Suburra

July 21, 2017 | Author: Andreja Markovic | Category: Samurai, Cartridge (Firearms)
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Una storia della malavita...

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Il libro Nei giorni della Suburra nessuno piú è innocente. Una Roma lunare e sguaiata scenario di una feroce mattanza. Un Grande Progetto che seppellirà sotto una colata di cemento le sue periferie. Due vecchi nemici, un bandito e un carabiniere, che ingaggiano la loro sfida finale. Intanto, mentre l’Italia affonda, politici, alti prelati e amministratori corrotti sgomitano per partecipare all’orgia perpetua di questo Basso Impero criminale. «Il Libanese era morto. Tanti altri erano morti, qualcuno era diventato infame, qualcuno si faceva la galera in silenzio, sognando di ricominciare, magari con un lavoretto senza pretese. Il Samurai era ancora là. L’antico nome di battaglia denunciava ormai soltanto sogni abbandonati. Ad affibbiarglielo era stato il Dandi, ma lui aveva cercato di esserne degno. E il potere, quello, era concreto, vivo, reale. Il Samurai era il numero uno».

Gli autori Carlo Bonini è inviato speciale de «la Repubblica». Il suo ultimo libro pubblicato con Einaudi Stile Libero èAcab. All Cops Are Bastards (2009). Giancarlo De Cataldo è l’autore diRomanzo criminale (Einaudi Stile Libero 2002). Tra i suoi ultimi libri,I Traditori, Io sono il Libanese e, con Massimo Carlotto e Gianrico Carofiglio, Cocaina (tutti usciti per Einaudi Stile Libero).

Carlo Bonini e Giancarlo De Cataldo

Suburra Einaudi

A Severino. E lui sa perché

Prologo

Roma, luglio 1993 Nel buio umido della notte d’estate, tre uomini attendevano a bordo di un Fiat Ducato dei carabinieri parcheggiato sul lungotevere. Indossavano divise dell’arma, ma erano criminali. Dalla parte sbagliata di Roma li conoscevano con i nomi di battaglia di Botola, Lothar e Mandrake. Botola scese dal furgone e si affacciò sul fiume. Cacciò dalla tasca un novellino Gentilini sbriciolato e lo depose sulla spalletta. Arretrò di qualche passo e rimase a fissare un gabbiano che affondava il becco tra i rimasugli del biscotto. – Che belli i gabbiani. Risalí sul furgone. Quello che chiamavano Lothar si accese l’ennesima sigaretta e sbuffò. – Io me so’ rotto. Che stiamo aspettando? – Te l’appoggio! – disse, convinto, Mandrake. Botola scosse la testa, inflessibile. – Il Samurai ha detto alle due precise. Non un minuto prima, non uno dopo. Non è ancora il momento. Gli altri due protestarono. Ma di che parliamo? Un anticipo di dieci minuti? E che sarà mai? E poi, sulla strada, sino a prova contraria, ci stavano loro, mica il Samurai. Che, per caso, il Samurai ci aveva gli occhi dappertutto? Che era, il Padreterno, che li poteva controllare istante per istante? – Il Padreterno forse no, – concesse Botola, con un sospiro. – Ma se me parli del diavolo, ci sei vicino. – Seeh, il diavolo! – ironizzò Mandrake. – È ’n omo come noi! E poi me so’ stufato: il Samurai de qua, il Samurai de là… Io, te dovessi di’, non l’ho mai visto sporcarsi le mani, ’sto Samurai… Bravo a parlare, chi lo discute… ma è facile, quando il rischio se lo caricano l’altri. Botola li squadrò, con un mezzo sorriso di commiserazione. Proprio non si rendevano conto, poveri cristi! – Ve lo ricordate il Pigna? A Lothar e a Mandrake quel nome non diceva niente. Botola raccontò una storia. C’è questo pugile del Mandrione, di nome fa Sauro, detto Pigna per via di un sinistro micidiale. Un bestione, tanto forte di braccia quanto scarso a cervello, povero Pigna. Se fosse stato appena un po’ piú furbo, non si sarebbe appiccicato col Samurai per una questione di droga. Sí, perché a un certo punto, dopo un affare di incontri truccati, la Federazione gli revoca la licenza per combattere, e il Pigna si mette a spingere un po’ di roba per conto del Samurai. Il guaio è che il Pigna si crede un gran furbo. Prima comincia a fare la cresta, poi, quando si sente sicuro, arraffa un grosso carico, lo vende per conto suo e sparisce. Resta nascosto tre-quattro mesi, e un bel giorno ricompare. Coi soldi fregati al Samurai s’è comperato una palestra, ha reclutato quattro ragazzotti di borgata e s’è messo a spacciare in proprio. Il Samurai prova a recuperarlo con le buone e va a trovarlo in palestra. Gli propone un accordo ragionevole: il cinquanta per cento della proprietà della palestra e di tutto lo spaccio in cambio della pace. Pigna non sente ragioni. Si chiama i suoi ragazzotti e attacca a testa bassa. In cinque contro uno il Samurai si difende come può, ma alla fine ne esce malconcio. Lo scaricano in un vicolo, mezzo morto, e ci vuole un bel po’ perché si riprenda. Una sera, in palestra si presenta un tipo mai visto prima. Si iscrive, comincia a fare un po’ di pesi, attacca bottone con i ragazzotti del capo. Quand’è l’orario di chiusura, e Pigna è rimasto da solo coi suoi fedelissimi, il tipo mai visto prima tira fuori una mitraglietta Skorpion, come quelle che usavano i terroristi, e li sbatte tutti al muro. Passano cinque minuti. Pigna e i suoi cercano in tutti i modi di far parlare il tipo,

che se ne resta muto come un pesce. Finalmente, la porta si apre e arriva lui. Il Samurai. Sotto lo spolverino porta un kimono e fra le mani ha una katana, la spada affilatissima dei giapponesi. Punta diritto al Pigna e gli tiene un discorsetto: sui soldi ci potevo passare sopra, ma sull’umiliazione no. Perciò, caro Pigna, gli dice, tu adesso con questa spada ti apri la pancia, e io ti guarderò morire. In cambio non torcerò un capello ai tuoi pischelli. Pigna si mette a frignare. Chiede perdono. Riconosce l’errore. Gli passerà la palestra, tutta la roba che gli avanza, i contatti dello spaccio. Il Samurai fa un sospiro, alza la spada, e con un colpo solo taglia la testa a uno dei ragazzotti. Pigna scoppia a piangere. I pischelli scoppiano a piangere. Uno di loro si fa avanti e si offre al Samurai come esecutore della condanna. Il Samurai lo squadra e lo decapita. Vedi, Pigna, non ti sai scegliere gli uomini, sospira, non ti sono fedeli… A questo punto, tutti e tre, Pigna e i due sopravvissuti, tentano un attacco disperato. – E che ve lo dico a fare? – concluse Botola. – Il Samurai li fece a pezzi. L’amico non sparò nemmeno un colpo. Poi misero gli avanzi nei sacchi e li buttarono nel Tevere. Lothar e Mandrake fissavano il narratore, sconcertati. – Mi sa tanto che è una cazzata, – azzardò Mandrake. – È ora, – tagliò corto Botola. – Muoviamoci. Raggiunsero piazzale Clodio. Gli abbaglianti del Ducato lampeggiarono tre volte in direzione della porta carraia del palazzo di giustizia, che dopo qualche secondo prese ad aprirsi lentamente. Il militare alla garitta si avvicinò senza fretta al lato di guida. Riconobbe Botola e con un cenno della mano invitò il furgone a proseguire. Risalirono a passo d’uomo la rampa in cemento armato che portava al parcheggio della palazzina C, dove un sistema di porte blindate proteggeva il caveau dell’agenzia 91 della Banca di Roma. Lo sportello interno del tribunale. Il forziere che custodiva le ricchezze e i segreti di magistrati, avvocati, notai, sbirri. Il doppio fondo di quella che chiamano Giustizia e che è solo Potere. Botola afferrò dalla tasca dello sportello l’elenco delle novecento cassette di sicurezza della banca. Il Samurai ne aveva cerchiate centonovantasette. E solo quelle andavano aperte. Lothar afferrò due grossi sacchi di iuta. Mandrake controllò la borsa degli attrezzi e l’anello dalle cinquanta chiavi per il quale a Roma c’era un solo cassettaro: lui. Tutti e tre calzarono guanti neri in pelle aderente. I carabinieri che li aspettavano avevano fatto il loro dovere. Le porte blindate che davano accesso al caveau erano aperte, gli allarmi e il sistema video a circuito chiuso disattivati. Botola incrociò lo sguardo dei militari con una smorfia di disprezzo. Quei due puzzavano di paura e disonore. L’odore che dànno le guardie quando sono marce. E liquidò il piú giovane con un buffetto sulla guancia. Conoscevano il caveau a memoria. Negli ultimi due mesi, Botola, Lothar e Mandrake c’erano scesi almeno una decina di volte, accompagnati da uno dei cassieri dell’agenzia. Un tipo sulla cinquantina con il vizietto della coca e delle femmine. S’era messo a disposizione come un cagnolino. Aveva indicato il titolare di ogni cassetta consentendo al Samurai una cernita. Aveva fornito planimetrie e tenuto aggiornata la lista degli accessi. Aveva reso possibile il calco delle chiavi che aprivano i cancelli interni del cuore di quella banca. In fondo, restava la parte piú semplice. Mettere le mani su quel ben di dio. – Io me levo ’sta divisa, – azzardò Mandrake. – È che proprio nun me ce sento guardia. – A chi lo dici, frate’! – solidarizzò Lothar. Botola autorizzò. Purché si facesse in fretta: la buona sorte non poteva assisterli in eterno, e anche i piani meglio congegnati possono infrangersi sul destino bizzarro. Decisero di lavorare al buio. Con la sola luce di due grandi torce marine. Mandrake volò. Come

sapeva e doveva. E le prime centosettantaquattro cassette si aprirono come scatole di cioccolatini. In un sacco di iuta finirono i contanti, dieci miliardi di lire, una montagna di gioielli e orologi. Lothar li afferrava con una voluttà sguaiata. Tirando dentro e fuori la lingua, come in preda a un’incontenibile eccitazione sessuale. Botola si dedicò al resto. Perché in quelle cassette c’era qualcosa che valeva di piú dei pacchi fascettati di banconote da cinquanta e centomila lire. Scoprí con relativa sorpresa che un Pm dalla narice incipriata teneva qualche etto di scorta tra l’orologio del nonno e il filo di perle della moglie. Un fascio di luce illuminò gli estratti conto delle banche svizzere in cui avvocati, giudici, ufficiali dei carabinieri, poliziotti, finanzieri avevano fatto finire il grano con cui la banda se li era comprati negli anni. Aveva ragione il Samurai. Lí dentro non c’era un’Epifania. C’era il nuovo Natale di Roma. Nell’ultima cassetta trovò una pistola. Botola non aveva mai visto niente di simile. E sí che una certa pratica se l’era pure fatta, dopo tanti anni sulla strada. Ma quella pistola… Roba d’altri tempi: lunga, con una scritta incomprensibile, lo si sarebbe detto tedesco. Controllò l’elenco, pensando a un errore. Non c’era errore. Il Samurai, quella cassetta, l’aveva cerchiata addirittura due volte. Ma che se ne faceva uno come lui di quel ferrovecchio? Comunque, afferrò l’arma e un paio di scatole di munizioni e ficcò tutto nel sacco. Le quattro del mattino. Mandrake smadonnava su un paio di serrature che opponevano inattesa resistenza. – Basta, rega’, s’è fatto tardi. Tornarono al furgone, mentre i carabinieri richiudevano alle loro spalle i cancelli e le porte blindate. Il Ducato fece manovra e ridiscese a passo d’uomo alla porta carraia, attraverso la stessa rampa da cui era salito. Il cancello si aprí nuovamente. Botola si sporse dal finestrino verso il carabiniere alla garitta. – È stato un piacere, merda. La risata sguaiata di Lothar e Mandrake coprí l’innesto sgranato della prima. Portarono il Ducato nel boschetto a Monte Antenne, dove avevano in precedenza occultato la Saab pulita del Botola. Scaricarono i sacchi e li seppellirono insieme alle divise. Lothar e Mandrake cosparsero il furgone di benzina. – Damme foco, Botola! – scherzò Lothar. Il proiettile lo centrò fra gli occhi. Cadde senza un lamento. Mandrake si voltò al botto. Fissò inorridito Botola, la 7.65 nella sinistra, la canna ancora fumante. – Ma che… – Sai quel tipo della palestra, quello che stava col Samurai? Ero io, Mandrake, – disse Botola, poi sparò anche a lui. Il sole era già alto quando Botola rientrò nella sua grande casa al Pantheon. Lothar e Mandrake erano pezzi di carne bruciata fra le lamiere. Un po’ gli era dispiaciuto per loro, ma gli ordini del Samurai non si discutevano. Il bottino era al sicuro, in attesa che si placasse la prevedibile tempesta. Botola mise in ghiaccio un paio di bottiglie di champagne millesimato e si affacciò sulla piazza insonnolita. Un tempo, quella casa era appartenuta al Dandi. L’ultimo capo della banda era caduto qualche anno prima per mano di una batteria di vecchi compari: piombo infame, secondo alcuni. Atto di giustizia che aveva liberato la terra dal peggior gargarozzone, secondo i piú. Botola non aveva opinioni al riguardo. Considerava l’uscita di scena del Dandi, al quale pure era stato profondamente

legato, qualcosa a metà fra un incidente e una necessità. Se il Dandi non si fosse montato la testa, sarebbe rimasto ancora per un pezzo il numero uno. Ma se non si fosse montato la testa, non sarebbe stato il Dandi. E quindi… Per un po’, in quei trecento metri quadri terrazzati che dominavano il centro della capitale s’era installata Patrizia, la vedova del Dandi. Poi Patrizia s’era messa con uno sbirro, e aveva fatto una brutta fine. Botola, scontata una condanna accettabile, s’era comprato il tutto, arredi compresi, per un tozzo di pane. Ed era da lí, da quel luogo che una volta aveva ricordato loro chi erano, da dove venivano e dove erano arrivati, era da lí che si doveva ripartire. Come una volta. Meglio di una volta. Il Samurai si degnò di comparire verso mezzogiorno. Altissimo, indossava una camicia coreana senza il minimo alone di sudore, occhiali scuri, jeans attillati. Si annunciò con una specie di smorfia estenuata, disdegnò lo champagne, annuí appena quando Botola cominciò a magnificare l’impresa del caveau. – So che è andata come doveva. Ne hanno parlato alla radio. Botola ci rimase male. Va bene che il Samurai era uno di poche parole, diciamo pure ai confini del mutismo, e non dico l’entusiasmo, ma almeno un po’ di soddisfazione, e che cazzo! – Hai portato quello che ti avevo chiesto? Botola, risentito, gli porse la pistola e le cartucce. Il Samurai afferrò il tutto con la devozione che si tributa a una reliquia, si sfilò le lenti nere RayBan, accarezzò l’arma con uno sguardo intenerito, e finalmente sorrise. – Che ci avrà de speciale ’sto ferro, – mormorò Botola. Avevano messo le mani su un tesoro, e quello si fissava su una pistola che ci avrà avuto cent’anni. – Non capiresti, – rispose, asciutto, il Samurai. Botola non insistette. Da vent’anni batteva la strada, e se c’era una cosa che aveva capito, era che non ci si doveva mai mettere in mezzo fra un uomo e le sue manie. Se il Samurai s’eccitava cosí, affari suoi. Il Samurai intascò l’arma e le cartucce, poi si soffermò sul piccolo quadro che sovrastava un lungo divano bianco. – Roba del Dandi, – s’affrettò a spiegare Botola. – Lo pagò cento milioni a un’asta. – È una copia, – sussurrò il Samurai. – Che cazzo stai a di’? Ce sta pure la firma! Guarda, De Chierico. – De Chirico. – Embe’? Nun so se te ricordi, ma Dandi non era tipo da farsi infinocchiare dal primo falsario. – Non ho detto che sia un falso. Ho detto copia. È una cosa ben diversa. L’artista dipinge un originale, poi mette in circolazione altri esemplari dello stesso dipinto, oppure autorizza un altro pittore a fare la stessa cosa… In ogni caso, non vale tanto. – Vabbe’, sarà come dici tu. E poi a me ’sti due mamozzi che si abbracciano non m’hanno mai convinto. – Ettore e Andromaca, – puntualizzò il Samurai. Botola ne aveva abbastanza. Vabbe’ che il Samurai stava sbroccando, ma che gli frullava in testa? Mah. Forse, era solo l’adrenalina che gli giocava un brutto scherzo. Botola andò in cucina, stappò lo champagne opportunamente ghiacciato, ne versò solo per sé visto che l’altro stava cosí storto e tornò in salone, deciso a evitare altre perdite di tempo. Il Samurai s’era accomodato al centro del divano e stava giocherellando con la pistola e le cartucce.

– Samurai, se non ti fa fatica, mi sembra che dovremmo parlare dei nostri progetti. Il Samurai, con un gesto vago, gli fece cenno di proseguire. Botola afferrò una sedia dalla forma scrausa (altro investimento del Dandi buonanima, scomoda da morire) e si piazzò davanti a lui. – Allora, io dico che co’ quello che ci avemo c’è una sola strada davanti a noi. – E sarebbe? – Se ripijamo Roma. – Ah, sí? Prosegui. – Abbiamo soldi, soldi freschi e puliti, e tanti. Cioè, puliti per noi perché so’ sporchi per loro, non so se mi capisci. – Perfettamente. – Bene. Abbiamo le carte. Che ci dicono dove vanno a finire i soldi che tutti ’sti bravi servitori dello stato se so’ fregati in questi ultimi anni. Praticamente, li teniamo per le palle. Il che ci rende intoccabili, e quindi… – Quindi? – Quindi, se tu ci stai, noi due, tu e io, da questo momento semo Giulio Cesare e Ottaviano Augusto. Il Botola rise, compiaciuto della battuta che lo riportava ai tempi del Libanese, il fondatore della banda. Uno che, a proposito di fisse, ci aveva la mania dell’antica Roma. E forse non aveva tutti i torti. – Allora? Che ne dici, eh, Samura’? Se pò fa’? Il Samurai annuí e si mise a caricare la pistola. Mentre introduceva il caricatore a lamina nell’apertura sulla canna, illustrava i passaggi salienti all’esterrefatto Botola. – Questa è una Mannlicher, fabbricata nel 1901 in Austria. A differenza delle normali pistole semiautomatiche, il funzionamento non avviene grazie al rinculo dell’otturatore, ma a causa dello spostamento in avanti della canna. L’otturatore è, si dice, solidale con l’incastellatura: come vedi, le cartucce si inseriscono dall’alto, e non dal basso. L’arma fu adottata dall’esercito austriaco, che se ne serví durante la Prima guerra mondiale. Successivamente, caduta in disuso in Europa, incontrò nuova fortuna in Argentina. E infatti, queste cartucce che vedi sono Borghi, fabbricate a Buenos Aires nel 1947. Al momento dello sparo, la canna, in parte contenuta in una guida cilindrica, avanza, trascinata dall’attrito del proiettile, e, comprimendo un’opportuna molla di recupero, espelle il bossolo. Il Samurai trasse un profondo sospiro, puntò la Mannlicher alla fronte di Botola e fece fuoco. Il Samurai si ibernò per il resto dell’estate. Avvelenati dal clamore di un colpo cosí magistrale, gli uomini in divisa convogliarono a Roma i migliori investigatori. La talpa fu beccata quasi subito e si cantò i carabinieri, che a loro volta si cantarono Lothar, Mandrake e Botola: una volta traditori, traditori per sempre. Il Samurai l’aveva previsto. Perciò aveva dovuto, sia pure a malincuore, sopprimere tre bravi ragazzi che sapevano stare al mondo. Per spezzare il filo. E cosí, verso metà settembre, mentre le guardie si dannavano inutilmente l’anima per dare un volto alla mente della rapina, recuperò il bottino e si presentò puntuale alla riunione mensile al Bagatto. Ufficialmente denominato «circolo ricreativo», Il Bagatto era quanto di piú simile a un centro sociale la destra estrema romana fosse riuscita a concepire. Ma se il modello organizzativo era copiato dalla sinistra, l’apparato scenografico, dai gagliardetti col fascio littorio ai murales con

Gandalf e Frodo, dai posacenere con la croce uncinata ai manganelli con l’anima in ferro che vendevano sottobanco su improvvisate bancarelle, era inequivocabilmente di stampo fascista. Cosí come fascisti erano i giovani cuori dei ragazzi che, dapprima alla spicciolata poi sempre piú numerosi, andavano assiepandosi sulle panche zoppicanti del sottoscala di Montesacro, impazienti di ascoltare, in religioso silenzio, il verbo del loro capo spirituale. Quella sera erano almeno in quaranta, quasi tutti giovanissimi. Figli delle curve dello stadio Olimpico, divisi dal tifo ma uniti – questo almeno faceva loro credere il Samurai – da una fede comune. Le curve. Il futuro di Roma. Il Samurai riponeva grandi speranze nei suoi ragazzi. Gente agitata, gente che non aveva niente da perdere e fremeva per prendersi tutto. L’ideologia era stata l’esca, ma il progetto andava ben oltre ogni ormai tramontata utopia. Si trattava di costruire una rete a piccole maglie. Dovevano essere forti, determinati, spietati come antichi guerrieri, ma anche astuti come volpi e, all’occorrenza, malleabili e urticanti come meduse. Ciascuno doveva essere impiegato secondo le proprie qualità: cani da strada e professionisti in doppiopetto. E tutti, tutti sarebbero stati fedeli. Il Samurai cominciò a parlare. La sua voce era bassa, gradevole, ma s’apriva a improvvisi squarci di energia che accendevano le menti e scaldavano i cuori. Parlò dello stretto, indissolubile legame che avvince la Rivoluzione, che tutti loro sognavano, e la vita della strada. Spiegò che ciò che per il borghese è crimine, per il guerriero può essere, a certe condizioni, il gesto perfetto che non tollera né il meschino piagnisteo del debole né l’acre censura di un’imbelle giustizia. Perché il gesto trova in sé stesso la propria giustificazione, etica, estetica e religiosa, e tanto deve bastarvi. Parlò e parlò, arricchendo l’orazione di parabole esemplari, finché non ebbe la certezza di averli, come sempre, in pugno. E allora, all’improvviso, quando si aspettavano la rivelazione definitiva, tacque, e con un mezzo sorriso li congedò tutti. – Ora andate. Che ciascuno di voi mediti su quanto ha appena ascoltato. Ci rivediamo il mese prossimo. I ragazzi sciamarono via, scambiandosi commenti entusiasti ma a mezza voce, per non disturbare la concentrazione del Samurai, che, a occhi chiusi, si massaggiava le tempie, come prostrato dallo sforzo oratorio. – Maestro? Permetti una parola? Il Samurai aprí gli occhi con un sospiro. E si ritrovò a dieci centimetri dalla canna di una semiautomatica. Mise a fuoco un volto franco, due occhi profondi e corrucciati, una smorfia di tensione e un tremolio che l’altro faticava a controllare. Marco Malatesta. Diciott’anni. Un ragazzaccio di Talenti ricco di cuore, fegato, e, soprattutto, cervello. Uno dei suoi preferiti. Un potenziale erede designato. – Se pensavi di stupirmi, Marco, ci sei riuscito. Ora, se volessi spiegarmi… – Tu non sei un maestro. Tu sei solo un bastardo! – Attento, Marco. Stai ragionando come un piccolo-borghese. – Fanculo alle tue stronzate, Samurai. Tu sei questo! Il ragazzo si frugò nelle tasche del giubbotto e gli scaraventò addosso una manciata di pillole multicolori. – Valgono un sacco di soldi, – commentò il Samurai, per niente turbato. – Faresti meglio a raccoglierle.

– Ah, le riconosci, eh? E certo! Sei tu che spingi l’ecstasy in curva, tu che ci stai intossicando. Sei uno spacciatore, Samurai. No, non uno spacciatore, il capo di tutti gli spacciatori. Ci hai mandato in giro a spaccare le teste degli spacciatori. E l’hai chiamato «atto rivoluzionario». E invece che cos’era, eh? Libera concorrenza? – Ragazzo mio, se vuoi sparare a qualcuno, prima togli la sicura. Marco abbassò d’istinto lo sguardo. Il Samurai sorrise, poi agí, fulmineo. In un istante, la pistola era finita tra le sue mani. Marco si avventò, il sangue agli occhi. Il Samurai scartò appena di lato, evitò l’assalto e, con il calcio dell’arma, vibrò un colpo secco alla base della nuca. Il ragazzo si abbatté mugolando. Il Samurai scarrellò. Poi si chinò su Marco, lo costrinse a voltarsi, gli montò su a cavalcioni, puntò l’arma al centro della fronte. – Dovrei ripagarti con la stessa moneta, Marco Malatesta. E non ti servirebbe a niente chiedere pietà. – Io non chiedo pietà a un pezzo di merda! Io ci credevo in te, Samurai, credevo nelle cose che dicevi. Cambiare questa città, cambiare questo mondo marcio, la nuova morale. A te questo mondo marcio va benissimo, tu ci sguazzi dentro, tu sei il traditore! – Io non sono un traditore. Semmai, un cattivo maestro. Non sono riuscito a insegnarti niente. Per questo sono molto piú colpevole di te. E la mia punizione sarà di lasciarti in vita. Il Samurai intascò l’arma. Si risollevò e fece segno a Marco di fare altrettanto. Il ragazzo si rimise in piedi a fatica; aveva la vista confusa, la testa pulsava di battiti insopportabili. Il Samurai lo sorresse, la sua destra sfiorò il volto di Marco, come in una carezza di pace. Marco avvertí un dolore acuto, si portò una mano alla tempia e la ritrasse, sporca di sangue. – È solo un modesto segno, – spiegò il Samurai, ripiegando una piccola lama. – Ti accompagnerà per tutta la vita. Ti ricorderà chi sei, da dove vieni e che cosa hai fatto. Due settimane dopo, quando la ferita si fu cicatrizzata, Marco Malatesta si presentò alla caserma Pisacane dei carabinieri e chiese dell’ufficiale di guardia.

Roma, ai giorni nostri

I.

Affacciato alla finestra della suite Anna Magnani, al quarto piano dell’albergo La Chiocciola, nei dépliant «piccola oasi di charme alle spalle di Campo de’ Fiori», per il volgo costoso scannatoio dell’élite capitolina, l’onorevole Pericle Malgradi, campione della cristianità, spalancò la vestaglia di seta nera con il disegno del Fujiyama coperto di neve – kimono, si chiama kimono, gli aveva spiegato il Samurai, ma era uno fissato, quello –, estrasse il considerevole affare della cui leggendaria erezione menava urbi et orbi vanto e si accinse a benedire con la sua acquerugiola giallognola tetti e passanti dell’immortale città eterna. – Sabrina! – latrò, senza voltarsi verso la sua preferita, abbandonata poc’anzi a giacersi sul kingsize bed con l’altra, la lituana. – Sabrina, tu che sei romana, ’a canusci dda poesia del Belli… com’è ca faceva? Io so’ il re… io so’ io e voi nun sète un cazzo… Ma la minzione, la sublime minzione postcoitale, che goduria, che piacere! Potevi dirigere il getto e orientarlo ad annaffio, a fontanella, a schizzo ripetuto e multiplo, ovvero a filo a piombo, a gocciolina ina-ina, o scaricare d’un colpo solo una cascata impetuosa, schiumosa, su quei miserabili che lavoravano di notte. – Sabrina, guarda! Ne ho preso uno proprio sulla pelata! Uh, sí, bello, guarda, guarda in cielo, pigliatela coi gabbiani e le cornacchie… io sto sopra e tu stai sotto… hai capito, ora, come funziona la vita? Sabri’? Sabrinaaa… E vieni a vedere, no, mannaja ’a Maronna d’a muntagna, con quello che vi pago, a te e alla slava, me la volete dare un poco di soddisfazione? Ma niente. Lo zoccolume doveva essersi appisolato. E certo. Le aveva sfiancate, quelle due. Mica scherzi: stiamo parlando di Pericle Malgradi! Ma ci avrebbe pensato lui a dargli la sveglia, alle «professioniste». L’onorevole pescò nel tascone del kimono il Patek Philippe Annual Calendar 4937G, baciò con tenerezza e legittimo orgoglio paterno l’immaginetta delle figlie che s’era fatto incastonare all’interno della cassa, fece scattare il meccanismo – e vallo a trovare un altro che può permettersi come blister un drago da cinquantamila euro – e afferrò un paio di compresse di Listra. – Listra, Sabri’, hai capito, e no quella roba da puvirazzi che usano l’altri, Chalis, Viagra… che poi ti ritrovi la testa in fiamme e le budella sottosopra. Chista è roba speciale, bambina mia, roba di prima scelta, preparata con le sue sante mani da mio fratello Temistocle. Una volta o l’altra ve lo presento, sapete, ché pure lui a minchiazza sta messo da Champions… Questione di famiglia… fratelli Malgradi, la classe non è acqua… Oh, Sabri’, tu e quell’altra, la slava, come si chiama… ma volete venire, troie? Niente. Silenzio. Ma vaffanculo! Ora Sabrina aveva rotto. E che, la teneva solo lei, a Roma? A Roma, dove si nuota nel pelo! La prossima volta, due negre. No, meglio: due negre e un trans. Cosí, per stare un po’ insieme in allegria. Il minimo sindacale, dopo tutta una vita spesa al servizio della comunità. Col trans, però, patti chiari: prendere sí, buana, dare mai. Non era mica ricchione, lui! L’onorevole ripose nel tascone l’orologio, estrasse uno schizzo di coca avvolto nella carta stagnola, ci sbriciolò dentro le pilloline, dispose il tutto sul davanzale e si fece una solenne pippata. – Sabrina! Slava! Guardate che ce ne sta pure per voi. Ancora silenzio. E basta! Un capogiro violento lo fece barcollare. Si appoggiò alla balaustra. La roba stava salendo al cervello. E da lí, prestissimo, sarebbe ridiscesa all’arnese. Mentre il cocktail erettile cominciava a fare il suo effetto, un gaio senso di invincibilità lo pervadeva. Tutti dicevano di andare piano, tutti dicevano che stavano ballando sull’orlo di un vulcano, tutti temevano che le cose cambiassero da un momento all’altro. Tutti blateravano di spread, spending review, moralità… e che

cazzo! L’Italia non cambierà mai. Noi staremo sempre sopra, e i miserabili sotto. – Aiuto! Oh, finalmente, un po’ di vita. – Rimettetevi il brillantino, ché arriva zietto. Ah, il brillantino. Quella era stata la trovata che l’aveva convinto della superiorità di Sabrina sul resto del puttanume romano. Un piccolo gioiello conficcato nel buchino, quello di dietro. Che cosí restava sempre largo e, non so se mi spiego, pronto all’uso. A Malgradi piaceva sfilarglielo con la lingua. Preliminare da sultano! Con un solo inconveniente: c’era il rischio di ingoiarlo, quell’affarino. Ma figurati se a Pericle Malgradi, the Number One, gli andava a capitare una simile sfiga. Malgradi si voltò. Sabrina lo fissava, pallida e tesa. – Che cazzo c’è? – Vicky sta male. Malgradi cominciò a realizzare che forse c’era un problema. – E ora cchi vòli chista? – Sta morendo, deficiente. Ma che gli era preso a Sabrina? E perché strillava tanto? – Muta, sangu ’i cristu, staju pinsannu. Sabrina sbuffò di rabbia. Malgradi inquadrò la situazione. Madonna santa! Verde era diventata la slava, verde come una cima di cacioffula a fine stagione. Boccheggiava riversa sulle lenzuola di raso nero, e un rumore di fondo malsano risaliva dai polmoni ogni volta che il petto si alzava e abbassava nello sforzo del risucchio. – Madonna mia! Me more! Me more! ’Sta stronza me more! Incapace di muoversi. Incapace di prendere una decisione. Incapace di parlare. Sabrina frugò nella borsetta e afferrò il cellulare. – Bisogna chiamare un’ambulanza! – disse Sabrina. L’onorevole fu finalmente folgorato da un barlume di consapevolezza: sono fottuto! Crollò sul letto accanto alla straniera, che si faceva sempre piú scolorita e ansimante. Mentre il torpore della coca svaniva e la lucidità isterica delle amfetamine montava, in rapida sequenza gli passarono davanti agli occhi le conseguenze. Donna Fabiana, moglie e madre, devota alle Oblate Figlie della Vergine. Finis. Il segretario nazionale del partito, impegnato allo spasimo nella difesa della famiglia dagli sposalizi dei ricchioni e dalla piaga dell’aborto. Finis. I suoi elettori del collegio della Calabria jonica delusi e irritati. Finis. Lo scandalo. La miseria. La galera. La lituana ansimava, la bocca si andava riempiendo di schiuma giallastra, le mani si aprivano e chiudevano nello sforzo di succhiare l’ultimo disperato soffio d’aria. Malgradi strappò il cellulare dalle mani di Sabrina. – Tu non chiami un cazzo, hai capito? Via! Jativínni! Vui cca nun siti mai vinuti! Io non vi conosco! – Sta morendo, Cristo santo! Dobbiamo chiamare aiuto! – E peggio per lei! Io me ne vado, cazzo! – urlò Malgradi, e cominciò a raspare in cerca dei vestiti. E Sabrina, di colpo fredda, una iena: – E certo, perché nessuno t’ha visto salire qua co’ noi. Albergo La Chiocciola, hôtel de charme. L’avessero bruciato, i megli morti loro! E a te,

minchiazza, ti dovevo legare a catena, il triplo nodo t’avía ’a fari! E maledetta questa Vickieccazza, e tutta la razza sua, siamo stati troppo teneri con questi stranieri, troppo, gli abbiamo dato il dito e quelli si sono presi il braccio e tutto il resto, e sono fregato, fregato… E infine, con un rantolo, la poverella vomitò un grumo di poltiglia, poi fu il silenzio. – È morta! – sussurrò piano Sabrina. Chiuse gli occhi all’amica e piantò addosso a Malgradi uno sguardo acceso di disprezzo, nausea, schifo. Ma l’onorevole stava da un’altra parte. Dal fondo del cuore gli era germinato un ricordo della remota infanzia calabra, com’è che diceva nonno Alcide, quando andavano a pescare fuori dalla costa a Le Castella, prega, prega, c’arriva ’u pisci, picchí è proprio quando non sai che pesci pigliare che devi pregare , e allora Malgradi cadde in ginocchio, giunse le mani e prese a invocare l’Altissimo, che la sua mano benedetta calasse sul suo umile servo, in convento mi ritiro, o Signore, in convento, ma salvami da questo scandalo, tu che tutto puoi, ti prego, io… – Sí, prega, prega. Mo’ arriva l’angelo custode cor tappeto volante. Ah, parlava pure la zoccola. E si permetteva di insultare. Ma come? Ti porti dietro questa encefalitica che magari ci ha pure qualche malattia e ancora parli? Una furia incontenibile si impadroní dell’onorevole Malgradi. Si alzò, si avventò su Sabrina e la atterrò con un ceffone incattivito. – Sí, sí, bravo, – fece quella senza scomporsi, passandosi una mano sulla guancia. – Che fai? M’ammazzi pure a me? Cosí poi de cadaveri sul groppone ce n’hai due? – Ma che cazzo vuoi, oh? Che ci hai qualche idea, troia? Sabrina si riprese il cellulare e fece una chiamata. – Spadino? Me serve ’na mano. Mezz’ora dopo bussò alla porta della suite un giovane sui ventidue in T-shirt nera e jeans scoloriti. Era piccolo, butterato, brutto come il debito. Sabrina lo fece entrare e indicò il letto. Al ragazzo bastò un’occhiata per capire che aveva fatto bingo. Il cadavere, Sabrina un po’ triste e molto schifata, il tipo sudato che si torceva le mani… Sí, era la sua grande occasione. Meglio di quanto aveva osato sperare quando aveva risposto a Sabrina. – Se lei potesse aiutarci a venire a capo di questa situazione… cosí imbarazzante… Il pezzo grosso si avvicinava, sorriso da palcoscenico elettorale e tremolio da imminente attacco di panico. Purché non si mettesse a frignare come un pupo. – Be’? – Io… ecco… Sabrina, qui, mi ha parlato bene di lei… – Anche a me de te, se è per questo, – sghignazzò Spadino. L’onorevole si cacciò una mano in tasca e ne estrasse un voluminoso portafogli. – Se lei potesse aiutarmi a… A quel punto non sapeva proprio che dire. Soprattutto, come dirlo. Il giovane si divertí a tenerlo sulle spine per un po’, poi annuí e si accese una sigaretta. – Dunque, famme capi’. Tu vuoi che io m’accollo la zoccola morta… E sta bene. Un largo sorriso di sollievo distese i lineamenti dell’onorevole. – Naturalmente! – disse, aprendo il portafogli. – Io pensavo che per il suo disturbo… – E quanto pensavi, tanto per farsi un’idea. L’onorevole gli porse un rotolo di banconote.

– Saranno… – Li contiamo dopo, – lo rassicurò il ragazzo, intascando il malloppo con rapida rapacità. Malgradi si affidò al sorriso che riservava agli interlocutori di prestigio quando la trattativa si era conclusa con reciproca soddisfazione. – Non dimenticherò quello che ha fatto per me, signor… – Chiamame Spadino. E per i ringraziamenti… avoja quanto tempo ci avrai! E mo’ sparisci. Malgradi rinculò verso l’ingresso, bofonchiando altre parole di circostanza. – Me sa che l’amico tuo è proprio ’na merda, – commentò Spadino, quando il campo fu libero. – Non t’immagini quanto. – Damme ’na mano a vesti’ ’sta disgraziata, Sabri’. Con un sospiro, si misero al lavoro. Il piano era di scaricarla in un posto che Spadino conosceva bene. Un posto sicuro. Si doveva dunque farla uscire senza che il portiere della Chiocciola, le cameriere o eventuali sconosciuti incontrati strada facendo sospettassero che la ragazza era morta. Ma anche rivestita e cosparsa di profumo – la serata era calda, e già si cominciava ad avvertire un odorino sconveniente – la lituana sapeva inequivocabilmente di cadavere. Cosí Spadino ordinò a Sabrina di truccarla, e lei ci mise di suo l’idea di farle indossare le lenti a specchio Tom Ford che usava per nascondere le occhiaie quando, dopo una notte brava, le toccava qualche imprevista sveltina. Anche se l’effetto non era esaltante, poteva andare. Si trattava di fare qualche decina di metri, e con un po’ di fortuna tutto si sarebbe risolto per il meglio. La misero in piedi, sorreggendola ciascuno da un lato. Ma quanto pesava, pace all’anima sua! I movimenti erano impacciati, si vedeva chiaramente che non era lei a camminare, ma loro due a trascinarla. – Nun c’è altro da fa’, – disse Spadino. – Al portiere gli raccontiamo che è ubriaca. Magari gli lasciamo cento euro, cosí capisce che è meglio se volta la testa dall’altra parte. Il ragionamento filava. Si avviarono. Il corridoio del quarto piano era deserto. L’ascensore arrivò subito. Si ritrovarono quasi senza sforzo nella hall. Spadino chiese al portiere di tenergli aperta la pesante porta girevole, cosa che l’uomo si prestò a fare con un sorriso mite. Sabrina gli allungò un paio di banconote da cento. Quando lo strano terzetto si fu avviato per la sua strada, il portiere tornò dietro il bancone, mise da parte il «Corriere dello Sport» che leggeva religiosamente ogni giorno per sentirsi piú romano e all’occorrenza – dipendeva dal cliente – piú romanista o piú laziale, e si mise a riflettere. Il suo nome era Kerion Kemani, aveva trentacinque anni, veniva dall’Albania e un dubbio lo tormentava. Doveva molto all’onorevole Malgradi: il posto di lavoro, per dirne una, e la cittadinanza italiana, che da un momento all’altro sarebbe arrivata. Ma sino a che punto può spingersi la gratitudine? Prima di mettersi a rigare dritto, aveva conosciuto anche lui una breve stagione sulla strada. D’altronde, non è che gli italiani gli avessero lasciato molta scelta. Era sbarcato a Bari con la prima ondata migratoria, nel ’91. Si era ritrovato, ancora poco piú che un bambino, ammassato in mezzo agli altri in uno stadio che presto si era trasformato in un recinto di belve. Per pagarsi il passaggio, suo padre aveva venduto tutto ciò che possedeva, la casa, il campo, le poche bestie a suo tempo scampate all’avidità del regime comunista. Nello stadio di Bari la mafia di Valona aveva fatto il resto: sua sorella era andata a battere e lui si era dato da fare nel settore del recupero crediti. Il che equivaleva

a terrorizzare padri di famiglia, spaccare ogni tanto qualche osso, punire puttane riottose. Roba cosí. Poi le cose erano cambiate, certo, ma ci sono ricordi che non si possono cancellare. E se l’esperienza della strada aveva un senso, be’, la tipa con gli occhialoni era tutto fuorché ubriaca. Era morta. Ma, tanto premesso, che fare? Dunque, ragioniamo. Qualunque cosa fosse accaduta nella suite, c’era di mezzo Malgradi. E a lui, Kerion, che gliene veniva? Dopotutto, la benevolenza che l’onorevole gli aveva manifestato non era a fondo perduto. Malgradi lo aiutava a farsi strada in Italia, ma lui in cambio garantiva la massima discrezione alla sua turbolenta vita sessuale. Niente registrazione, niente comunicazioni imbarazzanti alla questura, niente richiesta di documenti e, in piú, tutti i compaesani che riuscivano a ottenere l’ambita cittadinanza – almeno un migliaio sinora – dovevano votare per lui. Quindi, piú che di benevolenza, si trattava di un patto. E i patti, si sa, non sono eterni. O, quantomeno, si possono sempre ridiscutere. «Mo’, tocca a me, onorevole». Fu cosí che Kerion Kemani, portiere albanese e aspirante cittadino italiano, salí nella suite Anna Magnani, s’impadroní di una federa sporca di una sostanza puzzolente la cui natura non ritenne opportuno investigare e di una carta stagnola con residui di polvere bianca, e, armato il cellulare, scattò per completezza qualche fotografia del luogo del delitto. Piú tardi, nel bilocale al Pigneto che da qualche tempo divideva con la sorella, ormai promossa da puttana a badante di un’anziana signora in sedia a rotelle, scrisse un breve resoconto degli eventi e finalmente se ne andò a dormire. Al momento opportuno, tutto questo gli sarebbe tornato utile. Spadino e Sabrina scaricarono il cadavere alla riserva naturale della Marcigliana, pochi chilometri prima di Monterotondo Scalo. Spadino individuò una specie di piccola forra, insieme tirarono fuori dall’abitacolo la lituana e le acconciarono un bel lettino di foglie e rami secchi. – Riposi in pace, amen, – commentò Spadino, e si rollò una sigaretta. – Adesso mi riporti a Roma, per favore? – E rilassate, Sabri’, guarda che bella notte stellata. Stamo solo all’inizio. Me sa che all’onorevole tuo ’sto scherzetto gli costerà un bel mucchietto d’euro. – Io non ci voglio entrare. – E chi t’ha chiesto niente? Anzi: tu a me manco me conosci, chiaro? – Guarda che Malgradi è uno pericoloso. – Chi? Quello? – Ci ha le amicizie giuste, Spadi’, non lo sottovalutare. – Ma non dire stronzate! So’ io quello pericoloso, a’ bella! E pure tu, mo’ basta piagne’, eh? Quel che è fatto è fatto. – Spadino, io voglio cambiare vita. – Peccato, – ridacchiò sarcastico lui, gettando via la cicca. – A me tutto ’sto movimento m’ha messo addosso una voglia. – Ti prego, torniamocene a Roma. – I passaggi se pagano, tesoro, – tagliò corto, sbottonandosi la patta. Sabrina si mise al lavoro. Intorno, intanto, invisibili e silenziose ombre cominciavano a muoversi, attirate dall’odore. Cani

selvatici.

II. Spadino telefonò alla camera dei deputati e chiese di Malgradi. Gli passarono una gentile segretaria. – L’onorevole è in fondazione. – E ’ndo rimane, ’sta fondazione? – Prego? – Dove si trova questa fondazione? – In largo dei Lombardi. Ha presente dov’era la vecchia direzione del Psi? Spadino, che di questo pi-esse-i non aveva mai sentito parlare, ci mise un po’ a relizzare che il posto stava accanto a quel negozio dove, quando gli affari giravano, andava a rifornirsi di scarpe fiche. Ci arrivò con lo scooter, che parcheggiò alla sanfasò vicino a un cartello col divieto di sosta. Sei grandi vetrate fumé disposte sul piano stradale formavano una L che abbracciava la piazza e un lato di via del Corso, e non lasciavano intuire, se non per fugaci passaggi di ombre, che tipo di umanità e di vita si agitassero all’interno. L’ingresso, in vetro antisfondamento, si apriva al passaggio grazie a delle fotoelettriche ed era sormontato da una coccarda tricolore in alluminio verniciato. Una targa recitava: «Rialzati, Roma». Perché, quand’è caduta Roma? E poi chi la deve rialzare, Malgradi? Ma fammi il piacere! I due buttafuori che presidiavano l’accesso erano facce note: culturisti di Ostia che avevano cominciato con le discoteche, quando lui lavorava con il fumo davanti alle scuole. Lo fecero passare con un cenno di saluto. Una mora vaporosa e sorridente gli si fece incontro. – Buongiorno. Posso aiutarla? – Cerco l’onorevole. – Ha un appuntamento? – Siamo vecchi amici. – Posso avere il suo nome, allora? – Gli ho riportato una cosa che ha dimenticato alla Chiocciola l’altra sera, – disse Spadino, toccando lo zaino. – Ci sarà da aspettare. L’onorevole, questa mattina, sta passando da una riunione all’altra. – Io non ci ho niente da fa’. Aspetto. – Se allora mi vuole seguire nella nostra lounge Italia… – Apposta. Spadino si lasciò guidare attraverso un breve corridoio cieco con il pavimento in resina e cemento, e da lí in uno spazio rettangolare senza finestre e molto ampio. Lungo le pareti rivestite in legno e ardesia, scorrevano rivoli d’acqua che veniva raccolta in gocciolatoi d’acciaio illuminati da luci fredde incassate a terra. ’Anvedi, si disse Spadino, ci aveva ragione la buonanima de mi’ nonno: il modo migliore per fare quattrini, a ’sto mondo, è la politica. Circondato da un emiciclo di divani Chesterfield in pelle nera, al centro della sala, sul lato di un tavolo dal piano in cristallo su zampe rotonde con la replica della colonna Traiana, sedeva un tipo mingherlino dal gessato blu, la faccia scavata, che il suo interlocutore interrompeva in continuazione chiamando «avvocato». I due sembravano nel pieno di una discussione tanto animata quanto delicata. – È il nostro coordinatore politico romano, – spiegò la mora vaporosa, – l’avvocato Mauro Lotorchio. Se intanto volesse conferire con lui…

– Facciamo che mi prendo un caffè. La mora gli indicò il lato corto della lounge. Un banco in vetro e acciaio su cui campeggiava una cromatissima macchina del caffè d’epoca. E a cui erano appoggiate due biondine sui vent’anni in top nero, fuseaux bianchi e tacchi a spillo. – Le nostre volontarie sono a sua disposizione, – tagliò corto, risentita, poi scomparve. Spadino si avvicinò all’angolo bar e non ebbe neppure bisogno di chiedere. La mano con le unghie laccate di azzurro di una delle due volontarie gli spinse davanti un espresso. – Ma sul serio qui ci lavori gratis? – L’onorevole dice che la politica è un servizio. Una passione. Non un lavoro. – Ah, sí? Dice cosí l’onorevole? E tu che ti mangi la sera? – Mi porta a cena fuori l’onorevole o qualcuno dei suoi collaboratori. – E ’nfatti. Spadino rivolse lo sguardo verso Lotorchio e l’uomo con cui aveva ripreso a discutere. Nonostante i due si sforzassero di mantenere un tono di voce sommesso, riusciva a percepire la conversazione. Il tipo piativa una casa. Lotorchio proponeva, e l’altro rifiutava. Non gli andava bene niente. Ma quante cazzo di case ci avevano a disposizione? E di chi erano? Tutte di Malgradi? Al primo caffè ne seguí un secondo, poi un terzo. Il tempo passava e di Malgradi nemmeno l’ombra. A Spadino cominciava a montare il sangue alla testa. Lotorchio e il suo interlocutore trovarono finalmente l’accordo e si strinsero la mano. Il tipo levò le tende. Fece il suo ingresso un generale dei vigili urbani in divisa. Individuò Lotorchio, gli andò incontro sventolando un mucchio di foglietti. – Avvocato carissimo! Le ho portato i permessi handicap che l’onorevole mi aveva chiesto. Ma tu vedi! Spadino, schifato, stava per accendersi una sigaretta, in spregio ai cartelli «Vietato fumare» che tappezzavano l’ambiente, quando la voce di Malgradi interruppe la conversazione tra Lotorchio e il papavero dei pizzardoni. L’onorevole teneva sottobraccio un tizio basso e corpulento, vestito di un completo verde marcio, la camicia rosa e la cravatta marrone. Sembravano impegnati nella coda della discussione che gli aveva fatto fare anticamera per un’ora. – Ha capito bene qual è il problema, onorevole? Questa storia delle assunzioni per gli esercizi commerciali sta diventando un tormento. Ma le pare che io non posso dare un bel calcio in culo a un commesso se il negozio è vuoto? Ma dove siamo? In Corea del Nord? A me la gente serve se guadagno. Se no, via, sciò. A casa. Altro che liquidazione, ferie non godute. – Non mi deve convincere. Ho presentato un emendamento che discuteremo con la prossima Finanziaria. Dobbiamo liberare il paese dalla dittatura dei sindacati. Diritti, diritti… Basta che la sinistra si riempie la bocca di questa parola. E i doveri? Dove li mettiamo i doveri? – Posso allora rassicurare in associazione? Lei mi garantisce? – Malgradi ha una sola parola. – E l’associazione tanti voti. Risero tutti di cuore. Finché Malgradi non lo vide. Spadino. Quello della Chiocciola. Gli si avvicinò salutandolo con un tremolio nella voce che non si capiva se fosse di collera o terrore. – Lei che ci fa qui? – Onorevole! – sorrise Spadino. – Ma come le salta in testa? – gli sussurò all’orecchio, accompagnandolo con una mano sulla spalla verso l’ingresso della fondazione. Spadino si piantò a gambe divaricate sul lato del corridoio. Afferrò con entrambe le mani lo zaino

e si fece minaccioso. – Regola numero uno: d’ora in poi ci diamo del tu. Come tutti i buoni amici. Regola numero due: i favori si ricambiano. Quindi, da oggi la roba la prendi da me. E non da quegli stronzi di Ostia che ti parano pure il culo qua di fuori. – Quale roba? – Allora, nun vòi capi’! Tieni, qui nello zaino ci sono i tuoi profumi. Diciamo che ci pippi tu e le tue amiche per una settimana. E diciamo che fanno cinquemila. Me li dài la prossima volta, se non ce l’hai adesso. – E se chiamassi la polizia? – Chiama il vigile che sta di là. Ché è meglio. Spadino allontanò Malgradi con una leggera pressione della mano destra sullo sterno. E dirigendosi verso l’uscita si fermò un’ultima volta. – Ti chiamo io. Tu prepara i soldi. Cominciamo con cinquemila a settimana. Se poi fai qualche festa, io ti posso coprire di roba. Costa un po’ di piú, ma è la migliore. Ah, tanti saluti dalla nostra comune amica. Ti ricordi di Sabrina, vero? Malgradi lo seguí con lo sguardo finché lo vide uscire su largo dei Lombardi. In preda a una vampata di calore, si attaccò al cellulare. L’uomo che chiamavano il Numero Otto rispose al terzo squillo. Malgradi saltò i convenevoli. La sua voce tremava, ai confini del piagnisteo. – Lei conosce… Lei conosce un certo Spadino? – Certo che lo conosco. È uno de Cinecittà. Perché? – Guardi, è intollerabile. Si è presentato qui in fondazione. Si è messo a sbraitare davanti a tutti che io e lei… ecco, sí, insomma… Che certe cose ora vanno fatte solo con lui. – E come c’è arrivato lí, questo Spadino? Che c’entra con una persona come lei? – Appunto, le dico… È inconcepibile. Dice che ha avuto il mio nome da un’amica… Ma io dico, stiamo scherzando? Ecco, vede, volevo un suo consiglio. Perché, ecco, non vorrei altre seccature. Questa è gentaglia che magari parla in giro. – Stia tranquillo. Ce penso io, onore’. Faccia che è già risolto. – Lei è squisito. Davvero. Squisito come sempre.

III. Ernummerootto salí sul suo Hummer V8 nero e controllò l’ora. L’una e trenta. In tempo per l’appuntamento con Spadino. Al solito posto. Si accarezzò con la mano sinistra la zucca calva fino a trovare la sola striscia di pelo alta due centimetri che gli era rimasta in testa e che gli disegnava sulla nuca un perfetto numero 8 in rilievo. «Ernummerootto». Cazzo, che bel nome. Era cominciato come uno scherzo quando, a Ostia, da pischello sbancava nelle sale biliardo tra Levante e Ponente. Quando lo chiamavano ancora Cesare, il nome che gli aveva dato suo padre. Del cognome – Adami – non c’era mai stato bisogno. Quello lo conoscevano tutti e tutti evitavano anche solo di pronunciarlo. Era cominciato quando prima di ogni partita, prima di affondare la stecca, si era messo a sollevare dal tavolo verde la palla – la numero 8, sempre quella – lasciandosela rotolare sulla coccia precocemente calva. Poi era diventata una cosa seria. Molto seria. Lui era diventato una persona seria. La piú seria di tutte. «Ernummerootto» e basta. Padrone di Ponente a soli trentacinque anni. Qualche merda continuava a dire che il merito non era suo. Trent’anni prima, il Libano l’aveva reso orfano. Ancora se lo ricordava quando sull’arenile della Lega Navale avevano tirato su suo padre in una rete, mangiato dai cefali e gonfio come una balena. Dicevano che se non fosse stato per zio Nino, a Ostia di lui e della sua famiglia non sarebbe rimasta neanche la puzza. Va bene, Nino e Libano si erano apparati e gli Adami erano sopravvissuti anche alla banda. Libano era morto. Dandi era morto. Zio Nino invece aveva messo i capelli bianchi e, nel vuoto, era rimasto il solo padrone del litorale. Coca, hashish, eroina. «Tutti avevano da passa’ sotto la cappella de zietto». Napoletani, siciliani, calabresi. Poi – siccome le cose si fanno come si deve – la famiglia si era allargata. Zio Nino si era cresciuto un altro orfano di qualche anno piú piccolo di lui: Denis. Era il primogenito dei Sale, antica famiglia di Ponente, tra le prime a essere deportate a Nuova Ostia dalle borgate di Roma, un matto scocciato. A sedici anni aveva aperto con una biro la faccia di quel professore che si era permesso di ricordare in classe l’origine gitana della famiglia. Denis aveva sposato una discendente degli Anacleti, i padroni di Roma Est. Un matrimonio durato poco, datosi che la poverina era finita contro un pino della Colombo su una Mercedes Slk. E pace pure all’anima sua! Comunque, Adami, Sale, Anacleti, mica cazzi. Il capolavoro di zio Nino. Tre famiglie e mezza Roma in saccoccia. Da est a ovest. Appio, Tuscolano, Cinecittà, Quadraro, Mandrione, Casilino, di là. Eur, Axa, Infernetto, Casalpalocco e Ostia, di qua. Ventotto chilometri di raccordo anulare che sembravano la corona di una regina. Certo, zio non se l’era potuta godere fino in fondo. Stava a bottega da cinque anni, ormai. Associazione per delinquere e traffico di stupefacenti. Ma doveva stare tranquillo. Ormai ci pensava lui, Ernummerootto. Era lui il capo, ormai. E per questo Spadino aveva chiuso. Raggiunse il luogo dell’appuntamento in meno di un quarto d’ora. L’Hummer si lasciò sulla destra Ostia antica e i grandi parcheggi della multisala Extreme, uno dei primi affari di zio Nino. Superò il bivio del porto di Fiumicino dove ci si imbarca per la Sardegna. Alla rotonda dell’aeroporto Leonardo da Vinci, dopo il distributore Shell, girò a destra e prese a costeggiare la strada secondaria che affiancava la pista di decollo R1. I pini di Coccia di Morto gli si pararono davanti come le quinte di un teatro. Buio alle spalle. Buio di fronte. Solo le piccole luci rosse della pista di decollo, oltre le reti di recinzione dell’aeroporto,

indicavano dov’era. Quel posto glielo aveva fatto scoprire suo padre da bambino. In fondo, l’unico ricordo innocente che conservava. Se ne andavano insieme lí sotto al tramonto con una radiolina modificata e si sintonizzavano sulle frequenze della torre di controllo. Ascoltavano i colloqui fra la torre e gli aerei in decollo e atterraggio. Potevano scoprire chi arrivava da dove e chi partiva per dove. Bei tempi. Poi il Libano aveva parcheggiato papà, e lui le basse frequenze aveva imparato a usarle soltanto per ascoltare la madama. Frenò di colpo. La Smart di Spadino era parcheggiata a fari spenti nel piccolo slargo duecento metri all’interno della pineta, all’altezza della curva che faceva piegare la strada verso il mare. Accostò. Scese dall’Hummer e si avvicinò a piedi. Spadino era rimasto al volante, con il finestrino abbassato. Ernummerootto si appoggiò con le mani larghe sul tetto della Smart. – A’ Spadi’, me dicono che te gira alla grande, ma vedo che sempre su un cesso de macchina giri. – Nun ci ho tempo da perde’. Soprattutto co’ te. Che vòi? – Nun ce lo sai che vojo? Eppure sei intelligente, Spadi’. Come fa quel comandamento? Non ruba’… – La donna d’artri. Ma tu nun vòi parla’ de donne. Lo so che l’onorevole è venuto a piagne’ da te. Ci ho già parlato co’ la gente tua. E mo’ te ripeto quello che gli ho detto: io e te nun avemo niente da disse. Malgradi, ora, è roba mia. E se vòi sape’ perché, chiedilo a quer cacasotto, che scommetto che nun te l’ha detto. – E perché non me lo spieghi tu, allora? – Gli è morta una zoccola tra le mani. E io ho fatto le grandi pulizie. Ti basta come giustificazione? Me lo so’ guadagnato, hai capito? E mo’ è roba mia. Fu questione di secondi. Ernummerootto sollevò la mano destra dal tetto della Smart e la introdusse nel finestrino, afferrando i capelli di Spadino all’altezza della nuca. Non avvertí neppure troppa resistenza. Su e giú. Su e giú. Fracassò il volto di Spadino sul volante, fino a spezzarlo. Quindi, tirò fuori il corpo dall’abitacolo. – Ma guarda che bel cocommero abbiamo aperto. Lo trascinò fino a un pino. E ricominciò. Su e giú. Su e giú. Picchiando quella testa, ormai poltiglia, contro il tronco. Erano passati cinque minuti, forse. Fissò la pista R1. Inspirò profondamente l’aria della notte che sapeva di mare e di cherosene. Tornò verso l’Hummer e si fece una solenne pippata. La schicchera arrivò al cervello. Solo allora fece scattare l’apertura elettrica del bagagliaio e ne estrasse una tanica da cinque litri. – Bisogna esse’ previdenti. Mai girare senza benzina di riserva. Poi rimise il cadavere di Spadino al posto di guida, innaffiò il tutto di benzina e accese. Fece rapidamente retromarcia mentre la Smart e il suo conducente diventavano una palla di fuoco. – Buon viaggio, Spadi’. Ci hai ragione. Io e te nun avemo niente da disse.

IV. Fermo sulla pensilina del binario 1 della stazione Tiburtina, il tenente colonnello del Ros dei carabinieri Marco Malatesta strozzò il mozzicone dell’ennesima sigaretta sotto la suola delle sneaker verdi. Aveva assunto il comando della sezione anticrimine da appena due settimane e da due settimane aveva ricominciato a fumare le sue Camel light, gettando al vento tre anni di faticosissima astinenza. Si massaggiò lentamente la tempia destra con piccoli movimenti circolari. L’antica cicatrice pulsava furiosa. Accadeva sempre, prima dell’azione. Marco affondò le mani nelle profonde tasche del giaccone da moto, ottimo per occultare la Beretta 92 Fs. Afferrò lo smartphone. Armeggiò sul display e la foto segnaletica si illuminò a schermo intero. Gennaro Sapone. Una faccia anonima, da impiegato. Era uno dei peggiori killer di Scampia. L’ultimo disgraziato lo aveva spedito al creatore con un solo colpo alla nuca, ma era stato «un errore»: un manovale che rientrava in casa scambiato per un capozona. Da quel giorno Sapone era sparito. Lo cercava la gente del quartiere. Lo cercava lo stato. Quindi lui, Marco. E ora, se la soffiata era giusta, la corsa stava per finire. Su quel binario. Era la prima, vera operazione da quando Emanuele Thierry de Roche, il generale comandante del Ros, lo aveva richiamato in sede, restituendolo alla sua Roma dopo undici anni di vagabondaggi con le missioni diplomatiche della Msu, la Multinational Special Unit. Si conoscevano da una vita, lui e Thierry. E Marco, che a Emanuele doveva tanto, forse tutto, non aveva ancora capito perché fossero diventati amici, loro, cosí diversi. Thierry alto, asciutto, formale, ultimo discendente di Luciano Bonaparte principe di Canino, pronipote di Napoleone il Grande, pensa te, e Marco. Che per tutta la vita sarebbe rimasto un ragazzaccio di Talenti. Forse perché su una cosa la pensavano allo stesso modo: Roma andava salvata. Soprattutto da sé stessa. Malatesta guardò l’orologio e il display degli arrivi. Le ventitre. Ancora cinque minuti e l’interregionale da Napoli gli avrebbe consegnato quel macellaio in fuga. Con la coda dell’occhio controllò un’ultima volta la posizione dei suoi ragazzi lungo il binario. Un finto capotreno in testa alla pensilina. Uno spazzino in coda. E, in mezzo, un ambulante posticcio che armeggiava nella cesta delle bibite. Ringraziando Iddio, non c’era altra umanità a complicare la faccenda. I fari della motrice in avvicinamento bucarono il buio all’improvviso, mentre l’altoparlante ammoniva di restare dietro la linea gialla. Malatesta infilò nuovamente la mano destra nel giaccone, liberò la sicura dell’arma, ne impugnò saldamente il calcio. Il treno si arrestò fischiando. Gli sportelloni si aprirono. In un puzzo di ferodi, ne discese un’umanità variopinta e accaldata. Troppa gente. Dov’è Sapone? Malatesta conosceva bene quella sensazione. L’adrenalina saliva. Ma del killer neanche l’ombra. Al diavolo, pensò con uno schizzo di rabbia rivolgendo le spalle ai vagoni e perlustrando con lo sguardo l’ingresso delle scale mobili. E fu allora che Sapone scese. Marco lo capí dal rumore dei due colpi di calibro 38 esplosi a casaccio dalla pistola che il napoletano stringeva nella destra e che precedettero di qualche istante le grida di una giovane madre. Quell’animale le aveva strappato di mano la sua bimba. Sapone li aveva sgamati. I ragazzi di Malatesta si ripararono dietro i pilastri che sorreggevano la pensilina e puntando le armi di ordinanza intimarono una resa impossibile.

– Carabinieri! Carabinieri! Getta la pistola! Sapone puntò la pistola alla testa del piccolo ostaggio. – Venite accà, sfaccimm’ ’e mmerda. Venite, se tenite curaggio! La bambina piangeva. La madre urlava. Gli altri passeggeri si affrettavano a dileguarsi. Situazione di stallo. – Voglio ’na macchina! – intimò il camorrista. – Oppure alla creatura ci cavo ’n uocchie! Gli ordini, in questi casi, erano precisi e inderogabili. Bisognava ripiegare. Evitare a qualunque costo danni ai civili. I militari abbassarono le armi. Marco scosse la testa. Ci sono cose che vanno fatte, e basta. Prese a muoversi lentamente verso Sapone, da cui lo separavano non piú di una cinquantina di passi. Perfettamente bilanciato, il braccio destro lungo il corpo stringeva la Beretta. Il suo sguardo era piantato sul volto di quell’assassino, perché aveva imparato che se vuoi capire quando un uomo sta per uccidere è nel fondo dei suoi occhi che devi frugare. – Non ti muovere! Non ti muovere, cazzo! T’accido. I’ t’accido a te e alla guagliona… T’accidooo! Piú Malatesta si avvicinava, piú di Sapone poteva avvertire la puzza di sudore e di paura. – T’accidooo, carabbiniere ’e mmerda… T’accidooo! Accido ’a creatura! – Colonnello, stia attento! – gli urlò dietro uno dei suoi. Non rispose. Si fermò a una distanza di non piú di cinque metri, obbligandosi a non incrociare lo sguardo della bimba. Sapeva di non dover sprecare troppo fiato. Le parole dovevano solo fargli guadagnare qualche frazione di secondo. – Sapone, è finita! – Tieni due possibilità, carabbiniere ’e mmerda. O accido a te o alla guaglioncella! – fece quello spalancando occhi da pippato. E fu l’ultima cosa che il napoletano disse. Il braccio destro di Malatesta si levò perpendicolarmente dal corpo come una molla. Sparò senza prendere la mira. Il proiettile spappolò la mano di Sapone. La pistola volò via e lui crollò. Marco si precipitò sulla bambina. L’abbracciò, le asciugò gli occhi. Le sussurrò parole dolci per calmare il tremolio che la scuoteva. – È tutto finito. È tutto finito… La madre gli strappò la bimba dalle mani. Gridò. – Lei è un pazzo! Lo fissò con occhi vuoti, mentre Marco abbassava lo sguardo. Non c’era niente da spiegare. Sapone avrebbe ucciso la bambina. Questa era la verità. Ci sarebbero state polemiche a non finire, certo. E quasi sicuramente un provvedimento disciplinare. E come sempre, Marco avrebbe tirato dritto per la sua strada. Diede le spalle alla donna per occuparsi del camorrista che i suoi stavano medicando. – Tre possibilità. Le possibilità erano tre, pezzo di merda. E la terza è toccata a te. Stava ancora dando spiegazioni a quelli del Ris quando, un paio d’ore dopo, sul cellulare arrivò la telefonata di Thierry. – Pineta in fiamme. Smart bruciata. Cadavere carbonizzato. Vai e dimmi.

Marco recuperò la sua moto Triumph Bonneville 800 bianca nel piazzale della stazione Tiburtina. Piegò docile sulle ultime curve della tangenziale, attraversò il deserto di Porta Maggiore popolato dai soli neon del camioncino del porchettaro e, in un rosario di semafori gialli lampeggianti, superò San Giovanni, infilò via dell’Amba Aradam, piazzale Numa Pompilio e gli archi delle Terme di Caracalla. Assaporò il brivido dei due-tre gradi in meno che un’alba estiva riusciva ad avere dirigendosi verso ovest, la Cristoforo Colombo e il tronchetto della autostrada Roma-Fiumicino. Salendo sulla rampa delle Tre Fontane, rivolse un’occhiata fugace alla ruota rugginosa del luna park, monumento alla sua infanzia e a un tempo che si era fermato, come se quella città non fosse in grado di progredire sulle sue rovine, ma solo di affastellare le une sulle altre. Con il dorso del guanto, Malatesta ripulí la visiera del casco dall’impasto sanguinolento di zanzare e moscerini, regalo dello svincolo per Tor di Valle. Qualcuno aveva pensato di costruirci il nuovo stadio della Roma. Chi sa se era una buona idea. Rallentò all’altezza della Magliana. Un tempo quel quartiere piantato sotto il livello del fiume da qualche genio dell’urbanistica era noto come territorio franco in mano al crimine. Magari i suoi abitanti s’erano anche rotti di una fama cosí nera e, oggi, ingiustificata. E chissà che ne pensavano, si chiese con un mezzo sorriso, di quell’idea che girava da tempo: costruirci una funivia per collegare la Magliana all’Eur. Una funivia. E perché non una stazione termale, e campi da sci con la neve artificiale? Conosceva come le sue tasche la scena del crimine. A Coccia di Morto lo portava il padre da ragazzino. Il pomeriggio, quando usciva dagli uffici del ministero, all’Eur. A vedere gli aerei. Su cui non aveva mai fatto mistero lo sognasse un giorno comandante. Povero papà! Gliene aveva fatte passare di tutti i colori. Lo aveva odiato. Lo aveva distrutto. E solo troppo tardi si era reso conto di quanto fosse stato ingiusto con lui. Un vero bastardo. Capí che era arrivato dalla puzza. La carcassa calcinata della Smart galleggiava in un tappeto di fango, acqua e schiuma antincendio non ancora rappresa. Fermò la moto a un centinaio di metri dai nastri che isolavano il perimetro del rogo. La piegò sul cavalletto laterale. Si sfilò il casco che assicurò lentamente alla sella con il ragno. Infilò i guanti in una delle due bisacce di pelle laterali. Stropicciò i jeans all’altezza delle cosce per liberare il calore dei cilindri. E si avvicinò a passo lento. Aveva imparato a fare cosí dal primo cadavere che aveva dovuto raccogliere, un cinese nel canale di scolo di una conceria clandestina. Era diventata un’abitudine, o forse una scaramanzia. Doveva camminare prima di presentarsi di fronte alla morte. Mostrò il medaglione dell’arma alla pattuglia della territoriale che chiudeva l’accesso alla pineta, e notò il capitano Alba Bruni staccarsi da una piccola folla di tute bianche del Ris e affrettarsi nel venirgli incontro. – Colonnello… – Buongiorno, capitano. – Il Ris sta lavorando da un po’, ma sembra una cosa piuttosto complicata. – Le cose non sono mai semplici. – Mi scusi, volevo dire… La vide avvampare. E provò un po’ di rammarico per lei. C’era molto, troppo di non detto, fra loro. La scia di una breve e freschissima avventura nata e spenta dalla voglia di fuga che immancabilmente lo afferrava davanti alla prospettiva di una «cosa seria». Alba era giovane, determinata, desiderabile. Ma era innamorata. E questo, per Marco, era un problema insolubile. Mantenere le distanze, quando lavori fianco a fianco, può essere una tortura. Ma farle del male con la strategia dell’illusione sarebbe stato crudele. Rivolse lo sguardo verso la carcassa della Smart e fece cenno alla Bruni di seguirlo. Un lenzuolo

copriva il posto di guida dell’auto. Malatesta lo sollevò lentamente. Fu investito da un lezzo di carne e plastica fuse insieme. E che fosse un essere umano quello che aveva di fronte lo indovinò dal teschio e dalla parte superiore della cassa toracica che le fiamme non avevano fatto in tempo a divorare. Per il resto, il fuoco aveva cancellato tutto. – Non è chiaro neppure se è una donna o un uomo, – disse la Bruni. – E qui intorno? Avete guardato qui intorno? – Il Ris ha repertato tre denti vicino a quel tronco di pino laggiú. La Bruni indicò uno specialista del Ris che stava prelevando frammenti di corteccia, in buona parte carbonizzati, da quel che restava di un albero a una decina di metri. Malatesta si avvicinò. – Tenente colonnello Malatesta, anticrimine Ros, buongiorno. Oltre ai denti abbiamo altro? – Attorno alla macchina è pieno di impronte di scarpe, ma che abbiano a che fare con quello che è successo è una pura illazione. Diciamo un terno al lotto, va’. Il casino dei vigili del fuoco per spegnere l’incendio e l’acqua che hanno usato credo rendano inutile qualunque lavoro. È un pantano. Comunque, hanno spento la macchina in tempo per salvare una delle piastrine del telaio. Se siamo fortunati dovremmo riuscire almeno a risalire a chi è intestata la Smart. – I denti li avete trovati vicino a quest’albero? – Affermativo. E, a un primo esame visivo, appartengono al cadavere. – Quindi possiamo almeno dire che non è stato un incidente stradale o che non si tratta di un tossico che si è addormentato in macchina con una sigaretta accesa, giusto? – Affermativo. Direi che ha tutta l’aria di un omicidio. Dovremmo avere i risultati in un tempo ragionevole. Malatesta annuí lentamente. – Dovevano essere anche molto incazzati, – sussurrò. Sempre a passo lento, tornò verso la Bonneville, seguito da Alba. Cercò il cellulare e compose il numero del generale Thierry de Roche. – Allora, Marco? – Diciamo che non ho fatto un viaggio a vuoto. – Pensi sia il caso di tenerla noi questa storia o la lascio alla territoriale? – Direi di tenerla. Almeno per il momento, generale. – Devo sapere qualcosa subito? – Nulla di urgente. Anche perché siamo a caro amico. Ancora non sappiamo se il cadavere è di un uomo o di una donna. – Allora ti aspetto in ufficio. – Comandi. – Dimenticavo…. Come al solito, nella storia di Sapone, te ne sei fottuto degli ordini… – Se fossi stato tu al mio posto… – Guarda che il mio è un complimento, mica un rimprovero. Sfiorò il tasto rosso di fine conversazione e si rivolse alla Bruni, che era rimasta a una decina di passi. – Colazione? – disse indicando la moto. – Non ho un casco. – Perché, ci fermano? La Bruni sorrise. Abbracciò con delicatezza il colonnello accomodandosi sulla sella morbida e bassa della Bonneville. – Un cornetto da Sisto a Ostia?

– Un cornetto da Sisto. Marco pigiò a fondo l’interruttore dell’accensione e si abbandonò alla sensazione di quel seno piccolo che gli premeva sulla schiena.

