Trattato Mirror Therapy

April 27, 2017 | Author: Antonio Cerino | Category: N/A
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trattato per la riabilitazione dell'amputato e per il dolore dell'arto fantasma...

Description

Mirror Box Therapy Mirror Box Therapy

Centro Protesi INAIL

Direzione Sanitaria - Area Comunicazione Istituzionale - Ufficio Stampa Via Rabuina, 14 - 40054 - Vigorso di Budrio (Bo) tel 051 6936111 - fax 051 6936241 www.inail.it/centroprotesi [email protected]

a cura di

Tancredi Andrea Moscato

a cura di

Tancredi Andrea Moscato

Sanatorio di Budrio: primo nucleo del Centro Protesi INAIL, 1906

1961 - 2011 C i n q ua n t ’a n n i

di

Questo breve trattato è il frutto dell’appassionato lavoro di ricerca e clinico del Dott. Daniele Sarti allievo del Professor Antonio Moroni, Direttore della Scuola di Specializzazione in Medicina Fisica e Riabilitazione dell’Università di Bologna. Ho avuto modo di apprezzare in oltre un anno di collaborazione fra il Centro Protesi INAIL e gli Istituti Ortopedici Rizzoli le sinergie che possono offrire due Centri di eccellenza. Un particolare ringraziamento al Professor Sandro Giannini per i consigli ed il supporto Accademico che ha messo a disposizione. Alla Dottoressa Simona Amadesi, Responsabile dell’Area Comunicazione Istituzionale del Centro Protesi Inail, ed ai Suoi insostituibili collaboratori Fabio Cesari e Simone Stefani il riconoscimento di una straordinaria professionalità ed amore per la propria missione in ambito istituzionale: grazie di cuore.

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C e n t r o P r o t e s i INAIL

prefazione

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All’inizio degli anni ‘90, le ricerche di Gallese e Rizzolatti hanno evidenziato la presenza di “neuroni mirror” (“a specchio”), prima nella corteccia prefrontale F5 della scimmia e, successivamente, in quella dell’uomo, ponendo le basi per un’interpretazione in chiave riabilitativa di queste fondamentali scoperte (Gallese, 1996). Questo gruppo di ricercatori dell’Università di Parma, utilizzando la stimolazione magnetica transcranica, osserva come questi particolari neuroni si attivino sia durante l’esecuzione che durante la mera osservazione di un gesto. La corteccia motoria dell’uomo viene facilitata dall’osservazione sia delle azioni che dei movimenti altrui. Si ritiene, verosimilmente a ragione, che questi neuroni abbiano un importante ruolo nell’apprendimento dei movimenti, di cui vicariano la propriocezione nella formazione di una prima mappa motoria di esecuzione del gesto osservato. Questa loro peculiarità li rende di grande interesse per la riabilitazione. Nell’uomo inoltre sembra che i neuroni mirror concorrano all’attivazione della corteccia prefrontale, la quale contrae rapporti di intimità funzionale con le aree corticali deputate all’ elaborazione dell’immagine. Il neurologo indiano Vilayanur S. Ramachandran, insieme ai suoi collaboratori, verso la metà degli anni ’90, è il primo a intuire l’importanza che queste scoperte avrebbero potuto ricoprire in ambito riabilitativo: insieme al suo gruppo di ricercatori ha indagato gli effetti dell’uso dello specchio nella riabilitazione del dolore da arto fantasma. Come detto, alcuni pazienti amputati sperimentano movimenti involontari dolorosi dell’arto fantasma, ad esempio, come se le unghie si conficcassero nel palmo della mano; questi pazienti trovano in seguito difficile muovere volontariamente l’arto per arrestare la sensazione, che è fortemente dolorosa. Sembra che il fantasma sia paralizzato, in seguito ad una sorta di apprendimento della paralisi. Partendo da questa osservazione, Ramachandran (Ramachandran, 1996) vuole cercare qualche mezzo in grado di sbloccare la paralisi e far avvertire al paziente un movimento dell’arto fantasma, tale da liberarlo dalla sensazione dolorosa. A questo scopo crea quella che chiama la “virtual reality box”: l’arto mancante, in cui, per l’appunto, si localizza il dolore, è “ricreato” attraverso l’uso di uno specchio: s’invita il paziente a posizionare il moncone d’amputazione all’interno di una scatola; sulla superficie interna di questa scatola è applicato uno specchio per fare in modo che il paziente possa vedere l’immagine riflessa dell’arto controlaterale sano. Al paziente poi si chiede di compiere degli esercizi sia con l’arto sano (che è riflesso dallo specchio, in modo da dare l’impressione che l’arto amputato sia ancora presente) sia, contemporaneamente, con l’arto mancante: vedendo l’immagine dell’arto sano riflessa nello specchio, il paziente, oltre a compiere il movimento con l’arto sano, ha l’illusione di eseguirlo anche con l’arto amputato. In assenza completa di feedback propriocettivo e tattile, è la vista a fornire il feedback per il controllo del movimento (come nel caso del paziente con sindrome da deafferentazione). L’integrazione sensoriale, avvenuta per via visiva, sommata all’osservazione del movimento riflesso (attivazione dei neuroni mirror) fornisce ai pazienti l’illusione propriocettiva di avere ancora un arto che risponda ai loro comandi. Il disturbo della rappresentazione di sé a livello corticale trova una forma di compensazione, permettendo una riprogrammazione funzionale dello schema corporeo che ha l’effetto pratico di far diminuire il dolore in modo statisticamente significativo nei pazienti. Ramachandran riporta il caso di alcuni pazienti sottoposti a quest’esperimento: essi confermano l’esistenza di movimenti volontari nella mano fantasma riflessa che scompaiono al di fuori dalla “Virtual Reality Box” (è inoltre eliminata l’ipotesi di effetto placebo grazie a diversi accorgimenti). Ramachandran riporta anche casi di apprendimenti a lungo termine, con scomparsa progressiva dell’arto fantasma, in seguito all’utilizzo di questo semplice dispositivo. Lo studioso indiano interroga persino sul fatto che, accanto al feedback visivo, possono sussistere anche quello propriocettivo dell’arto controlaterale e i comandi motori dell’arto sano. Questa ipotesi è però scartata in seguito ad esperimenti in cui la mano del paziente viene sostituita con la mano guantata dello sperimentatore, col fine di produrre un’immagine fantasma: anche in questo caso i pazienti avvertono i movimenti dell’arto fantasma pur senza inviare alcun comando motorio. Con lo stesso accorgimento, quando lo sperimentatore appoggia la mano sul dorso invece che sul palmo, senza che il paziente possa accorgersi del cambiamento, si possono far sperimentare al paziente posizioni impossibili nella mano fantasma, come una flessione dorsale delle dita che supera l’escursione articolare anatomica. Questo significa

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che non solo la stimolazione propriocettiva (con effetto sui fusi neuromuscolari), ma anche una stimolazione visiva, può indurre illusioni di posizione degli arti. In altre parole, in certe condizioni, anche la sola apparenza visiva può indurre dolore, sensazioni di movimento, percezione di posizione degli arti. Questi aspetti ci portano a due considerazioni: 1) L’immagine del corpo è in realtà un fenomeno meno stabile di quanto non si creda; essa dipende dalle percezioni sensoriali e dalle esperienze del singolo; sulla base di queste è pronta a ridefinirsi; 2) Esistono, secondo Ramachandran (1996), moduli separati per l’elaborazione delle informazioni sensoriali: “Questo risultato contraddice in pieno il punto di vista mantenuto dall’ A.I. community, i quali sostengono che il cervello sia composto da un determinato numero di “moduli” autonomi che, in successione, analizzano l’input sensoriale”. Alla luce di questi risultati è messa in dubbio l’esaustività del resoconto dell’attività tattile e visiva dato da Klatzky e Lederman nel loro modello di autonomia completa fino ad una integrazione finale a livello delle rappresentazioni. Secondo Ramachandran è necessario arrivare ad un modello che, oltre che rendere conto delle capacità del tatto, sia anche tale da assumere l’esistenza di fenomeni di interferenza sensoriale tra visione e tatto come quello riportato, di interferenza tra tatto e udito e di sostituzione intersensoriale. Nonostante i buoni risultati ottenuti, non si parla però ancora di “Mirror Therapy”. Il termine è coniato qualche anno più tardi da Altschuler e da i suoi collaboratori che nel 1999 hanno parlato di “Mirror Therapy” presentando una nuova tecnica, volta alla riabilitazione del paziente con emiparesi (Altschuler, 1999). Essi la definiscono come una metodica riabilitativa che consiste nel far muovere entrambe le mani (o le braccia) al paziente con esiti di ictus; al paziente si chiede di eseguire degli esercizi, in modo simmetrico, con entrambe le mani e lo si invita ad osservare il movimento dell’arto sano, riflesso nello specchio. In questo modo il paziente ha l’impressione che l’arto paretico si stia muovendo correttamente. Ramachandran e Altschuler, sempre nel 1999, lavorano insieme ad uno studio che introduce questa nuova tecnica riabilitativa ai pazienti con “neglect” in seguito ad un ictus a livello dell’emisfero destro (Ramachandran, 1999). I miglioramenti osservati sono più evidenti per quanto riguarda la qualità e l’armonia complessiva del movimento piuttosto che per quanto riguarda la forza dello stesso, ma risultano ad ogni modo statisticamente significativi e legati con tutta probabilità al contributo che hanno i neuroni mirror alla ricostruzione dello schema motorio. L’integrazione sensoriale visiva vicaria quella propriocettiva (errata) proveniente dall’arto paretico. Vista anche l’efficacia della metodica riportata in alcuni studi sul dolore post-ictus, McCabe ed altri ricercatori ipotizzano che il dolore, non accompagnato da un evidente danno tissutale, possa essere causato dalla discordanza fra intento motorio e movimento. Secondo questa ipotesi, allo stesso modo in cui la povertà qualitativa e quantitativa dei movimenti deriva in parte anche dalla dissonanza delle vie sensoriali in ingresso (apparato vestibolare, propriocettori), il dolore può derivare da cambiamenti della rappresentazione corticale dell’input somatico, che segnala lo stesso tipo di relazione errata fra ideazione del movimento e sua esecuzione. La “riafferentazione sostitutiva” indotta dalla Mirror Therapy risolverebbe la dissonanza, dando al sistema nervoso centrale la possibilità di affrontare una seconda riorganizzazione, risolutiva della rappresentazione corticale errata. Studi pilota sono condotti anche in Italia: da segnalare quello presentato dal Dott. F. Gimigliano in cui si suggerisce l’adozione della Mirror Therapy in un programma neuroriabilitativo integrato (nel caso specifico i pazienti sono sottoposti alla Mirror Therapy e ad un programma Kabat). Da segnalare lo studio olandese in corso di Michielsen e colleghi (iniziato nel 2006) in cui si indaga l’efficacia della “Mirror Therapy”, oltre che per la riabilitazione dell’arto superiore e della mano, nei pazienti nel post-ictus, anche attraverso osservazioni con la FMRI (risonanza magnetica funzionale). Sarà quindi possibile, nel medio termine, avere un imaging dell’attivazione cerebrale di questi pazienti prima, durante e dopo la M.T. Anche Chan, nel 2007, utilizza la Mirror Therapy a scopo terapeutico in pazienti amputati: egli afferma che,

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guardando il proprio movimento reale in associazione a quello allucinatorio per 15 minuti ogni giorno, possa ridursi il dolore, forse per l’attivazione dei neuroni specchio o per la disattivazione della percezione protopatica. Nella stragrande maggioranza degli studi sulla “Mirror Therapy” presentati, comunque, ai gruppi di controllo è richiesto o di immaginare il solo movimento dell’arto leso senza specchio o di usare uno specchio annerito e/o coperto (Chan, 2007). In sintesi ci sentiamo di affermare, forti anche delle esperienze condotte presso il Centro Protesi INAIL di Vigorso di Budrio, che ci troviamo di fronte ad una metodica riabilitativa suggestiva e foriera di ottimi risultati nel problema dell’arto fantasma che affligge il 95% dei pazienti amputati ai vari livelli. Questo breve trattato analizzerà i vari aspetti tecnici e fisiopatologici implicati.

Vigorso, 25 agosto 2010

Prof. Tancredi Andrea Moscato

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presentazione

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Accolgo con piacere l’invito del Prof. Andrea Tancredi Moscato a presentare la sua pubblicazione relativa alla Mirror Box Therapy. L’argomento è quanto mai innovativo, basandosi sulla scoperta dei neuroni “a specchio” da parte di ricercatori italiani negli anni ’90, che ha consentito la messa a punto di metodiche riabilitative a favore di pazienti amputati di arto superiore. E’ noto anche fuori del nostro paese l’impegno profuso dall’INAIL, in particolare tramite il Centro di Vigorso di Budrio, per supportare le persone che presentano questa grave disabilità con tutte le forme di sostegno, compresa l’applicazione dei più moderni ritrovati della tecnica. Rientra in questo impegno lo sforzo dedicato alla ricerca volta a mettere a punto presidi tecnici che sempre meglio rispondano alle esigenze dei nostri infortunati di poter essere reinseriti in una vita attiva nel contesto familiare, sociale e lavorativo. Ritengo che proprio in tale ambito si collochi la sperimentazione presentata dall’Autore, ennesimo esempio del lavoro quotidiano svolto dalla componente sanitaria dell’Istituto con grande spirito di dedizione e di attenzione ai bisogni dei lavoratori che portano le conseguenze di gravi eventi lavorativi. Non va peraltro dimenticata la trasferibilità di tali acquisizioni anche sui comuni cittadini che hanno subito analoghe menomazioni, a conferma del rapporto di sinergia tra l’INAIL e il Servizio Sanitario Nazionale già da tempo in atto sul territorio. È pertanto quanto mai apprezzabile il lavoro del collega Moscato che consente di divulgare sia all’interno che all’esterno dell’Istituto i più recenti progressi in un ambito estremamente importante per la missione istituzionale.

Dr. Giuseppe Bonifaci (Sovrintendente Medico Generale INAIL)

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capitolo 1

IL DOLORE

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1.1 Il dolore nella storia 1.1.1 Dall’antichità a Santiago Ramon y Cayal Il dolore è un’esperienza universale, immediata, frequente, talora invalidante per alcuni secondi, minuti od ore, parte integrante della vita degli esseri umani e non solo, attorno alla quale si sono costituite nei millenni tradizioni popolari e conoscenze mediche. Un’esperienza, così comune e diffusa, è però ancora poco conosciuta, riconosciuta, capita e curata. Già l’etimologia del termine inglese “pain”, che deriva dal latino “poena”, dà l’idea di come possa essere attribuito al dolore un significato di “pena” e “punizione”. Fin dall’antichità il dolore è stato oggetto di paura, di rispetto, di superstizione, di curiosità, d’interesse e di studio. La meditazione, l’interpretazione e lo studio sul dolore costituiscono, infatti, un patrimonio culturale antico quanto l’uomo. E’ però sempre stato difficile giungere ad una soddisfacente definizione del termine “dolore”. L’uomo ha sempre dovuto convivere con esso ed il rapporto tra umanità e dolore non è sempre stato uguale nel corso dei secoli, né tanto meno alle diverse latitudini. Nelle popolazioni primitive lo si interpretava in diversi modi attribuendogli un’origine magica: si riteneva che potesse essere causato da un demonio che penetrava nel corpo umano o da un fluido magico oppure ancora da un oggetto recante maleficio e, in questo contesto, il dolore stava a testimoniare l’esistenza di uno spirito nemico dentro la persona sofferente. Basandosi su queste credenze, lo stregone (esperto di pratiche magiche), o lo sciamano, interveniva sul sofferente incidendone la cute e procurandogli una leggera ferita, attraverso la quale sarebbe dovuto uscire lo spirito maligno, responsabile del dolore. Questo tipo di credenza ha resistito, in Occidente, fino alla nascita della medicina ippocratica nel IV secolo a.C. Ippocrate, infatti, fu il primo ad attribuire al dolore termini biologici indicandolo come la conseguenza di un’alterazione quantitativa, in eccesso o in difetto, degli “umori”, cioè dei quattro elementi costitutivi fondamentali (sangue, flegma, bile gialla e bile nera) che, equilibrandosi fra loro, regolavano l’armonia del corpo. Aristotele, nel IV secolo a. C., guardava razionalmente al dolore: come Platone, e seguendo le orme di Ippocrate, voleva individuarne i meccanismi alla base, col fine di trovare cure e soluzioni. Costoro vedevano nel cuore la sede delle emozioni e la sofferenza era un’emozione, così come lo era il piacere. Aristotele riteneva il dolore “una qualità dell’anima”, proprio come la depressione e l’ansia. Egli fu il primo ad imprimere una svolta concettuale e interpretativa, considerando il dolore non come una percezione ma come uno stato umorale, escludendolo quindi dai cinque sensi. Con Galeno, famoso medico greco alla corte di Roma nel II secolo d.C., il centro del dolore è diventato il cervello e si è cominciato a supporre che questo fosse l’organo in cui venivano prodotti e accolti i sentimenti. Il dolore è stato promosso dal rango di “emozione” a quello di “sensazione”, trasmessa dal sistema nervoso. Galeno, grazie alle sue conoscenze anatomiche, intendeva combattere il dolore con la chirurgia e con i farmaci: nutriva enorme rispetto per il malato e agiva sulla base di ragionamenti medici moderni. Eccezion fatta per la medicina araba e per Avicenna (colui che iniziò a sperimentare con fini anti-dolorifici l’oppio, la mandragora, l’edera e altre erbe), nel Medioevo c’è stato un silenzio pressoché totale della Scienza. In quest’epoca l’attenzione era rivolta essenzialmente alla dimensione spirituale del dolore, inteso come espiazione, mutuata dalla tradizione Giudaico-Cristiana. Il malato, spessissimo, era nelle mani di persone che, più o meno in buona fede, sperimentavano, e il “perdere” il paziente durante una cura o un intervento chirurgico (per altro eseguiti senza troppa attenzione al dolore provocato) era un’eventualità frequente. Il Rinascimento ha creato un atteggiamento moderno nell’osservazione del dolore: l’attenzione era rivolta al corpo umano e, sulla fervida scia degli studi anatomici di Vesalio e di Leonardo, il dolore viene fatto risiedere nel sistema nervoso, all’interno del quale viene trasmesso. Contemporaneamente Paracelso iniziava ad utilizzare, in modo empirico, l’etere per le anestesie. Cartesio vedeva il dolore come un’esasperazione del tatto: egli ha approfondito e sviluppato il concetto di dolore come sistema di auto-

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difesa, non solo a favore della tutela del singolo essere vivente ma, in prospettiva, nella salvaguardia della specie. Nel XX secolo, con la scoperta della natura elettrica della trasmissione nervosa, c’è stato il superamento della concezione cartesiana del dolore e la nascita della moderna neurofisiologia. Parallelamente, da un punto di vista terapeutico, Mesmer nel 1810 scopriva l’ipnosi, Hickmann nel 1828 utilizzava il protossido di azoto, Justus von Liebig ed Eugène Soubeiran nel 1831 ottenevano in laboratorio il cloroformio facendo reagire ipoclorito di calcio e acetone (o etanolo) e il dentista William Green Morton, nel 1846, utilizzava l’etere per l’estrazione di un dente. Nel 1894 compariva l’aspirina, mentre il veronal, un barbiturico che ha rivoluzionato l’anestesia, compariva nel 1903. Nella storia la lotta al dolore non ha sempre trovato nei medici degli alleati per la paura che essi avevano di veder scomparire uno dei più importanti segni diagnostici. Soltanto gli studi della neurofisiologia moderna hanno permesso di iniziare il cammino per l’interpretazione di una percezione sensoriale così complessa. Il primo a descrivere scientificamente le vie anatomiche della sensibilità e del dolore è stato un anatomista spagnolo, Santiago Ramon y Cayal (1852-1934), premio Nobel per la Medicina nel 1906. Egli, grazie al metodo di colorazione delle fibre e delle cellule nervose ideato da Camillo Golgi, ha eseguito numerose ricerche ed è riuscito a scoprire le vie che vengono percorse da un impulso doloroso, dalla sua origine più periferica fino al cervello.

1.1.2 Il dolore secondo la IASP Nel 1979 la IASP (International Association for the Study of Pain), l’organizzazione emersa dalla Seattle-Issaquah Conference, ha definito il dolore come “una spiacevole esperienza sensitiva ed emotiva associata ad un danno tissutale reale e/o potenziale, o descritta nei termini di tale danno. Il dolore è sempre un’esperienza soggettiva. Ogni individuo apprende il significato di tale parola attraverso le esperienze correlate ad una lesione durante i primi anni di vita. Sicuramente si accompagna ad una componente somatica ma ha anche un carattere spiacevole e, perciò, ad una carica emozionale” (IASP 1979). Gli Autori della IASP hanno sottolineato inoltre che nel momento in cui una persona sostenga di provare dolore, anche in assenza di evidenza organica e funzionale, esso “deve essere accettato come dolore”. Per la prima volta questa definizione ha attribuito al dolore una possibile insorgenza anche in assenza di danno tissutale e, cosa ancor più importante, la IASP ha riconosciuto il dolore quale stato psicologico soggettivo. Per la maggior parte delle persone, specialmente per i pazienti, il danno tissutale restava il “gold standard” del dolore. Tuttavia la IASP ha sottolineato la possibile insorgenza del dolore anche in assenza di danno. Questa definizione affermava chiaramente che il dolore non equivale alla nocicezione, cioè al processo mediante il quale un segnale viene trasmesso dalla lesione tissutale attraverso il sistema nervoso: “l’attività indotta nella vie nocicettrici e nocicettive da uno stimolo nocivo,” hanno insistito gli Autori della IASP “non è dolore, che è sempre uno stato psicologico…”. In quanto stato psicologico, il dolore non è riducibile a segni oggettivi. Come hanno inequivocabilmente segnalato questi Autori “il dolore è sempre soggettivo”. Questa breve definizione di dolore ha dissolto gentilmente, ma fermamente, qualsiasi necessaria connessione tra dolore e danno tissutale. Un danno tissutale esteso può insorgere senza dolore, come ha dimostrato Henry K. Beecher nel suo intramontabile studio sui soldati feriti nella Seconda Guerra Mondiale (Beecher, 1959). Allo stesso tempo, il dolore può insorgere anche in totale assenza di danno tissutale, come dimostrato nel 1991 da Bayer e dal suo gruppo di ricercatori (Bayer, 1991). Ancor più importante il fatto che la IASP abbia sempre riconosciuto al dolore uno stato psicologico, soggettivo. Nessun modello puramente fisiopatologico può comprendere questo riconoscimento. Contemporaneamente, gli Autori della “task force” hanno affermato un fatto sicuramente vero: che il dolore, nonostante la sua natura psicologica e soggettiva, “molto spesso ha una causa fisica correlata”. In breve, la definizione IASP si è dimostrata concisa, elastica ed accurata. Essa ha servito molto bene la comunità della medicina del dolore nonostante, negli anni successivi, le siano piovute addosso numerose critiche.

