sua vita la trascorse in un luogo chiamato Eremitaggio Kyipuk, in Ti­ bet. Il mio zio più giovane, Tersey Tulku, mi ha raccontato molte storie su Shakya Shri, di cui era discepolo. Shakya Shri viveva in una piccola baracca di un piano. In quel luogo nessuno aveva una casa di più di un piano. Era un eremitaggio, quindi non c'erano costruzioni elaborate. La capanna di Shakya Shri si trovava in mezzo a un prato. Aveva un piccolo recinto. In basso c'era una zona pianeggiante. Il maestro raggiungeva quel posto per fare pipì sulla sponda. C'era una sorta di copertura laterale. Non era un vero e proprio gabinetto, na­ turalmente, ma era semiprivato. Una sera ci andò per pisciare, e quando finì entrò nello stato di samadhi privo di pensieri. Rimase co­ sì accovacciato per circa mezz'ora. Gli assistenti se ne resero conto e pensarono che sarebbe stato meglio andare a recuperare Rinpoche. Per un meditante autentico, l'attaccamento a questo e quello si dis­ solve. Il maestro se ne stava lì accovacciato con gli occhi aperti. Gli assistenti dissero: "Rinpoche, sarebbe meglio che lei venisse su ades­ so; si sta facendo buio". Lui rispose: "Bene, sì, adesso in cielo brilla­ no le stelle" . Quindi si alzò e ritornò alla baracca. Shakya Shri era anche chiaroveggente. Una volta il re del Bhutan gli mandò dei doni. Alcuni inviati speciali passarono la frontiera bhutanese attraverso il distretto di Lhodrak con trenta portatori e trenta sacchi di riso. Il re del Bhutan era molto rigoroso riguardo alla consegna dei doni. Dovevano essere presentati pubblicamente. I sac-

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chi furono aperti proprio 'Sul prato della baracca. In uno dei sacchi di riso il re aveva messo una grande ciotola di porcellana. Ma gli in­ viati non riuscivano a ritrovare il sacco. Guardarono in un sacco, poi in un altro. Era nascosta da qualche parte in mezzo al riso, ma nessu­ no si ricordava in quale sacco. Sembrava che dovessero aprire tutti i sacchi per trovare la ciotola. Ma Shakya Shri li interruppe dicendo: "No, no, è lì" , e indicò un determinato sacco. Lo aprirono e trovaro­ no subito la ciotola. La sua chiaroveggenza era limpida. Quando sva­ nisce la fissazione, la chiaroveggenza è senza impedimenti. Ecco un racconto che riguarda il precedente Sabchu Tulku, non il bambino che vive attualmente vicino a Swayambhu, ma una delle sue vite precedenti. Il primo Sabchu era un discepolo di Situ Pema Nyinje, Jamgèin Kongtriil e Jamyang Khyentse. Prima di morire fu colpito da un'orribile malattia. Il suo stomaco divenne una grande piaga aperta. Iniziò con una piaga che poi gradualmente divenne sempre più grande. Alla fine erano esposti tutti gli intestini. Pus, li­ quidi e sangue scorrevano sul pavimento fino alla porta. Senza dub­ bio aveva delle sensazioni fisiche. li maestro sentiva continuamente il bisogno di grattare la ferita, così chiese che gli venissero legate le mani. Gli furono legate con una sciarpa bianca, affinché smettesse di grattare la piaga. I discepoli gli dissero: " O Rinpoche! Deve essere così difficile, deve essere davvero doloroso per te" . Lui replicò: "Non sono affatto ammalato, non ho nessun problema". I discepoli aggiunsero: "È terribile, tutto il pus e il sangue che scorre a terra". Il maestro rispose: "C'è un vecchio monaco seduto su questo letto; sembra muoversi con molto disagio. Vuole grattarsi il ventre; ma per me non c'è nessun problema. Io non sono affatto ammalato. Tutta­ via, seduto proprio qui, c'è qualcuno che mi assomiglia. Sembra sof­ frire parecchio, ma io sto bene" . S e siete stabili nella pratica, è così: non c'è nessuna fissazione. C'è stato un altro lama in Kham, un siddha di nome Tenje, che ha contratto la stessa malattia con la fuoriuscita degli intestini. La gente gli chiedeva: " Come ti senti oggi? " . Lui diceva: " Sto bene, non c'è nessun problema". Loro insistevano: "Ma Rinpoche, guarda in bas­ so, hai tutte queste ferite aperte" . Il maestro replicava: " Sì sembra che lì ci sia qualcosa che non va, ma io sto benone. Non sono affatto ammalato" . Un giorno gli chiesero: "Pensiamo che morirai presto, vuoi dirci dove rinascerai affinché noi possiamo trovare il tulku? ". Il

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maestro rispose: "Sì, posso occuparmene. Chiamate il mio discepolo Tendar". Poi il lama disse al discepolo: "Portami sette passi verso ovest" . Mentre Tendar trasportava il maestro, quest'ultimo schioccò le dita e disse: "Possa la mia realizzazione nascere nel tuo flusso di coscienza" . Quindi, indicando lo studente, aggiunse: "Questo è il mio Tulku, prima ancora che io muoia. Andrà bene per questo mo­ nastero? Domani mattina, all'alba, metterò in scena la commedia della morte. Ritornerò a casa, al campo di buddha dharmadhatu di Akani�tha" . TI giorno successivo, all'alba, morì. In seguito il discepo­ lo Tendar disse che, dal momento in cui il lama schioccò le dita, fu totalmente libero dalla distrazione, non si allontanò mai dallo stato del rigpa. Questo discepolo fu poi conosciuto come Tendar Tulku, ed ebbe il medesimo stato di realizzazione del maestro, senza nessu­ na differenza. STUDENTE:

tutti noi?

Perché i buddha non possono fare la stessa cosa per

R I N P O CH E : Forse perché i buddha non hanno discepoli come Tendar! Questo maestro aveva molti altri discepoli, ma per qualche ragione scelse Tendar. Forse perché lo specchio della mente degli al­ tri discepoli non era ugualmente pulito. S T U D E N T E : Questo significa che lo specchio della mente è così limpido da riflettere tutto? R I N P O CH E : Certo, tutti gli esseri hanno la stessa base, la medesi­ ma 'base di tutto' . Se qualcuno è realizzato, lo specchio del suo stato basilare è immacolato. Tutto ciò che si manifesta intorno si riflette chiaramente. Quando avete uno specchio, tutto ciò che gli sta da­ vanti vi si riflette, vero? Se uno yogi ha ottenuto la stabilità nel rigpa, c'è la qualità della saggezza discriminante che riflette in modo distin­ to e chiaro i pensieri di tutti gli esseri senzienti in questa valle, per esempio. Questa qualità viene poi considerata come chiaroveggenza. S T U D E N T E : È presente in continuazione? R I N P O CH E : Senza dubbio l'esperienza di un maestro realizzato non ha nessun impedimento. Un grande yogi come Jamyang Khyent­ se Wangpo poteva vedere molto chiaramente, anche se lo ammetteva di rado. Per fargli ammettere di essere chiaroveggente, i discepoli a volte gli giosavano qualche scherzo. Un discepolo di nome Khen­ chen Tashi Ozer a volte fingeva di essere anche lui chiaroveggente.