V. Qualche giorno dopo la morte della lituana, Sabrina aveva ricevuto una telefonata. – Sei tu quella che stava coll’onorevole l’altra notte? – Chi parla? – Un amico. – Sí, sono io. – Sentimi bene, zoccola. Non c’è stata nessuna notte, nessun onorevole, nessuna puttana morta. Sono stato chiaro? – Sí, ma… chi parla? – Te l’ho detto, un amico. Tu dimenticati tutto e continua a vivere in pace. Fatti venire strane idee e te manno a dormi’ insieme all’amica tua… so’ stato chiaro? – Chiarissimo. – Brava. Continua cosí. Sabrina era una ragazza pragmatica. A diciassette anni aveva già ripetuto due classi al tecnico commerciale. I libri le facevano schifo. Doveva inventarsi qualcosa, o sarebbe presto finita come quel sacco informe di sua madre, una fallita che si spaccava la schiena a insaponare la testa di vecchie stronze per quaranta euro al giorno in nero. Ma da dove cominciare? Se si guardava intorno, nel quartiere, a scuola, fra le amiche, vedeva solo apatia e miseria. Quanto al suo ragazzo di allora, Sandro, uno di Quarto Miglio, e ho detto tutto, sebbene non si fosse andati oltre un po’ di sesso protetto, farneticava di matrimonio, figli, eterna fedeltà e altre cazzate del genere. Un altro precoce fallito: se non l’aveva ancora scaricato, era per via della paga che guadagnava come apprendista falegname. Pochi soldi, ma per una pizza e una canna sempre meglio di niente. No. Cosí non si poteva andare avanti. Ci voleva una svolta. E la svolta arrivò. Accadde la sera in cui compiva diciott’anni. Sandro aveva organizzato in suo onore una festa al Palacavicchi, la megadiscoteca alle porte di Ciampino. Il che significava: tavolo nel ring piú lontano dalla pista, di quelli che i camierieri schifano a prima occhiata, una coppia di stronzi amici di lui, il maschio operaio edile, la femmina, e te pareva, sciampista, prosecco nei bicchieri di plastica e fumo che sembrava lucido da scarpe per finire in bellezza. Disperata, Sabrina s’era allontanata dalla comitiva con una scusa. Un tizio che usciva dall’inaccessibile privé sorvegliato dagli immancabili buttafuori gonfi di steroidi l’aveva guardata con interesse, poi le aveva proposto di bere qualcosa insieme da un’altra parte. Lei aveva accettato. Tutto, meglio di quella serata assurda. L’altra parte si era rivelata la villa del tizio a Grottaferrata. Lui si chiamava Enzo e faceva il broker per un pool di compagnie assicurative. Scoparono, aiutati da uno schizzo di coca. Era la prima volta che Sabrina provava la coca. Le piacque. Le piacque, ma le fece un po’ paura. Comunque, alla fine, Enzo le allungò un paio di banconote. Sabrina se le rigirò fra le mani senza capire. – Vabbe’, ci hai ragione, bella, so’ stato tirchio. Tie’, co’ queste fanno trecento, ma nun me chiede’ de piú, eh, ché è un periodo nero per gli affari… e magari, la prossima volta me fai ’no sconto, eh? Sabrina poteva mettersi a piangere. O a ridere. Il tipo l’aveva presa per una puttana. Sabrina

poteva ribellarsi o rammaricarsi. A lei la scelta. Sabrina comprese, in quel preciso momento, che la mano pietosa del destino la stava sollevando dalla miseria per offrirle un luminoso futuro. Quella era la svolta. Quella la vocazione. – Ti lascio il cellulare. Chiama quando vuoi. Se hai qualche amico da mandarmi, è il benvenuto. Cominciò cosí la carriera di Sabrina, in arte Lara, tra le piú affermate escort di Roma. Ma Sabrina era una ragazza pragmatica. Non pensava certo di invecchiare smarchettando. Il suo programma esistenziale prevedeva una decina d’anni di mestiere, non di piú, perché il mestiere, a lungo andare, logora, e non c’è niente di piú triste di una puttana sfiorita che imbocca il viale del tramonto, e magari, orrore, è pure costretta a rimettersi sulla strada. Ancora tre anni e poi basta, stop. Avrebbe aperto un posto tutto suo. Un bar. Un bar di quelli discreti ed eleganti dove quelli con la faccia da corso Trieste vanno a dilettarsi con l’happy hour fra una partita di calcetto e una pippatina. O un negozio di parrucchiera, perché no. E magari alla cassa ci poteva mettere mammà. Ma ora, buonanotte. Il telefonista era stato chiaro. Molto chiaro. Malgradi aveva mosso le sue leve. Spadino era un pazzo se pensava di ricattare l’onorevole. Avrebbe dovuto avvisarlo? Ma perché, poi? Spadino era un pezzo di merda come tutti gli altri. L’unica cosa saggia da fare era starsene in silenzio. E se non fosse bastato? Se avessero deciso che lei rappresentava comunque un pericolo? Sabrina oscurò il sito www.larasecrets.com, pagò un romeno perché si intestasse una scheda prepagata, distrusse il suo cellulare, si tagliò i capelli e si fece bionda. Sarebbe stata sufficiente, come metamorfosi? E intanto, come si metteva con gli affari? Sabrina aveva un’amica. Teresa era una di quelle che avevano abbandonato il mestiere all’apice del successo. Non era come le altre «ex»: non si era trasformata in una monaca di clausura, non posava a rispettabile signora borghese, non aveva ripudiato le vecchie amiche. Aveva un debole per Sabrina, e non solo per lei: a furia di frequentare gli uomini, aveva imparato a odiarli. Le donne erano tutt’altra cosa. Le donne, loro, erano, e sempre sarebbero state, sorelle. S’incontrarono nel centro fitness al Tuscolano che Teresa governava con mano ferrea. Erano ammesse solo donne. – Ma scusa, Sabrina, esci dal giro e amen, no? Non sono piú i tempi dei papponi, chi ti dice niente? – Non posso. Non ho ancora abbastanza da parte per potermelo permettere. – Apri un altro sito. – Pensavo a qualcosa di piú discreto, di piú riservato. Te l’ho detto, non posso spiegarti perché, ma devo stare coperta. Teresa bevve un sorso di centrifuga di mela e carota e ci pensò su. Nel chinarsi, aveva sfiorato delicatamente, come per un gesto involontario, il seno dell’amica. Sabrina lasciò correre. – Dovresti trovare il modo di entrare in un giro di sinistra, Sabri’. – Che? I comunisti? Ma quelli ci odiano! – A parole, fidati. Te faccio sape’ io. Teresa si chinò nuovamente, ma questa volta Sabrina, con uno scatto, si sottrasse alla carezza «involontaria». In fondo, lei non era ancora arrivata a quel punto.

VI.

Nonostante il buio, la sabbia nera di Ostia Ponente era ancora tiepida. Il Numero Otto superò con un certo sforzo la recinzione dell’ultimo chiosco in concessione prima delle banchine del porto turistico. Appoggiò in terra il pesantissimo borsone Technisub e sollevò lo sguardo sul cartello Peter Pan, dipinto con i colori dell’arcobaleno in un vivace corsivo. Fissò la piccola stampigliatura in basso a destra. «Comune di Roma. Municipio XIII. Cooperativa sociale di interesse pubblico. Concessione demaniale n. 24 - 8 maggio 2007 per esclusivo uso arenile a beneficio di infanzia, minori e diversamente abili». Handicappati e regazzini, seeh! Cooperativa, seeh! Con gli arenili non si scherzava. Quegli ottocento metri di spiaggia chiusi a nord dal frangiflutti del porto turistico valevano oro. Oro. Come ogni metro di spiaggia da Ponente ai cancelli di Capocotta. C’era o no una buona ragione per cui, a Levante, l’ultimo stronzo cacciava ormai fino a sei milioni di euro per una concessione triennale? C’era o no una cazzo di ragione per cui la spiaggia di Ponente doveva essere dei padroni di Ponente? Semo o no padroni a casa nostra? C’era o no un motivo per restare afferrati a quella spiaggia, come a un tesoro? C’era, c’era, altroché se c’era. «Waterfront». Il Waterfront, gli aveva spiegato un giorno il Samurai, sorridendo. – Ostia sarà il Waterfront di Roma. Boardwalk Empire. Atlantic City, Italia. Pensa, prova a pensare. Sforzati di elevarti dal marciapiede, ogni tanto. Almeno qualche centimetro. So che per te è quasi impossibile, ma provaci. Non dico sempre. Qualche volta. – Uoter de che? – aveva rinculato lui, che a stento parlava l’italiano, figurarsi l’inglese. Il Samurai, come faceva sempre, lo aveva guardato con un tratto di compassione, rapidamente scolorita in una smorfia di disgusto. E aveva tradotto come si fa con gli analfabeti. – Casinò, alberghi, ristoranti, palestre, yacht, negozi. Questo significa Waterfront, sottocorticale che non sei altro. Ernummerootto era permaloso come una scimmia. Un matto che prendeva fuoco per niente. Ma aveva abbozzato per il rispetto che doveva. E per il grano che quella roba prometteva. «Pensa, zi’, stavolta il regalo te lo faccio io», si era scaldato a colloquio in carcere con Nino, ripetendo come un pappagallino quella parola che non capiva, uoterfront. «Te faccio er uoterfront, zi’!» A una condizione: che la spiaggia fosse ripulita dagli estranei. Perché i comunisti, che erano stati in Campidoglio, avevano fatto piú danni di cento mareggiate. Il mare è di tutti – seeh, bum! – avevano detto. E avevano affidato sei lotti in concessione – mica uno – a una manica di straccioni. Cooperative, le chiamavano. Ma cooperative di che? Di zecche maledette. C’era voluto un po’ di tempo per rimettere le cose a posto. Ernummerootto si era messo a rifornire gratis quell’aspirapolvere e mignottaro dell’onorevole Pericle Malgradi che, l’anima de li mortacci sua, se pippa piú coca che aria, e la scommessa aveva funzionato. Lo teneva per le palle. Le cose erano cambiate. I comunisti avevano sbaraccato, c’era una nuova legge, e diceva che le concessioni sarebbero state rinnovate solo a chi avesse «dimostrato di saper condurre con successo ed efficienza un servizio socialmente imprescindibile come la balneazione sul litorale». Parole che erano musica. Soprattutto, il segnale che bisognava darsi da fare. Perché se, putacaso, lo stabilimento ti va a fuoco, di chi è la colpa? Tua, che non l’hai saputo «condurre con successo». E se qualcun altro, ’na persona di buona volontà, tira fuori il grano ed è capace di «condurre con successo», allora è giusto che la concessione se la becchi lui. È il mercato,

no? E lo dice pure la legge. Quanto «al servizio socialmente utile», ai ragazzini e agli handicappati, uno scivolo, un girello e una piscinetta di gomma nuovi nuovi ce li potevano piazzare pure loro. Ma dove dicevano loro. Lontano dalla spiaggia, dove non davano fastidio. Tanto che gli cambiava. Perciò i chioschi, uno dopo l’altro, erano bruciati. Tutta opera sua, der Nummerootto. Perché toccava a lui. Uno a settimana. Sempre di notte. Sempre con la stessa benzina e lo stesso innesco rudimentale, piazzato nella centralina dei sistemi elettrici degli stabilimenti. Il resto veniva da sé. Asciugati dalla salsedine, capanni, ombrelloni, gazebo bruciavano come carta di giornale. In un attimo. E lo spettacolo dei roghi sul mare era diventato un appuntamento fisso, quasi quanto i combattimenti di cani, ’na magnificenza che apparecchiavano nei garage. Ci venivano da tutta Roma a vedere i pitbull strapparsi la carne a mozzichi. Vabbe’, entravano pure un po’ di euro, ma non era per quello: vuoi mettere lo spettacolo. Guardò le lancette del Rolex Oyster Perpetual. Era mezzanotte passata e doveva darsi una mossa. Peter Pan, a noi due. Spedí un Sms a Robertino, uno dei suoi che si portava dietro da quando era pischello. «Annamo». Il primo fischione salí dritto sulla verticale di piazza Lorenzo Gasparri mentre lui manometteva il quadro elettrico del Peter Pan. Il secondo, un razzo che si aprí in un salice piangente di scintille verdi, bianche, rosse, illuminò la tanica di benzina che rovesciò sul chiosco. Guardò per un attimo i fuochi di artificio esplosi dai terrazzi dei casermoni di piazza Gasparri e via Forni, il cuore geografico di Ponente. Nuova Ostia, la sua Ostia. Un’idea sua, perché, come gli aveva insegnato zio Nino, «se vuoi conta’ qualcosa, non basta fare lo schifo. Bisogna che la gente sappia chi l’ha fatto lo schifo». Peter Pan se l’era lasciato per ultimo. In quello stabilimento, i ragazzini ci andavano davvero e il lavoro di distruzione richiedeva uno straordinario. Lo scivolo di due metri, fatto a forma di castello medioevale, e i giocattoli, trattori e cavallucci di plastica, pile di secchielli e formine, e i surf, i Gormiti e i Pokémon… insomma, un lavoraccio di mano, e prima di accendere. L’ascia la trovò accanto agli estintori. Nuova di pacca. Perfettamente bilanciata, con ancora il filo di fabbrica. Il manico in legno chiaro, la testa rossa. La impugnò con la destra e la sollevò sopra la spalla, all’altezza dell’orecchio. Quindi caracollò verso lo scivolo con una voce che si sforzava di essere in falsetto e le gambe larghe, da orco dei cartoni animati. – Bimbetti, bimbettiii cariii, ariva Capitan Uncino, arivaaa. Tic, tac, tic, tac. In meno di dieci minuti, fece a pezzi il castello dei sogni con furia metodica. – Oh, oh! – trak. – Oh, oh! – trak. Accompagnava ogni colpo con un motto di sorpresa e un sorriso. Poi venne il turno della spianata dei trattori, dei cavallucci, dei surf. Infine, pescò nella tuta una sigaretta, e accese due volte con lo Zippo di metallo opaco con il profilo nero del duce. Prima la sigaretta. Poi Peter Pan. I vapori di benzina e la luce delle fiamme inghiottirono il chiosco in un attimo, mentre lui attraversava il lungomare e scaraventava la borsa nel bagagliaio dell’Hummer. Mise in moto mentre una fontana color lillà chiudeva i giochi di fuoco nel cielo di Ponente. L’Off-Shore, regno del Numero Otto, non era lontano. Proprio sulla spiaggia di Coccia di Morto. Mille metri quadri di legno e vetro sul mare. Un assaggio di quello che sarebbe stato «er uoterfront» di Ostia. Il nome Off-Shore l’aveva scelto Ernummerootto, alla faccia del Samurai che diceva che lui era ignorante come una zappa. Quattrocento metri di bar attraversato perpendicolarmente da un bancone a forma di fascio littorio. Una palestra con cinque tapis roulant che guardavano la battigia, un ring da boxe e una tale quantità di pesi da tenere in forma una squadra olimpica. In un angolo,

verso il magazzino dove tenevano gli alcolici e, al bisogno, i ferri, e che aveva chiuso con due porte blindate a combinazione, aveva attrezzato anche un centro tatuaggi tribali, Er Geko, con lettini con materassini ad acqua. E, naturalmente, aveva ricavato lo spazio per tre dark room che sembravano una collezione di camere da letto di Scarface. La Conchiglia, l’Amaca, la Giostra. Quel giochetto gli era costato un fischio. Ma non di materiali o manodopera, ché per lui la gente lavorava gratis. Di grasso con cui ungere un generale della municipale, ’sto animale. Un piranha. Centomila subito in pezzi da dieci. Una romena carrozzata per un «completo» per i diciotto anni del figlio e un gommone a disposizione per l’estate nel canale dei Pescatori, con due motori Yamaha da duecentocinquanta cavalli. Ma con i permessi, almeno, era in regola. Erano le tre del mattino, ormai, e l’Off-Shore era pieno. Ernummerootto puzzava. Di legno, plastica bruciata e sudore. Tirò le chiavi dell’Hummer ad Albin, il parcheggiatore romeno che si stava rollando un cannone lungo quanto una mano. – Se me la impolverano me t’enculo. Si infilò nella Conchiglia e trovò Morgana che si stava facendo una striscia china sul tavolino di cristallo di fronte al lettone a forma di ostrica. Gran culo che aveva quella bambina. Piccolo, alto. Aveva vent’anni ed era l’unica femmina di Ponente che aveva voluto nella batteria. Ma non perché se la scopava. Perché sulla strada era cattiva come una strega, e nel letto docile come una geisha. Le infilò un dito in mezzo alle chiappe ridendo e le frullò con la lingua in un orecchio. – Me vojo rilassa’. Ma dopo. Me faccio ’na doccia e se vedemo de là. Chi c’è? – Un po’ tutti. C’è pure Rocco. – Anacleti? – Sí. È venuto insieme a quel sorcio di Spartaco. – Er giornalista? – Sí, Liberati. M’ha detto che era tanto che non passava a saluta’. – Vorrà quarche sòrdo, quell’accattone. Morgana uscí. Lui si fece una doccia veloce, massaggiando a lungo il collo e il petto su cui rideva, tra i peli, una faccia da joker. Si mise una camicia bianca, tirò due strisce e si diresse verso il bar. Rocco Anacleti, il capo degli zingari di Roma Est e padrone di Spadino, gli si fece incontro abbracciandolo, aprendosi la strada a fatica in una bolgia di ragazzine pippate, avvocati, dottori e qualche coatto ripulito di Fiumicino. S’era conciato con una camicia rosa e un paio di pantaloni in lino bianco da pascià che lo facevano piú grasso e piú basso di quello che era. Gli sembrò un abbraccio sincero. Di Spadino, evidentemente, non sapeva niente. Ma proprio niente. – A posto? – Tutt’a posto. – È una vita che ti stavo aspettando. – Ci ho un sacco de cose da fa’. Nun so a chi da’ i resti. – Dillo a me. Cinecittà è diventata un circo. Troppa gente che alza la cresta. Anche gli zammammeri pensano di pote’ fa’ come dicono loro. Nun ce se crede. – Già, troppi fenomeni in giro. – A proposito… hai visto Spadino? Ernummerootto finse di cadere dalle nuvole. – Io? No, perché? Rocco lo fissò storto.

– Dice che doveva vedersi con te. Ernummerootto cominciò ad avvertire un inquietante rumore di fondo. – Con me? E quando? – Boh, ieri, mi pare. Comunque, è sparito. E dice che alla Pineta hanno trovato uno bruciato. – Sí, ho sentito dire… Ma che c’entra Spadino? – Quello bruciato stava dentro una Smart. E Spadino ci ha una Smart. – E che te devo di’? Provo a chiedere in giro. Oh, ho visto che te sei portato Spartaco. – E indovina che je serve? – E che je pò servi’ a quello? Sòrdi, no? Dal bancone del bar, dove sorseggiava un mojito – scroccato, sicuro, pensò Ernummerootto – Spartaco si sbracciava in un saluto da Giuda. Era un ex camerata sui cinquantacinque, con un passato da campioncino di kick-boxing finito presto e male. Era stato radiato dalla federazione per aver mandato in coma un avversario. Gli aveva sfondato la scatola cranica con un calcio mentre era al tappeto. Si era gettato nel giro delle radio, e per tutti era Spartaco il giornalista. La voce di Radio Fm 922, «la marcia su Roma, dimme te, ’sto cojone». Il giornalista. Seeh. Era il pupazzo di chi lo pagava, Spartaco. Il cagnolino del Samurai, che aveva conosciuto da pischello quando c’era la guerra coi comunisti. Sòrdi, sòrdi. Era l’unica parola che capiva. L’unica cosa che cercava. E infatti era lí per quello. – Favoloso ’st’Off-Shore. Sempre piú bello, – fece. – Spartaco, non ci ho tempo. Dimme che te serve. – No, è che sto un po’ giú con gli sponsor. Magari, se me dài un diecimila, te faccio gira’ l’OffShore sulla radio per un mesetto. Magari, fai pure qualche bell’interventino in diretta, eh? – Mille. E nun te fa’ rivede’. – Sei un amico. Non rispose neanche. Afferrò Morgana per un polso, trascinandola via da un tipo che le stava sbavando intorno da un po’. – Ora mi va.

VII.

– Sono l’amica di Teresa. – Ah, Teresa, Teresa, perché sei tu, Teresa? Venga, si accomodi, non resti sulla porta. Lei è… – Justine. – La Justine del Divino Marchese o la piccola volpe ebrea del Quartetto di Alessandria? Ma in fondo, che importa? Venga, venga, cara. Il Professore ai suoi tempi era stato famoso, molto famoso. Tanto famoso che persino Sabrina aveva sentito parlare di lui. Proprio qualche sera prima del loro incontro, Sky aveva mandato una vecchia pellicola tratta da uno dei suoi romanzi di successo. Il Professore vi recitava la parte di sé stesso: un intellettuale svagato, mezzo filosofo e mezzo comico, che sapeva come farti ridere delle miserie e dei paradossi dell’esistenza. Però, pensò Sabrina, quando lui l’accolse nel suo grande appartamento sulla Nomentana, però quant’è invecchiato! Il cinquantenne brizzolato dai profondi occhi azzurri s’era trasformato in un vecchio curvo e tremolante che ogni due passi doveva appoggiarsi a un mobile per non perdere l’equilibrio. Dalle pareti occhieggiavano beffarde le foto di scena incorniciate che mostravano il Professore all’apice del successo. Il corridoio che percorsero per approdare a un vasto salotto che s’apriva su un’enorme terrazza era disseminato di volumi ordinatamente accatastati in librerie dalle forme astruse. C’erano quadri incomprensibili e sculture inquietanti. – Pascali… Bacon… Tano Festa… Il Professore snocciolava nomi che a Sabrina suonavano sconosciuti. Il tono con il quale illustrava i suoi tesori era stanco, rassegnato, vagamente ironico. Come dire: ma che spreco a fare il fiato con te, che sei ignorante come una capra? – Mi attenda un attimo, cara. Finisco di prepararmi e sono subito da lei. Immagino che Teresa le abbia detto di che cosa si tratta… Justine. – So tutto, professore. Può fidarsi di me. – La fiducia è una cosa seria, – salmodiò il Professore, di colpo cupo. Poi sul suo volto incartapecorito spuntò un sorriso furbo, e il Professore si mise a canticchiare: «Galbani vuol dire fiduciaaa…» Teresa l’aveva avvisata: «È un po’ strano. Vive nel passato. Je rode che quelli del cinema non se lo filano piú. Ma è ricco sfondato, e a suo modo gentile. Se ci saprai fare…» Ricco sfondato. Be’, la casa prometteva bene. Sabrina memorizzò sull’iPhone i nomi degli artisti citati dal Professore. Piú tardi avrebbe cercato su internet le quotazioni di mercato. Magari quegli sgorbi valevano migliaia di euro. – Eccomi qua, tesoro. Ti dispiace chiamare un taxi? – Non dimentica niente, professore? – Ah, sí, certo, come no, cara, scusami, scusami tanto… avevamo detto ottocento, mi pare, vero? – Sí, professore. – Zio Mimmo, cara, per te sono solo zio Mimmo. Se lui era zio Mimmo, lei era la nipote di provincia che studiava Economia alla terza università all’Ostiense, ed era temporaneamente sua ospite in attesa di trovare una sistemazione piú adeguata a una giovane studentessa. Da quell’accordo discendevano la camicetta casta e i jeans non firmati, la giacchettina rossa con una spilla non eccessivamente vistosa, il filo di trucco discreto e le scarpe basse.

«Niente spacchi e niente tacco 12, niente push-up e copriti il tatuaggio. Ricordate: sei una de sinistra». Ancora Teresa. Ma Teresa esagerava. Il colpo d’occhio che si offrí a Sabrina quando lei e il Professore fecero ingresso nell’attico del produttore Eugenio Brown non le sembrò cosí devastante. C’erano comunisti maschi in giacca e cravatta o foulard. Ma c’erano anche quelli in sneaker Merrell e lino destrutturato di Etro. C’erano comuniste sobriamente coperte, ma pur sempre con trucco sapiente, e c’erano pischelle scosciate che lasciavano balenare brandelli di intimo sexy e non disdegnavano tacchi da vertigine. C’erano insomma soggetti che non avrebbero sfigurato a un party degli amici di Malgradi, e altri che non avrebbero superato la prima occhiata dei buttafuori. Se si fosse bardata come d’abitudine, con quel piglio aggressivo e mignottesco che costitutiva la sua seconda pelle, avrebbe evitato di sembrare ciò che sembrava: una scialba, insignificante sciacquetta. La perfetta nipote di provincia. Il Professore la presentò a un po’ di gente. Tutti la accolsero con saluti gentili ma freddi, e non mancarono le occhiate ironiche. Seeh, la nipote, dicevano quegli sguardi. A’ professo’, e annamo! Hai fatto il tuo tempo, ma sei comunque uno dei nostri, e quindi accettiamo queste tue piccole debolezze senili. Ma te la potevi scegliere meglio, ’sta nipote. Esaurita la prima tornata di saluti, il Professore si schiantò su una poltrona «disegnata dal povero Sottsass nel ’73» («Sossas, poltrona, ’73?», annotò diligentemente Sabrina sull’iPhone) e prese a raccontare le sue abituali storielle. Quattro o cinque sfigati lo ascoltavano, sinceramente estasiati. O forse, chissà, fingevano: per pietà o vai a sapere perché. Sabrina sedeva accanto a zio Mimmo, rideva se gli altri ridevano e lasciava che il vecchio le accarezzasse distrattamente la coscia quando credeva che nessuno lo stesse guardando. Ottocento erano pur sempre ottocento, ma che palle! Era chiaro che il cuore della festa stava altrove. Magari sul terrazzo che affacciava su piazza Vittorio. Nel cuore di quell’Esquilino dove Sabrina si guardava bene dal mettere piede, covo di merdosi immigrati che però il Professore e i suoi amici trovavano «delizioso, irresistibile, cosí vivo e pulsante, la vera Roma multietnica…» Ma de che? Qua nun se trova ’n italiano manco a pagallo. Tutti cinesi, so’. Finalmente il Professore avvertí l’urgenza di una puntatina al bagno. Sabrina ne approfittò per sgattaiolare in terrazza. Era una chiara notte di fine giugno, ma lei aveva altri pensieri per la testa. Il Professore era solo il passaporto per la sinistra, ma meglio ’na chiodata in fronte che un’altra serata cosí, e quindi tocca mòvese, Sabri’. Si mise a girovagare fra i crocchi di gente in piedi, si avvicinò ai tavolini. Dappertutto parlavano parlavano parlavano. Parlavano con un impegno e una passione che sembrava stessero decidendo il futuro del mondo. – Bisogna convertirsi al chilometro zero. Assolutamente. – Sono d’accordo con te. Io ho cominciato a bere soltanto vino libero. Basta solfiti. Sono una peste. Hai idea di quante schifezze si possono mettere oggi, legalmente, in una bottiglia di vino? Sino a ottanta componenti, ma ti rendi conto? – Ho adottato un gatto. Poverino, era una settimana che miagolava davanti alla porta. Mi piangeva il cuore a lasciarlo là tutto solo e abbandonato. E poi costa solo quattrocento euro fra vaccini, veterinario, e castrazione. – Quattrocento euro? Me li ha presi Luisa per portare la cycas all’istituto fitoterapico. Per curarla, diceva lei. – Ah, e come è andata? – L’ha ammazzata in soli sei mesi.

Ma che sarà ’sta Chicas, ’na massaggiatrice? Ma che era malata, ’sta ragazza?, pensò Sabrina. Addentando un tarallo al peperoncino, un uomo calvo, come i buttafuori che si vedevano alle feste di Malgradi, sospirò e disse: – Sto leggendo Pastorale americana di Roth. Un capolavoro. – Ti piacerebbe scrivere una cosa cosí, eh, bello! – Darei dieci anni di vita. – E secondo te qualcuno se li prenderebbe? – Pare che Garrone voglia fare un film su Corona, il fotografo… – Notizia Findus, mia cara. Matteo abita qui sotto. Ci ha pensato su per un bel po’, ma poi ha deciso di lasciar perdere. – Meno male. E si vede che Corona faceva schifo pure a lui. – Il fatto è che Corona significa la televisione, il bungabunga, tutte quelle cose lí, e quelle cose sono l’orrore, e l’orrore non si può rappresentare. Nemmeno Fellini ci riuscí, ai suoi tempi. – La cosa piú terribile è che tutto questo sembra non aver mai fine! – È anche colpa nostra, cara. Siamo troppo teneri. Abbiamo smesso di fare opposizione da quel dí. Un tipo basso, grasso e barbuto attaccò una predica sulla politica. A Sabrina veniva voglia di sbadigliare. La noia la stava sommergendo. Parlavano di cose astruse, le zecche, e quando pure dicevano qualcosa di comprensibile, lo facevano in un modo che… come se fosse solo ed esclusivamente «cosa loro». E tutto il resto del mondo, boh! D’altronde, nessuno di quelli ai quali si era avvicinata aveva fatto il minimo sforzo per coinvolgerla. Teresa gliel’aveva detto. Teresa era stata perentoria, sul punto. «Quello è un circolo chiuso. So’ tutti compagnucci, non so se mi spiego. Entrarci è difficilissimo. ’Na parola sbajata e te sbattono fuori!» E l’impressione era proprio quella. Circolo chiuso. Sabrina si scoprí a rimpiangere l’allegria trucida del giro di Malgradi. Là, in mezzo a quei satiri intossicati di Viagra, non si era mai sentita fuori posto. Loro erano accoglienti, avvolgenti, protettivi. Certo, alla prima occasione te scaricavano e tanti saluti. Ma intanto, era grazie a loro che era arrivata sin dove era arrivata. E senza di loro si sentiva perduta. Ma alla fine, ’ndo’ cazzo sei arrivata, Sabri’? A tenere la mano a un vecchio bavoso per ottocento euro? Frugò nella borsetta con gesto nervoso. Una botta di coca, quello ci sarebbe voluto, per reggere lo stress e la delusione. Ma anche su questo Teresa era stata categorica. «Scòrdate la coca. Non è che non ne giri un po’, ma se il giro largo, diciamo cosí, è chiuso, quello delle narici è addirittura impenetrabile!» Perciò, Sabri’, pace, e famose ’na bella paja. – Permette? Sabrina quasi non credette ai suoi occhi. Qualcuno si era accorto di lei. Le si stagliava davanti l’alta figura di Eugenio Brown, il padrone di casa. In mano, un accendino acceso. Era un bell’uomo. Sui cinquanta, alto, brizzolato, in completo Armani. Produttore. Parola che esercitava su Sabrina un indubbio fascino. Produttore significa cinema. Magari televisione. Perché no? Lei a fisico stava messa bene, scrupoli non ne aveva mai avuti. Perché no? Non sarebbe mica stata la prima a passare dal letto al palcoscenico. Perché no? Eugenio Brown. Se devi venderti, tanto vale farlo con qualcuno che ha un minimo di attrattiva. – Grazie, non riuscivo a trovare l’accendino.

– Si sta annoiando? – No, è che… – I miei amici a volte sanno rendersi detestabili. – Il fatto è che non conosco nessuno. – La capisco. Gli inizi sono sempre difficili. Sabrina sfoderò il suo sorriso piú seducente. Eugenio Brown le mise una mano sul braccio. – Le piace questo posto? – È ’na bomboniera. Eugenio Brown le sorrise. Era la prima volta che qualcuno definiva i duecentoventi metri quadri dell’attico «una bomboniera». La fissò con maggiore interesse. Era decisamente un bell’uomo. Lei sentiva il desiderio in lui. Ma non si decideva a fare la prima mossa. Sabrina provò un moto d’impazienza. Posò una mano su quella di lui. Amplificò l’effetto seduzione del sorriso. Le labbra di Eugenio Brown si schiusero. Un soggetto peloso in camicia a quadretti lo afferrò per un braccio, costringendolo a voltarsi. – Scusate. Eugenio, ti cerca la Baldini. – Sí, arrivo. A dopo, signorina… – Justine. – Justine, già. Il produttore si eclissò, puntando agile verso una tavolata seminascosta da un folto banano. Camicia-a-quadri si accese un sigaro toscano. Sabrina se lo sarebbe mangiato vivo, quello stronzo. Le aveva portato via la preda sul piú bello. Si voltò per tornare dal Professore, ma camiciaa-quadri le sbarrò il passo. Sorrideva, il carognone. – Permette una parola, signorina Justine? O dovrei dire… Lara? Sabrina si guardò intorno. Sembrava che nessuno badasse a loro. Alzò una mano e fece per affondarla in quel volto pacioso. Voleva lasciargli un segno, a quell’animale. Sfregiarlo, magari. Tanto, ormai, era chiaro che la situazione era irrimediabile. Ma lui le prese la mano, se la portò alla bocca, vi depose un piccolo, umido bacio. – Non preoccuparti. Non sono pericoloso. A me piacciono gli uomini. Vieni, prendiamo qualcosa da bere, devo parlarti. C’era come una curiosa delicatezza in quel tizio, che ebbe il potere di smontarla. Lo seguí, docile, sino al tavolo dei liquori. Camicia-a-quadri versò due whisky e la pilotò verso un angoletto deserto del terrazzo. Si chiamava Fabio e faceva lo sceneggiatore. Era gay, che è il modo che usano quelli di sinistra per chiamare i froci, e l’aveva riconosciuta anche se con i capelli tinti e accorciati. – Riconosciuta come, scusa? – Dal sito. Eri tu quella di www.larasecrets.com, no? – Scusa, ma se sei fro… se sei gay, com’è che… – Ah, ma io sono essenzialmente libertino. – E cioè? – Mi piace tutto quello che ha a che fare col sesso. – E allora? – E allora volevo parlarti di Eugenio Brown.

– Che, pure lui? – No, anzi, a Eugenio piacciono molto le donne. Sabrina tirò un sospiro di sollievo e apprezzò, se non altro, lo stile. Per Malgradi e i suoi non esistevano donne. Esistevano solo fiche. – E allora? – È rimasto vedovo da poco, – ricominciò Fabio. – Lei se l’è portata via una lunga malattia. Erano una coppia molto unita. Eugenio è uno dei pochi produttori che ancora credono nel prodotto di qualità. – Sí, ma a me? – È una bella persona. Ed è molto fragile. Non fargli del male. Tutto qui. L’irsuto sceneggiatore si ritirò con un sorriso che voleva essere amichevole ma che diceva pure: io t’ho avvisata, da amico, ma potrei diventare un nemico implacabile. Capirai che paura, ’sto orango. Sabrina buttò giú il whisky e fu presa da una botta d’eccitazione. Uomo fragile. Gli uomini fragili possono riservare grandi sorprese. Gli uomini fragili s’innamorano. Gli uomini fragili passano facilmente dal ruolo di cliente a quello di amante. Eugenio Brown veniva verso di lei. Ma ora Sabrina non era piú impaziente. Ora sapeva che presto l’avrebbe avuto in pugno. Era il momento di tirarsela un po’. Rientrò precipitosamente in casa. Individuò un taccuino e una penna, strappò un foglietto, ci scrisse il suo numero di cellulare. Poi, visto che nessuno le faceva caso, perlustrò l’appartamento finché, nel soppalcato in cima a una stretta scala a chiocciola, riuscí a individuare la camera da letto padronale. Lasciò il foglietto in bella vista sul copriletto con motivi indiani e tornò dabbasso. Il Professore si era addormentato. Un filo di bava gli colava sul foulard. Sabrina lo riscosse con dolcezza, chiamò un taxi, lo riportò a casa e lo mise a nanna, da brava nipotina. Faceva parte dell’accordo. L’unico extra che concesse fu una palpatina alle tette. Il Professore, grato, sganciò un pezzo da duecento. Ora non restava che attendere. Fu un’attesa breve. Eugenio Brown telefonò la mattina dopo.

VIII. L’Anagnina aveva l’odore dolciastro e inconfondibile di quei luoghi in cui il fetore degli uomini e del cemento non ha ancora avuto del tutto ragione della campagna. Ad Abbas ricordava la sua Teheran. Certo, visti da via Mongrassano, i Castelli non erano i monti Elburz, e la terrazza di verde sulla quale si indovinava Frascati non aveva né la forza né l’altezza cupa del Tochal. Ma l’aria, quella sí era la stessa. Soprattutto adesso che era estate. Impastava le mucose della bocca come sabbia. Seccava le narici. Grattava la gola con quel retrogusto di ossido di carbonio e bitume, venato com’era da un sentore di carogna e rifiuti in decomposizione. La sua bottega faceva angolo con via del Casale Ferranti. Oltre l’ultima stazione della linea A del metrò. Dove le pecore erano state cacciate dalla fame di cubature. Un tempo quel buco doveva essere stato un box auto, ma il ricettatore dal quale l’aveva comperato giurava sull’accatastamento come «laboratorio artigiano». Abbas si era adattato. Aveva foderato le pareti di cartoni e giornali per isolarsi da un’umidità cattiva e perenne. Il piano da lavoro era un vecchio bancone di macelleria fissato su cavalletti arrugginiti. In un allegro disordine, i blocchi di marmo facevano da base a ripiani in ciliegio grezzo, rovere, e ai listelli di ebano su cui esercitava l’arte che era stata del nonno e del padre. Intagliava da quando era bambino, e quelle mani da pianista, dalle lunghe dita affusolate, gli ricordavano ogni giorno la sua fortuna. Anche ora che, a sessant’anni, la presa sui mazzuoli e gli scalpelli si era fatta meno vigorosa e la sua pelle bruna si era fatta come carta velina, mettendo in rilievo vene e tendini. Non aveva mai capito se la clientela apprezzasse di piú le sue capacità o il prezzo per cui le svendeva. Ma dei suoi bozzetti non sembrava fregasse a nessuno. Per dire, con quel Rocco Anacleti lí, quello che viveva alla Romanina, quello che tutti nel quartiere salutavano con la deferenza che si deve a un tiranno, non era andata bene. Con un certo orgoglio, gli aveva mostrato i disegni del nonno stampati su pergamene che conservava in un album di cuoio. – Che sarebbero, questi? – Motivi floreali persiani. – E pensi che mi metto questa frociata sulla testiera della camera da letto? Questa è Roma, non è casa tua. A letto io ci scopo. Si era dovuto arrangiare con un satiro dall’enorme fallo in rilievo. – Lo voglio di wengè. E deve puzza’ di antico, – gli aveva ordinato Rocco. Ma quando aveva visto il lavoro finito, era andato fuori di testa. – Che sono, un negro? Mi vedi in faccia? Di che colore sono io? Sono negro, io? Schiariscimi questo legno del cazzo. E subito! Abbas aveva dovuto cominciare da capo. Con del rovere sbiancato. Ed era venuta fuori una tombola. A maggior ragione per quella boiserie di sconcertante volgarità. Mille euro. Che ancora non aveva visto. Ma che non si era stancato di chiedere. Prima gentilmente, al telefono. Poi, addirittura, con una lettera all’indirizzo di Rocco Anacleti, in cui, in un profluvio di Lei e lettere maiuscole, non aveva mancato di segnalare che, «in assenza di una gentile risposta», si sarebbe rivolto a un legale del sindacato. Al semaforo in fondo alla via Tuscolana, Max schiacciò la leva del cambio della Street Triple con un gesto di insofferenza. Il clac di innesto della prima gli provocava sempre un piacere sottile. Perché era il segnale nervoso di quello che doveva ancora accadere. Faceva un caldo porco per essere notte. Il fiato dei centootto cavalli gli appiccicava i jeans alle cosce, la bandana del

sottocasco integrale era ridotta a una spugna intrisa di sudore, nelle sneaker rosse i piedi friggevano come toast. Si profilarono i Castelli. Max detestava i Castelli. Gli erano sempre sembrati una diga precaria eretta su un formicaio. Qualche sera prima, su Radio Fm 922, Spartaco Liberati, the Voice of Rome, se n’era uscito con la nostalgia del ponentino. E non c’è piú il vento de ’na vorta, e tutto è affogato nei palazzi… Ah, i Castelli, il Ponentino… puttanate buone per le guide turistiche. La verità era che si sentiva a disagio. Rocco Anacleti gli aveva detto che c’era una questione da sistemare con un iraniano. Rocco Anacleti era nervoso. Sarebbe toccata a Spadino, ma Spadino era sparito. Rocco era nervoso e cominciava a fare strani discorsi. Il suo compito: guardare le spalle a Paja e Fieno. Quei due non gli piacevano. Quel lavoro non gli piaceva. Rocco Anacleti non gli piaceva. Presto avrebbe dovuto fare delle scelte. La «punta» era di fronte al Centro sperimentale di cinematografia. Appena oltre i parallelepipedi in vetro e cemento dove il ministero dell’Interno aveva traslocato le direzioni generali dell’anticrimine, della polizia di prevenzione, della stradale. Max tirò la seconda fino a sentirla urlare e, superando il grande cancello elettrico sormontato dalla targa ministeriale, come sempre diede un colpo di clacson. Come si faceva a non godere di quel mucchio di guardie assediate in un quartiere in cui non controllavano niente? Riconobbe la Bmw cabrio nera ferma all’incrocio con via delle Capannelle. La coda di cavallo bionda di Paja e i capelli neri rasati alla nuca di Fieno. Erano due cani rabbiosi che non arrivavano ai venticinque. Piú giovani di lui di qualche anno. Due merde pippate fino al midollo. E come lui cresciuti a Cinecittà. Avevano cominciato con le pasticche ai ragazzini, quando comandavano i napoletani. Poi si erano messi a scodinzolare con gli Anacleti, la dinastia di zingari antica quanto il Colosseo che spingeva ogni singolo grammo di coca e hashish fra Tor Bella Monaca e piazza Tuscolo. Fra il Casilino, Cinecittà e l’Appia. Gente seduta su una montagna di grano, che di gitano conservava solo la storia, qualche pagliacciata in costume, i matrimoni esagerati, l’avidità e una caterva di figli, cugini e nipoti iscritti con lo stesso nome all’anagrafe. Rocco Anacleti. Il padrone di Paja e Fieno. Il padrone di Max. Questo, almeno, credeva lui. Paja fece un gesto a Max con l’avambraccio che sporgeva dal finestrino della Bmw. La sua faccia esprimeva l’entusiasmo del paziente all’inizio della seduta dal dentista. – A’ Nicce, ce l’hai fatta. Hai visto, Fieno? Il filosofo s’è degnato. Quel soprannome, Nicce, doveva lusingarlo, ricordargli che la sua tesi di laurea su Kant non era stata soltanto un favore alla madre vedova che per sua fortuna non c’era piú, ma gli faceva andare il sangue alla testa. Gli ricordava che sul marciapiede erano tutti uguali. Un’altra di quelle troiate a cui doveva fingere di credere. Rispose a Paja con un cenno del casco integrale e si mise a seguire la Bmw per quel breve tratto di Tuscolana fino all’incrocio con via del Casale Ferranti. Ad Abbas piaceva lavorare di notte. Perché era la sola cosa alla quale non si era abituato in tanti anni in Italia. Che il lavoro dovesse seguire il ciclo degli uffici, i regolamenti del comune e non, al contrario, il ritmo del corpo o del bisogno. Aveva lasciato la saracinesca della bottega alzata a metà, e aveva trafficato accanto al piccolo stereo che gli aveva regalato Farideh, la sua bambina diventata troppo bella e troppo adulta. Pensava spesso, guardandola, a quando la madre se ne era andata. A lei che gli si era stretta al fianco nella camera mortuaria del Regina Elena di fronte al corpo irrigidito dell’unica altra donna della sua vita. Quel giorno, Farideh gli aveva sussurrato che insieme ce

l’avrebbero fatta. E quella promessa era diventata una profezia. Farideh era la sua vita. La sua ancora, le sue radici, il suo futuro. Per questo finiva per darle sempre retta. Anche ora che si era messo a scartare i Cd dei Plastic Wave e dei Kiosk, il rock dissidente esiliato da Teheran. Una musica che non capiva, ma che Farideh amava. E che non gli fece sentire il rumore della macchina e della moto che avevano accostato di fronte alla bottega. Max alzò soltanto la visiera del casco integrale e fece un passo verso Paja e Fieno che si stavano infilando la testa nei mephisto. – Allora? – Noi entriamo. Tu resti qua. Se succede qualcosa, – biascicò Fieno attraverso il passamontagna, – trovi ’na soluzione. Sei il filosofo, no? I due estrassero dai jeans guanti di pelle morbida. Li calzarono con cura meticolosa. In ogni gesto, in ogni sfumatura della voce si sforzavano di imitare il loro grande mito. Rocco Anacleti. Erano nati servi, e servi sarebbero rimasti per tutta la vita. A lui il Samurai aveva insegnato che un vero uomo non ha un padrone. Un maestro, semmai, ma non un padrone. Paja e Fieno entrarono nella bottega e tirarono giú, quasi del tutto, la saracinesca. Max sedette a braccia conserte sul cofano della Bmw. Il posto migliore per controllare la strada. Abbas se li ritrovò di fronte all’improvviso. Paja lo colpí con un destro in pieno volto che gli fratturò gli incisivi e gli allagò la bocca di sangue. L’iraniano si afflosciò, battendo la tempia a terra. Gli si offuscò la vista. Intravide comunque l’altro incappucciato mentre estraeva dal giubbotto di cotone uno straccio lurido di grasso. Quando lo sentí in gola pensò che era finita, e cercò di ribellarsi con le poche forze che aveva. Tutto inutile. Paja lo trascinò verso una delle pareti della bottega, in corrispondenza di una tubatura a vista, a cui legò i polsi con una corda di canapa. E fu a quel punto che, supino, le braccia divaricate come il Cristo che i romani pregavano, Abbas cominciò a comprendere. Paja si avvicinò allo stereo e alzò il volume. E mentre le note di Autotomy dei Plastic Wave trasformavano la bottega in una allucinazione sonora, Fieno si chinò su Abbas. I volti dei due quasi si sfioravano e il vecchio ora poteva sentire attraverso il mephisto il tanfo di nicotina e sudore del suo carnefice. – E allora, iraniano del cazzo, vuoi i tuoi mille euro, eh? Perché, sarebbero tuoi? Guarda che te sei solo uno zammammero. E gli zammammeri non si pagano. Chiaro? Le pupille di Abbas si dilatarono, mentre il collo si tese nello spasimo di quella che doveva essere un’affermazione. – Che? Hai capito? No, non hai capito. Te i soldi l’hai chiesti, marocchino. Hai mandato una lettera. Hai messo in mezzo le zecche, i comunisti… Mi sa che ti sei sbagliato. Di’, ti sei sbagliato? Come? Non sento! Parla piú forte, stronzo, nun te sento! Ma quanto ci mettevano quei due? Max sentí impennarsi il volume della musica e non fu capace di trattenersi. Al diavolo Rocco Anacleti. Si tolse dalla strada e si infilò nella bottega. Paja reggeva con la sinistra una tavoletta di legno. Nella destra stringeva un martello dalla testa a mazzetta, sfilato da una cassetta di attrezzi. Fece cenno a Fieno di sedersi sul corpo supino di Abbas,

per impedirne il tremito e i movimenti inconsulti delle gambe. Poi si accovacciò anche lui accanto al vecchio. – Allora dimmi, iraniano del cazzo, da dove cominciamo? Dalla destra o dalla sinistra? Quale mano preferisci per i tuoi lavoretti di merda? Con quale mano prendi i soldi quando chiedi di essere pagato? Non ho capito. Dici che è uguale? È uguale? E allora cominciamo dalla destra, che quando mai la sinistra è servita a qualcosa. Max si avventò su Fieno. – Lasciatelo stare! È solo un vecchio! Fieno si abbatté, sorpreso dalla violenza improvvisa dell’aggressione. Ma si rialzò subito. Estrasse il ferro infilato dietro la schiena e lo puntò alla fronte di Max. Giusto in mezzo agli occhi. – Questa è una 38, stronzo. Prova ancora soltanto a respirare e ti sfondo quella testa di cazzo che ti ritrovi! Max indietreggiò fino alla saracinesca, alzando le mani. Fieno si rivolse a Paja. – Facciamogli vedere lo spettacolo completo, a questo frocetto. Paja sistemò la tavoletta di legno tra il palmo della mano di Abbas, che ora grugniva come una bestia al macello, e la tubatura a cui era legato il polso. Sollevò la mazzetta sopra la spalla e la lasciò cadere una, due, tre, cinque volte sulle lunghe dita dell’artigiano, sulle nocche, sulle unghie. Finché non ebbe di fronte una zampogna violacea di carne tumefatta. Abbas perse i sensi. Paja si voltò verso Fieno, che continuava a tenere la pistola puntata al centro degli occhi di Max. – La finiamo qua? – Ho detto spettacolo completo. – Ma l’iraniano è andato. Non vede piú un cazzo. – Si risveglierà. È quello che deve vedere quando si risveglia che conta. – Vabbe’. Paja tirò la mazzetta sporca di sangue sull’altro lato della bottega, sfregiando un abbozzo di intaglio su una tavoletta di ebano. Quindi si rimise a frugare nella cassetta degli attrezzi dell’iraniano. – E questa, che te ne pare? Fieno annuí. – E leva ’sta musica, ché ormai non strilla piú nessuno. Paja fece scattare piú volte la morsa della tenaglia. Come a volerne saggiare la presa. Afferrò la mano destra di Abbas e proseguí il lavoro dando le spalle a Max e Fieno. – Questo con le mani non ci va manco piú a pisciare. Si sfilarono i mephisto e uscirono dalla bottega fradici di sudore. Fieno ripose il ferro dietro la schiena e puntò l’indice verso Max. – Con te poi risolviamo. Max sentí la Bmw ripartire a bassa velocità e fece qualche passo verso il corpo di Abbas. Allentò i legacci di canapa annodati alla tubatura, liberò i polsi e compose le braccia del vecchio lungo i fianchi. Tutto questo era troppo persino per lui. Un giorno aveva scelto la strada. O, forse, la strada aveva scelto lui. Ma quella non era la strada. Non poteva essere la strada. Sollevò da terra la testa del vecchio. Quindi lentamente il busto, appoggiandolo al muro. Lo liberò

del nastro e dello straccio che gli chiudeva la bocca, per evitare che soffocasse nel muco e nel sangue. E solo allora riuscí ad apprezzarne la dignità dei lineamenti, pure contratti dal dolore. Quella carnagione bruna percorsa da rughe profonde, le guance scavate dalla fatica e disegnate da un filo di barba bianca. Provava pena per quel vecchio. Non lo avrebbe mai ammesso, ma provava pena anche per sé stesso. Guadagnò velocemente la strada e la moto. Appena in tempo per incrociare una Matiz bianca che accostava verso le luci della bottega con la saracinesca di nuovo alzata. Rallentò, fermandosi un centinaio di metri piú avanti, per vedere chi fosse. Una ragazza. Parlava al telefono. E rideva. – Guarda, Alice, sto passando ora da mio padre. Sí, sí, lavora anche di notte. D’accordo, glielo dico… Certo. Max la osservò trattenendo il respiro. Era di una bellezza magnetica. La bocca carnosa, gli occhi da cerbiatto e lunghi capelli, lucidi e neri, che le scendevano sulla schiena. Un sogno. – Va bene Alice, ora ti saluto. Sto entrando da papà. Era il momento di andarsene. Prese i novanta con la prima. In tempo per non vederla entrare nella bottega. Per non sentirne le urla impazzite di fronte all’orrore del padre. Per raggiungere la Tuscolana e da lí bruciare ogni semaforo fino all’Arco di Travertino, dove accostò non lontano da due trans che fumavano accovacciati su un muretto del self-service Ip. – Ciao, bel moro! – Non è aria. Si tolse il casco e appoggiò la moto sul cavalletto. Si frugò nelle tasche della Belstaff di cotone cercando il cellulare dedicato. Quello che chiamava una sola persona e da una sola persona riceveva. Il Samurai rispose al secondo squillo, nonostante fosse quasi l’una del mattino. – Che succede? – Ho un problema. O forse ce l’hai anche tu. Ti devo vedere. – Ora? – Sí. – Sta bene. A corso Francia. Tra venti minuti. Max infilò il cellulare nella giacca e si allungò ancora di qualche passo verso una Giulietta che, arrivando al distributore, aveva notato parcheggiata a fari spenti. Conosceva quella macchina. Era del maresciallo dei carabinieri Carmine Terenzi. Si avvicinò al lato del guidatore, in tempo per vedere una mano pelosa e tozza con la fede all’anulare che stringeva i capelli ossigenati di una zoccola. La testa si muoveva su e giú come quella di un manichino, e il porco se ne stava con la nuca reclinata sul poggiatesta, la bocca aperta e la lingua di fuori. Max diede un’ultima boccata alla Marlboro e la spense sulla fiancata della Giulietta. Terenzi gli rivolse un sorriso da dietro il finestrino mentre veniva. Max gli girò le spalle. Sbirro corrotto. Anche questo era diventata la strada. Il Samurai, come sempre, fu puntualissimo. – Allora, si può sapere che cosa c’è di cosí urgente da interrompere la mia meditazione, Max? – Gli Anacleti, maestro. Max raccontò d’un fiato la storia. Il Samurai lo ascoltò senza mostrare nessuna reazione. Il ragazzo

era emozionato. Il Samurai riusciva a percepire l’odore acre della rabbia. E una sfumatura dolciastra di pietà che non gli piacque. – Vatti a fumare una sigaretta, – ordinò, infine, – devo pensare. E mettiti controvento, per cortesia. Sai che detesto l’odore del fumo. Max si allontanò di qualche passo. Il Samurai si mise a osservare il traffico notturno su corso di Francia. Tutta quella frenesia elettrica che agitava la notte, quell’insensato affannarsi di omuncoli. Il Samurai aveva cinquantadue anni, era alto, con i capelli grigi cortissimi. Vestiva sempre con eleganza sobria, il suo colore preferito era il nero. Amava indossare, sotto le giacche di Kiton, magliette stretch che mettevano in risalto una muscolatura agile e naturale. Non pippava coca, non fumava sigarette, e soltanto in rare occasioni si concedeva un dito di whisky di puro malto. Il Samurai non era schiavo di niente e di nessuno. Il Samurai non si lasciava controllare da niente e da nessuno. Era lui a controllare ogni cosa. Era lui il padrone. Era cresciuto nel mito della rivoluzione nazionale fascista, si era fatto le ossa picchiando i rossi al liceo, era passato alle rapine per finanziare il gruppo, aveva vagheggiato il colpo di stato, la presa del potere, lo sterminio degli ebrei e dei comunisti. Un giorno, vide morire il suo migliore amico sotto il piombo delle guardie. Lui stesso si salvò per miracolo. Gli sbirri lo scoprirono. Un infame aveva cantato. Il Samurai venne a saperlo casualmente, da un camerata che frequentava la stessa palestra di certe teste di cuoio della polizia. Si preparò a morire con onore. Ma i giorni passavano. E nessuno andava a cercarlo. Meditò di consegnarsi. L’attesa lo stava distruggendo. Finalmente qualcuno si fece vivo. Un ufficiale dei servizi segreti. Gli propose un patto. Qualche lavoretto sporco in cambio di protezione. Il Samurai lo mandò al diavolo. Quegli altri, com’era ovvio, tornarono a cercarlo. Stavolta erano in tanti. Erano armati ed erano avvelenati. Miravano a un conflitto a fuoco, per fargli la pelle. La soluzione migliore per tutti. Il patto osceno che gli era stato proposto sarebbe stato seppellito con lui. Il Samurai alzò le mani e si lasciò ammanettare con un sorriso beffardo. Al processo non aprí bocca. Gli dettero cinque anni. In carcere leggeva Pound, Céline eIl tramonto dell’Occidente di Oswald Spengler, e faceva esercizi per non soccombere alla noia. Lo presero per un duro, un politico senza compromessi, e lo lasciarono in pace. Salutava tutti e non era amico di nessuno. Guadagnò sei mesi di sconto comportandosi da detenuto modello. Ma la politica non c’entrava con la buona condotta. Non piú, almeno. Il Samurai era deluso. Il carcere l’aveva costretto a una forzata promiscuità. Aveva visto e conosciuto gli esseri umani per come veramente sono. Non c’era speranza. Impossibile risvegliare le loro coscienze intorpidite. Sembrava proprio che la società che lui voleva cambiare non volesse saperne di essere cambiata. Sembrava proprio che avesse sbagliato vita. Al culmine delle meditazioni, decise di suicidarsi alla maniera dello scrittore Yukio Mishima. Avrebbe agito una settimana prima di essere scarcerato. In modo che il senso del suo gesto estremo fosse ben chiaro: disgusto per il mondo moderno, rivolta contro la mediocrità delle masse, disprezzo per i miseri e i deboli. Meglio una morte eroica che una vita da schiavo. Qualche giorno prima della data fissata, improvvisamente lo trasferirono di cella. Il suo nuovo compagno si presentò come il Dandi. Era anche lui liberante, era un ragazzone dal sorriso ironico e dai modi affabili, si vantava di aver messo in piedi la banda piú potente e invincibile di Roma. Non aveva fatto tutto da solo, precisò, ma con «certi amici che dovresti conoscere». – Il mio tempo è finito, Dandi.

– Davvero? Ma quant’anni ci hai, scusa? Venticinque? E parli come mi’ nonno? – Non è l’età che conta, è quello che uno si porta dentro. – E famme capi’, tu che te porteresti dentro? Il tipo era simpatico, e sembrava affidabile. Il Samurai decise di fidarsi di lui. La solitudine lo stava uccidendo lentamente. Gli raccontò tutto. Non ci volle molto tempo. Aveva appena attaccato con una citazione da Rivolta contro il mondo moderno di Julius Evola quando il Dandi lo interruppe. – Vabbe’, è chiaro. Dunque, tu te vòi ammazza’ perché ’sto mondo de merda nun te merita. Il Samurai annuí: sintesi rozza, ma, doveva ammetterlo, efficace. – Lo sai chi me sembri? Uno de quei giapponesi dei film… quelli colla spada curva che stanno sempre a pensa’ a come spaccare la testa a qualche nemico, magari pe’ qualche questione d’onore… come se chiamano, dài, aiutami… – Samurai. – Ecco, bravo. Lo sai chi sei tu? Sei un samurai del cazzo. E scusa se te lo dico, ma tanto, visto che te devi suicida’, parola piú parola meno… me sembra che proprio non hai capito come vanno le cose a ’sto mondo. – E chi me lo dovrebbe spiegare, tu? – Guarda, bello, fai come te pare. Ma dimme ’na cosa: tu t’ammazzi, e te pare che al mondo gliene pò frega’ qualcosa? Ma scusa, sai, non te se filavano quando facevi il rapinatore politicizzato, vòi che se mettono paura per un cadavere? E mo’ spegni ’sta luce, ché me devo fa’ le mie otto ore di sonno, o domani ci avrò le borse sotto gli occhi, e io le borse sotto gli occhi proprio nun le reggo. Il Samurai cercò di non farci troppo caso, ma le parole di quel coatto ripulito gli avevano aperto dentro una crepa che si allargava giorno dopo giorno. Lasciò passare un po’ di tempo prima di tornare sull’argomento. – Ma insomma, secondo te che dovrei fare? – A te te ce rode perché dici che il mondo te l’ha messo al culo. E tu ripagalo colla stessa moneta. Fottilo. Fottili tutti. Vedrai come te senti mejo, dopo. Proprio come dopo una bella scopata, damme retta, a’ Samurai. Chissà. Forse il Dandi aveva ragione. E forse nelle sue parole c’era piú verità che in tutti i libri che gli avevano acceso la mente, quando aveva deciso di abbandonare la strada maestra tracciata per lui dai genitori, la laurea, lo studio legale del padre che era stato del nonno, e prima ancora del bisnonno, e prima ancora… O forse, semplicemente, Dandi gli aveva detto ciò che lui voleva sentirsi dire. Il suicidio venne accantonato. Dandi e il Samurai lasciarono insieme il penitenziario di Regina Cœli. Il Dandi lo presentò ai suoi amici. Il Samurai entrò nella banda. Roba di un altro tempo. Il Dandi era morto. Il Libanese era morto. Tanti altri erano morti, qualcuno era diventato infame, qualcuno si faceva la galera in silenzio, sognando di ricominciare, magari con un lavoretto senza pretese. Il Samurai era ancora là. L’antico nome di battaglia denunciava ormai soltanto sogni abbandonati. Ad affibbiarglielo era stato il Dandi, ma lui aveva cercato di esserne degno. E il potere, quello, era concreto, vivo, reale. Il Samurai era il numero uno.

Anche se, a chi glielo ricordava, preferiva rispondere, con uno dei suoi sorrisi enigmatici: sono solo il primo fra pari. Cosí nessuno si offendeva e gli affari potevano andare avanti. Era tutto merito della sua intuizione. Era iniziato tutto coi ragazzi del Bagatto, e la semina era stata proficua. La rete era stesa sull’intera città. I legami di fedeltà inossidabili. Certo, non c’era piú niente di eroico, ormai, in quella Roma spenta e grigia che aveva ereditato dalla stagione degli ardori. L’usura che un tempo aveva esecrato era oggi il suo pane quotidiano. E il governo della notte un esercizio di equilibrismo che lo costringeva a continue concessioni a una massa di vermiciattoli senza cuore, fegato e cervello. Ma cosí vanno le cose a ’sto mondo, vero, Dandi? Il Samurai richiamò con un cenno Max. Il ragazzo lo fissava con gli occhi ancora capaci di accendersi di passioni. Un tempo, anche lui… Per questo, forse, rivedeva in Max il sé stesso di allora. O, forse, se la sorte gli avesse permesso di mettere al mondo un figlio, lo avrebbe voluto come Max. Diverso dalle merde di Ostia e di Roma Est. Stoffa e natura di capo. Ancora capace di infiammarsi. E persino di sbagliare. Come quell’altro, quello che tanti anni prima aveva tradito. – Dimmi che con la storia dell’iraniano la pietà non c’entra, Max. – È solo un povero vecchio, maestro. Che diamine gli avrà mai fatto agli Anacleti per scatenargli contro quelle due bestie? – Niente, anzi, per dirla tutta, sono loro in torto. Non hanno pagato un debito. – E allora… – E allora la pietà va tenuta fuori da questa e da tutte le altre storie, Nicce. – Anche Achille si commosse davanti alle lacrime di Priamo, e gli restituí il corpo di Ettore. – Paragone fuori luogo, ragazzo mio. Quella non era pietà. Era rispetto per un nemico valoroso. Codice di guerra. E infatti, i Greci entrarono nella reggia e fecero strage di tutti i Troiani. O l’hai dimenticato? Il ragazzo chinò il capo. Il Samurai riprese, suadente. – Gli Anacleti non ci piacciono, ma ne abbiamo bisogno. Occorre concedere loro una dose di brutalità. Aiuta a tenerli sotto controllo. Comunque, sono d’accordo con te. Quei due trogloditi di Paja e Fieno hanno esagerato. Però tu stai tranquillo. Mi occupo io della faccenda. Il Samurai intuí che la spiegazione non aveva convinto Max. Pazienza, avrebbe capito col tempo. Prima di congedarlo, gli assestò un colpetto affettuoso sulla spalla. – Ho grandi progetti per te, Max. Nei prossimi giorni succederanno cose importanti, e voglio che tu sia al mio fianco. Ma la pietà lasciala a casa. Questo mondo non sa che farsene, credimi.

IX. – Pronto? Spartaco? – Sí, chi è? – So’ Pippo… – Ah, Pippo… ma famme capi’: se conoscemo? – E come no! So’ Pippo de borgata Fidene. Che, nun te ricordi? Se semo visti all’inaugurazione de quer bar a Trigoria, sarà stato appena prima de Pasqua. Pippo, quello alto che t’ha portato er regazzino co’ ’a maglietta der capitano e te gli hai firmato «Spartaco core de Roma»… – ’O sai che te dico, Pippo? – No, che me dici? – Che te devo da chiede’ scusa. Eeeh, succede, me so’ scordato… saranno l’anni che passano… – Ma che stai a di’, a’ Spartaco, te nun ci hai età, te sei immortale. – Oppure, ’sto caldo che ce se sta a magna’ vivi… – Se mòre, Spartaco, se mòre! – O i pensieri che ci ho per la testa, e t’assicuro che ce n’ho un sacco stammattina. – E lassali perde’, Spa’, che sei sempre er mejo. – Eeeh, lassali perde’… se fa presto a di’… Vabbe’, Pippo, che ce volevi racconta’? – Io stavo a senti’ le notizie de ’sto nuovo allenatore… ’sto regazzino… Ma chi ha allenato? Ma che ha vinto? – Niente, Pippo, niente ha vinto. Alla Roma sempre gli scarti se pijano. – Ahò, ma nun ce stava de mejo sur mercato? Dice che vonno fa’ grande ’a Roma, ma a me me pare… – Che a parole so’ boni tutti, no, l’americani, i russi, l’arabi… Eeeh, n’avemo viste tante qua, sotto il cupolone… Seeh? Scusa ’n attimo, Pippo. – Ma te pare, Spa’. – Come? – Dico: ma te pare, Spa’. – No, sto a parla’ co’ ’a regia… Ah, sí, certo, come no, lo sponsor… però ve potevate sveja’ prima, no? Eeeh, qua stamo tutti a lavora’, che ve credete… Su, ritmo, ragazzi, su… Pippo? Ce stai sempre, Pippo? – E te pare che ’na vorta che so’ riuscito a becca’ la linea te mollo cosí presto, a’ Spa’! – Bravo, Pippo. Abbiamo bisogno di gente come te. Co’ ’n core cosí! Senti, Pippo, te posso fa’ ’na domanda? – A me? E come no, Spa’. – Tu ci tieni alla sicurezza, Pippo? – Oh, ma che stai a scherza’? E quando a uno j’hai levato la sicurezza, j’hai levato tutto. – E se capisce. E allora tutti voi che ci tenete alla sicurezza, tutti voi che quando andate al lavoro e lasciate a casa la vostra donna, vostra madre, vostra sorella, vostra figlia… tutti voi che non volete vivere nella paura che all’improvviso v’entra in casa ’no zingaro, dico per dire, perché noi di Radio Fm 922 non siamo razzisti, ma è un dato di fatto che quanno ce sta un furto in appartamento, ’na rapina, gira e rigira, avoja a indaga’, alla fine so’ sempre loro… Insomma, voi che volete vivere tranquilli DOVETE, ragazzi, non sto scherzando, DOVETE fare almeno una visitina da Rubinacci blindati e serature, via di Tor Marancia civico 77 bis, ripeto 77 bis, dove troverete la risposta a tutti i vostri…

Alba Bruni entrò senza bussare. O forse, in effetti, aveva bussato e Marco Malatesta non se n’era accorto, concentrato com’era nell’ascolto della radio del tifo romanista. Abbassò il volume e invitò la capitana a sedersi. Dalle vetrate della sezione anticrimine, al secondo piano di una palazzina… come definirla? Funzionale?… si godeva dell’invidiabile panorama del ponte Salario. La storica torretta dei Crescenzi, ultima memoria di un glorioso passato di passioni per sempre dimenticate, si intravedeva a stento dietro il muro di edifici… funzionali?… che avevano fatto dell’antico suburbio un pezzo inquietante di modernità. In fondo, pensava Marco Malatesta, una bella immagine della nostra condizione di servitori dello stato assediati dalle schifezze generate da buona parte di quelli che dovremmo servire. – Il Ris ha battuto un colpo. – Alleluia! Afferrò il foglio fresco di stampa che Alba gli aveva passato, indugiando un istante di troppo nello sfiorarsi delle dita. Alba, Alba…

– Identificazione quasi certa. – Ci sono arrivati dalla Smart, in effetti. Adesso faranno i controlli col Dna della madre, ma insomma, sono abbastanza sicuri. – Quanto abbastanza? – Conosci il Ris. A volte sono esasperanti, ma nel complesso ci possiamo fidare. Diciamo che si sono sbilanciati. Il morto bruciato a Coccia di Morto è questo Marco Summa. Controllarono insieme al terminale. Alba profumava di mela, una traccia discreta, per niente invadente. Ma come diavolo fanno le donne? Si annunciava un’estate terrificante, l’aria condizionata funzionava un giorno sí e due no, e lei, le altre, tutte quante, sembravano sempre appena uscite da un beauty center. – Ci vogliamo concentrare sul lavoro, capo, per favore? – Scusa. Allora, vediamo… Marco Summa risultava pregiudicato per piccolo spaccio, e aveva una denuncia, poi archiviata, per favoreggiamento della prostituzione. Sullo schermo comparve una foto segnaletica piuttosto recente. Posa ribalda, occhio che si sforzava di apparire fosco, e magari terribile, ma che in realtà era solo spento. Ne avevano viste centinaia, il colonnello e la capitana, di facce come quelle, sulla strada, nelle camere di sicurezza, al banco degli imputati nei processi, durante i colloqui investigativi in carcere. Giovani senza cuore e con pochissimo cervello. La carne da macello della piccola criminalità. Magari Marco Summa, inteso Spadino, come recitava la scheda, aveva cercato di fare il salto di qualità e si era imbattuto, lui, povero piccolo sorcio, in un ratto piú cattivo e famelico. – Fra l’altro, – puntualizzò Alba, – risulta scomparso da qualche giorno. Be’, questo chudeva la partita, chiaro. A mano a mano, però, che procedevano nella lettura dei documenti su Spadino – arresti, verbali di fermo, segnalazioni – l’intuito sbirresco si spostava dall’ordinaria amministrazione al codice rosso delle questioni serie. Molto serie. – È morto fuori della sua zona, Alba. – Già. Qui dice che è stato arrestato due volte dalla compagnia di Cinecittà. – E l’hanno bruciato a Ostia… Puzza di sconfinamento. E quando uno come Spadino sconfina, qualcuno può incazzarsi. – Mmh… E ci sono altri fatti da tenere presenti. Ho fatto qualche ricerca. Alla nostra stazione di Cinecittà è successo qualcosa. Nel solo ultimo anno due colleghi rimossi per indegnità, un appuntato e un brigadiere. Due chili di cocaina e venti, dico, venti chili di hashish spariti. L’intero personale avvicendato. – Chi comanda adesso? – Un certo Terenzi. Forse è il caso di convocarlo. – Ci andiamo di persona. Adesso, – decise Marco. – Mi serve un’ora, – disse lei, – devo preparare la relazione su questo Spadino. Rimasto solo, Marco si rimise all’ascolto di Radio Fm 922. Spartaco Liberati stava ancora pontificando. Dall’altra parte del filo c’era un nuovo interlocutore, tale Gino da Ostia. – Te hai ragione, Gino. Roma non è quella che dicono loro, i soloni dei giornali, le grandi firme… gente che Roma nun la conosce, che la strada manco sa che cos’è. – E dici bene, Spa’. – Mo’, prendi ’sto morto de Ostia. Adesso vogliono fa’ diventare Roma come Chicago de Al Capone. ’Na città de criminali, ’na città senza sicurezza… ma ’o sai chi so’ questi, Gi’? – So’ quelli de sempre, Spa’. – E come no! So’ i rossi, le zecche, che a loro je rode che nun ci hanno piú il comune, e mo’ se so’ ’nventati d’esse’ i paladini

d’a sicurezza! Ma prima ve ne dovevate ricordare, signori cari, quando avevate consegnato la città ai zingari e ai zammammeri! Perciò, a Gi’, ’o sai che te dico? Che magari quel disgraziato de Ostia se stava a fuma’ ’na sigaretta e j’ha preso ’na botta de sonno. E pure si c’è stato, metti, ’n omicidio… e mica se pò controlla’ tutto, no? Se sa come vanno ’ste cose. – A’ Spa’, sei er piú grande.

Sí, radiotifo è cosí rilassante, pensò Marco Malatesta, con un sorriso. Ma è anche cosí utile. Questo ad Alba lui l’aveva taciuto, perché, a parte il generale Thierry, nessuno era al corrente del suo passato. Le radio del tifo sono il termometro della curva. E la curva, a Roma, è il termometro della strada. Il megafono degli esclusi dalle reti comunicative di quelli che contano, o credono di contare. Le radio del tifo sono la voce di una massa silenziosa che naviga su una lunghezza d’onda tutta sua. Una lunghezza d’onda impenetrabile con gli strumenti ordinari di analisi. Per esempio: che Spartaco Liberati dedichi un bel po’ di tempo al morto di Ostia è un dato che deve farti riflettere, colonnello. Non c’è solo l’assist lanciato da un vecchio camerata alla maggioranza di destra. È il segnale di una preoccupazione, diciamo pure di un’inquietudine, che si vuole stroncare sul nascere. È l’orazione rivolta a «chi di dovere» su mandato di qualcuno che su quella famosa frequenza è sintonizzato da sempre. Capire chi. E perché. Questo era il compito che attendeva lui e Alba. Una catena di eventi si era messa in moto, e la causa scatenante era il cadavere carbonizzato di Spadino. Marco stava compulsando il fascicolo personale di Terenzi quando la capitana fece irruzione. Un po’ in anticipo sul previsto. – Per oggi non se ne fa niente, Marco. Terenzi s’era preso un giorno di congedo. La missione era rimandata all’indomani. – Ne approffitterò per far visita a un vecchio amico, – disse Marco. In quel preciso istante, Rocco Anacleti riceveva una telefonata. Il morto della pineta era stato identificato. Si trattava, senza ombra di dubbio, di Spadino. Lo zingaro intonò a mezza voce «Camminando, camminando su lunghe strade…» Il Gelem Gelem, l’inno doloroso che rievocava gli sterminî della Legione Nera, era dedicato esclusivamente alla sua gente. Spadino non era nato rom, ma era quanto di piú vicino a un rom un gaggé potesse aspirare. Ed era morto come un cane, massacrato, bruciato. La sua anima avrebbe faticato a lungo, nell’altro mondo, per rimettere insieme i pezzi del suo corpo violato. Fu un breve momento di commozione. Poi esplose, naturale e irrefrenabile, il desiderio di vendetta. Spadino era un suo uomo, cazzo. Rocco Anacleti compose un Sms. Il Numero Otto fu risvegliato dal motivetto di Faccetta nera del suo cellulare. Scostò Morgana, che gli stava di traverso sul torace villoso, e lesse. «Prepara il funerale: il tuo». Non c’era bisogno di firma. Rocco Anacleti aveva battuto un colpo. Il Numero Otto formulò due pensieri di fila. Be’, prima o poi doveva succede. Me sa che ho fatto un bel casino. Poi, stremato dallo sforzo, chiuse di nuovo gli occhi. La coca montò. E finalmente vide.

Er uoterfront. La luce del tramonto accarezzava Ostia che veniva voglia di leccarla. E la silhouette del monumentale casinò a quattro piani sul mare ricordava quel monte lí che sta in Brasile, come cazzo se chiama?… Ah, sí, er Pandezzucchero. Mamma mia, quant’era bello, er casinò. E che bel nome che gli avevano dato. Armageddon. Che sarebbe a di’… tipo Apocalisse, ’na cosa cosí. Gajardo, però. Ci avevano fatto pure una pista da sci artificiale. Con una seggiovia che partiva dalla pineta e arrivava dritta dritta in cima. Il Numero Otto si godeva lo spettacolo dall’alto. Piazza Gasparri e il lungomare tutto vetro e cemento. Un parcheggio sopraelevato sull’acqua che sembrava de sta’ a Dubai. Poi dice che senza du’ palme der cazzo in meno se campa peggio. Seeh. Er uoterfront. Che meraviglia. Ernummerootto si girò sul seggiolino della seggiovia e si guardò alle spalle. La via Ostiense tagliava a metà una distesa di cemento che si perdeva a vista d’occhio verso Roma, accesa dalle luci dei centri commerciali, dai complessi dell’edilizia popolare intensiva e di lusso. Parco Raffaello, Parco Michelangelo. Parco Leonardo. Parco Donatello. Parevano le tartarughe Ninja. Che poi, vaffanculo, qualche nome piú moderno glielo potevano pure da’ a quei formicai da settemila euro a metro quadro. Che so, Parco Off-Shore, pe’ fa’ tutt’uno con il locale. Zio Nino lo aspettava all’arrivo della seggiovia, su una moquette rosa a pelo alto. Quanto era elegante, zio. Tutto bianco panna. Con una pischella fasciata in un tubino di latex rosso che gli si strusciava addosso. – Hai visto, zi’, che t’ha combinato Cesaretto tuo? Si abbracciavano ed entravano in uno chalet di legno costruito sul tetto del casinò, avvolto da abeti e dolmen di dolomia. Che sembrava de sta’ sulle Alpi per davvero. Da lí, lo spettacolo sulla piana era imponente. Venti milioni di metri cubi di cemento. Variante al piano regolatore, l’avevano chiamata. Ma variante de che? Quella era una certezza. La Nuova Ostia per un Nuovo Mondo. Il loro. I soldi non sapevano piú dove metterli, per quanti ne avevano alzati. Avevano decuplicato l’investimento. Un paio di centinaia di milioni solo per gli Adami. E lui s’era fatto uno yacht come quello di quel russo del Chelsea, Abramovič. Con l’elicottero sul ponte. Roma, l’aveva chiamata quella nave. Che c’era da discute, forse? Nera, in fibra di carbonio, la teneva alla fonda sulla banchina di fronte al casinò. Roba da fa’ sbava’ gli arabi. La bava sul cuscino svegliò il Numero Otto insieme al caldo di mezzogiorno. Il letto era vuoto. Le tempie lo martellavano. La lingua era incatenata al palato. Allungò la mano verso il telefono cellulare e rilesse il messaggio di Rocco Anacleti. E chissenefrega, lo zingaro se ne farà una ragione.

X. Il Samurai era come posseduto dai propri riti. Marco Malatesta lo aveva imparato presto. Ben prima di vestire l’uniforme. I luoghi, i tempi, i modi della sua presenza in città erano scanditi da una sorta di coazione a ripetere che doveva insieme rassicurare e incutere timore. Un’ossessione trasformata in strumento di governo. Che fosse nella luce del pieno giorno o nel buio della notte: il Samurai c’era. E lui, Marco, gli avrebbe ricordato che era tornato. Del resto, l’occasione era propizia. Se aveva un senso iniziare a fare qualche domanda in giro sulla fine di Spadino, be’, allora, dal Samurai conveniva cominciare. Che poi c’entrasse o meno nel rogo di Coccia di Morto aveva in quel momento scarsa importanza. Malatesta arrivò in fondo a corso di Francia sulla sua Bonneville intorno a mezzogiorno. Si mise in attesa a un centinaio di metri dall’ultimo distributore di benzina prima della Flaminia. Perché era pur vero che il quartiere era cambiato, che tra il Fleming e ponte Milvio era spuntata una fungaia di localini e ristoranti per gourmet che avrebbero dovuto far dimenticare l’anima di quei luoghi. Ma era altrettanto vero che quello spicchio di città dal cuore «nero» era e restava roba del Samurai. «Una volta al giorno passa sempre lí. Al solito distributore. Quello dove andavamo a fare miscela ai motorini da pischelli prima di arrivare allo stadio. Qualcuno m’ha detto che se l’è addirittura comprato, insieme a mezzo corso Francia», gli aveva soffiato un amico dei tempi andati. E Marco non aveva motivo per non credergli. Nonostante la distanza, Malatesta lo riconobbe subito. Appena scese dalla Smart che aveva accostato nello slargo dell’autolavaggio. E sorrise vedendo una piccola folla di imberbi coatti farglisi incontro con il rispetto che si deve a un capobranco. Non era cambiato, il Samurai. Qualche capello grigio. L’abito da sartoria che doveva farlo sembrare l’uomo d’affari che non era. Per il resto, era identico all’immagine che ne aveva custodito da quella notte al Bagatto. Malatesta accese una Camel e si incamminò a piedi verso le pompe di benzina. Mentre si avvicinava, scattava a ripetizione con l’iPhone: fra le tante ossessioni, quella della riservatezza era la principale, per il Samurai. Le uniche sue immagini in circolazione risalivano a venticinque anni prima. Averne sottomano qualcuna piú recente poteva essere prezioso. – Buongiorno. Nonostante gli fosse arrivata alle spalle, la voce stentorea con cui Marco aveva impostato il saluto non sembrò sorprenderlo. Il Samurai si voltò lentamente, senza muovere un solo muscolo della faccia, mentre con un ampio gesto del braccio sedò sul nascere l’apprensione dei ragazzotti che gli erano intorno. Marco decise di non lasciargli tempo. Aveva imparato a proprie spese che al Samurai quel vantaggio non doveva essere dato. Mai. – È possibile parlare da soli, o hai sempre bisogno di una platea davanti a cui esibirti? Il Samurai mise su un sorriso da serpente e liquidò il suo codazzo. – Ti ricordavo irruento, ma educato. E, se posso dire, anche con qualche chilo di meno. Ma forse il tempo e il nuovo mestiere devono esserti stati cattivi maestri. Colonnello, giusto? – Tenente colonnello. E comunque di cattivi maestri ne ho avuto solo uno. E tu lo conosci. – Ti ringrazio per la visita, ma la notizia del tuo rientro a Roma mi era già pervenuta. Bentornato. Cosa ti spinge da queste parti, Marco? La nostalgia dei bei tempi andati, forse? – Pura curiosità.

