Tommaso D Aquino Compendio Della Somma Teologica
April 3, 2017 | Author: Gianluca Cruccas | Category: N/A
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Compendio della Somma Teologica di S. Tommaso D’Aquino
Storia d’Italia Einaudi
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Edizione di riferimento: Compendio della Somma Teologica, a cura di Sac. Dott. G. Dal Sasso, Libreria Gregoriana Editrice, Padova 1923
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Sommario Parte prima Parte seconda Sez. Prima Sez. Seconda Parte terza Supplementi
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PARTE PRIMA
Quest. 1. Scienza sacra rivelata. – 1. Una dottrina rivelata è necessaria a ciascun uomo per saper giungere al suo fine, che è Dio, il quale, essendo infinito, supera la naturale capacità dell’uomo. Per le cose poi che non superano la capacità umana, trattandosi di fine supremo, affinchè nessuno sbagli, ma invece le cose di Dio siano note a tutti, subito e con certezza, una dottrina rivelata è necessaria all’umana società intiera. 2. Questa dottrina rivelata o Teologia è scienza, poiché forma un sistema di dottrine derivate da principii certi, perché da Dio rivelati; come lo è la Geometria, che è scienza, perché parte da principii certi: 3. e nella sua moltiplicità ha unità, perché la costituisce tutto e solo ciò che è rivelato. 4. La Teologia tratta direttamente delle cose divine e, per riflesso, anche degli atti umani, perciò è scienza più speculativa che pratica. 5. Tale suo oggetto è il più nobile di tutti, essa perciò è la scienza più nobile. 6. Anzi essa è non solo scienza, ma sapienza, perché lo studio delle cose più alte è sapienza. 7. Dio, punto di partenza e di riferimento, è il soggetto della Teologia. 8. La Teologia, che adopera senza discussione le prove della rivelazione, adopera anche argomenti di ragione. Essa infatti disputa con quelli che ammettono qualche cosa in base a ciò che ammettono; confuta quelli che nulla ammettono sciogliendo le loro obiezioni. 9. L’uomo ricava le cognizioni intellettuali dalle cose sensibili, e anche la Scrittura, che contiene la rivelazione, fa uso di metafore.
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10. Autore della Scrittura è Dio, il cui intelletto è infinito, perciò le frasi della Scrittura hanno più sensi: il senso letterale e un triplice senso spirituale, cioè l’allegorico per la fede, il morale per le opere, l’anagogico per la vita futura.
Quest. 2. Esistenza di Dio. – 1. Questa proposizione: Dio esiste è vera, ma non evidente, quest’altra: «il tutto è più di una parte» è vera ed evidente; di questa infatti conosciamo il valore dei due termini: tutto e parte; della prima invece si sa cosa sia esistere, ma non si sa universalmente cosa sia Dio, benché di Dio sia proprio l’esistere: è necessario quindi farne la dimostrazione, 2. e la dimostrazione si può fare da ciò che di Dio ci è più noto, cioè dagli effetti di cui è causa. 3. Si fa poi la dimostrazione in 5 maniere: a) è evidente nel mondo una continua mutazione; molte cose sono in moto, ma nessuna si trova in moto se non vien mossa, perché niente passa da sé dal poter essere qualche cosa all’atto d’essere quel qualche cosa. Un ferro freddo che può diventar caldo non si dà il calore da sé, perché allora dovrebbe essere e freddo per diventar caldo e caldo per darsi il calore. Se tutto ciò che si trova in moto vien mosso, non vale però retrocedere all’infinito, perché se ogni cosa intermedia singolarmente è zero, zero all’infinito è sempre zero. Bisogna ammettere un Primo Motore non mosso per non negare il moto intermedio e anche l’ultimo che è evidente nel mondo. b) Ciò che vediamo è termine di una serie di cause efficienti; nessuna cosa poi è causa di se stessa, perché allora dovrebbe non esistere per ricevere l’esistenza e esistere per darsela. Retrocedere all’infinito con cause seconde è negare la causa prima, ma è negare anche le
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cause seconde, perché le cause seconde non ci sono senza la causa prima. c) Ciò che si forma e poi si dissolve è un contingente, cioè esiste quando capita che esista; può esistere e anche non esistere, ossia è un possibile – che una qualche volta non esiste più e una volta non esistette –; tutti gli esseri che vediamo sono dei possibili, dunque una volta nulla esistette e anche ora nulla esisterebbe se non ci fosse stato chi non può non esistere, l’Ente necessario. d) Nelle cose c’è del bene e ce n’è più o meno secondochè più o meno ne fu loro partecipato da chi è la fonte del Bene; c’è adunque chi è il Bene in se stesso. e) Le creature prive di ragione hanno un istinto ragionatissimo: ci fu adunque chi così le conformò, cioè il Sommo Intelletto.
Quest. 3. Semplicità di Dio. – 1. Dio non è corpo, perché: a) Il corpo muove se è mosso – Dio è Motore Immobile; b) Il corpo, è soggetto a mutazioni – Dio è Immutabile; c) Se il corpo è meno nobile dello spirito, tanto meno sarà corpo Dio, essere nobilissimo. 2. Materia è ciò di cui sono fatte le cose: Forma è ciò che dà l’essere proprio a ciascuna cosa. Orbene: Dio non è composto di materia e di forma, perché, come si disse: I. – non ha materia, non essendo corpo, II. – non ha forma, perché a) una cosa che ha il suo essere dalla forma, è un bene per la forma – Dio invece è il Bene in sé. – b) se una cosa ha il suo essere dalla forma, ha moto, cioè agisce, per la forma – Dio invece è Principio del moto; quindi anziché avere forma, è per sé forma. 3. Quindi ancora: l’uomo, che è composto di materia e di forma, ha l’umanità, ma non è l’umanità; Dio che
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non è composto di materia e forma, è la Divinità; perciò Dio è la sua stessa essenza o natura. 4. Anzi in Dio essenza e esistenza è lo stesso. L’esistenza quando è distinta dall’essenza, come nell’uomo, è sempre causata, perché nessuno produce se stesso, ma in Dio nulla vi è di causato. Più: l’esistenza è l’essenza attuata, perciò l’essenza è sola possibilità (potenza); l’esistenza è attuazione e realtà (atto). Ma in Dio non c’è potenza quindi non c’è neppure essenza distinta dall’esistenza. Infine, come già dicemmo, se l’uomo ha l’umanità, Dio è la Divinità. 5. Dio non appartiene a nessun genere, perché il genere si concepisce prima delle cose che vi si ascrivono. Dio invece è prima di ogni cosa anche secondo l’intelletto. Dio non appartiene a nessuna specie, perché la specie risulta di genere e differenza specifica quasi di atto e potenza e questa in Dio non c’è. 6. In Dio non vi sono accidenti, perché questi completano il soggetto, Dio invece per nulla è perfettibile, Dio è puro atto. 7. Dio è semplicissimo, I. non essendo composto, come si disse, né di parti materiali, né di materia e forma, né di essenza e esistenza, né di genere e differenza, né di soggetto e accidenti. II. non potendo essere composto, perché a) sarebbe posteriore e dipendente dai suoi componenti egli che è l’Ente Primo; b) ci dovrebbe essere anche per Dio una Causa congiungente i componenti, mentre egli è Prima Causa; c) nei composti le parti, relativamente al tutto, sono in potenza e il tutto è maggiore delle parti, invece Dio è puro atto e in Dio tutto è Dio. 8. Nessuna cosa può essere composta di Dio quasi Dio fosse o l’anima del mondo, o la forma o la materia delle cose, perché formando un’unità col mondo cesserebbe di essere il Primo Ente, diverrebbe mutabile e anche si degraderebbe, divenendo inferiore al Composto.
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Quest. 4. Dio è perfettissimo. – 1. Dio è perfettissimo, perché non è materia, quindi nulla ha in potenza; è primo principio attivo, quindi è primo principio di ogni perfezione, è la fonte di ogni perfezione. 2. Le cose tanto hanno di bene quanto hanno di essere e sono perfette se hanno il loro essere completo, ma questo lo hanno da Dio, il quale è lo stesso essere; Dio quindi è la stessa perfezione, e le perfezioni delle cose si trovano in Dio eminentemente; 3. questo tuttavia importa che le cose siano simili a Dio per analogia, non che siano dello stesso genere o specie di Dio.
Quest. 5. Cosa sia il Bene. – 1. Le cose hanno tanto di bene, quanto hanno di essere, ma la ragione distingue il bene dall’essere, chiamando bene ciò che: ha l’essere e inoltre l’appetibilità; 2. Ne segue che per la ragione viene grinza l’entità, poi l’appetibilità, 3. ma che, essendo l’entità atto e perfezione, ogni ente è perciò anche bene, eccetto l’ente matematico che è di puro intelletto. 4. Il bene, essendo ciò che tutti cercano, diviene causa finale. Bello importa: forma che desta ammirazione – e si riferisce all’intelletto; bene importa: forma che attrae – e si riferisce alla volontà; 5. e poiché la costituzione di essa forma avviene: a) quando commisurandosi si attuano i preesistenti principio materiali o efficienti, b) nell’unione di un dato numero di principi costitutivi, che ne determinano la specie, c) colla conseguente inclinazione all’operare suo proprio, così la scrittura dice che Dio dispose ogni cosa in pondere, numero et mensura.
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6. Il bene in quanto attrae è dilettevole, in quanto serve come mezzo è utile, in quanto è bene finale si chiama onesto, o conveniente.
Quest. 6. Dio è il Bene. – 1. Dio è Bene, perché appetibile per tutti, giacché gli effetti tendono ad assimilarsi alla causa, e di ogni cosa Dio è Causa; 2. Dio è sommo Bene, perché è Causa Prima, quindi fonte di ogni Bene particolare; e poiché nessuna cosa è nel genere di Dio, le perfezioni delle cose vi sono in Dio, ma in modo eminente. 3. Dio è Bene per essenza, perché: 1) avendo l’essere per natura ha la pienezza dell’essere; 2) essendo immutabile, non si può pensare che possa anche migliorare; 3) essendo ultimo fine, non può esservi Bene maggiore, cui Dio serva di mezzo. 4. Ogni cosa è buona di Bontà divina, perché è bene in quanto è, e come tale ha Dio per suo principio esemplare, effettivo e finale; ogni cosa però ha una bontà formale sua propria, distinta da quella di Dio, perché nessuna cosa ha in sé l’essere divino.
Quest. 7. Dio è infinito. – 1. Dio non è Materia, che unendosi a una Forma viene determinata dalla Forma; non è Forma, che unendosi a determinata Materia viene dalla Materia circoscritta; ma è lo stesso Essere per sé sussistente, quindi è infinito: 2. gli altri esseri invece, appunto perché composti di materia e forma, sono finiti. Gli angeli stessi, che sono solo Forma e non Materia, sono finiti, perché hanno quella parte di essere che loro fu data da Dio.
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3. Ogni corpo è finito a) secondo la essenza, perché la forma gli delimita la specie e la materia lo determina come individuo; b) secondo la grandezza, perché ogni corpo ha una superficie e questa è limite. Questo va detto del corpo naturale, perché il corpo matematico non esiste se non nella mente di chi lo pensa. 4. Il numero reale, essendo esso la moltitudine misurata dall’unità, non è infinito; può però esserlo il numero matematico, ossia del calcolo.
Quest. 8. Dio è in ogni cosa. – 1. Dove uno opera, là è; ma Dio opera in tutte le cose, dunque è in tutte le cose. Come l’aria si illumina alla presenza del sole, e resta illuminata finché resta alla presenza del sole, così le creature tutte hanno e conservano l’essere in quanto dura in loro l’influsso di chi è l’Essere essenziale. 2. Dio si trova in tutti i luoghi, perché li sostenta tutti col suo essere, e mentre per le cose una impedisce la presenza dell’altra, per Iddio è la sua presenza che rende presenti le altre cose. 3. Dio è Creatore di tutte le cose = è in tutte per essenza. Dio impera a tutte le cose = è in tutte per potenza. Dio conosce tutte le cose = è in tutte per presenza. 4. Dio è in ogni cosa, quindi è dappertutto e, siccome Egli non è corpo e perciò non ha parti, è tutto dappertutto, e questo è proprio di Dio solo.
Quest. 9. Dio è immutabile. – 1. Dio è il Primo Essere, è quindi realtà, è atto, e la potenza, che all’atto è posteriore, non entra nell’Ente Primo, Dio quindi è solo atto, Atto Puro (3. 4).
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Se in lui non c’è potenza, nulla può diventare e così mutarsi. Dio quindi è Immutabile; questo anche perché nelle mutazioni parte resta e parte va o si arriva dove prima non si era, mentre in Dio non ci sono parti e non c’è luogo dove già non sia. 2. Tutte le altre cose sono mutabili: i corpi perché son corruttibili, e gli spiriti perché possono cessare di esistere se così piace a chi li creò.
Quest. 10. Eternità di Dio. – 1. Eternità è: possesso della vita simultaneo, perfetto, senza principio e senza fine. Tempo è: Somma di mutazioni computate fra un prima e un poi. 2. In Dio, immutabile e sempre eguale, non ci sono mutazioni, non è quindi neppure possibile stabilire nella sua esistenza due punti distinti che servano da prima e da poi; a Dio quindi non comete il tempo, ma l’eternità. Come è dappertutto e tutto dappertutto, così è sempre tutto, sempre eguale, 3. e poiché ciò appartiene allo stesso essere di Dio, l’eternità è di essenza esclusiva di Dio; ogni altro essere non può avere che un’eternità impropria e participata. 4. Se l’eternità è: totalità simultanea e tempo è: mutazione con principio e fine, havvi tempo tanto che si possano calcolare le mutazioni senza saperne fissare il principio e la fine, come è degli astri; quanto che il principio o il fine sia anche solo possibile come è degli spiriti angelici medesimi. 5. Degli astri, che hanno una mutazione in atto aggiunta all’esistenza e degli Angeli, che la hanno in potenza, è proprio l’evo.
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Quest. 11. Uno solo è Dio. – 1. Unità è il contrario di divisione. Un essere semplice, cioè senza parti, è sempre uno. Un essere che ha parti è uno finché non è in parti diviso. 2. Unità è anche il contrario di moltitudine, perché è il principio e anche la misura della moltitudine. 3. Se Socrate fosse non un uomo, ma l’uomo, ci sarebbe un solo Socrate e un solo uomo, questa cosa che non è propria di Socrate è propria di Dio, perché Dio è la sua natura; dunque c’è un Dio solo. Inoltre: Dio ha tutte le perfezioni, ma se ci fossero più Dei si distinguerebbero fra loro per qualche perfezione o prerogativa che uno ha e all’altro manca, però così nessuno sarebbe perfettissimo, nessuno sarebbe Dio non può esservi quindi che un Dio solo. Infine: Il mondo nel sua ordine ha carattere di unità, ne è quindi creatore e conservatore un Dio solo. 4. L’unità compete all’ente indiviso; ma Dio è in grado massimo Ente, perché è lo stesso essere: e in grado massimo Indiviso, perché è semplicissimo, non ha e non può avere parti, dunque l’unità compete a Dio in grado massimo.
Quest. 12. Come conosciamo Dio. – 1. Se ogni essere è tanto più perfetto quanto più si avvicina al suo principio, anche per la creatura ragionevole la perfezione dell’essere non potrà consistere e trovarsi che in chi le è principio dell’essere, cioè in Dio. Orbene, avendo l’uomo come distintivo di natura l’intelletto e essendo Dio intelligibile, perché è Ente semplice, (anzi sommamente intelligibile perché è in sommo grado Ente e in sommo grado semplice), l’uomo sarà perfetto quando fisserà l’intelletto in Dio; e chi è già perfetto, come sono i Santi, certamente vede Dio. Ma come?
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2. All’atto di conoscere occorre che ci sia nel soggetto la facoltà conoscitiva e che l’oggetto, mediante la sua imagine, a lui s’unisca. Nel caso nostro Dio, mentre è ad un tempo il principio della facoltà intellettiva e anche l’oggetto della visione intellettiva, non è, per l’Essere suo Infinito, riducibile a un’imagine. Per l’unione quindi dell’intelletto a Dio occorre una conformazione a Dio della nostra facoltà intellettiva, cioè il lume di gloria. 3. Coll’occhio però o colla fantasia non si raggiunge Dio, perché occhio e fantasia sono materiali e Dio è essere spirituale. 4. Nella cognizione naturale le cose sono conosciute conformemente alla natura del conoscente: l’uomo percepisce le nature individuate nella materia e, colla astrazione dell’intelletto, le conosce anche in universale; gli angeli percepiscono le nature non materiali, ma la natura di Dio è al di sopra anche di queste, essendo sussistente per sé, perciò di cognizione naturale la conosce Dio solo. 5. e l’intelletto creato per conoscerla abbisogna di un aumento della forza intellettiva, l’aumento si chiama illuminazione, e Dio è il lume, che fa diventare a lui simili, cioè Deiformi. 6. Questo lume di gloria Dio lo dà come premio proporzionato alla Carità di ciascuno, e uno ne avrà più dell’altro. 7. Dio si comprende quando si conosce perfettamente, cioè quanto è conoscibile; ma Dio infinito è infinitamente conoscibile, mentre l’intelletto creato, cui si applica il lume di gloria, è finito, dunque Dio gli resta incomprensibile. 8. E per questo nell’altra vita, benché le cose si vedano in Dio, l’intelletto creato non può conoscere in Dio tutte le cose, tutto quello cioè che Dio fa e può fare; 9. le cose, vedendosi nell’essenza divina, si vedono nelle loro nature, non nelle loro immagini:
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10. e si vedono tutte contemporaneamente come in un campo visivo, (più o meno ampio in proporzione al lume di gloria), che viene presentato. 11. Quaggiù abbiamo un essere spirituale in materia corporale, a ciò si conforma la nostra cognizione; conosciamo cioè attraverso la materia; ma conoscere Dio nelle creature non è mai vedere l’essenza di Dio; dunque in questa vita nessuno può vedere Dio. 12. Però attraverso le cose materiali possiamo conoscere che queste sono effetto, che Dio ne è la causa, che questa causa esiste e che ne derivano parecchie relazioni. 13. Alla cognizione nostra concorrono la forza della mente e le imagini mentali; Dio può rafforzare l’una e infondere le altre, come avviene nei profeti e così per grazia si può avere una più alta cognizione delle cose di Dio.
Quest. 13. Nomi di Dio. – 1. Le parole sono segni delle idee, le idee sono imagini intellettuali delle cose. A Dio, che conosciamo dalle creature, attribuiamo nomi ricavati dalle creature, ma essi non esprimono mai l’essenza divina, qual’è in sé. 2. I nomi di Dio relativi, come «Creatore» e i negativi come «Infinito» indicano di Dio o relazione o rimozione di difetto, ma non la sua sostanza; i nomi positivi, come «buono» la indicano, però imperfettamente e nel senso, per esempio, che ciò che diciamo bontà nelle creature preesiste in Dio e così sono nomi sostantivi, 3. e spettano a Dio in senso proprio, eccetto che nel loro contenuto di modo di essere, il quale resta per le creature; 4. i varii nomi non sono mai sinonimi, perché è sempre un unico principio semplice bensì, ma che risponde alle diverse perfezioni delle creature e ai molteplici concetti della nostra mente:
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5. ma, data la infinita Perfezione di Dio, non hanno in Dio lo stesso significato che nell’uomo; rappresentano sì Dio, ma solo in qualche modo; sono perciò né equivoci, né univoci, ma analogici. 7. Dio è sopra l’ordine del Creato; le creature sono ordinate a Dio, non Dio alle creature, perciò relazione reale c’è fra le creature e Dio, ma non viceversa; ed è in questo senso che i nomi relativi, come «Creatore» appartengono da dopo che c’è il tempo a Dio, che è eterno. 8. Col nome di Dio tutti intendono chi presiede all’universo quindi la parola «Dio» per sé rappresenta un’operazione divina, ma è diretta a designare la natura divina. 9. E poiché la natura divina non è comunicabile, così in senso proprio non è comunicabile nemmeno il nome «Dio», e tanto meno sarebbe comunicabile il nome proprio del vero Dio. 10. Il nome proprio del vero Dio è Jehova (colui che è), perché a) indica che di Dio è proprio esistere, cosicché l’esistenza forma la sua essenza; e appunto i nomi propri devono indicare l’essenza, b) è il nome che abbraccia il più possibile di Dio, cioè l’essere che è infinito; c) perché col verbo è (presente) esclude il passato e il futuro e designa l’eternità, che è esclusiva di Dio.
Quest. 14. Scienza in Dio. – 1. La conoscenza è in proporzione della immaterialità. La pianta nulla conosce; l’uomo molto; l’Angelo molto di più, Dio, che è perfettamente immateriale, ha una scienza perfetta. 2. L’uomo può conoscere; conosce poi in atto, quando una cosa gli si fa presente colla sua imagine intelligibile: orbene Dio che, solo, è sempre in atto e di intendere e di esistere, non può avere che se medesimo, come oggetto intelligibile di se stesso, adeguato e sempre presente; Dio perciò conosce sé in se stesso;
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3. e, perché sempre così in atto, è perfettamente conoscibile a se stesso perfettamente conoscente; perciò conprende se stesso, cioè conosce totalmente tutto sé stesso. 4. E poiché così in Dio: conoscente, conosciuto e mezzo di conoscere è tutt’uno, il suo intendere è la sua sostanza stessa. 5. Conoscendosi perfettamente, Dio conosce anche ciò a cui può estendersi la sua virtù, conosce quindi tutte le cose, essendone la causa. 6. Conoscendosi perfettamente, Dio conosce anche quanto è partecipabile dalle cose, conosce perciò in se stesso ogni cosa con cognizione non generica, ma distinta e propria; 7. e in se stesso vede anche le cose tutte insieme, mentre l’uomo conosce le cose una dopo l’altra, con scienza discursiva. 8. In Dio «conoscere, volere, essere» è tutt’uno; si può dire quindi che in Dio la conoscenza delle cose è causa delle cose e che le cose esistono in quanto Dio le conosce e non già che Dio le conosce perché esistono. 9. Dio sa tutto quello che può fare lui e anche quello che possono fare, dire, pensare le creature; e – siccome Dio è eterno e per lui tutto è presente – quello che o è presente, o fu, o sarà, si dice che Dio lo vede (scienza di visione): quello che non è presente e neppur fu o sarà, ma resta soltanto possibile, si dice che Dio lo intende (scienza di semplice intelligenza). 10. E, conoscendo il bene, Dio conosce anche il male, che è o corruzione del bene o mancanza del bene. 11. Benché le essenze delle cose siano universali, unendosi alla materia formano tante cose particolari e Dio le conosce tutte; perché le cose hanno da Dio l’essenza, e anche la materia. 12. Conoscendo Dio tutto quello che è, e tutto quello che è possibile sia da parte di Dio sia da parte delle
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creature, si deve dire che Dio colla stessa scienza di visione vede cose infinite; p. es. i pensieri e gli affetti che scaturiranno in infinito dagli esseri intelligenti che sono immortali. 13. A Dio eterno tutto è presente. Così dall’alto di un osservatorio in capo a una via vi si vedono contemporaneamente tutti i passeggieri, i quali invece per chi è giù nella via, a una finestra sono parte passati, parte presenti, parte ancor da venire. Anche ciò che sarà, ma che non ha necessità di esistere, cioè il futuro contingente, che è legato a cause impedibili, in quanto sarà, per Iddio è come presente; inoltre esso è conosciuto da Dio infallibilmente, perché conosciuto nelle sue cause, ed anche in se, mentre per noi è solo congetturabile, perché conoscibile solo nelle cause, e queste sono impedibili. 14. Dio conoscendo la forza di ciascun intelletto, conosce anche tutto ciò che può essere pensato e detto da ognuno, conosce gli enunziabili. 15. In Dio la conoscenza delle cose non dipende dalle cose, essendo essa la sua stessa sostanza, e come questa è immutabile, anche la scienza è immutabile in Dio. 16. In Dio «essere, conoscere, volere» è tutt’uno, quindi la conoscenza che Dio ha delle cose si può dire la causa delle cose; così tale scienza di Dio è speculativa e anche pratica, cioè operativa.
Quest. 15. Idee in Dio – 1. Le cose procedono da Dio quanto alla forma o essenza e quanto alla materia; Dio non ha fatto le cose a caso, quindi le forme o essenze prima che nelle cose c’erano nella mente di Dio, c’erano in Dio le idee delle cose. 2. E ce n’erano tante quante dovevano essere le cose, né ciò è contro la semplicità di Dio, perché esse sono in Dio in quanto Dio conosce direttamente la sua essenza per tanti modi participabile dalle creature, e tali idee,
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essendo nella mente di Dio, sono un’appartenenza di Dio e sono con Dio eterne e immutabili. 3. «Idea» si prende come esemplare, ossia principio di esecuzione di ciò che vien fatto e come ragione, ossia principio di cognizione di ciò che si conosce; così in Dio c’è l’idea di ogni cosa, anche di lui stesso, o come esemplare o come ragione.
Quest. 16. La verità. – 1. Verità dice ordine all’intelletto. Nel volere è la volontà che tende alla cosa perciò la Bontà è nella cosa; nel conoscere invece è la cosa che va all’intelletto, dunque la verità è propriamente nell’intelletto; ma come per la cosa si dice buona anche la volontà, così per l’intelletto si dice vera anche la cosa. Verità è nelle cose se corrispondono all’idea di chi ne fu l’artefice; verità è nell’intelletto conoscente, se si conforma alla cosa sconosciuta. Verità quindi è conformità fra intelletto e cosa. 2. Verità è nella cosa se è conforme alla sua natura; verità è nella cognizione dell’intelletto, se si conforma alla cosa; ma la conoscenza della verità appartiene all’intelletto che forma il giudizio se cioè la cognizione è si o no conforme alla cosa, e qui sta propriamente la verità. 3. Una stessa cosa si dice vera in rapporto all’intelletto e in rapporto all’appetito si dice buona: ente, vero, buono sono lo stesso; 4. ma poiché per appetirla bisogna prima conoscerla, così prima sta il vero, poi il buono. 5. Se verità è: – conformità fra intelletto e cosa – Dio è somma verità, perché fra il suo intelletto e il suo essere c’è non solo conformità, ma identità; Dio è prima verità, perché Il suo intelletto è misura delle cose. 6. La verità considerata in ciascuna cosa è una sola, ma relativamente agli intelletti che la conoscono, sono tante quante gli intelletti;
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7. e, poiché cose e intelletti sono creati e non eterni, resta che verità eterna c’è in Dio solo. 8. La verità è mutabile quando di una cosa l’intelletto si forma diversa opinione, o quando, restando l’opinione, inavvertitamente si scambia la cosa; ma ciò sarà dell’intelletto creato, non già di Dio, cui niente sfugge: in Lui la verità è immutabile.
Quest. 17. Cos’è la falsità. – 1. Come verità così falsità ha rapporto coll’intelletto. Per Iddio falsità non c’é nelle cose, perché sono quale Dio le vuole; può esserci nelle volontà se si allontanano dalla regola di Dio. Per l’uomo può esserci anche nelle cose, o in ciò che è rappresentativo del vero, come nelle tragedie, o in ciò che inganna per mezzo dei sensi, come nei fiori artificiali. 2. Nel senso, se non è difettoso, non c’è falsità relativamente al sensibile suo proprio, come il suono per l’udito; può esserci relativamente a un sensibile comune a più sensi, come il moto, che si percepisce, più che nel sensibile proprio, nella sua modificazione può esserci anche nel sensibile accidentale, che si percepisce in un sensibile diverso, come il freddo nel veder caduta la neve. 3. Come l’occhio non si inganna vedendo la luce, ma può ingannarsi circa il colore, così l’intelletto non si inganna conoscendo le cose, ma può ingannarsi giudicandole, e allora c’è in lui falsità. 4. Vero e falso sono contrari, come bianco e nero.
Quest. 18. Vita in Dio. – 1. Un animale si dice vivo finché si muove da sé. Vita non hanno tutti gli esseri, ma solo quelli che hanno moto dall’intrinseco, cioè impulso a operazioni sia di sviluppo, sia di senso, sia di pensiero.
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2. La vita l’attribuiamo a chi ha il moto da sé, ma la parola vita per sé designa, più che il moto, sostanza cui tale moto compete; talora poi la vita indica le operazioni della vita, come sentire e intendere. 3. La vita, che sta nel moto, ha i suoi gradi. Le piante hanno il moto da sé soltanto in ordine alla sua esecuzione: gli animali lo hanno anche in ordine al suo indirizzo e cioè proporzionatamente allo sviluppo dei loro sensi; chi ha l intelletto ha il moto da sé anche in ordine al fine e sappiamo già che l’intellettualità è tanto maggiore quanto maggiore è l’immaterialità. Questa Dio possiede in sommo grado, quindi in sommo grado possiede anche la vita. 4. Tutte le cose sono in Dio a modo di idee, le idee sono la stessa sostanza (15. 2), la stessa vita di Dio; si può dire quindi che tutte le cose sono vita in Dio.
Quest. 19. Volontà in Dio. – 1. Relativamente alla perfetta attuazione del proprio essere, tutto ha inclinazione di cercarla, se non la possiede, di acquetarvisi, se la possiede. Questa inclinazione, che si dice appetito nelle cose prive di cognizione e appetito sensitivo gli animali, negli esseri forniti di intelletto si dice volontà. Dio ha intelletto, quindi anche volontà. 2. Le cose Dio le vuole in quanto sono attuazione della sua bontà. 3. Per necessità di natura Dio vuole il suo essere, la sua bontà; le cose invece, che non sono il suo essere e la sua bontà, ma mezzi manifestativi della sua bontà, le vuole come mezzi, cioè liberamente, e soltanto supposto che le voglia, essendo egli immutabile, non può essere che non le voglia. 4. Causa delle cose è la Volontà di Dio libera, non già una sua necessità di natura, ossia l’istinto. Difatti a) Ogni istinto è ragionatissimo, perché disposto da un etto supe-
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riore preesistente; ma Dio è Ente Primo, dunque agisce non per istinto, ma con intelletto e volontà. b) L’istinto di natura, che negli esseri finiti porta a un effetto unico e sempre tale, in Dio, che è infinito, porterebbe a effetti infiniti; il che è impossibile (7. 2). c) Gli effetti preesistono nella causa secondo la natura delle cause, ma la natura di Dio è intelletto e volontà, perciò preesistono in Dio secondo volontà e non secondo istinto. 5. Dio nel suo volere non è mosso dalle cose, perché tutto conosce in sua essenza, così tutto vuole in sua bontà; vuole le cose ordinate al fine e tali sono perché egli lo vuole, non già egli ciò vuole, perché tali sono. 6. La volontà di Dio non è una volontà particolare, ma una volontà universale; ciò che non si compie secondo un ordine della volontà di Dio, si compie secondo l’altro; la volontà di Dio quindi si adempie sempre. 7. Altro è mutare volontà, altro è volere una mutazione. Muta volontà chi si muta nell’essere o nel conoscere, così che una cosa, la quale prima non era per lui o da lui non era conosciuta come un bene, tale poi diviene o come tale vien conosciuta; ma Dio è immutabile nell’essere e nel conoscere, quindi anche nella volontà. 8. Ad alcune cose Dio ha fissato cause necessarie ineluttabili, a altre cause contingenti defettibili, ma neppure queste sfuggono l’efficacia della volontà di Dio, perché fu Egli che volle la loro contingenza. 9. Il male non si può volere per sé, ma solo in quanto congiunto con qualche bene. Dio volendo la sua bontà sopra tutto, rigetta il male di colpa che le è direttamente contrario; quanto agli altri mali, volendo Dio le altre cose in ordine a sé, può volere il male di pena in ordine alla Giustizia e il male naturale in ordine alla Provvidenza. 10. Il libero arbitrio si ha di ciò che non è oggetto del volere necessario o dell’istinto. Così vogliamo essere felici non di libero arbitrio ma per istinto. E soltanto se
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stesso che Dio vuole necessariamente, non così le cose fuori di lui; resta che queste le voglia di libero arbitrio. 11 – 12. La manifestazione della volontà di Dio, che metaforicamente è detta volontà di segno, è di 5 sorta: opera, comanda o consiglia il bene; permette o proibisce il male.
Quest. 20. Amore in Dio. – 1. Il primo moto della volontà è l’amore, che tende al bene, il quale è prima del male e che tende al bene in comune, che poi è suddiviso in beni particolari. In Dio c’è volontà non inerte, dunque in Dio c’è Amore. 2. Ogni cosa in quanto esiste è un bene. Amare è voler bene, dunque Dio, volendo l’esistenza delle cose, vuole bene, ama le cose: ma se, quanto a noi, amiamo le cose perché sono bene; quanto a Dio, le cose sono bene perché Dio le ama; 3. così si può dire che Dio ama una cosa più dell’altra, perché egli causa nell’una più di bene che nell’altra; quantunque come intensità di volere, le ami tutte egualmente; 4. e così pure si dice che Dio ama di più le cose migliori e che più degli innocenti Dio ama i penitenti, perché in questi possono sorgere maggiori virtù.
Quest. 21. Giustizia e Misericordia, – 1. Giustizia commutativa, che sta nell’eguaglianza tra il dare e l’avere non corre tra Dio e noi, perché tutto abbiamo e nulla diamo. In Dio, che per l’ordine dell’universo dà a ciascun essere ciò che gli è proprio, c’è la giustizia distributiva; 2. e tale Giustizia, che è ordine stabilito nelle cose conforme alla sua sapienza, è anche verità, la quale è conformità tra intelletto e cosa.
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3. A Dio compete, non già il contristarsi per il male altrui, ma allontanare il male altrui; gli compete quindi la misericordia, non come passione, ma come effetto e nel senso che le perfezioni che Dio dà alle cose allontanano i difetti. 4. In tutte le opere di Dio c’è giustizia; perché Egli fa ciò che conviene alla sapienza e bontà sua, all’ordine e alla proporzione delle cose. Anzi l’abbondanza di sua bontà sorpassa l’esigenza dell’ordine e la proporzione delle cose, e le cose stesse nessuna preesistente esigenza hanno verso Dio; dunque colla giustizia c’è anche la misericordia che ne è il fondamento.
Quest. 22. Provvidenza di Dio. – 1. In Dio c’è Provvidenza, che è parte principale della prudenza ed è assai bene definita da Boezio: la stessa ragione divina che dispone ogni cosa; infatti nelle cose c’è esistenza e ordine al fine e l’una e l’altra cosa è opera di Dio; nel suo intelletto perciò preesisteva il disegno dell’ordine, elle cose al fine; 2. e poiché la causualità di Dio e anche la sua scienza si estende a tutti gli enti, a tutto si estende pure la Provvidenza di Dio. Casi e fortune ci possono essere relativamente a cause particolari, non relativamente a Dio, causa universale, che talora permette il male per non impedire un qualche bene. 3. La Provvidenza si esplica nella disposizione dell’ordine e nella esecuzione dell’ordine. La disposizione, la tratta Dio immediatamente, l’esecuzione l’affida alle cause seconde, e così nell’abbondanza di sua bontà dà a creature dignità di causa. 4. Scopo della Provvidenza nella creazione è la Perfezione dell’universo con Enti di ogni grado, e con effetti
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preparati parte da cause necessaria, parte però anche da cause libere; dunque la provvidenza non è fatalità.
Quest 23. La predestinazione. – 1. In Dio non solo c’è provvidenza, cioè il disporre in ordine al fine naturale di ogni creaturà, ma anche il destinare, disponendo gli aiuti proporzionati, le creature razionali a un fine che eccede la proporzione e facoltà di natura creata, cioè la vita eterna; in quanto questo disegno preesisteva nell’intelletto di Dio si chiama Predestinazione. Non viene rivelata a nessuno, affinché non ci sia chi fa il negligente e chi si dispera. 2. La predestinazione, come disposizione dell’ordine, appartiene a Dio; come esecuzione appartiene passivamente anche agli uomini colla vocazione alla fede e colla glorificazione. 3. In Dio c’è anche la Riprovazione, ma questa importa: a) Dio di Provvidenza generale permette che alcuni per loro cattiva volontà facciano peccati e non è obbligato di impedirli; b) destina loro la pena. 4. Mentre noi scegliamo quelli che amiamo, Dio ama quelli che sceglie; ama, cioè vuol bene, vuole efficacemente il bene, procura il bene, dunque i predestinati da Dio sono eletti e diletti. Dio in generale vuole che tutti si salvino, in particolare vuole che si salvi chi lo merita. 5. Quanto alla causa della predestinazione: a) da parte di Dio nulla c’è sopra la sua volontà; b) da parte degli uomini non ci sono meriti antecedenti alla vocazione alla fede, perché prima di avere la fede nessuno ha veri meriti davanti a Dio; quindi, benché in particolare si possa dire che un primo buon effetto della predestinazione ne tira un secondo, l’effetto totale della predestinazione non ha altra causa che la bontà divina. 6. Si sa che nella disposizione dell’universo (22. 4) gli effetti sono legati non solo a cause necessarie, ma anche
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a cause libere; resta dunque per l’uomo il libero arbitrio, e l’effetto della predestinazione non è necessitato; per Iddio però, essendo alla sua scienza tutto presente e nulla sfuggendo alla sua volontà, l’effetto della predestinazione è certo e infallibile; 7. Cosicché Dio sa quanti e quali sono i predestinati, avendoli preordinati quale elemento principale dell’universo, così come un ingegnere prefinisce le dimensioni e anche le mansioni del palazzo che vuol costruire e lo sa lui solo. 8. Le orazioni dei Santi aiutano la Predestinazione, se non per la preordinazione di Dio, la quale è ab aeterno, certamente per il suo effetto.
Quest. 24. Il libro della vita. – 1. Libro della vitaè espressione metaforica presa dal libro di coscrizione di quelli che sono scelti o per soldati o per consiglieri, e significa la nozione fissa che ha Dio dei predestinati. 2. Ma come l’arruolamento dei soldati si fa non perché si armino, ma perché combattano, così il libro della vita importa elezione non alla grazia, ma alla gloria. 3. Rettamente si può dire che uno viene cancellato dal libro della vita, quando vien meno alla grazia che lo condurrebbe alla gloria.
Quest. 25. Onnipotenza. – 1. Dio che è atto ed esclude ogni potenza (4. 1), che cioè è tutto e nulla di più può diventare, nulla ha da acquistare e tutto a dare, egli ha potenza attiva e non passiva. 2. L’essenza di Dio è infinita, perciò anche tale potenza attiva di Dio è infinita. 3. Questa infinita attiva potenza di Dio si dice onnipotenza, perché ne è oggetto ogni possibile, ossia tutte ciò
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che può esser fatto, che cioè non sia una contraddizione come: – un bianco tutto nero – tutto ciò insomma che può essere. 4. Che il passato non sia passato Dio non può farlo, perché sarebbe come fare che ciò che è vero sia falso. 5. Quanto a ciò che Dio opera nel mondo, non essendo Egli determinato da necessità di natura e non esaurendosi nell’ordine presente la sua sapienza e bontà, potrebbe anche fare cose diverse da quelle che fa. 6. Quindi potrebbe fare cose migliori delle presenti e che le presenti fossero migliori accidentalmente: p. e. che gli uomini fossero più alti; ma farne di migliori essenzialmente non può, perché cambierebbero natura; p. e. se l’asino avesse la ragione non sarebbe più asino.
Quest. 26. Beatitudine di Dio. – 1. Beatitudine è: bene perfetto di intellettuale natura: Dio è perfettissimo e sommamente intelligente, gli compete perciò la beatitudine perfetta; 2. la beatitudine sta nella perfezione, la perfezione sta nella piena esplicazione della natura e questa sta nell’operazione, perciò la perfezione e la beatitudine di una natura intellettuale sta nell’intendere, che in Dio è: lo stesso suo essere. 3. I beati hanno Dio ber oggetto del loro atto di intendere; perciò la beatitudine è unica quanto all’oggetto, diversa quanto agli atti. Questa beatitudine contiene eminentemente ogni altra. Essa infatti porta come oggetto della felicità contemplativa Dio e tutte le cose; della attiva il governo dell’universo; della felicità terrena, quanto ai piaceri: il gaudio personale e comune; quanto alle ricchezze: la sufficienza indefettibile; quanto alla potenza: l’onnipotenza di Dio; quanto alla gloria: l’ammirazione di tutto il creato.
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LA TRINITÀ Quest. 27. Le divine persone procedono... – 1. La Scrittura parla di un procedere in Dio. Ario lo prese nel senso di effetti procedenti da una causa, ma così il Verbo sarebbe creatura e non già Dio; Sabellio lo prese nel senso di diverse operazioni di uno stesso soggetto, ma così le persone sarebbero una, non tre. Errarono ambedue perché considerarono quel procedere come un’operazione esteriore. Invece l’operazione di Dio si deve considerare alla stregua non delle creature più basse, ma delle creature più alte, quali le intellettuali, nelle quali c’è una operazione interiore, un’azione immanente, ossia rimanente nel soggetto: p. e. il concetto che si forma in mente (Verbo), che si significa colla voce (Parola). Così intende la Fede il procedere delle persone in Dio. 2. Poiché il procedere, in somiglianza naturale, di un vivente da un non vivente congiunto quale principio vitale è Generazione, la processione del Verbo (= concetto formato) dal Padre è Generazione. Infatti l’operazione dell’intelletto è operazione vitale, perciò è un Vivente che procede da un Vivente; – gli è congiunto, perché non si tratta di operazione esteriore; – procede in somiglianza naturale, perché è proprio del concetto dell’intelletto rappresentare l’oggetto in cui si affissa. E poiché Dio conosce se stesso così che conoscente, conosciuto e mezzo di conoscere è lo stesso Dio (14. 4), così il Verbo è Dio eguale al Padre. 3. Ma la natura intellettuale ha una, duplice operazione interna: di intelletto e di volontà. La processione del Verbo, per cui la cosa intesa è nell’intelligente, è secondo l’operazione dell’intelletto. E come in noi secondo l’operazione della volontà c’è una seconda processione, quella dell’amore, che fa sì che l’amato sia nell’amante, così anche in Dio oltre la processione del Verbo c’è la processione dell’Amore.
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4. Però la processione della volontà importa non già riproduzione di simile, ma inclinazione quasi di un vento che, spirando, spinge e piega, e quindi ciò che così procede in Dio procede non come Figlio, ma come vento che spira, spirito. 5. Oltre quella dell’intelletto e quella della volontà in Dio non ci sono altre processioni, sono quindi due sole.
Quest. 28. Relazioni in Dio. – 1. Ricordiamo che le cose possono essere in 10 modi generali e cioè o come sostanza o come un che di inerente alla sostanza, e ciò in 9 modi o accidenti, che sono: quantità, qualità, relazione, azione, passione, tempo, luogo, sito ed abito. Ecco le categorie di Aristotele. La relazione può essere naturale come: Figlio, creatura... e questa è reale; può essere solo nell’intelletto di chi considera la cosa, e questa è mentale. In Dio le relazioni che dipendono dalle processioni, le quali avvengono nella stessa natura divina, sono naturali, quindi, sono anche reali. 2. Ciò che è reale se è fuori di Dio è creatura, se appartiene a Dio è lo stesso suo essere, quindi in Dio la relazione reale in sé è la stessa essenza di Dio; per la nostra mente è un riferirsi al suo opposto. 3. Le relazioni in Dio importano opposizione, l’opposizione importa distinzione; la relazione è reale e reale è la distinzione. 4. Ogni relazione importa opposizione di 2 termini: le relazioni in Dio seguono le processioni e queste sono 2, dunque le relazioni reali sono 4: paternità, figliazione, spirazione e processione per spirazione.
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Quest. 29. Le persone divine. – 1. Essere un individuo, conviene meglio alla sostanza che agli accidenti, e meglio ancora alla sostanza razionale che non alle altre, perché a lei spetta e azione e dominio dell’azione: l’azione poi spetta all’individuo, benché la natura ne sia il principio. L’individuo che è sostanza di natura razionale si chiama persona; 2. e persona nel genere delle sostanze razionali indica ciò che negli altri generi di sostanza indica: cosa di una data natura, sussistenza, sostanza, (grec. ipostasi = ciò che è sotto gli accidenti), 3. cosicché la parola persona designa l’individuo più perfetto di tutta la natura; e poiché ogni perfezione delle cose si deve attribuire a Dio e in misura eminente, così anche il nome «persona» conviene adoperarlo per Dio e in misura eminente. 4. Se persona indica: Individuo cioè «distinto» e la distinzione in Dio c’è per l’opposizione che consegue la relazione, persona in Dio indica relazione come sussistente; così la Paternità divina è Dio Padre. Quest. 30. Le persone divine sono più di una. – 1. In Dio le relazioni sono più di una, più di una sono anche le persone 2. Tre sono le Persone divine; non mezzo e non più. Infatti: reale opposizione di relazione (28. 4) c’è fra la paternità e la figliazione e queste designano a persone: il Padre e il Figlio. La spirazione e la processione per spirazione sono opposte bensì fra esse due, non però con i termini precedenti, la spirazione perciò conviene a ambidue i termini precedenti. Ma la processione per spirazione non può convenire a nessuno dei 2 termini precedenti: Paternità e Figliazione, perché conseguono la processione per intelletto, mentre la spirazione è processione di volontà; essa deve quindi designare una terza persona e questa è lo Spirito Santo.
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3. Il numero tre applicato alle persone divine importa divisione, non materiale, ma formale e va preso come trascendentale al pari dell’uno trascendentale; e come questo vale soltanto «negazione di divisione», così il tre importa soltanto «indivisione di ciascuna delle persone divine». 4. II nome «persona» è nome comune delle tre persone, come è nome comune il nome «uomo» quando diciamo tre uomini.
Quest. 31. Cautele nell’uso dei termini. – 1. Trinità vuol dire che le persone divine sono più di una e sono precisamente tre. 2. Quando diciamo che il Figlio è diverso dal Padre, contro Ario intendiamo dire che è distinto dal Padre, non però che sia separato, diviso e differente dal Padre, e contro Sabellio intendiamo escludere che sia una sola e unica cosa col Padre o con lui confusa e che Dio sia un solitario. 3. Parlando di Dio la parola «solo» possiamo adoperarla non categoricamente = come predicato; p. e. Dio è. solo: ma sincategoricamente = come avverbio; p. e. solo Dio è eterno. 4. e questa frase esclusiva: solo Dio è... la adoperiamo relativamente alla natura e alla personalità, non. relativamente alla persona. Diciamo: infinito è Dio solo, la paternità in Dio è una sola, ma non diciamo: solo il Padre è Dio.
Quest. 32. Conoscenza della Trinità. – 1. La ragione umana da sé non può conoscere la Trinità, perché essa da sé conosce Dio in quanto è Causa del Mondo, e Dio ne
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è Causa in quanto è Uno nell’Essenza, non in quanto è Trino nelle Persone. Le triadi concepite da Aristotele, dai Platonici, dal Trimegisto ecc. non sono la trinità, perché essa consiste nella Paternità, Figliazione e Processione e questa nel senso suo proprio i filosofi non la conobbero. 2. Per parlare distintamente delle Persone divine non solo in concreto, ma anche in astratto abbiano bisogno di fissare in Dio le nominazioni o nozioni o proprietà, ciò poi non fa contro la semplicità di Dio, perché è il nostro intelletto limitato che si rivolge a Dio uno con concetti molteplici. 3. Abbiamo così: 5 Nozioni: Innascibilità, paternità, figliazione, spirazione e processione per spirazione. 4 Relazioni: paternità, figliazione, spirazione e processione; 3 Persone: paternità, figliazione, processione. 4. Finché pero i concetti delle nozioni non sono fissati per autorità della Chiesa, si può su questi opinare anche diversamente.
Quest. 33. La persona del Padre. – 1. Al Padre compete il nome di principio (= ciò da cui procede...), perché da lui procede il Figlio e nei rapporti della Trinità noi adoperiamo sempre la parola principio usando maggior distinzione dei greci che adoperano indifferentemente le parole: causa e principio. 2. Il nome Padre è none proprio della Prima Persona, perché è il nome che la distingue dalle altre. 3. Il nome Padre compete alla Prima Persona più in quanto è principio del Figlio che in quanto è principio delle creature, perciò gli compte più come Persona divina che come Dio.
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4. Il Padre è principio; principio importa che da lui altri proceda e esclude che egli proceda da altri, perciò al Padre è proprio essere ingenito.
Quest. 34. La persona del Figlio. – 1. «Verbo» in Dio è nome di persona, non di natura, perché Verbo (= parola) significa: a) concetto che la mente si forma di una cosa; b) imaginazione della parola che lo rappresenta; c) articolazione della voce che lo esprime; in tutti tre i casi indica un procedente da un principio, quindi in Dio, non può essere che nome di persona; 2. e poiché «Verbo» indica processione di intelletto e chi così procede si chiama Figlio e la sua processione è detta Generazione, così Verbo è nome proprio del Figlio. 3. Il Verbo in Dio è il concetto rappresentativo, che, con un unico atto, Dio si forma e di se e delle creature che dipendono dalla sua scienza e potenza; il Verbo, quindi importa anche relazione alle creature ed è la ragione fattiva della Creazione.
Quest. 35. Della voce: Imagine. – 1. In Dio i nomi relativi a processione sono personali, quindi anche il nome Imagine in Dio è nome di persona, perché in senso stretto una cosa è imagine di un’altra quando da lei procede in similitudine di specie; 2. e propriamente il nome Imagine non compete alla Spirito Santo, perché la scrittura non glielo attribuisce mai; conviene piuttosto al Figlio, al quale, essendo Verbo (= concetto rappresentativo), conviene naturalmente la somiglianza col Padre.
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Quest. 36. La persona dello Spirito Santo. – 1. La prima processione in Dio ha i nomi propri di Figlio, Verbe, Imagine; la seconda non ha un nome proprio, ma un nome appropriato «Spirito Santo» e gli si appropria il nome di Spirito, perché, come di un vento che spira è proprio spingere e muovere, così dell’amore e proprio spingere chi ama verso chi è amato e la seconda processione è appunto per modo di amore. 2. Le divine persone si distinguono fra di loro per opposizione di relazione determinata da processione (28. 3) se lo Spirito Santo non procedesse anche dal Figlio, mancherebbe la ragione di distinguerlo dal Figlio, dunque procede anche dal Figlio. 3. Il Figlio ha dal Padre che dà lui proceda lo Spirito Santo, perciò il Padre spira lo Spirito Santo mediante il Figlio e lo Spirito Santo procede dal Padre mediante il Figlio; ciò però non costituisce un ordine di tempo o di potenza, ma solo un ordine di persone. 4. Il Padre e il Figlio sono una stessa cosa in tutto ciò in cui non sono distinti per opposizione di relazione (28. 3,4), e poiché ciò che distingue lo Spirito Santo dal Padre e dal Figlio è una stessa e unica relazione, così Padre e Figlio, formano un unico principio dello Spirito Santo.
Quest. 37. Nome proprio dello Spirito Santo «Amore». 1. In Dio per l’atto di intendere, che appartiene alla Natura divina, c’è il Verbo, che è nome di persona, perché esprime la relazione del procedente al suo principio nella prima processione; nella seconda processione per l’atto di amare si può dire che chi è amato si imprime nell’amante e questa relazione non si può meglio esprimere che colla parola amore: Amore quindi può essere nome proprio dello Spirito Santo. 2. Che Padre e Figlio si amino dell’Amore dello Spirito Santo si può dire, non nel senso che lo Spirito Santo sia
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il principio dell’amore, il quale appartiene alla natura di Dio, ma nel senso che, amandosi il Padre e il Figlio, procede la persona dello Spirito Santo, così come si dice che l’albero fiorisce di fiori.
Quest. 38. Nome dello Spirito Santo «Dono». – 1. Dono importa a) attitudine di una cosa a diventare di altri; b) appartenenza di tale cosa a chi fa il dono. Orbene, fra le persone divine qualcuna può essere di un’altra in quanto da lei procede e ha origine, e può diventare di altri p. es. della creatura ragionevole, che può possederla; dunque qualcuna delle divine Persone è Dono. 2. In particolare poi questo nome «Dono» compete allo Spirito Santo, perché dono è ciò che si dà come bene; si dà come bene, perché si vuol bene cioè si ama, e lo Spirito Santo è appunto Amore. Quest. 39. Le persone in relazione alla Essenza – 1. Poiché la relazione, d’onde la Persona (29.4), non è che la stessa sostanza rispetto ad altri (28. 2), essenza e persona in Dio è lo stesso; e se appunto per questo non c’è reale distinzione fra essenza e persona, ciò non impedisce che le Persone siano tre, essendovi tra loro distinzione reale per l’opposizione di relazione (28. 3). Così resta una essenza e tre persone. 2. Di Dio parliamo con concetti ricavati dalle cose create, e come in queste Essenza sarebbe la forma e Persona sarebbe ogni individuo che ha tale forma e noi ne parliamo adoperando un aggettivo che la designi, p. es.: quell’atleta ha una forma perfetta, così in Dio diciamo che tre Persone sono di una sola Essenza e che una sola Essenza è di tre Persone. 3. Perciò i sostantivi, che si riferiscono all’Essenza, vanno in singolare p. es. l’eterna onnipotenza; gli agget-
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tivi invece, che si riferiscono alle persone vanno in plurale, p. es. tre esistenti coeterni. 4. Secondo il significato della frase, il nome concreto di natura, p. es. Dio, può riferirsi talora all’essenza, talora a una persona, talora a tulle tre: p. es. «Dio Creò; Dio Generò; a Dio Gloria». 5. Ma il nome astratto di Natura, p. es. la Divinità, non si può prendere in luogo del nome di persona, perché porterebbe a dire: la divinità generò la divinità; e benché gli aggettivi di persona non si possano attribuire all’essenza, p. es. l’essenza è generata, 6. tuttavia ciò si può fare coi nomi di persona, perché l’essenza divina è eguale per le tre persone quindi si dice: l’Unigenito è Dio; Dio è tre persone. 7. La Trinità non si può dimostrare, ma si può indicare, e poiché ci sono più manifeste le proprietà di Natura che quelle di Persona è conveniente attribuire qualche proprietà di natura a ciascuna persona in particolare, il che si dice: appropriare. 8. Convenientemente quindi i Padri attribuirono al Padre
al Figlio
allo Spirito S.
in quanto Dio esiste: » » è uno:
l’eternità
lo splendore
la soavità
l’unità
l’uguaglianza
la concordia
» » è causa:
la Potenza
la Sapienza
la Bontà
» » ha creato i complementi
dal quale
per il quale
nel quale
Quest. 40. Le persone e le relazioni divine. – 1. Le relazioni in Dio sono le stesse persone, perché sono reali, quindi esistenti, anzi sono la stessa essenza di Dio, colla quale pure si identificano le persone. Così la paternità è il Padre.
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2. Ciò che distingue una dall’altra le Persone divine non si trova nell’essenza che è identica per tutte tre, ma si trova nell’origine e nella relazione; anzi più che nell’origine, che dice atto, p. es. generazione, tale distintivo va riposto nella relazione, che importa realtà. 3. Che se si dovesse fare astrazione in Dio delle relazioni e delle proprietà personali, cesserebbe ogni ragione di distinguere in Dio tre persone. 4. Ciò che designa l’ordine di origine di una persona dall’altra si dice atto nozionale, p. es. il Padre genera il figlio, e gli atti nozionali si hanno in mente prima delle proprietà, perché ne sono la strada.
Quest. 41. Le tre Persone divine e gli atti nozionali. – 1. È necessario attribuire alle Persone divine gli atti nozionali, perché essi designano l’origine e appunto secondo l’origine si distinguono le tre divine Persone. 2. Gli atti nozionali si possono dire volontari in quanto sono in Dio con volontà, ma non in quanto siano per volontà e a volontà, perchè invece ne è principio la natura. 3. Gli atti nozionali importano origine da qualcuno, ne viene così che il Figlio non è creato, ma ha origine dal Padre e non in quanto il Padre a Lui fa parte della sua sostanza, ma in quanto gliela comunica tutta intera. 4. Gli atti nozionali importano in Dio anche la Potenza che ne è il principio, p. es., la potenza di generare nel Padre. 5. Potenza di generare, se è soggetto (Nominativo) si riferisce alla essenza divina, negli altri casi può riferirsi anche alla Paternità e relazione. 6. Ogni atto nozionale non può avere per termine che una sola persona, perché una sola procede come Verbo, una sola come Amore.
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Quest. 42. Le tre Persone divine sono eguali fra di loro. – 1. Le tre divine persone sono eguali, perché ciascuna sussiste nella divina essenza numericamente una e identica. 2. Il Figlio procede dal Padre non per volontà del Padre, ma per la Natura divina, anzi per effetto della perfezione della natura divina, ed essendo tale perfezione eterna, ab eterno ci sono Padre, Figlio e così pure Spirito Santo. 3. ne segue che nelle Persone divine c’è un ordine di principio d’origine: prima c’è il Padre, poi il Figlio, poi lo Spirito Santo, ma ciò senza priorità; mai fu il Padre senza il Figlio. 4. Ne segue ancora che, importando la Trinità comunicazione a tre Persone della numericamente una e identica natura divina, il Figlio è eguale al Padre nella Grandezza, cioè nella Perfezione di Natura; 5. e che essendo nel Figlio l’essenza del Padre, il Padre è nel Figlio e il Figlio è nel Padre; 6. e che il Figlio ha anche la stessa Potenza del Padre.
Quest. 43. Missione delle Persone divine. – 1. La Missione (mandare) non disconviene a Persona divina, perché significa: origine da altra Persona e insieme nuovo termine o nuovo modo di essere: così il Figlio che si incarnò si dice mandato dal Padre nel mondo. 2. Relativamente al termine o punto di arrivo, che è fuori di Dio, la Missione è del tempo non dell’Eternità. 3. Missione invisibile di divina persona vale: essere mandata e essere ricevuta. Questo avviene nella grazia santificante, per la quale Dio si trova in una creatura ragionevole oltreché per essenza, presenza e potenza, anche conosciuto e amato, quindi come in suo tempio. 4. Al Padre che non proviene da nessuna persona, non spetta missione. Cosicché,
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5. se colla grazia santificante si trova nell’anima tutta la Trinità, la missione invisibile resta propria del Figlio e dello Spirito Santo, 6. e ne sono partecipi tanti quelli che hanno la grazia. 7. Lo Spirito Santo ebbe la missione visibile a indizio della invisibile nella Pentecoste. 8. Nell’incarnazione si può dire che il Figlio lo ha mandato lo Spirito Santo, non quale principio della Persona, ma quale principio dell’effetto della stessa incarnazione.
Quest. 44. Processione delle creature da Dio. – 1. In Dio essenza ed esistenza è lo stesso (3. 4). Egli quindi è l’Essere ed è da se stesso. Tale è uno solo (11. 3. 4); le altre cose invece non possono che avere un essere, e un essere partecipato e precisamente da Dio; quindi sono da Dio. 2. La materia prima, si intenda o grossolanamente o sottilmente, entra come costitutivo e fa parte delle cose: tutte le cose sono da Dio, quindi anche la materia prima. 3. Come l’artefice dà alla materia, che maneggia, una forma secondo un esemplare che ha in mente o che ha sott’occhio, così nella sapienza creatrice di Dio ci sono le forme esemplari delle cose; e queste, quanto alle cose sono la stessa unica essenza di Dio; Dio quindi è il primo esemplare 4. Dio creando agì per un fine; fine non può essere che il bene; ma per Iddio, il quale è infinito, non si tratta di bene da acquistare, ma di bene da comunicare, e la Bontà divina è il fine dell’universo.
Quest. 45. In che modo procedono le cose dal primo principio. – 1. Quello che vien fatto, prima non c’era se
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anche l’universalità delle cose (44. 2) proviene da Dio, prima nessuna cosa c’era, niente c’era, e creare è fare dal niente. 2. Non solo Dio può creare; ma fu necessario che creasse; gli artefici, danno forma a cose che hanno dalla natura; la natura opera sulla già formata materia Dio invece, siccome nulla c’è se non da Lui, perché ci siano le cose ha dovuto creare anzitutto la materia. 3. Nelle creature la creazione importa, non già mutazione, perché vi manca il punto reale di partenza ma relazione reale verso Dio Creatore, come principio del loro essere. 4. Creare è dare a un ente l’esistenza; enti reali sono le sostanze e i composti, di questi, quindi si dice che si creano; degli accidenti e delle forme va detto invece che si concreano. 5. L’effetto universalissimo è termine esclusivo della Causa universalissima; l’essere è effetto universalissimo perciò creare spetta alla causa universalissima, a Dio solo. 6. e spetta a Dio in quanto è Dio, dunque creare è proprio di tutta la Trinità; però Dio fa coll’intelletto ciò che ha nel volere, va detto quindi che il Padre creò il mondo col Verbo nello Spirito Santo. 7. Le creature irragionevoli rappresentano di Dio la sola Causalità, esse quindi hanno in se solo un vestigio della Trinità, rappresentandola in quanto ognuna ha un essere, una data forma, una data inclinazione. Le creature poi che constano di intelletto e volontà portano in sé non solo il vestgio, ma anche l’immagine della Trinità: Padre, Verbo e Spirito Santo. 8. Siccome nella materia si trovano in potenza tutte le forme di cui essa è suscettibile, così nelle opere di natura e arte non si riscontra un vero creare.
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Quest. 46. Inizio della durata delle creature. – 1. Soltanto un Ente è necessario e sufficiente che esista ab aeterno, e questo è Dio. Il mondo ha avuto una Causa, questa è la volontà di Dio; ma se si prova che Dio non può non volere se stesso (19. 3), non si può altrettanto provare che necessariamente Dio volesse il mondo eterno, e concludere che il mondo è eterno. Ciò che a questo proposito dice Aristotele non è per dimostrare, ma per fare della dialettica. 2. Che però il mondo abbia cominciato e non sia eterno lo si sa solo di fede, perché a farne la dimostrazione non si prestano i due suoi principii: l’interno cioè le Essenze e l’esterno cioè la Causa: infatti le essenze sono universali, esistono quindi sempre e dappertutto; la causa poi è la volontà di Dio, ma di questa soltanto se stesso si può provare che Dio vuole necessariamente; in quanto al resto si sa qualche cosa secondo che Dio lo manifesta, si sa dunque per fede; 3. e precisamente dalla Scrittura sappiamo che Dio creò le cose in principio: sia principio delle cose in Dio cioè il Verbo; sia principio delle cose stesse; sia principio del tempo.
Quest. 47. Distinzione comune delle cose. – 1. La moltitudine e distinzione delle cose proviene dall’intenzione di Dio, avendo egli creato il mondo per comunicare la sua Bontà e non potendo questa essere resa sufficientemente manifesta da una cosa sola. 2. E parimenti procede dalla sapienza di Dio la disuguaglianza delle cose, necessaria alla loro distinzione formale o di specie, nell’ambito della quale variano gli individui per il più o il meno, che pero non cambia specie. 3. L’ordine del mondo gli dà unità, e avendo le le cose tutte ordine e fra se stesse e relativamente a Dio, come c’è un solo Dio, c’è un solo mondo.
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Quest. 48. Distinzione speciale delle cose. – 1. Cosa sia il male si conosce dal suo opposto cioè il bene; bene è ciò che è appetìbile in quanto perfeziona l’essere di chi lo cerca; bene quindi è entità; il male che è il suo opposto, sarà mancanza di bene, mancanza di entità. 2. La disuguaglianza delle cose (47. 2) è per la perfezione dell’universo; questa importa che ci siano esseri incorruttibili e anche corruttibili, che non sarebbero però corruttibili se mai soggiacessero a corruzione o difetto: questo si avvera colla mancanza di relativo bene, cioè col male; il male adunque è per la perfezione dell’universo. 3. La mancanza di relativo bene si trova in qualche soggetto, che in quanto ha di entità è bene, dunque il male si trova nel bene. 4. Male è mancanza di tutto il corrispondente bene, ma non è corruzione dello stesso soggetto in cui si trova il male, perché allora neppur il male potrebbe esistere. 5. Atto primo è l’essere, atto secondo è l’operare; il male adunque è duplice: mancanza di atto primo o di atto secondo; nelle creature razionali si chiama male di pena l’uno, male di colpa l’altro. 6. Il male di colpa, che procede dalla nostra volontà e che ci fa cattivi, giacché consiste nel disordine della stessa volontà, è maggiore del male di pena, che è privazione di qualche cosa, che è oggetto della volontà.
Quest. 49. La causa del male. – 1. Il male ha la sua causa: non già causa formale e finale, essendo esso mancanza e di forma e di ordine al fine, ma bensì, causa materiale, ed è il bene che è il soggetto del male, e anche causa efficiente ed è quell’essere che per accidente lo produce: quindi causa del male si può dire il bene. 2. Dio non si può dire causa del male in quanto la sua azione sia difettosa, ma solo in quanto dipende da Dio quella mancanza di relativo bene, d’onde l’ineguaglianza
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delle cose (48. 2), e in quanto viene da Dio il male di pena per la punizione della colpa. 3. Il male assoluto, totale, principio del male non, esiste. Infatti a) mentre c’è il Bene sommo, il Bene per essenza (6. 2, 3), il male è soltanto mancanza relativa di bene, non c’è quindi male assoluto; b) il male non è corruzione dello stesso soggetto in cui si trova (48. 4), perché altrimenti non potrebbe esistere, non c’è quindi male totale; c) il male ha origine dal bene, dunque non è principio, ma principiato; quando poi è causa lo è per accidente, dunque non è Causa Prima, perché la causa per accidente è posteriore alla causa propria.
Quest. 50. Sostanza angelica. – 1. Gli angeli sono incorporei, perché dovendo l’universo rappresentare Dio, è necessario che nella scala degli esseri ce ne siano di puramente intellettuali, quindi incorporei, 2. e perciò senza materia, perché l’intendere è operazione del tutto immateriale. Gli angeli quindi non risultano di materia e forma. 3. Essi sono sostanze separate, non pero nel senso di Platone, cioè di esemplari delle cose sensibili: e ve ne sono in numero straordinario, conviene infatti alla potenza di Dio che, essendo esseri creati i più perfetti, fossero in gran numero. 4. Le cose composte di materia e forma per la forma appartengono a una stessa specie e per la materia si distinguono fra loro quali individui; gli angeli invece non risultano di materia e forma, quindi è impossibile che ce ne siano due di una stessa specie. 5. La corruzione si fa per separazione, la separazione è possibile in un composto, gli angeli non sono composti nemmeno di materia e forma, essi sono quindi incorruttibili.
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Quest. 51. Gli Angeli e i corpi. – 1. Nel genere delle sostanze intellettuali come c’è l’imperfetto, cioè l’uomo che all’anima ha unito il corpo e che si forma la scienza delle cose sensibili, così ci deve essere il perfetto che esclude il corpo: questo perfetto è l’angelo, l’angelo quindi non ha corpo. 2. Gli angeli però possono assumere corpo. Infatti la scrittura parla di Angeli che si sono resi visibili a tutti; questo fecero assumendo un corpo di aria, la quale per condensazione può prendere figura e colore come si vede nelle nubi. 3. Con un tal corpo gli angeli possono prendere moto, dare impulso a onde sonore così da far sentire ogni suono, ma non possono fare opere vitali, come sarebbe mangiare, perché a tal corpo non danno vita.
Quest: 52. Gli Angeli e i luoghi. – 1. L’Angelo può trovarsi in un luogo, ma non nel senso solito; vi si trova in quanto vi opera qualcosa e così anziché essere contenuto nel luogo lo contiene. 2. L’angelo non essendo infinito non può trovarsi contemporaneamente in due luoghi diversi: può essere però molto ampio il luogo in cui esercita la sua virtù. 3. Due angeli però non possono trovarsi in uno stesso punto, perché non possono darsi due cause complete di una stessa cosa.
Quest. 53. Moto locale degli Angeli. – 1. L’angelo, come si trova in un luogo diversamente dai corpi, perché non ne è circoscritto, ma lo abbraccia (52. 1), così anche si muove diversamente dai corpi. I corpi si muovono con continuità di parti, l’Angelo invece, come in uno stesso luogo può applicare la sua azione e a tratti e con
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continuità, così può muoversi di moto non continuo e continuo; 2. nel primo caso non passa per mezzo, nel secondo sì; 3. e tanto nell’un caso come nell’altro l’azione viene applicata in istanti successivi, perciò avviene nel tempo.
Quest. 54. Scienza angelica. – 1. Nelle creature l’azione è della sostanza, ma non è la sostanza, perciò anche negli Angeli, che sono creature, l’intendere non è la sostanza. Dio solo, in cui tutto è perfezione infinita, è l’intendere sussistente. Se un angelo fosse l’intendere sussistente non si distinguerebbe da Dio e nemmeno da altri angeli, mancando nell’intendere sussistente, nell’atto puro di intendere, il più e il meno. 2. Parimenti l’intendere degli Angeli, come l’azione di ogni creatura, è nella esistenza e non è la esistenza. Ciò è evidente se si tratta di azione transeunte, perché è fuori del soggetto; ed è chiaro se si tratta di azione immanente come l’intendere, perché importerebbe esistenza assoluta, infinita, ma questa è propria di Dio solo; 3. perciò neppure il principio dell’intendere, cioè la potenza intellettiva, è l’essenza dell’Angelo. 4. L’Angelo è sempre in atto di intendere e lo fa per mezzo di imagini delle cose impressegli da Dio. Ma l’uomo non è da tanto, perciò l’intelletto nostro è agente quando sta in azione scrutando la verità, nel rendere effettivamente, a forza di astrazioni, intelligibili le nature delle cose materiali che per sé tali non sono; resta poi possibile finché della verità scrutata si imposessa formandosi il concetto. 5. Agli Angeli che non hanno corpo sono attribuibili sole quelle potenze dell’anima nostra che non hanno relazione col corpo, cioè l’intelletto e la volontà.
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Quest. 55. Mezzo della cognizione negli Angeli. – 1. L’Angelo non conosce tutto per la sua natura, cioè per mezzo di se stesso, perché dovrebbe avere in se stesso tutto ciò che può conoscere. Questo invece è proprio di Dio e l’angelo conosce per immagini mandategli da Dio, per riflessi di Dio. 2. Cosicché tali imagini sono agli Angeli connaturali e non potrebbero essi averle dalle cose, perché allora dovrebbero la loro perfezione alle cose. 3. Dio perfettissimo conosce tutto nella sua essenza una, semplice, universale. Gli Angeli superiori sono più perfetti, più si assomigliano a Dio e più conoscono le cose per le imagini sempre più universali di esse.
Quest. 56. Conoscenza delle cose immateriali negli Angeli. – 1. L’Angelo che non consta di materia, è una forma sussistente; questa forma è immateriale, quindi intelligibile, perciò l’Angelo conosce se stesso per mezzo della sua forma sussistente, cioè della sua sostanza. 2. Gli altri Angeli e le altre cose l’Angelo le conosce nelle imagini connaturali impresse nel suo intelletto. 3. L’Angelo può conoscere colle forze naturali Dio in modo migliore degli uomini in quanto cioè alla sua potenza conoscitiva si fa presente la imagine di Dio. Come per noi si forma l’imagine di un sasso nell’occhio, così per l’Angelo si rispecchia nella sua natura l’essenza di Dio.
Quest. 57. Conoscenza delle cose materiali negli Angeli. – 1. Gli Angeli che sono più vicini a Dio, più partecipano di Dio; le cose materiali preesistono in Dio, e, per partecipazione, anche negli Angeli, e precisamente secondo l’essere degli Angeli, che è intellettuale; vi pre-
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esistono perciò nelle loro imagini intellettuali, e così gli Angeli conoscono le cose materiali. 2. Gli Angeli conoscono le cose particolari, ma non come l’astrologo che nelle leggi universali prevede le singole ecclissi, sibbene le conoscono in sé per imagini infuse da Dio. 3. Quanto al futuro, esso può essere conosciuto nelle sue cause o in se stesso. Nelle sue cause gli Angeli prevedono il futuro necessario e congetturano meglio degli uomini il futuro ordinario; ma in se stesso il futuro è noto a Dio solo, che lo conosce nell’eternità. 4. Similmente i segreti dell’anima gli Angeli possono conoscerli dagli effetti, mentre in se stessi sono a Dio solo naturalmente noti. 5. I misteri poi della grazia, che dipendono dalla sola volontà di Dio, gli Angeli non li conoscono se non per cognizione soprannaturale e beatifica.
Quest. 58. Limiti della scienza angelica. – 1. Della cognizione naturale gli Angeli hanno sempre l’abito, ma questo non è sempre in atto: invece la cognizione beatifica del Verbo in loro è sempre in atto. 2. In assieme gli Angeli conoscono l’universalità delle cose di cognizione beatifica; ma di scienza naturale non conoscono in assieme le cose di cui hanno infuse imagini distinte. 3. Gli Angeli conoscono una cosa nell’altra, non una cosa per mezzo dell’altra; essi quindi hanno scienza intuitiva anziché discursiva. 4. E come non abbisognano di termine medio o di paragone, per passare dai principi alle conclusioni, così non ne abbisognano per affermare o negare il convenire o no di un predicato ad un soggetto. 5. La scienza angelica quindi non è come quella degli uomini che per istrada può arrestarsi o deviare, essa va
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diritta al suo termine e non è soggetta a falsità, a meno che, come nei demoni, la cattiva volontà turbi l’intelletto. 6. Osserva S. Agostino che i 6 giorni della creazione, non sono come i nostri, perché il sole che li regola ci fu soltanto al quarto; giorno perciò va inteso cognizione angelica di sei generi di cose; vespero: gli Angeli hanno conosciuto le cose nel Verbo; mattino gli Angeli hanno conosciuto le cose in loro stesse. 7. È essenzialmente diverso conoscere le cose in se stesse vedendole nel Verbo, e vedendole nelle loro imagini agli Angeli connaturali, perciò essenzialmente differiscono vespero e mattino.
Quest. 59. Volontà angelica. – 1. Tutto procede da Dio ed è inclinato al bene: questa inclinazione si distingue in naturale, sensitiva e intellettuale; l’intellettuale si chiama volontà. Gli Angeli hanno intelletto, quindi anche volontà. 2. Gli Angeli hanno volontà soltanto per il bene, intelletto anche per il male, perciò differiscono in loro intelletto e volontà. 3. Gli Angeli conoscono non un bene particolare cui siano determinati, ma il bene in generale per giudicare se poi in particolare una cosa è bene o no; ciò equivale a giudizio libero, anche agli Angeli quindi spetta il libero arbitrio. 4. Negli Angeli non c’è irascibile e concupiscibile, perché questi sono parti dell’appetito sensitivo.
Quest. 60. Amore negli Angeli. – 1. L’inclinazione che consegue la conoscenza intellettuale è propria della natura e, in quanto si accompagna a conoscenza intellettuale, si chiama amore; negli Angeli c’è dunque l’amore.
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2. Tale amore si distingue in naturale, che riguarda il fine, ed elettivo che riguarda i mezzi, e il naturale è principio dell’elettivo anche negli Aneli. 3. Amare è voler il bene; questo bene è sostanziale o accidentale: ciascuno ama se stesso volendo e il suo essere e la sua perfezione, perciò anche l’Angelo ama se stesso di amore naturale per naturale inclinazione, e di amore elettivo quando per elezione si desidera il bene; 4. di amore naturale l’angelo ama e vuole il bene della propria natura e quindi anche il bene di chi è partecipe della stessa natura, così e in questo gli Angeli si amano di amore naturale; nel resto si amano di amore elettivo. 5. L’inclinazione naturale è maggiore per ciò che è principale, minore per ciò che è subordinato; così istintivamente la mano si stende e si espone a un colpo per proteggere il capo. Dio è il Bene universale, perciò l’Angelo di amore naturale anta più Dio che se stesso, altrimenti avrebbe un amore perverso, impossibile fondamento alla grazia.
Quest. 61. Creazione degli Angeli. – 1. Solo Iddio esiste di per se stesso (3. 4), quindi anche gli Angeli, come tutte le cose, hanno in Dio la causa del loro essere. 2. E, come tutte le cose, furono creati dal niente, hanno avuto come precedente il niente, perciò non sono «ab aeterno»; 3. ed essendo l’ultimo gradino della scala degli esseri dell’universo furono creati coll’universo e non prima, 4. ed ebbero una sede proporzionata alla loro natura spirituale; non la terra, ma il cielo.
Quest. 62. Perfezione di grazia e di gloria negli Angeli. – 1. Beatitudine naturale (= ultimo grado di Perfezione)
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per una natura intellettuale è «contemplazione del sommo intelligibile», che è Dio: e poiché l’Angelo a differenza dell’uomo raggiunge direttamente il suo oggetto, così l’Angelo la ebbe appena creato. Beatitudine invece soprannaturale (la visione dell’essenza di Dio) è sopra la natura e non appartiene alla natura angelica averla subito; 2. e il rivolgersi a lei per conseguirla non poteva dipendere che da una mozione di Dio, dalla grazia di Dio; 3. S. Agostino ritiene che tale mozione gli Angeli la abbiano avuta nella creazione e quindi che siano stati creati in grazia. 4. E per tale mozione indirizzandosi essi a beatitudine non dovuta alla natura, convien dire che chi la conseguì, la meritò. 5. Come per l’intelletto, così anche per la volontà l’Angelo va direttamente al suo oggetto, bastò quindi un atto di amore per conseguire la beatitudine. 6. Ciascun Angelo ebbe grazia e gloria proporzionata alle forze della natura e ciò convenne e alla Sapienza di Dio e agli stessi Angeli che chi è più forte più abbia di mozione, di grazia. 7. E poiché natura e grazia stanno fra loro come primo e secondo, negli Angeli beati non vengono distrutti, ma restano e cognizione e amore naturale. 8. L’Angelo beato vede Dio, Bene essenziale, perciò non può volere agire se non indirizzandosi, se non mirando a Dio, perciò non può peccare. 9. Se gli Angeli potessero progredire in gloria arriverebbero fino a comprendere Dio; ma Dio è infinito, quindi incomprensibile, quindi non si può dire che possano progredire.
Quest. 63. Malizia degli Angeli. – 1. Peccare, cioè venir meno all’atto regolare nelle cose e naturali e artificiali e morali è proprio di ogni creatura. L’artefice che traccia
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uno schizzo da copiarsi, non sbaglia, ma può sbagliare chi deve copiarlo. La volontà di Dio è regola e non sbaglia; le volontà create che a quella regola devono conformarsi possono invece sbagliare. 2. Il primo peccato degli Angeli fu di affetto, non ai beni corporali, ma ai beni spirituali. L’affetto ai beni spirituali in loro non poteva essere peccaminoso se non in quanto discordante dalla regola del superiore, il che è superbia e ribellione; tale peccato quindi non poteva essere che superbia. 3. Vollero gli Angeli essere come Dio, non nel senso di trasmutarsi in Dio, perché questo non si conseguisce se non colla distruzione del proprio essere, il che ripugna al sentimento naturale ma nel senso che o pretesero di diventare come Dio, capaci di creare, o pretesero definitiva la perfezione naturale, o pretesero di conseguire colle forze naturali, senza la grazia, la beatitudine soprannaturale. 4. Ogni effetto è rivolto al suo principio. Gli Angeli sono effetto di Dio, sono perciò di lor natura rivolti a Dio, che è Bene. Ma questa naturale inclinazione al Bene può nelle creature intellettuali essere depravata dalla volontà. 5. Il peccato degli Angeli fu non del primo istante, ma posteriore al primo istante della loro creazione, perché questa, cioè il loro essere, è termine della operazione di Dio, che non si può dire agente difettoso, mentre il peccato è termine della loro malizia. 6. Il diavolo peccò subito dopo il primo istante della sua creazione, perché lo si ritiene creato in grazia; col primo atto, se non avesse peccato, avrebbe meritato la beatitudine. 7. Il peccato degli Angeli fu di superbia, il cui motivo fu l’eccellenza, perciò è ritenibile che il primo degli Angeli ribelli sia stato l’Angelo più eccellente; ed esso 8. indusse a peccare gli altri, che perciò gli furono assoggettati nella pena;
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9. e poiché la inclinazione naturale non fu di peccare e la natura ordinariamente conseguisce il suo effetto, così quelli clic non Peccarono furono in maggior numero.
Quest. 64. La pena dei Demoni. – 1. I demoni furono danneggiati nell’intelletto, non quanto alla cognizione naturale, ma quanto alla cognizione di grazia, perdendo parzialmente quella speculativa dei misteri di Dio e totalmente quella affettiva. Così la cognizione vespertina. divenne per loro notturna e l’Incarnazione fu cognizione terrificante. 2. Poiché la forza appetitivi si proporziona alla apprensiva e li adesione della volontà all’apprendimento intellettuale, l’intelletto dell’uomo apprende immobilmente qualche cosa cioè i primi principi; l’intelletti dell’Angelo invece apprende tutto immobilmente e proporzionatamente, quindi, come la volontà degli Angeli buoni è ferma nel bene, così ora la volontà dei demoni é ostinata nel male. 3. Dolore corporale certamente non ne risentono i demoni, ma risentono dolore di volontà, cioè quell’inane renitenza di volontà per cui non vorrebbero certe cose, p. es. la beatitudine dei Santi. 4. Luogo della pena dei demoni è l’inferno, ma finché ci sono nel mondo uomini da tentare, avendo Dio disposto che l’uomo sia aiutato dagli Angeli e combattuto dai demoni, essi si aggirano anche per l’aere caliginoso del mondo.
Quest. 65. Creazione delle creature corporali. – 1: Le creature corporali non provengono dal Principio del, male, ma da Dio, perché anche esse hanno l’essere, e tutto ciò che ha l’essere viene da Dio.
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2. Né, come pensa Origene, è da ritenersi che le creature corporali Dio le fece quando volle punire i i peccati delle creature spirituali; le fece perché nella loro varietà colla subordinazione delle meno nobili alle: più nobili formassero un tutto rappresentante la bontà di Dio e manifestante la sua gloria. 3. Le creature corporee non si possono dire prodotte dagli Angeli, perché anche in esse c’è l’esistenza che è effetto universale nelle cose e che perciò si deve attribuire alla sola causa universale, Dio. 4. Platone ammetteva delle forme separate, di uomo, F di cavallo, di albero, da imprimersi come uno stampo, un’impronta, per dare l’essere specifico alle cose; Avicenna sosteneva che le forme delle cose non sussistono nelle cose, ma sussistono negli intelletti separati, cioè negli Angeli, come sussistono le forme delle cose artificiali nella mente degli artefici. Queste sono opinioni inutili; perché nella creazione le forme furono create colle cose e nelle cose e non separatamente, perciò anche le forme sono esclusivamente da Dio.
Quest. 66. Ordine di distinzione nella Creazione. 1. Le parole della Scrittura: «Le tenebre coprivano la terra e la terra era informe e vuota» non indicano che sia esistita con precedenza di tempo una materia informe, cioè la materia prima senza ancora nessuna forma sostanziale, perché questa sarebbe un essere senza essere; la precedenza non può essere che di natura? detto informe cioè quasi deforme, perché al cielo mancava la luce e alla terra, sommersa nelle acque, mancava á l’adornamento delle erbe e delle piante. 2. La materia non è unica per i cori celesti e per i corpi inferiori, altrimenti potrebbero trasmutarsi gli uni negli altri, il che non avviene.
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3. Fu conveniente che in principio, insieme colla terra informe, fosse creato un luogo di splendore, quale sede degli Angeli e inizio della gloria corporale, cioè il cielo empireo (= ardente). 4. Il tempo cominciò colla materia informe, perché é col tempo che si misura la sua durata in tale, stato e il suo passaggio agli stati successivi.
Quest. 67. Distinzione della Creazione. – 1. Luce significa: a) ciò che fa vedere, b) ciò che rende manifesto relativamente Balla vista degli occhi, e a ogni altra evidente cognizione sensitiva e allo stesso intelletto; perciò nelle cose spirituali luce nel primo significato si adopera in senso metaforico; nel secondo si adopera in senso proprio. 2. La luce non è corpo, perché se fosse corpo a) la sua coesistenza cogli altri corpi farebbe contro la legge dell’impenetrabilità; b) la rapidità della sua diffusione farebbe contro la lentezza del moto locale proprio dei corpi; c) la sua cessazione avverrebbe per corruzione essa si muterebbe in tenebre, anche queste corpo, e resterebbe inspiegabile il sorgere della luce all’altro emisfero. 3. La luce, che non è corpo, non è una pura nostra sensazione, perché i raggi di luce scaldano e le nostre senzazioni no; non è la forma sostanziale o natura del sole, perché le forme sostanziali si possono intendere, ma non vedere; è invece una qualità attiva conforme alla natura del sole e degli altri corpi luminosi. 4. Fu conveniente la creazione della luce al primo giorno per rimuovere la deformità delle tenebre, affinché potessero le altre cose manifestarsi.
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Quest. 68. Secondo giorno della Creazione distintiva. 1. Anzitutto ricordisi l’osservazione di S. Agostino: «La Scrittura, divinamente ispirata, dice sempre il vero, ma la nostra interpretazione può essere errata». Come e perché il Cielo o firmamento sia stato fatto nel secondo giorno se è un composto dei quattro elementi, come pensa Empedocle, o se è un elemento semplice, come opina Platone, o se è un quinto corpo, come giudica Aristotele, è inutile ricercare, quando si ritiene con S. Agostino che i giorni della creazione indicano ordine di natura più che di tempo. Del resto Firmamento indicherebbe quella parte di atmosfera in cui si condensano le nubi; 2. e così si spiega l’esistenza delle acque sopra il firmamento; sono quelle che vengono portate a maggior grado di evaporazione. Non giova però sottilizzare tanto, perché ci ricorda S. Agostino che l’autorità della Scrittura supera la capacità del nostro ingegno. 3. L’opinione di Talete è che l’acqua sia un corpo infinito, principio digli altri corpi. Ma quando Mosè riferisce la parola di Dio: «si faccia il firmamento nel mezzo delle acque» anziché acconciarsi a quella opinione, adattava le sue espressioni al rozzo Popolo ebreo, non nominando l’aria, che per gli ignoranti è lo stesso che il vuoto, e designandola per i dotti col nome di firmamento. 4. Il cielo inteso naturalmente, o nelle sue proprietà, o metaforicamente, è uno solo, ma vien distinto in parti, in virtù e generi di visione; perciò la Scrittura: nomina talora il cielo, talora i cieli. Nel sistema tolemaico i cieli sono 10: il cielo empireo, il cielo cristallino e, nel cielo sidereo, la sfera delle stelle fisse e 7 sfere di pianeti.
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Quest. 69. Terzo giorno della Creazione distintiva. 1. La riunione delle acque e l’apparizione della terra la Scrittura la pone nel terzo giorno. S. Agostino, che considera più l’ordine di natura che di tempo trova conveniente il terzo giorno, perché la terra vien terza in dignità dopo la luce e il cielo. Altri Padri, che ammettono l’ordine di tempo, trovano congruente il terzo giorno per la terra, perché doveva precedere la rimozione della deformità in cielo, le tenebre, e della deformità nelle acque, gli abissi! 2. La terra brulla e deserta aveva anche una deformità visibile da rimuoversi, e la Scrittura dice che ciò fu fatto rivestendosi la terra di erbe e di piante, o per lo meno ricevendo la virtù di produrle, come opina S. Agostino.
Quest. 70. Creazione adornativa. Quarto giorno. – 1. Al periodo di distinzione dei primi tre giorni corrisponde in simmetria un periodo di ornamento di altri tre giorni; al quarto giorno perciò bene la Scrittura pone che il cielo si adorna del sole, della luna e delle stelle; 2. e per distogliere il popolo dal culto degli astri bene la Scrittura espone che essi sono opera di Dio e che sono fatti per utilità degli uomini. 3. I Platonici ammettevano che gli astri avessero l’anima. Invece bisogna dire che non l’hanno, perché non ce n’è bisogno né per la vita vegetativa, essendo essi incorruttibili; né per la vita sensitiva, non avendo essi contatti colle cose; né per la vita intellettiva, potendo l’intelletto fare senza corpo; né per il moto, potendo questo essere impresso e mantenuto da un agente esterno.
Quest. 71. Quinto giorno della Creazione. – 1. Come il giorno dimezzo del primo ciclo di tre giornate della crea-
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zione fu assegnato alla distinzione delle acque col firmamento, così bene la Scrittura assegna il giorno dimezzo del secondo ciclo all’ornato delle acque e del firmamento colla produzione dei pesci e degli uccelli.
Quest. 72. Sesto giorno della Creazione. – 1. Similmente l’ultimo giorno del secondo ciclo, cioè il sesto, corrisponde al terzo per l’ornato della terra, che si popolò degli animali terrestri, o che ricevette per lo meno la virtù di produrli, come opina S. Agostino.
Quest. 73. Settimo giorno della Creazione. – 1. La Scrittura dice bene che il Signore nel settimo giorno diede compimento all’opera sua, risultando la perfezione dell’universo dall’unità delle parti; 2. ed aggiunge che il Signore si riposò, perché riposo è cessazione del moto, che è proprio dei corpi; ma si applica alle cose spirituali come cessazione di opera o come appagamento di desiderio; l’uno e l’altro convengono a Dio. 3. Convenientemente poi la Scrittura assegna al settimo giorno la benedizione, che riguarda la moltiplicazione degli esseri e la santificazione, che riguarda il loro riposarsi in Dio.
Quest. 74. Dei 7 giorni insieme. – 1. La enumerazione dei sei giorni della creazione fatta dalla Srittura è perfetta secondo i Pitagorici, che dicono perfetto il tre risultante dai principio, mezzo e fine, perché è narrata la distinzione e l’ornato del cielo, dell’acqua e ella terra; ed è perfetta anche secondo S. Agostino, che dice perfetto il tre nel-
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la somma dei suoi componenti: uno, due e tre, che fanno sei, perché sei sono i giorni della creazione. 2. S. Agostino ritiene che i 7 giorni non siano che un giorno solo di settemplice rappresentazione dei diversi generi delle cose fatta alle angeliche intelligenze. Altri padri invece intendono sei diverse produzioni propriamente dette. In ogni modo è certo che Iddio non ha bisogno di tempo e si può ritenere che Iddio creò insieme tutte le cose, ma che esse non si formarono insieme quanto alla distinzione e all’ornato, bensì a diversi stati di perfezione indicati dai 6 giorni. 3. La Scrittura nel racconto della Creazione è sapiente, perché fa cenno del Verbo dicendo: In principio, cioè in chi è fonte ed archetipo, e fa cenno dello Spirito Santo parlando dello Spirito di Dio, che si libra sulle acque per dare vita al mondo.
Quest. 75. Essenza dell’anima umana. – 1. Ogni anima, essendo semplice, è inestesa, perciò non può essere corpo, di cui è propria l’estensione. Anima è primo principio della vita e la vita ha una duplice manifestazione: cognizione e moto. Antichi filosofi dicevano: ciò che non è corpo è niente, l’anima, esistendo, non può essere niente, dunque è corpo. Errore! Un corpo non può essere primo principio di vita in quanto corpo, perché allora ogni corpo sarebbe vivo. È invece vivo qualche corpo, p. es. il cuore, quel corpo cioè che ha in atto l’anima; l’anima quindi non è corpo, ma è l’atto, l’agente di qualche corpo. 2. L’anima umana è qualche cosa in sé di indipendente dal corpo, perché è principio della cognizione intellettuale, per cui conosce la natura di tutti i corpi, al che occorre che non sia alcuno di essi, perché in tal caso non conoscerebbe la natura degli altri corpi, come chi ha la bocca amara non percepisce gli altri sapori. – Cosicché è altresì
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impossibile che la cognizione intellettuale si compia per mezzo di un organo corporeo. 3. L’anima dei bruti invece non è qualche cosa di indipendente dal corpo, perché la loro cognizione, che è sensitiva, si compie sempre con qualche mutazione del corpo. 4. Ma l’anima non è l’uomo, perché l’uomo consta di anima e di corpo, avendo esso anche la cognizione sensitiva, che non è soltanto dell’anima. Si può però dire che l’anima è l’uomo in quanto, essendo l’anima il primo principio della vita, tutto quello che fa l’uomo è a lei riferibile. L’uomo è composto di anima e corpo quali for ma e materia; questa carne p. es. è di me individuo, la carne, invece, è di ogni uomo; 5. ma l’anima, anziché essere composta di materia e forma, non può nemmeno avere materia, perché se ogni anima è soltanto forma, tanto più lo è l’anima dell’uomo, che è intellettiva. Essa conosce p. es. la pietra nella sua ragione formale assoluta di pietra, non nella ragione sensitiva particolare di questa pietra. Se dunque nell’anima ci sono le ragioni formali assolute delle cose, essa che le contiene deve essere una forma assoluta, non una forma composta di materia. 6. Ne segue che l’anima umana è incorruttibile: Essa è qualche cosa di indipendente dal corpo, perciò la distruzione del corpo non porta con sé necessariamente anche la distruzione dell’anima, come invece avviene degli accidenti e delle forme materiali dei corpi. Se essa fosse composta di materia e forma, cesserebbe di esistere alla separazione della materia dalla forma. Essa invece è solo forma e per cessare di esistere bisognerebbe, cosa impossibile, che si separasse da se stessa. Ne è anche segno il desiderio di perennità che natura ci inspira e non può essere fallace.
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7. L’anima umana però non è della stessa specie dell’Angelo. Differiscono di specie, perché hanno operazioni generali differenti.
Quest. 76. Unione dell’anima col corpo. – 1. Forma sostanziale del corpo umano e l’intelletto, principio dell’operazione intellettiva, della vita intellettiva dell’uomo, anima quindi dell’uomo. L’intelletto così, forma, si unisce immediatamente e intimamente al corpo, materia. Che la forma sostanziale del corpo umano, (= ciò che dà essere, anzi essere specifico all’uomo) sia l’intelletto, lo si desume dalla natura umana, essendo per noi l’intendere distintivo di specie ed essendo la forma costitutivo di specie. 2. È evidente che di principii della vita intellettiva non ce n’è uno solo, che vale per tutti gli uomini, come pensava Averroè, perché allora ci sarebbe un’azione unica, una forma sostanziale unica, un’esistenza unica, perciò un solo uomo; ma invece i principi intellettivi sono tanti quanti i corpi umani. 3. Ed è anche evidente che, essendo l’anima la forma sostanziale del corpo, ce n’è una sola per ciascuno e non tre essenzialmente differenti cioè la nutritiva nel fegato, la concupiscibile nel cuore, la conoscitiva nel cervello, come vorrebbe Platone, perché ciascuno sarebbe allora un essere triplice, e si potrebbe attendere contemporaneamente alle tre diverse operazioni colla massima intensità, il che invece non è. 4. Inoltre, essendo l’anima intellettiva la forma sostanziale, che dà cioè l’essere, anzi l’essere specifico al corpo umano, c’è essa sola quale forma sostanziale. altre, come la sensitiva e la vegetativa non se ne devono supporre, perché, come nei numeri il più contiene i meno, così l’anima intellettiva, essendo di grado superiore, fa quello che fanno le inferiori e anche qualche cosa di più.