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Per esempio diceva: "Non è penoso per la gente al villaggio di Dzongsar essere così prèsa da tutti quei pensieri ed emozioni?". E a Jamyang Khyentse sfuggiva questa risposta: "Sì, è così penoso per lo­ ro avere tutti quei P..ensieri". Una volta Tashi Ozer era seduto ai piedi di Jamyang Khyentse. Al­ l'imP.rovviso Jamyang Khyentse esclamò: "Oh no ! È terribile! ". Ta­ shi Ozer disse: "Cos'è successo? " . "Lontano, in quella direzione, un vecchio monaco sta chiamando il mio nome. li suo animale da soma, uno yak, è scivolato fuori dal sentiero; stava cadendo nel burrone, ma nella caduta è stato bloccato da un albero. I due vecchi monaci non sono abbastanza forti; non ce la fanno a tirare su lo yak e chia­ mano il mio nome. Oh sì, stanno arrivando alcuni mercanti. Hanno delle corde. Adesso tirano su lo yak". Dop9 di ciò non disse più nul­ la. Quattro o cinque giorni dopo, Tashi Ozer si trovava davanti al gompa, quando arrivarono due vecchi monaci con uno yak. Ebbe un colloquio con loro. Gli raccontarono che alcuni giorni prima il loro yak stava cadendo dal sentiero, ma pregarono Jamyang Khyentse e lo yak non finì in fondo al burrone. "È stata una grande gioia per noi," disse uno dei monaci, "perché tutto il nostro cibo era sulla groppa dello yak e non avremmo avuto niente da mangiare. Per for­ tuna sono sopraggiunti alcuni mercanti con delle corde e hanno tira­ to su l'animale" . l Quindi, ritornando alla tua domanda iniziale, sarebbe bello se i buddha prendessero tutti gli esseri senziente senza eccezioni e li mettessero in un campo di buddha, vero? Quando il sole sorge in cielo, la sua luce entra nelle grotte affacciate a nord? S T U D E N T E : No. R I N P O C H E : Il senso di questa immagine è che gli esseri senzienti devono essere aperti per avere accesso alla compassione dei buddha. I buddha guiderebbero chiunque, ma ci vuole devozione. È come se la devozione creasse un anello a cui può agganciarsi l'attività com­ passionevole di tutti i buddha, paragonabile a un uncino. Gli esseri senzienti hanno ogni genere di atteggiamento. Se avessero tutti fede e devozione� sarebbe possibile svuotare il samsara; potrebbero esse­ re condotti all'illuminazione senza molte difficoltà. Chi ha devozione 1 Molti racconti di questo genere si trovano nelle memorie di Tulku Urgyen Rin­ poche.

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viene guidato, di certo. La gente ha così tanti progetti e idee; è come afferma il detto khampa: "Trenta persone hanno trenta idee, come trenta yak hanno sessanta corna". Se ognuno pensasse allo stesso modo, sarebbe più facile, molto più agevole. Quando hai fede e de­ vozione, i buddha possono aiutarti. Se non hai dubbi, è assicurato. Se non ci sono dubbi, è come il caso della vecchia alla quale anche il dente di un cane donò delle reliquie. Ricordate la storia di come fu ingannata dal figlio? Il figlio era un mercante che spesso andava in India. Ogni volta che partiva, la madre gli chiedeva di portarle una reliquia del Buddha. Ma puntualmente il figlio se ne scordava, per­ ché era molto preso dai suoi commerci. Alla fine lei disse: "Se ritor­ nerai senza una reliquia del Buddha, mi ucciderò davanti a te" . Però lui anche quella volta riuscì a dimenticarsene! Quando fece ritorno, vedendo in lontananza la casa della madre, all'improvviso si ricordò e disse: "Oh no! Che fare adesso? Che fare?". Si guardò attorno e vi­ de il cranio di un cane morto da molto tempo, prese uno dei denti e lo avviluppò nel broccato. Poi mandò a dire alla casa della madre di inviare un comitato di ricevimento perché era ritornato con un den­ te del Buddha. La gente gli andò incontro con stendardi, bandiere, incensi e suonando corni di conchiglie. La madre credette che il fi­ glio avesse riportato davvero uno dei denti del Buddha. La proces­ sione accompagnò il dente nella casa e la vecchia lo collocò sull'alta­ re. Ogni giorno lei fece suppliche e offerte al dente. Era assoluta­ mente convinta di avere avuto il buon karma e la fortuna di essere la custode di uno dei denti del Buddha. Alla fine, grazie al potere della sua devozione, dal dente incominciarono a scaturire piccole reliquie, nonostante fosse soltanto il dente di un cane. Quando la vecchia morì, apparve un raggio di luce bianca e lei andò direttamente ai campi di buddha. Ora, un dente di cane di per sé non produce reliquie. Fu il potere della devozione che rese possibile la manifestazione delle benedizio­ ni dei buddha. Anche se non pratichi molto, ma hai la sincera devo­ zione che porta a pensare "possano i buddha prendersi cura di me", quando morirai andrai direttamente ai campi di buddha. Se la tua devozione non muterà nel momento in cui il tuo spirito e il corpo si separeranno, se ti abbandonerai completamente, forse potrà non es­ serci un raggio di luce bianca, ma potrà essercene uno nero che ti condurrà comunque nella giusta direzione. (Rinpoche ride.) In quel-

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la circostanza, se hai devozione puoi essere guidato alle terre pure in un tempo brevissimo còme quello che ci vuole per distendere un ! braccio. Certamente, se hai già ottenuto la padronanza della pratica della divinità, del mantra e del samadhi, cosicché sei perfettamente stabi­ le nella sveglia presenza originaria, non c'è alcun dubbio che otter­ rai l'illuminazione al momento della morte. Ma puoi anche essere li­ berato soltanto grazie alla semplice devozione per i buddha. L'atti­ vità compassionevole dei buddha è sicura. Similmente, il profondo samadhi è sicuro. Posso giurarlo sul mio capo. È vero com'è certo che lascerò questo corpo. È assolutamente certo che, una volta ab­ bandonato questo corpo, non si ritorna a vivere. Questo è il modo tibetano di giurare: "sulla mia testa" . È così vero. Riconoscere l'es­ senza della mente non è difficile; è molto facile. Ma anche se non siete capaci di allenarvi a riconoscerla, se potete avere devozione per i buddha, ed è devozione genuina, allora giuro che non sarete ingannati. S T U D E N T E : Uno yogi come trascende l'esperienza della realtà so­ lida? R I N P O CH E : Ciò che percepisce ogni cosa è la mente. La mente è vuota. Qualsiasi apparenza, ogni percezione, è un'esperienza perso­ nale che avviene nella propria mente. Non è qualcos'altro là fuori. La percezione personale è vuota perché la mente è vuota. Ma ciò non sembra in totale contraddizione con il modo in cui sperimentia­ mo le cose? Questa cosa qui (Rinpoche batte sul tavolo) non sembra reale e solida? Noi abbiamo l'impressione di sperimentare una cosa reale, a tal punto che la vacuità dell'esperienza personale e la realtà della materia solida paiono essere in totale conflitto. È così per una persona comune, a causa del potere solidificante del karma. Questa esperienza karmica è condivisa da altri esseri della stessa specie, ma solo da esseri senzienti che si ingannano. La maggioranza di noi vede che siamo in una stanza normale, con mura, un tetto e al­ cune statue. Ogni cosa sembra solida. Eppure non lo è realmente. Una cosa, per essere davvero reale, dovrebbe possedere le sette qua­ lità indistruttibili. Le sette qualità vajra sono quelle per cui una cosa non è tagliabile, è indistruttibile, vera, solida, ferma, non può essere ostacolata da niente ed è completamente invincibile. Nessuna 'cosa' non percepibile possiede tali qualità. Prima o poi tutte le cose saran-

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no distrutte. La prova finale è alla fine di un eone, quando tutto si disintegrerà senza lasciare assolutamente nulla. È la dimostrazione che tutti i fenomeni sono vuoti sin dall'inizio. Anche se i fenomeni sono vuoti, appaiono. Sebbene appaiano, sono comunque vuoti. Di­ versamente, sarebbe impossibile distruggere le cose. Se fossero reali, dovrebbero essere indistruttibili. Niente lo è. Il modo in cui vediamo le cose, ossia come apparentemente soli­ de, non è l'unico modo di sperimentare. I veri yogi e i bodhisattva, per non menzionare i buddha, non sperimentano una realtà solida. Loro percepiscono le cose che appaiono, ma non si attaccano a esse. Ogni cosa viene vista come le otto analogie dell'illusione. 'Yogi' vuoi dire avere una certa stabilità nel riconoscimento del rigpa. Per un ta­ le praticante ogni cosa sembra diversa. E la realtà è diversa da come la gente comune crede che sia e la sperimenta. Guru Rinpoche e Mi­ larepa non erano ostacolati da ciò che noi consideriamo materia soli­ da. L'apparente solidità del loro corpo e della materia si compene­ travano totalmente. Quei maestri potevano camminare sull'acqua e non erano danneggiati dal fuoco. Questo accade anche alla prima bhumi. Quando Diisum Khyen­ pa, il primo Karmapa, eseguiva una cerimonia nel suo tempio, e non c'era nessuno intorno ad aiutare, creava tre repliche di se stesso per completare la cerimonia. Oltre a essere il maestro vajra, era anche il maestro addetto all'altare e l'assistente. Così dimostrava che, in ef­ fetti, ogni cosa è una manifestazione magica. Uno yogi realizzato non si attacca alla solidità delle cose. Tutto viene visto così com'è: vacuità visibile, vacuità udibile e il gioco della sveglia presenza originaria. Al livello della buddhità, che equivale ad aver raggiunto la piena perfe­ zione di questa via, tutto viene sperimentato nella sua infinita purez­ za. Quando si è totalmente stabili nel rigpa, qualsiasi cosa appaia, tutto ciò che esiste, è la purezza che tutto pervade, anche chiamata rangnang yeshe kyi khorlo: la ruota della saggezza dell'esperienza na­ turale, la condizione incessante della sveglia presenza originaria. Vorrei illustrarlo con un racconto su Milarepa anziano. I suoi se­ guaci lo avevano invitato a salire in cima a una montagna. Lui disse: "Ora sono troppo vecchio. Questo vecchio non può salire in cima al­ la montagna. E meglio se la cima della montagna viene qui ! " . E la ci­ ma della montagna si allungò abbassandosi davanti a Milarepa. Lui ci salì sopra, quindi la cima ritornò in alto. Così Milarepa era sulla ci-