– Aaah… – Marco Summa. Ti dice niente questo nome? – No. Dovrebbe? – Forse lo conoscevi come Spadino. Il sorriso del Samurai si spense in una piega di disgusto. Serviva a celare dispetto e inquietudine. Le notizie correvano rapide, a Roma. Rocco Anacleti l’aveva appena informato di Spadino, ed ecco a voi l’arma, signori. Brutta storia. Si rischiava l’incendio. – Mi dispiace, ma questo nome non mi dice niente. – Pensa te! Sai, l’hanno trovato a Coccia di Morto. Carbonizzato. Si sono salvati solo i denti. – Dio mio, che cosa orribile. Ma non ne so niente. Perdi tempo, colonnello. Marco gli elargí un sorrisetto di commiserazione. – Non sei cambiato. Sei rimasto il pezzo di merda che eri. Spingi sempre la roba, coca, ero, tutta la schifezza che spappola il cervello dei ragazzi. Hai fatto arrivare persino il crack. – Sei fuori strada, Marco. – Cazzate. Spadino era un pusher. – Non è un mio problema –. Il Samurai avanzò di un passo e scosse la testa. – Non so chi siano i tuoi informatori, colonnello. Ma dovresti sceglierne di migliori. Da’ un’occhiata al registro delle imprese. Troverai il mio nome e quello delle mie società. Io sono un uomo d’affari, capisci? Un uomo d’affari. Ho smesso con quella roba. – Raccontalo a qualcun altro. Magari ai quattro coatti che t’aspettano ogni giorno davanti a questa pompa di benzina. Il Samurai puntò l’indice in direzione della tempia di Malatesta. – Devi fare attenzione alla collera, Marco. Non sei mai riuscito a dissimularla. A vent’anni si può capire e perdonare, come ho fatto io. Ma ormai dovresti essere cresciuto. E poi, vedi, quando perdi la calma, ti si gonfia la cicatrice. È la spia riflessa della tua fragilità. È un vantaggio che non puoi concedere. A nessuno. Era prevedibile. Samurai pescava a piene mani in quell’abisso che li legava. Ma aveva fatto male i conti. Marco si massaggiò la tempia. – Ti dò una cattiva notizia, Samurai. – Quale? – Sono affezionato a questa cicatrice, sai? – Lasciami indovinare: le signore la trovano eccitante? – Le donne non c’entrano. Il fatto è che questa cicatrice mi ricorda quello che mi resta da fare. – La vendetta non sempre è un sentimento nobile. – Non cerco vendetta, Samurai. Quella robaccia nazista non mi appartiene piú. – Oh, ma neanche a me, dovresti averlo capito. Io non mi vendico. Io prendo atto delle cose che cambiano. E se necessario ne facilito il corso. Io governo il destino, Marco. Non vivo nel rancore, perché evito che ve ne siano i presupposti. Tu lo sai. È sempre stato il tuo problema, Marco. Vuoi cambiare il mondo. Ma il mondo non si cambia. Si governa. Marco sorrise. – Lo sai, Samurai? Sei diventato patetico. – Adesso non esagerare. – Quando mi bevevo le stronzate che ci propinavi al Bagatto avevi, o almeno ti sforzavi di avere, una parvenza di umanità. Ora sei solo un vecchio serpente al suo ultimo cambio di pelle. – Potresti anche dire che ero e resto un uomo generoso. In fondo, se sei ancora vivo, è a me che lo

devi. Avrei potuto schiacciarti come uno scarafaggio e non l’ho fatto. Non dimenticarlo. – Hai fatto male a non chiudere quel conto, Samurai. Perché io non sarò generoso. Non restituirò favori. Non ti devo nulla. Il Samurai sospirò. – Non mi sembra abbiamo altro da dirci. E io ho una giornata piuttosto piena. Quindi credo che la nostra gradevole conversazione possa chiudersi qui. Anche se un po’ mi dispiace. Perché credo sarà l’ultima. – Credi male. Se non lo hai capito, questo è solo l’inizio. Ma sono certo che lo hai capito, vero? Fossi in te, mi informerei su questo Spadino. A presto, Samurai. Marco girò le spalle e si avviò a piedi verso la Bonneville. La voce del Samurai lo raggiunse come un colpo di frusta. – Posso darti un consiglio? Lascia perdere la moto. Non hai piú l’età, Marco. E Roma è una città pericolosa.

XI. L’ingegner Laurenti prese la decisione nel momento stesso in cui il direttore della Cassa di Credito e Risparmio, filiale di Roma Prati, piazza dei Quiriti, gli allungò il dépliant della finanziaria. – Qui troverà la risposta ai suoi problemi, ingegnere. Accompagnò il gesto con un sorrisetto ipocrita, e lo sottolineò con una vigorosa stretta di mano. Laurenti lo squadrò con un’occhiata carica di disprezzo che l’altro nemmeno si degnò di percepire. – Sta bene, – disse, alzandosi, – è tutto chiaro. – Vedrà che le cose si risolveranno, – lo incoraggiò l’altro. L’ingegnere annuí, sopportò una nuova stretta di mano e finalmente uscí all’aria aperta. Suo figlio Sebastiano lo aspettava, rigido e teso come l’aveva lasciato, venti minuti prima. – Com’è andata, papà? – Bene, bene, ragazzo. Tutto a posto, tutto a posto. – Allora, papà, magari io andrei… È giusto, pensò l’ingegnere. Ha la sua vita. È impaziente di viverla. Sono stato un padre fortunato. Sebastiano è un ragazzo sensibile. Ha capito che qualcosa non andava e ha insistito per accompagnarmi. Adesso che l’ho rassicurato, ha fretta di liberarsi di me. Però, non si decideva a lasciarlo andare. – Ti va un gelato? – propose, di slancio. – Da quanto tempo non prendiamo un gelato insieme, noi due? Sorpreso, ma anche lusingato, Sebastiano gli disse subito di sí. Deviarono lungo via Cola di Rienzo e presero posto a un tavolino del Piccolo diavolo. Ordinarono due coppe grandi: frutta per il figlio, creme, quelle piú grasse possibilmente, per il padre. La gioia vorace con la quale Sebastiano affondava il cucchiaino nella palla di gelato alla fragola gli procurò una fitta al cuore. Ebbe un ripensamento. Gli aveva rifilato una pietosa bugia. Ma non sarebbe stato forse piú onesto, piú leale, dirgli la verità? Poi Sebastiano prese a raccontare del viaggio che lui e la Chicca avevano programmato in Alaska. – A Juneau, si prende un idrovolante e si pattina sul ghiacciaio. Se siamo fortunati, vedremo l’orso polare mentre caccia le foche. E c’è la possibilità di passare una o due notti in tenda sugli isolotti circondati dagli iceberg. Si dorme proprio là, capisci? E prima ti fanno firmare una liberatoria, perché non è che tutti ce la possono fare. L’ingegnere si pentí del ripensamento. Mettiamola cosí, si disse, in un lampo di quella lucidità che tante volte l’aveva soccorso nei frangenti piú duri dell’esistenza: gli sto regalando qualche altro momento di spensieratezza. Se ne ricorderà finché campa, e forse me ne sarà grato. La memoria di questi ultimi istanti lo accompagnerà nelle ore buie che lo attendono. Sebastiano: il puro, l’innocente. Sono stato io a farti cosí, figlio. Ti ho insegnato l’amore per l’avventura perché è giusto che un uomo desideri sempre andare oltre i suoi limiti, avanti, avanti, dove nessuno si è mai spinto prima. E ti ho allevato nel culto del rispetto del prossimo, ti ho spiegato l’etica della dura fatica, quella che alla fine premia i giusti e sanziona gli immeritevoli, la fatica del produrre, l’unico autentico metro di valutazione di una vita degna di essere vissuta. Formavano davvero un bel quadretto, quei due. Emanavano un’aria piacevole di forza, di serenità. Un padre in giacca e cravatta a onta del caldo, cinquant’anni portati benissimo, figura alta e nobile, e anche quel figlio alto, l’aria supponente di chi si è appena lasciato alle spalle l’adolescenza, e in fondo allo sguardo una dolce insicurezza che il tempo si sarebbe presto incaricato di cancellare.

Capirai presto, figlio. E mi maledirai. Perché sono stato la tua rovina. Dopo il gelato, si concessero un caffè. – Raccontami qualcosa, – disse all’improvviso il padre. Il figlio, con un gesto istintivo, guardò il vecchio Swatch con Paperino che portava al polso coperto dalla rada peluria dei ragazzi. Ma sí, ma sí, avrà appuntamento con la Chicca, con qualche amico, fa caldo, ora di andarsene in spiaggia, non ha appena preso un bel 30 e lode in Matematica finanziaria? Perché imporgli ancora la mia presenza? – Dài, lasciamoci qua. Io vado alla metro. Ho degli affari da sbrigare. L’ingegnere pagò la consumazione, abbracciò rapidamente il ragazzo e si avviò con il suo passo sicuro verso l’ultimo viaggio. Esitò davanti al tribunale civile di viale Giulio Cesare, assediato dalla solita folla di avvocati e faccendieri che spacciavano vane speranze a una legione di falliti schiantati dalla crisi. Ma non c’era nessuna speranza. Fece tutto per bene, senza fretta. Entrò nella stazione Lepanto della metropolitana. Acquistò un biglietto al distributore automatico. Si piazzò sulla banchina dal lato piú prossimo alla direzione di marcia del convoglio. Non ci fu nessun ripensamento. Non aveva lavorato trent’anni come uno schiavo, non aveva inventato dal nulla una solida realtà imprenditoriale, non aveva costruito case che erano state allietate dal pianto gentile dei neonati e dai gemiti frenetici degli innamorati, case destinate a durare nei secoli, non aveva fatto tutto questo per finire in mano a una banda di strozzini di merda. Se non c’era piú futuro per Luigi Laurenti, be’, al diavolo tutto. E perdonami, figlio, perdonami per averti insegnato un mucchio di cazzate. Forse mi odierai soltanto. Ripensò alle firme che gli aveva fatto mettere quando ancora pensava di cavarsela. Un lungo sibilo e un forte alito di vento annunciarono il treno in arrivo. L’ingegner Laurenti chiuse gli occhi e con un balzo orgoglioso si staccò dal marciapiede. Ma siccome, dopotutto, il destino se ne fotte dell’orgoglio, nessuno dei pur numerosi utenti della linea A di Metroroma poté godere del privilegio di assistere in diretta al sacrificio di un uomo perbene. Un suicidio senza testimoni, senza lettera d’addio, senza l’estremo Sms di commiato, non è suicidio. Al piú, lo si può rubricare come «disgrazia» dovuta, in questo caso, a un «malore accidentale». Ovvero, per dirla con le parole di don Filiberto, l’anziano parroco della chiesa del Redentore, all’onnipresente, indiscussa e indiscutibile «volontà di Dio». E Sebastiano, che invece sapeva, dovette sorbirsi, in preda a un disgusto persino piú forte del dolore e dello stesso senso di colpa, l’estenuante mantra di un elogio post mortem dal quale la parola maledetta – suicidio – era rigorosamente bandita. Qualche fila piú indietro, mescolato agli amici della vittima, increduli, e alle famiglie dei dipendenti, angosciati dall’incertezza del futuro, c’era un altro che sapeva. Era un ragazzo della stessa età di Sebastiano, si chiamava Manfredi Scacchia, ed era figlio di uno dei piú celebrati usurai di Roma, quello Scipione Scacchia che, insieme ai compari Dante Pietranera e Amedeo Cerruti, formava il trio di carogne noto nel giro come i Tre Porcellini. – Mortacci sua, e te credo che s’è ammazzato, l’ingegnere. Ci aveva piú buffi che peli. Al commento del vecchio Scipione, il giovane Manfredi aveva opposto un educato scetticismo. Lui li conosceva bene, i Laurenti, padre e figlio. Con Sebastiano avevano diviso il banco per i cinque interminabili anni del liceo al prestigioso convitto nazionale. Adesso frequentavano la stessa

università, facoltà di Economia, e con uguale profitto. Erano molto amici. Era stato proprio il vecchio Scipione a programmare per il suo unico figlio un futuro diverso dal proprio. – Te devi eleva’, fijo, hai capito? Te devi eleva’! Perciò, nun me fa’ er testa de cazzo, méttete appresso a ’sti borghesi e impara da loro. Dovemo sali’, hai capito? Sali’. Manfredi era stato un figliolo saggio e obbediente. Perciò, alle parole del padre non credeva. L’ingegnere era un modello, una persona perbene, una delle poche ancora in circolazione. Quindi, de che stamo a parla’? – A’ bello, te studia, perché te devi eleva’, ma su certe cose da’ retta a papà tuo. Guarda, te dico ’na cosa. Prima de fasse sparpaja’ da quer cazzo de treno, l’omo era ito a piagne’ miseria da un direttore de banca, ’n amico. E ’st’amico j’aveva consigliato di rivolgersi… indovina a chi? – A te? – Bravo. Lo vedi che quanno te ce metti… buon sangue non mente, eh? E io ci avevo già pronto il piano de rientro. Però quello stronzo, pace all’anima sua, s’è fatto prendere da ’na botta d’orgoglio. E amen. Se suo padre aveva ragione, e non c’era motivo di dubitarne, pensava Manfredi risalendo la processione diretta al momento clou del mesto rito, la stretta di mano con abbraccio all’orfano, magari ciò che il padre non s’è sentito di fare toccherà farlo al figlio. E un altro passettino in avanti sarà compiuto. E quando Sebastiano lo accolse, con un abbraccio sincero, il figlio dell’usuraio gli sussurrò, insieme a un fraterno «devi essere forte», un’altra frase, che la particolare circostanza privò del vero senso: – Puoi contare su di me. Vero senso che al giovane Sebastiano divenne palese un paio di settimane dopo, quando, nella lurida bottega che il vecchio Scipione si ostinava a mantenere a due passi dal monte di pietà, da seicento anni la piazza degli usurai (che te devo di’, fijo, io so’ un sentimentale ), il debito lasciato insoluto dal defunto ingegner Laurenti fu rilevato dalla finanziaria Stella d’Oriente. Sebastiano avrebbe potuto cavarsela con la rinuncia all’eredità, se solo suo padre non l’avesse coinvolto. Ma aveva firmato, e non poteva tirarsi fuori. Risultava formalmente titolare di società decotte. Debitore in proprio. E fu cosí che il ragazzo Laurenti, da brillante promessa dell’economia capitolina, divenne, grazie a un’altra mezza dozzina di firme apposte in calce a complessi contratti, lo schiavo personale del suo fraterno amico Manfredi.

XII. Le ventidue. Ci siamo, pensò Tito Maggio. Gli ospiti stavano arrivando. In via dei Banchi Nuovi, cuore della Roma barocca, attraverso i vetri della porta d’ingresso, lo chef e patron della Paranza, «il ristorante di pesce vivo per chi vuol sentirsi vivo», vide fermarsi una Bmw serie 7 grigio metallizzato con lampeggiante. L’autista si precipitò ad aprire lo sportello posteriore, porgendo il braccio al prelato che ne scese. Alto, elegante nel suo clergyman, era accompagnato da un uomo che doveva avere la stessa età. Sulla sessantina. I capelli bianchi vaporosi, indossava un completo estivo Tasmanian con panciotto, una camicia di un bianco immacolato dal collo alto e rigido e una cravatta a pois con un minuscolo stemma del Vaticano. Maggio si produsse in uno dei suoi inchini piú energici. Avvicinò alla fronte la mano profumatissima del prelato, impreziosita dall’anello vescovile. Quindi allungò la propria, di mano, verso il secondo ospite, che gliela richiuse in una stretta molle, sudaticcia. – Benvenuti alla Paranza. – Grazie, – rispose l’uomo. Che si presentò e introdusse il prelato. – Sono Benedetto Umiltà, molto lieto. Le presento sua eccellenza monsignor Mariano Tempesta. Tito fece cenno ai due ospiti di seguirlo verso il privé, che indicò con un ampio gesto del braccio, facendosi di lato. Tempesta e Umiltà furono accolti in una saletta circolare con cantina a vista, illuminata dalla luce morbida degli abat-jour e profumata da fiori freschi che, ogni mattina, Tito Maggio si faceva consegnare, in cambio di un chilo di alicette, da un accattone del servizio cimiteri del comune. – Aspettiamo lui? – Naturalmente. Ma come forse saprà, dovrebbero raggiungerci anche altri amici. – Ma certamente. Non ci corre dietro nessuno. La notte è giovane. La smorfia sprezzante del prelato lo terrorizzò. Tito rinculò verso la cucina pentendosi di quell’ultima battuta. Ma come, coi preti si metteva a fa’ lo spiritoso? E se quelli si fossero lamentati? Come gli era venuto di fa’ il piacione co’ quel corvo vaticano, testa di cazzo che non era altro! Entrato in cucina, sfogò tensione e malumore con i lavoranti. – Ma porco zio, porco. Allora sei proprio de coccio! Ma per la Madonna, Mustafà o come cazzo te chiami te, ’sti spadini de Toledo hai capito o no che li devi ficca’ nei gamberoni rossi dalla parte del culo e no della testa? Cosí me li sfragni, brutta testa de cazzo che non sei altro. Sai che vordi’ finger food, l’anima de li mortacci tua? Vordi’ che se chiedo cinquanta carte pe’ rifila’ un piatto co’ du’ gamberoni crudi da magna’ co’ le mano, ar cliente nun je devo porta’ pure li guanti, che se no se fanno la doccia co’ quello che scolano. E che cazzo! E annamo, no! Mustafà, un ragazzo egiziano con la faccia da bambino che Maggio aveva riperticato a dieci euro al giorno in una pizzeria di via Giolitti, dietro la stazione, I due briganti, dove aveva sempre fatto il lavapiatti, annuí senza avere la forza di pronunciare neanche un sí. Sfilò dalla testa i due gamberi imperiali dalle lame «spagnole», che Maggio acquistava taroccate a Gaeta da un tipo che si faceva chiamare er Cinese, e ripeté l’operazione da tergo. Nel silenzio assoluto dei suoi compari ai fornelli. Uno si chiamava Gianni, un pluripregiudicato di Catanzaro sulla cinquantina, con precedenti per reati contro il patrimonio e tentato omicidio plurimo e due braccia grosse come palanche su cui aveva tatuati uno squalo e un’orca. L’altro era Hari, un indiano sulla trentina che odiava il pesce e di mestiere, quello vero, vendeva Dvd con i grandi successi di Bollywood in un buco di via Foscolo, all’angolo con piazza Vittorio.

Tito stava per riprendere la tarantella, quando Gianni si cavò dall’angolo della bocca il mozzicone di sigaro e lo informò, lapidario, che erano arrivati i Tre Porcellini. Tito Maggio, smoccolando, uscí dalla cucina. Benedetto Umiltà sollevò con delicatezza una bottiglia di H O e riempí il bicchiere del vescovo. – Sono felice che questa sera sia con noi, eccellenza. – Credo fosse importante, no? – Fondamentale, direi. Ma siamo uomini angustiati dalle nostre piccole, sciocche smanie terrene. Quello che per noi è improrogabile, non è tale per i pastori di anime come vostra eccellenza. – Anche i pastori hanno i loro bisogni terreni e le loro impazienze, caro Benedetto, e lei lo sa bene. Tempesta sorrise, mostrando una dentatura perfetta. E Umiltà riconobbe quella smorfia a metà tra un ghigno e un’oscenità. La prima volta che ne era stato aggredito era alla vigilia del Giubileo del 2000. La Roma cristiana si apriva alla fratellanza e al portafogli del mondo intero. Centinaia di migliaia di pellegrini da ogni dove. Si imponeva un patto con la sua anima pagana. Benedetto Umiltà era l’uomo giusto. Lavorava al vertice delle opere pubbliche. Con Tempesta si era capito al volo. Don Mariano non era ancora stato ordinato vescovo, ma già studiava da cardinale. E in quell’anno di grazia, sua santità il papa lo aveva voluto ambasciatore della santa sede oltretevere per le opere pubbliche del Giubileo. Umiltà di traffichini di curia ne aveva conosciuti nella sua vita, ma Tempesta lo aveva colpito perché aveva metodo. Metodo. Era debole nella carne e negli appetiti – e questa non era una novità – ma viveva il peccato come una risorsa, un’opportunità, non una vergogna. E lo aveva capito, appunto, in quell’anno di grazia, a Porta Pia, negli uffici del ministero dei Lavori pubblici. Avevano siglato uno dei protocolli d’intesa che sbloccava i finanziamenti per l’ultima tranche di lavori del sottopasso di Porta Cavalleggeri. Tempesta, deposta la Montblanc sul lungo tavolo in cui erano state apposte le firme, aveva sorriso proprio di quel sorriso lí. Quindi, aveva appoggiato il palmo della mano destra sul dorso della sinistra di Benedetto Umiltà. – Roma, la nostra Roma, già culla di una sublime bellezza, diverrà ancora piú bella. – Senza dubbio, – aveva risposto quasi sovrappensiero Benedetto Umiltà, incerto se spendere già in quella sede il titolo di «eccellenza» che tutti ritenevano prossimo per Tempesta. Il monsignore aveva rafforzato la stretta e l’aveva fissato negli occhi. – Ma ciò di cui non dobbiamo smettere mai di ringraziare l’Altissimo, – aveva soggiunto con un sussurro morbido, – è la bellezza delle sue inimitabili opere. Prima fra tutte il corpo umano. Benedetto Umiltà era arrossito e aveva ricambiato lo sguardo. E in quel preciso istante si erano detti tutto. Benedetto era fuggito, sconvolto. Lui, che dal peccato era braccato come un fantasma che non lo mollava un istante, si era sentito morire e aveva provato a divincolarsi. Non rispondeva alle telefonate del monsignore, bucava gli appuntamenti affidandoli a sostituti scialbi, meditava persino di chiedere il trasferimento in altra sede. Una sera se l’era trovato davanti all’improvviso, nel foyer della sala di musica dove avevano appena ascoltato una selezione di compositori contemporanei dell’Est. – Non trova meraviglioso che i nostri fratelli dell’Est, pur sotto il tallone di una spietata dittatura, abbiano avuto la forza di una cosí coraggiosa, radicale elevazione spirituale? Benedetto Umiltà aveva farfugliato qualcosa, cercando ancora di fuggire. Monsignore aveva giunto le mani e scosso il capo. E sul suo volto affilato era comparso quel 2

sorriso cosí dolce, cosí tremendo. – Tu sei pronto, Benedetto. Ma non hai il coraggio di ammetterlo. Ho la mia macchina qui fuori. Ed era venuta la liberazione. Un sole rivelatore che, di lí in avanti, avrebbe illuminato le cose di un’altra luce. Se ora Benedetto Umiltà viveva il desiderio come un dono, era grazie a lui, a Mariano Tempesta. Ma sí, il Giubileo e quell’incontro lo avevano proiettato in un’altra dimensione. Non solo della carne. Era entrato nel Giro Grande. Gli appalti del Giubileo lo avevano fatto ricco. E negli anni successivi il suo conto allo Ior era diventato a otto cifre. Tra un ministero e l’altro, era sopravvissuto alle diverse maggioranze, sinistra e destra, che si erano alternate alla guida del paese con la stessa difficoltà con cui ci si cambia la camicia al mattino. E del resto, che diamine, era un tecnico, lui. Un civil servant. Naturalmente, sostenuto da Tempesta che, da vescovo, si era rivelato, se possibile, ancora piú ambizioso nei suoi appetiti. Nel suo nuovo incarico, il monsignore controllava e amministrava una fetta del patrimonio immobiliare a Roma della santa sede. Case magnifiche, nel cuore del centro storico, affittate a residenza o scannatoio di una pletora di boiardi, manager, giornalisti, amanti di sottogoverno di cui Umiltà si rendeva garante e insieme ricattatore. E ora, il gioco si faceva ancora piú grande. Sotto il tavolo, silenziosamente, la sua mano cercò quella di Tempesta, che rispose, pronto. Tito Maggio si richiuse alle spalle la porta scorrevole in vetro che separava quell’acquario dell’open kitchen dalla sala da pranzo. Lisciandola, si tirò la cuffietta da chef sulle tempie, controllando che l’irrimediabile unto dei capelli non l’avesse già macchiata. Controllò l’ora – le ventidue e trenta – e provò a reprimere l’affanno che gli insufflava il diaframma come un mantice. Un tic, in realtà. Che lui imputava alla piotta di grasso e gonfiore che si portava a spasso, ma che era solo la spia degli attacchi d’ansia che regolarmente lo aggredivano. Il Samurai era un maniaco della puntualità. Quel ritardo non era da lui. Purché non gli desse buca. Quella era la sua sera. La sera della resurrezione di Tito Maggio. I Tre Porcellini sedevano al solito tavolo d’angolo. Non all’interno – ché co’ ’st’aria condizionata ce fai veni’ ’a sciatica – ma nel giardino su cui si affacciava la sala da pranzo a volta foderata di legno e reti da pesca. Proprio sotto la limonaia di cui ancora non aveva pagato i vasi. Meglio cosí: almeno se vedevano poco e la clientela chic nun se schifava. I Tre Porcellini. La sua disgrazia. Dante, Amedeo, Scipione. Tre cugini, dicevano, ma sta’ a vede’ se era vero. S’erano ingrassati quando a Campo de’ Fiori comandava il Dandi ed erano cresciuti lustrando le scarpe del Secco. Messi insieme, facevano duecento anni. Vecchi, brutti, stronzi, immortali, come le cravatte che facevano nei compro-oro in piazza del Monte di Pietà e in viale Trastevere. Botteghe che non chiudono mai, come i campisanti. Tito era fuori con loro di cinquecentomila euro. Troppe spese avventate, troppi affari sballati, troppa cocaina. Cinquecento pali. Con interessi del sessanta per cento annuo. E per quanto avesse gonfiato il listino prezzi come una mongolfiera, non gli stava dietro. Anche perché di tutto aveva deciso di fare a meno, ma non della coca. Certo, la polvere in parte se la ripagava spacciando. Ma era poca cosa, venti-trenta grammi al mese solo per gli amici. E in parte con i trionfi di crudi che recapitava puntuale, alle dodici di ogni giorno che dio mandava in terra, domeniche incluse, a Villa Marianna, la clinica convenzionata del professor Temistocle Malgradi, il fratello dell’onorevole. In quella clinica, Ciro Viglione, il re di Casapesenna, era agli arresti ospedalieri. Era sano come un pesce, don Ciro, e cazzo quanto magnava pure lui. Ma, povero Tito, non bastava. Non bastava mai. Piú era nella merda, piú pippava. Piú pippava, piú la merda lo sommergeva.

Aveva persino pensato di ridarsi al porno, del quale era stato, in un’altra vita, apprezzato interprete. Ma ridotto com’era, che sembrava un incrocio fra Ollio e quello grasso dei tre moschettieri, com’è che se chiamava… manco per una commedia in costume, se lo pijavano! Comunque, i Tre Porcellini erano ormai ospiti fissi della Paranza. A pranzo e a cena. Antipasto, primo, secondo, dolce, caffè e ammazzacaffè. Quando erano satolli, ordinavano un giro di Averna e lo chiamavano al tavolo. Gli indicavano una sedia accanto a loro e cacciavano dalla tasca uno di quei taccuini Pigna a quadretti, unti e con le orecchie, riempiti di numeri dalla calligrafia incerta che è degli analfabeti. – Tito, nun te pensa’ che scalamo gnente. Sempre cinquecento pali ce devi da’. – E che famo? – Quando uno magna bene, nun je viene prescia. E qui se magna bene, Tito. Ecco che famo. Se dimenticamo la prescia. Li abbottava come zampogne solo per spostare il ciglio del baratro un po’ piú in là. Ma la cosa, viva iddio, stava per finire. Afferrò al volo Natasha, la studentessa russa che arrotondava con le marchette, e le sussurrò di tacere ai Tre Porcellini la prima scelta del giorno. Quella era roba destinata alle boccucce di chi lo avrebbe tirato fuori dai casini. Il sor Amedeo, in quel momento, lo inquadrò e con un cenno gli ordinò di avvicinarsi al tavolo. Tito mandò avanti Natasha, ma fu costretto a seguirla. – Buonasera, signori, già scelto? – Anvedi, ce sta la russa! Senti, bella, da beve’ ce porti quer vino là tedesco. Come cazzo se chiama? Ge… Ge… – Gewürztraminer. – Brava. Da magna’, se famo tre antipastini caldi… Ce lo sai, quelli con quei pezzetti de pane tostati co’ sopra li polipi, no? I soliti, insomma. Poi ce fai tre carbonare de mare. E poi… de fresco che ci avete? – biascicò Scipione, come se la cosa gli costasse uno sforzo intollerabile. – È tutto fresco, qui. – Seeh, bonanotte. Ieri ho ruttato er pesce spada fino a colazione. Famo cosí. Facce er rombo co’ le patate. – Forno? – E come, se no? Bollito? Ahò, ma te t’o magni er pesce o lo scrivi solo? Risero di gusto alla battuta. – Ahò, Ahò, Tito! Di’ alla russa de non usa’ come ar solito er braccino. Porta abbondante, no quei soliti piattini da froci. Niente di nuovo sotto il sole. Recitavano sempre lo stesso copione, ’sti zozzoni, e tutte le volte a Tito gli rodeva. Quanto gli rodeva! – E dàje, Tito, nun fa’ quella faccia! Ce lo sai che te volemo bene! Er sor Amedeo s’alzò, vacillando sulle gambette tozze, e pretese di abbracciarselo e baciarselo. Tito si rifugiò in un mezzo sorriso. Freddi li avrebbe voluti baciare i Tre Porcellini. Freddi. Ma pensò anche, guardandosi intorno, che quella sera trovarne uno di quelli seduti che non mangiassero a sbafo come loro era un’impresa. C’era quel troglodita di Roberto Gerani, un ex muratore che si faceva chiamare ingegnere e che gli aveva ristrutturato il locale. Con lui stava fuori di centomila cucuzze e avoja a magna’ a scrocco. C’era quel Pm abbronzato tutto l’anno che parlava sempre di barche a vela e ogni volta cambiava fica. C’era pure quello zozzone dell’ufficio Passaporti, Dario Bernardi, con l’amichetto del Viminale, due checche che te le raccomando. Al culmine della disperazione, aveva anche pensato di buttarsi a pietà con loro. E ci aveva pure provato una sera di un

paio di settimane prima. Ma aveva capito subito l’antifona. – Disturbo, dottore? La posso interrompere un attimino? – aveva sussurrato piegandosi quasi a squadra di fronte al tavolo di Bernardi. – Ma si figuri, Tito. Mi dica, lei qui è il padrone. – Ecco, dottore, il problema è proprio questo. – Quale? – Chi è il padrone. – Ma era una battuta, forse mi ha frainteso. – No, voglio dire… Io avrei un problema con il locale. Nel senso che sono in un momento… – Tito, ora la devo interrompere. Mi scusi, eh, ma la interrompo io, la interrompo! La voce della checca era andata in falsetto. – Per carità. Mi sono spiegato, no? – Assolutamente. Forte e chiaro, si è spiegato. Ma le dico che con i controlli dei Nas io non posso farci niente. Che pezzo di merda. Lo sapeva tutta Roma, anche i sassi, che lui stava alla canna del gas con gli usurai. Ma quali Nas, vaffanculo. Maggio non era andato oltre. Aveva rinculato dal tavolo con un altro inchino, chiedendo ai due froci se gradissero un bis di ostriche. E al cenno affermativo, si era affacciato nella open kitchen sussurrando a Mustafà di liberarsi di quella partita di molluschi che per quanto puzzavano avevano dovuto parcheggiarli nel vicolo. Ma doveva fini’. Stava finendo. Con la coda dell’occhio vide che la porta d’ingresso si stava aprendo, piantò in asso i Tre Porcellini e si precipitò ad accogliere i nuovi giunti. Nemmeno due minuti dopo interrompeva l’intimità silenziosa del privé con alto prelato offrendo un maestoso secchiello di ghiaccio semovente in cui stava orgogliosamente piantata la prima bottiglia di champagne millesimato Ruinart Blanc de Blancs. Avrebbe provveduto personalmente ai rinforzi, al momento opportuno. Il meglio, per i suoi ospiti, il meglio e al meglio. – Ecco altri degli amici che aspettate. Prego, signori. Prego. Erano due tipi sulla sessantina dall’eleganza dozzinale, insaccati in completi scuri e annunciati da un profumo di barberia. Benedetto Umiltà si alzò come una molla dalla sua sedia. – Sua eccellenza, le posso presentare Ciro Viglione e Rocco Perri? Tempesta, sorridendo, ritenne di non doversi alzare, e con un movimento morbido della mano lasciò che i due omaggiassero l’anello. Umiltà andò avanti con i convenevoli. – Sono gli imprenditori di cui le parlavo, eccellenza. Il Sud che non si rassegna. Il dottor Perri è calabrese di Cirò Marina. Il dottor Viglione è campano di Casapesenna. Il vescovo annuí, lasciando che Umiltà proseguisse, mentre Viglione e Perri si accomodavano al grande tavolo rotondo, frugando nel cestino del pane. – Posso assicurarle, eccellenza, che il dottor Perri è un visionario. Quel che tocca diventa oro. Perché vede l’oro lí dove sembra che nulla luccichi. E grazie a questo talento è uno degli imprenditori piú liquidi di Roma. Per carità, non voglio fare i conti in tasca a nessuno, ma se il dottore mi permette, direi che novecento milioni non sono lontani dalla verità. È corretto? Masticando un bottoncino di pane all’olio, Perri annuí e dispensò qualche parola di saggezza. – Mio nonno mi ha insegnato che i soldi si fanno con i soldi. Quindi, di soldi non ce ne sono mai troppi, giusto, eccellenza? – Le opere dell’uomo sono opere di Dio. E in fondo cos’è il denaro se non un’opera dell’uomo, –

motteggiò Tempesta. Viglione si associò alla considerazione sollevando in cenno di intesa la flûte di champagne. – Hai avuto fortuna, Rocco, ad avere un nonno cosí. Io devo tutto ai padri gesuiti di Caserta. Loro mi hanno indicato la strada. – E che strada, – cinguettò Benedetto Umiltà. – Pensi, eccellenza, la famiglia di questo signore ha costruito Latina. E questo signore ci ha regalato il tunnel di Porta Cavalleggeri, il Santo Bypass. Ricorda, vero, il nostro primo incontro? – Come potrei dimenticare? – sorrise Tempesta. Viglione scolò il fondo della flûte, assaporando quella serata fuori da Villa Marianna, dove lo avevano messo agli arresti ospedalieri ormai da un anno ma dove non aveva mai smesso di fare ottimi affari. Entrando e uscendo quando voleva. Conosceva gli uomini, Viglione. E fissando il monsignore comprese che era a posto. Non faceva domande, e questo era un requisito necessario. Anzi, la prima regola degli affari. Non chiedere mai dove maronna aggio truvate i suorde. Lui ne aveva una montagna, quanti e piú di Perri, che pure tra coca, slot machine, piattaforme per l’azzardo on-line, ristoranti e locali non sapeva piú dove metterli. Ma Viglione sapeva anche che una montagna di suorde ne avrebbe continuati a fare se il Samurai non raccontava strunzate. Ogni euro alzato con la coca finiva nei cantieri. Tra il Fungo dell’Eur e Caserta non si muoveva un mattone, una ruspa o una betoniera che lui non volesse. E se ora arrivava anche la benedizione di Dio, ’azz alla Maronna. – Ma che gente importante, non sarà troppo per noi? La voce dell’avvocato Davide Parisi fece rivolgere i commensali verso l’ingresso del privé. Era arrivato con Michele Lo Surdo, commercialista e socio di Parisi. L’uno e l’altro sui quarantacinque. L’uno e l’altro pupazzi del Samurai, che li aveva conosciuti ragazzini in una sede del Fuan, l’organizzazione giovanile dell’estrema destra. L’uno e l’altro vestiti in morbidi gessati di Cenci. Lo Surdo era un contabile spregiudicato. Poco piú che una testa di legno al centro di una rete di società off-shore che apriva, chiudeva, spostava come carrarmatini del Risiko. Controllava un paio di cartiere che utilizzava per il Samurai, ovviamente, ma anche per la numerosa clientela di evasori che si ritrovava e per la quale le fatture false erano come l’aria. Viveva in una villa a Grottaferrata, stravedeva per le escort e di Parisi era la naturale appendice. Lo Surdo conosceva la straordinaria modestia professionale di Parisi. Un figlio d’arte. E che arte, visto che il padre era diventato famoso difendendo il Dandi. «Davide Parisi? L’avvocato penalista che non sa cos’è il codice penale e la procedura l’ha studiata in tribuna Monte Mario all’Olimpico», come spesso gli diceva sfottendolo. Ma ne ammirava l’assoluta spregiudicatezza, di cui neanche lui era capace, e in qualche modo anche il fegato. Parisi era una nullità, ma pronta a tutto. E per questo il Samurai lo proteggeva e gli avrebbe presentato il cliente della vita. Rocco Anacleti. Anche per conto di quel gitano erano là. E la gente seduta a quel tavolo, a cominciare da Viglione e Perri, significava che la cosa era davvero in dirittura di arrivo. Parisi fece un rapido giro di tavolo stringendo le mani degli altri commensali, infine si arrestò sorridendo di fronte a Tempesta. – Ho detto al collega che difende quel nostro amico alla sacra rota che per quella vicenda allora siamo intesi: andiamo all’annullamento per mancata consumazione, – disse Parisi al vescovo. – Ha fatto bene, avvocato. Si figuri, mi avevano informato che intendeva procedere per impotentia coeundi. Ma come si fa, ho spiegato al suo collega. Quel fior di ragazzo lí. Suvvia. Lo Surdo prese posto accanto a Benedetto Umiltà. – Si ricordi, dottore, di passare in settimana da me, perché risolviamo la questione di Cipro. Cosí

poi procediamo con quel blocco di transazioni sullo Ior. Sa, non possiamo tenere ferma la cosa per troppo tempo. Umiltà annuí e controllò l’orologio. Le ventitre. Il Samurai tardava. Anche Tito Maggio friggeva. – Aspettiamo, lui, naturalmente, – ripeté, forse per la decima volta, con il solito affanno ai commensali. E nel riceverne l’assenso, decise di mostrare di cosa era capace. – Una tartare di aragosta, nell’attesa? Altrimenti, anche un bel piatto centrale con un’insalata di cannolicchi, scampi marinati, compote di polipo, gamberi imperiali alla maniera di Toledo, sushi di cernia… – Avete ostriche? – chiese il vescovo. – Non mi sono permesso di elencarle, mi sembrava banale. Le ostriche le porto normalmente insieme al pane e all’acqua. Le faccio a modo mio. – Cioè? – Le ghiandole salivari del vescovo gli avevano allagato la bocca. – Le serviamo con caviale Beluga e tisana di scorfano. Perri alzò l’indice della mano destra. – Quella roba buona di frodo dell’altra volta, cos’era? – C’è anche stasera. Il carpaccio di dentice della riserva integrale marina di Ponza. – Quello! – ammiccò il calabrese. Benedetto Umiltà, raggiante, mimò un applauso congiungendo morbidamente le mani. Maggio si affacciò trafelato nell’open kitchen e allungò la comanda ai tre in cucina. – Mustafà, prova a fa’ ’na cazzata adesso co’ ’sti piatti e te servo a tranci domani a pranzo. Ma perché il Samurai tardava tanto? Tito Maggio provò un brivido di terrore. Che l’avesse mollato anche lui? Doveva rassegnarsi a finire i suoi giorni da schiavo dei Tre Porcellini? Il Samurai faceva mostra della consueta flemma algida, ma la furia era alle porte. L’orologio della Mela stregata di corso Vittorio Emanuele II segnava quasi le ventitre. Rocco Anacleti era in ritardo di oltre un’ora. Anni prima, quel posto l’aveva bruciato, quando ci andavano a prendere il fresco quelli di sinistra. Che spreco di energia. Rivolse uno sguardo all’angelo del Cellini, al centro del ponte che portava a Castel Sant’Angelo. Gli piaceva il Cellini. Si sentiva come lui. Un po’ bandito e un po’ artista. Spinse sul bancone la tazza di tè verde che aveva ordinato per ingannare l’attesa. – Ho chiesto un tè, non un infuso di verdure. E lo avevo chiesto tiepido. Il ragazzo del bar ritirò la tazza con un brivido. Non aveva mai visto occhi ferocemente inespressivi come quelli di quel cliente vestito di nero da capo a piedi. Anche se a sottrarlo a quegli interminabili secondi di silenzio fu l’arrivo della persona che il cliente sembrava stesse aspettando da un po’. – Ciao, Samurai. – La puntualità dice tutto di un uomo. Rocco Anacleti scosse la testa con una smorfia. Il Samurai lo afferrò per un braccio e insieme uscirono in strada, incamminandosi verso via dei Banchi Nuovi. – Hai ragione. Hai perfettamente ragione. Colpa mia. – Ci aspettano alla Paranza da un’ora. E non ho chiesto io di vedersi prima. – Te lo ripeto, scusami. Ma sono pazzo. Paz-zo. Sai che vuol dire? – Qual è il problema? – Spadino. – I morti non sono mai un problema.

– I morti no. Gli assassini sí. – Sai chi lo ha ammazzato? – Il Numero Otto. E volevo avvertirti che quella merda di Ostia, ora, è un morto che cammina. Lo faccio scannare, quanto è vera la Madonna. – Come fai a essere certo che sia lui? – Non ti direi quello che ti sto dicendo. – Lo sai, vero, che detesto gli errori. – Non mi sbaglio. – Non mi basta. – A me, sí. – Non decidi tu. Decido io. – Spadino era roba mia. – Questo non ha alcun peso. A meno che tu non mi voglia dire perché il Numero Otto lo avrebbe ammazzato. – Non lo so. E non m’importa. – Dovrebbe, invece. Sei solo una testa di cazzo in collera. Che forse non merita di sedere al tavolo che ci sta aspettando. – Gli affari sono una cosa, Samurai. La roba nostra di strada è un’altra. Quella me la vedo io. – Pensavo cominciassi a somigliare a un capo. Ma nonostante l’età sei rimasto un coatto. Sai chi è il Numero Otto, vero? Sai quanto conta Ostia in quello che dobbiamo fare, giusto? No, non lo sai, Rocco. Per chiudere l’affare abbiamo bisogno di pace, non di guerra. I carabinieri hanno già bussato. Vogliamo mandare tutto a monte proprio a un passo dal traguardo? – La vendetta è sacra per me, Samurai. – Ci sarà tempo anche per quella. Anacleti strinse i pugni e respirò profondamente. Il Samurai s’incupí. – Non fare la faccia cattiva con me, Rocco. E non te lo far ripetere un’altra volta. Anzi, ti dò anche un altro consiglio. La faccia cattiva non la devi fare neanche con i poveri vecchi iraniani che fai massacrare. – Ma che cazzo è adesso questa storia? – Paga quel vecchio. Subito. – Chi te lo ha detto? – E a te chi ha detto del Numero Otto? Anacleti abbassò la testa. Ormai vedevano l’ingresso della Paranza. – Va bene, Samurai. – Va bene significa che fai quello che dico io. Che dimentichi il Numero Otto e paghi il vecchio. Chiaro? – Va bene, – concesse Rocco. Era una promessa al vento, ovviamente. Come tutte quelle che un capo rom fa a un gaggé. Sí, certo, di fronte a lui c’era il grande Samurai. Ma anche il Samurai era un gaggé. E, soprattutto, ragionava da gaggé. La vendetta non è qualcosa a cui si possa rinunciare cosí facilmente. La vendetta è il sangue, il cuore di un capo. Perciò, Samurai, dovrai fartene una ragione. All’ingresso della Paranza, Tito Maggio accolse il Samurai con un abbraccio da cui quello si sfilò con disgusto. – Puzzi. E io non ho ancora cenato.

– Scusami. Ma sai, la felicità di vederti. E poi questa serata magnifica… – Ti ho già detto che devi solo pensare a far godere il palato del vescovo e di quel frocio del suo amichetto. Fallo e ai tuoi problemi penso io. Non c’è bisogno che mi abbracci e mi imbratti della tua sugna. Preceduto da Anacleti, il Samurai entrò nel privé interrompendo gli antipasti. Per la prima volta, il vescovo si alzò. Il Samurai lo afferrò per gli avambracci, fissandolo. – Eccellenza, lei è il nostro pastore e questa è la sua famiglia. Con la sua benedizione e il suo ascolto, le nostre saranno opere di bene. – Sono qui per ascoltare, – annuí il vescovo. Il Samurai fece segno di continuare a mangiare. A tutti, tranne che a Losurdo e Parisi. – Tirate fuori le planimetrie, i progetti, le stime e i documenti con la proposta di variante del piano regolatore. E spiegate a sua eccellenza e al dottor Umiltà a cosa pensiamo quando diciamo housing sociale e Waterfront.

XIII. S’era raccomandato, il capo. Un lavoro come si deve. Due, tre, quattro… Insomma, le «botte» che servivano. Niente stronzate. Niente chiacchiere in giro. Muti come pesci. Con tutti. E nessuna traccia. Il ferro doveva essere pulito e pulito doveva essere il «cavallo» da portare al pascolo. Naturalmente, Paja non aveva la piú pallida idea del perché gli Anacleti avessero deciso di parcheggiare il Numero Otto. C’entrava forse Spadino? Possibile. Ma non c’era un patto con quelli di Ostia? Boh. Sai che c’è? Pace, s’era detto. E non solo perché non era dato né discutere né fare domande quando l’ordine arrivava da Rocco. Ma perché, come diceva suo nonno, pensare mette ansia. Senza contare che, certe volte, il lavoro era ’no sballo. Come stavolta. Ma sí. Il Numero Otto era da mo’ che esagerava. Un buffone che faceva il frocio cor culo dell’altri. Quello dello zio che stava al gabbio, innanzitutto. Ma anche quello di Denis, il suo compare. Per carità, un altro schizzato da niente. Ma vòi mette’? Denis sí che ci aveva le palle. E le palle non le compri mica al supermercato. In fondo, ar Numero Otto gliel’aveva giurata anche lui. Vecchie storie di pischelle. A un certo punto il Numero Otto s’era messo in testa che ci aveva una specie di diritto a farsele prima degli altri. Anche se era roba degli amici. Anche se gli amici ci tenevano. Era andata cosí co’ una che a Paja l’aveva mandato ai matti. Vanessa. Il Numero Otto ci aveva messo sopra le zampacce, e quando lui aveva protestato, gli aveva riso in faccia. – Come sarebbe a di’, Paja, che nun se toccano le donne dell’amici? E noi mica semo mai stati amici! Ecco. Apposta. Al ferro aveva pensato lui. Una Luger 9×21 di fabbricazione slava, appena arrivata da Bar, il porto franco della Macedonia. Il tipo che gliel’aveva rimediata, un pregiudicato che abitava a Mungivacca, dall’altra parte della Romanina, gliel’aveva lasciata in una baracca alle spalle dell’Ikea. Perché era «mejo nun vedesse». Quanto alla moto, Fieno l’aveva presa in prestito da un dottorino del Quadraro, uno di quei tipi precisi, gentili da fa’ schifo. Pippato sino al midollo. Se avesse immaginato a che cosa doveva servire la Bmw Gs Adventure 1200 gialla e nera della quale andava cosí fiero… ma d’altronde, quanno la narice è a secco, te ricordi dell’amico Fieno, no? E quindi, paga i tuoi debiti, dotto’. Non si respirava in piazza Lorenzo Gasparri. Era una di quelle notti senza un filo d’aria. Il mare puzzava di fogna per quanto era immobile. Manco i tossici a largo delle Sirene, la piazza di spaccio che controllavano, s’erano fatti vedere. Schiacciandosi una zanzara sulla canotta gialla e viola dei Los Angeles Lakers – ’tacci tua, me pari ’n calabrone – il Numero Otto ripensò a quanto poteva essere avvelenato. Era seduto con le gambe a squadro sul cofano di un’Alfa Mito parcheggiata a un centinaio di metri dal Caffè Italia. E continuava a massaggiarsi la caviglia destra, gonfia come quella di un vecchio – nun me di’ che già me so’ venute le vene varicose, che cazzo. Quella sera aveva detto a Moira, la barista tatuata e un po’ frolla che un tempo gli aveva fatto da nave scuola, di chiudere prima. Con quel caldo, neanche i tossici delle slot s’erano fatti vedere. Pensava che la cosa le avrebbe fatto piacere, ma il cambio di programma l’aveva stranita. E solo quando lei aveva tirato giú la saracinesca del bar, lasciando intravedere delle autoreggenti sotto la gonna rossa che le strizzava il culone, aveva capito. Le si era avvicinato un romeno da un quintale sulla cinquantina, e le aveva allungato un bacetto sulla guancia. Tu guarda ’sta pora Moira. Da che se la cavalcava zio Nino, s’era ridotta a uno de ’sti slavi arrapati senza ’na lira.

Sul raccordo, Fieno prese i centosessanta quasi senza accorgersene e, decelerando con un brusco stacco all’altezza dello svincolo della Cristoforo Colombo in direzione Ostia, sollevò la mentoniera del casco integrale per rivolgersi a Paja, piegato su sé stesso nel suo giubbetto jeans, al cui interno stringeva la Luger. – Certo che ’sti cazzo de tedeschi so’ fenomenali. A’ Paja, hai sentito che robba ’sto Boxer? Avoja a di’ le giapponesi. Le giapponesi un par de palle. Questa, come la apri voli. – Se, vabbe’. Però quando vai a fa’ er tajando poi ridi. – Ma perché, te fai er tajando? – No. – E allora? – È cosí. Tanto pe’ di’. – Io a volte nun te capisco, Paja. – Che c’è da capi’. – Nun te ’ncazza’, eh. Ma è che a vorte me sembri proprio un cojone. Attraverso il giubbotto, Paja fece sentire la Luger, appoggiandola sulla schiena di Fieno. Quasi al centro del logo «Dainese» che la copriva. – Lo vedi che te sei subito incazzato? – Fieno, nun ci ho fantasia. Abbi pazienza. – E che avrò detto mai. Sto a scherza’. Che, sei nervoso? – Me vojo sbriga’ co’ ’sto lavoro che dovemo fa’. – A’ Paja, fosse la prima volta, capirei. Ma è ’na vita che stamo in mezzo a ’ste tarantelle. – Ma che hai capito, Fieno? Pe’ me da’ du’ botte è come fasse ’n’amatriciana. Ci avevo diciannove anni quando ho parcheggiato il primo. Pensa te. Ma dev’esse’ ’n’amatriciana fatta bene: è chiaro, no? – M’hai fatto veni’ fame. E se ce facessimo un panino? A stomaco pieno se lavora mejo. C’è un bel kebab al primo bivio pe’ Casalpalocco. – Che ce sta? – Un kebab. – Ma vedi d’anna’ affanculo, va’. Apri, apri. Che se no quello nun lo beccamo. Il Numero Otto s’era attaccato al cellulare. Stava gentilmente spiegando al gestore di uno stabilimento, in ritardo di due mesi sulla «messa in regola», che passare quel che gli restava da vivere sulla sedia a rotelle non era il massimo, perciò pagasse, e senza perdere tempo, quando la moto con a bordo Paja e Fieno arrivò lentamente dal lato del lungomare Duca degli Abruzzi. Fieno scalò in prima, tenendo i trenta all’ora, con la mano sinistra a chiudere la leva della frizione. Paja sollevò la visiera del casco integrale per avere una visuale pulita. La piazza era deserta. Notò le saracinesche del Caffè Italia abbassate. – Ma tu guarda. Perché è chiuso? Mo’ ’sto stronzo ’ndo’ sarà finito? Finché l’imprecazione non si strozzò con la scarica di adrenalina che gli arrivò al cervello alla vista del tipo in canotta gialla seduto sul muso di quell’Alfa. – Eccolo, bello de zio. Eccote qua. Mo’ hai finito de comanda’. Con la mano sinistra, Paja diede un leggero colpetto al fianco di Fieno, che rallentò ancora. Trenta metri. Venti. Ora Paja poteva distinguerlo perfettamente, il Numero Otto. Si era appena infilato il cellulare in saccoccia. Paja strinse la presa sul calcio della Luger, la estrasse dal giubbotto, tese il braccio destro. Tirò la prima botta quando la Bmw fu in parallelo con il bersaglio. E il colpo fece

esplodere il lunotto dell’Alfa. Il Numero Otto si gettò su un fianco, cadendo sull’asfalto tra l’Alfa e una Volvo che l’affiancava. Si mise a strisciare carponi. Mentre la semiautomatica di Paja tornò a vomitare fuoco. Non riuscí piú a distinguere quanti fossero i colpi. Prono com’era, avvertí soltanto un dolore lancinante al timpano e una pioggia di cristalli frantumati che gli rimbalzava sul dorso delle mani con cui si era coperto la testa. Non sentí nemmeno il grido che precedette di una frazione di secondo il tiro di prima con cui la moto ripartí. – Vai! Vai! Ma gli occhi. L’occhi sua erano boni. Si rialzò lentamente, inquadrò il retro della moto mentre piegava a sinistra per tornare verso il mare. Fissò nella retina il passeggero sul posteriore della sella. La merda che gli aveva sparato. Una lunga coda di cavallo bionda usciva dal casco integrale. E lui quella coda la conosceva. Rimasero muti fino all’altezza dell’Axa. Quando Fieno rallentò e tornò a sollevare la mentoniera del casco integrale. – Nun se rialza quello, vero, Paja? – Penso di no. – Pensi? Paja tacque. Qualcosa gli diceva che l’agguato era andato male. Ma non aveva il coraggio di ammetterlo. Marco e Alba arrivarono mezz’ora dopo. La territoriale e le tute bianche del Ris erano già sul posto. Due insonnoliti cronisti locali prendevano appunti. Il sostituto procuratore di turno, annoiatissimo, fumava una sigaretta dietro l’altra. Il cast della scena del delitto schierato al completo, insomma. Be’, non proprio al completo. Mancava la vittima. Il sangue. I testimoni. E il pubblico. – Qualcuno ha sparato a qualcun altro e non l’ha beccato, – confidò sconsolato il tenente che comandava la compagnia di Ostia, – è tutto quello che sappiamo. Per il resto, nebbia assoluta. Abbiamo recuperato otto bossoli, ma possono essercene degli altri. Nessuno ha visto niente, nessuno ha voglia di raccontare niente. – È notte, – commentò Alba, reprimendo uno sbadiglio. Il tenente le scoccò un’occhiata ironica. – È Ostia, – replicò, indicando le finestre sbarrate, le strade deserte. – Sí, – confermò Marco, – a quanto pare pochi curiosi da queste parti. Il tenente sorrise. Si chiamava Nicola Gaudino, veniva da Napoli e si capiva che moriva dalla voglia di tornare all’ombra del Vesuvio. La geografia dei clan camorristici, per quanto complicata, gli sembrava molto piú abbordabile della rigorosa omertà ostiense. Fra un adempimento e l’altro, si era fatto giorno. Il sostituto procuratore se ne tornò a Roma. Il Ris sbaraccò. I primi viandanti mattinieri si affacciavano, lanciavano un’occhiata vagamente incuriosita alle transenne e ai veicoli con le tracce inconfondibili degli spari, poi tiravano dritto. Sisto stava aprendo. Un vecchio cameriere riconobbe Gaudino e si offrí di preparare per tutti un bel caffè nero bollente. Presero posto a un tavolino ancora irrorato della fresca rugiada della notte. Il tenente apostrofò il cameriere. – Hai sentito niente stanotte, Giova’? Quello allargò le braccia, in un gesto rassegnato.

– Io vedo ai tavolini le solite facce, tenente. E magari posso pure capi’ quello che dicono. Ma mi faccio gli affari miei. Certi nomi è meglio non farli. – Ma perché? – s’intromise Alba. – Eh, signora cara, – sospirò il cameriere, – voi venite, vedete, magari fate pure qualcosa. Ma poi ve ne andate, e io qua ci devo vivere. Perciò, certi nomi è meglio non farli. – I Sale. Vecchia aristocrazia del crimine, se di aristocrazia si può parlare. E gli Adami, – recitò stancamente il tenente, – il vero capo è lo zio, Nino, ma sta in galera. Ha lasciato gli affari al nipotino Cesare, che si fa chiamare Ernummerootto per via della testa conciata come una palla da biliardo. Gestisce un locale, l’Off-Shore, con altri schizzati come lui. Sospettiamo che faccia un po’ di tutto. Droga, appalti, persino qualche rogo agli stabilimenti che non si mettono in regola. – Omicidi? – s’inserí Marco. Gaudino fece una smorfia perplessa. – Hanno tolto di mezzo due vecchi boss di spessore qualche anno fa. Casi irrisolti, certo. Ma per qualche ragione, penso che con quei due morti gli Adami e i Sale abbiano fatto pulizia e siano diventati i padroni. Per averne la prova bisognerebbe essere un cespuglio all’ombra dell’Albero dell’Impiccato. – Albero dell’Impiccato? – si incuriosí Alba. Marco sbuffò. Ah, la memoria storica. – È il cuore della pineta di Castel Fusano. C’è una panchina. Ai vecchi tempi ci andavano quelli della banda. Intervenne Gaudino. – Sí, ma oggi è un’altra cosa. Oggi ci vanno perché lí non prendono i telefoni cellulari. E comunque quel Cesare è capace di tutto. In ogni caso, la gente non parla. – Oh, ma qua mica stiamo a Scampia, porca miseria! – sbottò Alba. – Stiamo a Roma, qui. A venti chilometri dal Colosseo. – Capitano, mi spiace dirglielo, – la interruppe Gaudino, – ma la verità è che qui i cattivi pensano agli ultimi. Dànno lavoro e anche uno straccio di speranza a chi non ne ha. Se ti rubano il motorino, qui, non vai in caserma, dove ce ne stiamo chiusi noi. Vai qua dietro, a piazza Gasparri. E il guaio è che lí il motorino lo ritrovano, mentre noi li salutiamo con la nostra brava denuncia. Ma che è una denuncia? Un pezzo di carta. Qui, ai cattivi gli vogliono bene, capitano. – Questa storia la raccontavano anche a Corleone, – tagliò corto Marco. – Ma a un certo punto è finita –. Rivolto a Gaudino, gli ordinò di organizzare immediatamente un pattuglione. – Li tiri tutti giú dai letti. Gli Adami, i Sale, i loro scherani, i pischelli, i piccoli spacciatori, le mogli, le sorelle. Tutti. Si prenda venti uomini, no, trenta. Se le servono unità, provvedo io. Li carichi sui blindati e li porti a rinfrescarsi le idee in caserma. Interrogatori come si deve e perquisizioni a tappeto. Facciamogli sentire il fiato sul collo. Gaudino, che se lo sarebbe abbracciato, si limitò a scattare sull’attenti. Marco ci pensò un po’ su, poi aggiunse l’ultima raccomandazione. – E a tutti, dico tutti, chiedete del Samurai. Fate i vaghi, come se non ve ne fregasse niente, una cosa di routine. Sia il tenente che Alba lo fissarono stupiti. Marco si accorse, con sgomento, che quel nome, Samurai, non diceva loro nulla. Il guaio di quei ragazzi era l’età. Il difetto di memoria, appunto. Vivevano nel presente. Toccava a lui il riassunto delle puntate precedenti. Con un sospiro, cominciò a raccontare l’intera storia.

XIV. Nel seminterrato della stazione carabinieri di viale Marco Fulvio Nobiliore, nel cuore di Cinecittà, un uomo basso, tarchiato e peloso sedeva su una brutta seggiola zoppicante, nella camera di sicurezza. Di fronte a lui, in piedi, stava una ragazzona di un metro e ottanta dai capelli fulvi e gli zigomi marcati. Un top di raso rosa rivelava una quarta abbondante di seno, un gonnellino verde fasciava lunghe gambe perfettamente depilate. E se l’abbigliamento denunciava senza ombra di dubbio il mestiere, bisognava guardarla con attenzione per capire che non era una vera donna. Si chiamava, infatti, Jesus Fernandes da Silva Pereira. Era nato a Recife, nella parte piú povera del grande Brasile, e aveva assunto il nome d’arte di Lorena. Dopo aver esercitato in mezza Europa, il destino l’aveva fatta approdare ai viali di Roma Est. Lavorava in zona da non piú di un paio di settimane, quando i carabinieri l’avevano fermata per un controllo. Quanto all’uomo tozzo che le sedeva davanti, era il maresciallo Carmine Terenzi. Visto che Lorena era nuova del quartiere, Terenzi, da bravo comandante territoriale, si era assunto l’onere di spiegarle le regole del gioco. – Lavori a casa o sulla strada? – Per ora su strada, senhor. Per casa serve piú soldi, forse domani. – Quanto hai fatto stanotte? – Poco. C’è crisi. Fa molto caldo. – Quanto, ho detto. – Cento. – E ti devo credere? – Lo giuro su mia madre, ho fatto solo cento! – Dammi la borsetta. Lorena si strinse al seno un affarino luccicante, probabilmente comperato per cinque euro al mercatino di via Sannio, e fece una smorfia corrucciata. – Perché tu cosí cattivo con me? Io posso fare felice… – Dammi ’sta cazzo de borsetta! – Centocinquanta, senhor. Giuro su mia sorella. Ho fatto solo centocinquanta. Terenzi si alzò, un vago sorriso sulla faccia tonda chiazzata dalla peluria di una rasatura approssimativa, e senza dire una parola le afferrò i genitali e cominciò a stringere. – Ahi! Mi fai male! – E questo è niente, ragazza mia. Su, la borsetta. Profilattici, rossetto, un vibratore e, eccoli, trecento euro. Il maresciallo scosse la testa, apparentemente dispiaciuto. – Abbiamo una personcina furbetta, qui, eh? – Scusa, senhor, – piagnucolò Lorena, – non dico piú bugie. – Vabbe’, te voglio credere perché me stai simpatica, Lorena… ma questi sono confiscati. – Ma come faccio, io devo pagare debito! Come faccio? – E datte da fa’, ché gli argomenti nun te mancano, tesoro. Il maresciallo intascò il rotolo di banconote, poi fece cenno a Lorena di sedersi. Il trans obbedí. – Allora, mo’ che se semo conosciuti, te spiego come funziona. Finché stai sulla strada, tu te prendi un isolato… mi capisci quando parlo? – Cos’è «isolato»? – Ci hai ragione, devo essere piú chiaro. Ti scegli un pezzo di strada e da là non ti muovi. Lavori, ti carichi i clienti, ti fai gli affari tuoi e nessuno ti viene a rompere i coglioni. Chiaro?

– Chiaro. – Bene. Di tutto quello che guadagni, la metà è mia. – La metà, senhor? – Sí, ci hai ragione, è un buon prezzo, ma che ti devo dire, oggi mi sento di buon umore. Non mi ringraziare troppo, eh? – Grazie, senhor. – Che fai, sfotti? – Io? No, quando mai, no, no. – Vabbe’. Per l’incasso facciamo cosí: passo io, o uno dei miei, ogni martedí. No, martedí non si può, ci sono le moldave al benzinaio… facciamo di giovedí, va bene? – Va bene. Adesso posso andare? Terenzi si abbassò la lampo e si avvicinò a Lorena. – Ma come, cosí presto? Adesso che siamo diventati amici, divertiamoci un po’. Sul piú bello – i trans ci hanno una marcia in piú, non c’è che dire, pensava fra un mugolio e l’altro il maresciallo, si capisce che alle mignotte j’hanno levato la strada, ai trans sembra che gli piaccia persino, non sono come quei cazzo di frigoriferi dell’Est – proprio sul piú bello bussarono alla porta. – Maresciallo? Il piantone. Brandolin. Un minchione di friulano alle prime armi. Deficiente come tutta la sua razza. Ah, ma con lui avrebbe fatto i conti, dopo. Due settimane di corvée ai cessi, come minimo. Lorena s’irrigidí, e mollò la presa. – Va’ avanti, chi cazzo t’ha ordinato di smettere? Sí? Che c’è? Avevo detto che non volevo essere disturbato! – Maresciallo, è meglio che venga subito. Nel tono del subalterno Terenzi percepí la sfumatura d’urgenza che segnala l’incombente rottura di coglioni. Sarebbe stato un errore sottovalutarla. Dopotutto, non era da molto che gli avevano affidato quella stazione «chiacchierata», gli affari andavano a gonfie vele. Posò una mano sulla testa di Lorena, sbuffò, si ricompose. – Co’ te finimo dopo. Andò ad aprire. Si ritrovò al cospetto della ghirba paonazza del giovane Brandolin, di un tale coi capelli lunghetti e l’aria da figlio di mignotta e di una bionda stratosferica che valeva dieci Lorene. Due borghesi ben messi. Magari qualcuno gli era entrato in casa e volevano denunciarlo. L’aspetto aveva impressionato Brandolin, che non se l’era sentita di raccogliere da solo le deposizioni. Sfoderò la sua migliore aria marziale e si rivolse con tono perentorio al povero piantone. – Brandolin, ti ho detto cento volte che i civili non sono ammessi in quest’ala della stazione. E allora accadde una cosa stupefacente. Il tipo con l’aria da figlio di mignotta bloccò con un’occhiata decisa Brandolin, che era sul punto di giustificarsi, fece un passo davanti a Terenzi e, fissandolo dall’alto in basso, con sguardo fra il provocatorio e il divertito, gli fece una domanda. – Perché, maresciallo, c’è qualcosa che non si deve vedere, là dentro? Cose dell’altro mondo! Ma chi si credeva di essere, ’sto stronzetto? A Terenzi saltò la mosca al naso. – Ma come si permette? Io sono il comandante di questa stazione! Brandolin, i documenti di questi signori.

Con gesto lento e studiato, i due civili porsero al maresciallo i tesserini. Terenzi impallidí. E scattò sull’attenti. Tenente colonnello Marco Malatesta, capitano Alba Bruni. Il Ros, cazzo. – Comandi, signor colonnello! Comandi, signor capitano! Brandolin, nello sforzo di trattenere le risa, lasciò partire un verso fra il rantolo e il singhiozzo. Lorena scelse quel preciso istante per materializzarsi sulla soglia della camera di sicurezza. Lasciò scivolare il lungo indice dall’unghia smaltata sull’avambraccio di Terenzi e, con l’aria piú tranquilla di questo mondo, disse: – Allora, senhor, io vado. Marco fissò Terenzi. Il maresciallo si schiarí la voce. – Un… normale controllo del territorio, signor colonnello. – Allora, maresciallo, c’è qualche motivo per trattenere questa signora? – Vada, vada, – borbottò Terenzi, al limite dell’isteria. Lorena liberò il campo ancheggiando.

– Controllo del territorio, – osservò sarcastico Marco, quando rimasero soli nell’ufficio del comandante di stazione. – Se la stava scopando, – precisò Alba. – Mi complimento per la finezza. – Ah, si respira un’aria di merda in questo posto. – Non riesco a darti torto. Terenzi ricomparve. Fra le mani quattro carpette con le copertine gialle. Il maresciallo, ora, era tutto sorrisi e inchini. Faceva il piacione. Mentre raccoglieva le carte che gli erano state richieste, ne aveva approfittato per mettersi in contatto con un collega della vecchia scuola, uno che sapeva vita morte e miracoli di tutta la filiera di comando. «Malatesta? So’ cazzi tua, Carmine. Quello è un colossale rompicoglioni». «Ma io non ci ho niente a che spartire». «Meglio cosí. Ma sta’ attento a come ti muovi. Gira voce che è mezzo matto». «E proprio a me doveva venire a rompere?» «Sta’ attento. È un uomo di Thierry de Roche». «Annamo bene!» Il colonnello soppesò le carpette. – Tutto qui? Terenzi si strinse nelle spalle. – Mi sembrava di essere stato chiaro, quando le ho chiesto l’incartamento di Spadino e di tutti gli altri soggetti a lui collegati. – E so’ questi, colonne’! Altro non c’è, in tutta la caserma. Marco e Alba si divisero i fascicoli e cominciarono a studiarli. Figuravano tre fermi e due arresti. Ma questo già lo avevano appreso dal terminale. Piú interessanti i rapporti. In due occasioni, Spadino era in compagnia di una coppia di soggetti dei quali l’estensore riportava generalità e, soprattutto, nomi di combattimento: Zuppa Dario, inteso Paja, e Scavi Luca, alias Fieno. Certo che la mala romana non si smentisce mai, eh! Da un altro rapporto, Paja e Fieno risultavano fermati insieme a un certo Max. Soprannome: Nicce. Come il filosofo. E questo chi sarebbe? L’intellettuale del gruppo? – Spadino… Paja e Fieno… Nicce… che sappiamo di questa gente, maresciallo?

– Be’, quello che c’è scritto… Questa volta fu Alba a interloquire. – Scusi, maresciallo, ma lei lo ha frequentato il corso, no? – E certo, capitano! – E al corso non le hanno insegnato che le cose piú importanti sono quelle che non si scrivono nei rapporti? Su, non ci faccia perdere tempo: che sappiamo di questa gente? Terenzi, sempre ossequioso, cercò di minimizzare. – Ma io, con tutto il rispetto, direi piuttosto che so’ cani sciolti. Robba de poco conto… pesci piccoli… ecco, pesci piccoli… Terenzi sudava. Marco si sentí invadere dalla stanchezza della notte passata a dare la caccia ai fantasmi di Ostia. Terenzi non gli piaceva. E non tornava niente. – Mi stia bene a sentire, Terenzi. Lei dice: pesci piccoli. Ammettiamolo. Ma tanti pesci piccoli insieme io li chiamo paranza. E ogni paranza che si rispetti ha un pesce pilota. Quello che traccia la rotta e assegna i compiti. Ora io le chiedo: chi è il pesce pilota oggi a Cinecittà? Mortacci, colonne’, e che ci hai, la sfera de cristallo? Il sudore disegnava ormai aloni inquietanti sotto le ascelle della camicia di Terenzi. Seeh, il nome, scopritelo da te, ’sto cazzo de nome, nun ci ho mica voglia de fini’ magnato dai cani, io! – Signor colonnello, sul mio onore. Questo è un territorio tranquillo. Qua l’ultimo omicidio è di un anno fa, ed era una storia di corna. Non c’è pizzo sui negozi, anche perché, con la crisi, si sa, c’è poco da pescare, lei mi capisce. Certo, qualche rissa fra extracomunitari, ma poca roba. Sa, so’ sempre loro che dànno fastidio, i zammammeri. Ah, e poi, proprio per dirla tutta, c’è anche qualche zecca che si agita, fanno capo a un cinema occupato, l’Arcobaleno. Loro dicono che so’ gente de teatro, ma per me so’ zecche belle e buone. In ogni caso, ci ho piazzato un paio di infiltrati, la situazione è sotto controllo. Mi creda, signor colonnello: zecche e zammammeri, so’ sempre loro a fa’ casini, ma per il resto… Marco Malatesta non mosse un muscolo. Sul mio onore… ah! Zecche e zammammeri. Lo stesso linguaggio di Spartaco Liberati. La stessa cultura. La stessa paura. L’arma si apprestava a festeggiare il bicentenario. E ancora non riusciva a liberarsi dei miserabili come Terenzi. E il guaio è che tanti, troppi, continuavano a pensarla come i Terenzi. Zecche e zammammeri. E tutto il resto va ben, madama la marchesa. Magari avevano modi piú sofisticati per fartelo capire, ma la cultura era quella. Una cultura putrida e tenace, dura a morire. Marco la conosceva sin troppo bene. Perché per troppi anni era stata la sua. E a volte Marco doveva fare appello a tutte le risorse della propria fede per non soccombere. Perché c’era un altro pensiero che lo agitava. Che i miserabili fossero in realtà la maggioranza, e lui, e pochi altri, un’esigua minoranza. La faccia pulita che ostentavano nelle cerimonie ufficiali e che scansavano a spintoni quando il gioco si faceva duro. Ma non doveva cedere al pessimismo. Di pessimismo si può solo morire. Marco era sempre piú convinto di aver messo il dito nella piaga. Una piaga purulenta che infettava Roma. È da qui, da questo avamposto governato da un milite da operetta, sicuramente infedele, probabilmente corrotto, è da qui che si deve partire per arginare il contagio. Sempre che non sia già troppo tardi. Si alzò di scatto. – Sta bene, maresciallo. Alba, prendi i fascicoli. Li tratteniamo noi per esame. C’è qualcosa da

firmare? – Ci mancherebbe, signor colonnello! – Bene. Tenga gli occhi aperti, maresciallo, mi raccomando. – Comandi, signor colonnello! Terenzi scortò gli ufficiali all’uscita, continuando a profondersi in sorrisetti e salamelecchi. Restò a contemplare per qualche secondo il culo imperiale della capitana – dieci a uno che il colonnello se la tromba, poi vengono qua a fare i moralisti, ’sti stronzi –, tornò nel suo ufficio, sparò l’aria condizionata al massimo e dal telefono interno chiamò il cellulare riservato di Rocco Anacleti: una scheda svizzera intestata a un inesistente centro commerciale. – I Ros se stanno agitando per la storia de Spadino, – esordí, senza preamboli. – Non voglio rotture di coglioni, Tere’. – E io apposta sto qua. – Bravo. E vedi di comportarti come si deve. – Perciò t’ho chiamato. Per dirti di stare in campana. – Hai fatto nomi? – Ma per chi mi hai preso? – Per quello che sei: una merda di cavallo sotto lo stivale del padrone, – rispose, in romanés. – Ma se parli zingaresco nun te capisco, Rocco. – Ho detto: per il mensile facciamo domani, va bene? – Va benissimo. In quel preciso istante, Marco e Alba, in un piccolo bar a cinquecento metri dalla stazione dei carabinieri, davanti a un caffè fumante, promuovevano sul campo il giovane Brandolin Giordano da Tolmezzo «agente speciale». Il suo primo compito: sorvegliare Terenzi, osservare, riferire ogni cosa, anche il dettaglio piú insignificante. Brandolin si era appena allontanato quando telefonò il tenente Gaudino. Il pattuglione a Ostia si era rivelato una buona idea. I furbastri avevano ovviamente fatto sparire tutto il materiale compromettente, a parte due grammi di cannabis destinati alla rubrica «uso personale». E questo era già di per sé sospetto: come se si aspettassero, da un momento all’altro, un’irruzione. Quindi non solo sapevano, com’era prevedibile, dell’agguato, ma erano di sicuro coinvolti. – E del Samurai che dicono? – Niente. Bocche cucite, facce stranite, qualche sorrisetto. Ma la notizia era un’altra. – Cesare Adami, il Numero Otto, proprio lui, il capo. Sembra un sopravvissuto dello tsunami. – Dov’è adesso? – Qui da me. – Arriviamo. Alba represse uno sbadiglio, si ravviò i capelli e lo seguí. I banditi stanno tornando quelli di una volta, rifletté Marco quando si trovò faccia a faccia con Cesare Adami, detto Ernummerootto. Brutti, sporchi e cattivi. Antropologicamente connotati, si sarebbe detto. Bisogna ripristinare i confini, si disse, tracciarli in modo netto e chiaro, e tornare a renderli invalicabili. Ci siamo noi e ci sono loro, e si deve sapere, sentire, vedere. Fare, soprattutto,

si deve fare. Tuttavia, mentre il Numero Otto giurava e spergiurava di non saperne niente di agguati e sparatorie, e che i segni che recava sul volto e sulle braccia erano solo il prodotto «de ’na notte agitata co’ la mi’ regazza, Morgana se chiama, fateje ’no squillo e lei confermerà tutto», si riscoprí a evocare l’immagine beffarda, e a suo modo severa, del Samurai. Possibile che fra l’algido boss e quel bruto esistesse un qualche legame? Possibile. Ai suoi tempi, il Samurai aveva predicato la santa alleanza fra l’aristocrazia e l’orda. Che fosse riuscito a metterla in pratica? In tal caso, chi era veramente il Numero Otto? Il capetto che si vantava di essere o l’ennesimo pupazzo nelle mani del Samurai? O una via di mezzo fra i due? O il Samurai era uscito davvero di scena, come pretendeva, ed era sulle nuove leve che Marco doveva concentrarsi? Noi e loro. Noi e loro. Quanto di tutto questo schifo dipende dalla nostra debolezza? Dal nostro desiderio di somigliare a quelli che diciamo di voler combattere e che in realtà ammiriamo? E che cosa ammiriamo in loro? La libertà? La spregiudicatezza? La vita di merda che conducono? Ecco una dinamica che conosceva bene. In fondo, finché non aveva deciso di tirarsene fuori, era stata la sua storia. Si accorse che Alba e Gaudino lo fissavano, in attesa di una sua decisione. Anche il Numero Otto lo scrutava, e dietro la maschera di ottusaggine Marco riusciva a decifrare senza fatica i tratti di una lucida, animalesca ferocia. D’improvviso la verità gli fu chiara. Il Numero Otto ha ucciso Spadino. O, comunque, questo è quanto credono coloro che hanno cercato di fargli la pelle. Spadino era uomo degli Anacleti. Ostia assale Cinecittà, e Cinecittà risponde: è cominciata la guerra. Guerra di mafia. Perché le cose bisogna chiamarle con il loro nome. – Può andare, signor Adami. Aiutato da Alba e da Gaudino, Marco redasse un’informativa preliminare nella quale delineava il conflitto in atto, profetizzando, in difetto di interventi decisi, altra violenza, altri morti. Per scongiurare il peggio, chiedeva intercettazioni, pedinamenti, appostamenti, uomini, cimici, risorse. Sconvolto dalla mancanza di sonno, depositò personalmente l’atto presso la segreteria del dottor Manlio Setola, il pubblico ministero che coordinava le indagini in materia di criminalità organizzata. La risposta gli arrivò il pomeriggio successivo. Il nulla. Il Pm non era disposto ad autorizzare alcunché sulla base di quella che definiva un’intuizione investigativa non sorretta da elementi concreti. – Idiota! – sbottò con Alba. – Questo non è intuito sbirresco. Questi sono fatti! Voglio vederlo al prossimo morto, il dottor Setola! Su un punto, però, era difficile dare torto al magistrato. Le guerre, di solito, scoppiano per qualche valida ragione. E Marco, quella valida ragione, non l’aveva ancora individuata.