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5. Il corpo umano, quale è, si deve dire convenientemente organizzato, affinché sia sua forma sostanziale l’anima intellettiva, perché se essa, come inferiore agli Angeli, deve raccogliere le cognizioni intellettuali dalle cose per mezzo dei sensi, essa però informa un corpo nel quale è diffuso ed è fino più che negli altri animai il senso generale del tatto, che poi in certi organi specializza in senso di gusto, di olfatto etc. 6. Il corpo però, che è dall’anima informato, non ha precedenti disposizioni nemmeno accidentali, perché l’anima ne è il primo principio, l’anima ne è la forma sostanziale, cosicché prima dell’anima non è nemmeno sostanza, non esiste nemmeno. 7. Che se una cosa è un’unità in quanto esiste e l’uomo esiste per la forma sostanziale, che è l’anima l’uomo è un’unità coll’anima; e non c’è quindi bisogno di un corpo intermedio, già proprio dell’anima prima che essa si unisca al corpo. 8. E l’anima intellettiva, forma sostanziale del corpo, c’è in tutto il corpo e in ogni sua parte, perché l’operazione specifica dell’intellettualità può essere esplicata in ogni parte del corpo, p. es. nel piede, gestendo, e perché se l’anima si diparte il corpo non funziona più, né nel tutto, né in alcuna parte; l’anima, che semplice, se c’è in ogni parte, c’è tutta in ogni parte ma c’è di totalità di sostanza, non di totalità di operazione, perché la potenza visiva p. es. la esplica negli occhi e non nel naso.
Quest. 77. Potenze dell’anima in generale. – 1. Le operazioni dell’anima e ogni principio di queste operazioni; cioè le potenze e i relativi atti, non sono l’anima stessa, l’essenza dell’anima. Non lo sono degli Angeli (59. 2), tanto meno lo sono dell’uomo. Ed è evidente, perché come chi ha sempre l’anima è sempre vivo, così chi ha sempre l’anima dovrebbe avere in esercizio sempre e tutte le
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operazioni vitali; noi invece abbiamo l’anima, ma, quanto alle operazioni vitali, ne abbiamo alcune in esercizio, altre in potenza. L’anima adunque ha le potenze che sono principii di operazione, l’anima è atto primo ordinata all’operazione, che è atto secondo; ed è atto primo del corpo che ha la vita non in esercizio,. cioè in atto secondo; ma soltanto in potenza. 2. Le potenze dell’anima sono parecchie, perché l’uomo, che si trova ai confini delle creature spirituali e corporali, ha molti atti, cui corrispondono parecchie potenze. 3. Le potenze sono principio degli atti, questi si diversificano secondo gli oggetti, perciò secondo gli alti, e gli oggetti si diversificano anche le potenze; la potenza poi è passiva se l’oggetto è relativamente a lei principio o causa, è attiva se invece l’oggetto è termine o effetto. 4. In ordine di eccellenza prima vengono le potenze intellettuali; in ordine di origine prima vengono le potenze sensitive, in ordine poi di percezione la precedenza spetta alla potenza visiva. 5. La potenza operativa è di quel soggetto che ha il potere di operare, perciò il soggetto delle facoltà inorganiche è l’anima sola e il soggetto delle facoltà organiche è il corpo unito all’anima, cioè il composto umano; 6. e appunto perché se il corpo non avesse l’anima, che ne è la forma sostanziale, non sarebbe il soggetto delle facoltà organiche, così anche le facoltà organiche derivano dall’anima. 7. Le potenze poi difendono una dall’altra; in ordine di natura si è prima animali e poi uomini, perciò l’intelletto dipende dal senso: ma in ordine di azione ciò che vivifica il senso è l’anima che è intellettiva, perciò il senso dipende dall’intelletto.
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8. Quando poi si muore restano attive le potenze inorganiche e le organiche rimangono soltanto in radice, in virtù.
Quest. 78. Potenze dell’anima in particolare. – 1. Si distinguono nell’anima: 5 generi di potenze: la vegetativa, considerato l’oggetto come corpo unito all’anima; la sensitiva, l’appetitiva, la locomotiva, considerato l’oggetto come corpo sensibile; l’intellettiva, considerato l’oggetto come ente universale; 3. anime: la vegetativa, la sensitiva, l’intellettiva, secondo i tre gradi di superiorità sulla pura natura corporea; 4. modi di vivere: il vegetativo, il sensitivo, il locomotivo, l’intellettivo, secondo i gradi dei viventi. 2. La potenza vegetativa ha tre parti: la generativa, l’aumentativa, la nutritiva, secondo le 3 finalità del corpo: acquistare l’essere, raggiungere il completo sviluppo, conservarsi. 3. Gli organi sono proporzionati alla potenza e poiché sono 5 gli organi del senso, perciò sono pure 5 le parti della facoltà sensitiva. 4. La vita dell’animale perfetto esige apprensione delle cose anche in loro assenza. Occorre quindi che l’anima sènsitiva non solo riceva le imagini delle cose, ma anche le ritenga e conservi. Occorrono altri organi, distinti dagli organi esterni. Perché l’agnello fugge il lupo? non perché l’occhio scorge in lui brutti colori, ma perché un senso dell’anima glielo fa riconoscere come un nemico naturale. Questi sensi dell’anima, o sensi interni, sono 4: il senso comune, che raccoglie le diverse senzazioni, la fantasia che le conserva come in uno scrigno, la memoria che le riconosce come passate, l’estimativa che ne giudica utile o nocivo l’oggetto.
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Quest. 79. Potenze intellettive. – 1. L’intelletto è una potenza dell’anima, non la stessa anima, perché l’uomo ha potenza di intendere, ma non è sempre in atto di intendere, a meno che si voglia dire che tutte le operazioni dell’uomo, anche. quelle della vita vegetativa, sono operazioni di intelligenza!
2. L’intelletto è una potenza passiva, ossia è termine di operazione e non è già potenza attiva, ossia principio di operazione. Infatti l’intelletto di Dio, Creatore, relativamente all’universo è principio, cioè atto; ma l’intelletto umano, che per di più fra le sostanze intellettuali è il più discosto da Dio, quanto alle cose e in particolare quanto all’intenderle, è termine, è in potenza, è possibile, è per se una pagina bianca, pronta a ricevere una scrittura, ma sulla quale niente ancora è scritto. Tabula rasa. 3. L’intelletto pero è anche agente, perché compie l’atto di astrarre la natura, l’essenza di ogni cosa per conoscerne il genere e la specie; atto che è necessario da parte dell’intelletto, non potendosi sostenere con Platone che esistano le essenze separate, le quali imprimendosi nelle cose formino gli individui, rendendosi così esse da sé conoscibili al nostro intelletto. 4. Ciascuno sa per esperienza di saper fare astrazioni delle condizioni particolari di ogni cosa per conoscerne l’essenza, perciò l’intelletto agente è proprio dell’anima di ciascuno, ma poiché l’anima umana è soltanto in parte intellettiva, così è intellettiva per partecipazione, e per partecipazione dello stesso intelletto infinito, che è Dio. 5. Se dunque l’intelletto agente è proprio di ciascuna anima, ce ne sono tanti quante sono le anime e non già uno solo di tutti. 6. All’intelletto spetta anche memoria, perché quando esso si è impossessato di un’idea, può ritornarvi su e intanto la conserva e più tenacemente ancora della memo-
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ria sensitiva; ma solo alla memoria sensitiva spetta il riconoscere una impressione come passata, perché come tale, l’impressione è legata a circostanze particolari, il che spetta al senso e non già all’intelletto, che ha per oggetto l’universale. 7. Tale memoria intellettiva non è una potenza distinta dall’intelletto non essendovi diversità di oggetto, ma è funzione conservativa dell’intelletto che si è impossessato delle idee. 8. E nemmeno la ragione è una potenza diversa dall’intelletto, ma è un’altra funzione dell’intelletto in ciò che si conosce gradatamente. 9. La ragione inferiore e la superiore non sono due potenze, ma una stessa cosa, distinta secondo l’oggetto, che dell’una è la sapienza delle cose eterne, dell’altra è la scienza delle cose temporali. 10. Anche l’intelligenza, come la ragione, non è una potenza diversa dell’intelletto, ma è l’atto, la funzione dell’intelletto. 11. Né sono due diverse potenze l’intelletto speculativo e l’intelletto pratico, ma una stessa cosa, distinta secondoché dell’uno è proprio l’apprendere, dell’altro è proprio l’indirizzare all’opera ciò che fu appreso. 12. Non è potenza la sinderesi, ma è invece cognizione abituale dei principi morali. 13. Non è potenza la coscienza, ma è invece atto di rapporto di un’azione, da farsi, colla legge morale.
Quest. 80. Potenze appetitive. – 1. L’appetitiva è, una potenza dell’anima. L’anima ha una inclinazione, superiore alla naturale, in conformità alla cognizione superiore di cui essa, in confronto degli animali, è capace. 2. E come la conoscenza sensitiva è diversa da conoscenza intellettiva, così l’inclinazione sensitiva è diversa dalla intellettiva e sono due potenze diverse.
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Quest. 81. La sensualità. – 1. Nella conoscenza la cosa va al soggetto, nell’inclinazione il soggetto va alla cosa; l’inclinazione determinata da conoscenza sensitiva si chiama sensualità, o appetito sensitivo. 2. E poiché tale inclinazione si determina talora a fuggire ciò che è nocivo e talora a resistervi, talora a seguire ciò che attrae e talora a lottare contro gli impedimenti, perciò le potenze della sensualità sono due la concupiscibile e l’irascibile, 3. ed obbediscono all’intelletto o meglio alla ragione nell’atto interno e alla volontà nell’atto esterno.
Quest. 82. Della volontà. – 1. La volontà ha inclinazione naturale, e perciò necessaria, al bene in genere, che è il suo fine, e anche a ciò che per il fine è mezzo unico e necessario, né però questa è violenza. Violenza è moto contrario alla naturale inclinazione e poiché questa inclinazione viene da un principio intrinseco, la violenza non può provenire che da un principio intrinseco. 2. Ma per i beni particolari, che non sono quel mezzo unico necessario al fine, la volontà non ha inclinazione naturale e necessaria, così come l’intelletto, che aderisce necessariamente ai primi principi, aderisce invece alle proposizioni, che non hanno necessaria connessione con essi, soltanto in seguito a dimostrazione. 3. L’intelletto «per sé» è potenza più nobile della volontà e ciò per ragione dell’oggetto, perché prima viene il vero, poi il bene; ma in qualche cosa la volontà é più nobile dell’intelletto: p. e. è più amare Dio che conoscerlo. 4. L’intelletto muove la volontà in quanto le presenta l’oggetto conosciuto come bene, come fine: ma la volontà, quale agente principale in ordine al fine universale, muove tutte le potenze compreso l’intelletto, escluse però le potenze vegetative.
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5. Propriamente nella volontà non si distingue, come nella sensualità, l’irascibile e il concupiscibile, perché la volontà, appetito intellettivo, ha per oggetto il bene in genere, non qualche bene particolare. Però si può dire in senso improprio che la speranza p. es., appartiene all’irascibile e la carità al concupiscibile.
Quest. 83. Del libero arbitrio. – 1. Se l’uomo non avesse il libero arbitrio, i precetti e le proibizioni non avrebbero ragione di essere. Ma l’uomo non è come una pietra che cade all’ingiù e non lo sa: non è nemmeno come la pecora che fugge il lupo, perché istintivamente, coll’estimativa, lo riconosce quale un nemico naturale. L’uomo agisce giudicando, non per istinto, ma per confronto di ragioni, considerando il pro e il contro, e, con giudizio libero, potendo appigliarsi all’uno o all’altro; e nelle cose particolari, come per l’intelletto c’è il liberamente opinabile, così per la volontà c’è il liberamente operabile. L’uomo quindi ha il libero arbitrio. 2. Il libero arbitrio non è un’abitudine naturale, perché questa importerebbe una inclinazione naturale e necessaria, contraria perciò al libero arbitrio; non è nemmeno un’abitudine acquisita, perché questa importa un’inclinazione molto forte, p. e. dell’intemperanza al bere, mentre invece il libero arbitrio è indifferenza nella scelta: resta quindi che esso è una potenza; non è poi atto, perché l’atto passa, esso resta; 3. e la scelta, che è proprietà del libero arbitrio, risulta di cognizione, che esamina e giudica cosa sia preferibile, e di appetizione che accetta ciò che è giudi. cato preferibile e a esso tende, come a qualche cosa, che, quale mezzo, è utile. L’utile è bene, il bene è oggetto della volontà, il libero arbitrio è perciò potenza di volontà. 4. anzi il libero arbitrio sta alla volontà come la ragione sta all’intelletto, perché come intelletto è l’intendere
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semplicemente e ragione è intendere con ragionamento, cosi volontà è volere semplicemente, libero arbitrio è volere con scelta; perciò come la ragione non è potenza diversa dall’intelletto, così il libero arbitrio non è potenza diversa dalla volontà.
Quest. 84. Come l’anima nostra conosce le cose corporali. – 1. L’intelletto nostro conosce i corpi, tanto è vero che esistono la scienza fisica e le scienze naturali. Eraclito negava la scienza o conoscenza certa, dicendola impossibile, stante la mutabilità delle cose. Platone la asseriva, facendola derivare dalla visione delle essenze separate. Invece va ricordato che nella cognizione la cosa spassa a essere nel soggetto secondo la maniera di essere del soggetto, e va perciò detto che l’intelletto conosce le cose materiali e mobili immaterialmente e immobilmente, tale essendo la natura dell’intelletto. 2. Le cose corporali però l’anima nostra non le conosce per mezzo della sua essenza, perché questo è proprio di Dio solo, la cui essenza contiene immaterialmente tutto, giacché nella causa preesistono virtualmente gli effetti e Dio è Causa di tutte le cose. 3. non le conosce nemmeno per mezzo di imagini infuse, perché questo è riservato agli Angeli ed essa si trova come una pagina bianca su cui nulla ancora fu scritto; tanto è vero che un cieco p. es. nulla sa e nulla può sapere di colori; 4. le imagini intellettuali delle cose non provengono all’anima dalle essenze separate di Platone, le quali partecipate alle cose formano gli individui, partecipate alla mente nostra formano le nostre cognizioni, perché allora non avremmo più bisogno dei sensi, come invece abbiamo.
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5. Direttamente nelle ragioni eterne le cose immateriali le conosce l’anima beata, noi quaggiù le conosciamo indirettamente, attraverso cioè le cose sensibili. 6. È dalle cose sensibili che proviene la nostra cognizione intellettuale, perché è dal senso che proviene alla fantasia l’imagine sensibile sulla quale lavora l’intelletto agente; 7. e senza imagine sensibile della fantasia l’intelletto umano quaggiù non può nemmeno ripensare alle cose, come avviene a chi ha lesioni celebrali. È perciò che gli insegnamenti si illustrano con esempi e che lo stesso matematico lavora colla mente sopra formole e figure imaginarie. 8. Quando i sensi sonto legati, come avviene nel sonno, anche il giudizio è impedito, non può essere perfetto, mancando il termine di confronto, cioè la realtà esterna; perciò quello che si fa nel sonno non è peccato.
Quest. 85. Modo e ordine dell’intendere. – 1. L’intelletto nostro, che è immateriale, conosce immaterialmente; ma avendo bisogno dei sensi che, essendo materiali, conoscono materialmente, esso conosce immmaterialmente mediante astrazione dalle immagini sensibili, riservando cioè di esse le nozioni generiche e stabili, trascurando le particolari e variabili. 2. Ma le imagini intellettuali, ricavate mediante astrazione dalle imagini sensibili, sono il mezzo e non l’oggetto della nostra cognizione: conosciamo le cose mediante l’imagine, come attraverso il cannocchiale si vede la cosa. Che se la nostra conoscenza diretta fosse dell’imagine e non della cosa, allucinati e pazzi avrebbero anche essi ragione. 3. La cognizione intellettuale però non è tosto perfetta: prima è incompleta e generica, poi diviene completa e specifica; così come in distanza si vede prima una cosa
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generica, poi si distingue, per esempio, che è un uomo, infine si distingue chi è. 4. A ogni atto corrisponde un oggetto e più cose insieme possono essere oggetto dell’intendere se raggruppate in una imagine unica. Dio vede tutte le cose insieme nella unica sua essenza. 5. Non essendo tosto perfetta la cognizione nostra, abbiamo bisogno di procedere mediante confronti, giudicando affermativamente o negativamente: a differenza dell’Angelo, che conosce i paragoni, ma non ha bisogno di paragoni. 6. E poiché l’intelletto procede mediante i confronti, può venirne deviato ed arrivare al falso; ma per sé, e lo si vede nelle cose semplici, l’intelletto non è falso circa il suo proprio oggetto, come la vista non sbaglia circa la luce, che è il sensibile suo proprio mentre può sbagliare quanto a un sensibile o comune o accidentale, scambiando per esempio miele con fiele. 7. Come avviene nei fisici e nei filosofi relativamente a un esperimento o a un assioma, uno può conoscere una stessa cosa più di un altro, non per la cosa in sé, ma per la forza più o meno grande dell’intelletto che la scruta. 8. L’indivisibile, che è anche indiviso, si conosce prima delle sue possibili divisioni: ma l’indivisibile in quanto negazione di divisione è un concetto negativo posteriore al positivo.
Quest. 86. Ciò che l’intelletto nostro conosce nelle cose. – 1. L’intelletto nostro mediante l’astrazione dalle imagini sensibili si forma un concetto generale della cosa e questo è l’oggetto diretto dell’intelletto; può però anche conoscere la cosa stessa particolare, riflettendo sulla imagine sensibile di essa. 2. Si può dire che l’intelletto mostro ha infinite cose da conoscere, perché quante più ne conosce, tante più ne ha
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da conoscere; ma non sarà mai in atto di conoscere l’infinità delle cose, perché conosce una cosa alla volta e la stessa visione di Dio, che è infinito, non è la comprensione di Dio. 3. L’intelletto conosce anche le cose contingenti e eventuali in quanto in esse c’è qualche rapporto di: necessità. Vero è che ci sono le scienze morali e sociali e la scienza non è di particolarità, ma di principii e conclusioni generali. 4. Il futuro è legato alle condizioni particolari del tempo e il particolare è oggetto del senso: ma il futuro è legato anche alle sue cause, che sono le ragioni universali di esso e queste sono oggetto dell’intelletto, quindi anche l’intelletto conosce il futuro.
Quest. 87. Come l’anima conosce se stessa e ciò che ha in sé. – 1. L’anima conosce se stessa non per mezzo di se stessa, ma per mezzo del suo atto, perché l’intelletto nostro è potenza conoscitiva, non già atto conoscente: quando non è in atto è solo potenza, è quasi latente, ed è soltanto coll’atto che si fa presente. Così i corpi che sono all’oscuro sono in potenza a essere visti, ma si vedono realmente quando vengono illuminati. 2. E similmente gli abiti buoni o cattivi dell’anima, che, in quanto abiti, sono potenza, sono conosciuti dall’intelletto non in se stessi, ma dai loro atti. 3. L’intelletto nostro conosce anche se medesimo dal suo atto, ma con quest’ordine: prima conosce l’oggetto, poi l’atto, poi se stesso. 4. E poiché la volontà è inclinazione dell’intelletto, perciò l’intelletto può conoscere anche questa sua inclinazione e con ciò l’atto di volontà.
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Quest. 88. Come l’anima’conosca le cose che le sono superiori. – 1. L’intelletto nostro in questa vita è legato al senso, perciò si riferisce direttamente alle cose materiali, presentategli dal senso, immaterializzandole nella cognizione colla operazione sua; alle sostanze immateriali non si riferisce direttamente, ma soltanto indirettamente, per esempio dagli effetti; 2. e quanto a conoscerle non le può conoscere quali sono, essendo esse di altra natura; 3. che se l’intelletto nostro quaggiù non può conoscere le sostanze immateriali create, in se stesse, tanto meno potrà conoscere la sostanza immateriale increata, cioè Dio.
Quest. 89. Cosa e come conosca l’anima separata. – 1. L’operare segue l’essere e il modo di operare segue il modo di essere. L’unione che l’anima nostra ha col corpo è naturale e quindi di perfezione anche se perciò nell’intendere è legata alle imagini sensibili, perché come agli intelletti più tardi sono necessari gli esempi pratici, cosi all’anima nostra, che è all’ultimo grado delle sostanze spirituali, per intendere occorrono le imagini sensibili, altrimenti avrebbe una cognizione troppo generica e confusa. Quando però l’anima si separa dal corpo, le compete il modo di intendere che hanno le altre sostanze separate, le quali si riferiscono alle cose intelligibili semplicemente e comprendono a misura dell’influsso che godono del lume divino. 2. L’anima separata vede se stessa e così conosce se stessa e così pare le altre sostanze separale, cioè gli altri spiriti; ma poiché degli altri spiriti ne misura la cognizione su se stessa, perciò delle anime separate ha conoscenza perfetta, ma degli Angeli, che le sono superiori, ha conoscenza imperfetta. 3. La cognizione nelle sostanze separate essendo commisurata all’influsso del lume divino, gli Angeli, che ne
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sono più vicini, conoscono perfettamente la natura tutta: le anime dei trapassati, che ne sono più lontane, hanno della natura una cognizione generica e confusa; 4. e per la stessa ragione hanno conoscenza anche dei fatti e delle cose particolari, soltanto però di quelle verso le quali hanno un precedente legame o di cognizione o di affetto o di abitudine. 5. La scienza, che è un abito non della volontà, ma dell’intelletto, rimane nell’anima dei trapassati e non sarà nemmeno più soggetta ad alterazione dipendente da falsità d’argomentazione, perché questa dopo morte non è più possibile non essendoci più l’uso dei sensi; 6. e non solo la scienza, ma anche le singole cognizioni restano solo morte, senza però la possibilità dell’uso dell’immagine sensibile nel ripensare alle cose; 7. e appunto perché dopo morte l’anima ricava le sue cognizioni dall’influsso del lume divino e non dalle imagini sensibili, la forza del senso non c’entra più, e ciò che si ha a conoscere si conosce sia vicino o sia lontano. 8. Essendo però le anime dei trapassati separate dal consorzio dei viventi per divina disposizione sono perciò impedite di conoscere ciò che avviene nel mondo. Per grazia però i Santi conoscono ciò che quaggiù avviene e tuttavia non se ne rattristano essendo essi beati.
Quest. 90. Produzione del primo uomo quanto all’anima. – 1. Non si può dire che l’anima sia parte della sostanza di Dio, perché Dio è puro atto, l’anima invece nostra, che è intellettiva, non è sempre in atto di intendere, ma talora è soltanto in potenza di intendere; resta perciò che da Dio sia fatta. 2. L’anima è sostanza e non accidente; le compete l’esistenza, a questa è via la produzione; non può essere prodotta da preesistente sostanza materiale essendone superiore; non può essere prodotta da preesistente so-
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stanza spirituale, perché le sostanze spirituali non si trasmutano una nell’altra; perciò deve essere stata prodotta dal niente e cioè creata; 3. e poiché creare spetta a Dio solo, deve esser stata creata immediatamente da Dio; 4. ed essendo parte dell’umana natura, ha la sua perfezione naturale quando è unita al corpo e perciò da Dio, il quale ha creato ogni cosa perfetta, fu creata insieme col corpo.
Quest. 91. Produzione del corpo del primo uomo. – 1. Il mondo risulta dalla distinzione e dall’ornato del cielo, della terra e delle acque e perciò l’uomo per essere il microcosmo, o piccolo mondo, doveva essere fatto di terra e d’acqua, cioè di loto, contemperato a una speciale incorruttibilità propria dei corpi celesti. 2. E poiché precedentemente non era stato formato un organismo quale è quello dell’uomo, cosicché per generazione se ne potesse avere uno simile nella specie, Dio ha dovuto crearlo immediatamente; 3. e di Dio, ottimo artefice, deve dirsi che l’ha creato quale conveniva per l’unione con un’anima spirituale; 4. e la Scrittura narra diffusamente la creazione dell’uomo per indicare che esso è il culmine e il re del creato.
Quest. 92. Creazione della donna. – 1. All’uomo compete, anzi in grado superiore, ciò che è proprio degli animali perfetti, cioè la generazione attiva e passiva in sesso distinto: la donna perciò doveva essere creata distintamente dall’uomo; 2. e perché l’uomo fosse effettivamente capo di tutto il genere umano, convenne che la prima donna creata fosse ricavata dall’uomo;
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3. e fu di fatto formata con tanta costa di Adamo e ciò fu con significato simbolico, perché doveva essergli compagna; uscì quindi non dal capo, perché non doveva essere padrona e non dai piedi, perché non doveva essere serva. 4. Poiché la formazione della prima donna non poteva avvenire altro che fuori dell’ordine naturale, perciò la sua produzione non può spettare ad altri che a Dio, autore di tutte le cose.
Quest. 93. Fine della creazione dell’uomo. – 1. Iddio è causa esemplare di tutto e anche l’uomo fu creato a sua somiglianza, anzi provenendo l’uomo da Dio e essendo a sua somiglianza, in lui c’è l’imagine di Dio, la quale esige appunto somiglianza con un soggetto e provenienza da lui; 2. non però qualunque somiglianza importa imagine, ma soltanto la somiglianza di natura o dell’accidente proprio della specie, cioè la figura. L’uomo è simile a Dio non solo in quanto esiste e in quanto vive, ma anche in quanto intende; questa è vera somiglianza, compete alle creature intellettuali, perciò le creature irrazionali non sono imagini di Dio; 3. e perciò ancora gli Angeli, strettamente parlando, sono imagini di Dio più dell’uomo. 4. L’uomo è sopratutto imagine di Dio quando imita Dio nel grado maggiore e lo imita in grado massimo quando imita Dio che conosce e ama se stesso. Ogni uomo può farlo e questa è imagine di Creazione: lo fanno i giusti e questa è imagine di Redenzione; lo fanno poi i beati in modo perfetto e questa è imagine di Glorificazione. 5. In Dio c’è una natura e tre persone secondo le relazioni di origine (40. 2) e nell’uomo c’è l’imagine di
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Dio, e quanto alla natura divina e quanto alla trinità delle persone. 6. Nel creato ciò che è materiale rappresenta Dio in qualità di vestigio, come sarebbero le orme del piede di uno che è passato, la cenere rimasta da un incendio, perché dicono causalità; si può anche dire che ogni, cosa ha in se un vestigio della Trinità in quanto ogni cosa ha un essere, una forma, un’inclinazione naturale; ma rappresentare Dio come imagine spetta esclusivamente alle creature ragionevoli, perciò questo appartiene all’uomo quanto all’anima e non quanto al corpo; 7. e spetta all’anima sopratutto in quanto ha gli atti di pensare e di volere, perché allora ha in sé un verbo e un amore; 8. e spetta all’anima quando rivolge il pensiero e l’amore a Dio perché allora lo imita in grado massimo. 9. Somiglianza e imagine non sono sinonimi; quando la somiglianza raggiunge la perfezione allora si chiama imagine e l’espressione dell’imagine è la somiglianza.
Quest. 94. Stato del primo uomo quanto all’intelletto. – 1. Non si può dire che il primo uomo vedesse Dio quale è, a meno che fosse rapito in estasi; perché la visione di Dio è la beatitudine, e chi gode la beatitudine non è tale da rivolgere altrove la volontà e quindi peccare. Cosi è dei Santi. Adamo aveva però di Dio una scienza più perfetta della nostra. Le creature sono specchio a Dio e Dio tanto meglio si vede quanto più terso è lo specchio e quanto più sano è l’occhio che dentro vi rimira. Per Adamo, prima che peccasse, le creature erano specchio tersissimo e il suo intelletto nel rimirarvi non era per nulla offuscato. 2. Benché lo stato di peccato non sia lo stato di innocenza, tuttavia tanto nell’uno come nell’altro stato c’e l’u-
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nione naturale dell’anima col corpo e la conoscenza dell’intelletto per mezzo dei sensi; perciò come adesso l’uomo non può vedere direttamente gli Angeli, così non poteva farlo neppure il primo uomo. 3. Dovendo Adamo essere capo di tutto il genere umano e avendo con ciò l’onere di istruirlo, bisogna dire che aveva piena conoscenza delle cose naturali e sufficiente conoscenza delle cose soprannaturali. 4. Ma benché potesse a lui mancare la cognizione di qualche cosa, le cognizioni che aveva non potevano essere false, perché in lui le potenze inferiori erano soggette alle potenze superiori e non poteva perciò subire illusioni di fantasia e allucinazioni di senso.
Quest. 95. Stato del primo uomo quanto alla volontà. 1. Nel primo uomo c’era la soggezione del corpo all’anima, delle forze inferiori alla ragione e della ragione a Dio. Ma questo non era proprio della natura, altrimenti sarebbe rimasto anche dopo il peccato, perciò Adamo lo ebbe per grazia; dunque fu creato in grazia. Anzi la soggezione della ragione a Dio importava la soggezione delle forze inferiori alle superiori e del corpo all’anima, sicché la mancanza di soggezione della ragione a Dio, portò lo scompiglio nelle forze inferiori e nel corpo. 2. Le passioni sono del bene, come il gaudio, e del male, come il timore. Nel primo uomo c’erano le passioni, ma soltanto del bene e, stante il dominio perfetto della ragione, non prevenivano il suo giudizio. 3. Nel primo uomo c’erano anche tutte le virtù. Ma in atto c’erano solo le virtù non ripugnanti al suo stato, come la giustizia e la fede, e le virtù ripugnanti al suo stato, come la penitenza, c’erano in abito. 4. Il merito si può misurare e dalla carità di chi opera e dalla difficoltà che egli incontra: quanto alla carità
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potevano essere più meritorie le opere di Adamo; quanto alla difficoltà sono più meritorie le nostre.
Quest. 96. Dominio dell’uomo in istato d’innocenza. – 1. In istato di innocenza Adamo aveva l’effettivo dominio degli animali, benché ne avesse meno bisogno di quello che ne abbiamo noi ora; 2. aveva anche il dominio delle altre cose, adoperandole senza impedimento e senza averne nocumento. 3. Però fra gli uomini ci sarebbe stata qualche disuguaglianza e quanto al sesso e quanto all’età e quanto al corpo e anche quanto all’anima nei riguardi del libero arbitrio, 4. e ci sarebbe stata non servitù, ma dipendenza di uno all’altro, perché, dovendo vivere socialmente, doveva esserci un regime.
Quest. 97. Dell’uomo quanto alla sua conservazione. – 1. In istato di innocenza l’uomo era immortale non per natura, ma per grazia, cioè per una virtù particolare, preservatrice della corruzione, concessa all’anima;
2. e non era soggetto a patire, cioè a subire ciò che lo rimovesse dalla sua naturale disposizione. 3. Ma poiché nella naturale disposizione della vita vegetativa c’è il nutrirsi, il crescere, il riprodursi, anche nello stato di innocenza l’uomo aveva bisogno di cibo. 4. In chi è giovane il cibo fa anche crescere: in chi è adulto il cibo conserva, ma in chi è vecchio ciò il cibo non lo fa più; per riparare le perdite della vecchiaia c’era nel paradiso l’albero della vita.
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Quest. 98. Conservazione della specie. – 1. Anche nello stato d’innocenza c’era la Generazione e non era peccato, perché era necessaria per la moltiplicazione degli uomini e per la conservazione del genere umano agli individui che per sé non sono perpetui, 2. e sarebbe avvenuta così come avviene adesso, essendo fin d’allora così conformati gli uomini; non ci si sarebbe però stato nulla di indecente e di libidinoso, dato lo stato di innocenza.
Quest. 99. Condizione della prole quanto al corpo. – 1. Come è adesso, così anche nello stato di innocenza i bambini non avrebbero avuto tosto la forza per l’uso perfetto delle membra per qualunque atto, ma soltanto per gli atti infantili, perché questa è condizione naturale, stante l’acquosità iniziale del cervello; sarebbero però stati esenti dalle malattie, come più tardi sarebbero stati esenti dai difetti senili; 2. e a complemento della natura umana vi sarebbero stati tanti maschi quante femmine.
Quest. 100. Condizione della prole quanto alla santità. – 1. I bambini sarebbero nati nella giustizia originale, essendo allora questa un dono di natura; non sarebbe stata però trasmessa dai genitori, ma sarebbe stata conferita da Dio a ogni nuove soggetto che fosse sorto di natura umana; 2. tuttavia i bambini non sarebbero stati confermati in grazia, ma sarebbero rimasti nella possibilità di peccare come i genitori.
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Quest. 101. Condizione della prole quanto alla scienza. 1. Anche nello stato di innocenza, nascendo il bambino, l’anima sarebbe stata «tabula rasa», pagina bianca, perché questa è condizione naturale, tuttavia allora i bambini avrebbero senza difficoltà appreso e da sé e dagli altri; 2. e l’uso perfetto di ragione l’avrebbero avuto quando il cervello avesse acquistato perfetta solidità.
Quest. 102. Luogo del primo uomo, il Paradiso. – 1. Il Paradiso fu un luogo reale, altrimenti la Scrittura non ne avrebbe fatto una narrazione storica. 2. Il Paradiso fu luogo conveniente all’uomo innocente, che era per grazia immortale. Infatti alla causa interna di morte si ovvia col cibo e nel Paradiso c’era l’albero della vita; causa esterna di morte è un clima perfido e nel Paradiso terrestre c’era un clima sano e mitissimo. 3. L’uomo fu messo nel Paradiso terrestre per custodirlo e lavorarlo, non con un lavoro faticoso, ma con un lavoro dilettevole; sarebbe stato uno studio della natura. 4. L’uomo non fu creato nel Paradiso, ma vi fu portato, perché come era di grazia il dono dell’immortalità, così fu di grazia e non già naturale il luogo conveniente all’immortalità.
Quest. 103. Governo dell’universo. – 1. Anziché andare avanti a casaccio il mondo lo vediamo sospinto al meglio; c’è dunque una forza che lo sospinge, anzi lo stesso ordine che vediamo nell’universo, come in una casa bene ordinata, ci dice che c’è chi lo regola. Né potrebbe essere diversamente. Se la Bontà divina ha dato l’essere alle cose, alla stessa Bontà divina spetta condurle alla loro perfezione, guidarle al fine e questo è governare.
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2. Il mondo tende al bene, perché è attratto dal bene assoluto, dal bene in sé. Ma tutto il bene che c’è nel mondo è bene partecipato, il bene perciò cui tende il mondo è un bene fuori del mondo; 3. il bene assoluto, il bene in sé, il bene sommo, che attrae il mondo e così lo governai è uno solo, perciò nel governo del mondo c’è l’unità; questo è anche conforme alla natura delle cose, cui ripugna lo smembramento. 4. Ma se relativamente al fine nel governo del mondo c’è un effetto unico, relativamente alla natura che tende a Dio c’è un effetto duplice: assomigliare a Dio e nell’essere buona e nel comunicare la bontà; relativamente poi ai mezzi di ciò fare l’effetto è molteplice. 5. Dio è il fine di tutte le cosec come ne è anche il Creatore, tutte le cose sotto perciò soggette al Governo, alla Provvidenza divina. 6. Nel Governo delle cose Dio riserva a sé il piano universale di regime, ma, quanto alla sua esecuzione, ne fa barie anche alle cose, appunto perché devono assomigliare a Dio nel comunicare la bontà. Dio infatti non deve giudicarsi da meno dei bravi maestri, i quali istruiscono i loro discepoli non solo perché sappiano, ma perché anch’essi siano maestri. 7. Cosicché se qualche cosa sembra sfuggire l’ordine della Provvidenza, ciò potrà essere relativamente a qualche causa particolare, non relativamente allo stesso Dio che è causa prima e universale. 8. E come nessuna cosa può sottrarsi all’ordine del Governo divino, così nessuna cosa può a esso ribellarsi, né lo fa, almeno nello spirito, benché sembri volerlo fare: infatti in ogni opera c’è un impulso e un fine; orbene, chi sospinge il mondo e chi attrae il mondo quale fine, è Dio che governa il mondo.
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Quest. 104. Effetti del governo del mondo. – 1. La cosa deve all’artefice la sua formazione, ma non tutto il suo essere; la statua deve allo scultore il suo essere statua, non il suo essere pietra, e lo scultore conservandola le conserva il suo essere statua; distruggendola la distrugge come statua, ma non come pietra. La luce è partecipata dal sole e l’aria che viene illuminata dal sole resta illuminata finché resta alla presenza del sole. Così e più di cosi noi, che abbiamo un essere partecipatoo, dobbiamo a Dio, Essere per se, la nostra conservazione. Per Iddio la conservazione delle cose è una creazione continuata, 2. e come nella produzione delle cose, così pure nella conservazione delle cose, Dio si serve anche di cause seconde. 3. Nessuna cosa fuori di Dio ha un’esistenza necessaria e Dio relativamente alle cose è libero, perciò non si può dire che Dio, se volesse, non potrebbe distruggere le cose; 4. tuttavia si può dire che nessuna cosa sarà ridotta al niente: Dio infatti ha fissato che le sostanze immateriali, Angeli, anime, siano incorruttibili; che la materia si muti, ma non si distrugga. La distruzione potrebbe avvenire per miracolo, ma sarebbe un miracolo contrario alla bontà di Dio.
Quest. 105. Dio e la mutazione nel creato. – 1. Sulla materia, che è potenza passiva, Dio può agire immediatamente, perché ne è l’autore, e può informarla così che venga attuata nella costituzione dei corpi; 2. tanto più quindi Dio può immediatamente muovere qualunque corpo. 3. Muovere vuol dire essere principio d’operazione e per gli intelletti muovere vuol dire dare la forza d’intendere e anche dare l’atto di intendere. Dio muove gli intel-
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letti in ambidue i modi, e perché è l’Ente primo immateriale, e perché in lui preesistono tutte le cose intelligibili; 4. e similmente anche la volontà è mossa da Dio, sia in quanto forza di volere, il che è un’inclinazione, sia come atto di volere relativamente a un oggetto; ciò è perché Dio è il Bene universale, verso cui tutto inclina, e perché in ogni cosa risplende la sua bontà. 5. Benché Dio operi negli intelletti, nelle volontà e in ogni agente, non fa però in modo che essi nulla più facciano, quasi sopprimendo la loro azione; questo sarebbe contro la natura delle cose. Dio agisce così che anche le creature agiscano, perché Dio come Creatore e conservatore dà e conserva loro l’essere specifico; Dio causa prima, muove le cause seconde; Dio ultimo fine attira tutto e tutto muove a operare. 6. Dio può fare qualcosa fuori dell’ordine da lui stabilito nelle cose, dell’ordine cioè risultante nelle cause seconde, perché questo dipende da lui; non può fare nulla contro l’ordine relativo alla causa prima, perché farebbe contro se stesso; 7. e ciò che avviene all’infuori delle cause che ci sono note, desta la nostra ammirazione e perciò si chiama miracolo; purché però si tratti di ammirazione assoluta, e non già di cosa che desta l’ammirazione di alcuni che ne ignorano le cause, e non degli altri che le conoscono. 8. I miracoli sono uno più grande dell’altro sia quanto alla sostanza, del fatto, per esempio l’ingresso di Gesù Risorto nel Cenacolo; sia quanto al soggetto, sper esempio, un morto che vien risuscitato; sia quanto al modo, p. es. una guarigione istantanea.
Quest. 106. Azione di una creatura sull’altra. – 1. Un Angelo può illuminare l’intelletto d’un altro Angelo, ossia manifestargli una verità di cui esso ha cognizione;
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2. ma non può piegarne la volontà, perché ciò è riservato a Dio, bene universale, autore della natura Angelica. 3. L’ordine poi delle cause seconde, disposte da Dio per la diffusione della sua bontà, porta non che un Angelo inferiore fossa illuminare un Angelo superiore; 4. ma che sia l’Angelo superiore, che può illuminare l’Angelo inferiore.
Quest. 107. Colloqui angelici. – 1. Un Angelo può parlare a un altro Angelo, può cioè manifestargli un suo concetto e a ciò fare basta un atto di volontà; 2. e parlare quando ciò non sia illuminare, può anche un Angelo inferiore con un Angelo superiore; 3. parlare anzi può l’Angelo anche con Dio, o per chiedergli qualche cosa, o per consultarlo o per ammirarne e lodarne la gloria; 4. e nei colloqui angelici la distanza a loro non fa ostacolo, perché il luogo e il tempo sono contingenze dei corpi e gli Angeli sono incorporei; 5. e poiché il, parlare è determinato da un atto di volontà, il colloquio è riservato a chi si vuole, e non è aperto a tutti gli Angeli.
Ouest. 108. Gerarchia e ordini degli Angeli. – 1. Gerarchia significa principato sacro. Benché Dio sia padrone degli Angeli e degli uomini, tuttavia Angeli e uomini non costituiscono una stessa gerarchia, essendo diverso il regime per gli uni e per gli altri; anzi neppure fra di loro gli Angeli costituiscono terza stessa gerarchia, ma ne costituiscono tre;
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2. e come in ogni genere c’è il grado supremo, il medio e l’infimo, così in ogni gerarchia ci sono tre ordini secondo i diversi uffici e atti; 3. in ogni ordine ci sono molli Angeli, ma non sappiamo l’ufficio di ciascuno; 4. e la distinzione di gerarchie e di ordini si fonda sulla natura degli Angeli, e va secondo i doni naturali che ciascuno ha ricevuto per conoscere e amare Dio. 5. Opportunamente la Scrittura distingue gli ordini angelici secondo i loro uffici e le perfezioni; 6. e, secondo le perfezioni spirituali, S. Dionigi gli ordini degli Angeli li distingue così: I. Gerarchia: Serafini, Cherubini, Troni. II. »»: Dominazioni, Virtù, Potestà. III. »»: Principati, Arcangeli, Angeli. 7. Tali ordini resteranno dopo il Giudizio Universale quanto alla distinzione di natura e di grazia; non resteranno quanto agli uffici da compiersi, che sono relativi all’umanità, di cui è compita allora la sorte. 8. Gli uomini, quanto al grado di gloria, possono essere eguagliati agli Angeli, nei loro diversi ordini.
Quest. 109. Gerarchia dei Demoni. – 1. Anche fra i Demoni ci sono i diversi ordini, fondati sopra i loro doni naturali; 2. perciò anche fra di loro ci sono i superiori e gli inferiori; ma essere superiore di ribaldi non è una felicità, è una miseria. 3. Poiché illuminare vale manifestare una verità in ordine a Dio, non si dà fra i demoni; si dà però il parlare, cioè il manifestare a un altro il proprio concetto. 4. Gli Angeli buoni hanno impero soffra gli Angeli cattivi quale partecipazione del supremo dominio di Dio.
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Quest. 110. Gli Angeli presiedono alle creature corporee. – 1. La virtù intellettuale è universale, la virtù corporea è particolare: l’universale presiede al particolare, perciò gli Angeli presiedono alle creature corporali. 2. Ma la materia corporale con ciò non deve dirsi che obbedisca al cenno degli Angeli, perché ciò che avviene nel mondo procede o immediatamente da Dio o dalle leggi naturali; 3. tuttavia gli Angeli hanno potere sui corpi quanto al moto locale. 4. Ciò però che fanno gli Angeli non è miracolo, perché anche essi sono forze comprese nell’ambito delle forze naturali e il miracolo invece è qualche cosa di oltre e all’infuori della natura.
Quest. 111. Azione degli Angeli sugli uomini. 1. Gli Angeli possono illuminare gli intelletti umani, rivelando loro cose divine, ma però proponendo la verità sotto imagini sensibili e così adattandosi alla natura degli uomini. Ma l’uomo, mentre conosce di essere illuminato, non sempre conosce da chi lo sia. 2. Gli Angeli però non possono piegare le volontà degli uomini, perché ciò è esclusivo di Dio. Gli Angeli possono indurre gli uomini colla persuasione e, come possono fare anche gli uomini, possono muovere bensì la volontà, eccitando le passioni, ma non la possono violentare. 3. Gli Angeli e anche i demoni possono muovere l’immaginazione, per esempio nel sonno, possono ridestare, e combinare le imagini sopite, eccitare gli umori, ed alienare dai sensi. 4. Gli Angeli possono perfino, e lo possono colle forze loro naturali, impressionare i sensi nostri presentando un sensibile magari di loro diretta formazione, oppure
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agendo internamente coll’eccitare spiriti e umori, così da farci avere delle senzazioni.
Quest. 112. Missione degli Angeli. – 1. Gli Angeli possono essere mandati a compiere qualche ministero presso qualcuno o in qualche luogo particolare. Èovvio che se fossero infiniti e se fossero dappertutto non potrebbero essere mandati in qualche luogo particolare. 2. Tali missioni però vengono affidate agli Angeli inferiori, detti perciò Angeli, che vuol dire annunciatori. 3. Anche durante la missione continua la loro contemplazione di Dio, perché lo vedono immediatamente. 4. Alcune missioni superiori furono affidate ad Angeli superiori, cioè agli Arcangeli, e anche ad altre gerarchie compete un ministero esterno, non però a tutte.
Quest. 113. Custodia degli Angeli e infestazione dei Demoni. – 1. Fu necessario che gli uomini, volubili nelle cognizioni e negli affetti, fossero guidati dagli Angeli, che in ciò sono fermi. 2. Ogni uomo è custodito dal suo Angelo. 3. Gli Angeli custodiscono gli uomini particolari, gli Arcangeli ecc., custodiscono le Comunità e le Società e reggono la natura. 4. Tutti gli uomini, mentre sono quaggiù, hanno il loro Angelo custode, perché tutti corrono pericolo; 5. e lo hanno fin dalla nascita, perché fin dalla nascita sono uomini, e dai fanciulli gli Angeli tengono lontani i demoni. 6. La custodia degli Angeli appartiene alla esecuzione dell’ordine della Provvidenza divina, e come nell’ordine della divina Provvidenza c’è la permissione delle tribolazioni e del peccato, così allora avviene una specie di
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abbandono da parte dell’Angelo custode, abbandono però che non è totale; 7. e poiché anche allora si compie la volontà di Dio negli scopi generali, gli Angeli, che alla volontà di Dio aderiscono, non si contristano, perché la tristezza avviene da ciò che è contrario alla volontà. 8. Anche fra gli Angeli ci può essere lotta, ma solo in quanto sono in contrasto fra loro le cose affidate alle loro cure ed essi le vogliono tutelare.
Quest. 114. Infestazione dei Demoni. – 1. I demoni fanno guerra agli uomini per malizia, sfogando invidia pei loro progressi, ed esercitando la superbia di avere, dei dipendenti nel fare la guerra. Il Signore ciò permette a fine di bene e noi sorregge colla sua grazia e coll’assistenza degli Angeli. 2. Il diavolo tenta non per provare e al caso aiutare, ma per nuocere e per indurre nel peccato. 3. Tutti i peccati però non derivano immediatamente da tentazione del diavolo; alcuni derivano o da cattiva volontà o da corruzione; però indirettamente si devono tutti alla tentazione di Adamo e di Eva. 4. I diavoli possono anche sedurre gli uomini facendo, col potere naturale che ancora conservano, opere meravigliose, che però non sono veri miracoli. Così possono agire sulla fantasia e sui sensi; possono anche plasmare coll’aria corpi visibili e sensibili di qualunque forma e figura ed assumendoli farli anche parlare ed agire. 5. Quando il diavolo nella tentazione è vinto, si ritira, almeno per un poco, dalla lotta.
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Quest. 115. Azioni delle creature corporali. – 1. Mentre la materia prima è puramente passiva, i corpi formati hanno anche attività specifiche. 2. Nella natura, e il nome è preso da ciò che è nato e che perciò ha la vita, ci sono le ragioni seminali, cioè i principi attivi e passivi. 3. I corpi celesti, come esercitano azione uno sul – l’altro, così esercitano azione anche sulla terra e coll’azione esercitano anche un influsso. 4. Ma poiché l’influsso è sulla materia, potrà essere esercitato sul senso, non sull’intelletto e sulla volontà, che sono potenze spirituali, perciò resta intatto il libero arbitrio; 5. e tanto meno può l’influsso dei corpi celesti essere esercitato sui demoni, che sono puri spiriti. 6. A ogni modo l’influsso dei corpi celesti non importa azione necessaria né alle volontà, cause libere, né alle cose naturali, perché tale influsso può facilmente essere impedito.
Quest. 116. Il Fato. – 1. Fato o destino sarebbe la Provvidenza divina, che ordina le cose al loro fine, ma, sia pure con questo significato, i Santi evitano di adoperare tale parola. 2. Poiché le cause seconde sono da Dio determinate a conseguire dati effetti, perciò c’è un destino (= una destinazione) nelle cose; 3. il quale non è invariabile relativamente alle cause seconde, ma è invariabile relativamente alla causa prima; però di necessità condizionata. 4. Tale destinazione inoltre è fissa soltanto nelle cose dipendenti da cause seconde.
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Quest. 117. Azione degli uomini. – 1. Un uomo può istruire l’intelletto di un altro uomo, come fa il maestro col discepolo; 2. ma non può istruire, cioè illuminare un Angelo perché l’Angelo gli è superiore; può però manifestargli i suoi concetti, ossia parlargli. 3. L’uomo non può colle forze dell’anima agire sui corpi, se non mediante il corpo; 4. perciò anche dopo la morte l’anima nostra, che è una forma determinata a informare il corpo, non può agire sui corpi quanto al moto locale, come possono gli Angeli.
Quest. 118. Derivazione d’un uomo da un altro uomo quanto all’anima. – 1. Nella generazione, sin dal primo principio, è sempre un vivente che nasce da un vivente; quindi un’anima c’è nello stesso seme dell’organismo. 2. Ma l’anima intellettiva non può sorgere da esso; ella, che sussiste anche senza corpo, viene creata da Dio. 3. Le anime non furono create tutte insieme fin dal principio del mondo, ma vengono create quando vengono infuse nel corpo.
Quest. 119. Propagazione dell’uomo. – 1. L’alimento serve anzitutto alla conservazione dell’individuo; 2. poi e nel soprappiù serve alla conservazione della specie, nella riproduzione degli uomini.
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PARTE SECONDA
Sez. Prima
Quest. 1. Scopo finale della vita umana. – 1. L’uomo è padrone della sua volontà e dei suoi atti, i quali da lei procedono, e sono atti umani. Ma oggetto della volontà è il bene, questo anzi è il fine, per cui si muove la volontà; nei suoi atti quindi l’uomo ha un fine ed è il bene. 2. Le cose irrazionali ignorano lo scopo cui sono, dirette; l’uomo lo conosce; 3. e il fine specifica i suoi atti in buoni e cattivi. 4. L’uomo in ogni suo atto è mosso da uno scopo. E ci deve essere di tutta la vita uno scopo finale, capace di appagare del tutto là volontà. 5. Questo scopo, se è finale, non può essere che uno; 6. perché è scopo finale, l’uomo vi subordina ogni suo atto di volontà; 7. perché rappresenta la perfezione umana, è unico per tutti; 8. e perché l’uomo è il re del creato, a tale fine resta coordinato tutto l’Universo.
Quest. 2. Cosa possa essere l’oggetto finale della Vita. – Questo scopo finale, che forma la beatitudine consiste: 1. non nelle ricchezze, perché non sono ogni bene si usano consumandole; 2. non negli onori, perché sono fuori di noi; sono segno della stima che gli altri hanno di noi; 3. non nella fama, perché spesso è falsa e facilmente si perde, mentre la beatitudine non può essere che un bene vero e stabile;
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4. non nella potenza, perché è piena di brighe e di timori; 5. non in qualche bene del corpo, perché il corpo non è tutto, ed è subordinato all’anima; 6. non nel piacere, che è non il bene, ma un effetto del bene; 7. non in qualche bene dell’anima, perché la beatitudine è un bene universale oggetto di tutta l’anima; 8. non nell’universo medesimo che è finito, e fu creato da Dio per Iddio; ma in Dio che è ogni bene e infinito.
Quest. 3. Cosa sia la beatitudine. – 1. Beatitudine Oggettiva è Dio stesso, essa dunque è eterna; beatitudine soggettiva invece è il nostro possesso di Dio, e questa è qualche cosa di creato. 2. La beatitudine è detta vita, vita eterna, e siccome; la vita sta nell’operare, così essa è un operare; 3. non è però operazione del senso, perché la beatitudine nel senso non c’è che di ridondanza; 4. ma perché distintivo dell’uomo è l’intelletto, essa è sopratutto: operazione dell’intelletto, poi è anche operazione della volontà; 5. e come operazione dell’intelletto, è propria dell’intelletto speculativo, che è operazione perfetta, piú che dell’intelletto pratico: 6. non però in quanto l’intelletto conosce le scienze speculative, perché questa è una cognizione bassa, che che ha i suoi principii nel senso: 7. né in quanto vedesse gli Angeli medesimi, perché il loro essere è creato, finito: 8. ma in quanto l’intelletto ha la Visione della divina essenza, che è la ragione dell’universo, cosa che non si ha se non nell’altra vita.
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Quest. 4. Requisiti della beatitudine. – 1. Per la beatitudine è necessario: a) la contentezza, e questa si ha dall’avere raggiunto il bene sommo; risponde alla carità; 2. b) la visione della divina essenza; risponde alla fede; 3. c) la comprensione, non nel senso di chiudere Dio in se stessi, ma di averlo presente, risponde alla Speranza: 4. la rettitudine della volontà è evidentemente necessaria sia per conseguire che per godere la beatitudine: 5. la compagnia del corpoo occorre per essere completi nella natura, ma non per vedere Dio; 6. al corpo poi compete il decoro e la perfezione conveniente. 7. Non sono necessari beai esterni, i quali sono mezzi al fine in questa vita; 8. e nemmeno la compagnia degli amici, perché basta Dio.
Quest. 5. Conseguimento della beatitudine. – 1. L’uomo ha nell’intelletto, capace di cognizioni universali, la fondamentale capacità della visione divina nell’altra vita; 2. in essa, di beatitudine soggettiva, uno può essere beato più che un altro. 3. In questa vita nessuno può essere beato, perché non può evitare ogni male; e cioè l’ignoranza per l’intelletto, le passioni per la volontà, le pene per il corpo; ne può avere beni capaci di saziarlo. 4. La beatitudine del cielo non si può perdere, perché esclude ogni male, quindi anche il timor di perderla. 5. L’uomo può acquistarla, ma solo coll’aiuto di Dio; da se non può acquistarla, perché supera le sue forze naturali; 6. anzi supera ogni natura creata, perciò gli Angeli stessi non potrebbero darla, ma soltanto aiutare nei mezzi di conseguirla.
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7. Dio potrebbe fare per tutti che la volontà rettamente tendesse e tosto conseguisse l’ultimo fine; invece per gli adulti vuole non che lo conseguiscano tosto, vuole che vi arrivino per la via retta, quella delle opere buone e meritorie. 8. Ogni uomo aspira alla beatitudine in quanto è un bene perfetto; ma non tutti la cercano quale è, perché non la sanno distinguere.
Quest. 6. Cosa sia volontario e involontario. – 1. Il volontario, cioè quello che procede da un principio interno con cognizione del fine, è riscontrabile negli atti umani, perché quando nell’uomo c’è la cognizione razionale, e perciò perfetta, del fine, verso cui da sé si indirizza; 2. negli animali come anche nei fanciulli c’è invece imperfetta cognizione del fine: la cognizione del fine è perfetta quando lo si conosce come fine, se ne vedono i mezzi, si vede il loro rapporto col fine; allora c’è deliberazione. Compete a chi ha l’uso della ragione. 3. Il volontario è diretto se c’è l’atto interno e anche l’esterno; è indiretto se c’è solo l’atto interno e l’atto esterno consiste in una omissione di chi può fare, deve fare e non fa. 4. La volontà non si può violentare quanto agli atti suoi interni, cioè eliciti; ma si possono violentare gli atti imperati, cioè gli atti esterni dipendenti dalla volontà: in questo caso si riscontra l’involontario; perciò 5. l’involontario è quello che procede da un principio esterno contro volontà. 6. Gli atti dipendenti da timore non sono involontari, perché procedono egualmente da principio interno con cognizione del fine; ma siccome se non ci fosse il timore non si farebbero, sono per se volontari, ma in qualche cosa, in certa maniera, involontari.
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7. Gli atti dipendenti da concupiscenza sono volontari, e tanto più quanto la volontà, che tende al bene, è rafforzata dalla concupiscenza di un bene: a meno che ne sia impedito l’uso della ragione. Invece 8. gli atti dipendenti da antecedente ignoranza, non colpevole, sono involontari, perché sono sì da principio interno, non però con cognizione del fine; non così se l’ignoranza è o voluta o concomitante.
Quest. 7. Circostanze degli atti umani. – 1. Le circostanze sono estrinseche e perciò sono accidentali all’atto umano, tuttavia hanno con esso attinenza; 2. esse lo mettono più o meno in rapporto col fine, perciò meritano speciale considerazione; 3. riguardano l’atto o per modo di misura: in che tempo e luogo? o per modo di qualità: in che modo? o riguardano il fine: perché? o la materia: che cosa? o l’agente principale: chi? o l’agente strumentale con quali mezzi? o l’effetto: cosa si ottiene? Sono quindi sette; 4. e di esse le più importanti sono il che cosa, cioè l’oggetto dell’atto umano, e il perché, cioè il fine dell’atto stesso.
Quest. 8. Volontà e cose volute. – 1. Appetito in Genere è inclinazione al simile o al conveniente. La volontà è appetito razionale e tende necessariamente a ciò che è, o almeno apparisce bene. 2. La volontà, come potenza, si riferisce tanto al fine che ai mezzi; ma come atto, si riferisce soltanto al fine, perché i mezzi si vogliono per il fine; 3. perciò se l’atto di volere il fine può prescindere dai mezzi, viceversa l’atto di volere i mezzi, non può prescindere dal fine.
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Quest. 9. Moventi della volontà. – 1. L’intelletto muove la volontà presentandole una cosa non in quanto é vera, ma in quanto è bene, presentandola come oggetto e così specifica l’atto della volontà; la volontà poi mette in esercizio tutte le potenze. 2. L’appetito sensitivo muove la volontà causando una disposizione per cui ad un arrabbiato, p. es. sembra bene ciò che non sembra a un calmo. 3. La volontà, volendo il fine, muuove se stessa a volere i mezzi: quindi è mossa dall’intelletto per ragione dell’oggetto, è mossa da se stessa per ragione del fine. 4. Oltre l’oggetto c’è un altro esteriore principio, motore della volontà, giacché la volontà non è sempre in atto di volere, e per cominciare a volere deve essere mossa da altro principio esteriore. 5. Questo principio esteriore non sono i corpi celesti, perché i corpi non hanno azione diretta sullo spirito. 6. Questo principio esteriore invece è Dio, che muove sempre la volontà, come ultimo fine, e che talvolta la muove a qualche atto particolare.
Quest. 10. Come è mossa la volontà. – 1. La volontà, che è appetito razionale del bene, viene mossa naturalutente da ciò che è bene; 2. ma quanto all’esercizio del suo atto non viene mossa necessariamente dagli oggetti esteriori, essendo libera; 3. né viene necessitata dall’appetito sensitivo, a meno che questo tolga l’uso di ragione; 4. e nemmeno viene necessitata da Dio, perché Dio la muove come volontà libera.
Quest. 11. Accontentamento della volontà. – 1. Fruire (Godere) è aderire per amore a una cosa, e l’amore è parte
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appetitiva. Perciò la beatitudine in quanto visione è per l’intelletto, in quanto godimento è per la volontà. 2. Il fruire, come atto di volontà, non compete agli animali. 3: Poiché soltanto dell’ultimo fine può appagarsi la volontà, la vera fruizione è soltanto dell’ultimo fine; 4. e il fruire perfetto non può aversi che nel reale possesso dell’ultimo fine.
Quest. 12. Intenzione. – 1. L’intenzione è propria della volontà, che muove a conseguire il fine. 2. L’intenzione quindi, essendo moto verso il fine, si riferisce anche ai mezzi e non è esclusiva dell’ultimo fine; 3. può riferirsi a più cose, specialmente se una è subordinata all’altra; 4. e poiché il fine è la ragione di volere i mezzi, l’intenzione del fine e dei mezzi è per sé un atto solo. 5. L’intenzione dice ordine dei mezzi al fine, di ordine sono capaci soltanto gli esseri forniti di ragione, perciò vera intenzione non compete gli animali.
Quest. 13. Elezione dei mezzi. – 1. L’elezione sostanzialmente è atto di volontà, perché è tendenza a un proposto bene e si compie in un movimento dell’anima al bene; ma siccome c’è prima la ragione che propone il bene e la volontà è detta appetito razionale l’elezione è formalmente atto di ragione, materialmente atto di volontà. 2. Gli animali hanno istinto, non elezione, la quale e appetito con discernimento. 3. L’elezione si riferisce noti al fine ultimo, ma ai mezzi da adoperarsi per conseguirlo, 4. i quali poi sono le cose stesse che noi facciamo, 5. e cose tali che ci siano possibili, perché le impossibili non possono essere oggetto dell’elezione;
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6. nella scelta dei mezzi non si è necessitati alla elezione, perché si può scegliere l’opposto e anche scegliere nulla.
Quest. 14. Deliberazione. – 1. L’elezione o deliberazione della volontà è preceduta dal consiglio o discussione, che formalmente appartiene all’intelletto. 2. La discussione non si fa del fine, ma soltanto dei mezzi; 3. anzi si fa soltanto di quei mezzi che sono in nostro potere; 4. e non si riferisce a tutte le cose, ma soltanto a quelle che sono discutibili; 5. la discussione procede con ordine risolutivo, cioè analitico, 6. ma non procede all’infinito, perché l’infinito è irragiungibile.
Qvest. 15. Consenso. – 1. Il consenso, che segue l’elezione, essendo parte appetitiva, è della volontà. 2. Gli animali non l’hanno, perché non hanno intelletto da deliberare e non sono padroni dei loro atti. 3. Il consenso facendo seguito all’elezione, è, come l’elezione, solo dei mezzi e non del fine; 4. e, benché si dica consenso, non appartiene al senso, ma appartiene alla parte nostra superiore.
Quest. 16. Uso dei mezzi. – 1. Procedere all’uso dei mezzi, è un atto distinto, proprio della volontà e che segue l’elezione; 2. essendo atto di volontà libera, conseguente un atto della ragione riferente una cosa ad un’altra, non compete ai bruti;
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3. l’uso dei mezzi, appunto perché dei mezzi, non si applica all’ultimo fine; 4. è dopo l’elezione che la volontà passa all’uso dei mezzi, perciò l’uso non precede, ma segue l’elezione, atto di intelletto; talvolta però diventa un mezzo la stessa ricerca, dell’intelletto per la scelta dei mezzi.
Quest. 17. Atti imperati. – 1. Gli atti imperali procedono dalla ragione, ma supposto l’atto di volontà, in virtù della quale la ragione muove le facoltà esterne comandando: 2. procedendo essi dalla ragione, non competono agli animali; 3. l’uso dei mezzi non precede, ma segue l’atto imperato; 4. atto imperato però ed impero della ragione fanno tutt’uno, perché sono uno per l’altro. 5. Possono essere «imperati» anche gli atti di volontà, perché la ragione, come giudica che sia bene volere una cosa, così può anche imperare di volerla. 6. Possono essere «imperali» gli atti di ragione, perché si riflette su se stessa e ci sono cose che per sé non la convincono, lasciandola sospesa. 7. Possono essere «imperati» gli atti dell’appetito sensitivo, se dipendono dall’anima, come l’imaginazione; non però se dipendono dal corpo; 8. ma non possono essere imperati gli atti di vita vegetativa, perché sono naturali, 9. e non possono essere imperati i movimenti delle membra che seguono le forze naturali, ma soltanto quelli che obbediscono alla parte sensitiva o alla ragione.
Quest. 18. Bontà e malizia degli atti umani. – 1. Le azioni, come le cose, sono buone in quanto hanno
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dell’essere, sono cattive in quanto mancano di qualche cosa che ci dovrebbe essere. Le azioni morali devono essere buone da quattro capi, che sono: azione in se stessa, e questa è bontà generica; 2. oggetto, perché l’oggetto specifica l’atto; e questa è bontà specifica; 3. circostanze, le quali sono accidenti dell’atto, e agli accidenti completano la sostanza: e questa è bonta accidentale, 4. fine, che importa nell’atto un ordine di dipendenza, e questa è bontà causale. 5. Poiché l’ogetto specifica l’azione, l’oggetto buono rende l’azione specificamente diversa dall’oggetto cattivo. 6. Anche il fine specifica l’azione, perché esso specifica la volontà dell’agente e con ciò il volontario cioè l’azione morale. 7. Per sé però la specie morale del fine non fa parte della specie morale dell’oggetto, ma sono due specie disparate; nel rubare quindi per ubbriacarsi ci sono due malizie distinte e uno stesso atto. 8. Un’azione, pur nella sua specie, può essere indifferente, né buona, ne cattiva, se, per esempio, il suo oggetto è indifferente in rapporto coll’ordine di retta ragione, come sarebbe levare una paglia. 9. Ciascuna azione però, in quanto intesa e voluta, è o buona o cattiva; 10. anche la circostanza può diventare differenza specifica di un atto buono o cattivo, se cioè riguarda uno speciale ordine di ragione: così rubare alla Chiesa è sacrilegio. 11. La circostanza che aggrava non cambia specie all’azione, perché il più e il meno non cambia specie.
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Quest. 19. Bontà e malizia degli atti interni della volontà. – 1. La volontà è buona quando ha per oggetto il bene. 2. La bontà della volontà è specificata dall’oggetto e non dalle circostanze che sono accidenti dell’atto. 3. La bontà della volontà dipende dalla ragione, perché la ragione propone l’oggetto e se la volontà non la segue è disordinata, anziché subordinata. * La ragione muove la volontà coll’oggetto; la volontà muove la ragione all’esercizio dei suoi atti. 4. La bontà della volontà dipende dalla legge eterna; che è la prima causa rispetto alla ragione, causa seconda. 5. La volontà che non segue la ragione, anche se questa erra, è cattiva, perché fa contro la coscienza, la quale è la ragione applicata alle nostre azioni, 6. e invece la volontà che segue la ragione è buona, anche se la ragione erra, se l’errore dipende da ignoranza scusabile; non però se l’errore dipende da ignoranza vincibile, o da ignoranza affettata, cioè voluta. 7. e quanto a ciò che fa raggiungere il fine la bontà della volontà dipende dall’intenzione, perché Dio rimunera anche la sola intenzione, – Acciocché la volontà sia buona occorre che voglia il bene per il bene: bene poi è ciò che esclude qualunque difetto: Bonum ex integra causa, malum ex quocumque defectu. 8. Nel male la malizia della volontà è proporzioata alla forza della cattiva intenzione: nel bene invece non sempre cosi: quindi taluno non ha tanto merito quanto ha intenzione d’averne, se il suo atto non ha quel merito. 9. La bontà della volontà dipende dalla conformità alla volontà divina, che ne è la prima misura, 10. per cui deve volere ciò che vuole Dio, se non di volere particolare, almeno di volere universale.
Quest. 20. Bontà e malizia degli atti esterni. – 1. La bontà delle azioni difende e dalla ragione e dalla volontà:
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dalla ragione se in sé esse sono alla retta ragione conformi, dalla volontà se questa nella loro esecuzione non ha scopi cattivi; 2. perciò la sola buona volontà non può far buono atto esterno in sé cattivo, ma la cattiva volontà può far cattivo un atto in sé buono; 3. e così pure un atto può essere cattivo in sé e inoltre cattivo anche per il fine. 4. L’atto esterno non accresce bontà o malizia, se non in quanto nella esecuzione si rinnova e si estende l’atto interno di volontà. 5. L’effetto di un’azione accresce bontà o malizia se fu previsto, perché così divenne volontario. 6. Uno stesso atto nella sua identità naturale può essere buono o cattivo secondo la volontà dell’agente, ma nella sua identità morale non può essere nello stesso tempo buono o cattivo.
Quest. 21. Conseguenze degli atti buoni o cattivi. – 1. Male è termine più largo di peccato. Male è privazione di bene. Peccato è azione non ordinata al fine: ogni atto umano è diretto al fine, perciò ogni atto umano o è retto o è peccato; 2. l’atto umano, essendo imputabile all’uomo, perché ne è padrone, gli merita lode se è buono e biasimo se è cattivo, 3. altrettanto gli merita o premio o pena, 4. e questo anche presso Dio, che è l’ultimo fine e il re dell’universo.
Quest. 22. Dove risiedano le passioni. – 1. Passione,(da patire) nel senso di subire mutazione di cosa non altra peggiore, non c’è nell’anima; che è semplice e non ha parti variabili, soltanto le arriva per mezzo del corpo.
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2. La passione c’è piuttosto nella parte appetitiva per la quale tendiamo alle cose, che non nella parte apprensiva per la quale tiriamo a noi le cose, 3. e, poiché la passione in senso proprio importa. mutazione corporale, c’è nell’appetito sensitivo meglio che nell’appetito intellettivo, chiamato volontà.
Quest. 23. Distinzioni delle passioni. – 1. L’appetito concupiscibile ha per oggetto il bene e il male semplicemente tale. L’appetito irascibile ha per oggetto il bene e il male arduo e difficile. Si distingue perciò specificamente il concupiscibile dall’irascibile. 2. Nelle passioni dell’irascibile l’opposizione, quale c’è tra speranza e timore, dipende sia dall’oggetto, sia dal modo di comportarsi relativamente a uno stesso termine; nelle passioni invece del concupiscibile l’opposizione, quale c’è fra amore e odio, dipende solo dall’oggetto. 3. Senza il suo contrario c’è solo l’ira per la singolare sua condizione di essere passione di un male incombente dal quale non c’è scampo. 4. Differenti di specie, ma non fra loro contrarie, sono nel concupiscibile: l’amore, il desiderio, il gaudio; l’odio, l’avversione e la tristezza: e nell’irascibile: la speranza e l’audacia; il timore, la disperazione e l’ira.
Quest. 24. Bontà e malizia delle passioni. – 1. Bene o Male morale c’è nelle passioni, non in quanto sono moti dell’appetito, ma in quanto dipendono dalla ragione e sono volontarie. 2. Le passioni, che sono principio di moto di volontà, regolate dalla ragione divengono virtù.
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3. La passione, assecondando la volontà, rende l’atto umano più perfetto e perciò gli aggiunge moralità. 4. Le passioni sono di specie buona o cattiva non nella loro entità naturale, ma nella loro entità morale.
Quest. 25. Confronto fra le passioni. – 1. Le passioni del concupiscibile prima sono inizio, poi divenrgono termine delle passioni dell’irascibile, così per amore si lotta e poi si gode del conquistato bene. 2. Tra le passioni del concupiscibile prima c’è l’amore, che è del bene, poi c’è l’odio, che è del male. 3. Fra le passioni dell’irascibile la prima è la speranza che è del bene, poi viene il timore che è del male. 4. Gaudio e tristezza, speranza e timore sono le passioni principali e gaudio e tristezza sono le passioni finali.
Quest. 26. Dell’amore. – 1. L’amore appartiene all’appetito concupiscibile ed è triplice: naturale, sensitivo, razionale. 2. L’amore strettamente parlando è passione dell’appetito sensitivo; in senso largo è passione della volontà. 3. Amore non è lo stesso che dilezione, perché qusta è esclusiva della volontà e presuppone una scelta fatta dalla ragione. 4. Amare è voler bene, ma o si vuole bene a sé o si vuole bene ad altri, perciò l’amore si divide in amore di concupiscienza e amore di amicizia.
Quest. 27. Cause dell’amore. – 1. Causa propria dell’amore è il bene, ossia ciò che a ciascuno è connaturale e proporzionato: il male si ama se apparisce bene. Il bello è lo stesso che il bene, colla differenza che il possesso
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del bello sta nella vista o nella cognizione, il possesso del bene nell’unione. 2. Causa prossima dell’amore è la conoscenza del bene. Ignoti nulla cupido. 3. Anche la somiglianza è causa di amore, perciò ognuno ama il suo simile. 4. L’amore è il principio delle altre passioni, che a esso si possono ridurre, non può quindi esserne l’effetto, se non accidentalmente.
Quest. 28. Effetti dell’amore. – 1. L’amore ha per effetto un’unione reale alle cose presenti; un’unione di affetto alle cose apprese come parte di se stesso e questo è amore di concupiscenza, o a quelle apprese come altro se stesso, e questo è amore di amicizia. 2. Effetto di amore è la mutua adesione dell’animo perché l’amore fa che l’amante sia nell’amato. 3. L’estasi è affetto di amore; può esserci per apprensione di bene o anche di male, come nel frenetico, ovvero per una potente inclinazione. 4. Lo zelo e la gelosia sono effetto di amore, perché l’amore intenso fa ricacciare ciò che gli è contrario e lo ostacola. 5. L’amore, avendo per oggetto il bene, per sé è conservativo e perfettivo; può però riuscire lesivo per sua intensità o per l’oggetto cattivo. 6. L’amore è la causa di tutto ciò che fa chi ama: è per il fine che si opera.
Quest. 29. Dell’odio. – 1. Come il bene è causa dell’amore, così il male è causa dell’odio. 2. L’odio deriva dall’amore, perché è l’amore che fa conoscere una cosa come ripugnante a ciò che si ama.
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3. Benché sia più sensibile dell’amore, non è però l’odio più forte dell’amore, perché sarebbe un effetto superiore alla causa. 4. Ciascuno naturalmente ama se stesso; nessuno quindi, per sé, può odiare se stesso; ciò può essere accidentalmente, cioè per falso giudizio; 5. e neppure si può, per sé, odiare la verità, perché vero e bene sono lo stesso. 6. L’odio universale non può esserci nell’appetito sensitivo se non come inclinazione naturale; nella parte intellettiva invece può esserci anche come intenzione.
Quest. 30. Del desiderio. – 1. La concupiscenza, ossia il desiderio del piacere, appartiene propriamente l’appetito sensitivo. 2. Il desiderio è distinto dall’amore e dalla gioia: l’oggetto presente appaga, ecco la gioia, – l’oggetto assente conforma a sé l’appetito, ecco l’amore; – l’oggetto assente attrae, ecco il desiderio; esso è quindi una passione speciale. 3. C’è un desiderio naturale, come quello del cibo, che ci è comune cogli animali e si chiama concupiscenza; e c’è un desiderio, non così naturale, che segue cognizione e si chiama cupidigia.
4. Si può dire infinito e il desiderio che segue la ragione, la quale va all’infinito, e il desiderio dell’ultimo fine che è infinito.
Quest. 31. Del piacere o godimento. – 1. Il piacere o godimento, è una passione, perché è un moto dell’appetito sensitivo proveniente da cognizione sensitiva,
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2. essendo quiete dell’animo, per sè, non appartiene al tempo, che sta nel moto e successione; si misura però anche esso sul tempo, se al tempo soggiace l’oggetto cui si aderisce. 3. Differiscono piacere, o godimento, e gaudio, perché il gaudio è proprio delle facoltà razionali, agli animali quindi si attribuisce piacere, ma non gaudio; 4. può esserci infatti piacere anche nelle facoltà razionali, appunto perché c’è l’appetito razionale che si chiama volontà. 5. Il godimento corporale è più sentito e più veemente, ma è maggiore il godimento che si ha da operazioni spirituali, perché più nobili, più vaste ed è più intima col bene posseduto la cognizione dell’intelletto, perché esso penetra ogni cosa, e si riflette anche su se stesso. 6. I piaceri del tatto sono i più utili, perché servono alla conservazione; ma quelli della vista sono più importanti perché servono all’intelletto. 7. Per causa di qualche difetto può esserci qualche godimento non naturale come quello di mangiare i carboni; 8. ci sono anche piaceri uno all’altro contrari, quelli cioè che vicendevolmente si impediscono.
Quest. – 32. Causa del godere. – 1. Il godimento proviene da operazioni, perché la consecuzione di un bene e la cognizione di tale consecuzione sono una specie di operazione. 2. A dilettare concorrono il bene, l’unione col bene e la cognizione di questa unione ma in tutto ciò c’è una misura e perché non sopravvenga la noia occorre variare. Da ciò: variata placent: il variare è causa di diletto. 3. La speranza, che fa presente un bene come possibile, e la memoria, che ce lo fa presente col ricordo, sono causa di godimento.
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4. Anche la tristezza può essere causa di godimento, in quanto fa pensare o alla cosa amata o al male sfuggito; 5. lo sono, anche, le altrui azioni, quando procurano un bene a noi o agli amici nostri; 6. lo sono anche i benefici che facciamo, perché il bene dell’amico è come nostro e perché possiamo spere e compiacerci. 7. Anche la somiglianza, che genera amore, cagiona goimento. 8. La meraviglia, in quanto fa nascere la speranza di conoscere ciò che fa stupire, è causa di godimento; così, pure le rarità che ammiriamo ci procurano diletto.
Quest. 33. Effetti del godimento. – 1. Il godimento ha per effetto di allargare, come metaforicamente si dice, la mente e il cuore. 2. Il godimento, quando è di cosa presente, ma non posseduta, genera sete, ossia desiderio, di se stesso. 3. Il godimento corporale distrae dall’uso della ragione, ne è contrario, conturba troppo e lo impedisce; mentre il godimento spirituale lo accresce. 4. Il godimento fa che più si attenda all’operazione che lo produce, impedisce però le altre operazioni.
Quest. 34. Bontà e malizia del godimento. – 1. Il godimento non è sempre cattivo; se è conforme a ragione, è buono; 2. parimenti il godimento non è sempre buono, perché talora è buono per qualcuno soltanto, od è solo apparentemente e non veramente buono. 3. C’è poi un godimento che è ottimo, ed è quella del sommo bene cioè dell’ultimo fine.
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4. Regola del bene o del male è il godimento, non però quello dell’appetito sensitivo, bensì quello della volontà che è appetito razionale.
Quest. 35. Del dolore e della tristezza. – 1. Il dolore è passione dell’anima, benché la causa sia nel corpo, perché è per l’anima, che lo fa vivere, che il colpo sente il dolore. 2. Il dolore che proviene da apprensione d’intelletto o di imaginazione, propriamente si chiama tristezza; 3. e questa è opposta al gaudio, perché opposto a quello del gaudio ne è l’oggetto; 4. e in generale gaudio e tristezza sono sempre fra loro contrari perché contrari fra loro sono bene e male che ne formano l’oggetto: talora sono soltanto disparati e perciò non si escludono a vicenda; così può accompagnarsi al dolore per la morte dell’amico il gaudio della contemplazione; 5. a questo gaudio anzi nessun dolore è contrario e soltanto per accidente gli si unisce; 6. per sé il desiderio del piacere è più forte della fuga del dolore, talora però avviene il contrario; perché il bene si apprezza solo quando è perduto e il dolore impedisce ogni diletto. 7. Il dolore interno è più forte del dolore esterno, che affligge solo il corpo; vero è che talora si incontra volontariamente il dolore esterno per evitare il dolore interno. 8. Quattro sono le specie di dolore o tristezza:, misericordia, invidia, ansietà è accidia.
Quest. 36. Cause del dolore e della tristezza. – 1. Il dolore è causato più dal male presente che dal bene che non si ha più.
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2. Il desiderio possessivo, quando è ostacolato, può cagionare dolore; 3. parimenti il desiderio unitivo, finché non è sodisfatto, è causa di dolore, perché tutto ciò che contraria l’inclinazione naturale è causa di dolore; 4. perciò anche un potere, cui si vorrebbe, ma non può resistere, è causa di dolore.
Quest. 37. Effetti del dolore e della tristezza. Un grande dolore sensibile, impedendo l’applicazione dell’anima, impedisce di imparare. 2. Il dolore opprime l’anima come fosse un peso. 3. inoltre rende fiacchi nell’operare, finché non diventa principio di reazione. 4. Il dolore nuoce al corpo più delle altre passioni, perché ritarda il giusto battito del cuore: e ancora più delle altre pesa, perché il suo oggetto è un male presente.
Quest. 38. Rimedi del dolore e della tristezza. 1. ll dolore si lenisce con qualunque diletto, come fa il riposo per un corpo affaticato. 2. Il dolore si lenisce col pianto, perché è il suo naturale sfogo, si riversa anche fuori e diminuisce dentro, 3. lenisce il dolore la compassione degli amici, che diventa un sollievo di amore, 4. lenisce grandemente il dolore lo studio del vero e sopratutto la celeste contemplazione. 5. Il dolore si lenisce anche col sonno e col bagno, perché con questi la natura è ricondotta al suo stato e il cuore al suo battito regolare.
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Quest. 39. Bontà e malizia del dolore e della tristezza. – 1. Il dolore per sé è male; ma non è, per esempio, male rattristarsi del male. 2. Quindi è onesto il dolore che proviene da rettitudine di volontà e di ragione; 3. anzi è utile, quando eccita a fuggire ciò che sidetesta. 4. Il dolore del corpo non è male sommo, perché è male di pena ed è più grande il male di colpa.
Quest. 40. Speranza e disperazione. – 1. La speranza, come passione, è distinta dal desiderio: sia perché questo ha per oggetto il bene semplicemente, mentre la speranza ha per oggetto un bene futuro, arduo, possibile; sia perché il desiderio è dell’appetito concupiscibile, mentre la speranza è dell’irascibile; 2. la speranza, riferendosi al bene, appartiene alla facoltà appetitivi anziché alla facoltà apprensiva. 3. L’appetito irascibile c’è anche negli animali, quindi anche in loro c’è la speranza. 4. La speranza è di un bene arduo possibile cui ci si avvicina i la disperazione è di un bene arduo impossibile da cui ci si allontana, sono perciò una all’altra contrarie. 5. L’esperienza, rendendoci più atti e più esperti, è causa di speranza. 6. Oggetto della speranza è un bene futuro, arduo, possibile: perciò hanno molta speranza i giovani, che hanno più di futuro e di vitalità e meno di esperienza; gli ubriachi che nulla considerano e gli stolti che tentano ogni impresa. 7. La speranza deriva dall’amore del bene che si spera, talvolta però è essa causa di amore verso colui nel quale si spera. 8. La speranza giova all’opera, perché non solo non impedisce, ma invece favorisce la naturale inclinazione.
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Quest. 41. Del timore. – 1. Il timore muove a fuggire un male futuro, difficile a evitarsi, è quindi una passione dell’anima; 2. è anzi una passione speciale, perché il suo oggetto, cioè un male futuro difficile a evitarsi, è un oggetto speciale. 3. Il timore non è naturale nel senso che appartenga a tutta la natura, anche alle cose prive di cognizione; tuttavia c’è un timore naturale, come quello della morte, al quale la natura stessa ci inclina. 4. Il timore nell’agire dell’uomo può diventare ritrosia, rossore e vergogna e nell’apprensione dell’uomo può essere stupore, spavento e agonia.
Quest. 42. Oggetto del timore. – 1. Il bene è oggetto indiretto del timore, in quanto se ne teme la privazione: oggetto diretto è il male; 2. oggetto del timore può essere anche un male naturale, come è la morte, quando però sia evitabile; 3. non può invece propriamente essere oggetto del timore il peccato, perché è in nostro potere di evitarlo; 4. si può anche aver timore di aver timore, come si può dolersi di dolersi. 5. Le cose repentine si temono di più, perché appaiono un male maggiore e mancano i pronti rimedi. Le persone calme e astute, che nascondono l’ira e il danno che si teme, cagionano maggior timore di quelle che mostrano la collera. 6. Le cose poi contro le quali non c’è rimedio sono qulle che maggiormente si temono, perché si reputano più durature.
Quest. 43. Cause del timore. – 1. Il timore deriva dall’amore del bene di cui si teme la privazione, ma il
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timore può anche essere causa dell’amore, quando chi teme la punizione osserva i comandi, comincia a sperare e viene avviato ad amare. 2. Causa del timore è o la debolezza nel soggetto, o la forza dell’oggetto che può nuocere.
Quest. 44. Effetti del timore. – 1. Il timore, che sta in una contrazione, stringe il cuore e trattiene il respiro. 2. Il timore rende riflessivi, benché come ogni passione impedisca di bene riflettere. 3. Il timore fa tremare, perché il timore contrae la vitalità e le membra esterne si indeboliscono: quindi fa anche impallidire; 4. toglie anche le forze del corpo e così impedisce di operare, ma quanto alle forze dell’anima, se non è eccessivo, le sollecita.
Quest. 45. Dell’audacia. – 1. L’audacia è il contrario di timore, perché ha lo stesso oggetto, ma si trova al lato opposto. 2. L’audacia, che sta nell’affrontare un male terribile, deriva dalla speranza di conseguir un bene. 3. I difetti, per sé, non sono causa di audacia; lo possono però essere quei difetti che escludono il timore, come p. es. un cuore piccolo, che batte più forte, e l’amor del vino, che toglie la conoscenza del pericolo. 4. Gli audaci sono più eccitati in principio che in fine di un pericolo, perché il loro è un moto dell’appetito sensitivo con giudizio avventato. Fanno il contrario coloro che sono veramente forti.
Quest. 46. Dell’ira. – 1. L’ira non è passione generale in quanto sia causa di altre passioni, ma in quanto deriva
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dal dolore subito e dalla speranza di vendetta, cioè dal concorso di più cause. 2. L’ira vuole la vendetta quale bene, contro il nemico che si reputa il male; questo è il suo oggetto. 5. L’ira appartiene non al concupiscibile, ma all’irascibile, tanto che dall’ira esso prende nome. 4. L’ira, fa la proporzione fra il male patito e la pena da infliggersi, questo è proprio della ragione, nell’ira c’è quindi sempre un che di ragione; 5. perciò all’uomo l’ira è più naturale che la concupiscenza, mentre all’animale è più naturale la concupiscenza che l’ira. 6. L’odio è peggiore dell’ira, perché l’odio vuole il male come male e l’ira lo vuole come giusta vendetta, 7. e poiché vuole la giusta vendetta di un’ingiusta azione, l’ira riguarda tanto la giustizia quanto l’ingiustizia; 8. l’ira poi, secondo i suoi gradi, si distingue in rabbia e furore.
Quest. 47. Cause dell’ira. – 1. Causa dell’ira è sempre qualche cosa fatta contro chi si adira; 2. questa si riduce sempre a essere mancanza del dovuto rispetto. 3. Chi si adira ha per motivo dell’ira la propria dignità, ma ha per causa un difetto; 4. l’abbiezione poi di chi provoca è causa di più facile o di maggior ira, come avviene, quando il ricco è insultato da un povero.
Quest. 48. Effetti dell’ira. – 1. L’ira, col pensiero e la speranza della vendetta, cagiona diletto. 2. L’ira è ciò che più di tutto scalda il cuore, perché il suo è un moto di impetuosità e veemenza.
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3. L’ira sopra tutte le passioni impedisce l’uso di ragione, perché più di tutte turba il cuore e sconvolge l’organismo; 4. e lo sconvolgimento talora è tale, che la lingua resta impedita di parlare e allora l’ira è causa di taciturnità.
Quest. 49. Abiti in generale. – 1. L’abito, parola che deriva dal verbo avere, e vale: «aversi secondo la propria natura o secondo il fine», è: buona o cattiva qualità. 2. ed è una determinata specie della qualità, perché è disposizione del soggetto in ordine alla sua natura e anche perché è disposizione stabile; 3. perché è disposizione secondo natura, e natura vuol dire sostanza considerata come principio delle operazioni; così abito importa sempre: principio di operazione. 4. Gli abiti sono perfezioni, la perfezione è necessaria essendo il fine stesso dell’esistenza, gli abiti quindi sono necessari.
Quest. 50. Soggetto degli abiti. – 1. Il corpo che ha il suo moto o dalla natura o dall’anima, che lo fa vivere, non è propriamente soggetto di abiti che sono disposizioni a operare; gli possono essere attribuiti come abiti le sue disposizioni abituali, quali la sanità, impropriamente però, perché non sono stabili; in un istante si perdono. 2. Prossimi principi di operazione per la natura sono le potenze, perciò gli abiti appartengono alle potenze dell’anima: la grazia tuttavia è sola dell’anima; 3. alle potenze sensitive però spettano solo in quanto dipendono dalla ragione. 4. Poiché la scienza, la sapienza, l’intelligenza sono operazioni dell’intelletto, i relativi abiti sono pure dell’intelletto.
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5. Anche la volontà è una potenza dell’anima e a lei compete l’abito della giustizia. 6. Anche gli Angeli hanno nella volontà e nell’intelletto gli abiti che bene li dispongono in ordine a Dio.
Quest. 51. Causa degli abiti. – 1. Abito naturale è l’intelletto dei principî: cioè tutti hanno da natura la disposizione di applicare alle cose apprese dai sensi principi dell’intelletto: così vedendo una cosa e una sua parte si applica il principio che il tutto è maggiore della parte. 2. Una potenza spesso eccitata a operare diviene più facilmente eccitabile; così acquista una stabile disposizione a compiere il suo atto; acquista l’abito della sua operazione, perciò si dice che la ripetizione di un atto ne induce l’abito. 3. Un solo atto non basta a generare un abito di virtù nella potenza appetitiva, perché con un solo atto non se ne vince la resistenza passiva; basta invece nella potenza conoscitiva, perché l’intelletto, capìta una volta una cosa, ne ha tosto la scienza. 4. Quanto agli atti che si riferiscono all’ultimo fine – la vita eterna – che eccede le forze umane, i relativi abiti non possono essere che infusi da Dio.
Quest. 52. Accrescimento degli abiti. – 1. L’abito può divenire più intenso o farsi più rilassato sia in sé, sia nella partecipazione di chi ne è il soggetto e così può crescere o diminuire: 2. il crescere però non sta nell’aggiungere ancora abito, ma nel perfezionarsi del soggetto in esso; il crescere poi della scienza sta nell’estendersi delle cognizioni. 3. Ogni atto che sia all’altezza dell’intensità del suo abito lo accresce, se è al disotto lo diminuisce.
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Quest. 53. Diminuzione e perdita degli abiti. – 1. L’abito si perde o per l’esercizio di atti a esso contrari, o per il venir meno della potenza cui si riferisce; così colui, cui vien meno la vista, può perdere la scienza dello spazio. 2. L’abito, come può crescere, così può diminuire; 3. e la diminuzione avviene per la mancanza dell’esercizio.
Quest. 54. Distinzione degli abiti. 1. Una stessa potenza può avere parecchi oggetti e perciò parecchi atti e quindi ancora parecchi abiti; p. es. l’intelletto può possedere parecchie scienze. 2. Un abito si distingue specialmente da un altro per ragione o del suo principio attivo, o della sua natura, o del suo oggetto; 3. gli abiti poi si distinguono sopratutto in buoni e cattivi, secondoché inclinano a atti convenienti o sconvenienti alla natura. 4. Un abito non è mai un composto di molti altri abiti, perché ogni abito è una forma semplice.
Quest. 55. Virtù nella sua essenza. – 1. La virtù rende una potenza perfetta; la potenza è perfetta se ha la determinazione al suo atto; la determinazione all’atto è un abito, perciò la virtù è un abito; 2. virtù umana è quella che perfeziona le potenze proprie dell’uomo, cioè le potenze razionali; essa quindi non è abito entitativo, ma è abito operativo; 3. ed è abito operativo buono, perché altrimenti nonsarebbe perfezione delle potenze. 4. S. Agostino la definisce bellamente: Buona qualità dell’animo per cui rettamente si vive, di cui male non si usa (e che Dio opera in noi, se la virtù è infusa).
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Quest. 56. Soggetto delle virtù. – 1. Soggetto delle virtù sono le potenze; perché le virtù sono perfezioni delle potenze; 2. ma una stessa virtù non può trovarsi in diverse potenze, perché è qualità, cioè accidente e un accidente non può essere in più soggetti. 3. La virtù è propria della volontà o di una potenza, in quanto mossa dalla volontà; quindi anche dell’intelletto, in quanto mosso da buona volontà; così l’intelletto speculativo può avere la virtù della fede e l’intelletto pratico può avere la prudenza. 4. La virtù può essere anche dell’irascibile, e del concupiscibile in quanto obbediscano alla ragione; 5. ma le facoltà della conoscenza sensitiva non possono essere soggetto delle virtù, perché le virtù morali o intellettuali ed i sensi possono soltanto esser buone disposizioni per l’intelligenza; 6. soggetto invece delle virtù può essere la volontà, da cui il concupiscibile e l’irascibile dipendono.
Quest. 57. Distinzione delle virtù intellettuali. – 1. Gli abiti intellettuali si possono dire virtù non in quanto facciano essi operare il bene, perché questo è proprio della volontà, ma in quanto procurano la facoltà di operare il bene. 2. Le virtù dell’intelletto speculativo sono 3: Intelletto o intuizione dei principi che si rendono evidenti; scienza o ragionata e piena cognizione dei diversi generi di cose; sapienza o conoscenza profonda che arriva agli ultimi perché delle cose. 3. L’arte, o giusta norma dell’esecuzione di un’opera è virtù in quanto procura la facoltà di ben agire; 4. la prudenza invece o «giusta norma delle nostre azioni» è virtù non in quanto procura tale facoltà, ma
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in quanto esige l’uso retto delle facoltà, perciò è dieta dall’arte. 5. Il ben vivere sta nel ben operare, il ben operare sta nella retta elezione, per la retta elezione occorre la prudenza, perciò la prudenza è all’uomo necessaria; 6. alla prudenza poi si accompagnano: l’eubulia, la sinesi e la gnome che fanno essere ponderati, perspicaci e decisi.
Quest. 58. Distinzione delle virtú morali dalle intellettuali. – 1. Non tutte le virtù sono virtù morali; virtù morali sono quelle che rettamente inclinando la parte appetitiva regolano i costumi; 2. e benché anch’esse abbiano per principio la ragione, tuttavia si distinguono dalle virtù intellettuali, perché alla ragione obbediscono potendovi contraddire. 3. Nell’uomo non ci sono altri principi attivi oltre l’intellettivo e l’appetitivo; perciò è sufficiente la divisione delle virtù in intellettuali e morali; 4. divisione non è però esclusione, ché anzi non ci può essere virtù morale senza le virtù intellettuali, dell’intelletto, che fa presenti i principî morali, e della prudenza; che procura la buona scelta; 5. le virtù intellettuali invece possono trovarsi senza le virtù morali; però eccettuata la prudenza che in se stessa è «retta norma dell’agire».
Quest. 59. Le virtù morali e le passioni. – 1. La virtù morale, che è principio di moto dell’appetito sensitivo e buon abito, non è passione, che è semplicemente moto dell’appetito sensitivo, per se indifferente. 3. la virtù morale non è incompossibile colla tristezza; perché chi è virtuoso si rattrista di ciò che è contrariò alla virtù.