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ma della montagna prima che la raggiungessero tutti gli altri ! Così agisce uno yogi veramente realizzato. Comunque sia,\tutta l'esperienza è personale. Tutta l'esperienza personale è vacuit�, l'unione di vuoto e conoscenza. Quando lo si ve­ de davvero, allora è possibile il passo successivo, chiamato 'padro­ nanza della propria esperienza'. Siccome tutta l'esperienza persona­ le è vuota, è possibile dominare la propria esperienza. Uno yogi che ha realizzato totalmente questa maestria, non soltanto come idea ma come una realtà effettiva, la può dimostrare visibilmente. Un tale praticante non è per forza danneggiato dai quattro elementi. Il suo corpo non è soggetto a nessuna modificazione dovuta ai quattro ele­ menti, come invece accade a chi si aggrappa sempre con la mente al­ la solidità di ciò che sperimenta, negando la vacuità delle apparenze. Tu, essendo una persona normale, puoi essere sotterrato, puoi affon­ dare nell'acqua, puoi bruciare nel fuoco, oppure puoi volare via a causa del vento. Ma non è così per uno yogi, come risulta da questi racconti. In quanto yogi, hai tu il controllo. S T U D E N T E : Come si ottiene il corpo d'arcobaleno? RI N P O CH E : Questo ottenimento è la conseguenza di quello che ho già detto. Adesso il grossolano corpo materiale costituito dai cin­ que elementi è un'esperienza illusoria creata dalla mente che si fissa in modo dualistico. Quando tale stato 'impuro' della mente inizia a dissolversi nello stato puro, che è il rigpa, iniziano a dissolversi anche le impure esperienze illusorie di natura fisica. Si afferma che gli aspetti impuri della realtà incominciano a dissolversi nelle pure es­ senze. In un certo senso ciò corrisponde a quegli aspetti del proces­ so della morte chiamati stadi della dissoluzione, quando le forze dei cinque elementi iniziano a dissolversi. Adesso il corpo fisico è fatto di carne, sangue e ossa. La parola or­ dinaria è la voce costituita da suoni intermittenti e parole. Lo stato normale della mente è la costante espansione in schemi di pensiero, uno stato irrequieto che non si ferma un secondo. Questi tre si dis­ solvono in modo graduale tramite l'allenamento all'essenza della mente. Il corpo fisico si dissolve in una forma di luce d'arcobaleno, un corpo di luce. La parola ordinaria diventa la voce dei buddha, il re di ciò che è melodioso, la voce incessante dei vittoriosi. La conti­ nuità ingannevole del pensiero concettuale si dissolve nella mente di buddha, la realizzazione dei risvegliati.

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Questa realizzazione include il percepire la pura natura degli ag­ gregati, degli elementi e delle basi sensoriali che costituiscono il cor­ po impuro. La pura natura dei cinque aggregati è i cinque buddha maschili. La pura natura dei cinque elementi è i cinque buddha fem­ minili. La pura natura delle basi sensoriali è i bodhisattva maschili e femminili. Quando si realizza la pura natura, tutto ciò che appare ed esiste è la purezza che tutto pervade. La dissoluzione dell'illusione equivale alla completa stabilità nell'essenza della mente, ossia la rea­ lizzazione del trono dharmakaya della non meditazione. Ogni cosa viene vista com'è all'origine e realmente. I cinque veleni vengono trasformati nelle cinque saggezze. Da un punto di vista illuminato, non c'è nessuna impurità da sperimentare. In quella prospettiva, tut­ to ciò che appare ed esiste, cioè il mondo e gli esseri, viene visto co­ me la purezza che tutto pervade. I termini 'buddha' e 'bodhisattva' sono sinonimi di questo stato puro della mente. Esso non concepisce o vede impurità. Lo stato pu­ ro della mente implica che l'impura, ingannevole condizione della mente sia svanita, sparita. 'Essere senziente' è sinonimo dello stato impuro della mente che non vede lo stato puro, la realtà di ciò che è. Quando si realizza lo stato puro, quello impuro sparisce, la condi­ zione erronea della mente dualistica svanisce. Per i buddha, i siddha e gli yogi realizzati, l'esperienza equivale a essere arrivati su un'isola d'oro puro. In quel luogo non si trovano la terra o le pietre comuni. Ovunque c'è solo oro puro. Questa è l'immagine del momento in cui si dissolve l'impura mente dualistica. L'impurità non si trova in nes­ sun aspetto dell'esperienza; ogni cosa è la purezza che tutto pervade. La totale stabilità nello stato del rigpa viene anche descritta come 'la conquista della roccaforte innata dell'immortalità'. Qualsiasi sen­ so di nascita e morte, andare e venire, ha una realtà soltanto nel pen­ siero ingannevole. Quando tutto il pensiero concettuale si dissolve nello stato della consapevolezza non duale, si consegue la stabilità nel rigpa e il dominio su tutti i fenomeni. Se non c'è nascita, come può esserci morte? È per via della nascita che c'è la morte. Poiché la mente non è una 'cosa' che può morire, la nascita e la morte possono essere eliminate. Questo è il significato della 'conquista della roc­ caforte innata dell'immortalità'. Anche quando un persona ingenua come me ci pensa su, come può esserci morte se non c'è nascita? Questa eliminazione della base

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tanto della nascita quanto della morte è ciò che i buddha e i bodhi­ sattva hanno conseguito. In seguito, sebbene non ci sia nascita, essi si comportano.çome se nascessero. Sebbene non ci sia morte, essi si comportano come se morissero. Agiscono così perché i comuni esse­ ri senzienti si aggrappano all'idea della permanenza. Ma non si può rimanere passivi, giacché si deve continuare a beneficare gli esseri, quindi di nuovo è necessario agire come se si nascesse. Anche se ot­ tieni un certo grado di stabilità nel rigpa, la cosiddetta 'città illusoria del corpo fisico' viene distrutta e, nel contempo, c'è la liberazione nella vera stabilità. L'essenza della consapevolezza non duale non è qualcosa che nasce, rimane e finisce: le apparenze esteriori di questa vita sono tutte illusorie e prive di sostanza. Quando si ottiene la sta­ bilità in ciò che è veramente immutabile, è possibile il risveglio, ed è possibile che tutta l'esperienza erronea si dissolva, venga meno, sva­ nisca nello spazio basilare. S T U D E N T E : Sembra che ci siano forze sulle quali non abbiamo controllo. Come vengono chiamate? RIN P O CH E : Ci sono delle esperienze chiamate 'le tre sfide'. Le sfi­ de esteriori sono i trucchi magici di dèi e demoni. Le sfide interiori sono gli squilibri nel corpo, come le malattie. Le sfide più segrete so­ no quelle dell'esaltazione e della disperazione, per esempio una tri­ stezza inspiegabile. Senza nessun motivo, si cade in una grave, acuta depressione. A volte ci si può anche convincere che si sta per morire, all'improvviso. n dolore può essere insopportabile: forse si ha la sen­ sazione che l'intero corpo stia per andare in pezzi. Sapete, avete ve­ stiti, cibo e un luogo dove stare; non dovreste avere nulla di cui preoccuparvi. Ma vi rattristate profondamente senza nessuna ragio­ ne. Ecco, queste sono le tre sfide. Sono esperienze che accadono, av­ venimenti. STUDENTE: E le sfide che provengono da dèi e demoni? R I N P O CH E : Quegli dèi, prima di tutto, non sono divinità della saggezza. Essendo mondani, vengono chiamati dèi anziché divinità. Possono essere mamo oppure tsen, o altri tipi. Di solito vengono suddivisi in otto classi. Essi cercano di ingannare o influenzare i pra­ ticanti manifestandosi con varie forme. I loro corpi non sono forme materiali, anche se chi li percepisce può credere che lo siano. È un'esperienza più simile alla visione di un film o della televisione. La loro parola viene udita come suoni o voci. La loro mente si manifesta