XV. Brandolin telefonò a Malatesta. – Comandi, signor colonnello! – Brandolin, sei l’unico che conosca capace di far sentire le maiuscole al telefono. – Come dice, signor colonnello? – Niente, niente. Saltiamo i convenevoli. Novità? – Il signor mar… lui ha organizzato un servizio di ordine pubblico per le nove di stasera. – C’è qualche manifestazione in giro? Brandolin abbassò la voce. – Non proprio una manifestazione, signor colonnello. Si tratta di un meet-up. Ha presente quando si passano la voce in rete e poi si dànno appuntamento? – Vivo nel presente, caro. – Chiedo scusa, signor colonnello! – Vabbe’, scusami tu. E quale sarebbe l’oggetto di questo meet-up? – Non lo so, signor colonnello. Ma lui ha detto che dobbiamo fare ordine pubblico. – Ma quella è roba della Piesse. – Signor colonnello, non so che dire. La comanda è arrivata dieci minuti fa. La faccenda si faceva interessante. – Vacci, e raccontami tutto. – Non posso, signore. – Come sarebbe a dire «non posso»? È un ordine, Brandolin! La voce dall’altro capo gli giunse quasi rotta dal pianto. – Signore, con tutto il rispetto. Per tutta la giornata sono di piantone. – Be’, fatti sostituire. – Il mar… Durerà tutta la settimana. È una punizione. Per… i fatti dell’altro giorno. Marco provò un moto di affetto, da fratello maggiore, per quel ragazzo. Doveva andarci piano, con Brandolin. Poteva comunque obbligarlo a obbedirgli. Il suo grado glielo avrebbe consentito. Ma perché esporlo a ulteriori ritorsioni da parte di Terenzi? Meglio tenerlo il piú possibile coperto. Terenzi era un vero bastardo. Se avesse intuito che il ragazzo lo spiava, gli avrebbe reso la vita impossibile. – Mi dispiace, signore, ma non so proprio come uscirne. – Stai andando bene, Brandolin. Continua a tenere gli occhi aperti. Dov’è ’sto meet-up? – All’Arcobaleno, il cinema occupato. – Ci vado io. – Colonnello… – Dimmi, ragazzo. – Credo che lui stia cercando un pretesto per… per fare qualcosa. C’erano un bel po’ di ragazzi davanti all’Arcobaleno. Stazionavano nello spiazzo antistante l’ingresso, rigorosamente muniti di birra nel bicchiere di plastica d’ordinanza. Nubi di fumo da sigarette rollate a mano aleggiavano sui crocchi, dai quali, a tratti, si levavano scoppi di risate. C’era anche qualche mamma con bimbetto al seguito, e c’era un drappello di signori di mezza età col volto acceso e l’aria incuriosita: facce di quartiere, capitate chissà come in quella piccola bolgia che attendeva il segnale d’inizio del meet-up.

E c’erano ventiquattro uomini in tenuta antisommossa, con tanto di casco e scudo. I ragazzi di Terenzi. Ma che senso aveva? Nel pomeriggio, Marco Malatesta aveva fatto qualche telefonata. Il cinema era occupato da oltre un anno, da quando il vecchio gestore l’aveva chiuso e si ventilava la trasformazione in sala bingo. L’occupazione era stata spontanea e non diretta da nessun gruppo o gruppetto chiaramente individuato. Non c’erano mai stati incidenti né segnalazioni di attività «sensibili». Gli occupanti facevano teatro per ragazzi, organizzavano firme per l’acqua pubblica e contro il nucleare, presentavano libri, concedevano volentieri il palco a band giovanili e compagnie teatrali, tenevano corsi di musica popolare. Ci erano passati attori e scrittori genericamente «impegnati». Da un suo contatto in prefettura aveva saputo che non era stato ordinato nessuno sgombero forzato. Terenzi stava giocando sporco, dunque. Se, come aveva ipotizzato il bravo Brandolin, cercava l’incidente, allora soltanto dopo, a cose fatte, avrebbe informato chi di dovere. Magari dopo aver spaccato qualche testa avrebbe scritto sul rapporto: «intervenuti per disperdere una radunata sediziosa…» E a ogni buon conto, Terenzi si era guardato bene dall’esporsi in prima persona. Aveva mandato, il verme. In ogni caso, quella era una provocazione. Si chiese se fosse il caso di intervenire. Ma, per il momento, era meglio osservare. La situazione, tutto sommato, sembrava calma. I ragazzi erano tranquilli, si limitavano a lanciare alla sbirraglia occhiate ironiche e innocui sfottò. In caso estremo, Marco poteva sempre tirare fuori il tesserino. Si fece largo nella piccola folla e si avviò all’ingresso. Un manifesto, in realtà un largo foglio bianco scritto a mano, illustrava il menu della serata:

A Marco scappò un sorriso, fra l’estenuato e l’intenerito. La verità su Roma. Ecco una chimera che aveva smesso di inseguire da tempo. La verità… se avesse avuto un blog, l’avrebbe chiamato «dueotrecoseperviveremeglioaroma». Un’aspirazione magari minimale, ma forse piú ragionevole. E fra queste due o tre cose, comunque, spazzare via i bastardi mafiosi. A quanto pareva, lo stesso obiettivo degli organizzatori del meet-up. Dunque, la cosa poteva essere interessante. Entrò. L’atrio era quello di un qualsiasi cinema, anch’esso affollato di ragazzi. Alle pareti, manifesti di film vecchi e nuovi, C’era una volta in America, Il caimano, La signora di Shanghai, e un grande murale, un fumetto di tre della Banda Bassotti con le facce di famosi leader politici. Di destra e di sinistra, tanto per non far torto a nessuno.

Davanti alla sala, chiusa da una tenda rossa, c’era una ragazza che presidiava due teche di vetro piene a metà di spiccioli e banconote di piccolo taglio. – Ciao. Sei nuovo? L’offerta è libera. Marco si frugò nelle tasche, pescò un pezzo da venti euro e lo lasciò cadere nella teca. La ragazza sembrava imbarazzata. – Posso darti un po’ di resto, se vuoi. – Mi faccio una birra, ok? Lei sorrise e gli fece segno di procedere. L’Arcobaleno doveva essere stato una sala parrocchiale. Lo si capiva dalle sedie di legno, dal piccolo schermo rettangolare montato su un palco sul quale erano allineati tre microfoni collegati a un amplificatore centrale. E da un’edicola con san Rocco che nessuno aveva osato rimuovere dal muro che l’ospitava. I posti erano già quasi tutti occupati. A spanne, Marco calcolò un centinaio di persone. Con quelli che aspettavano fuori, forse il doppio. Terenzi era un pazzo. Come pensava di gestire un’azione in quel contesto? Voleva fare un massacro? Marco si trattenne sul fondo della sala, vicino all’uscita. Pronto a intervenire. Un ragazzo con la coda di cavallo salí sul palco e si impossessò del microfono. La voce lottava con il fischio insistito dell’amplificazione. Un rasta scoglionato si mise a smanettare tra i cavi. – Ciao a tutti. Sono Dario, dei Draghi Ribelli. Ancora qualche minuto di pazienza, Alice Savelli sta arrivando. Se intanto volete dire alle persone che sono fuori di entrare, fra massimo cinque minuti si comincia. Dario dei Draghi Ribelli scese dal palco. Presto tutti i posti a sedere furono occupati. Altra gente continuava ad affluire. I ragazzi ridevano, si scambiavano saluti da un capo all’altro della sala, bevevano e, rispettosi del divieto, non fumavano. Marco percepí un’energia insolita e positiva. Quei ragazzi sembravano agguerriti, ma non si respirava la violenza dei suoi tempi. Volevano cambiare il mondo. Ma come? Tutta quell’energia, tutta quella voglia di rinnovamento, tutta quell’ansia, ma sí, rivoluzionaria, dove va a finire? Lui aveva scelto la divisa, il suo modo per sentirsi in guerra. Ma quei ragazzi? Che cosa avevano davvero in mente? Solo pace, amore e musica? Si sentí sfiorare. Inquadrò un giovane dall’aria sdrucita, con la barba trasandata. – Colonnello, – sussurrò, piano. Marco lo riconobbe, nonostante il travestimento. Ferrero. Era stato suo allievo, qualche anno prima. Un torinese con molta voglia di fare. L’infiltrato di cui gli aveva parlato Terenzi. – Che succede, Ferrero? – Stiamo per entrare, colonnello. – Vieni con me. Marco lo afferrò per un braccio e lo trascinò in strada. I ragazzi di Terenzi avevano calato la visiera degli elmetti e si massaggiavano le cosce con i manganelli. – Mi vuoi spiegare, per piacere? – Ordine del maresciallo Terenzi. – Il motivo? Ferrero sembrava a disagio. – Veramente, lui… – Su, coraggio, ragazzo. – Ci ha detto di trovare qualcosa.

– Ah! Vi ha detto di trovare qualcosa. E che cosa? Armi? Droga? Propaganda sovversiva? – Qualunque cosa, signore. – E fammi capire, Ferrero. Tu che questo posto lo bazzichi, magari sai anche dove trovarlo, questo qualcosa. Ferrero abbassò lo sguardo. Marco sentí montare un’ondata di collera gelida. – Dove l’hai messa la roba, Ferrero? – Colonnello, era un ordine. – Adesso te lo dò io un ordine. Anzi, due. Primo: rispedisci immediatamente in caserma quelle teste di cazzo. E poi torna qui. Attese che il plotone si ritirasse in buon ordine, poi rientrò, seguito da un contrito Ferrero. Il palco era ancora vuoto. Il brusio a stento sovrastato dalle note di un blues che gli altoparlanti irradiavano. Nessuno faceva caso a loro. Ferrero lo guidò in un locale a sinistra del palco. Su un tavolaccio in legno, due ragazze preparavano panini e il rasta scoglionato si rollava una canna. Ferrero scambiò un vago cenno di saluto con le ragazze e si diresse alla ghiacciaia, la aprí e pescò uno zainetto nero. – Grazie per avermelo tenuto, – scherzò. Non fu degnato né di uno sguardo né di una risposta. Tornarono in sala. Marco afferrò lo zainetto. – Che ci hai messo dentro? – Ma niente, colonnello. Un paio di molotov. – Pesa troppo per un paio di molotov, ragazzo. – Un… un po’ di roba. – Che roba? – Non lo so. Una busta bianca. Un mezzo chilo, credo. – Tornatene a casa, va’! Finalmente il brusio si attenuò, e si fece silenzio. Facevano ingresso nella sala due donne. Una moretta riccia, spigolosa, corrucciata, volto determinato e occhi intelligenti, forse poco meno che trentenne; l’altra piú alta, piú giovane, lunghi capelli neri, ovale perfetto, altera come una divinità orientale. Spingevano a turno una sedia a rotelle. C’era accartocciato sopra un vecchio. Aveva il viso tumefatto e le mani fasciate. Da quel che si poteva capire dei lineamenti, traspariva un’evidente somiglianza con la ragazza. Il padre, si disse Marco. Sono stranieri, decise. Salirono tutti sul palco. La moretta prese il microfono e cominciò a parlare. Aveva una bella voce. Calda, educata, consapevole. – Per chi non mi conosce: sono Alice Savelli, mi trovate sul mio blog «laveritàsuroma». Voglio raccontarvi una storia che ci riguarda tutti. Vedete quest’uomo al mio fianco sulla sedia a rotelle? Si chiama Abbas Murad. Trent’anni fa è fuggito dall’Iran. Ha ottenuto asilo politico perché perseguitato dal regime degli ayatollah. È venuto da noi spinto dalla disperazione, con una moglie e una cassetta con gli attrezzi del mestiere. La sua unica ricchezza. Abbas è un intagliatore del legno. Un artista. L’erede di una tradizione millenaria. Oggi Abbas è cittadino italiano. E lo è sua figlia Farideh, che lo ha accompagnato qui oggi. Sarebbe stato piú giusto che a parlare della sua storia fosse Abbas in persona. Ma purtroppo, come vedete, lui non può farlo. E sapete perché? Perché qualcuno prima gli ha spaccato le mani, in modo che non possa piú lavorare, proprio quelle mani da artista. Poi quel qualcuno gli ha anche rotto la mascella. Per farlo tacere. Ma che avrà fatto mai Abbas per meritarsi tutto questo?

Alice passò il microfono alla giovane bruna. Nella sala regnava il silenzio piú assoluto. Farideh afferrò lo strumento e si presentò. Le mani le tremavano. – Io… – Coraggio, Farideh. – Io non ce la faccio, Alice. Vai avanti tu, ti prego! Ora il pubblico era catturato. Alice riprese il microfono. Raccontò la storia. Il lavoro di Abbas. Abbas che chiede di essere pagato. La strafottenza del committente. Fece i nomi. – Famiglia Anacleti. Silvio Anacleti. Emanuele Anacleti. Antonio Anacleti. Rocco Anacleti. Voi li conoscete, vero? Non fate finta di no, signori. Voi tutti li conoscete, noi li conosciamo. Si dicono zingari, ma sono il disonore del loro antico e nobile popolo… La sala esplose d’indignazione. Un tizio alzò la mano e chiese d’intervenire. Disse di essere un giornalista. Nominò un blog sconosciuto. Alice lo invitò a parlare. Il giornalista si schiarí la voce. Aveva Alice le prove di affermazioni cosí gravi? No, ma sapeva. Anche se quel Io so era diventato un ritornello stucchevole. Autorizzava i giornalisti a riportare i nomi? Certo. Ma sapeva che non lo avrebbero fatto. Si rendeva conto di esporsi al rischio di querele? Volesse il cielo! Cosí almeno ci sarebbe stato un processo. – Perché noi questi fatti li abbiamo denunciati al maresciallo Carmine Terenzi della stazione di Cinecittà. E non è successo niente. Nessuno ha interrogato Abbas. Nessuno si è mai fatto vivo con lui. Nessuno! Ora era tutto chiaro. Marco uscí a fumarsi una sigaretta. Aveva il cuore in subbuglio. Alice Savelli aveva fegato, cuore e coraggio. E lui si sentiva meno solo. Si finí in pace la sua sigaretta, poi telefonò a Brandolin e gli ordinò di cercare la denuncia di Abbas. Conosceva già la risposta, ma un tentativo doveva comunque farlo. Un taxi attrezzato caricò Farideh e il padre, e svaní nella notte afosa. Max mise in moto la Ktm arancio e nero e si inserí nella scia del taxi. Da quando l’aveva vista, quella sera alla bottega del padre, non riusciva piú a togliersi dalla testa Farideh. Nessuno gli fece caso. Nemmeno Marco. Alice comparve sulla soglia del cinema. Con lei il Drago Ribelle e un paio di altri ragazzi. Discutevano animatamente. Marco si avvicinò e si presentò. – Un tenente colonnello dei carabinieri! – ironizzò lei. – Cos’è, ha aspettato la fine dell’incontro per convocarmi in caserma? Sono in arresto? – Volevo mostrarvi questo, – disse Marco, e rovesciò lo zaino. I ragazzi sbiancarono. – Che cosa significa? – insorse il Drago Ribelle. – Noi non c’entriamo! – Certo. Voi non c’entrate, – tagliò corto Marco, – siamo stati noi. O meglio, alcuni di noi. Vi faccio le mie scuse. Lo guardarono come un pazzo. Marco allungò ad Alice il biglietto da visita. – Devo incontrare Abbas. Riprese lo zaino e si allontanò, senza aspettare risposta.

XVI.

I pulmini arrivavano alla stazione Anagnina intorno alle dieci. Ogni lunedí mattina. Scaricavano ucraine, moldave, romene. Alcune erano destinate a pulire il sedere a vecchie signore moribonde, altre avevano già un ingaggio come puttane. Tutte, indifferentemente, in testa non avevano che un pensiero: fare i soldi, farne tanti, farli il piú in fretta possibile. Anche per il giovane uomo che osservava la scena con l’aria schifata, succhiando una radice di liquirizia appoggiato al suo Suv Bmw X6 blindato, i soldi erano la cosa piú importante. Il suo nome era Shalva Israelachvili, aveva trent’anni e veniva dalla Georgia. Quella di Stalin, per intenderci. Un compaesano che avrà avuto i suoi difetti, ma che se non altro era stato capace di mettere in riga i russi. Era ebreo, e s’era fatto nazista. Perché credeva nell’ordine, e questo si riteneva: un uomo d’ordine. Le donne lo adoravano. Dicevano che era bellissimo. Facevano a gara per infilarglisi nel letto. E in effetti, con i capelli lunghi e neri, la pelle chiara, gli zigomi orientali, i profondi occhi scuri, una complessione compatta ma non massiccia e l’eleganza innata di chi è abituato a stare in mezzo alle gente, ricordava il primo Sean Connery. Ma era molto, molto altro, Shalva. Era un capo. A quattordici anni, trascinato da Bekha, l’adorato fratello maggiore, aveva mandato al diavolo i rabbini e le loro paranoie ed era tornato nella sua patria, finalmente liberata dall’oppressore. D’altronde, la Georgia non era forse il posto piú bello del mondo? Si raccontava, dalle sue parti, che mentre Dio era impegnato a distribuire le terre agli uomini appena creati, i georgiani se la spassassero con uno dei loro proverbiali banchetti. Fu cosí che arrivarono in ritardo, e Dio, dispiaciuto ma anche un po’ incazzato, spiegò che ormai di terre non ce n’erano piú. Allora i georgiani dissero: sí, padre, siamo in ritardo, è vero, ma è perché stavamo brindando alla tua salute. E allora Dio, intenerito, assegnò loro la terra che in origine aveva riservato per sé. Georgia, mia patria! Grazie a Bekha, la Vory y Zakone, la potente Mafia dei Ladri, l’aveva accolto a braccia aperte. Era cresciuto all’ombra del fratello, e quando lui se n’era andato per sempre, Sieg Heil alla sua anima, ne aveva ereditati i contatti. Ufficialmente importatore di legname, Shalva era il rappresentante dell’organizzazione in Italia. Il suo italiano era perfetto, appena inquinato da un vago sospetto di accento. Nel ramo trasporti non temeva rivali. I suoi automezzi battevano senza sosta le rotte balcaniche trasportando carne umana, armi, droga e tutto quanto serviva a rendere meno misera la dura esistenza degli esseri umani. Invece di combatterli e di perseguitarli, a quelli come lui dovevano inchinarsi. Dovevano erigere dei monumenti. Perché era grazie a quelli come Shalva se la vita di tanta brava gente era degna di essere vissuta. Quando le aspiranti puttane e cameriere ebbero liberato il campo, dal drappello dei conducenti dei pulmini si staccò un tipo grasso e sudato. Si avvicinò a Shalva e gli chiese, con deferenza, se aveva da accendere. Si chiamava Stanila, era romeno, e collaborava da anni con i georgiani. Fra loro, per comodità, parlavano italiano. Doveva sembrare la tipica conversazione fra due sconosciuti. – L’Audi bianca, – disse Shalva, facendo scattare l’accendino, – dall’altra parte, trecento metri, sotto il cartellone pubblicitario. – C’è uno nuovo, – sussurrò Stanila. – Chi ha garantito per lui? – Un tuo uomo, Thaka.

– E allora qual è il problema? – Non lo so. Non mi piace. È troppo nervoso. – Succede al primo viaggio. – Se lo dici tu… – Non ti convince, eh? – No. Ma il capo sei tu. Su questo non c’era dubbio, e faceva bene Stanila a tenerlo sempre a mente. Comunque, il romeno era un trasportatore esperto. Ci si poteva fidare del suo sesto senso. E della paura. Stanila sapeva che a stare dalla parte giusta c’era tutto da guadagnare. Sapeva che negli affari la fiducia è tutto. Sapeva che se qualcosa fosse andato storto, tutti loro potevano essere sospettati di tradimento. E sapeva che per i traditori non esiste pietà. – Sta bene. Digli di non venire. – E il pacchetto? – Che lo riporti a chi gliel’ha dato. Intesi? – Sarà fatto. – Vai, adesso. Stanila tornò dagli altri. Shalva lo vide confabulare con un tizio alto e secco. Quello accennò a una protesta. Stanila lo mandò al diavolo. Il tizio si rassegnò e prese la strada del suo pulmino. Gli altri autisti si avviarono chiacchierando, con aria indifferente, verso l’Audi dove li aspettava Thaka. Shalva prese l’iPhone con scheda georgiana, attivò Viber, l’applicazione israeliana a prova d’intercettazione, e chiamò il Samurai. – Shalva, fratello! – Devo parlarti. – A mezzogiorno da te. Poi montò sul Suv e partí senza esagerare con la sgommata. Thaka era troppo lontano per poterne controllare le reazioni. Si chiese se aveva fatto bene a fidarsi dell’intuizione di Stanila. Magari il romeno si sbagliava, e tutto aveva una spiegazione. Però era davvero singolare che il giorno in cui per la prima volta si era portato per la consegna Thaka, uno degli ultimi arrivati, proprio quel giorno fosse spuntata una faccia nuova. E il garante, guarda caso, era Thaka. Due novità tutte insieme facevano una stranezza. E Shalva non sarebbe arrivato dov’era adesso se non avesse imparato a diffidare delle stranezze. D’altronde, il sistema che aveva ideato andava avanti da due anni. Un’eternità. Forse era arrivato il momento di studiare qualcosa di diverso. Funzionava cosí: Shalva aveva messo in liquidazione una delle sue società di trasporti. I pulmini erano stati venduti all’asta. Tutto regolare. A parte che si era fatto in modo di preferire, fra gli offerenti, quelli che risultavano sposati e con prole. Ai nuovi padroncini era stato fatto un discorsetto semplice e chiaro: del mezzo potevano farne quel che volevano, a patto che a ogni viaggio venisse recapitato a Shalva un «pacchettino» che sarebbe stato poi consegnato, all’arrivo, a un suo uomo di fiducia. Compenso per ogni consegna: cinquecento euro. Shalva si vantava di essere un datore di lavoro generoso. Tutti avevano accettato, tranne un giovanotto arrogante che aveva concluso la trattativa sputando in faccia al delegato di Shalva. La sera dopo, due uomini gli erano entrati in casa e avevano violentato la moglie. Chiaro, adesso, perché Shalva non voleva scapoli liberi da legami nella sua organizzazione? Il ragazzo aveva sporto denuncia. La sera stessa qualcuno gli aveva spezzato le braccia. Il ragazzo aveva ritirato la denuncia.

Non c’erano stati altri problemi. Ogni pacchetto conteneva uno o due chili di cocaina raffinata. Quando era a Roma, Shalva sovrintendeva personalmente alle consegne, ma nessuno avrebbe mai potuto testimoniare di averlo visto maneggiare la roba. Agli aspetti materiali provvedevano i ragazzi che di volta in volta lo spalleggiavano. Erano loro a prendere in carico i pacchetti e a smistarli. La percentuale di Shalva, detratte le spese per il trasporto e la quota del Samurai, era del trenta per cento. Un affare non eccelso, ma comunque redditizio, e soprattutto sicuro. Almeno sino a quella mattina. Mentre imboccava la via Cassia, si chiese ancora una volta se non stesse diventando paranoico. E, concluse, se mi sono sbagliato, al massimo avrò perso un paio di chili di roba. E che saranno mai? Il Samurai si presentò a Trevignano allo scoccare del mezzodí. Puntualissimo, e come sempre vestito di nero. Si abbracciarono nel patio in stile georgiano della villa che Shalva si era fatto costruire sul lago di Bracciano. Ogni volta che ci metteva piede, il Samurai non poteva fare a meno di pensare all’origine di quel pezzo di vecchia Inghilterra trapiantato nella campagna a nord di Roma. Era stato lo stesso Shalva a raccontargli dell’equivoco in cui era incorso l’architetto, un fichetto in papillon. – È che quando ho detto «stile georgiano», lui ha pensato agli inglesi! L’ho buttato giú dalle scale. – Magari potevi andare a dare un’occhiata ai lavori. – E che, ho tempo io? Mi fidavo di quel pezzo di merda. – Quel pezzo di merda ha fatto di piú che un lavoro per te, Shalva. Ti ha fatto un grande favore. – Ma se ha sbagliato tutto. – Meno male. Cosí invece di una specie di dacia moresca coi marmi triviali ti ritrovi una dimora da vero signore. – Tu dici? – Fidati. Shalva era una delle pochissime persone alle quali il Samurai concedeva il contatto fisico. L’aveva visto crescere, quel ragazzo, e sapeva di potersi fidare di lui. Sapeva quanto Shalva gli fosse devoto. Vent’anni prima, il Samurai aveva salvato la vita a Bekha, il maggiore. Nonostante si desse molte arie, Bekha non era un granché. Era sbarcato in Italia convinto di diventare il padrone, ed era finito dritto filato all’Albergo Roma con sul groppone sei anni e otto mesi per traffico internazionale di eroina. In carcere aveva pestato i piedi a un pezzo da novanta della camorra, e il Samurai aveva dovuto far ricorso a tutto il suo potere per evitare che la galera diventasse, per Bekha, un incubo. Già allora il Samurai pensava in grande. Lo spappolamento dell’impero sovietico aveva rimesso in moto un mondo crocifisso alla sterile e obsoleta contrapposizione fra Est e Ovest. Si aprivano orizzonti imprenditoriali impensabili sino a pochi mesi prima. La ruota riprendeva a girare. Si giocava a stile libero, finalmente. Farsi amico uno come Bekha era un calcolo lungimirante. Ma quando era uscito per fine pena, Bekha aveva ricominciato a fare il gradasso. E questa volta i napoletani avevano chiuso il conto. Il Samurai aveva garantito personalmente per Shalva. – Ti fermi a colazione con me, fratello? – Colazione si usa a Milano, Shalva. A Roma si chiama pranzo. – Be’, fermati lo stesso. Posso prepararti un bel khachapuri. – Sarebbe quella specie di panino fritto con il vostro formaggio puzzolente?

– Non parlare cosí del nostro piatto nazionale! – I francesi hanno qualcosa di simile. Lo chiamano croquemonsieur. E fa ugualmente schifo. Mi accontenterò di un tè. – Il mio samovar bolle sempre e il mio cuore è sempre caldo per gli amici. Shalva serví la bevanda in tazzine di porcellana inglese Wedgwood. Alla propria aggiunse due cubetti di ghiaccio. Il Samurai corrugò la fronte. Certe mancanze di stile avevano il potere di irritarlo oltre ogni misura. Depose la tazza e scosse la testa. – Non vuoi proprio diventare una persona come si deve, Shalva. – Ma se sto cercando di smettere di fumare. – Va bene, – sospirò il Samurai, – oggi sono un po’ nervoso. – Problemi? – Siamo sull’orlo di una guerra, fratello. Il Samurai lo mise al corrente degli ultimi eventi. Shalva disse che a volte la guerra è inevitabile. E può persino essere utile. Il Samurai intrecciò le mani e le portò alla fronte. Era la posa che assumeva quando aveva bisogno di meditare. Shalva, se avesse potuto, avrebbe trattenuto il respiro. E se il georgiano avesse avuto ragione? Se il Samurai non fosse intervenuto? Se avesse lasciato che si scannassero fra loro? In fondo, poteva essere l’occasione per fare un po’ di pulizia. Liberarsi della feccia. Il Samurai era stanco di tutti quei sottouomini beceri e ignoranti che infestavano la strada. Ma non era ancora il momento, no. – Lasciamo perdere i cattivi pensieri. Mi hai cercato, Shalva. – Credi di potermi aiutare a piazzare un… un grosso quantitativo di coca? – Quanto grosso? – Una tonnellata. – Nessun problema, – sussurrò il Samurai, per niente turbato. – Dov’è la roba? – Folegandros, oppure Naxos. Non è ancora deciso. C’è accordo con alcuni sbirri del posto, hanno già provveduto i pugliesi a ungere le ruote. – Non mi piacciono i pugliesi. Sono infidi e chiacchieroni. – I pugliesi sono forti nel Mediterraneo, Samurai. Hanno procurato loro la dritta. Non possiamo tagliarli fuori. – Se si accontentano del dieci per cento… – Proverò a convincerli. – Vedi di riuscirci. – Servirà una barca. – Considerala già armata. – E uno skipper. – Ho la persona giusta. Però bisognerà coinvolgere i napoletani e i calabresi. Diciamo che potremo cavarcela con il venti per cento. Giusto per tenerceli buoni e non alterare gli equilibri. Dunque, cento meno trenta fa settanta. Fra noi si fa come al solito? – Certo, certo. Cioè quarantacinque al Samurai e venticinque a Shalva. Ragionevole, vantaggioso. Il Samurai sorseggiò il suo tè Lapsang Souchong stemperato da un bocciolo di gelsomino. Il profumo della terra mescolato all’aroma del legno affumicato. Una perfetta unione di elemento femminile e maschile.

– Se l’affare va in porto, ne ricaverai un bel po’ di contante, Shalva. – Be’, lo sai, una quota è dei compatrioti, ma a conti fatti… – Sai già come investire? – Stai per dirmi qualcosa d’importante, Samurai? Il Samurai gli parlò del Waterfront e dell’housing sociale. Shalva ascoltava a bocca aperta. – Capisci, ora, perché non possiamo permetterci una guerra proprio adesso? Siamo tutti coinvolti, tutti. Io, gli zingari, i napoletani, i calabresi, e persino tu, se volessi. – Io? – Serviranno molti mezzi per il trasporto degli operai da un cantiere all’altro. E altri per la logistica e l’assistenza. Nel movimento terra non posso farti entrare, perché è dei napoletani, ma per tutto il resto… dovresti costituire una società e partecipare alla gara per l’appalto. Naturalmente tanto per mantenere la forma, l’esito è garantito. Calcola che per un investimento di dieci, poniamo, ti tornerà indietro sessanta, settanta volte tanto… – Samurai, lo giuro, tu sei mio fratello, mio padre e mia madre. – No, la mamma no, ti prego, quella lasciala a noi italiani. Shalva non credeva alle proprie orecchie. Per quanto il tono fosse quello solito, asciutto e freddo, era quanto di piú vicino a una battuta di spirito avesse mai sentito dalla viva voce del Samurai. – Bisogna brindare, Samurai. – Sai che non amo gli alcolici. Il Samurai si alzò, per prendere congedo. Shalva si schiarí la voce. – Samurai… – Dimmi. – Si tratta dei «pacchetti». – Problemi? – Stamattina ho sentito puzza di sbirro. – M’informo e ti faccio sapere.

XVII.

Il Numero Otto si massaggiò lentamente l’orecchio destro. Sfiorò con l’indice la superficie ruvida del blocco di croste che gli chiudeva l’angolo sinistro della bocca. Mortacci de Paja e Fieno: pareva un lebbroso. Però Silvio, il veterinario del maremmano di Morgana, aveva fatto un buon lavoro. Gli aveva richiuso il labbro e la guancia con una ventina di punti e graffette. Che in una settimana avrebbero cominciato a cadere. Qualche giorno ancora e la sua faccia avrebbe ripreso sembianze umane. Restava il problema dell’udito. Il ronzio non lo abbandonava. L’unica cosa che i botti della pistola di Paja gli avevano rotto era ciò a cui quello stronzo non aveva mirato. Il timpano. Si era nascosto nel tugurio di Santa Severa che gli aveva rimediato Denis. Lí manco Gesú Cristo l’avrebbe trovato. Dei carabinieri si era liberato agevolmente: avevano fiutato qualcosa, ma senza prove. Sono proprio una bella invenzione, le prove, pensò il Numero Otto. Rigirò la Marlboro rossa nella coca del portasigarette. Nella luce lattiginosa di mezzogiorno, si affacciò al balcone che guardava un mare verde marcio e si mise a fissare due pischelli che si stavano pigliando in strada. Quello che sembrava il piú grande, sí e no quindici anni, era a cavalcioni dell’altro, schienato sull’asfalto. Stringeva un tirapugni nella destra, sollevata a mezza altezza nell’attimo che precede il colpo. – Me ci hai costretto, brutto stronzo. Lo devo fa’. Lo sai pure te che lo devo fa’. So’ le regole. Che cazzo je dico se no all’altri? Tanto se non lo faccio io, lo fai tu. Nonostante l’altezza, avvertí il rumore sordo dell’esecuzione e vide la testa del pischello sopraffatto che si torceva su un lato nell’atto di sputare sangue e quelli che gli sembrarono denti. Il Numero Otto sorrise compiaciuto. Rientrò nel salone, accese il lettore Dvd e fece ripartire il porno dal punto in cui l’aveva lasciato all’alba. Sul telecomando pigiò il tasto mute. Con Anacleti non era mica finita. E, con tutto il rispetto, affanculo cosa avrebbe detto il Samurai. Tanto avrebbe saputo a giochi fatti. Certo che si sarebbe incazzato. Ma avrebbe fatto due fatiche, come si dice. Avrebbe capito pure lui, alla fine. Dopotutto, i patti erano chiari. Della strada il Samurai nun se doveva immischiare. Anche perché non era piú solo una questione di onore. Ma di sopravvivenza. Il jolly l’aveva già pescato. Non ci sarebbe stata un’altra piazza Gasparri, e doveva pure dire grazie alla coglionaggine di Paja. Perché dimme te come se fa a scaricare una 9×21 su uno che striscia senza andare a boccino nemmeno una volta. Al prossimo giro quelli di Cinecittà non avrebbero sbagliato. E poi quella guerra non l’aveva cominciata lui. Chi aveva autorizzato Spadino a prendersi quello che non avrebbe dovuto nemmeno toccare? Chi doveva tene’ il guinzaglio a quel cane rabbioso? Lui, o Rocco Anacleti? Che, era stato lui a chiamare Malgradi? O non era stato forse l’onorevole a buttarsi a pietà? Non vedeva molte alternative. Per convincere Anacleti a chiuderla lí, a fare pippa, dovevano parcheggiarne un altro dei suoi. Paja. O magari quello stronzo dell’amico suo. Fieno. Ma questa volta a casa sua. A Cinecittà. Bloccò il Dvd su una scena a tre. Sí. Doveva esse’ una tarantella da far parlare per settimane. E pazienza che avrebbero avuto tutte le guardie di Roma addosso. Non era già cosí? A Ostia, gli aveva detto Morgana, dopo il casino di piazza Gasparri, era pieno di bacherozzi. In borghese e uniforme. Tutti in giro a fare domande persino ai pischelli ai semafori. Come se non lo sapessero che a Ostia la gente si fa i fatti suoi. E quindi, niente prove, nien-te-pro-ve! Del resto, un pattuglione in piú o in meno che cambiava? L’importante era che lui se ne stesse acquattato ancora un po’. Finché la faccia

non fosse tornata la sua e l’orecchio non si fosse sturato. Al lavoro dovevano pensarci gli altri. Denis si fece strada fra le cassette impilate di birra Corona. I ferri li avevano riportati all’OffShore dopo la perquisizione. Perché non si sa mai. Li tenevano nascosti in un’intercapedine del magazzino delle bevande. Il Numero Otto aveva voluto solo roba di prima scelta. Pulita e di prima scelta. Quattro fucili a pompa Remington, due Franchi Spas-15, un Maverick 88; tre pistole mitragliatrici Uzi; quattro kalashnikov; due pistole Beretta 7.65 e quattro 6.35, una Vzor 70 7.65, cinque Smith & Wesson calibro 38. E qualcosa come duemila cartucce. Un arsenale sproporzionato. La bottega dei giocattoli di quel deficiente del Numero Otto. Hai voglia a darti arie da padrone di Ostia. È vero che erano diventati una batteria pesante, ma restavano sempre all’ombra di zio Nino. Il Numero Otto delirava nelle sue smanie di grandezza, ma se gli fosse venuta meno la protezione dello zio, li avrebbero spazzati via. Denis aveva provato a spiegarglielo, ma lui non ci sentiva. Mentre distribuiva le armi a Robertino e Morgana, Denis si chiese per l’ennesima volta se non stesse commettendo un grave errore. Ma i due lo fissavano speranzosi, già ebbri di azione. Dopotutto, poteva anche essere la cosa giusta. Dopotutto, i rapporti di forza potevano cambiare. Dopotutto, si vive una volta sola. – Se fa tra un’ora. Se va e se torna. Se li famo davanti ar bar loro de piazza Cinecittà. – Er Ferro de Cavallo? – chiese Morgana. – Brava. – Ma è pieno de guardie. C’è sta mezzo Viminale là dietro. – Apposta: ’no sfregio. Se fa stasera tardi. Paja e Fieno stanno sempre buttati là. E oggi ce sta pure la partita su Sky. Perciò, sicuro come ’na palla che li beccamo. – E se nun li trovamo? – abbozzò Robertino. – Ho detto che stanno là. Morgana sorrise. E non doveva. Robertino era un sorcio piuttosto perspicace. Raccontava tutto al Numero Otto. Tutto. Anche quello che s’era magnato. E come tutti i sorci, stava sempre ad annusa’, a guarda’, co’ quegli occhietti piccoli che schizzavano da ’na parte all’altra. Denis l’aveva detto a Morgana la prima volta che l’aveva presa. Era stato a casa di lei. Una sera di autunno. L’aveva chiamato con una scusa e si era fatta trovare nuda e strafatta sul letto. Dove l’aveva fatto impazzire. – Nessuno deve sapere. Nessuno deve capire. Neanche per sbaglio! – le aveva detto, salutandola prima dell’alba. E lei, ridendo, aveva fatto il gesto delle tre scimmiette, giocando con la lingua sulle labbra socchiuse. Ma Denis avrebbe dovuto saperlo. Con quella, la cosa sarebbe per forza sfuggita di mano. Scopavano come animali. A qualunque ora del giorno e della notte. Appena potevano e dove potevano. Una volta, insieme, avevano accompagnato il cornuto a Levante a riscuotere da un usurato. Morgana gli aveva fatto un pompino sul sedile di guida. Ci ripensava in continuazione. Lui con le mani sul volante e gli occhi sbarrati verso l’ingresso dello stabilimento dove era entrato il Numero Otto. Morgana china sulla sua patta, afferrata alla leva del cambio automatico del suo Porsche Cayenne nero. Quella pischelletta era un bell’impiccio. Doveva risolverlo. Ma non quella sera. Denis si infilò dietro la schiena una Smith & Wesson. Morgana chiuse nel marsupio rosa Mandarina Duck una Beretta 7.65. Robertino, dopo averle a lungo soppesate, afferrò un’Uzi e la Vzor 70. Mentre Denis distribuiva i caricatori, Morgana preparò tre strisce. – Che volete lavora’ a digiuno?

Col Cayenne raggiunsero l’Infernetto. Senza pronunciare parola. E del resto parlare sarebbe stato impossibile, visto il volume con cui Denis aveva pompato Velociraptor! dei Kasabian. Si fermarono proprio di fronte al primo ingresso di Casalpalocco. Non lontano dalla Caverna, il locale dove Rocco Anacleti e il vecchio Adami, qualche anno prima, avevano deciso che a Roma c’era spazio per tutti. Dove era stata siglata la pace per il controllo dei locali. Allora erano una decina. Erano diventati quattro volte tanti. Denis accostò sotto i pini e parcheggiò facendo attenzione che non ci fossero divieti di sosta. Quanto gli mancava zio Nino. Era piú di un padre. E l’ultima volta che era andato a trovarlo a bottega aveva raccolto tutta la sua amarezza per un affetto che non poteva manifestarsi come Nino avrebbe voluto. Durante il colloquio, Nino gli si era avvicinato abbassando la voce. – Devi ave’ pazienza, Denis. Anche se so che non è cosa tua. È da quando sei ragazzino che non ce l’hai. Ma da qui non posso prende’ una decisione che in realtà ho già preso il giorno in cui sei entrato a casa mia. Ancora non tocca a te. Cesare è mio nipote. Lo capisci questo, no? Denis aveva abbassato lo sguardo. – Ce lo so, ce lo so che è un cojone. Ce lo so che nun è pe’ lui. Ma è il sangue de mi’ fratello. Nun se pò fa. Almeno finché sto dentro ’sta galera. Pe’ me sei come un fijo. Ricordatelo. Scesero dal Cayenne e Robertino afferrò la sacca in cui aveva infilato l’Uzi e una manciata di caricatori. Si guardarono intorno. Decisero di farsi una Mercedes classe B parcheggiata a un centinaio di metri di distanza. Per andare e tornare da Cinecittà era quella giusta. Si mangiarono la ventina di chilometri del raccordo in un quarto d’ora. Il tempo necessario a Denis per togliersi una curiosità. A bruciapelo. Quella che sin lí aveva voluto ricacciare in un angolo della sua testa. – Morgana, ma dimme ’n po’. Hai mai parcheggiato qualcuno? – Che te frega. – Cosí. È importante. – Pensi che nun ci ho le palle? – Ringraziando Iddio le palle nun ce l’hai, ma ci hai du’ chiappe. Robertino scoppiò a ridere. Morgana non gradí. – Che cazzo te ridi, encefalitico che nun sei altro. Denis la raffreddò. – Oh, oh. E ’nnamo. Stamo a scherza’. Che sei permalosa? – Ho già sparato, se è questo quello che voi sape’. – A ’n omo? – Ho sparato. – Vabbe’, ho capito. Lascia sta’. Famo cosí. Se se mette male, nun me te mette’ dietro. Erano arrivati allo svincolo della Tuscolana. La imboccarono in direzione Roma e rallentarono solo quando, entrando in piazza di Cinecittà, videro le insegne della metro Subaugusta, che si riflettevano nella grande luminaria al neon del Ferro di Cavallo. La Mercedes rubata sfilò a passo d’uomo davanti alle vetrate del bar e Robertino riuscí a osservare distintamente l’interno. Davanti al maxischermo su cui andava il postpartita di Sky erano seduti solo quattro sfigati. – Paja e Fieno nun ce stanno. Nun ce sta nessuno. Solo quattro zammammeri. La Mercedes superò il bar e dopo neanche duecento metri fece inversione di marcia. Denis ritornò all’altezza del Ferro di Cavallo e accostò sul lato opposto della Tuscolana. – Voi due aspettatemi qui.

Voleva controllare di persona. Robertino lo afferrò per il braccio mentre apriva lo sportello. – E se je tiramo du’ bocce con un po’ de benzina? – Vaffanculo. Denis fece appena in tempo a raggiungere il marciapiede su cui si aprivano le vetrate del bar, che avvertí una presenza alle sue spalle. Morgana. – T’avevo detto de sta’ in macchina. – Nun so’ venuta fino a qua pe’ fa’ la badante. Denis fece ancora qualche passo verso l’ingresso del Ferro di Cavallo. Mentre i quattro davanti al maxischermo se ne stavano andando annoiati. Si rivolse a Morgana guardando l’orologio, che ora segnava quasi la mezzanotte. – Robertino ha ragione. Paja e Fieno nun ce stanno. E io certo nun me metto qui ad aspetta’. Tornamo domani. Dài, ’nnamosene. Morgana non si mosse. Tre dei quattro ragazzi marocchini che avevano visto all’interno uscirono dal bar parlottando in arabo, visibilmente su di giri. Uno di loro stringeva in mano un pacchetto di Ms e le si parò di fronte ciucciando una sigaretta. Accennando un inchino, mimò il segno dell’accendino e Denis lo allontanò con uno spintone. – Lèvate dar cazzo. Quindi tornò a rivolgersi a Morgana. – Allora? Che devi fa’? Volemo passa’ la nottata co’ ’sti rifiuti? Morgana continuò a restare immobile. Come in catalessi. – Non è che oggi hai esagerato co’ la roba? Vabbe’, t’aspetto in macchina. Denis le rivolse le spalle e cominciò ad attraversare la Tuscolana in senso inverso. L’ultimo marocchino uscí barcollando dal Ferro di Cavallo e si ritrovò Morgana quasi addosso. – Ciao, bella principessa. Non riuscí a distendere il sorriso. Il proiettile esploso dalla 7.65 lo centrò in bocca, trapassandogli il cranio all’altezza della nuca. Uno schizzo di materia cerebrale imbrattò le vetrine del bar, mentre Morgana, il braccio ancora teso, svuotò l’intero caricatore in direzione dell’ingresso con brevi movimenti del polso. Denis gridò. Afferrò la Smith & Wesson che aveva dietro la schiena e con l’adrenalina che gli faceva esplodere le tempie si precipitò su Morgana. La trascinò verso la macchina, scaraventandola sul sedile di dietro, mentre Robertino armeggiava con l’Uzi. – Sei fuori di testa! La Mercedes bruciò tutti i semafori fino al raccordo. E da lí fino all’Infernetto nessuno parlò. Arrivati dove avevano lasciato il Cayenne, si divisero. Denis incaricò Robertino di far sparire la Mercedes. – Portala agli sfasci della Magliana –. Prese la sua sacca con le armi e lo congedò. – Col Numero Otto ci parlo io di quello che è successo. Tu fatte li cazzi tua. Morgana salí con lui sul Porsche. Denis accese una Marlboro, percorrendo lentamente l’ultimo tratto della Cristoforo Colombo. Aspettava che sulle labbra di Morgana fiorisse anche soltanto una parola, un suono che desse un senso, quale che fosse, a quello che era successo. A quell’esecuzione nel mucchio che non solo non chiudeva la guerra con gli Anacleti, ma trasformava i loro casini in un combattimento fra belve. Che non prometteva nulla di buono. Solamente altri giorni di merda e di sangue. Decise dunque di farla lui la mossa. – Dimme perché. Dimmello, e te giuro che rimane tra noi. Al Numero Otto je dirò che so’ stato io.

Che quel negro lavorava pe’ gli Anacleti e per questo l’ho parcheggiato. Doveva esse’ ’na vendetta e vendetta è stata. Questo je dirò. Ma tu, quanto è vera la Madonna, parla! Morgana lo fissò con una smorfia distratta. Come se quella domanda non la riguardasse. – Non racconta’ cazzate al Numero Otto, ché tanto ce pensa quer sorcio de Robertino a dije tutto. – E allora prova a dimme a me quello che dovrai di’ pure a lui. Perché? – Che m’hai chiesto in macchina mentre annavamo a Roma? – Volevo sape’ se avevi mai ammazzato un cristiano. – No, non è questo che volevi sape’. Volevi sape’ se avevo le palle pe’ fallo. Be’, l’ho fatto. E mo’ sai che le palle ce l’ho. Denis ammutolí. Erano arrivati sotto casa di Morgana. Una mansarda in piazza Lorenzo Gasparri, in uno di quei falansteri in cemento armato scrostato che le facevano da corona, butterati da decine di antenne paraboliche e colorati da macchie di panni stesi. – Ostia è bella, ma a vorte me sembra de sta’ a Tirana, – le disse. Morgana aprí lo sportello. – Ma la vòi fini’ de parla’? La seguí in casa. Scoparono fino all’alba.

XVIII. Tre giorni dopo i fatti dell’Arcobaleno, Alice telefonò a Marco Malatesta. – Abbas ci aspetta alle sei. – Se le va passo a prenderla, cosí ci andiamo insieme. Lei gli dette l’indirizzo di una palestra dalle parti di Villa Gordiani. – Pilates? – azzardò lui, inanellando la prima di una serie di battute infelici. – Faccio pugilato, signor colonnello. Marco si presentò con qualche minuto di anticipo. Alice, sotto lo sguardo severo di un istruttore della federazione, si prendeva a pugni con una nera alta e pesante il doppio di lei. Si mise discretamente in un angoletto, a osservare. La testa protetta dal casco regolamentare, le ragazze alternavano eleganti movimenti, quasi a passo di danza, a furiosi scambi di cazzotti. Non era chiaro perché evitassero comunque di colpirsi al volto: se per conservare la purezza dei lineamenti, per un accordo tra loro o per deficit tecnico. In ogni caso, quell’agitarsi guerriero di corpi sudati aveva in sé qualcosa, a un tempo, di possente e di erotico. Ma quella riflessione Marco decise di tenerla per sé. Al termine della terza ripresa, l’istruttore separò le ragazze, distribuí critiche e complimenti, poi le spedí sotto la doccia. Marco uscí dalla palestra. Tre Camel light dopo, Alice lo raggiunse. Indossava una camicetta rossa e una gonna lunga, aderente, dello stesso colore. Mentre le porgeva il casco di riserva, Marco fu colpito dall’aroma di agrumi che sprigionavano i suoi capelli freschi di shampoo. La Bonneville divorava le strade deserte d’estate, e la consueta sensazione di un corpo di donna contro la sua schiena era una piacevole dannazione. Marco si disse che doveva andarci con i piedi di piombo. Una parola sbagliata, e il tenue filo che si era imposto di tessere si sarebbe inesorabilmente spezzato. Abbas occupava uno dei due letti di una stanzetta decorosa nell’ospedale Sandro Pertini. Accanto a lui c’era Farideh. Alice fece le presentazioni. La ragazza gli spiegò che l’indomani il padre sarebbe stato operato nuovamente alle mani. – Ma un po’ ora posso parlare, – biascicò l’uomo, sfoderando un sorriso mite che colpí Marco al cuore. Il colonnello decise di giocare a carte scoperte. – Ho fatto un controllo. In caserma non risulta nessuna denuncia. – Ci siamo andate io e Farideh! – scattò Alice. – Siamo andate insieme nell’ufficio del comandante. – Vi credo, – tagliò corto Marco. – È per questo che sono qui. E mostrò ad Abbas le fotografie di Paja e Fieno. Abbas scosse la testa. – Erano a volto coperto, non… forse gli occhi, ecco, quello sí, gli occhi… occhi cattivi. – Va bene, signor Abbas, la ringrazio. Era giusto per scrupolo. – Ma c’era un altro, – aggiunse Abbas, – uno diverso. Lui si è buttato contro quello piú grosso degli altri due. Mi sembra che… che non era d’accordo… voleva aiutarmi… Erano in tre, dunque. Questo Alice non l’aveva raccontato, al centro Arcobaleno. Tre, e non due. E uno sembrava diverso dagli altri. Paja, Fieno, e come si chiamava quell’altro? Ah, Nicce, come il filosofo. Il quadro della situazione era abbastanza chiaro. Per scrupolo, domandò al vecchio se anche

quello che faceva la parte del buono aveva il volto coperto. – Sí. Ma gli occhi erano diversi. Freddi, ma erano gli occhi di un uomo, se mi spiego. – Si spiega perfettamente, signor Abbas. Lo sforzo della conversazione aveva prostrato l’iraniano, che lasciò partire un gemito di dolore. Farideh si precipitò a sollevargli la testa, premurosa. Marco chiamò Brandolin. Dettò rapide istruzioni. – Fra una mezz’ora arriverà qui un giovane carabiniere, si chiama Brandolin. Lei, Abbas, gli ripeterà tutto quello che mi ha appena detto, lui scriverà un verbale, poi lei lo firmerà. Crede di farcela? Abbas alzò una mano, come per impartire una benedizione, poi l’arto gli ricadde di schianto. Marco e Alice si ritirarono, tutti e due commossi e indignati. Lui si offrí di riaccompagnarla. – Lei come diavolo faceva a sapere di quella roba, eh? Le molotov e tutto il resto… – Se accetta un invito a cena, le spiego. Alla Quaglia canterina, casale ristrutturato a pochi passi dall’Arco di Travertino, si cenava su tavoli rustici disposti sotto un pergolato di uva fragola. Il padrone si chiamava Federico, aveva i capelli agitati e spruzzati di grigio, e accolse Alice baciandola sulle guance. – Faceva l’architetto, – spiegò lei, mentre prendevano posto all’aperto, – poi ne ha avuto abbastanza e s’è riconvertito alla cucina a chilometro zero. Alice si liberò della camicetta rossa, rivelando una maglietta nera elastica piacevolmente aderente. Il trucco era leggero ma sapiente. Il profumo di agrumi delicato e fresco. Gli balenò l’immagine di un’orchidea. Bella. Bella e complicata. – Che ne ha fatto di quello zaino? Quello che avevate messo al cinema Arcobaleno? – Segreto professionale, – sorrise Marco. Poi, serio: – Confiscato e versato ai corpi di reato. Ufficialmente, la segnalazione di un confidente. – Quindi non ha denunciato Terenzi. – No. Ma ormai è nella lista nera. Al momento opportuno, pagherà. Piuttosto, lei deve stare attenta. Ha sfidato gli Anacleti. Metta in conto una reazione. – Devo ingaggiare un bodyguard? – provocò lei. – Penso piuttosto a qualcosa in termini di sputtanamento, se mi passa l’espressione. Calunnie, o forse querele, roba del genere. – Ci sono abituata. – Lei è una strana ragazza. – Lei è uno strano carabiniere. Perché fa tutto questo? – Perché stiamo dalla stessa parte. – Lei e io? Davvero? Sulla smorfia ironica di Alice s’inserí Federico. Il menu, scritto a mano su foglietti volanti, prevedeva amatriciana scomposta. Rollé di coniglio freddo con macedonia di verdure dell’orto. Tortino ai tre cioccolati con cuore di melograno. E naturalmente, vino libero. – Cioè, senza solfiti, – puntualizzò Alice. – Qua veramente c’è scritto: «Contiene solfiti», – osservò lui, dopo aver versato. – Sí, certo, ma ce ne sono molti di meno che in qualunque altra bottiglia. E comunque, sempre meglio la cucina di Federico dei precotti surgelati. Alice Savelli lo considerava, se non un nemico, qualcosa di assai prossimo. Doveva cercare di rassicurarla.

– Non sono un nemico, Alice. Non sto indagando su di lei. Non la sto spiando. – Vuol farmi credere che non ha assunto informazioni sul mio conto? – Certo. Ho fatto come fanno tutti. Sono andato sul suo blog. E mi sono fatto un’idea. Federico serví pane biologico, focaccia di kamut e crocchette di riso basmati insaporite con scalogno di collina. – Un’idea di me? Mi interessa. Vada avanti. – Una persona decisamente contro… – Ah, su questo ci può giurare. – Contro la violenza sulle donne, – riprese Marco, – contro i centri di accoglienza per gli immigrati… – Accoglienza suona vagamente ipocrita per quelle stalle fetenti, non trova, colonnello? – Sono d’accordo. Ah, e contro la nuova mafia romana. – E poi? – E poi c’è una cosa che mi ha sorpreso. – E sarebbe? – Manca la politica. Alice sbuffò, come davanti a un bambino sciocco. Si tuffarono nell’amatriciana scomposta, che si rivelò meno deleteria del previsto. Ordinarono una seconda bottiglia di vino. – Davvero lei crede che le cose che faccio… che facciamo in tanti… non siano politica? – Be’, a leggere il suo blog c’è dentro un po’ di tutto. Io, per esempio, non è che abbia capito bene lei da che parte sta. – Vuol dire destra e sinistra? Roba vecchia. – Questa l’ho già sentita. – La politica, per come funziona, coi partiti e compagnia bella, è uno schifo. Bisogna buttarli tutti a mare, fare piazza pulita. Tutti. Nessuno escluso. Destra e sinistra. E poi ripartire su altre basi. La democrazia diretta, per esempio. La rete. Ma lo sa lei che l’uno per cento dei ricchi governa il novantanove per cento del mondo? Derivati, subprime, hedge fund… bah! Accalorata, appassionata, ribelle, vivace. Cosí diversa. Davvero la voce di un altro mondo. Quanti anni si passavano? Sette, otto, forse dieci? E Marco si sentiva cosí furiosamente fuori tempo massimo. Di colpo lei lo scrutò, corrucciata. – Che cosa vuoi esattamente da me, Marco? – Lo stesso che vuoi tu, Alice. Un mondo migliore. Erano passati, senza rendersene conto, al tu. Merito, forse, del gelato al cioccolato di Modica con chicchi di mela granata. Per la prima volta la sentí ridere. Una risata calda, ricca di una forza giovane, impetuosa. – Questa sceneggiatura non mi convince. La battuta sul mondo migliore devo dirla io. Tu devi dire: il mondo è quello che è, ragazza mia, e né tu né io potremo mai cambiarlo. Quindi, accontentiamoci di quel che abbiamo e smettiamola di fare casino. La sua mano si era posata, come distrattamente, su quella di lei. Alice lo fissò negli occhi e gli chiese se aveva da fumare. Marco tirò fuori le Camel light. Federico serví la grappa artigianale «prodotta, – ci tenne a specificare, – da una cooperativa di ex tossici». Ci erano andati giú pesante con la gradazione. Il tasso alcolico della serata rischiava d’impennarsi. Alice ritirò la mano. Ma il ghiaccio era rotto. Gli spiegò che aveva preso interesse in quelle storie di quartiere quando

un trans aveva scritto al suo blog. – Siamo diventate amiche… be’, proprio amiche no, ma insomma, lei è una persona interessante. E comunque, di me si fida. Ha fatto girare la voce. Hanno cominciato a scrivere in tanti, dal quartiere. E io faccio girare le notizie. Se no come avrei saputo di Paja e Fieno, degli Anacleti e compagnia cantante? Poi è arrivata Farideh. Quella ragazza è un tesoro, Marco, credimi. – Ti hanno mai parlato di un certo Nicce? – Nietzsche, vuoi dire? Come il filosofo? – No, Nicce, proprio alla romana. – No. Sarà un nazista. – Poco ma sicuro. – Comunque, gira voce nel quartiere che Paja e Fieno abbiano spaccato la faccia a un ragazzino di sedici anni. – Ma perché? – Perché è gay, ecco perché. – Ed è un motivo valido? – Non c’è bisogno di motivo quando uno è diverso. – È una cosa che non riesco a capire. A me piacciono le donne, ma rispetto i gay. – Ah, per carità, che battutaccia. Lascia perdere, colonnello. – Ma dove ho sbagliato? Mi sembrava di essere stato corretto. – Dopotutto sei un carabiniere, – tagliò corto lei, con un’altra risata nella quale a lui parve di cogliere un sottofondo di seduzione. Alle due erano ancora insieme. Era stata lei a proporre un finale di serata all’insegna della buona musica. – Al Circolo degli Artisti suona The Niro. – E che, s’è messo a cantare? – Non l’attore, scemo. The Niro, è un artista romano. Molto di tendenza. Ragazzi sudati, in mezzo ai quali Alice si muoveva leggera. Birre. Un paio di whisky. Canzoni sconosciute, testi vagamente surreali o declamatori. Marco si sentiva un alieno. A un certo punto, però, The Niro attaccò un pezzo che conosceva. Marco si uní al coro. – Hallelujah! Hallelujah! – Be’, questa almeno la conosci! – si complimentò Alice. – E chi non conosce Hallelujah. – Già. Il grande Jeff Buckley. – Veramente sarebbe di Leonard Cohen… – Chi? – Cohen, cazzo, il poeta canadese. Quello di Suzanne. – Ma Cohen è un po’… palloso, no? Alice l’aveva fatto sentire un dinosauro. Pescò nelle tasche in cerca dell’ultima sigaretta. Il cellulare vibrava furiosamente. Chiamata persa, chiamata persa, chiamata persa. Un messaggio di Alba. «Dove 6 finito? Morto fresco a Cinecittà. Vieni subito».

XIX. «Roma, ora è emergenza criminale». «Un’estate di sangue». «Il Viminale: pronto piano straordinario per la sicurezza». «Morire da innocenti». «Il sacrificio di Abdel». «Quel morto parla di noi». Il morto del Ferro di Cavallo aveva scatenato un mix letale di comprensibile sgomento, retorica d’accatto, infimo sciacallaggio politico. Il collante di tutto: una certosina attenzione nel restare al largo dal cuore della faccenda – l’omicidio, i suoi possibili esecutori – su cui nessuno, ma proprio nessuno, sembrava potere o voler dare un contributo di verità. Marco Malatesta smise di leggere i giornali, spense Radio Fm 922, si barricò in ufficio. Lui aveva le idee chiare. E la sua intuizione si rivelava giusta. La strage di Cinecittà era la conferma della sua teoria. C’era una guerra. Nessuno poteva piú negarlo, ormai. Il generale Thierry, che non era tipo da tirarsi indietro, lo accompagnò da Setola. Il Pm era un bell’uomo, molto abbronzato, con lunghi capelli grigi ondulati e un’aria da esteta. Nel suo ufficio, dove facevano mostra stampe di yacht storici, c’era ad attenderli il generale dei carabinieri Rapisarda, comandante della divisione Custoza. Un pezzo da novanta da cui Thierry dipendeva gerarchicamente e che odiava, ricambiato. Marco l’aveva incrociato una sola volta, durante una cerimonia ufficiale. Ne aveva ricavato un’impressione di arroganza e superficialità: il perfetto cocktail del carrierista destinato ai piú alti traguardi. L’accoglienza fu gelida. Marco espose la sua teoria. E si trovò davanti a un muro. Secondo Rapisarda, il marocchino era rimasto vittima di un regolamento di conti fra spacciatori. Il fatto che fosse incensurato, e mai sfiorato nemmeno dal minimo sospetto, non aveva alcun valore agli occhi dell’alto ufficiale. Quanto a Spadino, per Setola si trattava di un «mero caso di contiguità ambientale», sulla cui risoluzione l’investimento di risorse patrocinato da Marco si sarebbe rivelato «un autentico spreco». Ancora una volta la richiesta venne respinta, e Marco e Thierry furono bruscamente congedati. Il generale non riusciva a farsene una ragione. – Incredibile! – si lamentò con Marco quando furono a ponte Salario. – Ma di che cosa hanno bisogno per convincersi? Di una strage? Continuando di questo passo, l’avranno. – Uhm, sí, una bella ammazzatina, come dicono i siciliani. Magari ci torna utile. La calma ironica di Marco lasciò interdetto Thierry. Stava per replicare, quando ricevette una chiamata sul portatile. Ascoltò in silenzio, poi troncò di scatto la conversazione. – Cattive notizie? – chiese Marco. – Pessime. Sei fuori dall’inchiesta. Setola non ti vuole fra i piedi. E Rapisarda è d’accordo. – Lo immaginavo. Prova a ragionare come loro. Rapisarda piú Setola uguale Politica, spiegò. Un governo che sta insieme con lo scotch non ha proprio nessuna voglia di aprire un fronte sicurezza a Roma. Bastano e avanzano la Bce, lo spread e Francoforte. Servivano risultati. Rapidi e, soprattutto, «compatibili». – Compatibili con che, Marco? – Con la fase, diciamo cosí. Un regolamento di conti qua, un piccolo spaccio là. – Ma io non ci sto! – ruggí Emanuele. Avrebbe scritto una relazione di fuoco al procuratore della Repubblica. Si sarebbe messo a rapporto dal comandante generale dell’arma. Con rispetto, ma con fermezza, avrebbe fatto presente la

propria opinione: tagliando fuori Marco Malatesta, il loro uomo migliore sulla strada, stavano commettendo un errore colossale. – Generale, se mi vuoi davvero bene, non fare niente di tutto questo. Thierry trasecolò. – Stai scherzando, vero? – Mai stato cosí serio. Ti ricordi del rugby, Emanuele? Prima di perdere la testa per la Roma, Marco era stato un discreto mediano d’apertura. Non tanto cattivo da rompere sistematicamente difese incarognite, ma abbastanza veloce e rapido di testa per far muovere i tre quarti in un gioco che provava a somigliare, soltanto somigliare, all’utopia degli All Blacks. Thierry era stato il suo allenatore. Continuava a ripetere ossessivamente un mantra che doveva avere a che vedere con la filosofia della vita, o qualcosa di simile: nel rugby, per andare avanti, la palla deve tornare indietro alla ricerca del sostegno. E non c’è sostegno senza squadra, collettivo. – Perciò io adesso mi prendo un po’ dei congedi arretrati che mi spettano, – concluse Marco, deciso. – Vuoi mollare. – Ma quando mai. Faccio un passo indietro. Fase difensiva. Ripiegamento. Appena ritroviamo il sostegno, ripartiamo insieme. E andiamo dritti filati in meta. – Cazzate! – insorse Thierry. Marco sorrise. Thierry perdeva raramente la sua proverbiale compostezza ironica. Questa volta era fuori di sé. – Cazzate! – ripeté. – Quello che ha inventato il rugby aveva in mente un sano e robusto passatempo per i gentiluomini della campagna inglese. Ma questa è Roma, porca puttana! Qua «gentiluomo» è una bestemmia! Tu non vai da nessuna parte! – Dammi retta. Funzionerà. Gli ci volle l’intera serata per convinverlo, ma alla fine Thierry capitolò. E la mattina dopo Marco era su un volo per Palma de Maiorca. Oltre ai costumi da bagno e a un paio di magliette, la sua magra valigia constava dell’ultimo romanzo di Haruki Murakami e di un Cd con Me ne vado da Roma, l’immortale litania del grande Remo Remotti.

XX. Non fu una passeggiata spiegare al Numero Otto il casino di Cinecittà. Ma meno complicato di quanto Denis potesse immaginare. In fondo avevano parcheggiato uno zammammero. Un benzinaio abusivo di ventinove anni – questo avevano scoperto leggendo i giornali – che si chiamava Abdel Salam e lavorava a cottimo al self-service Erg a duecento metri dal Ferro di Cavallo, raccattando mance da cinquanta centesimi da quelli a cui pesava il culo farsi il pieno da soli. Era un caso che fosse nel bar, c’era scritto sul «Messaggero». E vai con la lacrima. Avevano intervistato la vedova, ’na sguattera a ore, che piagneva come ’na fontana. Chiaro: pensava a come alza’ ’na bella pensione. I giornalisti erano andati alla scuola elementare dell’orfana per raccogliere i disegni de paura dei compagnucci di classe. Il sindaco s’era portato dietro le telecamere e s’era fatto riprendere di spalle, a testa china e braccia conserte, sul marciapiede dove avevano lavato il sangue e il cervello dell’africano e dove aveva deposto una corona di fiori del comune. I comunisti avevano messo ’no striscione: «Mai piú». Seeh, eccome no. Insomma, la solita tarantella. Che tanto poi non je ne fregava niente a nessuno. Prima o poi doveva mori’ lo zammammero. Epperò, i problemi c’erano. Che l’impiccio l’aveva combinato Morgana. Che le guardie stavano incazzate come picchi. Che la storia con gli Anacleti non finiva lí. E il cervello del Numero Otto non era fatto per ragionare. Denis lo capí bussando al monolocale di Santa Severa in cui l’aveva nascosto. Il Numero Otto era strafatto. – Bella, frate’! – disse con un sorriso da ebete aprendo in canotta. Le mani tradivano un tremore continuo. – L’hai presa bene. Te vedo calmo, – rispose Denis. – Quando ho saputo che eravate andati a dama co’ un negro t’avrei staccato la capoccia. Ma poi m’ha chiamato Samurai. E m’ha detto che se dovemo vede’. Che dovemo parla’. – E questa è ’na bona notizia, secondo te? – E certo. Vordi’ che gli Anacleti se so’ buttati a pietà. Che hanno capito che me devono bacia’ la cappella. So’ morti de paura, uau! – Il Numero Otto cacciò un urlo levando le braccia al cielo. – Che altro t’ha detto er Samurai? – Gnente. ’O sai com’è quello ar telefono. Je devi strappa’ le parole co’ le tenaje. – Apposta. – Apposta che? Lo vedi, Denis, che nun capisci? Lo vedi perché dico che devi ancora fa’ esperienza? Si se move er Samurai pe’ ’sta cosa de strada, vordi’ che ha capito che la strada è robba nostra. Che ’sta zampata da leone ce voleva. Che nun s’azzarderanno piú a venimme a cerca’. Svéjate, Denis. – Zio Nino che dice? – E che ne so? Tanto, visto ’ndo’ sta, nun scappa. Ce lo farà sape’. E comunque, che vòi che dica? Pensi che ar posto mio avrebbe fatto pippa? Denis, nun so te, ma io nun me faccio magna’ er cazzo dalle mosche. – Nun vòi manco sape’ chi ha parcheggiato er negro? – È uguale. Che cambia? – Morgana. – Morgana che? – È stata lei. – Bella pischella mia. Mmh.

– Torno a Ostia. Te serve qualcosa? – Sí, l’infermierina. Ci ho ancora un po’ de bua. Aah aah aah! Aah aah aah! Con una smorfia di disgusto, Denis si richiuse la porta alle spalle mentre il Numero Otto continuava a ridere in modo convulso. Disprezzava quell’uomo. E soprattutto conosceva il sangue dei gitani. Era anche il suo. Via del Ponte delle Sette Miglia aveva i rumori e i colori della zambra organizzata dagli Anacleti. Su un grande prato, all’ombra di enormi tendoni colorati, la festa della riconciliazione chiudeva una faida tra cugini. Una partita di coca tagliata male e smezzata peggio. Rocco, in qualità di duca e con verdetto inappellabile, aveva stabilito le reciproche riparazioni in denaro. Le donne avevano preparato i dolma, i peperoni ripieni di riso, carne e pomodoro. I ragazzini delle due famiglie di reprobi affondavano le mani nei vassoi carichi di pitta, le crêpe di acqua e farina ripiene di ricotta e bieta, di patate e cipolle. Uomini e donne ballavano sulle note dello swing manouche di un’orchestrina. Paja e Fieno fermarono la Bmw nera sul ciglio della strada e raggiunsero Rocco, che sedeva a uno dei tavoli apparecchiati all’aperto insieme a Max. Parlavano fitto e si interruppero all’arrivo dei due. Rocco li invitò con un cenno a sedersi, quindi indicò la marmitta di bosanskibonaz in cui affondava un gigantesco mestolo. Quello spezzatino di carne, peperoni, verza, patate e cavolfiori sarebbe stato difficile da mandare giú sotto la neve. Con trenta gradi all’ombra era un supplizio. Paja se ne riempí il piatto come se non mangiasse da una settimana. Fieno ne prese appena un assaggio per non offendere il padrone di casa. Sapevano perché erano lí. La presenza di Max ne era una conferma. Nicce non si muoveva per niente. E poi loro non c’entravano con la riconciliazione gitana. Dovevano discutere di vendetta, piuttosto. Il sangue del Ferro di Cavallo doveva essere lavato in qualche modo. Perché non era lo zammammero che cercavano quelli di Ostia. Con la bocca piena di quel cemento gitano, Paja bofonchiò masticando quelle che dovevano essere parole di sfida. – Nun c’è manco bisogno de sta’ a discute’… Annamo e stavolta… – Tu non vai da nessuna parte. E sai de che parlo! – lo gelò Anacleti. Fieno non aveva idea se Max sapesse qualcosa del disastro di piazza Gasparri – il capo non aveva forse detto che doveva restare un segreto con tutti? – e dunque non fiatò. Anzi, mollò un calcio sotto il tavolo a Paja per chiudergli la bocca, ammesso che avesse avuto il coraggio di aprirla per obiettare qualcosa. Max prese la parola. – Decide il capo. Ma mi sono permesso di suggerire calma. Molta calma. Se dobbiamo vendicarci, non può essere ora. Troppe guardie in giro. Anacleti appoggiò la mano sulla spalla di Max. – Hai una bella testa, Nicce. Nun sei filosofo tanto pe’ di’. Paja guardò Max con uno sguardo che grondava odio. Anacleti proseguí. – Nicce ha ragione. Ora non dobbiamo fa’ gnente. E comunque, gnente prima de capi’ che vòle er Samurai. M’ha chiamato. Me vòle vede’. E abbiamo qualche buona ragione pe’ esse’ ’ncazzati. Ce dovrà sta’ a senti’. – Venimo co’ te. Cosí se c’è problema… – si affrettò a suggerire Fieno. Il capo sollevò dalla pignatta un gigantesco mestolo di bosanskibonaz e glielo rovesciò nel piatto. – Voi due state qua. Magnate e ve fate un bel riposino. Viene, Max, – disse. Quindi si alzò da tavola facendo cenno a Max di seguirlo.

Anche Paja e Fieno fecero per alzarsi di scatto. Ma Anacleti gli indicò di tornare a sedersi. – Che ho detto? E poi mo’ ariva er dorce. Ce sta er dessert che piace a te, Paja. Halva! – strillò in direzione di una delle donne che armeggiavano nel bagagliaio di un gattone, il classico Mercedes del clan. E quella si avvicinò con due piatti d’argento in cui fumava una polenta oleosa, disegnata da ghirigori di sciroppo di zucchero, frutta secca e pinoli.Allontanandosi con Max, Anacleti sorrise. – Me raccomando. Pulite il piatto. Che se no m’offendo. Il solarium del Tatami affacciava sulla campagna del parco di Veio. E il Samurai, per un attimo, si lasciò frugare dal calore dei raggi del sole. Solo, nudo, a eccezione dei suoi Oakley dalle lenti a specchio, si osservò il torace e le gambe depilate. Inspirò profondamente l’essenza di bergamotto di cui era stato unto da Zelda, la massaggiatrice shiatsu filippina, una tipa a cui sembrava avessero tagliato la lingua e della quale solo per questo apprezzava il contatto. Era un club esclusivo, il Tatami. Nel senso letterale del termine. Piú di una palestra, piú di un fitness center, luoghi che puzzavano di umanità. Lo gestiva Luca, un camerata rientrato dal Giappone dopo una latitanza di vent’anni, e solo dopo che la cassazione aveva dichiarato prescritto un vecchio reato per banda armata di cui era accusato. Voleva bene a Luca e lui ne voleva al Samurai. In comune avevano l’odio per i cattivi odori. E l’amore per le rarità, la tradizione, la ricerca dell’Io. Afferrò dal comodino in bambú accanto alla sdraio anatomica su cui era disteso una coppa ghiacciata di centrifuga di kiwi. Aveva chiesto a Luca di chiudere il club per il pomeriggio. – Aspetto degli amici. Luca aveva annuito. Senza fare domande. Un quarto d’ora e quei cani rabbiosi di Ostia e Centocelle sarebbero arrivati. Il Samurai si alzò dalla sdraio e percorse lentamente il sentiero di pietra bollente che portava dal solarium alle docce. Lasciando che le piante dei piedi si arroventassero su quella sorta di carboni ardenti fino al punto di avvertire la fitta che precede l’ustione. Quindi, ne spense il bollore in una vasca di acqua a cinque gradi. L’effetto sulla circolazione sanguigna periferica fu immediato. Un formicolio che annunciava un benefico risveglio. I piedi e la testa, pensò. Aprí l’Hidrobox con cromoterapia e un immenso getto d’acqua a trentasei gradi che virava tra l’azzurro indaco e il verde smeraldo cominciò a sciogliergli i muscoli del collo, a distendergli i dorsali, colando tra le gambe in un trionfo di schiuma all’essenza di loto. Massaggiò con movimenti lenti e circolari la cervice e quindi le tempie. Si asciugò con dieci minuti di sauna aromatizzata alla melissa. Il Samurai non era sicuro che fosse la cosa giusta. Abbassarsi al livello del marciapiede. Infilare le mani in quella fogna di faida tra Ostia e Cinecittà. Che crepassero sterminandosi tra di loro, come scorpioni in una bottiglia. Ma la verità è che non aveva molta scelta. Le cose non potevano proseguire su quella strada. Il momento schumpeteriano per godere della forza creatrice della distruzione sarebbe arrivato. Non ora, però. I piedi e la testa. Aveva bisogno di loro. E non solo lui. I calabresi di Perri ne avevano bisogno. I napoletani di Viglione. Quel buffone di Malgradi. Il progetto del Waterfront e dell’housing sociale aveva una conditio sine qua non. Che tra il Fungo dell’Eur e il lido di Ostia, tra Casalpalocco e la Romanina, regnasse la pace. Almeno fino all’approvazione della delibera comunale che avrebbe stravolto l’asse di sviluppo urbanistico fra il mare e la città. Roma non poteva continuare a bruciare della furia miope di un pugno di cocainomani schizzati. Era necessario finirla lí. Subito. Ora.