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4. La giustizia, che è virtù morale, regola la volontà che è appetito intellettivo, perciò non tutte le virtù morali regolano passioni; 5. c’è quindi una virtù morale, cioè la giustizia, che può trovarsi senza la compagnia delle passioni; che se qualcuna,. come il gaudio, l’accompagna, ciò è solo per ridondanza.
Quest. 60. Distinzione delle virtù morali tra di loro. – 1. Le virtù morali appartengono alla volontà, la volontà ha per oggetto il bene appetibile, questo varia secondo il suo rapporto colla ragione, varie sono quindi anche le virtù e non una sola. 2. Le virtù morali che regolano le azioni sono distinte da quelle che regolano i moti interni di passione, cosicché chi percuote un altro manca esteriormente di giustizia e interiormente manca di mansuetudine. 3. L’ordine di ragione delle nostre azioni esterne si commisura da ciò che a ciascuno è dovuto, c’è dunque a regola delle nostre azioni una virtù generale, che comprende la religione, la pietà, la gratitudine etc. ed è la giustizia; 4. a regola, invece dei moti interni di passioni diverse ci sono diverse virtù; una sola è impossibile perché le diverse passioni appartengono a potenze diverse. 5. Le virtù morali si distinguono secondo la materia, le passioni e gli oggetti e anche secondo le operazioni, e Aristotele ne numera undici.
Quest. 61. Le virtù cardinali. – 1. Virtù cardinali sono quelle che contengono la rettitudine dell’appetito; questo è proprio delle virtù morali, fra queste sole quindici sono virtù cardinali;
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2. le virtù morali principali o cardinali sono 4: a regola della ragione la prudenza, a regola della volontà la giustizia, a regola dell’appetito concupiscibile la temperanza, a regola dell’irascibile la fortezza. 3. Virtù cardinali oltre e piú di queste quattro non ce ne sono, perché in queste quattro ci sono tutte le principali ragioni formali di virtù; 4. esse diversificano fra di loro secondo la diversità degli oggetti, 5. secondo poi i diversi atteggiamenti dell’uomo in ordine a Dio, ultimo fine, tali virtù sono o politiche, o purificanti, o di animo purificato, od esemplari.
Quest. 62. Le virtù teologali. – 1. Oltre alle virtù morali, che sono proporzionate alla beatitudine naturale, ce ne sono altre, proporzionate alla beatitudine soprannaturale; esse si chiamano teologali, perché hanno Dio per oggetto, ed infuse, perché non le abbiamo se non da Dio; 2. e poiché è loro oggetto Dio, in quanto però eccede la cognizione della ragione nostra, esse si distinguono dalle virtù intellettuali e morali, il cui principio è la ragione. 3. Le virtù teologali, che hanno per oggetto la beatitudine, la quale eccede la naturale capacità umana(perché ne occhio vide, ne cuor desiderò.... S. Paolo) sono 3: per l’intelletto la fede; e per la volontà: a tendere a Dio la speranza; a unirsi a Dio, la carità; e questa è numerazione e distinzione perfetta.
4. La fede è prima della speranza e della carità, perché senza conoscere Dio non si può amarlo; ma la carità è più eccellente della speranza e della fede perché è la loro perfezione.
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Quest. 63. Cause delle virtù. – 1. Da natura abbiamo, non la virtù, ma il principio di operazione, che virtù perfeziona. 2. La virtù morale possiamo averla dalla frequenza degli atti: ma la virtù teologica totalmente è solamente da Dio, perciò si dice infusa. 3. In proporzione delle virtù teologiche vengono in noi infuse da Dio anche alcune virtù morali. 4. Le virtù morali acquisite hanno uno scopo umano, invece le infuse hanno uno scopo soprannaturale, divino; queste perciò sono da quelle distinte.
Quest. 64. Giusto mezzo nelle virtù. – 1. Virtù è conformità colla retta ragione, da questa, che è misura, ci si allontana o per eccesso o per difetto, quindi virtù è stare nel giusto mezzo: In medio stat virtus. 2. Questo giusto mezzo della ragione non sta nello stesso atto della ragione, ma sta nella conformità della cosa colla retta ragione, ovvero sta nella materia stabilita dalla retta ragione, che nella giustizia si identifica colla cosa, e nelle altre virtù morali sta nel l’animo nostro. 3. Anche per le virtù intellettuali c’è un giusto mezzo e sta fra un difetto e un eccesso, cioè fra un’ affermazione falsa e una negazione falsa. 4. Invece nelle virtù teologali il giusto mezzo non è da ricercarsi in Dio, ma nella nostra condizione; manca quindi chi non spera ciò che nelle sue condizioni può sperare.
Quest. 66. Connessione fra le virtù. – 1. Le virtù morali sono perfette quando una non è senza l’altra, perché tutte sono radicate nella prudenza, e la prudenza non è perfetta senza le altre virtù: sono quindi fra loro legate.
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2. Le virtù morali acquisite possono stare senza la carità; non sono però assolutamente perfette, perché si chiudono nell’ambito dell’ordine naturale; invece le virtù infuse che riguardano l’ordine soprannaturale non possono essere senza la carità, 3. e la carità non è mai scompagnata dalle virtù morali; esse vengono infuse insieme con lei, affinché l’uomo sia perfettamente ordinato al suo ultimo fine. 4. Per sé fede e speranza possono trovarsi senza la carità, perché nella loro origine non dipendono dalla carità; ma non sono perfette, perché è perfetta la virtù che indirizza a opera perfettamente buona, perciò non sono vere virtù; 5. la carità invece non può stare senza la fede e la speranza, perché sono esse che iniziano alla carità.
Quest. 66. Grado delle virtù. – 1. Diversi sono i gradi delle virtù e cioè: nel genere di virtù secondo la loro specie; nella stessa specie secondo i diversi soggetti; nello stesso soggetto secondo i diversi tempi: la virtú quindi può essere maggiore o minore. 2. In un medesimo soggetto le virtù, che insieme si trovano, sono eguali, perché eguale per tutte è il giusto mezzo che una medesima ragione segna; salvo le particolari inclinazioni o doni di grazia. 3. Come per sé l’intelletto è più nobile della volontà, così per sé le virtù intellettuali sono più nobili delle virtù morali e di esse la più grande è la sapienza. 4. Ordine di nobiltà fra le virtù morali è: giustizia, che regola più da vicino la ragione, fortezza e temperanza: prima virtù morale è quindi la giustizia: 2. invece fra le virtù intellettuali la prima è la sapienza, che ha per oggetto la Causa Altissima, dalla quale si guarda poi ai sottostanti effetti; essa è detta virtù architettonica.
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6. La più grande fra le virtù teologali è la carità, perché la fede è di ciò che non si vede, la speranza di ciò che non si ha, la carità è di ciò che si possiede.
Quest. 67. Durata delle virtù dopo la morte. – 1. Nell’altra vita restano le virtù morali, in quanto buoni abiti, ma senza passioni da regolare. 2. Nell’altra vita restano le virtù intellettuali, maper le idee, non per la fantasia. 3. Nell’altra vita la fede, che è di ciò che non si vede, cessa, perché allora si vede; 4. cessa la speranza, che è di ciò che non si ha, perché allora si ha, 5. e non ne resta di loro nemmeno una parte, perché sono abiti semplici non divisibili in parti; 6. la carità invece si perfeziona da quello che era in questa vita e resta anche nell’altra vita.
Quest. 68. I doni dello Spirito Santo. – 1. Le virtù sono perché l’uomo segua l’eccitamento della ragione; i doni sono perché l’uomo segua l’eccitamento dello Spirito Santo, si distinguono adunque dalle virtù. 2. Ancorché la ragione sia informata dalle virtù teologiche, la sua mozione non è sufficiente al fine soprannaturale; occorre anche la mozione dello Spirito Santo, occorrono i doni: 3. come le virtù, così anche i doni sono disposizioni stabili e perciò abiti permanenti dell’anima. 4. I doni sono 7, così convenientemente disposti: a) Quanto all’Apprensiva: Per la ragione speculativa
– L’intelletto.
» » pratica
– Il consiglio.
Per il giudizio speculativo
– La sapienza.
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» » pratico
– La scienza.
b) Quanto all’Appetitiva: verso le persone
– La pietà.
contro le cose che spaventano
– La fortezza.
» le cose che allettano
– Il timore di Dio.
5. I doni dello Spirito Santo sono fra loro legati, perché radicati nella carità; 6. essi dureranno, nella loro essenza, anche nell’altra vita e saranno perfettissimi. 7. La enumerazione solita dei doni, presa da Isaia, li dispone secondo l’ordine di dignità e si trova in accordo colla elencazione fatta sopra, benché ciò non sembri, perché son da prendersi a gruppi e l’ordine talora è inverso. 8. Le virtù teologali sono superiori ai doni, perché ne sono la regola, ma i doni sono superiori alle altre virtù, perché essi danno una mozione superiore, cioè quella dello Spirito Santo.
Quest. 69. Le beatitudini. – 1. Le beatitudini sono operazioni delle virtù e dei doni, le quali ci avviano alla beatitudine eterna; sono perciò distinte dai doni e dalle virtù; 2. i premi assegnati alle beatitudini sono premi della vita futura, che cominciano in questa. 3. Le beatitudini sono bellamente ordinate; infatti: a) esse ritraggono dagli allettamenti di questa vita: delle ricchezze e degli onori:
Beati i poveri;
dell’irascibile:
» i miti;
del concupiscibile
» i piangenti;
b) esse nella vita attiva col prossimo
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inclinano alla giustizia:
» i famelici;
ritraggono dall’avarizia:
» i misericordiosi;
c) esse dispongono alla vita contemplativa colla purezza:
Beati i mondi;
col trattar bene il prossimo:
» i pacifici.
4. Parimenti sono in bella corrispondenza enunciati i premi delle beatitudini, che ritraggono dagli allettamenti e reggono nella vita attiva e contemplativa, quando si dice: Beati i poveri. perché di loro è il regno dei cieli, ecc.
Quest. 70. I frutti dello Spirito Santo. – 1. I frutti dello Spirito Santo sono atti, quelli cioè che si compiono secondando la mozione dello Spirito Santo. 2. Essi vanno distinti dalle beatitudini; frutti sono opere virtuose che procurano gaudio spirituale; beatitudini sono opere perfette che procedono dai doni dello Spirito Santo; 3. essi sono: carità, gaudio, pace, pazienza, benignità, bontà, longanimità, mansuetudine, fede, modestia, continenza, castità, come dice S. Paolo (Ga1. V: 22 – 23); scaturiscono in noi in quanto per la mozione dello Spirito Santo l’anima si dispone bene o in se stessa, o riguardo al prossimo o riguardo ai propri atti: 4. essi ci fanno tendere al cielo e perciò possono dirsi contrari alle opere della carne, che ci fa tendere alle bassezze della terra.
Quest. 71. Vizi e peccati: – 1. Vizio è il contrario della virtú, perché è contrario alla ragione e ordinato al male.
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2. Distintivo della natura umana è la ragione; la virtù è conformità alla ragione; il vizio è contrarietà alla ragione e quindi anche alla natura. 3. L’abito sta fra la potenza e l’atto ed è l’atto che rende cattivo l’abito più che viceversa; perciò l’atto vizioso è peggiore del vizio. 4. Un peccato mortale fa cessare le virtù infuse, ma non le acquisite, perché queste con un solo atto non s’acquistano e nemmeno si perdono. * Il peccato mortale espelle la carità e con lei la fede e la speranza in lei radicate; se restano la fede e la speranza, restano perciò informi e quindi non vere virtù. 5. Il peccato non consiste sempre in un atto, perché talvolta il peccato consiste nell’omissione di un atto, che si poteva e si doveva fare. 6. Peccato è un atto umano cattivo; cattivo si può dire in confronto di una norma e le norme sono due: la prossima cioè la retta ragione; la remota cioè la legge eterna: alla norma poi si fa contro con atti, parole, desideri.
Quest. 72. Distinzione della specie dei peccati. – 1. Ogni atto viene specificato dal suo oggetto; il peccato è un atto, perciò un peccato è di specie diversa di un altro secondo la diversità dell’oggetto. 2. L’oggetto del peccato produce un godimento disordinato e poiché tale godimento può essere o spirituale o corporale, perciò i peccati si distinguono altresì in peccati spirituali e peccati carnali. 3. I peccati si distinguono specificamente, non secondo la causa efficiente, che è eguale per tutti i peccati, essendo essa la volontà, ma secondo la causa finale, perché il fine, che è oggetto della volontà, specifica gli atti umani.
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4. Il peccato è un atto disordinato; l’ordine contro cui va il peccato è triplice: Dio, prossimo, sé stesso, da ciò si distinguono i peccati contro Dio, il prossimo e se stesso; 5. non si distinguono invece specificamente secondo il reato che importano, perché questo non precede, ma consegue il peccato: perciò la distinzione dei peccati in veniali e mortali non è una distinzione specifica; 6. e nemmeno, strettamente parlando, è una distinzione specifica la distinzione di peccati di omissione e di commissione, perché l’avaro pecca tanto rubando l’altrui guanto non pagando i debiti. 7. La distinzione dei peccati in peccati di pensiero, di parole e di opere è giusta; ma non è distinzione di specie, è invece distinzione di grado. 8. I peccati che stanno fra loro come l’eccesso e il difetto sono fra loro contrari e perciò tanto più sono differenti di specie: p. es. l’avarizia e la prodigalità. 9. Le circostanze non mutano la specie dei peccati, ciò però purché non ci sia in esse un motivo particolare, che diventa fine dell’atto, perché il fine specifica gli atti e quindi i peccati.
Quest. 73. Gravità dei peccati. – 1. Le virtù sono legate una all’altra, perché sono fra di loro connesse; i peccati invece non sono fra di loro connessi, perché ce ne sono di quelli che sono contrari uno all’altro come prodigalità e avarizia. 2. I peccati sono più o meno gravi secondo che si allontanano più o meno dalla rettitudine della ragione e perciò non sono tutti eguali. 3. La. gravità dei peccati varia secondo l’oggetto così graduato: cose, persone, Dio; essendo le cose per l’uomo e l’uomo per Iddio; 4. varia anche secondo la dignità delle virtù cui vanno contro, perché anche esse prendono specie dall’oggetto.
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5. I peccati di carne sono di maggiore infamia; ma i peccati di spirito sono più gravi, perché in questi l’incentivo è minore. 6. Le cause che diminuiscono l’uso della ragione e della volontà diminuiscono anche il peccato, perché alle cause si proporziona l’effetto. 7. La circostanza influisce nel peccato e perciò lo accresce, talvolta la aggrava soltanto, talvolta lo moltiplica; talvolta infine lo cambia anche di specie. 8. Il danno che un peccato produce aggrava il peccato, ed è sempre imputabile quando segue per sé l’atto del peccato o quando essendone un effetto fu previsto ed inteso. 9. Aggrava il peccato la dignità della persona contro cui si commette, perché essa è in qualche modo oggetto del peccato; 10. e lo aggrava anche la dignità della persona che lo commette, perché il peccato è più disdicevole e di maggiore scandalo.
Quest. 74. Soggetto del peccato – 1. Il peccato è un atto umano; principio dell’atto umano è la volontà, perciò soggetto del peccato è la volontà; 2. ma poiché oltre gli atti «eliciti» della volontà ci sono anche gli atti «imperati» delle potenze che da lei dipendono, perciò soggetto del peccato non è soltanto la volontà, 3. anche la sensualità ossia il moto dell’appetito sensitivo, può dipendere dalla volontà, perciò anche nella sensualità può esserci il peccato; 4. all’ultimo fine però può assurgere la ragione e non la sensualità, perciò peccato mortale, ossia disordine relativo all’ultimo fine, può esserci nella ragione, ma non nella sensualità, quale solo appetito sensitivo.
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5. La ragione può mancare al suo compito o errando nella cognizione della verità o non bene regolando gli atti delle potenze inferiori, perciò anche nella ragione, sia superiore che inferiore, può esserci il peccato. 6. La ragione deve regolare gli atti esterni e gli atti interni e manca al suo compito non solo quando ordina i moti cattivi, ma anche quando non li reprime; in questo sta la dilettazione morosa, essa perciò appartiene alla ragione. 7. Il consenso all’atto non è che giudizio finale dell’atto; il giudizio finale spetta al superiore, perciò il consenso sta nella ragione superiore. 8. Altra cosa è dilettarsi di un nostro pensiero e altra cosa è acconsentire al diletto che sorge in noi per il pensiero di un oggetto cattivo; questa non è che consentire a un atto cattivo e perciò, se la materia è grave, è peccato mortale. 9. Il consenso spetta alla ragione superiore, il consenso poi può essere di peccato veniale; nella ragione superiore può esserci quindi anche peccato soltanto veniale, 10. e poiché la ragione superiore nel suo stesso atto può essere sorpresa e portata al consenso non con intuizione e anche deliberazione, ma di sola intenzione c senza deliberazione, perciò anche il consenso di peccato mortale può essere peccato soltanto veniale per l’imperfezione dell’atto.
Quest. 75. Cause del peccato in generale. – 1. Il peccato è un atto difettoso, esso perciò ha la sua causa come atto, ed è la volontà; ed ha la sua causa come difettoso, ed è la mancanza di dovuta rettitudine. 2. La causa interna del peccato è prossima cioè la ragione e la volontà, e remota cioè l’immaginazione el’appetito sensitivo.
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3. Causa esterna pel peccato possono essere le cose mondane, gli uomini, il demonio; ma la causa esterna è indiretta e vale in quanto muove la ragione e l’appetito sensitivo; può muovere, ma non indurre al peccato. 4. Un peccato può in vari modi essere causa di un altro peccato e sopratutto perché dispone ad altri peccati e ne prepara la materia.
Quest. 76. Cause del peccato in particolare. – 1. L’ignoranza può essere causa di peccato quando è privazione di quella scienza che, se ci fosse stata, avrebbe illuminata la ragione e questa avrebbe diretto diversamente la nostra azione. 2. È peccato non sapere ciò che si può e si deve sapere; ciascuno poi è tenuto a sapere: 1. Le cose di fede – 2. Le cose principali della legge. – 3. I doveri particolari del proprio stato. 3. Solo l’ignoranza antecedente e invincibile di ciò che si deve sapere può scusare totalmente il peccato. 4. Quando si pecca per ignoranza, se l’ignoranza è colpevole il peccato diminuisce, perché diminuisce la volontà di peccare; ma se fu apposta cercata il peccato cresce.
Quest. 77. Parte dell’appetito sensitivo nelle cause del peccato. – 1. Le passioni dell’appetito sensitivo non agiscono direttamente sulla volontà, perché essa è una facoltà immateriale dell’anima, ma agiscono indirettamente, e ciò in due modi, distraendola o impedendo il retto giudizio della ragione. 2. La volontà tende sempre a ciò che è bene, o che la ragione le presenta come bene; ma la ragione può essere sopraffatta dalla passione, la quale o distrae, o
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spinge al contrario la ragione, o commuove e conturba l’organismo, tanto che taluno per ira o amore impazzisce; 3. le passioni così si possono dire malattie dell’anima, che impediscono le operazioni sue proprie, come la miopia impedisce la vista chiara. 4. Causa del peccato è rivolgersi alle cose terrene contro la norma della ragione, ciò si fa per disordinato amore di se stessi, e questo quindi è sempre causa del peccato; 5. e le cose terrene cui l’uomo si rivolge contro la norma della ragione sono i beni che dilettano il concupiscibile o col contatto: concupiscentia carnis – o coll’apprensione: concupiscentia oculorum; e quelli che allettano l’irascibile colla mira di cosa ardua: superbia vitae. 6. Un peccato può essere reso meno grave dalla passione quando essa è antecedente e per la sua veemenza diminuisce il libero arbitrio; non così se la passione è conseguente, cioè viene di seguito all’uso del libero arbitrio. 7. Le passioni quando tolgono l’uso della ragione, scusano dal peccato, purché però non siano volontarie, 8. tuttavia il peccato, pur provenendo dalla passione, è mortale se la ragione potendo e dovendo non resiste a tempo alla passione.
Quest. 78. La malizia come causa del peccato. 1. Il peccato di malizia certa è il peccato conosciuto e voluto ed è di chi pecca per calcolo anziché per ignoranza o passione. 2. Abitudine è ferma e quasi naturale disposizione della volontà al male; quindi chi pecca per l’abitudine pecca di malizia certa; 3. talora uno fa un peccato di malizia certa senza averne l’abitudine, come può fare un atto virtuoso senza averne la virtù, perciò un peccato di malizia certa indica
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sempre cattiva inclinazione, ma non indica sempre anche l’abitudine cattiva. 4. Chi pecca per abitudine è più reo di chi pecca per passione, perché ha la volontà più legata al male.
Quest. 79. Cause esterne del peccato. – 1. Dio, sommo bene, non può essere causa del peccato, che sta nel volere il male. 2. L’uomo nulla fa se non sostenuto da Dio, Causa Prima; ogni azione umana è quindi e dell’uomo e di Dio; però il peccato che è un’azione difettosa, procede da Dio, in quanto è azione; ma il difetto proviene dall’uomo. Così il zoppicare proviene non dai centri nervosi, ma dalla gamba corta. 3. Dell’accecamento della mente e dell’induramento del cuore Dio è causa non perché spinge al male, ma perché sottrae la grazia che illumina la mente e ammollisce il cuore; 4. ed hanno di mira talvolta il ravvedimento del reo e talvolta la sua dannazione ad altrui esempio. Quest. 80. Parte del diavolo nelle cause del peccato. – 1. Il demonio non è per l’uomo causa diretta e sufficiente di peccato, esso agisce indirettamente sulla volontà: 1. Presentando qualche oggetto che eccita il senso. – 2. Turbando la ragione con eccitare internamente la fantasia e l’appetito sensitivo. – 3. Sforzandosi di persuadere la ragione che la cosa proposta è bene: causa diretta del peccato è la volontà; 2. il diavolo non sempre apparisce visibilmente, perciò istiga al peccato internamente eccitando la volontà, la fantasia e l’appetito sensitivo sia nel sonno che nella veglia; 3. esso però non può sforzare mai la volontà, perché la ragione, se non ne è impedito l’uso, non è legata.
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Quest. 81. Parte dell’uomo nelle cause del peccato. 1. Tutti i posteri di Adamo si possono considerare membra di un corpo, di cui capo è Adamo, e una sola persona con lui, perché hanno la stessa natura; questa natura aveva in Adamo la giustizia originale; Adamo col peccato la ha privata della giustizia e infettata di peccato; non poteva più trasmetterla che come tale; tutti i suoi posteri hanno il peccato originale che si dice peccato di natura. 2. Gli altri peccati di Adamo spettano a lui non come natura, ma come persona, perciò non si trasmettono ai posteri, come non si trasmettono i meriti. 3. Il peccato si trasmette colla naturale generazione; 4. perciò se qualcuno venisse da Dio miracolosamente formato, non l’avrebbe. 5. Il principio attivo dell’umana generazione è l’uomo; perciò se avesse peccato solo Eva, il peccato originale non ci sarebbe.
Quest. 82. Essenza del peccato originale. – 1. Il peccato originale è un abito non operativo, ma naturale: è una disposizione disordinata derivante dalla dissoluzione di quell’armonia che formava la giustizia originale. 2. Il peccato originale è uno di numero in ciascun uomo ed è anche uno di specie, perché unica ne è la causa, cioè la privazione della giustizia originale. 3. Punto culminante di quell’armonia che formava la giustizia originale era la soggezione della volontà Dio: perciò nel peccato originale l’avversione della volontà a Dio è la parte formale, è il reato; lo scompiglio interno delle facoltà dell’uomo è la parte materiale ed è la concupiscenza. 4. Il peccato originale è eguale per tutti, perché tutti sono egualmente figli di Adamo.
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Quest. 83. Soggetto del peccato originale. – 1. Il peccato originale come colpa è nell’anima soltanto; nelle sue conseguenze e come pena è anche nel corpo. 2. Il peccato originale è peccato della natura umana; la natura umana si ha dalla forma sostanziale che è l’anima; l’anima è forma sostanziale del corpo non per mezzo delle sue potenze ma per la sua essenza, perciò il peccato originale ha per soggetto l’anima nella sua essenza. 3. Il peccato originale, in se stesso, inerisce all’essenza dell’anima, ma nella sua inclinazione riguarda le potenze e poiché nell’inclinazione ad agire la prima potenza è la volontà, perciò esso riguarda la volontà prima che le altre potenze, 4. e fra queste ne sono infette maggiormente quelle che, come la generativa, servono alla trasmissione dell’infetta natura umana.
Quest. 84. I peccati cause di peccati. – 1. Radice di ogni peccato, come dice S. Paolo, è la cupidigia delle ricchezze, perché le ricchezze giovano a nutrire ed effettuare ogni desiderio cattivo. 2. Inizio di ogni peccato, come dice l’Ecclesiastico è la superbia, in quanto è un disordinato amore della propria eccellenza; che si persegue specialmente cercando il maggior acquisto di beni temporali e così si confonde coll’avarizia che di ogni peccato è la radice; 3. ma peccati capitali, che cioè sono fini della volontà e che quindi come cause finali danno origine ed iniziano ad altri peccati, non sono soltanto la superbia e l’avarizia. 4. Iniziano e dirigono ad altri peccati, ossia sono peccati capitali, oltre la superbia e l’avarizia, la lussuria e la gola con l’allettamento dei relativi beni; l’accidia coll’impressione della fatica pel profitto spirituale; l’invidia per l’altrui successo che impedisce la propria eccellenza; l’ira
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per l’altrui prevalenza che eccita alla vendetta; in tutti sono quindi sette.
Quest. 85. Effetti del peccato. – 1. Il peccato originale ci privò dei beni della giustizia originale, il peccato attuale diminuisce l’inclinazione alla virtù; il peccato però non ci priva dei costitutivi della natura umana: essa quindi, è minorata, ma non estinta; 2. è anzi impossibile che il peccato estingua tutto il bene dell’umana natura, perché, non potendo la colpa già stare nella grazia se non rimanesse come soggetto della colpa la natura umana non potrebbe esistere nemmeno la colpa; similmente se il peccato estinguesse tutto il bene di natura umana, farebbe che l’uomo non sia più ragionevole e allora non sarebbe nemmeno più capace di peccato. 3. La giustizia originale fortificava le forze dell’anima: intelletto, volontà, concupiscibile, irascibile: col peccato originale ci vennero: ignoranza, malizia, concupiscenza, fragilità: queste sono le quattro ferite della natura umana; 4. ogni ente, in quanto è bene, ha misura, specie ed ordine: il peccato è privazione di bene, perciò è anche privazione di misura, specie ed ordine; 5. per la perdita della giustizia originale, vennero la morte e i dolori, che la giustizia originale allontanava, essi quindi sono un effetto del peccato originale: 6. l’uomo è composto di corpo e di anima; il corpo è materia corruttibile, l’anima è spirito immortale; perciò nelle ragioni universali di materia la morte e i dolori sono naturali all’uomo, non lo sono nelle ragioni partitolari della forma sostanziale dell’uomo la quale è, per sé, incorruttibile; che in fatto la forma supplisse alla materia e l’uomo fosse immortale fu dono della giustizia originale.
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Quest. 86. La macchia del peccato. – 1. L’anima ha un doppio candore; il rifulgere del lume naturale di ragione e il rifulgere del lume divino, attaccandosi essa disordinatamente alle cose, soffre un contatto che la deturpa e, metaforicamente, la macchia, 2. e finché dura la mancanza di candore dura anche la macchia, la quale perciò resta anche cessato l’atto di peccato.
Quest. 87. Reato di pena. – 1. Peccando l’uomo si sottrae all’ordine: 1. della propria ragione; 2. della società di cui è suddito; 3. del regime divino; incorre quindi nella pena del rimorso, del disonore e della collera di Dio. 2. Per sé un peccato non può essere pena di un peccato, perché il peccato procede dalla volontà e la pena invece è contro la volontà; può però esserlo per accidente, in quanto cioè il peccato sottrae la grazia che rafforzava l’anima e preveniva i peccati. 3. Principio dei tre ordini: individuale, sociale universale, è l’ultimo fine: la sovversione dell’ordine che intacca perfino il principio dell’ordine, cioè la soggezione della volontà a Dio, è disordine irreparabile e fa incorrere nella pena eterna. 4. Il peccato importa avversione a un bene infinito, per conversione a beni finiti; deve quindi corrispondere una pena parte infinita, parte finita; cioè ha pena del danno e quella del senso. 5. La pena eterna è dovuta al disordine irreparabile, all’avversione cioè al bene infinito, la quale rompe la carità, cioè l’unione con Dio; ma ai peccati il cui disordine non è così grave, cioè ai peccati veniali, si deve solo la pena temporale. 6. Nel peccato si distingue l’atto che cessa e la macchia che resta, in questa poi c’è il reato di colpa e il reato di pena; questa è dovuta a compenso della divina giu-
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stizia affinché chi troppo assecondò la sua volontà soffra qualcosa contro volontà; ancorché l’uomo si ricongiunga a Dio colla carità, può rimanere per le ragioni della giustizia il reato di pena da soddisfare. 7. Le pene non sono tutte punitive, ce ne sono di medicinali e preservative, ma siccome se non ci fosse stato il peccato originale non ci sarebbero state nemmeno le pene, perciò tutte le pene dipendono dal peccato. 8. Taluno può portare la pena dei peccati di un altro quando forma con lui un’unica persona; tale pena però non è che soddisfatoria, e non è mai medicinale, sono quindi escluse le pene spirituali che sono sempre medicinali.
Quest. 88. Peccato veniale e peccato mortale. – 1. La sovversione dell’ordine che arriva fino all’ultimo fine è per sé irreparabile e il peccato è mortale; il disordine invece circa i mezzi, salvo l’ultimo fine, è riparabile e peccato è veniale, questo quindi è ben distinto da quello. 2. Il peccato mortale e veniale differiscono di genere per l’oggetto, come sarebbe bestemmiare Dio o burlare il prossimo, ma differiscono anche per l’intenzione dell’agente; perciò un peccato che per oggetto è di suo genere mortale, può essere veniale per imperfezione dell’atto nell’agente e viceversa un peccato che per l’oggetto è di genere veniale può diventare mortale per una particolare perfidia della volontà. 3. Un peccato di genere veniale se non dispone direttamente al peccato di genere mortale, che è specificatamente diverso, vi dispone però indirettamente, sia formando un’abitudine del peccato, sia togliendo il ritegno al peccato mortale: 4. per sé, però, un peccato veniale non diventa mai mortale, perché mortale e veniale, differendo di genere, differiscono sempre, anche andando all’infinito:
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5. altrettanto la circostanza di un peccato veniale, finché resta circostanza di peccato veniale, non può farlo diventare mortale; può farlo soltanto quando lo fa diventare di altra specie: 6. il peccato mortale poi non diventa mai veniale per l’aggiunta di un peccato veniale, come ciò che è perfetto non diventa imperfetto per l’aggiunta di una cosa imperfetta; il peccato mortale può diventare veniale solo per l’imperfezione dell’atto, che si verifica quando manca qualche cosa alla perfetta deliberazione della ragione.
Quest. 89. Il peccato veniale in sé. – 1. Il peccato veniale macchia, ma in quanto priva solamente del candore che deriva dagli atti di virtù. 3. Un peccato di genere veniale se non dispone direttamente al peccato di genere mortale, che è specificatamente diverso, vi dispone però indirettamente, sia formando un’abitudine del peccato, sia togliendo il ritegno al peccato mortale: 4. per sé, però, un peccato veniale non diventa mai mortale, perché mortale e veniale, differendo di genere, differiscono sempre, anche andando all’infinito: 5. altrettanto la circostanza di un peccato veniale, finché resta circostanza di peccato veniale, non può farlo diventare mortale; può farlo soltanto quando lo fa diventare di altra specie: 6. il peccato mortale poi non diventa mai veniale per l’aggiunta di un peccato veniale, come ciò che è perfetto non diventa imperfetto per l’aggiunta di una cosa imperfetta; il peccato mortale può diventare veniale solo per l’imperfezione dell’atto, che si verifica quando manca qualche cosa alla perfetta deliberazione della ragione.
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Quest. 89. Il peccato veniale in sé. – 1. Il peccato veniale macchia, ma in quanto priva solamente del candore che deriva dagli atti di virtù. 2. La S. Scrittura paragona i peccati veniali alla legna, al fuoco e alla paglia, perché come queste materie bruciano, così i peccati veniali si purgano col fuoco delle temporali tribolazioni. 3. Durante la giustizia originale, essendo perfetta la soggezione del corpo all’anima e del senso alla ragione, l’uomo non poteva peccare venialmente. 4. Gli angeli confermati in grazia, non peccano nemmeno venialmente, perché mirano sempre a Dio; i demoni negli atti di loro volontà sono sempre guidati dalla loro superbia e peccano sempre mortalmente. 5. Sede del peccato mortale è l’anima, non la sensualità, perciò i primi moti del senso, senza il consenso della ragione, non sono peccati mortali nemmeno negli infedeli. 6. Quando uno raggiunge l’uso di ragione, o tosto si indirizza debitamente al fine ultimo ed è mondato dal peccato originale, o non si indirizza e pecca mortalmente; perciò in un adulto non si combina il peccato originale con un solo peccato veniale.
Quest. 90. Le leggi. – 1. Legge (dal verbo legare) è regola e misura degli atti umani: come tale è cosa della ragione; perché è della ragione disporre in ordine al fine; è la ragione principio e misura degli atti, come l’unità è il principio e la misura del numero. 2. Il fine in ordine al quale è proprio della ragione disporre è il fine ultimo, che è fine comune di tutti gli uomini; quindi ha ragione di legge quello che è ordinativo del bene comune. 3. Disporre al fine comune di tutti gli uomini spetta alla ragione comune di tutti gli uomini, cioè alla moltitudine; o spetta alla ragione del principe che fa le veci
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della moltitudine; e non spetta alla ragione di qualunque privato. 4. Perché la legge serva da regola o misura agli atti umani bisogna che questa regola o misura sia applicata, e l’applicazione si fa colla promulgazione. La legge adunque va definita così: ordinamento della ragione al bene comune, promulgato da colui cui spetta la cura della società.
Quest. 91. Leggi diverse. – 1. Il mondo che è retto da Dio e disposto in ordine al fine dalla ragione, che è eterna, di Dio, che è Padrone dell’universo; c’è quindi nel mondo una legge eterna. 2. La disposizione data alle cose dalla Ragione di Dio, la legge eterna, è nelle cose impressa secondo la loro natura e all’uomo è partecipata secondo la sua natura di essere ragionevole, perciò è conosciuta per il lume naturale di ragione: così la legge eterna si fa naturale. 3. La legge naturale dà i principii comuni, che vengono applicati da disposizioni particolari della ragione umana e queste prendono il nome di leggi umane. 4. Legge eterna, naturale, umana bastano per l’ordine naturale; non bastano per l’ordine soprannaturale, per questo ci vuole una legge particolare di Dio, la legge divina. 5. La legge divina si distingue in Legge Vecchia e Legge Nuova; una imperfetta, l’altra perfetta; una con promesse di beni sensibili terreni, l’altra con promesse di beni intelligibili celesti; una legge di timore, l’altra legge di amore. 6. C’è anche la legge del fomite, ed è la stessa inclinazione della sensualità, che negli animali è semplicemente legge; in noi è piuttosto deviazione della legge fissata per legge della divina giustizia in pena del peccato.
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Quest. 92. Effetti della legge. – 1. Effetto della legge è fare buoni gli uomini, perché proprio della legge è indurre i sudditi alla virtù loro propria. 2. L’ufficio della legge è: comandare gli atti virtuosi e proibire i viziosi, permettere gli atti indifferenti, inoltre punire i mancamenti.
Quest. 93. La legge eterna. – 1. Come la sapienza creatrice è arte, esemplare, idea delle cose create, così lo è degli atti la Sapienza governatrice di Dio, che dirige tutte le cose al debito fine: e la legge eterna si può dire: la ragione della divina sapienza direttiva degli atti. * La ragione in Dio è una sola, perché è la stessa sua essenza; ma perché ha per termine molte nature, vi sono in Dio molte ragioni ideali. 2. La legge eterna in se stessa è nota soltanto a Dio e ai beati; ma per la sua irradiazione nella cognizione della verità è nota a tutti. 3. Essendo la legge eterna esemplare di ogni di direttiva di atti, ogni disposizione umana, ne è partecipazione; quindi la sapienza di Dio dice di sé: per me i legislatori decretano il giusto; 4. alla legge eterna sono soggette tutte le cose create, siano esse necessarie, siano contingenti; le cose invece di Dio non sono soggette alla legge eterna, ma sono la stessa legge eterna. 5. alla legge eterna sono soggette tutte le cose naturali e contingenti, anche le irrazionali, perché Dio la imprime in loro come principio dei loro atti; 6. alla legge eterna sono soggette le cose umane in modo particolare, perché l’uomo la ha impressa e nelle sue naturali inclinazioni e nella sua ragione.
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Quest. 94. La legge naturale. – 1. La legge naturale è un abito, non in quanto è principio di operazione, ma in quanto si possiede e si conosce non sempre in atto, ma sempre in abito. 2. La legge di natura indirizza l’uomo a ciò che gli conviene come natura materiale, animale, razionale, a ciò quindi che così è bene. Ora, come il primo principio intellettuale: « ciò che è non può non essere» si fonda sulla nozione di ente, così il primo principio morale si fonda sulla nozione di bene ed è: fare il bene, evitare il male: a esso si riducono tutti gli altri precetti. 3. Agli atti di virtù l’uomo è inclinato dalla natura perciò gli atti di virtù derivano dalla legge di natura. 4. La legge naturale coi suoi principii generali è eguale per tutti; variano piuttosto le più o meno prossime deduzioni presso i singoli. 5. Alla legge naturale nulla si può togliere; si può però aggiungere qualche cosa utile come applicazione, qualche applicazione, non più pratica, sostituirla: così solo essa è mutabile. 6. La legge naturale può essere abolita non nei principî, ma nelle applicazioni, dai cuori umani offuscati dalle passioni.
Quest. 95. La legge umana. – 1. L’uomo ha l’attitudine alla virtù, ma la perfezione della virtù non può venirgli che da una disciplina, alla quale però esso non è da sé, d’ordinario, sufficiente; tale disciplina, chi costringe alla virtù col timore della pena, è la disciplina delle leggi, perciò le leggi umane sono non solo utili, ma anche necessarie. 2. La legge umana che sia in disaccordo colla legge naturale è in disaccordo anche colla retta ragione; non è legge, ma corruzione della legge: la legge umana perciò deve derivare dalla legge naturale.
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3. Come ogni cosa è retta e misurata se ha forma proporzionata alla sua regola e misura, così anche la legge positiva è retta e misurata sulla legge superiore se è onesta, giusta, possibile, conveniente, necessaria e utile, come dice S. Isidoro. 4. Quelle leggi che derivano dalla legge naturale come conclusioni di principii costituiscono il diritto delle genti; quelle invece che derivano come determinazioni particolari formano il diritto civile; ci sono inoltre le leggi degli uffici particolari, dei singoli Stati e degli speciali titoli, secondo la distinzione di S. Isidoro.
Quest. 96. Potere della legge umana. – 1. La legge umana è ordinata al bene comune, deve perciò avere carattere di generalità e di stabilità. 2. La legge umana deve essere possibile; perciò deve avere riguardo alla generalità degli uomini e prescrivere ciò che tutti possono fare e proibire soltanto i vizi più gravi; se è troppo minuziosa: munge, troppo e cava il sangue, direbbe Salomone. 3. La legge umana può prescrivere non gli atti di tutte le virtù, ma quegli atti di virtù che fanno al bene comune, allora è utile. 4. Le leggi giuste, quando cioè il fine è il bene comune, l’autore non esorbita nelle sue attribuzioni e gli oneri per il bene comune sono perequati, obbligano anche in coscienza in base alla legge eterna, 5. tutti sono soggetti a una legge superiore, ma non tutti sono soggetti alla stessa legge e soltanto i cattivi ne sentono il peso. 6. Non è la cosa che serva al discorso, ma è il discorso che serve alla cosa; l’espressione deve interpretarsi secondo la causa che mosse il legislatore a formularla, quando la legge è più dannosa che utile stando alle parole; ciò sarebbe fare epicheia e per sé è di competenza del supe-
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riore, purché non sia il pericolo improvviso e il ricorso al superiore impossibile.
Quest. 97. Mutazione delle leggi. – 1. La legge umana è ordinamento della ragione, ma la ragione può talora esigere che all’imperfetto si sostituisca qualche cosa di più perfetto e che a mutate condizioni si sostituisca qualche cosa di più adattato alla comunità; perciò si può mutare: 2. ma poiché le mutazioni della legge sono sempre a scapito della forza della legge, non si deve la legge mutare senza la vera necessità o almeno senza evidente, grandissima utilità della comunità. 3. Una legge si può stabilire non solo con parole, ma anche con fatti; cioè con atti conformi ripetuti, ossia colla consuetudine, perché il legislatore può manifestare la sua volontà non solo con parole, ma anche con atti. 4. Il superiore, quando avviene che la legge comune in qualche caso particolare impedisce un bene maggiore o produce un danno, può dispensare nella legge umana, il che è commisurazione della legge comune ai singoli.
Quest. 98. Legge di Mosè. 1. La legge di Mosè benché fosse imperfetta, era buona, perché era conforme alla retta ragione; 2. e, benché fosse imperfetta, proveniva da Dio, e non dal principio del male, perché era ordinata al suo figlio Gesù Cristo, Signor nostro; 3. fu però data per ministero degli Angeli, perché a Dio doveva essere riservato di dare immediatamente la legge perfetta. 4. Doveva essere data al popolo ebreo solamente, perché conveniva che quel popolo, da cui doveva nascere Cristo, si distinguesse per santità;
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5. perciò alla legge di Mosè non erano obbligati tutti gli uomini, eccetto in ciò che essa ha della legge naturale; 6. convenne poi che la legge scritta fosse data soltanto al tempo di Mosè, affinché l’uomo si convincesse della sua ignoranza e della sua impotenza.
Quest. 99. Precetti della legge di Mosè. 1. La legge di Mosè aveva precetti molteplici e unità di scopo: l’amore di Dio e del prossimo. 2. La legge di Mosè conteneva anche precetti morali per la santificazione del popolo, che si riannodavano ai dieci comandamenti; 3. conteneva anche precetti cerimoniali, che indirizzano l’uomo a Dio col debito culto; 4. conteneva inoltre precetti giudiziali, riguardanti: l’amministrazione della giustizia, per mettere gli uomini in buona relazione fra loro e con Dio. 5. La legge stessa distingue solo i precetti, le cerimonie e i giudizi; perciò le altre disposizioni sono per l’adempimento della legge: 6. conteneva poi minacce e promesse di bene temporale per indurre quegli uomini imperfetti a osservarla.
Quest. 100. I precetti morali della legge di Mosè. – 1. I precetti morali della legge di Mosè avevano per principio la legge naturale, perché il bene morale è bene di ragione. 2. Essi riguardavano tutti gli atti di virtù, perché proibivano tutti i peccati, 3. ed erano contenuti nel Decalogo o come conclusioni di principii o come principii di conclusioni. 4. I precetti del Decalogo sono convenientemente distinti da S. Agostino in 3 precetti che riguardano Dio e 7 che riguardano il prossimo.
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5. I dieci comandamenti mettono l’uomo nella dovuta relazione con Dio e col prossimo; proibendo ogni offesa di opera, di parola, di sentimento sia a Dio che ai prossimi e congiunti e non congiunti: il loro numero è quindi giusto: 6. e sono anche disposti nel debito ordine, perché cominciano da ciò che è più grave prescrivendo fedeltà, riverenza e culto a Dio e proscrivendo ogni danno alla persona, alla roba e all’onore del prossimo. 7. La legge di Mosè essendo data a un popolo bambino aveva una sanzione temporale di prosperità e di avversità. 8. Nei dieci comandamenti, poiché rappresentano la precisa intenzione del legislatore, non si può dispensare; dispensare si può solo circa la pratica determinazione di essi. 9. Compiere il precetto in modo virtuoso, ossia con scienza con proposito e con costanza, può la legge esigerlo quando può punirne la mancanza; la scienza la esigono la legge divina e anche la legge umana; il proposito può esigerlo solo la legge di Dio che vede il cuore; la costanza non la esige né legge umana né la legge divina, perché nessuna pena è comminata a chi p. es. onora i genitori anche se non lo fa per virtù. 10. neanche il modo della carità, cioè il compiere il precetto per spirito di carità, nonostante il precetto positivo della carità, è imposto dalla legge divina, altrimenti chi non ha la carità peccherebbe pur facendo opere buone. 11. Alla legge appartenevano anche altri precetti morali oltre il decalogo, ordinati alla purezza dell’anima; anch’essi però erano riducibili al decalogo o come conclusioni o come determinazioni di esso. 12. I precetti morali della Legge Antica non santificavano, ma indicavano la santificazione e a essa disponevano.
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Quest. 101. Precetti cerimoniali. 1. I precetti cerimoniali sono determinazioni dei precetti morali che riguardano Dio; sono perciò quelli che spettano al culto di Dio. 2. I precetti cerimoniali della Legge Antica erano figurativi di Cristo che ci guida al Cielo; ossia erano ombre dell’immagine che qui abbiamo della vita futura. 3. I precetti cerimoniali dovevano essere molti, perché avevano il compito di reprimere il male nei cattivi e di promuovere, il bene nei buoni. 4. Le cerimonie del culto antico riguardavano distintamente i sacrifici del culto; le cose sacre o strumenti del culto; i sacramenti o mezzi di santificazione; e le osservanze o segni distintivi del popolo eletto.
Quest. 102. Cause dei precetti cerimoniali. – 1. I precetti cerimoniali furono fissati dalla sapienza di Dio, per ciò convien dire che avevano finalità ed erano ragionevoli. 2. Causa finale di tali precetti cerimoniali era che fossero figurativi del Messia venturo, perciò contenevano un senso mistico, oltre il senso letterale. 3. Le cerimonie dei Sacrifici nel senso letterale avevano la finalità di indirizzare le menti a Dio e di rimuovere gli animi dall’idolatria; e nel senso figurativo, avevano la finalità di adombrare la volontaria passione e immolazione del Cristo. 4. Le cerimonie che riguardavano le cose sacre avevano lo scopo di indurre negli animi il concetto della maestà di Dio perché sia venerato, e di rappresentare qualche somiglianza del Cristo; perciò le cose sacre dovevano tutte essere speciali. 5. Le cerimonie dei sacramenti, istituiti per la santificazione del popolo e specialmente dei ministri, miravano a stabilire lo stato del culto, l’uso di ciò che appartiene al culto e la rimozione di ciò che ne è impedimento e que-
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sto ottenevano sia nel loro senso letterate, sia nel senso figurativo del Cristo. 6. Le cerimonie delle osservanze riguardavano tutto il popolo eletto, ma in modo particolare i sacerdoti, allo scopo che anche nella convivenza sociale si mostrassero adoratori del vero Dio e prefigurassero la vita cristiana.
Quest. 103. Durata dei precetti cerimoniali. – 1. Anche prima della legge di Mosè c’erano cerimonie, quelle però non erano di istituzione divina promulgata da Mosè. 2. Le cerimonie dell’Antica Legge purificavano per loro virtù dalle immondezze corporali, ma dal peccato purificavano per virtù di Cristo, come implicite protestazioni di fede in Lui. 3. Esse cessarono di aver valore alla morte di Cristo, con cui la Vecchia Legge cessò, 4. tuttavia furono per alcun tempo conservate, come dopo morte per alcun tempo piamente si conserva un cadavere: ma in sé non si possono conservare senza peccato, perché rappresentando esse il Cristo venturo, darebbero una protestazione di fede non in Cristo già venuto e morto per noi, ma in Cristo ancora da venire.
Quest. 104. Legislazione sociale mosaica. – 1. I precetti giudiziali sono determinazioni dei precetti morali che riguardano il prossimo, e la loro natura è che hanno forza di obbligare non solo per la ragione, ma anche per divina istituzione. 2. I precetti della legge sociale erano direttamente ordinati a stabilire la giustizia; indirettamente però erano figurativi, perché tutto lo stato del popolo Ebreo era preparazione di Cristo,
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3. e perché erano figurativi di Cristo, cessarono di aver vigore alla venuta di Cristo in ciò che avevano di figurativo del Cristo; 4. essi si distinguevano secondo l’ordine cui si riferivano e che riguardava i principi, i cittadini, gli stranieri e i famigliari.
Quest. 105. Ragionevolezza di tale legislazione. – 1. La legislazione sociale mosaica importava un ottimo ordinamento governativo, perché esso era monarchico – aristocratico – democratico: infatti il principe suscitato da Dio era assistito da 72 seniori e questi venivano eletti dal popolo fra il popolo. 2. Essa importava un ottimo ordinamento sociale assicurando una saggia amministrazione della giustizia e un ben regolato regime della proprietà terriera. Infatti essa stabiliva: a) una primitiva divisione dei terreni per testa; b) la ricostituzione di quella primitiva divisione ogni cinquant’anni col giubileo; c) il correttivo alle possibili deviazioni e concentrazioni di patrimonio per diritto ereditario proibendo alle donne ereditiere di contrarre matrimonio fuori tribù. – Era provvisto anche per i poveri, perché a loro era concesso di saziarsi sul campo altrui e di spigolarvi e per di più era riservato a loro il prodotto di ogni settimo anno. – Era provvisto per gli operai, perché si doveva loro pagare giornalmente la mercede. 3. Essa regolava le relazioni internazionali stabilendo debiti riguardi coi pellegrini, coi viaggiatori e coi residenti stranieri in tempo di pace e fissava il regime di guerra per cui la guerra doveva essere preceduta dall’ultimatum e dall’offerta di pace; iniziata, doveva essere condotta fortemente colla fiducia in Dio; il timido e chi aveva forti interessi sarebbe stato un impedimento e si doveva
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lasciare a casa; della vittoria si doveva fare un uso moderato. 4. Essa infine importava un ottimo ordinamento della società domestica sia coniugale che paterna, o padronale, mirando al rispetto della vita tanto come conservazione dell’individuo, quanto come conservazione della specie.
Quest. 106. La legge evangelica. – 1. Per legge nuova s’intende anzitutto la stessa grazia della Spirito Santo scritta nei cuori; si intende anche, ma in secondo luogo, la legge scritta, che alla grazia dispone: 2. nel primo senso rende giusti, nel secondo no, quindi: lo spirito vivifica, non lo scritto. 3. La legge nuova non conveniva che fosse data fin dal principio del mondo, perché, essendo legge perfetta, doveva essere preceduta dalla imperfetta e sopra tutto occorreva che l’uomo riconoscesse il suo bisogno della grazia. 4. La legge nuova e già perfetta, quindi non attende altra perfezione e durerà tale fino alla fine del mondo. * Essa è opera di Cristo e anche del Padre e dello Spirito Santo; perciò non è da aspettarsi il tempo dello Spirito Santo.
Quest. 107. Confronto fra la legge nuova e la legge vecchia. – 1. La legge nuova, che è legge d’amore e di perfezione, è diversa dalla legge vecchia, che è legge di timore e di preparazione, benché eguale dell’una e dell’altra sia il fine. 2. La legge nuova compie la vecchia, perché compie quanto la legge vecchia prometteva e ne attua le figure, dando la Redenzione ed il Cristo, che completò la legge dandone la intelligenza, precisandone i precetti ed aggiungendo i consigli.
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3. La legge nuova era contenuta nella legge vecchia, perché vi era in potenza, come l’albero nel seme, essendo l’una la perfezione dell’altra. 4. La legge vecchia era più pesante per il numero dei precetti. Ma la legge nuova è più difficile perché riguarda anche l’interno.
Quest. 108. Precetti della legge nuova. – 1. Non dovevano mancare nella legge nuova gli atti esterni di sacramenti da riceversi, di virtù da praticarsi, per cooperare alla Grazia di Gesù Cristo che opera nel nostro interno. 2. Le disposizioni della legge nuova circa gli atti esterni di uso dei sacramenti e di esercizio di virtù sono sufficienti perché a essa non spettava che determinare, comandando o proibendo, i sacramenti e i precetti morali relativi a quelle che sono naturalmente virtù. 3. È poi perfetta nella legge nuova l’informazione cristiana della vita interiore; giacché nel discorso della montagna Gesù Cristo, dopo promulgate le beatitudini e costituita la dignità apostolica, stabilisce l’uomo quanto al suo interno in perfetto ordine colle cose, col prossimo, con Dio. 4. La legge di Gesù Cristo liberò gli uomini dalla farragine di precetti cerimoniali e giudiziali della Legge di Mosè, perciò è detta legge di libertà, conveniva quindi che la professione di perfetta virtù: castità, povertà, obbedienza, fosse proposta e inculcata a modo di consiglio.
Quest. 109. Della grazia. – 1. Certamente se Dio non ci avesse data e non ci conservasse la ragione e non le movesse all’atto, nulla potremmo conoscere; questo lume naturale basta da se per conoscere verità di ordine naturale che sono intelligibili per mezzo di cose sensibili. Per cose, invece, più alte l’intelletto nulla può senza un
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lume particolare, per esempio, il lume di fede in questa vita, il lume di gloria nell’altra. 2. Prima del peccato l’uomo aveva forza sufficiente per il bene proporzionato alla sua natura; non però per il bene di ordine soprannaturale: dopo il peccato è come un ammalato, e non ha forze sufficienti né per il bene soprannaturale né per tutto il bene naturale e abbisogna di un doppio aiuto divino: uno sanante, l’altro operante, oltre al movente, necessario sempre. 3. Amare Dio sopra tutte le cose avrebbe l’uomo potuto nello stato di natura integra, – non ancora cioè corrotta e nemmeno elevata all’ordine soprannaturale – perché ciò era naturale a lui come anche a tutte le cose, che tendono all’ultimo fine; abbisognava soltanto della grazia movente; ma per far ciò nello stato di natura corrotta l’uomo anzitutto ha bisogno della grazia sanante. 4. Osservare tutti i comandamenti senza la grazia poteva l’uomo prima del peccato, non può farlo dopo il peccato senza la grazia sanante; fare peraltro ciò per amore di Dio senza la grazia non lo poteva neppure prima, 5. e neppure la vita eterna egli poteva meritare senza la grazia; perché essa supera le forze naturali. 6. Stato necessario per disporsi a fare buone opere e meritare con queste Iddio è la grazia santificante: ma per disporsi ad acquistarla è necessaria una grazia di Dio che ispiri il buon proposito, perché ciò che primo muove la volontà è il fine, qui il fine supera le forze naturali; occorre perciò una mozione speciale: 7. altrettanto la grazia è necessaria per risorgere da un peccato commesso, e ciò tanto più che Iddio deve ridare la grazia santificante, raddrizzare la volontà e rimettere la pena eterna, per riparare i danni del peccato. 8. In istato di natura integra l’uomo poteva evitare i peccati mortali e veniali per la generale provvidenza di Dio conservatore; in istato di natura riparata, può evitare i peccati mortali e anche ogni singolo peccato veniale, non
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però tutti i veniali; in istato invece di peccato la fragilità non solo pei veniali, ma anche per mortali è così grande, che non si può durare molto tempo senza commetterne, perché il loro peso trascina. 9. Astenersi dai peccati è parte negativa, quanto alla parte positiva – fare cioè opere buone e prevenire il male – date la concupiscenza e l’ignoranza che restano, è cosa per la quale anche i giusti hanno bisogno della grazia attuale: 10. e una grazia attuale di ordine speciale è necessaria al giusto per essere stabile nella grazia contro il complesso di tutte le tentazioni ed è la perseveranza finale.
Quest. 110. In che consiste la grazia. – 1. Quando Dio, non per l’amore per cui ama tutte le cose, ma per un amore speciale eleva una creatura razionale sopra la sua condizione a partecipare del bene di Dio, dà a lei la grazia santificante e questa conferisce all’uomo uno stato nuovo. 2. In proporzione di tale elevazione Dio conferisce anche una abituale inclinazione a conseguire il bene soprannaturale, e questa inclinazione o grazia abituale è una qualità. 3. Questa qualità – lume di grazia – è distinta dalle virtù infuse che sono da quel lume derivate e a questo lume indirizzate. 4. Appunto perché c’è prima delle virtù, se le virtù appartengono alle potenze, essa appartiene all’essenza dell’anima, che delle potenze è principio.
Quest. 111. Divisione della grazia. – La grazia si distingue in grazia che fa l’uomo gradito a Dio ed è la grazia santificante, e grazia gratuitamente concessa, e sono i doni che superano la facoltà e i meriti della nostra persona
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e ci fa cooperatori della salute altrui: p. es. il dono dei miracoli. 2. La volontà umana non può muoversi al bene se non riceve il moto da Dio: ecco la grazia operante; già mossa al bene non può, comandando alle facoltà, compierlo se Dio non sorregge e la volontà e le facoltà: ecco la grazia cooperante. 3. La grazia, per ragione degli effetti, sta con questo ordine: 1. sana; 2. opera; 3. coopera; 4. dà perseveranza; 5. glorifica. Ciascuna sussegue a quella che è prima, previene quella che è dopo: così si distingue in preveniente e susseguente. 4. Le grazie gratuitamente concesse ci fanno cooperatori di Dio nella salute del prossimo; per questo compito è necessario conoscere intimamente le cose divine, poterle provare, saper bene proporle: le grazie gratuite sono perciò convenientemente ed ordinatamente noverate da S. Paolo così: spirito di sapienza, di scienza e di fede; grazia di guarigioni, di portenti, di profezia e di scrutazione delle coscienze; dono dei linguaggi e dono dei discorsi. 5. La grazia santificante però, che direttamente ci indirizza all’ultimo fine, supera la grazia gratuita, perché questa ci indirizza solo a ciò che è preparatorio dell’ultimo fine.
Quest. 112. Autore della grazia. – 1. La grazia è una qualche partecipazione della natura divina; può venire quindi soltanto da chi ha natura divina, da Dio. 2. La grazia abituale che è qualità, forma, la quale non può sopravvenire che a materia disposta a riceverla, esige da parte dell’uomo la disposizione; ma per la grazia attuale movente non ci può essere da parte dell’uomo disposizione che prevenga l’azione di Dio; invece tutto proviene da Dio.
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3. Quando Iddio inizia una azione di grazia, è certo che anche la continua, purché il libero arbitrio dell’uomo non la contrasti, quindi a chi fa ciò che sta in lui Dio non nega la sua grazia, però il libero arbitrio che la asseconda non può darsi il merito di pretenderla, perché è sempre azione che supera le esigenze e le facoltà naturali dell’uomo. 4. Grazia, chi ne ha più e chi ne ha meno e questa varietà di grazie fu disposta da Dio per bellezza della Chiesa. 5. Se Dio non lo rivela, nessuno può sapere con certezza di avere la grazia, perché essa dipende totalmente ed esclusivamente da Dio; se ne possono però avere indizi.
Quest. 113. Effetti della grazia. – 1. La giustificazione dell’empio importa moto da contrario a contrario e cioè remissione del peccato e acquisto della giustizia; prende poi nome da questa, perché più importante. 2. Il peccato reca a Dio offesa; l’offesa non viene rimessa se Dio non ci ridà la sua pace, che consiste nel suo amore: effetto di questo amore è la grazia che ci rende degni della vita eterna, perciò non s’intende la remissione della colpa se non coll’infusione della grazia. 3. Dio dà la giustificazione movendo l’uomo ad acquistarla; e siccome egli muove tutte le cose secondo la loro natura, e l’uomo ha per natura il libero arbitrio, il moto dell’uomo è sempre di libero arbitrio. 4. Per acquistare la giustificazione l’empio si rivolge colla mente a Dio; questo primo rivolgersi colla mente a Dio si fa colla fede, quindi per la giustificazione occorre la fede. 5. L’empio che di libero arbitrio si rivolge a Dio per la giustificazione, deve altrettanto di libero arbitrio staccarsi dal peccato colla detestazione e il proposito, perché Dio e peccato sono termini antitetici.
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6. Questo moto di distacco dal peccato, di odio al peccato, viene completato dalla remissione della colpa da parte di Dio, anch’essa quindi fa parte della giustificazione dell’empio. 7. La giustificazione nelle sue varie parti avviene in un solo istante, perché è opera della potenza infinita di Dio; 8. tuttavia per ordine naturale la prima cosa è la infusione della grazia, perché è questa che caccia la colpa e la pena. 9. Considerato il modo di operare, la Creazione, che è dal nulla, è più grande della giustificazione di un peccatore; ma questa, per il suo termine che è il bene soprannaturale, è maggiore della Creazione, che ha per termine cose di ordine naturale. 10. Dio solo può operare la giustificazione di un peccatore, essa quindi può per questo dirsi un fatto miracoloso; non è però tale dal lato della capacità naturale, perché l’anima non è come un cadavere che non ha capacità naturale di vita; essa ha una naturale capacità della grazia; infine è un fatto solito e non già straordinario.
Quest. 114. Del merito. – 1. Merito, in senso di mercede dovuta per giustizia, ci può essere per coloro fra i quali c’è eguaglianza; fra Dio e l’uomo non c’è eguaglianza, perciò merito presso Dio c’è solo se Dio ha disposto che l’uomo consegua come mercede quello a che egli stesso lo aiuta. 2. Senza aiuto di grazia l’uomo non avrebbe potuto meritare la vita eterna neppure prima del peccato; perché la vita eterna supera le forze naturali e per essa ci vuole quindi un moto, un impulso superiore; tanto meno quindi dopo il peccato e col peccato. 3. L’uomo per la sostanza delle opere buone e per il libero arbitrio non può aver merito di giustizia, ma solo di convenienza per la vita eterna; però per effetto della
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grazia santificante, che lo eleva all’eguaglianza con Dio, può aver merito di giustizia. È lo Spirito Santo che opera in lui. 4. Principio di merito più che le altre virtù è la carità, che indirizza a Dio e rende volonterosi. 5. Nessuno può meritare la prima grazia, quella che muove l’uomo alla giustificazione, perché chi ne abbisogna è in stato di peccato e non può meritare; se fosse giusto e potesse meritarla, più non avrebbe bisogno della prima grazia. 6. Gesù Cristo come capo della Chiesa può meritare di giustizia la prima grazia per gli altri; i giusti invece possono meritarla solo di convenienza, e questo in proporzione della loro amicizia con Dio. 7. Nessuno può assicurarsi la conversione dopo un peccato futuro, perché quel peccato lo priva del merito di giustizia e diventa un obice al merito di convenienza; 8. si può invece meritare anche di giustizia l’aumento della grazia, che non è se non progresso nella via in cui uno si trova per giungere al fine. 9. La perseveranza finale non è effetto della grazia, ma piuttosto principio e causa della grazia, perciò nessuno può conseguirla come effetto del suo stato di grazia, Dio la dà gratis a chi la dà. 10. Termine del merito è la vita eterna: se i beni temporali giovano alla vita eterna, sono oggetto di merito, se no, strettamente parlando, no. Sez. Seconda
Quest. 1. Le Fede. – 1. L’oggetto della nostra fede è la prima verità, cioè Dio; esso è l’oggetto e insieme il motivo della nostra fede; va detto quindi che della Fede Egli è l’oggetto e materiale e formale.
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2. Dio, oggetto materiale della nostra fede, è un oggetto complesso da parte dei credenti, perché l’intelletto nostro può formularne gli articoli soltanto procedendo con affermazioni o negazioni, ma non è un oggetto complesso da parte di Dio, perché Dio è semplice. 3. Dio è l’oggetto formale della fede, cioè il motivo per cui crediamo; la fede perciò non poggia sul falso, perché Dio, che illumina la nostra fede, non può farci vedere il falso. 4. Fede si ha delle cose che non appariscono, perciò oggetto della fede non è ciò che l’intelletto da sé intende, ma ciò cui esso si piega per comando della volontà; 5. perciò una stessa verità non può essere oggetto e dell’intendimento e della fede nello stesso tempo e per il medesimo soggetto, può invece esserlo per soggetti diversi: quello tuttavia che vien proposto da credere comunemente non è inteso dagli intelletti. 6. Vengono distinte in articoli le verità da credere, perché, come nel nostro organismo distinguiamo gli arti, così, conviene al nostro intelletto che anche nell’oggetto della Fede, il quale è per lui complesso, distinguiamo tanti piccoli arti, o articoli. 7. Lungo il corso dei secoli gli articoli di Fede crebbero ma non quanto alla sostanza, bensì quanto al loro svolgimento e quanto alla professione esplicita dei Fedeli. 8. La Chiesa poi ha distintamente formulato gli articoli della Fede nella Divinità e della Fede nell’umanità di G. C., 9. ed ha operato opportunamente riunendoli nel Simbolo. 10. Sul Simbolo però, trattandosi di cosa che riguarda tutta la Chiesa, ha competenza chi è il Capo di tutta la Chiesa, cioè il Papa.
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Quest. 2. L’Atto di Fede. – 1. Credere è pensare con assenso e precisamente con assenso fermo, altrimenti sarebbe o dubitare, o sospettare, o opinare. 2. Le espressioni: credo Deum, credo Deo, credo in Deum, indicano una l’oggetto materiale, l’altra l’oggetto formale, la terza l’oggetto finale della Fede. 3. Se fede si ha di ciò cui la mente da sé non arriva e se poi senza fede non si può piacere a Dio, è necessario credere in qualche cosa, che supera la ragione umana. La Fede infatti ci ammaestra in ciò che guida alla visione beatifica, la quale è di natura superiore alla natura umana. 4. Anzi, parlando in generale, si deve dire che la Fede è necessaria anche in ciò, a cui la Ragione potrebbe da sé arrivare, come l’esistenza di Dio; perché solo così tutti, subito e senza errori arrivano alla cognizione della verità divina. 5. Le prime cose da credersi, cioè gli articoli di Fede, si devono credere esplicitamente, invece le cose che hanno relazione secondaria colla Fede basta crederle implicitamente. 6. I superiori poi, che devono istruire gli inferiori, devono credere esplicitamente più cose che non gli inferiori. 7. Dalla venuta di G. C. in poi la fede esplicita dell’Incarnazione è necessaria a tutti per salvarsi, 8. ed egualmente è necessaria la Fede, esplicita della Trinità, perché coll’Incarnazione fu resa a tutti manifesta. 9. Credere è meritorio, perché è un atto libero, che asseconda la mozione della grazia; 10. la ragione poi accresce il merito se si volge a illustrare la verità della Fede, ma la diminuisce se è essa che induce l’intelletto a credere.
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Quest. 3. Professione della fede. – 1. La professione esterna della Fede è atto di Fede, essendo termine della Fede, così come la parola è termine del pensiero. 2. La professione della Fede è necessaria per salvarsi, essa però è, come ogni altro precetto positivo, che obbliga, ma non per ogni momento, sibbene per quelle date circostanze.
Quest. 4. Virtù della Fede. – 1. Le parole dell’Apostolo: «Fede è sostanza di cose sperate e argomento delle non parventi », benché non siano una definizione formale della Fede, ricavata cioè dal genere prossimo e dalla differenza specifica, tuttavia ne sono una definizione descrittiva, desunta dal suo oggetto, la visione cioè beatifica iniziantesi colla fede, e dal suo effetto, l’assenso cioè dell’intelletto alle cose non apparenti. 2. La Fede sta, come in suo soggetto, nell’intelletto, perché il credere è atto dell’intelletto, avendo il credere per oggetto la verità ed avendo la verità rapporto coll’intelletto; e la Fede è principio del credere. 3. La Carità poi è la forma della Fede, giacché la forma è ciò che rende perfetto ed è la carità che rende perfetta la Fede, la quale opera per amore: 4. e poiché la carità, che è la forma della Fede, appartiene alla volontà anziché all’intelletto così può darsi che la Fede si trovi in un intelletto unito a una volontà priva della Carità e della grazia e sia così una Fede imperfetta, informe, e che riesca poi una Fede formata e perfetta, quando cioè la volontà conseguisca la carità, cioè la grazia; e può darsi pure che una Fede prima formata, poi sia informe. 5. Vera virtù è soltanto la Fede formata, perché essa soltanto è principio di atti perfetti.
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6. La Fede, da parte degli uomini che la posseggono, è molteplice, ma da parte di Dio, che ne è l’oggetto, è unica ed eguale per tutti. 7. La Fede per sé è la prima virtù, perché è il principio della vita spirituale e non si può amare Dio, ultimo Fine, né sperare in Lui, se non lo si conosce per Fede; accidentalmente però, siccome senza umiltà non c’è Fede, così si può dire che la prima virtù è l’umiltà. 8. La Fede ha maggiore certezza della scienza, della sapienza e dell’intelletto, sia da parte della sua causa, che è il Verbo di Dio; sia da parte dell’assenso, perché l’assenso della Fede è fermo. 5. Chi ha Fede? – 1. Gli Angeli e gli uomini furono creati in grazia e perciò ebbero la Fede, che è inizio e preparazione alla visione beatifica. 2. Fede, che è assenso dell’intelletto sotto l’impero della volontà, ne hanno anche i demoni, costrettivi dall’evidenza dei segni, ma la loro è una fede forzata che a loro dispiace. 3. Chi nega fede anche a un solo articolo della Fede, degli altri articoli non ha nemmeno la Fede informe, perché con ciò rigetta lo stesso oggetto formale della Fede, cioè l’autorità della Chiesa, che procede da Dio; e perciò degli altri articoli l’eretico può avere soltanto un’opinione secondo la propria volontà. 4. Uno può avere più Fede degli altri sia quanto al numero degli articoli, sia quanto alla fermezza dell’intelletto e alla prontezza della volontà.
Quest. 6. Chi causa la Fede? – 1. È Dio che infonde la Fede: Egli causa in noi la Fede quanto all’oggetto materiale, perché è Dio che rivela le verità da credersi; ed Egli causa in noi la Fede anche quanto all’assenso della mente, perché esso proviene dalla volontà, mossa
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però dalla grazia, e non già dal solo libero arbitrio come pretesero i Pelagiani. 2. La stessa Fede informe è dono di Dio, perché anche essa è Fede e, se è informe, lo è per un difetto; non intrinseco, ma estrinseco, per la mancanza cioè di Carità della volontà.
Quest. 7. Effetti della Fede. – 1. Effetto della Fede è il timore; ed in particolare il timore servile è effetto della Fede informe che fa temere la punizione di Dio, Giudice; il timore figliale è effetto della Fede formata che fa temere la separazione da Dio, Sommo Bene. 2. Effetto della Fede è anche la purificazione del cuore, perché, se impurità è mescolanza con cose più basse, purificazione sarà il contrario, e di questa il primo principio è la Fede, la quale ci innalza fino all’unione con Dio.
Quest. 8. II dono dell’Intelletto. – 1. L’Intelletto è un dono dello Spirito Santo, perché esso è quel lume della mente per cui si penetra nella considerazione delle cose soprannaturali, alle quali la forza naturale della mente non arriva. 2. Il dono dell’Intelletto non è incompatibile colla Fede, perché esso si esercita intorno ai misteri, come la Trinità, non per capirli, ma per ammirarne la consistenza degli argomenti di fronte alla inanità delle obiezioni; ovvero si esercita intorno a cose che non sono di fede, ma hanno ordine alla Fede, come sarebbe una conoscenza profonda della Scrittura. 3. Il dono dell’Intelletto è non solo speculativo, ma anche pratico perché esso si esercita anche in tutto ciò che ha ordine colla Fede e ordine colla Fede lo hanno anche le buone opere.
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4. Il dono dell’Intelletto lo posseggono tutti quelli che hanno la grazia, perché nessuno può essere indirizzato perfettamente al bene soprannaturale senza la considerazione di questo bene e in tale considerazione sta appunto il dono dell’intelletto. 5. Il dono dell’Intelletto perciò non si può trovare, se non impropriamente, in chi non ha la grazia santificante, perché non può dirsi che uno segue pienamente le mozioni, che lo Spirito Santo gli fa sentire, se ha il cuore distolto dall’ultimo fine. 6. Il dono dell’Intelletto si distingue dagli altri doni e perché appartiene alla potenza conoscitiva, anziché all’appetitiva, e perché detta potenza conoscitiva è una funzione speciale, la penetrazione cioè della verità della Fede. 7. Per la visione di Dio occorre e l’intelletto e la mondezza del cuore: all’Intelletto quindi corrisponde la 6. beatitudine. 8. E al dono dell’Intelletto corrisponde anche la Fede nei suoi frutti, che sono la certezza in questa vita e il gaudio nell’altra.
Quest. 9. Il dono della Scienza. – 1. La Scienza è un dono dello Spirito Santo, perché, come nelle cose materiali per l’assenso della mente occorre, oltre all’intelletto per capire ciò che è proposto, anche la scienza per giudicare se si deve o no prestare l’assenso, così anche nelle cose soprannaturali occorre, oltre l’intelletto, anche la scienza per discernere le cose che sono da credersi da quelle che tali non sono. 2. La Scienza vale a formulare un giudizio certo; giudizio certo è quello che si fa in base alle cause, perché come la causa prima è causa delle cause seconde, così rettamente si giudica delle cause seconde in base alla causa prima. Della causa prima, cioè Dio, non si può
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giudicare che per se stessa, e questa è sapienza, ossia cognizione delle cause altissime: delle cause seconde, cioè delle cose del mondo, si giudica invece rettamente in base alla causa prima, cioè Dio; e questa è scienza, distinta dalla sapienza. 3. La Scienza è principalmente speculativa, perché fa che sappiamo cosa si deve tenere per Fede, ma anche pratica, perché la Fede ci indirizza nelle opere all’ultimo fine. 4. Al dono della Scienza corrisponde la 3. beatitudine: Beati coloro che piangono, perché ci fa conoscere di quanto inciampo ci sono le cose del mondo nel cammino spirituale.
Quest. 10. Gli infedeli. – 1. Un infedele è in peccato se è infedele, perché rigetta la Fede che gli viene predicata; ma non è in peccato se è infedele, perché della Fede non ha mai sentito parlare. La sua è piuttosto una disgrazia, effetto del peccato di Adamo. 2. Come il credere è atto dell’intelletto, così la mancanza di fede appartiene all’intelletto, come a suo soggetto; ma appartiene anche alla volontà, come a causa motiva. 3. Negare la fede è il peccato che più ci allontana da Dio; però fra i tre peccati: infedeltà, disperazione e odio di Dio, i quali sono i più gravi di tutti, perché sono opposti alle virtù teologali, il più pernicioso per noi è la disperazione della salute. 4. Non si può dire che ogni opera degli infedeli, anche le elemosine, siano peccati, perché è vero bensì che l’infedeltà è peccato, il peccato però è corruttivo del bene soprannaturale, ma non è corruttivo anche di tutto il bene naturale. Tuttavia tali opere, benché naturalmente buone, non essendo fatte in grazia non sono meritevoli di vita eterna.
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5. L’infedeltà rispetto alla Fede è di 3 specie: quella dei pagani, che resistono alla Fede, che non hanno mai ricevuta; quella degli ebrei che resistono alla Fede ricevuta e professata, ma solo in figura; quella degli eretici, che resistono alla Fede ricevuta e professata, ma solo in parte. 6. Quanto alla pervicacia nel resistere alla Fede, gli eretici sono più rei degli ebrei e questi più dei pagani e benché, quanto alla verità della Fede, errino i pagani più degli ebrei e questi più degli eretici, assolutamente parlando l’infedeltà peggiore è quella degli eretici. 7. Le dispute pubbliche con gli infedeli, può farle chi è fermo nella Fede e le fa a titolo di esercizio o di apostolato; pecca invece chi, non essendo fermo nella Fede, la fa per vedere se la Fede è vera: parimenti si possono fare davanti a fedeli che sono dotti e fermi nella Fede; ma non si devono fare davanti a fedeli che sono persone semplici e la cui Fede viene messa a repentaglio, perché gli infedeli e i cattivi approfittano della disputa e del contradittorio per insidiarla. 8. Chi nega la Fede, se fu battezzato, può essere costretto a mantenere le promesse battesimali; invece contro chi non è battezzato non si può agire se non a titolo di difesa. 9. Trattare cogli infedeli si può se non c’è pericolo di perversione, purché non si tratti di scomunicati, che si devono per precetto evitare. 10. Mettere i fedeli sotto la giurisdizione di infedeli non si può; però non si può nemmeno privare un infedele di una giurisdizione che ha già, per il fatto che è infedele. 11. Il regime umano deve imitare il governo di Dio che lascia al mondo anche i cattivi, perciò il culto degli infedeli si può tollerare a titolo di evitare mali maggiori, o di non impedire beni maggiori o per qualche bene particolare, come sarebbe la testimonianza che vien data alla Fede dal culto degli ebrei.
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12. I figli degli infedeli, quando i genitori ne siano contrari, non si possono battezzare prima dell’uso della ragione, e dopo l’uso di ragione si possono indurre, ma non costringere al battesimo.
Quest. 11. L’eresia. – 1. La falsità è opposta alla verità; eretico è colui che a suo capriccio propone o segue l’eresia opinioni non conformi alla Fede e quindi false; perciò è contraria alla Fede ed è una specie di infedeltà. 2. L’eresia è contraria alla Fede o direttamente, cioè negli articoli stessi della Fede, o indirettamente, cioè nei presupposti necessari degli articoli di Fede e nelle verità intimamente connesse colle verità della Fede; p. es. l’immortalità dell’anima è un presupposto dell’articolo: Vita eterna. 3. Gli eretici per sé non meritano tolleranza civile, perché falsare la Fede è peggio che falsare i documenti e la moneta: ma la Chiesa per sua misericordia deve aspettarli e ammonirli una e due volte; non però oltre; se Ario non fosse stato tanto tollerato, non avrebbe fatto tanto male. 4. Gli eretici che si convertono si devono sempre ammettere alla penitenza, così vuole la Carità che ha riguardo principale al bene spirituale del prossimo; ma ai beni temporali, che la Carità riguarda solo secondariamente, non si devono sempre e subito riammettere, così volendo l’ordine disciplinare.
Quest. 12. L’apostasia. – 1. L’uomo si unisce a Dio coll’intelletto per la Fede, colla volontà per l’osservanza della Legge e talvolta col dedicarsi a Dio mediante il voto. L’apostasia quindi, che è allontanarsi da Dio, è triplice, perché si receda da Dio o per ragione della Fede, e questa è infedeltà e si dice apostasia di perfidia, o per
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ragione dei Precetti, o per ragione del voto: in questi due casi c’è apostasia, ma non infedeltà, perché la fede resta. 2. In un regno cristiano se il principe diviene, apostata non perde perciò la giurisdizione sui sudditi, perché apostasia e giurisdizione non sono cose che si escludono a vicenda; la Chiesa però può privarnelo e così i sudditi sono sciolti dal giuramento di fedeltà.
Quest. 13. La bestemmia. – 1. La bestemmia, che in greco significa maledizione, è una derogazione della bontà o perfezione di Dio, che compie chi bestemmia, sia negando ciò che a Dio spetta, sia attribuendogli ciò che a Dio non conviene. La bestemmia può essere interna od anche esterna, e questa è contraria all’esterna professione della Fede. 2. La bestemmia, derogazione di quella bontà divina, che è oggetto della carità, è necessariamente peccato mortale in tutto il suo genere; non ammette perciò parvità di materia. 3. La bestemmia ha in sé la gravità della infedeltà ed è perciò peccato massimo. 4. I dannati, odiano i peccati solamente perché ne sono puniti ma, quanto a Dio, ne detestano la giustizia, perciò adesso bestemmiano in cuor loro e dopo la risurrezione anche colla bocca.
Quest. 14. La bestemmia contro lo Spirito Santo. – 1. La bestemmia contro lo Spirito Santo non sta soltanto nel dire parole contumeliose contro lo Spirito Santo, ma anche nel peccare con malizia certa, cioè volendo appositamente il male e respingendo ciò che distoglie dal peccato;
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2. e poiché i mezzi che distolgono dal peccato sono sei, dalla ripulsa di quelli mezzi deriva che sono sei i peccati contro lo Spirito Santo. 3. Fra i peccati contro lo spirito Santo la impenitenza finale è irremissibile, ed anche irrimediabile, a meno che intervenga un miracolo della misericordia divina. 4. Il primo peccato di un uomo può essere di malizia certa, e quindi contro lo Spirito Santo, non per abito precedente, perché allora non sarebbe il primo, ma per speciale istigazione del diavolo.
Quest. 15. Vizi opposti al dono della Scienza e dell’Intelletto. – 1. La cecità della mente, se proviene, non da difetto naturale, ma da volontaria avversione alle considerazioni spirituali e da soverchia occupazione delle cose materiali, è peccato. 2. L’ebetismo o ottusità del senso spirituale è diverso della cecità della mente, perché proviene da cause diverse e perché esso importa debolezza della mente nella considerazione delle cose spirituali, mentre la cecità ne è la perfetta privazione: anche l’ebetismo però è peccato se è volontario. 3. L’ebetismo proviene dalla gola e la cecità dalla lussuria; per l’opposto la castità e l’astinenza dispongono in sommo grado alle operazioni dello spirito, perché rimuovono gli impedimenti dei vizi carnali, gola e lussuria, le cui soddisfazioni trascinano colla più grande veemenza.
Quest. 16. Precetti di credere. – 1. Precetti di credere non ce ne potevano essere nella Legge antica, perché non erano allora da esporre i segreti di fede che furono poi esposti nel Vangelo; riguardo alla Fede in un Dio solo, il precetto di credere in Lui non potrebbe essere fatto se non a chi già crede in Lui e sarebbe quindi impossibile.
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2. Vengono però convenientemente dati nel Vecchio Testamento precetti circa la Scienza e l’Intelletto, affinché siano questi ricevuti mediante l’insegnamento, usati mediante la meditazione e conservati mediante il loro ricordo.
Quest. 17. La speranza. – 1. La speranza è una virtù. È speranza in quanto ha per oggetto Dio, quale bene futuro, arduo, possibile coll’aiuto di Dio stesso, è virtù, perché, conformando gli atti nostri alla regola superiore, cioè a Dio, li rende buoni e non si presta a usi cattivi. 2. Oggetto della speranza, siccome essa si appoggia a Dio dal quale è da sperarsi un bene infinito, è la beatitudine eterna. Non sappiamo precisamente in cosa questa consista, però la concepiamo come bene perfetto. 3. La beatitudine eterna ciascuno la spera per sé; ma per l’unione di carità col prossimo è atto di virtù sperarla anche per altri. 4. La speranza ha per oggetto Iddio, come Bene, e il suo aiuto per conseguirlo. Sperare negli uomini, scambiandoli col sommo Bene, non si può; in loro si può sperare soltanto quali aiuti secondari. 5. La speranza, avendo direttamente per oggetto Dio, è virtù teologale. 6. La speranza si distingue dalla Fede e dalla Carità, perché la Fede ha per oggetto Dio, quale principio di conoscenza della verità; la Carità ha per oggetto Dio, quale termine di unione dell’anima per amore; la speranza invece ha per oggetto Dio, quale principio del bene perfetto in noi. 7. La speranza conferma la Fede, ma non esiste prima della Fede, che ci fa conoscere Dio in cui si spera. 8. La Carità viene dopo la speranza, ma da sua parte la perfeziona.
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Quest. 18. – La speranza e il suo soggetto. – 1. La speranza risiede nella volontà, che è appetito razionale, perché essa ha per oggetto il bene e il bene si riferisce non all’intelletto, ma alla volontà, e ha per oggetto Dio che non è un bene sensibile. 2. La speranza non c’è più nei beati, perché Dio non è più per loro un Bene futuro, ma presente. 3. Speranza non ne hanno i dannati, perché conoscono il sommo Bene, ma non come a loro possibile; c’è invece nelle anime purganti, per le quali Dio è futuro sì, ma possibile e ne ritraggono conforto. 4. In noi della Chiesa militante la speranza ha la dote della certezza, purché proceda da una fede formata, resa cioè perfetta dalla carità.
Quest. 19. Il dono del timore. – 1. Dio si può temere, non nel senso che Egli sia un male da fuggire, ma nel senso che da Lui ci può venire il male di qualche castigo. 2. Il timore si distingue in filiale, iniziale, servile e mondano. Il timore mondano allontana da Dio facendo temere come mali i sacrifici che il servizio di Dio comporta; avvicinano invece a Dio il timore servile, facendone temere i castighi; il timore filiale, facendone temere l’offesa, e il timore iniziale che partecipa del servile e del filiale. 3. Il timore mondano, che proviene dall’amore del mondo in opposizione a Dio, è sempre cattivo. 4. Il timore servile invece in sé è buono, nonostante la circostanza della servilità che è cattiva, perché essa è estrinseca. 5. Il timore filiale ha per oggetto il male di colpa, e quindi specificamente diverso dal timore servile, che ha per oggetto il male di pena.
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6. Il timore servile può stare insieme colla carità quando riguarda la perdita di Dio, ma non quando parte dall’esclusivo amore di se stesso. 7. Il timore è principio della sapienza, di quella sapienza cioè che è direttiva della vita secondo le norme della ragione divina; ma il timore servile ne è soltanto dispositivo, il timore filiale ne è invece radice. 8. Il timore iniziale perciò differisce dal timore filiale non sostanzialmente, una come da imperfetto a perfetto. 9. Il timore filiale è un dono dello Spirito Santo, perché ci abilita a seguirne le mozioni. 10. Col crescere della carità il timore filiale cresce, il servile invece diminuisce. 11. Il timore filiale, che si esercita nella riverenza di Dio, in Paradiso resta ancora, ma non vi resta il timore servile, perché non c’è più da temere la perdita di Dio. 12. Al dono del timore di Dio corrisponde la beatitudine: Beati i poveri di spirito, perché esso induce alla rinunzia degli onori e delle ricchezze.
Quest. 20. La disperazione. – 1. La disperazione, derivando dal falso concetto che Dio non voglia perdonare i peccati, è contraria alla virtù della speranza e perciò è peccato; anzi essa induce a commettere altri peccati ed è perciò non solo peccato, ma anche principio dei peccati. 2. La disperazione non dice anche mancanza di fede, perché la fede appartiene all’intelletto e la disperazione appartiene alla volontà, non si escludono quindi a vicenda. 3. La gravità del peccato sta nell’avversione a Dio, talché la conversione alle creature, se non importa avversione a Dio, non è peccato mortale: la disperazione, essendo uno dei peccati contrari alle virtù teologiche che ci indirizzano a Dio, è uno dei più gravi peccati; anzi essa, ben-
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ché l’infedeltà e l’odio di Dio siano in sé più gravi, per noi è la più perniciosa. 4. Se la speranza si riferisce a un bene arduo e possibile; l’accidia, che abbatte lo spirito e fa riputare il bene arduo impossibile, e la lussuria, per cui le cose divine non si stimano più un bene e tornano a nausea, danno origine alla disperazione.
Quest. 21. La presunzione. – 1. La presunzione è contraria alla speranza per eccesso. Essa fa pretendere da Dio il perdono senza la penitenza e la gloria senza i meriti ed è perciò contraria a Dio, per il cattivo calcolo della sua misericordia: essa fa ritenere a noi possibile ciò che supera le nostre forze ed è perciò contro lo Spirito Santo, del cui aiuto non fa nessun calcolo. 2. Come si corrispondono verità e bene, così si corrispondono falsità e male: la presunzione corrisponde a un falso concetto di Dio, essa quindi e male, è peccato; meno grave però della disperazione, perché di Dio è più proprio perdonare che punire. 3. La presunzione è opposta direttamente più che al timore alla speranza, perché è dello stesso genere. 4. La presunzione nasce dalla vana gloria, in quanto si fa troppo calcolo delle proprie forze e nasce dalla superbia in quanto si fa cattivo calcolo della misericordia di Dio.
Quest. 22. Precetti di speranza e di timore. – 1. La speranza la troviamo comandata nella Sacra Scrittura prima per mezzo di promesse, poi per mezzo di precetti; e ciò doveva essere perché la fede e la speranza sono preamboli della legge senza le quali essa non viene accettata ed osservata;
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2. e per la stessa ragione dell’osservanza della legge fu pure fatto precetto del timore filiale, insieme col precetto di amare Dio, e del timore servile insieme con la comminazione delle pene.
Quest. 23. La Carità. – 1. La Carità fra l’uomo e Dio, essendo un mutuo amore col volere il bene l’uno dell’altro, è amicizia. 2. La carità è qualche cosa di creato nell’anima, perché il moto dell’anima ad amare Dio per se stesso e la potenza di fare atti, che sono soprannaturali, esigono una inclinazione abituale che non si ha da natura. 3. Se è virtù seguire la retta ragione, la carità, per cui si segue e si raggiunge Dio, che è la norma suprema della retta ragione, è certamente virtù. 4. La carità è una virtù speciale, perché riguarda Dio come oggetto speciale, cioè come oggetto di beatitudine; 5. mentre però ci sono parecchie specie di amicizia a seconda dell’intento o del vincolo, c’è una sola specie di carità, perché la Bontà Divina, che è il suo termine, è unica. 6. La carità è la più eccellente delle virtù, perché riguarda Dio per se stesso, mentre la Fede e la Speranza riguardano Dio per qualche cosa che da lui a noi derivi. 7. Se virtù vera non c’è senza ordine all’ultimo fine, cioè al Bene infinito, senza la carità non può esserci nessuna vera virtù; 8. e poiché quindi la carità indirizza le virtù all’ultimo fine, è essa che le fa, che le forma vere virtù; essa è la forma delle virtù.
Quest. 24. La Carità e il suo soggetto. – 1. La carità risiede nella volontà e non nell’appetito sensitivo, perché suo oggetto è Dio che è Bene, ma non un bene sensibile.
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2. La carità si risolve nella comunicazione della Beatitudine eterna; questa è un bene gratuito e soprannaturale, per il quale non ci sono sufficienti le forze naturali, la carità quindi in noi non c’è se non viene infusa dallo Spirito Santo; 3. ed essendo, così, nulla la nostra capacità naturale alla carità, lo Spirito Santo la dona a ciascuno secondo che Egli vuole. 4. La carità può crescere in noi, e cresce col radicarsi sempre più nell’anima nostra e coll’avvicinarsi sempre più a Dio mediante l’affetto della mente; 5. cresce adunque non per aggiunta di altra carità, ma per aumento di grado della stessa; cioè cresce intensivamente, 6. e ogni atto di carità aumenta direttamente la carità o almeno dispone all’aumento della carità. 7. La carità può crescere all’infinito, perché è partecipazione dello Spirito Santo, che è amore infinito; e ne è causa operatrice Dio, la cui potenza è infinita. 8. La carità è perfetta quando si ama Dio quanto è amabile. Dio è amabile infinitamente, noi invece abbiamo forze limitate, perciò in questo senso non è a noi possibile una carità perfetta. Per noi si può dare una carità perfetta in 3 modi: I. avere tutto il cuore sempre attualmente fisso in Dio, e questo non ci è possibile se non all’altra vita; II. avere la mente solo occupata in Dio quanto lo concedono le necessità di questa vita, e questo non è comune a tutti i Santi; III. avere il cuore abitualmente riposto in Dio così che nulla si voglia che a lui sia contrario, e questo è comune a tutti i giusti. 9. La carità è di tre gradi: incipiente di chi si allontana dal peccato; profìciente di chi si esercita nelle virtù; perfetta di chi è tutto unito con Dio. 10. La carità come può crescere, così altrettanto può diminuire, se non in sé direttamente, perché essa o c’é o non c’è, almeno indirettamente, per disposizione cioè
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contraria, indotta o dai peccati veniali o dalla cessazione degli atti di carità. 11. La carità, una volta posseduta si può poi perdere, perché lo stato di carità quaggiù in noi è mutabile a seconda del libero arbitrio, in quanto non siamo sempre attualmente rivolti a Dio ed allora può occorrerci qualche cosa che ci faccia perdere la carità. 12. La carità poi avviene che si perde anche per un solo atto di peccato mortale. Negli abiti acquisiti un atto contrario non distrugge l’abito; ma la carità, essendo un abito infuso, dipende da Dio, la cui azione di infusione è simile all’azione del sole, che cessa di illuminare se si frappone un ostacolo che la impedisca totalmente: un atto solo di peccato mortale è una rivolta contro Dio e fa cessare totalmente la carità che è unione con Dio.
Quest. 25. Oggetto della Carità. – 1. La carità si estende a Dio e anche al prossimo, essendo lo stesso Dio la ragione di amare il prossimo; volere cioè che il prossimo sia in Dio. 2. Chi ama il prossimo ama l’amore del prossimo; il prossimo si ama di carità, perciò la carità stessa si ama di amore di carità. 3. Se la carità ha per base la comunicazione dell’eterna beatitudine, essa non si estende agli animali, perché non ne sono capaci; possiamo però amarli per amore di carità in quanto desideriamo che siano conservati a onore di Dio e a utilità del prossimo. 4. Fra le cose che amiamo di amore di carità come appartenenti a Dio ci siamo anche noi, perciò dobbiamo amare anche noi stessi per amore di carità; 5. e di amore di carità dobbiamo amare anche il nostro corpo, perché esso viene da Dio e dobbiamo usarne in suo servizio; ciò quindi che impedisce questo, come la colpa, dobbiamo eliminarlo.
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6. Dobbiamo amare di amore di carità anche i peccatori, non secondo la loro colpa, ma secondo la loro natura, che è capace di eterna beatitudine. 7. I peccatori amano se stessi, ma a differenza dei buoni che amano in sé l’uomo interiore, perché di sé stessi stimano cosa principale la natura razionale, i peccatori amano in sé la natura sensitiva e corporea, perché questa stimano principale, la stimano falsamente, perciò anche amano se stessi falsamente, cioè si odiano: Chi ama l’iniquità odia l’anima sua. 8. È necessario per la carità amare anche i nemici; però proprio perché sono nemici, ma perché non si devono escludere da quell’amore per cui amiamo in generale coloro che hanno la stessa nostra natura, e basta che abbiamo l’animo disposto ad amarli anche in particolare qualora si desse un caso di necessità; amarli poi in particolare anche fuori del caso di necessità è carità perfetta; 9. per cui è parimenti necessario non negare ai nemici i segni comuni e generali dell’amore, quando per es. si prega per tutti i fedeli: ma non è altrettanto necessario estendere in particolare anche a loro i segni di amore che riserviamo ai nostri amici. 10. Se la carità ha per base la comunicazione dell’eterna beatitudine, si devono amare di amore di carità anche gli angeli che ne sono già partecipi. 11. I demoni invece, come i peccatori, non si devono amare secondo la loro colpa, ma si devono amare secondo la loro natura, desiderando che conservino quanto da natura hanno per la gloria di Dio. 12. Infine, sulla base della comunicazione della eterna beatitudine, la carità vuole che nell’amare seguiamo questo ordine: a) chi ne è il principio, cioè Dio: b) chi ne ha partecipazione diretta, cioè gli angeli e gli uomini e perciò noi stessi e il prossimo: c) ciò cui spetta la partecipazione indiretta, cioè il nostro corpo.