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come istigazione all'attaccamento, alla lussuria o alla paura; qualsiasi emozione nella mente del praticante. Vale a dire, essi cercano di spa­ ventarvi oppure di sedurvi. È facile essere dominati da queste appa­ rizioni se si considera reale ciò che viene percepito. Confrontandosi con tali sfide ci sono due possibilità: si può soccombere oppure si as­ sume il comando. Per assumere il comando occorre essere pratican­ ti piuttosto stabili nel rigpa: allora si vince anziché essere vinti. n pra­ ticante maschio inesperto può essere sedotto facilmente se dèi e de­ moni gli appaiono nella forma di una bellissima donna; può pensare che si tratti di una 4akint della saggezza! Quando il Buddha sedette sotto l'albero della bodhi a Bodhgaya, tutti gli dèi e i demoni, capeggiati da Garab Wangchuk, il coman­ dante dei mara, videro che stava per diventare pienamente illumina­ to. Non potendo tollerarlo, convennero di fare tutto il possibile per distrarlo, con la paura, la seduzione, o in qualsiasi altro modo. Lo circondarono immense armate di demoni che lasciarono cadere una pioggia di armi e fulmini. Ma il Buddha non batté ciglio: neppure un pelo del suo corpo si mosse. Nulla poterono fare. Lui era totalmente invincibile. Allora presero questa decisione: "Bene, se non possiamo spaventarlo, proviamo a sedurlo" . I mara apparvero nelle forme di bellissime fanciulle, pienamente dotate dei cinque piaceri sensoriali: forme attraenti, voci soavi, profumi fragranti, sapori deliziosi e pelle liscia al tatto. Sfilate senza fine delle divinità più belle, ancor più bel­ le delle figlie degli dèi, continuavano ad apparire. Lo avvicinarono in lunghe file, ma di nuovo il Buddha non si mosse dal samadhi. n Bud­ dha semplicemente diresse lo sguardo verso di loro ed esse all'istan­ te divennero vecchie grinzose con vesti stracciate. Si sentirono terri­ bilmente a disagio e fuggirono. E quel mattino, proprio all'alba, il Buddha si risvegliò alla vera e completa illuminazione. I mara aveva­ no fatto di tutto per impedirglielo, con mezzi sia adirati sia pacifici. Quello è l'esempio più famoso di sfide esteriori, le esibizioni magi­ che di dèi e demoni. Ecco un'altra storia che riguarda le esibizioni magiche. Mio pa­ dre, Chimey Dorje, era un praticante di Cho. Si suppone che a un certo punto i praticanti di Cho si allenino in luoghi che incutono paura. Nel Tibet orientale, tra due precipizi, c'era un cimitero dove venivano abbandonati i cadaveri. Quel luogo era conosciuto per il terrore che incuteva, e ai praticanti che vi si fermavano accadevano

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spesso strane cose. Così mio padre una sera ci andò insieme a due assistenti. Sic:rcome un seguace del Cho non dovrebbe sedere in com­ pagnia qual)lio pratica, gli assistenti dovettero fermarsi a una distan­ za di almeno ottanta passi. Calata la notte, Chimey Dorje iniziò la pratica. All'improvviso qualcosa cadde dal cielo proprio sotto i suoi occhi. Guardò e vide che era una testa umana, la quale lo osservava con occhi irati e muovendo la lingua. Ne cadde un'altra, poi un'altra ancora, producendo un sonoro tonfo al contatto col terreno. Una lo colpì cadendogli proprio sulla testa, e lui avvertì un intenso dolore. In seguito la caduta divenne violenta, come una grandinata di teste umane. Parevano tutte vive. Alla fine l'intera zona era piena di teste umane che si lamentavano e facevano chiasso. Tossivano e sputavano pezzi di sostanze putride. Alcune gemevano: "Sono morto con i pol­ moni marci". Tuttavia Chimey Dorje non si mosse e continuò la pratica. La di­ mensione delle teste si ridusse e il loro numero diminuì, finché svani­ rono tutte senza lasciare nessuna traccia. Dopo un po' si alzò e andò a vedere cos'era accaduto agli assistenti che erano rimasti distesi du­ rante la grandinata di teste umane. Loro non avevano notato nulla; erano addormentati e stavano bene. Questo è un esempio di ciò che chiamiamo 'sfida dovuta alle esibizioni magiche di dèi e demoni'. Un altro fatto accadde quando Chimey Dorje stava praticando il Cho a Drag Yerpa, un famoso eremitaggio di grotte vicino a Lhasa. Lo attaccò un nutrito gruppo di scimmie dalla barba bianca. Mo­ strando i denti gli si avvicinarono davanti alla faccia, fino a toccarlo e morderlo. Quando cercarono di afferrargli le mani, quelle scimmie parvero solide e reali al tatto. Eppure Chimey Dorje non perse mai la sicurezza nel fatto che tutto fosse solo un'apparenza, un fenomeno non reale. Continuò a praticare, e lentamente la dimensione delle scimmie diminuì, finché diventarono grandi come topi. Poi svanirono. Un'altra volta mio padre vide quelli che vengono chiamati demo­ ni di ossa, demoni di pelle e demoni di capelli. C'è un luogo in Tibet dove gli scheletri si mettono a danzare. Lì danzarono insieme, da­ vanti e dietro di lui, scheletri maschili e femminili. Fecero elaborate danze popolari cercando di spaventarlo. In seguito mio padre disse che non era stato un grosso problema affrontare quella danza: aveva semplicemente continuato a praticare. Peggiori furono i demoni di pelle, grandi lenzuoli di pelle umana che si muovevano lentamente

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verso di lui assumendo forme grottesche. Quando furono vicinissi­ mi, mio padre provò un intenso dolore nel ventre. Di nuovo rimase semplicemente nello stato del rigpa e le pelli umane rimpicciolirono fino a svanire. I demoni di capelli erano come grandi fasci di capelli umani che oscillavano nel cielo davanti a lui, saltando su e giù. In­ scenarono ogni genere di effetti teatrali, finché anch'essi non svani­ rono. Quando ero piccolo, ho sentito raccontare da mio padre un bel po' di storie terrificanti! Questo è un altro esempio di sfide degli dèi e dei demoni privi di esistenza solida. Ecco un'altra storia. Un meditante nel suo eremo vide attraverso la finestra una pancia di pecora che stava scendendo verso di lui. Non fece nulla. Ma dopo un po' pensò: "Bene, farò qualcosa". Così prese un pezzo di carbone e vi tracciò una croce. Il giorno successi­ vo vide una croce tracciata col carbone proprio sulla sua pancia ! Dopo la sua partenza, un paio d'anni più tardi, un altro meditante sedette in quella capanna nello stesso eremo. Costui vide la medesi­ ma cosa. Si arrabbiò e disse: "Non mi sfuggirà". Così afferrò il col­ tello e lo conficcò nella pancia della pecora che si stava avvicinando. Improvvisamente si rese conto che aveva pugnalato la propria pancia e gridò. Uno dei suoi amici entrò e vide il praticante seduto con in mano il coltello che aveva conficcato nel ventre. I suoi intestini sta­ vano fuoriuscendo dalla grossa ferita. L'amico chiese: "Cos'è succes­ so? ". Lui rispose: "Ho visto scendere questa pancia di pecora, mi so­ no arrabbiato e l'ho pugnalata. Adesso sembra che l'abbia fatto a me. Probabilmente morirò" . E in effetti morì. Un lama che ho conosciuto, un buon praticante, mi ha raccontato un'altra storia. Quando era giovane non gli piaceva un protettore chiamato Gyalpo Pehar. Lo guardava con cipiglio e lo sminuiva sem­ pre. Una volta, mentre era in ritiro intento a praticare il Konchok Chidii, una rivelazione di Jatson Nyingpo, ebbe una visione di Pad­ masambhava che gli diceva: "Stai per conseguire un grande atteni­ mento. Come prova dell'ottenimento, prendi la tua campanella e gettala contro il muro, così vedrai cosa intendo dire" . Il praticante pensò: "Che meraviglia ! Padmasambhava in persona mi ha parlato; devo fare ciò che dice" . Poi prese la campanella, che era molto vec­ chia e preziosa, e la gettò contro il muro. E quella campanella andò in frantumi. 'Padmasambhava' scomparve e da quel momento il pra­ ticante non lo rivide mai più!