Avvolto da una rigogliosa siepe di bougainvillee, il cancello elettrico del Tatami si aprí al secondo colpo di clacson dell’Hummer nero. La macchina si fermò sotto un’incannucciata del cortile interno, e la silenziosa Zelda fece strada all’uomo che ne discese. Il Numero Otto era solo. Entrò nella dépendance del club, una riproduzione perfetta di una katei, una casa giapponese. A gambe incrociate, il Samurai, in completo di lino nero, sedeva su una stuoia al centro del grande salone dall’arredo minimalista in cipresso, ferro, bambú. E con le mani si portava lentamente alle labbra una tazza di porcellana con tè verde tiepido. Tendendo la mano, il Numero Otto fece per avvicinarsi. – Nun è che ci avresti ’na sedia, ché ci ho la schiena a pezzi… Il Samurai lo bloccò indicandogli il pavimento. – Siedi. Si sistemò su dei cuscini, avvertendo la perdita di controllo della sudorazione. – Cazzo de caldo… Oggi nun se respira, – abbozzò. – Non siamo qui per parlare del tempo. – Io veramente nun lo so de che voi parla’, Samurai. – Non lo sai? – No. – Sai chi non sopporto? Chi pensa di prendermi per il culo. – A’ Samurai, ma che stai a scherza’? Io davvero nun ce lo so. – Te lo chiedo per l’ultima volta. L’ultima. Davvero non sai perché sei qui? – Vabbe’, ho capito. Ma non abbiamo cominciato noi ’sta tarantella. – Davvero? E Spadino è morto per un colpo di sonno? Spiegamelo, ché sono curioso. Si è addormentato con la sigaretta in bocca nella pineta? – Spadino era ’na mmerda e lo sai pure tu. – Se mi guardo intorno vedo solo sterco. – Che? – Sterco vuol dire merda. – Ah… Comunque, Spadino s’era messo a ricatta’ Malgradi, Samurai. Annava a di’ in giro che era arivato il momento suo. Che i patti nun so’ eterni. E poi Malgradi m’ha chiesto ’na mano. – Perché lo ricattava? – Perché gli era morta una zoccola fra le mani, e Spadino j’aveva dato ’na mano a fare le pulizie. Cosí m’ha detto lui. Era questo dunque il motivo. La foia. Il Samurai era nauseato. – Spadino non era uno schizzato qualunque. Spadino era roba degli Anacleti. Questo lo sapevi, giusto? – Certo che ce lo sapevo. E per questo l’ho dovuto parcheggia’. Come se permettono l’Anacleti de veni’ a magna’ nel piatto mio senza permesso? Io co’ loro i patti l’ho sempre rispettati. Vòi sape’ ’na cosa? Tie’. Il Numero Otto allungò al Samurai il BlackBerry in cui aveva memorizzato l’Sms con cui Anacleti lo condannava a morte. – Me so’ venuti a cerca’ a Ostia, Samurai. Di’, che dovevo fa’? La porta della casa giapponese si aprí. E con un accenno di inchino, Zelda lasciò entrare Rocco Anacleti e Max. Il Numero Otto scattò in piedi e fece il gesto di portare la mano alla schiena. – Non ci provare.

La voce del Samurai non era salita di un solo tono. Il Numero Otto riprese posto sui cuscini a terra. – Nun me piacciono le sorprese. – Neanche a me, vero? – disse il Samurai rivolto ad Anacleti. Anacleti non proferí parola e si lasciò goffamente andare sul pavimento insieme a Max, che salutò il Samurai con un breve cenno della testa. Il Samurai riferí quanto aveva appena appreso dal Numero Otto. Anacleti insorse. Erano tutte balle. Lui non aveva mai cercato di fregare Malgradi. E comunque, anche se fosse stato vero che Spadino voleva curarsi l’onorevole, si era trattato di un’iniziativa individuale. La famiglia non c’entrava niente. – E apposta! – trionfò il Numero Otto. – Me devi ringrazia’, allora, ché t’ho schiacciato il serpente! – Un topo con una rosa all’orecchio è sempre un topo, – mormorò piano lo zingaro, nella sua lingua. – E mo’ che ci hai da di’? – lo provocò il Numero Otto. – Niente. Pregavo per l’anima del povero Spadino. Il Samurai lasciò trascorrere un interminabile minuto di silenzio. Sorseggiava il suo tè verde con lo sguardo rivolto dritto davanti a sé. – Qualcuno di voi trogloditi sa cosa significa Abdel Salam? – domandò. Il Numero Otto sbarrò gli occhi, come gli succedeva quando non lo aiutava piú l’istinto. – Vordi’ zammammero. Nun è er negro de Cinecittà? Rocco Anacleti gli diede sulla voce. – Sí, brutta testa di cazzo. E che nun sai quanto te costerà. Me dovrai chiede’ pietà strisciando come un verme. Samurai si girò verso Anacleti. – Giusto, perché tu di vermi te ne intendi, no? I vermi non sono quelli che dànno una parola e non la mantengono? I vermi non sono quelli che se la prendono con dei poveri vecchi? Anacleti provò a rinculare. – Ascolta, Samurai, io quell’iraniano… Sí, insomma… E poi quella sera t’avevo detto… – Taci –. Il Samurai riformulò la domanda. – Qualcuno conosce il significato del nome arabo Abdel Salam? Max rispose scandendo le parole. Come a voler assaporare fino in fondo quel momento di complicità con il Samurai. – Servitore della pace. Significa Servitore della pace. Il Samurai sorrise, annuendo. – Grazie, Max. Abdel Salam. Abdel Salam. Vi dispiacerebbe ripetere? A voce alta. Increduli, il Numero Otto e Rocco Anacleti farfugliarono quel nome. Una, due, tre, dieci volte. Come una preghiera. Finché il Samurai fece cenno che poteva bastare. – Bisogna saper leggere il destino, il caso. È morto un Servitore della pace. E voi due, ora, ne raccoglierete il testimone. Chiaro? Il Numero Otto e Rocco Anacleti si guardarono. Probabilmente pensavano la stessa cosa. Ma entrambi sapevano che non erano lí per negoziare. Il Samurai non aveva finito. – Non tollererò altri colpi di testa. Sarà una pace senza eccezioni. E non ci sarà appello alla condanna di chi non la rispetta. Dimenticavo. Quel vecchio iraniano avrà la ricompensa per il suo lavoro. Non mi pare abbiamo altro da dirci. Ora, stringetevi la mano e ripetete un’ultima volta quel

nome, Abdel Salam. Max faticò a trattenere il sorriso. Le due merde avevano ciò che meritavano. Il Numero Otto si grattò la pelata. – Però, scusa tanto, Samurai… mo’ che stamo in pace… e lo dico pure a te, Rocco… dice che è arrivato un carabiniere che rompe i coglioni… nun è che sarebbe il caso di parcheggiarlo? Il Samurai lo fissò come si fissa un pidocchio. Suo malgado, il Numero Otto abbassò lo sguardo. – Non si spara alle divise. Non di questi tempi. – Guarda che a me nun me manca il coraggio, eh! – si scaldò il Numero Otto. – Non si spara perché non conviene. Ci sono altri sistemi per neutralizzare un nemico fastidioso. E io li ho già adottati. La questione è chiusa. Il Samurai si alzò, rivolse a Max un cenno quasi affettuoso e, prima di uscire, impartí l’ultimo ordine. – Ve ne andrete da qui non tutti insieme. Il Numero Otto annuí. E lo seguí dopo neanche un minuto. Non prima di essersi rivolto un’ultima volta verso Anacleti e il suo uomo. – E bravo, Max, sei diventato un capo. Hai fatto carriera.

XXI. Prima di concedersi a Eugenio Brown, Sabrina lo tenne un po’ sulla corda. Tecnica detta della profumiera: spandere in giro un buon odorino seducente per ingolosire l’animale, e fermarsi sulla soglia della cosa. Illu ché, come diceva sua nonna materna, pugliese di Andria. Giocare all’aspirante fidanzatina fu un piacevole diversivo. Ma Eugenio Brown, per quanto gentile e compassato, era pur sempre un uomo. Sabrina non poteva permettere che l’entusiasmo iniziale del produttore si raffreddasse. Non era il caso di esagerare con la ritrosia. Perciò, al terzo incontro, fu lei a prendere l’iniziativa e a portarselo a letto. Come amante, Eugenio Brown si rivelò il classico soggetto da Gfe. Cioègirl friend experience, secondo l’acronimo in uso nel giro delle escort. Quando il maschietto paga per illudersi di far l’amore con la ragazza che si porterà all’altare. Bacio e penetrazione, in altri termini, erano dati per scontati: d’altronde, non si finisce per caso nudi a far capriole nella cabina di un ventiquattro metri Maestro 82 alla fonda nell’esclusivo porticciolo di Cala Galera. Ma per tutto il resto sembrava necessaria una qualche speciale autorizzazione. – Posso baciarti lí? Ti va se ci giriamo? Avrei voglia… non so se posso chiedertelo… ma puoi sempre dirmi di no… insomma… Sabrina si adeguò rapidamente, alternando languore e simulato imbarazzo, e solo di tanto in tanto lasciò intuire qualche sprazzo della tecnica spudorata che l’aveva resa popolare nel suo ambiente. E meno male che non s’era inserita nell’apposita fessura il diamantino rosso. – Col tempo, Euge’, ché noi di tempo davanti ne abbiamo, vero? E fu proprio perché aveva deciso che quella con Eugenio Brown doveva essere una storia di lunga durata che giocò con lui a carte scoperte. Negli anni si era data parecchio da fare. C’era sempre il rischio di essere smascherata, come già era accaduto con lo scribacchino ricchione. Perciò, meglio essere chiara. E farlo adesso: un uomo frollato dal sesso appena consumato è nella condizione giusta per assorbire una bottarella. Cosí, quando lui fece ritorno al cabinato dopo una breve nuotata, gli serví il solito Grechetto ghiacciato, lo fece mettere seduto accanto a sé e gli disse: – Non sono quella che credi. Il mio nome non è Justine, ma Sabrina. E per vivere faccio la escort. Frase che, nella formulazione originaria, doveva suonare «e finché non ho incontrato te, per vivere facevo la escort». Sabrina aveva optato per una versione piú sobria. Non aveva idea di quale sarebbe stata la reazione di Eugenio Brown, quindi meglio tenersi da parte qualche asso, da giocare al momento opportuno. Non ci fu nessuna reazione. Eugenio buttò giú un sorso di vino e la invitò a continuare. Sabrina raccontò del padre ubriaco e manesco. Della violenza subita a tredici anni da un compagno di scuola. Figlio di ricchi che avevano messo tutto a tacere. Disse che il padre, quando aveva saputo, l’aveva massacrata di botte. Era scappata da casa. Aveva cominciato a rubacchiare ed era stata fermata e riconsegnata ai genitori. Suo padre l’aveva ritirata dalla scuola e mandata a servizio. Il figlio del padrone di casa aveva abusato di lei, e cosí il padrone di casa stesso. La signora, per tutta risposta, l’aveva licenziata. Per due anni aveva fatto uso di eroina. Si era disintossicata grazie a una monaca di buon cuore che l’aveva salvata mentre stava per buttarsi al fiume. A diciott’anni si era ritrovata sola, disperata, senza una lira. Aveva cominciato a battere.La sua giovane vita era stata tutta una teoria di incontri sbagliati, occasioni perdute, violenze e schifezze di ogni sorta.

– Poi ho incontrato te. Ed eccomi qui. Ora, fa’ quello che vuoi. Posso andarmene anche subito. Basta che tu lo voglia. Eugenio Brown le prese una mano e sorrise. – Non voglio che te ne vada. Voglio che la smetta di raccontarmi bugie. Sabrina ci rimase male. Mentre raccontava, si era infervorata a tal punto che aveva finito col crederci lei stessa, a quel cumulo di fregnacce. – Tu lo sapevi già? – sussurrò. – Sí. – Chi è stato? Quel frocio di Fabio… è stato lui? – Non importa se lui o un altro, Justine. Però sei stata sincera con me. Almeno nelle intenzioni. E questo mi ha fatto molto piacere. Solo… – Solo? – Fai almeno finta di volermi un po’ bene, ok? Le arrivò come un cazzotto nella pancia, un colpo alla nuca, uno sputo in mezzo agli occhi. E no, non si fa cosí, Eugenio Brown, e che cazzo! Che è ’sta dolcezza? Che significa «fingi di volermi bene»? Te stai dando prigioniero, Euge’? Legato mani e piedi a una padrona come me? A furia di frequentare puttanieri, Sabrina credeva di aver ormai cancellato ogni sentimento di tenerezza nei confronti degli uomini, intesi come maschi. Se avesse dato retta alla voce che si era insinuata nel suo cuore, si sarebbe alzata, rivestita, e lo avrebbe piantato. Non sono fatta per uno come te, Eugenio Brown, cercatene una migliore di me. Ma che razza di… Però. Però il cuore può pensarla come gli pare, ma come si fa a rinunciare a cuor leggero all’attico all’Esquilino, a uno yacht di ventiquattro metri, ai week-end presenti e, presumibilmente, futuri. Come si fa a dire di no a un manzo coi soldi e il potere di Eugenio Brown? Sabrina inclinò la testa, si passò la lingua sulle labbra, tirò su col naso, come fa chi è impegnato in una lotta spasmodica contro un pianto che nasce dai precordi ma non vuol mostrarsi debole, e con una vocina rotta dall’emozione disse: – Allora… non mi mandi via? Eugenio Brown posò delicatamente il calice sul comodino, si avventò su di lei e la scopò selvaggiamente. Piú tardi, lui le disse che l’avrebbe chiamata per sempre Justine. – Già, amo’, Sabrina suona un po’ cafone, no? – No, amore, è per l’origine letteraria. – L’ori… ah, sí, quella cosa delle due Justine… lo diceva pure il Professore… ma io non è che l’ho capita bene… Erano sulla plancia, ormeggiati. Guardavano il passeggio serale della bella gente di Roma sulla banchina. Di tanto in tanto qualcuno scambiava un saluto con Eugenio. Sí, sí, guardate, guardate e schiattate, stronzi! – Ora ti spiego, – disse Eugenio, accendendosi un Cohiba. Per quello che Sabrina riuscí a capire, di ’ste due Justine una era una specie di slave dei giochi sadomaso. Aveva qualche conoscente specializzata nel ramo. Ragazze che per mille euro si facevano legare e insultare. O si vestivano da camerierine sculettanti e servivano il padrone in topless e tacchi a spillo. Altre, per un extra, si prestavano a fare da portacenere, e altre ancora, le piú care su piazza, da cesso. Robaccia dalla quale lei si era tenuta sempre alla larga. Quanto all’altra Justine, doveva essere una ricca e matta che saltava da un letto all’altro, e gli uomini perdevano la testa per lei. Sai

la novità! Ah, e poi c’era pure uno scrittore che si suicidava perché lei non poteva essere solo sua. – Suicidarsi? Per una donna? Ma dài! – Il suicidio ti fa paura, Justine? – No. Me pare ’na cazzata, Euge’! Eugenio continuava a raccontare le prodezze di quelle due eroine di cartapesta. Aveva una bella voce, magari un po’ monotona. La brezza della sera accarezzava le spalle nude di Sabrina, procurandole brividi piacevoli. Si accoccolò fra le braccia del produttore e chiuse gli occhi. Il sonno stava per prenderla. Era stata una giornata davvero indimenticabile. Eugenio le elargí una leccatina all’orecchio. – Però, sai, tesoro, devo dire grazie al Professore. – E de che? – Se non fosse stato per lui, non ci saremmo mai conosciuti. – Mandagli una bottiglia. – Lui vuole che gli produca un film. – E tu lo farai? – Forse. Sabrina si raddrizzò, improvvisamente vigile. – Fallo. Produci ’sto film. E fammi avere una parte. Cosí saprò che sono davvero importante per te. Al ritorno dal week-end all’Argentario, Sabrina si trasferí nell’attico all’Esquilino. Chiamò Teresa e la ringraziò per la dritta che prometteva di cambiarle la vita. – Ma dài! Davvero? Come so’ felice, Sabri’! Ahò, nun te scorda’ de me, eh… ché qua le cose non è che vadano tanto bene… – Non ti preoccupare, Teresa. Io so cos’è la riconoscenza. Seeh, e come no! Tanto per cominciare, via il vecchio numero di telefono: se doveva essere vita nuova, doveva esserlo su tutta la linea. Eugenio le procurò un’audizione con il regista Bellini. La fecero vestire da domestica. Doveva entrare in scena e dire: «Signora, le melanzane sono bruciate». Il regista, un vecchio mestierante logorato da anni di frustrazioni, gettò la spugna. – Eugenio, scusami, è un caso disperato. – Riprova, lo sai che ci tengo tanto. – Euge’, quando una dice quattro volte melenzane menzelane manzalane… – Sarà stata l’emozione… – Amico mio, credimi. Quella viene da troppo lontano. Non ce la farai con lei. Eugenio decise di affiancarle un personal trainer. Carlo, cosí si chiamava, cercò di insegnarle la corretta dizione dei vocaboli, il tono corretto per pronunciare una battuta. Sabrina ci mise tutta la sua buona volontà. Nel frattempo, si chiarí con Fabio. Non era stato lo sceneggiatore a cantarsela con Eugenio, ma qualcun altro. Diventarono qualcosa di simile a una coppia di amici. Un giorno, le disse, mi divertirò a raccontarla, questa vostra love story. – Love story me pare eccessivo, Fabie’. – Diciamo allora che per lui sei come Eliza per Higgins. – Che è, ’n altro libro? – Una commedia, per la precisione. Sarebbe l’antico mito di Pigmalione rivisitato dal

commediografo inglese George Bernard Shaw. – Ma quanto parlate difficile voi di sinistra. – Be’, certo, coi gentiluomini che frequentavi un tempo. A chiunque altro avesse osato rivolgersi a lei in quel tono, Sabrina avrebbe strappato via la faccia a unghiate. Ma Fabio le stava simpatico. Cosí gli chiese di raccontarle tutta la storia. – Pigmalione è uno scultore che fa una statua cosí bella che se ne innamora. Allora va dalla dea Afrodite e le chiede di renderla umana. La dea dice di sí, la statua diventa donna e vissero felici e contenti. – Però! E la commedia? – Un professore prende una popolana, la educa e la fa diventare una signora sofisticata. Poi lei sposa un lord, e vissero felici e contenti. Cosí era questo che stava facendo con lei Eugenio Brown. L’aveva presa dalla strada, per dire, per farne una signora. Sabrina cominciò a provare per lui un certo sentimento. Gratitudine, forse, era la parola piú appropriata per definirlo. Raddoppiò l’impegno, sottoponendosi con il sorriso sulle labbra alle massacranti sedute con Carlo. Ma quando anche il personal trainer gettò la spugna, Eugenio se la portò a cena da Sette, in via Settembrini, al quartiere Prati, e davanti ai tagliolini allo scorzone di Volterra le disse chiaro e tondo che non sarebbe mai diventata un’attrice. La furia popolana, a lungo repressa, esplose in una scenata liberatoria. – Insomma, anche secondo te so’ buona solo a fa’ i pompini! La coppia al tavolo accanto si voltò, inorridita. Eugenio cercò invano di placarla. – Non ho mai pensato niente di simile, amore. Si tratta di trovare qualcosa di piú adeguato alle tue inclinazioni. – Cazzate! Non sono peggio di tutte quelle zoccole che lavorano dagli amici tuoi della Rai. Io lo so come vanno queste cose. Ti basta alzare il telefono e mi fanno il contratto! – No, amore. – Che vuol dire no? Che non vuoi farlo, ecco che vuol dire. Sei un pezzo di merda! E basta co’ ’sto «amore». – Sono Eugenio Brown. Io quelli che alzano il telefono, come dici tu, li combatto da una vita. Per questo mi rispettano, hai capito? Comunque, il discorso è chiuso. Adesso vedi di calmarti. Sabrina gli gettò in faccia il mezzo calice di Brunetto, Brunone, come cazzo se chiamava quel vino da cento euro a botta, e se ne andò via. Convinta di essersi giocata Eugenio Brown definitivamente, tornò all’Esquilino e si mise a preparare le valigie. Meglio cosí, Sabri’. Gente de sinistra. Gente de merda. Eugenio Brown era come tutti gli altri. Se l’era comperata. Come tutti gli altri. Ma quelli, almeno, finita la marchetta, pagavano, e pagavano pure bene, e buonasera. Tutte ’ste pippe sul teatro, la commedia, farò di te questo, farò di te quello, Pigmalione… Pigmalione ’sta ceppa! ’O vòi sape’ qual è la verità, Sabri’? Che quelli come Malgradi si accontentano di farsi ’na scopata, e sta bene. Ma quelli come Eugenio Brown te vogliono cambia’ l’anima. Ma io so’ io. Mentre riempiva la valigia di tutto ciò che le apparteneva – e anche, a titolo di risarcimento, di qualche ricordino, tipo il Rolex posato sulla mensola del bagno e un paio di quadretti 15×30 che

tanto erano piccoli e insignifcanti quanto oro valevano, parola di Fabio il frocione – sullo schermo Hd dell’immenso televisore piazzato davanti al letto matrimoniale scorrevano le immagini di Sky Tg24. Con la coda dell’occhio catturò un’inquadratura che le suonava familiare. Posò il cachemirino nero che era appartenuto alla fu lady Brown, s’impossessò del telecomando e alzò il volume. Orribile ritrovamento nel cuore della riserva naturale della Marcigliana, alle porte di Roma. Il cadavere di una persona di sesso femminile, in avanzato stato di decomposizione, è stato scoperto questa mattina poco dopo le dieci da un cittadino che portava a passeggio il suo cane. Il corpo, in parte mutilato, probabilmente dagli animali che vivono allo stato brado nella selva…

Vicky. L’avevano ritrovata. Come aveva detto quel tipo al telefono? Te manno a dormi’ coll’amica tua… Mangiata dai cani! Sabrina tornò di colpo lucida. Stava per fare una cazzata memorabile. C’è gente che non si può permettere l’orgoglio, Sabri’. Disfece furiosamente la valigia. Eugenio Brown tornò poco dopo mezzanotte. Lei si precipitò fra le sue braccia. – Perdonami perdonami perdonami non sapevo quel che facevo perdonami amore non succederà mai piú. Eugenio Brown rimase interdetto. Sabrina fece scivolare la sottoveste viola La Perla. Rimase nuda. Si voltò. Per l’occasione, aveva rispolverato il famoso diamantino rosso. Eugenio Brown la perdonò.

XXII.

L’onorevole Pericle Malgradi chiamò Spartaco Liberati e lo informò che «una selezionata e indipendente giuria di autorità cittadine» lo aveva scelto quale vincitore della Penna d’Oro, «premio al giornalista romano dell’anno che piú e meglio si è distinto nel dare liberamente voce alle istanze della città e nel difendere i diritti della cittadinanza». Poi, andò al sodo. Sapeva bene che con quel cialtrone non c’era bisogno di sciocchi preamboli. – No, nun me dica, onore’. Ho vinto? Ma è ’na roba da impazzi’. Finalmente la ricompensa a ’na vita de sacrifici. – Marchette, Liberati. Si chiamano marchette. – Vabbe’. Ma vòle mette’? Spartaco Liberati, giornalista dell’anno. Ammazza, ahò. Come suona, onore’? ’O sa quanti sponsor ariveranno in radio, mo’? – Guardi, non ho molto tempo da perdere. Le volevo solo dire un paio di cose. La prima. Non si presenti senza giacca e cravatta, perché non la fanno manco entrare. Altro che premio. – Onore’, nun se preoccupi. Je faccio fa’ bella figura. L’unica cosa, scusi, sa… Ecco, giusto pe’ sape’… Non è che co’ la penna c’è pure ’n assegno? – Che domande, Liberati. Certo che c’è. Che premio sarebbe senza contante. Cinquemila. Non siamo alla Festa dell’Unità. – Apposta. Dicevo, io. – La seconda cosa. Non le dico di preparare un discorso, che da un analfabeta come lei non voglio neanche immaginare cosa verrebbe fuori. Le chiedo solo di non fare gaffe. – Che vordi’? – Figure di merda, Liberati. Figure di merda. – Per carità. – Voglio dire, a proposito di marchette, vorrei che lei non se ne uscisse con la storia delle interviste a tariffa agli assessori e ai consiglieri comunali. – E perché dovrei, onore’. Quelle so’ cose nostre. – Con lei non si sa mai. E comunque è possibile che qualche giornalista vero alla consegna del premio ci sia. E magari gli venga anche in mente di farle una domanda semplice semplice. – Quale? – Per esempio, per quale motivo uno come lei che parla solo della Roma, all’improvviso se ne esce in radio con ospiti e temi della politica cittadina. – Be’, è chiaro. Potrei di’: «Perché la tribuna Monte Mario è piena de politici». Gajardo, no, onore’? – Ecco, vede. Lei deve solo tacere. Quando la chiameranno sul palco, lei dirà: «Grazie». O, se proprio ci tiene: «Grazie, sono commosso», anche se nessuno ci crederà. Poi sorriderà a vantaggio dei fotografi. Stringerà la mano del sindaco mentre le consegna il cofanetto con la penna e la busta con l’assegno. E riprenderà il suo posto in sala. Chiaro? Chiuse il telefono raggiante. Se vedemo in Campidojo. Chi se li perde quei cinquemila? Doveva dunque soltanto rimediare il completo della festa. E provò con la solita marchetta che prevedeva il passaggio gratuito in radio. – Funziona che te me sponsorizzi co’ ’n bel vestito e io te faccio vesti’ mezza curva sud. Prima bussò da Zara, poi da Gap. Ma al secondo vaffanculo, Spartaco Liberati lí era finito. Sulla Casilina allora, zona Giardinetti. Da Elegance, cinque piani di roba per coatti ripuliti, ciccioni e pulciari. Il tipo alla cassa, Mimmo, era un amico. Uno di quei matti che Fm 922 se la risentivano pure

in podcast, come fosse il Vangelo, e che frequentava la prepugilistica all’Asso di Picche. – A’ Spa’, e che problema c’è? Te vesto io. E te faccio pure er cinquanta per cento de sconto. Nun hai idea che robba m’è arrivata. – Me ’mmaggino. – E dàjè. Fa’ ’na scappata. Mimmo l’aveva affidato a Danila, una commessa roscia sui vent’anni con un bel paio di chiappe, occhi da gatta, un piercing all’ombelico, uno sul sopracciglio destro, uno al centro della lingua e un altro, immaginò lui, dove purtroppo non poteva vedere. – Taglia? – fece lei. – Direi ’na 48. – Seeh. Trent’anni fa. Te me sa che nun entri manco nella 54. – A’ bella, fai poco la stronzetta, ché dico a Mimmo de mannatte via a carci in culo. – Co’ Mimmo ce scopo. – Ah, vabbe’. Famme vede’ ’sta 54. La tipa si presentò con un completo grigio plissettato dalle tonalità cangianti come quelle di una trota di torrente. Che se in quella roba c’era un dieci per cento di fibra di cotone era un miracolo. – E questo dove l’avete rimediato, ar circo? Io devo anna’ a pija’ un premio importante, no a tira’ fòri i colombi da un cilindro. – Arriva dall’Albania. – Apposta. Nun devo anna’ a un matrimonio de scafisti. – Provatelo. Secondo me, il colore è quello tuo. Spostò la tenda dello spogliatoio e fu investito da un tanfo stantio. Si infilò in quell’abito da cefalo in apnea. – Che dici? – Perfetto. Mo’ te porto ’na camicia bianca, calzini e scarpe. – Anche una cravatta in tinta…. Anzi, no. La cravatta ce l’ho. Quella blu della divisa sociale della Roma. La camicia era di cartone. Come le scarpe, del resto. Una copia mal riuscita di un paio di Saxon, a cui facevano il verso pure nella griffe che marchiava la soletta interna in finta pelle. Sagsun. Ci mise del suo anche Mimmo alla cassa. – Bella fregnetta, eh? – Me lo potevi di’ che era la donna tua. Ho fatto ’na figura de mmerda. – Ma che donna mia. È ’n’interinale. Sta cor fijo der padrone. Io me la trombo ogni tanto. – Peggio me sento. Vabbe’, quant’è pe’ ’sta monnezza? – A’ Spa’, cosí m’offendi… è roba garantita. – Garantita quanto? Mezza giornata? Comunque, dimme. – So’ cinquanta euro tutto. – E lo sconto? – Te l’ho fatto. N’ho capito, la vòi gratis? – Nun ci ho dietro contante. Famo che te li scalo in palestra dalla rata der pugilato. Forza, maggica Roma, Mimmo! E quindi arrivò il gran giorno. Il suo giorno. Spartaco Liberati rimontò la scalinata del Campidoglio nella luce morbidissima delle sette del pomeriggio, che colorava di tinte pastello il Palazzo dei Conservatori. Si guardò intorno. Sputò un frammento di fusaglia che gli si era incastrato

fra gli incisivi. La libertà de stampa, seeh. Il giornalismo indipendente, ’sto cazzo. Er cane da guardia, bum. I fatti. Ma de che? La verità? De mi’ nonno: è vero solo quello che se dice. Quel sano cinismo – realismo, re-a-li-smo – lo gratificava. Ma sí, nella vita tutto stava ad attaccasse a quello giusto. E quando t’aveva dato quello che te serviva, bonasera. Un calcio in culo e via. Altro cavallo e altro giro. Anche quer pallone gonfiato di Malgradi, che se credeva? L’onorevole nun poteva immagina’ che co’ quella Penna d’Oro che se stava pe’ mette’ nel taschino, da triglia che era sarebbe diventato squalo. Che, c’era solo un onorevole a Roma? E poi quanto poteva dura’ ’sto Malgradi? Lui ci aveva un padrone solo: Samurai. Era in orario. Intorno alla statua del Marco Aurelio, notò due carabinieri in alta uniforme che facevano ala a un generale a colloquio con Malgradi. Un tipo con la faccia pingue e liscia come il culo di un bambino, che, per quanto era corto, sembrava quasi incarcato sotto il peso del cappello rigido dal grande fregio con l’aquila dello stato maggiore. Sul petto aveva una batteria di nastrini e sorreggeva il braccio di una vecchia carampana vestita come uno spaventapasseri. In mezzo a un seguito di curiosi, evidentemente lí per il premio, in cui il piú giovane aveva sessant’anni. Ma ’ndo’ so’ finito? Che è? Hanno chiuso geriatria al San Giovanni? Ma tu vedi! Con un gesto della mano, Malgradi indicò a Liberati l’orologio. Era ora di entrare. La Sala degli Orazi e Curiazi si riempí rapidamente di quella manica di rincoglioniti e streghe cotonate a cui era chiaro non fregasse nulla né di lui né del premio. Ma solo di quel bassotto in divisa, di Malgradi e del sindaco, che se ne stava in mezzo alla grande sala, piantato come uno stoccafisso accanto a un leggio in plexiglas con al centro un sottile microfono a collo d’oca. Il sindaco sfiorò il microfono con il palmo della mano. – Buonasera a tutti e grazie per essere intervenuti. Buonasera alle autorità civili e militari che hanno avuto la benevolenza di essere con noi, e in particolar modo a sua eccellenza il generale Mario Rapisarda, comandante della divisione Custoza dell’arma dei carabinieri, che vedo qui in prima fila con la sua gentile signora. Seeh, signora, mo’. Beato a te, che te sembra ’na donna. – A nome della città di cui mi onoro di essere primo cittadino, vorrei darvi il mio benvenuto alla prima edizione del premio Penna d’Oro con cui quest’anno l’amministrazione capitolina intende onorare insieme la piú nobile delle professioni, il giornalismo, e uno dei migliori tra i suoi interpreti. Il dottor Spartaco Liberati, voce indefessa, libera e indipendente di Radio Fm 922. Un applauso, prego. Tenendo appoggiata al petto la cravatta sociale della Roma, Spartaco accennò un inchino alzandosi dalla sedia, mentre la platea di vegliardi si spellava le mani. Dottore, dottore. Ma dottore de che? Il sindaco si riavvicinò al microfono. – Naturalmente, avrei molte cose da aggiungere. Ma mi taccio perché meglio di me, questa sera, potrà dire l’onorevole Pericle Malgradi, che ci ha voluto far dono della sua presenza e che di questo premio è il padre insieme alla sua fondazione Rialzati, Roma e all’Associazione ristoratori ed enoteche. Prego, onorevole… Il sindaco prese posto nella prima fila di sedie che fronteggiavano il leggio. Malgradi si schiarí la gola. – È difficile, in questa sala che vide la firma del Trattato di Roma del 1956, pietra angolare dell’Unione Europea, non riflettere su che cosa può o non può un tratto di penna. Una parola può

scatenare una guerra. Una parola può suggellare una pace prospera e duratura… La moglie del generale Rapisarda si avvicinò all’orecchio del marito. Che bravo questo Malgradi! – È difficile, osservando in questa sala la storia di Roma cosí come ce la raccontano questi affreschi seicenteschi del mirabile Giuseppe Cesari detto il Cavalier D’Arpino, chiederci cosa saremmo se l’uomo non fosse ciò che tramanda di generazione in generazione. Guardate, guardiamo. Malgradi rivolse solennemente lo sguardo alla volta della sala. – Il ritrovamento della Lupa, la battaglia contro i Veienti e i Fidenati, il combattimento tra Orazi e Curiazi. Spartaco era rapito. Non aveva ancora capito un accidente di quello che Malgradi stava dicendo. Boh. – L’uomo vive di notizie dai suoi albori. Ma cos’è una notizia? Il ritrovamento della Lupa è una notizia. Ma lo è forse sapere chi preferisse tra Romolo e Remo? Mi direte: l’onorevole la prende alla lontana. Ma io vi dico: no! Io vi dico che è di noi, del nostro tempo, che sto parlando. La notizia è responsabilità. Sí. Re-spon-sa-bi-li-tà. Qualcuno dice che non c’è notizia, non c’è giornalismo senza scoop. Scoop. Parola inglese, come gossip, pettegolezzo. Parola infida. Scoop significa «scavare». Già, scavare. E cosa cerca chi scava? Cerca solo immondizia, care amiche e cari amici. Cerca fango. Chi scava fruga in ciò che gli uomini hanno deciso di dimenticare per il bene di tutti. Chi scava cerca il discredito delle sue innocenti vittime. Il giornalismo è altro. È verità nella responsabilità. Ricordatelo. Verità nella responsabilità. Questo è l’epitaffio che ho voluto per il mio premio, l’incisione nella penna stilografica in oro zecchino che gli amici dell’Associazione ristoratori ed enoteche regalano oggi a Spartaco Liberati per la luminosa testimonianza di questo modo di intendere la professione. Grazie. Gli artritici si alzarono a fatica, in un applauso prolungato, mentre Spartaco, obbediente, si limitò a un grazie. Alla sbrigativa posa fotografica con il sindaco e il cofanetto con l’assegno e la penna che volle porgergli. Un’orrenda supposta dorata con cappuccio – ma quale oro zecchino, li mortacci vostra, questa è robba de cinesi! Poi, si materializzarono i messi comunali in livrea, guanti bianchi e giganteschi peltri in argento che, alzandosi in uno studiato movimento sincronico, rivelarono agli occhi acquosi di quella platea di diabetici pile di tramezzini alte come tombe Maya, mozzarelle di bufala casertane del caseificio Saverio Viglione e figli, ’nduja e composizioni di mignon farciti. Spartaco si sorbí il pippone monarchico che gli aveva attaccato una di quelle orrende carampane che avevano assistito alla cerimonia e che si presentò come baronessa Farneti, ultimogenita di un ufficiale della guardia reale di Umberto II di Savoia, «il re di maggio, sa…» Era convinto, del resto, che solo sopportando Belfagor sarebbe arrivato al numero di cellulare dell’unica donna passabile di quella serata. La nipote che la accompagnava. Una pariolina biondina vestita come una monaca, ma con la smorfia di una che la sa lunga e un minuscolo cuoricino tatuato all’interno del polso. – Sa, dottore, la mia bambina vorrebbe tanto fare la giornalista. E magari una persona come lei potrebbe farle da nave scuola. Dal punto in cui era, Spartaco notò Malgradi e Rapisarda confabulare al riparo di una delle tre grandi porte in noce intagliato della sala. E tornò a essere colpito dall’estrema confidenza che i due dimostravano. Non era un’impressione errata. Rapisarda era un calabrese di Reggio, sulla sessantina. Il padre era stato compare di merende e di clientele del padre di Malgradi. Entrambi fascisti, entrambi baroni universitari della facoltà di Medicina. I figli erano cresciuti insieme. Prima di prendere strade diverse. Si fa per dire. Malgradi

aveva attraversato l’intero arco politico, riuscendo a saltare sul carro del vincitore un secondo prima della catastrofe. Mario Rapisarda aveva fatto carriera destreggiandosi nei corridoi della politica. Mandando subito a mente una lezione. Destra, sinistra, non faceva differenza. Purché ci fosse il dividendo. Anche se nel profondo non aveva mai smesso di coltivare un anticomunismo antropologico e insieme estetico, come gli aveva insegnato il padre. Da sottotenente di prima nomina a Napoli, aveva imparato che tra l’arresto di un camorrista e un biglietto di tribuna al San Paolo per un assessore o un consigliere comunale correva il confine tra l’oscurità di un trafiletto in cronaca e la sfolgorante concretezza di dieci, cento mani profumate da stringere in meno di due ore. Quindi, da maggiore prima e da colonnello poi, aveva fatto il nido a Roma, grazie al matrimonio con la figlia di un sottosegretario alla Difesa. Una donna brutta come la morte, ma utile come un’assicurazione sulla vita. Era passato per le scuole, i reparti logistici, l’estenuante flanella nei salotti che contano. Grazie a tutto questo era diventato l’indiscusso protagonista di ogni salotto del crimine televisivo. Al comando generale era una barzelletta. «Il carabiniere a cavallo», lo chiamavano. Ma se ne fregava, lui, di quelle miserie. Imperterrito, pontificava davanti a plastici, bacchette, labbroni e botulini, su scene del crimine, armi, moventi, tutte faccende di cui non si era mai curato di apprendere alcunché. E se no a che servivano i subalterni, quelli che stavano sulla strada? Ora erano di nuovo insieme, lui e Malgradi. Dove era scritto che dovessero essere. Ma all’uno e all’altro mancava un ultimo gradino. Malgradi sognava da ministro, Rapisarda da comandante generale. Potevano darsi una mano. Spartaco si era liberato di Belfagor e ora avvertiva il profumo di mughetto della nipotina che gli stava annotando il numero del suo cellulare sul palmo della mano con la penna cinese. Tornò a osservare Malgradi e Rapisarda. L’onorevole gesticolava con una certa foga. Il generale annuiva con sguardo preoccupato, sfiorandosi di tanto in tanto l’untuoso riporto. Spartaco provò ad afferrare cosa si stessero dicendo i due. – Mi ha compreso, spero, generale. Potrebbe essere un problema serio questo ritorno in città. Direi anche motivo di imbarazzo per l’arma, ecco. – Quel Malatesta è un buon elemento, ma un po’ agitato. Stia tranquillo, onorevole. Malgradi si congedò da Rapisarda, fece qualche passo e trascinò Liberati sul lato opposto della sala. – Mi stia bene a sentire. Ha preso il premio, ha preso i soldi. Ora faccia quello che deve. Cominci quella campagna in radio. Ci vada dentro duro. Come sa fare lei quando ha buoni argomenti. Non mi faccia pentire. Chiaro?

XXIII. Il Samurai procedeva lentamente alla volta di Ostia. Contava di arrivare in perfetta coincidenza con la fine di una cerimonia alla quale non aveva nessuna voglia di presenziare. Accanto a lui, silenzioso come sempre, Max. Incolonnati diligentemente nel traffico della profonda estate, ascoltavano Il calcio in testa, la rubrica che aveva reso celebre nel sottomondo romano quel sorcio di Spartaco Liberati. E dunque, amici in ascolto, siamo di fronte all’ennesima mistificazione della sinistra. La morte violenta di un immigrato a Cinecittà diventa l’occasione per gridare alla mafia. Ma quale mafia? Ma de che stanno a parla’? Un sanguinoso regolamento de conti fra stranieri, perché de questo se tratta fino a prova contraria, che te lo fanno diventa’? Un’esecuzione, una guerra per bande. Bande? Ma quali bande? Lo volete capi’ che Dandi, Freddo, Libano so’ belli che morti e sepolti? È fi-ni-ta! Fi-ni-ta! Chiaro?

Spartaco ci sapeva fare, riconobbe il Samurai. La campagna di disinformazione era partita alla grande. Epperò c’è un ma, purtroppo. E qui davvero so’ senza parole. C’è ’na tipa a Cinecittà che se chiama Savelli. Il nome è Alice, me pare. ’Na zecca, pe’ capisse. Be’, sapete che s’è ’nventata? S’è messa a diffama’ mezzo quartiere. Gente perbene. E la cosa incredibile è che i carabinieri l’hanno lasciata fa’. È chiara l’antifona? I comunisti diffamano, i carabinieri guardano. Come mai? Cari amici, se portate pazienza, vedrete che il sottoscritto a questa storia arriverà fino in fondo. E me sa che ce sarà da ride’. Ah, sí. E ora, i R.E.M. con Leaving New York.

Qui Spartaco, rifletté il Samurai, era un po’ fuori centro. Spiegò a Max che, da quel che aveva potuto capire, Alice Savelli non si poteva definire tecnicamente una «comunista». Semmai, una di quelle idealiste confuse che blateravano di un nuovo ordine senza fare un minimo di conti con la realtà. Quelli come lei il Samurai li considerava millenaristi medioevali. Utopisti di un mondo senza banche e senza padroni, senza piú né destra né sinistra, una landa piatta e grigia senza bellezza nella quale ciò che contava era unicamente quell’insulsa qualifica, cittadino, che voleva dire tutto e il contrario di tutto. Cittadini erano quelli che condannarono alla cicuta Socrate, e cittadini, per giunta in maggioranza, coloro che, tra il profeta Cristo e il ladrone Barabba, scelsero quest’ultimo. Di questa gente lo offendeva la totale assenza di qualunque guizzo aristocratico. Per certi versi, erano il rovescio della medaglia del Numero Otto e degli altri canazzi di strada: elementi primitivi da manovrare, nel migliore dei casi, e quasi sempre da stroncare. Tuttavia, crescevano di numero a un ritmo inquietante. Il loro rifiuto della vecchia politica faceva presa. Non mancavano, al loro interno, i rossi riciclati. Portatori comunque di un’ideologia forte, erano in ogni caso destinati a soccombere all’urto dell’orda. Il Samurai vedeva una fase di convulsioni dagli esiti, peraltro, prevedibili. Ogni moderazione sarebbe stata spazzata via dal vento impetuoso del conflitto. E alla fine, lo scontro sarebbe stato fra loro e noi. Proprio per questo aveva ricominciato a ragionare, dopo tanti anni, in termini di «noi». E di tanto in tanto tornava a insegnare ai ragazzi che Luca radunava nel suo Tatami. Ma, doveva ammetterlo, non si trattava di un ritorno di fiamma del vecchio amore per una causa ormai morta e sepolta. Era soltanto una misura precauzionale in vista della battaglia ineluttabile. Una forma di legittima difesa preventiva. D’altronde, neanche Marco Malatesta era un comunista. Lui, però, non era confuso, ma aveva, anzi, idee sin troppo chiare. Per questo la saldatura con la millenarista Alice Savelli andava stroncata sul nascere. Per il momento, le contromisure avevano funzionato e Malatesta era stato neutralizzato. Ma la pace era troppo precaria. Si doveva fare presto. Malgradi doveva muoversi. La musica sfumò in un comunicato pubblicitario e le prime case di Ostia apparvero all’orizzonte.

Il piazzale davanti alla chiesa di Santa Maria Regina Pacis straripava di bravi cittadini. Mescolati alla folla, spiccavano i pischelli di Ponente che Denis aveva fatto mascherare da legionari. Anche il nome, I Cavalieri di Costantino, era stata un’idea di Denis, che cosí dimostrava di aver letto, in vita sua, un paio di libri. Il Numero Otto, per una volta vestito da cristiano, in completo bianco panna con gilet color perla e scarpe bianche, in uno slancio d’entusiasmo si abbracciò Denis. – A’ Denis, semo die-ci-mi-la, alé, oh-oh! Semo ’na curva dell’Olimpico. Tutti lo devono vede’ che qua comannamo noi! Anzi, comanno io! Denis abbozzò. Per una volta quel minchione l’aveva detta giusta. Monsignor Tempesta aveva voluto un Te Deum solenne «perché la pace torni a regnare sulle martoriate terre di Ostia», ma il senso della cerimonia era inequivocabile: qua comandiamo noi, e mo’ la guerra è finita. Il vescovo si affacciò sul sagrato e prese a benedire la folla. – A’ Denis, stamo a fa’ er cinema, Denis. Ma Denis si era allontanato in tutta fretta. Il Numero Otto lo vide fendere la calca, che si ritraeva rispettosamente al suo manifestarsi, e consegnare al monsignore uno spadone con inciso sulla lama «I Cavalieri di Costantino». Insomma, un trionfo. Il Numero Otto si fumò un numero imprecisato di sigarette in attesa che la folla si diradasse, poi, a un cenno dell’onorevole Malgradi, si accostò al crocchio al centro del quale campeggiava Tempesta. Con lui, oltre a Malgradi, c’erano Benedetto Umiltà e Denis. – Eccellenza, le presento Cesare Adami. L’orgoglio di Ostia, se posso dire. La dimostrazione che gli errori dei padri non devono e non possono ricadere sui figli. Un pilastro della comunità. Il Numero Otto sorrise. Il vescovo se lo spogliò con gli occhi, poi allungò la mano con l’anello – ammazza, che breccola! – E dimmi, figliolo, sei davvero credente nel profondo? – Eccellenza, diciamo che conosco bene quanto so’ profondi i preti. Malgradi alzò gli occhi al cielo, contrariato. Ma il vescovo sciolse la tensione con una franca risata, alla quale l’onorevole si uní dopo un attimo di esitazione. Denis prese sottobraccio il Numero Otto e se lo portò via. – Vedo che il buonumore regna sovrano, – disse una voce gelida, alle loro spalle. Il vescovo e Malgradi si fecero improvvisamente seri. Il Samurai e Max mossero un passo avanti. – Anche se di motivi per essere cosí allegri non ne vedo, vero, onorevole? Pericle Malgradi si passò una mano sulla fronte, di colpo consapevole del caldo atroce della mattina d’estate. – La prendo come una battuta. – Sarebbe piú corretto dire una constatazione, – affondò il Samurai. – Sto facendo di tutto. – Davvero? – La regione ha approvato il piano casa, adesso è solo il comune che deve procedere con la variante di piano regolatore. – È quello che sto dicendo. È tutto fermo. – Non capisco. Il Samurai si rivolse a monsignor Tempesta, dando volutamente le spalle a Malgradi: anche la gestualità doveva contribuire a rendere piú efficace l’umiliazione.

– Lei mi deve e ci deve perdonare, eccellenza, ma sono abituato a tenere fede alla mia parola. E con lei ho assunto degli impegni. Il piano casa della regione prevedeva la possibilità, nel quadrante racchiuso tra l’Eur e Ostia, di moltiplicare le cubature già esistenti o in licenza fino a cinque volte oltre i limiti fissati dalle norme paesaggistiche, purché ogni ventimila metri cubi fosse costruito un edificio di culto. Era la ricaduta per oltretevere di cui avevano discusso durante quella cena alla Paranza e che aveva strappato l’ilarità dei commensali, decisi a ribattezzare l’operazione «piano chiesa». Era il motivo per cui monsignor Tempesta e il suo fidanzatino Benedetto Umiltà erano della partita. I patti erano chiari. Il piano chiesa con le opere di urbanizzazione primaria, strade, illuminazione, acqua, gas, avrebbe aperto la porta al Waterfront e all’housing sociale. Ma, appunto, era necessaria la variante di piano regolatore del comune che Malgradi aveva dato per fatta, e che però cosí scontata evidentemente non era. Tempesta si fece conciliante. E si predispose con tono flautato a molcire il Samurai. – Vede, dottore, ho apprezzato e apprezzo la sua concretezza. Ma se posso spendere una parola di serenità, non voglio credere che l’amico onorevole abbia acceso nei nostri cuori speranze cosí potenti, come dire… da ignorare la catastrofe a cui andrebbe incontro nel deluderle. Giusto, onorevole? Pericle Malgradi annuí come uno scolaretto al quale la maestra concede una prova di appello. Tempesta proseguí. – Le dico di piú. Sono cosí convinto che le cose andranno per il verso giusto che proprio ieri ho avuto un colloquio con gli amici dello Ior, i quali mi hanno assicurato la massima collaborazione sugli aspetti finanziari del progetto. Tempesta allungò al Samurai un biglietto da visita su cui erano annotati i nomi e i numeri di telefono di quelli che sarebbero stati i suoi interlocutori nel Torrione di Niccolò V, sede storica della banca vaticana. Un passaggio cruciale. Lo Ior era la stazione di posta necessaria a confondere e ripulire i capitali che nel progetto avrebbero pompato Perri, Viglione, gli Anacleti, lo stesso Samurai. Una volta in Vaticano, quella spaventosa massa liquida da investire – oltre cinquecento milioni di euro, secondo la loro stima prudente – sarebbe ritornata nel circuito trasparente di due tra i maggiori istituti di credito del paese, per finanziare Waterfront e housing sociale, esattamente come l’acqua sorgiva alimenta un torrente di montagna. Il monsignore diede l’affondo che nessuno si aspettava. – Piuttosto, signori, mi chiedo e vi chiedo se le nostre preoccupazioni non debbano essere altre che non i tempi di una delibera comunale. Vedo troppa e intollerabile violenza. E mi domando se mai l’uomo possa costruire qualcosa sulla morte. Quale letizia si possa scorgere in tanto spaventevole buio. Mi chiedo se è in vostro potere diradare tanta nebbia. Il Samurai avvertí una fitta all’ipotalamo. Prendersi una lavata di testa dal vescovo era troppo persino per lui. Forse avrebbe dovuto essere piú duro con gli Anacleti e il Numero Otto quel pomeriggio. Max colse il momento e intervenne. – Eccellenza, mi permetta di intromettermi. Non ci conosciamo, ma credo che… Tempesta sorrise e annuí, come se di lui sapesse già tutto. Incoraggiato, Max riprese. – Ecco, eccellenza, le posso dire che la nebbia sparirà. Garantisco personalmente. La gente di strada conosce solo la lingua della strada. E la lingua della strada, mio malgrado, è la mia lingua. Magnifico. Non si era sbagliato su quel ragazzo, pensò il Samurai. Tempesta lo aveva sfidato, precipitandolo dal piedistallo alle miserie del marciapiede. E Max, senza che nessuno glielo avesse

chiesto, di quelle miserie si era fatto carico. Le parole di Max rimettevano il vescovo al suo posto. Meglio, rimettevano le cose al loro posto. Ognuno, in quella storia, si sarebbe occupato di ciò che era di sua competenza. Punto. Tempesta sottolineò il messaggio con un gesto ieratico di benedizione. Quella sera stessa, Max e Farideh fecero l’amore per la prima volta. Lui si era presentato un paio di settimane prima, avvicinandola mentre lei traduceva poeti persiani seduta a un tavolino del caffè Necci, al Pigneto. Le aveva raccontato di sé tutto quello che si poteva rivelare. Erano usciti insieme per un po’. Si erano tenuti per mano. C’era stato qualche casto bacio. Era preso. Quasi sconvolto. La desiderava. Ma voleva anche proteggerla. Restare con lei. E cambiare vita. Come se fosse ancora possibile. Le propose il mare di notte. Lei accettò. La portò ai cancelli di Capocotta. Seduta a sbalzo, come un’eroina di un cartone Manga, sulla sella della Street Triple, Farideh si aggrappava a Max con trasporto. Era convinta di aver capito tutto di quello strano ragazzo comparso all’improvviso nella sua vita. Dopo tanto tempo si sentiva felice. Di una felicità istintiva. In un cielo senza luna e in una notte senza vento, il mare era un’immensa chiazza nera. Immobile come petrolio. Si sedettero su una duna, restando in silenzio per un po’. Finché a rompere la bolla non fu Max. – Avevo ragione, no? È bellissimo, non trovi? – Non mi prendi in giro, vero? – Che vuoi dire? – Sei quello che sembri? – Perché me lo chiedi? – Perché da quando è successa quella cosa a mio padre, ho perso la fiducia. Tutta quella violenza… Max si sentiva colpevole. La strinse a sé. – La violenza è nella vita, Farideh. Un filosofo diceva che persino la filosofia è violenza, sofferenza. Perché non è possibile pensare decentemente senza farsi del male. – Ma tu non mi farai del male, vero? Max le passò l’indice della mano destra sulle labbra. Lentamente. La baciò. E continuò a baciarla finché lei non si abbandonò. E mentre era dentro di lei, la sentí ripetere per un’ultima volta quella domanda che gli aveva fatto esplodere il cervello. – Tu non mi farai del male, vero?

XXIV. Sebastiano Laurenti, orfano dell’ingegnere suicida, cominciò a lavorare al Luxury Cars, al tredicesimo chilometro della Salaria. Era l’autosalone di Scipione Scacchia, uno dei Tre Porcellini. Il suo incarico consisteva nell’occuparsi della contabilità ufficiale, quella che riguardava la compravendita di veicoli puliti. Di tutto il resto, vale a dire dello strozzo, attività principale e piú redditizia della famiglia, Scipione si occupava personalmente. All’occorrenza, Sebastiano doveva improvvisarsi venditore. Accadeva quando c’era da trattare con clienti di un certo livello, perlopiú professionisti, calciatori e gente dello spettacolo. In quei frangenti, Manfredi, il figlio del vecchio, perdeva la sicurezza ribalda che amava ostentare come una specie di marchio di fabbrica. Gli acquirenti restavano sconcertati dall’untuosità cerimoniosa di offerte strillate con tono querulo, e molti mollavano a metà la trattativa disgustati da una stretta di mano che pretendeva di apparire vigorosa e si traduceva, invece, in un viscido contatto. – Studia, ché è mejo, – ammoniva saggiamente il vecchio Scipione, – nun è cosa tua, fijo. Lassa fa’ all’ingegneretto, che se vede che ci ha classe. Sí, certo, Sebastiano ci sapeva fare. Parlava la stessa lingua di quegli stronzi arroganti, s’intendevano al volo, strappava le condizioni piú favorevoli, gli affari andavano alla grande, e via dicendo. Manfredi, però, intignava. Il ruolo di erede cresciuto nella bambagia gli stava stretto. Aveva ben altre ambizioni. Un giorno quel salone sarebbe stato suo, come tutto il resto. Ma nel frattempo non voleva restarsene con le mani in mano. Perciò, quando Sebastiano si lavorava un cliente di quel genere, lui gli stava alle costole, studiava i suoi modi, si sforzava di imitare i suoi gesti, teneva a mente le frasi e l’intonazione. Gli faceva un po’ pena, certo, quel ragazzo di belle speranze che aveva avuto tutto e adesso non aveva piú niente. Ma era una pena non disgiunta da un certo orgoglio ferino: Sebastiano doveva essergli grato, perché senza il suo aiuto sarebbe finito sotto i ponti, e dunque toccava a lui mostrarsi all’altezza del dono che aveva ricevuto. Comunque sí, aveva ancora molto da imparare. Cosí, verso fine mese, Manfredi si installò nell’attico di via Chinotto, formalmente ancora domicilio dell’unico superstite della famiglia Laurenti, ma in realtà già der sor Scipione, e in capo a un paio di settimane finí a letto con la Chicca, la fidanzatina stanca del ruolo di un fallito come Sebastiano. Povera figlia: non era colpa sua se il ragazzo era senza una lira e il viaggio in Alaska era saltato. Il vecchio Scipione non approvò. – Hai esagerato, Manfre’. E poi, una che te la dà cosí de prescia è come minimo ’na zoccola. – E mica me ce devo sposa’, no? – Sta’ in campana. Le donne portano solo casini. Quel che intendeva dire Scipione era che aizzare il risentimento di Sebastiano non era stata una mossa intelligente. Potevano derivarne strascichi pericolosi. Il ragazzo poteva coltivare un rancore che un giorno sarebbe potuto esplodere, con conseguenze devastanti. Tanto valeva, allora, portargli via tutto, e farlo subito, senza ’sta farsa dell’amicizia che, in fondo, non portava niente a nessuno. – Damme retta, fijo. Quello te odia! – A pa’, s’è già consolato, credime. – Io lo mando via, Manfre’. – Non se ne parla. Sebastiano è amico mio. – È amico e j’hai scopato la donna. Pensa si l’odiavi: e che je facevi allora, je tiravi ’na zaccagnata?

Scipione, per niente convinto, si portò Sebastiano alla Paranza. Il ragazzo non toccò quasi cibo. – E magna, che sei secchetto! – Non sono una gran forchetta, signor Scipione. – E nun sai che te perdi! Tito Maggio sarà un pezzo de merda, e te posso garanti’ che lo è… ma dietro ai fornelli è ’n artista! Però, dalla cena uscí rassicurato. A Sebastiano delle corna non gliene fregava un accidente. Storia già chiusa, aveva spiegato piluccando ’na carotina mentre il vecchio s’ingozzava di ricciola, siamo rimasti buoni amici. E se capisce. Il ragazzo non era mica uno del giro, uno di quelli che per uno sgarro di fica capace che te mannano all’alberi pizzuti. Era nato ricco, lui, e fra quella gente se usa cosí: m’hai messo le corna? E chi se ne fotte. Restiamo buoni amici. Puoi perdere i soldi, ma le buone abitudini ti restano attaccate come la plastica ai sedili del Suv. Basta che quanno t’arzi non te resta incollata al culo! Scipione lasciò partire uno sconcio cachinno autocompiaciuto. Una spina gli andò di traverso. Cominciò a tossire e a sputacchiare. Imperturbabile, Sebastiano gli porse un tozzo di pane, attese che il vecchio lo mandasse giú, e quando la tosse prese a calmarsi gli assestò una formidabile manata sulla schiena. Niente piú tosse. Scipione apprezzò. Mandò via con un gesto secco Tito Maggio che s’era precipitato in soccorso, e promise al ragazzo un aumento di stipendio. Se Manfredi se voleva diverti’ col figlio dell’ingegnere, semaforo verde. Per lui, la questione era chiusa. Poi si fece accompagnare da Sebastiano al benzinaio sull’Anagnina, caricò un trans e si regalò una degna conclusione della serata. Sebastiano declinò il generoso invito di Scipione ad approfittare, attese che il vecchio si rivestisse, lo accompagnò a casa, depositò in garage il Suv e se ne andò a dormire dall’affittacamere in via Rodi, non lontano dalla vecchia casa di famiglia. Giusto per non dimenticare che gli avevano portato via la vita. E per questo avrebbero pagato. Prima o poi avrebbero pagato. Intanto, nella solitudine della sua camera angusta, Sebastiano si addestrava alla scuola dell’odio. Aveva capito che avrebbe imparato molto dal vecchio Scipione.

XXV. Rocco Anacleti aspettava, seduto al tavolo d’angolo del ristorante dell’Ikea, nella sua Romanina. Odiava quel posto. Odiava le sue lampade colorate da tre soldi. Odiava i gaggé che lo assiepavano come un tempio eretto al dio del consumo, odiava le polpette con la salsa di mirtilli che una commessa impertinente gli aveva servito con maniere rudi. Soprattutto, odiava aspettare. Terenzi non cambiava mai. Non aveva ancora capito che quando una cosa era urgente doveva muovere le chiappe. Subito. Se ne stava per andare quando, prima ancora di vederlo con un piatto di spaghetti al pomodoro su un vassoio, ne riconobbe la zaffata di colonia da quattro soldi in cui evidentemente si faceva il bagno ogni mattina. Era in borghese, il maresciallo. Come ogni volta che erano costretti a vedersi di persona. Terenzi prese posto da solo al tavolino accanto a quello di Anacleti. Allentò il nodo della cravatta. Si infilò il tovagliolo di carta nel colletto della camicia e quindi si chinò sul piatto di pasta. – Ce l’hai fatta, maresciallo. – Ho dovuto sbrigare una cosa. – Tu devi sbrigare una cosa sola, prima che mi incazzi. – Dimmi. – I pulmini delle badanti. – Da quand’è che te ne fotte qualcosa delle badanti? – Le domande le faccio io. Non ti pago per chiedere. – Che vuoi sapere? – Se c’è un’inchiesta. – Sulle badanti? – Se ti siedi su un cavallo girato di spalle, quello sempre girato resterà, – sospirò Rocco, in romanés. Come al solito, Terenzi lo fissò con aria ebete. E come al solito, Anacleti tradusse a modo suo. – Scusa, volevo dire… informati se stanno dietro il giro dei pulmini. – Ci provo. – «Ci provo» non basta. «Ti dico domani» va già meglio. – Non sarà facile. Anacleti si alzò dal tavolo e si piegò verso l’orecchio di Terenzi. – Non me ne frega un cazzo se non sarà facile. Quelle due brasiliane che hai menato l’altro giorno ce le porto io al pronto soccorso. Maniaco. Anacleti si diresse verso le casse del ristorante. E l’appuntato Brandolin, istintivamente, voltò le spalle, affrettandosi verso il bancone delle aringhe sottovuoto. Non lo avevano visto. Né Anacleti né Terenzi. Attese che l’uno e poi l’altro si perdessero nella folla dell’uscita. Tirò fuori il suo Nokia bluette. Quello con i numeri e i tasti grandi che gli aveva regalato la madre il giorno del giuramento, dimenticando di dire che il cellulare era per il figlio e non per lei. – Colonnello Malatesta? – Brandolin. Che succede? – Sono all’Ikea. – Dovrebbe interessarmi?

– Cercavo il set di secchi per la differenziata e ho approfittato del turno smontante. – Cristo, Brandolin. – Mi scusi, colonnello. I secchi sono un pretesto. In verità, all’Ikea ci sono venuto con Terenzi. – Avete fatto amicizia? Un singhiozzo inorridito, quasi un verso animalesco, investí Malatesta, scatenando un immediato senso di colpa. – Scusa, ragazzo, era solo una battuta. Su, va’ avanti. – Terenzi s’è visto con Rocco Anacleti. – Visto come? – Terenzi è entrato. Anacleti era seduto al ristorante. Lo aspettava. Hanno parlato un po’. Fitto fitto. – Hai capito di cosa? – No. Ero terrorizzato che Terenzi mi vedesse. – Non ti ha visto, vero? – No. – E i secchi per la differenziata ti servono davvero? – Sissignore. – Scegli i piú cari. Te li regalo io, Brandolin. – Comandi. Marco posò il cellulare sul tavolinetto di legno che occupava l’esiguo spazio fra i due lettini di prima fila sulla playa grande dell’hotel Formentor. Ora si trattava di affrontare nel modo migliore Carmen. Di spiegarle la situazione senza ferire la sua sensibilità. – Carmen, devo dirti una cosa. La bella catalana bionda con cui aveva, per cosí dire, legato in quei dieci giorni memorabili a Palma non sollevò nemmeno lo sguardo dall’ultimo romanzo di Javier Marías. – Torni a casa, caballero? Era previsto. Non dobbiamo mica sposarci. Il discorsetto che pensava d’improvvisare gli si strozzò in gola. Si ritrovò a sorridere come un cretino, ad ammirare una volta di piú la sorpresa delle donne. Con una punta di indefinibile disagio: certo che non si trattava della storia della vita, ma insomma, che diavolo, con tutta questa scioltezza nel rapporto fra i sessi… È vero, gli uomini si comportavano cosí da millenni. La novità era che adesso anche le donne lo facevano. Non era sicuro che quella novità gli piacesse. Doveva parlarne con Alice. Ma i suoi pensieri erano altrove. La telefonata di Brandolin era il segnale che attendeva. Qualcosa si stava muovendo. E presto se ne sarebbero visti gli effetti. La fase difensiva andava verso l’esaurimento. Era il momento del contrattacco. Si doveva cominciare dai piccoli passi. Intanto, rientrare in scena. Poi raccogliere informazioni. Aggregare dati. Predisporre discreti sistemi di sorveglianza. Affinare l’ingegno. Stendere la rete e ritirarla solo al momento opportuno. La partita ricominciava. Come aveva previsto. Salutò Carmen con un bacio, s’imbarcò a caro prezzo in prima classe sull’ultimo volo della sera e, appena atterrato a Fiumicino, sparò un Sms a Thierry: «Fase due: urge sostegno».

XXVI. Rocco Anacleti convocò Paja e Fieno al Casilino 900, là dove la città sbatteva sul grande raccordo anulare. Ci teneva un posto per tagliare moto e auto rubate con cui rifornire l’off-market dei pezzi di ricambio usati. Un altro fiorente business dei suoi rami d’azienda, antico come l’arte nobilissima imparata dal nonno: rubare. Rocco Anacleti arrivò al capannone con un po’ di anticipo. E ad accoglierlo trovò Zorro nella sua lercia tuta da meccanico. Era un croato sulla quarantina, e il suo nome era Vilim. Troppo complicato, aveva pensato quando l’aveva conosciuto appena arrivato a Cinecittà dopo la fine della guerra civile nei Balcani. Meglio «Zorro», che se non altro descriveva bene l’orribile cicatrice scarnificata che gli percorreva il labbro superiore per l’intera lunghezza, fino all’attacco del naso. Il ricordino lasciato da una lama serba durante un interrogatorio. Muto come l’eroe mascherato, no? E per un lavoro come quello che si faceva al capannone era una condizione indispensabile. Lo pagava una fortuna per gli standard del ramo, millecinquecento a settimana. Ma in quel modo si era comprato la sua fedeltà, e peraltro, con il tempo, aveva persino imparato a volergli e a farsi voler bene. Anche se sapeva che, come tutte le belve ferite, un giorno anche Zorro sarebbe esploso. Anacleti mimò un abbraccio facendo attenzione a non macchiarsi. – Tutto a posto? Zorro indicò lo scheletro di una Bmw Adventure Gs 1200 in un angolo della rimessa. – Stavo finendo quella lí. Mi è rimasto solo da ribattere il telaio. Questa settimana è andata bene. È la quinta in tre giorni che tagliamo. E abbiamo ancora molti ordini. Siamo un po’ indietro con le macchine. – Quanto indietro? – Ho due Grand Cherokee e un Qashqai che stanno qui da una settimana. Bisogna che mi sbrigo. – Bene, allora. – Non proprio, capo. C’è il solito problema. – Sarebbe? – È passato quello schifoso del dottor Renato. Ha detto che la roba che gli diamo non basta piú. Renato Festa era un pidocchio della motorizzazione civile. Un tipo sulla quarantina che Anacleti aveva agganciato al Ferro di Cavallo, dove normalmente comprava i suoi cinque grammi di coca per il fine-settimana. Aveva capito presto che aveva le pezze al culo per il vizietto, e lo scambio alla fine era apparso persino ovvio. Per i fine-settimana senza spese e qualche extra, come i trans che gli spediva a domicilio ogni primo martedí del mese, Festa passava a Zorro i tabulati di Suv e superbike di nuova immatricolazione con targa, nome e indirizzo dei proprietari. E Zorro faceva visitare quelle case da una coppia di acrobati tascabili di un ex circo di Zagabria. Due artisti capaci di arrampicarsi su qualunque cornicione e passare anche attraverso le grate piú strette di qualsiasi portafinestra. Del resto, con gli antifurti di nuova generazione, macchine e moto si rubavano ormai solo con le chiavi. Bisognava andarsele a prendere a casa dei proprietari. Anacleti finse di non aver compreso bene le parole di Zorro. – Non basta la roba? Ha detto cosí quella merda? – Cosí ha detto. – Risolvila tu, allora. A modo tuo. – Preparo un po’ di acido. È bello vedere friggere una faccia di culo. La risata sguaiata del croato strappò un cenno di assenso a Rocco Anacleti. Vilim gli piaceva. Molto. E un giorno – ne era convinto – sarebbe salito anche lui nella scala gerarchica della famiglia.

E ne sarebbe diventato un luogotentente. Come Paja, Fieno, Max. Del resto, la contaminazione del sangue gitano con quello che la strada offriva aveva trasformato una banda di predoni e drizzatorti confinati in quel buco della Romanina in una batteria pesante. Non si contavano piú i pischelli che facevano la fila per fare da cavallini o vedette dello spaccio. E le risse del sabato sera tra coatti ventenni nei locali del quadrante sudest della città erano diventate la palestra in cui scegliere, senza fatica, nuove leve destinate a ingrossare l’esercito di giovani uomini che in città facevano abbassare lo sguardo anche dei piú feroci.Quanti erano? Cento, centocinquanta, avrebbe detto lui. E averne perso il conto lo rendeva orgoglioso. Le risate di Paja e Fieno fecero voltare Rocco Anacleti, distogliendolo dai suoi pensieri. Erano arrivati. – Che cazzo ci avete da ride’? I due si scusarono e si misero a braccia conserte, atteggiamento che assumevano quando sapevano di dover prendere ordini. – Stateme a senti’ bene tutti e due. Mo’ annate alla bottega de quer cazzo de iraniano e je mettete sul tavolo questi –. Anacleti tirò fuori dalla tasca un rotolo di contanti in tagli diversi. Da cento, cinquanta, venti euro. – Nun so manco quanti so’. Sicuramente piú dei mille che chiedeva quell’accattone. Glieli date, je dite che so’ da parte mia e che la cosa finisce qua. Che se lo chiamano se deve butta’ a Santa Nega. Anzi, no, je dite che ce annasse de persona dai carabinieri, e je dice che nun è successo gnente. Chiaro? Come sempre, Paja non riuscí a trattenersi. – Perché? – Perché, che? – Perché nun ce pò anna’ senza che je damo tutti ’sti euro? Io lo posso convince’ senza. – Paja, la sai una cosa? Nun te posso piú vede’. Fai quello che t’ho detto, e quanto è vero Iddio, se te sento fa’ ancora una domanda te rompo il culo co’ le mano mia. I due girarono i tacchi in sincrono, come una coppia di guardie, e sgommarono sulla Bmw nera verso il Tuscolano, via del Casale Ferranti, la bottega dello zammammero. Nonostante la sedia a rotelle, Farideh aveva acconsentito ad accompagnarlo ogni mattina al laboratorio, dove Abbas restava solo per ore prima che la figlia tornasse a prenderlo. Seduto, pressoché immobile. In contemplazione di ciò che le sue mani non sarebbero piú state in grado di fare per molti mesi ancora. O forse mai piú. Lo avevano già operato due volte per ridurre una trentina di fratture e inserire la prima delle due coppie di placche al titanio che – cosí avevano detto i dottori – non gli avrebbero fatto recuperare la sensibilità delle mani, ma almeno quel briciolo di mobilità necessaria a portarsi il cibo alla bocca, vestirsi al mattino, svestirsi la sera. Paja e Fieno lo sorpresero assorto nell’album di bozzetti del nonno. – Buongiorno, posso aiutarvi? I due non avevano piú visto il vecchio da quella notte. E il tratto gentile di quel saluto li spiazzò. Ma che, era malato de testa, il tipo? Parlò solo Fieno, perché dei due era quello la cui voce Abbas non aveva sentito la notte della punizione. – Questi so’ pe’ te. Gettò il rotolo di contanti sul bancone da lavoro, sotto gli occhi interrogativi di Abbas, che si riempirono subito di lacrime, mentre un tremore improvviso cominciava a scuotergli il corpo. – Sta’ tranquillo, vecchio. La cosa è finita.

Abbas annuí. Meccanicamente e ripetutamente. Come percorso da una scarica elettrica. Incapace di pronunciare una parola. Mentre un fiotto di urina gli infradiciava il cavallo dei calzoni. Fieno proseguí. – Devi fa’ solo un’ultima cosa. Te fai accompagna’ dai carabinieri e stracci quel pezzo de carta che hai firmato. Sei d’accordo, no? Senza attendere la scontata risposta, i due lo lasciarono solo nel suo schifo e con quei contanti che poteva soltanto guardare, ma neppure stringere fra le mani. Uscendo dalla bottega, Fieno toccò alcune miniature di ebano. – Belli ’sti pupazzetti. Li fai tu? Quante ore passarono, Abbas non avrebbe saputo dirlo. Ma quando Farideh arrivò al laboratorio, lo ritrovò come lo avevano lasciato Paja e Fieno. Fissò prima lui, quindi il denaro sul bancone. Si portò una mano alla bocca e prese a piangere. Prima in modo sommesso, poi disperato. Senza avere la forza di avvicinarsi e abbracciare suo padre, che puzzava di urina e sudore e piangeva come lei. Non c’era bisogno di spiegare nulla alla sua bambina. Farideh aveva capito. E lui, ora, suo padre, doveva decidere. – Non farlo, papà. Non accettare. Abbas chiuse gli occhi, e il ricordo della notte in cui, trent’anni prima, aveva visto Teheran per l’ultima volta si fece nitido. Sentí addosso lo sguardo dei due pasdaran in tuta cachi al controllo di frontiera dell’aeroporto. Rivide le mani pelose del piú vecchio. Si rigirava tra le dita il passaporto che un cugino nel consiglio della rivoluzione gli aveva miracolosamente procurato. Risultava uno studente neolaureato in viaggio a Roma per un semestre di specializzazione alla facoltà di Medicina. Il pasdar aveva richiuso il documento e gli aveva guardato le mani che stringevano la valigia. Lí dentro c’era tutta la sua giovane vita, e c’erano i risparmi in valuta straniera che il padre e la madre gli avevano affidato come ultimo gesto di protezione. Duemila dollari. – E tu saresti un dottore? Abbas aveva annuito. – E che tipo di dottore? – Chirurgo, – aveva farfugliato, tradendo il tremore del labbro. – Con quelle mani? Fai il chirurgo con quelle mani? Aveva chiuso gli occhi. È impossibile cancellare i calli del lavoro con gli scalpelli. Il pasdar aveva ripetuto la domanda. – Con quelle mani? Lo avevano trascinato in un lurido stanzino senza finestre. Gli avevano fatto aprire la valigia. – Dollari. E bravo il nostro dottore dalle manine d’oro. C’è l’impiccagione per questo, dottore. Lo sai? Si erano divisi i duemila bigliettoni in quote diseguali. Millecinquecento il piú vecchio, il resto il giovane. Si erano convinti sentendolo implorare. – Prendeteli, vi prego. Abbas riaprí gli occhi. Farideh era ancora immobile di fronte a lui. Aveva smesso di singhiozzare. Ora le lacrime le rigavano le gote raccogliendosi in grandi gocce sul mento. Trent’anni prima si era umiliato con i suoi carcerieri. Aveva comprato la sua libertà con duemila dollari. Quella stessa libertà che gli aveva regalato prima una nuova patria e quindi la gioia di quella meravigliosa creatura che ora aveva di fronte. Quel rotolo di euro degli Anacleti non era poi cosí diverso dai dollari consegnati ai pasdaran. La vita e la serenità della sua bambina valevano un’altra

umiliazione di fronte ai carnefici di oggi. Anche a costo di farsi disprezzare. Un giorno, avrebbe capito anche lei. – Farideh, per favore, infilami quei soldi nella tasca e accompagnami dai carabinieri.