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Quest. 26. Ordine della Carità. – 1. Nella carità, che da Dio, principo della Beatitudine, si estende a tutto ciò che ne è partecipe, c’è, come ci deve essere, un ordine. 2. Perciò Dio, che come principio della Beatitudine ne è la parte principale, lo dobbiamo amare più del prossimo che ne è soltanto nostro compartecipe. 3. Anzi, essendo Dio il Bene comune e il principio fondamentale della Beatitudine di tutti e quindi anche nostra, lo dobbiamo amare più di noi stessi. 4. Secondo la natura spirituale, che è la ragione della partecipazione alla Beatitudine, ciascuno deve amare se stesso più del prossimo, perché a quella nessuno è più prossimo di se stesso; non si devono quindi fare peccati per liberare gli altri dai peccati; 5. e secondo la stessa natura spirituale, che è la ragione della partecipazione alla Beatitudine, ciascuno deve amare più il prossimo quanto alla salute dell’anima che se stesso quanto alla salute del corpo. 6. Nell’ordine della Beatitudine, di cui Dio è il principio, alcuni ci sono più vicini e alcuni più lontani; dobbiamo quindi amare alcuni giù degli altri. 7. Nell’ordine della Beatitudine i termini della propinquità sono due: Dio e noi. Da parte di Dio dobbiamo amare di più quelli che a lui sono più vicini, cioè i giusti, da parte nostra dobbiamo amare di più quelli che ci sono più prossimi, come i genitori e i fratelli; il primo è amore di grado proporzionato a santità mutevole; il secondo è amore di intensità proporzionato a un vincolo stabile; 8. anzi questo vincolo stesso va distinto in carnale, civile e militare e ciascun vincolo ha relazioni e uffici che ne dipendono e che non si devono scambiare; perciò negli uffici di natura siamo più doverosi ai genitori, ma negli uffici civili siamo più obbligati verso i concittadini e negli uffici militari verso i commilitoni. Se poi nel vincolo distinguiamo la stabilità, prevale a tutti il vincolo carnale.
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9. Da parte di Dio, principio universale, ci sono più prossimi i genitori e questi si devono amare di più; ma da parte di chi ama si deve amare di più il figlio e perché è quasi parte del padre e per molti altri titoli. 10. Come principio dell’origine naturale è prevalente la parte del padre, da cui si prende nome; perciò per sé il padre è da amarsi più della madre, ma come cure e fatiche è prevalente la parte della madre. 11. Se per ragione di principio dell’origine si devono amare di più i genitori, tuttavia la moglie si deve amare di più per ragione dell’unione matrimoniale. 12. Per ragione di origine il benefattore, che è principio del bene nel beneficato, si deve amare di più del beneficato; ma il beneficato che diviene quasi fattura nostra ha un titolo di maggiore propinquità e per questo lo si ama di più. 13. In Paradiso questo ordine della carità resta quanto a Dio, che si ama sopra ogni cosa come ultimo fine; ma quanto a noi e al prossimo l’ordine cambia, perché il migliore, come più vicino a Dio, si ama più di se stessi.
Quest. 27. L’amore, atto principale della Carità. – 1. Della carità, che è virtù e perciò principio di azione, è più proprio amare che essere amato. 2. L’amore, in quanto è atto di carità, include anche la benevolenza, ma questa è soltanto atto della volontà che vuole il bene del prossimo, mentre l’amore importa anche l’unione di affetto colla persona amata. 3. Dio è l’ultimo fine di tutte le cose, è la Bontà in se stessa; tutte le cose quindi le amiamo per Dio e Dio lo amiamo in sé: che se talvolta si ama Dio per qualche beneficio, questo diventa poi disposizione ad amarlo per se stesso. 4. Dio possiamo amarlo anche in questa vita immediatamente, perché se la nostra cognizione ci arriva media-
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tamente, non così l’amore, il quale comincia là dove la nostra cognizione arriva, 5. L’uomo può amare Dio totalmente nel senso di amarlo con tutto il cuore, ma non nel senso di amare Dio quanto è amabile. 6. Nell’amare Dio non si deve avere una misura, un termine: diceva S. Bernardo «La causa di amare Dio è Dio stesso, e la misura è amarlo senza misura, perché Dio è infinito». 7. Amare l’amico è certamente amare una cosa migliore del nemico; ma amare il nemico è più meritorio, perché è cosa più difficile e lo sforzo che si fa dimostra maggiore amore di Dio, per amore del quale dobbiamo amare amici e nemici; 8. ed è più meritorio amare il prossimo per amor di Dio, che non amare Dio senza amare il prossimo, perché sarebbe un amore monco.
Quest. 28. Il gaudio. – 28. Effetto della carità è il gaudio spirituale, che si ha dalla presenza in noi del Bene amato, cioè dalla inabitazione di Dio in noi per la grazia santificante, frutto della carità. 2. Questo gaudio accidentalmente può essere unito alla tristezza, derivante dal vedere che il Bene divino non è da tutti partecipato; 3. e questo stesso gaudio non può essere completo se non nell’altra vita, perché là solo nulla più resta a desiderare ed il gaudio quindi è pieno. 4. Il gaudio non è una virtù distinta dalla carità, ma è un effetto della carità.
Quest. 29. La pace. – 1. Pace non è lo stesso che concordia. La pace è anche concordia, ma la concordia
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non è anche pace: la concordia la possono avere anche i cattivi, ma per i cattivi non si dà pace. 2. Ogni cosa tende alla pace, perché ogni cosa tende al suo fine, per quietarvisi superando gli ostacoli che impediscono l’ordine naturale, e la pace è appunto: quiete nell’ordine. 3. La pace con Dio e cogli uomini è effetto della carità, la quale pure si estende a Dio e agli uomini. 4. La pace è un atto, un effetto della carità, ma non è una virtù diversa dalla carità, soggetta a un precetto speciale.
Quest. 30. La misericordia. – 1. Motivo proprio della misericordia è il male e specialmente quel male che è sofferto immeritatamente: la misericordia infatti è: della miseria altrui cordiale compassione; e non vi è poi miseria più grande che ricevere male facendo bene. 2. È il male che causa la miseria e suscita la misericordia; il male poi sta sempre in qualche difetto, perciò la ragione della misericordia è sempre qualche cosa che viene a mancare al prossimo, cui l’animo prende parte, e che si teme possa a noi stessi venire a mancare. 3. La misericordia è virtù quando è un moto dell’animo regolato dalla retta ragione. 4. Supplire alle indigenze e difetti del prossimo è più che amarlo, perciò la misericordia è superiore alla carità, ma questo relativamente al prossimo; perché relativamente a Dio nulla supera la carità che a Lui ci unisce.
Quest. 31. La beneficenza. – 1. Fare del bene al prossimo è effetto del voler bene, cioè dell’amare e perciò la beneficenza comunemente è atto di carità: talvolta però il fare del bene ai prossimo ha una ragione speciale ed allora diventa una speciale virtù.
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2. Come la carità così anche la beneficenza si deve estendere a tutti, almeno come disposizione di animo e purché altre ragioni non si oppongano. 3. La beneficenza è atto di carità, perciò ha l’ordine stesso della carità, a meno che intervenga un caso di necessità. 4. La beneficenza è atto di carità, non è una virtù diversa dalla carità.
Quest. 32. L’elemosina. – 1. Dell’elemosina il motivo è la misericordia; questa è effetto della carità perciò l’elemosina è atto di carità. 2. Le elemosine si distinguono come le opere di misericordia: ci sono quindi elemosine corporali ed elemosine spirituali a seconda dei bisogni corporali interni ed esterni e dei bisogni spirituali di intelletto e di volontà del prossimo. 3. Evidentemente le elemosine spirituali sono superiori alle corporali; ma talvolta le corporali sono urgenti ed allora prevalgono alle spirituali. 4. Anche le elemosine corporali per il loro motivo, che è Dio, e per il loro fine, che è l’anima, hanno un frutto spirituale. 5. Fare l’elemosina è un atto di virtù che la stessa retta ragione comanda quando il prossimo si trova in caso di bisogno e d’altronde ciò che al prossimo è necessario a noi invece non è necessario, ma superfluo; che se la necessità è estrema, l’obbligo si fa grave e riguarda non solo il superfluo, ma anche il necessario. Dice S. Ambrogio: Pasci chi muore di fame; se non lo pasci, lo uccidi; 6. e, fuori di questo caso, di ciò che non è superfluo, ma è necessario, non c’è obbligo di fare elemosina, a meno che intervengano ragioni superiori del bene comune della Religione e della Patria.
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7. Il maltolto si deve, non dare in elemosina, ma restituire; il frutto ricavato da ingiusti maneggi non si può ritenere, ma si deve dare in elemosina; il lucro invece di azioni turpi, ma non ingiuste, si può ritenere e se si dà ad altri è libera e vera elemosina. – In caso di necessità estrema tutto diventa di proprietà comune e ciascuno a tale indigente può somministrare anche l’altrui, che già appartiene, come al possessore, così anche a tale indigente. 8. Chi è sotto l’altrui potestà non può fare elemosina se non secondo l’ordine del padrone o dando del proprio. 9. L’elemosina deve seguire l’ordine della carità; quindi i nostri prossimi più stretti hanno maggiore diritto alla nostra elemosina, eccettuati i casi di persona più santa, più utile alla società e di maggiore indigenza. 10. Abbondare nell’elemosina è cosa lodevole; è però meglio farla a più indigenti anziché con uno abbondare così che ne abbia anche oltre il necessario.
Quest. 33. La correzione fraterna. – 1. La correzione fraterna per rimuovere il peccato, come male di chi pecca, è un’elemosina spirituale dovuta come atto di carità; e la correzione fraterna per rimedio al peccato, che è di danno agli altri e di nocumento comune, è dovuta come atto di giustizia. 2. La correzione fraterna non è oggetto di un precetto negativo, che obbliga sempre, perché proibisce cose intrinsecamente cattive; ma è oggetto di un precetto positivo, che comanda un atto di virtù, a tempo e luogo, per un dato fine; la correzione fraterna ha per fine l’emendazione del fratello; essa quindi è di precetto quando è necessaria a quel fine. 3. Alla correzione fraterna, che è atto di carità, sono tenuti tutti; alla correzione fraterna che è atto di giustizia sono tenuti i superiori;
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4. perciò agli inferiori relativamente ai superiori non spetta la correzione fraterna, che è atto di giustizia, ma solo quella che è atto di carità e anche questa deve essere fatta colla debita umiltà. 5. Anche chi è peccatore è tenuto alla correzione fraterna, purché però essa non riesca un’irrisione, uno scandalo o un capriccio di vanità. 6. Se per la correzione fraterna il prossimo avesse a diventare peggiore, si deve smettere quella che è atto di carità, perché andrebbe contro il fine, cioè l’emendazione del prossimo; ma non si deve omettere quella che è atto di giustizia, perché la esige il bene comune minacciato da chi pecca. 7. Prima di denunziare il prossimo è necessario fare la correzione fraterna, per impedire che esso peggiori, se si tratta di peccati che sono occulti e di nocumento privato, ma se sono di nocumento generale o sono peccati pubblici, ciò non è più necessario. 8. Anzi, la correzione che deve precedere la pubblica denuncia, prima di arrivare a questo estremo, deve ricorrere al mezzo di far intervenire qualche altra persona.
Quest. 34. L’odio. – 1. Dio può essere conosciuto o in sé o nei suoi effetti; in sé non è che Bontà e non può che essere amato; ma nei suoi effetti, siccome ce ne sono di quelli che ripugnano alle volontà disordinate, quali i castighi del peccato, può essere preso in odio da taluno. 2. L’odio di Dio, siccome rappresenta la totale ed esplicita avversione a Lui, è il più gran peccato. 3. Quanto la carità è bene, altrettanto l’odio è male. Il prossimo si deve amare in Dio e perciò nella natura e nella grazia, non nella malizia e nel peccato: quindi odiare il peccato nel fratello non è peccato, ma è peccato odiare il fratello.
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4. Quanto all’affetto di chi pecca, il più grave peccato contro il prossimo è l’odio; ma quanto al danno del prossimo i peccati esterni sono più gravi. 5. L’odio non è uno dei peccati capitali, perché questi sono principio di altri peccati, l’odio invece non è principio di eversione della virtù, ma è termine di arrivo; 6. ognuno fugge la tristezza e cerca le soddisfazioni, da queste deriva l’amore, dalla tristezza l’odio e l’invidia, che è precisamente tristezza del bene altrui, genera l’odio.
Quest. 35. L’accidia. – 1. L’accidia, che è tristezza del bene divino e spirituale, del quale invece la carità gode, è peccato; 2. ed è uno speciale peccato in quanto è formalmente contraria alla carità; 3. ed in quanto formalmente contraria alla carità, è anche peccato mortale; purché sia accidia perfetta. 4. Anzi, non solo è peccato, ma è anche peccato capitale, perché essa è tristezza e gli uomini fanno molte cose così per la tristezza come per il piacere.
Quest. 36. L’invidia. 1. L’invidia è rattristarsi del bene altrui, non in quanto se ne teme un danno, ma in quanto lo si considera un nostro danno, perché diminutivo della nostra gloria o eccellenza. 2. L’invidia è peccato quando è rattristarsi perché il prossimo spicca nel bene, perché ciò è contro l’amore del prossimo; non è peccato se il motivo di rattristarsi è perché ne è indegno o perché si teme che ne abusi contro di noi; se poi il motivo è non già che il prossimo ha quel bene, ma che noi ne siamo privi, allora non c’è invidia, ma c’è emulazione.
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3. L’invidia è contraria alla carità, perciò è peccato di genere mortale; purché però sia nell’anima e non nei moti del senso; 4. anzi essa è peccato capitale, perché è principio di altri peccati, quali la mormorazione e l’odio.
Quest. 37. La discordia. – 1. La discordia è contraria alla concordia, che è l’unione dei cuori voluta dalla carità; la discordia, se è dissentire deliberatamente da ciò che è evidentemente il bene di Dio o il bene del prossimo, è peccato mortale, a meno che si tratti dei primi moti dell’animo; dissentire in qualche opinione, che non sia errore pertinace contro la fede, nonè peccato mortale, perché la concordia è unione dei cuori e non delle opinioni. 2. La discordia, per cui ciascuno tiene troppo a sé stesso, è figlia della superbia e della vanagloria.
Quest. 38. Le contese. – 1. La discordia importa contrarietà nelle volontà, e la contesa importa contrarietà nelle parole. La contesa, se è impugnazione della verità con modi disordinati, è peccato mortale; se è impugnazione della falsità senza troppa acredine, è cosa lodevole; se impugnazione della falsità con troppa acredine, è peccato veniale. 2. Come la discordia, così anche la contesa, per cui non si vuole stare al di sotto degli altri, è figlia della superbia.
Quest. 39. Lo scisma. – 1. Lo scisma è scissura degli animi, contraria all’unione della carità, che unisce tutta la Chiesa nell’unità dello Spirito, unità considerata in ordine al suo capo che è Cristo, di cui il Papa è Vicario. Lo scisma perciò è un peccato speciale, proprio di coloro che negano soggezione al Sommo Pontefice.
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2. L’infedeltà, che è peccato contro Dio stesso, è più grave dello scisma; ma uno scismatico può peccare più gravemente di un infedele per ragione della sua pertinacia o del pericolo degli altri. 3. La potestà sacramentale, o dell’ordine, è fissa, perciò gli scismatici non la perdono, ma però restano proibiti di adoperarla; la potestà invece di giurisdizione è mobile e di questa sono privati; 4. e poiché gli scismatici peccano contro la Chiesa, è giusto che la Chiesa li colpisca colla pena dello scomunica.
Quest. 40. La guerra. – 1. Perché una guerra sia giusta occorrono tre cose: I. l’autorità del principe, cui spetta la tutela dello Stato; II. la giusta causa, cioè un’offesa o un danno cui non si vuol dare riparazione; III. la retta intenzione, in chi la fa, di mirare al bene e di evitare il male; e non sono rette intenzioni, secondo S. Agostino, la voglia di nuocere, la crudeltà nella vendetta, la libidine di dominio e l’insaziabilità dell’animo. 2. Il fare la guerra è affatto sconveniente agli Ordinati per le inquietudini che cagiona e perché ad essi, che trattano il Sangue di Cristo, compete non uccidere e versar l’altrui sangue, ma essere pronti a versare il proprio. Per cui è stabilito che siano irregolari coloro che anche senza colpa versano sangue. 3. Gli stratagemmi che consistono nel dire bugie e nel mancare alla fede data sono illeciti; ma gli stratagemmi di finte e di diversivi per occultare al nemico gli obbiettivi e i piani sono leciti. 4. L’osservanza delle feste non impedisce ciò che è ordinato alla salute anche corporale, perciò se è necessario, è lecito combattere anche in giorno di festa.
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Quest. 41. Le risse. – 1. La rissa, contrarietà non a parole, ma a fatti, è una guerra privata e perciò è illecita, a meno che si tratti della legittima difesa fatta colla debita moderazione. 2. La rissa è figlia dell’ira, la quale è voglia di vendetta, più che dell’odio, il quale molina piuttosto in segreto.
Quest. 42. La sedizione. 1. La sedizione, opponendosi a un bene speciale, cioè all’unità e alla pace della moltitudine, è un peccato speciale. 2. La sedizione, che si oppone alla giustizia e al bene comune, è un peccato di genere grave e più grave della rissa, che è cosa privata.
Quest. 43. Lo scandalo. – 1. Lo scandalo, che significa inciampo, nel cammino spirituale si definisce: un detto o un fatto meno retto che è occasione di rovina. 2. Lo scandalo, sia attivo che passivo, cioè sia dato che ricevuto, è sempre peccato; talora però c’è lo scandalo attivo senza il passivo; e talora invece lo scandalo passivo senza l’attivo, quando alcuno si scandalizza di cose che altri fa bene. 3. Lo scandalo, che mira a uno speciale danno del prossimo, cioè a trarlo al peccato, e che è contro la correzione fraterna, è un peccato speciale. 4. Lo scandalo attivo è peccato mortale quando è dato con un peccato mortale, quando mira comunque a far peccare mortalmente e quando si segue ogni capriccio con disprezzo della salute del prossimo. 5. Negli uomini perfetti non può esserci scandalo passivo, perché sono fermi nel bene; 6. e nemmeno può esserci scandalo attivo, perché sempre agiscono a norma della retta ragione, eccettuata qualche piccolezza dovuta all’umana fragilità.
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7. Se dalla verità deriva scandalo passivo, è meglio permettere lo scandalo che lasciare la verità; dice S. Gregorio; perciò le cose necessarie alla salute non si devono lasciare per timore dello scandalo e nemmeno quelle che alla salute non sono necessarie, se lo scandalo è dovuto alla malizia altrui, come era quella dei Farisei; si deve invece, in queste, evitare o prevenire lo scandalo dei pusilli. 8. Le cose temporali si devono lasciare per timore dello scandalo soltanto se sono cose di proprietà nostra e se si tratta dello scandalo dei pusilli che in nessuna altra maniera si può prevenire o impedire.
Quest. 44. Precetti di carità. – 1. Della carità, che è dovuta per il fine della vita spirituale, cioè l’unione con Dio, era necessario fare un precetto. 2. Anzi erano necessari due precetti di carità, uno dell’amore di Dio, l’altro dell’amore del prossimo, essendoci persone corte che non capiscono da sé che nel primo è contenuto anche il secondo. 3. Due precetti poi sono sufficienti, perché contemplano il fine e ciò che ha ordine al fine, nel che sta tutto il bene che è oggetto della carità; 4. e siccome il fine, a cui tutto il resto è ordinato, è Dio, era da comandarsi di amarlo con tutto il cuore; 5. anzi a maggiore esplicazione fu detto: con tutta la mente, con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutte le forze, uomo cioè e interiore ed esteriore. 6. Il precetto dell’amor di Dio si può compiere in questa vita sufficientemente sì, ma imperfettamente; perfettamente si compie solo in Paradiso. 7. Era anche conveniente il precetto di amare il prossimo come se stesso, cioè santamente, giustamente e veracemente. 8. L’ordine della carità appartiene alla stessa virtù e perciò anche esso viene comandato.
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Quest. 45. Il dono della sapienza. – 1. La sapienza, che conosce la causa suprema non di qualche genere, ma universale, cioè Dio, e giudica secondo la verità divina, è un dono dello Spirito Santo, perché l’uomo non può conseguirlo da sé, ma soltanto averlo dallo Spirito Santo. 2. Il dono della sapienza ha origine dalla carità, che è propria della volontà, ma essa è proprio dell’intelletto. 3. La sapienza non è soltanto speculativa, ma anche pratica, perché giudica e dirige a norma di Dio i nostri atti. 4. La sapienza è un dono che deriva da una certa connaturalità con Dio, dall’unione con Lui ed è figlia della carità, perciò se per il peccato cessano la carità e l’unione con Dio, cessa anche il dotto della sapienza. 5. Tutti quelli che hanno la grazia hanno anche il dono della sapienza, almeno per propria istruzione e direzione; ma un dono più alto per istruzione e direzione anche degli altri non lo hanno tutti. 6. Al dono della sapienza corrisponde la 7 beatitudine: «Beati i pacifici », perché la pace, che è tranquillità nell’ordine, è premio della sapienza.
Quest. 16. La stupidezza. – 1. Alla sapienza si oppone la stupidezza, che è di chi non si commuove neppure per ciò che fa stupire, e che consiste nell’ottusità del cuore e del senso: si oppone pure la fatuità, che consiste nella privazione totale di senso spirituale. 2. La stupidezza naturale non è peccato; ma la stupidezza spirituale, cagionata dall’amore del mondo, simile nelle cose spirituali a una infezione del palato per cui non si sentono più i gusti delicati, è peccato; 3. e quell’amore del mondo sta sopratutto nella lussuria, per cui la stupidezza è figlia della lussuria.
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Quest. 47. La prudenza. – 1. La prudenza è virtù conoscitiva, perché è previsione del futuro. 2. Essa appartiene alla ragione pratica, anziché alla speculativa, perché è retta norma delle azioni. 3. Ed è conoscitiva non solo dei principi generali, ma anche delle applicazioni particolari. 4. La prudenza è virtù intellettuale e morale, perché aggiunge la considerazione del bene alla applicazione del bene; 5. anzi è una virtù speciale, perché ha uno specifico oggetto formale; si distingue dalle altre virtù intellettuali, perché suo oggetto sono le contingenze dell’agire; e si distingue dalle morali, perché essa è intellettuale e morale insieme. 6. Alla prudenza appartiene, non già fissare il fine alle virtù morali, ma disporre in ordine al fine, perché il fine le virtù morali lo presuppongono. 7. Appartiene alla prudenza fissare il giusto mezzo alle virtù morali, perché così si conformano alla retta ragione. 8. Dei tre atti della ragione pratica, che sono discutere i mezzi, decidere di loro e dettare norma, quello che è proprio della prudenza è il terzo, cioè dettare norma, perché così si ordinano i mezzi al fine. 9. La sollecitudine appartiene alla prudenza, perché è cura di eseguire presto ciò che è frutto di uno studio lento. 10. Il bene privato è parte del bene pubblico; perciò la prudenza si estende anche al regime dello Stato, cioè al bene pubblico, come a suo tutto. 11. La prudenza politica, domestica e monastica differiscono fra di loro specificatamente, perché ciascuna ha un oggetto formale diverso, cioè il bene della società, della famiglia e dell’individuo privato. 12. La prudenza c’è, non soltanto nei principi, ma anche nei sudditi, che stanno al principe come gli operai all’architetto.
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13. C’è una triplice prudenza: I. la falsa, che è propria dei peccatori; II. la imperfetta, che è comune ai buoni e ai cattivi; III. la vera, che, è propria dei giusti. 14. Tutti quelli che hanno la grazia hanno anche la virtù della prudenza, perché tutte le virtù sono unite nella carità. 15. La prudenza è virtù intellettuale, perciò di essa dalla natura abbiamo i soli principii, e lo sviluppo si ha dallo studio e dall’esperienza. 16. La dimenticanza è relativa alle cognizioni e la prudenza sta nel dettare norme; non sono perciò fra loro così opposte, che la dimenticanza faccia perdere la prudenza.
Quest. 48. Parti della prudenza. – 1. Le parti sono di tre specie: integrali, come il tetto nella casa; soggettive, come il bue e il leone nel genere animale; potenziali, come la potenza vegetativa nell’anima. Nelle virtù adunque ci sono le parti integrali, che concorrono alla perfezione dell’atto; le parti soggettive, che sono le diverse specie della virtù; le parti potenziali, che sono relative agli atti secondari della virtù principale.
Quest. 49. Parti integrali della prudenza. – Sono parti integrali della prudenza: 1. la memoria, che dà la esperienza, per cui si accerta ciò che nella maggior parte delle cose c’è di vero; 2. l’intelletto o buona estimativa dei principii, da cui la ragione deduce la retta norma delle azioni; 3. la docilità, per cui si profitta degli insegnamenti, che vengono dall’esperienza dei saggi; 4. la solerzia, per cui ciascuno si industria di formarsi da sé il retto concetto del da farsi; 5. la ragionevolezza, per cui si riesce ben consigliati;
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6. la previdenza, per cui si considerano le eventualità future per raggiungere il buon esito; 7. la circospezione, per cui si coordinano i mezzi al fine col debito riguardo alle loro circostanze; 8. la cautela, per prevenire gli impedimenti.
Quest. 50. Parti soggettive della prudenza. – Sono parti soggettive della prudenza, oltre alla monastica per il regime dell’individuo privato: 1. la regnativa, perché per ben regnare occorre la prudenza, ed una prudenza tutta speciale e perfetta; 2. la politica, perché il cittadino abbisogna di questa prudenza per ben condursi nell’obbedienza alle leggi in ordine al bene pubblico; 3. la domestica, perché per ben reggere la famiglia, che sta fra l’individuo e lo Stato, occorre questa speciale prudenza; 4. la militare, perché ci sono anche le forze avverse, cui bisogna resistere; ed occorre questa prudenza per guardarsi dalle minacce e difendersi dagli assai nemici.
Quest. 51. Parti potenziali della prudenza. – Sono parti potenziali della prudenza: 1. la eubulia, che significa ponderazione, ed è una virtù, perché rende retti gli atti, 2. ed è distinta dalla prudenza, perché avvia alla prudenza, la quale sta nel fissare le leggi più che nel discuterle; 3. la sinesi, che significa buon senso, perché oltre la eubulia, che bene consiglia, occorre anche la sinesi, che fa comprendere i principii comuni in ordine al da farsi, per avviarsi all’atto di prudenza perfetta; 4. la gnome, che significa criterio, discernimento, perché oltre al buonsenso nei casi soliti, alla perfezione
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della prudenza occorre anche il criterio, il discernimento nei casi particolari.
Quest. 52. Il dono del Consiglio. – 1. I doni dello Spirito Santo sono disposizioni per cui l’anima si presta alle mozioni dello Spirito Santo; durante la ponderazione lo Spirito Santo agisce per modo di consiglio, cui l’anima si presta; il Consiglio perciò è dono dello Spirito Santo; 2. e poiché la ponderazione è parte potenziale della prudenza, il dono del Consiglio corrisponde alla prudenza, che esso aiuta e perfeziona. 3. Il dono del Consiglio resta in Paradiso, dove Dio continua ai beati la cognizione di ciò che sanno, e li illumina in ciò che non sanno relativamente alla rettitudine delle azioni. 4. Il dono del Consiglio riguarda ciò che è utile al fine, perciò al dono del Consiglio corrisponde la 5 Beatitudine, cioè: Beati i misericordiosi che hanno pietà, perché la pietà è utile a tutto.
Quest. 53. Vizi contrari alla prudenza. 1. L’imprudenza, se è mancanza della dovuta prudenza, è peccato di negligenza; se è vera imprudenza, contraria alla prudenza, come sarebbe disprezzare ogni ponderazione, è peccato contro la prudenza ed è peccato mortale se è trascuranza delle regole divine; 2. ed è peccato speciale perché opposta alla prudenza che è una virtù speciale. Sono poi vizi che appartengono all’imprudenza: 3. la precipitazione, che è contraria alla ponderazione ed è propria di chi si lascia trasportare dagli impeti della volontà o della passione; 4. la inconsideratezza, che è contraria al buonsenso e al criterio ed è propria di chi trascura e disprezza i principii
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generali e le circostanze particolari, da cui sorge il retto giudizio. 5. la incostanza, che è contraria alla fermezza di proposito ed è propria di chi muta le norme precettive nelle quali si risolve la prudenza. 6. E poiché nulla più assorbe anima quanto la lussuria, perciò questi vizi provengono dalla lussuria.
Quest. 54. La negligenza. – 1. La negligenza è un peccato speciale, perché è mancanza della dovuta sollecitudine, la quale è un atto speciale della ragione; 2. anzi la sollecitudine retta appartiene alla prudenza, perciò la negligenza che è mancanza di rettitudine, è contraria alla prudenza. 3. La negligenza poi se è relativa alle cose che sono di necessità della salute eterna o se è dipendente dal disprezzo, è in questi due casi, peccato mortale.
Quest. 55. Vizi della prudenza. – 1. La prudenza della carne, che fa consistere l’ultimo fine nei beni carnali, è manifestamente peccato; 2. e se totalmente fa consistere il fine della vita nei beni carnali, è peccato mortale perché è totale avversione a Dio; altrimenti no; anzi aver cura del mangiare per conservare la salute non è nemmeno prudenza della carne. 3. L’astuzia, cioè lo studio dei mezzi per raggiungere il proprio fine per le vie della falsità e della simulazione, è anche essa un vizio, che è l’opposto della prudenza, la quale invece è retta norma delle azioni. 4. L’inganno appartiene all’astuzia; è l’astuzia in opera sia con parole sia con fatti. 5. La frode appartiene all’astuzia, è l’astuzia in opera mediante soltanto parole.
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6. La sollecitudine delle cose temporali è diversa dalla prudenza, ed è illecita quando quelle si cercano come ultimo fine; quando vi si mette uno studio eccessivo, che soffoca ogni cura dello spirito; e quando infine vi si unisce il timore esagerato, e contrario alla Provvidenza, che, cioè, altrimenti mancherebbe il necessario alla vita. 7. La sollecitudine del futuro deve aversi a tempo debito e non si deve anticipare; così di primavera è giusta la sollecitudine della potatura delle viti, ma sarebbe sciocca in quel tempo la sollecitudine della vendemmia. 8. Questi vizi, che assomigliano alla prudenza, sono contro l’uso retto della ragione, che appartiene sopratutto alla giustizia, ed hanno origine dall’avarizia, che in sommo grado alla giustizia si oppone.
Quest. 56. Precetti di prudenza. – 1. Nel decalogo non occorreva un precetto particolare sulla prudenza, perché a costituire la prudenza, che è direttiva di atti virtuosi, concorre tutto il decalogo. 2. Ci sono, è vero, nel vecchio Testamento precetti proibitivi delle forme di simulata prudenza, quali l’inganno e la frode, ma ci sono più nei riguardi della giustizia, cui si oppongono, che nei riguardi della prudenza, cui somigliano.
Quest. 57. Il diritto. – 1. Mentre le altre virtù dirigono l’uomo in ordine a se stesso, la giustizia lo dirige in ordine agli altri in ciò che loro si deve; si dice aggiustare, porre ciò che adegua, e ciò che adegua forma eguaglianza, perciò la giustizia importa eguaglianza; e poiché mirando a questo scopo l’uomo è ben diretto in ordine agli altri, perciò la giustizia, che a ciò mira, ha per oggetto il diritto, latinamente jus.
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2. Una cosa può essere adeguata, cioè commisurata, all’uomo o per natura della cosa, o per un patto posto, cioè per una convenzione sia privata che pubblica: il diritto quindi si distingue in naturale e positivo. 3. Il diritto naturale comprende ciò che per natura è commisurato ad altri, e può esserlo o assolutamente, come la relazione tra un padre e il suo figlio, che deve nutrire, o non assolutamente, come la relazione fra un padrone e il suo campo, nella quale non è il campo che esige di essere del tal padrone, ma è il padrone che per la coltura e l’uso esige di possedere il tal campo. Il diritto naturale poi si distingue dal diritto delle genti, perché quello è comune anche agli animali, questo è proprio solo degli uomini. 4. Diritto è ciò che è commisurato ad altri: ma questo altri può essere o estraneo o non estraneo e il non estraneo può essere o il servo o il figlio, perciò il diritto si sottodistingue in paterno e dominativo.
Quest. 58. La giustizia. – 1. La virtù che è abito operativo, importa atti volontari, fermi e stabili; la giustizia ha per oggetto il jus o diritto, cioè quello che è commisurato ad altri, perciò la giustizia come virtù viene definita: Perpetua e costante volontà di attribuire a ciascuno il suo diritto. 2. Una cosa non si dice, se non metaforicamente, eguale a se stessa, perciò la giustizia, che importa l’eguaglianza, importa insieme relazione ad altri, e relazione a se stesso può importarla soltanto metaforicamente. 3. Ciò che rende buoni gli atti e chi li compie è virtù; la giustizia fa rette, e perciò rende buone, le operazioni dell’uomo, perciò la giustizia è virtù. 4. La giustizia appartiene alla volontà e non già all’intelletto, i cui atti sono conoscitivi e non operativi, e nem-
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meno all’appetito sensitivo perché questo non sa considerare la commisurazione di una cosa ad altri. 5. La giustizia si può dire una virtù generale, perché essa dirige gli atti di tutte le virtù al bene generale o comune; e poiché tale è il compito della legge, perciò tale giustizia generale si dice legale; 6. la giustizia generale è una speciale virtù se ha per oggetto particolare il bene generale, si identifica colle altre virtù se le coordina al bene generale. 7. Ma oltre alla giustizia generale, che dirige gli uomini in ordine al bene comune, c’è anche la giustizia particolare, che dirige gli uomini nelle relazioni fra singoli. 8. E poiché le relazioni esteriori fra singoli stanno in cose e in parole, perciò materia della giustizia particolare sono le cose e le parole; 9. e poiché invece relativamente alle passioni interne gli uomini non stanno in immediata relazione fra loro, perciò le passioni interne non sono materia della giustizia particolare. 10. Se la materia della giustizia particolare sono le parole e le cose esteriori, il giusto mezzo di questo virtù sta nel giusto mezzo delle cose stesse in relazione alle persone, 11. e perciò l’atto proprio della giustizia sta nel rendere alle persone le cose che dalla demarcazione del giusto mezzo restano loro proporzionate; atto di giustizia è rendere a ciascuno il suo. 12. La giustizia, che regola la volontà in ordine al bene degli altri, è la più utile delle virtù, essa quindi è la più grande delle virtù morali.
Quest. 59. La ingiustizia. – 1. La ingiustizia si oppone alla giustizia; la giustizia è una virtù speciale, perciò l’ingiustizia è un vizio speciale.
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2. Chi commette un’ingiustizia con precisa intenzione e determinazione è ingiusto, non lo è invece chi la commette senza intenzione o agendo sotto l’impulso dell’ira. 3. Per sé, si agisce di volontà e si patisce contro volontà; perciò si può soltanto commettere l’ingiustizia volendola e soffrirla non volendola; ma accidentalmente si può anche commettere l’ingiustizia non volendola, come quando non lo si sa, e patirla volendola, come quando si paga più di quanto si deve. 4. Ciò che è contro la carità, che è la vita dell’anima, è peccato mortale; nuocere al prossimo è contro la carità e nuocere al prossimo è fare cosa ingiusta; quindi il fare cosa ingiusta è un peccato di genere mortale.
Quest. 60. Giudicare. – 1. Il giudizio è la determinazione di ciò che è giusto, perciò giudicare è atto di giustizia e il giudice è la giustizia animata. Così Aristotele. 2. Il giudizio in tanto è lecito in quanto è atto di giustizia e perché sia tale occorre che non sia fatto né contro giustizia, né da chi non ha autorità, né con insufficienti motivi. 3. Il sospetto proviene o da eguale difetto, o da cattivo affetto, o da troppa esperienza; in ogni modo è sempre vizio e tanto più grande quanto più avanzato è il sospetto; in questo vi sono tre gradi: I. da lievi indizi si comincia a dubitare, e questo è peccato veniale, di tentazione umana; II. da lievi indizi si giudica come cosa certa uno cattivo e questo in cosa grave è peccato mortale; III. un giudice per solo sospetto pronuncia una condanna e questa è diretta ingiustizia ed è peccato mortale. 4. Quando gli indizi sono dubbi, per non essere ingiusti col prossimo, dobbiamo interpretarli in bene e non ritenere cattivo nessuno senza prove. Nullus malus nisi probetur.
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5. Le leggi insegnano il diritto naturale e contengono il diritto positivo, perciò la sentenza, che è determinazione del giusto, deve essere conforme alla legge scritta. 6. Una sentenza ha forza di legge perché è interpretazione della legge; ed alla stessa autorità spetta fare e interpretare la legge, perciò come una legge così anche una sentenza non ha valore se è emanata da chi non ha autorità.
Quest. 61. Parti della giustizia. – 1. Nelle relazioni di giustizia si può considerare l’ordine o delle parti fra di loro o del tutto colle parti, e cioè o delle persone particolari o delle comunità coi singoli e con ciò la giustizia si distingue in commutativa e distributiva. 2. Il giusto mezzo nella giustizia commutativa va preso matematicamente, cosicché a chi presta dieci si deve dieci; nella distributiva invece va preso geometricamente, cosicché uno per essere rimunerato il doppio degli altri deve valere o prestare il triplo di loro. 3. Benché alla giustizia commutativa e distributiva servano le stesse cose, tuttavia esse riguardano azioni diverse, perché la commutativa è direttiva degli scambi, mentre la distributiva è direttiva delle ripartizioni, hanno perciò materia diversa. 4. Nella giustizia commutativa la proporzione è di cosa a cosa e in tal maniera si devono corrispondere l’offesa e la pena, perché sia giusta, ed altrettanto la prestazione e la privazione, l’opera e la mercede, l’azione e la ricompensa e a servire a questo furono introdotte le monete. Ma nella giustizia distributiva la proporzione invece è geometrica e perciò il corrispettivo è diverso.
Quest. 62. La restituzione. – 1. Restituire significa ristabilire uno nel possesso o nel dominio di ciò che è
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suo; in ciò si guarda all’eguaglianza di cosa a cosa, che è propria della giustizia commutativa; perciò restituire è atto della giustizia commutativa. 2. Come è di necessità della salute conservare la giustizia, così è di necessità della salute restituire il maltolto, o in proprio, o in equivalente se il proprio è impossibile, come nel caso di mutilazione. 3. Dopo un furto è necessario e sufficiente restituire semplicemente ciò che è d’altri; ma se si aggiunge anche una sentenza del giudice, che condanna a una pena, allora bisogna scontare anche questa pena. 4. Ciascuno è obbligato a restituire ciò di cui privò un altro; se la privazione è di ciò che questi realmente aveva, deve seguirsi la proporzione di eguaglianza; ma se la privazione è di ciò che esso non aveva ancora ed era soltanto in via di ottenere, non si è obbligati al tutto, ma soltanto a un compenso proporzionato alla condizione delle persone e degli affari. 5. L’eguaglianza che la giustizia importa vuole che chi ha meno di quanto gli appartiene abbia il completo perciò la restituzione, per se, è da farsi a colui cui fu tolto, a meno che non ci siano cause che vogliono altrimenti. 6. Nella restituzione bisogna distinguere la cosa altrui presa e l’azione di prenderla: quanto alla cosa, deve restituirla chi la prese finché è in sua mano; quanto all’azione di prenderla se fu in danno altrui, come nel furto, o in vantaggio proprio, come nel prestito, si è tenuti alla restituzione della cosa ancorché non la si abbia più in mano; ma se non fu né in danno altrui né in proprio vantaggio, come nel deposito, allora non si è tenuti né per la cosa presa né per l’azione di prenderla. 7. Alla restituzione sono tenuti non solo coloro che presero la roba altrui, ma anche coloro che vi concorsero direttamente o indirettamente sia con azione positiva che negativa; e fra essi chi è in qualunque modo causa effica-
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ce del furto è obbligato alla restituzione, anche indipendentemente dall’obbligo altrui. 8. Come il prendere così il ritenere la roba altrui costituisce in istato di peccato, che si deve fuggire; perciò la restituzione si deve fare subito, per quanto è possibile.
Quest. 63. Preferenza di persone. – 1. Le preferenze di persona sono peccato, perché sono contro la giustizia distributiva; per esse infatti si dà a uno non perché la cosa gli è dovuta, ma perché egli è la tal persona; 2. e usare preferenze nelle cose spirituali di Chiesa è peccato più grave, perché esse hanno valore più del cose temporali. 3. Tale peccato può esserci anche negli atti di ossequio e di riverenza, quando si fanno solo in vista delle altrui ricchezze, mentre per sé onorare è fare testimonianza dell’altrui virtù. 4. I riguardi personali e le preferenze sono peccato anche in una sentenza del giudice, perché impediscono che essa sia atto di giustizia.
Quest. 64. L’omicidio. – 1. Nell’ordine naturale le cose imperfette sono a uso delle più perfette, sono quindi subordinate le piante agli animali e questi all’uomo. Perciò, il comandamento: non ammazzare, riguarda l’uomo. 2. Come le cose inferiori sono subordinate alle superiori, così la parte è subordinata al tutto e come per la salute del corpo talora si amputa un membro malato, così uno scellerato, che è pericoloso alla società, può anche essere ucciso; 3. ma questo è riservato a colui cui spetta la tutela della società; non possono quindi i privati uccidere i malfattori;
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4. a coloro poi che hanno gli ordini sacri ciò è assolutamente proibito perché devono rivestirsi della mansuetudine di Gesù Cristo. 5. Il suicidio è proibito I. perché è contro la natura, che inclina alla propria conservazione, e alla carità, per cui ciascuno deve amare se stesso; II. perché è un’offesa alla società, cui si appartiene; III. perché la vita è un dono affidato da Dio, ma sempre soggetto al suo potere e il suicidio ne è usurpazione. Perciò esso non è lecito né per voler andar tosto in Paradiso; né per sottrarsi a una morte terribile o a dispiaceri gravissimi; né per punirsi di qualche peccato e nemmeno per impedire di essere oggetto dell’altrui peccato, perché non dobbiamo fare un peccato noi per impedire che ne commettano gli altri. Certe morti di Santi sono da ascriversi all’ispirazione di Dio, padrone assoluto della vita umana. 6. Per chi è innocente non si verifica il caso dello scellerato nocivo alla società, perciò non è mai lecito uccidere un innocente. Se noi siamo solo depositari della vita, Dio ne è padrone e il sacrificio di Isacco era lecito per il comando di Dio. 7. Uccidere per difendersi non è peccato; perché la difesa importa due effetti cioè la conservazione propria, cui si mira, e la uccisione altrui che ne segue senza volerla. Ciò però purché si usi la moderazione dell’incolpevole tutela propria. 8. Se caso è ciò che succede oltre la nostra intenzione, chi per caso uccide uno non è reo di omicidio a meno che ne sia reo in causa, per non aver cioè usata la dovuta diligenza o per aver atteso a cose per tale pericolo illecite.
Quest. 65. La mutilazione. – 1. Mutilare può quell’autorità pubblica che può anche uccidere, ma non può farlo
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un privato, neanche se colui che viene mutilato è contento, a meno che si tratti di un membro guasto che bisogna amputare per la salute del corpo. 2. A titolo di correzione e di disciplina i genitori possono, non uccidere e nemmeno mutilare, ma battere i fìgliuoli soggetti alla loro potestà; però con moderazione. 3. Infine privare del moto e dell’uso delle membra coi ceppi e col carcere è lecito secondo l’ordine della giustizia a titolo di pena o di prevenzione; agli altri è illecita qualunque forma di detenzione. 4. Tali peccati poi a parità di condizione sono più gravi se si commettono verso persone che hanno congiunti, perché a questi si estende l’ingiuria e il danno.
Quest. 66. Furto e rapina. – 1. È naturale all’uomo il possesso delle cose fuori di lui, non certo quanto alla loro natura, che è soggetta esclusivamente al potere di Dio, ma ben certo quanto al loro uso per la sua utilità; 2. e per ragione di questa utilità è lecita la proprietà privata delle cose quanto alla produzione e destinazione dei frutti; questo è necessario alla vita umana per tre ragioni: I. ciascuno è sollecito di procurare ciò che deve servire a lui solo più di ciò che deve servire a tutti; II. c’è più ordine se a ciascuno è assegnata la propria cura; III. Tanto più lo Stato è pacifico quanto più ciascuno è contento del suo stato; ma non è lecita la proprietà privata delle cose quanto al loro uso, quando questa sia coll’esclusione assoluta degli altri; perché l’uso si deve comunicarlo facilmente agli altri secondo le necessità. La comunione dei beni è di diritto naturale nel senso che il diritto naturale non assegna i privati possessi; questi dipendono da convenzione umana, per cui se la proprietà privata non viene dal diritto naturale, non gli è nemmeno contraria ed è un portato della ragione umana;
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il diritto civile poi regola l’uso e la trasmissione della proprietà. 3. Furto è prendere ciò che altri possiede come suo, di nascosto. 4. La rapina è prendere ciò che è d’altri, colla violenza, aggiunge quindi al furto la violenza ed è perciò un peccato di specie diversa dal furto. 5. Il furto è contro la giustizia ed ha anche dell’inganno o della frode, perciò ogni furto è peccato. Le cose trovate, se esse prima non furono di nessuno o furono abbandonate, sono di chi le trova. 6. Ciò che è contro la carità, che è la vita dell’anima, è peccato; il furto è contrario alla carità, perché nuoce al prossimo tanto che se gli uomini si rubassero di continuo a vicenda sparirebbe la stessa convivenza sociale; perciò il furto è peccato mortale. Dal peccato mortale scusa la parvità della materia, perché il poco è riputato quasi niente. 7. Il diritto umano non può derogare al diritto naturale e divino. Nell’ordine naturale per divina provvidenza le cose inferiori sono ordinate a sovvenire alle necessità umane. Perciò la proprietà privata, che procede da diritto umano, non può impedire che con tali cose si sovvenga a una umana necessità. Perciò quello che sovrabbonda si deve di diritto naturale agli indigenti; resta libera la distribuzione, perché questi sovrabbondano. Che se la necessità è evidente ed urgente, ciascuno può soccorrere se stesso con ciò che altri ha e questo non è furto, né rapina. 8. La rapina è furto con coazione. La coazione spetta al principe secondo l’ordine di giustizia, cosicché esercitata contro i malfattori e i nemici non sarebbe più rapina: ma ai privati la coazione è sempre illecita. 9. La rapina è più grave del furto, perché oltre il danno alle cose, involge anche ingiuria alle persone.
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Quest. 67. Ingiustizia nel Giudice. – Un giudice non può dare sentenza su chi non gli è in qualche modo soggetto, perché la sentenza è una legge particolare e la legge non può farla se non chi ha autorità sui suoi sudditi. 2. Il giudice, fungendo da autorità pubblica, deve giudicare secondo quanto gli risulta esercitando, nella discussione della causa, l’autorità pubblica di cui è investito, ancorché a lui, come persona privata, fosse noto il contrario. 3. Il giudice non può condannate per un delitto se manca l’accusatore, perché egli è interprete della giustizia e la giustizia importa relazione ad altri; egli quindi non può giudicare se non fra due. 4. Il giudice soltanto giudica fra l’accusatore e il reo e giudica, non di propria, ma di pubblica autorità. Spetta perciò a chi è investito della pubblica autorità, spetta cioè solo al principe, condonare la pena se l’accusatore consente.
Quest. 68. L’accusa. – 1. Mentre la denuncia (33: 6, 7) tende alla correzione del fratello, l’accusa tende alla punizione del reo. Le pene di quaggiù non sono l’ultima retribuzione, ma servono di medicina o del reo o della società. Perciò chi conosce un delitto che è di pregiudizio della società deve farne l’accusa, purché possa provarlo. 2. È convenientemente stabilito che l’accusa sia formulata per iscritto, perché così le cose si fissano e si precisano e danno modo al giudice di procedere con certezza. 3. L’accusa è ordinata al bene pubblico, ma questo non si deve promuovere ingiustamente; ciò avverrebbe o calunniando l’accusato o impedendone la punizione colla frode; o desistendo dall’accusa; perciò è ingiusta la calunnia, la prevaricazione e la tergiversazione. 4. Se la giustizia è eguaglianza, è giusto che l’accusatore, il quale non può provare l’accusa, sia punito con quella
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pena con cui egli voleva fosse punito il prossimo; questa è la pena del taglione.
Quest. 69. Ingiustizia nel reo. – 1. L’accusato non può senza peccato mortale negare la verità per salvarsi dalla condanna, perché è atto di giustizia prestarsi nell’ordine giuridico all’azione del giudice; ma se questi procede non giuridicamente, può appellarsi e non rispondere, o in qualche modo sottrarsi. 2. Dire il falso è diverso dal tacere il vero: non si è sempre obbligati a dire il vero, ma si è sempre obbligati a non dire il falso; nel tacere il vero altre sono le vie della prudenza, come far uso di risposte evasive, e queste sono lecite; altre sono le vie dell’astuzia, come difendersi calunniosamente, e queste sono proibite. 3. Può uno appellare quando confida nella giustizia della sua causa, ma non può appellare quando mira a differire l’applicazione della giustizia, perché sarebbe eluderla e difendersi calunniosamente. 4. Un condannato a morte se la condanna è giusta non può resistere alla forza pubblica, perché ne seguirebbe una guerra da parte sua ingiusta; ma se la condanna è ingiusta può resistere come si trattasse di assassini, purché però non ci sia scandalo da evitare.
Quest. 70. Ingiustizia nel teste. – 1. Chi è giuridicamente citato dal suo superiore come testimone è tenuto a comparire quando i fatti si possono provare o sono notori; altrimenti no; e se chi lo cita non è il suo superiore è obbligato a comparire solo quando si tratta di liberare il prossimo da una condanna. 2. Nei fatti umani è possibile soltanto una certezza morale che si ottiene per testimonianza della moltitudine; la moltitudine risulta di almeno tre: principio, cor-
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po e fine; perciò la prova di due testi, che coll’accusatore fanno tre, è necessaria e sufficiente; 3. questa testimonianza, che non è di certezza assoluta ma soltanto di probabilità, è inefficace e può essere respinta quando involge una probabilità in contrario per la condizione del teste dipendente o da infamia da inimicizia e quindi con colpa; o da insufficiente uso di ragione, o da consanguinità o da stato e quindi anche senza colpa. 4. La falsa testimonianza è sempre peccato mortale, perché è uno spergiuro, un’ingiustizia e una falsità.
Quest. 71. Ingiustizia negli Avvocati. – 1. Patrocinare le cause dei poveri è una delle opere di misericordia e a queste si è tenuti del superfluo: a patrocinare poi la causa di un dato povero è tenuto un avvocato solo quando si verifica il caso di estrema necessità cui non si può altrimenti sovvenire. 2. L’ufficio di avvocato è vietato a taluni, come i sordomuti, per ragioni di impotenza, e ad altri, come i monaci, per ragioni di decoro. 3. Difendere una causa ingiusta è cooperare all’ingiustizia, e se un avvocato scientemente lo fa, non solo pecca, ma è anche tenuto alla restituzione. 4. L’avvocato, fuori dei casi di obbligo, vende il suo patrocinio e perciò lecitamente prende quel denaro, che gli compete come giusta ricompensa.
Quest. 72. Le ingiurie. – 1. La contumelia sta nel disonorare uno principalmente colle parole rendendo noto in faccia di lui e di altri ciò che è contro il suo onore; 2. essa è peccato mortale se c’è proprio intenzione di disonorarlo, perché togliere l’onore è per lo meno quanto togliere la roba altrui.
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3. Per la virtù della pazienza dobbiamo avere l’animo disposto a tollerare le offese; ma talvolta dobbiamo respingerle o per correzione dell’offensore o per tutela della nostra dignità e autorità. 4. La contumelia si può dire figlia dell’ira, perché il suo fine coincide col fine dell’ira, che è la vendetta.
Quest. 73. La detrazione. – 1. La detrazione sta nel disonorare uno colle parole di nascosto; essa assomiglia al furto, come la contumelia assomiglia alla rapina, e se questa è derogazione dell’onore, essa è denigrazione della fama; 2. ed essendo la fama la più preziosa delle cose temporali, togliere scientemente la fama è per sé peccato mortale, che importa anche l’obbligo della restituzione. 3. La detrazione però non è il più grave peccato contro il prossimo, perché la fama, che si lede colla detrazione, è uno dei beni esterni dell’uomo, mentre i beni interni dell’anima e del corpo sono più preziosi. 4. Chi ascolta una mormorazione e non la impedisce per la ragione che gli piace, è reo dello stesso peccato, perché partecipe; ma se non gli piace e omette di impedirla solo per negligenza o per riguardo, di solito, pecca solo venialmente.
Quest. 74. La mormorazione. – 1. La mormorazione è eguale nella materia e nella forma alla detrazione, ma ne differisce nello scopo, perché il mormoratore mira a separare le amicizie, 2. e poiché l’amicizia è un bene maggiore della fama, perché la buona fama è mezzo alle amicizie, perciò la mormorazione è un peccato più grave della detrazione.
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Quest. 75. La derisione. – 1. La derisione si distingue dagli altri vizi di lingua, perché ha uno scopo distinto, quello cioè di fare arrossire chi vien deriso. 2. La derisione, che deprime non la fama di uno, ma la sua stessa persona, è tanto più grave quanto più è onorabile tale persona; secondo quindi le circostanze del difetto e della persona che si deride può essere peccato mortale.
Quest. 76. Le maledizioni. – 1. È illecito maledire coll’animo di maledire cioè desiderando o imprecando un male al prossimo; questo però è diverso dall’esecrare un delitto, dal prenunciare un giusto castigo e dal desiderare un correttivo del male. 2. Maledire alle creature irrazionali in quanto sono creature di Dio è bestemmia; maledirle invece in se stesse è una cosa oziosa e sciocca. 3. Maledire con animo di maledire augurando un male grave è peccato mortale se non lo scusa la leggerezza o l’impeto di passione. 4. La maledizione è meno grave della detrazione, perché questa ha per oggetto il male di colpa e quella ha per oggetto il male di pena.
Quest. 77. Frodi nelle compra-vendite. – Vendere più caro usando frode è inganno e danno, è perciò peccato. Anche se non c’è frode, nelle compra-vendite, introdotte affinché gli uomini si giovino a vicenda nella eguaglianza delle cose determinata dalla moneta, vendere a maggior prezzo o comperare a minor prezzo è contro la eguaglianza, perciò è ingiusto ed illecito. C’è ragione di vendere a più caro prezzo se la cessione è per chi vende anche una privazione, perché allora ha un doppio titolo; non così se per chi vende non c’è privazione, ma solo
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chi compra ha un giovamento, perché chi vende non ha doppio titolo. Il giusto prezzo non è appuntino determinato, ma si computa fra un po’ più e un po’ meno. 2. Quando la cosa non è della stessa specie, ma vien cambiata; ovvero la misura non è giusta, ma mancante; ovvero la qualità non è quella dovuta, ma scadente, la vendita è illecita, perché c’è difetto. 3. Essendo illecito dare occasione di pericolo o di danno, non si può vendere una merce viziata, a meno che si manifesti il vizio se esso è occulto, e si riduca il prezzo quando il vizio è palese. 4. Il negoziare, benché non sia lodevole, perché ha per scopo solamente il lucro di cui facilmente l’uomo è insaziabile, tuttavia non è illecito quando il lucro è moderato e ordinato a un fine onesto, come il sostentamento della famiglia.
Quest. 78. Mutuo ed usura. – 1. Usura è farsi pagare l’uso di una cosa; essa è illecita quando l’uso si identifica col consumo, come sarebbe del vino, perché non ha ragione o titolo di essere; non è invece illecita quando l’uso non si identifica col consumo, come sarebbe di una casa. Nel denaro che si presta per le necessità della vita l’uso si identifica col consumo, per esso quindi l’usura è illecita. 2. Ma se per tali prestiti è illecita l’usura, sia in denaro che in equivalente, come dovuta per patto espresso o tacito, non è però illecito ricevere qualche spontaneo segno di gratitudine ed esigere maggiore benevolenza ed amore, che non sono equivalenti di denaro. Chi presta può, per es. pattuire un compenso per il disagio e il danno che gli cagionano la privazione di ciò che presta.
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Nulla può essere pattuito per il pericolo del capitale; nel prestito di cosa, in cui coincide coll’uso il consumo, il dominio non resta in chi la presta, altrimenti il consumo è per conto suo: perit domino; il dominio è trasferito in chi la riceve e questi assume in sé il pericolo della perdita del capitale. Fare società poi non è trasferire il dominio; non c’è quindi mutuo, di cui è illecita l’usura. 3. Poiché nelle cose in cui non si distingue l’uso dal consumo non c’è giuridico usufrutto, perciò chi ha in prestito di tali cose non è tenuto che a restituire il capitale, ancorché ne abbia ricavati dei frutti, perché questi sono dovuti alla sua ingegnosità; non così delle cose, come un campo, in cui c’è giuridico usufrutto. 4. Farsi concedere un prestito a interesse è illecito, perché sarebbe indurre uno al peccato; è lecito però adattarsi alla necessità di accettarlo da chi non presta denaro se non a interesse, perché non è fare il male, ma subirlo.
Quest. 79. Parti integrali della giustizia. – 1. Sono parti integrali della giustizia, che concorrono cioè alla perfezione dell’atto, l’evitare il male e fare il bene, presi non nel senso generale, ma nel senso che per bene si intende ciò che al prossimo è dovuto e per male si intende ciò che al prossimo è di danno. 2. La trasgressione è uno speciale peccato, perché in sé involge il disprezzo dello speciale precetto contro cui va e anche perché la trasgressione è contro i precetti negativi, mentre la omissione è contro i precetti positivi, 3. e anche la omissione, che si oppone, non al bene dovuto generalmente, ma al bene dovuto al prossimo come oggetto della giustizia, è uno speciale peccato. 4. Per sé la trasgressione, che è contro i precetti negativi, è più grave dell’omissione, che è contro i precetti positivi, perché anche quelli sono più gravi di questi.
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Quest. 80. Sue parti potenziali. – 1. Le parti potenziali della giustizia sono le parti che riguardano gli atti secondari della virtù e in qualche cosa con lei convengono e in qualche cosa non convengono; e poiché la giustizia ha per oggetto ciò che ad altri è dovuto, bisogna considerare l’«altri » come Dio, i genitori etc; e bisogna anche considerare l’«è dovuto», cioè il debito che può essere legale o morale e questo o di necessità di essere o di necessità di bene essere, sono perciò parti potenziali della giustizia: la Religione, la Pietà, l’osservanza ecc.
Quest. 81. La Religione. – 1. La Religione tanto nel senso di rielezione, propugnato da Cicerone, quanto nel senso di rilegamento, propugnato da S. Agostino, importa ordine di relazione esclusivamente a Dio. 2. La Religione porta a dare a Dio l’onore che a Lui è dovuto; rendere a uno ciò che gli è dovuto è un atto buono; la Religione quindi che ne è principio è virtù. 3. La Religione ha un oggetto unico, è quindi una virtù unica; 4. inoltre essa è una virtù speciale, perché ha un oggetto speciale, cioè l’onore dovuto a Dio, che è un onore tutto speciale; 5. e poiché l’oggetto della Religione è l’onore dovuto a Dio, Dio è il fine, ma non l’oggetto di questa virtù, perciò essa non è virtù teologica; 6. e poiché ancora la Religione fra le virtù morali è quella che più va vicino a Dio, perciò essa è la più eccellente di quelle. 7. La Religione sta non solo negli atti interni, ma anche negli atti esterni, perché questi sono subordinati agli interni, come il corpo è subordinato all’anima. 8. Religione e santità, (che grecamente significa niente terra e latinamente mondezza) benché siano essenzialmente la stessa cosa, tuttavia santità dice piuttosto appli-
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cazione della mente a Dio e Religione dice invece esercizio del culto a Dio dovuto, quindi c’è ragione di distinguerle.
Quest. 82. La devozione. – 1. La devozione, che è una volontà di fare con prontezza ciò che appartiene al servizio di Dio, è un atto speciale della volontà, 2. ed è un atto di religione, perché il servizio di Dio spetta alla religione. 3. Della devozione la causa estrinseca e principale è Dio, ma da parte nostra la causa intrinseca è la meditazione, perché è l’intelletto che apre la via alla volontà, mostrandoci la bontà divina e la miseria nostra; 4. e i suoi effetti sono: diletto per la considerazione della divina bontà; tristezza unita a speranza per la considerazione delle miserie nostre.
Quest. 83. L’orazione. – 1. L’orazione (etimologicamente orale ragione ) è atto della ragione pratica, che dispone in ordine a chi è superiore, cui conviene non comandare, ma domandare e perciò va definita domanda a Dio di cose convenienti. 2. Come non è vero che gli eventi umani non siano governati dalla Provvidenza divina o che dipendano da una legge di necessità, così non è neppure vero che i decreti della Provvidenza si mutino; ciò nonostante l’orazione è necessaria per ottenere ciò che Dio ha disposto che si compia per mezzo delle orazioni. 3. L’orazione è un atto di religione, perché coll’orazione ci professiamo bisognosi di Dio, onoriamo così Dio e l’onorare Dio è Religione. 4. L’orazione si presenta a uno o perché da lui sia esaudita o perché da lui sia patrocinata; nel primo mo-
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do si deve pregare solamente Dio, nel secondo modo si possono pregare anche i Santi. 5. Benché Socrate pensasse che a Dio si deve domandare beni indeterminatamente, siccome ce ne sono di quelli, come gli onori, che riescono a male, così conviene chiedere determinatamente i beni che giovano per questa vita e per l’altra, come insegnò Gesù col Pater noster; 6. i beni quindi temporali si devono chiedere non come fine a se stessi, ma come mezzi alla beatitudine, cioè in quanto servono organicamente agli atti di virtù. 7. Dobbiamo chiedere ciò che dobbiamo desiderare e siccome dobbiamo desiderare non solo il bene nostro, ma anche quello del prossimo, così dobbiamo pregare anche per il prossimo, anzi la preghiera della carità fraterna è più grata a Dio; 8. e siccome la carità vuole che amiamo anche i nemici, così vuole che preghiamo anche per i nemici, se non in particolare, fuori del caso di necessità, almeno non escludendoli alle nostre preghiere. 9. L’orazione domenicale è orazione perfetta, perché in quella non solo si chiedono tutte le cose che possiamo rettamente desiderare, ma anche coll’ordine con cui le dobbiamo desiderare; infatti si comincia col fine del nostro desiderio, cioè Dio, e seguono prima le cose che a quello ci conducono, poi le cose che da quello ci allontanano. 10. Se l’orazione è atto della ragione pratica, il pregare non spetta agli animali irragionevoli; 11. e se l’orazione è atto di carità, i Santi, che sono in Paradiso e hanno una carità più perfetta, tanto più pregano per chi ne ha bisogno, cioè per noi, e le loro orazioni sono tanto più efficaci quanto a Dio essi sono più vicini. 12. l’orazione comune non può che essere vocale, tale perciò è l’orazione dei ministri della Chiesa: l’orazione invece singolare non è necessario che sia vocale; è però
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conveniente che lo sia: I. per incitare la divozione interna; II. per pagare a Dio il debito dovuto anche dal corpo; III. perché è una naturale ridondanza dall’anima al corpo. 13. L’orazione ha tre effetti e cioè di merito, di esaudimento e di pascolo della mente: per i primi è sufficiente l’attenzione di prima intenzione cioè virtuale, ma per il terzo è necessaria l’attenzione attuale, essa poi può essere rivolta o alle parole, o al senso, o a Dio. 14. L’orazione deve essere continua nella sua causa, che è la carità, ma in se stessa deve durare quanto serve, senza tedio, a eccitare il fervore interno. 15. L’orazione non soltanto è causa di consolazione spirituale, ma è anche meritoria per la carità che ne è la radice ed è efficace per la grazia di Dio, il quale vuole che lo preghiamo mentre «non ci esorterebbe a chiedere se Egli non volesse dare». Ed è sempre esaudito chi chiede per sé cose necessarie alla salute con pietà e perseveranza. 16. I peccatori che pregano come peccatori, cioè secondo desideri di peccato, meritano di essere puniti anziché di essere esauditi; ma se la loro orazione proviene da desiderio naturalmente buono, Dio li ascolta non per giustizia, perché non hanno merito, ma per sua misericordia. 17. Le parti dell’orazione, come si vede negli Ormus, sono 4: l’orazione nell’elevazione della mente a Dio, il ringraziamento dei benefici passati, il voto o desiderio relativo ai benefici futuri, e la supplica fatta per Dominum nostrum J. C.
Quest. 84. Culto esterno di latria. – 1. L’adorazione è atto di Religione, perché con essa si presta onore a Dio. 2. Dobbiamo a Dio onore corpo ed anima, perciò l’adorazione è esterna ed interna e l’una all’altra subordinata:
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3. ed un determinato luogo per esercitarla, se non è necessario per l’adorazione interna, è certo però conveniente per l’adorazione esterna.
Quest. 85. Il sacrificio. – 1. Offrire sacrificio a Dio è di diritto naturale; lo hanno praticato tutti i popoli in ogni età e la ragione naturale insegna che l’uomo ha una naturale dipendenza da un essere superiore e che il naturale modo di manifestarla sono i segni sensibili. 2. Il sacrificio esterno è segno del sacrificio interno, del sacrificio cioè dell’anima che si offre a chi è suo principio di creazione e suo fine di beatificazione. Ma tale è solo Dio; dunque il sacrificio si deve offrire solo a Dio. 3. Offrire sacrificio è un atto che è fatto oggetto di speciale lode nella S. Scrittura, perciò esso è un atto speciale di virtù e precisamente di religione. 4. Essendo il sacrificio di diritto naturale, tutti vi sono obbligati; va però distinto il sacrificio interno, al quale sono obbligati tutti, e il sacrificio esterno, il quale incombe a coloro che vivono sotto la Legge, la quale talora lo comanda e talora lo consiglia.
Quest. 86. Offerte e primizie. – 1. I fedeli sono tenuti alle offerte, non per la Legge dell’Antico Testamento, ma o per una convenzione fatta colla Chiesa, o per un voto emesso, o per le necessità della Chiesa, o in forza della consuetudine. 2. Le offerte vanno fatte al Sacerdote, che è mediatore fra Dio e il popolo, affinché servano per i ministri della Chiesa, per il culto della Chiesa e per i poveri della Chiesa. 3. Nella Legge del Nuovo Testamento non c’è più la distinzione fra creature monde ed immonde, ma tutto è
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mondo per merito di G. C. perciò si può di ogni cosa fare offerta a Dio, purché però sia di buon possesso. 4. I fedeli, come sono tenuti alle offerte, così sono tenuti alle primizie secondo la consuetudine della regione e della Chiesa.
Quest. 87. Le decime. – 1. Nel Vecchio Testamento le decime erano dovute per il sostentamento dei ministri della Chiesa: questa ragione naturale sussiste anche ora, perciò anche ora le decime sono dovute; e poiché nel Nuovo Testamento l’autorità risiede nella Chiesa, così ora spetta alla Chiesa stabilire con equità e benignità la parte che si deve intendere per decima. 2. La radice del debito sta in questo che chi semina le cose spirituali ha diritto di mietere nelle temporali, le quali sono tutte date da Dio, perciò il dovere di pagare le decime si estende a tutte le cose temporali. 3. Chi semina le cose spirituali è il Sacerdote, a lui quindi si deve pagare la decima; essa però è una cosa temporale, perciò può passare anche ai laici. 4. Il dovere di pagare le decime si estende a tutti i fedeli che possedono di proprio, perciò anche quelli dello stato clericale, che possedono di proprio, devono pagare le decime.
Quest. 88. Il voto. – 1. Il voto è una promessa fatta a Dio; Dio legge anche il pensiero, perciò la promessa può essergli fatta anche col solo pensiero: ma la promessa procede da un proposito e il proposito procede da volontà deliberata, perciò a formare il voto sono necessarie tre cose: deliberazione proposito e promessa. 2. Il voto è una promessa che si fa Dio, deve perciò essere di cosa, non che gli sia contraria come il peccato, ma che gli sia grata come un atto di virtù; deve essere
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di cosa possibile e alla quale non si sia già tenuti per necessità di salute, ma che meglio conduce alla salvezza dell’anima e perciò il voto si dice promessa di un bene migliore. 3. Se ogni promessa è un debito, tanto più lo è una promessa fatta a Dio; perciò ogni voto obbliga; 4. e poiché ciò che si vota, più che ad utilità di Dio torna ad utilità nostra, perciò è conveniente fare voti. 5. Il voto è disporre qualche cosa in onore di Dio, perciò il voto è un atto di religione. 6. È più lodevole e meritorio fare qualche cosa per voto, che senza voto, perché col voto ogni atto diventa un atto di culto, ne segue una maggior soggezione a Dio e la volontà resta fissata nel bene. 7. Il voto nel ricevere gli ordini sacri e nella professione religiosa viene reso solenne per una benedizione spirituale o per una consacrazione di istituzione apostolica. 8. Se il voto è promessa di cosa possibile, deve essere di cosa che non è soggetta all’altrui potestà, perciò i dipendenti non possono fare voti senza il consenso dei superiori. 9. I fanciulli non possono obbligarsi a farsi religiosi, e perché non hanno la capacità della relativa deliberazione e perché sono soggetti alla potestà dei genitori, e questa è tale che anche se ne avessero la relativa capacità, il loro voto può essere annullato dai genitori. 10. Il voto importa una legge particolare, ma alla legge particolare prevale la legge generale, che può modificare la legge particolare in tutto o in parte; conciò il voto viene o dispensato o commutato. 11. Uno non può restare monaco e contemporaneamente essere dispensato dal voto di povertà e di castità nemmeno per autorità del Sommo Pontefice, perché monaco vuol dire solo. 12. Il voto è promessa fatta a Dio di qualche cosa che a Dio sia grata; ma chi giudica in persona di Dio ciò che
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è più o meno grato è il Superiore ecclesiastico; perciò alla dispensa o commutazione del voto occorre l’autorità del Superiore ecclestico.
Quest. 89. Il giuramento. – 1. Un fatto non si prova colle ragioni, ci vogliono testimonianze; ma la testimonianza umana non dà la certezza, occorre quindi ricorrere alla testimonianza divina; questo ricorso si chiama giuramento, che può essere assertorio o promissorio. Giurare quindi è chiamare Dio in testimonio di ciò che si asserisce o si promette; 2. e giurare è una cosa buona e perciò lecita, purché non se ne usi male, cioè senza necessità e senza la debita cautela; 3. perciò il giuramento deve essere fatto con verità, con giudizio e con giustizia; 4. il giuramento allora importa una professione della superiorità assoluta, della sapienza e della indefettibile verità di Dio; è un onorare Dio; è un atto di religione. 5. Il giuramento che rimedia il difetto della testimonianza umana è come una medicina, perciò al giuramento, come alle medicine, si deve ricorrere non sempre, ma quando ce n’è necessità. S. Si può giurare anche per le creature, non in se stesse, ma in quanto è in loro evidente la verità divina, come è il Santo Vangelo. 7. Il giuramento di una fede data o di un impegno preso obbliga, purché sia fatto con giudizio e con giustizia; 8. mancare al giuramento è irriverenza, mancare al voto è infedeltà e anche irriverenza, perciò mancare al voto è più grave che mancare al giuramento. 9. Come per il voto, così per il giuramento, al particolare prevale il generale, che modifica in tutto o in parte il particolare, perciò anche nel giuramento si può dispensare.
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10. Essendo il giuramento un atto solenne in onore di Dio a conferma di quanto si dice, sono esclusi dal giurare i fanciulli, che non ne hanno sufficiente capacità; gli spergiuri, la cui parola non ha più credito, e i sacerdoti, la cui parola deve essere di per sé autorevole.
Quest. 90. Lo scongiuro. – 1. Si possono scongiurare gli uomini o esigendo qualche cosa in nome di Dio da chi ci è suddito, o da chi non ci è suddito semplicemente domandandola. 2. Si possono scongiurare i demoni, ma a fine di cacciarli da noi in nome di Dio come nostri nemici, non già per invocarli che ci aiutino o ci insegnino. 3. Scongiurare le creature irragionevoli, che non capiscono, è vano; però siccome sono mosse da Dio e anche possono essere mosse ai nostri danni dal diavolo, così è lecito scongiurarle, intendendo di invocare prodigi da Dio come intendono i Santi, o intendendo di ricacciare i danni del diavolo, come intende la Chiesa negli esorcismi.
Quest. 91. Nominare Dio. – 1. Dio merita di essere lodato, non però come facciamo cogli uomini, che lodiamo o per incoraggiarli o per eccitare altri ad imitarli; Dio lo lodiamo per eccitare noi stessi a maggiormente venerarlo; lo facciamo quindi non in suo, ma in nostro profitto; 2. e a tale scopo fu assai opportuno introdurre il canto delle divine lodi, perché esso è assai adatto per eccitare in noi gli affetti.
Quest. 92. La superstizione. – 1. La superstizione è un vizio opposto alla religione per un eccesso o di termine o
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di modo in quanto si presta culto divino anche a chi non è Dio, o lo si presta a Dio, ma in modo che non si deve: 2. la ragione del modo costituisce una specie di idolatria; la ragione del termine, ne costituisce tre secondo il diverso fine; difatti il culto si presta o per onorare Dio, o per ottenerne i lumi, o per ottenerne gli aiuti, quindi il culto rivolto, anziché a Dio, alle creature diventa o idolatria, o divinazione, o osservanza.
Quest. 93. Superstizione specifica. – 1. La superstizione è una menzogna nel culto divino; una discordanza cioè fra il segno e la cosa significata: questa discordanza poi può esserci o per parte della cosa, come sarebbe il culto ebraico, che è di attesa del Messia, ora che il Messia è già venuto; o per parte della persona, che, esercitando il culto in nome della Chiesa, facesse contro le disposizioni della Chiesa. 2. Relativamente a Dio che è infinito, niente è sovrabbondante: ma relativamente alle cose ci può essere del superfluo nel culto quando esse non servono al culto interno, ovvero sono contro le disposizioni e le consuetudini.
Quest. 94. L’idolatria. – 1. L’idolatria è un eccesso di religione quanto al termine, perché è culto divino che prestarono gli antichi o a imagini o a quelle creature di cui le imagini erano, sia perché le stimassero Dei, sia perché ritenessero tutto il mondo una divinità di cui Dio è l’anima; sia perché riputassero che al sommo Dio si annodasse una lunga catena di esseri superiori: perciò l’idolatria è una specie di superstizione. 2. Il sacrificio spetta a Dio solo, e non già anche a creature, che per quanto eccellenti sono a Dio inferiori; il sacrificio poi è una cosa esterna bensì, ma sempre segno del culto interno, e non si può tollerare come semplice
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materialità di consuetudine; perciò il sacrificio offerto a chi non è Dio, cioè l’idolatria, è sempre peccato; 3. e poiché l’idolatria in sé sconvolge tutto l’ordine della religione, perciò l’idolatria è il più grave peccato; però in chi lo commette, che può averne più o meno coscienza, può non essere il peccato più grave. 4. Dell’idolatria causa dispositiva furono gli uomini i quali o hanno troppo amato e venerato qualcuno; o troppo si dilettarono di rappresentazioni espressive; o troppo trascurarono di conoscere Dio: ma causa consumativa dell’idolatria furono i demoni che cercavano di farsi adorare dagli ignoranti dando responsi e operando cose mirabili.
Quest. 95. La divinazione. – 1. L’uomo può predire un’eclissi e congetturare una tempesta, ma non può con certezza predire ciò che farà un altro uomo, perché questo è un futuro libero, noto a noi solo dopo il fatto, a Dio invece da tutta l’eternità. Divinazione invece è la pretesa di sapere, senza che ci sia rivelato, ciò che appartiene esclusivamente alla scienza divina; 2. e poiché in tale pretesa o si ricorre ai demoni onorandoli o i demoni stessi si ingeriscono e vogliono essere onorati, perciò la divinazione è una specie della superstizione. 3. I generi di divinazione sono tre: I. invocazione espressa dei demoni, che danno le risposte; a) con apparizioni che possono essere o di prestigi, cioè di luci e di suoni, o di sogno, o di morti; b) con responsi di oracoli; c) con figurazioni nelle cose inanimate terrestri, acquee, aeree, ignee e aruspicali; II. invocazione non espressa dei demoni nelle pratiche degli astrologi, degli auguri, degli auspici, degli indovini e dei negromanti, fatte per conoscere il futuro; III. invocazione non espressa dei demoni nei giuochi di sortilegio fatti o coi dadi, o colle paglie, o
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colle carte o con altri oggetti e studiati per conoscere cose occulte. 4. La divinazione coll’espressa invocazione del diavolo è illecita, e perché è un patteggiare col diavolo, che è nemico di Dio e perché è un trattare con chi ha per ultima mira la nostra perdizione, ancorché le sue prime risposte non siano contrarie alla verità. 5. L’astrologia è vana, perché pretende di conoscere gli eventi futuri fortuiti i quali non hanno cause fisse, o gli eventi futuri umani, i quali hanno cause libere; perciò è anche illecita: non è invece illecito, bensì è utile, lo studio dell’astronomia e della metereologia, anche se si tratta di formulare congetture di carattere generale dipendentemente dall’influsso fisico degli astri. 6. Dai sogni che hanno una causa naturale, per es. la fantasia, l’organismo, l’atmosfera, non si può trarre una conoscenza certa del futuro, certe coincidenze sono affatto casuali; però non è illecito trarne congetture; dei sogni mandati da Dio per ministero degli angeli si può giovarsi per la conoscenza del futuro; ma dei sogni ottenuti con fatto diabolico è illusorio servirsi per la conoscenza del futuro che Dio solo può conoscere, ed è anche illecito. 7. Altrettanto nelle altre specie di divinazione consistenti nelle pratiche degli auguri, degli indovini ecc. voler estendere la propria scienza oltre l’ordine naturale e provvidenziale degli eventi è illusorio e superstizioso e perciò illecito. 8. Si distinguono le sorti in divisorie o delle parti, consultorie o degli atti, e divinatorie o del futuro. Nel tirare le sorti: I. si può avere l’animo di rimettersi alla fortuna in quelle divisorie, e questo è sempre vanità; II. si può avere l’animo di rimettersi agli astri od agli spiriti in quelle consultorie, e questa è superstizione; III. si può avere l’animo di rimettersi a Dio, unico padrone dell’universo, e questo non è illecito, purché non lo si
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faccia nelle elezioni ecclesiastiche, perché è proibito e lo si faccia non con mire di umane passioni; ma colla debita riverenza e quando c’è necessità.
Quest. 96. Vana osservanza. – 1. Le osservanze dell’arte notoria, cioè le pratiche della sedicente arte di acquistare il sapere, sono illecite, perché superstiziose, sono, vane, perché inefficaci. Fissare certe figure e pronunziare parole magiche non sono segni di istituzione divina, come i sacramenti, per l’acquisto della scienza; non possono quindi esserlo che per patto diabolico; ma infondere la scienza, in modo da conoscerla senza il precedente studio, può Dio, ma non il diavolo, che può dare solo qualche suggerimento particolare; perciò sarebbero tentavi vani. 2. Le osservanze o pratiche per ottenere modificazioni nei corpi, come la sanità in un malato, sono lecite se quegli effetti possono essere naturali; se invece quegli effetti non possono essere naturali, bisogna pensare che quelle pratiche non ne sono le cause e sono invece segni di un patto col demonio, perciò sono illecite. 3. Le osservanze o pratiche relative alle fortune o alle disgrazie, se non sono segni dati da Dio, resta che siano segni di cooperazione della vanità umana e della malizia diabolica e perciò illeciti. 4. Appeso al collo si può portare, non invocazioni del diavolo; non parole ignote con sensi illeciti, o parole note con sensi falsi; bensì qualche detto divino, purché non sia mescolato con segni vani e purché la fiducia sia riposta non nel modo di scriverlo e di portarlo, ma nella assistenza divina.
Quest. 97. Tentazione di Dio. – 1. Tentare vuol dire fare esperimento della scienza, potenza e volontà altrui,
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e quando uno trascura quello che può fare per evitare i pericoli e solo si rimette all’aiuto di Dio, tenta Dio, almeno interpretativamente, perché il suo fare non ha altra necessità e altro scopo che di provare la potenza, la sapienza e la bontà di Dio. 2. Tentare Dio è peccato, perché non si mette a prova se non si dubita e tentare Dio quindi proviene da fede dubbia. Non è invece peccato se lo si fa non per se stessi ma per gli altri e per glorificare così Dio e la fede. 3. Tentare Dio è un’irriverenza a Dio, è tutt’altro che onorare Dio, perciò è peccato contro la virtù della religione. 4. Poiché però l’errore è più grave del dubbio; la superstizione, che è professione di errore, è un peccato più grave della tentazione di Dio, che è solo professione di dubbio.
Quest. 98. Lo spergiuro. – 1. Il fine del giuramento è confermare la verità; ma se il giuramento è fatto con falsità, questa rende vano il fine del giuramento, che quindi, non è più giuramento, ma spergiuro. 2. Lo spergiuro viene a dire che Dio o non conosce la verità o testifica la falsità, il che è una irriverenza a Dio, perciò lo spergiuro è peccato contro la religione; 3. ed è non solo irriverenza, ma anche disprezzo di Dio; e poiché tutto ciò che è disprezzo di Dio è peccato mortale, perciò lo spergiuro è sempre, anche nelle cose piccole, peccato mortale. 4. Chi esige un giuramento che prevede sarà falso, se è un privato pecca, perché coopera al male anzi lo vuole; se è il giudice non pecca, perché vuole semplicemente l’ordine giuridico.
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Quest. 99. Il Sacrilegio. – 1. Sacro è ciò che è destinato al culto di Dio e che diviene così qualche cosa di divino, cui si deve riverenza che si riferisce poi a Dio. L’irriverenza perciò alle cose sacre è ingiuria fatta a Dio ed è sacrilegio. 2. Il sacrilegio, che è lesione o violazione di cosa sacra, ha la sua speciale deformità, di essere cioè l’opposto della religione, che è una virtù speciale, quindi è un peccato speciale. 3. Ciò che è sacro e che è oggetto del sacrilegio si distingue in persone, luoghi, e cose sacre; ci sono quindi tre specie di sacrilegio, cioè personale, locale e reale, e ne cresce la gravità quanto più è grande la santità di ciò contro cui si pecca. 4. Le pene hanno carattere di medicina, perciò se non basta la scomunica, contro i sacrileghi sono da adoperarsi anche le penalità temporali.
Quest. 100. La simonia. – 1. Le cose spirituali sono materia di contratti; I. perché nessun compenso terreno è sufficiente; II. perché i prelati ne sono dispensatori e non padroni; III. perché in origine sono gratuito dono di Dio: perciò chi vuol farne contratto fa irriverenza a Dio e alle cose divine e commette un peccato di irreligiosità, che da Simon Mago ha nome di Simonia. 2. Le cose più spirituali sono i sacramenti, che producono la grazia spirituale, cui non c’è oro che si possa equiparare; perciò non si può ricevere denaro o cosa equivalente in corrispettivo dei sacramenti: non è però simonia offrire alcunché per il sostentamento dei ministri dei sacramenti; 3. Altrettanto per gli altri atti del ministero ecclesiastico che hanno effetti spirituali va detto che non si possono contrattare, ma che si può ricevere quello che secondo le consuetudini approvate dalla Chiesa viene of-
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ferto per il sostentamento dei ministri del Signore, anzi, compiti quegli atti, le offerte si possono domandare ed esigere. 4. Le cose annesse alle spirituali possono esservi annesse con dipendenza dalle cose spirituali, come un beneficio, e possono esservi annesse perché preordinate alle spirituali, come un calice; delle prime ogni contratto è simonia, delle seconde no, purché si prescinda dal carattere sacro che hanno. 5. Per le cose spirituali è proibito ricevere denaro e ciò che al denaro è equivalente, e poiché il prestare servizi e l’impiegare tempo in preghiera rappresentano un’utilità, che si può stimare a denaro, perciò sono proibiti, come il denaro, così anche i servizi e le preghiere che, in fatto di simonia, si chiamano dono di ossequio e dono di lingua. 6. Oltreché ad altre pene spirituali i simoniaci sono soggetti alla privazione di ciò che è frutto di simonia da parte e dei venditori e dei compratori e dei mediatori, perché non si può tenere ciò che fu acquistato contro la volontà del Padrone, cioè di Dio che disse: come avete ricevuto così date gratis.
Quest. 101. La pietà. – 1. L’uomo è doveroso ad altri secondo la loro eccellenza e secondo i benefici ricevuti; così l’uomo ha doveri prima verso Dio, poi verso i genitori, poi verso la patria. Coi genitori si intendono tutti i consanguinei; colla patria si intendono i cittadini. Onorare Dio è religione, onorare Genitori e Patria è pietà. 2. Il dovere di pietà, per sè, sta nell’onorare; ma accidentalmente sta anche nel prestare soccorso. 3. La pietà ha un oggetto speciale, cioè il culto dei parenti e della patria, perciò è una speciale virtù. 4. Religione e pietà sono virtù ambedue, perciò non si escludono a vicenda quasi opposte fra loro come virtù e vizio, si devono quindi ambedue praticare nei debiti
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limiti; per cui se la pietà non impedisce la religione, si devono compiere anche i doveri di pietà; non così se la pietà impedisce la religione, perché non si deve abbandonare Dio per gli uomini: non si deve lasciare di convertirsi per non fare dispiacere ai genitori.
Quest. 102. L’osservanza. – 1. L’osservanza è una speciale virtù che fa parte della pietà e consiste nel prestare culto e onore alle persone costituite in dignità, le quali ci sono principio nel governo come Dio ci è principio nella creazione e i genitori ci sono principio nella nascita. 2. Il culto e l’onore è loro dovuto per l’eccellenza del loro stato e per l’ufficio che esercitano. 3. La pietà però, come virtù, supera l’osservanza, perché essa è dovuta ai genitori e consanguinei che sono persone a noi maggiormente congiunte.
Quest. 103. La riverenza. – 1. Onorare è testificare l’eccellenza altrui. L’eccellenza di Dio per Iddio si può testificarla col cuore, ma per gli uomini bisogna testificarla con segni esterni, perciò l’onorare consiste in segni esterni e corporali. 2. L’eccellenza altrui che si testifica coll’onorare può anche avere nessun rapporto con chi onora, e averlo sono con altri, ma si tratta sempre di eccellenza che implica superiorità, perciò l’onore è dovuto a chi è superiore. 3. Altra è la riverenza che si deve agli uomini e altra è la riverenza che si deve a Dio, che ha dominio plenario e principale su tutte le cose; a Dio si deve una riverenza superiore, gli si deve cioè il culto di latria, relativamente agli altri padroni si deve riverenza, grecamente, dulia. 4. Questa dulia o riverenza dovuta dai servi ai padroni, è l’infima forma di culto.
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Quest. 104. L’obbedienza. – 1. Deve avvenire nelle cose umane quello che avviene nelle cose naturali, che cioè le inferiori sono mosse dalle superiori. Muovere colla ragione e colla volontà è comandare, cui corrisponde l’obbedire, è quindi di diritto anche naturale che gli inferiori obbediscano ai superiori; 2. e l’obbedienza, perché ha questo speciale obbietto, è una virtù speciale. 3. Le virtù morali, radicate nella carità, hanno il loro pregio in questo che ci fanno rinunciare a tutto, piuttosto che perdere l’unione con Dio; l’obbedienza ci fa rinunciare al massimo dei beni umani cioè alla volontà che supera gli altri beni sia interni dello spirito e del corpo che esterni delle cose, perciò l’obbedienza è la più grande delle virtù morali. 4. Se obbedire è corrispondere da parte di chi è inferiore alla mozione di chi è superiore alla mozione di Dio, che è motore primo e universale devono corrispondere tutte le cose; perciò a Dio si deve, di diritto naturale, obbedire in tutto da parte di tutti. 5. Se una cosa inferiore non risponde alla mozione della cosa superiore, ciò avviene o per l’intervento di una forza maggiore o perché manca il contatto. Altrettanto l’inferiore non è tenuto a obbedire al superiore se c’è di mezzo un precetto superiore di Dio, o se il superiore comanda in ciò su cui non ha giurisdizione; come sarebbe per i genitori la scelta dello stato dei figliuoli. 6. La fede cristiana ha per fine di sostenere l’ordinamento giuridico e non di sopprimerlo; e poiché esso vuole che gli inferiori obbediscano ai superiori, perciò i fedeli non sono dispensati dall’obbedire alle potestà secolari solo perché sono cristiani.
Quest. 105. La disobbedienza. – 1. La disobbedienza è contraria alla carità che mira ai buoi rapporti con Dio
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e con gli uomini: ciò che è contrario alla carità è per sé peccato mortale; quindi la disobbedienza è in sé peccato mortale. 2. Ma poiché disprezzare la persona di chi comanda è ancor peggio che disprezzarne i comandi, perciò ci sono peccati più gravi della disobbedienza.
Quest. 106. La gratitudine. – 1. Si deve ai benefattori la gratitudine per qualche beneficio particolare ricevuto; la gratitudine perciò ha un motivo particolare ed è una speciale virtù, distinta dalla religione, dalla pietà e dall’osservanza. 2. L’innocente deve a Dio più gratitudine del penitente se si guarda alla quantità della grazia ricevuta ma un penitente deve a Dio più gratitudine dell’innocente se si guarda alla gratuità del dono fatto da Dio, che diede grazia quando si doveva pena. 3. All’ordine universale in cui Dio, motore immobile, è il principio e anche il fine di tutte le cose, deve conformarsi l’ordine particolare del beneficio, che deve sotto qualche forma ritornare al benefattore e precisamente sotto la forma di ringraziamento e, al caso, anche di soccorso. Anche al servo si deve gratitudine se fa più del suo dovere. 4. Un beneficio non si deve ricambiare subito e chi lo facesse mostra di avere l’animo del debitore anziché del riconoscente. 5. Nel ricambiare un beneficio bisogna prendere la misura dall’effetto, se si tratta di un debito legale, dovuto per giustizia, come il mutuo, o di un debito di quelle amicizie che hanno per motivo l’interesse; bisogna invece prendere la misura dall’affetto, se si tratta di un debito morale originato da amicizia vera o da generosità.
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6. La gratitudine poi importa che nel ricambiare si dia anche più del ricevuto, perché altrimenti è pagamento di debito anziché ricambio riconoscente.
Quest. 107. L’ingratitudine. – 1. La gratitudine è un debito della onestà che virtù esige; l’ingratitudine è quindi contro la virtù ed è perciò peccato. 2. La gratitudine è una virtù speciale ed ha tre gradi: riconoscere il beneficio, ringraziare, ricambiare; l’ingratitudine, che è opposta alla gratitudine, è perciò peccato speciale ed ha anch’essa tre gradi: rendere male per bene, disprezzare il beneficio, riputarlo un’offesa; 3. cotesta sarebbe ingratitudine perfetta ed in sé sarebbe peccato mortale, l’ingratitudine invece imperfetta, cioè non ricambiare, non ringraziare, non riconoscere il beneficio è soltanto omissione di ciò che si deve per liberalità e sarebbe soltanto peccato veniale. 4. Chi è ingrato merita la punizione di non ricevere più benefici; ma il benefattore deve mirare e rendere grato chi è ingrato e conviene perciò che ripeta il beneficio a questo scopo.
Quest. 108. Le punizioni. – 1. Nelle punizioni bisogna guardare all’animo di chi punisce; se questi intende soltanto di vendicarsi, è peccato; se invece ha per scopo l’emendazione del colpevole o la tranquillità pubblica, non è peccato. Se pecca la moltitudine, non si devono punire tutti, ma solo i capi. 2. Il punire nei debiti limiti è secondare e perfezionare la naturale inclinazione di prevenire e di rimuovere ciò che nuoce, perciò è una virtù speciale; 3. il punire tuttavia è lecito e virtuoso quando mira a tenere in freno i cattivi, il che si ottiene col sottrarre
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a coloro che non sono amanti della virtù le cose che amano ed hanno care ancor più di ciò che si procurano peccando e queste cose sono p. es. la vita, gli averi, la libertà ecc. cioè colle pene consuete. 4. Le pene come pene spettano solo a chi è reo, a chi cioè pecca volontariamente; cogli altri si possono talora adoperare come medicine; però come non si cava l’occhio per guarire il calcagno, così non si devono sottrarre i beni spirituali a medicina di qualche difetto temporale.
Quest. 109. La veracità. – 1. La verità è l’oggetto della veracità; dire il vero è un buon atto: la veracità fa dire il vero, essa è quindi un buon abito, ossia è una virtù; 2. e poiché la veracità fa che l’uomo disponga il suo esterno cioè i fatti e le parole in ordine alla verità e tutto questo ha una bontà speciale, perciò la veracità è una virtù speciale. 3. La veracità fa che soddisfiamo al debito morale, che ci viene dall’onestà, di manifestare agli altri il vero, perciò essa è parte della giustizia. 4. La veracità ha questa particolarità che fa che ci tratteniamo quando parliamo di noi e diciamo meno di quello che in noi c’è di bene; però, se questo dire meno arriva alla negazione di ciò che in noi c’è, allora non è più virtù, perché è falsità.
Quest. 110. La bugia. – 1. La veracità consiste nel disporre le nostre manifestazioni in ordine alla verità; quando invece si dispongono in ordine alla falsità, la volontà può avere di mira o la falsità o anche il suo effetto, cioè ingannare; se si dice il falso, se c’è, la volontà di dirlo e se c’è l’intenzione di ingannare, c’è la falsità materiale, formale ed effettiva; orbene la bugia consiste
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nella falsità formale e più precisamente nella volontà di dire il falso; perciò la bugia è opposta alla veracità; 2. la gravità poi della bugia va desunta dall’intenzione di chi la dice e che può avere di mira o il danno altrui, o un vantaggio, almeno negativo, ossia la rimozione di un nocumento, o un divertimento; e con ciò la bugia si distingue in dannosa, officiosa e giocosa. 3. Essendo naturalmente le parole segno di ciò che si ha in mente, indirizzarle a scopo contrario è contro natura, perciò ogni bugia è peccato; 4. però, siccome la bugia giocosa e officiosa non sono contro la carità, esse non sono peccato mortale.