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Grazie alla definizione IASP, i ricercatori e i clinici, anche se non sempre in grado di spiegarlo o curarlo, sono nella maggior parte concordi su ciò che intendono o non intendono per dolore.

1.2 Il dolore e la sofferenza Dal concetto di dolore (o, meglio, di nocicezione) è importante distinguere quello di sofferenza. Essa riguarda fondamentalmente la risposta emotiva ed affettiva ad una stimolazione dolorosa e può essere associata ad altri eventi quali la paura, la minaccia o i presentimenti. Il termine sofferenza viene talvolta erroneamente impiegato come sinonimo del termine dolore, come se il dolore fosse la causa, la sofferenza l’effetto e la loro relazione linguistica fosse intercambiabile. Essi, in realtà, sono teoricamente distinti: una frattura ossea può determinare dolore senza sofferenza; una rottura di cuore può determinare sofferenza senza dolore. La sofferenza e il dolore possono perciò non essere esattamente identici o sinonimi. Questa differenza teorica, tuttavia, spesso scompare nella pratica, dove la sofferenza e il dolore spesso possono essere contemporaneamente presenti con modalità che non solo minano l’ipotetica distinzione ma che anche alterano la loro correlazione. Le particolari complicazioni che caratterizzano le relazioni instabili tra dolore e sofferenza sono state analizzate dallo psicologo C. Richard Chapman e dallo specialista del dolore Jonathan Gavrin. Essi definiscono la sofferenza come “la minaccia o il danno all’integrità dell’io”, in accordo con il medico e bioetico Eric J. Cassell, e specificano che la minaccia o il danno implicano “una disparità tra ciò che ci si attende dal proprio io e ciò che si fa o si è”. Essi osservano che il dolore persistente spesso causa una “grave disgregazione” della vita di un uomo e questa disgregazione può costituire una crisi d’identità che viene percepita come sofferenza e perpetuata da processi fisiologici simili alla risposta inadeguata allo stress. Chapman e Gavrin non pretendono di dare una soluzione al problema della sofferenza, ma essi affermano che i medici in grado di capire la sofferenza possono imparare a prevenire il danno prevedibile dell’io che spesso accompagna il dolore persistente.

1.3 Neuroanatomia del dolore 1.3.1 La nocicezione e la percezione del dolore Nocicezione e percezione del dolore sono due concetti spesso interscambiati nel linguaggio comune. In realtà, mentre la nocicezione rappresenta l’attività di risposta del sistema nervoso alla presenza di stimoli lesivi, la percezione del dolore è un processo di elaborazione centrale più complesso, che coinvolge aspetti sensoriali, emozionali e cognitivi. La nocicezione può essere definita come il processo sensitivo in base al quale uno stimolo lesivo viene captato a livello periferico e successivamente trasmesso al cervello, dove viene riconosciuto e localizzato, potenziato o inibito e, infine, memorizzato. Questo processo si basa sulla presenza nei tessuti di nocicettori, cioè di strutture istologicamente non identificabili costituite da terminazioni libere di nervi periferici. I nocicettori sono dei recettori specializzati ad alta soglia che vengono depolarizzati da meccanismi atti a provocare un danno tissutale (noxa o stimolo nocivo) o da stimoli potenzialmente nocivi. Essi, per lungo tempo, furono considerati delle strutture specifiche ma oggi sono riconosciuti soprattutto come fibre di piccolo calibro mieliniche o amieliniche predisposte alla decodificazione degli stimoli dolorosi.

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Nocicettori Tipo

Mielinici

Amielinici

Nome

Nocicettore mielinizzato

Nocicettore C-polimodale

Cellula di Schwann con neurite non mielinizzato

Sconosciuta, presumibilmente terminazioni libere

Deformazione dolorosa della cute (11-13 g/mm2 nei primati)

Deformazione dolorosa della cute Calore nocivo Sostanze chimiche nocive 6-26 g/mm2 primati 2-44 g/mm2 Von Frey

Velocità di conduzione

Aδ-Aαβ (5-40 m/sec nelle scimmie)

C (media 0,7 m/sec)

Sensazione

Dolore acuto, tagliente

Dolore urente, acuto o sordo

Morfologia

Stimolo adeguato

I recettori del dolore possono essere distinti in: - Nocicettori cutanei; - Nocicettori muscolari; - Nocicettori viscerali.

Nocicettori cutanei: - Unimodali  vengono eccitati solo da stimoli meccanici di alta intensità e sono correlati a fibre piccole mieliniche Aδ e amieliniche C. Hanno un campo recettoriale molto piccolo; - Polimodali  vengono eccitati da stimolazioni meccaniche, termiche e/o chimiche (ad esempio soluzioni ipertoniche di NaCl o KCl, sostanze endogene quali la 5-idrossitriptamina o serotonina, le prostaglandine o altro) e sono in connessione con fibre piccole mieliniche Aδ e amieliniche C. La loro soglia è elevata ed hanno un campo recettoriale piuttosto ampio.

Nocicettori muscolari: una parte di questi recettori viene eccitata solo da una pressione violenta per cui sono detti anche recettori per la pressione dolorosa e sono collegati a fibre mieliniche A. Un’altra parte, invece, è rappresentata da recettori ad alta soglia, in connessione con fibre amieliniche C, eccitati solo da una pressione portata direttamente sull’area recettoriale; sono più facilmente eccitabili se la temperatura del muscolo va incontro a variazioni eccessive.

Nocicettori viscerali: sono sensibili alla distensione dello strato muscolare della parete, della mucosa, della sierosa e all’ischemia.

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1.3.2 Trasduzione, trasmissione, modulazione e percezione del dolore Tra una stimolazione dolorosa (noxa) a livello tissutale e l’esperienza soggettiva del dolore è interposta una serie di complessi eventi chimici ed elettrici. Vengono coinvolti quattro distinti meccanismi: - La trasduzione; - La trasmissione; - La modulazione; - La percezione. Trasduzione: Meccanismo di trasformazione dello stimolo algico (meccanico, chimico, termico) in impulsi elettrici. Trasmissione: Meccanismo neurologico che permette allo stimolo elettrico di raggiungere il cervello, grazie ai nervi sensitivi (periferia-midollo), alla rete di neuroni di connessione (midollo-tronco encefalico-talamo) e alla via talamo-corticale. Modulazione: Meccanismo di controllo, amplificazione o inibizione dell’informazione nocicettiva: questo processo può avvenire a diversi livelli del circuito algico, sia prima che dopo la proiezione dello stimolo alle aree corticali specifiche, dando luogo ad una varietà di possibili risposte. La modulazione viene attivata dallo stesso input doloroso, da alcune sostanze endogene, dagli stati emotivi, dallo stress, dai processi cognitivi, da certi farmaci e da diverse tecniche antalgiche. Percezione: Meccanismo, ancora in parte sconosciuto, attraverso cui l’evento nocicettivo diventa fenomeno soggettivo e ciò porta ad una diversificazione notevole delle risposte nelle diverse persone. Il rilevamento di segnali citochimici da parte delle terminazioni periferiche è effettuato da specifici sistemi molecolari che utilizzano meccanismi tipo ligando-recettore o canali ionici. Le terminazioni nervose sono in grado di rispondere a differenti tipi di segnali ma solo ad alcuni di questi è consentito raggiungere il corpo cellulare ed interessare l’espressione genica. Perciò lo screening delle condizioni tissutali da parte dei nocicettori è così sofisticata al pari di quella che nelle corna dorsali regola l’accesso delle informazioni periferiche al Sistema Nervoso Centrale (Stein, 1995 e Carlton, 1998). Poiché l’informazione che passa attraverso le corna dorsali dipende da una serie di meccanismi modulanti a livello delle connessioni sinaptiche con i neuroni centrali (Melzack, 1965), i segnali periferici non raggiungono il Sistema Nevoso Centrale senza che essi abbiano superato la soglia fisiologica e molecolare richiesta dalle terminazioni nervose che fungono, pertanto, da “primi critici guardiani” che selezionano, limitano o amplificano l’accesso dei segnali nervosi al Sistema Nervoso Centrale. Inoltre la capacità di generare i segnali da parte dei nocicettori passa attraverso diversi livelli o fenotipi funzionali che variano a seconda che il tessuto sia in condizioni fisiologiche, in preda all’infiammazione o irrimediabilmente danneggiato. Queste modificazioni del fenotipo funzionale o citochimico sono tutte rilevate dalle terminazioni nervose dei nocicettori attraverso recettori di membrana, canali ionici, G-protein, cascate di secondi messaggeri (nucleotidi ciclici, calcio, inositolo trifosfato, NO, eicosanoidi); vari effettori (kinasi, fosfatasi) e proteine di trasporto assonale. Quindi, se le condizioni tissutali producono risposte algiche o analgesiche, dipende da come i neuroni afferenti primari codificano e rispondono e da come le loro funzioni sono modulate dalle interazioni neuroinfiammatorie, neuroimmuni e neuroendocrine. Il sistema di rilevamento degli afferenti primari sia a livello delle terminazioni periferiche che di quelle centrali, lungo l’assone o nel corpo cellulare si serve di almeno quattro patways intraneuronali che sono: - un veloce segnale elettrofisiologico, condotto dai potenziali d’azione; - sistemi citochimici più lenti quali il trasporto assonale;

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- rapidi segnali di fosforilazione retrograda dalle terminazioni nervose al corpo cellulare; - diffusione di molecole permeabili alle membrane cellulari come il NO. Gli effetti combinati dei complessi messaggi sono trasportati da questi sistemi informativi intraneuronali i quali rispecchiano le modificazioni fenotipiche dei neuroni nocicettivi periferici durante diversi stadi dell’infiammazione o di offese neuropatiche. La funzione caratteristica del recettore sensitivo è, dunque, quella di rispondere ad un particolare tipo di stimolo la cui presenza provoca la depolarizzazione del nocicettore e l’insorgenza di impulsi nervosi realizzando, così, quel processo noto come trasduzione. Le terminazioni dei nocicettori vengono attivate da sostanze algogene liberate dalle cellule danneggiate dallo stimolo nocivo. La diretta conseguenza di una lesione tissutale è l’accumulo di diverse sostanze vicino alle terminazioni nervose. Tali sostanze hanno solitamente una triplice origine: - possono semplicemente fuoriuscire dalle cellule danneggiate dallo stimolo nocivo; - possono essere sintetizzate localmente per via enzimatica da substrati liberati dalla lesione o penetrati nell’area lesa in seguito allo stravaso di plasma o, infine, alla migrazione di linfociti; - possono essere liberate dall’attività del nocicettore stesso. La lesione delle cellule provoca la fuoriuscita di sostanze intracellulari in grado di attivare o di sensibilizzare i nocicettori: le più importanti sono il potassio e l’istamina, ma quest’azione può anche essere svolta dall’acetilcolina, dalla serotonina e dall’ATP (Pearl, 1976). Una delle più potenti sostanze algogene che compare nei tessuti lesi è la bradichinina, un peptide che deriva dalla frammentazione enzimatica di molecole proteiche plasmatiche. Anche i prodotti metabolici dell’acido arachidonico vengono sintetizzati nelle aree di danno tissutale e rappresentano i più potenti ed ubiquitari mediatori dell’infiammazione: a questo gruppo appartengono le prostaglandine ed i leucotrieni. Le prostaglandine causano iperalgesia e sensibilizzano i nocicettori afferenti primari, i leucotrieni provocano anch’essi iperalgesia che viene bloccata dalla deplezione di leucociti polimorfonucleati e non dagli inibitori delle ciclossigenasi come accade, invece, nell’iperalgesia mediata dalle prostaglandine. Ciò suggerisce l’ipotesi che anche i leucociti contribuiscano all’attivazione dei nocicettori. Sostanze potenzianti la nocicezione sono pure quelle liberate dagli stessi nocicettori, come, ad esempio, la sostanza P, rilasciata durante l’attività delle fibre primarie afferenti amieliniche. Per giunta, anche nella parete dei vasi ematici si riscontrano plessi di nervi afferenti contenenti sostanza P (Norregaard, 1985). Tale polipeptide oltre ad esser un potente vasodilatatore, azione probabilmente mediata dal plesso vascolare di fibre nervose che lo contengono, causa anche il rilascio di istamina da parte delle mast-cell la quale attiva a sua volta i nocicettori. E’ quindi verosimile che la propagazione di origine neurogena della vasodilatazione e dell’iperalgesia dopo un trauma cutaneo possa dipendere dall’attivazione dei nocicettori e dalla conseguente liberazione di sostanza P e di istamina quest’ultima proveniente dalle mast-cell. Una volta avvenuto il fenomeno della trasduzione, l’impulso viene trasmesso dalla periferia al centro. Le fibre dolorifiche che veicolano le informazioni dolorifiche possono essere di tre tipi: - Fibre Aβ, mieliniche, di grosso diametro, rispondono sia alle stimolazioni meccaniche di bassa intensità (tattili e pressorie) che a quelle di alta intensità (nocicettiva); - Fibre Aδ, lievemente mielinizzate (minore velocità di conduzione), rispondono a stimoli meccanici e termici se di intensità molto elevata e a stimoli chimici; - Fibre C, non mielinizzate (lente), di piccolo diametro, rispondono a stimoli meccanici, termici e chimici di alta

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intensità e rappresentano gli afferenti primari provenienti dai visceri. La stragrande maggioranza dei nocicettori mielinici sono costituiti da fibre Aδ che rispondono soprattutto a stimoli nocivi di natura meccanica (nocicettori meccanici o meccanocettori); una percentuale significativa di questi risponde anche a stimoli termici (nocicettori meccano-termici) (Adriansen, 1983). I nocicettori meccanici Aδ, chiamati anche meccanocettori ad alta soglia, rispondono solamente quando gli stimoli meccanici sono moderatamente intensi o decisamente nocivi. In assenza di stimolazione essi sono silenti sebbene la stimolazione ripetitiva comporti un lento "firing" che risulta importante per l'attivazione centrale dei meccanismi dell'iperalgesia (Woolf, 1983). Nei nocicettori Aδ sensibili agli stimoli termici si hanno risposte per temperature cutanee inferiori alla soglia dolorifica; in tutti però la risposta aumenta quando la temperatura raggiunge valori appartenenti all'ambito considerato nocivo (45-47 ° C). Entrambi i tipi di nocicettori Aδ possiedono una proprietà nota come sensibilizzazione che, in linea di massima, si riferisce ad un aumento di sensibilità di un recettore in seguito a ripetute applicazioni dello stimolo nocivo. I nocicettori a fibre C, amielinici, rispondono invece a stimoli nocivi termici, meccanici e chimici e sono pertanto noti con il termine di nocicettori C polimodali. Essi costituiscono almeno i 3/4 degli assoni afferenti primari. Al pari dei nocicettori mielinici, anche i nocicettori C polimodali vengono sensibilizzati da stimoli nocivi ripetuti e, dopo la sensibilizzazione, sviluppano un’attività di fondo continua.

1.3.3 Classificazione dei nervi periferici Nella percezione del dolore sia le fibre Aδ che le fibre C sono responsabili di due diverse sensazioni: - una sensazione precoce a carattere puntorio, acuta, relativamente breve (primo dolore), sostenuta dall'attività delle fibre Aδ; - una sensazione tardiva, sorda, a carattere urente e talvolta prolungata (secondo dolore), in cui è invece implicata l'attività delle fibre C.

Classificazione dei nervi periferici Tipo

Diametro (mcm)

Velocità di Conduzione (m/sec)

Mielina



12-20

70-120

+



6-12

30-70

+

Aδ C

1-6

5-30

+/-

< 1,5

0,5-2

-

Se si paragona la velocità delle informazioni provenienti da altri neuroni periferici, la cui velocità di trasmissione può raggiungere i 100 m/sec, le informazioni legate alla nocicezione e al dolore sono molto più lente. A livello viscerale, in particolare, proprio per la scarsezza di fibre veloci, il dolore viene descritto come profondo, urente, mal definito e mal localizzabile. Inoltre, questo tipo di dolore provoca forti reazioni riflesse del sistema nervoso autonomo con nausea, risposte vasomotorie e un’importante reazione di allarme. I neuroni afferenti primari hanno una forma bipolare ed il loro corpo cellulare è localizzato nei gangli spinali o cranici della radice posteriore. Dal corpo cellulare si dipartono proiezioni assonali periferiche o centrifughe, e centrali o centripete. I corpi cellulari non stabiliscono connessioni sinaptiche e pertanto non giocano un ruolo diretto nell’analisi continua dei segnali nocicettivi.

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Essi variano in dimensioni e possono essere divisi in due gruppi: TIPO A : hanno un diametro compreso tra 60 e 120 μm, sono associate a fibre mieliniche pure esse di grande diametro. TIPO B : hanno un diametro compreso tra 10 e 30 μm e danno origine a fibre mieliniche ed amieliniche di piccolo diametro. Il 60-70% della popolazione cellulare gangliare annesso alla radice dorsale è approssimativamente rappresentato dal tipo B; ciò è in accordo con la preponderanza, nella radice dorsale, di fibre amieliniche su quelle mieliniche. E’ stato dimostrato che questi due gruppi hanno differenti “orari” per la morte cellulare programmata durante lo sviluppo e diversa dipendenza da fattori di crescita (Snider, 1998). Gli impulsi nocicettivi che provengono dai tessuti situati sotto il capo sono trasmessi attraverso i nervi spinali ed il nervo vago i quali contraggono sinapsi con interneuroni (o neuroni di secondo ordine) nelle corna dorsali del midollo spinale. Quelli che invece provengono dal capo contraggono sinapsi con neuroni situati nei nuclei sensitivi trigeminali. Al livello di queste prime sinapsi gli impulsi nocicettivi sono sottoposti ad altre influenze provenienti dalla periferia, dagli interneuroni, dal midollo spinale, dai nuclei trigeminali o dai sistemi di controllo sovraspinali. Tutto ciò fornisce una ulteriore elaborazione dei segnali afferenti del danno tissutale. Dopo essere stati sottoposti a tutte queste influenze modulatrici nel corno dorsale del midollo spinale alcuni impulsi nocicettivi passano direttamente o attraverso interneuroni alle cellule del corno ventrale e ventrolaterale degli stessi o degli adiacenti segmenti del midollo nei quali stimolano, rispettivamente, i neuroni somatomotori e quelli del simpatico pregangliare generando così risposte riflesse nocicettive. Anche le citochine prodotte dal sistema immunitario interagiscono con i neuroni afferenti primari, specie quelli del vago, con conseguenti ed importanti influenze sul cervello, sull’andamento della malattia, sull’intensità e la durata del dolore. All’interno della sostanza grigia del midollo spinale le lamine più interessate alla nocicezione sono la I, la II, la III, la IV e la V; in particolare le fibre Aδ terminano nelle lamine I e II, le fibre Aβ nelle lamine III e V mentre le fibre C terminano nelle lamine I e V. La maggior parte dei neuroni della lamina I risponde esclusivamente a stimoli nocivi e, di conseguenza, questi neuroni vengono chiamati “nocicettori specifici” (NS); altri neuroni della stessa lamina rispondono invece in modo graduato sia a stimoli meccanici non nocivi che a stimoli nocivi e, per questo, vengono definiti “neuroni ad ampio spettro dinamico” (Wide Dynamic Range – WDR). La lamina V contiene prevalentemente neuroni WDR che proiettano al tronco encefalico o al talamo; la convergenza a livello di questa lamina di afferenze nocicettive somatiche e viscerali può fornire una spiegazione del cosiddetto “dolore riferito”, in cui il dolore di una lesione viscerale viene avvertito in altre parti della superficie corporea. A livello spinale la trasmissione sinaptica e la modulazione dell’informazione nocicettiva vengono mediate da diversi tipi di neurotrasmettitori. Le terminazioni nervose contengono e rilasciano glutammato, aspartato e, in minor proporzione, sostanza P, somatostatina, dinorfina B, neurochinina A e B e peptide collegato al gene della calcitonina (CGRP). Tra tutti i neuropeptidi presenti nei nocicettori afferenti primari alcuni sono eccitatori (sostanza P e CGRP), altri sono inibitori (somatostatina). Il principale neurotramettitore eccitatorio liberato dalle fibre Aδ e C è il glutammato. In particolare le terminazioni delle fibre C contengono sia glutammato sia neuropeptidi, tra cui la sostanza P; questi neurotrasmettitori sono liberati insieme e agiscono in modo coordinato nella regolazione dei neuroni post-sinaptici: i neuropeptidi, compresa la sostanza P, prolungano l’azione del glutammato. Inoltre, mentre il glutammato rimane circoscritto alle terminazioni sinaptiche dalle quali viene liberato, i neuropeptidi possono diffondere a considerevole distanza dalla sede del loro rilascio: questa caratteristica suggerisce un contributo significativo dei neuropeptidi sia all’eccitabilità dei neuroni del corno dorsale sia al carattere diffuso di molte sindromi dolorose. Il glutammato è anche responsabile dell’ipereccitabilità dei neuroni del corno dorsale, fenomeno alla base dell’iperalgesia secondaria (centrale). Nelle condizioni di grave e persistente danno tissutale le fibre C scaricano in modo ripetitivo e la risposta dei neuroni del corno dorsale aumenta progressivamente. Queste modificazioni a lungo termine dell’eccitabilità e delle proprietà biochimiche dei neuroni del corno dorsale (maggior espressione di neuropeptidi, di neurotrasmettitori e dei loro recettori) costituiscono una specie di memoria dei segnali afferenti delle fibre C e possono determinare una diminuzione della soglia per la comparsa di dolore o di dolore spontaneo.