XXVII. La mattina successiva al suo rientro a Roma, uno scampanellio furioso sorprese Marco a metà di uno dei suoi sogni ricorrenti. Era in un prato verde, denso di fiorellini bianchi, e tanti cagnolini dalle macchie color marrone gli correvano intorno, inseguendosi felici e ignari di tutto. Secondo la psicologa di Seattle con cui aveva passato alcuni giorni nelle pause del World Social Forum ’99, quel sogno tradiva un remoto desiderio d’innocenza. Forse c’era del vero, ma sta di fatto che quando si chinava per accarezzare i cuccioli, quelli sparivano d’incanto, lasciandolo preda di un malinconico senso di abbandono. Quanto alla psicologa, la love story si era bruscamente interrotta. Allorché, all’appassionato tentativo di analisi, lui aveva opposto un sarcastico, romanissimo: «E ’sti cazzi!» A ogni buon conto, erano passate da poco le nove. Ma chi poteva cercarlo a quell’ora? Il generale Thierry, forse? Ma per il generale la domenica era sacra. Non poteva essere lui. A meno che non fosse accaduto qualcosa. Afferrò la Beretta in bella vista sul comodino e si avviò all’ingresso. – Sí? – Ah, ci sei. Sono Alice. Aprimi. Devo parlarti Alice. Solo in quel momento si rese conto di essere completamente nudo. – Ma come fai a sapere dove abito? – chiese, per prendere tempo, mentre lottava con la prima pezza che gli era capitata sottomano, un logoro accappatoio in spugna che era stato rosso e adesso virava a un inquietante rosa sciatto. – Mi hai dato un biglietto da visita, Sherlock! – rispose lei, secca. Le aprí. Nel vederselo comparire in quella curiosa tenuta, a lei scappò da ridere. – Mi arrendo, – scherzò, alzando le mani. Marco cacciò la pistola nella tasca dell’indumento e invitò Alice a entrare. – Due minuti. Il tempo di una doccia e sono da te. Alice osservò con un certo disagio gli arredi della piccola casa di via Monte Bianco, nel cuore dell’anonimo quartiere Talenti. Sembrava il set di un film di qualche anno prima. Un luogo dove il tempo si era fermato. Il saloncino con il divano buono e il tavolo in mogano sormontato dalla vetrinetta con il servizio di porcellana da dodici. Le maioliche a fiori verdi e bianche del bagno. Un angolo doccia senza piatto, chiuso da una tenda ad anelli con la litografia della scena madre di Psyco, quella dove il folle Anthony Perkins vestito da mamma Bates leva la lama da cucina sulla vittima bionda Janet Leigh. Il disagio derivava da quel senso di normalità che l’insieme ispirava. Una normalità piccola e borghese, solida, che sapeva di buono. Come di affetti che non cedono all’urto della convenienza. A lei non era toccato in sorte niente di simile. I suoi si erano logorati per anni in una insostenibile guerra di posizione, prima del definitivo abbandono che aveva segnato l’adolescenza inquieta dell’unica figlia. Raggiunto l’accordo, l’avevano sbolognata a nonna Sandra, il suo solo legame con il porco mondo. Alice s’era giocata in libertà il suo pezzettino di esistenza alternativa. Un brutto periodo, che aveva rimosso. Per un po’ era stata preda di furiosi attacchi di panico. Chi non l’ha mai provato non ne ha idea, ma un attacco di panico è qualcosa di assai prossimo all’anticamera della morte. Le capitava immancabilmente quando era alle prese con una decisione impegnativa. Si era

affrancata grazie al pugilato. Quando la partita è: o colpisci, o sei colpita, allora ti diventa subito chiaro che non esistono decisioni giuste e altre sbagliate. La decisione è sempre giusta, ed è sempre la prima. Può andare bene o male, ma non dipende piú da te. Gli attacchi di panico erano scomparsi. Aveva imparato ad afferrare e scartare le occasioni senza pensarci troppo su. Marco ricomparve. Maglietta nera e jeans. Capelli umidi di shampoo. Aveva un buon odore. Ottimo, per la verità. – Eccomi. Scusami, il minimo che posso dire è che non ti aspettavo. E poi la mattina connetto poco. E… ti preparo un caffè? – Sí, grazie. Sembrava emozionato, meno sicuro di sé di come lo ricordava, pensò Alice, mentre lui si affaccendava davanti a una vecchia moka. Era lei a fargli quell’effetto? Alice si sentiva attratta da Marco. In modo inspiegabile. E quell’attrazione la spaventava. Erano troppo diversi perché potesse nascerne qualcosa di positivo. Avrebbe potuto dargli la notizia con una telefonata, e amen. Il fatto è che, negli ultimi giorni, spesso si era scoperta a pensare a lui. E a chiedersi: perché no? Alice si mise a curiosare nella camera da letto. Qualche mobile Ikea, un futon disfatto sormontato da poster della Roma, un gigantesco apparato stereo Yamaha incastonato in una combinazione disordinata di cubi in cui Marco conservava la sua collezione di duemila vinili. Poi, in un sorprendente contrasto, segni di una vita vagabonda: la testa di un Buddha androgino birmano, un Ganesh dall’aria strafottente, un batik balinese con la scena della battaglia fra i Pandava e i Kurava, la statuina di un contadino ridente in divisa maoista. – Ho passato qualche anno nella Msu, l’unità di supporto alle missioni estere. Potrei dirti «mi piaci» in un bel po’ di lingue, vive e morte, – sorrise lui, comparendole alle spalle con vassoietto e tazzine. – È bellissimo questo Buddha. Comunica un grande senso di pace, – mormorò Alice, accarezzando la statuina. Mentre bevevano il caffè, Marco le parlò dei ricordi che non si potevano mostrare. Il ghigno dei politicanti opportunisti. La maschera impenetrabile dei dittatori ai quali aveva dovuto fare da scorta. La stretta di mano con cui si era congedato dall’agente segreto del quale era diventato fratello di sangue in Iraq e che era stato falciato dal fuoco amico mentre faceva scudo col suo corpo a un ostaggio appena liberato. La sposa-bambina afghana che aveva strappato dalle mani del maritopadrone. – Avevamo ordine di non intervenire. Ma disobbedire agli ordini è la mia specialità. – E come hai fatto? – L’ho fatto, questo solo conta. – Hai dovuto… uccidere? Marco non rispose. Lei gli prese la mano. – Mentre parlavi non sembravi un carabiniere. Marco sorrise. Lei lasciò la presa. Gli raccontò tutto in due battute: Abbas che viene pagato dagli Anacleti, il ghigno con cui Terenzi aveva accolto in caserma lui e la figlia quando si erano presentati a ritirare la denuncia, la campagna diffamatoria di Spartaco Liberati, che l’aveva definita zecca e spia dei carabinieri. Aggiunse pure che la gente del quartiere aveva smesso di tempestare di segnalazioni il suo blog.

– Hanno paura, è chiaro. – Hanno smesso di fidarsi di me, Marco. Lui cercò di consolarla. Il ritiro della denuncia non valeva un accidente. La cosa sarebbe andata comunque avanti. – Non credo proprio, – reagí lei, ispida. – Sai cosa accadrà? Che se anche decidessi di andare in fondo a questa storia, Abbas al processo non si presenterà per riconoscere i suoi carnefici. E se anche lo farà, dirà di essersi sbagliato. Capito cosa accadrà? E non mi dire che non lo sai. – Lo so. Lo so, Alice. Ed è proprio per questo che andrò avanti. – Sulla strada sbagliata, – lo provocò lei. Marco allargò le braccia. – Non ne conosco altre. – Perché fai parte del sistema, – constatò lei, – magari ne rappresenti persino la parte migliore. – Sarebbe un complimento? – Ma, – riprese lei, ignorandolo, – quando un sistema è marcio, non puoi cambiarlo dall’interno. – La famosa spallata rivoluzionaria? – Io sono non violenta, Marco. E non sono una pazza visionaria. Ci vorrà del tempo, lo so. Ma le cose cambieranno. Sta nell’aria che respiri, sta dappertutto il cambiamento. Guardati intorno. Guarda quello che sta succedendo. Il mondo è pieno di gente che non ne può piú di questo ordine. Va’ in rete e digita certe parole chiave, Occupy, Zuccotti Park… Lui la guardò con un’aria fra l’intenerito e l’esasperato. – Zuccotti Park, Occupy… pensi di essere l’unica, Alice, cazzo! Ma vaglielo a raccontare a Rocco Anacleti, Paja e Fieno, Adami Cesare detto Ernummerootto perché ci ha i capelli come la pallina del biliardo americano, ah, e a Spartaco Liberati, naturalmente… Comunque, con o senza il tuo aiuto, io andrò avanti. Anche se con te, – aggiunse, piano, – sarebbe bellissimo… Alice gli sigillò la bocca con un bacio. Ma sí, al diavolo, aveva atteso anche troppo. Per esaudire la richiesta di Rocco Anacleti – c’era o no un’indagine sul traffico di badanti? – il maresciallo Terenzi si rivolse a un amico dell’ufficio immigrazione. Si chiamava Polillo, un ispettore di lungo corso che aveva un debole per le carte e per le nigeriane. Ed era proprio nell’anticamera, si fa per dire, di Queen Elizabeth, un donnone di uno e ottanta con una settima abbondante di seno, che Terenzi attendeva, con crescente nervosismo, che l’ispettore consumasse il cadeau che gli era stato generosamente elargito. Ma quanto ci metteva? Era da almeno mezz’ora che se ne stava a fumare sul divanetto con le molle sgarrate, e gli toccava pure sorbirsi i finti gemiti di piacere della nigeriana e i grugniti del cugino della Piesse. Eppure Terenzi era stato chiaro con la negra: ’na cosa veloce, ché poi col tipo ce devo parla’ de cose serie. Ma si vede che Polillo ci aveva gli arretrati. O forse aveva esagerato con la dose giornaliera di Viagra. Finalmente l’ispettore si manifestò, la faccia illuminata da un sorriso ebete. Dietro di lui, l’aria annoiata di Queen Elizabeth. – Ahò, è proprio vero che le negre ci hanno ’na marcia in piú, Tere’… Oh, ma io te devo ringrazia’, sei proprio ’n amico, te. – Seeh, ’n amico… e secondo te me so’ giocato il settimanale che la tipa me passa per la bella faccia tua? Ti va di bere una cosa, Poli’?

– A me, come sto ridotto, me ce vorebbe ’n ettolitro de Gatorade… m’hai sderenato, bella! – E tu torna a trovare quando vuoi, tesoro, – flautò la nigeriana. Sí, ma a spese tue stavolta, pitocco, rifletté Terenzi, prendendosi l’altro sottobraccio. Finirono in un pub su via di San Martino ai Monti, e davanti a una birra Terenzi ricordò a Polillo «quel piccolo favore». – Ah, già, e come no, le badanti. Ma perché t’interessano, scusa? Anvedi lo scopatore. Faceva pure il sospettoso. – Perché l’Anagnina è territorio mio, Poli’. E poi, se deve succede qualcosa, non è bello che il merito se lo prende tutto la Piesse. – E ci hai ragione! Qualcosa ce sta… Polillo buttò giú un sorso di birra e si accostò, abbassando la voce. – Ma nun è roba nostra. È roba dello Sco. Terenzi annuí. Anche lui, come Polillo, odiava quei fichetti del servizio centrale operativo… Erano sbirri con le corna dure loro, gente che si sporca le mani, mica fichetti. – C’è uno che se la sta cantando, pare, – riprese Polillo. – Dice che dietro ar traffico de badanti ce sta un giro de cocaina. Non sono intervenuti perché vogliono risalire tutta la filiera. Ma nei prossimi giorni dovrebbe succedere qualcosa. – Ammazza, Poli’! Roba grossa! – Oh, io nun t’ho detto niente, eh! – Noi nun se semo manco visti, – tagliò corto Terenzi. E se ne andò lasciandogli le consumazioni da pagare. Almeno quelle.

XXVIII. Marco portò Alice alla Paranza. Era giusto mostrarle alcuni tipi umani che ai generosi utopisti come lei facevano schifo ma che, dal vivo, non avevano probabilmente mai incontrato. – Il tipo untuoso e gentilissimo che ci ha procurato questo meraviglioso tavolo appartato dal quale si controlla l’andirivieni della mejo gioventú… E giú descrizione di Tito Maggio, e giú risate. – Quei tre grassoni che si spolpano l’aragosta schizzando sugo nel raggio di dieci metri. Li chiamano i Tre Porcellini… vecchi usurai. Pensa che una volta uno di loro… E giú il racconto di quando il piú laido del terzetto, quello al centro che sembrava Ollio ancora piú grasso, sí, proprio lui, durante la fellatio praticatagli dalla moglie di un usurato a bordo dell’immancabile Suv, quello di lei, per risparmiare la benzina, si vede tamponare da un camionista ubriaco e rischia di rimetterci il ben di dio. – Ma tu come le sai queste cose, scusa? – Intercettazioni. – Ah, è a questo che servono, dunque. Hanno ragione quelli che vogliono impedirle, allora! E giú risate. Marco riprese. – Servono anche ad altro, le intercettazioni. Per esempio: lo vedi quel tipo distinto che conciona al tavolo dei calciatori? È un Pm. È in rosso di centocinquantamila coi Tre Porcellini. Per via del vizio del gioco. – E si vende i processi! – Non abbiamo le prove. Ma lo teniamo d’occhio. – E che ci fa coi calciatori? – Guarda, ha un solo pregio quell’uomo. È un romanista sfegatato. – Ti pareva. – A te proprio il calcio non va giú, eh? – No. Io lo abolirei. – Vedo problematica una futura convivenza. – Io abolirei anche la convivenza. E soprattutto la famiglia. – Su questo potremmo persino essere d’accordo. – Insomma, da quello che mi dici, qui sono tutti insieme appassionatamente. – Sí, ma non farti ingannare da questa ostentazione di bonomia tipicamente romanesca. La metà di questa gente ha nell’armadio scheletri orribili. E l’altra metà è pronta a scannarsi per metterci sopra le mani. – Agli scheletri o all’armadio? – A tutti e due. Qua non si butta niente, basta che abbia un valore di mercato. È Roma, tesoro. – E quel tipo che è appena entrato? – Quello affannato che sembra reduce da una scopata torrenziale? Non lo conosco, mi dispiace. – Be’, lo conosco io, invece. – Tu? – Già. Si chiama Pericle Malgradi. – Il nome non mi è nuovo. – È un onorevole, uno di destra, o di centro, non lo so, ma comunque del genere casa, famiglia e

puttane. – Ora sono io a chiederti: come fai a saperlo? – L’ho visto coi miei occhi. Se ne porta a carrettate in un albergo in centro, La Chiocciola. Una specie di scannatoio d’élite. Ci sono andata con Diego. Sai che alle camere hanno dato i nomi di attrici famose? Marco reagí con una smorfia. – Diego del meet-up? Il Drago Ribelle? Alice non raccolse. – La nostra stanza, – proseguí, – si chiamava Anna Magnani. Lui fu sul punto di piazzare una battuta acida. Ma decise di non umiliarsi. La gelosia retroattiva sarebbe stata una resa. Meglio tenersela. Lei gli sorrise, apertamente ironica. – La Chiocciola è a due passi da casa di mia nonna. Ti ho mai parlato di nonna Sandra? È stata lei a crescermi, dopo la separazione dei miei. Ha novantacinque anni e vive in un mondo tutto suo. Ma è una forza della natura. – Fammela conoscere. – Solo se te ne mostrerai degno. Andava tutto benissimo. C’era quella leggerezza di cui Marco aveva un disperato bisogno. Andava tutto benissimo. Poi, proprio mentre Marco e Alice si apprestavano ad aggredire uno scorfano imperiale all’acqua pazza, una giovane coppia fece ingresso nella Paranza. La ragazza si guardò intorno, adocchiò Alice, il suo volto affilato e purissimo si illuminò e, trascinandosi dietro il ragazzo, si precipitò al loro tavolo. – Alice! – Farideh! Ma che ci fai qui? – Per la verità non c’ero mai stata prima, ma lui ha insistito tanto… Lui è Max, noi stiamo insieme. Max, questi sono Alice e Marco, sai, quel carabiniere gentile di cui ti avevo parlato… Il tenente colonnello si alzò e strinse educatamente la mano che Max gli porgeva. – Perché non vi unite a noi? – propose Alice. Marco e Max incrociarono lo sguardo, e in quel breve istante si dissero tutto. – Volentieri, ma un’altra volta, – spiegò il ragazzo con gentilezza, – aspettiamo amici. Farideh cercò di protestare. Ma quali amici? Non si era parlato di una seratina fra loro? Marco richiamò con un cenno l’attenzione di Tito Maggio. Lo chef si precipitò a prendere Max sottobraccio, pilotandolo verso un altro tavolo. Nel passare davanti a Malgradi, l’onorevole abbozzò un saluto. Max lo ignorò volutamente. Alice si accorse che Marco, con lo sguardo, continuava a seguire la giovane coppia. – Ti interessa quel ragazzo? Sei meno troglodita di come sembri? Devo ricredermi sulla tua decantata virilità? Non è male, però, un tipo. – Perché me lo domandi? La serietà improvvisa nel tono di lui la sorprese. – È successo qualcosa, Marco? – Quel ragazzo è uno di quelli che hanno massacrato il padre di Farideh. – Stai scherzando? – reagí lei, di colpo allarmata. – Si chiama Max, detto Nicce. – Il filosofo. – Già. È quello che ha cercato di difendere il vecchio, per la verità. Ciò non toglie che stava con

Paja e Fieno. È un uomo degli Anacleti. Farideh si è scelta proprio un bel compagno. – Ne sei certo? – Non ho le prove. Ora. Alice, gli occhi accesi, scaraventò il tovagliolo sulla tavola. – Vado a parlarle. Marco la bloccò. – Non adesso. – Farideh è mia amica. – Ti prego, non adesso. Domani. Telefonale. Valla a trovare. Ma non adesso. Piuttosto… dovrò fare qualche ricerca su questo Malgradi. – Che c’entra ora Malgradi? – Prima, quando Max gli è passato davanti, ha cercato di salutarlo. Max ha fatto finta di niente. Curioso, no? – Non cambiare discorso, Marco. Il fatto che io sia venuta a letto con te non vuol dire che sono ai tuoi ordini. – Ma io non ho mai… – Sto parlando di Farideh. Stammi bene a sentire. Te lo dico ora e non lo ripeterò piú. Io non farò mai niente che possa danneggiarla. Promettimi che lei non ci andrà di mezzo. Qualunque cosa tu abbia in mente. Marco non rispose. Era una promessa che non poteva mantenere. Fra loro scese un silenzio imbronciato. Max era inquieto. La presenza del carabiniere complicava tutto. Il Samurai gli aveva ordinato di mandargli, e di corsa, l’onorevole. – Scusami un momento, Farideh. Max si diresse al bagno, ma all’ultimo momento, dopo essersi accertato che il carabiniere non lo stesse osservando, s’infilò nelle cucine e agguantò al volo Tito Maggio, che aveva le mani occupate da una fiamminga di paccheri ai totani e moscardini. – Fra dieci minuti esatti vai da Malgradi e digli che il Samurai lo aspetta sulla Giustiniana. Digli di muovere il culo e di andarci subito. – È cosa fatta, Max. E quando vedi il Samurai, digli che sto ai suoi piedi, anzi, sotto i suoi piedi. Da quando ci ha parlato lui, i Tre Porcellini hanno smesso di rompere i coglioni. Quell’uomo è un capo vero, te lo dico io. – Sí, sí, vai adesso, vai… Il messaggio raggiunse Malgradi in pieno corteggiamento di un’attricetta in carriera, un tipino tutto pepe che ambiva alla parte della contessa di Castiglione in una fiction in costume di imminente produzione. Quando le disse che impellenti incombenze di partito lo richiamavano, lei montò su tutte le furie. Malgradi le promise la parte, e le furie si mutarono in sorrisini al miele. – Dài, t’accompagno a casa, ché sono di strada, – tagliò corto lui. E magari, di strada, ci scappava qualcosa. Il Samurai attendeva Malgradi sul cancello. Non lo invitò a entrare, e non perse tempo. – Hai una settimana da adesso per far approvare la delibera. L’onorevole cercò di temporeggiare. La situazione politica stava degenerando. Il governo era coperto dal discredito. Non passava giorno senza che quei bastardi dei pubblici ministeri non

indagassero qualche brava persona. La marea dell’odio saliva. Bisognava muoversi coi piedi di piombo, o tutto rischiava di andare a monte. – L’odio sociale non c’entra niente con tutto questo. La verità è che te la fai addosso per Spadino e il morto di Cinecittà. Ma la colpa è tua. Anzi, del tuo impareggiabile uccello. Mi domando se non si farebbe meglio a tagliartelo. – Samurai, per favore. – Malgradi, io ho riportato la pace. Ma è una pace precaria. Ogni giorno che passa sempre piú precaria. Perciò, una settimana. – Ci proverò, Samurai, te lo prometto. – Le promesse sono fumo, Malgradi. Ricordati che nessuno è insostituibile. Il buon giocatore, – concluse il Samurai, – gioca sempre su piú tavoli.

XXIX. Come gli aveva detto il Samurai quel pomeriggio al Tatami? Servitore della pace. Sarai Servitore della pace. Ma quale pace? E perché poi? Si era mai visto un capo come lui che deve sempre abbassare la testa e magnasse er pappone? Il Numero Otto, come sempre, si affidò all’istinto animalesco. Perché le cose non bisognava capirle. Era sufficiente sentirle. E lui aveva capito tutto la prima volta che era tornato da Morgana dopo l’agguato. Si era messo elegante. Con dei pantaloni in pelle nera sotto un golf di cotone bianco, e nella tasca aveva infilato una pallina di cellophane da cinque grammi di roba. La migliore. Al citofono del condominio di piazza Lorenzo Gasparri, Morgana gli aveva aperto senza neanche chiedere chi fosse. Nell’aria viziata del monolocale si avvertiva una punta di acidulo. Odore di sesso recente. Non il suo. Morgana era seminuda. Una maglietta nera extralarge le copriva a stento il pube e il magnifico sedere. Era già strafatta. Il Numero Otto provò a prenderla, ma ne ottenne solo un ostinato e ostile rifiuto. – Se pò sape’ che ci hai? – le chiese strattonandola. Morgana lo fissò con uno sguardo insieme di sfida e commiserazione. – Nun me piacciono l’omini che se nascondono. – E chi se nasconde? – Tu. Da quando t’hanno sparato, scappi come un coniglio. Il Numero Otto le mollò un ceffone violentissimo. Lei cadde sul letto e scoppiò a ridere. Lui tirò fuori con frenesia la pallina di coca. Dispose due strisce su un tavolino e pippò con un biglietto da cento euro. La roba gli arrivò dritta al cervello, dandogli la piacevole sensazione del calore che dissolve la nebbia. Aprí la porta. Si voltò indietro un’ultima volta verso il lettone. – M’hai dato un’idea. Stronza. Il Numero Otto tornò all’Off-Shore. Si infilò sotto la doccia prigioniero di una collera incontenibile, ma anche di una certezza. Era il momento di tornare capo. La mezzanotte era passata da un pezzo. Compose il numero di cellulare di Paja. Che aveva risposto solo al quinto squillo. – Ma chi cazzo sei? – Dormi? – Chi sei? – So’ quello che non sei riuscito ad ammazza’. – Nun so de che stai a parla’. – E ’nnamo, Paja. È risolta, dàje. Sto a scherza’. – Nun me piace ’sto scherzo. – E ’nfatti te chiamo perché c’è da ricomincia’ a lavora’ come ai bei tempi. – Che vòi di’? – Bisogna da’ ’na raddrizzata a uno de Casalpalocco che se crede Scarface e ha cominciato a da’ fastidio. Dice in giro che lui non prende ordini. – E perché ’sta rogna nun ve la grattate da soli? Che c’entramo noi co’ Ostia? – Perché deve esse’ chiaro a tutti che abbiamo ricominciato a lavora’ insieme. Non è pure quello che vuole er Samurai? La pace, no? Voi me mettete ’sta merda de Casalpalocco su una sedia a rotelle

e tutta Roma torna a capi’ chi comanna. – Hai parlato con Rocco? – Tranquillo. C’è pure la sua, de benedizione. – Sicuro? – E perché te dovrei racconta’ ’na cazzata? Che ce guadagno? Verifica, se vuoi. – Vabbe’. Io, comunque, da solo, a Ostia, nun ce vengo. – E portate Fieno, no? Che in due menate mejo. Nel silenzio prolungato di Paja, il Numero Otto capí di avercela fatta. Paja non si sarebbe messo a verificare con Rocco Anacleti nel cuore della notte. Aveva abboccato con tutte le scarpe. E se anche Paja andava a vedere il bluff, be’, ci sarebbe stata un’altra occasione. Ormai era deciso. – Quando dovemo veni’? – Ora. – Dove? – Alla rotonda di Ostia. Quanno che siete lí, ve vengo a prende’. Il Numero Otto voleva fare tutto da solo. Perché era da solo che doveva farlo. E perché aveva immaginato mille e una volta il come e il dove. Altro che lo zammammero di Cinecittà. Roma non avrebbe parlato d’altro. Anche il Samurai avrebbe dovuto baciargli il culo. E quella zoccola di Morgana si sarebbe dovuta inginocchiare implorandolo di perdonarla. Paja e Fieno se li sarebbe fatti all’Idroscalo. Sí, all’Idroscalo, come quello là, come se chiamava quello che faceva film zozzi… Ah, sí, Pasolini. E se li sarebbe fatti nello stesso modo. Una sciccheria: magari pure il Samurai avrebbe apprezzato. Non aveva molto tempo. Ma si preparò lo stesso con cura. A occhi chiusi, nudo, supino sul letto, rilassò i muscoli del collo e della schiena per un buon quarto d’ora. Pippò il giusto. Quindi si infilò nella tuta del Barcellona e nascose la 38 Smith & Wesson dentro un marsupio nero. Dal bar dell’OffShore prese una bottiglia ghiacciata di Veuve Clicquot e tre flûte che sistemò nel vano del bracciolo di guida dell’Hummer. Accese il motore, regolò la temperatura e il tasso di umidità dell’abitacolo. Controllò il livello dell’ampolla di deodorante alla mela. Si allacciò la cintura di sicurezza e percorse i pochi chilometri tra Coccia di Morto e Ostia a un’andatura che non superò mai il limite di velocità, ascoltando My Heart Will Go On di Céline Dion, la colonna sonora di Titanic. Quanto gli era piaciuto quel film. Altro che Pasolini, tre volte se l’era visto. Il Bmw di Paja e Fieno aveva filato dritto sulla Colombo a finestrini aperti. Ed era stato un viaggio stranamente silenzioso, perché a Fieno il naso diceva che qualcosa non funzionava in quella telefonata notturna del Numero Otto. – A’ Paja, ma tu te fidi? – Boh. Ma tanto che cambia? Se ce sta questo da gonfia’, bene. Se invece quello ha fatto lo stronzo e ci ha strane idee, c’è questa. Paja si aprí la giacca nera da buttafuori che si era messo prima di salire in macchina, mostrando il calcio di una Beretta 7.65. Fieno accennò un sorriso che somigliava piú a una smorfia e, istintivamente, cercò nelle tasche il suo tirapugni in acciaio cromato con teschi in rilievo. – Ma il capo l’hai sentito? – Ernummerootto dice che con Rocco ci ha parlato lui. – Apposta. E te fidi? – Co’ lui ho fatto finta de sí. Comunque ho provato a chiamarlo. Era staccato. Ho lasciato un

messaggio. – Vedrai che richiamerà. E comunque, se questo ci ha rivogato ’na cazzata, stavolta quanto è vero Iddio nun la racconterà. Quando la Bmw accostò sul lato destro della rotonda di Ostia, l’Hummer era già lí. Ne scese il Numero Otto, che si avvicinò al finestrino del lato guida. I tre si fissarono in silenzio per lunghi secondi. Il Numero Otto sorrise. – E i caschi nun ve li siete messi stasera? Paja non fece una piega. – ’Ndo’ sta quello che dovemo sistema’? – I miei se lo sono caricato e ci aspettano. Salite con me? – E perché dovemo sali’ co’ te? – Perché io so dov’è. E nun me piace fa’ i cortei de macchine in piena notte. Paja guardò Fieno, che fece un cenno di assenso. Parcheggiarono la Bmw e salirono sul Suv del Numero Otto, che cominciò a percorrere il lungomare in direzione di Ponente. Seduto sul sedile posteriore, Paja osservava attento la strada. Fieno, sul sedile anteriore, rapito dal quadro comandi di quel gippone che sembrava un albero di Natale, continuava a scrocchiarsi le nocche e ad aprire e chiudere la mano destra affinché il tirapugni la calzasse ben calda. – Ma de qua nun se va a casa tua? – chiese Paja. – Ah, vedo che sai dov’abito. Fieno lo interruppe. – Hai capito o no che nun fai ride’? Il Numero Otto alzò una mano dal volante in segno di resa. – Ho capito, ho capito. M’arendo. Nun lo faccio piú. Mamma mia, ahò… Un goccetto? La bottiglia di Veuve Clicquot e le tre flûte fecero il giro dell’abitacolo. Il Numero Otto sollevò la propria fino all’altezza dello specchietto retrovisore. – E poi dite che questa non è pace! Alla salute. Paja e Fieno alzarono i calici senza eccessivo entusiasmo. Ma bevvero fino all’ultimo goccio, tornando a servirsi. – ’Ndo’ l’avete portato ’sto Scarface? – All’Idroscalo. – Bel posto de mmerda! – sottolineò Paja. Il Numero Otto annuí teatralmente. – E ci hai ragione. Ma appena le ruspe del municipio avranno finito il lavoro, sai che bellezza er uoterfront, front… come cazzo se chiama? Qualche mese prima, le ruspe avevano buttato giú le baracche di una quarantina di abusivi. Avevano raccontato la storia che l’area sarebbe diventata l’oasi naturale della foce del Tevere. «Un angolo da restituire all’incanto della natura per il ripopolamento dell’avifauna marina e lacustre». E come no, oasi un par de palle, se l’era divertita il Numero Otto guardando le ruspe schiantare tetti e muri in cartongesso. Aveva anche mandato affanculo un vecchio pregiudicato che si era buttato a pietà con lui per sapere se almeno la sua, di baracca, poteva essere risparmiata. «’N’antra vorta nun li voti». L’Hummer si fermò su un’ampia sterrata di sabbia e terriccio, piatta come un tavolo da biliardo. Il lavoro dei bulldozer dopo quello delle ruspe. Il Numero Otto indicò a Paja un’asfittica macchia di vegetazione bassa sopravvissuta miracolosamente alle demolizioni, incastrata in cumuli di calcinacci e immondizia. E che a stento si distingueva nell’oscurità.

– Denis e Morgana hanno portato lo stronzetto lí dietro. L’hanno legato e gli hanno detto che avrebbero chiamato le guardie per farlo torna’ a casa. Voi ora v’avvicinate, ve presentate e poi je fate un bel trattamento de bellezza con gli omaggi dei Sale e degli Anacleti. Me raccomando. Nun deve piú cammina’. Paja non era convinto neanche un po’. – Me spieghi perché tutta ’sta messa in scena? Nun lo potevamo corca’ sotto casa sua, ’sto stronzo? – Qui stamo piú tranquilli. Paja guardò Fieno. E sporgendosi dal sedile posteriore, afferrò la spalla del Numero Otto. – Allora, famo in un altro modo. Scenno solo io e vado da solo dietro a quei cazzo de cespugli. Fieno resta qua, ché te fa compagnia. Se ce stai a pija’ p’er culo, è l’ultima cosa che fai. Eh? Che dici? Giusto, no? Il Numero Otto sorrise. – Benissimo. Se te piace cosí, io e Fieno guardamo lo spettacolo. Ciak, si gira! Luci! Il Numero Otto accese i fari dell’Hummer puntandoli in direzione della macchia di vegetazione verso cui ora, lentamente, avanzava a piedi Paja, sceso dal Suv. Fieno fissava il compare dall’interno dell’abitacolo, non avendo ancora deciso se entrare in allarme o prepararsi a vederlo accanirsi su quel disgraziato di Casalpalocco. Ma ’ndo’ stava quello? Paja fece pochi passi sulla sterrata, quando sentí vibrare il cellulare nella tasca posteriore dei jeans. Lo afferrò con la destra e lo portò automaticamente all’orecchio. Riconobbe la voce alterata e segnata dall’affanno di Rocco Anacleti. Gridava. – ’Ndo’ cazzo state? ’Ndo’ state? – All’Idroscalo, cor Nummerootto. – È una trappola. È una trappola! Nella luce fredda degli abbaglianti allo xeno, il Numero Otto vide Paja girarsi lentamente verso l’Hummer con il cellulare all’orecchio. Aprí silenziosamente il marsupio che aveva tra le cosce, ne estrasse la calibro 38. Fieno sentí la canna del ferro appoggiarsi alla tempia, accompagnata dalla voce del Numero Otto. – Nun prova’ a mòvete. Tenendo il braccio destro teso verso la tempia di Fieno, il Numero Otto accese il motore. Inserí le marce ridotte. Pigiò a fondo l’acceleratore, governando il volante con la sinistra. La frizione del cambio automatico lanciò le tre tonnellate dell’Hummer verso la sagoma di Paja. Urlava al mostro di acciaio che ormai gli era addosso. Il muso del Suv lo colpí frontalmente, poco sopra le spalle, decapitandolo di netto. Spiccata dal corpo, la testa con la sua coda di cavallo atterrò da qualche parte nel buio. Fieno vomitò sul cruscotto. Mentre il Numero Otto non abbassò di un grado il braccio teso che puntava la 38 verso la sua tempia. – Ecchecazzo! M’hai sporcato tutta la tappezzeria. Ma sarai stronzo. Questa è pelle. Quando cazzo passa l’odore, mo’. Dicendolo, pigiò il comando elettrico del finestrino destro, che si abbassò silenziosamente. Una leggera brezza di mare accarezzò Fieno sulla guancia, asciugandogli un rivolo di bile all’angolo della bocca. E fu l’ultima cosa che avvertí. La palla di calibro 38 gli attraversò il cranio, trascinandosi dietro uno sbuffo di materia cerebrale che si allungò oltre la portiera dell’Hummer. Il Numero Otto spense i fari, aprí la portiera di destra e scaraventò il cadavere di Fieno sulla

sterrata. Risalí al posto di guida e richiuse elettricamente il finestrino del lato passeggero. Innestò la retromarcia fino a schiacciare con una delle ruote posteriori il corpo di Fieno. Una pressa da tremila chili per finire il lavoro in bellezza. Quindi, accese la luce di cortesia dell’abitacolo. Osservò il lago di vomito e sangue che aveva imbrattato anche il tettuccio apribile dell’Hummer. Scosse il capo, contrariato. – Tanto la dovevo lava’, ’sta macchina.

XXX. Una carta d’identità miracolosamente rinvenuta sotto una scarpa sfasciata consentí l’identificazione di entrambi i cadaveri. Il documento apparteneva a Zuppa Dario, inteso Paja, pregiudicato, nato a Roma il 3/9/1980. Se cosí stavano le cose, poiché dove c’è Paja deve esserci Fieno, le altre spoglie mortali non potevano che essere appartenute, in vita, a Scavi Luca, inteso Fieno, pregiudicato, nato a Roma il 12/7/1981. Per il resto, era tutto un gran casino. Sferzate da un vento implacabile che spirava dal mare, immerse nell’umidità assassina della notte autunnale, alla luce delle lampade che illuminavano la spianata dell’Idroscalo, le tute bianche del Ris sembravano dar vita a una danza tanto goffa quanto surreale. Stretti nelle cerate, scossi da brividi insistenti, Marco, Alba Bruni e il tenente Gaudino della stazione di Ostia lottavano contro il gelo, cercando di venire a capo di una scena del crimine compromessa da una marea di tracce incongrue. Ma era difficile, se non impossibile, districarsi in quel coacervo di impronte, cenci luridi, mozziconi di ogni genere e foggia, rifiuti di cantiere. C’era un’unica testimonianza: quella dell’abusivo di una baracca della zona. Era stato il suo cane, un simpatico meticcio dall’aria ribalda, a scoprire i corpi verso le tre del mattino. Ma sul fatto, anzi, sul fattaccio, ché di una vera e propria mattanza si era trattato, l’uomo non aveva potuto riferire nulla di utile. Di evidente, d’altronde, a un primo esame visivo dei cadaveri, c’era solo la presenza di un Suv. Sia il tronco decapitato di Paja, che quello maciullato di Fieno – conclusero i Ris in attesa dell’autopsia – presentavano infatti tracce di evidente «sormontamento o comunque impatto e schiacciamento da grossi pneumatici di autoveicolo». E quel mezzo, fu la successiva e ovvia conclusione, non poteva essere altro che la macchina dell’assassino o degli assassini su cui le vittime erano salite. La Bmw nera intestata a Dario Zuppa era stata infatti già ritrovata alla rotonda di Ostia. I due cadaveri a terra erano i drizzatorti di Rocco Anacleti, come Malatesta spiegò al pubblico ministero di turno, sopraggiunto all’Idroscalo dopo un’oretta. – Paja e Fieno? Ma non è un tipo di pasta? Marco fissò la Bruni. Entrambi alzarono gli occhi al cielo, poi li dirottarono sul giovane Pm che si era presentato con il nome di Michelangelo de Candia. Poteva avere al massimo trent’anni, alto, distinto, occhialini e barbetta rada e ben curata, biondastro. Un inequivocabile fondo cantilenante ne denunciava l’origine meridionale. Figlio e nipote di magistrati, testa piena di pandette, esperienza della strada zero. L’ennesimo rompicoglioni. Marco lo scaricò ad Alba con un paio di frasi di prammatica e si concesse un ulteriore, inutile giro di perlustrazione. Non piú di un quarto d’ora. Aveva visto abbastanza. E doveva andarsene in fretta da quel posto. Tenuto conto della notoria appartenenza dei defunti Paja e Fieno al giro degli Anacleti, l’omicidio diventava di competenza della direzione distrettuale antimafia. Il che significava: Setola, il magistrato che lo aveva fatto allontanare. Marco non aveva nessuna voglia di imbattersi in quell’idiota. Il suo piano prevedeva un occulto lavorio dietro le quinte e nessuno scontro aperto. Massima prudenza e, al momento opportuno, azione rapida e carognesca. Dava un piacere immenso pregustarlo, quel momento. Si trattava, naturalmente, di arrivarci. Si era appena avviato alla Bonneville quando, con ululato di sirena e stridio di freni, un’Alfetta blindata fece irruzione. Dallo sportello posteriore, che l’autista si era ossequiosamente precipitato a tenere spalancato, sbucò proprio Setola. Doveva aver scorto Marco durante la manovra di parcheggio, perché gli andò incontro con un sorriso falsamente amichevole.

– Colonnello! Che piacere rivederla. Stava andando via, suppongo… Che tradotto dal setolese stava a significare: fuori dai piedi, questa è la mia inchiesta. Marco annuí, ricambiando con un sorrisino ipocrita – tanto Setola non era tipo da cogliere certe sfumature –, e afferrò il casco per calzarlo. Sopraggiunse Michelangelo de Candia, in compagnia della Bruni. I due inquirenti si scambiarono un’occhiata piuttosto ostile. – Bene, collega. Se non hai niente in contrario, qui continuo io, – tagliò corto Setola. L’altro lo scrutò scettico. – Il procuratore capo ti ha già assegnato l’inchiesta? Setola trasecolò. – Che c’entra? È ovvio, no? È roba nostra, della direzione distrettuale antimafia. – Qua di ovvio c’è solo una cosa, collega, – ribatté deciso De Candia. – Io sono di turno e sto conducendo i rilievi del caso. Se vuoi farmi compagnia, niente in contrario. E qui, con un cenno alla Bruni, piantò in asso la punta di diamante della Dda romana e si rimise al lavoro. Marco si godette per qualche istante lo sconcerto rabbioso di Setola, poi inforcò il casco e avviò la moto. Hai capito, il ragazzaccio! Che si fosse sbagliato sul suo conto? Sí, si era sbagliato. E si era sbagliato di molto. Gli fu chiaro a metà pomeriggio, quando Michelangelo de Candia lo convocò nel suo ufficio, un bugigattolo ingombro di carte al terzo piano della palazzina C della procura della Repubblica, e gli porse educatamente l’informativa che, a suo tempo, era stata irrisa dalle alte sfere. – L’ha scritta lei questa roba? – C’è la mia firma, mi pare. – Mi sembra interessante. Offre una chiave di lettura degli eventi recenti che potrebbe rivelarsi utile anche per la morte di quei due. I pastari. Paja e Fieno. – I suoi colleghi non la pensano allo stesso modo, dottore. De Candia si sfilò gli occhialini e giunse le mani, come in preghiera. – Anche i migliori possono sbagliarsi. A Marco parve di cogliere un guizzo ironico che non gli dispiacque. Decise di giocare a carte scoperte. Spiegò al Pm, sullo stesso tono ironico, che proprio grazie a quell’informativa era stato estromesso. Evidentemente, la pista della guerra fra bande non era ritenuta compatibile con gli auspicati esiti dell’indagine. – E lei? – Io cosa? – Lei come ha reagito? – Sono andato al mare. – Ottima scelta, – rise De Candia, – lo iodio aiuta a pensare. Poi il Pm si fece di colpo serio. – Ho aperto un fascicolo contro ignoti. Ho appena firmato una delega al Ros. In pratica, la voglio al mio fianco. Allora: me la dà una mano, Marco? – Da dove cominciamo?

– Ha presente l’espressione «carta bianca»?

XXXI. Intorno alle nove di sera, le telecamere di sorveglianza agli infrarossi con cui gli Anacleti controllavano giorno e notte l’intero perimetro urbano di cui via Zumbo era il cuore, e che pure avvistarono il corteo in arrivo di auto civetta dei Ros, non poterono evitare il danno. Evitarono, però, o almeno cosí credevano, il peggio. Non appena sgamate le guardie, le donne del clan si precipitarono a bruciare nei camini sempre accesi, estate e inverno, un paio di chili di cocaina. Le porte furono abbattute a colpi d’ascia. I carabinieri entrarono sventolando i decreti di perquisizione e urlando che avevano diritto di essere assistiti da un difensore. Con loro c’era anche De Candia. «Questa visitina agli Anacleti non me la voglio proprio perdere», aveva confidato a Marco. In quello stesso momento, un’altra squadra metteva sottosopra l’Off-Shore e le case della batteria di Ostia. Azione coordinata. E violenta. Villa Anacleti era un’immensa costruzione rettangolare merlata, impreziosita, nei pilastri di sostegno, da copie di colonne doriche in marmo policromo di Carrara. Con la luna piantata in mezzo al cielo, sembravano Le mille e una notte stile cartone della Disney. Sul piazzale, manco fosse un autosalone, stazionavano almeno una decina di Suv, una Porsche Carrera, due Bentley, una Jaguar, una Lamborghini Diablo e svariate altre vetture di grossa cilindrata. Nel patio della villa, vestito di un pigiama di seta rosso e con ai piedi delle babbucce di velluto verde in stile orientale, Rocco Anacleti era sveglio, circondato da una vociante compagnia di sorelle, cugine, nipoti. L’esecuzione di Paja e Fieno lo aveva scaraventato in uno stato di trance, interrotta da improvvise esplosioni di collera. Si era rifiutato di cambiarsi e aveva convocato l’intero clan accanto a sé, annunciando indicibili vendette. Quando il colonnello Malatesta gli consegnò il decreto, la sua faccia pingue assunse una piega gommosa. Provò a farfugliare qualcosa, ma il colonnello, accompagnato dai suoi ragazzi, tirò dritto verso la zona notte. Era una sorta di caverna di Alí Babà. Un trionfo di marmi, ottoni, damaschi, orologi di marca. Nella camera da letto di Rocco, un lampadario a steli al soffitto, che ricordava un cespuglio di rovi fluorescente, illuminò un gigantesco letto matrimoniale coperto da una pesante trapunta di un arancione vivo, sormontato da una boiserie in rovere sbiancato. Un piccolo satiro contemplava il proprio gigantesco fallo in erezione. Il colonnello riconobbe la mano del povero Abbas. A una delle estremità della boiserie, sentí un ispessimento. Lo fece saltare facendo leva con una forchetta d’oro raccattata in una delle vetrinette del salone. Si rivelò un doppio fondo, che restituí uno scartafaccio di lucidi, planimetrie, mappe, elenchi di aziende specializzate in movimento terra, modelli in scala di edilizia intensiva popolare, una copia ingrandita di quelli che sembravano fogli del piano regolatore del comune per i quadranti ovest della città, tra l’Eur e il mare. Stringendo fra le mani quel mucchio di carte, ritornò nel salone, dove Rocco Anacleti si era messo a contemplare il via vai di carabinieri seduto in una poltrona. Vedendo il colonnello, lo investí. – Non avete trovato un cazzo, è vero o no? Malatesta gli si avvicinò minaccioso. – Scusa? Che hai detto? Non ho sentito bene? – Ho detto che non hai trovato un cazzo, carabiniere. – Dici?

Con un cenno del capo, indicò a due dei suoi ragazzi di divellere a colpi d’ascia una parete in legno di ciliegio che foderava uno dei lati lunghi dell’immenso salone. De Candia alzò un sopracciglio. Marco lo rassicurò con un’occhiata: sapeva il fatto suo, si fidasse. Rocco Anacleti non ci vide piú. Si avventò verso i due carabinieri colpendone uno con un calcio alla schiena. Venne bloccato a terra e, tra le urla di dolore, ammanettato. Malatesta si inginocchiò, e con la faccia che quasi sfiorava il pavimento mise sotto il naso del patriarca degli Anacleti le carte che aveva trovato. – E queste che sono, testa di cazzo? Eh? Ti sei messo a studiare da architetto? Non facevi soltanto il ladrone e lo spacciatore? Rispondi, stronzo. Che ce le hai a fare, tu, queste carte? Magari se mi rispondi mi aiuti pure a capire perché ti hanno scannato Paja e Fieno. – Io con le guardie non parlo. Se vuoi parla con il mio avvocato. Malatesta si rimise in piedi e, rivolto a un tipo sulla trentina che sembrava essere uno del clan e che aveva assistito immobile alla scena, fece segno di avvicinarsi. – Tu chi sei? – Anacleti Silvio. Sono il nipote. – Puoi pure dire prima il nome e poi il cognome. Perché in galera ancora non ti ci ho mandato. E comunque, tuo zio ha ragione. Bisogna parlare con l’avvocato, perché è in arresto per resistenza e oltraggio. – Ho già chiamato Parisi. Sta arrivando. – Meglio cosí. Rocco Anacleti, in pigiama, babbucce e un cappottone spigato, fu caricato su una Subaru del Ros. Malatesta chiamò Alba sul cellulare. A Ostia tutto come al solito: un po’ d’hashish, niente armi. Ancora una volta, avevano fatto in tempo a ripulire. Non erano nemmeno le undici. Tutto si era svolto con grande rapidità. Mentre i suoi uomini cominciavano a inventariare il materiale sotto sequestro, Marco disse al Pm che potevano considerare esaurito il loro compito. – La faccio riportare a casa, dottor De Candia? – Cosí presto? Non so a lei, ma a me è venuta voglia di un po’ di musica. Che ne dice, mi fa compagnia? Sí. De Candia era davvero un tipo strano, si disse Marco. Ma finché stavano dalla stessa parte… E poi, concluse mentre gli diceva di sí, era curioso di capire fino a che punto si spingeva la sua stranezza. De Candia lo portò in un localino nel centro storico. – La cantina è una saletta per gli amici, – spiegò, – il gestore è un amico e quando ne ho voglia me la lascia usare. C’erano una decina di persone di tutte le età, ma perlopiú sui trenta-quaranta. Facce borghesi, decisamente perbene. De Candia lo presentò come un vecchio amico. Gli procurò una birra ghiacciata e un tavolo accanto al pianoforte verticale. Poi, accompagnato da un applauso di simpatia, cominciò a suonare. Anche musicista. E pure bravo. Composto e ispirato, De Candia dominava lo strumento alternando cascate rabbiose di note a pause dense di una sospensione che avresti detto poetica. Marco riconobbe un paio di brani: una versione sbarazzina di ’Round Midnight di Thelonious Monk, l’inno della elitaria e schizzata massoneria dei jazzisti, poi un po’ di Abdullah Ibrahim e tanto Michel Petrucciani. Ma reinterpretati, rivitalizzati, personalizzati, talora all’eccesso.

Una mostra di carattere, forza, delicatezza. L’esibizione durò quasi un’ora. Alla fine De Candia, sommerso da applausi convinti, lo raggiunse al tavolo. – Sono senza parole! – commentò Marco. – Confesso che è quello che avrei voluto fare nella vita, colonnello. Purtroppo sono nato nella città sbagliata e nella famiglia sbagliata, quindi ho dovuto accettare qualche compromesso. – Potrei tenere un seminario sul compromesso. – Ma non mi lamento. Va bene cosí. Faccio il mio lavoro e quando posso mi concedo una seratina fra amici. Arrivarono altre birre artigianali non filtrate, accompagnate dall’immancabile tagliere di salumi di cinta senese e formaggi di alpeggio. Parlarono di jazz, della leggendaria cattiveria e del magnetismo violento di Petrucciani. Al jazz, allora. – Al jazz! Il cellulare di Marco vibrò. Un Sms di Alice: «Anche se sei un perfetto cretino, mi manchi lo stesso». Digitò una risposta appassionata e riemerse con un sorriso ebete. De Candia lo scrutava con il suo sguardo chiaro e ironico. – È bella? – Ma come diavolo… – Oh, hai ragione, – disse, passando disinvoltamente al tu. – Si potrebbe dire: è interessante? È colta? È dolce, combattente, puntuta, remissiva, intelligente, indipendente, protettiva. Ci sono ventimila aggettivi per definire l’oggetto del desiderio, però a noi maschi ne viene sempre in mente uno e uno solo: è bella? È bella? Hanno ragione a dire di noi che siamo limitati e monomaniaci. Sei in piena cotta, vero? Ti ho osservato, prima, mentre suonavo. Quell’aria languida, specie nei passaggi piú melodici. Direi che abbiamo a che fare con un romantico. – Non vorrei essere nei panni di un tuo inquisito, – ribatté Marco. Era venuto naturale anche a lui passare al tu. – Mi piacerebbe conoscerla. – Vedrò che cosa si può fare, – rispose Marco, vagamente imbarazzato. De Candia si schiarí la voce e passò ad altro. – Ma secondo te: che cosa mai ci farà un delinquente come Rocco Anacleti con quelle planimetrie? Non sei curioso?

XXXII. Quando Ciro Viglione gli chiese le chiavi della Mercedes Slk rossa, il dottor Temistocle Malgradi impallidí. – Oggi è previsto un controllo, Ciro. – Dotto’, non me ne fotte niente. Devo uscire. E subito. – E io che gli dico ai poliziotti? – E inventati quacche cosa. Non sei professore? Professo’, jamme, ramme ’sti cchiave. – Ciro, non dovresti tirare troppo la corda. Sarebbe già il terzo controllo che salti. Non vorrei che a qualche ispettore zelante venissero in mente strane idee. – Non succederà niente, tranquillo, professo’. Comunque, se scassano ’a uallera, tu pagali. Ci stanno un poco di contanti nell’armadietto, quello a destra del letto. Ma Temistocle Malgradi traccheggiava ancora. E se avessero mandato elementi nuovi, tipo per un controllo a sorpresa? Dice che in procura era arrivato un nuovo sostituto, un fichetto leccese che s’era messo in testa chissacché. Non sarebbe stato il caso di rimandare? – E mo’ hai rutt’ ’o cazzo, neh! ’E cchiave! Il dottore giunse le mani come in preghiera e finalmente sputò la vongola. – Ciro, non t’incazzare… La Mercedes è in riparazione. – Eh? Era stato un maledetto incidente. Una sfortunatissima coincidenza. Temistocle aveva preso in prestito la vettura per fare colpo su una laureanda, una ragazzina meravigliosa, un autentico bocciolo di rosa, e di ritorno da una piacevole seratina, si sa come vanno certe cose, un bicchiere di troppo, una manovra azzardata a un incrocio… – Ma solo un graffietto, eh, Ciro, e ti giuro che ti sarà restituita come nuova. Ciro fissò il primario. Un lampo gli attraversò gli occhi acquosi. Malgradi rabbrividí. L’aveva fatta grossa. Certo, Ciro e gli altri avevano bisogno di lui. Ciro in particolare, visto che nella dorata suite della piú bella clinica di Roma si stava praticamente facendo la galera gratis a spese dei contribuenti. D’altronde, tutti avevano bisogno di tutti in quel gioco, ma Ciro era pur sempre un delinquente, e coi delinquenti non si sa mai. Però Ciro si era messo a ridacchiare, e ora il suo sguardo era tornato piú calmo. – No come nuova, dottore. Nuova e basta. – Ciro. – Ciro un cazzo! Domani voglio un’altra Slk. Rossa, anzi, no, stavolta la voglio blu. E la voglio qua sotto. Mo’, però, tengo fretta. Tu che macchina tieni? – Tu… io? – Vedi qualcun altro ccà ’rinte? Ja’, dotto’! Con un sospiro, Temistocle Malgradi gli allungò le chiavi della sua Audi Q7. – Statte bbuo’, professo’. Mezz’ora dopo parcheggiava nel piazzale antistante la villetta a due piani del Samurai. Come sempre, il cancello era spalancato, non si vedevano guardie del corpo, non c’erano videocamere di sorveglianza. Secondo il Samurai, la miglior difesa di un capo è il carisma. «Due canazzi di bancata che per cento euro ti sparano alle spalle si fa presto a trovarli, Ciro. E quando qualcuno te li ha messi contro, ogni difesa è inutile. Il problema va risolto alla radice. Devi essere cosí forte da stroncare sul nascere persino l’intenzione di farti del male. Mi sono spiegato?» «Sí, e come no, Samurai! Ma vallo a fare a Casapesenna, ’sto discorsetto! E poi ci facciamo ’na

risata!» Ciro Viglione conosceva il Samurai da una vita, e da altrettanto tempo lo detestava. Le sue manie giapponesi gli erano insopportabili. L’aria di superiorità gli faceva montare il sangue alla testa. E la dieta da ricchione stitico, poi, quella dava addirittura il voltastomaco. Ma doveva farselo piacere comunque, il Samurai. Lo esigevano gli affari. E in affari non esistono simpatie e antipatie. In affari esiste solo la convenienza. Ciro Viglione aveva cinquant’anni, e da oltre trenta navigava in business class nell’empireo della mala, destreggiandosi furbescamente fra grandi e piccole guerre di camorra. Mentre i guagliuncelli impasticcati si sterminavano allegramente strada per strada e i capibastone si pugnalavano alle spalle, lui passava dall’uno all’altro schieramento con agile disinvoltura. Ora faceva il saggio, ora il pazzo. Prendeva il meglio da questo e da quello, mai nemmeno sfiorato da una pallottola, protetto dalla naturale propensione al tradimento e dall’innato fiuto della strada. Quando l’aria a Napoli si era fatta pesante, si era trasferito armi e bagagli a Roma, e aveva cominciato a prosperare all’ombra del suo mentore, Trentadenari. Era entrato in affari con i ragazzi del Libanese, e quando Trentadenari si era buttato all’infamità, vendendo carne umana un tanto al chilo in cambio di un piatto di lenticchie, si era fatto un po’ di galera in silenzio e dignità. All’uscita si era reso conto, con sorpresa e soprattutto con infinita gioia, di essere rimasto l’unico napoletano di un certo peso sulla piazza romana. Riallacciare gli antichi legami era stato un gioco da ragazzi. Adesso lui, Perri e il Samurai formavano una sorta di triumvirato, come l’aveva definito il Samurai, che non perdeva occasione di scassare la uallera. Come se la cultura fosse mai servita a riempirsi la pancia. A ogni buon conto, Roma era cosa loro. E tale doveva restare. Il Samurai gli venne incontro scendendo dalla scalinata di marmo bianco con il passo di una SS. Be’, era nazista, ’o strunz’, no? Indossava un ampio kimono nero, e quando Ciro notò lo scorpione bianco stampato sulla schiena, gli scappò una risata. – Samura’, statt’accuorte, ’o scorpione mozzica! – Questo è addomesticato, – ribatté l’altro con il consueto tono distaccato. – A ogni modo, se ci provasse ci resterebbe secco. Ciro Viglione cercò invano nel suo limitato arsenale una risposta adeguata, poi lasciò perdere. Su quel terreno il Samurai era imbattibile. Meglio pensare alle cose serie. – Sto di fretta, Samura’. Che cazzo stai combinando? – Davanti a un buon tè si ragiona meglio, – tagliò corto il Samurai, e si avviò verso l’interno. Ciro lo seguí salmodiando un’imprecazione a mezza bocca. Il Samurai serví tè verde freddo da una caraffa dalla curiosa forma allungata. – Si chiama Gloria del Diamante, – spiegò, – uno dei piú raffinati prodotti dell’antica tradizione dei vetrai di Murano. Ciro Viglione si chiese se, oltre a mangiare da ricchione, il Samurai non fosse proprio proprio nu ricchione. Ma si astenne dal formulare qualunque commento. Non era il caso. Conosceva un killer che aveva preferito confessare venticinque omicidi piuttosto che ammettere la propria omosessualità. – Vabbuò. Mo’ possiamo parlare, per favore? – C’è stata un po’ di agitazione fra Ostia e Cinecittà, – disse, freddo, il Samurai. – E me la chiami nu poco ’e agitazione? – si scaldò Ciro. – Chist’ è nu burdello leggendario! Morti da tutte le parti, sparatorie, quei cazzo di carabinieri che ci stanno sul collo. E tu te ne stai qua a bere

’stu cazzo di tè! – La situazione è sotto controllo, Ciro. – Strunzate, Samura’. A me mi pare che stanno in giro troppi che si fanno i cazzi loro e non pensano alle cose di tutti. Devi fare qualche cosa, e l’hai a fa’ ’mpressa ’mpressa. Il Samurai sospirò. Ciro non aveva tutti i torti. Cercò di spiegargli che il problema era sempre lo stesso. Avere a che fare con dei primitivi. Doversi necessariamente appoggiare alla loro forza selvaggia, riservandosene il controllo, diciamo pure la manipolazione, e correre il rischio di imprevedibili impennate. – Perché, in definitiva, Ciro, questa gentaglia ci serve. Sono la nostra manodopera. Il proletariato della strada. Bisogna dargli un contentino, di tanto in tanto, e tirare la briglia quando si è allentata troppo. Ma non possiamo farne a meno. E, dico, purtroppo. Il Samurai sembrava molto sicuro di sé. Rispetto a lui e a Perri, il Samurai aveva un vantaggio: era uno del posto. L’indispensabile indigeno senza il cui determinante concorso nessuna organizzazione degna di questo nome può seriamente mettere radici in un contesto estraneo. Tuttavia, anche lui riconosceva che la strada era in fermento. Sino a che punto il Samurai era ancora in grado di tenerla sotto controllo? Bastava la sua parola? Con tutto il rispetto, di ’stu cazzo ’e carisma, come diceva lui, Ciro ne aveva le palle piene. – Samura’, sienteme buono: cheste so’ solo parole! – I fatti arriveranno. – Che vuoi dire? – Che la farò finire io, questa agitazione. – E come? – Una volta per tutte. Bah, questo, almeno, era un impegno preciso. Purché non servisse solo a prendere tempo. Ma, d’altronde, il gioco interessava tutti allo stesso modo, e la convenienza era comune. E il Samurai, chiaro, aveva qualcosa in mente. – Sta bene. Ma non ci mettere troppo, mi raccomando, – concluse Ciro, alzandosi. Il Samurai lo accompagnò in cortile. Ciro chiamò un radiotaxi e dettò l’indirizzo. Il Samurai indicò l’Audi. – E quella? Ciro gli raccontò la storia di Malgradi. – Quindi, mo’, al professore gli facciamo nu bello scherzetto. Tu ti chiami agli Anacleti e gli dici che questa macchina la fanno sparire. Cosí chill’ strunz’ ’e Malgradi s’impara a fa’ ’o marucchine cu mme! – Ti sembra una cosa intelligente da fare, Ciro? – E chi se ne fotte se è intelligente o no! È nu scherzo, Samura’. Che, nunn’a capisci ’sta parola? Scherzo? Rimasto solo, il Samurai parcheggiò l’Audi in garage, quindi scese in cantina, sollevò due tramezzi e azionò il meccanismo che faceva scattare la molla di una minuscola botola, occultata da una mattonella identica a tutte le altre del pavimento. Dentro c’era uno straccio oliato che avvolgeva la sua adorata Mannlicher. Il Samurai sapeva che avrebbe dovuto disfarsene. Ne era dispiaciuto. Ma era ora che la Mannlicher tornasse a far sentire il suo canto.

XXXIII. De Candia aveva centrato il punto. Le planimetrie sequestrate a Rocco Anacleti, con le annotazioni criptiche a margine di mappe normografate, erano forse la prima traccia concreta da quando era partita la mattanza fra Ostia e Cinecittà. Non c’era bisogno di esperti per capire che qualcuno aveva in mente un Grande Progetto. Ma cosa c’entravano gli Anacleti? La loro presenza stonava nel quadro. O, forse, lo giustificava. Se una vecchia dinastia di ladri e spacciatori si butta nel mattone, è perché ci ha trovato la sua convenienza. Marco interrogò Rocco Anacleti. – Embe’? E che c’è di strano? Mi voglio fare la villa al mare. Posso permettermelo, sai? Sí, la villa al mare! Quelle carte coprivano l’intera area fra l’Eur e i confini della provincia di Latina, passando Ardea, Pomezia e Casalazzara e con tanto di dettagliate illustrazioni del litorale di Ostia. Una villa. Una città, semmai. Rocco Anacleti che costruisce una città? E se fosse? Un’idea cominciava a farsi strada. E puzzava di speculazione edilizia. In basso a sinistra, su ognuno dei fogli sequestrati c’era il logo di Mailand & Partners. Uno dei piú prestigiosi studi di architettura al mondo. Lavoravano per gli Anacleti, quegli analfabeti della Romanina? E solo per loro? Pensò di chiederlo direttamente a Mailand & Partners. Ma rinunciò. Senza un ordine di sequestro, avrebbero opposto il segreto professionale. Ma un ordine di sequestro presupponeva un reato. E, sino a prova contraria, costruire non era reato. Però, l’odore di marcio cresceva. Marco si concentrò sul territorio indicato dalle mappe. Ostia. Fece telefonate, richiamò atti. Ostia. Sei incendi dolosi in altrettanti stabilimenti balneari sul litorale di Ponente negli ultimi mesi. Cercò il tenente Gaudino. – Sí, gliene avevo accennato, colonnello. Puniscono quelli che non si mettono in regola. Era solo racket delle estorsioni? Qualcosa non tornava. Tutti gli stabilimenti oggetto degli attentati erano in concessione a cooperative sociali. Erano bruciati. E dopo il rogo tutti avevano perso la concessione. Chiese aiuto a un vecchio conoscente che lavorava negli uffici comunali. Ottenne accesso ai fascicoli che gli interessavano. Le concessioni erano finite nelle mani di un unico soggetto. Michele Lo Surdo. Leggendario commercialista dai mille loschi affari: di fatto, il consigliori numero uno della malavita romana. Il quadro cominciava a delinearsi. Gaudino si sbagliava. Bruciavano gli stabilimenti per liberare l’arenile. E liberavano l’arenile per costruire. E poiché a Ostia non si muove foglia che il Numero Otto non voglia, il Numero Otto era coinvolto. E allora perché le mappe erano in possesso degli Anacleti? Perché avevano fiutato l’affare e volevano entrarci, e magari erano stati respinti ed era scoppiata

la guerra. Oppure, perché erano anche loro parte dell’affare, e a un certo punto gli equilibri erano saltati ed era scoppiata la guerra. Se le mappe indicavano una direzione, l’intera zona poteva considerarsi edificabile. Marco immaginò lo scenario. Milioni di metri cubi di cemento, sí. E un fiume di denaro. A meno che, d’improvviso, i vari Anacleti, Adami, Sale non si fossero convertiti alla filantropia. E, nel caso, era plausibile che napoletani e calabresi se ne stessero alla finestra? Per varare un simile piano occorreva una delibera del consiglio comunale, ragionò. Si collegò ai siti ufficiali. Niente. Non esisteva nessuna delibera all’ordine del giorno. Se ne capiva la ragione: i diretti interessati cercavano di evitare la pubblicità. La delibera sarebbe spuntata all’improvviso. Quando nessuno avrebbe piú potuto opporsi. Perché non era ancora successo? Perché non si erano ancora messi d’accordo. Per concludere un patto del genere si dovevano sfamare molti affamati e dissetare molti assetati. Occorreva un’autorità indiscussa. Anzi, due. Una per controllare la strada, l’altra il Palazzo. Chi controllava la strada? Il Samurai. Ma la strada era in guerra. Il Samurai aveva dunque fallito? O si era davvero ritirato come gli aveva detto? Marco non poteva crederlo. Quelli come lui non cambiano. E il Palazzo? Chi era lo sponsor istituzionale? Finché la guerra durava, non aveva nessuna convenienza a mostrarsi. E si tornava al punto di partenza. Perché spararsi se c’è in ballo un affare cosí colossale? Qualcuno non era stato agli accordi, e aveva fatto saltare il tavolo. Ma né Spadino né Paja e Fieno sembravano cosí importanti da scatenare una guerra. Doveva esserci dell’altro. Marco fece una copia di tutto e se ne andò a casa di Alice. La sorprese, inatteso, mentre, al centro del soggiorno del trilocale dalle parti di piazza dei Re di Roma, si esercitava al sacco. Cosí sudata, in canottiera e calzoncini, gli mandò il sangue alla testa. E per fortuna, lei non oppose la minima resistenza. Piú tardi, le disse che aveva bisogno di lei per giocare sporco. E Alice non si tirò indietro.

XXXIV. Manfredi regalò a Sebastiano un revolver calibro 38 e se lo portò in vacanza dalle parti del Gran Sasso. – È un’arma pulita… be’, non proprio pulitissima. Ma insomma, sa fare il suo dovere. – E che ci devo fare? Io non so manco da dove cominciare. – E secondo te perché stamo qua? Si sistemarono in una baita elegantemente arredata che il sor Scipione aveva scippato, sempre nell’esercizio delle sue funzioni di cravattaro, a un medico di Prati rovinato dal Texas Hold ’em. Si esercitavano la mattina presto e al tramonto. Sebastiano imparava in fretta, aveva mira buona e mano ferma, e insomma, per ciò che Manfredi aveva in mente, si dimostrava di giorno in giorno la scelta giusta. L’ultima sera si fermarono a cenare in una trattoria affollata di ragazzotti in mimetica e anfibi. – Pensa che mi’ padre m’ha detto che una volta qua era pieno di campi paramilitari. Sai, quella roba di nostalgici del duce che raccattavano moschetti e bombe a mano per fare il colpo di stato… – E questi qua, – sussurrò Sebastiano, a voce bassa, indicando gli altri avventori, – sarebbero i figli? – Nooo, – ghignò Manfredi, – questi so’ quegli sciroccati che giocano alla guerra nei week-end. Hai capito che razza de buffoni ce stanno in giro, Sebastia’? – Stammi a sentire, Manfredi. La pistola, l’addestramento… hai bisogno di una guardia del corpo? Il figlio dell’usuraio decise che era venuto il momento di giocare a carte scoperte. – Si tratta di un prelevamento, – disse. – Tranquillo. – Che cosa? – Prendiamo uno che ci deve dei soldi e lo convinciamo, – spiegò. – Tu sei completamente pazzo! – protestò Sebastiano, allontanando i ravioli al sugo di castrato che, del resto, non aveva nemmeno iniziato. – Un lavoretto facile facile. E nessuno si fa male. – Non contare su di me. – Nemmeno se papà ti condonasse il cinquanta per cento dello scoperto? Il figlio dell’ingegnere si prese la testa fra le mani. Mostro. Manfredi era un mostro. Gli aveva portato via la casa, il benessere, la donna, la dignità. E adesso quello che gli restava della vita. Uno schiavo, ecco che sarebbe diventato. Uno schiavo. E quando mai uno schiavo ha avuto scelta? D’altronde, a ragionarci a mente fredda, l’offerta aveva la sua convenienza. – Voglio garanzie scritte, Manfredi. – Dal notaio. Ti porto dal notaio, fratello. – D’accordo. Il figlio dell’usuraio si avvicinò, e con aria complice cominciò a raccontare. Tornarono a Roma in piena notte, e agirono all’alba. Quello da convincere era un commercialista di buona famiglia, faccia da pariolino, abiti eleganti, attico al Flaminio. Ma s’era massacrato per la coca. La moglie l’aveva sbattuto fuori di casa, e lui s’era venduto al sor Scipione. Era fuori di trenta pali. Trentamila euro che, non essendo rientrati nella disponibilità del vecchio usuraio con le buone, andavano recuperati con le cattive. – Perché papà è troppo buono, – chiosò Manfredi, – e perciò ci devo pensare io. Anzi, ci

dobbiamo pensare noi, frate’. Ora, il sorcio s’era rintanato nel covo di un trans amico suo, Letizia, detta, per intuibili ragioni, «lingua di platino», in una specie d’abbaino al Tiburtino III. Quando ci entrarono, sfondando a calci la porta, furono assaliti da un tanfo di corpi sudati e fumo stantio, e da un concerto di gemiti che la loro irruzione fece bruscamente cessare. – Ammazza, che schifo! – commentò Manfredi. Il commercialista era un omino piccolo, grassoccio e pelato. Il figlio dell’usuraio e il figlio dell’ingegnere lo sorpresero in compagnia: Letizia, una lungagnona dai tratti inequivocabilmente maschili, e una riccetta sui trenta alta un metro e mezzo e con seni sproporzionati. Mentre Manfredi cominciava la perquisizione alla caccia di coca, soldi, gioielli e di tutto ciò che poteva servire al rientro del debito – con i dovuti interessi –, Sebastiano teneva il terzetto sotto tiro. Fu al ragazzo che, in rapida sequenza, i tre ostaggi si rivolsero. Ciascuno con la sua triste storia, ciascuno con il suo querulo lamento. E tutti pronti a scaricare gli altri. Il commercialista urlò che la colpa di tutto era di quella tettona bastarda. Era stata lei a fregarsi i soldi. Perciò lui, furbo come una volpe, l’aveva attirata in trappola. Per farla cantare e per recuperare la grana. La tettona, al secolo Luana, reagí inviperita. Io ladra? È quel bastardo che si vantava in giro di aver tirato la sòla ai cravattari. Quanto alla roba e ai soldi, se la spartivano a mezzi con Letizia. La quale, chiamata in causa, riferí che tutti e due insieme, il commercialista e la puttanella, le avevano proposto di entrare in società per vendere la roba nel giro dei trans e dei facoltosi clienti che li noleggiavano per le loro seratine. Aggiunse che l’acquisto della prima partita era stato finanziato dal commercialista proprio con i trentamila euro che i due «segnori» cercavano. Manfredi dichiarò chiusa la perquisizione. Esibí un sacchetto di coca, uno di pillole di ecstasy e duemila euro. – Vi vedo messi male, – commentò sarcastico. Si scatenò il piagnisteo. Il commercialista giurò sulla testa dei suoi figli che lui non voleva, che la cocaina si era impossessata di lui, che avrebbe pagato sino all’ultimo centesimo, ma che prima doveva liberarsi della scimmia. L’indomani sarebbe entrato in comunità. Avessero pietà di lui, un povero disgraziato. Il trans maledisse la favela infame da cui veniva. Aveva sedici fratelli da mantenere. Avrebbe lavorato gratis per loro, purché la lasciassero andare. Luana aprí la fontanella. Un giorno si era persa, e non sapeva nemmeno lei perché. Forse per via di una bambina malata, del padre morto, del lavoro che non c’era. Ma avrebbe pagato. Era solo questione di tempo. Manfredi rifletteva. Non si era aspettato un casino simile. Non sapeva come uscirne. Sebastiano stava a sentire i tre, e piano piano un sentimento al quale non era avvezzo s’impadroniva di lui. Era un misto di rabbia, crudeltà, indifferenza. In quei tre disgraziati non riusciva a vedere le vittime di impulsi sbagliati, i rottami di esistenze alla deriva. Vedeva solo tre furbetti, patetici figli di puttana che l’avevano fatta grossa e adesso piagnucolavano. Non provava nessuna pietà per loro. Cosí come nessuno aveva provato pietà per lui, quando gli avevano tolto la vita. Bene, affari loro, in definitiva. Ciascuno è responsabile delle proprie azioni. In quel preciso istante il figlio dell’ingegnere comprese che non avrebbe mai piú riavuto la sua vita. Tanto valeva, allora, fabbricarsene una completamente diversa. – Rivestitevi! – ordinò. Si fece dare il cellulare dal commercialista e chiamò un taxi, ci caricò sopra la ragazza e il trans,

dette a ciascuno una banconota da venti euro e raccomandò, nel loro interesse, di dimenticare tutto. Poi intascò la pistola, sorrise al commercialista e lo invitò a portare lui e Manfredi nella sua banca. Dove avrebbe ritirato tutto il contante del quale disponeva. La spedizione non durò piú di mezz’ora. Il commercialista racimolò quindicimila euro. Sebastiano gli dette una settimana per mettersi in paro. Infine, lo lasciò andare. La calma gelida di Sebastiano aveva impressionato Manfredi. Se avesse posseduto un minimo dell’intelligenza animalesca del padre, avrebbe capito che il ragazzo era ormai fuori controllo. Che sarebbe stato molto piú saggio lasciarlo andare per la sua strada. Ma non lo fece. Si attribuí la svolta dell’amico. Era stato il suo carisma di capo a trasformare Sebastiano. Lo lodò definendolo «un duro nato». Gli propose di dividere la coca e, al suo orgoglioso rifiuto, gli disse che gli ricordava qualcuno, una persona che conta a Roma, forse la piú importante di tutte. Quella persona era il Samurai. Manfredi glielo presentò il giorno dopo l’impresa, approfittando di un passaggio veloce del Samurai alla Paranza. – Questo è un freddo, Samurai. Ti piacerà. Il Samurai scrutò con interesse il ragazzo. Quello che lesse nei suoi occhi lo convinse. Lo prese da parte, ignorando Manfredi. – Parlami di te, ragazzo. Sebastiano si fidò all’istante. Si rispecchiò negli occhi di quell’uomo gelido e vi lesse la stessa indifferenza che aveva deciso di indossare come una seconda pelle. Non gli nascose nulla. Il Samurai, alla fine, disse che presto si sarebbero rivisti. Sebastiano tornò al lavoro nell’autosalone. Qualche tempo dopo, vendette in contanti una Porsche Boxster a una smandrappona travestita da sophisticated lady accompagnata da un intellettuale frocio.