Quest. 111. Simulazione e ipocrisia. – 1. Le nostre manifestazioni non sono soltanto di parole ma anche di fatti; e se queste sono contrarie alla verità, sono bugie; la manifestazione consistente in fatti contraria alla verità si chiama simulazione; la simulazione perciò è bugia e come la bugia è peccato. 2. L’ipocrisia è propria di chi internamente è cattivo ed esternamente si manifesta buono; essa perciò è una simulazione, benché non ogni simulazione, sia ipocrisia; 3. in quanto poi è una simulazione, l’ipocrisia direttamente si oppone alla veracità e indirettamente si oppone ad altre virtù, secondo cioè i fini e i mezzi suoi particolari. 4. L’ipocrisia di colui che non cura affatto la santità, ma ogni cura invece mette soltanto nell’apparire santo, è peccato mortale; fuori di questi estremi l’ipocrisia è peccato mortale o veniale secondo che è, sì o no, contro la carità.
Quest. 112. L’ostentazione. – 1. La jattanza o ostentazione c’è quando uno si vanta non solo più di quanto è sti-
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mato, ma anche più di quanto esso è: e allora è contraria alla veracità. 2. L’ostentazione poi è peccato mortale quando si arriva ad appropriarsi la gloria di Dio o ad offendere con disprezzi la carità del prossimo; altrimenti è peccato veniale, purché non costituisca un grave atto di superbia, o di inganno.
Quest. 113. La ironia. 1. La ironia ed irrisione di se stesso quando non è semplice reticenza, ma negazione dei meriti che si hanno e attribuzione di demeriti che non si hanno, è contraria alla veracità e perciò è peccato; 2. però l’irrisione di se stesso ordinariamente è meno grave della ostentazione, perché questa procede da sentimenti più bassi.
Quest. 114. La cortesia. – 1. La cortesia, per cui ci comportiamo bene col prossimo nel comune conversare sia colle parole che cogli atti, ci dispone a un particolare bene, perciò essa è una speciale virtù; 2. essa fa che rendiamo al prossimo quello che è un debito di convenienza, quindi la cortesia è parte della giustizia;
Quest. 115. L’adulazione. – 1. Mentre la cortesia fa che evitiamo di contristare il prossimo, l’adulazione fa che nel comune conversare cerchiamo di troppo piacergli e sovente coll’intenzione di conseguire qualche vantaggio, il troppo, cioè l’eccesso è peccato, perciò l’adulazione è peccato. 2. L’adulazione quando è fatta o per esaltare un peccato, o per sorprendere la buona fede o per eccitare
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al peccato è contraria alla carità ed allora è anche peccato mortale, altrimenti no.
Quest. 116. Il litigio. – 1. Il litigio è contrario alla carità se procede da avversione verso il prossimo che parla; è invece contrario all’amicizia se procede da mancanza di cortesia. 2. Il litigio che è difetto di amicizia è in sé peggiore dell’adulazione, che ne è un eccesso, perché è meglio abbondare che essere mancanti.
Quest. 117. La liberalità. – 1. La liberalità consiste nel far buon uso dei nostri beni, mentre potremmo farne un uso cattivo, perciò è virtù. 2. La liberalità sta nel dare con larghezza, perciò materia propria della liberalità è il denaro o i suoi equivalenti; 3. e poiché gli atti si specificano dai loro oggetti, l’atto proprio della liberalità è il buon uso del denaro; 4. e poiché l’uso del denaro sta nel darlo via, anziché nell’acquistarlo, perché questo sarebbe produzione più che uso del denaro, e poiché ancora la emissione del denaro è tanto più grandiosa quanto più esso va lungi da noi, perciò alla liberalità appartiene più dare il denaro ad altri che spenderlo per noi. 5. La liberalità ha attinenza colla giustizia, perché come la giustizia ha per oggetto gli averi, per termine gli altri. 6. La liberalità, che ci regola nei beni esterni, è inferiore però alle altre virtù, che bene ci regolano nei beni interni.
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Quest. 118. L’avarizia. – 1. I beni esterni hanno loro ragione nell’essere utili per le necessità della vita; ma in tutto ci deve essere la debita misura: l’avarizia è un eccesso nel procurarsi e nel conservarsi questi beni, perciò l’avarizia è vizio, è peccato; 2. e l’avarizia nel senso che è un disordinato amore al denaro è uno speciale peccato. 3. L’avarizia è contraria alla giustizia quando il troppo amore alle ricchezze fa che si prenda o che si tenga ciò che è d’altri, è invece contraria alla liberalità quando il troppo amore ai denari fa che si trattengano anziché darli via. 4. L’avarizia contraria alla giustizia è un peccato di genere mortale; l’avarizia invece contraria alla liberalità, finché non lede la carità, è peccato veniale. 5. L’avarizia, benché sia turpe, non è il più grave peccato, perché si riferisce all’infimo dei beni umani, cioè al bene esterno e corporale, che sono le ricchezze. 6. L’avarizia è un peccato di spirito, perché la sua soddisfazione sta nella considerazione dei propri averi, mentre i peccati carnali consistono nelle soddisfazioni carnali, è perciò un peccato distinto. 7. A seconda del fine che si propone l’uomo opera molte cose o buone o cattive, e per il denaro, che è un fine pravo, molte cose cattive, perciò l’avarizia, che è amore al denaro, è principio di tanti peccati, è un peccato capitale. 8. 1. L’avarizia è un eccesso nell’acquisto e nella conservazione delle ricchezze; perciò da lei nascono: tradimenti, frodi, inganni, spergiuro, inquietudine, violenza e durezza di cuore.
Quest. 119. La prodigalità. – 1. La prodigalità è contraria all’avarizia, perché ne è l’eccesso e il difetto opposto nell’uso del denaro: laprodigalità eccede nel darlo via ed
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è mancante nell’acquistarlo e conservarlo; l’avarizia invece è mancante nel darlo via ed eccede nell’acquistarlo e conservarlo. 2. La prodigalità quindi essendo l’estremo opposto dell’avarizia non mantiene neppur essa il giusto mezzo nell’uso del denaro e perciò è peccato. 3. È però un peccato non più grave, ma meno grave dell’avarizia e perché alla virtù della liberalità, che sta nel dare largamente, è più vicina la prodigalità, eccesso, che non l’avarizia, negazione; e perché il prodigo è utile a molti e l’avaro a nessuno; e perché invecchiando la prodigalità si sana e l’avarizia si peggiora.
Quest. 120. L’epicheia. – 1. L’epicheia o equità è una virtù, perché è causa di atti buoni in quanto ci guida a praticare la legge scritta secondo che esige e il senso della giustizia e la pubblica utilità; per essa, ad esempio, neghiamo di restituire la spada che uno ci ha affidata se ce la domanda mentre è sulle furie. 2. L’epicheia o equità è parte della giustizia in qualità di regola superiore degli atti umani.
Quest. 121. La pietà. – 1. La pietà, che fa che prestiamo a Dio il debito culto ed onore per ispirazione dello Spirito Santo, è un dono dello Spirito Santo. 2. Al dono della pietà corrisponde la 2. beatitudine: Beati i miti, perché la mansuetudine toglie gli impedimenti agli atti di pietà.
Quest. 122. Precetti di giustizia. – 1. Se per la giustizia dobbiamo a ciascuno il suo, tutti i precetti del decalogo, che stabiliscono cosa dobbiamo in particolare a ciascuno, appartengono alla giustzia.
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2. Come primo precetto del Decalogo fu convenientemente messo quello che riguarda Dio ultimo fine, perché esso è il fondamento della vita religiosa e ne rimuove i principali ostacoli. 3. Come secondo precetto del Decalogo fu convenientemente messo quello che riguarda l’uso del santo nome di Dio, perché dopo il precetto che rimuove gli ostacoli alla religiosità deve venire quello che della religiosità impedisce le deviazioni, 4. e come terzo precetto del Decalogo fu convenientemente messo quello che riguarda il culto di Dio, perché rimossi gli ostacoli e le deviazioni della religiosità, l’uomo deve con opera positiva fondarsi nella Religione mediante l’esercizio del culto. 5. Come quarto precetto del Decalogo fu convenientemente messo quello che riguarda i genitori, perché così si passa dall’onore dovuto a Dio, come principio universale di tutti noi, all’onore dovuto ai genitori, come principio particolare di ciascuno di noi. 6. Gli altri sei precetti del Decalogo furono convenientemente disposti, come lo sono, dopo i primi quattro, perché così dopo l’onore di Dio e dei genitori viene specificato e graduato ogni debito che abbiamo col prossimo per distinte e particolari ragioni.
Quest. 123. La fortezza. – 1. Virtù è ciò che rende l’uomo buono, cioè conforme alla retta ragione; questo avviene in tre modi: I. la ragione viene rettificata, e questo è compito delle virtù intellettuali; II. la ragione rettificata viene applicata alle cose umane, e questo è compito della giustizia; III. si rimuovono gli impedimenti di una retta applicazione di essa ragione derivanti o da attrattive, e questo è compito della temperanza, o da difficoltà, e questo invece è compito della fortezza e anche la fortezza perciò è una virtù.
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2. C’è una fortezza generale, e questa è condizione di ogni virtù, ma c’è anche una fortezza speciale, che sta nell’affrontare i pericoli e nel sopportare le fatiche, e questa è una virtù speciale. 3. La fortezza si esercita quando il timore ci ritrae dalle difficoltà o quando l’audacia ci porterebbe agli eccessi, la fortezza perciò si dice repressiva del timore e moderativa dell’audacia. 4. La fortezza sostiene la volontà del bene di fronte ai mali corporali fino al più grande di essi; il più grande dei mali corporali è la morte, perciò la fortezza è contro il timore dei pericoli della vita. 5. La fortezza più propriamente è quella che si prostra nella battaglia, perché allora di fronte alla morte imminente la fortezza sostiene la volontà del bene comune da difendersi colla guerra: però la fortezza è anche degli altri pericoli di morte. 6. La fortezza sta più nel reprimere il timore che nel moderare l’audacia, perché quella è cosa più difficile di questa; perciò l’atto principale della fortezza non è aggredire, ma stare fermi nei pericoli. 7. Fine prossimo di chi è forte è un atto di fortezza, ma fine remoto è la beatitudine, cioè Dio. 8. Nell’esercizio della fortezza c’è il diletto spirituale dell’atto compiuto, ma c’è anche la molestia corporale della vita compromessa, questa di solito impedisce la percezione del diletto dell’anima, ma la fortezza impedisce che la ragione resti assorbita dalla molestia corporale. 9. La virtù della fortezza è propria sopratutto dei casi repentini, non nel senso che li sceglie di preferenza, perché essi non si scelgono ma capitano, bensì nel senso che vi tiene l’animo preparato. 10. Chi è forte nel compire un atto di fortezza fa uso della passione dell’ira, che di sua natura non è né buona,
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né cattiva, ma come virtuoso fa uso di un’ira moderata e non già di un’ira sregolata. 11. Se virtù cardinali sono quelle che fanno operare bene fermamente, questo è proprio sopratutto della fortezza, essa, quindi è una virtù cardinale; 12. essa tuttavia non è la maggior delle virtù cardinali, perché la prima è quella che è costitutiva del bene razionale cioè la prudenza; poi segue quella che del bene è produttiva, cioè la giustizia, infine vengono quelle che del bene sono conservative, cioè la fortezza e la temperanza, e fra queste due la precedenza spetta alla fortezza, perché nulla allontana dal bene più del pericolo di morte e di fronte a questo ci sostiene la fortezza.
Quest. 124. Il martirio. – Il martirio, per cui uno sta fermo nella verità e nella giustizia contro l’impeto dei persecutori, è un atto di virtù, 2. ed evidentemente è un atto della virtù della fortezza, perché è questa che rende fermi nel bene anche di fronte al pericolo di morte. 3. Il martirio è il più grande atto di virtù, se non secondo la fortezza, che non è la più grande delle virtù, certo però secondo la carità, che ne è il motivo, essendo esso il segno del più grande amore. 4. Il martirio è testimonianza della fede, che è delle cose invisibili, col disprezzo di tutte le presenti cose visibili, e della stessa vita che ne è la più grande; perciò il martirio è perfetto quando importa la morte per Cristo. 5. Il martirio è testimonianza alla verità di Cristo, e poiché tutte le virtù, in quanto si riferiscono a Dio, sono una implicita protestazione della fede, perciò non la sola fede, ma tutte le virtù possono essere causa di martirio.
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Quest. 125. La timidezza. – 1. Il timore disordinato, quello cioè che fa fuggire ciò che si deve tollerare per proseguire nel bene, è peccato; ma non è peccato il timore ordinato, quello cioè che fa fuggire ciò che la stessa ragione dice di fuggire. 2. Timore ce n’è in ogni vizio, così l’avaro teme sempre di perdere il suo denaro, ma il timore principale è quello del pericolo di morte; questo è opposto alla virtù della fortezza ed è un vizio che si chiama ignavia. 3. Il timore disordinato se è soltanto nella sensibilità non è più che peccato veniale, ma se è accompagnato da deliberata volontà di fuggire la morte o qualunque altro male a costo di commettere una trasgressione o omissione grave è peccato mortale. 4. Il timore disordinato, che però non sconvolge l’uso della ragione, non scusa dal peccato, ma tuttavia lo rende meno volontario.
Quest. 126. La temerità. – 1. La temerità, o disprezzo della propria vita, può derivare da scarso amore di se stesso, da superbia dell’animo o da stolidezza, e in ogni caso è un vizio. 2. Alla fortezza, che è repressiva del timore e moderativa dell’audacia, si oppone tanto la timidezza, che è un eccesso di timore, quanto la temerità, che è assenza totale di timore.
Quest. 127. L’audacia. – 1. L’audacia, passione naturale dell’appetito irascibile, quando non è regolata dalla ragione, ed è o con mancanza o con eccesso di moderazione, diventa un vizio; 2. ordinariamente poi l’audacia viziosa è l’audacia eccessiva e come tale è opposta alla fortezza in quanto, come la temerità, è mancanza del debito timore.
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Quest. 128. Parti della fortezza. – 1. Le parti integrali della fortezza, quelle cioè che ne rendono l’atto perfetto, sono 4: fiducia, magnificenza, pazienza e perseveranza; la fiducia e la magnificenza dispongono l’animo ad iniziare l’atto; la pazienza e la perseveranza sostengono l’animo a proseguirlo.
Quest. 129. La magnanimità. – 1. La magnanimità, come dice il nome, mira a cose grandi; fra le cose esterne dell’uomo la più grande è l’onore; quindi la magnanimità mira sopratutto agli onori; 2. anzi il nome stesso indica che mira, non agli onori comuni, ma ai grandi onori, come a qualche cosa di buono e di difficile, per cui occorre maggiore virtù; 3. ed è precisamente una virtù la magnanimità, perché essa relativamente agli onori pone nell’animo la giusta misura di ragione. Il magnanimo non è precipitoso, perché mira a cose che, in quanto grandi, sono poche ed esigono grande attenzione. Il magnanimo non è superbo; perché come non si innalza negli onori, non stimandoli superiori a sé, così cerca di rendersene degno secondo i doni ricevuti da Dio. 4. La magnanimità è una virtù speciale, perché ha una materia speciale, cioè gli onori, però, siccome l’onore è premio di ogni virtù, così la magnanimità è anche una virtù generale. 5. La magnanimità ha attinenza colla fortezza, perché, come la fortezza rende fermi di fronte al pericolo della vita, così la magnanimità rende fermi di fronte ai massimi beni da sperare e da conseguire. 6. Colla magnanimità poi ha attinenza la fiducia, la quale è forza della speranza, derivata da qualche con-
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siderazione, che dà grande opinione del bene da conseguirsi; 7. ed ha attinenza anche la sicurezza, che importa quiete d’animo, perché sebbene in quanto caccia il timore essa appartenga alla fortezza, tuttavia in quanto tiene lungi il disperare ha attinenza colla magnanimità. 8. I beni di fortuna molto conferiscono alla magnanimità, perché essa tende agli onori grandi; a questi non si può arrivare se non operando qualche cosa digrande e di far questo danno facoltà, colle forze e le amicizie, i beni di fortuna.
Quest. 130. La presunzione. – 1. La presunzione, come indica il nome, è assumersi e tentare ciò che supera le proprie forze; essa è quindi contro l’ordine naturale delle cose, è vizio e peccato. 2. La presunzione è contraria alla magnanimità essendone un eccesso.
Quest. 131. L’ambizione. – 1. Ciò che merita onore è una qualche eccellenza, e questa, se si ha, viene da Dio ed è data a bene del prossimo; l’ambizione invece, che aspira all’onore o non meritandolo, o non riferendolo a Dio, o riducendolo esclusivamente a proprio vantaggio, è un disordinato desiderio di onore, e perciò è peccato. 2. Anche l’ambizione, come la presunzione, si oppone alla magnanimità per eccesso.
Quest. 132. La vanagloria. – 1. Gloria, che vuol dire chiarezza, importa manifestazione di qualche cosa di decoroso, sia spirituale che corporale, coll’approvazione comune; ma desiderare gloria o da cosa che non merita, o presso persone di scarso giudizio o a scapito della gloria
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di Dio e del bene del prossimo è vanagloria, cioè desiderio di una gloria inutile e vuota; è difetto e peccato. 2. Siccome la gloria è effetto dell’onore e questo è oggetto della magnanimità, così la vanagloria si oppone alla magnanimità. 3. La vanagloria, quando non è contraria all’amore di Dio né quanto all’oggetto della vanagloria, né quanto all’intenzione di chi la desidera, non è peccato mortale, ma peccato veniale. 4. La gloria, molto affine all’eccellenza che tutti massimamente desiderano, è cosa anch’essa molto appetibile; da questo desiderio derivano molti vizi, esso quindi è un vizio capitale; 5. e i vizi, figli della vanagloria sono: la disobbedienza, l’ostentazione, l’ipocrisia, le contese, la pertinacia, la discordia e lo spirito di novità, secondoché alla manifestazione della propria eccellenza si mira con parole, o con fatti, direttamente o indirettamente.
Quest. 133. La pusillanimità. – 1. Quello che è contrario all’inclinazione naturale è contrario alla legge naturale, e c’è in tutti l’inclinazione di fare ciò che è commisurato alle proprie forze; a questa, come è contraria la presunzione per eccesso, così è contraria lapusillanimità per difetto; anch’essa quindi è vizio, è peccato. 2. Il più o il meno non cambia specie, perciò lamagnanimità e la pusillanimità sono della stessa specie e la pusillanimità è l’opposto della magnanimità.
Quest. 134. La magnificenza. – 1. La magnificenza in Dio è virtù, nell’uomo ne è una partecipazione, perciò anche nell’uomo la magnificenza è virtù. 2. Magnificenza vale fare cose grandi; il fare strettamente è verbo transitivo che ha un oggetto esteriore e in
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questo senso la magnificenza è una virtù speciale: se invece il verbo fare si prende nel senso generico di qualunque azione, sia interna che esterna, allora la magnificenza è una virtù generale. 3. La magnificenza mira a grandi opere per le quali ci vogliono grandi spese, perciò la materia della magnificenza sono le grandi spese; ma insieme ne sono materia anche il denaro e l’amore stesso al denaro per regolarlo così che non impedisca le grandi spese. 4. La magnificenza ha attinenza colla fortezza, perché, come la fortezza così anche la magnificenza tende a qualche cosa di arduo e di difficile.
Quest. 135. La grettezza. – 1. Mentre la magnificenza ha per materia le grandi spese, la grettezza ha per materia le spese piccole, ma poiché chi poco spende molto spende, così chi è gretto non tiene la giusta proporzione fra le spese e l’opera e la grettezza è quindi un vizio. 2. Poiché al piccolo si oppone il grande, perciò alla grettezza si oppone lo spreco, ambidue distanti dal giusto mezzo.
Quest. 136. La pazienza. – 1. La tristezza è un impedimento a fare il bene secondo ragione; la pazienza rimuove l’impedimento della tristezza e fa proseguire la via del bene, perciò la pazienza è virtù. 2. La pazienza non è la più grande virtù, perché, in confronto delle altre virtù che costituiscono l’uomo nel bene, essa è impeditiva di ciò che ritrae dal bene, ma in ultimo grado, ed è in questo che essa rende perfetta l’opera della virtù. 3. La pazienza, come virtù non si può avere senza aiuto della grazia celeste perché, mentre l’anima aborrisce naturalmente dai dolori, essere tuttavia disposti a tutti i
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dolori pur di non perdere il bene della grazia non può essere che effetto della carità. 4. La pazienza regge l’animo a sopportare i malanni; il massimo di questi è la morte ed a questo regge l’animo la fortezza, la pazienza quindi è parte della fortezza. 5. La pazienza conviene colla longanimità nel senso che la pazienza è tolleranza di un male, la longanimità però conviene di più colla magnificenza nel senso che questa è mira di un bene lontano.
Quest. 137. La perseveranza. – 1. La virtù ha per oggetto il bene difficile; dove c’è una speciale ragione del bene o del difficile ci vuole una speciale virtù; nell’attendere lungamente a qualche cosa di difficile c’è una speciale difficoltà; la perseveranza reggel’animo a questo, la perseveranza quindi è virtù ed è speciale virtù. 2. La perseveranza regge l’animo alle cose difficili; la più difficile di queste è la morte, alla quale regge l’animo la fortezza, la perseveranza quindi è parte della fortezza. 3. La costanza è parte della perseveranza, perché tendono ambedue allo stesso fine cioè alla fermezza nel bene; ma differiscono fra di loro in quanto la perseveranza rende fermi contro la difficoltà di attendervi lungamente, la costanza invece rende fermi contro le difficoltà esterne. 4. La perseveranza quale virtù ha bisogno del dono della grazia santificante, come tutte le virtù infuse; c’è poi la perseveranza finale, cioè l’atto di perseverare nel bene fino alla morte, e questa ha bisogno non solo della grazia santificante, ma anche di una grazia speciale, perché la sola grazia santificante non è sufficiente a rendere immobile nel bene il libero arbitrio che per sé è volubile.
Quest. 138. Vizi della fortezza – 1. Molle e cedevole è ciò che non resiste ma rientra e si ritira a ogni tocco;
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mollezza quindi o cedevolezza è il facile recesso dal bene per qualunque difficoltà: essa è contraria alla perseveranza, che è fermezza nel bene con lunga tolleranza di cose difficili e laboriose. 2. La pertinacia, ossia tenacia in tutto e tenacia imprudente per la persistenza nella propria opinione più di quanto è ragionevole, si trova all’estremo opposto della cedevolezza, ed anche è contro la perseveranza, che tiene il giusto mezzo di ragione.
Quest. 139. Il dono della fortezza. – 1. Se lavirtù della fortezza rende fermi nell’operare il bene e nel sopportare il male, la mozione dello Spirito Santofa che l’uomo giunga al fine di ogni opera buona cominciata sfuggendo a tutti i pericoli imminenti, cosa che eccede le forze della natura umana; e questo è un dono dello Spirito Santo, cioè il dono della fortezza, che consiste in una speciale fiducia infusa nell’animo escludente ogni contrario timore. 2. Al dono della fortezza corrisponde la 4. beatitudine, perché se la fortezza si mostra nelle cose ardue, una delle cose più ardue è non solo compiere le opere della giustizia, ma averne un insaziabile desiderio, cioè la fame e la sete.
Quest. 140. Precetti di fortezza. – 1. Fu conveniente che nella Sacra Scrittura Dio desse precetti di fortezza, perché tendono al fine degli altri precetti, cioè all’unione dell’anima con Dio; 2. e fu conveniente che i precetti fossero non soltanto relativi alla fortezza, ma anche alle virtù secondarie che sono parte della fortezza affinché siamo bene istruiti a vivere rettamente.
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Quest. 141. La temperanza. – 1. Virtù è ciò che inclina l’uomo al bene e bene è ciò che è conforme alla ragione; la temperanza inclina l’uomo a temperarsi, a moderarsi, a contenersi conforme alla ragione, la temperanza quindi è virtù; 2. anzi, presa nel senso che frena l’appetito in quelle cose che più delle altre allettano l’uomo, è una speciale virtù, perché ha una speciale materia. 3. Il bene di ragione è avversato da due moti dell’appetito sensitivo, uno che persegue i beni sensibili e corporali, l’altro che rifugge dai mali sensibili e corporali; il primo ripugna alla ragione, perché nel perseguire i beni sensibili, i quali per sé sono naturali e non contrari alla ragione, lo fa senza moderazione; il secondo ripugna alla ragione, perché fuggendo dai mali corporali, che sono uniti al bene di ragione, si fugge dal bene stesso: e come il secondo è regolato dalla fortezza, moderatrice fra il timore e l’audacia, così il primo è regolato dalla temperanza, moderatrice fra la concupiscenza dei diletti e la tristezza della loro mancanza; 4. e come la fortezza regge l’animo di fronte ai mali più grandi, così la temperanza contiene l’animo nei diletti più grandi; i diletti sono tanto maggiori quanto più naturali sono le operazioni da cui derivano; le operazioni più naturali sono quelle dell’istinto della conservazione dell’individuo e della specie e perciò la temperanza è relativa ai piaceri del gusto e del tatto, che ne conseguono. 5. La temperanza è direttamente relativa al diletto derivante dall’uso di ciò che è necessario alla conservazione; in questo è prevalente il gusto, perciò la temperanza è più propriamente del gusto. 6. Bene è ciò che è conforme alla ragione e di questa è proprio disporre dei mezzi in ordine del fine; perciò la regola della temperanza va presa secondo la necessità della vita, per cui dei piaceri si deve far uso tanto, quanto la necessità di questa vita lo esige.
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7. La temperanza è una virtù cardinale, perché la moderazione, che è la regola comune delle virtù, ha lode particolare nella temperanza di quei diletti per i quali, venendo essi da operazioni che sono le più naturali e da oggetti che sono i più necessari alla vita, è più difficile l’astensione e il freno. 8. Come il bene pubblico è da anteporsi al privato, così le virtù che hanno attinenza col bene pubblico, quale è la giustizia, sono da anteporsi a quelle che hanno attinenza col bene privato, quale è la temperanza; essa quindi non è la virtù più grande.
Quest. 142. Vizi contrari. – 1. Fu la natura che unì il diletto alle operazioni necessarie alla vita; ciò poiché è contro l’ordine naturale è vizioso, perciò come non si deve cercare, così non si deve il diletto fuggire oltre quanto è necessario alla salute umana e alla conservazione della natura; e nel fuggirlo sta la insensibilità, che perciò è difetto, è vizio. 2. L’intemperanza è un vizio bambinesco, non perché sia proprio dei bambini, ma perché è della loro indole, cioè poco ascolta la ragione, diventa presto incorreggibile ed ha bisogno di castigo. 3. L’intemperanza ha dei punti di contatto colla ignavia, questa ha per oggetto il pericolo di morte, quella invece i piaceri della vita, ma mentre l’ignavo è turbato nella ragione, l’intemperante è più sollecitato, perciò l’atto volontario è maggiore nell’intemperanza ed essa è un peccato maggiore dell’ignavia; 4. l’intemperanza poi, essendo il vizio che più ripugna alla dignità umana, perché ha per oggetto i diletti che abbiamo comuni coi bruti e perché il lume di ragione, che è lo splendore della virtù, poco o nulla vi ha parte, è ciò che vi ha di meno degno di onore, è il vizio più obbrobrioso.
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Quest. 143. Parti della temperanza. – 1. Della temperanza sono parti integrali, necessarie cioè alla perfezione dell’atto: la verecondia e l’onestà; sono parti soggettive, ossia specie: l’astinenza, la sobrietà, la castità e la pudicizia; sono parti potenziali, ossia virtù relative agli atti secondari: la continenza, l’umiltà e la mansuetudine per gli atti dell’animo, e la modestia per gli atti del corpo.
Quest. 144. La verecondia. – 1. La verecondia ossia vergogna di un atto turpe, essendo conseguenza di un’azione cattiva, non è propriamente virtù, che è una perfezione; essa è piuttosto un sentimento lodevole; però ordinariamente e in largo senso si prende come virtù, che facendo temere l’obbrobrio ritrae dal male; 2. la verecondia quindi, che è timore della turpitudine, direttamente riguarda il vituperio, che è la turpitudine penale, e indirettamente riguarda il vizio, cui il vituperio è dovuto. 3. Ci vergogniamo più davanti ai congiunti, che agli stranieri, perché reputiamo di più il giudizio dei congiunti, e perché la loro testimonianza ci è quasi sempre addosso, mentre quella degli stranieri è fuggitiva. 4. Non temono vergogna gli scellerati che ne hanno perduto il sentimento e di nulla più ritengono si debba vergognarsi, e nemmeno la temono i vecchi ed i virtuosi, che la ritengono non più possibile per loro e facilmente evitabile.
Quest. 145. L’onestà. – 1. Onestà è stato di onore, l’onore si deve alla virtù, perciò onestà equivale a virtù. 2. Onesto è lo stesso che decoroso, cioè bello, ma bello di bellezza spirituale, che consiste in questo chel’agire e il conversare dell’uomo sia proporzionato alla chiarezza spirituale della ragione.
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3. Onesto, dilettevole e utile soggettivamente sono lo stesso, così la virtù è decorosa, è oggetto di compiacenza ed è utile alla felicità; ma nel significato differiscono, perché onesto è ciò che splende di bellezza spirituale; dilettevole è ciò che appaga il desiderio, utile è ciò che serve ad uno scopo; e se tutto ciò che è onesto e utile è anche dilettevole, non tutto che è dilettevole è anche onesto o utile. 4. L’onestà è parte integrale della temperanza, perché se la temperanza trattiene dalle cose turpi, l’onestà importa bellezza spirituale che è l’opposto del turpe.
Quest. 146. L’astinenza. – 1. L’astinenza, o sottrazione di cibo, per sé è indifferente; ma se è regolata dalla ragione, allora è virtù; 2. ed è virtù speciale, perché trattiene l’uomo dall’impeto speciale di passione verso i piaceri della gola.
Quest. 147. Il digiuno. – 1. Il digiuno, regolato dalla ragione pel conseguimento di un triplice bene, e cioè: I. a reprimere la concupiscenza, II. ad elevare la mente, III. a far penitenza dei peccati, è un atto di virtù; 2. ed è atto della virtù dell’astinenza, perché esso riguarda i cibi, relativamente ai quali è l’astinenza che ci regola. 3. Il digiuno in quanto corrisponde al conseguimento del suo triplice bene è di diritto naturale e ciascuno vi è tenuto quanto gli è necessario per conseguirli; ma la sua determinazione pratica è di diritto positivo e spetta alla Chiesa; 4. e ad esso sano tenuti tutti, eccetto coloro che ne hanno uno speciale impedimento; il legislatore infatti guarda alla moltitudine e alla generalità, ma non intende
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di obbligare chi ragionevolmente è impedito di osservare il precetto. 5. Fu poi convenientemente fissato il digiuno per quei tempi nei quali c’è una ragione particolare di purgare i peccati e di elevare la mente a Dio, come è il tempo di quaresima, delle tempora e delle vigilie; 6. ed è ragionevole la legge dell’unica cogestione, perché così e si soddisfa alla natura e si frena la concupiscenza. È fissato il numero delle comestioni, ma non la quantità del cibo. I liquidi sono permessi, perché servono più alla digestione che alla nutrizione. 7. Affinché poi davvero si ottenga che mentre si soddisfa la natura si freni la concupiscenza, l’ora dell’unica cogestione fu fissata quando la digestione precedente è da parecchio tempo completa; in memoria poi dell’ora in cui spirò Gesù fu stabilita l’ora nona; 8. e a chi digiuna, per lo scopo stesso del digiuno fu giustamente interdetto l’uso delle carni, delle uova e dei latticini, perché questi sopratutto sono deliziosi e provocanti il senso.
Quest. 148. La gola. – 1. Essendo la gola un appetito di mangiare e bere, ma disordinato, cioè contrario all’ordine della ragione, la gola evidentemente è un peccato. 2. La gola poi è un peccato mortale, quando fare cedere dall’ultimo fine, ossia fa riporre l’ultimo fine nei piaceri del ventre; altrimenti è peccato veniale. 3. Benché la gola sia occasione di tanti peccati, essa tuttavia non è il più grande peccato, perché sono maggiori per es. i peccati che sono contro Dio. 4. Le diverse specie della gola furono distinte secondo le sue condizioni contenute nel verso:
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«Praepropere, laute, nimis, ardenter, studiose » e che riguardano la sostanza, la qualità, la quantità dei cibi il tempo e il modo di mangiare. 5. Essendo i piaceri della gola una cosa molto appetibile, per raggiungere la quale si commettono molti peccati, perciò la gola è un peccato capitale. 6. Sono figlie della gola: la scipitezza, la scurrilità, l’immondezza, la loquacità, e l’ottusità di mente; vizi altri dell’anima, altri del corpo.
Quest. 149. La sobrietà. – 1. La sobrietà, in quanto virtù, ha per oggetto ciò in cui c’è la ragione del bene e del difficile; e poiché sobrietà significa giusta misura, essa si esercita dove è difficile osservarla, cioè nelle bevande inebrianti, in cui l’uso misurato molto giova e l’eccesso molto nuoce: la sobrietà quindi riguarda sopratutto il bere, quel bere cioè che per i suoi fumi turba la mente; 2. e poiché il bere inebriante, che colla sua fumosità turba il cervello, è uno speciale impedimento al bene della ragione, la sobrietà, che mira ad impedirlo, è una speciale virtù. 3. Il vino non è illecito, per sé, ma può diventare illecito per accidens quando chi lo beve o è debole di stomaco, o è legato da un voto, o eccede nella misura, o dà scandalo. 4. A misura poi del pericolo del vino e della condizione delle persone si richiede una maggiore sobrietà dai giovani, di per sé ardenti; dalle donne, troppo deboli; dai vecchi, perché mai venga a loro meno l’assennatezza; dai prelati, per la gravità dei loro uffici.
Quest. 150. L’ubbriachezza. – 1. L’ubbriachezza, come stato di chi per il troppo vino ha perduto l’usodella ragione, è una penalità della colpa; l’ubbriachezza invece
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come atto di chi per disordinata voglia e uso di vino cade in quello stato è un peccato, a meno ciò avvenga inopinatamente, perché il vino era troppo forte; ed è peccato di gola. 2. Chi sa e che il vino è potente e che può restare ubbriacato e vuole restare ubbriacato commette peccato mortale, perché si priva dell’uso della ragione, e si compromette a fare il male. 3. L’ubbriachezza non è il più grande peccato, perché i peccati per es. che sono contro Dio sono più gravi. 4. L’ubbriachezza quanto meno fu volontaria tanto più scusa dai peccati che in essa si commettono, ma li aggrava se fu volontaria e appositamente procurata.
Quest. 151. La castità. – 1. Castità significa castigata concupiscenza, la quale ha bisogno di essere frenata come un fanciullo, ed evidentemente è virtù. 2. In tal senso di castigata concupiscenza e presa metaforicamente come freno di qualunque piacere ossia di ogni unione dell’anima con ciò che non è Dio, è una virtù generale; ma nel senso suo proprio è virtù speciale, perché è freno speciale della concupiscenza relativamente ai piaceri impuri; 3. ed è distinta dalla temperanza, che riguarda i cibi, perché questa regola gli atti relativi alla conservazione dell’individuo e quella regola gli atti relativi alla conservazione della specie. 4. La pudicizia, che ha nome dal pudore o vergogna, ha per oggetto ciò di cui ci vergogniamo e sono gli atti in cui si manifestano quei piaceri impuri che sono invece partita della castità; perciò la pudicizia è distinta dalla castità e ne è parte.
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Quest. 152. La verginità. – 1. Verginità vale verdeggiante età, immune dall’arsura prodotta dalla concupiscenza: la verginità formale e completa sta nel proposito di astenersi sempre dai piaceri impuri; mentre la perdita impura, che di essi è causa, ha relazione soltanto materiale coll’atto morale, e la violazione del fiore o sigillo verginale ha coll’atto morale relazione soltanto accidentale. 2. La verginità non è illecita perché non è viziosa, è invece lodevole perché utile al bene supremo dell’uomo, che è la contemplazione della verità; e come è conforme a ragione astenersi da qualche cosa esterna per la salute del corpo così è conforme a ragione astenersi da qualche cosa del corpo per la salute dell’anima. 3. Il proposito di astenersi sempre da qualunque piacere carnale, in cui consiste la verginità è distinto dal proposito, in cui consiste la castità, di astenersi cioè dai disordini in tali piaceri, perciò la verginità è una virtù speciale, distinta dalla castità e di tanto ad essa superiore di quanto la magnificenza supera la liberalità. 4. Se il matrimonio ha per oggetto un bene di carattere corporale, cioè la prole, e la verginità invece ha per oggetto un bene di carattere spirituale, cioè la contemplazione della verità, è certo che la verginità è migliore del matrimonio con castità coniugale, comel’anima è migliore del corpo. 5. Nel genere della castità la verginità è la più grande virtù; non è però essa la giù grande di tutte le virtù; ma lo è la carità, che consiste in quell’unione con Dio, cui la stessa verginità serve.
Quest. 153. La lussuria. – 1. Lussurioso vale dissoluto nei piaceri, e poiché sono sopratutto i piaceri impuri quelli che portano la dissoluzione nell’anima, perciò la lussuria è sopratutto il vizio dei piaceri impuri.
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2. Come è un bene la conservazione dell’individuo, così è un bene la conservazione della specie, perciò l’uso dei piaceri carnali, in quanto si accorda con questo fine secondo l’ordine della ragione, può essere senza peccato; 3. data però l’importanza di tale fine qualunque cosa sia contro l’ordine della ragione è vizio e peccato; 4. e poiché il piacere carnale, che è oggetto della lussuria, ha molta attrattiva e per esso gli uomini commettono molti peccati, perciò la lussuria è un peccato capitale. 5. Poiché poi nella lussuria le potenze inferiori lottano potentemente contro le potenze superiori, quando le potenze inferiori vincono, le superiori, cioè la ragione e la volontà, restano molto scompigliate e ne seguono, come figlie della lussuria: la cecità della mente, l’inconsideratezza, la precipitazione e l’incostanza nel giudizio della mente; l’amore di se stesso, l’odio di Dio, l’amore della vita presente e l’orrore della futura nellavolontà.
Quest. 154. Parti della lussuria. – 1. Secondo l’oggetto dell’atto impuro le specie della lussuria sono 6: fornicazione, adulterio, incesto, stupro, ratto e peccato contro natura. 2. La fornicazione in sé rappresenta una vita umana, quella della prole, messa in pericolo quanto all’educazione, per il cui bisogno gli stessi animali si accoppiano e fanno nido; quel pericolo poi è un grave nocumento alla sicurezza della vita umana; la fornicazione quindi ha in sé una gravità naturale. La Sacra Scrittura poi la qualifica un peccato che fa perdere il Paradiso, cioè un peccato mortale. 3. Anzi essendo un peccato che nuoce non all’individuo, ma alla specie, è un peccato molto grave; benché sia inferiore per gravità ai peccati che sono p. es. contro Dio.
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4. Quando lo si fa senza malizia e per costume del luogo, abbracciarsi e darsi un bacio non è peccato; ma se invece lo si fa per il piacere della lussuria, allora è peccato mortale. 5. Un disordine che avvenga mentre si dorme, mancando allora l’uso della ragione, non è peccato, purché non si sia colpevoli in causa, e la causa può essere interna, cioè il corpo e la mente, ed esterna, cioè ildiavolo. 6. Lo stupro, essendo fornicazione con chi è vergine ed è ancora sotto la tutela del padre, è un peccato distinto, che aggiunge alla malizia della fornicazione e il danno fatto alla persona vergine e l’ingiuria fatta a chi ne è padre. 7. Il ratto, consistendo nel rapire una persona a scopo di lussuria, è un peccato speciale perché aggiunge alla malizia della lussuria la violenza fatta alla persona. 8. L’adulterio, cioè peccato di lussuria di persona unita in matrimonio con un’altra, è per questo un peccato che alla malizia della lussuria aggiunge l’ingiustizia verso il coniuge tradito e il danno verso la propria e l’altrui prole, al cui bene dell’educazione sinuoce. 9. L’incesto, ossia peccato fra congiunti, è un peccato distinto, che aggiunge alla malizia della lussuria l’irriverenza a’ propri congiunti e alle domestiche pareti. 10. Il sacrilegio, ossia peccato di persona consacrata a Dio, aggiunge alla malizia della lussuria la lesione del carattere sacro, ed è perciò un peccato speciale. 11. Il peccato contro natura non solo ripugna alla retta ragione, ma è anche contro l’ordine di natura, perciò è un atto distinto, 12. ed insieme è il più grave dei peccati contro la purità.
Quest. 155. La continenza. – 1. La continenza perfetta, cioè astinenza da qualunque piacere carnale, è lo stesso
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che verginità; la continenza invece, che è freno della veemenza dei desideri cattivi, è virtù in senso largo; 2. ed è precisamente freno dei desideri di atti impuri, ha quindi per oggetto i piaceri del tatto. 3. Essa poi è bensì freno dell’appetito concupiscibile, ma, come virtú, è propria della volontà. 4. La continenza perfetta è la stessa temperanza, la continenza invece, che è virtù in largo senso, fa parte della temperanza.
Quest. 156. L’incontinenza. – 1. Degli animali nonsi dice che abbiano né continenza, ne incontinenza; sene parla invece solo dell’uomo che ha l’anima ragionevole, l’incontinenza perciò è cosa dell’anima e il corpo colle sue passioni ne è soltanto l’occasione. 2. L’incontinenza, o mancanza di freno, nei piaceri impuri è peccato doppio, cioè recesso dalla retta ragione e immersione nelle cose turpi; nei desideri di onori, di ricchezze e simili è peccato semplice, cioè recesso dalla retta norma della ragione; nel desiderio di cose nobili invece non è peccato, ma virtù. 3. In confronto dell’intemperanza, l’incontinenza è meno grave, perché consiste nella mancanza di freno in qualche momento di passione, mentre l’intemperanza è una inclinazione abitualmente cattiva. 4. In confronto invece dell’ira, come passione, l’incontinenza turpe è peggiore dell’incontinenza d’ira, perché è un disordine più grave contro la ragione; ma, come effetti, quelli dell’ira sono più gravi perché nuocciono al prossimo.
Quest. 157. Clemenza e mansuetudine. – 1. Clemenza e mansuetudine, benché gli effetti siano eguali, non sono lo
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stesso, perché la clemenza è propria dei superiori soltanto, la mansuetudine invece è propria di tutti; 2. ambedue tuttavia sono virtù, perché frenano l’ira a norma della retta ragione; 3. e fanno parte della temperanza, di cui è proprio il frenare le passioni. 4. Benché siano inferiori alle virtù teologali, tuttavia hanno un’eccellenza particolare, perché la mansuetudine frena l’ira, che altrimenti impedisce di giudicare liberamente la verità, e la clemenza avvicina alla carità, che è la più grande delle virtù.
Quest. 158. L’iracondia. – 1. L’ira è una delle passioni; queste sono cattive quando fanno contro la ragione, perché si volgono a un cattivo oggetto ovvero nel modo eccedono o mancano: l’ira quindi, se ècontro la retta ragione, è cattiva, se invece è conforme alla retta ragione, è buona; 2. perciò l’ira, se è desiderio che si faccia quella vendetta che è di ragione diventa zelo ed è lodevole, purché il moto d’ira non sia esagerato; se invece è desiderio di una vendetta ingiusta, o immeritata, cioè, od esagerata, allora l’ira è cattiva, è vizio; 3. ed è peccato mortale l’ira, che è desiderio di vendetta ingiusta, perché è contro la giustizia e la carità, a meno che si tratti di piccola cosa; il moto invece troppo acceso dell’ira è in sé peccato veniale, a meno che trascenda tanto da rompere la carità verso Dio e verso il prossimo. 4. L’ira, che è desiderio di vendetta cioè di punizione per il bene, è per questo lato meno grave dell’odio e dell’invidia, ma quanto al suo moto che è di scatti pronti e violenti la vince sugli altri peccati. 5. Gli iracondi sono o acuti, che pungono per ogni piccola cosa; o amari, che si legano le offese ad un dito; o difficili, che non la perdonano più.
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6. Per la vendetta, a cui si è tanto propensi, e per gli scatti di collera, di cui si è tanto facili, si commettono tanti peccati; dall’ira quindi derivano tanti vizi ed essa è un peccato capitale, 7. e sono figlie dell’ira, secondoché essa è o nel cuore, o sulla bocca, o negli atti: le risse, la bile, le offese, gli schiamazzi, l’indignazione e la bestemmia. 8. Dal mancare poi di ira, anche quando la retta ragione vuole che ci si agiti, deriva il vizio opposto all’ira, che si chiama apatia.
Quest. 159. La crudeltà. – 1. La crudeltà, che è cruda ed aspra, si oppone alla mansuetudine, che invece è lene e dolce. 2. La crudeltà differisce dalla ferocia quanto la malizia umana differisce dalla bestialità.
Quest. 160. La modestia. – 1. A freno delle concupiscenze carnali di gola e di lussuria, che sono le più difficili a frenarsi, c’è la temperanza; a moderare invece le altre concupiscenze c’è la modestia, virtù che fa parte della temperanza; 2. essa ha per oggetto non soltanto le azioni esteriori, ma anche gli atti interni, ed è umiltà quando moderale spinte a primeggiare, è studiosità quando modera la curiosità di sapere, è decoro quando modera gli atti sia seri che scherzevoli, ed è eutrapelia quando modera il divertimento del giuoco.
Quest. 161. L’umiltà. – 1. Relativamente ad un bene arduo è necessaria una duplice virtù, una che ecciti e una che impedisca all’eccitazione di riuscire eccessiva; alla magnanimità quindi, che eccita, occorre il contrappeso
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di una virtù, che sia freno all’animo, affinché non tenda smodatamente a cose alte; tale virtù è l’umiltà. 2. Questo freno viene dal conoscere ciò che è sproporzionato alle proprie forze; cosicché la cognizione dei propri difetti è per l’umiltà la regola direttiva e l’umiltà consiste nello stesso freno dell’appetito. 3. Di quanto c’è in noi, quello che è bene viene da Dio, quello che è difetto viene da noi stessi; perciòciascuno, mettendosi a confronto col prossimo e quanto al bene che ha da Dio e quanto al male che ha da se stesso, deve essere prono all’umiltà generalmente con tutti. 4. L’umiltà, che è freno dell’animo, è parte della temperanza. 5. L’umiltà è la più grande delle virtù; però dopo le virtù teologali; dopo le virtù intellettuali che informano la stessa ragione ordinatrice e dopo la giustizia, che costituisce l’ordine universale, essendo l’umiltà un particolare ordinamento della ragione. 6. S. Benedetto enumera 12 gradi di umiltà, dei quali il primo è: «mostrare sempre umiltà di cuore e di corpo», e l’ultimo è: «temere Iddio e ricordarsi d’ogni suo precetto»; e così dall’infima manifestazione di umiltà si arriva al fondamento, che è il timor di Dio.
Quest. 162. La superbia. – 1. Superbia vale «sopra ciò che si è pretendere », essa è contro la retta ragione, la quale vuole che la volontà di ciascuno tenda a ciò che gli è proporzionato, perciò è peccato; 2. ed è un peccato speciale in quanto consiste in tale disordinato desiderio della propria eccellenza; in quanto poi questo disordinato desiderio si riversa negli altri peccati, per cui o gli altri peccati servono alla superbia o per la superbia si disprezzano i comandamenti di Dio, la superbia diventa un peccato generale.
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3. Oggetto della superbia è qualche cosa di arduo, e l’arduo è l’oggetto proprio dell’appetito irascibile; la superbia quindi si trova nell’irascibile, preso in senso stretto, se si tratta di cose sensibili, preso in senso largo, se si tratta di cose spirituali. 4. Quattro sono le specie della superbia: I. credersi autori del proprio bene; II. i doni del cielo riputarli dovuti ai propri meriti; III. vantarsi di ciò che non si ha; IV. disprezzare gli altri per essere singolari in ciò che si ha. Così S. Gregorio Magno. 5. Se l’umiltà è soggezione anzitutto a Dio, la superbia, che le è contraria, è ribellione anzitutto a Dio; nel distacco da Dio sta la morte dell’anima, perciò la superbia è un peccato di genere mortale, sorgente dal ricusare soggezione a Dio e alla sua legge; è veniale soltanto se non ci sono questi estremi o se l’atto volontario è imperfetto. 6. La superbia anzi è il più grande dei peccati, se non per il suo oggetto, certo però per la ribellione aDio che essa rappresenta. 7. E poiché la ribellione a Dio porta per conseguenza il trasgredirne i precetti, perciò la superbia è il primo peccato e il principio degli altri; 8. la superbia quindi, come peccato speciale, è un peccato capitale, fonte di altri peccati i e inoltre come peccato generale, per la sua influenza su tutti gli altri peccati, è la regina dei peccati, come la chiama SanGregorio.
Quest. 163. Il peccato del primo uomo. – 1. Il peccato del primo uomo, dato il suo stato di innocenza, non poteva essere di concupiscenza della carne dalla quale era immune; resta perciò che sia stato di desiderio di un bene spirituale a lui sproporzionato, il che è superbia; perciò il primo peccato fu di superbia; 2. e il bene spirituale sproporzionato cui tese Adamo fu la somiglianza con Dio; non la somiglianza diseguaglian-
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za, perché è impossibile ed egli non era così sciocco da non capirlo, ma la somiglianza di imitazione, la quale è di tre specie: di natura, di cognizione, e di operazione; quella di natura Adamo l’aveva già; quella di cognizione l’avevano gli Angeli e non l’uomo; quella di operazione non l’avevano né gli angeli, né l’uomo: Lucifero peccò aspirando all’imitazione di operazione; Adamo peccò aspirando all’imitazione di cognizione per fissarsi da sé la regola del bene e del male e passare poi alla somiglianza di operazione. 3. Il peccato di Adamo fu il giù grave di tutti, se non nella sua specie, perché la bestemmia per es. è più grave, certo però nelle circostanze della persona elle lo commise, data la perfezione del suo stato. 4. Il peccato di Adamo fu più grave del peccato di Eva, se si guarda alla persona di chi peccò, perché Adamo era uomo e più forte di Eva; ma se si guarda al peccato stesso di superbia, il peccato di Eva fu maggiore, perché essa credette al serpente e indusse al peccato anche Adamo, il quale peccò per essere a lei compiacente: perciò Eva fu punita più gravemente di Adamo.
Quest. 164. Pene del primo peccato. – 1. Quando per una colpa si è privati di un dono che si aveva ricevuto, la privazione di quel dono diventa la pena della colpa. Adamo aveva ricevuto la immunità dalla morte e dai difetti corporali come privilegio dello stato di innocenza; e cioè alla sua dipendenza a Dio corrispondeva in lui la dipendenza perfetta delle potenze inferiori alle superiori e del corpo all’anima spirituale in una specie di assorbimento: a questo successe il dissolvimento e la ribellione, in corrispondenza alla sua ribellione a Dio; ne seguirono per conseguenza la morte e i dolori, pene del peccato. La morte è naturale al corpo per la condizione della materia, che è scomponibile; ma è anche una pena a
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cagione della perdita di quel dono, che preservava dalla morte. 2. La Scrittura determina esattamente le pene che derivarono in Adamo ed Eva dalla privazione di quel dono che avrebbe conservato l’integrità della natura umana. Il luogo competente al loro stato, cioè il Paradiso terrestre, non fu più quello e ne seguirono in loro tali impedimenti da non poterlo più riacquistare; furono inflitte a ciascuno pene di corpo secondo conveniva alloro sesso; e furono inflitte pene di anima, consistenti sopratutto nella vergogna e nel rimpianto della colpa passata e nello spettro continuo della morte futura.
Quest. 165. La tentazione dei progenitori. – 1. Anche della natura umana è proprio che le altre nature le siano o di aiuto o di ostacolo; nessuna sconvenienza al quindi se Dio permise che gli angeli cattivi tentassero Adamo come fece che gli angeli buoni lo aiutassero; mentre poi egli aveva, per grazia speciale, che nulla potesse nuocergli contro volontà. 2. L’uomo ha una doppia natura: intellettiva, sensitiva; e nella prima tentazione fu tentato in ambedue; nella intellettiva per il desiderio della somiglianza con Dio e nella sensitiva per mezzo e di un pomo, di un serpente e di una donna.
Quest. 166. La studiosità. – 1. Lo studio è applicazione della mente a una cosa, e si effettua nella cognizione della cosa, alla quale poi segue l’uso della cognizione; ma siccome le virtù si specificano dal loro oggetto principale, perciò la studiosità è relativa alla cognizione e non al suo uso. 2. Essa modera il desiderio di cognizione e poiché moderare i desideri è oggetto della temperanza, perciò la
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studiosità, che sta fra la negligenza e la curiosità, fa parte della temperanza.
Quest. 167. La curiosità. – 1. La cognizione della verità in sé è buona, ed è accidentalmente cattiva quando uno se ne insuperbisce o se ne serve per peccare: altrettanto il desiderio del sapere può essere buono, ma può essere anche cattivo o per il fine cui tende, cioè o insuperbirne o servirsene a peccare; o per un disordine che ha in sé, che si verifica; I. quando distoglie da uno studio più necessario; II. quando fa rivolgersi a chi non si deve; III. quando si studia la natura per obliarne l’autore; IV. quando per voler studiare cose superiori nonsi imparano che errori. In tali cose il desiderio di sapere è curiosità viziosa. 2. La cognizione sensitiva è necessaria per provvedere alle necessità della vita, ed è via alla cognizione intellettiva ed allora è buona; ma la curiosità dei sensi che distrae dallo studio o che porta al male, come sarebbero i pensieri cattivi dal guardare cose pericolose, o le mormorazioni dall’osservare sottilmente i fatti altrui; è una curiosità peccaminosa.
Quest. 168. La modestia esterna. – 1. Le membra sono mosse dall’anima, il loro moto è quindi regolabile dalla ragione; e quando il moto delle membra è regolato in ordine al decoro della persona e dell’ambiente in cui si trova, allora c’è la virtù della modestia esterna. 2. Come il corpo ha bisogno di riposo, così l’animo ha bisogno di sollievo, altrimenti «l’arco troppo teso si spezza». Ma il sollievo si deve cercare non nelle cose turpi e non con jattura della propria dignità o prestigio, ma sempre in modo conveniente alle circostanze di tempo, luogo e persone; in ciò sta l’eutrapelia.
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3. Nel giuoco può esserci sregolatezza o dello stesso giuoco, che può essere o contro la purità o contro la carità, ed è peccato mortale; o delle circostanze di tempo, luogo e persona, ed allora di solito è peccatoveniale. 4. Come è contro ragione l’eccesso, così è contro ragione e peccaminoso il difetto nel giuoco e consistein quella che si dice musoneria e selvatichezza.
Quest. 169. Modestia nel vestire. – 1. Circa il vestire c’è una virtù, che consiste nell’evitare tutto ciò che vi è di vizioso; questo poi può trovarsi e nella foggia del vestire contraria ai costumi umani; e nel vestito troppo lussuoso che può avere senso o di libidine o di pompa, o di troppa delicatezza o di troppa ricercatezza; e anche nel vestito troppo trasandato quando lo è o per poltroneria o per ambizione nascosta; 2. quanto poi alle donne c’è da aggiungere che il loro abbigliamento provoca gli uomini alla lascivia; perciò se si tratta di una donna che ha da piacere al marito non è peccato; ma se si tratta di chi non ha da piacere a nessuno è peccato ed anche peccato mortale se c’è lo scopo perfido di provocare l’altrui concupiscenza; non così se lo si fa per leggerezza e vanità.
Quest. 170. Precetti di temperanza. – 1. Poiché scopo dei Comandamenti è ottenere la carità di Dio e del prossimo, era conveniente fissare precetti di temperanza specialmente in ciò che più contraria quello scopo, furono perciò dati il 6 e il 9 comandamento, 2. e per lo stesso scopo fu anche conveniente che fossero aggiunti precetti delle virtù connesse con la temperanza per impedire l’ira, per cui si offende il prossimo, e la superbia, per cui si nega il debito onore ai genitori.
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Quest. 171. Profezia. – 1. Profezia significa visione di cose remote e la visione appartiene alla cognizione, perciò la profezia consiste primieramente nella cognizione; secondariamente consiste nella locuzione, cioè nella manifestazione delle visioni, e in terzo luogo consiste anche nel fare miracoli a conferma della verità di ciò che si profetizza. 2. Per la visione è necessario il lume, lume intellettuale se la visione è intellettuale; lume poi intellettuale superiore se la visione intellettuale supera la capacità naturale; tale è la profezia per l’uomo. Il lume intellettuale può essere o permanente, come la luce del sole, o transeunte, come la luce nell’aere; ma nei profeti esso non è permanente, perché non sempre sono in grado di profetare; resta quindi che la Profezia è un atto transeunte e non un abito permanente: 3. essendo però esso un lume divino, la visione profetica si estende a tutte le cose, come la luce corporale si estende a tutti i colori; e tale visione essendo di cose remote, è non solo di ciò che supera l’intelligenza comune e di ciò che di fatto a nessuno è noto benché lo possa essere, ma anche si estende a ciò che a nessuno può essere noto se non a Dio, quali sono i futuri eventi umani, e questa è propriamente profezia. 4. Conosciuto perfettamente un principio in tutta la sua forza, si conosce anche tutto ciò cui si estende; conosciuto invece imperfettamente, si conosce soltanto ciò in cui esso si fa rilevare; il principio di tutto ciò che è profetabile è la verità divina, ma questa i profeti non la vedono in se stessa, perciò i profeti conoscono soltanto ciò che loro viene rivelato. 5. La mente del profeta viene istruita o per mezzo di un’espressa rivelazione o per un istinto che essa inconsciamente subisce; nel primo caso il profeta sa distinguere ciò che viene dallo spirito di profezia da ciò che viene dal suo; nel secondo caso no.
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6. La profezia è partecipazione della verità divina; alla verità divina la falsità è impossibile, è impossibile quindi la falsità anche alla profezia. Non si avverò qualche profezia condizionata, come quella di Ninive, perché non si avverò la condizione.
Quest. 172. La profezia nelle sue cause. – 1. La profezia è visione delle cose remote in se stesse e non già previsione di eventi futuri nelle loro cause; questa è possibile agli uomini perché naturale, ma quella no, perché può aversi soltanto per rivelazione divina in quanto preconoscere i futuri in se stessi è proprio esclusivamente dell’intelletto divino. 2. Di tale rivelazione la Scrittura ci dice che sono ministri gli Angeli, i quali possono illuminare l’intelletto umano. . Dipendendo la vera profezia esclusivamente da rivelazione divina, non c’ è predisposizione naturale a essa; e Dio nel fare rivelazioni può infondere la necessaria disposizione e anche crearne il soggetto. 4. Non si esige nemmeno come predisposizione la santità; perché essa è propria della volontà, mentre la profezia è propria dell’intelletto: può però la malvagità essere impedimento al dono della profezia. 5. La profezia propriamente detta, essendo visione degli eventi umani futuri in se stessi, è di cosa che è propria esclusivamente dell’intelletto divino, non può perciò aversi dal diavolo, il quale quindi, per quanto sia di acuto intelletto, non può fare che profeti falsi; 6. i quali però, dato l’acume dell’intelletto diabolico, possono insieme alle falsità intoppare a dire qualche cosa di vero.
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Quest. 173. Mezzi della cognizione profetica. – 1. Poiché la visione della divina essenza è riservata all’altra vita, e la divina essenza è semplice e non si può quindi distinguere in lei l’oggetto della beatitudine pei santi e lo specchio dell’eternità per i profeti; i profeti non videro la divina essenza, né, quello che videro, lo videro nella divina essenza, bensì in qualche similitudine o specchio della divina essenza. 2. La visione profetica si compie talora per influenza del lume divino sulle nozioni già possedute, talvolta coll’infusione di nozioni nuove, e talvolta con una nuova disposizione delle nozioni vecchie; 3. e non avviene sempre con estasi, o astrazione dai sensi, anzi quando si compie a mezzo di qualche rappresentazione sensibile, come il roveto di Mosè, è necessario si compia senza l’astrazione dei sensi. 4. E poiché i profeti, in confronto dello Spirito Santo che li muove, sono strumenti deficienti, perciò non occorre che capiscano quanto dicono: così avvenne per es. di Caifa.
Quest. 174. Divisione della Profezia. – 1. La profezia è di 3 specie: di minaccia, di prescienza, di predestinazione; perché o commina delle pene, o annuncia ciò che Dio prevede che sarà fatto dagli uomini; o predice ciò che ha destinato di fare Dio stesso. 2. La profezia, che è visione di una verità soprannaturale, può essere o visione diretta della verità, o visione a mezzo di imagini della verità: ma quella è superiore a questa, perché più si avvicina alla visione beatifica e perché mostra nel profeta una maggiore altezza di mente. 3. Nella visione poi a mezzo di imagini della verità, secondo la forma dell’imagine si distinguono i gradi di profezia; essi sono: sogno, visione durante la veglia; audizione di parole; apparizione di simboli; apparizione del perso-
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naggio che parla, in sembianza angelica; apparizione dello stesso in sembianzadivina. 4. Mosè fu il più grande profeta e quanto alla visione intellettuale, perché, come S. Paolo, vide apertamente la verità, e quanto alla visione a mezzo di imagine, perché aveva l’apparizione del personaggio che parlava, in sembianza divina, e quanto infine alla manifestazione e alla confermazione delle profezie; però Davide per es. annunciò di Dio più verità di Mosè. 5. Se la profezia è visione di verità remota, essa non ha luogo nei beati, che hanno la verità presente. 6. Quanto al progresso della profezia esso non fu in tutto conforme allo svolgersi dei tempi, perché se quanto alla profezia per la fede in Dio il suo graduale sviluppo è segnato dal tempo dei patriarchi, di Mosè e di Cristo; e se quanto alla profezia per la fede nell’Incarnazione il suo graduale sviluppo cresce a misura che il mistero si avvicina e si compie; invece quanto alla profezia per la regola dell’operare essa è più o meno grande a seconda dei bisogni dei tempi.
Quest. 175. Il rapimento. – 1. Il rapimento, che dice violenza, cioè forza dall’estrinseco, significa astrazione della mente: ne può essere causa un’infermità, che fa perdere i sensi; ne possono essere causa i demoni e ne può essere causa anche la virtù divina e questo è il vero rapimento per cui taluno viene elevato dallo spirito divino a cose soprannaturali con astrazione dai sensi. 2. Il rapimento, che ha per termine la visione della verità, appartiene per sé alla facoltà conoscitiva, talvolta però, avendo una causa affettiva, può appartenere alla facoltà appetitiva; in paradiso poi è di ambedue le facoltà. L’estasi è effetto dell’amor di Dio; il rapimento però aggiunge all’estasi, uscita di sé, il concetto di una specie di violenza operata dalla spirito divino.
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3. S. Paolo nel suo rapimento è da ritenersi che abbia veduto l’essenza divina medesima, perché si trovò nel cielo dei beati, che ne hanno la visione beatifica, 4. e nel suo rapimento S. Paolo fu alienato dai sensi, perché se le stesse nostre cognizioni intellettuali sono operazioni di astrazione dai sensi, la visione altissima dell’essenza divina non può essere senza l’astrazione dai sensi. 5. Alla visione però di S. Paolo non era necessario che l’anima si separasse anche dal corpo, perché bastava che l’intelletto di S. Paolo astraesse dalle imagini sensibili della fantasia e da ogni percezione sensibile. 6. S. Paolo però, mentre sapeva di essere nel terzo cielo, non sapeva se la sua anima fosse separata o no dal corpo; anche noi quando sogniamo conosciamo chiaramente il sogno, ma non badiamo a sapere se doriamo o siamo desti.
Quest. 176. Il dono delle lingue. – I. Gli Apostoli, che dovevano evangelizzare i diversi popoli della terra, ricevettero nella Pentecoste il dono di tutte le lingue e perché ne avevano bisogno e perché, come la confusione delle lingue fu segno dell’allontanamento del mondo da Dio, così il dono delle lingue doveva essere segno del riavvicinamento del mondo a Dio. 2. Il dono però della profezia supera il dono delle lingue, perché è più eccellente, più nobile e più utile alla Chiesa.
Quest. 177. Il dono del discorso. – 1. Oltre al dono delle lingue gli Apostoli ricevettero dallo Spirito Santo il dono del discorso, perché avevano bisogno non soltanto di conoscere le lingue, ma anche di saper parlare efficacemente per convincere, commuovere e convertire.
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Il dono del discorso in loro ha supplito la mancanza dello studio della Retorica. 2. Al dono del discorso, della scienza e della sapienza possono partecipare anche le donne, ma soltanto per i discorsi famigliari e privati e non per i discorsi pubblici in Chiesa, poiché questi sono di spettanza dei Prelati.
Quest. 178. Il dono dei miracoli. – 1. Poiché per l’uomo è naturale riconoscere le verità intellettuali per mezzo di sensibili effetti, lo Spirito Santo, per provvedere sufficientemente alla Chiesa aggiunse al dono delle lingue e al dono del discorso anche il dono dei miracoli, i quali sono effetti soprannaturali che inducono l’uomo alla cognizione soprannaturale delle verità da credersi. 2. Cose mirabili possono operarle anche i demoni, ma veri miracoli può operarli Dio solo; di essi Dio si serve e per dimostrare la santità di un uomo e per dimostrare la santità della fede che egli predica e in questo secondo caso un miracolo può essere fatto anche se la persona che predica la fede o invoca Iddio non è santa.
Quest. 179. Vita attiva e vita contemplativa. – 1. L’intelletto, che è la caratteristica dell’uomo, si distingue in speculativo, la cui cognizione ha per fine la stessa contemplazione della verità, e pratico la cui cognizione ha per fine l’agire; perciò ci sono due vite: la contemplativa e l’attiva; 2. e poiché la vera vita umana ha principio dall’intelletto, questa divisione è sufficiente.
Quest. 180. La vita contemplativa. – 1. La vita contemplativa consiste principalmente nella contemplazione della verità, non però esclusivamente in questo; anzi, poiché
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l’intelletto è principio della volontà, dal possesso della verità da parte dell’intelletto ne deriva alla volontà compiacenza ed amore; 2. e le virtù morali, benché non siano costitutive della vita contemplativa, ne sono però dispositive, perché frenano le passioni che altrimenti impedirebbero la vita contemplativa; 3. inoltre, benché la vita contemplativa consista nell’atto della contemplazione della verità, a questo si devono premettere altri atti, come l’ascoltare, il leggere, il pregare, il meditare ecc.; 4. essa infine consiste primieramente nella contemplazione di Dio, ma secondariamente anche nella contemplazione dei divini effetti, perché è dalle cose visibili che conosciamo le cose invisibili di Dio. 5. La contemplazione di Dio, tuttavia, nella presente vita e durando l’uso dei sensi, non arriva alla visione della stessa essenza divina; ciò può avvenire soltanto in un rapimento, quale fu quello di S. Paolo. 6. La contemplazione perfetta si compie o raccogliendo nella sola contemplazione della verità tutte le operazioni dell’anima, o elevandosi dalle cose sensibili esteriori alle cose intellettuali, o lavorando di raziocinio in base a lumi celesti: vi sono così tre moti distinti dell’anima e cioè il circolare, il retto e l’obliquo. 7. La vita contemplativa, sia perché consiste nella più alta operazione umana, sia perché ha la radice nel divino amore, è la vita più gioconda. 8. La vita contemplativa è diuturna non solo perché il suo oggetto è inesauribile, ma anche perché in noi si compie nella parte incorruttibile, che è l’intelletto, e senza fatica del corpo.
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Quest. 181. La vita attiva. – 1. Gli atti delle virtù morali appartengono tutti alla vita attiva, perché essa ha per iscopo l’agire. 2. Anche la prudenza appartiene alla vita attiva, perché essa è retta norma dell’agire. 3. L’insegnamento, in quanto è opera del maestroe concorso dello scolaro, appartiene alla vita attiva; ma nello scolaro appartiene alla vita contemplativa quando in lui diventa fissarsi nella contemplazione della verità e compiacersene. 4. Il Paradiso consiste nella visione beatifica, che èvita contemplativa, cesserà quindi in Paradiso la vita attiva.
Quest. 182. Confronto fra le due vite. – 1. Le necessità della vita presente esigono maggiormente la vita attiva, ciò però non toglie che la vita contemplativa sia la migliore. 2. Ed è anche più meritoria della vita attiva la vita contemplativa, perché essa si riferisce direttamente all’amore di Dio, il quale è più eccellente dell’amore del prossimo, cui si riferisce direttamente la vita attiva; a meno che succeda che taluno si dedichi alla vita attiva per sovrabbondanza del divino amore. 3. La vita attiva, in quanto è occupata nelle azioni esteriori, è di impedimento alla vita contemplativa; ma è invece di giovamento ad essa in quanto modera le interne passioni dell’anima che impediscono la contemplazione. 4. Per natura sarebbe prima la vita contemplativa, perché essa diventa motivo della vita attiva, ma in ordine di tempo è prima la vita attiva, perché essa diventa dispositiva della vita contemplativa.
Quest. 183. Uffici e stati degli uomini. – 1. Stato significa condizione stabile, questa risulta non dalle ricchezze o
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dalle dignità, che sono mutevoli, ma dall’essere uno padrone di sé o meno; stato quindi riguarda direttamente la libertà e la servitù, sia nelle cose civili che nelle spirituali. 2. Nella Chiesa c’è diversità di stati e di uffici, e ciò per la sua perfezione, la quale risulta dalla varietà nell’ordine; per la sua necessità, essendo varie le sue funzioni; infine per il suo decoro, essendovi tutto ingradazione. 3. La diversità poi degli uffici si distingue dai relativi atti, perché se la perfezione porta la differenza degli stati, uno più perfetto degli altri; la necessità porta la differenza degli uffici, che importano diversi ordini di azioni; mentre il decoro importa diversi gradi, essendoché anche in uno stesso stato od ufficio ci sono gli uni superiori agli altri. 4. Spiritualmente ci sono due stati: uno di servitù al peccato o alla giustizia, e uno di libertà o dal peccato o dalla giustizia: il peccato è contrario alla natura umana, è perciò naturale all’uomo lo stato di libertà dal peccato che diviene tosto stato di servitù della giustizia e come in ogni cosa c’è il principio, il mezzo e il fine, così nello stato di servitù della giustizia si può essere incipienti, proficienti e perfetti.
Quest. 184. Lo stato di perfezione. – 1. La perfezione cristiana si deve sempre guardare sotto il punto di vista della carità, che è il vincolo della perfezione. 2. Amare Dio quanto esso è amabile e amare Dio colle forze tutte sempre e solo in atto di amarlo ci è impossibile nella presente vita; ma ci è possibile amareDio escludendo sempre tutto quello che ripugna all’amor di Dio e in questo sta la perfezione possibile nella presente vita. 3. La perfezione, che è riposta essenzialmente nella carità, consiste primieramente nell’osservanza dei precetti, i quali hanno per fine la carità e la rimozione di ciò che è contrario alla carità; nella pratica dei consigli, che hanno
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per fine la rimozione di certi impedimenti dell’atto di carità che però non sono contrari alla carità, come l’occuparsi di affari, consiste solo secondariamente. 4. La perfezione però, o stato interno, non coincide collo stato di perfezione, o professione di vita di perfezione, perché c’è chi manca al suo dovere e c’è chi fa più di quello che deve; ci sono dei religiosi cattivi e ci possono essere dei semplici fedeli ottimi, ci sono adunque dei perfetti che non sono nello stato di perfezione e viceversa. 5. Nello stato di perfezione si trovano i religiosi per voto e i vescovi per ufficio, perché gli uni per la solennità del voto, gli altri per la consacrazione episcopale sono obbligati alla perfezione. 6. Coloro che sono insigniti dell’ordine del diaconato o del presbiterato non sono costituiti con ciò nello stato di perfezione, perché in loro l’ordine dice soltanto facoltà di compiere atti sacri e la cura d’anime non li lega totalmente, giacché possono lasciarla, e ciò anche senza permesso del Vescovo se si fanno religiosi. Costituisce invece nello stato di perfezione l’Episcopato, perché i vescovi sono legati alla cura così, che senza il consenso del Papa non possono lasciarla. 7. Lo stato poi episcopale è superiore allo stato religioso, perché agire è più che soffrire e lo stato episcopale prevalentemente è di agire, mentre quello religioso è di soffrire. 8. I sacerdoti secolari, che hanno cura d’anime, in confronto dei religiosi, che hanno gli ordini sacri ma non hanno cura d’anime, sono inferiori quanto allo stato di vita, che non è stato di perfezione; ma sono superiori quanto alla cura d’anime, perché è più difficile vivere bene in cura d’anime che vivere bene in religione.
Quest. 185. Episcopato. – 1. Desiderare l’episcopato per l’ufficio, che è di pascere il gregge di Cristo e di essere
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utile al prossimo, è cosa buona per chi si sente in forze; ma desiderare l’episcopato per la riverenza, l’onore e l’opulenza che ne consegue è ambizione e cupidigia; desiderarlo poi per la eccellenza del grado è presunzione. 2. Ma se l’episcopato anziché desiderarlo viene imposto non si può rifiutarlo, perché sarebbe contro la carità del prossimo e contro l’obbedienza dovuta al superiore. 3. Chi elegge all’episcopato deve eleggere il migliore, e cioè non semplicemente il più santo, ma chi è il più atto al governo della Chiesa da affidargli; chi poi viene eletto non deve stimarsi il più degno, deve però sapersi non indegno. 4. Lo stato di perfezione episcopale consiste nell’attendere alla salute del prossimo per amor di Dio, e chi ne è insignito vi è obbligato finché è utile alla Chiesa e non può lasciarlo, nemmeno per farsi religioso, senza il consenso del Papa e senza legittima causa; questa può trovarsi in lui, per qualche difetto, cioè, sopravveniente o di anima o di corpo e può trovarsi anche nel gregge che a lui non corrisponde; 5. e quando la salute del gregge esige la presenza corporale del Pastore e del Vescovo, esso non può abbandonarlo nemmeno per il pericolo della vita, a meno che possa sufficientemente provvedere altrimenti. 6. I Vescovi non sono proibiti di possedere qualche cosa di proprio, giacché non sono legati né dall’ufficio che a ciò non si estende, né dal voto di povertà, che non hanno emesso. 7. I redditi della Chiesa sono per i poveri, per il culto e pei ministri, e quindi al vescovo ne spetta solo una parte; se l’amministrazione è distinta, il vescovo, che esige anche ciò che non gli spetta, pecca contro la giustizia, ma di quello che gli spetta può far uso come fosse suo; se l’amministrazione non è distinta ed è a lui affidata, nella ripartizione, non può attribuirsi una
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parte eccessiva, perché allora non è il dispensatore fedele richiesto da S. Paolo. 8. Quando un religioso viene fatto vescovo deve conservare delle sue regole ciò che non impedisce l’ufficio Pontificale – il che potrebbe essere del silenzio, delle veglie, dei digiuni, dell’orario – e resta obbligato a ciò che serve alla custodia della perfezione, come la castità, la povertà e l’abito, che è il segno della professione di vita perfetta.
Quest. 186. Lo stato religioso. – 1. Lo stato religioso è stato di perfezione, perché religiosi si dicono quelli che totalmente si dedicano al servizio di Diocome in olocausto e nell’attendere totalmente a Dio consiste la perfezione. 2. La perfezione consiste essenzialmente nella carità; consequenzialmente nelle opere virtuose, e strumentalmente negli esercizi di perfezione. Chi si fa religioso si obbliga non ad avere già la perfezione, ma ad acquistarla, perciò è tenuto a tendere alla carità perfetta, ad avere l’animo di manifestarla cogli atti di virtù, e a praticare quegli esercizi di perfezione che sono fissati dalla regola che ha professata; non è però obbligato agli esercizi di altre regole. 3. Per giungere alla carità perfetta bisogna avere il cuore totalmente distaccato dalle cose mondane, perciò alla perfezione del religioso è necessario il voto di povertà. 4. Anche l’unione coniugale impedisce al cuore di darsi totalmente al servizio di Dio, tanto più che vi si aggiungono le brighe della famiglia, perciò alla perfezione del religioso è necessario anche il voto di castità. 5. La perfezione consiste sopratutto nell’imitazione di Cristo; di Cristo fu lodata sopratutto l’obbedienza, perciò alla perfezione del religioso è necessaria l’obbedienza. 6. I religiosi appartengono allo stato di perfezione; lo stato di perfezione lo costituisce per i vescovi la consa-
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crazione episcopale, per i religiosi l’obbligazione assunta solennemente, cioè con voto; perciò la povertà, la castità e l’obbedienza, che sono necessarie alla perfezione, devono essere assunte con voto; 7. e poiché per questi tre voti il religioso è liberato da ogni sollecitudine temporale, che gli impedirebbe di attendere alla perfezione, e inoltre esso fa sacrificio a Dio di quanto gli può appartenere perché gli offre ogni bene esterno, col voto di povertà e, dei beni interni, quello che sarebbe suo possesso del corpo col voto di castità e, col voto di obbedienza, quello che sarebbe suo possesso dell’anima, perciò in quei tre voti consiste la perfezione del religioso. 8. Di quei tre voti poi il più importante è il voto di obbedienza, perché con quello si fa sacrificio a Dio della volontà, che è il bene nostro più intimo e più nobile, e perché la volontà è principio di tutta la vitareligiosa. 9. La professione religiosa riguarda principalmente i tre voti, perciò i voti importano obbligazione grave; non così il resto della regola, la sua trasgressione quindi non è peccato mortale, a meno che vi si unisca il disprezzo dell’autorità. 10. Un peccato è più grave in un religioso che in un secolare e ciò per il voto che esso ne può avere, poi per lo stato di perfezione che professa, e infine per lo scandalo che ne deriva. Se però il peccato è per fragilità o ignoranza, nel religioso riesce più facilmente riparabile che nel secolare.
Quest. 187. Competenza dei religiosi. – 1. Lo stato religioso non rende illecito ai religiosi il predicare, confessare, insegnare ecc., ma nemmeno ne conferisce loro la facoltà; questa a loro viene conferita dagli ordini sacri e dall’autorizzazione della competente autorità.
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2. Come è dello stato clericale, così è pure dello stato religioso che non si possono trattare affari per amore di denaro, ma si può soltanto, per amor del prossimo, fare opera di amministrazione e di direzione colla debita moderazione e coll’autorizzazione dei superiori. 3. I religiosi, che non lo hanno per regola, non sono obbligati al lavoro, più di quanto lo siano i secolari, perciò, come essi, vi sono tenuti per procurarsi il vitto, per fuggire l’ozio, per frenare la concupiscenza dell’altrui e per poter fare elemosina; per lavoro poi si intende il lavoro manuale e qualunque altra onestaoccupazione. 4. Ad ognuno è lecito vivere, anziché di lavoro, di ciò che è proprio in quanto o lo si ha o se ne ha il diritto; anche ai religiosi perciò è lecito vivere, non di lavoro, ma di elemosine, che divengono loro proprie in quanto o sono date dai benefattori o sono loro donate dal prossimo; sono poi loro dovute le elemosine quando essi non hanno sufficientemente da vivere, sono ammalati o non sono in grado lavorare, ovvero quando esse sono la corresponsione di altre prestazioni; non è però lecito far uso delle elemosine dei benefattori se non si corrisponde alle loro intenzioni e se si vuol vivere oziosamente. 5. Quanto al mendicare esso può essere considerato o come esercizio di umiltà o come modo di acquisto; come esercizio di umiltà è sempre lecito ai religiosi il mendicare; ma come modo di acquisto il mendicare è loro lecito per le loro necessità o per qualche impresa utile; non è lecito invece il mendicare se si fa per cupidigia di denaro o per vivere oziosamente. 6. Quanto al vestire l’uso di vesti vili è loro lecito per penitenza e per disprezzo della pompa, ma non è lecito neanche a loro l’uso di tali vesti se è per avarizia, per poltroneria o per ambizione nascosta.
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Quest. 188. Differenza di religiosi. – Tutti i religiosi si danno al servizio di Dio, ma diversi sono i modi di servirlo, perché diverse sono le opere di carità e diversi gli esercizi di pietà, perciò diverse sono anche le religioni nella Chiesa. 2. Poiché alla perfezione della carità appartiene l’amore di Dio, che è principio della vita contemplativa, ed anche l’amore del prossimo, che è principio della vita attiva, perciò oltre ai religiosi della vita contemplativa ci devono essere anche religiosi di vita attiva. 3. E poiché a sovvenzione del prossimo può essere anche indirizzato l’ufficio dei soldati, non solo a pro’ dei privati, ma anche a pro’ della repubblica cristiana, perciò è conveniente anche l’istituzione di ordini religiosi militari. 4. E poiché il bene del prossimo sta sopratutto nel bene dell’anima e questo si procura specialmente predicando e confessando, perciò è convenientissima l’istituzione di ordini religiosi a questo scopo. 5. E poiché all’utile esercizio del predicare e del confessare è necessario lo studio, perciò è conveniente anche l’istituzione di ordini religiosi che attendono agli studi, tanto più che lo studio giova altresì alla vita contemplativa e promovendola e impedendone gli errori. 6. Nel confrontare gli ordini religiosi fra di loro bisogna guardare prima al fine cui tendono, poi agli esercizi che praticano. Per sé quindi il primo posto spetta agli ordini di vita contemplativa; ma c’è un genere di vita attiva, cioè lo studio, che suppone la pienezza della vita contemplativa, questo adunque prevale su tutti, anche perché prepara all’insegnamento e alla predicazione, cose che sono le più vicine allo stato di perfezione dei vescovi, che è superiore allo stato di perfezione dei religiosi. 7. La perfezione consiste essenzialmente nella carità; e nella povertà consiste solo strumentalmente, cioè in quanto serve a rimuovere quell’impedimento alla ca-
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rità che sono le ricchezze, per le quali c’è sollecitudine, amore, e vanagloria; la sollecitudine, però, quando è limitata alle cose necessarie alla vita, impedisce poco l’amor di Dio; quanto invece all’amore e alla vanagloria per le ricchezze bisogna considerare che sono massimi se le ricchezze sono proprie; minimi se le ricchezze sono comuni; perciò il possedere in comune non impedisce la perfezione religiosa, purché non ecceda le necessità dell’ordine secondo il suo fine; così gli ordini ospitalieri hanno bisogno di maggiori mezzi che gli ordini contemplativi. 8. Negli ordini contemplativi la vita monastica odi solitudine, è migliore della cenobitica o di comunità; purché però ci sia la debita preparazione o della grazia divina o dell’esercizio delle virtù, che si affina vivendo in comunità.
Quest. 189. Del farsi religiosi. – 1. Il farsi religioso è utile a chi è virtuoso per crescere nella virtù, e a chi è peccatore per diventare virtuoso; 2. ed è anche utile fare il voto di farsi religiosi, perché col voto la cosa diventa più meritoria e la volontà si fissa nel proposito. 3. Chi poi ha fatto un tale voto, ed il voto è valido, è obbligato a farsi religioso, perché se si devono eseguire i contratti fatti cogli uomini, tanto più si deve stare ai contratti fatti con Dio; 4. ed è obbligato anche a rimanere in religione per sempre, se tale fu la sua intenzione quando fece il voto; o altrimenti a rimanervi per tutto il tempo che votò; e se a ciò non ha pensato quando fece il voto deve rimanere in religione almeno fino all’anno diprova. 5. Quanto ai fanciulli prima dei 14 anni o il loro voto non è valido per mancanza di debita capacità, o è irritabile dai genitori, sotto il cui potere si trovano per tale riguardo fino ai 14 anni. È poi disposizione
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della Chiesa che una professione religiosa non abbia comunque valore se emessa prima dei 14 anni. 6. A cagione della pietà verso i genitori l’ingresso in religione deve sospendersi soltanto nel caso che i genitori si trovino in tale necessità da avere assoluto bisogno del figliuolo, perché non hanno altri che possa e che debba aiutarli. 7. I sacerdoti in cura d’anime possono abbandonare la cura, anche senza il consenso del superiore, per farsi religiosi, perché lo stato religioso è stato di perfezione e quello di cura non lo è. 8. È lecito anche passare da un ordine religioso ad un altro o per zelo di una religione più perfetta, o per il disagio di una rilassata disciplina, o per debolezza di costituzione; nel primo caso basta chiedere il permesso; nel secondo occorre ottenerlo, nel terzo è necessaria una dispensa. 9. È meritorio, non costringere, ma consigliare altri a farsi religioso, purché gli si parli con prudenza e sincerità. 10. Chi poi vuol farsi religioso, se è certo della sua vocazione, non abbisogna di consigliarsi con alcuno; a meno che possa avere qualche impedimento; abbisogna soltanto di informazioni circa la religione che gli conviene e il modo di entrarvi.
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PARTE TERZA
Quest. 1. Convenienza dell’Incarnazione. – 1. Conveniente per una cosa è ciò che le compete secondo la sua natura; così conviene il ragionare all’uomo, che è ragionevole. Dio è il bene; il bene è diffusivo di se stesso; gli compete quindi comunicarsi agli altri; l’Incarnazione è il modo sommo di comunicazione del Sommo bene alla creatura, dunque fu conveniente per Iddio l’Incarnazione, anzi fu convenientissima, perché così con cose visibili si resero evidenti gli invisibili attributi di Dio. 2. L’incarnazione fu altresì necessaria, non di necessità assoluta, perché Iddio poteva in altri modi rimediare al peccato di Adamo, ma bensì di necessità relativa, perché fu il miglior modo di fare ciò coll’effetto di promuovere il bene dell’uomo, perfezionandone la speranza, la carità, il retto operare e la partecipazione della divinità, e coll’effetto anche di rimuoverne il male, cioè la pretesa del diavolo di farsi adorare, la dimenticanza della nostra dignità, la nostra presunzione, la nostra superbia; sopratutto poi eral’unico modo di liberare dal peccato l’uomo dandone a Dio la condegna soddisfazione, che l’uomo per sé non poteva e Dio per sé non doveva dare. 3. Se l’uomo non avesse peccato, Dio non si sarebbe incarnato, perché la Scrittura ci parla sempre dell’Incarnazione come rimedio del peccato. Questo tuttavia non è per limitare la potenza di Dio, perché Dio se avesse voluto avrebbe potuto incarnarsi ugualmente. 4. L’Incarnazione è per cancellare tutti i peccati, ma principalmente per cancellare il peccato originale il quale è il più grande, almeno estensivamente, perché si estende a tutti gliuomini. 5. Non fu però conveniente che Dio si incarnasse al principio del mondo, perché così l’uomo ebbe modo di
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umiliarsi della sua superbia: si compì per la dignità del Verbo la pienezza dei tempi; e fu prevenuto il rattiepidirsi della fede per un mistero da troppo tempo compiuto. 6. Non fu però nemmeno conveniente che l’Incarnazione fosse differita alla fine del mondo, perché la gloria dell’Incarnazione, che cresce nel tempo per arrivare alla perfezione alla fine del mondo, non avrebbe avuto modo di crescere e di essere perfetta; poi perché superata la pienezza dei tempi, si sarebbe spenta gradualmente nel mondo la cognizione e la venerazione di Dio e anche l’onestà del costume; infine perché doveva essere più manifesta la potenza di Dio che salva per la fede del Messia venturo, ma anche per la fede nel Messia già venuto.
Quest. 2. Modo dell’unione del Verbo incarnato. 1. Natura, principio di operazioni proprie, significa l’essenza di una cosa risultante da due elementi, uno come genere, l’altro come differenza specifica. Quando però di due cose si forma una cosa nuova, talora si uniscono, restando tali e quali, due elementi in sé perfetti, ma allora la cosa che ne risulta non è nuova che per la forma esterna, così pietre accatastate formano una muraglia; orbene l’unione del Verbo alla natura umana non può essere tale, perché sarebbe un’unione accidentale, senza vera unità, e artificiale. Talora invece i due elementi in sé perfetti, che si uniscono, si trasmutano uno nell’altro e si forma una combinazione; ma nemmeno tale può essere l’unione del Verbo, perché la natura divina è immutabile, poi nella combinazione il risultante è specificamente diverso dai componenti, infine fra i componenti ci deve essere propinquità mentre fra la natura divina e la natura umana la distanza è enorme. Talora infine due elementi, in sé imperfetti, si uniscono per completarsi a vicenda, così corpo e anima formano la natura umana: ma neanche
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tale poteva essere l’unione col Verbo, perché in lui sono perfette e la natura divina e la natura umana; poi la natura divina non può essere parte o forma di una natura corporea, quale è l’umana; infine Gesù Cristo non sarebbe più stato e di natura divina e di natura umana. Resta così totalmente escluso che dall’Unione del Verbo alla natura umana risultasse una nuova natura e fosse così un’unione di natura. 2. L’Unione del Verbo fu invece un’unione nella persona. Mentre natura significa l’essenza di una specie, persona significa un individuo di quella specie; per l’uomo sono cose fra loro realmente distinte natura e persona, perché la persona possiede la natura, ma non è la natura, così di Socrate si dice che ha l’umanità, ma non è l’umanità; non così invece di Dio, perché (P. I. q. 3 art. 3) di Dio si dice che è la divinità e non già che ha la divinità, e anche del Verbo, che è Dio, si dice che è la Divinità: se poi sempre quello, che diviene proprio di una persona, sia che appartenga alla sua natura, sia che non vi appartenga, si dice che si unisce nella persona, deve perciò dirsi che l’Unione del Verbo all’umana natura fu un’unione nella persona del Verbo, tanto più che essendo escluso che possa essere unione in natura, non resta altro che sia unione in persona. 3. Ipostasi, o soggetto, è lo stesso che persona, con questa sola differenza che la parola persona, essendo propria di un soggetto di natura intellettuale, ne mette in evidenza la dignità ed è perciò nome di dignità. Non si può quindi asserire che l’Unione del Verbo all’umana natura fu fatta nella persona e non nell’ipostasi, perché così si distingue realmente ciò che non è da realmente distinguersi e, facendo così due di ciò che è uno, l’Unione sarebbe non intima, ma soltanto esterna, per conferire, cioè, autorità e, peggio ancora, distinguendo in Gesù Cristo l’ipostasi del Verbo e la Persona, non si può più attribuire al Verbo, ma si deve attribuire ad altri ciò che è proprio
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dell’uomo cioè la nascita, la passione e la morte; e questo fu l’errore di Nestorio. 4. La persona del Verbo dopo l’Incarnazione è in sé semplice; ma secondo il modo di sussistere, siccome sussiste e nella natura divina e nella natura umana, così si dice composta di due nature. 5. Gesù Cristo è uomo della stessa specie degli altri uomini e perciò come in ogni altro uomo si uniscono l’anima come forma e il corpo come materia per costituire la natura umana, così anche in Gesù Cristo ci fu l’anima che si è unita al corpo. Mentre però negli altri uomini anima e corpo unendosi formano una persona umana, in Cristo l’anima e il corpo non formarono una persona umana, perché si unirono in una persona superiore, cioè nella Persona divina del Verbo. 6. L’unione del Verbo, che non è in natura e quindi non è essenziale, non è perciò un’unione accidentale, perché è unione in persona, ossia è unione ipostatica con unità di persona in due nature. Errò quindi Nestorio, il quale, distinguendo in Gesù Cristo la Persona Figlio di Dio e la Persona Figlio dell’uomo, ammetteva un’unione di inabitazione, di affetto e di operazione con comunicazione di dignità e di nome e queste sono tutte unioni non ipostatiche, ma accidentali; peggio poi di Nestorio errarono altri i quali volendo rispettarel’unità della persona supposero in Cristo aroma e corpo fra loro separati e da Cristo assunti come un’indumento, e questa è un’unione ancora più accidentale. 7. L’unione della natura umana alla divina è qualche cosa di creato, perché avvenne nel tempo, e tutto quello che non è eterno, ma avviene nel tempo, è creato; non è però Dio che si è mutato, ma è la natura umana che si è mutata rispetto a Dio, giacché la relazione (P. I. q. 13 art. 6) che ne sorge è a Dio esterna.
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8. L’unione propriamente non è assunzione; l’unione della natura divina ed umana consiste in una relazione fra la natura divina ed umana secondoché convengono nella Persona di Cristo; tale relazione dipende da una mutazione e la mutazione consiste in una azione fatta da una parte e subita dall’altra; l’unione importa la relazione, l’assunzione importa l’azione, perciò la natura umana si dice unita ed assunta; ma la natura divina si dice unita e non già assunta. 9. L’unione ipostatica considerata da parte di colui in cui essa avviene è la maggiore delle unioni, non è però la maggiore delle unioni considerata da parte delle nature unite, perché vi restano distinte e fra loro sono infinitamentedistanti. 10. L’unione delle due nature in Cristo si dice fatta per grazia, sia perché viene dalla volontà di Dio di dare gratuitamente, sia perché è un dono gratuito al quale la natura umana non aveva precedenti meriti; 11. meriti, infatti, precedenti non ce ne furono da parte di Gesù Cristo, che, come Gesù Cristo non preesisteva all’Incarnazione e merito di giustizia non ne aveva altri, perché lo stesso meritare di giustizia è effetto della grazia e il principio della grazia è per l’appunto l’Incarnazione. I Santi dell’Antico Testamento avevano merito non di giustizia, ma solo di convenienza. 12. La grazia di Gesù Cristo, sia la grazia dell’unione, sia la grazia abituale si può dire naturale a Gesù Cristo, ma non come proveniente in lui dai principii che costituiscono la natura umana, ma come causata nella natura umana dalla natura divina e posseduta fin dalla nascita, ossia dal primo istante dell’esistenza.