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1.3.4 Le vie ascendenti della nocicezione Le informazioni nocicettive vengono ritrasmesse dal midollo spinale al talamo e alla corteccia attraverso alcune vie ascendenti principali. Il tratto spinotalamico rappresenta la via nocicettiva ascendente maggiormente sviluppata; è costituito dai fasci neo-spinotalamico e paleo-spinotalamico che originano a livello del corno dorsale del midollo e terminano a livello di distinti nuclei del talamo, ognuno dei quali proietta ad una specifica area corticale. Gli assoni del tratto spinotalamico si raggruppano, avvicinandosi al talamo, in due porzioni, laterale e mediale. Il fascio neo-spinotalamico origina nelle lamine I e V (neuroni specifici e WDR) e termina nel gruppo nucleare laterale del talamo (nucleo ventrale posteromediale, nucleo ventrale posterolaterale-VPL e nucleo posteriore): dal nucleo VPL del talamo origina poi il fascio talamo-parietale che raggiunge la corteccia somato-sensitiva (S1 e S2). Il fascio neo-spinotalamico ha un’origine filogenetico recente e costituisce la via oligosinaptica della componente epicritica (discriminata, superficiale) del dolore: è quindi una via rapida, con meno stazioni intermedie, le fibre sono più grosse e hanno meno sinapsi, sono organizzate somatotopicamente, riuscendo così a localizzare con precisione lo stimolo nocicettivo. Il fascio paleo-spinotalamico costituisce il contingent più numeroso del tratto spinotalamico, origina nelle lamine I, VII e VIII e termina nel gruppo nucleare mediale del talamo (nucleo centrale laterale e complesso intralaminare); da qui partono proiezioni diffuse ai nuclei della base e a numerose aree corticali, tra cui il giro del cingolo e la corteccia insulare. Il giro del cingolo fa parte del sistema limbico e si ritiene quindi che sia implicato nell’elaborazione della componente emozionale del dolore; la corteccia dell’insula ha invece un ruolo nell’integrazione delle componenti sensitiva, affettiva e cognitiva del dolore. Il fascio paleo-spinotalamico è da considerarsi la via filogeneticamente più antica: non solo veicola la componente protopatica (indiscriminata, profonda) del dolore ma fornisce anche informazioni relative agli stimoli che attivano un sistema aspecifico che presiede lo stato di vigilanza. Il tratto spino-reticolare origina nelle lamine VII e VIII del midollo, frammisto al fascio paleo-spinotalamico, e termina sia nella formazione reticolare che nella sostanza grigia periacqueduttale (PAG) mesencefalica; a loro volta, i nuclei reticolari proiettano sul gruppo nucleare mediale del talamo. Il tratto spinomesencefalico è una via multisinaptica con cellule di origine localizzate nelle lamine I e V e che terminano a livello della formazione reticolare del mesencefalo, alla PAG e ai nuclei parabrachiali. A loro volta i nuclei parabrachiali proiettano all’amigdala (la principale formazione del sistema limbico); il nucleo centrale dell’amigdala, insieme ai nuclei ipotalamici, è fortemente implicato nella paura, nelle componenti emozionali della memoria e del comportamento, e nelle risposte autonomiche e somatomotorie agli stimoli minacciosi. Dal punto di vista funzionale questo fascio conduce stimoli nocicettivi epicritici, proptopatici, contribuisce alla componente affettiva del dolore (connessioni limbiche) e attiva la via discendente inibitoria collegandosi alla PAG. Il tratto spinoipotalamico è composto dagli assoni di neuroni delle lamine I, V e VIII e proietta direttamente ai centri di controllo sovraspinale del sistema nervoso autonomo, attivando risposte endocrine e cardiovascolari complesse. L’ipotalamo è verosimilmente l’area del cervello più importante per la regolazione e l’integrazione delle principali funzioni dell’organismo; a questo livello le funzioni neurovegetative, neuroendocrine, affettive, emozionali e cognitive si incontrano tra loro grazie a un flusso costante di informazioni provenienti dalle principali strutture del sistema nervoso centrale. L’ipotalamo svolge il suo ruolo sul dolore sia attraverso il tratto spinoipotalamico sia attraverso il fascio trigeminoipotalamico, filogeneticamente più antico, che porta informazioni, sia dolorose che non, dalle strutture della testa: tali stimoli raggiungono direttamente l’ipotalamo dalle strutture meningee, dalle arterie intra ed extracraniche, dalla cute della testa e del viso, dalla cornea, dalle mucose, dalla polpa dentaria e da altre regioni del capo. L’informazione nocicettiva non è però il prodotto della sola attività delle vie ascendenti poiché il sistema nervoso centrale è dotato di almeno due differenti sistemi di controllo del dolore ben integrati fra loro: uno rapido, basato su meccanismi intraspinali metamerici, la “teoria del controllo a cancello” (Melzack e Wall, 1965), l’altro più lento, basato su meccanismi riflessi discendenti multisinaptici attivati dallo stesso dolore («controllo endogeno del dolore», Basbaum e Fields, 1978).

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Le differenze fra i due meccanismi sono numerose, ma quella più saliente è rappresentata dalla differente suscettibilità al naloxone, antagonista oppioide a vasto spettro: il controllo metamerico è naloxone-indipendente, mentre il controllo endogeno è in gran misura naloxone-dipendente.

1.3.5 Teoria del controllo a cancello. Una prima modulazione avviene a livello spinale, più precisamente a livello della sostanza gelatinosa di Rolando; questa modulazione nocicettiva è spiegata dalla teoria del “gate control”, formulata da Melzack e Wall nel 1965 e modificata dagli stessi nel 1982. Essa si basa sull’osservazione che l’attivazione delle fibre A afferenti (di grosso calibro), in seguito a stimoli di entità medio-lieve, crea uno sbarramento che inibisce la liberazione di sostanza P da parte delle fibre C di piccolo calibro, impedendo così la percezione dolorosa in quel dermatomero (inibizione per chiusura della porta). Al contrario, la stimolazione ripetuta delle piccole fibre C determina l’apertura della porta e la conseguente diminuzione della soglia del dolore. Il ruolo di “gate” è svolto dalle cellule T, attraverso interneuroni spinali, mediante un meccanismo legato alla quantità di impulsi che esse ricevono simultaneamente dalle fibre di grosso e di piccolo calibro. Superata una certa soglia (livello critico), sembra che la scarica provochi un’importante attivazione non solo neocorticale, ma anche a livello del sistema limbico-motivazionale, con conseguenti reazioni comportamentali e neurovegetative alla percezione cosciente del dolore (ipotesi del sistema di controllo a cancello, “gate control system). Le cellule T entrano in contatto anche coi sistemi discendenti di modulazione. Questi meccanismi di “gate control” possono essere attivi anche ad altri livelli del sistema nervoso centrale, come, ad esempio, il talamo. La teoria del “gate control” si riferisce quindi ai sistemi rapidi di elaborazione e controllo della trasmissione sensitiva intraspinale, e contempla pertanto quattro componenti: 1) interazione funzionale fra afferenze a conduzione rapida (Aβ) e lenta (Aδ-C), dimostrata dall’inibizione rapida del dolore per stimolazione ripetitiva di fibre Aβ-δ afferenti allo stesso livello metamerico fino al raggiungimento di dolore puntorio (stimolazione periferica transcutanea dell’area algica); 2) ricca dotazione di interneuroni nel corno posteriore, specie nelle lamine I-II; 3) controllo centrale delle stesse aree da parte di efferenze discendenti (dai metameri spinali più craniali, dai nuclei di Goll e di Burdach, dai nuclei del rafe e locus coeruleus, dal tetto mesencefalico, dall’ipotalamo, dal n. parafascicolare del talamo, dalla corteccia fronto-parietale e da collaterali piramidali, etc.); 4) neuroni spinotalamici di proiezione, deputati all’elaborazione sinaptica e trasmissione del messaggio doloroso, suscettibili di modificazioni plastiche.

1.3.6 Il controllo discendente della modulazione del dolore Oltre alla modulazione a livello intraspinale, il segnale che percorre i neuroni afferenti primari può essere soggetto anche a una seconda modulazione di tipo endogeno. Questo fenomeno è noto come “antinocicezione” e, ad essa, possono partecipare svariate categorie di agenti antinocicettivi, come gli endocannabinoidi, i peptidi oppioidi, l’adenosina e il fattore inibente le citochine leucocitarie. L’informazione nocicettiva non è quindi solo il prodotto dell’attività della vie ascendenti ma è la conseguenza dell’interazione fra un sistema di trasmissione nocicettiva ascendente e uno di modulazione antinocicettiva discendente. La via di modulazione del dolore maggiormente conosciuta è quella che origina dalla corteccia cerebrale e si dirige verso il tronco cerebrale; qui prende contatto con la sostanza grigia periacqueduttale, con il bulbo ventromediale ro-

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strale e con il nucleo del rafe magnum; distalmente le proiezioni discendenti giungono fino alle corna posteriori del midollo spinale attraverso le fibre del funicolo dorso laterale. Per quanto ognuna delle strutture coinvolte possa esercitare un controllo autonomo sul dolore, queste sembrano funzionare più come un’unità esercitante un controllo globale e non semplicemente localizzato e topografico sui neuroni che convogliano il dolore nel corno dorsale. Esse esercitano a questo livello una modulazione di tipo soprattutto presinaptica sulle fibre che trasportano lo stimolo. Esistono altre aree del tronco cerebrale implicate nell’inibizione discendente: il tegumento pontino dorsolaterale, che è la sorgente principale dell’innervazione noradrenergica delle corna dorsali del midollo e le interconnessioni anatomiche tra bulbo ventromediale rostrale e tegumento pontino dorsolaterale. Le vie di trasmissione e le vie di modulazione dello stimolo doloroso, sia ascendenti che discendenti, utilizzano dei neurotrasmettitori peptidici e non. Tra i primi i più importanti sono gli oppioidi endogeni e la sostanza P. Gli oppioidi endogeni (metenkefalina, dinorfina, endomorfina, deltorfina) agiscono su specifici recettori, identificati dalle lettere greche µ, δ, e κ, con una distribuzione non ubiquitaria. I recettori µ si trovano prevalentemente a livello cerebrale, i recettori κ a livello midollare mentre i recettori δ sono presenti in entrambi i distretti. Ai tre recettori corrispondono oppiacei endogeni differenti: la beta-endorfina è attiva soprattutto a livello del recettore µ, la dinorfina è attiva essenzialmente sui recettori κ, le encefaline sono attive a livello del recettore δ. Recentemente è stato scoperto anche un quarto recettore, chiamato “orfano”, perché ancora non era stato scoperto l’oppioide specifico, che è stato in seguito identificato e chiamato “orfanina” o “nocicettina”: in alcune condizioni sperimentali agisce come antagonista degli oppioidi endogeni ma si pensa che, in condizioni diverse, possa svolgere anche un ruolo analgesico. Anche la somatostatina è un neuropeptide con azione prevalentemente antagonista degli oppiacei e ne contrasta quindi l’effetto analgesico. L’inibizione discendente proveniente dalla sostanza grigia periacqueduttale e dal bulbo ventromediale rostrale è mediata da recettori serotoninergici e noradrenergici presenti nel midollo spinale. L’importanza dei recettori spinali noradrenergici è stata confermata da numerose ricerche che dimostrano come la somministrazione intratecale o epidurale di clonidina, un farmaco α2 agonista, produca analgesia negli animali così come nell’uomo. Anche la somministrazione di serotonina produce effetti simili, solo che la serotonina ha anche altri effetti come il controllo motorio e la regolazione vasomotoria. Anche altri trasmettitori provenienti dal tronco cerebrale contribuiscono al controllo discendente: l’acido γ-butirrico (GABA), le encefaline, il glutammato, la somatostatina, la sostanza P e la colecistochinina. Gli stimoli naturali che attivano il sistema inibitorio discendente includono lo stress (analgesia stress-indotta), la paura e l’ansia, l’esercizio intenso e prolungato e l’attività sessuale. Se esiste un’inibizione discendente, esiste però anche un sistema discendente facilitante, che utilizza le stesse strutture neuronali e trasmettitoriali, con la differenza che risiede solo nell’intensità della stimolazione o nella concentrazione delle sostanze introdotte. In generale, la facilitazione è prodotta da correnti di bassa intensità, mentre l’inibizione è prodotta da alte intensità di stimolazione.

1.4 Definizione e inquadramento tassonomico del dolore 1.4.1 I vari tipi di dolore Per poter comprendere correttamente i fenomeni clinici e fisiopatologici relativi al dolore e per migliorare la comunicazione tra tutti gli studiosi di questa tematica, sia a livello clinico che sperimentale, è indispensabile premettere, oltre a quella di dolore, anche la definizione di altri termini (Merskey, 1994):

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Soglia del dolore  La più piccola esperienza di dolore che un soggetto è in grado di riconoscere. E’ un’esperienza soggettiva, mentre l’intensità dello stimolo è un evento esterno, oggettivo e misurabile. Tolleranza  Il livello più alto di dolore tollerabile. E’ un’esperienza squisitamente soggettiva. Disestesia  Sensazione anomala spiacevole, non necessariamente dolorosa, che si manifesta con parestesie spontanee o evocate. Disestesia è quindi un termine piuttosto generico, riferibile ad una grande varietà di dolori causati da stimoli periferici o ad insorgenza spontanea. Nella definizione di disestesia occorre porre attenzione all’aggettivo «abnorme»: un dolore con caratteristiche disestesiche è un dolore inusuale, «strano», che il paziente difficilmente ha avvertito in precedenza. Si tratta di dolori urenti, simili a scosse elettriche, a punture di spillo, avvertiti sempre nel territorio di innervazione di un nervo o di una o più radici nervose. Le disestesie sono provocate dalla sensibilizzazione dei nocicettori C. Parestesia  Sensazione anomala, in genere non dolorosa, che può essere spontanea o evocata. E’ descritta come “formicolio” o come “puntura di spillo” e si ritiene rifletta l’attività spontanea di fibre Aβ. Iperestesia  Aumentata sensibilità ad uno stimolo. Si usa per indicare in senso generale una diminuzione della soglia ad uno stimolo (tattile, termico, dolorifico), oppure per definire l’aumentata risposta ad uno stimolo che viene riconosciuto normalmente. Casi particolari di iperestesia sono l’iperalgesia e l’allodinia. Iperalgesia  Aumentata risposta a uno stimolo normalmente non doloroso. Questo termine deve essere utilizzato in tutti quei casi in cui si ha una risposta aumentata con soglia normale o anche con soglia aumentata, come nei pazienti con neuropatia. Il termine “iperalgesia” può essere utilizzato quando è presente un’alterazione del sistema nocicettivo con sensibilizzazione centrale o periferica. L’iperalgesia meccanica è divisa in: - Iperalgesia statica: una lieve pressione sulla cute evoca dolore. E’ mediata da nocicettori C; - Iperalgesia puntata: è ottenuta da stimoli puntiformi come la puntura di spillo. E’ mediata da nocicettori Aδ sensibilizzati; - Iperalgesia dinamica: il passaggio di un pennello evoca dolore. E’ mediata da fibre A beta. L’iperalgesia da freddo e quella da caldo sono mediate da nocicettori C. Allodinia  E’ la percezione di dolore, anche intenso, in risposta a stimoli che normalmente non sono dolorosi, in particolar modo se tattili. Si tratta quindi di un errore nell’identificazione della qualità dello stimolo. Nel 1996 Greceley sosteneva che “lo sfioramento della cute con un batuffolo di cotone non genera alcuna sensazione sgradevole o dolore. Quando ciò avviene parliamo di “allodinia” (Sang e Gracely, 1996). Nella genesi dell’allodinia è stata ipotizzata la reinnervazione della lamina II, parzialmente deprivata per lesione neuroperiferica di afferenze Aδ-C, da parte di fibre afferenti mieliniche di grosso calibro, o un’ipersensibilizzazione dei neuroni spino-talamici ad ampia dinamica (sensibili cioè a stimoli nocivi e non nocivi), per potenziamento a lungo termine NMDA-mediato. Quest’ultima ipotesi, che si adatterebbe particolarmente ai casi in cui iperalgesia ed allodinia coesistono, trova supporto sperimentale nel fatto che l’allodinia da danno neuroperiferico è preceduta da una marcata e selettiva espressione della subunità α2-delta del canale del Ca2+ voltaggio-dipendente di tipo L nei rispettivi neuroni ganglionari (Luo et al., 2001). Ciò può spiegare l’efficacia antidolorifica del gabapentin, farmaco antiepilettico selettivo per tale subunità. Alloestesia  E’ la percezione di dolore superficiale in un’area normoestesica differente da quella ipoestesica stimolata. Può assumere carattere controlaterale, nel qual caso è più correttamente definita allochiria. È attribuita alla conduzione del messaggio nocicettivo attraverso il contingente ascendente omolaterale del tratto spinoreticolare. Iperpatia  Sindrome dolorosa nella quale dopo uno stimolo, specie se ripetuto (sommazione spaziale o temporale) si ha una reazione dolorosa abnorme. E’ di solito associata a lesioni centrali vascolari o tumorali, soprattutto talamiche.

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Il fenomeno iperpatico consiste in una risposta dolorosa, esplosiva, evocata da aree cutanee ipo o anestesiche a causa di stimolazioni intense ripetute. L’iperpatia riflette la deafferentazione periferica o centrale che determina l’innalzamento della soglia da una parte e un’ipereccitabilità centrale dall’altra. In questo tipo di dolore possono essere presenti anche erronee identificazioni e localizzazioni dello stimolo. Analgesia  Assenza di dolore in presenza di stimolazioni che normalmente sono dolorose. Dolore parossistico  E’ un dolore trafittivo tipo scossa elettrica o pugnalata, tipico, ad esempio della nevralgia del trigemino. E’ provocato da stimoli meccanici innocui. Non si ottiene da stimoli dolorosi. Deficit sensitivo e dolore  Tipico del dolore neuropatico è la perdita parziale o completa della funzione sensitiva afferente e della presenza di alcuni iperfenomeni nell’area dolente. La perdita delle sensibilità può coinvolgere tutte le modalità sensitive, ma la perdita delle funzioni spino-talamiche (freddo, caldo, puntura di spillo) sono cruciali. Dolore riferito  Diffusione anomala del dolore in conseguenza lesioni anomale e/o centrali. Il dolore riferito è generalmente descritto a partenza da strutture profonde verso strutture cutanee. Questa irradiazione anomala è correlata con variazione dei neuroni spinali ad ampio spettro dinamico (WDR) che codificano le informazioni nocicettive. I neuroni WDR sono caratterizzati da campi recettoriali piccoli eccitati da stimoli non dolorosi circondati da una zona estesa nella quale gli stimoli dolorosi possono scaricare stimoli ad alta frequenza. Questi ampi campi recettoriali possono estendersi sovrapponendosi per più dermatomeri e riflettono interconnessioni sinaptiche propriospinali nel corno spinale dorsale che si estendono per vari segmenti.

1.5 Durata del dolore 1.5.1 Dolore acuto Il dolore acuto è generalmente provocato da stimolazioni nocive per i tessuti (ustioni, punture, pizzicamenti ecc.). In tali situazioni il dolore ha la funzione di sentinella e avverte l’individuo di una potenziale situazione di pericolo: in questi casi è evidente il concetto classico di dolore come “segnale d’allarme”. L’applicazione di stimoli intensi, sia nell’uomo che nell’animale, innesca numerose reazioni, come ad esempio la retrazione, la fuga, l’urlo e l’immobilizzazione della regione colpita: tutte queste manifestazioni hanno lo scopo di sottrazione dalla stimolazione dolorosa, di avvertimento verso chi è accanto e di protezione dei tessuti lesi. Il dolore acuto, quindi, determina un tipo di comportamento volto a eliminare o ad evitare il pericolo. I riflessi del sistema motorio, l’attivazione del sistema nervoso simpatico e l’apprendimento di modalità volte a prevenire il dolore sono i mezzi di difesa attuati in tal senso. Gli stimoli dolorosi vengono quindi classificati come stimoli nocivi (algici), mentre le reazioni come comportamenti di difesa antalgica. In definitiva, il dolore acuto, in condizioni normali, funge da «campanello di allarme» per avvertire l’individuo che esiste un danno tissutale o un imminente pericolo di danno. La differenza significativa fra questo e i comuni sistemi di allarme (che possono essere disattivati una volta assolto il loro compito) risiede nel fatto che il dolore causato da danno dei tessuti somatici tende a mantenersi nel tempo e, in caso di danno delle fibre nervose o del sistema nervoso centrale, a trasformarsi in dolore cronico o «dolore inutile».

1.5.2 Dolore cronico Una definizione basata esclusivamente su parametri temporali definisce il dolore cronico come un dolore che dura da più di tre mesi. John John Bonica, padre fondatore della IASP, ha proposto una definizione più articolata affermando che “il dolore cronico è quello che si mantiene oltre il tempo normale di guarigione”.

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I dolori cronici sono la conseguenza e l’espressione di modificazioni fisiopatologiche permanenti ed è significativo che le reazioni comportamentali non riescano ad eliminare la causa del dolore. Quando il dolore diventa cronico invade l’universo affettivo dell’individuo; subentrano reazioni e adattamenti di ordine psicologico e psicosociale: il dolore si trasforma in una malattia vera e propria e la sofferenza diventa cronica. “Nella sua forma patologica cronica,” continua John John Bonica “il dolore non ha più una funzione biologica ma è, al contrario, una forza malefica che impone al malato, alla sua famiglia e alla società gravi stress emotivi, economici e sociali”. Le manifestazioni di sofferenza in caso di dolore cronico sono simili fra uomo ed animale: l’atteggiamento diventa cauto, la mimica sofferente, la vitalità ridotta e cambia il modo di rapportarsi con gli altri individui della specie. Le persone con dolore cronico spesso non sono più in grado di lavorare, hanno un calo dell’appetito, hanno un sonno peggiore, sia da un punto di vista qualitativo che quantitativo, e manifestano irritabilità.