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In risposta alla richiesta di insegnamenti per qualcuno nel braccio della morte, Rinpoche diede il seguente discorso che venne registrato. T RA D U T T O R E : Quelle che sentirai ora sono le parole di Tulku Urgyen Rinpoche. Gli ho spiegato la tua situazione e gli ho chiesto di darti un consiglio. RINP OCHE: Il maggior beneficio sorge dalla fiducia nei tre Gioiel­ li che stanno al di sopra di te e dalla compassione per i tuoi genitori delle vite passate, che sono tutti gli esseri senzienti dei tre regni al di sotto di te. È la tua mente che sperimenta piacere e dolore. La tua mente è anche ciò che può andare in un regno celeste o agli inferni. Cos'è questa mente? In essenza è vuota; per natura è conoscitiva. La sua capacità è l'unità dei due, l'essere vuota e conoscitiva. Quando la riconosci, c'è la conoscenza. Senza il riconoscimento della tua natu­ ra, c'è la non conoscenza, l'ignoranza. Questa ignoranza è il primo dei dodici anelli dell'origine dipendente, seguito dalla formazione, dalla coscienza dualistica, e così via. Il tuo attuale corpo si è forma­ to sulla base di questi dodici anelli. Noi nasciamo, invecchiamo e alla fine il corpo muore, ma la mente non è una 'cosa' che può mo­ rire. La ragione per cui può esserci una serie di vite sta in questa mente. Se la mente potesse morire, non ci sarebbe rinascita. Ma sic­ come la mente non muore ed è ancora ignorante, di nuovo darà ori­ gine ai dodici anelli: la formazione, quindi la coscienza dualistica e ciò che segue fino alla vecchiaia e alla morte. Similmente a una ruo-

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ta che gira di continuo, questo processo viene chiamato 'ruota del samsara'. La causa principale del samsara è la non conoscenza, l'ignoranza. Nel momento in cui riconosci che la tua mente è vuota conoscenza, allora essa è soffusa di consapevolezza. Se manca la conoscenza di questa natura, che è anche lo stato fondamentale di tutti gli altri es­ seri, essa è vuota conoscenza soffusa di inconsapevolezza. Se incon­ tri un maestro e ricevi le istruzioni, cosa può dirti? Ti dirà: "Ricono­ sci che la tua mente è l'unità di vuoto e conoscenza, soffusa di consa­ pevolezza". Quando la tua attenzione si proietta all'esterno, sei do­ minato dai pensieri. Lascia che la tua attenzione riconosca se stessa. Riconosci che essa è vuota. Ciò che riconosce è la natura conoscitiva. In quel momento puoi renderti conto che l'aspetto vuoto e quello conoscitivo sono un'unità originaria. Vedere che la tua natura è una vuota conoscenza indivisibile, e riconoscerlo, viene chiamato 'sveglia presenza consapevole di sé'. Devi riconoscere l'identità di ciò che si sente felice e triste. Se non sappiamo come vedere la nostra natura, ci ricolleghiamo ai dodici anelli dell'origine dipendente, e la ruota del samsara gira all'infinito. Se, prima di tutto, riconosci la natura di ciò che è ignorante, che non conosce, allora il samsara si ferma al primo stadio della ruota. Que­ sta è la cosiddetta 'dissoluzione dell'ignoranza alla base'. Nell'istante in cui riconosci l'essenza della mente, questa sveglia presenza consa­ pevole di sé interrompe il flusso del pensiero ingannevole in cui con­ siste la formazione, il secondo anello. Quando si interrompe la for­ mazione, allora viene meno la coscienza dualistica, e gradualmente cessano tutti gli altri anelli. In un solo istante è stata interrotta la ba­ se della continuazione nel samsara, perché la coscienza dualistica è diventata la sveglia presenza originaria. Come ti alleni a questo riconoscimento? Lascia che la tua mente riconosca la sua natura. Quando vedi la tua natura, c'è la sensazione di essere vuoto e tuttavia sveglio. In effetti, questo vuoto viene chia­ mato dharmakiiya. Inseparabile dal vuoto c'è la sensazione di cono­ scere, una qualità sveglia che riconosce di essere vuota. Questa viene chiamata saf!tbhogakiiya. I due aspetti sono originariamente un'unità, che è il nirmiiJ:takiiya. Tale unità è uguale all'indivisibilità dell'acqua e dell'umidità. In breve, sei a faccia a faccia con i tre kiiya dello stato risvegliato.

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Ma se non si sa come riconoscere l'essenza della mente, c'è la non conoscenza, l'ignoranza. Finché continuano l'ignoranza e la forma­ zione, il sartisara non ha fine. Ciò che è ignorante, ciò che forma nuove elaborazioni del pensiero, non muore. Perciò il samsara può continuare incessantemente. Riconoscere l'essenza della mente è l'opposto dell'ignorare, del non conoscere, e fa cessare l'ignoranza. La radice del samsara viene meno, si dissolve. In quanto comuni esseri senzienti, siamo coinvolti in un incessan­ te flusso di pensieri. Il pensiero ingannevole si è protratto ininter­ rottamente per vite innumerevoli, fino ad ora. Questa attività men­ tale non è qualcosa che possiamo semplicemente fermare. Non pos­ siamo neppure liberarcene. Non puoi bruciare i tuoi pensieri, spaz­ zarli via con un secchio d'acqua o farli saltare in aria. Tuttavia, il pensiero può essere l'antidoto di se stesso. In altre parole, riconosci la natura del soggetto che pensa; riconosci la vuota conoscenza sof­ fusa di consapevolezza. Nel momento in cui la vedi, sei purificato da infiniti eoni di karma negativo e di oscuramenti. La gioia e il do­ lore vengono considerati come uguali nella grande estensione del­ l'equanimità. In questo mondo attraversiamo tutti i tipi di gioia e dolore. Il ter­ mine tradizionale tibetano per mondo è 'regno delle possibilità'. Qui niente è impossibile. Dove si manifestano tutte queste possibilità? Nel regno della mente. Perché? Non è la mente che sperimenta tut­ to ciò che è piacevole, sgradevole o neutrale? In questo mondo solo la mente può sperimentare. Chi sperimenta è il soggetto che pensa, il pensatore. Non appena il pensatore si dissolve, c'è la sveglia presen­ za libera dal pensiero. Una persona comune è intrappolata nel pen­ siero; un buddha è stabile nello stato di non pensiero. Di solito la mente è occupata a pensare alle cose più disparate: "Voglio fermar­ mi; voglio andare; voglio fare questo; voglio fare quello" . Invece, ri­ conosci la natura del soggetto che pensa, e nel medesimo momento il pensiero svanisce senza lasciare tracce. Dopo un po' appare un al­ tro pensiero. Di nuovo riconosci l'identità di ciò che pensa, e svanirà anche quel pensiero. Perché è possibile? Perché tutti i pensieri sono vuoti. Non hai bi­ sogno di cercare di non pensare. Semplicemente riconosci la natura di chi sta pensando, e il pensiero svanisce da se stesso. Quando la ri­ conosciamo, non abbiamo bisogno di immaginare che la mente sia

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vuota. li Buddha ha detto: "La mente è vacuità; allenatevi". Dovresti allenarti alla vacuità. Questa è vera pace. La realtà è che la morte riguarda soltanto il corpo: la mente non muore. Quando arriva il tempo, preparati immaginando di donare ogni cosa, l'intero universo, tutte le tue relazioni con gli altri, i tuoi averi, anche il tuo corpo. Dona ai buddha tutto ciò che è buono. Co­ sì puoi essere sicuro di non rimanere attaccato a nulla, neppure a un atomo di alcunché. Pensa: "Questa mia mente, che è vacuità, in es­ senza è inseparabile dalla mente risvegliata di tutti i buddha. Lascerò che si fonda con la mente di buddha fino a essere indivisibile. Così, quando morirò sarò illuminato. La morte non può danneggiare. È come ritornare a casa" . Nel medesimo momento in cui lo penserai, arriverai alla 'città di tutti i buddha'. La mente di buddha non è un luogo lontano. È come quando vol­ gi uno specchio verso il sole: il riflesso del sole non vi appare al­ l'istante? Se hai l'apertura della fede e della fiducia, non c'è nessuna distanza da percorre per raggiungere lo stato dell'illuminazione di tutti i buddha. Tu puoi avere questa sicurezza: "D'ora in poi, possa­ no le benedizioni compassionevoli dei buddha eliminare la paura e il terrore miei e di tutti gli altri esseri che si trovano in una situazione simile. Io posso essere completamente libero da qualsiasi paura". Se ti apri con fiducia ai buddha nell'istante della morte, senza alcun dubbio sarai guidato alle terre pure degli esseri risvegliati. Non devi dubitarne. Ti prego di ricordartene. È tutto ciò che ho da dire.