Quest. 3. Modo dell’unione da parte della Persona assumente. – 1. Assumere la natura umana compete non alla natura divina, ma a Persona divina, perché l’assunzione è
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azione e le azioni sono delle persone; per di più l’unione della natura divina all’umana fu fatta, come si disse, non in natura, ma in Persona divina. 2. Però, siccome il principio dell’assunzione è la natura divina, per virtù della quale essa si compì, perciò, benché proprissimamente si debba dire che una persona assunse l’umana natura, secondariamente si può anche dire che la natura divina si è incarnata assumendo la natura umana. 3. L’intelletto umano, non può conoscere Dio infinito con una sola idea, può soltanto conoscerlo con idee molteplici e divise, e come può conoscere la bontà di Dio indipendentemente dalla Paternità divina, così può conoscere l’assunzione della natura umana da parte di Dio, senza pensare alla persona in cui si compie. 4. Nell’assunzione della natura umana distinguiamo il principio e il termine dell’azione; come principio l’azione procede dalla virtù divina che è comune alle tre divine persone, ma, come termine, l’unione, che è in persona divina, non può convenire che a una persona, cioè al Verbo, perciò l’Incarnazione è opera della Trinità e si compi nella persona del Figlio. 5. Veramente, siccome la ragione della personalità è eguale per le tre divine persone, l’Incarnazione poteva compirsi tanto nella Persona del Padre, che del Figlio, che dello Spirito Santo, perché la potenza divina, che è il principio dell’Incarnazione, è comune alle tre divine persone e le era quindi indifferente unire la natura umana a una o all’altra persona; 6. anzi se le tre divine persone tutte tre sussistono in una unica natura divina, possono altrettanto tutte e tre sussistere in una unica natura umana, perché se la natura umana assunta costituisse anche persona, allora sì più persone non potrebbero assumere un unico e medesimo uomo in unicità di persona, ma essa invece
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non costituisce persona e niente quindi impedisce che l’Incarnazione si potesse compiere anche in giù persone; 7. per di più, la persona divina che assume la natura umana, essendo di potenza infinita, non può essere limitata dalla natura umana assunta e coartata così da essere impedita di assumere anche una seconda natura umana; 8. fu però convenientissimo che l’Incarnazione si compisse nella Persona del Verbo, perché con ciò il Verbo fu il concetto del sommo artefice, tanto nella creazione, quanto nella riparazione della natura umana; il Verbo, che è il concetto della sapienza eterna, come fu principio così divenne anche il perfezionamento della sapienza umana; gli uomini divennero figli adottivi di Dio per mezzo di chi ne era figlio naturale e il Verbo della vera sapienza ricondusse a Dio l’uomo che se ne era allontanato per disordinato amore di scienza.
Quest. 4. Modo dell’unione da parte della natura assunta. – 1. Fra le nature create la più atta a essere assunta da Dio è la natura umana; essa infatti, essendo intellettuale e potendo perciò conoscere il Verbo, era più degna di ogni altra natura inferiore, che è sempre irrazionale; essa, avendo il peccato originale da riparare, era più bisognosa della natura Angelica, in cui non c’è un peccato di natura e di origine, ma un peccato personale e irrimediabile. Si tratta però di un’attitudine negativa e non già positiva; non si intende poi con ciò di limitare la potenza di Dio. 2. Il Figlio di Dio assunse non persona umana, ma natura umana individuata nella Persona del Figlio di Dio, perché se si preintende la persona nella natura umana assunta, dopo l’assunzione questa persona o si corruppe e non restò più assunta, o si conservò ed allora sono due persone in Cristo, il che è l’errore di Nestorio.
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3. La Persona divina assunse natura umana, ma a non un uomo, perché un uomo significa un individuo di natura umana, cioè una persona umana, e saremmo ancora nell’errore di Nestorio. Nella frase si fece uomo, uomo è il termine dell’assunzione; nella frase invece: assunse un uomo, uomo si preintende all’assunzione come individuo, anzi persona e questo è errore nestoriano. 4. Il Figlio di Dio assunse la natura umana concreta in se stessa e non già la natura umana astratta, e cioè: a) non secondo la intenderebbe Platone, ossia un’idea esistente in se stessa, perché ciò è contradditorio in quanto la natura umana, che è materiale, avrebbe esistenza reale in modo immateriale; b) non come esistente nella mente divina, perché sarebbe idea divina, scienza divina, natura divina; c) non come esistente nella mente dell’uomo, perché sarebbe fittizia e non reale. 5. Il Figlio di Dio assunse le natura umana in concreto, ma non quella che è concreta nei singoli uomini, perché se così fosse, resterebbero soppressi i singoli uomini e Cristo non sarebbe più primogenito fra molti fratelli, ma tutti sarebbero in lui ed eguali. Era conveniente che come una sola persona si incarnò, così fosse assunta la natura umana in una sola anima e in un solo corpo che si unirono nella Persona del Verbo. 6. Dio preferì assumere la natura umana per generazione da Adamo, anziché per altre vie, perché così la soddisfazione la diede chi peccò; fu elevata la dignità dell’uomo e si mostrò la potenza particolare di Dio che elevò in dignità chi era caduto ed aveva prima bisogno di essere rialzato.
Quest. 5. Modo di unione relativamente all’anima eal corpo. – 1. Gesù ha assunto un corpo non imaginario, ma vero, perché: a) se doveva assumere l’umana natura,
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questa ha un corpo non imaginario, ma vero; b) se il corpo assunto fosse stato imaginario, non sarebbe realmente morto; c) non conveniva che fosse una finzione ogni opera che veniva compita da chi è verità; 2. anzi questo corpo fu terreno, cioè di carne e ossa, perché tale è il corpo proprio della natura umana; inoltre con un corpo celeste, che è impassibile, non avrebbe potuto patire; ed infine con un corpo celeste, fatto comparire come terreno, Gesù avrebbe ingannato gli uomini, egli che è verità. 3. Gesù ha assunto non solo corpo, ma anche anima umana, perché la natura umana è costituita di corpo e di anima ed errò Apollinare insegnando che l’anima è stata sostituita dal Verbo; infatti la Scrittura parla espressamente dell’anima di Gesù e gli attribuisce fame, sete, tristezza, indignazione, stupore, sonno, che sono propri dell’anima umana ed impossibili al Verbo divino; inoltre se non avesse assunto l’anima, non l’avrebbe guarita ed era proprio l’anima che aveva bisogno della redenzione; infine il corpo di Gesù Cristo senza l’anima non sarebbe stato un corpo umano, perché è l’anima la forma sostanziale del corpo ed è per essa che il corpo nostro è di uomo e non di animale. 4. L’anima umana poi di Gesù Cristo aveva la sua propria mente, ed errano gli Apollinaristi insegnando che in Gesù Cristo, se non l’anima umana almeno l’intelletto dell’anima è stato sostituito dal Verbo; infatti, lo stupore che la Scrittura attribuisce a Cristo è possibile all’intelletto umano, ma non al Verbo; poi l’anima che fu assunta, perché aveva bisogno di redenzione, è l’anima peccabile, l’anima quindi che ha la mente, perché non c’è peccato se non c’è mente che lo avverta; infine senza l’intelletto il corpo, pur animato, assunto da Cristo non sarebbe stato un corpo umano, perché è per l’intelletto che il nostro corpo si distingue da quello di un animale.
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Quest. 6. Ordine nell’assunzione dell’anima e del corpo. – 1. Distinguiamo ordine di tempo da ordine di natura. Secondo l’ordine di tempo non ci fu precedenza, ma secondo l’ordine di natura Gesù Cristo assunse il corpo mediante l’anima, perché essendo l’anima la forma sostanziale del corpo, è per esso che il corpo si forma e si sviluppa, inoltre ciò esigeva anche l’ordine di dignità, perché l’anima è più nobile del corpo; 2. e per lo stesso ordine di dignità è da dirsi che Gesù Cristo assunse l’anima mediante l’intelletto, perché l’intelletto è la più nobile delle altre potenze dell’anima, ed è quella che al Verbo più si avvicina, perché è conoscente; 3. e come le anime nostre vengono create nell’atto che vengono infuse nel corpo, così fu dell’anima di Cristo e l’opinione di Origene, il quale riteneva che tutte le anime, anche quella di Cristo, fossero state tutte insieme create fin da principio, se è erronea per tutti, lo è doppiamente per Gesù Cristo, perché l’anima di Gesù Cristo preesistendo sarebbe stata persona ecosì si ricade nell’errore di Nestorio, ovvero per salvarsi da tale errore bisogna pensare che all’atto dell’unione essa fu sostituita da un’altra e cessò ed è un altro errore. 4. Siccome poi il corpo, non è corpo di natura umana se in lui non viene infusa l’anima razionale, così Gesù Cristo non assunse il corpo prima che non fosse animato dall’anima razionale. 5. Ripetiamo che non si parla di ordine di tempo, ma di ordine di natura: in questo ordine come il corpo è per l’anima e il corpo e l’anima sono per il tutto, così Gesù Cristo assunse il corpo mediante l’anima ed assunse il corpo e l’anima mediante il tutto. 6. Che Gesù Cristo abbia assunto la natura umana mediante la grazia non si può dire, sia che si intenda la grazia dell’unione, perché essa si identifica coll’Incarnazione; sia che si intenda la grazia santificante, perché essa,
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come effetto, è posteriore all’Incarnazione: si può però dire che l’Unione fu fatta per Grazia, se si intende la volontà generosa di Dio che ne è la causa efficiente.
Quest. 7. La grazia di Cristo come uomo. – 1. Che in Gesù Cristo ci sia stata la grazia santificante lo si deve ritenere e perché l’anima sua era unita al Verbo, cioè a Dio che ne è la fonte, e perché la sua anima nobilissima era a Dio elevata, e perché era costituito mediatore fra Dio e gli uomini. 2. La grazia riguarda l’anima, le virtù riguardano le potenze dell’anima; in Gesù Cristo adunque, come ci fu la grazia per l’anima, così ci furono le virtù per le potenze dell’anima fuorché la fede e la speranza: 3. la fede è di ciò che non si vede: Gesù Cristo invece fin dal primo istante della sua esistenza videDio per essenza, dunque in Gesù Cristo non ebbe luogo la fede; 4. similmente la speranza teologica è di conseguire la visione beatifica; ma Gesù Cristo vedendo Iddio per essenza, fin dal primo istante della sua esistenza ebbe la visione beatifica, perciò in Lui non ebbe luogo la speranza teologica, se non delle cose accessorie, per es. della gloria e della immortalità del suo corpo. 5. In Gesù Cristo ci furono i doni dello Spirito Santo, perché essi sono perfezioni delle potenze dell’anima, che le rendono docili alle mozioni dello SpiritoSanto; Gesù era pieno di Spirito Santo, in lui quindi necessariamente ci furono anche i doni: 6. e anche il dono del timor di Dio ci fu in Gesù Cristo, non per temerne male o di colpa o di pena, ma per temerne la maestà con affetto riverenziale. 7. Essendo Gesù Cristo il primo e principale Dottore della fede ci furono in lui tutti i doni di grazia, che poi si
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ripeterono ripartiti negli apostoli, i quali ebbero il dono delle lingue, dei miracoli ecc. 8. Gesù Cristo, avendo quaggiù la visione beatifica, era insieme comprensore e viatore; conosceva le cose lontane e remote e le comunicava e così era Profeta. 9. In Gesù Cristo vi fu la pienezza della grazia, perché fin dal primo istante della sua esistenza era vicinissimo a Dio, principio della grazia, essendo a Dio unito; perché doveva essere il principio della grazia per tutti noi; infine perché la sua grazia si estende a tutti gli effetti della grazia, quali sono i doni, le virtù e simili. 10. La vera pienezza della grazia è propria ed esclusiva di Gesù Cristo, perché egli la ebbe nella massima eccellenza e nella massima estensione degli effetti che le spettano; la pienezza di grazia, invece, ad altri attribuita, non riguarda la grazia in se, ma solo la capacità di chi la possiede ed importa che uno, secondo la sua condizione, abbia pienamente la grazia. 11. In Cristo la grazia dell’unione, di essere cioè unito alla Persona del Verbo, è infinita quanto è infinito il Verbo, che è Dio; la grazia invece abituale se si considera l’anima di Cristo che è limitata si devedire limitata, mentre se si considera in se stessa anch’essa è infinita sia in quanto essa contiene in sé tutto quanto può dirsi grazia, sia in quanto è data senza misura. 12. Cosicché la grazia in Cristo non poteva crescere né per parte di Cristo, perché fin dal primo istante fu unito alla persona divina del Verbo ed ebbe la visione beatifica; né per parte della grazia, perché gli fu partecipata quanto essa è all’umana natura partecipabile: poteva invece crescere Cristo nella grazia e ciò secondo gli effetti della grazia, cioè facendo opere sempre più sapienti. l3. In Cristo la grazia dell’unione c’è prima della Grazia Santificante, ma ciò non in ordine di tempo, bensì in ordine di natura, infatti anzitutto principio dell’Unione è il Verbo, che è la seconda Persona divina, mentre
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principio della Grazia abituale è lo Spirito Santo, che è la terza persona divina; poi la grazia abituale, che è causata dalla presenza di Dio in noi, in Cristo è causata dalla presenza della persona del Verbo; infine la grazia che ha ordine all’azione, affinché sia con merito, presuppone la persona cui spetti l’azione.
Quest. 8. Grazia di Cristo come Capo della Chiesa. – 1. Gesù Cristo è il capo del corpo mistico della Chiesa, perché da lui derivano alla Chiesa, come in un corpo umano dal capo, a) l’ordine, perché Gesù è la parte eccelsa della Chiesa; b) la perfezione, perché in Gesù la Grazia c’è con pienezza; c) la forza di agire, perché la grazia è da lui a noi partecipata. 2. Cristo è capo della Chiesa relativamente alle anime, e questo in modo principale, e lo è anche relativamente ai corpi, e questo in modo secondario, in quanto per lui essi divengono, ora, strumenti di giustizia, poi, termini di gloria. 3. Gesù Cristo, in quanto è capo di un corpo mistico, non è, come avviene nel corpo naturale, capo delle membra che al momento a lui stanno unite, ma è capo di coloro che gli sono uniti e in atto e in potenza e perciò è capo di tutti gli uomini, perché tutti possono avere la salute in Lui. 4. Corpo si dice una moltitudine ordinata con atti ed uffici distinti: poiché la Chiesa è moltitudine ordinata alla gloria di Dio, anche gli Angeli vi appartengono e perciò Cristo essendo Capo della Chiesa è capo anche degli Angeli. 5. Essendovi in Gesù Cristo la pienezza della grazia, anche perché doveva esserne il principio per tutti noi, in Lui la grazia santificante personale è la stessa grazia santificante di capo della Chiesa per la santificazione altrui.
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6. Essere capo della Chiesa quanto all’interiore influsso della grazia è proprio di Gesù Cristo solamente; ma essere capo della Chiesa quanto all’esterno governo, questo è comune anche di altri, con questa differenza che mentre Cristo è capo immortale e universale e governa di propria virtù e autorità, gli altri sono capi temporali o locali, e facienti le sue veci. 7. Il diavolo, quanto al governo esterno, è capo di tutti i malvagi, perché li tira al suo fine, che è la rivolta a Dio; 8. anche l’Anticristo si può dire capo di tutti i malvagi; lo è già quanto alla perfezione, perché la sua malizia è superiore a tutte, e se non lo è ancora quanto al tempo e all’influsso, perché esso verrà alla fine dei tempi, tuttavia si può dire il capo egualmente, perché il diavolo, o altri che lo procedette e lo procederà, nonne sono che la figura.
Quest. 9. La scienza di Cristo. – 1. Oltre alla scienza divina bisogna ammettere in Gesù Cristo anche una scienza creata, perché egli ha assunta intieramente l’umana natura cioè corpo e anche anima e quest’anima perfetta, perciò, non col sapere in potenza, ma col sapere in atto; per di più Cristo avrebbe avuto inutilmente l’anima intellettiva se non ne avesse fatto uso; infine se ogni anima umana possiede una scienza creata, quella cioè dei primi principi, non la si può negare a Cristo. 2. A Gesù, che aveva quaggiù la visione beatifica, competeva la scienza dei beati, tanto più che egli doveva esserne le causa per i fedeli e la causa è sempre superiore agli effetti. 3. La scienza creata, che bisogna ammettere in Cristo, perché assunse una natura umana perfetta, (coll’anima quindi perfetta e coll’intelletto possibile in atto, fornito cioè delle specie intelligibili che sono le sue forme completive), importa in Gesù Cristo una scienza infusa, come
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la ebbero gli Angeli, per la quale conosce le cose nella loro natura mediante specie intelligibili proporzionate alla mente umana. 4. Come c’è in ogni uomo, anche in Cristo, che è uomo perfetto, ci fu oltre all’intelletto possibile, che si fa padrone delle cognizioni, anche l’intelletto agente, che lavora per ricavarle dalle cose; e si deve altresì ritenere che non ci fu inutilmente; perciò ci fu in Cristo anche una scienza acquisita, ricavata cioè dalle cose per mezzo dell’intelletto agente: ci fu adunque in Cristo la scienza acquisita connaturale agli uomini; la scienza infusa connaturale agli Angeli; la scienza beata connaturale a Dio.
Quest. 10. La scienza beata di Cristo. – 1. L’anima di Cristo vide il Verbo, cui era unita, e con ciò conobbe Dio nella sua essenza; ma non lo conobbe quanto è conoscibile, perché mentre Dio è infinito, l’anima di Cristo è finita e l’infinito non può essere compreso dal finito, perciò l’anima di Cristo conobbe l’essenza divina, ma non la comprese. 2. Nel Verbo quindi Cristo conobbe tutto ciò che vi è di reale pel presente, pel passato e pel futuro, sia di fatti, che di detti, che di pensieri, perché ciò spetta alla sua dignità specialmente di giudice del mondo; non conobbe però tutto ciò che vi è di possibile dipendentemente dalla potenza, non degli uomini, ma di Dio, perché allora avrebbe compreso la potenza divina e con ciò la essenza divina. 3. L’anima di Cristo, che conobbe tutto ciò che viè di reale in ogni tempo, non conobbe con ciò l’infinito in atto, perché tali realtà non costituiscono tal’infinito; conobbe però l’infinito in potenza ossia l’indefinito, perché conobbe l’infinità di cose possibili dipendentemente dalla potenza delle creature, con una scienza, non di visione, ma come di intelligenza semplice.
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4. La visione della essenza divina compete ai beati secondo il lume di gloria loro partecipato, cioè secondo la loro vicinanza al Verbo, ma l’anima di Cristo essendo unita al Verbo, è la più vicina a Lui, perciò l’anima di Cristo vede l’essenza divina più chiaramente di tutti i beati.
Quest. 11. La scienza infusa di Cristo. – 1. L’anima di Cristo colla scienza infusa ebbe cognizione di ogni cosa, perché era conveniente che fosse attuata ogni sua capacità, che cioè, fosse ridotta in atto ogni sua potenza passiva sia naturale, in dipendenza cioè da agenti naturali, che obedienziale, in dipendenza cioè dalla causa prima: colla scienza infusa quindi Cristo conobbe e tutto ciò che umano intelletto può conoscere e tutto ciò che può essere a uomo da Dio rivelato. 2. Apparteneva quaggiù Cristo non solo ai poveri viatori, ma anche ai beati comprensori, cui compete non essere soggetti al proprio corpo, Egli perciò poteva far uso della scienza infusa senza bisogno di imagini sensibili della fantasia. 3. Scienza discorsiva è quella che passa dal noto all’ignoto, scienza collativa è quella che mette a confronto due termini, per es. causa ed effetti, per conoscerne la relazione; la scienza infusa di Cristo fu discursiva e collativa quanto all’uso e a pro degli altri, ma non quanto all’acquisto, perché gli venne dall’alto. 4. La scienza infusa di Cristo fu superiore a quella degli Angeli e per la moltitudine delle cognizioni e per la loro certezza, perché ciò era dovuto al lume spirituale della grazia dato all’anima di Cristo, superiore a quello degli Angeli; essa però fu inferiore a quella degli Angeli quanto al modo di conoscere, perché questo si conforma alla natura dell’anima umana, che è inferiore a quella degli
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Angeli, i quali non fanno uso di sensi, di fantasia, di ragionamento. 5. La scienza infusa di Cristo era quale si conveniva all’anima umana che Egli aveva assunto e cioè non sempre in atto, non in sola potenza, ma in abito, giacché anche per noi la scienza è un abito mentale; 6. ed appunto per ciò, come in noi ci sono tanti abiti di scienza quanti sono i generi di scibile, così in Cristo la scienza infusa fu distinta secondo i diversi abiti di scienza.
Quest. 12. La scienza acquisita di Cristo. – 1. Come la scienza infusa attuava completamente in Cristo l’intelletto possibile, quello cioè che può farsi, conoscendo, tutto, così la scienza acquisita in Cristo doveva attuare completamente l’intelletto agente, quello cioè per l’azione del quale l’intelletto possibile può farsi, conoscendo, tutto; perciò Cristo di scienza acquisita conobbe ogni cosa. 2. Crebbe poi Cristo come in età così anche nella scienza acquisita, sia accrescendola mediante l’azione dell’intelletto agente, che dalle imagini della fantasia ricavava sempre nuove intellezioni, sia manifestandola con ragionamenti sempre più sottili e con opere sempre più sapienti. 3. Gesù non imparò niente dagli altri, perché ciò non conveniva a Lui che era stato costituito da Dio capo della Chiesa e anche di tutti gli uomini. 4. Neppure dagli Angeli Cristo ricevette alcun insegnamento, perché la scienza infusa e la scienza acquisita erano in se stesse perfette e d’altronde il ministero degli angeli per la scienza acquisita, proveniente dalle imagini sensibili, è superfluo e per la scienza infusa, proveniente dal Verbo, non era necessario.
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Quest. 13. Potenza dell’anima di Cristo. – 1. La potenza attiva di qualunque è conforme alla sua natura: l’anima di Cristo è parte della natura umana, che non è infinita, perciò era impossibile all’anima di Cristo una potenza infinita. 2. L’anima di Cristo secondo la natura e potenza sua propria poteva ciò che può un’anima, cioè virificare e dirigere il corpo; ma se essa si considera come strumento del Verbo, le si deve attribuire sulle cose la potenza di tutti i miracoli ordinabili al fine dell’Incarnazione, che è quello di instaurare ogni cosa in terra ed in cielo; 3. e anche sul proprio corpo l’anima di Cristo aveva un potere miracoloso immutativo, non come anima umana semplicemente, ma come strumento del Verbo; 4. a ogni modo l’anima di Cristo poté ciò che volle, perché dove non bastarono le sue forze naturali agiva come strumento del Verbo.
Quest. 14. Miserie del corpo assunte da Cristo. – 1. Mentre l’anima assunta da Cristo doveva essere perfetta, il corpo invece doveva essere assunto colle sue naturali miserie, perché così Cristo dava alla divina giustizia la dovuta soddisfazione, ai nemici della fede la prova della realtà dell’Incarnazione e a noi l’esempio della pazienza. 2. Il corpo di Cristo subì la necessità naturale dei dolori e della morte e subì anche la violenza dei carnefici, perché dai chiodi non poteva non essere forato, ma non subì violenza la volontà, la quale, mentre di moto naturale rifuggiva dalla morte, di moto deliberato l’accettava. 3. Le miserie naturali del corpo Cristo non le contrasse per debito di peccato, ma per volere suo, perché Egli assunse la natura umana quale era nello stato d’innocenza e perciò, come l’assunse senza il peccato, poteva assumerla anche senza le miserie che ne seguirono;
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4. e poiché venne per soddisfare al peccato della natura umana, al quale fine era in Lui necessaria la perfezione della scienza e della grazia, doveva assumere quelle miserie corporali che sono comuni alla natura umana e che tuttavia non impediscono la perfezione della scienza e della grazia; tali sono la fame, la sete, il sonno; non doveva però assumere certe miserie particolari che dipendono o da difetti gentilizi, come sarebbe il malcaduco, o da disordini personali, come sarebbe l’indigestione.
Quest. 15. Miserie dell’anima assunte da Cristo. – 1. Cristo non assunse nessuna miseria di peccato, perché il peccato non avrebbe giovato, come giovarono le miserie del corpo, ai tre fini dell’Incarnazione, che sono soddisfare per noi, mostrare la verità della natura umana ed esserci di esempio, anzi sarebbe stato loro contrario. 2. Cristo possedeva nel modo più perfetto la graziae tutte le virtù le quali rendono il corpo soggetto allaragione, in Lui perciò non ci fu il fomite della concupiscenza, cioè l’inclinazione dell’appetito sensitivo a ciò che è contro ragione. 3. Come la virtù esclude il fomite, così la scienza esclude l’ignoranza: in Cristo oltre alla grazia e alle virtù ci fu anche la pienezza della scienza, in Lui quindi non ebbe alcun luogo l’ignoranza. 4. L’anima di Cristo, formando una unità sostanziale col corpo, pativa dei dolori del corpo; ci furono anche in Lui, come in noi, le passioni animali, intesenel senso di affezioni dell’appetito sensitivo, in modo però ben diverso da noi, perché 1. in lui non inclinarono mai a oggetti illeciti; 2. non prevennero mai il giudizio della ragione; 3. tanto meno poi la travolsero, come in noi invece purtroppo succede. 5. In Cristo ci fu il dolore sensibile, alla verità infatti del dolore sensibile occorre la lesione e il sensodella lesione e
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in Cristo l’anima aveva tutte le potenze naturali e il corpo poteva essere leso. 6. Il dolore si ha per una lesione percepita daltatto, la tristezza invece si ha per un male percepito internamente dall’imaginazione e dalla ragione; nell’anima di Cristo perciò come ci fu vero dolore, ci fu anche vera tristezza, nonostante la visione beatifica di cui godeva, perché questa per divina dispensazione era contenuta nella mente. 7. La tristezza si differenzia dal timore solo in quanto la tristezza deriva dall’apprendere un male come presente, il timore invece deriva dall’apprenderlo quale futuro; in Cristo come ci fu vera tristezza così ci fu vero timore; non ci fu però paura, che è trepidazione per un evento futuro senza sapersene dare ragione. 8. In Cristo ebbe luogo anche la meraviglia, che si ha per le cose nuove ed insolite, ma questa solo per la sua scienza sperimentale, perché alla sua scienza beata ed infusa nulla poteva riuscire nuovo. 9. Dalla tristezza per un’ingiuria fatta a sé o ad altri deriva il desiderio di riparazione e ne sorge l’ira, passione composta di tristezza e di desiderio di vendetta: in Cristo, come poté esserci la tristezza, poté esserci l’ira, ma l’ira senza peccato, perché in lui le passioni non prevennero mai, né travolsero la ragione: quell’ira che si chiama zelo o santo sdegno. 10. Cristo quaggiù era comprensore, perché godeva della visione beatifica; ma questa per dispensazione divina era contenuta nella mente, gli restava però da conseguire la beatitudine quanto al resto, cioè nell’anima passibile e nel corpo passibile e mortale, perciò era insieme anche aviatore.
Quest. 16. Conseguenti dell’unione ipostatica. – 1. «Dio è uomo » è verità, perché Cristo è vero Dio e vero uomo, perciò i due termini, soggetto e predicato, sono veri, ed
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inoltre il secondo si può attribuire al primo, perché uomo si può giustamente dire di ciascuno che abbia l’umana natura, e Dio si può dire di ciascuna delle tre divine persone. 2. Supposta la verità della natura divina e della natura umana e l’unione delle due nature nell’unica persona del Verbo, come si dice: Dio è uomo, si può anche dire: e un uomo è Dio, perché colla parola uomo si designa una persona e questa può essere o una persona semplicemente umana, o la persona dal Verbo che ha assunto in sé la natura umana; 3. che se dicendo: «quell’uomo che si chiama Gesù», si designa la persona del Verbo che è lo stesso Dio, padrone dell’Universo, non si può dire che Gesù è uno uomo del Signore, ma si deve dire che è lo stesso Signore, altrimenti si è nestoriani: altrettanto però la natura umana non si può dire divina, ma deificata, e questo non per mutazione, ma per unione alla naturadivina. 4. Si può dire: il Dio della gloria fu crocifisso e il figlio dell’uomo è onnipotente, perché essendo in Cristo una stessa la Persona che ha due nature, la quale viene designata tanto col nome Dio, quanto col nome uomo, ed essendo che i predicati e le azioni si attribuiscono alla persona, ne consegue la comunicazione delle proprietà «idiomi» di ciascuna natura sia alla parola Dio, sia alla parola uomo, che designano la persona del Verbo; bene inteso però che predicati ed azioni si riferiscono, come a loro principio, alla relativa natura. 5. Che se una stessa è la Persona, non è però una stessa, ma sono due le nature, e perciò la comunicazione degli idiomi si può fare coi nomi concreti, come Cristo, che designano la persona, ma non si può fare coi nomi astratti, come la divinità, che designano la natura. 6. «Dio si è fatto uomo» è verità, perché, se Dio è uomo, non da tutta l’eternità, ma nel tempo ha assunta l’umana natura e ciò che comincia nel tempo si dice fatto;
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7. invece: «un uomo si è fatto Dio» è falsità, sesi intende che, divenendo un Dio, questo Dio abbia allora cominciato a essere Dio, perché Iddio è eterno; è falsità anche se si intende che uno, già persona umana, sia diventato Dio o sia stato assunto da Dio, perché in Gesù Cristo la persona è sempre unica e divina; è invece verità se si intende che avvenne che un uomo sia Dio. 8. «Cristo è creatura», detto così semplicemente, è parlare secondo l’errore degli ariani e perciò non si può dire; se invece si aggiunge questa determinazione «secondo la natura umana» allora si può dire; si può poi omettere tale determinazione quando attribuendo a Cristo ciò che è proprio della natura umana non si può sospettare che si intenda detto di lui come persona divina; così si può dire: Cristo nacque, Cristo patì, Cristo morì. 9. Avrebbe detto una falsità chi, indicando Cristo, avesse detto: quest’uomo ha cominciato ad esistere, perché la sua indicazione avrebbe designato direttamente la persona di Cristo, la quale è divina ed eterna: nelcaso, per non parlare secondo gli ariani, bisognerebbe aggiungere ancora la determinazione: «secondo la natura umana ». 10. «Cristo, secondoché è uomo, è creatura» è verità o falsità secondo che si intende; se colla parola uomo si intende o in qualunque maniera si designa la persona, è falsità, perché la persona è divina; se invece, come di solito, colla parola uomo si intende designare la natura umana, allora è verità. 11. «Cristo, secondo che è uomo, è Dio» è falsità se colla parola uomo si intende di designare non la persona, ma la natura umana di Cristo e poiché di solito si intende così quella è una frase che non è da non adoperarsi. 12. «Cristo, secondo che è uomo, è persona» è falsità se si intende che l’umana natura in Cristo sia anche persona; è verità solo se colla parola uomo si intende di designare non la natura umana, ma la persona di Cristo; ovvero intendendo di designare la natura umana si vuol
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dire che essa compete a una persona e cioè alla Persona del Verbo.
Quest. 17. Unità di esistenza in Cristo. – 1. InDio si identificano Persona e natura, essenza ed esistenza, si può quindi attribuire a una Persona la divinità tanto in concreto quanto in astratto e dire, p. es. che «il Figlio è Dio ed è la Divinità»; la natura umana invece non si identifica colla persona, per cui se si può dire che «Cristo è uomo» non si può dire che «Cristo è l’umanità»; cosicché possiamo dire che Cristo ha due nature, ma non possiamo dire che Cristo è due nature; e poiché ancora le due nature in concreto sussistono nell’unica Persona divina, dobbiamo dire che Cristo è uno solo e non già due e che in Cristo vi è un solo essere e non già l’unione di due esseri. 2. L’esistenza appartiene alla natura e alla persona; la persona riguarda «chi» ha l’esistenza, la natura riguarda «ciò per cui» si ha l’esistenza: Cristo non ha unito a sé una preesistente persona umana, ma ha assunto la natura umana nella sua persona divina, la quale così ebbe l’esistenza non solo secondo la natura divina, ma anche secondo la natura umana; ciò importò in lui soltanto una nuova forma di relazione colla natura umana; ma, quanto all’esistenza, come in Cristo è uno solo «chi» ha l’essere e c’è un solo essere personale, così c’è in Lui una sola esistenza.
Quest. 18. Le volontà in Cristo. – 1. La natura umana assunta da Cristo era perfetta, aveva perciò la volontà che ne è una naturale facoltà, assumendo poi l’umana natura Cristo non subì nessuna diminuzione nella natura divina,
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cui pure compete la volontà, perciòin Cristo ci sono due volontà, una divina e l’altra umana; 2. e poiché alla perfezione dell’umana natura, assunta da Cristo, appartiene anche l’appetito sensitivo, perciò ci fu in Cristo anche questo moto del senso, il quale, guidato dalla ragione, partecipa della volontà. 3. Come in ciascun uomo c’è una sola volontà, così anche in Cristo, come uomo, c’è una sola volontà, la quale però come in tutti, al fine tende necessariamente e ai mezzi tende liberamente, e perciò, ha dueatti: uno di volontà naturale, l’altro di volontà deliberativa. 4. La volontà deliberativa si attua colla scelta; la quale scelta è l’atto proprio del libero arbitrio: in Cristo c’è volontà deliberativa con scelta, in lui quindi c’è il libero arbitrio. 5. Cristo di moto della volontà naturale dell’appetito sensitivo, che partecipa della volontà, poté non volere la passione e la morte che Dio invece voleva, ma di moto della volontà deliberativa li volle come mezzi della Redenzione e perciò ebbe sempre la volontà a Dio conforme. 6. Che poi il moto della volontà naturale e dell’appetito sensitivo in Cristo, come avvenne nella Passione, potesse non volere ciò che volle di volontà deliberativa, non importa in lui contrarietà di volontà, perché la contrarietà ci sarebbe stata qualora avesse voluta e anche non voluta la stessa cosa per lo stesso motivo, ma il motivo invece era diverso; inoltre in Cristo la volontà naturale e l’appetito sensitivo erano soggetti alla volontà deliberativa, e questa come anche la volontà divina non erano impedite dalla volontà naturale e dall’appetito sensitivo.
Quest. 19. Le operazioni in Cristo. – 1. In Cristo come c’erano due volontà così c’erano due operazioni, perché in Lui agiscono, in comunione una coll’altra, la natura divina e la natura umana; la natura umana poi
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serve da istrumento alla natura divina e, come la scure partecipa al moto del legnaiuolo per fare uno sgabello e conserva la propria azione che è quella di tagliare, così in Cristo la natura umana partecipa dell’operazione della natura divina e conserva l’azione sua propria, altrimenti bisognerebbe dire o che la natura umana assunta da Lui era imperfetta o che si è confusa colla natura divina. 2. Come in ogni uomo c’è una sola operazione veramente umana, quella cioè che procede dalla volontà con cognizione intellettuale, così, anche in Cristo, nel quale c’è una sola natura umana, c’è di conformità una sola operazione umana: e ciò in modo speciale, in Lui, perché mentre negli altri uomini ci sono operazioni, come quelle della vita vegetativa, che non dipendono dalla volontà, in Cristo invece anche le operazioni naturali e corporali dipendono dalla volontà, perché espressamente volute. 3. Cristo colle azioni umane meritò per se stesso quello che non aveva ancora conseguito, cioè la gloria del corpo nella Risurrezione, l’Ascensione al Cielo esimili, perché era più nobile che ciò Egli avesse per merito e la Scrittura glielo attribuisce per l’obbedienza. 4. La grazia poi Cristo l’ebbe non solo come uomo particolare, ma anche come capo del suo corpo mistico, che sono gli uomini, perciò il suo merito si estende anche agli altri, che sono membri del suo corpo mistico.
Quest. 20. Soggezione di Cristo al Padre. – 1. La natura umana dipende da Dio, 1. perché Dio è il principio di quanto in lei c’è di buono, 2. perché, come ogni cosa, così anch’essa è soggetta alla divina disposizione e 3. perché è soggetta alla divina legge quanto alla volontà; Cristo aveva la natura umana, anch’Egli quindi era così soggetto a Dio e questa triplice soggezione Egli a Dio professò.
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2. E poiché Cristo nell’unità di Persona ha due nature, perciò secondo la natura divina è padrone di se stesso e secondo la natura umana è servo di se stesso.
Quest. 21. L’orazione di Cristo. – 1. In Cristo ci sono due volontà, la divina e la umana e poiché la volontà umana non può ciò che vuole, ma all’uopo ha bisogno del soccorso della potenza divina, perciò a Cristo come uomo compete pregare. 2. L’orazione è per tutti atto dell’intelletto e non atto del senso, tale quindi fu anche per Cristo; però si dice pregare secondo il senso quando coll’orazione si presenta a Dio qualche cosa che riguarda l’appetito sensitivo; e anche Cristo nella Passione pregò così per insegnarci e che egli aveva assunto veramente la natura umana, e che è lecito così pregare il Signore e che in ogni modo bisogna rassegnarsi alla divina volontà. 3. A Cristo poi convenne pregare per se stesso non solo secondo l’appetito sensitivo, ma anche secondo la volontà deliberata per insegnarci che il Padre suo è l’autore di ogni bene e per darci l’esempio della preghiera. 4. Cristo fu sempre esaudito nelle Preghiere che furono di volontà vera ossia deliberata, perché allora non volle se non ciò che sapeva essere volere di Dio; non lo fu invece nelle preghiere fatte secondo il desiderio naturale e l’appetito sensitivo; queste però sono preghiere più di velleità che di volontà.
Quest. 22. Il Sacerdozio di Cristo. – 1. Ufficio del Sacerdote, così chiamato perché tratta le cose sacre, è di essere mediatore fra Dio e il popolo, offrendo a Dio le preghiere e dando al popolo le grazie divine. Cristo ha ricondotto il mondo riconciliato a Dio, ha dato al mondo
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i doni celesti, Egli è perciò mediatore fra Dio e gli uomini e gli compete il nome di Sacerdote.
2. È per Cristo che agli uomini fu condonato il peccato, donata la gloria e conferita la perfezione della gloria e poiché questi sono gli scopi del sacrificio, che perciò si distingue in sacrificio per il peccato, in ostia pacifica ed in olocausto, perciò Cristo è non soltanto sacerdote, ma anche ostia perfetta. 3. A mondare perfettamente il peccato occorre la cancellazione e della macchia di colpa e del reato di pena, per cui occorre l’infusione della grazia e la soddisfazione di ogni debito: Gesù Cristo ci rese giusti colla grazia e portò il peso nei nostri peccati, il suo sacerdozio perciò ebbe per effetto l’espiazione perfetta dei peccati. 4. Cristo essendo mediatore fra Dio e gli uomini è al di sopra degli uomini e perciò, come il sole illuminagli altri ma non se stesso, così Gesù col suo sacerdozio santifica gli altri, ma non ha bisogno di santificare se stesso. 5. Il Sacerdozio di Cristo è eterno, non però quarto all’oblazione del sacrificio, bensì quanto ai frutti del sacrificio che si perpetuano in cielo. 6. Il sacerdozio di Mechisedech era figura del sacerdozio della Legge e questo era figura del sacerdozio di Cristo, perciò Cristo è sacerdote secondo l’ordine di Mechisedech; di tanto però è più eccellente di quanto la realtà supera la figura.
Quest. 23. Adozione di Cristo. – 1. Adottare uno significa ammetterlo alla partecipazione della propria eredità: in quanto Dio per sua bontà ammette gli uomini all’eredità della beatitudine rettamente si dice che li adotta, e questa adozione è superiore alla adozione umana, perché
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gli uomini, adottano chi è degno, Dio invece colla grazia rende degno chi adotta; 2. e poiché tale adozione è relativa alle creature, è comune a tutte tre le Divine Persone, perciò adottarel’uomo in figlio di Dio spetta a tutta la Trinità. 3. L’essere adottato in figlio di Dio è riservato alle creature intellettuali, perché l’adozione ci assomiglia al Verbo, che è Figlio naturale del Padre e procede dal Padre per l’operazione dell’intelletto; ma poiché il Verbo è unito al Padre, l’adozione resta per di più riservata a chi è unito a Dio mediante la grazia. 4. Gesù Cristo anche come uomo è sempre Persona divina e come tale è figlio naturale di Dio e perciò in nessuna maniera si può chiamare Cristo figlio di Dio adottivo.
Quest. 24. La predestinazione di Cristo. – I. L’Incarnazione, cioè l’unione delle due nature in Cristo, benché si sia compita nel tempo, fu però preordinata da tutta l’eternità; perciò Cristo si può chiamare predestinato. 2. Tale predestinazione sia nel decreto sia nel compimento è relativa alla natura umana: quindi non è errore il dire: Cristo in quanto uomo fu predestinato Figlio di Dio. 3. La predestinazione di Cristo è l’esemplare della predestinazione nostra, non già quanto all’atto di Dio predestinante che non precedette l’atto della predestinazione nostra, ma certo bensì, quanto all’effetto e quanto al termine di essa, perché è per lui che noi siamo predestinati all’adozione di figli di Dio e ne abbiamo la grazia; 4. e perciò nello stesso senso, cioè se non quanto all’atto bensì quanto al termine, si può dire che la predestinazione di Cristo fu la causa della predestinazione nostra.
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Quest. 25. Adorazione di Cristo. – I. L’onore termina sempre alla persona, tantoché anche quando si onora qualche parte di una persona nella parte si onora il tutto ed ancorché ci siano diverse ragioni di prestare onore, uno solo è l’onore che si presta a quell’unica persona che si onora per molte cause: orbene in Cristo la persona è unica, benché due siano le nature, perciò si deve adorare Gesù con un unico e medesimo culto di latria, sia nella natura divina, sia nella natura umana; 2. perciò l’umanità di Cristo, intesa come una appartenenza della Persona divina del Verbo, si deve adorare con culto di latria; che se si intendesse di onorare l’umanità di Cristo, come umanità, per la sua perfezione, allora le si deve culto di dulia; 3. anzi anche alle imagini di Cristo si deve culto di latria, quando si intende di onorarle con culto strettamente relativo, cioè come Cristo e non come segno; 4. la Santa Croce poi si deve adorarla con cullo di latria anche per il contatto che ebbe colle membra di Cristo e per il prezioso Sangue di cui fu cosparsa. 5. Il culto di latria si deve solo a Cristo; alle creature, come creature, si deve culto di dulia, purché siano delle creature razionali, che sole sono per sé capaci di onore; alla Vergine quindi, che è creatura, si deve non culto di latria, ma culto, anzi speciale culto di dulia ossia culto di iperdulia. 6. Se dei nostri antenati ci sono cari i vestiti perché loro appartenevano, i corpi, che a loro appartenevano più strettamente, ci devono essere anche più cari; ragionevolmente perciò onoriamo le reliquie dei Santi, i quali sono membra di Cristo, figli di Dio, nostri amici e nostri intercessori; tanto più che le onora lo stesso Dio, il quale per loro mezzo opera di continuo miracoli.
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Quest. 26. Cristo Mediatore. – 1. Mediatore è colui che unisce gli estremi; fu Cristo che colla morte riconciliò gli uomini a Dio; Cristo quindi è il perfetto Mediatore fra Dio e gli uomini. 2. Il mediatore si trova fra i due estremi, cioè al disopra dell’uno e al disotto dell’altro e li unisce comunicando all’inferiore ciò che è proprio del superiore; Cristo però non è al di sotto di Dio ma è Dio e non comunica ciò che è di altri superiore a sé, ma ciò che anche a Lui è proprio, perciò l’ufficio di mediatore a Cristo compete non come Dio, ma come uomo.
Quest. 27. Santità della Vergine. – 1. La Chiesanon celebra la festa se non di qualche santo; nella Chiesa si celebra la festa della Natività di Maria, dunque Maria nacque colla santità. 2. La Vergine non poteva essere santificata prima della sua animazione, perché la grazia è un dono dell’anima: doveva poi anch’essa venire santificata, perché Cristo è Redentore di tutti, doveva quindi esserlo anche di Lei. 3. Per fomite si intende la disordinata concupiscenza dell’appetito sensitivo, disordinata, cioè, perché contraria alla ragione: nella Vergine santa il fomite dapprima rimase nella sua essenza, ma fu come legato nei suoi effetti e fu soppresso poi quando divenne Madre del Redentore, quasi a riverbero della immunità dal peccato propria di Cristo. 4. La santificazione conseguita dalla Vergine importò che essa non commise alcun peccato, né mortale né veniale, perché era preannunciata: Tota pulchra. 5. Inoltre per la Divina Maternità trovandosi la Vergine vicina a Cristo, principio della grazia, più degli stessi Angeli da Lui conseguì la pienezza di ogni grazia, come significò l’Angelo chiamandola: Gratia Plena.
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6. Dalla Scrittura sappiamo che prima della nascita furono santificati anche Geremia e il Battista i quali prefigurarono Cristo, l’uno nella Passione e l’altro nel Battesimo.
Quest. 28. Verginità della Madonna. – 1. La Scrittura dice che la Madonna fu vergine prima del parto, e ciò fu conveniente per la dignità del Padre, del Figlio che è Verbo del Padre, e dell’umanità di Cristo, venuto per distruggere il peccato e per fare rinascere gli uomini alla grazia. Ecco Vergine una concepirà.... dice Isaia. 2. La Scrittura aggiunge che la Madonna fu Vergine nel parto, e ciò fu conveniente per la dignità del Verbo di Dio che da lui nasceva; per lo scopo della Incarnazione, che doveva essere quello di togliere la corruzione e per l’onore della madre che Cristo nascendo doveva conservare. – E Vergine una partorirà. 3. La Scrittura insegna che la Madonna fu Vergine dopo il parto; pensare il contrario è derogare alla perfezione di Cristo, che essendo unigenito come Dio doveva essere unigenito anche come uomo; ed è fare ingiuria alla dignità dello Spirito Santo, alla santità della Madonna e alla modestia di S. Giuseppe. – Questa porta chiusa resterà. 4. Le virtù sono più lodevoli se sono legate con voto; deve perciò ritenersi come consono alla santità della Madonna, cui convenne per tante ragioni la verginità, che Essa vi si legò con voto quando si legò in matrimonio con S. Giuseppe.
Quest. 29. Sposalizio della Madonna. – 1. Fu conveniente che Cristo nascesse da una Vergine sposata: I. per la le-
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gittimità della nascita, per la genealogia e per la tutela di Cristo; II. per la buona fama e perl’appoggio terreno della Vergine; III. per la conferma della nostra fede, il buon esempio della prudenza el’onore dello stato di verginità e di matrimonio. 2. Il matrimonio della Vergine con S. Giuseppe fu perfetto quanto alla forma, cioè nel consenso dell’unione coniugale e fu anche perfetto quanto a quegli effetti che verso una prole divina rimanevano possibili, cioè l’educazione.
Quest. 30. L’Annunciazione della Vergine. – 1. L’annuncio del Mistero da compiersi che l’Angelo diede alla Vergine era doveroso per l’ordine naturale delle cose; per la testimonianza del mistero che la Vergine doveva a noi; per l’ossequio della volontà che Ella avrebbe prestato a Dio; e per la indicazione del matrimonio spirituale tra il figlio di Dio e l’umana natura che Ella avrebbe data. 2. Era doveroso che l’annuncio del mistero fosse dato a Maria da un angelo, che è ministro di Dio, perché bisognava trattare con una Vergine. 3. Era doveroso che l’Angelo, il quale veniva ad annunciare la visibile Incarnazione di un Dio invisibile, prendesse forata visibile, perché cosi la Vergine fu più cerziorata della cosa. 4. Nell’annunciazione l’Angelo seguì un ordine conveniente, perché prima richiamò l’attenzione della Vergine, poi le annunciò il mistero da compiersi, infine la indusse al consenso.
Quest. 31. Formazione del corpo del Salvatore. – 1. Essendosi Cristo incarnato per purificare la natura
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umana dal peccato di Adamo era conveniente che Egli si formasse il corpo con materia derivata da Adamo. 2. Cristo, che doveva compiere le promesse fatte ad Abramo e a Davide, doveva discendere per generazione da loro. 3. Gli Evangelisti ci danno di Cristo la genealogia completa, perché uno ci dà la genealogia naturale e l’altro ci dà la genealogia legale; uno ci mostra la discendenza da Davide per mezzo di Giuseppe, l’altro ce la mostra per mezzo di Maria. 4. Benché il Figlio di Dio avesse potuto formarsi il corpo con qualunque materia, convenne tuttavia che Egli nascesse di donna, perché così fu nobilitata l’umana natura e così pure la verità dell’Incarnazione fu meglio stabilita. 5. Essendo Cristo nato di donna, ma di donna vergine, la sua generazione fu simile a quella degli altri uomini, ma fu anche distinta, e perciò il suo corpo fu formato dal sangue, ma dal sangue purissimo della Vergine. 6. E poiché il sangue è ossa e carne non in atto, ma in potenza, Cristo non prese dalla Vergine per il suo corpo alcunché di ciò che apparteneva ai genitori ed antenati della Vergine e quindi nessuna parte speciale e designata di Adamo poté arrivare sino a Lui. 7. Perciò in Cristo nulla derivò da Adamo che fosse stato nei suoi antenati soggetto a peccato; che se nei suoi antenati la natura umana derivata da Adamo era stata soggetta a peccato, ciò fu perché erano essi soggetti al peccato. 8. Similmente si può dire che Abramo non pagò decima a Melchisedech anche per Cristo suo discendente, perché Cristo aveva da ricevere decima, ma non dapagarne.
Quest. 32. Concepimento di Cristo. –1. Il principio attivo del concepimento di Cristo, cioè la causa efficiente
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dell’Incarnazione è stata tutta la Trinità, ma si attribuisce allo Spirito Santo, perché l’Incarnazione è opera di amore e di santificazione. 2. Perciò Cristo si dice concepito di Spirito Santo; lo Spirito Santo ha col Figlio di Dio relazione di consostanzialità e anche relazione di causa efficiente delsuo corpo e ambedue le relazioni si esprimono colla frase di Spirito Santo. 3. Con tutto ciò lo Spirito Santo non si può dire Padre di Cristo, come uomo, e nemmeno si può dire Cristo figlio della Trinità, perché ha nome di filiazione ciò che procede in simiglianza di natura e ciò non fu di Cristo come uomo relativamente allo Spirito Santo e alla Trinità. 4. La Vergine, essendo essa stata scelta come madre, per somministrare cioè la materia del corpo di Cristo, ed essendo la materia distinta dalla forma, cui spetta ogni principio attivo, nel concepimento di Cristo fu principio esclusivamente passivo e in nulla fu principio attivo.
Quest. 33. Modo ed ordine del concepimento di Cristo. – 1. La formazione perfetta del corpo di Cristo dal sangue della Vergine avvenne nello stesso istante del suo concepimento, benché soltanto in seguito sia cresciuto fino alla debita grandezza, ciò poi era dovuto all’infinito potere della causa efficiente, cioè dello Spirito Santo così pure ciò era anche richiesto dall’unione ipostatica, cioè dall’unione di due nature in una sola persona; 2. e poiché Cristo assunse il corpo mediante l’anima, perciò nel primo istante della concezione il corpo non fu soltanto formato, ma anche animato. 3. Mentre diciamo che Dio si fece uomo, non diciamo che un uomo si fece Dio e perciò il corpo di Cristo nello stesso istante del concepimento fu formato e anche
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assunto dal Verbo e in nessuna maniera preesistette a tale assunzione. 4. Il concepimento di Cristo si deve dire miracoloso perché il principio attivo, secondo il quale si è soliti parlare delle cose, nel concepimento di Cristo è soprannaturale.
Quest. 34. Perfezione della prole di Maria. – 1. La prole di Maria era stata preannunciata santa, perciò se nel primo astante del concepimento era animata, ebbe anche quei doni dell’anima nei quali consiste la pienezza della grazia. 2. Cristo nell’istante medesimo del suo concepimento fu perfetto ed animato perciò ebbe insieme anche l’uso del libero arbitrio; 3. e poiché nello stesso istante fu anche santificato, la sua fu una santificazione con moto di libero arbitrio, e perciò meritoria, cosicché Cristo nel primo istante del suo concepimento meritò; 4. e poiché la grazia che Cristo conseguì e conseguì subito fu grazia senza misura e perciò comprendente anche la grazia di beato comprensore, perciò Cristo fu compensore ed ebbe la visione beatifica nello stesso istante del suo concepimento.
Quest. 35. Nascita di Cristo. – 1. Chi nasce è una persona, ma la nascita ha per termine il conseguimento della natura, perciò la nascita si dice via alla natura. 2. Se perciò la natura è il termine della nascita, a Cristo, nel quale ci sono due nature, si devono attribuire due natività: una eterna e una temporale; 3. e la Vergine, avendo prestato a Cristo tutto ciò che presta una madre, è veramente Madre di Cristo.
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4. Essere concepito e nascere va attribuito non alla natura in astratto, ma alla persona in concreto; in Cristo la persona è unica ed è divina, Cristo è Dio, e perciò la Vergine se è Madre di Cristo è Madre di Dio. 5. In Cristo come ci sono due natività, l’eterna e la temporale, così ci sono due filiazioni, ma di ambedue uno solo è il soggetto, perciò riferendosi alla persona bisogna ammettere una sola filiazione, l’eterna; riferendosi invece alle nature, se ne devono ammettere due. 6. Essendo la Madonna rimasta Vergine anche nel parto diedealla luce il Salvatore Gesù senza nessun dolore e colla grande gioia che sia nato al mondo l’Uomo-Dio Redentore. 7. Cristo volle nascere a Betlemme, perché di Betlemme era Davidde, dalla cui stirpe Egli discendeva; e perché «Betlemme »vuol dire «Casa di pane » ed Egli era il pane vivo disceso dal cielo, come disse di sé nel Vangelo. 8. Cristo si deve dire nato nel tempo più opportuno, perché fu quello che Egli, padrone del tempo, scelse secondo i disegni della sua sapienza; e nacque quando regnava la pace, il popolo ebreo aspettava il Messia e il mondo abbisognava del Redentore.
Quest. 36. Manifestazione di Gesù. – 1. La nascita di Gesù non doveva essere manifesta a tutti, perché altrimenti sarebbe stata impedita l’opera della Redenzione e sarebbe stato diminuito il merito della Fede; 2. ma affinché poi essa fosse proficua doveva essere manifesta ad alcuni e precisamente a testimoni preordinati, come fu altresì della sua Risurrezione; 3. e quei testimoni preordinati furono convenientemente scelti, perché ce ne furono di ogni condizione cioè: i pastori e i magi, Simeone ed Anna; ossia poveri e ricchi, ignoranti e sapienti, uomini e donne, giusti e peccatori;
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4. e convenne che Cristo si rendesse manifesto per loro mezzo e non già per se stesso per cominciare così la propagazione di quella Fede, in cui sta la salute. 5. A quei testimoni preordinati la manifestazione di Cristo doveva effettuarsi per mezzo di segni a loro familiari, e questi furono l’ispirazione dello Spirito Santo per i giusti; gli Angeli per i pastori che erano dei Giudei soliti agli annunci angelici; e la stella per i magi, i quali erano dediti alla contemplazione degli astri e dovevano ricevere l’annuncio di un fatto non terreno, ma celeste. 6. Nella manifestazione della nascita di Cristo fu seguito anche il debito ordine, perché allora fu fatta prima ai pastori, poi ai magi e infine ai giusti nel tempio, come più tardi doveva farsi prima agli Apostoli e discepoli, poi ai gentili ed infine alla nazione giudaicatutta. 7. La stella che apparve ai magi deve ritenersi non una stella comune ma una stella miracolosa, perché seguì una via nuova, ebbe una apparizione improvvisa e risplendeva di notte e anche di giorno. 8. È da ritenersi che i Magi, i quali sono le primizie dei gentili, siano venuti ad adorare Cristo seguendo l’ispirazione dello Spirito Santo.
Quest. 37. Gesù Bambino e le osservanze legali. – 1. Cristo subì la circoncisione per mostrare che aveva un corpo vero; per approvarne il rito; per provare la sua discendenza da Abramo; per non riuscire inviso ai Giudei; per darci esempio di obbedienza alla legge e per liberare i credenti dall’onere che essa portava. 2. A Cristo fu convenientemente imposto il nonne di Gesù, che significa Salvatore, perché Egli era venuto per salvare gli uomini dalla morte del peccato; nome che l’Angelo aveva preannunciato a Maria e a Giuseppe. 3. La Legge di Mosè prescriveva che tutti i neonati fossero presentati al tempio e prescriveva inoltre che il pri-
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mo figliuolo che nascesse fosse offerto a Dio e riscattato; avendo Cristo voluto nascere al tempo della Legge convenientemente si sottopose all’osservanza di quei due precetti; 4. e come Egli volle sottoporsi all’osservanza della Legge, benché non ne fosse soggetto, perché era il Padrone e non il suddito, così volle che anche la sua Vergine Madre si sottoponesse alla Legge della Purificazione, benché non ne avesse bisogno.
Quest. 38. Il Battesimo di S. Giovanni. – 1. Il battesimo di Giovanni fu opportuno, perché diede occasione al battesimo e alla manifestazione di Cristo e perché assuefaceva gli uomini al battesimo di Cristo e colla penitenza ne li rendeva degni. 2. Nel battesimo di Giovanni va distinta l’istituzione che era divina, cioè ispirata dallo Spirito Santo, dall’effetto, che era umano, perché era una esterna, benché simbolica, abluzione; 3. perciò il battesimo di Giovanni non conferiva la grazia, ma disponeva alla grazia in quanto preparava alla fede, assuefaceva al battesimo di Cristo e induceva alla penitenza per riceverlo con frutto. 4. Altri oltre a Cristo dovevano ricevere il battesimo di Giovanni, perché se solo Cristo l’avesse ricevuto, sarebbe ad alcuni apparso migliore del battesimo di Cristo e perché erano gli altri che avevano bisogno di essere preparati al battesimo di Cristo; 5. ed appunto perché il battesimo di Giovanni preparava gli uomini al battesimo di Cristo non occorreva che cessasse quando Cristo cominciò a battezzare, tanto più che la cessazione avrebbe potuto sembrare effetto di gelosia, e poi i discepoli del Battista si sarebbero tanto più adontati che Cristo battezzasse.
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6. Essendo stato il Battesimo di Giovanni non in aqua et Spiritu Sancto, ma in aqua soltanto, occorreva che tutti quelli che lo avevano ricevuto, per avere la grazia, ricevessero poi totalmente il battesimo di Gesù Cristo.
Quest. 39. Il Battesimo di Gesù. – 1. Gesù volle ricevere il battesimo non per essere santificato dalle acque ma per santificare le acque; per santificare non in se stesso, ma negli altri la natura umana da lui assunta; e per darci esempio di sottomissione a ciò che egli aveva disposto non per sé ma per gli altri. 2. Cristo ricevette il battesimo di Giovanni per approvarlo e per santificare il battesimo; ma non ricevette il battesimo suo, perché nonne aveva bisogno. 3. Cristo ricevette il battesimo all’inizio del suo ministero pubblico per apparire idoneo a insegnare e a predicare e per mostrare che il battesimo rende l’uomo perfetto, come era Lui a quell’età. 4. Cristo ricevette il battesimo nel Giordano, perché fosse significato che il Giordano per quel battesimo aprì l’adito al regno di Dio, come una volta il Giordano aprì l’adito al regno della terra promessa. 5. Quando Cristo si battezzò, i cieli si aprirono per mostrarci che il battesimo è di una virtù celeste ed è la chiave del regno dei cieli. 6. Quando Cristo si battezzò lo Spirito Santo discese sopra di Lui in forma di colomba per mostrare che tutti coloro che ci battezzano ricevono lo Spirito Santo, purché si battezzino con semplicità di cuore, come è simboleggiato dalla colomba. 7. La colomba che apparve si può ritenere una colomba vera, miracolosamente formata, perché le finzioni mal si addicono al figlio di Dio, che è la stessa verità. 8. Il battesimo ricevuto da Gesù è l’esemplare del battesimo nostro, che viene dato nella virtù e nell’invocazio-
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ne della Trinità, perciò a completare l’esemplare quando Cristo si battezzò si fece anche udire la voce del Padre.
Quest. 40. Cristo e il suo modo di trattare cogli uomini. – 1. Cristo era venuto al mondo a manifestare la verità, a liberare gli uomini dal peccato e ad aprirci l’accesso a Dio; a questi tre fini conformò il suo vivere; visse quindi non solitario ma in mezzo agli uomini. 2. Convivendo cogli uomini si conformò anche alloro modo di vivere ed anziché una vita austera nel mangiare e nel bere seguì il modo di vivere che è comune a tutti gli stati di vita. 3. Scelse anzi il genere di vita più comune, che èla vita povera e così, senza beni da amministrare Egli era più libero di dedicarsi a predicare e conduceva una vita, cui fu degna corona la morte di croce; inoltre la sua predicazione appariva evidentemente disinteressata e lo stato di povertà veniva in Lui esaltato. 4. Cristo conformò la sua vita anche ai precetti della Legge e con ciò la approvò, la compié in se stesso, ponendovi così termine, e prevenne le maligne accuse dei Giudei.
Quest. 41. Tentazione di Cristo. – 1. Cristo volle essere tentato per mostrarci che nessuno, per quanto giusto, è esente da tentazioni, per insegnarci il modo di vincerle e per eccitarci alla confidenza. 2. Cristo volle essere tentato nel deserto per indicarci che quanto più cerchiamo la solitudine per il raccoglimento dello Spirito Santo, tanto più siamo tentati. 3. Cristo volle che la sua tentazione venisse dopo il digiuno per insegnarci che il digiuno è ottimo apparecchio alla tentazione e che anche chi digiuna è soggetto alla
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tentazione, e precisamente a tentazioni che riguardano lo stesso suo digiuno. 4. Cristo volle che la sua tentazione seguisse con quell’ordine e in quel modo per insegnarci che la tentazione comincia dal poco e sale al molto, comincia da cose che sembrano esigenze naturali, progredisce colla superbia ed arriva fino al disprezzo di Dio.
Quest. 42. Insegnamenti di Cristo. – 1. Cristo acquistò il dominio di tutti i popoli colla sua Passione, perciò prima di essa la sua predicazione si limitò ai Giudei anche perché a loro era stato il Messia promesso; a loro doveva risultare evidente la sua venuta da Dio e a loro doveva essere sottratto ogni pretesto di non entrare nella Chiesa. 2. Lo scandalo che mostrarono gli Scribi e Farisei era uno scandalo di malizia per impedire la salute del popolo, giustamente quindi Cristo lo sprezzò ed affrontò. 3. L’insegnamento di Cristo fu pubblico e non occulto, perché Egli non era geloso della sua scienza, né aveva dottrine furtive da insegnare; Egli insegnava sempre alle turbe o anche ai soli Apostoli, ma in comune e se talora fece uso di parabole, fu perché esseri vestivano bellamente i misteri spirituali. 4. Cristo insegnò a voce e nulla scrisse e ciò convenne alla sua eccellenza di maestro che imprime gli insegnamenti nell’anima e non nella carta e ciò convenne anche all’eccellenza della sua dottrina, che non può essere ristretta e chiusa nei libri.
Quest. 43. I miracoli di Cristo in genere. – 1. I miracoli confermano la verità di ciò che uno insegna e manifestano la presenza di Dio in Lui; l’una e l’altra cosa
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doveva essere nota agli uomini relativamente a Cristo, era quindi convenientissimo che Egli operasse Miracoli. 2. I veri miracoli possono essere fatti soltanto per virtù divina, perché Dio solo può mutare l’ordine della natura; Cristo fece veri miracoli; Egli perciò operò per virtù divina. 3. I miracoli di Cristo avevano lo scopo di confermare la verità che insegnava e perciò convenne che aspettasse a farli quando cominciò ad insegnare; doveva poi cominciare ad insegnare quando fosse giunto all’età perfetta, così si spiega perché cominciò a fare miracoli alle nozze di Cana. 4. I miracoli di Cristo dimostrarono scientemente la sua divinità, e perché erano opere che trascendevano l’umano potere, è perché li operava in suo nome e cioè di sua autorità, e perché Egli stesso li citava come prova della sua divinità.
Quest. 44. I miracoli di Cristo in specie. – 1. Fu conveniente che Cristo operasse miracoli sugli esseri spirituali, cioè sui demoni, col cacciarli, perché questi miracoli, che erano diretti contro il diavolo, che è il nemico della Fede, riuscivano i più validi argomenti della Fede. 2. Fu conveniente che Egli operasse miracoli anche sui corpi celesti come quando alla sua morte il sole si oscurò, perché così mostrò che il suo potere si estendeva anche al cielo. 3. Fu convenientissimo che Cristo operasse miracoli sugli uomini, ridonando ai malati la salute, perché così si mostrò loro universale e spirituale salvatore. 4. Fu altresì conveniente che Cristo operasse miracoli sulle creature irrazionali, con prodigi di ogni genere, per mostrare che tutte le cose sono a Lui soggette ed aiutare così la fede degli uomini.
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Quest. 45. La trasfigurazione di Cristo. – 1. Opportunamente Cristo si trasfigurò e si mostrò ai discepoli nello splendore della sua gloria, per insegnare che essa è il fine della tribolazione. 2. Lo splendore della trasfigurazione era uno splendore essenziale a Cristo, perché derivato dall’interna gloria dell’anima sua beata e della sua divinità; Egli però per un volere suo particolare lo contenne sempre dentro di sé fin dalla nascita; fu perciò esso anche uno splendore fuggevole e non una qualità permanente del corpo. 3. Gesù volle che presenziassero alla sua trasfigurazione Mosè ed Elia e gli Apostoli prediletti, perché ne fossero testimoni gli uni quali rappresentanti degli uomini anteriori a Cristo, gli altri quali rappresentanti degli uomini a Lui posteriori. 4. La nostra adozione a figli di Dio comincia col Battesimo e si compie colla gloria del Paradiso; perciò come si fece udire nel Battesimo di Gesù la voce del Padre, così fu conveniente che essa si facesse udire altresì nella trasfigurazione, per indicare che la nostra adozione è perfetta.
Quest. 46. La Passione di Cristo. – 1. Per la Redenzione del genere umano era necessario che Cristo subisse la Passione e la Morte; ma ciò non di necessità assoluta, perché Iddio poteva provvedere altrimenti, e neppure di necessità estrinseca, perché nessuno poteva costringervelo, nessuno essendo a Dio superiore, bensì di necessità relativa al fine da conseguire, che per noi era la liberazione dalla morte, per Cristo era l’esaltazione nella gloria e per Iddio era l’adempimento delle promesse. 2. Quindi, assolutamente parlando, la Redenzione umana era possibile a Dio con qualunque altro mezzo, all’infuori della Passione di Cristo; invece parlando relativamente alla prescienza e ai decreti divini la Redenzione
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umana non era possibile a Dio con nessun altro mezzo, all’infuori della Passione di Cristo. 3. La Passione poi di Cristo riuscì il modo più conveniente dell’umana Redenzione, perché così l’uomo conobbe quanto Dio lo ama; Cristo ci diede l’esempio di ogni virtù e ci acquistò non solo liberazione, ma anche grazia e gloria; noi impariamo ad essere solleciti di conservarci immuni dal peccato e l’umana natura, vinta dal diavolo, ebbe sul diavolo la rivincita e riacquistò il suo prestigio. 4. Fu poi convenientissimo che la morte di Cristo fosse morte di croce, perché con essa ci fu dato esempio e ci fu infuso coraggio ad incontrare qualunque morte; perché come da un albero ci venne la rovina, così da un albero ci venne la Redenzione; perché Cristo sospeso in aria purificò anche l’aria piena di demoni, sollevato da terra ci invitò al cielo, rivolto ai quattro angoli del mondo tutti chiamò alla salute e della Croce di sua passione fece la Cattedra della sua dottrina; infine perché il legno della Croce corrispose a molte figure del Vecchio Testamento nelle quali il legno è strumento di salute, come nell’arca di Noè e nell’arca dell’alleanza. 5. Si può dire che Cristo soffrì tutti i dolori nel senso che soffrì ogni genere di dolore: da parte degli uomini concorsero alla sua Passione Giudei e Gentili, uomini e donne, dignitari e popolo, estranei e familiari; da parte della sua persona Egli soffrì nell’amicizia per l’abbandono dei suoi, nella gloria per le ingiurie, nella fama per le calunnie, nella roba per la spogliazione delle vesti, nell’anima per la tristezza, il tedio, il timore, e nel corpo per le ferite e la flagellazione; da parte delle sue membra Egli soffrì nel capo coronato di spine, nel viso schiaffeggiato, nelle mani e nei piedi trapassati dai chiodi, e in tutto il corpo sottoposto alla flagellazione; da parte dei sensi Egli soffrì nel tatto per le spine, i chiodi e i flagelli, nel gusto per il fiele e l’aceto; nell’olfatto per i cadaveri del Cal-
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vario, che era luogo di supplizio, nell’udito per lo schiamazzo degli spettatori e nella vista per il dolore di Maria e di Giovanni che stavano a pie’ della Croce. 6. I dolori della Passione di Cristo eccedono ogni altro dolore per 4 ragioni: I. per le loro cause: il dolore sensibile fu causato in Lui da lesioni acerbissime e generali; dolorosissima fu la sua morte in croce, perché le mani e i piedi nel centro della loro sensibilità furono trapassati da chiodi e straziati dal peso del corpo; lunghissimo fu il suo tormento a differenza di chi è decapitato, che muore subito: il dolore interno fu causato dai peccati di tutto il mondo, dalla perdizione del popolo eletto e dal naturale orrore alla morte; II. per la sensibilità di Cristo: Gesù, figlio di Maria, era delicatissimo di corpo e di animo; III. per il dolore in sè: ogni dolore sofferto da Cristo fu senza mitigazione o conforto; IV. per il dolore considerato in relazione al fine: Gesù sofferse volontariamente e volonterosamente per la salvezza di tutto il mondo e la grandezza di questo fine importava una grandezza proporzionata di dolore. 7. Nei dolori della Passione pativa tutta l’anima di Cristo, perché l’anima, che è forma sostanziale del corpo, quanto all’essenza c’è tutta in tutto il corpo etutta in tutte le parti del corpo; non così quanto alle potenze, ma le singole potenze inferiori, che nell’anima erano radicate, partecipavano ai dolori delle altre; non pativa invece in Cristo la ragione superiore, perché essa era fissa in Dio: 8. e perciò anche l’anima di Cristo, che quanto all’essenza c’era tutta anche nella ragione superiore, godeva colla ragione superiore, mentre pativa nel corpo, né ciò è contradditorio, perché diverso era il motivo del godere e del patire. 9. Il tento della Passione fu scelto da Dio sapientissimo, si deve dire adunque il più opportuno, e tale davvero fu, perché la morte di Cristo, Agnello senza macchia,
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coincidette col tempo Pasquale, e coll’ora del sacrificio vespertino ed avvenne nell’età perfetta di Cristo. 10. Anche il luogo della morte di Cristo si deve dire opportunamente scelto dalla divina sapienza e tale fu perché Gerusalemme era il centro del mondo di allora e si riteneva che nel monte Calvario fosse seppellito Adamo, da cui derivò la perdizione del mondo. 11. Fu pure sapiente disposizione di Dio che Cristo fosse crocifisso fra due ladroni, perché così fin dalla Croce apparve Giudice degli uomini. 12. La Passione e morte di Cristo si può attribuire alla Persona divina di Gesù Cristo, non però alla sua natura divina, perché la natura divina è impassibile eimmortale.
Quest. 47. Causa efficiente della Passione di Cristo. – 1. Non Cristo uccise se stesso, ma lo uccisero gli altri; si può però dire volontaria la sua morte in quanto non la impedì, pur potendo impedirla. 2. Gesù Cristo si sottopose per obbedienza alla morte di Croce e così offrì a Dio il sacrificio più gradito, quello cioè della volontà; sanò la disobbedienza di Adamo; diede a noi esempio di quella obbedienza, che è la virtù necessaria per vincere; 3. il Padre poi ha dato il Figlio alla Passione e alla morte coll’eterna preordinazione della sua volontà, coll’ispirazione data al Figlio di voler patire e coll’azione negativa di non sottrarlo alle mani dei Giudei. 4. Come la Redenzione doveva avere corso prima coi Giudei e poi coi Gentili, così convenne che la Passione di Cristo fosse iniziata dai Giudei e terminata dai Gentili. 5. I maggiori responsabili della morte di Cristo sapevano che Egli era il Messia, ma ignoravano, benché di ignoranza affettata, che Egli fosse Figlio di Dio; il Popolo poi non sapeva bene nemmeno che Egli fosse il Messia;
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6. il peccato dei primi, perciò, fu gravissimo e per genere di peccato e per la malizia della volontà; meno grave fu il peccato dei secondi e più scusabili furono i Gentili.
Quest. 48. Come meritò la Passione di Cristo. – 1. La Passione di Cristo ha causata la nostra salute meritandola, perché Egli era capo della Chiesa e i meriti del capo appartengono anche al suo corpo mistico. 2. Cristo colla Passione ha causata la nostra salute soddisfacendo per noi, anzi la soddisfazione da Lui prestata alla divina giustizia fu superiore al debito di tutti i peccati del mondo e ciò per la immensità della carità di Cristo nel patire, per la dignità infinita della sua persona e anche per l’universalità dei dolori da Lui sofferti. 3. Essendo il Sacrificio un’opera in onore di Dio per placarlo, la Passione di Cristo per la nostra salute ebbe anche il pregio del sacrificio; fu poi sacrificio accettissimo, perché proveniente da somma carità; fu sacrificio vero perché corrisponde alle molte e varie figure della Legge; fu sacrificio sommo, perché tale risulta se si considera a chi, da chi, per chi e che cosa in esso viene offerto. 4. Per causa di Adamo l’uomo era soggetto alla schiavitù del diavolo per il peccato ed era soggetto alla Giustizia di Dio per le pene dovute al peccato; Gesù Cristo soddisfacendo per noi ha come pagato il prezzo della nostra liberazione da quei due vincoli, e ci ha con ciò «redenti» vale a dire «ricomperati»; 5. e poiché il prezzo della Redenzione fu il sangue versato da Cristo, la Redenzione va attribuita al Figlio, che ha assunta l’umana natura, benché la causa prima ne sia tutta la Trinità. 6. Anzi la Passione di Cristo si può dire causa efficiente della nostra Redenzione, benché sia causa efficiente strumentale e non principale.
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Quest. 49. Effetti della Passione di Cristo. – 1. La passione di Cristo ci ha liberato dai peccati in tre modi: I. provocandoci alla carità che ridona la grazia; II. pagando il prezzo della nostra schiavitù del peccato; III. espellendo il peccato per virtù divina di cui la Passione era strumento. 2. La Passione di Cristo ci ha sciolti dal potere del diavolo, perché per essa il peccato ci fu rimesso, noi siamo stati riconciliati con Dio e il diavolo rovinòse stesso per eccesso di malizia, esso infatti procurò la morte di Cristo che doveva essere la nostra Redenzione. 3. La Passione di Cristo ci ha liberati dalla pena dovuta ai peccati sia direttamente, soddisfacendo cioè per noi, sia anche indirettamente, perché ne toglie cioè la radice che è il peccato, dal quale essa cilibera. 4. La Passione di Cristo ci ha riconciliati con Dio per due motivi: I. perché ha rimosso il peccato che ci fa nemici di Dio; II. perché ha avuto pregio di sacrificio, il cui effetto è di placare Dio. 5. La Passione di Cristo ci ha aperte le porte del Cielo, perché ci ha liberati dalla colpa e dalla pena del peccato che ce le tenevano chiuse. 6. Cristo colla Passione meritò la sua esaltazione; giustizia vuole che quanto più uno viene ingiustamente depresso tanto più sia poi esaltato; nella Passione la dignità di Cristo fu oltremodo depressa: incontrò la morte cui non era soggetto, il suo corpo fu posto in un sepolcro e l’anima andò ai luoghi inferni, Egli sostenne ogni ignominia e fu anche dato in potere dei nemici; gli spettò quindi passare dalla morte alla Risurrezione gloriosa, dal sepolcro e dal limbo al Cielo nell’Ascensione, dal disprezzo degli uomini al consesso con Dio alla destra del Padre e dall’essere in potere altrui all’avere il potere su tutti, per esercitarlo nel Giudizio.
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Quest. 50. Morte di Cristo – 1. Fu opportuno che Cristo morisse, perché: I. la morte è la pena del peccato ed Egli ha fatto suoi i nostri peccati; II. Nella morte mostrò la verità della natura umana; III. Colla morte ci ha liberati dal timore della morte; IV. morendo corporalmente per il peccato ci insegna a morire spiritualmente al peccato; V. morendo e poi risorgendoci infonde speranza nella risurrezione. 2. Nella morte di Cristo la divinità non si separò dal suo corpo, perché la divinità era unita al corpo di Cristo per la grazia di unione e ciò che si ha per grazia si perde solo per la colpa; ma a Gesù non è imputabile nessuna colpa, Egli quindi conservò sempre la grazia di unione; 3. per la stessa ragione nella morte la divinità non si separò nemmeno dall’anima di Cristo, il che deve maggiormente dirsi per la ragione che Cristo nell’Incarnazione assunse il corpo mediante l’anima. 4. Uomo non è chi non ha il corpo animato; nella morte di Cristo, che fu vera morte, l’anima si separò dal corpo, Cristo perciò nei tre giorni della morte non aveva un corpo animato e perciò non era più uomo e soltanto si poteva dire un uomo morto. 5. Il corpo di Cristo, vivo e morto, fu sempre numericamente quello stesso, cioè quell’unico e medesimo corpo che, vivo e anche morto, era ipostaticamente unito alla Persona del Verbo; non fu però totalmente lo stesso, perché il corpo vivo ha l’anima che è qualche cosa di essenziale per lui, e il corpo morto non l’ha. 6. La morte di Cristo in fieri è la stessa Passione ed ha lo stesso merito della Passione; invece la morte di Cristo in facto, ossia la separazione dell’anima dal corpo, non meritò la nostra Redenzione, perché alla morte sua Cristo, «Dio e uomo», non esisteva più in essa però il corpo, benché separato dall’anima, era unito alla divinità, e perciò di efficienza strumentale ci valse
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la liberazione dalla morte dell’anima per la grazia e dalla morte del corpo per la Risurrezione.
Quest. 51. Sepoltura di Cristo. – 1. Fu conveniente che Cristo vestisse sepolto, perché con ciò fu provatala verità della sua morte; colla susseguente risurrezione ha in noi attenuato l’orrore del sepolcro; col suo celarsi al mondo ci ha insegnato che chi muore al peccato si sottrae ai rumori del mondo. 2. Parimenti fu opportuno il modo con cui venne sepolto, perché divenne argomento della verità della morte e della Risurrezione di Cristo e a noi ha segnalato l’esempio della pietà di coloro che alla sepoltura si prestarono. 3. Il corpo di Cristo non doveva nel sepolcro andare soggetto alla dissoluzione e ridursi in polvere, perché la sua morte non era dovuta a infermità della natura assunta, ma a volontaria assunzione della morte. 4. Gesù Cristo rimase morto due notti e un giorno e ciò ha un senso mistico: le due notti sono le due morti, quella dell’anima e quella del corpo, da cui liberò noi, la morte sua invece era il giorno.
Quest. 52. La discesa all’inferno. – 1. Fu opportuna la discesa di Gesù all’inferno, perché, come assoggettandosi alla morte liberò noi dalla morte, così discendendo all’inferno liberò noi dall’inferno; inoltre conveniva che, dopo di aver vinto il diavolo, gli strappasse di mano la preda; infine conveniva che, come aveva mostrata la sua potenza in terra, la mostrasse anche all’inferno. 2. Colla sua anima Cristo discese solo all’inferno dei giusti, cioè al Limbo, ma colla sua azione discese anche all’inferno dei dannati per rinfacciarli della incredulità e
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malizia loro e discese all’inferno delle anime purganti per consolarle. 3. Nella morte di Cristo l’anima si separò dal corpo, ma né l’una né l’altro si separò dalla persona di Cristo che è persona divina e perciò Cristo come persona fu allora tutto nel sepolcro, tutto all’inferno e tutto dappertutto. 4. La Scrittura sembra insinuarci che l’anima di Cristo sia rimasta nel Limbo per tutto il tempo che il corpo rimase nel sepolcro. 5. Cristo discendendo al Limbo liberò i Santi Padri, che ivi stavano chiusi, perché essi vi erano per il peccato di Adamo, la cui pena fu la morte corporale e l’esclusione dalla gloria del cielo, e Gesù colla sua morte ha liberato il mondo dalla colpa e dalla pena del peccato originale. 6. Ma poiché il frutto della sua morte era applicabile soltanto a quelli che erano a Lui uniti di fede e di carità, delle quali i dannati mancavano, perciò la discesa di Gesù all’inferno non portò la liberazione ai dannati. 7. Gli stessi bambini morti col peccato originale, se non erano a Cristo uniti di Fede e di Carità, non potevano essere liberati alla sua discesa all’inferno. 8. Quanto poi alle anime del Purgatorio, siccome la Passione di Cristo doveva valere allora quanto vale oggi, si deve ritenere che alla discesa di Gesù all’inferno furono liberate quelle che erano pronte per la loro liberazione.
Quest. 53. La Risurrezione di Cristo. – 1. Era necessaria la Risurrezione di Cristo per l’esaltazione della Giustizia divina, per l’istruzione della nostra fede, per l’erezione della nostra speranza; per l’informazione della nostra condotta e per il compimento della nostra salvezza. 2. Fu conveniente che Cristo risorgesse il terzo giorno, perché Egli doveva restare nel sepolcro solo quanto era necessario per confermare la verità della sua morte e per
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questo bastavano le due notti e il giorno compreso; il terzo giorno poi aveva il senso mistico della terza età del mondo, che cominciava colla Risurrezione di Cristo. 3. La vera Risurrezione sta nel risorgere dalla morte per non mai più morire in seguito; in questa maniera Cristo fu il primo a risorgere e le risurrezioni di altri prima di Lui furono risurrezioni imperfette. 4. Cristo fu causa della sua Risurrezione, perché risuscitò se stesso per virtù della divinità che, essendo alla morte rimasta unita all’anima e al corpo, riunì nel terzo giorno l’anima al corpo; per virtù invece dell’umanità ciò non era possibile; essa aveva bisogno di essere risuscitata da Dio.
Quest. 54. Qualità di Cristo risorto. – 1. Il risorgere è proprio di ciò che cade: il corpo di Cristo, che cadde per la morte ed ebbe l’anima separata, fu quello che ritornò in vita per la risurrezione ed ebbe l’anima riunita; e come prima della morte esso era un corpo vero, così dopo la risurrezione fu un corpo vero; 2. nella Risurrezione quindi il corpo di Cristo fuun corpo della stessa natura, benché di diversa gloria; perciò riebbe quella carne, quel sangue, quelle ossa, quella pelle di prima, altrimenti non sarebbe stata verarisurrezione. 3. Il corpo di Cristo risorse glorioso, perché, se risorgono gloriosi i giusti, tanto più doveva essere gloriosa la risurrezione di Cristo, che ne è l’esemplare; inoltre Cristo meritò la gloria della Risurrezione coll’ignominia della Passione; infine era stata disposizione della sua volontà che la gloria della sua anima, beata fin dal concepimento, non ridondasse nel corpo per non impedire il mistero della Passione; compìto questo quella disposizione cessava. 4. Fu poi conveniente che il corpo di Gesù risorgesse colle cicatrici, perché esse erano per Gesù un segno di glo-
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ria, per gli Apostoli un argomento della sua risurrezione, per il Padre un segnacolo del suo merito, per i fedeli l’emblema della sua misericordia e peri dannati la voce della sua giustizia.
Quest. 55. Manifestazione della Risurrezione. – 1. La Risurrezione non doveva essere resa manifesta a tutti, ma soltanto ai testimoni preordinati da Dio, per cui, essendo una verità superiore, cioè rivelata, fu manifestata a coloro che dovevano poi predicarla. 2. Non era poi necessario che i testimoni preordinati da Dio, cioè gli Apostoli, ne fossero spettatori, perché per loro era impossibile vedere l’anima di Cristo rientrare nel corpo; ciò invece era possibile per gli Angeli, e fu disposto che gli Angeli ne dessero l’annuncio agli uomini. 3. Per rendere certi gli Apostoli della risurrezione e della gloria di Cristo bastò che Egli a loro più volte apparisse, non fu però necessario che convivesse di continuo con loro come prima, anzi ciò non convenne, affinché si persuadessero che il suo nuovo stato non era più quello di prima. 4. Essendo la Risurrezione una cosa divina doveva essere manifestata nello stesso modo con cui vengono rivelate le verità divine e cioè secondo le disposizioni di animo delle persone; perciò ai ben disposti apparve nelle sue sembianze e ai tiepidi nella fede, come i discepoli di Emmaus, apparve nelle sembianze di un altro. 5. Dovendo Gesù provare, con argomenti, agli Apostoli la verità della sua Risurrezione, lo fece anzitutto coll’autorità della Scrittura, che è il fondamento della Fede, e poi con segni evidenti della sua vera risurrezione, affinché il loro cuore per l’autorità della Scrittura fosse preparato a crederla e per i segni evidenti diventasse poi fervente a predicarla; i ragionamenti erano inutili perché o
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non erano capiti se cominciavano con verità superiori, o non potevano concludere alla verità della Risurrezione, che è una verità superiore, se cominciavano con verità comuni. 6. Gli argomenti poi adoperati da Cristo erano sufficienti a dimostrare la verità della sua Risurrezione, perché l’argomento di autorità era ineccepibile, consistendo nella testimonianza degli Angeli e della Scrittura, e l’argomento di fatto era irrefragabile sia da parte del corpo che egli mostrò essere vero corpo, corpo umano e quello stesso di prima, sia da parte dell’anima di cui rese manifeste le tre facoltà cioè la vegetativa, la sensitiva e l’intellettiva; mostrò anche la gloria della risurrezione entrando nel cenacolo a porte chiuse.
Quest. 56. A chi si deve la Risurrezione. – 1. Il Verbo di Dio, che è causa della vivificazione nostra, operò per prima la Risurrezione del corpo che gli era naturalmente unito e perciò più vicino, perché la risurrezione di Cristo doveva essere la causa della risurrezione dei nostri corpi, causa efficiente, non principale, ma strumentale, e causa esemplare: 2. ed è non solo causa efficiente ed esemplare della risurrezione dei corpi, ma anche delle anime nostre, affinché come i corpi vi sono per l’anima, così le anime vivano per la grazia.
Quest. 57. Ascensione di Cristo. – 1. Colla Risurrezione Cristo iniziò una vita incorruttibile e immortale; a essa spettava un luogo proporzionato, che non poteva essere la terra, convenne quindi che Gesù dopo la risurrezione ascendesse al cielo; con ciò però se fu sottratta ai fedeli
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la presenza della sua umanità, non fu loro sottratta la presenza della sua divinità. 2. Ascendere al cielo lasciando la terra poteva Gesù Cristo come uomo, ma non come Dio, che è dappertutto; ma ascendere dalla terra al cielo poteva Gesù Cristo per virtù divina, e non per virtù umana; nell’Ascensione quindi la nuova condizione è della natura umana e la causalità efficiente è della natura divina. 3. Vi ascese però Gesù Cristo per virtù sua propria precisamente prima per virtù divina e poi per virtù dell’anima glorificata dall’unione del Verbo, non però per virtù naturale dell’anima umana. 4. Cristo ascese nella parte più eccelsa del cielo, perché il suo corpo è il corpo più glorioso di tutti, è quello che più da vicino partecipa della divinità. 5. Anzi, poiché il corpo di Cristo, se per la condizione naturale è inferiore alle sostanze angeliche, è però a loro superiore per la dignità dell’unione ipostatica, in cielo salì anche al di sopra degli Angeli. 6. L’ascensione di Cristo è causa per noi di salvezza, per essa infatti l’anima nostra è attirata in cielo, e Cristo ce ne aperse la porta, vi entrò come il Sommo Sacerdote nel Sancta Sanctorum e di là ci manda i suoi doni divini.
Quest. 58. Cristo alla destra del Padre. – 1. La parola «sedere» significa «riposare» e anche «fare da Giudice»; a Cristo conviene in ambidue questi sensi sedere alla destra del Padre, perché col Padre è beato e col Padre regna su in cielo. 2. È come Dio che Cristo siede alla destra del Padre, perché ciò significa avere la stessa gloria, la stessa potestà del Padre e la frase «alla destra» non indica distinzione di potesti, di beatitudine e di gloria, ma soltanto distinzione della Persona del Figlio dalla Persona del Padre.
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3. Cristo siede alla destra del Padre anche come uomo, ma ciò gli compete essenzialmente non in quanto è uomo, ma in quanto è Dio; gli compete per la grazia di unione, non però per ragione dell’umana natura, ma per ragione della divina persona cui è ipostaticamente unita la natura umana; gli compete anche per la grazia abituale, che in Cristo è abbondante più che in tutte le altre creature, e che perciò la costituisce in beatitudine e potere superiore a tutte le altre creature. Quindi Cristo siede alla destra del Padre anche come uomo, non perché è uomo, sibbene perché è persona divina anche nella natura umana; ovvero siede anche come uomo e in quanto uomo, ma ciò per la graziaabituale. 4. Se Cristo quindi siede alla destra del Padre, è eguale al Padre nella divinità; perché poi possiede la grazia in grado superiore a tutte le altre creature, sedere alla destra del Padre è cosa esclusiva di Cristo.
Quest. 59. Potere giudiziario di Cristo. – 1. All’esercizio del potere giudiziario occorrono tre cose: autorità, rettitudine e sapienza; la sapienza poi è quella che dà forma al giudizio, il quale viene chiamato legge della sapienza: essendo Cristo la sapienza eterna, la verità che dal Padre procede e il Messo del Padre in terra, a Cristo spetta in modo particolare il potere giudiziario. 2. Il potere giudiziario compete a Cristo come uomo, perché Egli è il capo di tutta la Chiesa; tale poterepoi gli conviene, 1. perché Egli è fra Dio e gli uomini, essendo l’Uomo-Dio; 2. perché Egli sarà un giorno la Risurrezione di tutti; 3. perché tutti, anche i cattivi, dovendo averlo per Giudice, devono poterlo vedere. 3. Come la gloria del corpo, così anche il potere giudiziario compete a Cristo, perché è Persona divina; perché ha dignità di capo; perché possiede la pienezza della grazia; ma anche perché lo meritò colla Passione.
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4. Tutte le cose del mondo sotto soggette al potere giudiziario di Cristo non solo come Dio, ma anche come uomo, perché per l’unione ipostatica l’anima suaè piena della verità del Verbo; perché ciò Egli meritò colla morte; perché tutte le cose sono ordinate al fine della eterna salute per il quale si fa il Giudizio. 5. Dopo il Giudizio del tempo presente resta a farsi il Giudizio finale, ciò perché di ogni cosa mutabile non si può formare un giudizio perfetto, se non quando è totalmente compita, e come le azioni vanno considerate in sé e negli effetti, così la vita dell’uomo, benché colla morte finisca il suo tempo, tuttavia resta nella memoria, nei figli, nei suoi effetti, nella tomba e nelle cose che formavano l’oggetto degli affetti; e di queste cose non si può fare completo giudizio se non quando il mondo totalmente finisce. 6. Anche gli Angeli sono soggetti al potere giudiziario di Cristo non solo come Dio, ma anche come uomo, perché la natura umana assunta dal Verbo è a Dio più vicina degli Angeli; perché Cristo per la Passione fu esaltato sopra gli Angeli; e perché gli Angeli hanno una missione relativamente agli uomini dei quali Cristo è il capo; Cristo poi è giudice degli Angeli quanto alle loro opere, quanto ai loro doni accidentali e anche quanto all’essenziale premio degli Angeli buoni e all’essenziale pena degli Angeli cattivi, giudicati già in principio dal Verbo.
Quest. 60. I Sacramenti. – 1. Come per analogia diciamo sano non solo l’uomo, ma anche la medicina o la dieta che tale lo fanno, così diciamo sacramento non solo ciò che ha in sé una santità, ma anche ciò che ha ordine alla santità, quali la causa e il segno, e precisamente nel senso di segno adoperiamo ora la parola Sacramento.
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2. Se adunque «Sacramento » significa «Sacro Segno», segno però disposto per gli uomini affinché da una cosa nota apprendano una cosa ignota, è Sacramento ogni segno di cosa sacra per la santificazione degli uomini. 3. Nella santificazione degli uomini si deve considerare la causa, che è la Passione di Cristo, la forma che è la grazia e il fine che è la eterna beatitudine, perciò ogni Sacramento è un segno triplice, cioè rememorativo, dimostrativo e prenunziativo. 4. Essendo naturale all’uomo conoscere le cose intelligibili per mezzo delle cose sensibili, il Sacramento, segno per gli uomini di cose spirituali oggetto dell’intelligenza, doveva essere ed è un segno sensibile. 5. I Sacramenti non sono soltanto atti di culto, lala cui istituzione può competere agli uomini, ma sonoanche mezzi per santificare gli uomini, la cui istituzione compete solamente a Dio, perciò i Sacramenti consistono in cose determinate per divina istituzione; 6. alle cose poi dovevano unirsi anche delle parole nella istituzione dei Sacramenti, e ciò per tre ordini di ragione: I. perché devono conformarsi al Verbo, che ne è la causa e che l’Eterna Parola del Padre; II. perché devono conformarsi all’uomo, di cui sono medicina spirituale, e che consta di anima e di corpo cioè di forma e di materia; III. perché devono conformarsi alla loro natura, che è di essere segno sacramentale e che non riesce tale se non quando alla materia si uniscono le parole come forma, altrimenti il segno resta indeterminato, infatti un bagno di acqua, per es. può servire tanto per lavarsi che per refrigerarsi. 7. E poiché le parole nel Sacramento sono la forma, la quale è sempre principio di determinazione, se nei Sacramenti dovevano essere determinate le cose, tanto più dovevano essere determinate le parole; 8. a queste parole poi, che sono la forma dei Sacramenti, nulla si può aggiungere e nulla si può togliere quan-
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do colla mutazione che si introduce si mira a cosadiversa da quella che intende la Chiesa, ovvero si altera il senso sostanziale.
Quest. 61. Necessità dei Sacramenti. – 1. Alla salvezza dell’anima i Sacramenti sono necessari, perché con essi l’uomo viene istruito per mezzo di cose sensibili; viene umiliato, conoscendosi soggetto alle cose corporali e viene preservato da azioni cattive con esercizi salutari. 2. Nello stato di innocenza l’uomo non abbisognava di Sacramenti, perché essi sono medicina del peccato ed allora non c’erano peccati da guarire. 3. Poiché nessuno può essere santificato dopo il peccato se non per mezzo di Cristo, fu necessario che anche prima della sua venuta ci fossero segni di protestazione della fede nel Messia venturo, e perciò anche prima di Cristo dovevano essere istituiti Sacramenti; 4. e per la stessa ragione dovevano esserci Sacramenti dopo Cristo, quali segni di protestazione della fede nel Messia venuto.
Quest. 62. Effetto principale dei Sacramenti. – 1. I sacramenti sono causa efficiente della grazia, non certo causa principale, perché questa è Dio, bensì però causa strumentale. 2. La grazia fa partecipi di una qualche somiglianza dell’essenza divina; come poi dall’essenza dell’anima derivano le potenze, così dall’essenza della grazia derivano alle potenze dell’anima alcune perfezioni che si dicono doni e virtù; e poiché i Sacramenti sono ordinati a effetti speciali nella vita cristiana, perciò la grazia sacramentale importa sopra lei grazia comune uno speciale aiuto divino a conseguire il fine del Sacramento.