1.6 Psicopatologia del dolore “Vuoi ascoltarmi mia cara? C’è qualcosa di nuovo, ne sono sicura, dal momento che nessuno vuole ascoltarmi. Niente di bello.” “Stai male, cara mamma?” “Io penso che ci sia dolore nella stanza”, disse Mrs Gradgrind, “ma non potrei dire con sicurezza di averlo io” (Charles Dickens, 1854)

1.6.1 Introduzione alla psicologia del dolore L’esperienza del dolore costituisce un fenomeno complesso in cui si trovano intrecciate componenti fisiche e psicologiche di fatto inscindibili nell’immediata percezione; ciò si verifica sia nei casi in cui la sua origine vada primariamente e chiaramente collocata a livello organico sia che i processi emotivi svolgano un ruolo centrale e determinante per la sua genesi. Il dolore non è semplicemente il prodotto finale di un sistema di trasmissioni sensoriali lineari ma è un processo dinamico che produce continue interazioni con il sistema nervoso. Quindi, considerare unicamente le componenti sensoriali del dolore, ignorando le sue proprietà motivazionali-affettive, porta ad avere una visione del problema limitata ad una sola parte. Anche da un punto di vista psicopatologico, il dolore è un argomento concettualmente molto difficile, arduo da descrivere e categorizzare: il solo aspetto chiaro è che esso rappresenta uno stato di sofferenza soggettiva del paziente. Il significato del termine dolore è qualcosa di più del dolore stesso e, spesso, è il motivo per cui le sensazioni vengono interpretate come sofferenza. Un paziente con bruciore di stomaco può sospettare l’insorgenza di un cancro allo stomaco se tra i suoi parenti c’è familiarità per questa malattia. La relazione tra i sintomi e il loro significato spesso non è lineare. Tra i pazienti psichiatrici, l’accusare dolore può essere associato con un’incertezza diagnostica (Anstee, Fleminger, 1977). Gli aspetti fenomenologici dell’esperienza del dolore non hanno ricevuto un’adeguata rilevazione, benché in medicina generale questa sia, più di ogni altra, l’area in cui la fenomenologia potrebbe essere più utile, giacché il dolore è

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un’esperienza soggettiva necessariamente mediata dalla coscienza (Bond, 1976). I medici devono confrontarsi quasi quotidianamente con pazienti che lamentano o riferiscono dolore e dovrebbero essere in grado di capire la sua origine: se è fisico o mentale, se è organico o funzionale, se è medico o psichiatrico; ovviamente, il più delle volte, la risposta è entrambi. Il medico deve saper valutare quanto il dolore sia psicogeno, benché ciò sia virtualmente impossibile, dal momento che, dopo Aristotele, il dolore è considerato uno stato mentale, anche quando è presente una causa ovvia, come, ad esempio, un ematoma sotto un unghia.

1.6.2 Dolore organico e dolore psicogeno La trasmissione del dolore produce un’esperienza soggettiva, conscia. Il concetto di “soglia del dolore” ci permette di capire il perché una lieve pressione venga percepita come contatto, una più forte come dolore. Riprendendo la teoria del cancello formulata da Melzack e Wall, è evidente come questo cancello sia sotto l’influenza di centri più elevati che possono superare gli stimoli locali, come dimostrato dall’effetto dell’attenzione: talvolta il dolore non è avvertito, quando l’attenzione viene distolta dal punto dolente. Lo studio dei meccanismi pre e postsinaptici del sistema nervoso centrale (Nathan, 1980) ha evidenziato come la stimolazione elettrica in varie sedi del tronco encefalico, incluso il midollo allungato, la materia grigia periacqueduttale e l’ipotalamo intorno al terzo ventricolo, possa produrre analgesia. Anche le endorfine, sostanze oppioidi endogene, inibiscono le fibre nervose che conducono gli stimoli nocivi. La tentazione di considerare il dolore semplicemente come qualsiasi altra sensazione crea parecchi dilemmi. Infatti è impossibile classificare analiticamente l’esperienza soggettiva di una persona che lamenta un dolore grave senza una patologia organica dimostrabile e quella di una persona con una patologia lieve che lamenta un dolore atroce. Questa difficoltà di categorizzazione del dolore è evidente anche quando è necessario valutare una persona che, avendo una ferita apparentemente dolorosa, afferma di non provare alcun dolore. Sono stati utilizzati termini organici, fisiologici, oltre che psicologici ed emotivi. Beecher (1959) credeva che il dolore potesse essere definito ed elencava i nomi di molti psicologi di spicco per supportare la sua affermazione. Merskey (1976) considerava il dolore come un’esperienza psicologica, intima dell’individuo, che si tende però a descrivere come un danno del corpo; egli definiva quindi il dolore come “un’esperienza spiacevole che noi primariamente associamo a un danno dei tessuti o descriviamo in termini di tale danno, o entrambi”. Chiaramente, indipendentemente dagli stimoli fisici, i fattori psicologici svolgono un ruolo fondamentale nell’apprezzamento del dolore. Ad esempio, durante il parto naturale o assistito, l’analgesia psicologica, ottenuta grazie ad una preparazione psicologica, una spiegazione o ricorrendo all’ipnosi, fa sì che un 5-10% delle donne non avverta affatto dolore o ne avverta molto poco, un 15-20% senta solo un lieve dolore e, negli altri casi, non vi sia una modificazione del dolore ma la diminuzione della paura e dell’ansia. Spesso i medici, trascurando una valutazione soggettiva, non colgono l’importante distinzione tra l’esperienza del dolore e le cause fisiche del dolore. Il paziente assume che il dolore segnali la presenza di una malattia fisica quando invece esso è sintomo molto comune di svariate condizioni psichiatriche in assenza di patologia fisica. L’esperienza del dolore psicogeno è stata associata con particolari tipi di personalità. I più importanti tratti di personalità associati con il dolore sono quelli di apprensività, della personalità depressiva e ciclotimia nel polo depressivo; dei tratti isterici, ipocondriaci e ossessivi. I soggetti con tali tratti di personalità sono predisposti a rispondere agli stress di vita con il dolore in modo abnorme. Le lamentele di dolore sono in generale comuni nelle nevrosi, specialmente nell’ansia cronica o nei tratti isterici.

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capitolo 2

IL PAZIENTE CON AMPUTAZIONE DI ARTO INFERIORE

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2.1 Eziologia Nel mondo, l’esatto numero delle persone che hanno subito un’amputazione è difficile da determinare: molti paesi non tengono schedari dei pazienti amputati e delle cause che hanno portato a questo tragico esito. Le cause di amputazione mutano considerevolmente da nazione a nazione e, in alcuni casi, anche da regione a regione all’interno dello stesso stato. Le 3 maggiori cause sono: Processi patologici; Traumi; Malformazioni congenite. Tra queste le cause più comuni sono le malattie e i traumi. Sia che l’amputazione sia dovuta a traumi, che a vasculopatie od altri motivi, il chirurgo deve conoscere il grado di vitalità dei tessuti dell’arto ed in particolare della cute: tale conoscenza influenza direttamente il livello dell’amputazione. La ferita, infatti, può non cicatrizzarsi con successo se la cute ed il tessuti più profondi non hanno un sufficiente potenziale per sopportare il trauma chirurgico e la risposta infiammatoria post-operatoria. L’intervento chirurgico dovrebbe essere eseguito in modo tale da fornire un moncone che conservi una buona motilità attiva, con gruppi muscolari validi e funzionalmente bilanciati. Il moncone dovrebbe presentare un buon trofismo tissutale con una sufficiente circolazione emolinfatica e dovrebbe avere una ferita ben cicatrizzata e non dolente, in modo da permettere una protesi ben tollerata e funzionalmente efficace.

2.2 Processi patologici Le maggiori patologie che portano all’amputazione di un arto sono quelle vascolari (arteriopatia obliterante, embolia arteriosa, morbo di Buerger), il diabete ed i tumori. Nei paesi industrializzati, come gli Stati Uniti e la Danimarca, le patologie rappresentano circa il 65-70% fra le cause di amputazione. Al contrario, nei paesi in via di sviluppo, la maggior causa di amputazione è rappresentata dagli eventi traumatici. Ad esempio, in uno studio del 2009 effettuato da Obalum e Okeke presso l’Havana Specialist Hospital di Lagos (Nigeria), è stato osservato, in questa nazione africana, un aumento dell’incidenza delle amputazioni di arto inferiore in seguito ad incidenti motociclistici e a complicanze di un diabete non controllato (neuropatia, vasculopatia e gangrena in piede diabetico). In un altro studio, sempre del 2009, effettuato in Costa d’Avorio da Siè Essoh e coll., sono state analizzate le cause di amputazione d’arto in 156 pazienti: il 49,9% delle amputazioni sono state effettuate in seguito ad un evento traumatico, il 31,4% in seguito a piede diabetico ed il 13,4% in seguito a una patologia vascolare periferica.

2.2.1 Processi patologici Solitamente le persone anziane sono quelle a maggior rischio di amputazione per cause patologiche. Tra le malattie che causano amputazione, le malattie vascolari sono le più comuni. Tutte le malattie che causano una limitazione di

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flusso arterioso di sangue agli arti inferiori possono essere causa di ulcere e gangrene che possono condurre all’amputazione. Ad esempio, la malattia di Buerger (o tromboangioite obliterante) è una forma di vasculite delle piccole-medie arterie che colpisce fondamentalmente i maschi fumatori in età adulta (età media intorno ai 35 anni) E’ una malattia, fortemente collegata col fumo di sigaretta, diffusa nel continente Asiatico e soprattutto nel Medio Oriente, mentre è poco diffusa in Europa e negli USA. I sintomi e i segni sono rappresentati da piccole lesioni delle dita, ulcere, dolore, gangrena, ischemia arteriosa, fenomeno di Raynaud, riduzione della sensibilità tattile e termica. A lungo andare può rendersi necessaria l’amputazione. In Italia, il tasso di amputazione per cause ischemiche di tipo aterosclerotico si aggira attorno all’84,6%. Il diabete è un’altra causa comune di perdita degli arti infatti le complicanze di questa malattia diminuiscono la circolazione (angiopatia periferica) e la sensibilità (neuropatia) degli arti inferiori; si possono formare ulcere ed infezioni che rendono necessario un intervento di amputazione. Negli Stati Uniti, le ulcerazioni del piede causano più di 80.000 amputazioni ogni anno. Solo una piccola parte delle amputazioni (intorno al 3-4%) è causata dai tumori. Anche la lebbra, nei paesi in cui è ancora diffusa, può causare una perdita di sensibilità delle mani e dei piedi; possono insorgere delle infezioni che, se non trattate, possono condurre all’intervento di amputazione. Solitamente i pazienti amputati in seguito ad una patologia hanno un’età superiore ai 60 anni (in Italia: 65,4 anni), mentre le amputazioni traumatiche riguardano, in genere, pazienti più giovani e attivi.

2.2.2 Lesioni traumatiche I traumi sono una delle maggiori cause di amputazione nel mondo. Il numero di persone che hanno subito un’amputazione in seguito a un trauma, varia da nazione a nazione. Nei paesi sviluppati, i traumi generalmente avvengono come risultato di incidenti industriali, agricoli o stradali (soprattutto automobile, motocicletta e treno). I traumi rappresentano circa il 22-25% delle cause di nuove amputazioni. Nei paesi con una storia recente di guerra e scontri civili, i traumi rappresentano fino all’ 80-90% delle amputazioni. In molti paesi, come, ad esempio, lo Sri Lanka, le mine anti-uomo sparse nel terreno rappresentano un problema reale e sono causa di morte e amputazioni. Ci sono più di 100 milioni di mine sparse in più di 60 nazioni nel mondo. L’Organizzazione delle Nazioni Unite stima che le mine uccidano o rendano disabili più di 150 persone ogni settimane. Spesso il danno interessa maggiormente arti, tronco, genitali e viso.

2.2.3 Malformazioni congenite Le malformazioni congenite sono causa di una piccola percentuale di amputazioni, rappresentando il 3% delle perdite degli arti. In questi casi i bambini nascono con arti malformati molto corti o, addirittura, assenti. Le deformità possono essere distinte in congenite (farmacologiche, infettive, tossiche, fisiche), acquisite (arti paralitici, pseudoartrosi grave, accorciamenti degli arti superiori, anchilosi non funzionale). Per quest’ultimo genere di deformità è consigliata l’amputazione dell’arto o di un suo segmento, solo se esso è inutile o in qualche modo d’ostacolo ai fini della protesizzazione. In relazione al tipo (amelia, peromelia, focomelia, ectromelia), all’estensione e alla gravità della malformazione, gli arti vengono trattati per migliorare l’aspetto funzionale ed estetico.

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2.3 Cause e tecniche chirurgiche di amputazione dell’arto inferiore Col termine amputazione s’intende la resezione del segmento distale di un arto, ottenuta sezionando lo scheletro nella sua continuità, mentre per disarticolazione s’intende la demolizione fatta attraverso un’interlinea articolare. Nella determinazione del livello d’amputazione bisogna tener conto di diversi fattori: · La collocazione possibile delle articolazioni meccaniche (ginocchio, tibiotarsica); · Il braccio di leva di propulsione calcolato in base all’inserzione dei muscoli motori; · La scelta del livello d’amputazione, influenzata anche dalle condizioni in cui si effettua l’intervento: è, infatti, chiaro che vi è una differenza tra l’amputazione eseguita d’urgenza, l’amputazione ritardata e la riamputazione per monconi imperfetti o sofferenti. Così avremo: - Amputazione d’urgenza, in cui vi è l’handicap della fretta, in quanto spesso è in gioco la vita del paziente; in ogni caso si preferisce l’amputazione circolare scegliendo possibilmente l’altezza che dia maggiore garanzia per la futura protesizzazione. - Amputazione ritardata, in questa situazione vi è tutto il tempo di studiare l’altezza ideale dell’amputazione tenendo conto della vascolarizzazione della cute là dove cadrà l’incisione, lo stato della vascolarizzazione profonda, le condizioni psicosomatiche del paziente. - Riamputazione per cattivi monconi, si esegue nelle seguenti situazioni: - Moncone osseo troppo lungo comprimente la cute sovrastante sottile, tesa, a volte ulcerata; - Eventuali cicatrici aderenti; - Eventuali neuromi dolorosi; - Eventuali masse cutanee abbondanti e ballanti che trovano difficoltà ad alloggiarsi nello scavo della protesi. Ad ogni modo, l’amputazione dovrebbe essere eseguita in modo tale da fornire un moncone che conservi una buona motilità attiva, con gruppi muscolari validi e funzionalmente bilanciati, che presenti un buon trofismo tissutale con un’efficiente circolazione emolinfatica; che abbia una cicatrice operatoria solida e non dolente, in modo da permettere una protesi ben tollerata e funzionalmente efficace.

2.4 Amputazioni e disarticolazione di arto inferiore Per quanto riguarda l’arto inferiore, nel considerare i livelli ideali d’amputazione bisogna distinguere: - Le amputazioni di piede; - Le amputazioni di gamba; - La disarticolazione di ginocchio; - Le amputazioni di coscia; - La disarticolazione dell’anca; - L’emipelvectomia.

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2.4.1 Amputazioni di piede Si è visto che non sempre per il piede è da applicarsi il principio della massima economia, in quanto il prevalere del tricipite surale sugli antagonisti anteriori (che hanno perduto il loro punto d’inserzione) fa sì che i piccoli monconi, che residuano, abbiano tendenza a portarsi in posizione di equinismo, diventando di scarsa utilità funzionale. Le amputazioni di piede comprendono: - Amputazione di Lisfranc modificata (trans-metatarsale); - Amputazione classica di Lisfranc; - Amputazione tipo Chopart; - Amputazione tipo Pirogoff; - Amputazione tipo Syme; - Amputazione tipo Boyd.

Amputazione di Lisfranc modificata (trans-metatarsale) Questo livello di amputazione viene considerato come uno dei più idonei conservando la lunghezza dell’arto inferiore e, dal punto di vista biomeccanico, non resta compromessa eccessivamente la fase di distacco durante la marcia. L’indicazione essenziale è data da lesioni vascolari gravi, anche se può essere effettuata per lesioni traumatiche o tumorali. Amputazione classica di Lisfranc Consiste in una disarticolazione che si effettua separando da una parte i tre cuneiformi ed il cuboide e dall’altra i cinque metatarsi. E’ utile fissare i tendini degli estensori sullo scheletro ed allungare il tendine d’Achille per evitare l’equinismo. Permette protesi basse. Amputazione tipo Chopart Consiste in una disarticolazione dell’avampiede dal retropiede che si effettua passando nell’articolazione costituita da una parte dallo scafoide e dal cuboide, dall’altra dall’astragalo. Va sempre associata ad un’artrodesi tibio-astragalica per ottenere un piede con appoggio corretto: ciò si ottiene realizzando l’artrodesi in posizione funzionale che permetta un appoggio del moncone parallelo al suolo. Il moncone che si ottiene, ha una dismetria minima e permette un perfetto appoggio plantare. Sia per l’amputazione di Lisfranc, che per quella di Chopart, è necessario un gran lembo cutaneo plantare: ciò che nella pratica non si realizza molto spesso. Amputazione osteoplastica di Pirogoff Consiste nel sezionare le due ossa di gamba sopra l’interlinea articolare tibiotarsica e nell’adattamento sulla superficie di sezione di quest’osso, il tubercolo del calcagno opportunamente segato, quindi si ottiene un moncone arrotondato adatto a sopportare e sostenere il peso del corpo, sia perché il moncone osseo viene chiuso alla sua estremità in modo naturale, quindi non è causa di dolore, sia perché la sua superficie di sostegno è ricoperta da cute già abituata a sostenere le pressioni (la dissezione del calcagno avviene dietro l’articolazione astragalocalcaneare posteriore in senso verticale dall’alto in basso). Per i suddetti motivi è un’amputazione consigliata da diversi autori, inoltre è difficilmente realizzabile in casi d’urgenza. Amputazione tipo Syme Consiste nella resezione di tibia e perone al loro estremo distale, pochi millimetri al di sopra della superficie articolare; ne consegue un moncone lungo e claviforme. L’amputazione completa del piede, secondo la tecnica descritta da Syme, è un intervento che, se ben realizzato, permette un buon risultato; è consigliato per i seguenti motivi: - Si ottiene un buon moncone con una perfetta “imbottitura” (la protesi prevede il carico terminale completo);

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- Evita i tempi complementari (artrodesi, osteosintesi), quindi permette una protesizzazione ed una riabilitazione più precoci (solitamente dopo 4-6 settimane); - Sebbene con una claudicazione, dovuta alla dismetria, consente la deambulazione senza protesi (anche se i percorsi possibili sono limitati). La tecnica è indicata anche per i pazienti diabetici. Amputazione tipo Boyd Consiste nell’amputazione del tarso che comporta l’astragalectomia e l’artrodesi tibio-calcaneare. Il calcagno mantiene il suo andamento orizzontale, quindi ne risulta un moncone globoso che si espande anteriormente e posteriormente (questo più corto rispetto al controlaterale).

2.4.2 Amputazioni di gamba (transtibiali) Nell’amputazione di gamba, la difficoltà principale è di poter ottenere un moncone capace di sostenere il peso del corpo. Nelle lesioni traumatiche e flogistiche acute (gangrena…) il livello è condizionato dalla mortificazione delle parti molli, dal tempo di distanza dalla lesione, dalla zona della lesione e dallo stato di sofferenza vasale e nervosa. Nelle lesioni flogistiche croniche sono il dolore, le complicanze parenchimatose e locali ed il livello febbrile che fanno decidere per l’amputazione. Per le lesioni neoplastiche, il livello dipende dalla precocità della diagnosi clinica, radiologica ed istologica, dallo stato generale, dall’età e da altri fattori personali: comunque tende sempre ad essere un livello molto prossimale. Per le amputazioni di gamba si distinguono tre livelli: - 3° superiore; - 3° medio (a sua volta superiore ed inferiore); - 3° inferiore. Il miglior moncone d’amputazione, in funzione della protesi, si ottiene sezionando tra il 3° medio ed il 3° superiore di tibia (a 12-15 cm di distanza dalla rima articolare del ginocchio) all’altezza della massa dei muscoli gemelli e del soleo, zona molto vascolarizzata in ogni piano e la cui cicatrice è di facile realizzazione. Questo tipo di moncone si presta perfettamente sia per le protesi a contatto totale, che per le protesi convenzionali con cosciale: è per questo motivo che, preferendo molti l’uso della protesi convenzionale, l’altezza dell’amputazione di gamba può variare ed essere scelta più alta o più bassa. Comunque anche nel caso di una protesi convenzionale la sezione di tibia al limite inferiore del 3° superiore, sopra detto, è preferibile in quanto compatibile con un’articolazione del ginocchio sugli assi. Per le protesi a contatto totale, la realizzazione della guaina di contatto viene garantita dal confezionamento di una buona base terminale mediante l’osteoplastica tra il perone e la tibia. I monconi corti di gamba sono protesizzabili a condizione che siano rispettati i seguenti punti: - Il tendine del bicipite femorale non deve formare corde dolorose durante i movimenti di flessione del ginocchio: questo tendine, infatti, s’inserisce basso sulla testa del perone e può essere un ostacolo durante i movimenti del fodero nella corsa di flessione di là dai 90°; - Nei monconi sotto i 6-7 cm, il perone perde la stabilità dei rapporti con la tibia (manca la membrana interossea) e sotto carico si divarica per azione del bicipite femorale, determinando un contatto doloroso con la parete dell’invasatura della protesi nella fase di sollevamento del calcagno-accelerazione - sollevamento piede. L’asportazione completa del perone non modifica la stabilità del ginocchio, anche se la testa del perone, ai fini della protesizzazione, può essere utile per migliorare la stabilità rotatoria delle protesi brevi. In caso di monconi molto corti, i punti di appoggio sotto-condiloideo sono ridotti al minimo e si avrà interesse ad aiutare con uno scarico ischiatico all’estremità superiore della coscia, o con un cosciale a seconda dei casi. I monco-

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ni troppo lunghi di gamba, dopo l’avvento delle protesi di resina a contatto ed appoggio totale, non sono più consigliabili. In caso d’amputazioni dovute a problemi di circolazione arteriosa, non è opportuno superare una lunghezza tibiale di 12 cm, in quanto avremo difficoltà nella guarigione della ferita e/o ischemie.