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Da quando il buddhismo è giunto in Tibet, i suoi insegnamenti sono stati trasmessi dagli 'otto carri' del lignaggio della pratica. Uno è la scuola Nyingma, la 'Vecchia Scuola' delle traduzioni antiche. Gli altri sette sono le scuole Sarma, le 'Nuove Scuole' delle traduzioni posteriori. Questi termini si riferiscono ai periodi in cui arrivarono gli insegnamenti. I principali maestri che portarono in Tibet la vec­ chia scuola delle traduzioni antiche furono tre: Vimalamitra, Padma­ sambhava e Vairotsana. Si afferma che i loro discepoli realizzati furo­ no così tanti da coprire praticamente tutto il Paese delle Nevi. In se­ guito ci furono numerosi esseri realizzati tra i seguaci dei maestri de­ gli altri sette carri del lignaggio della pratica. Essi ottennero la realiz­ zazione grazie al modo in cui praticarono, e non poteva essere diver­ samente. A causa della loro realizzazione, non poterono non diven­ tare illuminati. Di conseguenza, non poterono fare a meno di com­ piere il beneficio degli esseri. Gli insegnamenti del lignaggio della pratica sono stati verificati e dimostrati. Grazie a essi innumerevoli praticanti hanno conseguito l' ottenimento. È un fatto di cui vorrei parlare maggiormente. Gli esseri senzienti che non praticano la via spirituale, e non mi ri­ ferisco soltanto agli esseri umani di questo mondo, sono innumere­ voli come le stelle di notte. Gli esseri interessati a praticare il Dhar­ ma sono rari come le stelle diurne. Noi tutti, oggi qui riuniti, siamo stelle diurne, persone molto rare, preziose. Sono felice per voi. Non solo perché siete venuti ad ascoltarmi, a ricevere insegnamenti da questo vecchio fin quassù a Nagi Gompa (non è di questo che sto

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parlando). Sono felice perché siete interessati sinceramente a riceve­ re e praticare gli insegnamenti dell'illuminato, il Buddha. È davvero meraviglioso! Si potrebbero dividere tutte le persone in due gruppi: i saggi e gli stolti. Voi sapete anche che le persone possono avere successo op­ pure no, giusto? Se vi guardate intorno, oggi nel mondo ci sono molti che sembrano essere riusciti con grande abilità ad accumulare ricchezza e fama a proprio vantaggio e a sottomettere i nemici. Ma, dal punto di vista del Dharma, tali persone non sono affatto abili, perché non hanno successo quando si viene al punto cruciale. Un individuo può essere così potente, così influente, così famoso che il suo nome è conosciuto da tutti, al punto da echeggiare ovunque co­ me il tuono. Però, sinceramente, il rombo del tuono è soltanto un suono forte e vuoto. La fama è temporanea; dura un momento. Sembra utile, ma quant'è di aiuto quando si muore? Non è di nessu­ nissima utilità. Possiamo occuparci molto del nostro corpo, prestandogli partico­ lare attenzione in molti modi. Ci preoccupiamo per il freddo o la fa­ me, e facciamo di tutto per evitare queste situazioni. Ma, onestamen­ te, questo corpo diventerà un cadavere, qualcosa che in genere incu­ te paura. Milarepa disse: "Un cadavere che impaurisce e spaventa non è nient'altro che questo stesso corpo nel momento in cui espira­ te e non inspirate più". n passo è breve. Quando facciamo ogni sforzo per crearci una reputazione, con­ quistare fama e ricchezza, diventiamo schiavi di quelle cose. Possia­ mo diventare servi della fama e del denaro. Se la fama e il denaro ci fossero di aiuto dopo la morte, allora sarebbe vantaggioso, impor­ tante, dedicare tanto tempo al loro ottenimento. Tuttavia, al momen­ to della morte non sono di nessun beneficio. Oppure, possiamo sce­ gliere di utilizzare il nostro tempo e la nostra energia a seguire una vera via spirituale che ci assicuri di trascendere i tre regni del samsa­ ra. Accontentatevi di avere quel po' di denaro, cibo e indumenti che basta per vivere. Se i nostri sforzi per ottenere fama, ricchezza, pote­ re e influenza fossero davvero importanti, sarebbe meraviglioso. Ma tale ricerca egoistica conduce soltanto in basso, fino al cosiddetto 'inferno dell'incessante tormento'. Avete sentito parlare di Milarepa, il grande siddha tibetano che aveva ottenuto la padronanza del priù:za e della mente ed era capace

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di volare. Alcune persone lo videro e dissero: "Ha digiunato così a lungo che adesso il vento se lo porta via ! " . Pensavano che fosse un pazzo incapace di badare a se stesso. Pensavano che Milarepa si illu­ desse. Lui percepì i loro pensieri e si disse: "Ho ottenuto la padro­ nanza del priù:za e della mente; ho capito che questo corpo è illuso­ rio, e vedo anche che la natura della mia mente è uguale a quella di tutti i buddha. Nessuno al mondo è più felice, contento e libero di me. Guarda questa gente; si inganna totalmente! ". Quelle persone pensavano che Milarepa si ingannasse, ma Milarepa capì che erano nell'illusione. Le cose stanno così, ironia della vita. Gli esseri senzienti dei sei regni sono nell'illusione, senza alcuna comprensione di ciò che può liberarli, di ciò che può portarli alla li­ berazione. Ma credo che voi tutti ne siate ben consapevoli; voi sape­ te cos'ha valore. Tutti voi, stelle diurne, sapete che nessuna delle co­ se che potete ottenere in questo mondo alla fin fine vi sarà di qual­ che aiuto. Vi sto solo rinfrescando la memoria. Ripeto che, se qual­ che conseguimento mondano (fama, ricchezza, influenza, potere) fosse di reale beneficio, allora certamente dovremmo ricercarlo; sa­ rebbe eccellente. Credo che capiate che è meglio essere felici accon­ tentandosi di ciò che basta per vivere. Anziché sforzarvi di ottenere un profitto materiale, mirate sinceramente a conseguire la realizza­ zione. Se entrate in ritiro, potete raggiungere un livello che trascen­ de completamente questo mondo transitorio. C'è un famoso detto: "Per il cibo e i vestiti la gente butta via ciò che ha eterno valore" . Spesso accade che, per ottenere qualche be­ neficio temporaneo, gettiamo ciò che ha vero valore. Non devo insi­ stere su questo punto. Qualsiasi persona intelligente può riflettere bene sulla questione. A che vi servono la ricchezza e la fama quan­ do siete nello stato del bardo? Chiedetevelo. Non avete bisogno di pensarci su a lungo, tormentarvi con dubbi atroci, e lottare per poi risolverli. È del tutto evidente che è futile perseguire ricchezza e fa­ ma. Non sto biasimando nessuno ma, allo stesso tempo, "le appa­ renze sono seducenti e la mente è volubile" . Ci facciamo prendere facilmente da ciò che è transitorio, temporaneo. Ma pensateci: non è vero che c'è qualcosa che ha un valore imperituro? È possibile conseguire la liberazione dal samsara e ottenere lo stato della com­ pleta illuminazione? La liberazione non è una felicità passeggera, niente affatto.