XXXV. – Alice, lui è Michelangelo de Candia, il mio amico pubblico ministero di cui ti ho parlato. Michelangelo, lei è Alice… – La ragazza dell’Sms. È ancora meglio di come me l’avevi descritta, Marco. Marco lo fulminò con un’occhiataccia e si precipitò a rassicurare Alice. Non avevano mai parlato di lei, e lui non era il tipo che si vantava in giro delle sue passioni. Alice gli scoccò un bacetto sulla guancia. – Ma lo so, lo so. D’altronde, – aggiunse, perfida, – tu non mi avevi detto che il tuo amico è cosí carino. A Marco mancò la replica pronta. De Candia s’inserí e, indicando con orgoglio quasi infantile la Renault 4 targata Lecce, aprí lo sportello del passeggero. – Che ne dite, eh? Non è meravigliosa? Prego, accomodati. Alice si lasciò andare sul sedile di stoffa dall’armatura in alluminio che le ricordava una sdraio e, osservando il cambio al volante e quel cruscotto minuscolo che faceva tanto auto giocattolo, mise su un’espressione tra il divertito e lo sconcertato. – Ma che macchina è? – La mitica R4. È dell’89. Apparteneva a mio padre. È la sola cosa tangibile che mi sono portato dietro nella vita. Com’è che si dice? Ci sono due cose che non puoi cambiare: i tuoi genitori e la squadra del cuore. Be’, io ci metto anche la R4, se hai avuto la fortuna di averne una. Mi costa un po’ tenerla, ma… Marco si era aggiustato sul sedile di dietro. – Era l’auto preferita dai brigatisti, – commentò. Alice non perse l’occasione. Era troppo ghiotta. – Vi dispiace se cambiamo secolo? De Candia scoppiò a ridere. – Però, la ragazzina. Marco scosse la testa. Alice guardò Michelangelo. Quella leggera cantilena salentina le piaceva. Il Pm era decisamente un bel ragazzo. Passarono viale Marco Polo e infilarono la Cristoforo Colombo. Alice e Michelangelo continuavano a scambiarsi battute scherzose. Avevano trovato un’intesa immediata. Perché per lui era stato cosí difficile, invece? Si chiuse in un silenzio ingrugnato. Aveva la sensazione che tra i due fosse cominciato un neppure troppo dissimulato gioco di seduzione, e l’idea di provare anche solo una punta di gelosia lo faceva sentire insieme ridicolo e infantile. E piantala, Marco. All’altezza dell’obelisco, De Candia rallentò fin quasi a fermarsi. – Siamo stati qui convocati dal tenente colonnello Malatesta Marco, – declamò il Pm, – per conoscere «la verità su Roma». Bum. Ecco, per quanto mi riguarda, Roma finisce qui. Queste sono le mie Colonne d’Ercole, Marco, hic sunt leones. Marco guardò Alice, che si fece seria. – Michelangelo, non c’è da scherzare, – disse. – Da domani la vera città partirà proprio da queste strade. – Perché? – Ho studiato le mappe degli Anacleti e ho raccolto un po’ di dati. C’è un progetto edilizio, una

grande speculazione, la piú grande di sempre. Se ne stanno occupando architetti prestigiosi. Milioni di metri cubi di cemento nei trenta chilometri da qui al mare. Il committente è una società, New City si chiama. L’amministratore è Michele Lo Surdo, una vecchia conoscenza. Il commercialista della malavita. Lo stesso che ha rastrellato le concessioni di Ostia Ponente dopo che una manina provvidenziale ha bruciato gli stabilimenti che c’erano. – Un progetto, dici? – Fra Roma e Ardea, case popolari. Ma fa piú fino chiamarlo housing sociale. A Ostia, un nuovo porto. Ma anche lí, fa piú fino chiamarlo Waterfront. – Sembra una cosa grossa… – Lo è. – E perché non ne ho mai sentito parlare? – È segreto, per il momento. La guerra ha fermato tutto. – E se è segreto, tu come fai a saperne tanto? Con l’aiuto di Diego, il Drago Ribelle che piaceva ad Alice, avevano violato la «nuvola», la cassaforte virtuale dello studio Mailand & Partners. Tutto ciò che sapevano lo dovevano a una serie di reati. Cose che non si potevano spiegare a un Pm. – Diciamo che ho i miei metodi. Gira per di qua, per favore… – Marco indicò a De Candia di tenersi sulla destra e proseguire lungo la Cristoforo Colombo in direzione di Ostia. – Prima di Casal Palocco segui le indicazioni per Axa. C’è un posto dove possiamo bere qualcosa. – Chi c’è veramente dietro New City? – domandò Michelangelo. – Un cartello. Ne fanno parte gli Anacleti, gli Adami-Sale di Ostia e io credo anche Rocco Perri, che qui è il referente della ’ndrangheta, e Ciro Viglione, in rappresentanza dei napoletani. Ah, dimenticavo santa madre chiesa. – Addirittura! – trasecolò De Candia. – New City, per costruire tante belle casette di cartone. Ogni tot chilometri tireranno su un campanile. Capito il gioco? – Interessante… – considerò De Candia. – E tu, Alice, te ne stai zitta. Magari gli hai dato una mano? – Io? No, io non ho fatto niente… questi nomi li sento per la prima volta. – Ma famme ’u piacere! – disse il Pm in dialetto. Alice non era una brava bugiarda, rifletté Marco con una punta di sollievo. E Michelangelo era un amico. Si fermarono di fronte a quello che somigliava a un pub. Una costruzione di legno bassa, un incongruo chalet di montagna in mezzo a degli alti pini marittimi. «Frodo», annunciava l’insegna luminosa. – Non pensavo che Tolkien abitasse il litorale romano, – commentò De Candia invitando Marco a fare strada. – È una curiosa comunità nera quella che abita queste zone, – prese a raccontare Marco. – Un impasto di reduci del Novecento, fascisti immaginari imbottiti di cultura fantasy e animali da curva. Un terreno di coltura ideale se immagini su quali fondamenta debba poggiare la nuova Roma. Il colonnello salutò con un cenno di intesa un tipo sulla cinquantina dagli avambracci tatuati che doveva essere il padrone e che si presentò come Dario. Il locale era deserto. Presero posto a un tavolo d’angolo. Dario serví un vassoio con tre pinte di Menabrea e un piatto di jamón Serrano. Marco proseguí. – Ho arrestato Dario poco prima di partire per l’estero. Una specie di rivoluzionario fuori tempo

massimo. Lui si è convinto che in quel modo gli ho salvato la vita. Diciamo che da allora ci rispettiamo. Non è un chiacchierone, ma di solito le poche cose che dice hanno un senso. È stato lui, quando sono tornato a Roma, a spiegarmi che i vecchi camerati si sono messi giacca e cravatta e ora si atteggiano a manager. Mi ha detto: «Marco, se so’ messi er gessato. Ma sempre banditi de destra so’ rimasti». Roma, in fondo, non è cambiata. Un sole nero intorno a cui ruotano i satelliti di sempre. Alice non riuscí a trattenersi. – È vero allora quello che si dice. Che voi dell’arma ve la fate con i fascisti. De Candia le prese delicatamente l’avambraccio. – Perdonami, Alice. Ma fossi in te proverei a essere meno tagliente. – Perché? Perché lui è un carabiniere e tu un Pm? Sono colpevole di lesa maestà? – Ma no. È che io ero come te. Poi ho capito a un certo punto che chi crede di sapere troppo non sa nulla. E si perde quasi tutto. Non basta aver letto da qualche parte come funzionano le cose. Alice tornò a stuzzicare Michelangelo. – E quando hai avuto l’illuminazione? – A Milano, il giorno in cui mi trovai di fronte un banchiere d’affari. Avevo il verbale aperto. Ed ero convinto che dovesse solo confessare. – E invece? – E invece mi disse una cosa che non ho piú dimenticato. «Lei, dottor De Candia, crede che io conosca o mi interroghi sul senso di ciò che faccio. Lei è convinto che un banchiere sia quello che invece non è. Io non so nulla, De Candia, di quello che vendo. Io non so cosa diavolo sia un derivato, non mi occupo di interest-swap, di collar. Quella è roba adatta a un ragazzino bravo in matematica. Io mi occupo di uomini. Io cerco solo di dare una risposta alla loro avidità o disperazione». Ecco, «Io non so». Questo mi disse. Alice abbassò lo sguardo. Marco, dai vetri del pub, indicò a De Candia la macchia di luce che si distingueva in lontananza. – Lí giú è l’Infernetto. Era una borgata abusiva. Come ogni muro tirato su in questa zona. Prima hanno condonato tutto. Poi gli hanno venduto un sogno. Roma come Atlantic City. Casinò, piste da sci in pineta. Seggiovie. Mall ogni chilometro. Un’orgia di merci per somigliare a ciò che non si è. – Soprattutto, utile a reimpiegare denaro sporco, – aggiunse Alice. – Una perfetta chiosa sbirresca. Sbirresca, e ciò nonostante esatta, – sorrise annuendo De Candia. Lasciarono Axa diretti verso il mare. Si erano fatte quasi le due del mattino. Una coppia di netturbini intirizziti ciondolava davanti al baracchino della porchetta parcheggiato su uno dei lati della rotonda di Ostia. Marco chiese a Michelangelo di fermarsi lungo la banchina del porto turistico. Quattro misere barchette non riempivano il vuoto spettrale di approdi inutilmente enormi. Lo scheletro in cemento armato di un alto edificio incompiuto svettava come una lugubre rovina. Scesero dalla R4 e si misero a passeggiare. Marco si accese una Camel. – Ostia non aveva nessun bisogno di questo porto. Almeno, non di un porto di queste dimensioni. Fiumicino è a quindici minuti. L’importante però era cominciare a gettare cemento. Perché un porto può diventare un casinò sul mare, perché le destinazioni d’uso cambiano. Waterfront. Suona bene, no? Risalirono in macchina. Ripercorrendo la Colombo verso Roma, la R4 si infilò in una complanare senza nome. Un budello immerso nel buio pesto in fondo al quale brillava di un bagliore surreale quello che sembrava l’ingresso di un circo. Si fermarono a un centinaio di metri dalla fonte luminosa. – È La Caverna. Ufficialmente, una discoteca. Di fatto, il monumento alla pace che gli Anacleti

avevano stretto con gli Adami-Sale e che ora sembrerebbe essere andata a farsi benedire, – spiegò Marco. – E cosa c’entra la pace con una discoteca? – chiese Michelangelo. – Denis Sale aveva sposato una Anacleti. E insieme gestivano questa baracca. Coca, mignotte, slot. Un matrimonio di interesse che doveva battezzare un nuovo equilibrio, diciamo cosí, in tutta la città. Niente piú guerre per i locali, ma una sana cogestione in cui tirare dentro anche i calabresi e i napoletani. Dal Café de Paris di via Veneto a questo buco di culo. Poi Denis è rimasto vedovo ed è cominciata un’altra tarantella, evidentemente. – Suona tutto molto convincente, – disse De Candia. – Apri un fascicolo, – esortò Marco, – atti relativi a progetto edilizio. Ti preparo un’informativa. Posso allegare tutto quello che serve: non solo le mappe degli Anacleti, ma progetti, lucidi, studi di fattibilità, pareri della sovrintendenza, c’è persino una proposta di legge regionale che riguarda… aspetta… ah, «provvidenze integrative in materia di culto», in pratica l’autorizzazione a costruire un bel po’ di bed & breakfast che saranno gestiti dai preti. Dirò che ne sono venuto a conoscenza grazie a una fonte confidenziale. De Candia lo interruppe con un cenno secco. – Tu credi che la guerra fra Ostia e Cinecittà dipenda da questo, vero? – Ne sono certo. Dev’essere saltato qualche equilibrio. Non so perché, e voglio scoprirlo. Ma so che qualcuno sta lavorando per rimettere le cose a posto. Di solito, quando ci sono di mezzo tanti soldi, i vari gruppi si affidano a dei regolatori. Serve qualcuno che tenga buona la strada, e uno sponsor politico. – E tu già sai chi sono, vero? – Per quanto riguarda la politica, sono al buio. Non ne so niente, diciamolo pure. Ma sulla strada c’è solo un uomo in grado di rimettere le cose a posto –. Marco smanettò con l’iPhone, poi mostrò le foto che aveva rubato al Samurai al distributore di corso di Francia prima di affrontarlo. – Il Samurai. – Ha gli occhi a mandorla? – s’informò De Candia con tono blasé. – Da queste immagini non si capisce. Alice scoppiò a ridere. Adorava la leggerezza e l’ironia di De Candia. La conversazione si fece frivola. Alice disse che le era venuta una gran voglia di dolci. Conosceva un posto, il migliore. Il Pm smise di fare la persona seria e la scongiurò di portarcelo. Subito. Marco si rimise in tasca il cellulare e si accodò sbuffando. Arrivarono a San Basilio che albeggiava. Via Luigi Gigliotti era deserta, anche se i falansteri sbreccati delle case occupate – occupate da sempre e da dio solo sa chi, ormai – sembravano percorsi da una qualche forma di vita vigile. Che si manifestava con improvvise apparizioni di ombre all’interno dei cortili e degli androni. Ragazzotti intabarrati in giacconi scuri e zuccotti di lana calati sulla testa. – Dove diavolo siamo? – chiese De Candia, disorientato. – Mezzo giro di grande raccordo anulare a nordest, – rispose Alice. – Bene. Ora ne so meno di prima. – Siamo al Negozio di Roma, – disse Marco. – Il negozio? Che vuol dire? – Il piú grande centro di spaccio della città, amico mio. Un supermercato dello sballo a prezzi da saldo. Diciamo che è l’outlet degli Anacleti, – proseguí Marco.

– Ma tu, Alice, non avevi fame di dolci? – interruppe De Candia. – Già, – fece lei. – Per questo siamo qui. Perché in questo posto, oltre alla coca, all’hashish e all’eroina c’è anche un buco con i migliori cornetti della città. Indicò una porta in alluminio anodizzato che si apriva sul marciapiede di via Recanati. Avvolti da un inebriante profumo di lieviti, scesero una ripida rampa di scale, che introduceva al cuore seminterrato di un minuscolo laboratorio di pasticceria. Di fronte a due grandi forni in alluminio, due ragazzi maghrebini imburravano gigantesche teglie, mentre un uomo corpulento sulla sessantina li sorvegliava con uno sguardo apparentemente distratto. Alice lo abbracciò con l’affetto per un padre. – Lui è Mario. Mario, loro sono Marco e Michelangelo. – Uhm, me sanno tanto de sbirri… senza offesa, eh! Alice, nun me di’ che mo’ te la fai co’ la madama, – sorrise il pasticciere. Marco avvampò. Michelangelo decise di stare allo scherzo. – Diciamo che Alice ha usato la notte per metterci alla prova. Nessuno compra a scatola chiusa. – E com’è che stai da ’ste parti? – Un giro. Michelangelo conosce poco Roma. – È la verità, – allargò le braccia De Candia. – Questa nun è Roma. Questo nun è piú gnente. Mario raccontò ai tre degli ultimi morti ammazzati nel quartiere. Un pischello di quindici anni dissanguato dopo una rissa. Un paio di pusher. Un tipo della Torraccia – il nuovo lembo di San Basilio oltre il Gra – che aveva detto due parole di troppo di fronte a una pompa di benzina selfservice. – È pieno de’ cani rabbiosi e senza padrone, – disse Mario scuotendo la testa mentre caricava di cornetti, bombe e ciambelle un vassoietto di cartone per gli ospiti. – So’ pippati fracichi. Dalla mattina alla sera. E se credono de comanda’. Invece nun contano un cazzo. Vendono la roba dell’Anacleti e pensano da esse’ padreterni. Peccato che so’ solo dei poveri stronzi. Ma ve l’ho detto. Questa non è piú Roma. Pure l’uccelli hanno imbruttito. L’altro giorno, qui davanti, un gabbiano s’è magnato un gatto vivo. Risalirono in strada con il sole delle sette e mezzo del mattino. Michelangelo si fece pensieroso. – Secondo me ci hai preso, Marco. Ma su che elementi dovrei muovermi? Un progetto, finché resta sulla carta, è un progetto fantasma. Portami prove, solide e concrete prove. E agiremo. Ma non prima. Alice sbadigliò. Le bruciavano gli occhi dal sonno, ma aveva imparato molte cose in quella strana notte. E alcune sue certezze, che sino a un istante prima aveva creduto granitiche, ora vacillavano. Era costretta ad ammettere che lo stato, il potere, il sistema, la casta o come diavolo si volessero definire le entità alle quali appartenevano quei due, non si potevano considerare una massa ottusa e compatta alla quale contrapporre soltanto dei «no» risoluti. In una parola, sentí che cominciava a fidarsi di Marco e di Michelangelo. – Questa roba, sapete, – disse, – dovremmo metterla in rete. Succederà un casino, e qualcuno verrà allo scoperto. Gettiamo un sasso nello stagno, e vediamo se i pesci vengono a galla. – Idea pericolosa, irrituale e anche illegale, – tagliò corto De Candia. Idea bocciata.

XXXVI. Stavolta il Numero Otto aveva fatto la cazzata della vita. Zio Nino non aveva chiuso occhio. Su e giú nella cella. Su e giú. Al mattino, si chiamò a colloquio in carcere l’avvocato Parisi. E per dissimulare l’agitazione fece la voce grossa. Gli disse che Cesare non si poteva né doveva toccare. Spiegò che, certo, era indifendibile, e aveva fatto non una, ma tre cazzate. Che la sua impennata rischiava di mandare tutto a monte. Che in qualunque altra situazione, per una simile idiozia, non poteva esistere punizione diversa dalla morte. – Ma è mio nipote, avvoca’, sangue del mio sangue, un figlio per me. ’Sta cosa la dobbiamo risolvere fra noi. – Rocco Anacleti è andato fuori di testa, zio Nino. – E te credo, ci ha le sue ragioni… L’ho visto, sai, è passato qua in transito. Stava proprio ridotto male. Ma tu fa’ ’na cosa. Vammi a trovare Denis, che è uno sveglio. Deve dare un par de centomila alle famiglie di quei due disgraziati. Poi fai sapere agli Anacleti che se passano sopra a questa cosa gli aumentiamo la percentuale del venticinque per cento. – Per riuscire a chiuderla cosí dobbiamo sentire anche gli altri, – osservò Parisi, pragmatico. – E tu informali. Parla con Rocco, parla con Ciro, parla col Samurai, parla co’ Gesú Cristo e la Madonna, ma fallo presto. E a Cesaretto digli che paghi e che per un po’ nun se facesse vede’ in giro. – Va bene, zio Nino. Certo, quello che mi chiedi non è proprio mestiere di avvocato… Zio Nino montò su tutte le furie. Ah, e mo’ se ricordava della correttezza professionale, ’sta narice leggendaria, ’sto puttaniere inveterato, mo’ se tirava indietro, dopo che era stato coperto d’oro e de polvere bianca. – Volevo solo dire che non sarà una passeggiata, zio Nino, – si affrettò a precisare Parisi. Zio Nino capí l’antifona: come sempre la sanguisuga in toga nera batteva cassa. Era solo questione di soldi. Sempre lí andavano a parare, uomini senza onore che dietro ’sta mutanda sporca chiamata legge nascondevano le loro luride vergogne. – Sta bene. Domani te faccio fa’ un bonifico sul conto che sai. – Sempre obbligato, zio Nino. Quella sera stessa Parisi andò all’Off-Shore. Denis e Robertino gli dissero che Ernummerootto s’era preso qualche giorno di pausa. Deficiente, ma certo non suicida, pensò Parisi, e chiese a Denis di accompagnarlo nella villetta a Campo di Carne, feudo di una famiglia calabrese federata ai Perri, dove Ernummerootto s’era rifugiato con Morgana. L’avvocato spiegò la situazione mentre Morgana, a seno nudo, fumava crack da una bottiglia coperta da uno straccio color lillà. Quando apprese che gli si chiedevano, a titolo di buona volontà, duecento pali, Ernummerootto, gli occhi fuori dalle orbite, se ne uscí con una grassa risata. – Io a loro? Ma so’ quelle due merde che me dovrebbero risarci’, che me volevano fa’ secco, mortacci loro. ’O sai come se chiama quello che ho fatto, avvoca’? Legittima difesa, se chiama. Parisi fece presente che si trattava di un ordine di zio Nino e il ragazzo abbassò all’istante la cresta. Assicurò l’avvocato Parisi che avrebbe provveduto nel giro di ventiquattr’ore. Rinfrancato da quel primo successo, Parisi convocò a studio gli Anacleti ancora a piede libero. Ascoltata la proposta, gli zingari si mostrarono possibilisti. Un trenta per cento, però, specificò Silvio, uno dei tanti nipoti dell’interminabile genia, uno con cui si poteva parlare, sarebbe stato preferibile. E in ogni caso, prima di impegnare la parola, si sarebbe dovuto consultare Rocco. – Ancora qualche giorno di pazienza e ve lo tiro fuori, – li rassicurò Parisi. Gli Anacleti ripiegarono in buon ordine, bofonchiando le loro incomprensibili litanie gitane.

Il messaggio per Ciro Viglione e Rocco Perri fu affidato al dottor Temistocle Malgradi. Il napoletano e il calabrese si incontrarono a Villa Marianna. Ne avevano entrambi piene le tasche di quell’insensato casino, e si dissero pronti a sottoscrivere qualunque soluzione avesse riportato la calma: anche perché zio Nino, accollandosi il debito del nipote, si era dimostrato uomo intelligente. Poiché le pratiche per la scarcerazione di Rocco andavano per le lunghe – la faccenda stava in mano a ’sto De Candia, una toga rossa, e che te lo dico a fare –, Silvio Anacleti andò all’Albergo Roma, e, nel corso di un tempestoso colloquio, riuscí a convincere Rocco dell’accordo. In capo a una settimana, il nuovo patto era sottoscritto. Ma tutto quell’ottimismo non era giustificato. C’era qualcuno che ancora non aveva detto la sua. Il Samurai. Alle ripetute sollecitazioni di Parisi aveva opposto un incomprensibile silenzio. E negli ultimi due giorni, proprio mentre l’affare sembrava concluso con generale soddisfazione, aveva smesso di rispondere alle sue chiamate su Skype. L’avvocato si chiese se non fosse il caso di informare gli altri. Se ne astenne perché temeva di essersi già spinto oltre, e perché immaginava che il Samurai, nella sua notoria lungimiranza, non si sarebbe messo contro gli altri. Nessuno aveva ancora compreso di che pasta fosse fatto il Samurai. Ormai sicuro di sé, certo che la buriana fosse passata, Ernummerootto s’insediò all’Off-Shore e, per festeggiare il ritorno da vincitore, organizzò una memorabile festa privata. Tanto memorabile che verso le quattro di una notte battuta dalla tramontana se ne uscí tutto solo, a smaltire i fiumi di alcol e i fumi di droga. Aveva appena percorso pochi passi, e s’era accesa una sigaretta normale, quando si vide affiancare da un Audi Q7 bianco. Il vetro oscurato del lato passeggero si abbassò e una voce nota pronunciò il suo nome. – Cesare! Max si sporgeva verso di lui, un sorriso amichevole stampato sul volto di solito tenebroso. D’istinto, la mano corse alla pistola che teneva infilata nella cinta dei calzoni, la canna a contatto del gluteo. – Che cazzo vuoi? È finito tutto, no? Max smontò e si avvicinò a lui con le mani alzate. Ernummerootto lo perquisí. Era disarmato. – Il Samurai vuole vederti. – E nun poteva arza’ er culo e veni’ alla festa? V’avevo pure invitati. – Lo sai com’è fatto. Non ama il chiasso. – Vabbe’, mo’ so’ stonato. Dije che ripassi domani. – Come vuoi, – sospirò Max avviandosi verso il Suv, – gli dirò che l’affare non ti interessa. – Come, affare? Di che cazzo stai a parla’? Aspetta, fermati, oh! – Un affare grosso, Cesare. Una tonnellata di cocaina. – Ma tu guarda. E perché de botto er Samurai s’è ricordato de me? – Perché il carico va per mare e l’approdo è qua, e questa, se non sbaglio, è zona tua. Ernummerootto si gonfiò tutto. E già! E finalmente le cose se rimettevano a posto. E quanto aveva fatto bene a parcheggia’ quei due ’nfami. E ora tutti sapevano chi era Ernummerootto e con chi avevano a che fare. Persino il Samurai aveva fatto pippa. Se voleva importare la sua roba, era con lui che doveva fare i conti. Il Samurai che chiedeva il suo aiuto. Zio Nino sarebbe scoppiato di felicità.

– Sta bene. ’Ndo’ sta er giapponese? – Ti ci porto io. Strada facendo, si divertí a provocare il fedele scudiero del Samurai. – Dimme un po’, Max, ma è vera ’sta storia del Pigna? Quello che il Samurai gli avrebbe staccato la testa co’ lo spadone? – Cosí ho sentito dire. – Grazie. Pur’io l’ho sentito dire. Solo che né tu né io c’eravamo, no? E a me risulta che il soprannome Samurai gliel’ha messo il Dandi quando se so’ ’ncontrati in galera e il padrone tuo era solo un pischello. – Il Samurai non è il mio padrone, Nummerootto. Gli uomini non hanno padroni. – Ah, davvero? Ma se gli stai sempre appresso come un cagnolino. – Il Samurai è il mio maestro. Ma tu non puoi capire. – A’ filosofo, famme ’na cortesia. Lassa perde’. Il Samurai li aspettava sulla spiaggia di Capocotta, fra le dune. Faceva freddo, molto freddo, ma il Samurai, nel suo eterno completo nero, le mani in tasca, il volto scoperto, sembrava indifferente al clima, al vento tagliente, al fragore della risacca che penetrava schiumando la battigia disseminata di legni fradici, palanche ossidate, gusci di crostacei, buste di plastica. Forse, per un istante, il pensiero di essere finito in un vicolo cieco attraversò la mente ottenebrata del Numero Otto. Se avesse cacciato il ferro in quel momento, forse sarebbe riuscito ancora a cavarsela. Ma perché darsi tanta pena, in fondo: se volevano beccarlo, potevano farlo all’uscita dell’Off-Shore, potevano aspettarlo sotto casa a piazza Gasparri, potevano. D’altronde, non c’era stato un accordo? Chi era ’sto cazzo de Samurai per mettersi contro tutti? Mostrarsi codardi, in un momento simile, significava perdere la faccia. Perciò Cesare Adami si avviò spavaldo verso la figura che se ne stava immobile fra le dune. – Allora, Samura’, ’sta tonnellata de robba? Il Samurai si rivolse a Max, ignorandolo. – Max, se vuoi scusarci… Cesare e io dobbiamo parlare. Max restò interdetto. Il Samurai gli aveva detto che prendeva atto dell’accordo, ma che voleva parlare a quattr’occhi con il Numero Otto. Si era fatto lasciare in spiaggia tre, forse quattro ore prima. Era rimasto tutto quel tempo in attesa. Max non aveva idea di quali fossero le sue intenzioni. Il Samurai raramente dava spiegazioni, e quelle poche volte le sue parole non si potevano prendere alla lettera, ma andavano interpretate. E adesso perché lo allontanava? Forse lo stava mettendo alla prova. Forse voleva che restasse. Gli chiedeva di disobbedire? – Mi fermo qui vicino. – È una tua scelta, – commentò, asciutto, il Samurai. Il Numero Otto ne aveva abbastanza di quel balletto. Ma che, quei due erano fidanzati? Sta’ a vedere che er Samurai… e sí che nessuno l’aveva mai visto in compagnia de ’na fica come se deve… l’immagine di un accoppiamento fra l’algido nazista e il filosofo gli provocò un accesso di risa. – A’ Samura’, s’è fatta ’na certa, si nun te dispiace… – singhiozzò, infine, quando riuscí a recuperare un minimo di compostezza. Il Samurai estrasse le mani dalle tasche, se lo prese sottobraccio e si avviò verso la battigia. – Vedi, Cesare, ci sono tre componenti che fanno un uomo. Un uomo degno di chiamarsi tale, intendo dire. E sono il cuore, il fegato e il cervello.

– Seeh, seeh, ho capito, ma ’sta nave de coca? – Gli arabi, quando nasce un figlio, lo chiamano «il mio fegato che cammina». Potrei spiegarti il senso della metafora, ma dubito che la comprenderesti… anzi, sono certo che non la comprenderesti. – Samura’… – Aspetta, aspetta. Il cuore puoi immaginare da te che senso abbia. Ardimento, coraggio, generosità. Tutte qualità positive, ma che di per sé non fanno un uomo, cosí come non lo fa il fegato. Perché di tutte le qualità che un uomo deve possedere, la piú importante è il cervello. – Samurai, scusa… Il Samurai si arrestò e lo fissò negli occhi. Quello sguardo da rettile metteva i brividi lungo la schiena, era una calamita alla quale non ci si poteva sottrarre. – Sfortunatamente, – riprese il Samurai, questa volta con una certa mestizia, – tu sei privo di tutte queste qualità. Non hai fegato, perché sei bravo a sparare ma poi corri subito a nasconderti per paura che la marachella venga scoperta e punita. Non hai cuore, perché sei bravo a sparare, sí, ma alle spalle, e non avrai mai il coraggio di fissare negli occhi la tua vittima. Soprattutto, non hai cervello, perché spari a casaccio, spari prima di pensare alle conseguenze. E questo è male, Cesare, molto male. Il Numero Otto capí che le cose stavano prendendo una brutta piega e cercò di afferrare la sua arma. Si ritrovò la canna della Mannlicher in mezzo agli occhi. Il Samurai gli sfilò dalla cinta il revolver .357 magnum e lo intascò. – Samurai, io so’ protetto da zio Nino. Si te me tocchi, zio Nino te magna er core. A te e a quell’altro frescone che te porti appresso. – Mettiti in ginocchio. – A’ Samura’, e basta, finimola qua. Io me dimentico de te, e tu te dimentichi de me. – In ginocchio, ho detto! Il Numero Otto scivolò sulla sabbia bagnata. – Te dò metà della parte mia, Samurai. Il settantacinque. Tutto te dò, tutto! – Lo vedi come sei limitato? – sospirò il Samurai. – Anche in un momento come questo. Alle soglie del supremo… tu pensi solo ai soldi. – Ma che cazzo, Samurai! Cesare Adami cominciò a piangere. Il Samurai scuoteva la testa. Tutta quella sofferenza, in fondo inutile, visto che ciò che doveva essere fatto era già deciso, lo irritava. Ma c’era ancora qualcosa da dire. Perché la lezione fosse esemplare. – Quanti ne ho conosciuti come te… Uno era tuo padre, sai, quello che metteva l’uccello dove non doveva, che si divertiva a torturare le donne, quello che poi faceva soffiate alle guardie… Lo giustiziammo. Era la cosa da fare. In quel tempo, – concluse il Samurai in un sussurro, – credevamo ancora che esistesse qualcosa di simile alla giustizia. La nostra giustizia. – Samuraaa’… Una raffica di vento si portò via l’eco della detonazione. Distante qualche metro, Max aveva seguito la scena. Dalla sua posizione non riusciva a percepire il dialogo, ma il senso della situazione era chiaro. Non si trattava di una punizione. Quella era la morte. Il Samurai gli aveva lasciato libertà di scelta. Come un buon padre. Ed era stato lui a decidere di restare.

Aveva tutti gli elementi per decidere. E aveva deciso. Non aveva mai ucciso, fino a quel momento. Restando al fianco del Samurai aveva fatto la cosa giusta. Quando il corpo del Numero Otto si abbatté sulla sabbia, Max si riscosse dalla trance. Rapidi sussulti scuotevano Cesare Adami. È orribile, pensò Max. Si allontanò di qualche passo per vomitare. Il Samurai lo raggiunse e gli pose una mano sulla spalla. – È la linea d’ombra, Max. Da qui non si torna piú indietro. Aiutami a smontare le armi. Poi le getteremo in mare. Il loro compito si è esaurito. Il tuo è appena all’inizio.

XXXVII. A braccia conserte, piantato a gambe leggermente divaricate nella sabbia di Capocotta, Marco Malatesta osservò gli addetti del servizio mortuario dell’Ama, l’azienda dei rifiuti, sollevare il cadavere di Adami e adagiarlo nella cassa di zinco destinata all’istituto di Medicina legale. Lo aveva ucciso un solo colpo. Sparato dritto in mezzo agli occhi. Ma il proiettile che gli aveva devastato il cranio, come era stato subito chiaro constatando la mancanza di un foro di uscita, era stato trattenuto. I Pm Setola e De Candia piombarono entrambi sulla scena del crimine, ciascuno con la propria squadretta investigativa al seguito. Una scena surreale. Roba da sganasciarsi, se non ci fosse stata di mezzo una guerra di mala come non si vedeva da tempo a Roma. E che di guerra si trattasse, ormai se n’era convinto persino il futile Setola. Che, anzi, dalla sicurezza che ostentava nel concionarne, si sarebbe detto il piú tenace assertore di una teoria che, sino a poche ore prima, aveva ridicolizzato. Sotto lo sguardo ironico di Marco e Michelangelo, Setola si dedicava al suo passatempo preferito: impartire a gran voce a destra e a manca disposizioni contraddittorie e sostanzialmente prive di senso. C’era poco però da ironizzare. La mattanza sembrava non avere fine. Marco si era appena accesa l’ennesima sigaretta quando ricevette una telefonata. Rapisarda voleva vederlo. Immediatamente. Scambiò un cenno di saluto con De Candia e si avviò. La caserma Pisacane sorgeva in fondo al viale di Tor di Quinto, antico boulevard del mercimonio, dove generazioni di adolescenti avevano fantasticato sulle professioniste della strada illuminate da rustici focaracci. L’ultima volta che Marco l’aveva vista era stato alla televisione. In quei giorni era impegnato in una missione. Insieme a un prete, un cristiano copto d’Egitto, cercava di salvare da un destino atroce cinquanta profughi eritrei che stavano marcendo in container seppelliti nel torrido deserto libico. Aveva contro i predoni locali, le potenze preoccupate di non turbare delicati equilibri, il suo stesso governo. Da un servizio di Al Jazeera captato su un apparecchio di fortuna, in una baracca, esausto dopo una giornata di sforzi improduttivi, aveva conosciuto la sua definitiva umiliazione come carabiniere e come italiano. Su un palco montato al centro del galoppatoio della caserma e di rara oscenità cromatica, in cui il tricolore abbracciava la bandiera della libica Jamāhīriyya, Mu‘ammar Gheddafi, vestito di un caffettano bianco, aveva arringato per quaranta minuti il presidente del consiglio Silvio Berlusconi, ottocento papaveri scelti dell’italica classe dirigente, i carabinieri del quarto reggimento a cavallo. Erano schierati in alta uniforme per un carosello equestre riparatore in onore di quel dittatore sanguinario e del secondo anniversario del Trattato di amicizia Italia-Libia. Quella testa di pezza del colonnello Mu‘ammar si era permesso di spiegare che gli amici italiani gli avrebbero garantito cinque miliardi di euro all’anno per evitare che l’Europa diventasse Africa nera. Proprio cosí, aveva detto. Africa nera. Se non volete che inondi il Mediterraneo della disperazione del Sud del mondo, mettete mano alla saccoccia. Altro che liberare i profughi eritrei. L’ordine internazionale li voleva morti, quei poveracci. Il benessere esigeva il loro sacrificio. Morti, che era il modo migliore per levarseli dai coglioni. Naturalmente, sui palchi delle autorità, era stato tutto un annuire. E tra le teste chine e compiaciute su cui le telecamere avevano a lungo indugiato, Marco aveva riconosciuto non solo quelle dei nostri ministri, venditori d’armi e banchieri, ma anche quella del generale Rapisarda, sua eccellenza il generale di corpo d’armata e comandante della divisione Custoza. Il padrone di casa di quella indecente carnevalata. L’uomo che ora lo aspettava con impazienza, come gli ricordò la voce del piantone alla sbarra. Dopo un’ora di anticamera, fu introdotto nel sancta sanctorum. Rapisarda, chino su una scrivania

ingombra di cestini d’argento ricolmi di caramelle Perugina e torroncini Venchi, finse di farsi trovare sorpreso a scrivere chi sa quale delicato appunto. E il «Comandi» pronunciato in modo stentoreo dal colonnello si trasformò in un saluto al riporto del generale. Senza sollevare lo sguardo dal foglio su cui continuava a scarabocchiare indecifrabili zampe di gallina, Rapisarda lo invitò ad accomodarsi. Trascorsero almeno due minuti di un silenzio che Marco si guardò bene dall’interrompere. Finché non fu Rapisarda a prendere l’iniziativa. – Ci rivediamo, colonnello. – È un onore, generale. – La trovo in forma, colonnello. – Lei non è da meno, generale. – Troppo buono, colonnello. Lei ha idea del motivo di questa convocazione? – Francamente no, signor generale. La voce di Rapisarda salí d’intensità, l’intonazione si fece aspra. La scaramuccia finiva, cominciava il vero duello. – Cosa diavolo sta succedendo a Roma, colonnello? – Una guerra, signor generale. E temo che questa volta non si potrà far finta di niente. Rapisarda restò senza parole. Quella era una provocazione. Un’aperta provocazione. Ai limiti del vilipendio. Ma che si era messo in testa? Il telefono fisso di Rapisarda lampeggiò. Il generale si avventò sull’apparecchio. – Non ci sono per nessuno! Ah, capisco… me lo passi… Dottore carissimo… Marco ascoltò suo malgrado. E si dominò per non scoppiare a ridere. Il «dottore carissimo» era un pezzo grosso della televisione. Invitava Rapisarda a un talk-show sull’escalation criminale a Roma. Il generale si metteva subito a disposizione. I due si accordarono su come piazzare in studio il plastico che doveva ricostruire lo scenario dell’esecuzione del Numero Otto, e convennero sull’opportunità di una scheda riassuntiva: ma per favore, implorò Rapisarda, basta con questo Pasolini. Rapisarda tornò a concentrarsi sull’indisponente subordinato. – Lei sta abusando della mia pazienza, Malatesta. Lei e quel pubblico ministero, una toga rossa, ovviamente. – Con tutto il rispetto… – Non si azzardi a interrompermi! Io devo delle risposte. Le devo al paese. Lei lo sa che con il morto di stanotte a Capocotta siamo a cinque omicidi? Cin-que! Ha letto cos’hanno scritto i giornali dopo l’Idroscalo? Un’esecuzione «pasoliniana». E che palle! Zitto, non fiati! Guerra! Lei parla di guerra. Va bene. Ammettiamolo. Quattro banditi che sparacchiano contro altri quattro banditi. Prendiamoli e facciamola finita. Questo ci chiede l’opinione pubblica, per la miseria! – La situazione è piú complicata, – s’inserí, asciutto, Marco, – e lo scenario decisamente piú complesso. – Ancora? Che fa adesso, colonnello, mi vuole dire che arriviamo a qualche bella loggia di massoni? La P5, la P6? La nuova banda della Magliana? Rapisarda cominciò a ridere da solo, mentre Malatesta si mise a fissare il ciuffo di peli che ostruiva l’orecchio destro del generale e la batteria di lustrini che gli tempestava il petto dell’uniforme. Cosí come era cominciata, la risata del generale si interruppe di colpo. – Buon lavoro, colonnello. E mi saluti De Roche. Malatesta scattò sull’attenti.

– Ah, un’ultima cosa, colonnello. Una sciocchezza, forse. Si dice che lei frequenti certi ambienti… come definirli… eversivi? Antagonisti? Voglio pensare che sia una malignità. Ma non mi convinca del contrario. Buona giornata, colonnello. E mi scusi se non le ho offerto neanche un caffè, ma ne avevo già presi due aspettandola. Malatesta si richiuse la porta alle spalle. Ripensò alla faccia di Gheddafi su cui la Nato si preparava a scatenare un inferno di fuoco. Ripensò allo sguardo del caposquadrone del quarto reggimento a cavallo mentre presentava le armi al dittatore. Al diavolo. Piombò a casa di Alice, sorpresa di vederlo cosí di cattivo umore. Lei, invece, era raggiante. Un famoso cantante rock le aveva chiesto di rimettere in sesto il suo sito, piuttosto antiquato. Un lavoro pagato, e pagato anche bene! E, soprattutto, un lavoro eticamente compatibile: la rockstar era nota per il suo impegno animalista, ecologista, per la legalità, eccetera. – Io invece ti offro un lavoro assolutamente gratuito e rischioso, Alice. – Suona interessante. Di che si tratta? – Waterfront, housing sociale. Mettiamo tutto in rete. Il progetto, lo studio di fattibilità degli architetti, tutto. Gettiamo il sasso nello stagno, come hai proposto tu. – Mi servirà qualche giorno. – Prenditi tutto il tempo che vuoi. E… benvenuta nel gioco sporchissimo.

XXXVIII. Seduto in una Toyota Avensis grigia metalizzata, parcheggiata sul piazzale antistante la chiesa di Santa Maria Regina Pacis, il colonnello Malatesta indicò al tenente Gaudino, che era al volante, l’arrivo del corteo funebre. E, via radio, si raccomandò ai ragazzi in borghese del reparto, che aveva disposto sui lati della piazza e lungo le navate interne, di cominciare a scattare in digitale. Trainato da una quadriga di stalloni bai Haflinger fatti arrivare dal Tirolo, il coso semovente sembrava il cocchio di Cenerentola. Ma era il carro funebre per l’ultimo viaggio di Cesare Adami, Ernummerootto. Le bestie, bardate di pennacchi neri, avevano finimenti in ottone; li legava alla carrozza una catena che, oscillando, produceva un suono che potevi confondere con un rumore di campanelli. Sistemata su un immenso cuscino di rose rosse e bianche, la bara in mogano occupava l’intera lunghezza della carrozza dalla vernice nera laccata, ed era avvolta da un grande drappo nero con al centro l’8 bianco, il numero dell’ultima palla che va in buca al biliardo. A cassetta, le briglie in mano, sedeva un tipo segaligno in un liso completo nero e tuba in testa. Aveva l’aria svogliata del beccamorto che normalmente viaggia per cimiteri sui catafalchi Mercedes metallizzati e a cui era stato chiesto un fuori programma. Ma agli Adami nessuno avrebbe detto di no. Zio Nino aveva stabilito che Cesaretto se ne doveva andare con tutti gli onori di un capo, quale bene o male era stato. Che il suo funerale, a Ostia, nessuno avrebbe dovuto dimenticarlo. Il sole rendeva tiepida la mattina. Il mare era calmo e alitava un odore salmastro. La carrozza era partita da piazza Gasparri. Aveva imboccato il lungomare e impiegato quasi quaranta minuti per raggiungere la chiesa della Regina Pacis. Il traffico era stato bloccato da solerti pattuglie della municipale, e la folla che si andava gonfiando al suo passaggio si aggregò spontaneamente dietro il feretro. Ansiosa di esserci, ma soprattutto preoccupata di farsi vedere. I pischelli erano molti: non mancava nessuno dei nuclei familiari che abitavano i blocchi condominiali di Ponente. I negozi avevano abbassato le saracinesche. Il tenente Gaudino era rapito. – Funerali cosí li avevo visti solo a Forcella e nei Quartieri Spagnoli. La camorra ha fatto scuola. Ma se le dovessi dire che sono sorpreso, colonnello, le direi una bugia. Una buona parte di Ostia, oggi, non ha scelta. O sta qui, o sta qui. Cesare Adami era un violento e non ha mai avuto il carisma dello zio. La sua era l’obbedienza della paura. Ma il capo era lui. – E adesso? – E adesso comincerà la successione. Direi che la scelta di Nino Adami non potrà che ricadere su Denis Sale. È il suo figlioccio, e da quel poco che sentiamo in giro ha piú materia grigia del tipo che oggi sotterrano. Pare sia persino piú cattivo. È già in chiesa. L’ho visto entrare prima insieme a una ragazzina che dicono fosse la donna di Adami. Si chiama Morgana. A occhio, una tossica, direi… – Li intercettiamo tutti, tenente. Le farò avere quanto prima i decreti. – Servisse a qualcosa… Questi piú muti delle pezzogne di Castellabbate sono… Toh, guarda chi c’è! Nel piazzale di fronte alla Regina Pacis, ormai svuotato della folla che si era stipata nella chiesa, un furgone per il trasporto detenuti della polizia penitenziaria si fermò a poca distanza dal carro funebre che, con il feretro a bordo, era rimasto in solitaria attesa, mentre la quadriga di Haflinger liberava sull’asfalto le viscere contratte dallo sforzo. I portelloni posteriori del Ducato blu notte con i vetri oscurati si spalancarono per far scendere un vecchio in un cappotto di cammello, visibilmente provato. Antonio Adami. Zio Nino.

Aveva chiesto e ottenuto dal giudice di sorveglianza un permesso speciale per l’ultimo saluto all’unico nipote. E per qualcosa di piú. Che però aveva tenuto per sé. Appena sceso dal mezzo, il vecchio allungò i polsi a due agenti penitenziari che lo liberarono degli schiavettoni, mettendosi ai suoi fianchi. Fece alcuni passi verso il cocchio. Si inginocchiò segnandosi la fronte e restò a capo chino qualche minuto. Quindi, rialzandosi con studiata e teatrale lentezza, fece un gesto all’indirizzo del becchino seduto a cassetta. E, immediatamente, dal colonnato della chiesa si staccarono quattro pischelli in jeans e giubbotto di pelle che, caricandosi in spalla la bara e attenti a non stropicciarne il drappo nero che la avvolgeva, la portarono nella grande navata centrale della Regina Pacis. Dalla cantoria si levarono possenti le note dell’organo a canne, e in uno dei banchi piú prossimi all’altare, Denis Sale strinse a sé, cingendole le spalle, Morgana. I suoi occhi erano asciutti, la pelle bianchissima, quasi traslucida, e il leggero trucco di matita le donava uno sguardo glaciale. La ragazza gli si avvicinò all’orecchio, attenta a scandire le parole, perché non andassero perdute nel tono sussurrato con cui le pronunciò. – Quel bastardo del Samurai morirà. Denis annuí e aggiunse: – Devo capi’ se era da solo. – È arrivato zio Nino, – sussurrò Morgana. Libero della scorta, il vecchio Adami prese posto nel primo banco di fronte all’altare. Tra Robertino, che continuava a piangere come un bambino, e Moira, la barista di piazza Gasparri, strizzata in un abito di raso nero e combattuta tra l’emozione dell’ultimo saluto a Cesaretto e la vista improvvisa dell’unico uomo che aveva veramente amato nella sua vita storta. Zio Nino le fece il baciamano spizzando la farfalla avvizzita che le marchiava il décolleté, quindi baciò sulle guance Robertino, sussurrandogli all’orecchio il vero motivo per cui era lí. – Lo vendicheremo. Sull’altare, don Fernando, il parroco di Regina Pacis, dimostrava coraggio. – Cosa ci dice il Siracide? «Il rancore e l’ira sono un abominio, e il peccatore li possiede. Chi si vendica avrà la vendetta del Signore ed Egli terrà presenti i suoi peccati. Perdona l’offesa al tuo prossimo e allora per la tua preghiera ti saranno rimessi i tuoi peccati. Se qualcuno conserva la collera verso un altro uomo, come oserà chiedere la guarigione al Signore? Egli non ha misericordia per l’uomo suo simile e osa pregare per i suoi peccati? Egli, che è soltanto carne, conserva rancore: chi perdonerà i suoi peccati?» Dal fondo della chiesa, appoggiato a un’acquasantiera, Malatesta ascoltava l’omelia, provando a indovinare nella siepe di teste chine dell’ecclesia qualche volto noto. La voce del parroco si era fatta quasi un’implorazione. Purtroppo inutile, se avesse dovuto scommettere. Ma comunque faceva la sua parte. – Ricordati della tua fine e smetti di odiare, ricordati della tua fine, della tua distruzione e della morte, e presta umiltà ai comandamenti. Ricordati dei comandamenti e non avere rancore verso il prossimo: ricordati dell’alleanza con l’Altissimo e non far conto dell’offesa subita. Preghiamo. Denis continuava a girarsi lentamente, per una rapida conta di chi c’era e chi no. Perché anche quella sarebbe diventata prova inappellabile della condanna a morte del Samurai. Finché non si sentí toccare la spalla. Era Rocco Perri. I calabresi erano gente con una sola parola. Perri con il Numero Otto faceva il grano da anni con la cocaina e le slotmachine. Se era lí, quello che stava per ascoltare non poteva né doveva essere messo in dubbio.

– Ti porto i saluti di don Ciro. Non stava bene. Ma faceva troppo freddo per uscire dalla clinica. E ci sono pure troppi scarafaggi in borghese qui intorno. Denis annuí. Perri si fece ancora piú vicino al suo orecchio. – Ascolta a me, ché ormai tengo un’età. Gli Anacleti non c’entrano. Rocco stava dentro. L’ordine non è partito da lui. Anzi. Grazie alla generosità di zio Nino avevamo raggiunto la quadra. Erano d’accordo tutti. Io, Viglione, zio Nino, e naturalmente Rocco Anacleti. Persino Cesare si era convinto. Per Paja e Fieno gli zingari prendevano un bel po’ di nichili. Il venticinque per cento di un carico nuovo. Denis inspirò profondamente. – E quello stronzetto di Max? – Non tiene le palle. E poi, perché doveva ammazzare a Cesare? Comunque, visto che zio Nino è qui, puoi chiedere a lui. – Allora il Samurai ha fatto tutto da solo? Perri tacque. Diede un colpetto di complice intesa sulla spalla di Denis e si avviò lungo una delle navate laterali. Quella presidiata da Malatesta. I due si scambiarono uno sguardo. Al colonnello quella faccia diceva qualcosa. Ma non riusciva a mettere a fuoco nulla. Lo seguí rimanendo a distanza, e quando lo vide sul piazzale salire sulla Bmw nera che lo aspettava, scattò qualche foto con l’iPhone. Don Fernando protese l’aspersorio di incenso verso la bara, benedicendo la salma e il drappo nero che la avvolgeva. – Oh, Dio, che ci hai resi partecipi del mistero del Cristo crocifisso e risorto per la nostra salvezza, fa’ che il nostro fratello Cesare, liberato dai vincoli della morte, sia unito alla comunità dei santi nella Pasqua eterna. Per Cristo nostro signore. Amen. Il suono pastoso dell’organo riempí di nuovo la chiesa. Zio Nino per la prima volta si staccò dal banco dove era rimasto per l’intera cerimonia. Si rivolse ai due agenti della penitenziaria che aveva dietro di sé e che lo sollecitavano a guadagnare l’uscita per risalire sul furgone che lo avrebbe portato all’Albergo Roma. Indicò Denis e Morgana. – Mi date solo un minuto? Vorrei abbracciare quei due ragazzi. Sono il fratello e la sorella che Cesare non ha avuto. Fece qualche passo e si strinse al petto Denis e Morgana. – Maledetto Samurai! – disse piano Denis. – Shhh, shhh. Sei intelligente, figlio mio. Shhh. Shhh. Non ora, non ora, – soffiò zio Nino come se stesse rassicurando un bambino. Quindi pronunciò quelle parole che Denis aspettava da una vita. – Ora tocca a te. Zio Nino liberò dall’abbraccio Denis e Morgana, si richiuse il cappotto di cammello e si consegnò docile alla scorta. L’organo aveva smesso di suonare e la folla, ancora in chiesa, attendeva l’uscita del feretro. Da un lato dell’altare sbucò Spartaco Liberati. Aveva gli occhi gonfi e rossi, e in una mano stringeva le sciarpe di Roma e Barcellona annodate tra loro. Le depose sulla bara e fece cenno a un sacrestano che se ne stava in piedi vicino alla consolle dell’organo. Partirono le note del Gladiatore e la chiesa si sciolse in un applauso fragoroso. Liberati si avvicinò a Denis e Morgana tendendo la mano. – Ho perso un fratello. Cesare era un fratello. Denis lo guardò con disprezzo. Che si credeva quella merda? Che forse lui non sapeva che era al libro paga del Samurai? Le sue mani, giunte in grembo, rimasero immobili. Lo sguardo non cessò di

gelare il sangue di Liberati, finché non lo costrinse a un’ultima umiliazione. – Ahò, Denis. So’ d’accordo coi ragazzi che domenica mettemo ’o striscione in curva. «Ave Cesare», ci avemo scritto. Grosso cosí. – Vaffanculo. Vattene affanculo. La voce di Morgana colpí Liberati come una frustata, facendolo definitivamente rintanare nella folla che ora stava abbandonando la chiesa, ma sorprese anche Denis. Insieme, in silenzio, raggiunsero il sagrato, dove videro il trasbordo del feretro dal cocchio a una Mercedes diretta al Verano, dove Cesare si sarebbe ricongiunto al padre e alla madre. Dai lati opposti, due Olympus digitali del Ros li bombardavano di scatti. Loro non se ne curavano. Avevano in testa altro. La vendetta e quel senso animale di improvvisa precarietà che dà la morte ora li spingevano verso casa di lei per provare a ricordarsi di essere vivi. Carne e sangue.

XXXIX. Al volante della Porsche Boxster Sabrina si sentiva quella che aveva sempre desiderato essere: una vera signora. E persino Fabio, il sinistrorso Fabio, il complicato Fabio, diciamo pure quello scassacazzi di Fabio, mostrava di apprezzare la compattezza delle linee, il fresco brivido del vento che scompiglia i capelli, gli sguardi di ammirazione che salutavano l’incedere regale del bolide. Perché nun ce so’ cazzi, rega’: le cose belle piacciono a chiunque. Pure ai rossi. Soprattutto ai rossi. Perché a parole so’ tutti rivoluzione e lotta al sistema, ma sotto sotto in testa ci hanno sempre quello: sesso, ostriche e champagne. Sabrina e Fabio erano diventati inseparabili. Eugenio Brown era sempre in giro tra festival e riunioni pallose, sempre in cerca di un’idea che, come le aveva spiegato suscitandole piú di uno sbadiglio, «mettesse insieme cultura e spettacolo, intrattenimento e riflessione». – Insomma, Euge’, cerchi una roba pe’ fa’ soldi senza sporcarti la coscienza. Eugenio Brown apprezzava la sua franchezza. Sabrina era il suo sguardo su un mondo che, prima d’incontrarla, aveva pure raccontato in decine di film e di fiction, ma senza veramente comprenderne la sostanza. In cuor suo, Eugenio sperava che proprio da lí, da quel mondo del quale Sabrina era l’inconsapevole portavoce, gli sarebbe venuta l’idea giusta che da troppo tempo inseguiva. E l’idea, un po’ per gioco e un po’ per noia, arrivò. Fresca del dono della Porsche, Sabrina era decisa a svaligiare un po’ di grandi firme del centro. Fabio era il compagno ideale per quel genere di spedizioni. Come tutti i froci, univa alla competenza in fatto di gusto una grande disponibilità ad ascoltare e interloquire. Molto meglio di qualunque uomo e di qualunque amica. Perché gli uomini si rompono le palle, e le amiche te le rompono. Però, quella mattina Fabio era distratto. Osservava i cambi d’abito con aria annoiata, annuiva a comando, faceva segno di no a comando, insomma non gliene fregava un bel niente. E nelle pause, annotava furiosamente su un vecchio taccuino nero. Sabrina comprò una borsa di Vuitton e un paio di scarpe Louboutin (Eugenio adorava il fondo rosso delle scarpe Louboutin), e si trascinò in macchina lo sceneggiatore. L’umore della giornata s’era improvvisamente fatto cupo. Sabrina detestava essere trascurata. – Ma se pò sape’ che ci hai da scrive’? – Mi è venuta in mente una storia. – Famme senti’. – Davvero t’interessa? – Sí. – Comincia con la guerra dei Balcani… – Che? – Cazzo, Sabrina, la guerra dei Balcani. Sarajevo… l’assedio… lo stupro etnico… Srebrenica… – Vabbe’, vabbe’, ho capito, ’na guerra de romeni, zingari, quella roba là. Ma che succede poi? – Succede, – proseguí Fabio, – che una giovane volontaria della Croce Rossa sta per essere violentata da due miliziani, quando viene salvata da un bellissimo soldato serbo… – Non funziona. – Che? – La guerra, lo stupro, la crocerossina. Ma che cazzo, Fabio, ma chi te ce va al cinema a vede’ ’na cosa simile? De ’sti tempi, poi… La gente ci ha voglia di ridere, Fabio, damme retta! – E allora raccontamela tu una storia, visto che ne sai tanto! Sabrina scoppiò a ridere e lo consolò con un buffetto.

– E nun te fomenta’ subito. Ho detto la mia, no? So’ tempi de crisi, ci vogliono storie… – Leggere? – Sí, storie leggere. Tipo quella che m’hai raccontato ’na vorta, quella della statua… – Pigmalione. – Ecco, bravo, quella. Però magari fatta oggi. Chessò… A’ Fabio, ma t’è mai venuto in mente che potresti racconta’ la storia mia e di Eugenio? – Sinceramente no, – disse lui, tagliente, con un certo senso di rivalsa, – non credo che sia molto interessante, tesoro. – E io invece dico di sí. Ragazza di strada che ha visto un sacco di cose brutte conosce un produttore e se ne innamora. Lui la leva dalla strada e vissero felici e contenti. – Già visto. Si chiama Pretty Baby. – E n’ha fatti pochi de sòrdi? – Erano altri tempi. – Certe cose funzionano sempre, Fa’. Quando venne fuori che anche Eugenio Brown la pensava cosí, Fabio ci rimase molto male. Buttò giú malvolentieri il pitch che gli era stato commissionato, una delle stronzate piú atroci che gli fosse mai capitato di scrivere. Eugenio fece tradurre in inglese e mandò un’e-mail a un suo contatto nella Fun Company. La risposta giunse a stretto giro. «Prime». Che per gli americani stava a dire: eccezionale. Nemmeno tre giorni dopo la prima chiacchierata, Fabio si presentò da Sabrina con un registratore digitale e le chiese di raccontare, dal principio e senza omissioni, la storia della sua vita. E fu cosí che Sabrina entrò nel mondo del cinema dall’ingresso principale. Il registratore digitale di Fabio rimase spento. – Quel fregno nun serve a un cazzo! – gli disse lei fulminandolo mentre Fabio le preparava un mohito nella convinzione che questo avrebbe aiutato i ricordi. Si doveva fare in altro modo. A modo suo. – Sai che famo, Fabbie’? Porto Eugenio a fa’ un bel puttan-tour. Ci hai presente? Altro che ’sta stronzata del registratore. Nun t’offende’. Solo Eugenio, però. Quando la sera arrivò, Sabrina si conciò con quello che le era rimasto della sua prima vita. E che aveva faticato un po’ a ritrovare nel suo nuovo guardaroba da signora. Era entrata senza difficoltà nella mini inguinale color fucsia, e le tette, libere dal reggiseno, facevano ancora una gran figura sotto la canottierina di seta nera H&M, gentile omaggio di un broker italiano con casa e famiglia a Londra. Uno dei suoi ultimi clienti, un tipo che non aveva mai smesso di farle sangue e di cui aveva sempre preferito non parlare a Eugenio. Davanti allo specchio, lisciandosi il culo di tre quarti e sfiorando con la punta delle dita le cosce strette nelle calze a rete, si era compiaciuta. La monogamia e la morbidezza della vita coniugale, si fa per dire, in fondo non l’avevano inquartata. Assai divertita, aveva osservato Eugenio scegliere una giacca di tweed e un paio di pesanti pantaloni di fustagno dal cavallo basso, una camicia bianca e una cravatta di lana dalla fantasia scozzese. – Amo’, guarda che nun annamo mica a una festa delle tue. E poi me pari mi’ nonno. Lui aveva annuito con un cenno di indolenza dolorosa, convinto che quella ricognizione notturna che Sabrina aveva imposto e a cui stavano per abbandonarsi rischiasse di trasformarsi in una prova insostenibile. – Sabrina, sei sicura che dobbiamo farlo? Non era meglio il registratore? Ce ne stavamo tranquilli qui, io e te. Per raccontare la propria vita non c’è bisogno di riviverla. – Aaaa… Ancora? L’ho già detto a Fabio: lo vòi fa’ o no ’sto film? Ma che, nun ce lo sai che certe

cose le devi vede’? Ce sei annato mai a mignotte, tu? – Dài, ti prego, lo sai che io non ho… – Sí, sí. Tutti cosí dite. L’abito l’aveva rifatta troia in un attimo. E Sabrina aveva deciso di non disperdere neppure una goccia di quella sfrontatezza erotica e insieme dissacrante che l’aveva resa quella che era e che l’aveva portata lí dove era. Ancora una sera. Soltanto una sera. Sabrina strinse al collo la coda di volpe e pigiò a fondo l’accensione della Porsche Boxster, e mentre Eugenio, seduto sul lato passeggero, armeggiava con la cintura di sicurezza, tirò la prima bruciando i due semafori di via Conte Verde in direzione di Porta Maggiore. Sul tronchetto della Roma-L’Aquila, Eugenio cominciò a guardarsi intorno con espressione vagamente perduta. – Scusa se te lo chiedo, perché non voglio rovinare la sorpresa, ma di qua si va verso l’Abruzzo. – Euge’, se vede che voi chic ve siete persi un pezzo de Roma. – Semmai radical-chic. Radical-chic, Sabrina. – Seeh, Vabbe’. Radicali, comunisti. Come te pare. Sempre un cazzo de gnente sapete. Te dice niente Ponte di Nona? – Tor di Nona è dall’altra parte, amore, verso piazza Navona. – A Tor di Nona ci annavi te. Ponte di Nona, dico io. Collatina, Palmiro Togliatti… Te s’accende qualcosa, Euge’? Lui la fissò con occhi vuoti. Sabrina scoppiò in una risata impertinente. – Te porto al Patagonia. – Cos’è? – ’Na mangiatoia. – Un ristorante. – Mo’ nun esageriamo. Un posto dove se magna a sfondasse. E dove annavo quando ho iniziato a lavora’. – Non mi avevi detto che facevi la cameriera. – Ma quale cameriera, Euge’. Al Patagonia con trenta euro te magni un bue. Tutta carne, solo carne. Hai presente? E sai che succede ai maschietti quando esagerano con la carne? Eugenio si passò una mano sulla fronte. – Bravo. Hai capito. I maschietti nun se tengono. E per cinquanta euro, cinque minuti e hai fatto. Il parcheggio del Patagonia era una grande sterrata chiusa tra via di Grotta di Gregna e la Collatina vecchia. Un altro pezzo di Roma cominciato e mai finito. Non fosse stato per i fumi unti delle griglie e l’insegna luminosa con l’immagine stilizzata della grande montagna sudamericana, i tre capannoni che quell’insegna annunciava li avresti facilmente confusi per dei magazzini. Sabrina chiuse la Porsche, si lisciò i fianchi e prese sottobraccio Eugenio. – Manzo, pollo o maiale? – Devo decidere nel parcheggio? Non ci sediamo, prima? – Se vuoi il manzo, si entra nel ristorante de sinistra. Il pollo al centro e il maiale a destra. – Ah. – Io farei maiale, Euge’. – Dici? – Ce facevo le cose migliori co’ quelli der reparto maiale. – Non stento a crederlo. – E no, Euge’. Non devi fa’ cosí, però. Questo è lavoro. Stamo a fa’ er film. Sei tu che m’hai detto che volevi sape’.

Il tipo che li accolse al monumentale banco frigorifero delle ordinazioni aveva un grembiule da macellaio sbaffato di sangue rappreso. Si chiamava Enzo ed era sulla quarantina. Era nato in Argentina ma era cresciuto a Tor Bella Monaca. Aveva un fisico asciutto e due avambracci gonfi e perfettamente depilati che affondavano in montagne di salsicce, spuntature, bistecche e fese. Sporzionava il tutto con un coltellaccio da film horror in ragione dell’appetito dei clienti, poi, dopo averli pesati, avviava i tranci ai fuochi delle griglie alle sue spalle. Riconobbe immediatamente Sabrina, a cui mostrò la confidenza che Eugenio temeva. – Anvedi chi c’è… A’ bella, è ’na vita. – Ciao, Enzo, sei sempre bono uguale. – Fòri e soprattutto dentro, Sabri’. – Me ricordo, Enzo, me ricordo. – Hai deciso di riportarli qua i tuoi bei maschioni? Sabrina sorrise, facendo cenno a Eugenio di avvicinarsi. Enzo puzzava di testosterone e salsiccia. E non gli diede tempo neanche di presentarsi. – Se è la prima volta, nun sai che è. Brown abbozzò un cenno di intesa. – Sí, Sabrina mi ha detto che la cucina è squisita. Qui fate maiale, giusto? – No, ma che hai capito? Sabrina, dico. Se stasera è la prima, te manda fòri de testa. Eugenio afferrò delicatamente Sabrina trascinandola verso uno dei tavoli apparecchiati con una tovaglia in carta da pacchi. E osservandola capí che si stava divertendo come una bambina. – Ascolta, amore, mi sono sopravvalutato. Non credo davvero di potercela fare. Il sorriso di lei si spense in un broncio improvviso. – Ma se non abbiamo manco cominciato la serata? – Me lo racconti a casa quello che facevi e dove lo facevi. – Seeh, col registratore… Ma vattene, va’. Brown sapeva che il confine tra il capriccio e la collera era labilissimo. – Allora aiutami, Sabrina. – È semplice, Euge’. Togliti dalla faccia e dalla testa ’st’aria da visita allo zoo. – Bioparco, Sabrina. – Hai mai sentito ’na zoccola di’ bioparco? – Hai ragione, scusa. – Amo’, quando se va al dunque, l’omini so’ omini. Quando facevo ’sto lavoro la pensavo cosí. Che differenza c’è se te fai uno che ce l’ha de platino o de rame? Il prezzo sempre prima l’hai fatto. Tanto nun te devi mica innamora’. Perché se t’innamori, come è successo a me, allora smetti. Se arriva er principe… Sabrina lasciò scivolare la considerazione con una moina. E con la punta della scarpa risalí lungo l’interno coscia di Brown. – Funzionava cosí con i clienti? – Piú o meno. Nell’ora che rimasero seduti al Patagonia, Sabrina gliene presentò una mezza dozzina. Un campionario maschile di varia umanità, annotò mentalmente Brown. Dario, autista dell’Atac. Sergio, infermiere del policlinico. Fernando, sportellista dell’agenzia 1 di una grande banca del Nord. Tiziano, calciatore di Lega Pro. Davide, studente di Antropologia, e Silvio, tassista, che ci tenne a presentare anche la moglie, una bella ragazza che baciò e abbracciò Sabrina come una sorella. Tutti quegli uomini avevano in comune una vitalità e una leggerezza che forse lui non aveva mai avuto. E la

felicità con cui salutavano quella donna che ora era sua, ma che a loro aveva dato lo stesso piacere, lo fece riflettere sulla corazza che si portava in giro dacché era nato. Quei maschi arrapati erano sfrontati, sinceri. Erano andati a mignotte e non lo nascondevano. Non si vergognavano né di sé stessi né di Sabrina. Che ora era tornata a fissarlo. – Simpatici, no? – Li rimpiangi? – Che lagna, che sei, Euge’. – Ma guarda che non è un problema di gelosia. – Lo so qual è er problema. – Davvero? – È il motivo per cui a un certo punto non ce l’ho fatta piú a fa’ la escort. Vedi, Euge’, quando sei regazzina e fai la strada, finisci con gente come te. E quando cominci co’ l’appuntamenti e a racconta’ cazzate alle feste, come quella a casa tua, te viene er vomito. Perché l’omini diventano stronzi. Te scopano, ma se vergognano come sorci, Euge’. A Brown era scoppiata un’emicrania lancinante. – Dobbiamo restare qui tutta la sera? – No. Te porto al Pashà Caffè. Eugenio non credette ai propri occhi. Quello che si trovò di fronte era un parallelepipedo rosa fucsia lungo la Tiburtina, nella zona di Settecamini. Dal design pacchiano mediorientale e una grande scritta luminosa in arabo. Qualcosa a metà tra un night saudita del terzo millennio e un’allucinazione neomelodica. – È uno scherzo, Sabrina? – Euge’, vai a vede’ che c’è scritto su internet. Sai in quale categoria sta er Pashà? – No. – Categoria «Rimorchiare». E in quella «Luxury». Che te pensavi, che te portavo sui viali? Lí ce vanno i poveracci. Lo spazio era immenso. Almeno duemila metri quadri, calcolò a spanne Eugenio entrando. Una sala slot, una pedana per il karaoke, uno spazio night e uno bar, dai giochi cromatici orientaleggianti. Il viola, il rosso, il blu, il verde, il giallo, in tutte le possibili tonalità. Dal pastello all’elettrico. Capaci di esaltare corpi giovani di donne e pupille dilatate di arrapati cronici. Brown se ne stava impalato a scrutare quell’umanità in perenne sfregamento corporeo, avvolta in nuvole di profumo dozzinale e accesa da un desiderio che avrebbe detto piú chimico che ormonale. – Amo’, almeno ’sto pezzo de sciarpetta che chiami cravatta lèvetela… La perfida osservazione di Sabrina lo convinse a spostarsi dalla mattonella del bar su cui, inebetito, aveva messo radici. Si avvicinò a un divanetto dove quelle che gli parvero due ucraine piluccavano un assaggio di feijoada. Non gli era chiaro per quale motivo, in un posto ispirato a un caravanserraglio da sultano, servissero cucina brasiliana. Ma preferí non chiedere, sentendosi lusingato dalle occhiate insistenti con cui una delle due aveva preso a frugarlo. Sabrina osservava Eugenio divertita, rimanendo un po’ distante, finché un tipo sulla trentina non le sussurrò all’orecchio quanto voleva per un sveltina nel parcheggio. Indicò allora Brown, e mentre il tipo allargava le braccia, si avvicinò. – Euge’, mica penserai che te le sei rimorchiate, ’ste due. – Perché? – Perché so’ du’ zoccole. L’enfasi sulla Z e sulle C fu tale che le due sul divanetto anziché risentirsene, ne parvero lusingate.

– Non sapevamo che il cliente era già tuo, – fece quella che sembrava piú giovane e visibilmente fiera di un paio di tette che sfidavano ogni principio di gravità. Sabrina prese per mano Eugenio e lo portò verso il bancone del bar, dove lui provò a chiedere un whisky di malto. Che Sabrina sostituí con una Red Bull. Brown si rigirò la lattina tra le mani come un oggetto misterioso. – Cos’è? – Te lo tira su. – Ti prego, Sabrina. Ti prego. E fu allora che lei si fece seria. Seria davvero. – Sei sicuro del film? Guarda che nun ce la pòi fa’ se non capisci come funziona. – Come funziona agganciare una prostituta lo sapevo. Non c’era bisogno che mi sottoponessi a questo supplizio. Io volevo capire cosa provavi tu in quell’altra vita. – E nun l’hai capito? – Non credo. – Per questo te deve diventa’ duro. Se no, nun capisci. Se vòi capi’ che c’è nella testa di una che fa il mestiere devi comincia’ da quello che c’è nei pantaloni de ’n omo, caro il mio produttore. Tornarono a casa che era quasi l’alba. Senza pronunciare parola. Il tempo necessario a Eugenio Brown di sforzarsi nel mandare giú fino all’ultimo goccio di Red Bull. Salendo in ascensore all’attico, Eugenio provò a farfugliare qualcosa di sensato che rompesse un silenzio di pietra. Ma Sabrina non glielo permise, infilandogli sotto la lingua una pillolina a cui lui non oppose resistenza. Eugeniò si addormentò che il sole era già alto. Dopo un ultimo sguardo al corpo di Sabrina, nuda al suo fianco, e alla sua erezione che ancora non accennava a rientrare. Prime, pensò chiudendo finalmente gli occhi. Cosí sarebbe venuto il film, per dirla all’americana: prime. Era il massimo, cazzo!

XL. Per rispetto a Ciro Viglione, ormai agli arresti domiciliari perpetui, e perché la possibilità di essere intercettati era decisamente alta – una certezza, secondo Parisi –, la riunione fu convocata nell’ufficio di Temistocle Malgradi, a Villa Marianna. In una clinica semideserta, dai lunghi corridoi rischiarati dal lucore asimmetrico delle luci di sicurezza, il Samurai si presentò puntualissimo alle nove esatte, scortato da Max. Rocco Perri, che faceva gli onori di casa, sbarrò la strada al filosofo. – Lui non è previsto, Samurai. – Sta con me. – Come credi. Ma Ciro non la prenderà bene. È già sul piede di guerra, ti avverto. – E tu? Il calabrese non rispose, trincerandosi dietro un sorriso fintamente cortese. Poi procedette a un’accurata perquisizione. Constatata la regolarità del tutto, Rocco li accompagnò nell’ufficio di Malgradi, dove li attendevano Silvio Anacleti e Ciro Viglione, insediato al posto di comando, dietro la scrivania del primario. Appena messo piede nella stanza, il Samurai, disturbato dall’odore del sigaro toscano del quale il camorrista era avido consumatore, senza nemmeno rivolgergli un cenno di saluto, spalancò la finestra. Ciro lo guardò con tanto d’occhi. Ma chi si credeva di essere, ’stu cazz’ ’e Samurai? Ma non si rendeva conto che da quella riunione poteva uscire coi piedi in avanti? Ma che, niente niente se ne fosse asciuto pazzo ’overamente? S’era accunzato, Ciro, nu bello discorso. Un discorso duro, deciso, un’orazione da capo che manco Giulio Cesare o la buonanima del duce. Ma come, Samurai! Io ti dico, anzi, ti ordino di far finire la guerra, anzi, l’agitazione, comm’a chiamme tu, e tu invece di mettere pace getti benzina sul fuoco? Ma chi t’ha cummannato d’accidere ’o Nummerootto? E quando si era già raggiunto un accordo… Mo’ il risultato di ’sta bella pensata era sotto gli occhi di tutti. Tenevano i carabinieri sul collo, chillu fetente ’e colonnello, e s’era svegliato pure ’o giudice, chillu strunz’ ’e Di Candita che sicuro sicuro, parola di Parisi, già l’aveva microfonati e microspiati a tutti quanti. E hanno truvato ’e ccarte, ’e ccarte, sangue di Cristo! E quanto vuoi che ci mettono a fare due piú due quattro, eh? Bella prodezza, neh, Samura’! Zio Nino vuole vendetta. A Denis, che mo’ è ’o Masto, il comandante, non l’abbiamo invitato perché qua dentro spargimenti di sangue non ne vogliamo, ma tu t’hai da sta’ accuorto, ca chillu è nu cane rugnuso… e soprattutto, l’affare rischia di andare a monte. ’O Grande Progetto! Perciò, Samurai, o tieni ’na valida spiegazione, o è inutile fare ammuina. E so’ cazzi tuoi! Ma l’atteggiamento spavaldo del Samurai l’aveva spiazzato. Vabbuo’, vuoi giocare duro, Samura’? E mo’ ti servo io. Ciro Viglione gli sbuffò in faccia una fiatata di sigaro, poi sintetizzò il suo pensiero. – Samura’, ’e fatt’ ’na strunzata! – Sono d’accordo, – disse Perri, che pure quando doveva decidere la condanna a morte di qualcuno non abbandonava l’aplomb del maestro di seta. Anche il Samurai si era preparato un discorso. Aveva pensato di partire dal concetto ariano di casta e concludere con una riproposizione meno corriva dell’apologo di Menenio Agrippa sulle membra umane. Intendeva spiegare che un grande progetto presuppone capi ed esecutori. Che a

ciascuno va assegnato il ruolo che gli compete nel disegno complessivo. Che l’individuo ha senso in quanto parte del tutto, un tutto armonicamente ordinato secondo il principio gerarchico. Perciò Cesare Adami detto il Numero Otto, che tutti ora ipocritamente piangevano, andava eliminato. Non per uno stupido capriccio o per un malinteso senso di giustizia (questo lo credessero pure gli Anacleti), ma perché era la parte infetta che rischiava di contaminare il tutto. Per questo era stato necessario il sacrificio del Numero Otto. Ma la qualità degli interlocutori era scoraggiante. Ciro e Perri non avrebbero compreso, e probabilmente si sarebbero ancor piú irritati. L’unico in grado di elevarsi alle sue vette era Max, ma non era lui che doveva convincere. Quanto a Silvio Anacleti, la decisione era già stata presa nel momento stesso in cui la rimpianta Mannlicher aveva spento la vita del Numero Otto. Anche il Samurai, dunque, come Ciro Viglione, forní una sintesi del proprio pensiero. – Cesare Adami non sapeva stare ai patti. Uccidendo Spadino ha rotto l’armonia del nostro gruppo. Uccidendo Paja e Fieno ha violato, lui per primo, un patto sottoscritto da ciascuno di noi. Voi dite: ma ci eravamo messi d’accordo per un risarcimento. Anche gli Anacleti si erano rassegnati. Io vi dico: Cesare considerava tutto questo un suo successo personale. E il successo è come una droga. Non si sarebbe fermato. Avrebbe ucciso ancora, avrebbe preteso sempre di piú. Era un seminatore di discordia, un agitatore di odio. Era la parte malata che, lasciata crescere, si sarebbe moltiplicata a dismisura, divorandosi il tutto. Con la sua scomparsa, il tutto non perde che una parte insignificante. Chirurgia. E il Grande Progetto riprende a marciare. Mi capite, adesso, signori? – ’Stu cazz’! – ruggí Ciro Viglione. – Te l’ho già detto, Samura’: tu parli bene, ma parli troppo. – È la tua opinione, Ciro. – Simme tutt’ d’accuordo, Samura’. – Io no, – disse Silvio Anacleti. – Il Samurai ha fatto la cosa giusta. La mia famiglia sta con lui. Ciro Viglione non credeva alle proprie orecchie. Si alzò e prese a inveire contro lo zingaro. E che è, mo’, ’sta novità? Pure gli Anacleti avevano sottoscritto il patto, quel patto che il Samurai aveva violato. Quindi, l’azione individuale condotta da chillu strunz’ doveva suonare anche per loro come un’offesa. Questo dicevano le regole. O le regole erano tutte saltate? Il giovane Anacleti replicò. In quella storia di sangue, gli unici a pagare un prezzo, sino all’omicidio del Numero Otto, erano stati proprio loro, gli Anacleti. Spadino, Paja, Fieno erano roba loro. Ed erano stati ammazzati come cani dal Numero Otto. Che ora pagava. Il Samurai aveva rimesso le cose a posto. Adesso, semmai, si poteva procedere a un nuovo accordo. Adesso, e non prima. Viglione e Perri si scambiarono un’occhiata. La mossa degli Anacleti li aveva colti di sorpresa. Fra gli zingari e il Samurai si era consolidata un’alleanza che rischiava di alterare l’equilibrio delle forze in campo. Il primo a prenderne atto, pragmaticamente, fu il calabrese. – Sta bene, Samurai. Adesso gli Anacleti sono tranquilli. Ma con quelli di Ostia, Denis, quell’altro, comu cazzo si chiama… Robertino… come la mettiamo? – La morte del Numero Otto servirà di lezione anche a loro. Se non si adatteranno, faranno la stessa fine. Da questo momento della strada si occuperà Max. Lui sarà la mia bocca, i miei occhi, la mia mano… il mio cuore, il mio cervello e il mio fegato. – E zio Nino? – Zio Nino, – sussurrò gelido il Samurai, – è in prigione. Io sono qua. A me è stato affidato il compito di realizzare il Grande Progetto. E vi assicuro che lo farò. – E noi stiamo con lui, – concluse Silvio Anacleti.