2.4.3 Disarticolazione di ginocchio Le disarticolazioni di ginocchio si possono suddividere in due gruppi: - quelle in cui i condili femorali vengono lasciati integri; - quelle in cui i condili femorali vengono regolarizzati in periferia fino a far assumere all’epifisi il diametro della diafisi femorale. In ogni caso vengono conservate le masse muscolari e alcuni tendini sono suturati tra di loro a livello della gola intercondiloidea. Conservandosi le inserzioni distali dei muscoli adduttori, la coscia è ben equilibrata e non tende ad abdursi e ad extraruotarsi. In passato tali amputazioni erano sconsigliate per l’eccessiva lunghezza del moncone residuo: ciò creava seri problemi all’applicazione della protesi in quanto l’asse del ginocchio risultava abbassato ed asimmetrico, inconvenienti oggi risolti grazie alle recenti innovazioni tecnologiche. I vantaggi di tale disarticolazione consistono nel fatto che permangono sia una leva lunga controllata da una grossa muscolatura, sia un moncone con estremità portante in grado di sopportare completamente il peso. Per questo tipo di amputazione l’insufficiente altezza da terra non rende possibile utilizzare i ginocchi elettronici di nuova concezione. Le disarticolazioni di ginocchio vengono eseguite con tre metodiche: - Metodica di Slocum (amputazione sottocondiloidea): il femore viene sezionato a livello della gola intercondiloidea, i bordi del moncone vengono regolarizzati onde smussarli; le parti molli ricoprono l’apice, si ottiene così un moncone lungo e lievemente globoso. - Metodica di Kirk: consiste nell’amputazione tenoplastica sovracondiloidea, con rimozione della rotula ed inserzine del tendine del quadricipite all’estremo distale del femore: ciò impedisce la retrazione degli estensori. Il moncone, ricoperto da parti molli, è piuttosto lungo e affusolato. - Metodica di Gritti-Stokes: è la più utilizzata; il femore viene sezionato in regione sovracondiloidea, la rotula viene sezionata frontalmente e la sua metà anteriore, ancora connessa al tendine del quadricipite, viene artrodesizzata all’apice del segmento femorale. Ne deriva un moncone di coscia lungo, con estremo tondeggiante, ben gravabile e dal buon trofismo poiché i muscoli della coscia non vengono sezionati.

2.4.4 Amputazioni di coscia E’ importante conservare la maggior lunghezza possibile del femore poiché i monconi lunghi facilitano, per la maggior leva disponibile, il cammino veloce, la corsa e la pratica di uno sport. Anche a carico della coscia si riconoscono tre livelli di amputazione: - 3° superiore; - 3° medio; - 3° inferiore. L’altezza ideale d’amputazione è in pieno 3° medio, là dove i muscoli hanno la miglior consistenza e dove è possibile

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costruire un moncone, mediante osteomioplastica, con una cicatrice apicale disposta a distanza dalle zone di sollecitazione, in pratica nella regione distale e posteriore. Il braccio di leva permetterà un comando agevole della protesi; l’estremità ossea risulterà ben coperta e sarà salvaguardato l’equilibrio tra i muscoli antagonisti, garantendo un buon controllo della protesi. Infine, a questa altezza d’amputazione, sarà possibile l’applicazione del ginocchio meccanico, senza dover abbassare l’asse trasversale di rotazione rispetto al ginocchio controlaterale, nonché l’utilizzo dei nuovi ginocchi elettronici. Quando la lesione è molto alta, è inevitabile un disequilibrio muscolare tra i muscoli abduttori e gli adduttori per il venir meno delle inserzioni di questi ultimi: si avrà un disequilibrio muscolare del moncone in abduzione e flessione pronunciate, tale da dare una protesizzazione più difficoltosa nella costruzione dell’invasatura e nella progettazione del suo allineamento rispetto agli altri elementi protesici. Quando è possibile conservare almeno 10 cm di diafisi, le protesi ad aderenza muscolare sono possibili, a condizione che il trocantere sia ben imbottito dalle parti molli e che si aggiunga alla protesi una cintura di sicurezza. Attualmente i monconi lunghi (3° inferiore di coscia) non comportano particolari problemi di protesizzazione. Il peso non viene scaricato direttamente sul moncone, ma si lascia che questo si porti in flessione e che l’amputato gravi sulla protesi; quest’ultima ha il suo punto d’appoggio sulla tuberosità ischiatica del bacino. Le attuali invasature a contatto totale consentono di ottenere prestazioni elevate purché si tratti di un moncone trofico, non dolente, in grado di poter compiere movimenti per tutta l’escursione del movimento dell’anca. Il moncone di coscia, migliore da un punto di vista funzionale, è quello con forma cilindrica, dotato di un buon controllo muscolare, senza importanti contratture e rigidità a livello dell’articolazione coxo-femorale, senza edemi, con colorito e temperatura normali, non dolente e gravabile, tale da consentire al paziente l’utilizzo di una buona protesi funzionale.

2.4.5 Disarticolazione dell’anca Si tratta di un intervento molto raro nei pazienti vascolari mentre è richiesto per le neoplasie maligne o per traumi irreparabili alla parte alta della coscia. Consiste nell’eliminazione dell’articolazione coxo-femorale, disarticolando la testa del femore dall’acetabolo. L’appoggio protesico avviene sulla tuberosità ischiatica e sull’ala iliaca.

2.4.6 Emipelvectomia In generale, l’indicazione a questo tipo di intervento si pone per forme tumorali maligne, sia ossee che delle parti molli, che coinvolgono la parte alta del femore o della coscia, l’articolazione dell’anca, i muscoli o le fasce della regione dell’anca e il bacino. Anche per i tumori benigni a malignità locale, è stata posta l’indicazione all’intervento di emipelvectomia. Più raramente, un’indicazione all’intervento può essere una forma tubercolare diffusa, un’osteomielite cronica di un emibacino o una forma metastatica. Consiste nell’amputazione dell’emibacino, disarticolando la cintura pelvica attraverso la sinfisi pubica (anteriormente) e l’articolazione sacro-iliaca (posteriormente). Si darà la precedenza all’amputazione dell’ileo e dell’ischio-pube quando la sede della lesione lo permette, mentre si procederà obbligatoriamente alla classica disgiunzione sacro-iliaca e della sinfisi pubica quando lo impone la diffusione della lesione, anche se tale tecnica è molto più traumatizzante.

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capitolo 3

IL MONCONE DOLOROSO

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3.1 Generalità sul moncone Per definizione, il moncone è un segmento di arto compreso tra le superfici di sezione e l’articolazione immediatamente prossimale. Affinché un moncone possa essere considerato perfetto e utile da un punto di vista funzionale deve rispondere a determinati requisiti. Il moncone deve essere: - NON DOLENTE: spontaneamente, alla digitopressione e sotto carico; - GRAVABILE: adatto a sopportare le pressioni della protesi; - DI GIUSTA LUNGHEZZA e DI FORMA REGOLARE; - RESISTENTE, TONICO e TROFICO; - DOTATO DI UN RIVESTIMENTO CUTANEO RESISTENTE: con cute scorrevole, robusta, integra, senza aderenze cicatriziali, non sovrabbondante; - BEN VASCOLARIZZATO: colorito roseo, temperatura uguale agli altri arti, senza edema né cianosi. La cicatrice non deve essere retratta, deve essere priva di pieghe, deve poter scorrere sui piani profondi e deve essere posta in una posizione che non la esponga alle sollecitazioni del carico. Un moncone che non risponde a tali requisiti è definito “cattivo moncone” o “moncone cronico”. La qualità del moncone dipende molto dal livello e dal modo in cui le parti molli e lo scheletro vengono sezionati. Sia che l’amputazione sia dovuta ad un evento traumatico che ad una vasculopatia o ad altri motivi, è importante che il chirurgo conosca il grado di vitalità dei tessuti dell’arto, in particolare della cute: tale conoscenza influenza direttamente il livello d’amputazione. La ferita, infatti, può non cicatrizzarsi con successo se la cute e i tessuti più profondi non hanno un potenziale sufficiente da poter sopportare il trauma chirurgico e la risposta infiammatoria post-operatoria. Dopo un intervento di amputazione di arto, sia esso inferiore o superiore, possono insorgere differenti tipi di dolore: - Dolore post-operatorio; - Dolore del moncone dopo la guarigione della ferita chirurgica; - Dolore causato dalla protesi; - Sensazione da arto fantasma; - Arto fantasma doloroso. Il trattamento per questi diversi tipi di dolore è differente, così è importante saper risalire alla causa del disagio. Ogni tipo di dolore deve essere valutato attentamente e trattato con cura.

3.2 Dolore post-operatorio Questo tipo di dolore è acuto e si protrae nel periodo post-operatorio (generalmente da 1 a 4 settimane dopo l’amputazione). Questo dolore peggiora alla mobilizzazione dell’arto, quando viene effettuata una pressione a livello della

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ferita o della tumefazione. E’ un dolore che tende a scomparire nel momento in cui la ferita chirurgica guarisce. Nel post-operatorio il dolore può essere controllato con medicazioni e mediante l’uso di terapie fisiche. I farmaci utilizzati comunemente nel post-operatorio includono i narcotici, il paracetamolo, l’acido acetilsalicilico e i farmaci correlati come l’ibuprofene e l’indometacina. Nella prima settimana successiva all’amputazione, vengono somministrati dosaggi relativamente alti di farmaci. Dopo questo periodo si tende a diminuirli gradualmente. Anche alcune terapie fisiche possono essere molto utili per il controllo del dolore. Il controllo dell’edema contribuisce alla guarigione della ferita. L’arto dovrebbe essere tenuto in scarico per una o due ore, due o tre volte al giorno, per ridurre l’edema locale o la tumefazione. Un immediato bendaggio nel post-operatorio contribuisce alla protezione dai traumi meccanici e riduce sia il dolore che la tumefazione. Il bendaggio del moncone deve essere effettuato attentamente (più stretto distalmente e meno prossimalmente) per promuovere l’assorbimento dell’edema e evitare l’effetto laccio emostatico. Il dolore post-operatorio deve essere valutato con molta attenzione poiché potrebbe essere dovuto ad altre causa, in particolare alle infezioni. La presenza di una zona calda al tatto, di una tumefazione arrossata (eritema) o di un drenaggio possono indicare un problema locale come un’infezione o una raccolta di sangue.

3.3 Dolore del moncone dopo la guarigione della ferita chirurgica Il dolore che può insorgere dopo la guarigione della ferita chirurgica del moncone è meno comune e, spesso, più difficile da diagnosticare e trattare. E’ un dolore cronico, percepito nella regione dell’amputazione e localizzato, a differenza del dolore da arto fantasma, in parti esistenti del corpo. La sua incidenza è molto variabile (dal 13 al 71%); in genere questo tipo di sintomatologia dolorosa supera di molto, in durata, il periodo di guarigione. E’ fondamentale un’attenta valutazione del dolore descrivendone accuratamente le caratteristiche, la localizzazione, l’intensità e la durata. E’ inoltre importante determinare quali fattori lo scatenano o lo aumentano e quali invece lo riducono. L’esame del moncone dolente include l’ispezione (ricerca di deformità, colore anomalo, gonfiore, termotatto positivo, motilità della cute ed edema) e la valutazione di forza e motilità. Il minuzioso esame del moncone, l’impiego della radiografia, della scintigrafia ossea e l’idoneo adattamento della protesi possono contribuire ad identificare la patologia locale. Fondamentalmente i dolori al moncone possono essere classificati in 2 categorie: 1) quelli dovuti alla patologia locale; 2) quelli causati da una lesione dei nervi periferici ed alle risposte centrali alla lesione nervosa stessa. Le patologie locali che, con più frequenza, interessano il moncone sono quelle di origine ossea: fratture, infezioni dell’osso (osteomieliti), crescita abnorme dell’osso (ossificazione eterotopica) e artrite. Nei bambini al di sotto di 14 anni la sopracrescita ossea può essere evidente. Esistono anche cause di dolore associate ai tessuti molli: insufficienza di flusso sanguigno (ischemia), ascessi, infiammazione cellulare (cellulite), adesione della cute all’osso sottostante (aderenze), formazione di cicatrici retraenti, alterazione nervosa dell’arto (neuropatia periferica), strappo muscolare, dolore nervoso (intrappolamento o neuroma). Il dolore del moncone può essere diffuso o locale e si associa spesso a neuromi palpabili nella sede di amputazione.

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Con “neuroma da amputazione” si intende una proliferazione, non neoplastica ma iperplastica, di cellule di Schwann e di fibre nervose in seguito alla sezione di un nervo susseguente all’amputazione di un arto; la formazione di questo neuroma fa seguito alla completa interruzione della continuità del nervo periferico e rappresenta l’esito di un tentativo inefficace di rigenerazione del nervo stesso. I neuromi possono essere adiacenti alla cicatrice chirurgica, possono trovarsi superficialmente nella cute o nel sottocute o possono formarsi nei tessuti in profondità. Dolore del moncone: - Continuo od intermittente; - Focale o diffuso. Qualità del dolore: - crampiforme; - urente; - folgorante; - caldo e/o freddo; - generalizzato ed incessante. In molti casi il dolore si associa a movimenti spontanei del moncone: scosse miocloniche e/o contrazioni croniche sia degli agonisti che degli antagonisti. Alcuni pazienti riferiscono crisi di dolore alternate ad intervalli liberi. Il trattamento del dolore del moncone deve variare a seconda della patologia che lo sottende. Le patologie dell’osso, gli ascessi ed i neuromi potrebbero richiedere il reintervento chirurgico. L’iniezione locale di analgesici e/o corticosteroidi può risultare estremamente efficace per il dolore causato dall’artrosi, dalle cicatrici, dall’intrappolamento nervoso, dalle aderenze dei tessuti e dai neuromi. Il dolore da ischemia, in genere, richiede l’intervento chirurgico di rivascolarizzazione. I farmaci possono venire assunti sia per via orale che per via topica. Anche le stimolazioni meccaniche (inclusi i massaggi, il linfodrenaggio e la frizione) riducono la sensibilità locale del moncone; per la gestione del dolore residuo possono essere utili anche gli ultrasuoni, la tecar-terapia, la crioterapia e la TENS. Meno frequentemente, sono necessari per il controllo del dolore le procedure terapeutiche per indebolire il nervo o i blocchi nervosi.

3.4 Dolore causato dalla protesi Il dolore causato dalla protesi è generalmente più facilmente diagnosticato e trattato. Il dolore è di origine meccanica, frequentemente causato dalla compressione, dalla frizione o dalla trazione della pelle. Quando il paziente amputato può indicare la localizzazione del dolore, il tecnico può identificare la corrispondente area nell’invaso protesico; attraverso la modificazione di questa area dell’invaso, il dolore può essere generalmente ridotto con la diminuzione delle pressioni puntuali. Nei pazienti con amputazione al di sotto del ginocchio, il tubercolo tibiale, la tibia, la testa del perone e i tendini che decorrono posteriormente al ginocchio sono le sedi più comuni del dolore meccanico. Nei pazienti con amputazione al di sopra del ginocchio, le zone comuni di dolore per la relativa pressione sono i

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tendini adduttori, l’area dell’inguine e la parte laterale e mediale del femore e della coscia. Quando si forma un’alterazione della cute, il paziente con amputazione dovrebbe evitare di indossare la protesi fino a quando la causa della ferita o di ulcerazione non sia stata corretta. Il dolore può risultare dalla frizione tra la cute e la protesi. In questa situazione, l’invaso deve essere adattato e modificato per ridurre la tensione sulla pelle. Questo può essere raggiunto attraverso l’uso di cuffie al silicone o stirene che supportano la pelle e non permettono lo stiramento della stessa. La frizione può avvenire quando le dimensioni dell’invasatura sono eccedenti, ma non tanto da non consentire l’ancoraggio dell’invasatura al moncone. Il dolore da trazione è presente quando il moncone è bulboso e largo all’apice. Si può ottenere la diminuzione del dolore attraverso un’apertura dell’invasatura a livello dell’apice oppure posizionando cotone o nylon all’interno della stessa di modo da accogliere in maniera più confortevole i tessuti molli diminuendo la frizione e la trazione prossimale. Il dolore da trazione si manifesta quando l’apice del moncone non tocca il fondo dell’invaso e rimane nello spazio. Se questo accade, è consigliabile aggiungere un cuscino di materiale morbido sul fondo dell’invasatura.

3.5 Sensazione da arto fantasma Il neurologo americano Silas Weir Mitchell, nel 1872, fu il primo a parlare di “arto fantasma” e ne diede una definizione: “Quella sindrome che permette di sentire un’estremità amputata come ancora presente e che può essere caratterizzata da dolore e da crampi nell’arto mancante”. In seguito sono stati effettuati numerosi studi sulle manifestazioni cliniche dell’arto fantasma (Henderson and Smyth, 1948; Cronholm, 1951; Sunderland, 1978; Melzack, 1992) Per la comprensione delle cause di questo fenomeno è molto importante il lavoro di Melzack del 1992 poiché egli fu il primo ad affermare che, nonostante i neuromi del moncone possano contribuire alle sensazioni fantasma, essi rappresentano soltanto una piccola parte di un quadro molto più grande. In particolare, il fatto che le sensazioni fantasma presenti in persone adulte nate senza un arto (Saadah and Melzack, 1994) non possano ovviamente essere riconducibili a neuromi, suggerisce che una rappresentazione centrale dell’arto sopravviva dopo l’amputazione e possa essere la responsabile dell’illusione di un fantasma. Più dell’80% delle persone che hanno subito un’amputazione riferisce la sensazione di arto fantasma (PLS), definita come un’esperienza sensoriale che sembra aver origine dalla parte mancante del corpo (Sherman et al., 1984; Jensen et al., 1985; Kooijman et al., 2000). Nell’immediato post-operatorio, l’incidenza di questa sensazione interessa una percentuale di pazienti che varia dal 90 al 98%. Sembra che l’incidenza della sensazione fantasma sia maggiore in seguito a una perdita traumatica dell’arto o se c’è stata una condizione dolorosa precedente l’intervento chirurgico; sembra invece che l’incidenza sia minore negli interventi chirurgici di pazienti che non avevano avuto esperienze di dolore prima dell’amputazione. Le sensazioni fantasma sono meno frequenti nella prima infanzia, forse perché i bambini, data la giovane età, non hanno avuto tempo sufficiente per consolidare un’immagine corporea ben definita. In uno studio di Rimmel del 1962 le sensazioni fantasma sono state rivenute: - nel 20% dei bambini amputati prima dei 2 anni; - nel 25% dei bambini amputati fra i 2 e i 4 anni; - nel 61% dei bambini amputati fra i 4 e i 6 anni; - nel 75% dei bambini amputati fra i 6 e gli 8 anni; - nel 100% dei bambini amputati dopo gli 8 anni.

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Le sensazioni fantasma non sono un fenomeno unitario (Fraser et al., 2001). Le diverse osservazioni cliniche e sperimentali suggeriscono che diversi tipi di fenomeni fantasma potrebbero derivare da meccanismi unici e comuni (Sherman et al., 1989; Katz, 1992b). Per questa ragione, una miglior comprensione dei diversi fenomeni fantasma potrebbe fornire una visione più completa sulle possibili cause che li determinano.

3.5.1 Inizio Nel 75% dei pazienti che hanno subito un’amputazione, le sensazioni fantasma compaiono nell’immediato postoperatorio non appena finiscono gli effetti dell’anestesia; nel restante 25% dei pazienti, secondo uno studio di Moser del 1948, la comparsa potrebbe essere ritardata di pochi giorni o di qualche settimana (Moser, 1948). In uno studio di Carlen e coll. del 1978 sono stati osservati i soldati Israeliani sottoposti ad un intervento di amputazione in seguito alla guerra del Kippur del 1973 contro una coalizione composta da Egitto e Siria: il 33% aveva avvertito la sensazione di arto fantasma immediatamente dopo l’amputazione, il 32% entro 24 ore e il 34% entro poche settimane (Carlen, 1978). L’inizio del fenomeno non dipende da quale sia l’arto amputato o dall’altezza dell’amputazione (Sunderland, 1978).

3.5.2 Durata In molti casi il fantasma è presente inizialmente per pochi giorni o per poche settimane, per poi affievolirsi gradualmente. In altri casi può persistere per anni, senza diminuire d’intensità (il 30% dei casi secondo lo studio di Sunderland del 1978). In letteratura sono stati riportati casi di sensazione fantasma della durata di 44 (Livingston, 1945) e di 57 anni (Abbatucci, 1894). Alcuni pazienti sono in grado di richiamare la sensazione fantasma subito dopo la sua scomparsa, o tramite un’intensa concentrazione o con lo sfregamento del moncone. Lo stesso Mitchell, già nel 1872, fu in grado di richiamare una sensazione fantasma scomparsa da parecchio tempo tramite la stimolazione faradica del suo moncone transfemorale. Forse proprio quest’esperimento ha suggerito alla comunità scientifica l’ipotesi che i neuromi siano una delle principali cause di arto fantasma.

3.5.3 Parti del corpo Sebbene le sensazioni fantasma siano più frequenti in seguito ad amputazione di braccio o di gamba, in letteratura sono riportati casi di fantasma anche dopo interventi di amputazione del seno, di parti del viso e, in alcuni casi, anche di organi interni (ad esempio, un paziente può avvertire movimenti e presenza di aria nell’intestino anche dopo l’asportazione del sigma e del retto, o può lamentarsi per dolori da ulcera anche dopo una gastrectomia parziale). Nel suo studio del 1978, Sunderland osservò anche che erano avvertite erezioni fantasma ed eiaculazione in alcuni pazienti paraplegici o in altri che avevano subito l’amputazione del pene. Ramachandran e coll. danno testimonianza di pazienti donna con dolori mestruali, anche dopo isterectomia. Tutte queste scoperte suggeriscono che le memorie sensitive più elaborate possono riaffiorare nel fantasma malgrado la deafferentazione o, forse, come sua conseguenza. La vividezza delle sensazioni fantasma sembra dipendere sia dalla magnificazione corticale (da qui, la chiarezza della percezione della mano fantasma) come anche dalla consapevolezza soggettiva di quella parte del corpo nell’immagine corporea precedente all’amputazione (ciò potrebbe spiegare il motivo per cui i fantasmi interessano più frequentemente i pazienti che hanno subito una perdita traumatica dell’arto o quelli che hanno vissuto un esperienza dolorosa pre-intervento, rispetto a quelli che hanno subito un’amputazione pianificata di un arto privo di dolore).

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Sembra quindi che l’attenzione pre-amputazione verso una parte del corpo possa modulare la nitidezza successiva del fantasma: questa osservazione potrebbe avere notevoli implicazioni cliniche.