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Se pensiamo nei termini di realizzare buoni affari, non dovremmo imbarcarci in un'impresa da cui non riusciremo a guadagnare nulla. E sicuramente non dovremmo imbarcarci in un affare in cui potrem­ mo perdere tutto. Sarebbe un cattivo affare. Vi sto chiedendo di considerare questa cosa: cos'è più proficuo? Cercare di ottenere ciò che svanisce velocemente, oppure ciò che ha un valore imperituro? Pensateci bene, perché tutti vogliono essere felici. Desideriamo il be­ nessere e il piacere. Nessuno al mondo desidera il dolore e la soffe­ renza. Tutti universalmente sono d'accordo su questo. Stando così le cose, non sarebbe meglio ottenere una felicità duratura? Qual è la cosa più importante, quella che ha un valore imperitu­ ro? In generale è la pratica del Dharma; in particolare è il riconosci­ mento della propria natura di buddha e il corrispondente allena­ mento. Riassumendo, la natura di buddha è l'identità dei tre kaya dello stato risvegliato. I tre kaya sono il dharmakaya, il sa111bhogakaya e il nirma1Jakaya. Essi vengono anche chiamati i tre vajra: il corpo vajra, la parola vajra e la mente vajra. Si insegna che la vuota essenza è il dharmakaya, la natura conoscitiva è il saf!lbhogakaya, e l'unità dei due, la capacità sconfinata, è il nirma1Jakaya. L'essenza della mente è sin dal principio vuota: questo è proprio ciò che chiamiamo dharma­ kaya. Se volete usare un esempio, tale vacuità è come lo spazio. Lo spazio non è qualcosa che possiate vedere, udire, odorare, gustare, toccare o pensare come se fosse un'entità piacevole o sgradevole. Qui si intende lo spazio in quanto analogia, non il significato effetti­ vo del termine. Quando il Buddha ha detto "nessuna forma, nessun odore, nessun sapore, nessun suono, nessuna sensazione tattile, nes­ sun oggetto mentale" , ciò descrive il modo d'essere della nostra mente. Secondo le vere parole del Buddha, la nostra mente non ha una forma che possa essere vista, non ha suono, odore, sapore, non è un oggetto del tatto e non è neppure un oggetto mentale. L'essenza della mente è sin dal principio vuota e senza radice. Per­ ciò il Buddha ha detto: "Realizzate la vacuità della vostra mente" . Realizzare l a vacuità vuoi dire comprendere e vedere dawero che la propria mente è vuota, priva di base e senza radice. È quella la sua essenza, la sua identità. Ma qual è la sua natura? È la capacità di co­ noscere. Nel caso di un buddha, tale conoscenza è chiamata saggez­ za onnisciente. Proprio ora, in questo preciso istante, non abbiamo la capacità di conoscere e sperimentare? C'è una sola cosa al mondo

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che può conoscere, sperimentare e comprendere, ed è la mente di un essere senziente. Nient'altro lo può fare. In breve, il Buddha ha inse­ gnato che dovremmo comprendere il significato della vacuità. Rip)!to che la qualità vuota è libera dagli otto concetti limitanti; è sin dal principio vuota, senza radice. L'analogia utilizzata è quella dello spazio, perché non può essere creato. Lo spazio non è un no­ stro prodotto. La luce solare rappresenta metaforicamente la qualità conoscitiva; anche in questo caso nessuno crea la luce solare. Essa è presente in modo spontaneo e naturale. Lo spazio e il sole sono eter­ namente inseparabili. ll sole non può uscire dallo spazio. Il senso di questa analogia è che la nostra essenza è vuota ed è per natura cono­ scitiva. La sua capacità è l'unità del vuoto e della conoscenza. Rico­ noscere e realizzare questo costituisce il cuore di tutti gli 84 .000 aspetti del Dharma. Secondo il metodo tradizionale del buddhismo tibetano, lo stu­ dente inizia praticando nella maniera appropriata e corretta i preli­ minari, ripetendoli quattrocentomila oppure cinquecentomila volte. Poi passa alla pratica dello yidam con il suo stadio dello sviluppo, la ripetizione del mantra e lo stadio del compimento. In seguito, lo studente viene introdotto al vero modo di vedere della Mahiimudrii e dello Dzogchen. La sequenza tradizionale segue questo ordine: prima di tutto eliminate ciò che vi oscura; poi colmate il vostro es­ sere di benedizioni; infine siete introdotti al volto naturale della consapevolezza. Ai nostri giorni, tuttavia, i discepoli non hanno tanto tempo ! Inoltre i maestri non rimangono in un posto per insegnare in modo continuativo. So che oggi molti maestri prima di tutto danno l'istru­ zione dell'indicazione diretta, introducendo le persone al punto principale della pratica, e successivamente insegnano i preliminari. Così il modo di vedere e la condotta possono essere adattati al tem­ po e alle circostanze. Attualmente nel mondo il buddhismo suscita una stima e un interesse crescenti. Ciò è dovuto al fatto che la gente è più istruita, più intelligente. Quando i maestri e i discepoli non possono trascorre insieme molto tempo, non c'è modo di seguire l'intera sequenza delle istruzioni. Anch'io di solito trasmetto gli in­ segnamenti dell'intero ciclo tutti in una volta. Un proverbio del mio paese dice: "Il saggio può trovare la verità anche nelle parole di un furfante".

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Questo approccio, consistente nel dare prima l'essenza e poi nell'insegnare i preliminari (ngondro), lo stadio dello sviluppo, la re­ cita del mantra e lo stadio del compimento, può essere paragonato all'apertura totale della porta proprio all'inizio. Quando aprite la porte entra la luce del giorno cosicché, rimanendo alla porta, siete in grado di vedere la zona più segreta del tempio. Alcuni maestri buddhisti possono dire di me: "Com'è possibile indicare subito l'es­ senza della mente senza che gli studenti siano passati attraverso il ngondro per la purificazione dagli ostacoli e la raccolta delle accu­ mulazioni dei meriti e della saggezza? " . Qualcuno può sollevare questa obiezione ma, con tutto il dovuto rispetto, credo che questo approccio non sia sbagliato. Perché? Perché viviamo nell'Era Oscu­ ra e c'è la profezia secondo cui "alla fine dell'Era Oscura gli insegna­ menti del Mantra Segreto si diffonderanno come un incendio ine­ stinguibile". 'Mantra Segreto' qui si riferisce alla Mahamudra e allo Dzogchen. Sinceramente, se un discepolo ha ricevuto gli insegnamenti sul­ l'essenza della mente e poi pratica i preliminari ricordandosi di rico­ noscere la natura della mente, gli effetti della pratica sono di molto maggiori. Si insegna che praticare con un atteggiamento puro molti­ plica gli effetti per cento, mentre praticare con il puro samiidhi li moltiplica per centomila. Integrate i preliminari con il riconoscimen­ to dell'essenza della mente e la vostra pratica avrà un'efficacia straor­ dinaria. Potreste anche praticare i preliminari semplicemente con un at­ teggiamento puro e sincero, e questo basterà a purificarvi dal karma negativo. Ma un buon atteggiamento in se stesso non è sufficiente nella vera via dell'illuminazione. Però, se abbracciate queste pratiche con il corretto modo di vedere dato dal riconoscimento dell'essenza della mente, i preliminari diventano la via effettiva dell'illuminazio­ ne. Se avete l'immagine di una candela, può quella candela produrre luce nella stanza? Non sarebbe meglio avere la candela vera e pro­ pria con la fiamma che diffonde una luce reale? Similmente, quando pratichiamo il rifugio, il vero rifugio implica la libertà dai tre concet­ ti del soggetto, dell'oggetto e dell'azione. Lo stesso vale per l'atteg­ giamento del bodhisattva: il vero stato della mente risvegliata, il bo­ dhicitta ultimo, è libero dall'attaccamento ai tre concetti. È così an­ che per la pratica di Vajrasattva, l'offerta del mandala e il guru yoga.

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C'è un solo modo di essere liberi dai tre concetti, ed è riconoscendo il vero modo di vedere. Non credo che ci sia qualcosa di sbagliato nel da�e alla gente l'istruzione sull'indicazione diretta. Possono pra­ ticare i' preliminari in seguito. È del tutto appropriato. Un altro punto è che quando si dà un insegnamento come questo, ci deve essere una sorta di legame puro tra il maestro e il discepolo. Sento che tra noi c'è un legame puro. Non ci saranno molte occasio­ ni di distruggere tale legame con percezioni impure o danneggiando i voti del prezioso samaya, perché voi tutti qui presenti non rimarre­ te con me molto a lungo. Quindi non ci saranno molte opportunità di rompere il samaya. Si afferma che un maestro è come il fuoco: se ci state troppo vicino vi bruciate; ma se rimanete a una certa distan­ za, potete riceverne il calore e la luminosità, e non vi brucerete. Quando ognuno tornerà a casa nel proprio paese, porterà con sé l'insegnamento e non avrà occasione di rompere il samaya con me. È una buona cosa. Molti di voi devono tenere un piede nel mondo materiale, non possono farne a meno. Dovete guadagnare per vivere. Non vi sto forzando a rinunciare immediatamente al mondo, con tutti i proble­ mi che ciò vi creerebbe. La rinuncia si sviluppa in modo naturale, da se stessa, grazie all'allenamento nell'essenza della mente. Man mano che praticate questo insegnamento e diventate sempre più sicuri, la vostra attrazione per il mondo e gli obiettivi transitori diminuirà sempre più da se stessa. Scoprirete dentro di voi il vero valore degli insegnamenti del Buddha e gradualmente dedicherete più tempo ed energia alla pratica. Non voglio forzare o spingere nessuno, e neppu­ re ne sento il bisogno; questo sviluppo accade naturalmente. Le per­ sone intelligenti capiscono da sole cos'è che ha valore. Un altro punto che desidero chiarire è questo: non ho inventato questo insegnamento. Non credo proprio di trasgredire a nessuna legge buddhista parlando liberamente della natura della mente. Mi limito a ripetere ciò che tutti gli esseri illuminati del passato hanno scoperto. Non solo uno o due, ma un numero imprecisabile di prati­ canti hanno realizzato questo insegnamento, e tutti possono testimo­ niarne la veridicità. Sono tutti una dimostrazione del suo valore. Se dovessi basarmi soltanto su ciò che ho imparato e capito, non sarei in grado di insegnare granché. Non ho studiato tanto, e non ho nep­ pure fatto molta pratica di meditazione. Se dovessi basarmi sulla mia