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3. I Sacramenti della nuova Legge contengono la grazia, perché ne sono causa efficiente, benché strumentale; ed appunto perché ne sono causa istrumentale la contengono in modo transitorio e incompleto e non già come causa univoca e con forma propria e permanente della grazia, infatti essi ne sono strumento egli strumenti agiscono solo quando sono adoperati ed agiscono secondo l’influsso dell’agente principale. 4. Del resto come ogni strumento ha anche un’azione propria, proporzionata alla sua natura, così pure i Sacramenti hanno un’azione propria strumentale, che si esplica quando si compie l’azione dell’agente principale e perciò non è da dirsi che i Sacramenti abbiano soltanto un’azione concomitante. 5. Relativamente all’agente principale lo strumento può essere separato, come è il bastone, ovvero congiunto, come è la mano; orbene, relativamente a Dio, causa principale della grazia, i Sacramenti sono strumento separato, invece la Passione di Cristo è lo strumento congiunto, perché è l’effetto della Passione che mediante il Sacramento viene trasmesso all’animanostra. 6. Per il che i Sacramenti della Legge vecchia non potevano trasmettere la grazia, perché di questa è causa efficiente, meritoria e soddisfattoria la Passione di Cristo e allora questa non si era ancora compiuta, perciò potevano soltanto procurare la grazia per mezzo della Fede che essi significavano.
Quest. 63. Il carattere. – 1. I Sacramenti sono ordinati a due fini, sono cioè di rimedio al peccato e di perfezione all’anima in ordine al divin culto; e poiché l’uso porta che chi viene deputato a un ufficio ne riceva un contrassegno, il quale per i soldati veniva stampato con caratteri sul corpo, perciò anche i cristiani venendo deputati per effetto dei Sacramenti a uffici spirituali ne ricevo-
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no il contrassegno, cioè un segno spirituale che si chiama carattere. 2. Essendo un segno spirituale è una cosa dell’anima; nell’anima distinguiamo la passione, l’abito e la potenza: il carattere però non può essere passione, perché questa presto passa; non può essere abito, perché questo è una disposizione stabile o al bene o al male, mentre del carattere si può servirsi ora per il bene, ora per il male; resta quindi che il carattere sia potenza cioè un potere spirituale. 3. Per il carattere i fedeli vengono deputati a dare o a ricevere ciò che riguarda il culto di Dio; vengono così configurati al sacerdozio di Cristo e perciò il carattere è un segno di Cristo. 4. Il culto divino, cui i fedeli vengono deputati per il carattere, consiste in atti, gli atti provengono dalle potenze, perciò è nelle potenze dell’anima che si imprime il carattere. 5. Il carattere è indelebile sia perché è partecipazione al sacerdozio di Cristo che è sacerdozio eterno; sia perché si imprime nelle potenze spirituali dell’anima, che sono incorruttibili. 6. I Sacramenti che abilitano l’uomo a qualche ulteriore potere di dare o di ricevere in ordine al culto divino sono il battesimo, che è la porta dei Sacramenti, la cresima, che del battesimo è la confermazione e l’ordine, che rende ministri del culto; perciò Sacramenti che imprimono il carattere sono soltanto il Battesimo, la Cresima e l’Ordine Sacro.
Quest. 64. La causalità nei Sacramenti. – 1. L’operazione interna della santificazione non può competere che a Dio, se si considera l’agente principale; ma se si considera l’agente strumentale può competere anche agli uomini
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quali ministri, perché il ministro non è che lo strumento in mano di Dio. 2. E poiché lo strumento deriva il suo effetto dall’agente principale, e questi non può essere che Dio, si deve conchiudere che Dio solo può istituire i Sacramenti. 3. Cristo medesimo aveva il potere di operare l’effetto interno dei Sacramenti, cioè la santificazione, non come uomo, ma come Dio, perché quel potere è un potere divino e il potere divino Cristo lo aveva non come uomo, ma come Dio; esso, come uomo, aveva per la sua Passione e Morte soltanto un potere strumentale, di strumento però congiunto, come sarebbe la mano, e perciò di eccellenza e non soltanto di strumento separato, come sarebbe il bastone che si tiene in mano. 4. Perciò Cristo tale potere di autorità, proprio dell’essenza divina, non poteva comunicarlo, come non può comunicare la essenza divina; poteva però comunicare ad altri il potere strumentale di eccellenza, in modo che potessero istituire Sacramenti, e produrne l’effetto, cioè la grazia, senza far uso di essi; ciò perché il potere di eccellenza competeva a Lui come uomo; poteva, ma non lo fece. 5. Poiché i ministri nei Sacramenti hanno una azione soltanto strumentale, non viene impedito l’effetto del Sacramento ancorché il ministro sia cattivo, perché anche un medico può ridonare la salute benché abbia malato il suo corpo, strumento della sua anima nell’esercizio della scienza medica. 6. I ministri però devono conformarsi a Dio, e perciò se uno funge da ministro della Chiesa ed amministra i Sacramenti in stato di peccato commette peccato. Amministrare il battesimo in caso di necessità non è fungere da ministro della Chiesa, ma è sovvenire all’altrui necessità. 7. La virtù santificatrice dei Sacramenti è derivata dalla Passione che Cristo subì come uomo, a Lui quindi nel
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suo Sacerdozio possono conformarsi gli uomini, ma non possono conformarsi gli Angeli che sono puri spiriti, perciò gli Angeli non sono ministri dei Sacramenti. Dio però non ha legata l’azione sua santificatrice esclusivamente ai Sacramenti; può santificare anche fuori di quelli e farne nunzi gli Angeli. 8. Nei Sacramenti occorre l’intenzione, della quale le parole sono la manifestazione, perché così solo l’effetto sacramentale è determinato, altrimenti è ambiguo; così per es. il bagno, per sé, può servire tanto per pulizia che per refrigerio; 9. non occorre invece la fede nel ministro del Sacramento, perché la sua è un’azione soltanto strumentale e perciò, come non importa che sia buono o cattivo, così non importa che abbia fede o no. 10. Altrettanto non occorre che il ministro abbia retta intenzione nel conferire il Sacramento, purché però l’intenzione perversa non intacchi la stessa azione sacramentale per annullarla (come sarebbe battezzare per scherzare), ma si riferisca solo a effetti conseguenti il Sacramento, come sarebbe il consacrare onde servirsi del Sacramento nelle stregonerie.
Quest. 65. Numero dei Sacramenti – 1. I Sacramenti sono ordinati a 2 fini: a rimedio cioè del peccato e a perfezione dell’anima nella vita spirituale. Quanto alla vita spirituale essa si conforma alla vita corporale: come nella vita corporale l’uomo nel riguardo individuale nasce, cresce, si nutrisce e, se ammalato, guarisce e anche si libera da tutti i residui della malattia, e nel riguardo sociale, si abilita al governo degli altri e divien atto alla naturale propagazione della specie, così e di conformità nella vita spirituale ci sono prima i cinque sacramenti di ordine individuale: Battesimo, Cresima, Eucarestia, Penitenza e Olio Santo, poi gli altri due, cioè Ordine Sacro e Matri-
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monio, di ordine sociale. Quanto al peccato può esserci bisogno di rimedio o nella mancanza della vita spirituale, o nella debolezza dell’animo, o nella sua fragilità, o in una recente caduta, o nei residui delle cadute e questo diordine individuale; ovvero nella dissoluzione della moltitudine, o nella sua quotidiana deficienza e questo nell’ordine sociale; a tutto ciò sono ordinati rispettivamente prima i primi cinque Sacramenti, poi gli altri due. Perciò sette sono i Sacramenti della Chiesa. 2. Da ciò poi apparisce chiaramente non soltanto che il loro numero è sette, ma anche che la loro disposizione è ordinata e razionale. 3. Il massimo dei Sacramenti è l’Eucarestia; 1. perché esso contiene l’autore stesso dei Sacramenti; 2. perché a esso hanno ordine i Sacramenti tutti, ed esso ne è il centro; 3. perché in esso quasi si completano gli altri Sacramenti; così per es. dopo l’Ordine Sacro si riceve la Comunione. 4. Una cosa può essere necessaria, quale mezzo senza di cui non si può conseguire il fine e questa si dice necessità di mezzo; ovvero è necessaria quale mezzo utile o prescritto per meglio conseguire il fine e questa si dice necessità di precetto. Necessari di necessità di mezzo sono soltanto: il Battesimo per tutti, la Penitenza per chi ha peccati attuali e l’Ordine per la Chiesa; gli altri Sacramenti sono necessari di necessità di precetto.
Quest. 66. Il Battesimo. – 1. Il Battesimo come segno consiste nell’abluzione; come cosa significata consiste nella santificazione; come cosa significata e segno insieme consiste nel carattere. 2. Il Battesimo fu istituito prima della Passione, cioè nel Battesimo di Cristo, ma la sua necessità fu promulgata dopo la Risurrezione.
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3. Per istituzione divina la materia propria del Battesimo è l’acqua, ed essa convenientemente significala nostra rigenerazione e anche il nostro con seppellimento in Cristo. 4. Qualunque acqua poi, per quanto artificialmente o naturalmente tramutata, purché però conservi la sua specie di acqua, serve al Battesimo. 5. Le parole: io ti battezzo nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, giustamente costituiscono la forma del Battesimo, perché con esse si esprime la Causa Principale del Battesimo, cioè la Trinità e anche la causa strumentale, cioè chi l’amministra. 6. Il Battesimo ha valore dalla istituzione di Cristo, Cristo l’ha istituito colla forma: io ti battezzo nel nome della Trinità, perciò qualunque forma diversa, anche la forma: io ti battezzo nel nome di Cristo: non serve al Battesimo. 7. L’uso invece dell’acqua sta nell’abluzione e perciò in qualunque modo l’abluzione si effettui, sia per infusione, sia per aspersione, sia per immersione, serve al Battesimo e non è di esclusiva necessità l’immersione. 8. Al Battesimo è assolutamente necessaria l’abluzione dell’acqua; quanto invece al modo di compiere l’abluzione non vi è altrettanta necessità, quindi una abluzione è necessaria per la validità del Sacramento e l’abluzione trina non è di necessità, ma di prescrizione dell’autorità della Chiesa. 9. Il Battesimo non si può ripetere, I. perché esso è la rigenerazione spirituale e come si nasce una sol volta alla vita del corpo, così una sol volta si rinasce alla vita dello spirito; II. perché esso è configurazione nostra alla morte di Cristo, e Cristo morì una volta sola; III. perché esso è direttamente istituito per cancellare il peccato originale e questo si contrae una volta sola; IV. perché esso imprime il carattere e questo è un segno che una volta impresso nell’anima vi resta per sempre, perché è indelebile.
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10. Il rito della Chiesa nel battezzare contiene, oltre a ciò che è di necessità, anche cose che sono di solennità e queste vi furono introdotte opportunamente, perché conciliano rispetto al Sacramento; sono di istruzione e di edificazione ai fedeli; e accrescono la grazia sacramentale al battezzato col tenerne lontano il diavolo mediante gli esorcismi. 11. Il Battesimo ha efficacia dalla Passione di Cristo e più remotamente dalla virtù dello Spirito Santo, perciò non solo c’è il Battesimo di acqua che ci configura alla Passione di Cristo, ma c’è anche il Battesimo disangue che ci conforma alla morte di Cristo e c’è pure il Battesimo di desiderio per cui il nostro cuore è direttamente sotto l’azione e la virtù dello Spirito Santo; il Battesimo quindi è di tre specie; 12. e il Battesimo più grande è il Battesimo di sangue, perché in quello converge larghissimamente l’efficacia della Passione di Cristo e la virtù dello Spirito Santo, che danno valore al Battesimo.
Quest. 67. Ministri del Battesimo. – 1. Al Diacono non appartiene per sé l’ufficio di battezzare, perché l’ufficio del Diacono, come dice il suo nome, è ufficio di inserviente. 2. Il Sacerdote invece, al quale spetta consecrare il corpo di Cristo, che è il Sacramento dell’ecclesiastica unità, ha l’ufficio di battezzare per rendere gli altri partecipi dell’ecclesiastica unità. 3. Siccome però il Sacramento del Battesimo è il più necessario di tutti, affinché nessuno possa restarne privo, la misericordia divina ha disposto che ne sia materia una cosa comune, cioè l’acqua, e che ne possa essere ministro anche uno non ordinato, quando c’è il caso di necessità. 4. E poiché il ministro principale è sempre Cristo e in Cristo non c’è distinzione fra uomo e donna, in caso
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di necessità può battezzare anche una donna, quando non sia possibile o conveniente il ministero di un uomo. 5. Ed appunto perché il ministro principale del Battesimo è Cristo e nel caso di necessità qualunque uomo può battezzare, anche uno non battezzato può battezzare. 6. Se due battezzassero contemporaneamente una stessa persona senza mutare le parole e senza deformare colla propria intenzione l’intenzione della Chiesa si avrebbe una unica azione e con ciò un unico Battesimo, come prescrive l’Apostolo; ma sarebbe un’azione disordinata. 7. Come i bambini appena nati abbisognano della nutrice, così quelli che rinascono per il Battesimo hanno bisogno del Padrino, che faccia loro da nutrice nella vita spirituale. 8. Il Padrino però non è obbligato a prestare l’istruzione cristiana a chi ha tenuto al sacro fonte, senon nel caso che non gli sia altrimenti prestata.
Quest. 68. I battezzandi. – 1. Nessuno può salvarsi se non in Cristo e nessuno può diventare membro di Cristo se non per mezzo del Battesimo, tutti quindi sono tenuti a ricevere il Battesimo; 2. e nessuno può salvarsi senza Battesimo, però bisogna distinguere il Battesimo reale e il desiderio del Battesimo; un adulto che è privo dell’uno e dell’altro non può salvarsi, perché non è incorporato a Cristo né sacramentalmente, né mentalmente; ma chi ha il desiderio del Battesimo e muore senza potersi battezzare può salvarsi, perché allora il Battesimo di desiderio supplisce il Battesimo di acqua. 3. Il Battesimo non si deve differire coi bambini, perché è l’unico mezzo di provvedere all’eterna loro salute; cogli adulti poi, nei quali il Battesimo di desiderio può supplire il Battesimo di acqua, parrebbe che si dovesse differire il Battesimo per la garanzia della Chiesa, per la loro
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istruzione e per il rispetto al Sacramento; ma non conviene farlo se sono sufficientemente apparecchiati per prevenire qualunque pericolo di morte. 4. Quanto ai peccatori, se uno si dice peccatore per i suoi trascorsi, gli si deve dare il Battesimo che è appunto istituito per mondarvelo; se invece uno si dice peccatore per l’attuale volontà pervicace nel male non gli si può dare il Battesimo, perché tale volontà cattivagli impedisce di unirsi a Cristo, perciò il Battesimo sarebbe amministrato invano e anche sarebbe un rito irrisorio, perché l’abluzione esterna non potrebbe indicare l’abluzione interna dell’anima. 5. Chi viene battezzato viene conseppellito nella morte di Cristo, che ha soddisfatto per i peccati di tutto il mondo, a chi si battezza quindi non si deve imporre nessuna penitenza. 6. La Confessione dei peccati va distinta in confessione interna che si fa a Dio, e in confessione esterna, che si fa al Sacerdote, e questa è necessaria pel Sacramento della Penitenza; ma siccome chi non ha ricevuto il Battesimo non può ricevere il Sacramento della Penitenza, perciò questa confessione esterna per chi ha da battezzarsi non solo non è necessaria, ma non è nemmeno possibile, quale parte integrante della Penitenza; per lui quindi è sufficiente la confessione generale contenuta nelle rinunzie del Battesimo. 7. Poiché pel Battesimo si muore alla vita di peccato per iniziare la vita nuova della grazia, al che occorre, in chi ha l’uso della ragione, un atto positivo di volontà, perciò occorre nel battezzando l’intenzione di ricevere il Battesimo, che della vita nuova della grazia è il principio. 8. Nel Battesimo per ricevere la grazia è necessaria la Fede, perché essa è via alla giustificazione, invece per ricevere il carattere non è necessaria la Fede né nel battezzando, né nel battezzante, perché l’effetto del Sacramento dipende, non da loro, ma da Dio.
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9. Si devono battezzare anche i bambini, perché il Battesimo cancella il peccato originale e il peccato originale lo hanno anche i bambini. 10. Tuttavia i bambini degli infedeli, se non hanno ancora raggiunto l’uso della ragione, non si possono battezzare contro la volontà dei genitori, perché la natura li ha affidati alle loro cure e perciò si farebbe contro il diritto naturale; se invece hanno raggiunto l’uso della ragione, si possono indurre ed ammettere al Battesimo, perché nelle cose dell’anima sono già padroni di sé. 11. I bambini che sono ancora nel grembo materno non si possono battezzare, se non possono in qualche modo ricevere l’abluzione. Non si deve uccidere la madre per battezzare il fanciullo, se invece la madre è già morta si può operare per battezzare il fanciullo. 12. I pazzi e gli scemi, che tali sono fin dalla nascita, sono nella condizione dei bambini e perciò, come i bambini, si devono battezzare; quelli invece che tali divennero dopo l’uso della ragione non si possono battezzare se prima o nei lucidi intervalli non ebbero volontà di ricevere il Battesimo.
Quest. 69. Effetti del Battesimo. – 1. Per il Battesimo l’uomo muore alla vita vecchia del peccato e comincia la vita della grazia, perciò il Battesimo cancella tutti i precedenti peccati, che costituiscono la vitavecchia. 2. Per il Battesimo si è incorporati a Cristo e si è fatti partecipi della sua Passione che soddisfece peri peccati di tutto il mondo, perciò il Battesimo libera da ogni reato di pena dovuta ai peccati. 3. Il Battesimo ha anche la virtù di liberarci dalle penalità della vita presente, questo però esso non lo opera se non per i giusti nella risurrezione dei morti: ciò perché anche Cristo, cui si è incorporati per il Battesimo, le
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ha sopportate nella presente vita; esse poi servono di spirituale esercizio e fanno si che il Battesimo si cerchi non per l’interesse terreno, ma per la vitaeterna. 4. Il Battesimo che ci incorpora a Cristo ci rende membri di Cristo, e perciò, come dal capo alle membra, così da Cristo a noi vien derivata col Battesimo la pienezza della grazia e delle virtù. 5. Di tutto ciò poi la Scrittura vuole che qualcosa sia messo in evidenza e precisamente che si è incorporati a Cristo; che l’intelletto viene illuminato dalla sua verità; e che la volontà viene fecondata di bene dalla grazia. 6. Anche i bambini per il Battesimo divengono membra di Cristo, perciò anche i bambini conseguiscono la grazia e le virtù, bisogna però distinguere fra atto e abito: essi hanno la grazia e le virtù in abito; ma quanto all’atto ne sono impediti per l’impedimento del corpo, come del resto avviene anche in chi di noi dorme. 7. Il Battesimo cancella ogni reato di colpa e di pena, esso perciò apre la porta del regno dei cieli. 8. Nel Battesimo l’effetto di rigenerazione è eguale per tutti; l’effetto della grazia che sta nella carità, per gli adulti si proporziona al loro fervore; l’effetto infine dei doni particolari si proporziona solo al volere della divina Provvidenza. 9. Poiché nei battezzandi adulti occorre la volontà di ricevere il Battesimo, uno che finge la volontà di ricevere il Battesimo, come sarebbe o se non crede, o se disprezza il Sacramento, o se cambia il rito, o se lo compie senza devozione, è uno che non ha la vera volontà e non ne riceve perciò l’effetto della grazia; 10. questo effetto però è soltanto tenuto sospeso dalla finzione della volontà; rimosso l’impedimento per mezzo della penitenza il Battesimo conseguisce il suo effetto.
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Quest. 70. La circoncisione. – 1. Nel Battesimo c’è una specie di professione della fede; una medesima è la fede nostra e quella dei patriarchi e per loro c’era una specie di protestazione della fede nella circoncisione; la circoncisione perciò fu figura e preparazione del Battesimo. 2. Opportunamente la circoncisione, che è protestazione di fede e aggregazione ai fedeli, fu istituita da Dio con Abramo, perché Abramo per primo fu da Dio segregato dagli infedeli; 3. ed anche il rito della circoncisione, quale era, fu opportunamente istituito, perché fu dato ad Abramo, da cui doveva nascere il Messia, e stabilito in rimedio del peccato originale, che si trasmette colla naturalegenerazione. 4. Anche nella circoncisione veniva conferita la grazia per tutti gli effetti di essa, con questa differenza però, che il Battesimo la conferisce per virtù sua come strumento della Passione di Cristo già compita, invece la circoncisione conferiva la grazia in virtù della Fede nella Passione di Cristo da compiersi; maggiore è quindi la grazia del Battesimo come la realtà è maggiore della speranza; inoltre il Battesimo imprime il carattere e la circoncisione non lo imprimeva. Gli adulti poi venivano liberati dai reati di colpa, ma non da ogni reato di pena.
Quest. 71. Rito precedente l’atto del Battesimo. – 1. Nel Battesimo c’è una specie di professione della Fede, per fare la quale, però, è necessario essere istruiti nella fede; ecco quindi perché il primo atto del rito del Battesimo è costituito dal Catechismo; 2. e vengon dopo subito gli esorcismi per cacciare gli impedimenti al Battesimo e sopratutto il diavolo che tiene l’uomo in sua potestà; seguono poi e la benedizione per impedire il ritorno al diavolo e le altre cerimonie per
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far accettare e approvare la dottrina della fede e infine l’unzione per rendere atti a combattere il diavolo. 3. Gli esorcismi non sono semplici segni, ma sono cerimonie efficaci, che rimuovono gli impedimenti intrinseci ed estrinseci posti dal diavolo. 4. Poiché il ministro del Battesimo è il Sacerdote, spetta al Sacerdote il rito del Catechismo e degli esorcismi.
. 72. La Confermazione. – 1. La Confermazione è per rendere perfetti cristiani, cioè per dare perfezione in quella vita spirituale, di cui il Battesimo è rigenerazione; la Confermazione quindi ha uno speciale effetto di grazia e perciò è uno speciale Sacramento. 2. Conveniente materia di questo Sacramento è il Crisma, perché è composto di olio e di balsamo e significa così i due effetti di questo Sacramento cioè la pienezza dello Spirito Santo e il buon odore di Cristo, cioè delle virtù. 3. Non essendo l’olio una di quelle materie che Cristo santificò col farne Egli uso, e che sono l’acqua del Battesimo e il pane dell’Eucarestia, il Crisma deve essere prima benedetto da chi è il ministro ordinario della Cresima; e questo va pur detto dell’Olio Santo. 4. Le parole: Io li segno col segno della Croce, e ti confermo col Crisma della salute nel nome ecc., sono conveniente forma della Cresima, perché, come deve fare la forma, determinano il Sacramento nella sua specie in quanto nominano la Trinità, quale causa della piena forza spirituale; designano l’effetto del Sacramento, cioè la forza, dicendo: ti confermo; ed esprimono l’ufficio a cui elevano, quasi dando le insegne del soldato, col dire: ti segno. 5. Il carattere è una spirituale potestà; come nel Battesimo si riceve il potere della vita spirituale, così nella Cresima si riceve il potere della pugna spirituale e
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perciò come il Battesimo imprime il carattere, così anche la Cresima imprime il carattere. 6. Come non si può diventare perfetti uomini se prima non si nasce, così non si può diventare perfetti cristiani se prima non si è cristiani, perciò il carattere della Cresima presuppone il carattere del Battesimo ese non si ha il Battesimo non si può ricevere la Cresima. 7. Il Sacramento della Cresima conferisce lo Spirito Santo a fortezza; il conferimento poi dello Spirito Santo null’altro è se non la grazia santificante e perciò la Cresima conferisce la grazia santificante. 8. Come è intenzione della natura che ognuno che nasce divenga uomo perfetto, così e più di così è intenzione di Dio che ognuno che nasce spiritualmente divenga anche spiritualmente perfetto, perciò il Sacramento della Cresima è per tutti. 9. La Cresima conferisce la forza per la pugna spirituale; convenientemente perciò questo Sacramento si conferisce in fronte, sia perché il cristiano come soldato deve portare la sua insegna manifesta, cioè in fronte, sia per tenere lontano la vergogna e il timore, che fanno schivare la pugna, e che si manifestano in fronte. 10. Come il neonato ha bisogno della nutrice, così il soldato novello ha bisogno dell’istruttore, perciò come occorre il padrino nel Battesimo, così anche per la Cresima occorre il padrino. 11. Poiché dare la perfezione ad un’opera spetta al supremo artefice, perciò rendere perfetti cristiani spetta a quelli che hanno la somma potestà nella Chiesa; ecco perché è riservato ai Vescovi conferire il Sacramento della Cresima. 12. Il rito della cresima è stabilito dalla Chiesa che è governata dallo Spirito Santo, esso quindi deve ritenersi conveniente.
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Quest. 73. L’Eucarestia. – 1. Come nella vita corporale oltre al nascere e al crescere occorre il quotidiano alimento, così nella vita spirituale oltre al Battesimo e la Cresima occorre un Sacramento che sia alimento spirituale; tale è l’Eucarestia, essa è quindi un Sacramento. 2. In questo Sacramento due sono le specie, cioè il pane ed il vino, l’uno per cibo, l’altro per bevanda, ma poiché coll’uno e coll’altro si forma un unico e completo alimento, perciò nell’Eucarestia sono date le specie sacramentali; ma uno solo è il Sacramento, perché uno si dice anche ciò che è completo nella sua unità e perfezione. 3. Nell’Eucarestia la cosa significata è l’unione al corpo mistico di Cristo, fuori della quale non c’è salute, ma come nel Battesimo l’effetto del Sacramento si può conseguire anche col desiderio del Battesimo, quando il Battesimo non è possibile, così nell’Eucarestia l’effetto del Sacramento si può conseguire anche col suo desiderio; mentre però senza il Battesimo la vita spirituale non è nemmeno iniziata, senza l’Eucarestia, invece, può essere già iniziata e anche resa perfetta; perciò l’Eucarestia è bensì necessaria quanto il Battesimo da parte della cosa significata, ma non è necessaria quanto il Battesimo da parte del Sacramento ossia del segno. 4. L’Eucarestia, che in sé significa «buona grazia », in commemorazione del passato si chiama sacrificio; in riguardo del presente si chiama comunione, e in significazione del futuro si chiama viatico; e questi diversi nomi le convengono tutti. 5. Sapientemente l’istituzione dell’Eucarestia fu fatta nell’ultima Cena: 1. perché era il migliore ricordo che Cristo potesse dare ai suoi apostoli lasciandoli; 2. perché era la più parlante memoria della sua prossima Passione, fuori della quale non c’è salute; 3. perché fu la miglior maniera di rendere caro e venerato questo Sacramento istituendolo negli ultimi momenti passati cogli Apostoli.
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6. Molte furono nella Vecchia Legge le figure dell’Eucarestia, a cominciare da Melchisedecco; ma la principale figura dell’Eucarestia fu l’Agnello Pasquale, perché anche Gesù, innocentissimo come l’Agnello, fu come l’Agnello immolato ed il suo sangue fu la salvezza del suo popolo.
Quest. 74. Materia dell’Eucarestia. – 1. La materia dell’Eucarestia è il pane e il vino, perché pane e vino adoperò Gesù Cristo nell’istituirla e furono convenientemente scelti, perché in riguardo nostro il pane e il vino formano l’alimento comune degli uomini; nei riguardi della Passione di Cristo rappresentano la separazione del sangue dal corpo avvenuta in Lui alla morte; e nei riguardi della Chiesa mostrano che in essa, i diversi fedeli formano un’unità come il pane è il risultato di diversi grani di frumento e il vino si forma coi molti acini di uva. 2. Benché sia determinata la materia dell’Eucaristia, non ne è però fissata la quantità; questa deve essere regolata dalla partecipazione all’Eucaristia che ne faranno i fedeli, perché fine di questo Sacramento ne è l’uso da parte dei fedeli. 3. Il pane però, quale materia di questo Sacramento, deve essere di frumento e non di altri cereali; Cristo infatti: 1. consecrò in pane di frumento; 2. alludendo alla sua morte, di cui l’Eucaristia è commemorazione, si paragonò a grano di frumento cadente in terra; 3. voleva indicare con tale pane, che è il più nutritivo, l’effetto di questo Sacramento. 4. Quanto alla sostanza tanto vale il pane lievitato che il pane azimo; il rito latino tiene il pane azimo, perché Cristo istituì l’Eucaristia nel primo giorno degli azimi; meglio esso si confà a divenire il corpo di Cristo, dal quale fu lungi ogni corruzione; meglio essosi confà anche ai fedeli, perché esprime la sincerità di cui devono essere adorni nel parteciparne.
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5. Parimenti soltanto il vino di vite è materia propria di questo Sacramento, perché è in vino di viteche Cristo consacrò; esso poi bene esprime l’effetto di questo Sacramento, che è la spirituale letizia. 6. Per grave precetto della Chiesa bisogna unire al vino da consacrare un po’ di acqua, non solo perché così fece Cristo nell’istituzione dell’Eucaristia, ma anche perché ciò è meglio riferibile alla morte di Cristo nella quale uscì dal suo cuore acqua e sangue e anche perché significa l’unione del popolo a Cristo nell’Eucaristia; 7. questi però sono effetti del Sacramento, ma non costituiscono l’essenza del Sacramento, perciò l’acqua necessaria alla liceità della consecrazione, ma non è necessaria alla validità del Sacramento. 8. Che se dunque la materia strettamente necessaria alla validità del Sacramento è il vino, l’acqua che vi si deve unire deve essere poca per non alterare la natura del vino.
Quest. 75. La transustanziazione. – 1. Che nell’Eucaristia ci sia il vero corpo e sangue di Cristo non si può percepire per mezzo dei sensi e nemmeno per mezzo dell’intelletto, ma lo si sa per fede, in base all’autorevolissima testimonianza di Dio. Che poi nell’Eucaristia Cristo ci sia veramente è cosa sommamente opportuna, perché 1. se i sacrifici della Legge antica contenevano Cristo in figura, il sacrificio perfetto della Legge nuova doveva contenerlo in realtà; 2. se Cristo per stare cogli uomini si è incarnato, ritornando al cielo, non doveva privarli della sua presenza corporale; 3. se fede è credere ciò che non si vede, la perfezione della fede cristiana esigeva che le fosse occultata non solo la divinità, ma anche l’umanità di Cristo. Perciò dire che Cristo nell’Eucaristia non c’è veramente, ma c’è per es. in figura o in simbolo, è errore.
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2. Cristo non può farsi presente nell’Eucaristia lasciando il cielo, perciò la sua presenza non può effettuarsi che colla mutazione del pane e del vino in Cristo che è in cielo; che se poi il pane ed il vino si mutano in Cristo, dopo la consacrazione nell’Eucaristia non c’è più la sostanza di pane e di vino, e questo precisamente è ciò che importano e le parole della consacrazione, e il senso dei fedeli e il rito della Chiesa. 3. Che se adunque la conclusione è che la sostanza del Pane e del Vino alla consacrazione si muta nella sostanza di Gesù Cristo, non si può parlare di annichilazione del pane e del vino o della loro risoluzione nelle materie originarie loro, perché mutazione non è annichilazione e nemmeno risoluzione nei componenti; 4. tale mutazione o conversione della sostanza del pane e del vino in Gesù Cristo non è una mutazione naturale operata da agenti naturali, perché questi possono soltanto indurre una nuova forma nelle cose, ma non possono mutarne tutta l’entità; essa invece è una mutazione soprannaturale, operata da Dio, la cui potenza è infinita e che perciò può mutare le cose anche in tutta la loro entità; questo passaggio di sostanza è chiamato con nome proprio transustanziazione. 5. Però, come i sensi ci dicono, restano dopo la transustanziazione gli accidenti, ossia le apparenze del pane e del vino; ciò anzi fu sapientemente disposto perché altrimenti 1. noi avremmo orrore di mangiare carne umana e di bere umano sangue; 2. gli infedeli ci irriderebbero; 3. la nostra fede non avrebbe merito. 6. Ma benché restino gli accidenti o apparenze sensibili del pane e del vino, non ne resta però la forma sostanziale, perché la forma insieme colla materia costituisce la sostanza, e tutta la sostanza di pane e di vino si converte nella sostanza di Gesù Cristo: che se avvenisse la conversione soltanto della materia del pane e non della forma,
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questa diverrebbe una forma separata, cioè un angelo, il che è inconcepibile. 7. La transustanziazione è istantanea, sia perché il pane non è suscettibile di preparazione alla sua tramutazione, sia perché Cristo nella sua presenza reale non vi va gradatamente crescendo, ma sopratutto perché vi opera l’infinita potenza di Dio. 8. Dire: «dal pane si forma il corpo di Gesù Cristo» non è falso, nel senso però che la particella dal indica il punto di partenza come quando si dice che dal niente Dio creò il mondo; e anche nel senso che il pane è la materia dell’Eucaristia, come quando si dice che dall’aria umida si forma l’acqua, perché qualche cosa del pane resta e cioè, non il soggetto ola materia come nelle mutazioni naturali, ma gli accidenti; ma è falso nel senso che il pane ha naturale ordine al corpo di Cristo e quindi non si può dire senz’altro che: il pane può diventare il corpo di Cristo o che: col pane si forma il corpo di Cristo, perché queste frasi designano la causa consostanziale, e si adoperano per le mutazioni naturali, perciò dovendole usare bisogna dichiararne il senso.
Quest. 76. In qual modo Cristo è nell’Eucaristia. – 1. Tutto Cristo si trova nell’Eucaristia, perché per le parole della consecrazione vi si trovano il suo corpo e il suo sangue e, per naturale concomitanza, anche l’anima e la divinità, che in Cristo ora sono realmente uniti al suo corpo e al suo sangue. Le dimensioni del pane appartengono alla quantità e questa è un accidente, perciò queste non si convertono in Cristo, ma restano del pane; invece tutta la sostanza del pane si converte in tutta la sostanza di Cristo, perciò dove prima c’era sostanza di pane, sia in grande che piccola quantità, si trova tutta la sostanza di Gesù Cristo, ossia tutto Gesù Cristo.
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2. Parimenti Cristo si trova tutto sotto ciascuna specie consacrata, con questa distinzione però che perle parole della consecrazione sotto gli accidenti del pane si trova direttamente il corpo di Gesù Cristo; e il sangue, l’anima e la divinità vi si trovano per concomitanza; e, similmente, sotto le specie del vino direttamente si trova il sangue di Cristo e il resto vi è per concomitanza. Che se si fosse consacrato durante la morte di Gesù Cristo il corpo non avrebbe avuto per naturale concomitanza il sangue, né il sangue avrebbe avuto il corpo, perché realmente allora quella concomitanza non c’era. 3. E se Cristo si trova tutto sotto ciascuna specie consacrata, per effetto della reale concomitanza vi si trova anche con la sua quantità dimensiva, non però per modo di dimensioni, ma per modo di sostanza; e poiché tutto Cristo si trova là dove prima c’era sostanza, anche in minima quantità, di pane, perciò Cristo si trova tutto in tutte le parti dell’Ostia anche prima che se ne facciano frammenti; 4. e tutta la quantità dimensiva di Cristo si trova nell’Eucarestia; ciò però non direttamente, cioè per le parole della Consacrazione, che hanno per termine solo la sostanza di Cristo, ma per concomitanza, perché la sostanza di Cristo non si divide dalla sua quantità dimensiva, e nemmeno dagli altri accidenti. 5. Cristo però non si trova nell’Eucarestia localmente, perché sarebbe «luogo » troppo piccolo; prima della consacrazione il luogo occupava la sostanza delpane mediante le sue dimensioni, dopo la consacrazione occupa il luogo la sostanza di Cristo bensì, ma mediante dimensioni altrui, cioè del pane; Cristo non vi è localmente, vale a dire non vi è circoscritto. 6. Poiché Cristo nell’Eucarestia è come è in Cielo, per sé vi si trova perciò immobilmente, perché immobilmente si trova in Cielo e quindi per sé vi è incorruttibilmente; solo può dirsi che si muove di moto locale al muoversi
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delle specie, e quindi anche che cessa di essere nell’Eucarestia al cessare delle specie. 7. Il corpo di Cristo, come è nell’Eucarestia, nessun occhio lo può vedere, nemmeno un occhio glorificato; infatti nell’Eucarestia le specie proprie di Cristo non vi si trovano direttamente, ma vi si trovano per mezzo della sostanza di Cristo, perciò non potrebbero colpirei sensi altro che per mezzo di tal sostanza, la quale dai sensi non è percepibile; tale sostanza è percepibile dall’intelletto, è quindi, non visibile, ma intelligibile; siccome però Cristo nell’Eucarestia vi si trova soprannaturalmente, in sé essa è intelligibile agli intelletti soprannaturali, di Dio cioè e dei beati; ma a noi essa è intelligibile soltanto per fede; come pure per fede è intelligibile ai demoni, indotti dall’evidenza deisegni. 8. Le apparizioni miracolose, per le quali nell’Eucarestia appariscono goccie di sangue, carne viva, il Bambino ecc. o avvengono solo nei sensi di chi vede in quanto Dio li modifica, e questo sembra doversi dire quando appariscono ad uno sì e ad altri no; ovvero possono essere apparizioni reali nel Sacramento, come sembra doversi dire quando a tutti egualmente e per lungo tempo appariscono: non è però da dirsi che quelle siano le sembianze proprie di Cristo: e neppure si devono dire finzioni, ma miracoli: è la figura o il colore soltanto che si muta; ma finché restano le precedenti dimensioni, che sono il fondamento degli altri accidenti, rimane l’adorabile corpo di Cristo.
Quest. 77. Le specie sacramentali. – 1. Nell’Eucarestia gli accidenti del pane e del vino, ossia le apparenze sensibili, non possono avere per soggetto la sostanza del pane e del vino perché essa nell’Eucarestia non c’è più; non possono avere per soggetto la sostanza di Cristo, perché non possono essere apparenze di un corpo umano; non
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possono passare a un altro soggetto, per es. l’aria, sia perché essi non migrano, ma conservano il loro posto che non è quello dell’aria, sia perché l’aria non è suscettiva delle apparenze del pane e del vino e conservando le apparenze proprie non può assumere le apparenze altrui; per conseguenza restano senza soggetto, in quanto Dio, causa prima onnipotente, supplisce alla sostanza del pane e del vino, causa seconda della loro esistenza. 2. E così la quantità, che è il primo degli accidenti, diventa il soggetto degli altri, il che si deve asserire 1. perché tale apparisce ai sensi: il colore, per es. apparisce nelle dimensioni del pane e del vino; 2. perché la prima disposizione della materia è sempre la quantità dimensiva; 3. perché il soggetto deve essere principio di individuazione e la quantità è elemento costitutivo del principio di individuazione. Che poi possano gli altri accidenti essere soggetto della quantità è affatto inconcepibile. 3. Le specie del pane e del vino, che restano nell’Eucarestia, continuano ad agire sui sensi e sui corpi come prima della transustanziazione, perché se Iddio colla sua onnipotenza le conserva nel loro essere di accidenti, naturalmente al loro essere va dietro l’operare: conservano quindi, come prima, l’operare loro proprio tutti gli accidenti, cioè la quantità, la qualità, l’azione, la passione, la relazione, il luogo, il tempo e il sito; 4. inoltre, come prima della consacrazione potevano corrompersi, così possono corrompersi dopo la consacrazione, sia per se stessi, coll’alterazione per es., del colore, del sapore, della quantità ecc. sia accidentalmente, ossia per ragione del soggetto, cioè pane e vino, con cui, e non già con Cristo, ha relazione il loro essere di accidenti; per cui tutto quello che agendo sul pane e sul vino poteva farli corrompere prima della consacrazione, può anche dopo la consacrazione: di conseguenza, siccome nell’Eucarestia la sostanza di Cristo succede alla sostanza di pane e di vino, se dalla corruzione degli accidenti si rileva che
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alla sostanza di pane e di vino sarebbe succeduta un’altra sostanza diversa dal pane, non può esservi più la sostanza di Cristo, che succede solo alla sostanza del pane ed allora è cessata la presenza reale. 5. Le specie eucaristiche, come sono corruttibili, così sono anche tali che possono generare per es. cenere, polvere ecc., come avrebbe potuto fare la sostanza del pane e del vino prima della consacrazione; è poi certo che tali cose non provengono dal corpo di Cristo, perché Cristo è incorruttibile, in Lui quindi non si avvera che la corruzione di una cosa porta la generazione di un’altra cosa e viceversa; per non moltiplicare senza necessità miracoli convien dire che tali cose provengono dalla capacità della quantità, soggetto degli altri accidenti, di diventare anche il soggetto delle forme susseguenti, cosa che è propria della materia, e questo non è un nuovo miracolo, ma una conseguenza del miracolo precedente. 6. Con ciò è spiegabilissimo che le specie sacramentali possono anche nutrire, perché come possono convertirsi in cenere, così possono convertirsi in corpo umano. 7. Che poi le specie sacramentali si frangano è reale e senza difficoltà, perché soggetto della frattura delle specie è la quantità difensiva, che nell’Eucarestia resta del pane e del vino; non si frange però Cristo, perché come è incorruttibile è anche infrangibile. 8. Parimenti, come poteva essere mescolato qualche liquore al vino prima della consacrazione, può esserlo anche dopo: diversi sono poi gli effetti; se ciò che si mescola è in tanta quantità, che ne risulta una terza cosa in cui non sono conservate le specie del vino consacrato, cessa anche la presenza reale; altrettanto si dica se si aggiunge eguale vino ma in tale quantità che non sia più lo stesso di numero il vino della consacrazione; se invece la quantità che vi si mescola è così piccola che la mescolanza si limita a una parte, cessa la presenza reale in questa parte, ma non nellealtre.
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Quest. 78. Forma dell’Eucaristia. – 1. Mentregli altri Sacramenti si compiono nell’uso della materia, l’Eucaristia si compie nella consacrazione della materia e mentre negli altri Sacramenti la consacrazione della materia consiste in una benedizione, nell’Eucaristia consiste in una miracolosa conversione, che Dio solo può operare; negli altri Sacramenti la forma deve essere relativa all’uso della materia, per es. io ti battezzo, nell’Eucaristia invece deve essere relativa alla consacrazione della materia, perciò sono forma dell’Eucarestia le parole: questo è il mio corpo; questo è il mio sangue, queste poi il Sacerdote le pronuncia in persona di Cristo e non già in persona di ministro, come quando dice: io ti battezzo. 2. Le parole della consacrazione del pane: «questoè il mio corpo » esprimono l’attuale effetto della transustanziazione, perciò ne sono la forma conveniente: tanto più che, terminando l’attuale effetto della transustanziazione al corpo di Cristo, ciò da cui comincia la transustanziazione, cioè il pane, che poi resta solo negli accidenti, viene designato col solo pronome: questo. 3. Conveniente forma della consacrazione del vino sono invece le parole: questo è il calice del mio sangue colle altre che seguono: del nuovo ed eterno testamento..., le quali pure appartengono alla forma della consacrazione del vino, perché sono determinazione del predicato il mio sangue; e mentre le parole: questo è il calice del mio sangue designano la conversione del vino in sangue, le altre che seguono designano gli effetti del Sangue versato nella Passione. 4. Essendo l’Eucaristia il Sacramento più degno, bisogna ammettere che le parole della forma di questo Sacramento, che il Sacerdote pronuncia in persona di Cristo, contengano una virtù creata, effettiva della transustanziazione, sempre però istumentale. 5. Le parole della consacrazione hanno virtù fattiva e non valore significativo; fanno la cosa e non la presup-
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pongono, ed operano istantaneamente e non successivamente, si prendono perciò secondo l’ultimo istante del loro proferimento; allora significano: «quello che è contenuto sotto queste specie e che prima era pane, è il corpo di Cristo»; il soggetto non vi è determinato con un nome, ma vi resta indeterminato con un pronome, perciò le forme della consecrazione sono locuzioni verissime. 6. Le parole della consecrazione del pane conseguiscono subito il loro effetto ed è falso che aspettino ad avverarsi quando è pronunciata anche la forma della consecrazione del vino; perché il verbo adoperato: questo «è» il mio corpo, è di tempo presente e non di tempo futuro e perciò si avvera subito.
Quest. 79. Effetti dell’Eucaristia. – I. L’Eucaristia è per la vita spirituale del mondo, essa perciò conferisce la grazia, come è ovvio da chi considera: 1. che l’Eucaristia contiene Cristo, il quale è autore della grazia; 2. che è la rinnovazione della Passione di Cristo, la quale diede al mondo la grazia; 3. che è data a modo di cibo e di bevanda per l’aumento della vita spirituale che consiste nella grazia; 4. che ha per effetto l’unione nostra con Cristo la quale è unione di carità e perciò di grazia; 2. per queste stesse ragioni poi l’Eucaristia, oltrealla grazia, ha per effetto anche il conseguimento della gloria, perché ce ne apersero la porta Cristo e la sua Passione e ce ne danno un saggio anticipato e il cibo spirituale e l’unione con Cristo che nell’Eucaristia sicontengono. 3. L’Eucaristia, che contiene Cristo, autore della grazia, in sé ha il potere di rimettere anche il peccato mortale; ma in relazione a chi la riceve, se questi ha un peccato mortale e ne ha coscienza, l’Eucaristia non lo cancella, ma lo aggrava, perché essendo l’Eucaristia cibo spirituale, non può di lei cibarsi se non chi è spiritualmente vivo; se invece ha un peccato mortale e non ne ha coscienza,
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l’Eucaristia divotamente ricevuta lo cancella per effetto della carità. 4. I peccati veniali vengono tutti indistintamente rimessi dall’Eucaristia, prima perché essi sono debolezze dell’anima causati dalla concupiscenza e l’Eucaristia è ilcibo che ristora le forze dell’anima; poi perché l’Eucaristia ha per effetto di eccitarci ad atti di carità, e questi rimettono i peccati veniali. 5. Quanto poi alla pena del peccato l’Eucaristia, come Sacramento, ha direttamente per effetto di nutrire l’anima e non di rimettere la pena dei peccati; indirettamente però ha anche questo effetto proporzionatamente al fervore di carità che eccita in noi; come Sacrificio invece, ha valore soddisfattorio, in favore dell’offerente e con riguardo più all’affetto che alla quantità dell’oblazione. 6. Il peccato è morte dell’anima: la morte può avvenire o per dissoluzione interna o per esterna violenza; orbene l’Eucaristia ci preserva da tali forme di morte dell’anima, perché essa come cibo corrobora la vita spirituale e come segno della Passione di Cristo è arma terribile contro i demoni; l’Eucaristia quindi preserva dai peccati. 7. L’Eucaristia a chi la riceve giova sia come sacramento che come sacrificio; che se come Sacramento giova solo a chi la riceve, come sacrificio giova anche aglialtri, perché per tutti è morto Cristo. 8. L’effetto del Sacramento viene in parte impedito dai peccati veniali, non passati, ma presenti, che ingombrano la mente, perché impediscono la percezione di tutta la dolcezza che c’è nel cibo spirituale dell’Eucaristia.
Quest. 80, La Comunione. – 1. Poiché talora il frutto dell’Eucaristia viene impedito e si riceve allora in modo imperfetto, bisogna distinguere il modo imperfetto e il modo perfetto di ricevere l’Eucaristia e il primo si dirà sa-
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cramentale, cioè del solo Sacramento, il secondo spirituale, cioè anche dell’effetto spirituale. Si distingue anche la Comunione spirituale, che èil desiderio di ricevere l’Eucaristia, dalla ComunioneSacramentale, che è il ricevere realmente l’Eucaristia. 2. Cristo nell’Eucaristia è sotto le specie di pane e di vino, mentre in cielo è sotto le sembianze sue proprie; perciò l’Eucaristia è cibo esclusivo degli uomini, invece Cristo in cielo è cibo degli angeli sotto le specie sue proprie. 3. Sacramentalmente, senza l’effetto spirituale, l’Eucaristia può riceverla anche il peccatore, perché la presenza reale di Gesù nell’Eucaristia, finché durano le specie, c’è sempre e per tutti. 4. L’Eucaristia significa anche il corpo mistico di Cristo, cioè l’unione dei fedeli, e ricevere l’Eucaristia significa professarsi uniti a Cristo per fede resa perfetta dalla grazia; perciò chi riceve l’Eucaristia in peccato mortale commette una falsità e fa perciò un sacrilegio. 5. I peccati contro la divinità di Cristo sono in sé più gravi dei peccati contro l’umanità di Cristo; ma in chi li commette questi possono essere più gravi di quelli; perciò l’eresia e la bestemmia in sé sono più gravi di una Comunione sacrilega, ma la Comunione sacrilega è il giù grave peccato se si commette concerta scienza e con disprezzo del Sacramento. 6. Ai peccatori certi e notori e della cui penitenza non si può avere presunzione, se si accostano a ricevere la Comunione, il sacerdote deve rifiutarla; non può invece rifiutarla se quelli che si accostano cogli altri a ricevere la Comunione sono peccatori occulti. 7. Dopo una perdita notturna, dipenda essa da cause o per nulla colpevoli, o venialmente colpevoli o mortalmente colpevoli, è decoroso e opportuno astenersi dalla Comunione, qualora il bisogno spirituale non consigli altrimenti.
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8. L’aver precedentemente presi cibi o bevande non impedisce la Comunione per se stesso, come fa il peccato mortale, ma impedisce la Comunione per precetto della Chiesa, che fu stabilito per significare che Cristo deve entrare per primo nel nostro cuore ed essere il fondamento del nostro vivere e che gli si deve tanto rispetto da sottrarlo a ogni pericolo di vomito: la Chiesa però esclude i casi degli infermi. Per digiuno si intende il digitino naturale, dalla mezza notte, di tutto, anche in minima parte, che si prenda come cibo, come bevanda o medicina; le reliquie invece del cibo che si trovano nella bocca e che si deglutiscono non come cibo, ma come saliva non rompono questo digiuno. 9. A chi non ha mai raggiunto l’uso della ragione non si deve dare la Comunione; a chi l’aveva e lo ha perduto, ma prima di perderlo ha avuto divozione dell’Eucaristia, in articolo di morte si deve dare la Comunione, se lo stomaco la può tenere. 10. La Comunione è capace di apportare una utilità quotidiana a chi la riceve e chi la riceve può avere ogni giorno le disposizioni per ricavare dalla Comunione una quotidiana utilità, perciò la Comunione quotidiana non ha impedimenti né per parte del Sacramento, né per parte di chi si comunica. Variò in proposito la disciplina della Chiesa, ma fu sempre lodato l’accostarsi spesso alla Comunione. 11. Astenersi invece totalmente dalla Comunione è illecito, perché tutti sono tenuti per comando di Cristo alla Comunione almeno spirituale, cioè al desiderio di fare la Comunione, e questo desiderio sarebbe un desiderio menzognero se quando si può non la si facesse; la Chiesa poi ha determinato il tempo di soddisfare al divino precetto. 12. Il Sacramento dell’Eucaristia esige primieramente e per sé di essere assunto sotto tutte due le specie, per-
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ché sotto le due specie esso è perfetto e perciò il sacerdote che consacra deve anche completare il sacrificio assumendo tutte due le specie; secondariamente e in ordine ai fedeli esso esige di essere ricevuto con decoro e devozione e appunto per provvedere al decoro e alla devozione fu introdotto l’uso di comunicare il popolo soltanto sotto le specie del pane e non sotto le specie del vino.
Quest. 81. L’uso dell’Eucaristia in Cristo. – 1. Nella cena Cristo prima di comunicare gli Apostoli comunicò se stesso, perché era suo uso prima dare l’esempio e poi insegnare. Come potevano le specie sacramentali essere nelle sue mani, così potevano essere nella sua bocca. 2. Gesù comunicò anche Giuda, perché volendo esserci perfetto esempio di giustizia non volle rendere manifesto il peccato occulto di Giuda negandogli la comunione. 3. Cristo diede agli Apostoli il corpo che aveva allora, cioè corpo passibile, tuttavia come Egli, visibile, si trovava nel Sacramento in modo invisibile, così Egli, passibile, si trovava sotto le specie in modo impassibile. 4. Se si fosse consacrato al tempo della morte di Cristo ci sarebbe stato nell’Eucaristia Cristo morto, perché in sostanza il corpo di Cristo è lo stesso nelle apparenze sue proprie e in questo Sacramento, diverso è invece quanto al modo, ossia quanto alla relazione dimensiva coi corpi circostanti; Cristo nelle apparenze sue proprie tale relazione la ha mediante le dimensioni sue, nel Sacramento invece la ha mediante le dimensioni delle specie del pane e del vino, per cui essere crocefisso poteva nelle sue sembianze, non poteva esserlo sotto le specie sacramentali.
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Quest. 82. Ministro dell’Eucaristia. – 1. L’Eucaristia è un Sacramento di tanta dignità che si consacra in persona di Cristo; questo potere viene concesso al Sacerdote quando viene ordinato, perciò solo del Sacerdote è proprio consacrare. 2. Come gli Apostoli hanno cenato con Cristo cenante, così i Sacerdoti appena ordinati celebrano insieme col Vescovo ordinante, perciò possono più Sacerdoti consacrare insieme una sola e medesima Ostia. 3. Distribuire la Comunione appartiene al Sacerdote, 1. perché anche nella Cena Cristo che ha consacrato fu quello che ha distribuito la comunione; 2. perché è il Sacerdote il mediatore fra Dio e gli uomini; 3. perché una cosa così Sacra conviene che sia toccata solo da mani sacre. 4. Il Sacerdote che consacra deve anche assumere l’Eucaristia, perché l’Eucaristia è non solo Sacramento, ma anche sacrificio e chi offre sacrificio deve partecipare del sacrificio. 5. Il Sacerdote non consacra in persona propria, ma in persona di Cristo, e non cessa di essere Sacerdote di Cristo quando è un Sacerdote cattivo, quindi anche un Sacerdote cattivo validamente consacra. 6. Nella Messa bisogna distinguere la parte principale, cioè il Sacramento e la parte secondaria, cioè le preghiere per i vivi e per i morti; come Sacramento tanto vale la Messa del Sacerdote buono, quanto quella del Sacerdote cattivo, perché ambidue consacrano; come preghiere bisogna distinguere nel Sacerdote il Ministro della Chiesa e la persona privata del Sacerdote; le preghiere del Ministro della Chiesa sono fruttuose pel merito della Chiesa; le preghiere del Sacerdote come persona privata sono invece più o meno fruttuose secondo la sua santità. 7. Anche i Sacerdoti eretici, scismatici e scomunicati consacrano validamente, perché la consacrazione dell’Eu-
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caristia dipende dal potere dell’Ordine, che essi non hanno perduto. 8. Nemmeno per la degradazione un Sacerdote perde il potere dell’Ordine, perciò anche un Sacerdote degradato, se consacra, consacra validamente. 9. Tutti costoro però, benché consacrino validamente, consacrano illecitamente, perché l’esercizio dell’Ordine è loro proibito, quindi non è lecito ricevere i Sacramenti da loro, né ascoltare la loro Messa, perché con ciò si è complici del loro peccato. 10. Un Sacerdote non può senza peccato far sempre a meno di celebrare la Messa, perché ciascuno deve far uso delle grazie ricevute e il sacrare è una grande grazia.
Quest. 83. Il rito dell’Eucaristia. – 1. Nell’Eucaristia Cristo si offre in sacrificio come sulla Croce, e ciò non solo perché l’Eucaristia è un mistero rappresentativo del sacrificio della Croce, ma anche perché ce ne partecipa i frutti facendo a noi l’applicazione dei meriti di Cristo; 2. noi abbiamo ogni giorno bisogno di tali meriti e perciò la Chiesa ha disposto che ogni giorno si celebri e poiché la Passione di Cristo avvenne dopo l’ora di terza, perciò la Messa solenne si celebra di regola nel tempo corrispondente, cioè sul mezzogiorno. 3. L’apparato per la celebrazione della Messa deve essere relativo sia alla Passione del Signore, di cui la Messa è rappresentazione, sia anche alla dignità del Signore che è realmente presente nell’Eucaristia; per questo riguardo hanno ragione di essere le Chiese sontuose, gli altari consacrati, i vasi sacri preziosi e le suppellettili monde. 4. Il Sacramento dell’Eucaristia comprende tuttoil mistero della nostra Redenzione, per questa ragione viene celebrato con più solennità degli altri Sacramenti, ed è bene disposto nelle sue parti, che sono: I. la preparazione consistente nella lode a Dio, nell’espressione della pre-
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sente nostra miseria, del ricordo dell’eterna gloria, nella preghiera e nell’istruzione del popolo: II. la celebrazione del mistero, distinta in oblazione colla lode del popolo e l’offerta del Sacerdote; in consacrazione preceduta dal Sanctus e dal Memento dei vivi e seguita da protesta della nostra indegnità e memento dei morti; in assunzione del Sacramento cui il popolo viene preparato colla orazione domenicale e con orazioni speciali: III. il ringraziamento con canto di esultanza e preghiere del Sacerdote. 5. Nell’Eucaristia oltre alla rappresentazione della Passione di Cristo c’è anche un riferimento al corpo mistico di Gesù Cristo e al devoto uso del Sacramento; nella Messa quindi le azioni e le parole furono tutte sapientemente disposte in ordine a questi tre fini. Così il lavabo è per la riverenza dovuta al Sacramento; le croci per rappresentare la Passione di Cristo; le cinque volte che il Sacerdote si volge al popolo ricordano le cinque apparizioni di Gesù risorto; le sette volte che il Sacerdote saluta il popolo designano i sette doni dello Spirito Santo. 6. Benché le prescrizioni liturgiche siano molte e minuziose, non sono però impossibili a osservarsi e si ovvia sufficientemente ai difetti in cui si può incorrere celebrando la S. Messa prevenendoli colla diligenza, correggendoli colla solerzia o rimediandoli colla penitenza. Le rubriche stesse, messe in principio del Messale, prevedono tutti i possibili difetti in cui si può incorrere celebrando la Messa e indicano il modo di comportarsi.
Quest. 84. La Penitenza. – 1. La Penitenza è un Sacramento, perché anch’essa consiste in una cosa santa ordinata alla santificazione; tale infatti è l’atto del penitente che detesta i suoi peccati e l’atto del Sacerdote che lo assolve, nei quali atti consiste la Penitenza.
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2. La materia della Penitenza sono gli atti sensibili del penitente, cioè il dolore, l’accusa e la soddisfazione; ma la materia di questi atti sono i peccati che il peccatore detesta, perciò i peccati sono la materia remota della Penitenza. 3. L’effetto della Penitenza, che è la rimozione dei peccati, viene benissimo espresso colle parole «Io ti assolvo» perciò queste parole sono la forma del Sacramento della Penitenza. 4. Il Sacramento della Penitenza è istituito per rimettere i peccati e non per implorare grazie particolari e distinte; perciò in questo Sacramento non si richiede l’imposizione delle mani. 5. Per conseguire l’eterna salute è necessaria la rimozione del peccato; e i peccati commessi dopo il Battesimo non si rimuovono se non mediante la Penitenza, perciò la Penitenza è necessaria di necessità di Salute per chi ha peccato dopo il Battesimo; 6. e in questo senso la Penitenza è la seconda tavola di salvezza, perché come a chi passa il mare è necessario o conservare intera la navicella o aggrapparsi a una tavola se la navicella si sfascia, così a noi è necessario o conservare l’integrità della grazia dataci dal Battesimo, o aggrapparci alla tavola di salvezza dellaPenitenza. 7. Il Sacramento della Penitenza fu realmente e convenientemente istituito nel Nuovo Testamento: infatti quanto alla materia, benché essa, come negli altri Sacramenti, preesista in natura, perché è naturale all’uomo detestare il male fatto, viene tuttavia da Gesù Cristo la determinazione degli atti del penitente come materia della Penitenza, viene pure da Cristo la determinazione dell’ufficio dei Ministri, e ciò quanto alla forma; l’efficacia poi del Sacramento della Penitenza ha origine dalla passione di Gesù Cristo e ha inizio dopo la suarisurrezione. 8. La Penitenza dei peccati commessi deve durare tutta la vita nel senso che non si può mai aver piacere di
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averli commessi, deve perciò durare per tutta la vita la penitenza interna, non però la penitenza esterna. 9. La stessa penitenza interna poi, che deve durare per tutta la vita, deve essere continua come abito, non però come atto, perciò basta che non si faccia un atto contrario, ma non occorre che si attenda di continuo adatti di penitenza. 10. Il Sacramento della Penitenza si può ricevere ripetutamente, avendo così disposto la misericordia di Dio, perché anche la carità pur una volta avuta si può perdere per un peccato, e nessun peccato poi è così grande da superare in grandezza la misericordia di Dio.
Quest. 85. La penitenza come virtù. – 1. Pentirsi significa dolersi di ciò che si è fatto; tale dolore poi se è nella parte sensitiva è una passione; se invece è nella volontà dipendente da retta ragione allora è una virtù o un atto di virtù; ed è di questa che qui sitratta. 2. La penitenza in quanto è indirizzata a distruggere il peccato, quale offesa di Dio, è una virtù cheha uno speciale oggetto, perciò è una virtù speciale. 3. La riparazione dell’offesa, che si compie e cessando dall’offendere e prestando la dovuta riparazione, è di spettanza della virtù della giustizia, perciò la penitenza è parte della giustizia, non però della stretta giustizia che corre fra eguali, ma della giustizia largamente presa. 4. La penitenza poi, in quanto virtù, parte della giustizia, appartiene alla volontà, perché la stessa giustizia è ferma e costante volontà di dare a ciascuno il suo. 5. La penitenza, come abito, è infusa da Dio senza nostro concorso; come atto invece essa è il concorso della nostra volontà all’azione di Dio, che ci tocca il cuore e desta in noi la fede; comincia in noi col timore servile dei castighi e diventa prima speranza del perdono, poi amore
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e dispiacere del peccato in se stesso e infine diventa timore filiale, o vera penitenza. 6. La Penitenza quindi non è la prima virtù nemmeno in ordine di tempo, perché la precedono la fede, la speranza e la carità; può dirsi la prima soltanto nel senso che da lei ha inizio la giustificazione del peccatore.
Quest. 86. Effetti della Penitenza. – 1. Un peccato diventa irremissibile quando o non si può pentirsene, ovvero il pentirsene non vale; ma i viventi non hanno la volontà fissa nel male, come i demoni, l’hanno invece ancora flessibile come al male così al bene, perciò dei peccati essi possono sempre pentirsi; essendo poi infinita e la misericordia di Dio e l’efficacia della Passione di Cristo il pentirsi dei peccati vale sempre a ottenerne il perdono: ogni peccato quindi può essere cancellato colla Penitenza; 2. ed altrettanto per contro nessun peccato è remissibile senza la penitenza, presa come virtù; perché colla grazia Dio si rende grato l’uomo, cosa che non si può supporre se l’uomo, che per il peccato si è reso avverso a Dio per volgersi alle creature, non volge le spalle alle creature per rivolgersi a Dio: quanto invece alla Penitenza, presa come Sacramento, i peccati sono remissibili anche senza di quello, perché Dio, che in esso assolve dai peccati per mezzo del Ministro, può assolvere anche direttamente senza di lui. 3. Non può peraltro essere rimesso un peccato sì e un peccato no, perché la grazia è incompossibile anche con un solo peccato mortale e la penitenza, che è lasciare quanto è offesa di Dio, non può esserci di un peccato sì e di un peccato no. 4. Nel peccato mortale in corrispondenza al reato di colpa, che è doppio e cioè avversione a Dio e conversione a beni caduchi, c’è un doppio reato di pena, cioè: I. quello
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di pena eterna, per la perdita dell’eterno bene e questo viene rimesso colla penitenza e colla grazia; II. quello di pena temporale in relazione ai beni caduchi, e questo per la giustizia ha bisogno di qualche espiazione. 5. Dopo la penitenza e la remissione dei peccati possono rimanere delle disposizioni e inclinazioni cattive determinate dai precedenti atti di peccato; restano adunque le reliquie dei peccati. 6. La penitenza, quale virtù, cioè gli atti del penitente, benché valga ad ottenere il perdono da Dio direttamente, cioè anche fuori del Sacramento della Penitenza, è tuttavia ordinata come materia del Sacramento della Penitenza, in cui il potere delle chiavi funge da forma, che, come in ogni Sacramento, è la parte determinante della materia: perciò la Penitenza cancella i peccati come virtù, ma più principalmente come Sacramento.
Quest. 87. La remissione dei peccati veniali. – 1. Anche i peccati veniali sono una separazione da Dio, benché parziale soltanto; anche questa deve essere riparata e la riparazione se si può fare colla penitenza, cioè con un dispiacere del fatto, non si può invece fare come è evidente, senza qualche, almeno implicito, dispiacere del fatto; perciò nemmeno i peccati veniali possono essere rimessi senza la penitenza per lo menovirtuale. 2. Ma poiché i peccati veniali non tolgono la grazia, non è necessario ricorrere ai mezzi che sono necessari all’infusione della grazia per chi l’ha perduta; è sufficiente un solo moto della carità e della grazia per cancellarli; che se avviene l’infusione della grazia in un adulto, siccome essa non si compie senza un moto libero di carità, perciò ogni infusione di grazia in lui porta con sé la cancellazione dei veniali. 3. Se adunque per la remissione dei veniali non è necessaria l’infusione della grazia, ma basta un moto di gra-
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zia o di fervore per cui essi o esplicitamente o implicitamente dispiacciono, essi vengono cancellati non solo coi Sacramenti, ma anche con altri atti, che ne importano l’esplicita detestazione, come il Confiteor e il Pater noster e anche con atti che non importano la detestazione implicita, come sono gli atti di devozione e le benedizioni che con devozione si ricevono. 4. Ma poiché è la grazia che opera la remissione di tutte le colpe, non si può avere la remissione dei peccati veniali e rimanere col peccato mortale, che esclude la grazia;
Quest. 88. Dei peccati già rimessi. – 1. Quando si torna a peccare i peccati già perdonati non ritornano in se stessi, ma torna col nuovo peccato mortale ciò che a tutti i peccati mortali è comune cioè l’avversione a Dio e il conseguente reato di pena eterna. 2. Si può poi dire che essi ritornano come reato di ingratitudine virtualmente contenuta nel peccato seguente, perché si agisce in opposizione al beneficio già ricevuto della remissione dei peccati e tale ingratitudine si riscontra particolarmente nell’odio fraterno, nell’apostasia, nel disprezzo della Confessione e nel rimpianto di essersi confessati. 3. Non si può però dire che per un nuovo peccato l’ingratitudine ritorna così grande come sarebbe la somma dei peccati già perdonati, perché l’ingratitudine si proporziona non solo al beneficio ricevuto, ma anche alle condizioni d’animo di chi ne è reo, si deve invece dire che il nuovo peccato è più grave in proporzione del numero e della gravità dei peccati già perdonati. 4. Tale peccato poi di ingratitudine contenuto in un nuovo peccato non è sempre un peccato speciale, lo è soltanto quando ce n’è l’intenzione esplicita.
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Quest. 89. Il ricupero delle virtù. – 1. Le virtù ritornano colla Penitenza, perché esse scaturiscono dalla grazia e col tornare della grazia tornano anche le virtù. 2. L’ultima disposizione all’infusione della grazia è il moto del libero arbitrio, perciò secondo che questo è più o meno intenso, le virtù ritornano in grado maggiore, eguale o minore di prima. 3. Colla Penitenza l’uomo riacquista la pristina dignità davanti a Dio, perché torna a essere suo figlio; non riacquista la pristina innocenza, perché questa è una volta per sempre perduta; le dignità ecclesiastiche poi non le riacquista se si è impediti dalle disposizioni canoniche in quanto o la Penitenza non è fatta, o fu negligentemente fatta, o c’è ammessa l’irregolarità, o c’è la ragione dello scandalo da riparare. 4. Le opere vive, cioè le opere buone fatte in istato di grazia, diventano opere mortificate per un peccato mortale, perché cessano dalla loro funzione vitale di condurre alla vita eterna, in quanto il peccato mortale ne sospende l’effetto; 5. ma queste stesse opere mortificate, riviviscono, cioè ritornano vive, quando si rimuove per mezzo della Penitenza l’impedimento che ne teneva sospeso l’effetto, cioè il peccato mortale. 6. Invece le opere morte, cioè le opere buone fatte in istato di peccato e perciò prive della vita spirituale, non riviviscono, perché non è possibile sostituire il principio di vita al principio di morte in opere che appartengono al passato e che nella loro identità numerica non si riassumono.
Quest. 90. Le parti della Penitenza. – 1. Parti si chiamano quelle in cui il tutto si divide ed esse sono proprie della materia; nella Penitenza gli atti del penitente costituiscono la quasi materia del Sacramento e poiché sono di-
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versi gli atti che occorrono alla perfezione della Penitenza, come la contrizione, la confessione e la soddisfazione, perciò si devono assegnare le Parti alla Penitenza. 2. Le parti essenziali del Sacramento della Penitenza sono la materia e la forma, le parti quantitative invece sono le parti della materia e queste nel Sacramento della Penitenza sono tre, cioè la contrizione, la confessione e la soddisfazione, perché la Penitenza non consiste in una giustizia vendicativa, ma in una riconciliazione amichevole e perciò occorre I. avere volontà di riconciliazione, ecco la contrizione; II. rimettersi al giudizio del rappresentante di Dio, ecco la confessione; III. prestare il compenso stabilito, ecco la soddisfazione; 3. e poiché nessuna di queste tre parti è l’intera Penitenza, ma tutte e tre occorrono per costituirla integralmente, perciò esse sono le parti integrali della Penitenza. 4. La Penitenza poi come virtù si distingue in Penitenza prima del Battesimo, Penitenza dei peccati mortali e Penitenza dei veniali; perché una ha per scopola nuova vita dello spirito; l’altra ha per scopo la riforma della vita corrotta e la terza ha per iscopo una vita più perfetta.
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SUPPLEMENTI
Quest. 1. La contrizione. – 1. In senso proprio si dice trito un corpo duro, che cedendo totalmente al suo stato di durezza, si riduce in minutissimi pezzi; in senso figurato si dice contrito un cuore che recede totalmente dalla sua durezza spirituale, la quale lo aveva reso ribelle a Dio. Contrizione quindi è dolore dei peccati col proposito di confessarli e di farne la penitenza e queste parole sono la vera definizione della contrizione, perché le convengono e come virtù e come parte del Sacramento in relazione alle altre parti. 2. Come il gonfiarsi nella propria volontà cattiva è male, così il contrirsi della propria volontà cattiva è bene, perché è moto contrario e perciò la contrizione è atto di virtù. 3. L’attrizione non può diventare contrizione, perché il principio ne è diverso; infatti il principio della attribuzione è il timore servile, mentre il principio della contrizione è il timore filiale. Il dolore sensibile non appartiene alla essenza della contrizione, ma ne può essere effetto.
Quest. 2. Oggetto della contrizione. – 1. Se il cuore si dice contrito, in quanto recede dalla sua durezza spirituale nel male, la contrizione non si ha delle pene che si incontrano, di queste si può avere dolore, ma non contrizione; 2. Altrettanto si può avere dolore del peccato originale, ma non contrizione, perché in quello non ci siamo cacciati di nostra volontà.
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3. Ogni peccato nostro attuale rappresenta una durezza spirituale del cuore, perciò il cuore, per essere contrito così da cancellare il peccato, deve essere contrito di ogni peccato attuale. La contrizione generale di tutto ciò che è offesa di Dio vale anche per i peccati dimenticati e per i peccati veniali. 4. La prudenza, che muove tutte le virtù, quanto ai peccati passati determina la contrizione e quanto ai peccati futuri determina la precauzione, ma dei peccati futuri non può esserci contrizione, che solo riguarda il passato. 5. Può diventare contrito quello stesso cuore che prima era duro; ma il cuore duro di un altro non può identificarsi col cuore contrito nostro, perciò degli altrui peccati può esserci detestazione, ma non può esserci contrizione. 6. Come ci confessiamo di ciascun peccato, così di ciascun peccato dobbiamo contrirci; però, siccome il fine della confessione è unico per tutti i peccati, cioè l’acquisto della grazia, così è sufficiente la contrizione generale di tutti.
Quest. 3. Quantità della contrizione. – 1. Quanto maggiore è il male, tanto maggiore deve esserne il dolore, ma la colpa è il male più grande, perciò la contrizione, che è dolore della colpa, è il dolore più grande. Ciò però quanto al dolore spirituale che sta nella volontà; non così invece del dolore sensibile, perché la parte sensitiva è mossa con più veemenza dalle cose che le sono proprie, cioè dalle cose sensibili, che non dalla ridondanza in lei delle forze spirituali. 2. La contrizione, come dolore nella volontà, non può mai essere troppo grande, perché si riferisce al peccato, che è offesa di Dio; ma in quanto è dolore sensibile
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per ridondanza della volontà, può essere eccessiva se va contro alla conservazione dello stesso soggetto. 3. Dei peccati ci pentiamo, perché sono offesa di Dio, e poiché un peccato è maggiore offesa di Dio di un altro, perciò di un peccato bisogna pentirsi di più che di un altro.
Quest. 4. Il tempo di pentirsi. – 1. Come uno che viaggia detesta sempre ciò che gli occorse in qualche momento e che gli fu causa di ritardo nell’arrivo; così per tutta la vita dobbiamo essere contriti del peccato, che fu un tempo irremisibilmente perduto nel nostro viaggio per l’eternità, il quale deve essere una corsa verso Dio. 2. In fatto di contrizione, quale dolore della volontà, come non può esserci eccesso nell’intensità, così non può esserci eccesso nell’estensione; perciò conviene pentirsi sempre dei peccati, in modo però da non impedire le altre virtù: invece in fatto di contrizione, quale dolore nella parte sensibile per ridondanza dalla volontà, può esserci eccesso come nell’intensità, così nella durata. 3. Dopo la presente vita non può esserci contrizione, perché essa importa tre cose: dolore, carità e merito; il primo manca ai beati, la seconda manca ai dannati, e la terza manca alle anime purganti.
Quest. 5. Effetti della contrizione. – 1. Come il disordinato amore del cuore produce il peccato, così il dolore proveniente da ordinato amore di carità lo distrugge, quindi ciò che rimette il peccato è la contrizione; lo rimette come causa strumentale quale parte del Sacramento, lo rimette come causa materiale qualeatto di virtù. 2. La contrizione può importare una carità così intensa da meritare l’assoluzione di ogni reato di colpa e anche di pena; inoltre per ridondanza nella parte sensitiva può
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causare un tale dolore sensibile, che è già una pena, da essere accettato da Dio come sufficiente per la cancellazione di ogni colpa e di ogni pena. 3. Ogni dolore poi, per quanto piccolo, se è vera contrizione è sempre sufficiente per cancellare qualunque peccato.
Quest. 6. Confessione e sua necessità. – 1. Il peccato non viene rimesso se non per mezzo di un Sacramento della Chiesa ricevuto in atto o almeno in desiderio; e con ciò uno si sottomette al potere della Chiesa; ma poiché la Chiesa non può applicare il rimedio se non conosce il male e questo si ottiene colla Confessione del peccatore, perciò la Confessione, per chi peccò, è necessaria. 2. I Sacramenti non sono di diritto naturale, ma di diritto divino soprannaturale; perciò anche la Confessione è necessaria, non di diritto naturale, ma di diritto soprannaturale divino. 3. Per diritto divino sono obbligati a confessarsi tutti quelli che hanno peccato mortalmente; per precetto ecclesiastico sono invece tenuti a confessarsi tutti, anche perché così il pastore conosce le sue pecorelle. La Confessione è non solo per la remissione dei peccati, ma anche per la direzione spirituale. 4. La Confessione si fa per manifestare la coscienza al confessore, ma invece di manifestarla la occulta tanto chi non confessa i peccati commessi, quanto chi confessa peccati non commessi; anche questi perciò commette cosa illecita. 5. Il precetto della Confessione urge per accidente, quando si deve ricevere un altro Sacramento, per il quale occorre essere in grazia di Dio; urge invece per sé quando la dilazione, come avviene pel Battesimo, osi basa su ragioni peccaminose, o si connette col pericolo di morire senza Confessione.
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6. La Confessione per chi ha peccato mortalmente è necessaria di precetto divino e non ecclesiastico, perciò nemmeno il Papa può dispensarlo dalla Confessione.
Quest. 7. Essenza della Confessione. – 1. «Confessione è quella per cui si manifesta il male nascosto perla speranza del perdono». Questa definizione di S. Agostino è la più completa, perché contempla tutte le circostanze essenziali dell’atto e i suoi effetti. 2. La Confessione che ha per condizione fondamentale la verità è un esercizio della sincerità e perciò è un atto di virtù. 3. E poiché tale Confessione mira allo stesso scopo cui mira la virtù della penitenza, cioè alla cancellazione del peccato, perciò è un atto della virtù della penitenza; mentre la confessione di un reo in giudizio è atto di giustizia e la confessione dei benefici ricevuti è atto digratitudine.
Quest. 8. Il ministro della Confessione. – 1. La Confessione è necessario farla a un Sacerdote, perché solo il Sacerdote, che ha potere sul corpo reale e sul corpo mistico di Gesù Cristo, può distribuire la grazia. 2. La Confessione sacramentale si può fare solo al Sacerdote; farla ad un laico sarebbe solo esercizio di umiltà; 3. e tale atto di umiltà potrebbe, come un sacramentale, cancellare i peccati veniali. 4. L’assoluzione che il Sacerdote impartisce è non soltanto esercizio dell’Ordine, ma anche della giurisdizione, perciò la Confessione i fedeli devono farla ai propri Sacerdoti, cioè a coloro che hanno giurisdizione sopra di loro.
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5. Un Sacerdote può essere impedito dall’ascoltare le confessioni dei fedeli o perché gli manca la giurisdizione o perché gliene fu sospeso l’esercizio; può quindi ascoltare la Confessione di qualunque fedele se gli viene, nel primo caso, partecipata la giurisdizione che gli manca; e se viene evitata la sospensione nel secondo caso. 6. La Chiesa ha limitata la giurisdizione dei Sacerdoti per ragioni di disciplina; ma la necessità non ha legge, perciò quando c’è il caso di necessità per il pericolo di morte quella limitazione disciplinare della Chiesa cessa e ogni Sacerdote può assolvere. 7. La pena temporale che si impone non viene sempre proporzionata ai peccati, così che per un peccato maggiore si imponga una pena maggiore, perché la pena deve essere vendicativa e medicinale, ad un tempo; la proporzione perfetta c’è nel purgatorio.
Quest. 9. Qualità della Confessione. – 1. La Confessione come atto di virtù, non può essere informe, cioè scompagnata dalla grazia, altrimenti non è meritoria: invece come parte del Sacramento, che precede l’assoluzione del Sacerdote, può essere informe, cioè finta; ma chi la fa non ne riceve il frutto se non rimedia alla finzione. 2. Come il malato, se vuole guarire, deve manifestare tutto il suo male al medico, perché se ne manifesta solo una parte il rimedio non può essere adeguato, così il peccatore deve manifestare tutti i suoi mali; s enon lo fa non si può dire che si confessa, ma che finge di confessarsi. 3. La Confessione, come parte del Sacramento, ha il suo determinato atto in unione agli altri ed è l’atto ordinario di manifestare le proprie colpe, cioè dirle di propria bocca; perciò confessarsi per mezzo di un altro o per mezzo di uno scritto, può essere una sostituzione consentita solo quando ce n’è una necessità.
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4. Una Confessione fatta a perfezione risponde a molte condizioni, le più importanti sono che sia integra, semplice, umile, discreta e fedele, vocale, mesta, pura e pronta ad obbedire.
Quest. 10. Effetti della Confessione. – 1. La Confessione libera dalla morte del peccato, perché nel presente ordine la contrizione è efficace soltanto col voto della Confessione; la Confessione attuale quindi è completava della contrizione e coll’assoluzione del Sacerdote infonderebbe la grazia ove la contrizione precedente non fosse stata sufficiente. 2. La Confessione non solo libera dalla pena eterna, ma anche diminuisce la pena temporale; perché essa stessa è una pena per il rossore che importa; 3. e con ciò stesso la Confessione apre la porta del Paradiso; perché sono i reati di colpa e di pena, che essa cancella, quelli che ne impediscono l’ingresso. 4. La Confessione dà la speranza dell’eterna salute, perché in essa il fedele si sottopone al potere delle chiavi, cui è riservato applicare i meriti di Cristo. 5. Per i peccati commessi, ai quali si è estesa la contrizione, è sufficiente a cancellarli la Confessione generale, anche se ce ne sono di dimenticati, perché il potere delle chiavi agisce su tutto, se il penitente non vi mette ostacolo.
Quest. 11. Il sigillo della Confessione. – 1. In qualunque caso il Sacerdote deve tener nascosti i peccati conosciuti sotto sigillo sacramentale, perché egli li sa come ministro di Dio e perciò deve tenerli celati come li tiene celati Dio, che mai li rivela.
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2. Sotto il sigillo cadono direttamente tutti i peccati, e indirettamente tutte le cose che potrebbero rendere manifesto il peccatore, perciò anche altre cose oltre i peccati vengono sotto il sigillo. 3. Per sé è al Sacerdote che spetta come il potere delle chiavi, ossia di assolvere, così il dovere del sigillo, cioè di tacere; accidentalmente però può esserci anche altri che, ascoltando, è partecipe dell’uso delle chiavi fatto dal Sacerdote e perciò deve essere partecipe anche del dovere del sigillo. 4. Può il Sacerdote col permesso del penitente palesare ad altri un suo peccato conosciuto sotto sigillo, perché il permesso del penitente fa che il confessore sappia anche come uomo e di scienza comunicabile ciò che prima sapeva di scienza incomunicabile, come Dio. Tale permesso però, fuori del penitente, nessun altro può darlo, nemmeno il Papa. 5. Il sigillo riguarda tutte e sole quelle cose che si vengono a sapere in Confessione e la cui rivelazione riesce di gravame al penitente; ma se quelle cose il confessore le conosce anche all’infuori della Confessione, e perciò di scienza comunicabile, può per sé parlarne; però per timore dello scandalo e per rispetto al Sacramento deve farlo soltanto in caso di necessità e in modo da far capire che ne parla, ma non come di cose sapute in confessione.
Quest. 12. La Soddisfazione. – 1. La virtù formalmente sta nel giusto mezzo; la soddisfazione è un giusto mezzo fra il diritto di Dio e il dovere dell’uomo, perciò la soddisfazione è formalmente un atto di virtù; 2. e poiché quale mezzo mira a quell’eguaglianza tra cosa e cosa, che è compito della giustizia, perciò la soddisfazione è un atto della virtù della giustizia epiù precisamente della giustizia vendicativa, perché questa è quella che riguarda un’offesa precedente.
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3. La soddisfazione importa due cose: compenso per il passato e precauzione per il futuro; perciò la bella definizione di S. Anselmo: «la soddisfazione è pagare a Dio il dovuto onore » si completa con quella di S. Agostino: «è togliere le cause del peccato».
Quest. 13. La Soddisfazione è possibile. – 1. Soddisfazione deriva da satisfacere, che significa fare abbastanza; soddisfare a Dio quanto Dio merita all’uomo è impossibile; gli è invece possibile soddisfare quanto può, e poiché la forma di giustizia da parte dell’uomo è conservata, perciò questo è sufficiente. 2. Soddisfare per un altro come compenso del passato non è proibito, anzi è cosa che davanti a Dio ha grande merito di carità; ma in quanto la soddisfazione è di rimedio per i peccati futuri non è possibile che valga la penitenza fatta da uno per un altro.
Quest. 14. Qualità della Soddisfazione. – 1. Non si può dare soddisfazione di un peccato sì e di un altro no, perché ogni peccato mortale toglie la grazia e perciò basta anche un solo peccato mortale, di cui non si voglia dare soddisfazione, per impedire la riconciliazione con Dio. 2. Poiché le opere imposte per la soddisfazione non riescono a Dio accette se l’amicizia più non dura, ma è stata rotta con un nuovo peccato, perciò della soddisfazione non si può essere sicuri se non la si presta in istato di grazia. 3. Se quindi sono necessarie per la soddisfazione opere fatte in istato di grazia, le opere fatte in istato di peccato sono opere morte che non rivivono e perciò
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non potrebbero cominciare ad avere valore nemmeno quando si riacquista la grazia. 4. Merito si chiama quell’azione per cui è giusto dare qualcosa a chi la fa, e quel qualcosa sarebbe il dovuto, ossia il debito; si distingue poi il debito di giustizia o de condigno, che si riferisce a chi ha da ricevere il qualcosa, e il debito di convenienza o de congruo, che si riferisce a chi ha da dare il qualcosa: nelle nostre opere di soddisfazione ciò che offriamo a Dio è già di Dio, non resta quindi altro che l’amore con cui le facciamo che possa a loro dare valore di merito; ma se manca l’amore di Dio, e con ciò la grazia di Dio, le opere buone non possono avere, per chi le fa, merito di giustizia; possono avere soltanto merito di convenienza e giovare o per conseguire benefizi temporali, o per disporsi alla grazia o per assuefarsi alla virtù in questa vita; 5. per l’altra vita poi non valgono certo a liberare dalla pena infernale già meritata; valgono a prevenire una pena maggiore e a diminuire o a differire le penetemporali.
Quest. 15. Opere di Soddisfazione. – 1. Il compenso a Dio dovuto non si può prestare che con una privazione nostra; perciò la soddisfazione deve consistere in un’opera che non solo sia buona e sia in onore di Dio, ma anche che sia penale o di penitenza. 2. I flagelli della presente vita possono essere opere soddisfattorie nostre se o ce li assumiamo o li accettiamo da Dio, perché allora solo, divenuti di nostra proprietà, sono una privazione nostra, altrimenti restano solo castighi di Dio. 3. Se la soddisfazione consiste in privazioni nostre, di nostro abbiamo l’anima, il corpo e i beni di fortuna, perciò le privazioni relative saranno orazione, digiuno ed elemosina e queste sono vere opere soddisfattorie, perché hanno valore di compenso del passato e di precauzione
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per l’avvenire, in quanto ci dispongono bene verso Dio, verso il prossimo e verso noi stessi.
Quest. 16. Il Penitente. – 1. L’infusione della grazia porta con sé tutte le virtù e quindi anche la virtù della penitenza, ma in coloro che conservano l’innocenza battesimale non c’è materia di penitenza cioè peccati, in loro quindi la penitenza non c’è come atto, ma solo come abito, giacché anch’essi possono peccare. 2. Nei Santi invece che sono già in gloria la penitenza resta, ma solo come atto di gratitudine per la misericordia di Dio; e che in loro la gratitudine resti è certo, perché le virtù cardinali restano anche in Paradiso e la penitenza è parte della giustizia, che è una virtù cardinale. 3. Gli Angeli non sono suscettibili di penitenza, come virtù, perché questa è ordinata al fine di conseguire la misericordia di Dio e questo è solo possibile agli uomini che sono su questa terra; nei demoni e nei dannati c’è solo la penitenza come passione, cioè come detestazione del loro male, perché ciò è naturale a tutti.
Quest. 17. Il potere delle chiavi. – 1. Potere delle chiavi è il potere di aprire le porte del Paradiso che il peccato ci chiude; tal potere appartiene alla Trinità per l’autorità sua; appartiene a Cristo per il merito della sua Passione, ed appartiene anche alla Chiesa, che uscì dal costato di Cristo, e perciò anche ai ministri della Chiesa che sono dispensatori dei Sacramenti, nei quali è riposta l’efficacia della Passione. 2. Un potere si definisce dai suoi atti, gli atti del potere delle chiavi sono di chiudere e di aprire, che si esercitava dagli Ebrei legando o sciogliendo lo spago del catenaccio, perciò rettamente si definisce quel potere
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per cui «l’ecclesiastico giudice riceve i degni e respinge gli indegni dal regno»; 3. e si dice il potere delle chiavi anziché della chiave, perché sono due gli atti che competono all’ufficio di ecclesiastico giudice, cioè il giudizio dell’idoneità alla grazia di chi si presenta al giudizio, e la sentenza di assoluzione; sono dunque due chiavi anziché una.
Quest. 18. Effetto delle chiavi. – 1. Il potere delle chiavi non si limita alla remissione della pena, ma si estende alla remissione della colpa, perché altrimenti non ci sarebbe ragione che occorrano le disposizioni interne dell’animo da parte di chi riceve il Sacramento. 2. Il potere delle chiavi nel Sacramento della Penitenza opera anche la remissione della pena temporale; non di tutta, perché l’uomo colla Penitenza si dice non rigenerato, ma sanato e, per di più, restano le cicatrici o i residui del morbo spirituale; certo però di una parte almeno, perché altrimenti non ci sarebbe ragione di imporre una pena temporale. 3. Il potere delle chiavi, essendo un potere razionale, è non soltanto potere di sciogliere, ma è anche potere di fare l’opposto, cioè di legare; quanto al reato di colpa direttamente scioglie, cioè assolve, e solo indirettamente lega, cioè nega l’assoluzione e lascia nella colpa; quanto alla pena, direttamente lega, cioè impone la soddisfazione e indirettamente scioglie, cioè libera dalla pena temporale. 4. Il Sacerdote però non può sciogliere e legare a capriccio, perché nell’uso del potere delle chiavi egli è ministro e strumento di Dio, che è il principale agente nei Sacramenti, perciò deve farne uso secondo l’ordine divino; l’ordine poi divino è che le medicine siano appropriate anche quanto alla dose all’ammalato; perciò anche la soddisfazione non deve imporsi così grande da spaventare il penitente e allontanarlo dal Sacramento.
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Quest. 19. Ministri del potere delle chiavi. – 1. I Sacramenti del Vecchio Testamento non conferivano la grazia, ma soltanto la figuravano, perciò i Sacerdoti del vecchio Testamento non avevano il potere delle chiavi. 2. In Cristo c’è il potere delle chiavi, ma in modo superiore al nostro, perché in noi c’è il potere di strumento, come compete ai Sacramenti, in Cristo c’è il potere di agente, come compete all’autore dei Sacramenti. Il potere delle chiavi si chiama di strumento in noi; di eccellenza in Cristo; di autorità nella Trinità. 3. Il potere delle chiavi è di ordine e di giurisdizione; il potere di ordine si riferisce direttamente al Cielo ed è esclusivo dei Sacerdoti; il potere di giurisdizione si riferisce direttamente alla Chiesa anticamera del Cielo, e si esercita colle scomuniche e relative assoluzioni e questo può esserci anche in chi non è ancora Sacerdote. 4. L’uomo nell’uso delle chiavi non agisce per se stesso, ma agisce come strumento, perché non comunica la grazia sua, ma quella di Cristo, perciò per quanta santità uno abbia se non è sacerdote per essa sola non ha l’uso delle chiavi; 5. e per la stessa ragione che il Sacerdote non comunica la grazia sua, ma quella di Cristo, perché non è agente per sé, ma solo strumento, per quanto egli sia privo di grazia, cioè per quanto sia cattivo non viene privato dell’uso delle chiavi. 6. Invece negli eretici, scismatici, scomunicati, sospesi e degradati il potere delle chiavi resta come potere di ordine, ma ne viene sospeso l’uso, perché sono privati del potere di giurisdizione.
Quest. 20. Soggetti al potere delle chiavi. – 1. Come in Cielo fra gli Angeli, così anche in terra nella Chiesa c’è una gerarchia e con ciò c’è uno che ha giurisdizione universale e sotto di lui altri che hanno giurisdizioni
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particolari e poiché per l’uso delle chiavi occorre oltre al potere di ordine anche il potere di giurisdizione, perciò le chiavi non si possono usare se non con coloro sui quali si ha giurisdizione. 2. Col proprio suddito però un Sacerdote non può far sempre uso delle chiavi, perché ci sono dei casi in cui la sua giurisdizione è limitata e perciò deve rimettere il suo suddito al superiore. 3. Per sé il potere delle chiavi si estende a tutti ed è per ragione di gerarchia che un Sacerdote ha la giurisdizione limitata dal suo superiore; ma se il superiore gliela allarga fino a se stesso, allora il Sacerdote può far uso delle chiavi anche col suo stesso superiore.
Quest. 21. La scomunica. – 1. La scomunica importa diverse penalità, cioè la privazione di comunicare coi fedeli nella convivenza sociale, nella partecipazione dei Sacramenti e nelle preghiere comuni, le conviene quindi la solita definizione: «La scomunica è separazione dalla comunione della Chiesa, dal frutto di questa comunione e dalle generali Preghiere». 2. Come fa Iddio coi peccatori, che manda castighi per indurli a penitenza e che gli abbandona a se stessi perché riconoscano la loro insufficienza, altrettanto deve fare la Chiesa coi peccatori ostinati scomunicandoli, cioè separandoli dai fedeli, affinché siano umiliati e si pentano. 3. La scomunica è un’esclusione dal regno, dal quale vanno esclusi gli indegni; indegni ne sono quelli che perdono la grazia col peccato mortale; il peccato mortale può esserci anche in un danno grave recato al prossimo, anche per tal danno quindi uno può essere scomunicato; ma, essendo la scomunica una pena gravissima, bisogna riservarla come misura estrema, cioè dopo esperiti gli altri mezzi.
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4. Una scomunica se è ingiusta per il fatto che il superiore nell’infliggerla pecca di odio o di ira è valida egualmente; ma se è ingiusta o perché non c’è la dovuta causa o perché non si seguono le formalità strettamente richieste, allora la scomunica è invalida e nulla.
Quest. 22. Scomunicanti e scomunicati. – 1. Non chiunque Sacerdote, ma soltanto i Vescovi e i Prelati maggiori possono scomunicare, perché essi soltanto hanno giurisdizione nel foro esterno della Chiesa, 2. ed appunto perché la scomunica è un atto di giurisdizione esterna e di questa sono capaci anche coloro che non sono ancora Sacerdoti, perciò, anche un non Sacerdote può scomunicare. 3. Ma scomunicare non può uno, il quale sia scomunicato, perché la scomunica lo priva della giurisdizione; e nemmeno può farlo uno che dalla giurisdizione sia sospeso. 4. Poiché poi la giurisdizione si esercita sugli inferiori, perciò uno non può scomunicare né se stesso, né un eguale, né un superiore. 5. La scomunica non si può dare se non in base a un peccato mortale; ma il peccato mortale c’è nei singoli e non in una comunità; perciò saggiamente la Chiesa ha disposto che non si possono scomunicare le comunità. 6. Contro uno che è già scomunicato si può rinnovare la scomunica e se ne possono lanciare anche altre per altre cause, queste poi diventano tanti vincoli diversi.