3.5.4 Postura del fantasma I pazienti spesso ravvisano che il fantasma si trova in una postura “abituale” (ad esempio, in pazienti amputati di arto superiore, parzialmente flesso al gomito con l’avambraccio pronato). Ad ogni modo, sono comuni i cambiamenti spontanei di postura. Il fantasma, difatti, potrebbe trovarsi in una posizione inusuale e, a volte, scomoda, come ad esempio al risveglio, per poi ritornare alla postura abituale pochi minuti dopo. In altri casi il fantasma potrebbe temporaneamente assumere una postura scomoda o fastidiosa (come, ad esempio, un braccio storto dietro alla testa). Un fatto curioso è rappresentato dal fatto che “la memoria” della postura e della forma che aveva l’arto prima dell’amputazione sopravvive spesso nel fantasma (Katz e Melzack, 1990): esiste anche un aneddoto riportato da un soldato che aveva perso una mano per l’esplosione di una granata che stava stringendo nella mano stessa; egli riferiva di sentire la mano fantasma chiusa a pugno e bloccata costantemente in una posizione dolorosa. Anche Ramachandran e coll. riportano il caso di un paziente che aveva l’arto superiore bloccato in un tutore, con il gomito flesso e le dita semiflesse, posizionate in modo da impugnare l’estremità distale del tutore. Alcune settimane dopo l’amputazione, il paziente riferiva di sentire un arto fantasma posizionato nello stesso modo in cui esso era stato immobilizzato prima dell’amputazione. In aggiunta a questi esempi, in letteratura, esistono casi di amputazioni di arti che presentavano delle deformità e sensazioni fantasma post-amputative con le stesse deformità (Browder and Gallagher, 1948; Sunderland, 1978) Cosa accade alla posizione del fantasma al variare della posizione del moncone? A questa domanda aveva già dato risposta Mitchell nel 1872 affermando che il fantasma seguiva sia i movimenti volontari che quelli involontari del moncone ma, sorprendentemente, in alcuni pazienti, il fantasma rimaneva bloccato nella sua posizione abituale senza mai abbandonare il suo posto indipendentemente dai movimenti del moncone.

3.5.5 “Telescoping” Solitamente, con il passare del tempo, il fantasma lentamente si affievolisce fino a scomparire. Però, in circa il 50% dei casi, soprattutto nei pazienti amputati di arto superiore, l’arto sembra diventare, col passare dei giorni, sempre più corto; ad un certo punto, il paziente avverte la mano (o il piede) fantasma pendente direttamente dal moncone (Weiss and Fishman, 1963; Jensen et. al, 1983). Se compare il fenomeno dell’arto fantasma durante un attacco di dolore, il paziente sente l’arto che progressivamente si allunga nuovamente. La ragione per cui compare questo fenomeno detto “telescoping” non è chiara ma esso potrebbe avere qualcosa a che fare con la magnificazione corticale: la mano è infatti rappresentata molto dettagliatamente nella corteccia somatosensoriale. Nel 1996, Ramachandran e Roger-Ramachandran hanno ipotizzato che, in seguito ad un’amputazione di braccio, il cervello si trovi a dover affrontare un flusso di segnali in conflitto fra loro (Ramachandran, 1996); ad esempio, le aree frontali mandano al fantasma dei segnali, monitorati sia nel cervelletto che nei lobi parietali. In una persona normale, l’esecuzione di questi comandi trova riscontro in feedback sia propriocettivi che visivi, provenienti dal braccio; in un amputato, invece, questo riscontro non c’è e da qui nasce il conflitto. L’unico modo che ha il cervello per confrontarsi con questo conflitto sensoriale.

3.5.6 Sensazione somatica e consapevolezza corporea Alcuni amputati (13-24%) descrivono la sensazione da arto fantasma come una sensazione esterocettiva e/o propriocettiva simile a un formicolio, a un prurito, a una pressione, a un movimento, a una sensazione di caldo o di freddo. Ad ogni modo, la parte più rilevante di pazienti (47-71%) descrive la propria esperienza di arto fantasma come una consapevolezza generale di presenza dell’arto piuttosto che di una specifica sensazione somatica (Jenesen et al., 1984; Ramachandran and Hirstein, 1998; Halligan, 2002). Ad esempio, i pazienti amputati possono avere la consapevolezza che il proprio arto mancante sia in una particolare posizione, abbia una certa forma o una dimensione differente (Halligan et al., 1993; Knecht et al., 1995; Aglioti et al., 1997; Sherman, 1997). Per questo

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motivo è importante differenziare i concetti di “sensazione somatica” e di “consapevolezza corporea”. La “sensazione somatica” è definita come una sensazione specifica (che può essere rappresentata dal calore, dalla pressione, dal freddo, dalla posizione di un’articolazione o dal dolore) normalmente evocabile quando gli stimoli vengono applicati al corpo. Tuttavia, è anche possibile avere la consapevolezza generale di una parte del corpo senza in realtà avvertire una sensazione somatica: ovvero l’esperienza cosciente della grandezza o della posizione del proprio arto mancante. Berlucchi e Aglioti (1997) individuarono i termini “schema corporeo” e “sensazione corporea” per definire “quel costrutto mentale che include le impressioni sensoriali, le percezioni e le idee relative ad un organizzazione dinamica del nostro stesso corpo ed il suo rapporto con altri corpi”. Applicando questi concetti ai fenomeni fantasma, una “sensazione fantasma” potrebbe riferirsi a specifiche sensazioni di stimolazione sensoriale dell’arto mancante. Ad esempio, gli amputati possono avvertire che ci sia qualcosa che sta effettivamente toccando l’arto amputato oppure che dell’acqua fredda stia passando sopra all’arto mancante. D’altra parte, la “consapevolezza di arto fantasma” (PLA) potrebbe riferirsi alla conoscenza della presenza/esistenza dell’arto mancante propria di ogni paziente. La caratteristica universale del fenomeno fantasma è che esso viene avvertito come parte integrante del corpo (Melzack, 1992; Halligan, 2002). Per questo motivo, il PLS (sensazione di arto fantasma) è sempre accompagnato da PLA (consapevolezza di arto fantasma), ma il PLA si può verificare anche senza un PLS specifico (Halligan et al., 1993; Knecht et al., 1995; Aglioti at al., 1997; Sherman, 1997; Fraser et al., 2001). Sia PLS che PLA possono verificarsi spontaneamente o possono essere provocati da uno stimolo sensoriale tattile, come ad esempio un leggero tocco (Ramachandran et al., 1992, 1995; Halligan et al., 1993; Knecht et al., 1995; Aglioti et al., 1997; Flor et al., 2000). Un fenomeno più tardivo include le percezioni doppie (Katz, 1992b), che si verificano quando uno stimolo tattile applicato al moncone viene percepito sia localmente, nel punto in cui viene effettivamente applicato lo stimolo, sia, contemporaneamente, a livello dell’arto mancante. A volte, infatti, dopo un’amputazione è possibile osservare una corrispondenza tra specifici punti sulla pelle e punti sull’arto fantasma: alcuni pazienti amputati, se stimolati sulla cute, riferiscono di avvertire una seconda sensazione sull’arto fantasma. La sensazione riferita può essere topograficamente precisa e modalità-specifica (PLS) oppure può essere soltanto una vaga consapevolezza dell’arto mancante (PLA) (Doetsh, 1998). Per questo motivo, gli inputs tattili possono indurre o modificare le sensazioni e/o la consapevolezza del fantasma. Le percezioni doppie potrebbero anche derivare dalla stimolazione tattile di molteplici siti corporei lontani fra loro, inclusi il viso (Ramachandran et al., 1995; Aglioti et al., 1997) e il torace (Knecht et al., 1996). Questa corrispondenza fra punti della cute lontani dal sito di amputazione e punti del fantasma è dovuta al “fenomeno di remapping”: infatti, dopo l’amputazione si verifica una riorganizzazione della corteccia somato-sensoriale con un’espansione degli inputs sensoriali per le zone limitrofe verso le regioni cerebrali originariamente rappresentanti l’arto amputato. Numerose ricerche dimostrano infatti che le sensazioni somatiche fantasma, provocate da stimolazioni lontane rispetto al sito dell’amputazione, rappresentano i correlati percettivi secondari a una riorganizzazione di nuove e aggiuntive aree recettive fra i neuroni nelle reti della corteccia somatosensoriale primaria. Questi neuroni mantengono allo stesso tempo la loro funzione originale (vedere la review di Doetsch, 1998). Quindi, ci si dovrebbe aspettare che la sede dei campi di riferimento rifletta l’organizzazione nervosa somatosensitiva. La distribuzione delle zone della superficie cutanea, da cui è possibile evocare sistematicamente sensazioni riferite a segmenti corporei amputati, ma percepiti come presenti, è in accordo con la classica nozione che la periferia somatosensitiva è ordinariamente rappresentata in corteccia secondo la regola topografica della disposizione omuncolare.

3.5.7 Il caso di Victor Ramachandran ha parlato diffusamente della sensazione da arto fantasma e delle percezioni doppie sia in “La donna che morì dal ridere”, sia nel più recente “Che cosa sappiamo della mente”. L’autore ha anche raccontato di un esperimento, al quale egli ha sottoposto un suo paziente, Victor, che dieci anni prima aveva subito l’amputazione del braccio sinistro. Il paziente era stato bendato e il medico aveva toccato il suo corpo in vari punti, chiedendo di rac-

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contare quali sensazioni egli provasse. Ramachandran ha raccontato: ”Tutto andò secondo le previsioni, finché non gli sfiorai la guancia sinistra; a quel punto esclamò: ‘Dottore, mi sta toccando il pollice sinistro; era il pollice dell’arto fantasma, e la cosa stupì molto entrambi. Quando gli toccai il labbro superiore, avvertì il tocco all’indice fantasma e quando gli toccai la mascella inferiore sentì qualcosa al mignolo fantasma. In pratica aveva sul volto la mappa completa e sistematica della mano amputata”. Ramachandran ha spiegato questo fenomeno basandosi sugli esperimenti di Penfield, effettuati negli anni Sessanta del Novecento (volti in realtà a studiare la memoria). Penfield era riuscito ad elaborare una mappa della corteccia somato-sensoriale stimolando, attraverso degli elettrodi, la corteccia cerebrale dei pazienti. Egli aveva individuato, attraverso le reazioni dei pazienti che subirono questo trattamento, una fascia di corteccia cerebrale piuttosto sottile, dove si poteva disegnare una mappa del corpo umano, quello che poi venne chiamato “homunculus di Penfield” (nell’area somato-sensoriale della corteccia cerebrale posta dietro alla scissura di Rolando). Certe parti del corpo, se stimolate, attivavano aree specifiche di questa striscia sottile e, viceversa, stimolando certe aree specifiche venivano stimolate le parti del corpo corrispondenti. In questa mappa si possono notare alcune cose curiose. Innanzitutto l’homunculus è riverso: i piedi si trovano al vertice dell’emisfero e il volto, invece, vicino all’estremità inferiore; inoltre, nella mappa non si ritrova una contiguità corrispondente a quella che si riscontra nel corpo umano: la mano, ad esempio, si trova vicina al volto, l’area del volto è situata inferiormente rispetto all’area della mano anziché vicino al collo, e i genitali sono rappresentati sotto i piedi. Ramachandran ha spiegato il fenomeno dell’arto fantasma del suo paziente Victor affermando che le aree corticali della mano, adiacenti a quelle del volto, in seguito all’amputazione della mano, era come se fossero state invase da quelle del volto. La corteccia si era rimappata e, dopo l’amputazione, la corrispondente area corticale non era rimasta inutilizzata, ma era stata utilizzata dall’area adiacente. Victor percepiva nello stesso istante la sensazione di essere toccato sul volto e sulla mano fantasma; dato che il suo corpo era cambiato, il suo cervello si era modificato di conseguenza, con dei processi ancora non chiari, ma, di sicuro, con una corrispondenza non lineare. La mano, nella sua corteccia, c’era ancora, ma condivideva con il volto le percezioni tattili.

3.5.8 I cinque sensi e lo schema corporeo Nonostante vi siano moltissime ricerche che evidenziano differenti correlazioni fra i circuiti ed i meccanismi nervosi nella percezione delle sensazioni somatiche, si sa ancora relativamente poco su come i cinque sensi interagiscano fra loro per costruire o per aggiornare uno schema corporeo. Come suggerito da Botvinick e dai suoi colleghi (1999), l’unica modalità a disposizione per esaminare come i differenti inputs sensoriali siano integrati nel condizionare la consapevolezza del corpo, è costituita dalla modifica dei diversi inputs sensoriali di un unico tipo e dal confronto dell’effetto dell’interazione fra questi e gli input provenienti da diverse modalità sensoriali: questi inputs, insieme, vanno a costituire lo schema del corpo. Ad esempio, in uno studio di Lackner del 1988 effettuato su soggetti sani, l’alterazione anche di un solo input propriocettivo ha distorto la forma, le dimensioni e l’orientamento del corpo percepiti dal soggetto. Per di più, in un loro esperimento del 1988 che ha combinato fra loro stimoli tattili e visivi, Botvinick e Cohen sono riusciti ad evocare in un soggetto sano un’attivazione nervosa corrispondente ad un’erronea attribuzione di una mano di gomma (Botvinick, 1998). Ramachandran e Hirstein hanno descritto un’interazione fra gli input sensoriali di diverso tipo in quei pazienti che riferivano dolore correlato a mano fantasma. Questa interazione è stata rilevata nel momento in cui i pazienti amputati hanno potuto vedere un’immagine della loro mano sana che aveva creato l’illusone visiva della loro mano mancante (illusione della “Mirror Box”). Quando gli amputati hanno prima aperto e poi chiuso la loro mano sana, gli input combinati visivi e sensomotori hanno alleviato il dolore che affliggeva inesorabilmente la loro mano fantasma (Ramachandran e Hirstein, 1998). Queste scoperte dimostrano il potenziale dell’interazione fra input visivi e sensomotori nel cambiare la percezione di PLS o di PLA spontaneo. Al meglio delle nostre conoscenze, non esistono studi sistematici su come gli input visivi e sensomotori interagiscano per cambiare la percezione di PLS e/o PLA evocato rispetto a quello spontaneo, in particolare nel periodo immediatamente successivo all’amputazione di un arto. I dati esistenti sono basati su studi di singoli casi effettuati su pazienti che soffrivano da molto tempo di dolore fantasma e/o che erano stati selezionati sulla base dei sintomi (Ramachandran et al., 1992). Ad ogni modo, la percezione soggettiva di un PLS e di un PLA può modificarsi nel corso del primo anno successivo ad un’amputazione di arto superiore (Jensen et al., 1984; Pascual-Leone et al., 1996).

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3.5.9 Fantasmi congeniti È stato originariamente sostenuto da Simmel che i bambini nati senza un arto non sperimentano il fenomeno dell’arto fantasma; questa affermazione però non corrisponde sempre a verità (Weinstein et al. 1964, Poek 1969, La Croix et al. 1992). Weinstein e colleghi hanno studiato 13 pazienti nati senza un arto, 7 dei quali erano capaci di muovere l’arto fantasma in maniera volontaria e 4 dei quali avevano provato il fenomeno del “telescoping”. Ramachandran e colleghi, nel 1993, hanno descritto il caso di una paziente di 20 anni nata senza braccia; questa paziente riferiva di sentire gli arti fantasma. Ella, bilateralmente, era nata solo con la porzione prossimale dell’omero; non aveva né le ossa delle mani, né il radio, né l’ulna. Nonostante questo, riferiva di avvertire il fenomeno dell’arto fantasma proveniente dai propri arti mancanti; la paziente riferiva che essi addirittura gesticolavano durante la conversazione (Ramachandran, 1993b). E’ improbabile che queste esperienze siano dovute al fenomeno della confabulazione e a pensieri illusori per due ragioni. Per prima cosa lei affermò che le sue braccia erano più corte di 30 cm rispetto a quanto sarebbero dovute essere (lei lo avvertiva poiché la sua mano fantasma non si inseriva nella protesi come una mano nel guanto all’altezza giusta, cosa che lei si sarebbe attesa). Inoltre, le sue braccia fantasma non erano avvertite come se stessero dondolando durante una camminata; lei le avvertiva totalmente rigide. Queste osservazioni hanno suggerito che il fenomeno degli arti fantasma non era originato solo dal desiderio di essere normale. Ramachandran e colleghi hanno ipotizzato che queste sensazioni molto vivide fossero sorte dalla riafferentazione dei segnali derivata dai comandi motori inviati al fantasma durante la gesticolazione. Ad ogni modo, quello che andava sottolineato era che il circuito neurale da cui questi movimenti gesticolatori avevano origine era ben sedimentato ed era rimasto intatto per 20 anni, in assenza di qualsiasi rinforzo visivo diretto o cinestetico dai suoi arti (la vista degli arti altrui potrebbe aver avuto un ruolo importante).

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capitolo 4

L’ARTO FANTASMA DOLOROSO E LA “MIRROR BOX THERAPY”

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4.1 Cenni storici Sulla sindrome dell’arto fantasma doloroso esiste un’ ampia letteratura sia di tipo aneddotico che letterario. Un esempio è rappresentato dal racconto dell’ammiraglio Nelson che, dopo aver perso il suo braccio destro durante la battaglia di Santa Cruz de Tenerife, si lamentava di un imponente dolore alla mano destra “come se le unghie delle dita si conficcassero nel palmo”. Il dolore da arto fantasma gli fece proclamare di avere la “prova diretta” dell’esistenza dell’anima (Riddock, 1941). Se un braccio può sopravvivere ad un annientamento fisico, perché non potrebbe accadere la stessa cosa a tutta la persona? Altri esempi ci giungono dalla sofferenza ad un arto amputato del capitano Achab descritta accuratamente da Herman Melville nel racconto “Moby Dick” del 1851: “una sola gamba ai miei occhi, ma due gambe per il mio animo” era una delle frasi più suggestive, a tal proposito, fra quelle pronunciate da Achab. Altri esempi ci arrivano da molti racconti di Oliver Sacks: ad esempio, nel capitolo “Fantasmi” del suo saggio neurologico “L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello”, Oliver Sacks analizza le molteplici testimonianze di sindromi dell’arto fantasma incontrate nella sua pratica medica; in questo libro l’autore porta diversi esempi, a volte descritti con molte ilarità, di pazienti con un arto amputato che ne continuano a sentire la presenza per molto tempo. Egli ritiene che questa sindrome, a volte molto dolorosa e fastidiosa, possa risultare utile nel caso venga indossata una protesi poiché, per poterla utilizzare correttamente, è necessario che il “fantasma” dell’arto e la protesi stessa si sovrappongano in modo che l’una possa essere utilizzata come surrogato dell’altro. Analizzando cronologicamente il progressivo aumento di conoscenze relative a questo fenomeno è evidente come, già in molte storie di epoca medievale, si possa leggere di persone che, prive di un arto o di parti di esso, in circostanze ritenute straordinarie, sembrava ne percepissero ancora la presenza. E’ necessario però attendere il 1500 per la prima descrizione medica di sintomi riferiti ad una parte del corpo mancante. Nel corso di tale secolo, più precisamente nel 1551, il chirurgo militare francese Ambroise Parè richiamò l’attenzione sullo strano fenomeno riferito da alcuni pazienti che, anche dopo molto tempo dall’amputazione di un arto inferiore, riferivano dolori intensi provenienti dalla parte mancante: “è veramente una cosa meravigliosa, strana e prodigiosa che a mala pena sarà creduta se non è vista con i propri occhi o sentita con le proprie orecchie: i pazienti, dopo mesi che è stata loro amputata la gamba, si lamentano di sentire ancora forti dolori all’arto asportato” (citazione di Keynes, 1952). Sebbene Paré godesse della stima dei contemporanei ed oggi venga considerato un antesignano della chirurgia ortopedica della mano per aver progettato un dispositivo meccanico in grado di sostituire la funzione articolare metacarpo-falangea, la sua descrizione della percezione dell’arto perduto fu ignorata per oltre 300 anni. Solo Cartesio, nel secolo successivo, ne fornì una spiegazione originale, paragonandolo al sistema di cavi e pulegge dei palazzi del tempo, che correndo lungo i soffitti, collegavano ogni stanza della casa con quella della servitù, dove ogni cavo terminava con un campanello corrispondente: in questa maniera i servitori potevano conoscere da quale stanza venivano chiamati. Se si pensa di mettere in tensione uno di tali cavi, non all’origine, ma lungo un punto qualsiasi del percorso, il servitore sarebbe stato ingannato da uno stimolo “fantasma”. Il fenomeno dell’arto fantasma fu riconosciuto successivamente dalla letteratura medica con Rhone (1948) e Guèniot (1861). Nel 1866, sull’Atlantic Monthly, fu pubblicato un racconto dal titolo “Il caso di George Dedlow” in cui il protagonista, che aveva già perso un braccio nella Guerra Civile americana, si risveglia in un ospedale dopo l’amputazione degli arti inferiori, avvenuta a sua insaputa, ed avverte un acuto dolore da crampi alla gamba sinistra. La breve storia non recava alcuna firma, ma presto se ne conobbe la paternità: Silas Weir Mitchell, il più noto neurologo americano di quei tempi. Alcuni storici della medicina hanno ipotizzato che il medico avesse scelto la pubblicazione anonima su un mensile di larga diffusione per saggiare le reazioni dei suoi pari, senza rischiare il suo prestigio, in un’epoca in cui il positivismo imperante nella cultura scientifica aveva indotto nella classe medica uno scetticismo intransigente verso tutti i fenomeni non riconducibili ad una base materiale.

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Come detto nel precedente capitolo, Silas Weir Mitchell, nel 1872, fu il primo ad utilizzare l’espressione “Phantom limb” per descrivere le sensazioni riferite dai mutilati della Guerra Civile; da allora sono stati pubblicati centinaia di studi di casi in cui la percezione soggettiva dei pazienti è stata resa con le due parole introdotte da Mitchell che, nel tempo, hanno perso le virgolette, assumendo dignità di denominazione scientifica. Più recentemente Weinstein (1969) lo ha definito come l’impressione soggettiva della consapevolezza di un segmento corporeo mancante deafferentato, da parte di un paziente senza turbe psichiche o cognitive. I meccanismi che sono alla base dell’arto fantasma e dei fenomeni ad esso correlati sono ancora ipotetici.