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esperienza personale, non ci sarebbe molto da dire. Ma siccome ri­ peto le parole degli esseri illuminati, mi sento sicuro del valore. Non sto mentendo: ciò che insegno è soltanto la verità. Alcune persone vengono da me e dicono: "Ho praticato per dieci anni," oppure: "ho praticato per vent'anni e ho trascorso molto tem­ po in ritiro, ma non ho ottenuto delle realizzazioni particolari né ho fatto esperienza speciali. Non è successo nulla" . Perché? Non basta definirsi un praticante e lasciare che il tempo voli. Praticare il Dhar­ ma non significa questo. Abbiamo vissuto nel samsara innumerevoli vite; tanto la nostra mente è stata immersa nelle tendenze dell'esi­ stenza samsarica. Come possiamo aspettarci di essere trasformati to­ talmente in pochi anni? Non succede. I modelli abituali, i tre veleni e la fissazione dualistica sono tutti latenti nella nostra mente. Sono lì, continuamente ricreati, da tempo senza inizio. Ogni volta che si pre­ senta una situazione ne rimaniamo intrappolati, e accade di conti­ nuo. Le pratiche preliminari sono molto importanti proprio perché purificano dalle abitudini negative e, quindi, rendono possibile la realizzazione. Quando siamo purificati da queste tendenze, i nostri tre kaya intrinseci diventano una realizzazione effettiva. Nel momen­ to in cui i tre kaya si manifestano appieno, abbiamo raggiunto il li­ vello della buddhità. Tuttavia, fino a quel momento, la nostra natura di buddha rimane celata. L'unico modo di far sì che la natura di buddha si manifesti appieno consiste nel continuare a praticare il Dharma in modo au­ tentico. E ciò non accade praticando saltuariamente per alcuni anni. Certo che la pratica sporadica lascia dei segni positivi, ma non gene­ ra un reale cambiamento nelle profondità del proprio essere. Per conseguire davvero la realizzazione in un paio d'anni dovete pratica­ re, non solo di tanto in tanto, ma tutto il tempo. n modo migliore di praticare consiste nel dormire soltanto un'ora per notte e cercare di non distrarvi mai per il resto del tempo, giorno e notte. Se praticate così, posso assicurarvi che entro quindici anni sarete pienamente il­ luminati, perfettamente realizzati. Non c'è nessun dubbio al riguar­ do ! Ma questo significa pratica continua, non solo una volta ogni tanto. Dipende da voi. Scoraggiarsi perché non è accaduto niente di straordinario da quando si è iniziato a praticare vuoi dire non cogliere il punto. La ri­ nuncia è il vero segno dell' ottenimento, della benedizione e della

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realizzazione. In altre parole, c'è una disillusione naturale nei con­ fronti degli ottenimenti samsarici, di qualsiasi stato samsarico. Sfor­ tunatamente la gente a volte brama lo straordinario. Alcuni sperano che il divino scenda dal cielo e conferisca loro speciali poteri. Altri pensano che, inebriandosi di una certa esperienza indotta con forza nella propria mente, sia possibile essere sballati tutto il tempo, dro­ gati di pratica del Dharma. Questi individui vanno in giro con gli oc­ chi rivolti al cielo; non guardano più allo stesso livello delle persone comuni perché pensano di essere speciali. Alcune persone, quando entrano in uno stato alterato di meditazione, pensano che le forme sottili dei tre veleni, conosciute come le esperienze di beatitudine, chiarezza e assenza di pensiero, siano la realizzazione. Molte persone rimangono bloccate nelle proprie credenze. Quando inizierete ad avere sogni chiari, i demoni approfitteranno di voi. Arriveranno e agiranno come se fossero messaggeri di buddha, bodhisattva e divi­ nità. Possono farvi deviare in molti modi. Non date assolutamente nessuna importanza a queste esperienze temporanee. C'è solo una cosa in cui avere fiducia: il vero stato della realizzazione che è immutabile come lo spazio. Questa comprensio­ ne è di estrema importanza. Ciò che conta davvero è accrescere la propria devozione e la fiducia nel Dharma, fino a sentire interior­ mente che solo il Dharma, solo la pratica, sono importanti. Questo è un segno sicuro di conseguimento. Alimentate sempre questo sentimento: "Per il resto della vita non abbandonerò mai la pratica del Dharma! " . Diversamente, possiamo deviare facendo un cattivo uso del Dharma, o peggio ancora, possia­ mo abbandonare il Dharma. L'abbandono della pratica del Dharma può accadere quando una persona non sente di poterne ricavare al­ cunché per sé, a proprio vantaggio. "È da molto che pratico il Dhar­ ma, ma non ne ho ricevuto nessun beneficio. Forse è meglio che io faccia degli affari; almeno c'è un guadagno". Questa situazione noi khampa la definiamo così: "Concludere male un buon inizio" . Potre­ ste essere praticanti esemplari per la prima metà della vita, ma poi l'entusiasmo inizia a scemare. Allora vi dedicate agli affari e alla fine diventate completamente non spirituali. Questo tipo di carriera nel Dharma senza dubbio a un certo punto vi causerà un profondo rim­ pianto. È molto meglio concludere bene un cattivo inizio: non essère un praticante così eccellente all'inizio, ma lentamente, piano piano,

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lasciare che il Dharma faccia effetto mentre si progredisce. In Kham chiamiamo così questo tipo di persona: "un buon figlio di un buon padre". Seguite quell'esempio! Desidero sottolineare questo: non abbandonate mai il Dharma! Quando andate a piedi da Kathmandu a Bodhgaya, ci sono molte sa­ lite e discese; non è sempre facile. Ci sono montagne, valli e fiumi da attraversare. Se interrompete il viaggio non raggiungete la meta. An­ dare a Bodhgaya senza deviare vuoi dire applicare il più spesso pos­ sibile il modo di vedere, la meditazione e la condotta. Continuate la vostra pratica del Dharma con costanza. Vi prego di impegnarvi a portare la pratica spirituale in ogni momento della vostra vita. Spes­ so facciamo questa preghiera: "Possa io rendere uguali la vita e la pratica". Non limitatevi a praticare un po' ogni tanto, vivendo per la maggior parte del tempo la vita di una persona comune. Rendete uguali la vita e la pratica! Riempite ogni momento della vostra vita con la pratica spirituale. Qualsiasi cosa facciate, cercate ripetuta­ mente di rimanere nella naturalezza inalterata. Se vi fermate a un certo punto del viaggio, potreste finire nella polverosa Raxoul al confine nepalese e non raggiungere mai Bodhgaya. Allenatevi a rico­ noscere la vostra natura di buddha, e un giorno arriverete al Bodh­ gaya della vera e completa illuminazione. Rinpoche fece questo discorso l'ultimo giorno del suo ultimo inse­ gnamento pubblico a Nagi Gompa, il30 ottobre del1995. Morì tre mesi e mezzo dopo.

Indice

Prefazione Introduzione. l. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11. 12. 13. 14. 15.

L'eredità. Benedizioni e illuminazione La tecnica della spranga . Samatha e vipafyanii Trasformare le emozioni . La discendenza del Buddha La strada maestra dei vittoriosi Integrare la pratica con la vita quotidiana Il dubbio Il cuore dell'allenamento. Pranzare con Indra . Terminologia dzogchen . Racconti di realizzazione. Nel braccio della morte . Stelle diurne

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