Quest. 23. Condotta cogli scomunicati. – 1. La scomunica è a titolo di medicina per la resipiscenza del reo, perciò anche con uno, che si deve evitare per effetto di una scomunica, è lecito trattare quando sia per ridurlo
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a penitenza ed è lecito trattare anche per servirlo nelle necessità della vita secondo il dovere naturale che ne hanno quelli di casa; 2. Seguire le parti di uno che è scomunicato, e cioè separato dalla Chiesa, è separarsi dalla Chiesa, perciò che la Chiesa colpisca di scomunica anche quelli che, fuori dei casi previsti, comunicano con uno scomunicato, non è illogico; 3. e non si può negare che essi commettano anche peccato mortale, se c’è in loro o partecipazione al delitto, o comunicazione in cose sacre o disprezzo della Chiesa.
Quest. 24. Assoluzione dalla scomunica. – 1. Un sacerdote può assolvere dalla scomunica il suo penitente, quando ne abbia le dovute facoltà. 2. La scomunica è una pena, ma non una colpa, perciò mentre i peccati non si contraggono che per volontà e contro volontà non vengono rimessi, invece la scomunica, come si contrae contro volontà, così contro volontà può essere rimessa; 3. e si può essere assolti da una scomunica senza essere assolti dalle altre, appunto perché le scomuniche sono pene e non hanno connessione fra loro come le colpe, cioè i peccati.
Quest. 25. L’Indulgenza. – 1. La penitenza rimette la pena eterna e parte della pena temporale, e della pena temporale che resta si può ottenere la remissione mediante le indulgenze, che valgono anche davanti a Dio, perché sono l’applicazione dei meriti sovrabbondanti di Cristo e di Santi, che sono meriti comuni di tutta la Chiesa, la cui distribuzione appartiene a chi della Chiesa ha il governo.
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2. Le indulgenze valgono tanto quanto dicono, sempreché però chi le concede ne ha l’autorità, chi le riceve è in istato di grazia e la causa di concederle è la pietà, che comprende l’onore di Dio e l’utilità del prossimo: la giustizia di Dio non ne scapita, perché si tratta solo di questo, che la pena sofferta da uno viene computata a vantaggio di un altro. 3. Si possono concedere indulgenze anche per aiuti temporali e prestazioni materiali, se queste vengono disposte ed adoperate per uno scopo spirituale, perché allora non sono più cose semplicemente materiali.
Quest. 26. Chi può concedere Indulgenze. – 1. Soltanto il Vescovo ha giurisdizione piena nel foro esterno della Chiesa, nel qual foro avviene il compenso dei meriti degli uni colle pene temporali dovute da altri; perciò i Vescovi possono concedere indulgenze, e non possono concederle i parroci, 2. e poiché la concessione delle indulgenze è esercizio della potestà di giurisdizione, anziché di ordine, perciò anche chi non è ancora Sacerdote può concedere indulgenze se ha la dovuta giurisdizione. 3. Il governo di tutta la Chiesa, e perciò l’intera amministrazione del suo tesoro di meriti, spetta al Papa; i Vescovi invece che sono chiamati a parte della sua pastorale sollecitudine, possono concedere indulgenze solo quanto è loro consentito dal Papa di concederne. 4. Il concedere indulgenze è atto di giurisdizione e questa non si perde, come la grazia, per un peccato, perciò sono valide le indulgenze concesse anche da chi è in peccato mortale.
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Quest. 27. Chi lucra le Indulgenze. – 1. A chi è in istato di peccato mortale non si possono applicare le indulgenze, perché non si può rimettere la pena se non è prima rimessa la colpa; gli si possono però applicare i meriti della Chiesa, i quali dispongono alla grazia. 2. Le indulgenze valgono anche per i religiosi, perché essi non sono da meno dei fedeli. 3. Chi non compie le opere prescritte non può lucrare le indulgenze, perché esse sono concesse sotto condizione di fare tali opere. 4. Le indulgenze può lucrarle anche chi le concede, perché altrimenti sarebbe in condizione peggiore degli altri.
Quest. 28. La penitenza pubblica. – 1. La medicina deve essere appropriata al male; perciò a qualche peccato pubblico e di molto scandalo può essere appropriata la penitenza pubblica. 2. La penitenza solenne si assomiglia all’espulsione di Adamo dal Paradiso terrestre, perciò come egli nefu scacciato una volta sola, così la penitenza solenne non si deve ripetere, anche perché altrimenti perderebbe la sua importanza. 3. La penitenza solenne, che era pubblica e con un rito che ricordava l’espulsione di Adamo dal Paradiso terrestre, non si imponeva a chi aveva gli Ordini Sacri, perché ciò sarebbe stato maggiore scandalo; invece la penitenza pubblica, ma non solenne, si poteva imporre anche a loro come agli altri e si poteva imporre anche a loro come agli altri e si poteva ripetere.
Quest. 29. L’Estrema Unzione. – 1. I Sacramenti si distinguono dai Sacramentali per il loro effetto, che è di
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guarire dal peccato e non soltanto di disporre a quell’effetto come fanno i Sacramentali; l’effetto dell’Estrema Unzione, come dichiara S. Giacomo, è di guarire dal peccato, essa quindi è un Sacramento enon già un Sacramentale. 2. Come il Battesimo è un Sacramento solo, pur risultando di tre infusioni o immersioni, così l’Estrema Unzione è un Sacramento solo, benché risulti di diverse unzioni perché tutte concorrono a significare e causare una cosa sola, cioè la grazia; e questa è unità di perfezione, secondo la quale anche una casa è una, pur risultando di parecchie parti. 3. Benché l’Estrema Unzione non sia uno dei Sacramenti promulgati da Cristo, tuttavia fu da Cristo stesso, come tutti gli altri, istituito, perché soltanto da istituzione divina possono i Sacramenti derivare la loro efficacia di conferire la grazia. 4. La medicina spirituale, che si adopera come ultima, deve essere perfetta e lenitiva; l’olio, che è lenitivo, penetrativo e diffusivo era attissimo a significarla, era la convenientissima materia di questo Sacramento; deve poi essere olio di oliva, perché il vero olio, come dice il nome è quello di oliva. 5. L’olio non fu, come furono invece l’acqua per il Battesimo e il pane e il vino per l’Eucarestia, santificato dall’uso diretto di Cristo, perciò bisogna benedirlo prima di adoperarlo, anche perché a ridonare la salute corporale non valgono le sue naturali proprietà; 6. e deve essere consecrato dal Vescovo, perché l’efficacia sacramentale gli deriva da Cristo e deve a lui discendere con ordine e quindi per via gerarchica, cioè dal Vescovo, anziché dai Sacerdoti. 7. Anche l’Estrema Unzione ha la sua forma, ossia le parole che determinano fra i molti sensi, cui la materia si presta, quello che è il proprio di questo segno sensibile ed efficace della grazia; ciò non solo perché cosi è di
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tutti i Sacramenti, ma anche perché S. Giacomo espressamente ne parla. 8. La forma però dell’Estrema Unzione, anziché essere indicativa, è deprecativa, perché più appropriata a un Sacramento che si conferisce a chi è in fine di vita e il cui effetto non sempre dipende dal giudizio e volontà del ministro. 9. Di conseguenza le parole: Per questa santa unzione ecc., le quali designano il Sacramento, la misericordia di Dio che in esso opera, e la remissione dei peccati, che ne sono l’effetto, sono la forma conveniente di questo Sacramento.
Quest. 30. L’effetto dell’Estrema Unzione. – 1. L’Estrema Unzione è un Sacramento istituito come medicina spirituale; la medicina si dà a chi è ammalato, ma non a chi è morto, perciò l’Estrema Unzione non si dà a chi è spiritualmente morto per il peccato originale o mortale, ma si dà a chi è spiritualmente ammalato, cioè affetto di quella debolezza spirituale, che è reliquia e conseguenza del peccato originale o mortale; ma poiché il vigore spirituale, che essa dona, non è che la grazia, la quale esclude il peccato, perciò l’effetto dell’Estrema Unzione è la remissione dei peccati quanto alle loro reliquie o conseguenze: ed è anche la remissione del peccato, che ne è causa, se per caso c’è. 2. Come il Battesimo lava l’anima e anche il corpo, così l’Estrema Unzione sana l’anima e sana anche il corpo, se questo effetto secondario è in armonia coll’effetto principale. 3. L’Estrema Unzione non imprime il carattere, perché per essa, l’uomo non viene deputato a uffici spirituali.
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Quest. 31. Ministro dell’Estrema Unzione. – 1. Ministri dei Sacramenti sono solo i Sacerdoti, fatta eccezione del Battesimo per la sua necessità: l’Estrema Unzione non è di tanta necessità; perciò i laici non possono mai amministrare l’Estrema Unzione; 2. nemmeno il Diacono può amministrarla, perchéS. Giacomo parla espressamente dei Sacerdoti; 3. non è però riservata ai soli Vescovi, perché ai Vescovi sono riservati quei Sacramenti che costituiscono chi li riceve in uno stato superiore; e l’Estrema Unzione non ha questo effetto.
Quest. 32. A chi si deve dare l’Estrema Unzione. – 1. L’Estrema Unzione non si deve dare ai sani, ma solo agli ammalati, perché di questi parla S. Giacomo; 2. non si può però amministrare per qualunque infermità, ma solo per quelle infermità che conducono all’estremo della vita, perché appunto da ciò si chiama Estrema Unzione; 3. poiché all’effetto di questo Sacramento molto conferisce la divozione di chi lo riceve, non lo si deve dare ai pazzi e ai furiosi, a meno che abbiano dei lucidi intervalli; 4. per la stessa ragione non lo si deve dare nemmeno ai bambini. 5. L’unzione non si deve estendere a tutto il corpo, perché nemmeno le medicine si applicano a tutto il corpo, ma solo alla sola parte malata, e l’Estrema Unzione è a titolo di medicina. 6. In noi i principii di peccare sono quelli stessi del nostro agire e sono il principio conoscitivo, come dirigente, il principio appetitivo, come imperante e il principio locomotivo, come eseguente: perciò a titolo di medicina spirituale si fanno le unzioni ai sensi, nei piedi ed ai reni;
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7. e si devoto fare, come meglio si può, anche ai mutilati, perché se sono privi di un membro non sono però privi del relativo principio di agire.
Quest. 33. Olio Santo iterato. – 1. L’Estrema Unzione non ha un effetto perpetuo, perché si può di nuovo perdere la salute sia dell’anima che del corpo; perciò l’Estrema Unzione si può iterare; 2. e lo si può fare anche nella stessa malattia se si rinnova lo stato di gravità, perché il Sacramento non riguarda la malattia, ma lo stato grave di una malattia.
Quest. 34. L’Ordine. – 1. Nella Chiesa doveva essere riprodotta la bellezza dell’Universo in cui Dio trasmette per gradi la sua influenza fino agli estremi; perciò Iddio stabilì nella Chiesa un Ordine per cui alcuni amministrassero agli altri i Sacramenti e fossero così quasi cooperatori di Dio. 2. Le parole «segnacolo di spirituale potere» sono una definizione giusta dell’Ordine come Sacramento, perché ne esprime la natura di segno e l’effetto proprio. 3. L’Ordine poi è un Sacramento, perché consiste in segni visibili e in una consacrazione spirituale. 4. La Forma dell’Ordine è imperativa: «Ricevete » «Fate», ed è conveniente che sia così, perché la Sacra Ordinazione non è che una trasmissione o partecipazione di poteri. 5. Come gli altri Sacramenti hanno la loro materia, così ha la sua materia anche l’Ordine; essa deve significare i poteri che vengono partecipati e perciò è quella che nell’uso di tali poteri si adopera.
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Quest. 35. Effetto dell’Ordine. – 1. L’Ordine è un Sacramento e poiché i Sacramenti conferiscono la grazia santificante, anche l’Ordine conferisce la grazia per lo speciale scopo di amministrare degnamente i Sacramenti. 2. Il carattere è un segno distintivo; in ciascuno degli Ordini viene conferita una distinzione per cui si viene stabiliti in un gradino sempre più alto, perciò ciascuno degli Ordini imprime il carattere. 3. Il carattere dell’Ordine però presuppone il carattere del Battesimo, perché il Battesimo è la porta dei Sacramenti e chi non ha il Battesimo non è suscettibile di altri Sacramenti: 4. che se il Battesimo rende suscettibili di ricevere gli altri Sacramenti, ne viene che il carattere del Sacramento della Cresima non si preesige di necessità per il Sacramento dell’Ordine, è però della massima convenienza averlo, perché è esso che fa perfetti cristiani; 5. ed altrettanto per la stessa ragione non si preesige di necessità il carattere degli Ordini inferiori per ricevere gli Ordini superiori; la Chiesa però vuole che ciò sia, affinché tutto proceda ordinatamente.
Quest. 36. Qualità degli ordinandi. – 1. Chi riceve un Ordine viene anche costituito nel suo grado quasi guida agli altri nelle cose divine, ma a fare da guida deve avere attitudine, ossia deve avere la debita preparazione spirituale che consiste nella santità e perciò ragionevolmente la Chiesa la richiede nell’ordinando; 2. ciascuno poi deve anche essere istruito in ciò a cui si estende l’ufficio cui viene deputato, perciò nell’ordinando si esige anche la scienza relativa all’esercizio del suo Ordine. 3. Il ministro non conferisce la grazia, ma amministrai Sacramenti che conferiscono la grazia, perciò una santità anche spiccata non è, né conferisce nessun Ordine, tanto
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più che la santità si può perdere e invece l’Ordine Sacro no, perché imprime il carattere. 4. «Il servo fedele è messo a capo della famiglia per dare le cose divine secondo la capacità di ciascuno », dice S. Luca, perciò pecca chi conferisce l’Ordine Sacro a chi non ne è capace per l’indegnità della vita. 5. Le cose sante devono essere trattate santamente, perciò non può essere immune da peccato chi esercita l’Ordine amministrando i Sacramenti in stato di peccato mortale.
Quest. 37. I singoli Ordini. – 1. Diversi sono gli uffici nella Chiesa e perciò diversi sono gli Ordini e con ciò I. viene esaltata anche nella Chiesa quella sapienza di Dio che ha disposto l’unità nella varietà dell’Universo; II. è provvisto con molti aiuti alla insufficienza di un ministro solo; III. è aperta una via di progresso nella perfezione. 2. Il Sacramento dell’Ordine è istituito in ordine alla Eucaristia, relativamente alla quale ci sono sette uffici e perciò sette sono gli Ordini; ci sono quindi: il Sacerdote che la consacra; il Diacono che lo assiste nel distribuirla; il Suddiacono che ne prepara la materia nei vasi sacri; l’Accolito che ministra le ampolle coll’acqua e il vino; l’Esorcista che caccia il demonio che turba i comunicandi; il Lettore che dispone l’animo dei comunicandi e l’Ostiario che caccia dalla Chiesa gli indegni: 3. ciascuno di essi è un Ordine Sacro, perché è Sacramento, ma in senso stretto si dice che ha gli Ordini Sacri soltanto chi è insignito di uno dei tre Ordini maggiori, cioè Suddiaconato, Diaconato e Presbiterato, perché questi importano un’ufficio relativo a cosa consacrata; 4. con tale distinzione poi non solo sono assegnati i singoli atti caratteristici e principali di ciascun Ordine, ma viene fissata anche la gradazione degli Ordini a seconda
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che importano un’azione più o meno prossima all’Eucaristia. 5. L’atto proprio del Sacerdote è di consacrare; perciò egli viene abilitato a questo atto e con ciò istituito nel sacerdozio, quando gliene viene data la facoltà; questa facoltà gli viene comunicata quando il Vescovo gli porge la materia del sacrificio, cioè il calice col vino e la patena coll’Ostia dicendo: Ricevi il potere di consacrare; quindi è allora che si imprime il carattere sacerdotale.
Quest. 38. L’ordinante. – 1. La potestà del Vescovo, relativamente a quella dei ministri inferiori, è come una potestà politica, che prospetta il bene comune, fissa le norme agli inferiori determinandone gli uffici e negli uffici li istituisce; perciò come a lui è riservato il cresimare, così al Vescovo è riservato di conferire gli Ordini Sacri. 2. I Vescovi eretici e scomunicati conferiscono validamente gli Ordini Sacri, perché non si può perdere la Consacrazione una volta ricevuta e quindi nemmeno il potere che essa conferisce; ma il Sacramento dell’Ordine da loro amministrato non conferisce agli ordinati la grazia, perché lo ricevono disobbedendo alla Chiesa.
Quest. 39. Impedimenti all’Ordine Sacro. – 1. Ogni Ordine forma un gradino di preminenza; la donna invece ha uno stato naturale di soggezione e questo dà ragione al precetto apostolico che alle donne non siano conferiti gli Ordini Sacri. 2. I bambini, come ricevono validamente il Battesimo e la Cresima, per conto del Sacramento possono ricevere validamente anche gli Ordini Sacri, pur essendo impediti di esercitarli dalla mancanza dell’uso di ragione; infatti i Sacramenti che imprimono il carattere, cioè Batte-
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simo, Cresima e Ordine, conferiscono una potestà spirituale, che è valida e si presume sempre accettata quando non è espressamente rifiutata; per conto invece della convenienza della cosa e del precetto della Chiesa gli Ordini maggiori non si possono conferire che a una debita età. 3. Anche gli schiavi si trovano in uno stato di soggezione che è in contrasto colla stato di preminenza che conferiscono gli Ordini Sacri; perciò anche agli schiavi è proibito di conferire gli Ordini Sacri; 4. e altresì a chi è reo di omicidio è proibito di conferire gli Ordini Sacri, perché l’omicidio è in opposizione con quella pace di cui è simbolo l’Eucaristia, 5. e ai figli illegittimi è pure proibito di conferire gli Ordini Sacri, perché un’origine disonorata non si concilia colla dignità di ministro della Chiesa. 6. Infine ai mutilati è proibito conferire gli Ordini Sacri se la mutilazione li rende deformi, o ne impedisce l’esercizio, perché sono moralmente o materialmente inetti.
Quest. 40. Annessi dell’Ordine Sacro. – 1. Servirea Dio è regnare, perciò i ministri del Signore devono portare la tonsura, che ha la figura di corona; la rasura poi dei cappelli, in cui essa consiste, indica che a loro non si addicono le vanità del mondo. 2. La tonsura però non è un Ordine, perché non conferisce nessun potere spirituale, è piuttosto una preparazione agli Ordini Sacri. 3. La tonsura poi importa una rinunzia non reale ma di affetto alle cose temporali, perché non è il possesso delle cose temporali che ostacola il servizio di Dio, ma la loro soverchia sollecitudine. 4. Il Sacerdote quanto al suo atto principale, che è di consacrare il corpo reale di Gesù Cristo, ha pieno il potere di Ordine; quanto invece al suo atto secondario che è di reggere il corpo mistico di Gesù Cristo, cioè
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i fedeli, ha invece un potere di giurisdizione limitato, perché dipendente dall’autorità vescovile. 5. Se quindi il Sacramento dell’Ordine è tutto relativo all’Eucaristia e nel sacerdozio esso è completo, l’Episcopato, che nulla di più conferisce relativamente all’Eucaristia, non è un Ordine; lo si può però chiamare Ordine in quanto importa un ufficio speciale di carattere gerarchico relativamente al corpo mistico di Gesù Cristo, cioè la Chiesa. 6. Poiché poi tutta la Chiesa forma un unico corpo, occorre un potere reggitivo universale al disopra del potere dei Vescovi, che reggono le Chiese particolari e questo è il potere del Papa: chi non lo riconosce è scismatico, che scinde cioè l’unità della Chiesa. 7. Opportunamente furono istituite le vesti sacre come distintivo dei singoli uffici in cui ciascuno degli Ordini istituisce quelli che sono i Ministri della Chiesa ed esse significano le attitudini generali e anche speciali che in loro si richiedono a cominciare dall’Amitto, comune a tutti i ministri, fino al Pallio, proprio solo degli Arcivescovi.
Quest. 41. Il Matrimonio ufficio di natura. – 1. Il Matrimonio è diritto naturale nel senso che l’inclinazione viene dalla natura e si completa col libero arbitrio: l’inclinazione poi naturale tende al fine principale del Matrimonio che è il bene della prole consistente non solo nella procreazione, ma anche nell’educazione completa della prole; e tende anche al fine secondario del Matrimonio, che è il mutuo aiuto dei coniugi conseguibile colla coabitazione. 2. Ma poiché tale inclinazione naturale mira al bene della moltitudine e non dei singoli, perciò i singoli non sono obbligati al Matrimonio, anzi per il bene della moltitudine è utile che alcuni si astengano dal matrimonio;
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ed il filosofo Teofrasto dimostra che ai sapienti non convengono le nozze. 3. L’atto del Matrimonio, che mira alla procreazione della prole, la quale è il fine inteso dell’inclinazione naturale, è sempre lecito ed è precetto dell’Apostolo il rendersi il debito coniugale. 4. Anzi, poiché rendere il debito è atto di giustizia e mirare al fine della natura è rendere omaggio a Dio che ne è l’autore, perciò l’atto del Matrimonio è non soltanto lecito, ma anche meritorio.
Quest. 42. Il Matrimonio Sacramento. – 1. Il Matrimonio è un segno sacro che conferisce santità, perciòè un Sacramento, e Sacramento lo chiama espressamente la Scrittura. 2. La procreazione della prole era necessaria anche prima che Adamo peccasse e il matrimonio è per la procreazione della prole; perciò il Matrimonio fu istituito, come ufficio di natura, prima del peccato; come rimedio al peccato, dopo il peccato e come Sacramento fu istituito da Gesù Cristo; a regolare le altre utilità che dal Matrimonio derivano interviene la legge civile e conciò esso ha anche un ufficio di civiltà. 3. Il Matrimonio è un Sacramento, perciò conferisce la grazia e conferisce la grazia di compiere santamente i doveri matrimoniali. 4. Ciascuna cosa ha la sua primaria perfezione nell’essere ed ha la sua secondaria perfezione nell’operare; perciò anche il Matrimonio può essere perfetto nel suo essere ancorché non ne segua l’uso.
Quest. 43. Gli sponsali. – 1. Gli sponsali non sono Matrimonio, ma promessa di futuro Matrimonio; tale promes-
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sa può essere assoluta o condizionata ed è sempre obbligatoria, purché la condizione non sia contraria agli stessi fini del Matrimonio. 2. L’uomo può ritenersi capace di sponsali alla fine del primo settennio, ma soltanto alla fine del secondo settennio può ritenersi capace di contrarre Matrimonio, perché allora può non solo apprendere dagli altri, ma anche da se stesso comprendere ciò che riguarda la sua persona; ciò invece che riguarda le cose a lui esterne può da sé comprenderle solo alla fine del terzo settennio e perciò solo a 21 anni si è ottimi. 3. L’obbligazione degli sponsali cessa se uno dei due si fa religioso o direttamente contrae Matrimonio con altra persona; fuori di questi casi bisogna al caso ricorrere al Giudice ecclesiastico.
Quest. 44. Definizione dei Matrimonio. – 1. Il Matrimonio è un’unione, perché ad un unico e medesimo scopo tendono marito e moglie, cioè alla procreazione ed educazione della prole e al vicendevole aiuto. 2. Il Matrimonio che dalla sua essenza si chiama unione coniugale e dalla sua causa vien chiamato sposalizio, si chiama Matrimonio per gli oneri particolari che alla madre incombono quanto alla procreazione e alla educazione della prole. 3. La definizione del Matrimonio: «Unione maritale di un uomo e di una donna fra persone legittime con metodo comune ed unico di vita» è una definizione appropriata, perché dichiara l’essenza del Matrimonio, che è unione; i soggetti del Matrimonio, che sono un uomo e una donna; e il valore di tale unione, che è indissolubile.
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Quest. 45. Il consenso nel Matrimonio. – 1. In ogni Sacramento c’è un’operazione materiale, come l’abluzione nel Battesimo, che significa l’operazione spirituale; perciò anche nel Matrimonio c’è una operazione spirituale, in quanto è Sacramento, significata, in quanto è ufficio di natura e di civile consorzio, da una operazione materiale e questa è il mutuo consenso, che è la causa efficiente del Matrimonio. 2. Il mutuo consenso deve essere espresso verbalmente in tutti i contratti e deve esserlo anche nel Matrimonio e diviene così il segno sensibile del Sacramento; 3. e tale mutuo consenso deve essere espresso con parole di tempo presente, perché se è espresso con parole di tempo futuro è solo promessa di Matrimonio e cioè: sponsali. 4. Il consenso però espresso verbalmente con parole di tempo presente non produce il Matrimonio se manca il consenso interno, perché allora non c’è intenzione di contrarre Matrimonio, ma intenzione di scherzare o di ingannare. 5. Il consenso espresso verbalmente con parole di tempo presente, ma clandestinamente, cioè senza la solennità di rito, è per se valido quando e dove tali solennità non sono prescritte sotto pena di nullità.
Quest. 46. Consenso giurato. – 1. Il consenso espresso con parole non di tempo presente, ma di tempo futuro, produce non il Matrimonio, ma gli sponsali ed anche se vi si aggiunge il giuramento non produce matrimonio, ma solo sponsali giurati. 2. E anche se invece del giuramento a un tale consenso si aggiunge l’atto coniugale esso non ancora produce Matrimonio.
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Quest. 47. Consenso estorto o condizionato. – 1. Anche nel Matrimonio può darsi che la volontà di uno sia forzata ed il consenso sia estorto, perché ciò può avvenire in ogni contratto a cagione del timore incusso. 2. Tale coazione può subirla anche un uomo forte quando è costretto a subire un male minore per timore di un male maggiore; 3. ma una coazione così forte da forzare anche la volontà di un uomo forte non può produrre un contratto perpetuo, perciò non può valere nemmeno per il Matrimonio, il cui vincolo è perpetuo. 4. E poiché il Matrimonio è relazione fra due termini, se manca un termine la relazione non sussiste nemmeno per l’altro termine; una perciò non può essere sposa di uno se questo non è suo marito; non si dà quindi matrimonio che zoppichi e se il consenso da una parte è forzato, è nullo anche per l’altra parte che lo forza. 5. Il consenso condizionato produce il Matrimonio se la condizione è di cosa presente e non contraria ai fini del Matrimonio, o di cosa futura ma certa perché già presente nelle cause; non produce invece Matrimonio, ma solo sponsali se è di cosa futura e incerta. 6. Nessuno può essere comandato di contrarre matrimonio nemmeno dal proprio padre, perché il Matrimonio è quasi uno stato di servitù, e non si può sottoporvi una persona libera.
Quest. 48. Oggetto del consenso. – 1. Il consenso valido pel Matrimonio riguarda solo implicitamente l’atto coniugale ed esplicitamente esso riguarda il vicendevole dominio di se stessi che i coniugi l’uno all’altro si concedono, perché in questo e non in quello sta l’essenza del Matrimonio. 2. Il consenso valido produce Matrimonio anche se fu causato da fini disonesti da raggiungersi con un Matri-
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monio onesto, perché essi sono posteriori al Matrimonio ed è il precedente che rende cattivo il susseguente, non il susseguente che rende cattivo ilprecedente.
Quest. 49. Beni del Matrimonio. – I. Bisogna convenire che il Matrimonio porta con se dei beni, altrimenti non ci sarebbe ragione di dire che il Matrimonio rende lecito ciò che fuori del Matrimonio non è lecito. 2. I beni che il Matrimonio porta con se sono: la prole, cui il Matrimonio mira; la fedeltà coniugale che esso esige; e il Sacramento che esso è, per la grazia che conferisce. 3. Di questi tre beni il più degno di tutti è il Sacramento, perché è di ordine soprannaturale; se invece quei tre beni si considerano nell’ordine naturale ed essenziale primo è la prole; secondo è la fedeltà; terzo è il Sacramento, perché apparteniamo prima alla natura e alla grazia poi; 4. e l’atto coniugale, che fuori del Matrimonio è un grave disordine, viene dai tre beni predetti giustificato in se stesso, in modo da essere per se stesso un atto buono, anzi santo; 5. perciò se tale atto mira alla prole ovvero alla fedeltà, che i coniugi si devono, è senza peccato di qualunque gemere, altrimenti no. 6. Non è però peccato mortale quando in tale atto si cerca solo la soddisfazione, sempre però nei limiti del Matrimonio.
Quest. 50. Impedimenti matrimoniali. – 1. Gli impedimenti matrimoniali sono parecchi e convenientemente stabiliti: ci sono infatti gli impedimenti che riguardano la solennità del Matrimonio, così come è di altri Sacramenti, e questi lo rendono illecito, ma non invalido si di-
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cono impedienti; ci sono poi gli impedimenti che riguardano l’essenza stessa del Matrimonio o da parte del contratto o da parte dei contraenti e questi lo rendono non solo illecito, ma anche invalido e si chiamano dirimenti.
Quest. 51. L’errore. – 1. Causa efficiente del Matrimonio è il consenso della volontà; un atto della volontà presuppone un atto dell’intelletto e un difetto in questo porta un difetto anche in quello; l’errore impedisce l’atto dell’intelletto e quindi impedisce anche l’atto della volontà e perciò di diritto naturale l’errore invalida il Matrimonio; 2. non però qualunque errore invalida il Matrimonio, ma soltanto l’errore circa ciò che è in sé o equivalentemente essenziale nel Matrimonio, e cioè l’errore o della persona o della sua capacità giuridica a contrarre; ciò, perché il Matrimonio è unione di due persone ed è vicendevole dominio che i coniugi si concedono ai fini del Matrimonio.
Quest. 52. Stato di schiavitù. – 1. Lo stato di schiavitù impedisce l’adempimento dei doveri coniugali, perciò lo stato di schiavitù ignorato dal consorte libero, e quindi di condizione superiore, rende invalido il Matrimonio. 2. Uno schiavo però può contrarre Matrimonio indipendentemente dalla volontà del suo padrone, perché fa uso di un diritto naturale, che non può essere sopraffatto da nessun diritto civile. 3. E poiché uno schiavo può prendere moglie anche contro la volontà del padrone, perciò altrettanto un uomo libero può darsi in servitù contro la volontà della moglie, perché con ciò non compromette i doveri coniugali, e si ha così la schiavitù susseguente il Matrimonio.
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4. La condizione servile riguarda il corpo; questo i figli lo hanno dalla madre, perciò i figli seguono in questo la condizione della madre; le dignità invece riguardano la personalità e questa fa capo il padre, perciò nelle dignità i figli seguono la sorte del padre.
Quest. 53. Ordine Sacro e Voto. – 1. Uno non può più disporre di una cosa quando ne ha trasferito in altri il dominio; ma la promessa di una cosa non trasferisce il dominio di quella cosa; il voto semplice è semplice promessa di osservare nel corpo continenza in onore di Dio, perciò dopo un voto semplice uno resta ancora padrone del suo corpo e se, contraendo Matrimonio ne cede al coniuge il dominio, la cessione è valida benché illecita, perciò il voto semplice, per sé, è impedimento impediente e non dirimente; 2. col voto solenne invece, annesso alla solenne professione religiosa, si trasferisce in Dio il dominio del proprio corpo mediante una specie di Matrimonio spirituale, perciò dopo il voto solenne non se ne ha più il dominio, non si può più cederlo ad altri col Matrimonio ed il voto solenne è impedimento dirimente. 3. Per chi ha gli Ordini Sacri e deve trattare le cose Sacre la castità non solo è decorosa, ma è doverosa e nella Chiesa Latina gli ordini maggiori, sia per se stessi sia anche per il voto di castità, che vi è annesso, sono un impedimento matrimoniale, che impedisce di contrarre Matrimonio a chi non l’ha contratto e proibisce l’uso del Matrimonio a chi l’avesse prima contratto; 4. dopo il Matrimonio si possono ricevere gli Ordini Sacri se la moglie è defunta o se, viva, acconsente allo stato di castità del marito; infatti se è lecito, dopo il Matrimonio, darsi in servitù di un uomo, è ancora più lecito darsi al servizio di Dio.
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Quest. 54. 1. «La consanguinità è il vincolo dei discendenti, da uno stesso stipite, contratto per naturale propagazione»: questa è completa definizione della consanguinità, perché nel suo genere di vincolo viene differenziata, quale specie, da chi ne è soggetto e da ciò che ne è causa. 2. La consanguinità, che è vicinanza naturale fondata sulla nascita, va distinta in gradi che si dicono di linea retta, se si tratta dei discendenti o ascendenti, e di linea traversale, se si tratta di collaterali; il computo legale dei gradi è diverso dal computo canonico, perché il legale conta le generazioni da tutte due le parti fino allo stipite comune; invece il canonico le conta da una parte sola. 3. Il bene della prole, che è il primo cui mira il Matrimonio, è ostacolato dalla consanguinità, perciò la consanguinità e un impedimento di diritto naturale; infatti l’ordine naturale e l’onestà domestica sarebbero sovvertiti se per esempio una figlia, che è naturalmente soggetta al padre come i fratelli, potesse diventare uguale al padre e padrona; e se l’affetto fraterno potesse scambiarsi coll’affetto coniugale. 4. Come fece già Mosè per gli Ebrei, così fa ora per i fedeli la Chiesa, ammaestrata dallo Spirito Santo; essa fissa i gradi di consanguinità che sono impedimento del Matrimonio, fermandosi precisamente a quei gradi che ordinariamente non rendono difficili le combinazioni di Matrimonio e che più che un vincolo di parentela non rappresentano oramai che un vincolo di amicizia.
Quest. 55. Affinità. – 1. Poiché marito e moglie nell’atto coniugale formano tutt’uno, perciò ciascun coniuge diventa attinente ai consanguinei dell’altro e questa attinenza, che sorge dal Matrimonio, si chiama affinità. 2. L’affinità è causata dalla consanguinità, e come la consanguinità è perpetua e non cessa colla morte di chi ne fu la radice, così l’affinità una volta contratta continua
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a sussistere anche dopo la morte del coniuge che ne fu il principio. 3. Quella commistione che si verifica nell’atto coniugale e che è causa dell’affinità si verifica anche nella fornicazione, perciò anche questa per sé produce affinità che i Canoni talora contemplano. 4. Dagli sponsali invece, che non sono Matrimonio, ma preparazione al matrimonio, non deriva affinità, ma soltanto ciò che si dice pubblica onestà. 5. Però l’affinità che un marito contrae coi consanguinei della moglie si ferma in lui e non si trasmette ai consanguinei di lui e altrettanto avviene per la moglie, perché è Canone giuridico che l’affinità non produce affinità. 6. L’affinità precedentemente contratta è un impedimento dirimente del Matrimonio; ma non ne spezza il vincolo se viene contratta dopo il Matrimonio. 7. L’affinità non ha gradi di per se stessa, ma poiché è causata dalla consanguinità riceve i suoi gradi dalla consanguinità; 8. e perciò anche si estende per tanti gradi quanti sono i gradi della consanguinità (se la Chiesa così dispone). 9. Un Matrimonio contratto fra i gradi proibiti di consanguinità o di affinità è invalido, e per sé va soggetto alla separazione; 10. a tale separazione è da procedersi quando ne viene presentata accusa al Giudice ecclesiastico: 11. e l’accusa si deve provare coi testimoni.
Quest. 56. Cognizione spirituale. – 1. Il cristiano è membro della Società e anche della Chiesa e come per la generazione corporale, che lo fa membro della Società, contrae un vincolo di cognazione naturale, che è un impedimento matrimoniale, così pure per la rigenerazione spirituale, che lo fa membro della Chiesa, contrae un
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vincolo di cognazione spirituale, che è di impedimento al Matrimonio. 2. La spirituale rigenerazione comincia col Battesimo e si fa perfetta colla Cresima, perciò la cognazione spirituale si può contrarre solo col Battesimo e colla Cresima; 3. nella rigenerazione spirituale chi la riceve diventa figliuolo di Dio e della Chiesa; perciò si contrae cognazione spirituale col Ministro, il quale fa le veci di Dio, e coi padrini, i quali fanno le veci della Chiesa. 4. La cognazione spirituale per sé viene comunicata da un coniuge all’altro; 5. ed altrettanto passa per sé dai genitori ai figliuoli carnali, perciò le vecchie regole canoniche ne facevano un impedimento matrimoniale.
Quest. 57. Cognazione legale. – 1. Adozione è assunzione di una persona estranea in figlio, in cui il diritto positivo supplisce alla mancanza di generazione naturale colla generazione legale e conseguente cognazione legale. 2. Le stesse leggi civili di solito fissano la cognazione legale quale impedimento matrimoniale e a esse si conformano le leggi della Chiesa. 3. La cognazione legale si approssima alla cognazione naturale più della cognazione spirituale; se persé quindi questa viene comunicata ad altri, più facilmente può estendersi ad altri la cognizione legale, per es. ai discendenti dell’adottato in linea retta e, in forma di affinità, alla moglie dell’adottato.
Quest. 58. Impedimenti vari. 1. L’incapacità all’atto coniugale, quale si richiede pel primo bene del Matrimonio, che è la prole, se è un difetto naturale inguaribile
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e perpetuo rende impossibile il Matrimonio ed è perciò nullo il Matrimonio contratto con tale impedimento; 2. ed è nullo il Matrimonio anche se tale incapacità inguaribile e perpetua è dipendente da maleficio e stregoneria, può essere quindi incapacità relativa non a tutte le persone, ma ad una sì, ad altra no. 3. Anche la pazzia antecedente il Matrimonio rende il Matrimonio invalido, purché non sia stato contratto in un lucido intervallo. 4. Le leggi Canoniche vecchie considerano come impedimento del Matrimonio anche quella affinità che deriva da illecite; commercio carnale coi congiunti di chi è già, o sta per essere il coniuge. 5. Spetta alla legge positiva la determinazione dell’età nella quale i contraenti sono dichiarati capaci di deliberazione sufficiente per il Matrimonio; perciò anche la mancanza di età è da considerarsi come impedimento dirimente il Matrimonio.
Quest. 59. – 1. La prole, che è il primo bene del Matrimonio, è per il culto di Dio; la disparità di culto fra un fedele e un infedele impedisce tale effetto, essa perciò è un impedimento del Matrimonio. 2. Il Matrimonio ha per naturale scopo non soltantola generazione della prole, che può aversi anche fuori del Matrimonio, ma bene ancora l’educazione della prole fino al suo sviluppo perfetto; questo sviluppo perfetto può essere o solo di natura o anche di grazia; benché questo, cioè di grazia, sia esclusivo dei fedeli cristiani, quello invece, cioè di natura, è comune ai fedeli e anche agli infedeli, perciò anche tra gli infedeli c’è il Matrimonio, però solo come ufficio di natura. 3. Quindi se di due coniugi infedeli uno si converte, il vincolo coniugale con ciò non si spezza; anzi il convertito non solo può rimanere unito al coniuge infedele, ma fa
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bene a rimanervi per la speranza di convertirlo; che se invece tale speranza non c’è, ma c’è invece il pericolo contrario, allora, come dice S. Paolo, non è tenuto a rimanergli unito; 4. infatti se per restare fedele al suo coniuge c’è pericolo che egli divenga infedele a Dio, non può essere tenuto a una simile obbligazione, tanto più che per la rigenerazione del Battesimo è morto alla vita precedente e conciò anche al precedente vincolo che lo legava al coniuge; 5. e, liberato così dal precedente vincolo, può unirsi in matrimonio con altri; 6. Fuori però di tale caso il Matrimonio quanto al vincolo non si scioglie più; si può invece sciogliere quanto alla convivenza nei casi di infedeltà spirituale o materiale, cioè di apostasia o di adulterio; per altri vizi invece non è da ammettersi nemmeno lo scioglimento della convivenza, potendo bastare un castigo temporaneo.
Quest. 60. Coniugicidio. – 1. Chi coglie il coniuge in peccato può ricorrere alla giustizia umana per farlo condannare alla pena anche se questa è pena di morte; ma non può farsi giustizia da sé uccidendo il coniuge infedele: ed anche se ci fossero delle leggi civili che lo consentono, per la Chiesa invece c’è sempre colpa davanti a Dio e alla Chiesa stessa. 2. Chi invece procura la morte del coniuge allo scopo di sposare un’altra persona non può sposarla e giustamente l’uxoricidio o coniugicidio è un impedimento del Matrimonio, altrimenti il delitto sarebbe lecitamente utile.
Quest. 61. Voti solenni. – 1. Chi si è unito in Matrimonio non può darsi a Dio senza il consenso del coniuge,
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perché non può liberamente disporre di ciò che non gli appartiene, perché dovuto al coniuge, 2. a meno che il Matrimonio non sia ancora perfetto, sia cioè contratto bensì ma non ancora consumato coll’atto matrimoniale, perché allora è ancora libero di farsi religioso, ed in tal caso il Matrimonio si scioglie come per morte; 3. e che per es. una donna, il cui marito, dopo il Matrimonio contratto, ma non consumato, si è fatto religioso, possa sposare un altro è evidente, perché non si può obbligare lei alla continenza per il marito che si è fatto religioso.
Quest. 62. Infedeltà del Matrimonio. – 1. Nelle convenzioni uno non resta obbligato a tener fede all’impegno se la comparte vi manca; perciò un marito può allontanare da sé la moglie infedele, eccettoché l’infedeltà non le sia importabile a colpa o che vi abbia colpa lo stesso marito. 2. Tale allontanamento della moglie infedele è consentito dal Vangelo a scopo di correzione, perciò non è più necessario se la correzione già si è verificata, è invece doveroso se la moglie è incorreggibile, altrimenti il marito sembra connivente. 3. Nel caso di infedeltà della moglie il marito può procedere di propria autorità per la separazione di letto, ma per la separazione di letto e di tetto deve invocare il giudizio della Chiesa in causa propria. 4. Marito e moglie in tali casi vanno giudicati alla pari, perché l’adulterio è proibito tanto all’uno quanto all’altro coniuge, però se in quanto riguarda la mancanza alla fedeltà coniugale il delitto è uguale, in quanto invece riguarda il primo bene del Matrimonio, che è la prole, il delitto della moglie è maggiore. 5. Nessun fatto però sopravveniente al Matrimonio, neppure l’adulterio, può sciogliere il vincolo matrimo-
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niale e perciò finché il coniuge infedele è vivo l’altro non può passare ad altre nozze. 6. Il marito come può fare a meno di allontanare da sé la moglie infedele sì, ma pentita, così può poi in qualunque tempo richiamarla; non deve però richiamarla se è pertinace nel suo peccato.
Quest. 63. Le seconde nozze. – 1. Il vincolo matrimoniale dura fino alla morte; colla morte di uno dei coniugi cessa, e perciò il coniuge superstite può sempre contrarre nuove nozze; 2. ed anche le nuove nozze sono Sacramento, perché anche in esse c’è la materia e la forma del Sacramento, cioè le persone dei contraenti e il consenso.
Quest. 64. Annessi al Matrimonio. – 1. Il Matrimonio ha anche lo scopo di essere di rimedio alla concupiscenza ed insieme esso è radicalmente ufficio di natura, di quella natura, secondo il cui ordine di quanto appartiene alla potenza nutritiva non si dà alla conservazione della specie se non di ciò che sopravvanza alla conservazione dell’individuo; perciò i coniugi sono sempre tenuti vicendevolmente al debito coniugale con ordine alla prole e salva prima l’incolumità della persona; 2. Il rimedio viene dato dal medico anche se il malato non lo chiede; altrettanto perciò il marito deve prestarsi al debito coniugale anche se la domanda della moglie è solo interpretativa. 3. L’incolumità della prole correrebbe pericolo nei giorni delle purge mensili, perciò allora l’atto matrimoniale rimane proibito come era nella Legge di Mosè.
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4. La moglie però, dovendo obbedire al marito, anche in tale circostanza può, dietro richiesta, prestarsi senza peccato al debito coniugale. 5. Marito e moglie si dicono coniugi, perciò nel Matrimonio sono eguali, nel senso però che ciascuno è egualmente tenuto ai doveri ed oneri del Matrimonio, ma l’uomo da uomo e la donna da donna. 6. I coniugi si hanno vicendevolmente ceduto il dominio di se stessi, perciò nessun dei due può più disporre di sé, nemmeno per consacrarsi a Dio, senza il consenso dell’altro. 7. Nei giorni che sono consacrati a Dio e all’anima chiedere il debito coniugale non può essere senza peccato; 8. questo peccato però non è peccato mortale, perché la circostanza di tempo è circostanza aggravante e non circostanza mutante specie del peccato. 9. Che se non è senza peccato chiedere il debito coniugale in giorno sacro, è però senza alcun peccato renderlo, perché così parla S. Paolo. 10. Siccome però la celebrazione delle nozze porta molta dissipazione di spirito, essa doveva essere proibita nei tempi in cui i fedeli sono invitati ad elevare lo spirito.
Quest. 65. Poligamia. – 1. Legge naturale è quel concetto naturale che guida l’uomo a operare convenientemente in ordine al fine che compete a lui e come animale e come ragionevole; ciò che fa contro tale fine si dice contrario alla legge naturale; il fine può essere primario o secondario e ciò che è contrario al fine può o totalmente impedirlo o soltanto renderlo difficile; ciò quindi che impedisce il fine primario è proibito dai primi precetti di natura; quello invece che impedisce il fine secondario o rende difficile il fine primario è proibito dai secondi precetti di natura. Nel Matrimonio per tutti il fine primario è la prole e il secondario è la fedeltà coniugale; per i
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cristiani poi c’è un terzo fine in quanto è Sacramento: la pluralità delle mogli è per tutti contraria al fine secondario del Matrimonio, benché non sia contraria al fine primario, essendoché non impedisce la procreazione e l’educazione dei figli: per i fedeli poi essa è contraria al terzo fine, perché se il Matrimonio è simbolo dell’unione di Cristo alla Chiesa, c’è un solo Cristo e una sola Chiesa. 2. Essendo la prole il fine primario del Matrimonio per questo fine poteva essere sacrificato il fine secondario del Matrimonio quando era necessaria la moltiplicazione della prole, come al tempo dei Patriarchi; però la legge dell’unica moglie è di diritto divino e perciò occorreva che la dispensa da tale legge venisse da Dio. 3. L’unione invece con una donna colla quale non si è uniti in Matrimonio, ma che è solo concubina, servendo non al fine primario del Matrimonio ma alla passione cattiva, è contro la legge naturale; 4. tale peccato poi non solo perché è un disordine grave, ma anche per l’autorità della Scrittura è peccatomortale; 5. il disordine di tale peccato consiste nell’essere contrario ai primi precetti di natura, che non ammettono mai dispensa; perciò le concubine dei Patriarchi, di cui parla la Scrittura non erano vere concubine, ma piuttosto mogli di secondo grado.
Quest. 66. Bigamia. – 1. Il Matrimonio comeSacramento è simbolo dell’unione di Cristo colla Chiesa e poiché c’è un solo Cristo e una sola Chiesa, per essere perfetto deve essere Matrimonio di uno solo con una sola; la bigamia invece è contraria a questo, perciòessa è una imperfezione ed importa irregolarità all’Ordine Sacro. 2. La bigamia sia di diritto che di fatto, sia successiva sia contemporanea, ovvero sia anche similitudinaria, è
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sempre imperfezione, perciò anche chi ha due mogli una di diritto e una di fatto incorre nell’irregolarità. 3. Anzi l’imperfezione ci sarebbe anche se uno contrae Matrimonio con una che ha già perduta la verginità, perciò anche in tal caso si incorre nella irregolarità. 4. L’irregolarità poi non si evita neppure ricevendo il Battesimo, perché il Battesimo toglie le colpe, ma non il vincolo coniugale da cui deriva l’irregolarità. 5. L’irregolarità però non è di diritto naturale, ma di diritto positivo e perciò la Chiesa può dispensare.
Quest. 67. Il libello del ripudio. – 1. Il Matrimonio mira, come a fine inteso dalla natura, all’educazione della prole non per poco tempo, ma per tutta la vita, tanto che i figli sono naturali eredi dei genitori: la prole appartiene egualmente al padre e alla madre, la prole quindi richiede che padre e madre siano sempre uniti, perciò l’indissolubilità del Matrimonio è di diritto naturale. 2. Come il corso naturale delle cose può mutare o per l’incontro di un’altra causa naturale o per l’intervento di una causa soprannaturale, così i precetti della legge naturale possono essere sospesi o per la prevalenza di precetti di maggior grado o per la dispensa data da Dio, come può essersi verificato nel precetto dell’inseparabilità del Matrimonio, che sembra non appartenere al fine primario della natura. 3. Al tempo della legge di Mosè il mandar via la moglie non sembra sia stato reso lecito, ma piuttosto legalmente tollerato per evitare maggiori mali; 4. e conseguentemente non sembra sia stato lecito a una donna ripudiata sposare un altro uomo, ma piuttosto legalmente tollerato, cioè non punito secondo la legge; 5. non poteva però il marito ripigliare la moglie ripudiata, e ciò era prescritto affinché ponderasse bene il fatto.
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6. Il «libello di ripudio» era permesso per evitare l’uxoricidio cagionato dall’odio, perciò la causa del ripudio era l’odio, ma questo stesso odio doveva avere le sue cause, che furono poi tanto disputate; 7. queste cause però nel libello del ripudio non venivano specificate, ma soltanto accennate in genere, per evitare le discussioni in merito.
Quest. 68. Prole illegittima. – 1. Illegittimo è ciò che è contro l’ordine della legge; i figli che nascono fuori del vero Matrimonio nascono contro l’ordine della legge di natura; essi quindi sono figli illegittimi. 2. Si subisce danno sia quando si è privati di ciò che era dovuto, sia quando non si consegue ciò che si poteva conseguire: i figli illegittimi non subiscono danno nella prima maniera, ma lo subiscono nella seconda maniera, perché sarebbe stato diversamente di loro se fossero nati legittimi; ed appartiene alla Chiesa fare opera perché a loro sia provvisto. 3. I danni che incontrano i figli illegittimi sono fissati non per legge naturale, ma per legge positiva, perciò dalla legge positiva tali danni possono anche essere tolti mediante la legittimazione.
Quest. 69. Luogo delle anime dopo la morte. – 1. Gli spiriti non dipendono nel loro essere dai corpi, ciononostante Dio ha disposto che le cose corporali siano governate da sostanze spirituali e da ciò ne derivò loro un legame ed anche una certa gradazione, perché le cose più nobili furono assegnate a spiriti più degni; in questa maniera si dice che anche gli spiriti hanno il loro luogo: il luogo più eccelso, che chiamiamo Cielo, lo assegniamo a Dio e diciamo che anche i Santi sono in Cielo, perché
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hanno conseguita la perfetta partecipazione della divinità: alle anime belle convengono luoghi luminosi, luoghi tenebrosi alle animenere. 2. Come i corpi vanno o in alto o in basso secondo la loro tendenza se non sono trattenuti, così le anime, sciolte dal legame del corpo, vanno direttamente o alla pena o ai premio meritato se qualche reato di pena temporale non le trattiene in Purgatorio. 3. Non possono le anime lasciare il Paradiso o l’Inferno nel senso di mutare lo stato di premio o di pena, e neppure nel senso di lasciare il loro stato di segregazione dalla conversazione coi viventi, perché costoro, legati come sono ai sensi, non possono direttamente trattare cogli spiriti; possono però gli spiriti per disposizione della Provvidenza farsi sentire e farsi vedere ai vivi o per ammonirli o per pregarli; questo però, essendo alcunché di miracoloso, è possibile alle anime dei giusti quando lo vogliono; alle anime dei dannati invece è possibile solo quando Dio lo permette. 4. La pace dopo la morte non si ha che per la fede in Cristo; il primo ad averla fu Abramo, perciò l’espressione: «nel seno di Abramo », significa stato di pace dopo morte; ma poiché prima dell’Ascensione di Gesù al Cielo quello era uno stato di privazione della gloria, si chiamava anche margine o limbo dell’Inferno: ora però non si equivalgono più seno di Abramo e Limbo. 5. Limbo non è lo stesso che Inferno, perché dal Limbo sono usciti i Patriarchi e dall’Inferno non uscì mai nessuno: perciò, benché quanto a luogo possano essere lo stesso, in quanto il Limbo è il margine dell’Inferno, tuttavia non sono lo stesso quanto alla quantità della pena che vi si soffre: 6. per la stessa ragione il Limbo dei Padri è diverso dal Limbo dei fanciulli, benché il luogo possa essere eguale, perché i Patriarchi vi stavano colla speranza della gloria, che non hanno invece i bambini morti senza Battesimo.
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7. I ricettacoli delle anime non sono altro che gli stati delle anime, questi sono cinque e perciò si distinguono cinque ricettacoli dopo la morte: Paradiso, Purgatorio, Inferno, Limbo dei Patriarchi e Limbo dei fanciulli.
Quest. 70. Sensibilità dell’anima separata. – 1. Le potenze sensitive sono proprie del corpo congiunto all’anima, perciò morto il corpo esse restano nell’anima soltanto in radice, cioè come nel principio loro proprio perché nell’anima resta l’efficacia di attuare di nuovo queste potenze se di nuovo al corpo essa si unisce. 2. A maggior ragione gli atti e le operazioni delle Potenze sensitive non restano nell’anima separata dal corpo se non in radice e radice remota. 3. Come sono tormentati dal fuoco materiale dell’Inferno i demoni, che sono spiriti puri, così tanto più possono essere tormentate dal fuoco le anime, che sono forma sostanziale dei corpi; e non basta dire che i demoni sono tormentati dal fuoco in quanto lo vedono e in quanto lo temono, perché non lo temerebbero nemmeno, se sapessero che a loro, che sono spiriti, esso non può nuocere: esso è strumento della giustizia vendicatrice di Dio e lo strumento trasmette sempre il potere dell’agente principale; può anche essere deputato come luogo degli spiriti e coartarne così la libertà; in tal modo ha anche un potere naturale di punizione.
Quest. 71. Suffragi dei morti. – 1. Le opere che facciamo valgono o come merito, che si basa sulla giustizia di Dio, o come orazione, che si basa sulla divina misericordia: quaggiù le buone opere di uno non possono valere come merito e acquistare la grazia e la gloria per un altro; possono però valergli come orazione; per chi poi ha
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assicurata la sua salute eterna le altrui opere possono valere non solo come orazione ma anche come merito per effetto della carità, che si attua nella Comunione dei Santi, 2. e poiché la carità abbraccia non solo i vivi ma anche i morti, che colla carità uscirono da questa vita, perciò le opere buone dei vivi valgono da se stesse anche per i morti; e tanto più valgono se sono indirizzate a loro suffragio. 3. Nei suffragi prestati dai peccatori bisogna distinguere il merito dell’opera e il merito della persona; e nella persona bisogna distinguere il rappresentante dal rappresentato; ai defunti giova sempre il merito dell’opera, p. es. la S. Messa; giova anche il merito della persona rappresentata, p. es. la Chiesa nei suoi ministri; non giova invece il merito del rappresentante, perché, se questi è un peccatore, non ne ha. 4. Il suffragio giova anche a chi lo fa, perché, come opera buona fatta in stato di grazia, è sempre meritevole di vita eterna; però come opera espiatoria giova solo all’anima alla quale si presta il suffragio. 5. Nonostante l’errore di Origene, che anche inseguito fu da altri, benché mitigato e modificato, riprodotto, è più sicuro dire che i suffragi non giovano alle anime dei dannati; tanto è vero che nella Chiesa per loro non si prega, perché allora tanto varrebbe pregare anche per i demoni. 6. I suffragi valgono invece per le anime del Purgatorio, perché esse sono in istato di salvezza, abbisognano di essi e ci sono unite nella Comunione dei Santi; 7. non valgono per lo contrario per i fanciulli che sono nel Limbo, perché essi non sono in istato di salvezza; 8. e non valgono nemmeno per i Santi del Paradiso, perché essi non ne hanno bisogno. 9. I suffragi dei vivi giovano ai defunti in quanto ci sono uniti nella carità e in quanto l’intenzione si rivolge a loro; perciò giovano le opere della carità e prima di
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tutte l’Eucarestia, che è il vincolo della cristiana carità, poi l’elemosina che è frutto della carità; giovano infine le preghiere in quanto rappresentano l’intenzione dei vivi rivolta ai defunti. 10. Le indulgenze direttamente si applicano a chi fa le opere ingiunte; ma queste i defunti non possono compierle, perciò ai defunti le indulgenze non si applicano direttamente; possono però essere a loro applicate indirettamente, se lo concede chi dispensa le indulgenze; non è però in potere del superiore ecclesiastico liberare dal Purgatorio le anime, perché sono fuori della suagiurisdizione. 11. Le pompe funebri, che sono un ufficio di umanità e un conforto per i superstiti, non giovano per sé né ai morti né ai vivi; accidentalmente però giovano anche spiritualmente ai vivi e ai morti; ai vivi in quanto fanno pensare alla morte e sono una professione di fede nella risurrezione; ai morti in quanto richiamano la loro memoria e sono spesso un mezzo od una forma di fareelemosina. 12. I suffragi in quanto provengono dalla carità giovano a tutte le anime del Purgatorio, che tutte ci sono unite nella carità; ma in quanto provengono dall’intenzione di chi li fa giovano soltanto all’anima a cui sono indirizzati, come qua in terra il denaro che si paga per il debito di una persona viene conteggiato in favore di quella persona e non delle altre. 13. Benché nella letizia della carità tutti in Purgatorio godano dei suffragi che si fanno per tutti come se si facessero per uno solo; tuttavia, avendo il suffragio una efficacia limitata, i suffragi che si fanno per tutte le anime del Purgatorio non giovano a ciascuna di loro tanto quanto se fossero fatti per una solo; 14. e poiché i suffragi, secondo l’intenzione di chi li fa, giovano a quelle anime cui sono indirizzati e non alle altre, perciò alle anime del Purgatorio giovano più
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i suffragi speciali uniti ai suffragi comuni, che non i soli suffragi comuni.
Quest. 72. Invocazione dei Santi. – 1. Nell’essenza di Dio si può conoscere tutto; tuttavia i Santi, benché vedano l’essenza divina, non possono in essa conoscere tutto, perché vedono bensì Dio, ma non lo comprendono; però siccome la loro beatitudine importa che conoscano tutto ciò che a tale beatitudine si riferisce, così in Dio i Santi conoscono la devozione, i voti e le preghiere che noi loro indirizziamo. 2. Il retto ordine importa che noi, che siamo lontani da Dio e a Lui pellegriniamo, siamo a Lui avvicinati da chi gli è più vicino e a Lui siamo condotti da chi è già nella Patria celeste: dobbiamo quindi rivolgerci all’intercessione dei Santi: che se ci raccomandiamo alle preghiere delle persone sante che sono ancora quaggiù, tanto più dobbiamo farlo colle persone sante che sono lassù. 3. Le Preghiere dei Santi in nostro favore sono sempre esaudite, perché essi non vogliono se non ciò che vuole il Signore e la volontà di Dio sempre si compie: può esserci però da parte nostra qualche difetto che impedisce il frutto delle loro orazioni.
Quest. 73. Segni precursori del Giudizio. – 1. La venuta del Signore per il Giudizio deve essere preceduta da particolari segni, spettanti alla dignità della sua potestà giudiziaria per indurre gli uomini al rispetto e alla soggezione; quali però essi siano non si può facilmente saperlo. 2. All’avvicinarsi del Giudizio può darsi che il sole, la luna e le stelle per divina virtù siano private della loro luce e così si oscurino per atterrire gli uomini diallora.
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3. La Scrittura dice che le virtù dei cieli o colonne del Cielo si scuoteranno; ciò si può intendere sia di tutti gli spiriti celesti, che resteranno meravigliati della novità che succederà; sia di quel Coro degli Angeli, che si chiamano Virtù e che presiedono al giro degli astri, ai quali allora sottrarranno la loro assistenza.
Quest. 74. Il fuoco della conflagrazione finale. – 1. L’Apocalisse annunzia che ci saranno cieli nuovi e terra nuova; questo rinnovamento importa una purgazione ed invero dovendo servire alla gloria dei beati è necessario che vi siano eliminati quegli elementi di imperfezione e di peccato che ora vi sono. 2. Tale purgazione S. Pietro annunzia che avverrà per mezzo del fuoco; e a ciò il fuoco bene si presta, perché esso ha naturale capacità di sprigionare luce e non ammette in sé elementi contrari, ma tutto a sé riduce; 3. tale fuoco poi per la purgazione del mondo niente impedisce che sia fuoco come il nostro, perché come al tempo del diluvio il mondo fu purgato con acqua comune, così convien dire che nella purgazione finale il mondo sarà purgato con fuoco comune. 4. Nei cieli superiori non c’è nessuna disposizione contraria alla gloria, essi quindi non hanno bisogno della purgazione e non saranno dal fuoco toccati. 5. Gli elementi di cui risulta il mondo resteranno nella loro sostanza e perciò conserveranno anche le qualità loro proprie; ma dalle disposizioni tendenti alla corruzione saranno purgati, perché a ciò tende la purgazione del mondo. 6. Saranno poi purgati tutti e soli gli elementi che subirono l’infezione del peccato e cioè tutti e soli quelli che si trovano entro l’atmosfera che circonda la terra. 7. Il fuoco della finale conflagrazione precederà il Giudizio, perché al Giudizio i Santi si presenteranno col cor-
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po glorioso, per il quale il mondo deve essere già preparato e discosto colla purgazione: ma quanto all’azione di ravvolgere i cattivi esso continuerà anche dopo il Giudizio. 8. Il fuoco della conflagrazione finale agirà e di naturale virtù e come strumento della giustizia di Dio; di naturale virtù agirà tanto sui buoni che sui cattivi, che allora vi saranno, ma come strumento della divina giustizia tormenterà i cattivi, via non nuocerà ai buoni, come avvenne dei tre fanciulli nella fornace; 9. quel fuoco poi, mentre involgendo i reprobi li travolgerà all’Inferno, trasporterà i giusti nelle alte regioni della gloria insieme cogli elementi nobili.
Quest. 75. La Risurrezione finale. – 1. Fine ultimo dell’uomo e sua perfezione finale è la beatitudine; l’uomo non vi arriva in questa vita, e neanche vi arriverebbe nell’altra vita se non risorgesse il corpo, perché né il corpo proviene dal principio del male, per doverlo eliminare, né l’uomo consiste soltanto nell’anima; perciò la risurrezione dei corpi bisogna ammetterla; 2. e poiché gli uomini sono tutti della stessa naturale ragioni che valgono per uno valgono per tutti, bisogna quindi ammettere la risurrezione generale di tutti. 3. Ciononostante la Risurrezione sarà un a cosa miracolosa e non una cosa naturale, perché nessun principio attivo della risurrezione c’è nella natura e nessuna disposizione; infatti una prima privazione ha piuttosto ordine naturale di progresso a altre privazioni, anziché di regresso; tuttavia la risurrezione si può dire naturale nel senso che l’uomo vi ha una naturale inclinazione e tendenza.
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Quest. 76. Causa operante la Risurrezione. – 1. Cristo, mediatore fra Dio e gli uomini, ci ha liberati dalla morte, a Lui si deve quindi la nostra risurrezione; anzitutto Egli ne è causa come Dio, poi ne è causa quasi univoca come Dio-uomo; la sua Risurrezione poi è causa, non solo esemplare, ma anche strumentale, della risurrezione nostra. 2. Il suono di tromba chiama all’Assemblea, desta alla battaglia e invita alla festa, e la voce, il comando di Cristo sarà la tromba che suonerà alla nostra Risurrezione. 3. Come ora nel Governo del Mondo Iddio si serve del ministero degli Angeli, così nella Risurrezione universale Iddio si varrà del ministero degli Angeli, per la raccolta degli elementi materiali; invece la riunione dell’anima al corpo sarà opera immediata di Dio, come ora è opera immediata di Dio la creazione dell’anima e la sua immissione nel corpo.
Quest. 77. Tempo e modo della Risurrezione. – 1. Giobbe dice che la Risurrezione non avverrà prima della conflagrazione finale e ciò conviene perché dovendosi risorgere in stato incorruttibile la Risurrezione deve essere differita alla fine del mondo. Cristo doveva risorgere prima, perché esso è primizia dei risorgenti e può risorgere prima chi ne ha speciale privilegio. 2. Come a ciascuno è tenuto occulto il tempo della sua morte, così è tenuta occulta al mondo la sua fine ed il tempo della Risurrezione universale; il Signore ha detto che non lo sanno nemmeno gli Angeli; tantomeno quindi possono conoscerlo gli uomini ed effettivamente tutte le previsioni fatte finora sbagliarono tutte. 3. Neppure l’ora della Risurrezione si può sapere con certezza, tuttavia non è improbabile che essa avvenga sul fare del mattino, perché in tale ora si compì la Risurre-
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zione di Cristo, la quale è l’esemplare della Risurrezione nostra. 4. La Risurrezione, essendo opera dell’infinita potenza di Dio, si compirà in un istante.
Quest. 78. Da che cosa si risorgerà. – 1. Tutti risorgeranno da morte, infatti: se da Cristo abbiamo tutti la Risurrezione, da Adamo abbiamo ereditato tutti la morte; perciò tutti dovranno morire per poi risorgere; per di più se la Risurrezione è universale e non c’è Risurrezione se non si cade prima colla morte, anche la morte sarà universale; infine è impossibile che nella conflagrazione finale alcuno resti vivo. 2. Per tale conflagrazione, che si compirà col fuoco, tutto si ridurrà in cenere e tutti perciò risorgeremo dalla cenere, avverandosi così il detto di Dio in pulverem reverteris. 3. Le ceneri poi colle quali si ricostituirà il corpo di ciascuno, non hanno nessuna inclinazione naturale verso l’anima che al corpo si riunirà, perché non è disposizione naturale, ma è disposizione divina che dalle ceneri risorga il corpo umano.
Quest. 79. Identità di chi risorge. – 1. Risurrezione non si può dire quando l’anima non riabbia il medesimo corpo di prima, perché risorgere vuol dire levarsi in piedi di nuovo ed è di colui che cade il levarsi di nuovo in piedi; altrimenti non si direbbe Risurrezione, ma assunzione di un nuovo corpo; gli errori in proposito derivano sopratutto dal non considerare l’anima come forma sostanziale e come principio dell’essere e della vita del corpo. 2. Chi risorge è numericamente il medesimo uomo di prima; infatti la Risurrezione si deve ammettere, perché
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altrimenti l’uomo non ottiene la sua perfezione finale né consegue il suo ultimo fine; qualora invece non sia lo stesso e identico uomo di prima chi risorge, ma un altro, la Risurrezione è inutile all’ultimo fine, alla perfezione, cioè, finale: in questo poi Giobbe nella Scrittura ci è maestro infallibile. 3. Se le cose artificiali, nelle quali la materialità prevale più che nelle naturali, si dicono rifatte e tornate quelle di prima, ancorché le parti materiali non ritornino allo stesso sito, tanto più facilmente saranno quelli di prima i corpi dei risorgenti ancorché i resti e le ceneri del corpo non ricostituiscano la parte cui appartenevano prima: questo però quanto alla necessità della cosa, perché quanto alla convenienza certo conviene che le parti, almeno le essenziali, ritornino al posto di prima.
Quest. 80. Integrità dei risorgenti. – 1. La Risurrezione avviene non per opera della natura, che può essere difettosa, ma per opera divina, che è perfetta; perciò il corpo di chi risorge corrisponderà perfettamente all’anima, che ne è la forma e il fine, e avrà tutte le sue membra interamente; 2. risorgeranno anche i capelli e le unghie, perché anch’essi appartengono alla perfezione umana, almeno di secondo ordine; sono infatti a protezione delle membra, che appartengono alla perfezione umana di primo ordine; 3. e poiché tutto ciò che appartiene all’integrità dell’umana natura tornerà in chi risorge, col corpo risorgeranno anche i suoi umori, quelli si intende che appartengono alla costituzione del corpo. 4. Ciò che veramente appartiene alla costituzione dell’umana natura è tutto ciò che è informato dell’anima ragionevole, ed è precisamente per l’anima ragionevole che
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il corpo è ordinato alla risurrezione, perciò risorgerà del corpo tutto quello che è informato dall’anima ragionevole; 5. Però non risorgerà tutto ciò che fu materialmente parte delle membra umane, perché deve risorgere tutto ciò che appartiene veramente alla costituzione dell’umana natura ed è relativo alla specie umana, considerata nella sua quantità, figura, sito e ordine delle parti; invece la totalità della materia, che ci fu in un uomo dal principio alla fine della vita, eccede la quantità dovuta alla specie.
Quest. 81. Qualità dei risorgenti. – 1. Dio farà risorgere la natura umana senza difetti come senza difetti Dio la creò; perciò tutti risorgeranno nell’età della perfezione, che è quella di Cristo, la cui Risurrezione è l’esemplare della nostra; di tale età risorgerà tanto chi morì vecchio, quanto chi morì bambino. 2. La quantità naturale in ciascuno di noi è relativa non solo alla natura di uomo, ma anche alla natura di individuo e poiché nella risurrezione non sarà variatala natura di ciascun individuo, perciò non risorgeranno tutti della medesima statura, perché qui non eguale la quantità naturale di ciascuno; tutti però risorgeranno colla statura che a ciascuno spettava, escluso ogni difetto, nell’età della perfezione; 3. inoltre, appunto perché non sarà variata la natura di ciascun individuo, ognuno risorgerà nel suo sesso, il che però non sarà motivo di rossore, perché nell’altra vita la concupiscenza è totalmente morta; 4. infine, essendo ordinata la Risurrezione alla perfezione dell’umana natura, tutto ciò che è relativo non a perfezioni, ma a difetti della natura umana, quali sono le azioni della vita animale, non risorgerà e perciònon ci sarà nell’altra vita né il mangiare, né il bere, né il generare ecc.
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Quest. 82. Impassibilità dei Beati. – 1. Dopo la Risurrezione nei Beati il corpo è totalmente sottratto alle influenze esterne nocive e resta totalmente dominato dall’anima spirituale, perciò il corpo non è soggetto a mutazioni contrarie alla disposizione sua naturale e cioèè impassibile. 2. L’impassibilità negativa, o esclusione dai dolori, sarà eguale in tutti i Beati, ma l’impassibilità positiva, cioè il dominio dell’anima sul corpo varierà, perché esso deriva dalla visione beatifica e a essa quindi si proporziona. 3. L’impassibilità però non esclude dai corpi gloriosi la sensibilità fisica, altrimenti la vita dei Beati in Paradiso sarebbe allora quasi un sonno, che si dice mezza vita, il che contrasta colla perfezione che a tale vita compete: sarà però diverso dal presente il modo di sentire, perché allora i sensi riceveranno ogni impressione secondo il loro essere spirituale, cioè con mutazione spirituale anziché materiale; la mutazione spirituale è paragonabile all’occhio, che vede il rosso ma non diventa rosso; la mutazione materiale è invece paragonabile alla mano che sente caldo e anche divien calda. 4. Nei Beati dopo la Risurrezione, saranno in azione tutti i sensi e non già alcuni soltanto, perché così esige la perfezione dovuta a tale stato la quale va riposta nelle potenze sensitive e nel loro atto insieme, più che nelle potenze sensitive solamente.
Quest. 83. Sottigliezza dei corpi dei Beati. – 1. Sottile si dice ciò che penetra; la sottigliezza si attribuisce ai corpi nei quali predomina non la materia, ma la forma; nei corpi dei Beati dopo la Risurrezione la forma prevarrà totalmente sulla materia, per il completo dominio dell’anima, a loro quindi spetta la sottigliezza, chela Scrittura indica chiamandoli corpi spirituali.
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2. Se gli stessi Angeli non si possono distinguere numericamente tra loro se non perché sono in luoghi diversi, tanto meno si potranno distinguere fra loro due o più Beati dopo la Risurrezione se non perché si troveranno in luoghi distinti, e perciò non potrà darsi che un corpo glorioso si trovi in uno stesso luogo con unc orpo non glorioso per la sola ragione della sua sottigliezza; potrà però darsi per divina potenza che si trovi in uno stesso luogo insieme con un altro corpo e ciò a perfezione di gloria; 3. non è infatti impossibile che per miracolo due corpi si trovino in uno stesso luogo, perché tutte le cose dipendono e dalle loro cause prossime e soprattutto da Dio, causa prima di tutte, e Dio, causa prima, può conservare in essere le cose anche cessando l’azione delle cause seconde; e come può conservare l’accidente, anche scomparso il suo soggetto, così può fare che un corpo resti distinto dall’altro, benché quanto al sito la materia dell’uno non sia distinta dalla materia dell’altro; 4. per divina potenza potrebbe pure darsi che un corpo glorioso si trovi nello stesso luogo con un altro corpo glorioso, ma questo non avverrà mai, perché il debito ordine, che in Paradiso regna, vuole che ciascuno abbia il suo luogo distinto e che uno non impedisca l’altro; 5. anzi la sottigliezza non rimuoverà nemmeno la necessità che ciascun corpo glorioso occupi quello spazio che gli è proporzionato, perché la sottigliezza non diminuisce le dimensioni del corpo glorioso, non essendo essa né rarefazione, né condensazione, ma solo penetrabilità; 6. la sottigliezza infine non renderà il corpo glorioso impalpabile, perché, come fu di Cristo risorto, così sarà dei corpi gloriosi, saranno cioè tangibili ma non pertransibili; essi però, non per la sottigliezza, ma per virtù soprannaturale, possono quando vogliono rendersi impalpabili.
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Quest. 84. Agilità dei corpi gloriosi. – 1. Per il totale dominio che esercita sul corpo glorioso l’anima, la quale ne è non soltanto la forma sostanziale, ma anche il motore, il corpo è pronto e spedito ad obbedire all’anima in tutti i suoi moti e in ciò sta la dote dell’agilità; 2. di questa dote i Beati faranno uso certamente almeno quando saliranno al cielo, come fece Cristo, e potranno poi farne uso a loro volontà per visitare le opere di Dio, né cesserà allora la visione beatifica di Dio per loro, perché lo avranno sempre presente; 3. il loro moto esigerà un, benché impercettibile, tempo, perché il loro corpo non diventa mai spirito cessando di essere corpo e devono sempre attraversare lo spazio; il loro moto quindi non sarà assolutamente istantaneo, perché se ciò fosse si troverebbero in due o più luoghi insieme, il che è contradditorio.
Quest. 85. Chiarezza dei corpi gloriosi. – 1. La scrittura ci dice che i corpi gloriosi avranno anche splendore e in ciò consiste la dote della chiarezza, dovuta dalla ridondanza della gloria dell’anima sul corpo, e perciò maggiore o minore secondo del Beato; 2. e poiché la luce naturalmente colpisce l’occhio e l’occhio naturalmente riceve l’impressione della luce, perciò per la stessa chiarezza, senza che occorra un miracolo di Dio, lo splendore del corpo glorioso sarà naturalmente visto anche da occhio non glorioso; 3. però per il totale dominio dell’anima sul corpo dipenderà dalla volontà del Beato essere visto o non visto, mostrarsi o non mostrarsi a chi non è Beato.
Quest. 86. I corpi dei dannati. – 1. I dannati risorgeranno deformi, ma non mutilati o difettosi per quei di-
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fetti che dipendono da debolezza di principii di natura, perché la risurrezione sarà anche per loro ricostituzione della natura umana in forma perfetta: 2. e poiché il tempo presente, che consuma ogni cosa, sarà allora passato, perciò anche i corpi dei dannati saranno incorruttibili e sottostaranno eternamente alla giustizia di Dio, 3. ciò perché l’incorruttibilità non importa impassibilità; infatti se cesserà la cosidetta passione di natura, non cesserà la passione di anima, colla quale patiranno i sensi.
Quest. 87. Cognizione dei propri meriti al Giudizio. – 1. Al Giudizio la coscienza di ciascuno gli renderà testimonianza, perché per divina virtù sarà richiamato alla memoria di ciascuno ogni suo fatto e in ciò consiste il libro della vita; 2. e poiché allora è necessario che anche la giustizia di Dio apparisca evidentemente a ciascuno, così a ciascuno saranno noti anche i meriti e i demeriti degli altri e ciascuno ne conoscerà il premio o la pena; 3. e benché ciò non possa avvenire in un istante, perché p. es. i dannati non hanno l’intelletto così elevato da vedere tutto nel Verbo, come hanno i Beati, tuttavia ciò per l’onnipotenza di Dio avverrà in brevissimo tempo.
Quest. 88. Tempo e luogo del Giudizio. – 1. Dopo la Risurrezione deve esserci certamente un Giudizio Universale, in cui apparisca in tutto la Giustizia di Dio: il Giudizio particolare corrisponde all’opera di Dio nel Governo del mondo: il Giudizio universale occorre alla completa e finale sistemazione del mondo e quale compimento dell’opera iniziata da Dio nella Creazione del mondo.
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2. È però da ritenere che la locuzione del Giudizio universale sarà una locuzione mentale anziché orale, perché questa esigerebbe troppo tempo. 3. La fine del mondo non è dovuta a cause create, così come a cause create non è dovuto il principio del mondo; perciò come la cognizione del principio del mondo fu riservata a Dio, che lo creò quando volle, così sarà della fine del mondo e per noi il tempo del Giudizio finale è ignoto. 4. Quanto al come si farà e si radunerà il Giudizio poco si può sapere; si può ritenere che si farà nella valle di Giosafat, che vuol dire valle del Giudizio di Dio.
Quest. 89. Giudici e Giudicati. – 1. Giudicare significa accusare, approvare la sentenza, sedere a fianco del Giudice, ma più propriamente significa pronunciare sentenza; pronunciarla di propria autorità appartiene a Dio solo, comunicarla solennemente a chi spetta sarà ufficio degli uomini giusti: 2. e sarà premio di coloro che si fecero poveri per Cristo, affinché coloro che a tutto rinunciarono per Cristo siano messi a parte di ciò che di più grande vi è in Cristo. 3. Il giudicare è riservato a Cristo, Figlio di Uomo; potranno perciò partecipare alla sua dignità di Giudice, chi è partecipe dell’umana natura, gli Angeli quindi non dovranno giudicare. 4. Ai diavoli spetta l’esecuzione della sentenza sui dannati, perché è giusto che chi si sottomise al diavolo col peccato gli sia sottomesso nella pena, mentre invece gli Angeli ministreranno ai buoni i lumi divini. 5. La potestà giudiziaria spetta a Cristo per la sua umiliazione nella Passione: allora Egli patì per tutti, tutti quindi gli compariranno al Giudizio. 6. Il Giudizio importa due cose: discussione dei meriti e sentenza di premio o di pena; i buoni compariranno a
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Giudizio per la sentenza di premio; quanto invece alla discussione dei meriti, essa non si farà per coloro che hanno minimi demeriti; si farà invece per coloro che hanno meriti mescolati con demeriti, ma finirà con sentenza assolutoria; 7. i cattivi compariranno al Giudizio per la sentenza di pena; quanto invece alla discussione dei meriti essa si farà solo per coloro che ebbero la fede, che è la radice del merito. 8. Gli Angeli non subiranno un giudizio diretto, ma soltanto un giudizio indiretto, relativo cioè all’opera da loro prestata agli uomini, che accrescerà la gioia degli Angeli buoni e accrescerli, la pena dei demoni, avendo essi colla loro istigazione accresciuta la comune catastrofe infernale.
Quest. 90. La venuta del Giudice. – 1. Il potere di giudicare è dovuto a Cristo come Figlio di uomo, perché fu colla sua Passione che Cristo acquistò il dominio sull’Universo; perciò Cristo comparirà al Giudizio nell’umana natura. 2. E poiché il giudicare è atto di autorità e di gloria, perciò apparirà in forma gloriosa. 3. L’essenza della Beatitudine sta nella visione di Dio; la Beatitudine poi è gaudio, perciò la Divinità non si può vedere senza gaudio; gli empi quindi al Giudizio vedranno i segni evidenti della Divinità di Gesù Cristo, ma non ne vedranno la Divinità, altrimenti sarebbero beati.
Quest. 91. Il mondo dopo il Giudizio. – 1. Il mondo fu creato da Dio come abitazione degli uomini; l’abitazione deve convenire a chi l’abita; dopo il Giudizio l’uomo
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sarà glorificato, perciò anche il mondo, sua abitazione avrà la sua innovazione, mediante l’aggiunta di una tal perfezione di gloria per cui meglio rispecchi la maestà di Dio. 2. Tutto il mondo e anche gli astri del cielo furono creati per l’uomo, ma quando l’uomo sarà glorificato non avrà più bisogno di quegli influssi e moti degli astri che ora alimentano quaggiù lo sviluppo della vita, quei moti degli astri perciò allora cesseranno. 3. L’innovazione che il mondo avrà dopo il Giudizio ha per iscopo di rendere quasi sensibile Dio agli uomini, al che serve il maggiore splendore che il mondo avrà e, poiché lo splendore degli astri sta nella luce, alla innovazione del mondo gli astri avranno chiarezza e luce. Le tenebre allora saranno ridotte al centro della terra, che perciò è luogo conveniente per i dannati. 4. Alla innovazione del mondo avranno maggior chiarezza e luce gli astri del cielo, e per riflesso anche i corpi della terra; non tutti però egualmente, ma ciascuno secondo la sua attitudine. 5. Ma di piante e di animali allora non ci sarà più bisogno, perché essi furono creati per conservare la vita dell’uomo, e l’uomo allora sarà incorruttibile.
Quest. 92. La visione beatifica. – 1. Se la Beatitudine, che è l’ultimo fine dell’uomo, consiste nella visione beatifica, bisogna dire che l’intelletto umano può vedere Iddio nella sua essenza, cioè può vedere Dio quale è, nonostante l’insuperabile distanza che c’è fra l’intelletto nostro e la divina essenza; in modo che l’essenza divina, la quale è atto puro, informi di sé l’anima del beato ed avvenga una specie di unione come c’è in noi fra l’anima spirituale, che è la forma, e il corpo, che è la materia. 2. I beati però non vedranno Dio dopo la Risurrezione cogli occhi corporali, perché questi percepiscono soltanto
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colori e dimensioni, che in Dio non vi sono; degli occhi corporali i beati potranno servirsi per vedere le bellezze del mondo innovato annuncianti Dio, e per vedere l’umanità di Cristo; così Dio sarebbe per l’occhio un sensibile per accidens, ma non può mai essere un sensibile per sé. 3. Però i Santi, pur vedendo Dio, non vedono anche tutto ciò che vede Dio, il quale conosce tutte lerealtà colla scienza di visione e conosce tutti i possibili colla scienza di semplice intelligenza: i beati non possono conoscere tutti i possibili, perché a ciò occorre un intelletto uguagliante la infinita potenza di Dio, mentre il loro intelletto resta sempre un intelletto finito; non conoscono tutte le realtà, benché vedano Dio, perché conoscere la causa non vuol dire conoscerne tutti gli effetti: la scienza dei beati varia perciò secondo il loro lume di gloria con cui vedono la divina essenza.
Quest. 93. Beatitudine e mansioni dei Santi. – 1. La beatitudine dei Santi sarà maggiore dopo il Giudizio, perché coll’anima riunita al corpo glorificato sarà più perfetta la loro natura e con ciò più perfetta anche la loro operazione; con ciò però sarà maggiore estensivamente, non sarà invece maggiore intensivamente. 2. Mansione significa posto raggiunto in cui si rimane, perciò le mansioni dei Santi sono i modi coi quali raggiunsero mediante il moto di volontà l’ultimo fine; tali modi sono diversi, secondoché vi arrivano più o meno vicino, diverse quindi sono in cielo le mansioni ossia i gradi di beatitudine. 3. Le mansioni sono diverse secondoché sono diversi i gradi della carità, la quale quaggiù è la ragione del merito, principio remoto della beatitudine; e in cielo è la ragione della visione beatifica, principio prossimo della beatitudine.
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Quest. 94. Relazione dei Santi coi dannati. – 1. Ai Santi bisogna riconoscere tutto ciò che conferisce alla loro beatitudine; a questa conferisce la conoscenza del suo opposto, per essere della beatitudine maggiormente lieti e grati a Dio; perciò i beati conoscono le pene dei dannati; 2. i beati però non ne sentono compassione, né nel senso di partecipazione alla pena, perché sono beati, e neppure nel senso della misericordia, che cerca di allontanarne i mali, perché ciò è oramai impossibile e sarebbe una misericordia inutile; 3. ma i beati neppure godranno di tali pene inquanto i dannati ne soffrono; ne godranno, invece in quanto in esse si mostra la giustizia di Dio e in quanto da quelle essi furono scampati.
Quest. 95. Dote dei beati. – 1. Il Paradiso è una specie di matrimonio spirituale dell’anima con Cristo, perciò come nei matrimoni terreni la sposa viene fornita di dote e di ornamenti, così, per l’ingresso in Paradiso, l’anima, come indica la Scrittura, viene dal Padre fornita di dote e di ornamenti spirituali. 2. Poiché la Beatitudine è un’operazione e la dote è invece un possesso, la dote si deve fare piuttosto consistere in disposizioni e qualità ordinate alla stessa Beatitudine. 3. A Cristo non compete avere tale dote, né averla in tale senso, perché l’unione in Lui della natura umana alla natura divina non è un matrimonio spirituale, ma è un’unione ipostatica; con ciò però non si nega che Cristo possegga in grado eccellente ciò che nei Santi forma la dote. 4. Spose di Cristo diventano in Paradiso le anime dei fedeli che appartengono alla Chiesa, vera sposa di Cristo, ma gli Angeli non appartengono alla Chiesa, a loro perciò non compete lo sposalizio con Cristo e non compete a
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loro la dote del Padre; nulla tuttavia impedisce che si possano a loro attribuire metaforicamente almeno quelle prerogative che formano la dote dei beati. 5. La dote dell’anima beata consiste in tre doni: cioè vedere Dio, conoscerlo come bene presente e sapere che tal bene presente è da noi posseduto; ciò corrisponde alle tre virtù teologali fede, speranza e carità.
Quest. 96. Le aureole. – 1. In Paradiso il premio essenzialmente consiste nell’unione perfetta dell’anima con Dio posseduto e amato; questo premio è detto metaforicamente corona aurea: l’aureola, invece, diminutivo, è qualcosa di inferiore e accidentale, derivato o sopraggiunto; perciò si chiama aureola sia la gloria del corpo derivata dalla gloria dell’anima, sia il gaudio delle proprie opere buone in cui si vede la propria vittoria, che si aggiunge al gaudio di possedere Dio e così l’aureola è distinta dalla corona aurea. 2. Dall’aureola differisce il frutto, che consiste nel gaudio che proviene dalla stessa disposizione d’animo del beato per un maggior grado di spiritualità conseguita dall’avere approfittato della parola di Dio: tanto poi esso ne differisce che il frutto viene dalla Scrittura attribuito a tali ai quali non si attribuisce l’aureola. 3. Il frutto spetta più alla continenza che alle altre virtù, perché essa, liberando l’uomo dalla soggezione della carne, lo introduce nella vita spirituale, 4. e proporzionatamente alla misura di spiritualità che la continenza procura ci sono tre frutti, menzionati dal Vangelo cioè il trentesimo, dovuto alla continenza coniugale; il sessantesimo, dovuto alla continenza vedovile e il centesimo, dovuto alla continenza verginale. 5. La verginità poi, per ragione della particolare vittoria sopra la carne, che essa rappresenta, importa anche l’aureola, poiché però la verginità è virtù in quanto è vo-
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lontà di perpetua integrità di mente e di corpo, perciò tale aureola compete a coloro che ebbero il proposito di conservare perpetuamente la verginità. 6. Se è dovuta l’aureola alla verginità, che è perfetta vittoria interna, si deve l’aureola anche alla perfetta vittoria esterna, che è quella dei martiri; ed è perfetta la vittoria dei martiri, perché essi affrontano la stessa morte che è il maggiore dei mali esterni, e la affrontano per Cristo, cioè per la causa più bella che ci sia; bene dice S. Agostino: «Fa martire non la pena, ma la causa ». Se causa del martirio non si dice la Fede, ma si dice Cristo, tutte le virtù, non politiche, ma infuse, che hanno per fine Cristo sono causa di martirio. 7. E poiché una perfetta vittoria è anche quella che riportano i Dottori cacciando il diavolo da sé e dagli altri colla predicazione e colla dottrina, perciò anche ai Dottori si deve l’aureola, come la si deve ai vergini e ai martiri per la vittoria riportata sulla carne e sulmondo. 8. A Cristo, che è la ragione principale e piena di ogni vittoria, non si deve l’aureola, che è soltanto partecipazione di vittoria; e questo si dice non per negargli un pregio, ma per affermarlo superiore all’aureola, che è voce diminutiva. 9. Agli Angeli non si deve aureola, perché essa corrisponde a una vittoria riportata con di mezzo il corpo e gli Angeli non hanno corpo. 10. L’aureola l’hanno anche adesso i Santi del Paradiso; essa consiste in gaudio e merito che sono propri dell’anima, al corpo quindi non è dovuta aureola se non come ridondanza dello splendore dell’anima. 11. Tre sono le battaglie che incombono ad ogni uomo: contro la carne, contro il mondo e contro il diavolo; tre le vittorie privilegiate che se ne possono quindi riportare; tre i privilegi ad aureole corrispondenti, cioè l’aureola dei vergini, dei martiri e dei dottori.
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12. Assolutamente parlando, l’aureola dei martiri è la più eccellente, perché la loro battaglia è la più aspra; ma in un certo senso è superiore l’aureola dei vergini, perché la loro battaglia è più lunga, più pericolosa, più stringente. 13. Il premio si proporziona al merito, questo può essere maggiore o minore; maggiore o minore perciò può essere anche il premio accidentale cioè l’aureola, uno quindi può avere un’aureola giù fulgida dell’altro.
Quest. 97. Pena dei dannati. – 1. I dannati non avranno soltanto pena del fuoco, ma anche da altri elementi, perché il fuoco finale che purgherà il mondo eleverà al cielo gli elementi nobili a gloria dei beati e travolgerà all’inferno gli elementi ignobili a pena dei dannati. 2. Il verme dei dannati sarà un verme spirituale, cioè il rimorso, ma non sarà un verme materiale, perché il fuoco finale non lascierà più nessun animale o pianta. 3. Il pianto dei dannati non sarà pianto corporale, come versamento di lagrime, perché ciò sarebbe contrario all’incorruttibilità che ai dannati spetta; sarà invece pianto corporale come commozione e turbamento. 4. I dannati si troveranno immersi in tenebre corporali, e soltanto nella penombra avranno la vista afflittiva di ciò che li tormenterà, perché così compete ai dannati. 5. Il fuoco dei dannati sarà corporale, perché dovendo tormentare i corpi dopo la Risurrezione deve essere fuoco corporeo per essere pena adattata ai corpi. Benché però esso sia materiale come il nostro, per certe sue particolari proprietà non è come il nostro; 6. ma tali sue proprietà per cui differisce dal nostro, quali quelle di non consumare e di non consumarsi, non fanno sì che il fuoco dell’inferno non sia della stessa specie del nostro, perché il fuoco è sempre fuoco nonostante la diversità delle materie cui è appiccato.
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7. «In che parte del mondo sia situato l’inferno, dice S. Agostino, non credo lo sappia alcuno, se lo Spirito Santo non glielo rivela »; tuttavia, secondo le espressioni della Scrittura, è da ritenersi che sia sotterra; tanto più che così indica il nome inferno, cioè parte inferiore a noi, e che quello è il sito conveniente ai dannati, come il cielo è il luogo conveniente ai beati.
Quest. 98. Volontà e intelletto dei dannati. – 1. Nonostante che nei dannati resti l’inclinazione naturale al bene, di cui è autore Dio, tuttavia la volontà loro propria è contraria a Dio, che è l’ultimo fine e il sommo bene e anche quando vogliono qualche bene lo vogliono per fine cattivo, perciò la volontà dei dannati è sempre cattiva; 2. quindi i dannati non si pentono del male che hanno fatto per se stesso; ma si pentono per la pena che ne devono portare; 3. e di volontà deliberativa non possono desiderare di esistere, cioè di assolutamente non essere, perché ciò non rappresenta nessun bene, rappresenta invece la totale privazione di ogni bene; possono però desiderare di non essere così male, perché la privazione del male importa un qualche bene. 4. Come i beati per la carità perfetta godono del bene di tutti, così i dannati per l’odio consumato si contristano del bene altrui e vorrebbero che anche i buoni fossero all’inferno. 5. Dio, nonostante che sia la bontà per essenza, i dannati lo odiano, perché non lo conoscono in sé, ma lo conoscono negli effetti della sua Giustizia, che alla loro volontà ripugna. 6. Questa cattiva volontà però in loro non è più né colpa, né demerito, perché se il merito è in ordine a altre cose, essi nulla più hanno da sperare e nulla di più da temere.
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7. Ai dannati compete tutto ciò che converge alla loro miseria affinché sia perfetta, perciò compete ai dannati l’uso delle cognizioni che in questo mondo avevano per rattristarsene, considerando il male fatto e il beneperduto. 8. Di Dio, in quanto è fonte d’ogni bontà, non penseranno i dannati, perché tale pensiero è di conforto; invece penseranno di Dio in quanto nella punizione risentono gli effetti della sua giustizia. 9. I dannati prima del Giudizio potranno vedere che i beati sono in gloria e ne saranno punti di invidia; dopo il Giudizio saranno privati di ogni vista dei beati, ma ne saranno tormentati lo stesso, cioè della loro memoria.
Quest. 99. Misericordia e Giustizia di Dio nei dannati. – 1. Chi pecca mortalmente contro Dio, che è infinito, merita una pena infinita e questa deve scontarsi coll’inferno eterno: difatti nelle pene si distingue l’acerbità e la durata; alla colpa poi vien proporzionata la loro acerbità, ma non la durata; quindi è che un adulterio, che pur si compie in un momento, non si punisce colla pena di un sol momento nemmeno per legge umana; la durata della pena si proporziona invece alla disposizione d’animo di chi pecca e come il traditore della patria si è reso per sempre indegno della sua città, così chi offende Dio si rende per sempre indegno del suo consorzio; e chi sprezza la vita eterna meritala morte eterna. 2. Che le pene dell’inferno, sia degli uomini, che dei demoni, abbiano fine per divina misericordia è un errore di Origene, contrario alla Scrittura e alla Giustizia stessa di Dio, perché se hanno termine le pene dei dannati, dovrebbe altrettanto finire anche il gaudio dei beati. 3. La misericordia di Dio non impedirà che anche gli uomini, oltre ai demoni, siano in eterno puniti, perché gli
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uni e gli altri sono per sempre ostinati nel male e non possono essere perdonati. 4. Non terminerà per la divina misericordia, neppure la pena di quei dannati che furono cristiani, perché anche essi come gli altri dannati non hanno tenuto la via della salute, benché l’abbiano conosciuta; anzi per questo sono più rei degli altri, 5. e anche i cristiani, che fanno opere di misericordia saranno ciononostante eternamente puniti, se moriranno in istato di peccato, perché senza la grazia nulla giova per meritare la vita eterna.
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