4.2 Meccanismi patogenetici Nel corso degli anni sono stati proposti parecchi meccanismi per spiegare l’origine del dolore da arto fantasma: Meccanismi periferici: c’è una perdita dell’attività o un’anormale attività dei nervi periferici; il dolore, secondo questa teoria, sarebbe quindi causato dall’ alterata sensibilità del nervo che termina sul moncone. Sarebbero dunque dei fattori irritanti periferici ad innescare il dolore; infatti, nel dolore dell’arto fantasma, la pressione su punti sensibili del moncone provoca un aumento di dolore di tipo acuto. Meccanismi segmentari spinali: in conseguenza della deafferentazione. Il dolore da deafferentazione è un dolore che insorge successivamente all’interruzione degli impulsi afferenti al midollo spinale. Dopo un’amputazione, in seguito alla lesione del primo neurone, le cellule delle corna dorsali rimangono completamente deafferentate così che si verifica uno squilibrio dei meccanismi di controllo sull’ingresso e insorge uno stato di ipereccitabilità che dà origine a impulsi (“firing”) spontanei. Successivamente all’amputazione si formano nuove connessioni formate dalle fibre afferenti ad alta soglia. L’arto fantasma è una conseguenza naturale della deafferentazione e, a volte, può essere causa di grossi problemi terapeutici; l’arto amputato, infatti, può diventare il sito di un dolore intenso e, in questo caso, ciò costituisce un grave ostacolo alla riabilitazione del paziente. Meccanismi centrali: alterazioni intratalamiche corticocerebrali. La spiegazione delle teorie centrali è legata alla Gate Control Theory di Melzack e Wall; il sistema reticolare di attivazione esercita una influenza inibitoria sul sistema di proiezione somatosensoriale. Meccanismi psicologici: si presuppone che i processi mentali possano condurre alla comparsa dei sintomi. Questa teoria si basa, innanzitutto, sulla presenza, alla base dell’arto fantasma, di fattori emotivi come ansia e depressione. Spesso l’esordio di questo tipo di dolore è accompagnato infatti dalla comparsa di disturbi di carattere emotivo. Questa ipotesi prende valore nel momento in cui falliscono le teorie somatiche e vengono riscontrati nel paziente questi sintomi di origine psicologica. Appare più corretto, comunque, collocare i fattori psicologici fra quelli di accompagnamento e di mantenimento della sindrome dolorosa, piuttosto che come causa unica.

4.3 Epidemiologia e caratteristiche del dolore da arto fantasma Il dolore da arto fantasma è un dolore cronico percepito nella parte mancante del corpo e ha un’incidenza che varia, a seconda degli studi, dal 2 al 97%. Questo particolare dolore è rarissimo nei bambini e diventa sempre più frequente man mano che aumenta l’età del paziente. Un recentissimo studio tedesco dell’Ottobre 2009 effettuato da Kern e collaboratori ha analizzato le esperienze di

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dolore fantasma e di sensazione fantasma su 537 pazienti amputati. Queste persone hanno compilato un questionario composto da 62 domande. Fra gli intervistati, il 14,8% aveva un moncone libero da dolore, il 74,5 % aveva avuto esperienza di dolore da arto fantasma, il 45,2% soffriva di dolore al moncone ed il 35,5% di una combinazione di entrambi. Il 62,4 % degli amputati ha riferito disturbi del sonno e questa percentuale si alzava fino al 77,3% in quei pazienti che soffrivano di dolore da arto fantasma; il 66,8% dei pazienti con dolore fantasma era costretto a svegliarsi numerose volte durante la notte. Le caratteristiche prevalenti del dolore fantasma erano: sensazioni di bruciore (13,6%), crampi (15,3%), sensazioni pungenti (23,4%), scosse elettriche (21%) e formicolio (20,4%). Le sensazioni fantasma erano avvertite dal 73,4% degli intervistati: nel 66,8% dei casi il fantasma era mobile, nel 64% aveva una temperatura normale, nel 19,5% era caldo, nel 16,5% era freddo, nel 35,9% non era coperto da vestiti mentre nel 13,6% era coperto, nel 31,7% dei casi non era una sensazione sgradevole, nel 29,6% era stretto, nel 7,5% era contorto e nel 5,8% era gonfio. Fra i pazienti con dolore fantasma, il 35,7% ha descritto la posizione del fantasma come ventrale e il 26,7% come dorsale. Da questo studio sono emersi 2 dati significativi: - il dolore fantasma è correlato alla presenza di sensazione fantasma piuttosto che alla sua assenza (p 6 mesi  6 mesi < > 1 anno  > 1 anno

Le seguenti domande riguardano le SENSAZIONI DA ARTO FANTASMA. Le sensazioni dell’arto fantasma sono tutte le sensazioni non dolorose nella parte amputata dell’arto. Esempi sono: percezione dell’arto in una determinata posizione, sensazioni tattili, di caldo/freddo, di movimento.

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9) Con che frequenza avverti le sensazioni dell’arto fantasma? (se non ne hai esperienza passa alla domanda 12)

 Mai  Qualche volta all’anno  Qualche volta al mese  Qualche volta alla settimana  Qualche volta al giorno  Qualche volta all’ora  Sempre

10) Quali sensazioni sperimenti? Puoi indicare più opzioni. Sensazioni di:

 Prurito  Movimento  Forma anomala  Posizione anomala  Tocco  Caldo  Freddo  Scarica elettrica  Altro ……………………

11) Quanto sei in genere infastidito dalle sensazioni?

 Moltissimo  Molto  Abbastanza  Poco  Per nulla

Le seguenti domande riguardano il DOLORE DA ARTO FANTASMA. Si tratta di ognuna delle sopradescritte sensazioni oppure di altre sensazioni molto intense, al punto di essere dolorose, nella parte amputata dell’arto.

12) Con che frequenza avverti il dolore dell’arto fantasma? (se non ne hai esperienza passa alla domanda 17)

 Mai  Qualche volta all’anno  Qualche volta al mese  Qualche volta alla settimana  Qualche volta al giorno  Qualche volta all’ora  Sempre

13) Quanto soffri generalmente per questo dolore?

 Moltissimo  Molto  Abbastanza  Poco  Per nulla

14) Sei stato trattato per il tuo dolore?

 No  Sì ……………………….. ………………………..

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 No  Sì Se sì quale trattamento: ……………………..

15) Il trattamento per il dolore è stato efficace?

 Nulla  Antidolorifici  Sonniferi  Alcolici

16) Quali farmaci assumi quando provi dolore? Puoi indicarne più di uno

 Altro ……………………….. Le seguenti domande riguardano il DOLORE DEL MONCONE DI AMPUTAZIONE. Il dolore del moncone è ogni sensazione dolorosa del moncone.

17) Con che frequenza avverti il dolore dell’arto fantasma?

 Mai  Qualche volta all’anno  Qualche volta al mese  Qualche volta alla settimana  Qualche volta al giorno  Qualche volta all’ora  Sempre

18) Quanto soffri generalmente per questo dolore?

 Moltissimo  Molto  Abbastanza  Poco  Per nulla

19) Sei stato trattato per il tuo dolore?

 No  Sì …………………………

20) Il trattamento per il dolore è stato efficace?

 No  Sì Se sì quale trattamento: …………………….……….

21) C’è qualche punto del tuo moncone che, quando toccato, induce dolore del moncone o dell’arto fantasma?

 No  Sì

22) Quali farmaci assumi quando provi dolore? Puoi indicarne più di uno

 Nulla  Antidolorifici  Sonniferi  Alcolici  Altro …………………..………..

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5.2.2 Il Brief Pain Inventory

BRIEF PAIN INVENTORY (BPI) 1) Valuta il tuo dolore facendo un cerchio intorno al numero che meglio descrive l’intensità del tuo PEGGIORE dolore 0

1

2

3

4

5

6

7

8

9

10

2) Valuta il tuo dolore facendo un cerchio intorno al numero che meglio descrive l’intensità del tuo dolore PIU’ LIEVE 0

1

2

3

4

5

6

7

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9

10

3) Valuta il tuo dolore facendo un cerchio intorno al numero che meglio descrive l’intensità del tuo dolore MEDIO 0

1

2

3

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5

6

7

8

9

10

4) Valuta il tuo dolore facendo un cerchio intorno al numero che meglio descrive l’intensità del tuo dolore IN QUESTO MOMENTO 0

1

2

3

4

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6

7

8

9

10

5) Che terapie o medicine stai ricevendo per il tuo dolore? ________________________________________ 6) Nelle ultime 24 ore quanto sollievo hai ricevuto dalle terapie o dalle medicine? Fai un cerchio intorno alla percentuale che meglio descrive quanto sollievo dal dolore hai avuto: 0%

10%

20%

30%

40%

50%

60%

70%

80%

90%

100%

Segna il numero che meglio descrive quanto il dolore ha interferito con la tua vita nell’ultima settimana: 7) La tua attività generale: 0 1

2

3

4

5

6

7

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9

10

8) Il tuo umore: 0

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3

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3

4

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7

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9

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10) La tua normale attività lavorativa (sia in casa che fuori): 0 1 2 3 4 5

6

7

8

9

10

11) La relazione con gli altri: 0 1 2

1

9) La tua capacità di camminare: 0 1 2

3

4

5

6

7

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10

12) Il sonno: 0

1

2

3

4

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13) La gioia di vivere: 0 1

2

3

4

5

6

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8

9

10

I pazienti devono cercare di rispondere a ciascuna domanda del BPI tenendo presente che: - per le domande dalla 1 alla 4, il valore 0 equivale a “nessun dolore” mentre il valore 10 corrisponde a “il peggior dolore che si possa immaginare”; - per la domanda 5, il valore 0% equivale a “nessun sollievo” mentre il valore 10 corrisponde a “ha interferito completamente”;

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- per le domande dalla 7 alla 13, il valore 0 equivale a “non ha interferito completamente” mentre il valore 10 corrisponde a “ha interferito completamente”; Il punteggio ottenuto col BPI, sommando i singoli valori delle domande dalla 1 alla 4 e dalla 7 alla 13, permette di dare un giudizio sintetico riguardo al dolore avvertito dal paziente durante l’ultima settimana: sommando i valori delle singole risposte il punteggio minore ottenibile è 0 mentre il maggiore è 110.

5.3 La “Mirror Box Therapy” nel nostro protocollo sperimentale I pazienti sono stati sottoposti alle sedute di “Mirror Box Therapy” per l’arto inferiore presso la palestra del Reparto di Fisioterapia del Centro Protesi INAIL di Vigorso. La “Mirror Box” consiste, per l’appunto, in una grande scatola (150 X 50 X 50 cm) a forma di parallelepipedo concavo, con 2 aperture: la prima apertura permette al paziente di inserire il moncone di amputazione di arto inferiore all’interno della “scatola”; la seconda, contrapposta alla prima, permette all’operatore di osservare i movimenti del moncone durante l’esecuzione degli esercizi. Esternamente, su una delle 4 pareti del parallelepipedo, è applicato uno specchio, delle stesse dimensioni della parete (150x50 cm), così da permettere al paziente, durante la terapia, di vedere, oltre all’arto sano, anche il suo riflesso nello specchio. La scatola, con lo specchio rivolto verso l’interno, va appoggiata sopra un lettino della palestra. In un momento successivo si chiede al paziente di togliere la protesi, di sedersi sopra al lettino, di sistemarsi, con l’aiuto di cuscini, nella posizione più comoda possibile e di posizionare il moncone di amputazione all’interno della scatola. Il paziente deve collocare l’arto sano esternamente alla scatola e, prima di cominciare il trattamento, deve accertarsi di avere nel campo visivo sia l’arto sano che il suo riflesso nello specchio: perché questo possa avvenire, oltre a modificare l’orientamento spaziale dello specchio, occorre utilizzare due piccoli tasselli di legno che permettono di sollevare il lato mediale della scatola di qualche centimetro. L’imboccatura della scatola in cui è inserito il moncone è coperta con un lenzuolo, così da impedire al paziente la vista del moncone stesso durante la terapia: è infatti importante che il paziente abbia nel proprio campo visivo soltanto l’arto sano ed il suo riflesso nello specchio (non il moncone). L’operatore si sistema, rispetto alla “Mirror Box”, dal lato opposto del paziente e, da questa posizione, può osservare sia i movimenti dell’arto sano all’esterno della scatola, sia quelli del moncone all’interno della stessa. Ogni seduta di “Mirror Box Therapy” dura dai 15 ai 20 minuti e, in questo lasso di tempo, il paziente deve sempre guardare lo specchio e deve pensare di svolgere gli esercizi non solo con l’arto sano, ma anche con l’arto amputato: il non vedere il moncone ed il vedere il riflesso dell’arto sano nello specchio dà al paziente l’illusione di “avere” ancora entrambi gli arti inferiori. L’operatore invita il paziente a compiere una serie di esercizi prestabiliti. Gli esercizi sono gli stessi per tutti gli amputati di arto inferiore, indifferentemente dal livello di amputazione. Per ogni esercizio, il paziente deve cercare di eseguire almeno 10 ripetizioni. Esercizi con la “Mirror Box” per i pazienti amputati di arto inferiore (tutti gli esercizi cominciano con il paziente seduto sul letto, con il ginocchio dell’arto sano esteso e la tibio-tarsica flessa di 90°): Flesso-estensione della tibio-tarsica con ginocchio esteso; Flesso-estensione del ginocchio, cercando di mantenere leggermente sollevato il piede dal piano del letto;

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Con il tallone appoggiato sul piano del letto, movimenti di circonduzione del piede, in modo da descrivere due cerchi, uno in senso orario e uno in senso anti-orario; Flesso-estensione dell’anca a ginocchio esteso; l’esercizio dovrebbe essere svolto senza che vi sia mai contatto fra il tallone e il piano del letto; Flesso-abduzione dell’anca e flessione del ginocchio di modo da portare la pianta del piede a fronteggiare il suo riflesso nello specchio (senza che vi sia contatto fra piede e specchio); anche in questo caso, quando il paziente adduce l’anca ed estende il ginocchio, dovrebbe evitare di toccare il piano del letto col tallone; Con il tallone appoggiato al piano del letto, divaricazione “a ventaglio” delle dita del piede; Con il tallone appoggiato al piano del letto, flesso-estensione dell’alluce sia a livello dell’articolazione metatarsofalangea che a livello dell’interfalangea; Con il tallone appoggiato al piano del letto, flesso-estensione di tutte le dita del piede. Il paziente si impegna nell’esecuzione di ogni serie di esercizi. L’operatore gli ricorda che, fra una serie di esercizi e la successiva, ha a disposizione tutto il riposo che ritiene necessario. Al termine della serie, l’operatore richiede al paziente quale esercizio gli abbia dato maggiormente l’illusione di “avere” ancora entrambi gli arti e lo invita a ripetere una seconda serie di 10 ripetizioni solo di quell’esercizio.

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capitolo 6

TERAPIE CLASSICHE PER IL DOLORE DA ARTO FANTASMA

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6.1 Terapia per la sindrome da arto fantasma doloroso Nella storia, i tentativi, sia medici che non, di alleviare la sintomatologia causata da un arto fantasma doloroso sono stati innumerevoli. Mancano però dati soddisfacenti riguardo all’efficacia di ciascun tipo di terapia utilizzata. Sebbene questi tentativi si siano basati su solide esperienze cliniche o evidenze sperimentali, nessun tipo di terapia da solo ha riscosso successo.

Terapia medica - Analgesici: sia non narcotici (farmaci utilizzati per ogni tipo di dolore cronico) che narcotici; - Anestesia locale; - Anestesia regionale; - Anticonvulsivanti: la carbamazepina e il gabapentin si sono rivelati quelli con la maggior efficacia; - Antidepressivi: il più utilizzato è un antidepressivo triciclico, l’amitriptilina; - Sedativi-ipnotici; - Beta-bloccanti;

Terapia fisica - Agopuntura; - Percussione del moncone: ripetuta percussione del moncone con un martelletto (1947 Russell); - Desensibilizzazione del moncone; - Stimolazione elettrica del moncone; - Applicazione o adattamento della protesi; - Applicazione del caldo o del freddo al moncone; - Massaggio del moncone; - Vibrazione del moncone.

Terapia psicologica - Spiegazione e rassicurazione: istruire il paziente sul significato dei suoi sintomi; - Ipnosi; - Psicoterapia: in quanto esiste un legame tra depressione e dolore cronico; - Terapia del comportamento; - Psicoterapia di gruppo; - Training di rilassamento;

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- Orientamento professionale; - Biofeedback (tecniche che insegnano al paziente e lo istruiscono a prendere coscienza e a riconoscere i segnali fisiologici del suo corpo).

Terapia chirurgica - Rizotomia dorsale; - Lesioni indotte nella zona di ingresso delle radici dorsali; - Cordotomia dorsale; - Cordotomia anterolaterale; - Simpaticectomia; - Talamotomia; - Cordicectomia; - Stimolazione elettrica del nervo periferico; - Stimolazione elettrica del midollo spinale; - Stimolazione elettrica del cervello.

Per poter ottenere i migliori risultati è indispensabile un trattamento multidisciplinare integrato gestito dai medici, dagli psicologi, dal personale infermieristico e dai fisioterapisti. In alcuni casi si rende necessario programmare una riabilitazione intensiva che può richiedere un ricovero in Centri Specializzati (Centri di terapia del Dolore) con programmi di 8 ore al giorno per 5 giorni la settimana, per 3-4 settimane. Una aperta conversazione con il paziente sul tipo di terapia e sugli obiettivi da raggiungere è essenziale prima di intraprendere il trattamento. Presso il Centro Protesi INAIL di Vigorso viene effettuata una valutazione multidisciplinare del paziente ad opera del personale medico (ortopedico, algologo, fisiatra ed internista), dello psicologo, degli infermieri e dei fisioterapisti. Nel momento in cui ci confrontiamo con un paziente con sindrome da arto fantasma doloroso è necessario fare molta attenzione a ciò che ci viene riferito, all’eziologia dell’ amputazione, alle patologie concomitanti, all’eventuale contemporanea presenza di dolore del moncone, alla frequenza e all’intensità con cui si presenta l’arto fantasma e alle condizioni e al vissuto psicologico del paziente.

6.2 Terapie fisiche consigliate per la Sindrome da arto fantasma doloroso Le terapie fisiche consigliate per la Sindrome dell’arto fantasma doloroso sono: - Laserterapia; - T.E.N.S.; - Massaggi di scollamento della cicatrice;

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- Magnetoterapia; - Percussioni sull’invaso; - Tecarterapia. Quelle non consigliate sono: - Ultrasuoni; - Massoterapia; - Correnti galvaniche; - Termoterapia.

6.3 Tecarterapia VS T.E.N.S. Come riportato in uno studio effettuato nel 2006, presso il Centro Protesi INAIL di Vigorso di Budrio, da Orlandini D., Cavallari G. e Amoresano A., per trattare un arto fantasma doloroso, le terapie fisiche maggiormente utilizzate sono le terapie elettriche e la laserterapia, oltre, ovviamente, all’eventuale massaggio di scollamento delle cicatrici all’apice del moncone; nell’ambito delle terapie elettriche, sicuramente, la più usata è la T.E.N.S. (Transcutaneus Electrical Nerve Stimulation). Questo per 4 motivi fondamentali: - L’effetto analgesico immediato (teoria del Gate Control, con azione a livello midollare nella sostanza gelatinosa di Rolando, ove si avrebbe un blocco della trasmissione del dolore dalla periferia al Sistema Nervoso Centrale; teoria delle endorfine, secondo la quale un debole stimolo nocicettivo, quale la corrente elettrica impiegata, provocherebbe localmente il rilascio di endorfine con conseguente analgesia); - L’assenza di effetti collaterali riscontrati, soprattutto a livello cutaneo all’apice del moncone; - La maneggevolezza degli apparecchi usati che consentono l’utilizzo domiciliare e/o applicazioni prolungate; - Il costo accettabile delle sedute e degli apparecchi portatili, ormai accessibili praticamente a tutti. Gli elettrodi vengono applicati sui punti “trigger” (il negativo sulle zone più dolenti e il positivo ad una distanza inferiore a 3 centimetri da esso nella target area) e l’intensità degli impulsi viene regolata in base alla sensibilità del paziente (formicolio). Oltre a questo tipo di terapia, viene molto utilizzata anche la Tecarterapia a Trasferimento Energetico per contatto Capacitivo e Resistivo; questa terapia fisica si basa sul trasferimento energetico tramite onda elettromagnetica sfruttando il contatto capacitivo e resistivo. Questa apparecchiatura, che genera onde radio a bassa frequenza (0,5 Mhz), utilizza il principio del condensatore per attrarre o respingere alternativamente delle cariche elettriche all’interno del tessuto biologico contrapposto all’elettrodo stesso; in tal modo, grazie al principio di funzionamento, richiamando energia dall’interno delle biostrutture, vengono eliminati disidratazione e surriscaldamento dei tessuti e possono essere trattati pazienti con artroprotesi od osteoporosi con effetti biologici (microiperemia ed ipertermia endogena) sia a livello dei tessuti molli che dei tessuti osteoarticolari. Anche nella Tecarterapia l’intensità delle applicazioni è correlata alla sensibilità del paziente che avverte una sensazione di calore nei tessuti sottostanti l’elettrodo; i due tipi di elettrodi possono essere utilizzati in sequenza anche all’interno della stessa seduta: Elettrodo capacitivo, isolato: le cariche si addensano in prossimità dell’elettrodo che deve essere sempre tenuto in movimento (tessuti molli sottostanti);

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Elettrodo resistivo, non isolato: in questo caso le cariche si addensano tra l’elettrodo e il controelettrodo localizzandosi nei tessuti biologici più resistivi (tendini, articolazioni e tessuto osseo). L’innovazione di questa terapia è rappresentata dal fatto che non viene utilizzato un campo magnetico per creare un generatore di corrente secondario all’interno dei tessuti, bensì, utilizzando il principio del condensatore, si crea un movimento di cariche elettriche all’interno del tessuto biologico stesso (corrente capacitiva di spostamento) con la possibilità di trattare tutti i piani del tessuto biologico, tanto in superficie che in profondità, agendo in modo sensitivo sia sui tessuti molli che sul tessuto osteoarticolare. Questo trasferimento energetico per contatto capacitivo e resistivo nei tessuti biologici, a seconda della potenza erogata, ha diversi effetti: - Effetto a basso livello (atermico): con potenza erogata ai minimi livelli si ha biostimolazione per aumento delle trasformazioni energetiche endocellulari (ADP in ATP) con incremento del consumo di ossigeno per aumento dei processi proliferativi. - Effetti a medio livello (moderatamente termico): oltre agli effetti precedenti, ci saranno microiperemia capillare e precapillare indotta dalla richiesta di ossigeno da parte dei tessuti. - Effetti ad alto livello (francamente termico): nelle zone trattate, oltre all’azione di biostimolazione a livello cellulare, si aggiunge iperafflusso ematico, vasodilatazione e aumento del drenaggio linfatico. Usando l’elettrodo resistivo si è in grado di ottenere gli stessi effetti a livello del tessuto osseo, con un coinvolgimento tridimensionale del segmento trattato. In questo studio del 2006 sono stati messi a confronto i risultati ottenuti su 20 pazienti amputati di arto inferiore con arto fantasma doloroso trattati con T.E.N.S. rispetto a quelli ottenuti su 20 pazienti, con gli stessi sintomi, trattati con Tecarterapia: entrambi i gruppi di pazienti, nella maggior parte dei casi, hanno ottenuto un notevole miglioramento dalla terapia fisica effettuata; il gruppo trattato con Tecarterapia ha avuto una discreta riduzione del dolore soggettivo, in alcuni casi la scomparsa. In particolare, nel gruppo trattato con T.E.N.S. si partiva da un VAS medio di 8,15 e al termine del ciclo si è ottenuta una media di VAS pari a 3,305; per contro, nel gruppo trattato con la Tecar si è partiti da un VAS medio di 8,365 prima della terapia per arrivare ad un VAS medio finale pari a 2,255. A seguito di colloqui con i pazienti è inoltre emerso che, mentre con la Tecarterapia i miglioramenti sono stati evidenti sin dalle prime sedute (in alcuni casi dalla prima), con la T.E.N.S. sono iniziati dalla quinta alla settima seduta. In conclusione, tenendo comunque conto del numero limitato di pazienti trattati in questo studio, l’utilizzo della Tecarterapia ha dimostrato, rispetto alla T.E.N.S., un’azione terapeutica analgesica più rilevante e immediata nel trattamento a breve termine del dolore da arto fantasma. Questi dati sono molto importanti poiché nel training di addestramento all’utilizzo della protesi è molto importante ottenere rapidamente un’attenuazione del dolore che consentirà al paziente, migliorando la cenestesi generale, di concentrare le sue energie sugli aspetti puramente riabilitativi legati all’addestramento protesico.

6.4 Terapia medica per la Sindrome dell’arto fantasma doloroso Presso il Centro Protesi INAIL di Vigorso, la terapia medica consigliata per la Sindrome dell’arto fantasma doloroso è una terapia algologia che utilizza dei cicli di gabapentin (neurontin) a dosi progressive, fino a 2400 mg al giorno, per almeno tre mesi. Spesso vengono associati degli analgesici. L’obiettivo di questa terapia è la riduzione della sintomatologia dolorosa, anche in assenza di una sua completa eradicazione. Altri studi sulla terapia della sindrome da arto fantasma doloroso. Come detto, per alleviare il dolore da arto fantasma sono stati presi in considerazione vari tipi di trattamento di tipo

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medico e chirurgico (questi poi quasi definitivamente abbandonati perché troppo invasivi), di vario grado di efficacia (Manchikanti, 2004). Una metanalisi recente (Halbert, 2002) ha indagato 12 trial che indagavano il trattamento epidurale, il blocco nervoso regionale, l’uso della calcitonina e l’uso della T.E.N.S,. I risultati sono stati deludenti in ben 9 studi, tanto da far affermare agli autori della metanalisi che non esiste una linea guida per il trattamento. Secondo uno studio di Smith del 2005, hanno dimostrato qualche efficacia nell’alleviare questo tipo di dolore gli antidepressivi triciclici e gli anticonvulsivanti carbamazepina e, più recentemente, gabapentin, alla dose di 900-2400 mg/dì (Smith, 2005) e gli oppiacei, mentre le benzodiazepine sono di dubbia utilità.

66

capitolo 7

I RISULTATI DELLO STUDIO

67

7.1 Introduzione ai risultati Da quando Ramachandran e i suoi collaboratori hanno intuito la possibilità di inserire la “Mirror Box Therapy” nel trattamento della sindrome da arto fantasma doloroso del paziente amputato, sono stati effettuati numerosi studi utilizzando questa tecnica riabilitativa e valutando, caso per caso, i miglioramenti soggettivi riferiti dai pazienti; in letteratura, la maggior parte di questi studi riguardano pazienti che hanno subito un’amputazione di arto superiore, a vari livelli. Per quanto riguarda i 24 pazienti trattati con la “Mirror Box Therapy” presso il Centro Protesi INAIL di Vigorso abbiamo cercato di applicare un protocollo riabilitativo, uguale per tutti, ai nostri pazienti amputati di arto inferiore, anch’essi a vari livelli, che riferivano di soffrire di arto fantasma doloroso. Grazie al Groningen Questionnaire Problems after Amputation abbiamo potuto selezionare i pazienti da trattare con questa tecnica. Successivamente, attraverso un’analisi statistica comparativa dei dati ottenuti col Brief Pain Inventory, abbiamo fatto un confronto fra i punteggi ottenuti dai pazienti prima e dopo il trattamento. I risultati hanno confermato le ipotesi sperimentali, ossia una riduzione significativa della sintomatologia dolorosa in seguito all’applicazione del trattamento in questione. Dei 24 pazienti trattati con questa tecnica innovativa, abbiamo preso in considerazione i dati dei 12 pazienti che si sono sottoposti ad almeno 8 sedute di “Mirror Box Therapy”. Paziente

N° di sedute

#1

20

#2

13

#3

8

#4

10

#5

8

#6

15

#7

16

#8

11

#9

13

#10

11

#11

8

#12

15

Media

12,34

In media, i pazienti sono stati sottoposti a 12,34 sedute (range 8-20). L’eziologia che ha portato all’amputazione dei 12 pazienti presi in considerazione per lo studio era: - Esiti di incidente sul lavoro, in 6 casi (4 amputazioni a sinistra e 2 a destra); - Esiti di incidente motociclistico, in 2 casi (2 amputazioni a destra); - Arteriopatia ostruttiva di arto inferiore, in 2 casi (2 amputazioni a sinistra); - Condrosarcoma, in 1 caso (a sinistra); - Osteomielite, in 1 caso (a sinistra). Analizzando più nello specifico la causa che ha portato all’amputazione dei 6 pazienti infortunatisi in ambiente

68

lavorativo, 4 di loro sono stati vittima di un trauma da schiacciamento, 1 ha subito un trauma da taglio e uno è stato investito dalle ruote di un camion. Entrambi i pazienti, vittime di incidente motociclistico, hanno subito un trauma da taglio dell’arto inferiore.

Incidente sul lavoro AOCP Osteomielite

Incidente motociclistico Condrosarcoma

L’amputazione di arto inferiore è stata effettuata a vari livelli: - Amputazione transfemorale in 9 casi; - Amputazione transtibiale in 1 caso; - Disarticolazione d’anca in 1 caso; - Emipelvectomia in 1 caso.

7.2 Analisi del Groningen Questionnaire Problems after Amputation Questo questionario è strutturato in modo da poter analizzare separatamente se il paziente ha vissuto un’esperienza di dolore prima dell’amputazione, se avverte la sensazione di arto fantasma, se soffre per il dolore da arto fantasma e se lamenta dolore a livello del moncone. Paziente

Esperienza di dolore pre-amputazione

#1

NO

#2

NO

#3 #4 #5 #6 #7 #8 #9 #10 #11

SI NO NO SI SI SI NO SI NO

#12

NO

Durata

Fra 6 mesi e 1 anno Più di 1 anno Fra 1 e 4 settimane Fra 1 mese e 6 mesi Fra 1 e 4 settimane

69

5 pazienti su 12 hanno vissuto un periodo, più o meno lungo, di dolore pre-amputazione. La durata di questo periodo è stata: - per 2 pazienti, fra 1 e 4 settimane; - per 1 paziente, fra 1 mese e 6 mesi; - per 1 paziente, fra 6 mesi e 1 anno; - per 1 paziente, maggiore di 1 anno. L’importanza di questo dato è stata sottolineata da Jensen e dai suoi collaboratori nel 1985: essi, infatti, hanno affermato che, per lo sviluppo della sindrome da arto fantasma dolorosa, è fortemente predittivo un periodo di dolore pre-amputativo della durata di almeno un mese. In accordo con questo studio, questi 5 pazienti, dopo l’esperienza di dolore pre-amputativa, hanno sviluppato un arto fantasma doloroso. Questa condizione di dolore non è però sufficiente e necessaria per lo sviluppo della sindrome, infatti, anche i pazienti della nostra casistica che non l’hanno vissuta, hanno sviluppato, dopo l’amputazione, questo tipo di sintomatologia dolorosa.

7.3 Sensazione da arto fantasma #

Prurito

Mov.

Forma anomala

Posiz. anomala

Freddo

Caldo

Scarica elettrica

Pulsaz.

#1 #2 #3 #4 #5 #6 #7 #8 #9 #10 #11 #12

10 9 8 7 6 5 4 3 2 1 0

Prurito Movim. F.An. P.An. Freddo Caldo Sc. Elettr. Pulsaz. Formic. Prurito

Mov im.

F.An.

P.An.

Freddo

Caldo

70

Sc. Elettr.

Pulsaz. Formic.

Formicolio

Paziente #1 #2 #3 #4 #5 #6 #7

Frequenza

Fastidio

Sempre Sempre Qualche volta alla settim. Mai Sempre Qualche volta al giorno Qualche volta all’ora

Molto Moltissimo Abbastanza / Poco Molto Molto

#8

Sempre

Abbastanza

#9 #10 #11 #12

Qualche volta al giorno Sempre Sempre Qualche volta all’ora

Poco Moltissimo Poco Abbastanza

Dopo un’amputazione di un distretto corporeo, la sensazione da arto fantasma, anche in assenza di dolore può peggiorare la qualità di vita del paziente amputato. Dei nostri 12 pazienti, 11 hanno affermato di avvertire questa sensazione che, in 5 casi, interferiva significativamente con le attività della quotidiana. Alla domanda “Quanto sei in genere infastidito da questa sensazione?”, questi 5 pazienti hanno risposto o “Molto” (3 pazienti) o, addirittura, “Moltissimo” (2 pazienti). Solo il paziente #4, amputato in seguito ad un incidente motociclistico (e quindi senza dolore pre-amputazione), ha affermato di non avvertire mai questa sensazione; egli ha affermato di soffrire, 2 o 3 volte al mese, di dolore da arto fantasma che trattava farmacologicamente, con scarsi risultati, al bisogno con 1000 mg di paracetamolo. Nei 12 pazienti, in accordo con la letteratura, l’arto fantasma si presentava in diversi modi: la sensazione di scarica elettrica (nell’83,3 % dei casi), il prurito (nel 58,3% dei casi) e la posizione anomala (nel 33,3% dei casi) erano le sensazioni esperite con più frequenza da questi pazienti. Tutti e 7 i pazienti che hanno riferito una sensazione di prurito hanno anche affermato di sentire sensazioni di scarica elettrica all’arto fantasma. Ciò non è sempre biunivoco infatti 3 pazienti (il #2, il #5 e il #12) hanno avuto esperienze di scariche elettriche ma mai di prurito.

7.4 Dolore da arto fantasma Paziente

Frequenza

Fastidio

#1

Sempre

Molto

#2 #3 #4 #5 #6 #7 #8 #9 #10

Qualche volta al giorno Qualche volta alla settimana Qualche volta al mese Qualche volta al giorno Qualche volta al giorno Qualche volta all’anno Qualche volta alla settimana Qualche volta al mese Qualche volta al giorno

Moltissimo Abbastanza Molto Abbastanza Molto Moltissimo Moltissimo Molto Moltissimo

#11

Qualche volta al giorno

Moltissimo

#12

Qualche volta all’ora

Abbastanza

71

Sempre Qualche volta all'ora Qualche volta al giorno Qualche volta alla settimana Qualche volta al mese Qualche volta all'anno

Per quanto riguarda il dolore da arto fantasma, la frequenza era molto variabile da paziente a paziente. Nella maggior parte dei casi, i pazienti lo avvertivano “Qualche volta al giorno” ma il paziente #1 ha sostenuto di sentirlo “Sempre” mentre il paziente #7 ha riferito di avvertirlo soltanto “Qualche volta all’anno”. Ciò su cui tutti i pazienti erano concordi, era che, durante gli attacchi di dolore da arto fantasma, il fastidio era notevole: 5 pazienti hanno riferito di sentirlo “Moltissimo”, 4 “Molto” e 3 “Abbastanza”.

Paziente

Sei stato trattato per il dolore?

Quale trattamento?

#1

SI

Paracetamolo al bisogno

#2

SI

Paracetamolo, sonniferi, tecarterapia e laserterapia

#3

SI

Gabapentin 400 mg, 3 v/die

#4

SI

Paracetamolo al bisogno

#5

SI

Gabapentin, 400 mg, 2 v/die

#6

NO

/

#7

SI

Diclofenac al bisogno

#8 #9 #10 #11

SI SI SI SI

Gabapentin Tecarterapia Ibuprofene, acido lipoico, gabapentin Gabapentin 400 mg, 2 v/die

#12

NO

/

L’83,3 % dei pazienti, in passato, era stato trattato per il dolore con arto fantasma, ma nella maggior parte dei casi, essi hanno riferito l’inefficacia a lungo termine della terapia (sia di quella fisica che di quella farmacologica). Facendo un’analisi caso per caso di questi pazienti, abbiamo potuto notare come, durante il trattamento con “Mirror Box Therapy”, tutti i pazienti che effettuavano una terapia farmacologica al bisogno per l’arto fantasma doloroso (i pazienti #1, #4 e #7), non hanno mai avuto la necessità di assumere questo tipo di farmaci nel periodo del trattamento. Il paziente #5 e il paziente #11, amputati entrambi da meno di un anno quando hanno iniziato la terapia, su nostro consiglio, hanno iniziato gradualemente a ridurre la terapia con Gabapentin e hanno introdotto in terapia il Palmitoil-etanolamide (farmaco indicato nella sofferenza del nervo periferico e nell’edema perineurale). Questa modifica della terapia è avvenuta senza che si verificassero, durante la degenza al Centro Protesi, crisi sostenute dal dolore da arto fantasma.

72

7.5 Risultati del Brief Pain Inventory

Brief Pain Inventory 80 70 60 50

Dolore 40

Pre

30

Post

20 10 0

F.A. B.G. C.P. C.C. G.E. B.M. C.P.

P.S . C.A. L.A. B.M. D.R.

Pazienti Paziente

Pre

Post

#1

50

40

#2

29

62

#3

43

37

#4 #5 #6

15 17 59

9 2 20

#7 #8 #9 #10 #11 #12 Media Dev. Standard

48 63 57 72 44 69 47,17 18,8

6 29 4 45 26 62 28,5 21,3

Il protocollo BPI ha evidenziato nel follow-up post-trattamento un decremento del punteggio, e quindi una diminuzione della sindrome dolorosa da arto fantasma, in 11 dei 12 pazienti esaminati. Solo in un caso (il paziente #2) abbiamo potuto riscontrare un aumento del punteggio a causa di un incremento del dolore, dovuto forse anche alla comparsa di una ferita a livello dell’apice del moncone, descritto dal paziente come severo e quasi sempre presente nell’arco della giornata. Ovviamente, la risposta ad un trattamento non è determinata esclusivamente dalle sue tecniche e dai suoi fattori specifici, ma ad essa contribuiscono anche altri fattori più soggettivi, caratteristici della persona a cui l’intervento è somministrato. Perciò, l’efficacia di un trattamento dovrebbe essere valutata considerando la persona su cui esso agisce, tenendo conto dei fattori non solo biologici, ma anche psicologici (personalità, risorse, stile cognitivo, etc.) e sociali (sostegno familiare e sociale, status socio-economico, etc.) che contraddistinguono la sua vita e che contribuiscono, grazie ad interazioni reciproche, al suo benessere fisico e psichico (MODELLO BIOPSICOSOCIALE; Engel, 1980).

73

Brief Pain Inventory

Pre

Post



1) Valuta il tuo dolore facendo un cerchio intorno al numero che meglio descrive l’intensità del tuo PEGGIORE dolore

88

63

-25

2) Valuta il tuo dolore facendo un cerchio intorno al numero che meglio descrive l’intensità del tuo dolore PIU’ LIEVE

33

24

-9

3) Valuta il tuo dolore facendo un cerchio intorno al numero che meglio descrive l’intensità del tuo dolore MEDIO

63

43

-20

4) Valuta il tuo dolore facendo un cerchio intorno al numero che meglio descrive l’intensità del tuo dolore IN QUESTO MOMENTO

39

28

-11

7) Segna il numero che meglio descrive quanto il dolore ha interferito nell’ultima settimana con la tua attività generale

51

28

-23

8) Segna il numero che meglio descrive quanto il dolore ha interferito nell’ultima settimana con il tuo umore

51

25

-26

9) Segna il numero che meglio descrive quanto il dolore ha interferito nell’ultima settimana con la tua capacità di camminare

46

38

-8

10) Segna il numero che meglio descrive quanto il dolore ha interferito nell’ultima settimana con la tua attività lavorativa

43

28

-15

11) Segna il numero che meglio descrive quanto il dolore ha interferito nell’ultima settimana nella relazione con gli altri

40

23

-17

12) Segna il numero che meglio descrive quanto il dolore ha interferito nell’ultima settimana con il sonno

66

30

-36

13) Segna il dolore che meglio descrive quanto il dolore ha interferito nell’ultima settimana con la gioia di vivere

46

12

-34

Media

51,45

31,09

20,36

Deviazione Standard

15,62

13,25

9,49

Analizzando le risposte dei 12 pazienti, sommate fra loro, alle singole voci del Brief Pain Inventory, risulta evidente il miglioramento del dolore fantasma sia per quanto riguarda le diverse intensità del dolore nella settimana precedente all’intervista, sia per quanto riguarda l’interferenza del dolore con l’attività generale, con il tono dell’umore, con la capacità di camminare, con l’attività lavorativa, nella relazione con gli altri, con il sonno e con la gioia di vivere. I pazienti trattati hanno riferito un miglioramento notevole soprattutto nella qualità del sonno e nella gioia di vivere (rispettivamente, ∆=36 e ∆=34). La maggior parte dei pazienti, già dopo poche sedute fisioterapiche con questo trattamento, descriveva un miglioramento in queste due voci, che sono fra loro strettamente collegate. Ad esempio, il paziente #7, amputato transfemorale da 29 anni, ha sottolineato più volte come, dopo aver cominciato la terapia, non abbia più sentito la necessità di svegliarsi durante la notte per massaggiare il moncone, evento che si ripeteva con cadenza quasi giornaliera a causa della comparsa di dolore da arto fantasma mentre dormiva.

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7.6 Conclusioni Nonostante gli ovvi limiti dovuti alla sua natura preliminare, questo studio evidenzia risultati incoraggianti per la risoluzione di una problematica grave come la sindrome da arto fantasma doloroso. Infatti, nonostante l’esigua numerosità del campione coinvolto nel progetto di ricerca e i casi drop out successivi alle prime sedute di trattamento, la “Mirror Box Therapy”, ideata in chiave riabilitativa da Ramachandran, ha prodotto cambiamenti significativi nella vita dei pazienti: essi hanno infatti descritto una riduzione significativa della sintomatologia dolorosa e un miglioramento della loro qualità di vita. I risultati più rilevanti consistono in un miglioramento della qualità del sonno, del tono dell’umore, della gioia di vivere e dell’attività generale svolta dal paziente. Ovviamente sarà necessario approfondire la conoscenza dei fattori specifici che hanno determinato i cambiamenti attraverso trias clinici controllati che utilizzino campioni clinici più numerosi. Essi andranno opportunamente confrontati utilizzando condizioni di controllo più rigorose; inoltre potrebbe rivelarsi importante effettuare valutazioni non solo al termine del trattamento ma anche in tempi successivi alla conclusione dello stesso. Le valutazioni di follow up sono molto importanti per verificare il mantenimento e l’eventuale cambiamento, positivo o negativo che sia, dei risultati ottenuti in seguito al ciclo di sedute con “Mirror Box Therapy” alla sospensione del trattamento. Potrebbe, inoltre, rivelarsi utile esplorare le ragioni che hanno indotto i pazienti ad interrompere il trattamento, non solo per i fini scientifici del progetto di ricerca ma, soprattutto, per tener conto, primariamente delle motivazioni e dei vissuti dei pazienti. In conclusione, per il benessere del paziente, un trattamento efficace non dovrebbe mai prescindere dall’adottare un’ottica olistica e biopsicosociale nella valutazione e nella riabilitazione delle persone, prima, e dei pazienti, poi.

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bibliografia

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sommario

PREFAZIONE ..............................................................................................................................................

P. 3

PRESENTAZIONE

P. 7

CAPITOLO 1: IL DOLORE .................................................................................................................................................

P. 9

CAPITOLO 2: IL PAZIENTE CON AMPUTAZIONE DI ARTO INFERIORE ....................................................................

P. 25

CAPITOLO 3: IL MONCONE DOLOROSO .......................................................................................................................

P. 33

CAPITOLO 4: L’ARTO DOLOROSO E LA “MIRROR BOX THERAPY” ..........................................................................

P. 43

CAPITOLO 5: PRESENTAZIONE DEL PROTOCOLLO SPERIMENTALE .....................................................................

P. 51

CAPITOLO 6: TERAPIE CLASSICHE PER IL DOLORE DA ARTO FANTASMA .............................................................

P. 61

CAPITOLO 7: I RISULTATI DELLO STUDIO ....................................................................................................................

P. 67

BIBLIOGRAFIA ...........................................................................................................................................

P. 77

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Sanatorio di Budrio: primo nucleo del Centro Protesi INAIL, 1906

1961 - 2011 C i n q ua n t ’a n n i

ISBN 978-88-7484-193-6

Realizzazione: Centro Protesi INAIL - Area Comunicazione Istituzionale Stampa: Tipolitografia INAIL di Milano, gennaio 2011

di

C e n t r o P r o t e s i INAIL

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