Rocco Perri, fissando Ciro Viglione, fece di sí con la testa. Il camorrista capí che il calabrese si era fatto convincere. S’è fatto fottere, pensò, per la verità. Ma al punto in cui erano le cose, se anche la Santa passava armi e bagagli dalla parte del giapponese, il rischio dell’isolamento era grosso. Certo, Ciro avrebbe potuto cercare un’intesa con zio Nino. Ma questo significava altra guerra. E la guerra porta indagini. E le indagini mettono paura ai politicanti. E l’affare dipende dai politicanti. E i politicanti stavano in mano al Samurai. E insomma, ’o Samurai aveva vinto. – Vabbuo’, – sbuffò, cercando di dissimulare la bruciatura che si portava dentro. – Vabbuo’… Co’ zio Nino ci facciamo parlare all’avvocato. Però ’na cosa, per tenerlo buono, ce l’avimm’ a da’. Il Samurai calò l’asso. – Dalla Grecia è in arrivo una barca carica di coca. Del trasporto si occuperà Max. Una tonnellata. Verserò integralmente a zio Nino la mia parte, a titolo di risarcimento. Credo che gli convenga. In questo momento i suoi affari non sono al massimo. Infine passò la parola a Max, che illustrò i dettagli dell’operazione. Spiegò che Shalva, un intermediario georgiano di assoluta fiducia, avrebbe provveduto alla riassicurazione del carico, e che nell’affare erano coinvolti i pugliesi che controllano le rotte dalla Grecia. Precisò l’ammontare dell’investimento iniziale e le percentuali che sarebbero spettate a ciascuno. Rocco e Viglione si avventarono sulle calcolatrici e si misero a fare due conti. Dai loro sguardi, accesi di crescente avidità, il Samurai comprese che avevano afferrato la convenienza complessiva dell’affare. Un minuto prima erano pronti a strangolarlo con le loro stesse mani, adesso pendevano dalle sue labbra. Disgustato, il Samurai fece un cenno a Max e abbandonò la scena.

XLI. La serata era decisamente fredda, da autunno già avanzato, eppure magnifica. E dalla terrazza a vetri del grande hotel all’Esquilino il fascio di binari che usciva dalla bocca della stazione Termini ricordava la lingua di un drago. O forse di un diavolo. I rumori del suk multietnico di via Giolitti arrivavano attutiti, come l’eco dei clacson che si affrontavano nel reticolo di strade verso piazza Vittorio. Sul parquet tirato a lucido dello spazio ristorante, una decina di hostess si muoveva con studiata compostezza tra le sedie e i tavoli firmati Philippe Starck. Nelle loro scarpe basse e nei completi neri giacca e pantalone apparivano assolutamente castigate. Cosí, d’altronde, imponeva l’etichetta dell’evento privato organizzato dalla casa editrice Il Braciere e annunciato all’ingresso del roof garden da un colossale treppiedi. MONS. MARIANO TEMPESTA ETICA PER UN NUOVO MILLENNIO INCONTRO CON L’AUTORE

In un clergyman di lana winter Tasmanian, il vescovo ingannava l’attesa pescando con le dita nodose piccoli vol-auvent dai canapè appoggiati sul lungo bancone che chiudeva uno dei lati della terrazza. Francesco, il suo giovane segretario, vestito di un completo Armani blu notte che ne esaltava la grazia flessuosa, lo raggiunse con un paio di flûte di Bellavista riserva. Noto nei localini di San Giovanni in Laterano come Satanella, Francesco aveva il compito di selezionare il collocamento dei giovani segnalati alla benevolenza di Tempesta. Alla Rai, come nelle grandi partecipate del Tesoro: Finmeccanica, Eni, Enel. Si favoleggiava di provini durante indimenticabili serate in uno scannatoio a due passi da piazza Navona, di proprietà di una confraternita vaticana, di cui, oltre al monsignore, era assiduo Benedetto Umiltà. Si vociferava pure di una sorta di giuramento di sangue che legava per la vita quel germoglio di classe dirigente ora concentrata sulla terrazza dell’hotel. Pericle Malgradi era in leggero ritardo. E stringendo sottobraccio l’opera dalle pagine visibilmente intonse, si precipitò a omaggiare il monsignore con un accenno di baciamano che fece seguire da un’informazione sussurrata in un orecchio. – Sua eccellenza, ho dato oggi disposizione alla mia segreteria di acquistare cinquemila copie del suo magnifico volume con cui omaggiare i grandi elettori del mio collegio. Tanto paga la Camera… Ah, ah, ah! Tempesta se ne compiacque e indicò con uno sguardo interrogativo il tipo dall’orribile completo grigio cangiante, peraltro fuori stagione, rimasto qualche passo dietro l’onorevole. Spartaco Liberati aveva la bocca piena delle tre tartine al polpo che si era calato non appena arrivato al roof garden. Con una strizzatina d’occhio, Malgradi lo invitò ad avvicinarsi. – Eccellenza, le presento il dottor Liberati, la voce della nostra città. Sa, è stato recentemente premiato in Campidoglio. – Molto lieto, figliolo. Tendendo la mano unta, Spartaco accennò un inchino. – Radio Fm 922 darà la diretta della presentazione, che manderemo in replica per una settimana. La mattina alle nove e la sera alle ventuno. Allontanando Liberati con una leggera spinta, Malgradi volle chiarire. – Naturalmente, eccellenza, abbiamo anche i tre Tg Rai, nazionali e regionali. Ho provveduto personalmente. – Naturalmente, – sorrise Tempesta.

Anche Benedetto Umiltà sembrava in grande forma, addirittura garrulo. Ritrovarsi al centro… be’, forse non proprio al centro… diciamo «vicino al centro» della Roma che conta era per lui, ogni volta, fonte di rinnovata eccitazione. Il generale Mario Rapisarda fu l’ultimo a raggiungere la sala. Fingendo di essere reduce da un pomeriggio infernale, si scusò con Tempesta, a cui chiese di autografare la copia del volume che aveva diligentemente portato con sé e naturalmente neppure aperto. – D’un fiato, eccellenza. L’ho letto tutto d’un fiato. Lei è incrollabile nei principî e moderno nello stile, se posso permettermi. Mentre Tempesta, compiaciuto, firmava la sua copia, il comandante della divisione Custoza realizzò che in quella serata, tolte le hostess, non c’era una sola donna neanche a cercarla con il lanternino. Tutti uomini, per lo piú sotto la quarantina. Che avresti detto giovani professionisti. E si trovò d’accordo con quel tipo che, dietro di lui, sussurrava nel telefonino. – Te richiamo, te richiamo. Sto a ’na serata de froci e de preti. Seeh, vabbe’. Ciao, ciao… Saverio Tesi, l’editore del volume, ottenuto il silenzio della platea, introdusse brevemente la luminosa figura di monsignor Mariano Tempesta, di cui ricordò «i precoci studi teologici» e «le spiccate qualità umane». Quindi, confessò l’orgoglio della casa editrice. – Lasciatemelo dire. Una pubblicazione di questo genere non ha valore commerciale. È un atto di testimonianza. E come tale sarebbe sufficiente. Ma le centomila copie della nostra prima tiratura credo dimostrino quanto crediamo in quest’opera, i cui introiti, è bene che lo ricordi, saranno devoluti in beneficenza a Villa Marianna, struttura sanitaria di eccellenza di questa città che, grazie alla donazione, potrà inaugurare un reparto per la cura delle tossicodipendenze. Malgradi si spellò le mani in modo isterico pensando a quel paraculo di suo fratello Temistocle, e all’eccellente striscia che si era fatto nel bagno dell’hotel appena superata la reception. Ormai viaggiava sui due grammi al giorno. E certo non lo aveva aiutato l’ultimo colloquio con il Samurai. Da farsela sotto. Com’è che gli aveva detto? «Le promesse sono fumo, Malgradi. Ricordati che nessuno è insostituibile. Il buon giocatore gioca sempre su piú tavoli». E come no. Per questo stava lí. Piú tavoli, caro Samurai. E vuoi mettere il tavolo del vescovo. Seduto a gambe accavallate e stringendo il microfono tra il pollice e l’indice – il che consentiva al mignolo una civettuola libertà – Tempesta portò il «gelato» quasi a contatto con le labbra. Un cono di luce traversa lo illuminava. – Buonasera, e grazie. Grazie per la vostra testimonianza di fede e amicizia. Etica è parola desueta. Ma è parola forte. Come millennio. Quello che ci è alle spalle, quello che ci attende e ci vedrà, un giorno, nel Regno dei Cieli ricongiunti al Signore nella pace dell’anima. – Seeh, e magari pure dei sensi. Per quanto sussurrata all’orecchio, la battuta di Malgradi irrigidí Benedetto Umiltà. L’onorevole era chiaramente su di giri. Troppo. Tempesta proseguí. – Ospite dei fratelli benedettini, ho lavorato a questo testo nella solitudine dell’eremo di Camaldoli, traendo linfa dai silenzi di albe e notti precoci. – Seeh, e da una stecca di liquirizia di quel seminarista del Togo. Umiltà avvampò e fissò con timore la faccia stravolta di Malgradi. – La prego, onorevole. La prego. La voce di Tempesta, ora, aveva la pastosità di quella di un Dj nel cuore della notte. – Etica. Etica. Vi potreste chiedere come la si declini in un secolo che si annuncia con le stimmate

dell’ateismo. E io vi dico: leggete nei miei aforismi. Fatene la pietra miliare di una nuova catechesi che si opponga all’ondata del rinascente paganesimo. Vedete, cari amici, poco fa un gentile giornalista mi chiedeva quali riflessioni un uomo di fede possa fare su temi quali il matrimonio civile dei gay, l’adozione da parte di coppie omosessuali, la fecondazione eterologa, l’utero in affitto. Bene, ho risposto che non c’è e non può esserci dialogo con chi voglia dare legittimità a ciò che è contronatura. La famiglia di Dio è un uomo e una donna, la loro prole. Nella famiglia è la gloria di Dio. La famiglia è la pietra miliare dello stato. L’unione tra simili è annuncio dell’Apocalisse. E voi sapete chi lavora nell’oscurità per dividere… Il Diavolo! Satanella cominciò ad applaudire freneticamente. E subito si uní Malgradi, che ora era in piedi. Per uno dei suoi comizietti improvvisati. – Grazie, eccellenza. Grazie! Non permetteremo che la perversione distrugga la famiglia di Dio. Viviamo nella fede. Ne siamo i custodi. – Amen, – biascicò Liberati. Che della roba del vescovo non aveva capito un beneamato nulla, ma aveva urgenza di sapere se era stato mandato lí dal Samurai solo per un marchettone o in pentola bolliva dell’altro. Tempesta, concluso il sermone, si avvicinò a Satanella e gli chiese di raccogliere i biglietti da visita di un paio di ragazzotti che aveva notato in platea. Era rimasto colpito dall’eccitazione di Malgradi, che non considerava un buon segno. E decise di confidare la sua irritazione a Benedetto Umiltà non appena riuscí a sottrarlo a Tesi, il tipo del Braciere, che lodava le sue scarpe «sicuramente fatte a mano» – non mi dica, eccellenza, solo tremila euro? – Benedetto, che ha Malgradi? – Non lo so, eccellenza. Troppo su di giri, direi. – Avrebbe bisogno di un periodo di riposo, credo. – Il governo si regge anche sul suo voto, eccellenza. – Il governo è morto e lo sa anche lei. Quanto tempo possono durare? Un mese? Due? E poi non mi sembra che sia accaduta una sola delle cose di cui avevamo discusso, o sbaglio? – Non sbaglia. – E le cose sono ferme, mi pare. – Malgradi continua a sostenere che la delibera è pronta. C’è solo un ritardo tecnico. – Mah! Pericle Malgradi parla, parla, parla. Io piuttosto pensavo al fratello, Temistocle. Mi sembra abbia decisamente un altro passo. E a noi serve un nuovo cane pastore per il nostro gregge. Non li vedi? Guarda, guarda come mangiano docili. Sono pecorelle. Attendono che qualcuno indichi loro la via. – Lei, eccellenza, vede dove noialtri non arriviamo. – La Chiesa non ha duemila anni per caso, caro Benedetto. Pericle Malgradi continuava ad agitarsi su e giú per il roof garden come una pallina da flipper. Aveva esagerato con la roba. Era percorso da continui tremori, incapace di tenere a freno braccia e gambe. Provò ad ancorarsi a Rapisarda, che si era fatto largo al buffett avventandosi sui caprini a latte crudo dell’Oltrepò pavese. Doveva assolutamente dirglielo. Già. Perché c’era pure quell’altro problema da risolvere. – Generale, purtroppo ti devo nuovamente disturbare con quella faccenda di cui abbiamo discusso in Campidoglio, ricordi? Quel vostro uomo dell’anticrimine. – Certo che ricordo. Ricordo bene. Ho anche affrontato la questione, ma te lo ripeto, il colonnello Malatesta, in fondo, è un buon elemento. Forse un po’ indisciplinato. Sui generis, diciamo cosí. – Permettimi di insistere. Non è questione di disciplina, ma di sovversivi ai vertici dell’arma. E

su, Mario, andiamo. Rapisarda la pensava esattamente come Malgradi. Malatesta era un rompicoglioni. Eppure c’era qualcosa di sfacciato e soprattutto di imprudente e precipitoso nel modo in cui l’onorevole lo stava sollecitando. E poi, quella bava all’angolo della bocca. Un po’ di controllo, diamine. I tempi si erano fatti difficili. Se tutto veniva giú, l’ultima cosa da fare era contrarre crediti con debitori che forse non avrebbero potuto onorarli. Perciò, prudenza. Malgradi voleva Malatesta? Bene, lo avrebbe avuto se fosse stato necessario. Ma prima del tappeto doveva far vedere il cammello. E lo poteva far vedere ancora il cammello? Il generale si liberò di Malgradi con la scusa di una telefonata. Malgradi restò di sale. Ma che, lo stava schizzando, il caramba? Ma che ha paura di essere intercettato? Ma che ci ho i fili addosso? Cominciò a frugarsi, come colto da un assalto di pulci. Calma. Si accorse che Spartaco Liberati lo fissava stranito. – Stammi a sentire, coglione. Ti avevo chiesto di muoverti su quel cazzo di Malatesta e non ho sentito ancora niente. Zero spaccato. Qualche battutina della minchia e nient’altro. Non mi costringere a parlare con il Samurai. Non mi costringere, ché finisce male. – M’ha mandato lui. – Lo vedi? Allora muoviti. Ora. Non c’è piú tempo da perdere. Liberati si ritirò in buon ordine, rinunciando alla consueta richiesta di denaro: Malgradi era evidentemente fuori di sé. Il telefonino dell’onorevole vibrò. Malgradi lesse: «Bravo, sempre meglio! Avanti cosí!» Veniva da una scheda straniera. Era il sistema a prova d’intercettazione del Samurai. Il tono era ambiguo: poteva essere di sincero augurio come di minaccia. Malgradi alzò lo sguardo e si trovò davanti Michele Lo Surdo. Il commercialista aveva una brutta aria. – Siamo sputtanati, onorevole. – Che significa? – È tutto su un blog. – Come «tutto»? – Tutto. Il progetto, lo studio di fattibilità, New City, le concessioni di Ostia. C’è persino una fotografia del Samurai. Non so se ti rendi conto. Tutto. Tranne te. Strano, vero? Malgradi si rifugiò in un sorriso ebete. Un conato di roba gli risalí lungo le verterbe, strizzandogli le tempie in una morsa insopportabile. L’onorevole piroettò su sé stesso e si schiantò al suolo. Un piccolo, insignificante collasso dovuto allo stress di una vita spesa al servizio del paese, avrebbero riportato l’indomani le cronache.

XLII. Fare lo schifo era un’arte. E in quell’arte Spartaco Liberati eccelleva. Il Samurai aveva deciso che toccava a lui rinculare l’effetto del post spuntato come un fungo in rete. E quindi era il caso di non risparmiarsi. Un bella cascata di fango nell’ora di massimo ascolto di Radio Fm 922.

A rega’, stammattina sto avvelenato. Avvelenato fracico. E per una volta, i problemi della Roma nun c’entrano. Sentite che ho pescato in rete: «Io so. So che Roma è cosa loro. Adami, Sale, Anacleti, Perri, Viglione. Vi dicono qualcosa questi nomi? Io so. So che New City è il loro cavallo di Troia che ci soffocherà in una morsa di cemento armato tra l’Eur e il mare. Io so. So che non sono bonari forchettoni, ma assassini ispirati da un assassino, il Samurai…» Mi direte: embe’? E a te che te frega de ’sta monnezza? Me frega, me frega, invece. E ve dovrebbe frega’ pure a voi, miei cari ascoltatori. Perché qua si sta parlando di Roma, della nostra Roma. E del suo futuro. Ma io dico: se ponno diffama’ famiglie de gente perbene senza méttece manco la faccia? Si può calunniare Roma senza vergogna? No. Non si può. Io so, io so, io so… Ma che cazzo sai? Ma che sei, Pasolini? E poi, scusate se ve lo dico, ma pure ’sta storia, Pasolini de qua, Pasolini de là… ma se era vivo, a quest’ora ci aveva cent’anni! E che, non è successo niente nel frattempo? Ancora co’ Pasolini stiamo! Ma vedi d’annàttene. New City, dicono. Embe’? Che ci ha New City che nun va? A me mi risulta una società solida coi quatrini, quelli veri, rega’! E dice: tonnellate di cemento stanno per abbattersi su Roma. Un grande progetto! E magari ’sto progetto andasse a dama! Ma che, vi fa schifo se finalmente arriva un po’ di lavoro? Che, i muratori e l’operai che stanno a tirare la cinghia co’ ’sta crisi infame li mannamo a magna’ a casa tua? Si riempiono la bocca di crescita, sviluppo, ma se la dovrebbero sciacquare e levàsse er cappello, quando parlano del Samurai. Assassino lui? Brutti ’nfami. Mo’ perché uno ci ha avuto qualche problema da ragazzo, deve esse’ maledetto tutta la vita? Credete a me: er Samurai è mejo de Keynes! E sí, lo so, lo so che non lo sapete tutti ’sto nome, e mo’ ve lo spiego. John Keynes, si pronuncia proprio cosí, era un economista inglese che quando c’era la crisi diceva: fate lavorare il popolo. E che c’è di meglio per far lavorare il popolo che un bel progetto di cemento? Come dici? No, scusate, è Ottavio, dalla regia: ah, vòi sape’ chi le spaccia, tutte ’ste bugie? E mo’ te lo dico. Dunque, ho parlato con un amico alla polizia postale. Dice che il sito è anonimo, che viene addirittura dall’Ungheria. Seeh, Ungheria! Questa è roba nostra. E io so… mo’ è il caso di dirlo… io so che dietro c’è la manina di una nostra vecchia conoscenza. Ve la ricordate quella Alice Savelli che già aveva preso di punta i bravi ragazzi di Cinecittà? Be’, io ve dico che dietro c’è lei! Ve la raccomando! Una di buona famiglia, impaccata de sordi, che fa l’alternativa… Mo’, pure, alternativa per modo di dire… perché lo sanno tutti che sta co’ un carabiniere, uno che è tornato a Roma l’altroieri e già se crede d’esse’ er padrone… che magari è lui che je passa le dritte… Alice, guarda che potrai mettere tutti i cancelli e le protezioni del mondo, e magari non ti beccheranno mai, perché colla rete ci sai fare, te o chi per te… ma sta’ certa che la strada le cose le sa e le capisce. E allora sai che c’è? Savelli, me senti? Anzi, ’o senti ’sto coro? È la voce de Roma. Roma te vomita! E mo’ rilassamose. Randy Crawford e la sua One Hello, ’na negra, ma co’ ’na voce da favola.

Michelangelo de Candia armeggiò sul frontalino dello stereo della R4 e abbassando il volume si rivolse ammiccando a Marco Malatesta, che gli sedeva accanto. – Non male, la Crawford. Un po’ datata, ma anche il nostro Spartaco ha un’età. Anche se direi che abbiamo sentito abbastanza. O no? Marco era all’iPhone. Stava raccontando ad Alice dell’attacco di Liberati. – Non tornare a casa. Passa da Ponte Salario appena puoi, anzi, sentimi, vengo a prenderti. Ti porto in un posto sicuro… Come sarebbe, «ce l’ho già un posto sicuro?» Alice, stammi a sentire… Al diavolo! Ha chiuso… – Impulsiva e tosta. Ecco due altri aggettivi da aggiungere al trito e scontato «bella», – sottolineò Michelangelo. – Riportami a casa, per favore. Devo trovarla. – Suona come una confessione, – commentò asciutto De Candia. – E comunque, come ripensamento è tardivo. Dovevi pensarci prima. Quelli già sapevano di voi. Hanno fatto due piú due. Comunque, non credo che faranno ricorso alla violenza. – Devo trovarla, – ripeté Marco, cocciuto. Il Pm accostò.

– Ne avevamo parlato, se non sbaglio. Ed eravamo arrivati anche a una conclusione, se ricordo bene. Che divulgare la notizia era una pessima idea. Dimmi, Marco, tu e Alice cosa avete ottenuto, eh? Scommetto i cerchioni della mia R4 che entro oggi pomeriggio il sito verrà oscurato. Lo stato non dovrebbe gingillarsi dietro post anonimi. E per giunta ora sanno solo che sappiamo. E sanno soprattutto che abbiamo deciso di giocare sporco e dunque senza regole. Il che significa che ora comincia un’altra partita. Naturalmente, senza regole. Perciò, di che ti stupisci? Marco provò a farfugliare una qualche giustificazione. – Non mi piace starmene immobile ad aspettare. Dovresti averlo capito. Ci sono cose che, a un certo punto, vanno fatte e basta. E poi Rapisarda ha esagerato, e non ci ho visto piú. – E siamo a quota due impulsivi. Non cominciare adesso anche tu a posare da cavaliere bianco su un destriero. Avete fatto una cazzata. – Va bene. Abbiamo fatto una cazzata. Adesso posso ritenermi adeguatamente rimproverato e andare a cercare Alice? – Per fortuna, – proseguí Michelangelo, ignorandolo, – qualcuno ha pensato di portare questa pessima idea da qualche parte. Malatesta aggrottò la fronte in uno sguardo interrogativo. De Candia si fece sornione. – Oltre a postare anonimamente il vostro Io so, tu e Alice almeno avete dato un’occhiata alle reazioni della rete? Non sono un fan dei social network, ma una cosa credo di averla capita. Che ha un senso buttare un sasso nello stagno solo se poi ci si mette a osservare l’effetto che fa, giusto? – Qualcuno ha postato altre cose sul blog? – Sí. Questa notte. – E perché non l’ho visto? – Forse perché sei andato a letto troppo presto, – sorrise De Candia. – Forse, – sorrise di rimando Marco. – Che c’è scritto in quel post? – Si tratta di vecchi atti giudiziari sul conto del Samurai. I processi per rapina e banda armata negli anni Ottanta. L’associazione per delinquere con Dandi e il Freddo. Un tentato omicidio dell’85, e una storia un po’ piú recente. 1993. Il colpo al caveau della banca interna al palazzo di giustizia. – Che stai cercando di dirmi? – Sai quante condanne definitive ha avuto il Samurai per il suo turbolento passato di rivoluzionario in armi? – Niente di serio, se ricordo bene quello che ho letto nei nostri archivi. A parte i cinque anni quand’era ragazzo. – Bravo. Ti ho detto però che il nostro amico non ha postato i precedenti penali del Samurai, ma gli atti giudiziari delle inchieste che lo hanno coinvolto. E in quegli atti c’è una notizia. – Quale? – Sai chi è stato il pubblico ministero che ha rappresentato la pubblica accusa in tutti i processi che il Samurai ha affrontato? – Non mi dire. – Te lo dico, invece. Il dottor Manlio Setola. – Ci avrei giurato! – E diciamo anche che in quelle inchieste ha commesso qualche errore. – Mi stai dicendo che gli ha dato una mano? Che è colluso? – 1993. La rapina al caveau del palazzo di giustizia. Hai presente la vicenda? Ma forse no, eri un ragazzino allora, giusto? Forse non eri ancora nell’arma. La mente di Marco fu attraversata come una fitta lancinante dal ricordo della notte del Bagatto.

Dall’alito del Samurai nell’atto della clemenza. La cicatrice sulla tempia prese a pulsare. C’erano troppe cose di lui che De Candia non sapeva. – Sí, ero solo un ragazzino. Anche un po’ esaltato. – Ebbene, per quella rapina, Lothar, Mandrake e Botola, tre avanzi della vecchia banda, vengono spediti al creatore e due carabinieri marci in galera. – Fammi indovinare. Setola è il Pm che conduce l’indagine. – Sei perspicace, vedo. Ma c’è un dettaglio, decisivo. Mandrake e Lothar finiscono arrostiti nel blindato utilizzato per la rapina, mentre il nostro Botola chiude gli occhi con un colpo di pistola in fronte. – E dunque? – La pistola che ammazza Botola è un’arma molto rara. Una Mannlicher. Ed è un’arma con una storia. Spara una prima volta nel 1985, in un omicidio di cui è indiziato il Samurai. Indaga il giovane Setola e solo un miracolo può salvare il nostro dall’ergastolo. – Fammi indovinare ancora. Il miracolo accade. – Già. La Mannlicher, in quel 1985, scompare misteriosamente dall’ufficio corpi di reato e il Samurai, su richiesta del Pm Setola, viene prosciolto in istruttoria. 1985-1993. Per otto anni, quella pistola resta un fantasma. Poi, appunto, riappare sulla scena della rapina al caveau del palazzo di giustizia e spappola il cranio di Botola. Setola deve fare solo uno piú uno. La Mannlicher è la firma del Samurai. Dunque, il Samurai è in quella partita a palazzo di giustizia. Ma anche questa volta… – Setola non vede… Non collega. – Esattamente. L’inchiesta fa volare solo gli stracci. La pista dell’arma non viene non dico battuta, ma, a quel che si legge negli atti pubblicati nel blog, è ritenuta dalla procura, cito a memoria, «di nessun interesse investigativo e valore probatorio». Dunque, tre banditi al camposanto, due carabinieri puniti in modo esemplare, il Samurai al largo e con lui la sua Mannlicher. – Il Samurai tiene Setola per le palle da vent’anni… – Già. E probabilmente non solo lui. Una buona parte delle cassette svuotate nella rapina del ’93 appartenevano a uomini degli apparati, avvocati e magistrati. – Cristo santo. – È tutto, direi. – Dobbiamo farlo sapere, che razza di protezioni ha questo assassino. – Farlo sapere a chi? Questi atti sono sul blog, ti ho detto. – Messi cosí li capisci solo tu, quegli atti. – Errore, caro Marco. Li capisce il Samurai e li capisce il dottor Setola. – Allora andiamo da Setola. – Non è proprio giornata, mi pare. Non ti è bastata una sola cazzata? Questa roba tornerà utile. Ma non è il momento di usarla ora. – Hai ragione, Michelangelo. Anche perché Setola a questo punto se la farà sotto pensando che qualcuno può arrivare dove sei arrivato tu. De Candia annuí. Marco sentí la cicatrice smettere di pulsare. Fissò De Candia, che ricambiò lo sguardo. Si dissero tutto senza bisogno di parlare. Il Pm aprí lo sportello della R4. – Adesso va’ da lei, io faccio due passi. Dentro questa scatoletta di macchina non si respira piú.

XLIII. Farideh dava le spalle a Max, proteggendosi dal vento. Fissava estasiata il dedalo di bianchissimi intonaci della Chora e la sola lingua di asfalto dell’isola di Folegandros. La strada si perdeva per qualche chilometro a nordovest, verso i quattrocento metri di altezza dell’Agios Eleftherios, in direzione del villaggio di Ano Merià, l’unico altro centro abitato. Si voltò verso Max. Poi gli sorrise. Lui le accarezzò i capelli. Non aveva detto di lei al Samurai. In fondo, quale poteva mai essere il rischio? La ragazza ignorava tutto di lui. Cosí doveva essere. Lei si fidava. Gli si era consegnata senza condizioni. Nulla di quel viaggio avrebbe potuto insospettirla. «Mi hanno ingaggiato per riportare a Fiumicino una barca dalla Grecia. Pagano bene. E tu vieni con me, perché non voglio piú stare da solo o in compagnia di Kant». Nel primo pomeriggio, Shalva raggiunse la coppia in albergo, una semplice costruzione a picco sul mare. Max lo presentò come Misha, ricco uomo d’affari russo. – Sai, Farideh, che questo signore produce piú acciaio che tutta l’Italia messa insieme? – Troppo buono, Max. L’acciaio, ormai, è una cosa antica. E io mi sento tanto un uomo antico. Farideh fissò il georgiano negli occhi. – Lei mi sembra giovane, e comunque c’è una grande bellezza nell’antichità delle cose. Lo dico da persiana. – Ah, lo dicevo, io. C’era qualcosa che mi sfuggiva. Sei ariana. Ecco da dove viene tanta bellezza. Dovrò dirlo al nostro amico comune, vero, Max? Il riferimento al Samurai gli arrivò allo stomaco come un cazzotto. – Non sei d’accordo, Max? Pensi che il nostro amico non capirà quanto sei fortunato? Io penso di sí. E se non fosse cosí, ti assicuro che gli farò cambiare idea. – Quale amico? – domandò Farideh. – Un cugino di Misha, amore, – improvvisò Max. – Un cugino a cui ho portato la barca la scorsa estate e che era preoccupato che fossi single. Farideh arrossí. Bevvero un caffè, poi un altro, poi comparve una bottiglia di ouzo. A Shalva Max piaceva. Gli piaceva ancora di piú quella magnifica femmina di ambra che lo accompagnava. E dunque prolungò quel piacere olfattivo e visivo finché ne fu sazio e ritenne che fosse arrivato il tempo del congedo e delle istruzioni per cui, in definitiva, era seduto a quel tavolo. Con un cenno, Shalva prese Max da parte e gli consegnò una borsa impermeabile e un mazzo di chiavi. – La Runa la conosci bene. È giú alla banchina di Karavostásis. Se non ci vediamo domani mattina, buon viaggio. E quando arrivate a Fiumicino, fammi sapere. Ah, e salutami il Samurai. Digli che lo ringrazio per la questione delle badanti. Digli che è tutto risolto. Max registrò l’informazione. Shalva apprezzò la discrezione del ragazzo. Non era il caso di scendere nei particolari. Grazie alla soffiata che il Samurai gli aveva procurato, era riuscito a smascherare il traditore. Il traffico delle badanti era stato momentaneamente sospeso, ma l’infame aveva avuto il fatto suo. Alla maniera georgiana: con il cuore squarciato dalla lama rituale, e gli occhi cavati da due gusci di cozze gentilmente offerti dai partner baresi. I due giovani tornarono al tavolo. Farideh si alzò baciando Shalva sulle guance. – Spero di rivederla presto, Misha: è stato un piacere. – In barca, in barca tutti insieme la prossima estate, mia stella d’Oriente. Max lavora e noi

prendiamo il sole. E magari ci diamo del tu, visto che non ti sembro cosí vecchio. Oh, Max, non ti ingelosire. Ah, ah, ah… Verso sera, dopo l’amore, Farideh riaccese il cellulare. Lo aveva lasciato spento dal momento in cui aveva messo piede a Folegandros. Non aspettava chiamate urgenti e non aveva soldi per pagarsi il roaming. Lo accese qualche minuto per controllare i messaggi. E proprio mentre stava per tornare a spingere il tasto off, l’affare si mise a vibrare. Guardò il display. Alice. – Pronto, Alice, ciao. Farideh parlava sottovoce, per non svegliare Max, ma non per questo il tono riusciva a dissimulare con l’amica la felicità e la dolcezza del suo risveglio. Le raccontò della Grecia, del viaggio sulla Runa, della tenerezza che provava per Max, della passione. Alice la gelò. – Stai attenta a quel ragazzo. Forse non è quello che pensi tu. Farideh spense il telefono e per la prima volta tornò ad avvertire il senso sordo di tristezza e melanconia da cui credeva di essersi affrancata. Quella tristezza che l’aveva accompagnata dal giorno in cui, bambina, si era stretta al padre di fronte alla salma della madre, fino a quando non aveva incontrato Max. La verità era che era arrabbiata con Alice. Perché le aveva fatto quella telefonata? Cosa c’era che non andava nella sua felicità? È vero, allora, che le donne non riescono a essere amiche fino in fondo? Decise di allontanare quei cattivi pensieri e si accucciò nel letto. Premette le sue labbra su quelle di Max.

XLIV. Alice chiuse la conversazione chiedendosi se telefonare a Farideh fosse stata una buona idea. Aveva rimandato a lungo quella decisione. Se l’aveva presa, alla fine, era solo perché aveva deciso di fidarsi sino in fondo di Marco. Perché avrebbe dovuto mentirle su Max? Se Nicce era davvero lui, mettere in guardia Farideh era un gesto da amica. L’apparecchiò vibrò. Era lui. Per la decima volta. – Sto bene, non preoccuparti. Dammi un’ora e vengo da te. Ma sí, sono al sicuro, te l’ho detto, va tutto bene, non devi preoccuparti. Per tutta la giornata, lei e Diego, da casa del ragazzo, avevano monitorato il sito con un crescente senso di eccitazione. Un anonimo aveva postato atti giudiziari che riguardavano il Samurai. Non ci si capiva nulla. Certamente era un segnale indirizzato a qualcuno. Ma a chi? Comunque, lei la sua parte l’aveva fatta. Come previsto, il sito era stato oscurato dopo poche ore, ma gli oltre cinquecento messaggi ricevuti, fra sgomento e solidarietà, significavano che il sasso aveva sollevato un bel po’ di onde nelle acque stagnanti della capitale. La notizia era stata ripresa dalle edizioni on-line dei grandi organi di stampa. Un consigliere comunale dell’opposizione aveva preannunciato un’interpellanza. Il Tg regionale aveva intervistato il generale Rapisarda e il Pm Setola. Quest’ultimo aveva minimizzato, alludendo confusamente a illazioni indimostrate; Rapisarda era stato piú deciso: una provocazione bella e buona. Altra conferma che avevano colto nel segno. Per tutto il tempo Diego le aveva ronzato intorno, cercando di accorciare le distanze fra i loro corpi. Lei l’aveva respinto. Avevano avuto una storia, è vero. Ma ormai era acqua passata. Finché c’era Marco, strada chiusa. Non era di casini sentimentali che aveva bisogno, in quella stagione della sua vita. E poi, l’ansia di protezione di Marco la lusingava. Alice esitava a spendere la parola amore. Troppo presto, e troppe contraddizioni, ancora. E a sera, quando si sarebbero finalmente rivisti, gli avrebbe parlato chiaro: non si facesse prendere dai sensi di colpa, non era il caso. Era prevedibile che, mettendo tutto in rete, sarebbero risaliti a lei. Era già un bersaglio da prima, da quando aveva sfidato gli Anacleti. Gli sbarramenti virtuali potevano ingannare i giudici, ma non gente come il Samurai. Una ritorsione era prevedibile. E lei non era una fragile fanciulla da proteggere, ma una combattente. E se vuoi cambiare le cose, paghi un prezzo. Mentre saliva le scale del seicentesco palazzotto di famiglia in via del Corallo, pensò che nonna Sandra ci sarebbe rimasta male. Di solito restava a dormire da lei, accompagnandola dolcemente nel sonno scontroso degli anziani con la lettura di qualche pagina dell’adorato D’Annunzio. Quella sera si sarebbe limitata a rimboccarle le coperte. Troppa adrenalina, troppe emozioni, troppo desiderio. Aprí con le sue chiavi, si affacciò nell’ingresso in perenne penombra, e fu accolta con grande sorpresa da una risata garrula mista al sottofondo di una voce maschile bassa, gradevole, educata. La nonna aveva visite? E chi mai poteva ricordarsi di lei, a questo mondo, se non Alice? – Nonna? Sono io, Alice. C’è qualcuno con te? – Vieni, vieni, cara, ti stavamo aspettando… Attraversò quasi di corsa il lungo corridoio che menava al salotto, illuminato dal lampadario stile impero. Nonna Sandra sedeva sulla sua amata poltrona in velluto rosso, sotto un grande ritratto settecentesco che raffigurava Lucrezia Borgia, la leggendaria avvelenatrice. E di fronte a lei, intento a sorseggiare un tè, c’era il Samurai. Alice si bloccò sulla soglia e, d’istinto, strinse al petto la borsa col personal computer. – Alice, vieni a salutare il tuo amico. È una persona cosí squisita.

– Lei è troppo gentile, donna Alessandra, – disse il Samurai. E si alzò, con un inchino elegante. – Nonna, ti accompagno a letto. – Alice! Posso andarci da sola. – Ti accompagno, ti dico. Il Samurai aiutò l’anziana signora a rimettersi in piedi. Lei si appoggiò al suo braccio. Il Samurai la consegnò ad Alice. Per un istante i loro sguardi si sfiorarono. Gli occhi del Samurai erano gelidi, inespressivi. Mettevano paura. – È una persona davvero squisita, – ripeté nonna Sandra quando furono nella camera da letto. – Finalmente hai cominciato a farti degli amici come si deve. – Nonna, perdonami, ma ho un po’ di fretta. – Sí, sí, certo, cara. Va’, va’ pure, e quando esci ricordati di chiudere a chiave. Alice… – Sí, nonna? – Non trovi che il tuo amico rassomigli al maggiore Hermann? Alice sospirò. Durante l’occupazione tedesca di Roma, nel ’44, il palazzotto di via del Corallo era stato requisito dalla Wehrmacht. Il padre di nonna Sandra combatteva con gli americani, e il resto della famiglia era ostaggio dei tedeschi. Il maggiore Hermann aveva garantito personalmente della loro incolumità. Nonna Sandra ne serbava il ricordo con una venerazione che rasentava l’idolatria. Il maggiore Hermann era il suo metro di misura del fascino maschile. Alice sospettava che fra il distinto ufficiale uncinato e la giovane rampolla di casa Savelli ci fosse stato qualcosa di piú del reciproco rispetto. – Il maggiore Hermann è morto da cinquant’anni, – tagliò corto. – Quando vuoi sai essere davvero scorbutica, – replicò la vecchia, sdegnata. Il Samurai se ne stava in contemplazione del ritratto di Lucrezia Borgia. – Sua nonna mi ha raccontato che di notte Lucrezia si stacca dal quadro e prende vita. Mi ha detto che, secondo lei, è stata ingiustamente calunniata. Non era un’assassina. In ogni caso, il tè me lo sono preparato con le mie mani… D’altronde, la calunnia è un’arma potente, e lei dovrebbe saperne qualcosa, vero, Alice? – Che cosa vuole da me? – Che si accomodi e mi accordi cinque minuti del suo prezioso tempo. Non le chiederò altro. – Dovrei fidarmi? – È libera di andarsene. Poteva farlo anche quando è entrata. – E lasciarle nonna Sandra? Non l’avrei mai fatto. – Capisco. Ma lei davvero crede che uno come me si metterebbe a far del male a un’anziana signora? Mi sottovaluta, decisamente. Se avessi voluto, ne avrei avuta tutta l’occasione, nelle ultime due ore che ho trascorso qui. Devo dire, ore davvero piacevoli. Donna Alessandra è una vera signora, se lo lasci dire. In altri tempi, persone come lei avrebbero schiantato cuori di guerrieri ben piú nobili di me. – Lei si ritiene un guerriero, dunque? Il Samurai si versò del tè e gliene offrí. Alice rifiutò. Ma, infine, sedette su una sedia Thonet, a qualche passo da lui. – In questa sua domanda riconosco la Alice che ha fatto perdere la testa al mio vecchio amico Marco. – Marco non è suo amico! – reagí lei. – Lo era. E certe cose contano. Sono legami sottili che si instaurano fra le persone di valore e le

condizionano per tutta la vita. Anche oltre le loro intenzioni… ma di questo parleremo dopo. Sa perché lei non è fuggita urlando, non ha chiamato il 113, non ha cercato di aggredirmi, Alice? No? Glielo spiego io. Perché lei è una persona curiosa. Vuole sapere. Vuole accumulare conoscenze. E in questa sua ansia si lascia portare per mano dalle persone sbagliate e trae conclusioni affrettate. E questo per un alfiere della generazione dell’esattezza come lei, è imperdonabile. No, non mi interrompa. I cinque minuti non sono ancora scaduti, la prego. Lei e Marco vi illudete di fermare la storia. Il Grande Progetto è la storia e si farà, nonostante voi e vostro malgrado. – È una minaccia? – sorrise lei, sarcastica. – È una constatazione. Tutto qui –. Il Samurai si aggiustò la piega dei calzoni neri. – Ha mai sentito parlare del Bagatto? – È una carta dei tarocchi. – Ovviamente. Il principio attivo, lo spirito che dà inizio al Grande Gioco. Ma provi a digitare in rete «centro sociale Il Bagatto». Il resto se lo faccia spiegare da Marco. Anzi, visto che ne abbiamo l’occasione, mi faccia l’ultima cortesia. Gli telefoni. E me lo passi. Alice obbedí, soggiogata. Compose il numero e, alla risposta, cedette l’apparecchio al Samurai. – Ciao, Marco. Volevo farti i complimenti. La tua nuova fiamma è speciale. Poi le restituí l’iPhone e prese congedo, beffardo e cortese. Mezz’ora dopo Marco era in via del Corallo. – Metti via l’arsenale, lui se n’è andato. E fai piano: nonna Sandra ha il sonno leggero, – disse Alice. Quando cercò di abbracciarla, lei lo respinse. – Hai ragione. Sono un idiota. Ti ho gettata in pasto ai lupi. Non potrò mai perdonarmelo. Adesso ti porto via da qui. – Marco, che cos’è Il Bagatto? Marco si lasciò andare su una poltrona. Si prese la testa fra le mani. E le raccontò tutto. Tutto quello che aveva taciuto. Il padre ferroviere, comunista da sempre. La fede cieca nella gerarchia del partito, dal compagno segretario, chiunque fosse, giú giú, sino all’ultimo burocrate che si arrogava di sparare ordini alla mansueta moltitudine dei credenti. Marco aveva odiato tutto questo. L’odio l’aveva spinto fra le braccia del Samurai. Aveva creduto in quell’uomo. Poi era stato sul punto di ucciderlo. E lui, in cambio, lo aveva graziato. Le parlò della mitezza della madre, dello sconcerto del padre quando seppe che aveva passato l’ammissione in accademia: meglio un figlio fascista o carabiniere? Alla fine si erano riconciliati. Ma lui se n’era andato lasciando in sospeso troppe cose non dette, troppi abbracci negati, troppe lacrime trattenute. – Adesso sai tutto. – Adesso è tardi. Dovevi deciderti prima. – L’avrei fatto. Era solo… d’accordo, non ho scuse. Perdonami. – Per un po’ sarà meglio non vedersi, Marco.

XLV. Dall’Eur erano partiti, pensava il Samurai fissando il Fungo, e all’Eur tornavano. E in mezzo c’era una vita intera. Erano stati pischelli allevati nella mistica del gesto, cresciuti nel culto della razza, allevati nell’odio del presente. Sognavano un passato eroico, vagheggiavano il trionfo del superuomo, e intanto si riunivano all’ombra del Fungo per costruire l’azione. Avevano imposto la loro legge sull’Eur. Quale migliore territorio di caccia di quel quartiere di geometrie puntute e di spazialità che non ammette curve, memoria dell’utopia fascista naufragata nel tradimento? Si erano illusi, gli altri, i rossi, i potenti, i nemici di sempre, di averli rinchiusi in una riserva indiana. Avevano dimostrato con il sangue che per gente come loro non esistono riserve. Erano partiti dall’Eur per conquistare la città. E all’Eur ritornavano. Per una nuova partenza? Per la resa? Il Samurai era in preda a sentimenti contraddittori. A ragionare con freddezza, la situazione stava precipitando. La sconfitta era nell’aria. Il governo aveva i giorni contati. Si aspettava solo il certificato di morte. La storia del blog complicava le cose. Erano corsi ai ripari, ma il danno era fatto. L’approvazione della delibera era una lotta contro il tempo. I cavalli annaspavano, sfiatati. O forse allevatori e fantini avevano esagerato con la droga, e le bestie tiravano le cuoia, gli organi spappolati dall’abuso chimico. Malgradi stava cedendo. Nei circoli che contano si parlava già di successione. La riuscita dell’impresa era ormai legata all’imponderabile. Il Samurai aveva cercato di riportare all’ordine le falangi impazzite della strada. Non era ancora pronto ad ammettere il fallimento, ma era solo questione di tempo. Dall’Eur erano partiti, e all’Eur si ritrovavano. Il Samurai ricordava i pomeriggi di frenetiche consultazioni, lo scambio delle armi, il brivido del passamontagna, il contatto con il calcio caldo della semiautomatica. Con i soldi della prima rapina si erano concessi una cena di lusso al ristorante del quattordicesimo piano. Il mitico Fungo. Di quella combriccola di pazzi senza cuore era l’unico superstite. Ora che al Fungo ci andava quando voleva, accolto come un re, riverito come un pascià, gli mancava l’emozione calda di quegli anni che non sarebbero mai piú tornati. Il Samurai era triste. E si chiedeva se ne fosse valsa la pena. Era una mattina chiara e soleggiata. Due mignotte in erba si scoprivano i seni a turno, a beneficio degli operai del servizio giardini. Basta con l’autocommiserazione. C’erano altri progetti da mettere in cantiere. C’erano altre strade da esplorare. C’era tutta una vita da ghermire e possedere. Basta. Se ne tornò verso la Smart, col passo orgoglioso dell’uomo che non ha ombre, o che ha deciso, una volta per tutte, di non averne. Marco Malatesta lo aspettava, appoggiato al veicolo. – Dovrei spararti in mezzo agli occhi. Il Samurai affondò le mani nelle tasche della giacca di pelle Tom Ford. – La ragazza l’ha presa male, vero? Colpa tua. Alle donne bisogna dire la verità. Magari non sempre, e non tutta insieme. Ma le cose importanti, Marco, almeno quelle. – Hai varcato un limite, Samurai. Questa è una storia fra noi due. Lei dovevi tenerla fuori. – Sei stato tu a trascinarcela, non io. Comunque, sono d’accordo con te. La guerra non si addice alle signore. Infatti, stamattina non ti sei ritrovato la bella testolina di Alice sulla tua scrivania, a Ponte Salario.

– Fottiti, Samurai. Non ce la farai a vincere. Non questa volta. Il tuo Grande Progetto è morto prima ancora di nascere. Il Samurai sorrise. Adorava giocare a carte scoperte. Adorava confrontarsi con un nemico all’altezza. Era come tornare ai vecchi tempi. Quando le cose erano piú chiare, e la strada e il Palazzo erano ancora il terreno di uno scontro fra uomini. – Il Grande Progetto! Hai idea di che cosa significherà per questa nostra Roma? Migliaia di posti di lavoro, case per la povera gente, un nuovo benessere. – Queste stronzate lasciale dire a Spartaco Liberati. Hai messo in piedi una greppia per tutti gli infami di Roma, compresi i preti. – Il cemento è l’anima di Roma, colonnello. E i preti, si sa, hanno molto a cuore le questioni che riguardano l’anima. – C’è la guerra, Samurai. E quando c’è guerra non c’è progetto. E tu questa guerra non riesci a fermarla. – Guerra? Di che parli? Io vedo solo pace. – Guarda meglio, Samurai. Tu non eri quello che sapeva sempre tutto? – Una volta, forse. Quando stavamo dalla stessa parte. – Io non sono mai stato dalla tua parte. Siamo in due eserciti diversi, noi due. Noi due. Noi e loro, come un tempo. Suo malgrado, il Samurai provava una certa ammirazione per quelli come Malatesta. Raræ aves, uccelli molto rari nel cielo sporco dei servitori dello stato. – Qui ti sbagli, – riprese il Samurai, paziente. – Ai vecchi tempi la strada sognava di diventare come voi. Sognavamo la normalità, il potere, l’agiatezza. E magari, perché no, un mondo migliore. – Stronzate. Ti stai raccontando una storia che non esiste. – E invece adesso, – riprese il Samurai, sullo stesso tono, – siete voi che vi sforzate in tutti i modi di essere come noi. E ci riuscite molto bene. Marco non replicò. Aveva pensato la stessa cosa quando aveva interrogato il Numero Otto, scampato all’agguato di Paja e Fieno. Si era chiesto se «Noi» e «Loro» avesse davvero ancora senso. Se i preti, Rapisarda, Setola appartenessero allo stesso stato dei De Candia. Se fossero il Palazzo. E lui? Dove stava veramente il colonnello Marco Malatesta? Da che parte? Marco si scostò e lasciò strada al Samurai. Ma questa volta fu il bandito a restarsene immobile. – Sbagli a prendertela con me. Tu e io apparteniamo alla stessa razza. La razza degli uomini d’ordine. Cerchiamo di mantenere la barra dritta in mezzo a questa Babilonia che è diventata Roma. – Cazzate, cazzate, cazzate! Il pesce puzza dalla testa, – si rivoltò Marco. Il Samurai allargò le braccia. – Ancora con queste categorie cartesiane. Il pesce, la testa… Il mondo è cambiato, direi purtroppo, ma è cambiato. Hai mai letto Bauman, in proposito? E fu il turno di Marco di scoppiare a ridere. Non bastava Keynes. Anche Bauman, adesso! – Salutami Max, – si congedò, con un ghigno, – è un po’ che non lo si vede in giro. Il Samurai s’irrigidí. Marco comprese che il legame fra il Samurai e il «filosofo» era ancora tutto da esplorare e, al ritorno in ufficio, diramò un ordine di ricerca del giovane amante di Farideh. Telefonò ripetutamente ad Alice. Segreteria. Lei si negava. Marco si sentiva bruciare dentro quando ricevette una chiamata sulla linea di servizio. Thierry era decisamente preoccupato. – Hai mandato qualcuno alla manifestazione? – Quale manifestazione, scusa? – Ma dove sei? Sta succedendo il finimondo! Accendi la televisione, se non mi credi. Immagini di scontri a Roma. Colonne di fumo. Un blindato assediato dai manifestanti in piazza San

Giovanni. Afferrò casco e pistola e si precipitò verso la Bonneville. Con Alice non se n’era parlato. Ma se c’era un casino simile in giro, c’era sicuramente anche lei.

XLVI.

Sotto un magnifico sole, in un pomeriggio da estate di San Martino, la piccola mongolfiera double face con il morphing da vampiri del presidente del consiglio e del ministro dell’Economia dondolava a mezz’aria su un tappeto umano fitto, coloratissimo, vociante, che rimbombava di slogan. Alice si era annodata alla vita la North Face nera, maledicendo quell’impiccio di gore-tex che, per quanto ultraleggero, sempre un impiccio restava, e che stupidamente si era portata dietro in quel giorno senza nuvole. Rimase cosí con la sola maglietta arancione che le aveva regalato Diego. «Incazzati!», c’era scritto sulla T-shirt dei Draghi Ribelli. Non un granché evocativo, forse. Ma molto chiaro. Alice fissò estasiata lo spettacolo in cui era immersa, continuando a scattare foto con l’iPhone. Nella notte aveva avuto qualcosa di simile a uno dei vecchi attacchi di panico. Con gli occhi sbarrati, si era chiesta se a Marco non dovesse concedere un’altra chance. Per la prima volta dopo tanto tempo non sapeva che fare. E la prima decisione non le sembrava piú quella giusta. Alla manifestazione c’era arrivata stanca e stressata, quasi senza convinzione. Ma quello che stava accadendo intorno a lei aveva dell’incredibile. Il piacere fisico della comunanza e dell’azione cancellava qualsiasi dubbio. Non ricordava di aver mai visto nulla di simile. Ce l’avevano fatta. L’evento si era fatto virale. Ma quanti erano? Duecentomila? Trecentomila? A Diego brillavano gli occhi. Le allungò una Ceres e le mostrò sullo smartphone l’ultimo aggiornamento della diretta multimediale di repubblica.it – Di piú, siamo di piú. La questura sta dicendo cinquecentomila. Capisci, Alice? Se loro dicono mezzo milione, saremo almeno il doppio. Se lo ricorderanno questo 15 ottobre. Erano quasi le tre, ormai. Si era sistemata dietro uno striscione – «Donne e Basta» – che da oltre un’ora tentava di mettersi in movimento. E piazza Esedra – ma sí, continuavano a chiamarla con il vecchio nome – non ne teneva piú. Non erano ancora partiti quando seppero che il camion di «Uniti contro la Crisi» con la Fiom e la testa del corteo erano già quasi in fondo a via Cavour, all’altezza di largo Corrado Ricci. Lei riusciva a stento a intravedere il furgone di «San Precario» con gli operai di Pomigliano, anch’essi bloccati in piazza dei Cinquecento. Si soffermò su un altro striscione «United for Global Change» che dichiarava ufficialmente guerra al regime delle banche e dei banchieri. Pensò per un attimo a Marco: chi sa come avrebbe ironizzato su quell’obiettivo cosí sproporzionato. – Oh, non c’è modo di muoversi! – protestò nervoso Diego. L’immobilità forzata comunicava anche a lei, insieme a un’eccitazione irrefrenabile, un senso di insicurezza. Sapeva che una stasi troppo lunga non promette mai nulla di buono. Sfinisce. Incuba cattivi umori. Peraltro, non aveva ancora visto una sola divisa. E la cosa non era necessariamente una buona notizia. Sembrava che celere e carabinieri si fossero volatilizzati. Dove diavolo si erano cacciati? Li avevano visti al lavoro nella pacifica prova generale della sera prima, in via Nazionale, davanti al Palazzo delle Esposizioni, dove i Draghi Ribelli avevano piantato le loro tende Quechua per una notte Occupy. Con dodici ore di anticipo, la questura aveva chiuso tutti gli accessi del centro storico verso piazza Venezia e via dei Fori Imperiali. Trincee formate da blindati e reparti antisommossa sigillavano come un’immensa legione di catafratti ogni interstizio – strada o vicolo che fosse – tra il quartiere Monti, il traforo del Tritone, via Barberini. Vale a dire, le tre simboliche porte che conducevano alla Città Proibita. Alla Roma dei Palazzi. La camera, il senato, Palazzo Chigi, Palazzo Grazioli, residenza privatissima del presidente del consiglio. Ma sí. Che si fottessero facendo la guardia a una città che in quel modo sarebbe rimasta proibita

non solo agli Indignati. Ma a tutti. E che nel suo silenzio spettrale sarebbe diventata cosí la prova manifesta di quello che loro gridavano in piazza. Che il re era finalmente nudo e chiamava a raccolta le sue truppe a protezione di palazzi diventati soltanto il simulacro di un potere vuoto. Illegittimo, perché di pochi e privo di rappresentanza. La città, quella vera, quella altra, sarebbe stata la loro. Tuttavia, un problema c’era. Altroché, se c’era. Alice se lo trovò di fronte quando le «Donne e Basta» in cui era intruppata riuscirono finalmente a guadagnare i primi metri in direzione di piazza dei Cinquecento. Alice riconobbe i Neri. Arrivarono a passo spedito dalla stazione Termini. Il colore plumbeo delle felpe, la pesantezza degli anfibi, gli zaini e soprattutto quei maledetti caschi, assicurati alla vita da moschettoni, dicevano da soli piú e meglio di qualsiasi parola d’ordine. Alice riconobbe l’accento piemontese dei centri sociali della cintura torinese, i veneti del No Dal Molin e l’inconfondibile dialetto salentino dei leccesi e dei brindisini. Gli uni e gli altri, presto sopraffatti e confusi nell’intercalare pesante delle tronche di quei tipi romani di Ponte Marconi. Quelli che giravano sempre con qualche cane appresso e con cui aveva scazzato un anno prima, il 14 dicembre, in piazza del Popolo, quando le avevano dato della «fighetta» durante un lancio di molotov e sampietrini. I Neri entrarono nel corteo come una lama nel burro. Peggio, come fosse roba loro. Senza incontrare alcuna resistenza e, soprattutto, senza dover attraversare alcun filtraggio. Le divise stavano altrove. A presidiare i fianchi del corteo erano rimaste poche e smarrite pattuglie della municipale. E i pizzardoni, chiusi nelle loro macchine, si erano guardati bene dal chiedere a quella montante marea nera che arrivava dalla stazione Termini che diavolo ci facessero a spasso con i caschi. Hai voglia a dire che il corteo era autoprotetto. Lo sapevano tutti che era una cazzata. Anche lei. Lo sapevano tutti che in quel pomeriggio nessuno proteggeva nessuno. E nessuno era responsabile di altri che non fosse sé stesso. Lo sapevano loro. Lo sapevano le guardie. Alice pensò che la discesa per via Cavour avrebbe dovuto sgranare e diluire quel grumo velenoso che si era prima insinuato e ora aveva preso saldamente il centro del corteo. Ma si sbagliava. I Neri procedevano annunciati da tre cordoni, dietro cui continuavano ad aggregarsi ordinatamente uomini e donne che sembravano rispettare una sincronia di movimenti a lungo studiata. E anche i due lisi vessilli con la A dell’anarchia, che pure sventolavano in piazza dei Cinquecento ed erano evidentemente serviti solo come richiamo, come certi ombrelli agitati dalle guide turistiche al Colosseo, erano stati riavvolti e infilati negli zaini. Un altro pessimo segno. La gioia di piazza Esedra era stata prosciugata da un’ansia contagiosa. Gli elicotteri di polizia e carabinieri che seguivano dall’alto quel fiume umano e rimandavano le immagini aeree sui monitor della sala operativa interforze della questura e sulla diretta di Sky, si fecero minacciosamente sempre piú bassi. Il chop-chop-chop dei rotori era un sinistro rumore di fondo, che impastava le voci e le musiche di quella moltitudine che ancora credeva in un pomeriggio senza nuvole. Alice si ritrovò accanto Diego, affannato. – Non mi piace, Alice, non va bene. La testa è quasi arrivata a San Giovanni, ma le guardie si stanno ammassando in largo Corrado Ricci. Ho paura che vogliano spezzare il corteo. – Ma perché? Diego indicò i Neri con un cenno della testa. E fu questione di secondi. La Suburra, l’antico quartiere dei lupanari cantati da Petronio, era ai loro piedi. Via dei Serpenti a destra, via del Colosseo e la sacra collina di Giove Fagutale a sinistra. Con quell’ammezzato che un ministro aveva scoperto comprato a sua insaputa da qualcun altro e per questo diventato ormai

celebre come e piú di un immortale fescennino. La Suburra, immagine eterna di una città irredimibile. Casa di una plebe violenta e disperata che secoli prima si era fatta borghesia e che della città occupava il centro geografico esatto. Perché ne era e ne restava il cuore. La Suburra, l’origine di un contagio millenario, di una mutazione genetica irreversibile. Era quello il luogo. Come non averci pensato prima. – A’ mmerdeee! Come un fischione che annuncia il botto, l’urlo del Nero precedette lo schianto spaventoso di un cartello stradale divelto e trasformato in ariete contro le vetrine di un’agenzia di lavoro interinale. Gli incappucciati, ora, avevano infilato i caschi e tirato su i cappucci delle felpe, e si muovevano come ballerini del Bol´šoj. In una danza nichilista di fuoco, pietre, biglie di ferro. Alice e le sue «Donne e Basta» sbandarono. Avvolte in un fumo grasso di copertoni e carburante, bruciavano almeno tre macchine in sosta, mentre dall’ingresso di un supermercato avevano preso a piovere sull’asfalto i trofei di un esproprio volante. Confezioni di corn flakes, scatolette di tonno, bottiglie d’acqua, lattine di chinotto Neri, buste di salmone scozzese. Sull’altro lato della strada, schiacciata nella risicata intercapedine di un portone sbarrato, Alice cominciò a gridare a squarciagola. – Fascisti! Fascistiii! Siete dei fascisti! Un incappucciato la fissò per qualche secondo. E per un attimo abbassò la fionda pronta a depositare la sua lucente biglia sulle insegne di una banca. – Vaffanculo, stronza! Ora Alice piangeva. Conosceva la forza magnetica della violenza di piazza, la sua capacità di oscurare il senso, l’odore, la musica, le parole di chi l’aveva pacificamente occupata. Si era accovacciata sull’asfalto con la testa china sulle gambe e non riusciva piú a sostenere lo spettacolo di distruzione, di cui però continuava a sentire gli schianti. Provò a togliersi da quel maledetto portone chiuso alle sue spalle e si accorse di essere rimasta sola. Diego era sparito. Erano sparite quelle di «Donne e Basta». Un signore di mezza età con il fazzoletto della Cgil al collo grondava sangue dal cuoio capelluto. Aveva provato a mettersi fra i Neri e il cash-dispenser di un bancomat, prima che una spranga gli aprisse la testa. Ma dov’erano le guardie? Che facevano? Perché cazzo stavano a guardare? Provò a cercare conforto in uno sguardo. In un accenno di reazione. Nulla. I Neri avevano mano libera. Si rivolse al tipo che era sbucato a una decina di passi da lei. Aveva un fazzoletto tirato sul naso che gli copriva bocca e mento, una giacca di cotone chiara con il cappuccio alzato. E continuava a puntare la sua telecamera digitale Olympus verso il centro della scena con movimenti lenti e studiati. Che sembravano impermeabili all’adrenalina di quei momenti. Doveva essere un giornalista. – Riprendi, riprendi tutto! Tutto! Devono sapere che la polizia sta a guardare. Fascisti! Finché lui non la vide. Il maresciallo Carmine Terenzi si sbottonò il cappotto di cammello e schiacciò la sigaretta sotto lo scarponcino Timberland su cui poggiava a zompafosso l’orlo dei pantaloni stretti alla caviglia, a ciga. Alzò la visiera del casco e, puntando il tonfa verso Alice, distante una cinquantina di metri, si rivolse sottovoce all’appuntato che si era staccato dal drappello del battaglione Calabria, di cui Terenzi aveva per quell’occasione il comando. – È lei. Forza!

I Neri si erano dissolti come d’incanto e Alice non ebbe neppure il tempo di capire chi fossero quei lupi in branco che le si stavano avventando contro. Neri anche loro. Ma con il tricolore sul petto. E la fiamma sul casco. Il primo colpo di tonfa la raggiunse alla guancia, allagandole la bocca del sapore ferroso del sangue. Alice vacillò, ma riuscí a restare in piedi. Stordita, assunse la posizione di guardia che aveva provato mille volte in palestra. Scartò il primo catafratto che le veniva incontro piegandosi sulla sinistra, e col destro sferrò un diretto che lo mandò a gambe all’aria. Qualcuno gridò qualcosa alle sue spalle. Alice si voltò e menò un altro colpo alla cieca. Incontrò qualcosa di morbido, avvertí un gemito. Ne aveva schiantato un altro. Bene. Si rimise in guardia. Il secondo colpo di tonfa le arrivò inatteso, fra collo e spalle. Crollò a terra. Uno, due, forse cinque anfibi finirono il lavoro. Rannicchiata in posizione fetale, sentí esplodere la schiena, le gambe, le caviglie. Quindi, arrivò il dolore lancinante ed elettrico della presa sui capelli. Un guanto di pelle che usciva dalla manica di un cappotto di cammello la stava trascinando verso un blindato, le cui porte si spalancarono con il rumore che anticipa la galera. Alice si ritrovò scaraventata sul lurido fondo di metallo del mezzo, paralizzata dal dolore e dalla paura. Qualcuno dei militari la stava osservando. Ne riconobbe la voce. – E brava la nostra puttanella! Savelli Alice, la ricreazione è finita. Ti è piaciuto distruggere tutto con i tuoi amichetti, eh? T’è piaciuto Occupy? Ora, occupy questa minchia! Terenzi. Era quel pezzo di merda di Terenzi. Vincendo il dolore che le bloccava il collo, Alice provò a girarsi verso i portelloni del Ducato, prima che quell’infame maresciallo li richiudesse. Non ne ebbe il tempo. Le piombò sulla testa la sua giacca nera North Face. Di cui avvertí un peso assolutamente insolito. Rovesciò le tasche. Piovvero biglie di ferro. Quella giornata di merda non sembrava volersela portare via neanche la notte. Malatesta aveva inseguito gli incappucciati fino alle ventuno, in via Merulana, dove un’ultima carica li aveva dispersi prima che riuscissero a far saltare con le molotov il distributore Tamoil. Il che avrebbe consegnato la strada e il quartiere ad altra epica che non quella di Carlo Emilio Gadda. E quando aveva finalmente varcato la sbarra della carraia di Ponte Salario, aveva concluso che se esisteva un dio, quel giorno aveva posato la sua mano misericordiosa su piazza San Giovanni. Perché se in via Emanuele Filiberto nessuno era stato travolto dal carosello impazzito degli idranti del reparto mobile, e se nel rogo del blindato dell’arma non era bruciato vivo un appuntato, questo non lo si doveva certo a nessuno dei contendenti. Ma era l’unica buona notizia, per quanto lo riguardava. Il telefono di Alice aveva continuato a restare muto. Marco aveva un brutto presentimento. Chiese alla Bruni di procurarsi un elenco definitivo degli arrestati. Lei era la numero uno. Savelli Alice, nata a Roma il 7/11/1983. Arrestata in flagranza di reato da aliquota battaglione Calabria in via Cavour alle sedici odierne. Reati contestati: devastazione e saccheggio, resistenza e oltraggio a pubblico ufficiale. Esito delle perquisizioni personali: positivo. Ristretta presso la casa circondariale di Rebibbia. Delega Pg: Digos di Roma. Alba si schiarí la voce con un colpo di tosse. – Scorpione. – Eh? Che dici?

– La Savelli è del segno dello Scorpione. Come me. – Alba? – Sí, colonnello. – Vaffanculo! Vattene a fare in culo! Malatesta mollò un pugno terrificante sulla scrivania e con un calcio sfondò il tritadocumenti di plastica. Gli tremavano le mani dalla collera e sbriciolò tra i polpastrelli due Camel prima di riuscire ad accendere la terza. Alba era sconvolta, prima ancora che umiliata. – Te lo dico con il cuore, Marco. Quella stronzetta ti ha sputtanato. Malatesta la fissò con odio. – Ma tu che cazzo ne sai, eh? Che cazzo parli? Musica. Aveva bisogno di musica. Smanettò sul computer e lanciò la web radio. Che si sintonizzò sulla prima stazione nella lista dei preferiti. Radio Fm 922. Non c’era nessuna musica. Cristo, Spartaco Liberati a mezzanotte? E che cazzo c’entrava lui con gli incidenti di quel pomeriggio? Un macello. Ecco che è successo, cari amici. Un macello. Una Caporetto. Che dico, una Waterloo. Oggi, possiamo dire che le forze dell’ordine hanno consegnato la nostra città alla furia comunista dei Black-bloc.

Alba provò a dargli sopra con la voce. – Ma perché devi tormentarti con questo troglodita? Marco la zittí. Macchine bruciate, supermercati assaltati e devastati. E la polizia, i carabinieri? Guardaveno, cari amici ascoltatori. Hanno aspettato che arivassero a San Giovanni. E solo lí, davanti al suolo sacro di una basilica, se so’ ricordati che al mondo ce so’ le guardie e i ladri. Hanno pure rotto ’na croce. Ve chiederete: perché? Eh, perché? Il perché, cari amici, ve lo spiega in esclusiva il vostro Spartaco Liberati. Un uccellino molto, ma mooolto informato mi dice che una delle menti di questo pomeriggio di devastazione è una nota estremista. Se chiama Alice Savelli. Ne abbiamo già parlato, no? Quella che su internet se diverte a calunniare la brava gente… Quella del blog che nun vòle fa’ costrui’ le case a Roma, che già ce n’ha tante. Embe’, direte voi. Embe’ lo dico io, invece. Perché Alice Savelli, me dice sempre lo stesso uccellino, è la fidanzata di un importante carabiniere che oggi stava in piazza. Avete capito l’antifona?

Marco spense il Pc. – L’uccellino. L’uccellino. Pezzo di merda –. Chinò la testa sul petto, afferrandosela tra le mani. Chiuse gli occhi e provò a respirare, avvertendo una fitta alla bocca dello stomaco. – Michelangelo. Devo chiamarlo. Alba provò un’ultima volta a farlo ragionare. – Pensaci ancora un attimo, Marco. Se ora chiami De Candia, questa storia non la controllerai piú. È già difficile cosí. Stammi a sentire… Marco aveva già afferrato il telefono fisso e composto il numero di casa del Pm. Ancora non dormiva. O se dormiva, era bravissimo a non darlo a intendere. – Michelangelo… – Marco, ma… hai idea di che… – Hanno arrestato Alice. – Dammi un quarto d’ora e ti richiamo.

Michelangelo de Candia si presentò di persona a Ponte Salario con pessime notizie. Il fascicolo sugli scontri di San Giovanni era, guarda caso, in mano al Pm Setola. Noto, fra l’altro, per aver tenuto un anno in custodia cautelare un macellaio marocchino con l’accusa di essere il capo della rete italiana di al-Qaida. Il tutto grazie, si fa per dire, all’errore di traduzione di un brigadiere che, in fatto di lingua araba, ne sapeva quanto lo stesso Setola: vale a dire, un tubo. – Il nostro ineffabile amico ipotizza un legame di Alice con gli anarchici greci. Risultano telefonate in Grecia. L’utenza, che non hanno ancora rintracciato, risponde con una segreteria in greco e inglese. Dice anche, Setola, che la ragazza, al momento dell’arresto, ha steso a cazzotti due operanti. Non mi hai detto che aveva un cosí bel sinistro. – Ma ti pare il momento. – Ah, e poi aveva la giacca piena di biglie di ferro. Il verbale d’arresto sembra granitico. Dieci deposizioni. L’intero reparto che l’ha fermata durante le devastazioni di via Cavour. Marco scosse la testa. Era la fine. La fine. E lui, il peggior coglione che avesse mai indossato la divisa. Michelangelo de Candia si prese una pausa, poi tossicchiò e rivolse un cenno del capo verso la Bruni, che aveva sentito tutto. – Lei ci crede, capitano? – Io? Se c’è il verbale, la parola dei colleghi. – Per me, sono tutte solenni sciocchezze. Una montatura, in altri termini. – Ma come fa a dirlo? – insorse la capitana. – Primo, – argomentò De Candia, – è roba di Setola, e questa per me è una ragione sufficiente. Secondo, nemmeno un minuto dopo l’arresto la notizia è sulla bocca di tutti, e zac, parte l’attacco a Marco Malatesta. No, non ci vedo chiaro. La Bruni non credeva alle sue orecchie. Nel mondo ordinato nel quale l’aveva cresciuta il padre, generale dell’arma, il confine tra il bene e il male è un dato ontologico indiscutibile. Contro la Savelli c’erano prove inoppugnabili. E adesso questi due, il colonnello e il Pm, due figure istituzionali che avrebbero dovuto stare dalla parte dello stato, si sbattevano per tirare fuori dai guai ’sta terrorista. Non bastavano le toghe rosse: anche i carabinieri rossi, adesso. Aveva sempre difeso Marco, ma quando è troppo è troppo. Stava per intervenire, quando Marco si ridestò dalla catatonia e recuperò l’uso della parola. – Vorrei crederti, ma… – Facciamo una verifica. – E come? Setola non mollerà mai l’osso. – Domattina alle otto presentati a Rebibbia. Va’ a parlare con lei. – Setola non mi autorizzerà mai, Michelangelo. – Eh. Ma io direi che è venuto il momento di giocarci il jolly che tu sai… 1993… Marco s’illuminò. Grande, grande De Candia. Alba era sempre piú sconcertata. Jolly? 1993? Che tu sai? Ma che stava succedendo? Ma che avevano combinato, quei due matti? Qualcosa di grosso, a giudicare da come Marco aveva ripreso improvvisamente vita. Ma che ci avrà mai, questa Alice Savelli, che appena un uomo la vede subito le sbava dietro. Un cocktail perverso di rancore e gelosia l’agitava. Era questo a bruciarle, piú ancora dell’offesa al senso del dovere. Ma non lo avrebbe mai ammesso. Non davanti a Marco.

XLVII. Alle otto in punto Marco Malatesta si presentò ai cancelli di Rebibbia. Attese la lenta apertura elettrica dei grandi battenti di acciaio, percorse il tratto fra il parcheggio interno e la matricola della sezione femminile, dove la piú anziana delle agenti della penitenziaria, Silvana, lo accompagnò da Alice. Conosceva bene Silvana. Un donnone sulla cinquantina con un lontano passato da assistente sociale fra i tossici del Laurentino 38 e Corviale. I quartieri laboratorio di tanti anni prima. Dove, secondo gli urbanisti, i proletari avrebbero dovuto campare meglio. Avrebbero. Caracollando nel corridoio che portava alla sala interrogatori, Silvana si fermò per un istante e abbassò la voce. – Pòra fija… – Che dici, Silvana? – L’hanno gonfiata, Marco. – Con quello che ha fatto. – Nun lo so, sai? – Che vuoi dire? – Lo sai, no, che ci ho l’occhio clinico. Soprattutto co’ le regazzine e le nuove giunte. – Lo so bene. – Che te devo di’? Quando l’hanno portata qui ieri sera, stava ’ncazzata come ’na biscia. – Strillano sempre con chi li arresta. – Ce lo so. Ma nun ce l’aveva mica solo co’ voi carabinieri. Me continuava a di’: «Quei bastardi fascisti dei Black-bloc». Hai capito? Fascisti, li chiamava. Ora, me spieghi tu come faceva allora a essese mischiata co’ quelli? Voglio di’: o è davero un’attrice, ma de quelle brave, o nun c’entra gnente. – È proprio questo il mio problema, Silvana. Alice era seduta al tavolo della sala interrogatori e offriva a Marco il profilo offeso dalla furia dei tonfa. Un ematoma profondo e violaceo le deturpava la parte sinistra del volto. Dall’attaccatura dei capelli – unti e tenuti insieme in un’improvvisata cipolla da una molletta di plastica fucsia – fino al mento, segnato da un taglio slabbrato suturato con delle graffette nere. Non sembrò stupita di vederlo. Lo fissò con uno sguardo assente, che non tradiva alcuna emozione. Silvana li lasciò soli. Marco represse la voglia di stringerla a sé. – Come ti senti, Alice? – Sei cieco? – Ascoltami bene, non sei nella condizione né di fare la spiritosa né l’arrogante. Chiaro? Io ti ho nascosto delle cose, e va bene. Ma tu… tu finora mi hai raccontato solo un mucchio di stronzate. – Che cosa dovrei dirti? Mi devo giustificare con il signor colonnello perché ero a una manifestazione con un altro mezzo milione di persone? Devo chiedere scusa perché non ho chiesto in caserma il permesso di andare? – Mi devi dire perché hai steso due carabinieri. – Mi sono difesa. – Ti hanno trovato in tasca venti biglie di ferro. – Chiedilo al tuo collega Terenzi. – Che c’entra Terenzi? – Mi ha arrestato lui. È lui che mi ha ridotta cosí. Ed è lui che mi ha messo le biglie di ferro in

tasca. Che te lo devo dire io come lavorano i carabinieri? Tu, poi, dovresti saperlo bene. Ricordati la cocaina al cinema Arcobaleno. – Brava. Continua a dire stronzate. Non ti ha arrestato Terenzi. – Ah, no? E chi mi ha arrestato? – Un sottotenente del battaglione Calabria. – È falso. – Certo. Lo decidi tu cosa è vero o è falso, no? C’è un verbale e ci sono almeno dieci testimoni. – Mentono. – Per quanto mi riguarda la bugiarda sei tu. – E allora non ho nulla da dirti. – Fai bene. Perché al momento hai solo un 419 per devastazione e saccheggio. Da otto a quindici anni. Che vuoi che sia per una che ne ha solo ventotto. Hai tutta la vita davanti, no? Se poi invece ti prendi anche una bella associazione sovversiva, visto che hai avuto la buona idea di farti amici un po’ di anarchici greci, di anni ne aggiungiamo un altro mucchietto. Da cinque a dieci. Con la continuazione, le generiche prevalenti e l’incensuratezza, esci da qui che sei una signora di mezza età. Pardon, una pregiudicata di mezza età. – Ma che cazzo dici? Gli anarchici greci? – E già. Chi ha chiamato in Grecia dal tuo cellulare due giorni prima della manifestazione, io forse? Hai un’altra nonna Sandra da qualche parte tra Corfú e Salonicco? O forse dovevi prenotare una bella vacanza al mare per Natale? Alice abbassò il capo, scuotendolo. Abbozzò un sorriso di scherno. – Sei un povero carabiniere del cazzo. Manderesti in galera anche tua madre senza una prova. Tu e i tuoi compari siete tutti uguali e persino peggio di quello che si pensa. Mi sa che ci aveva ragione il Samurai: certi legami non si spezzano. – Vaffanculo, Alice. – No, vaffanculo te. Qualcuno dei vostri geni dell’investigazione ha provato a chiamare quel numero greco, che greco non è ma è italiano? – È staccato e risponde una segreteria telefonica greca, signorina. Quel telefono sta in Grecia. Anche se la scheda è italiana. – È il numero di Farideh, idiota che non sei altro. – Farideh? E che c’entra Farideh con la Grecia? – L’ho scoperto anche io chiamandola che era là. E non da sola. Ma con quel bandito di Max. – Che ci facevano? – Farideh mi ha detto che dovevano portare in Italia una barca. – E magari ti ha detto anche il nome. – Runa, se ricordo bene. – E dov’erano in Grecia? – Un’isola. Ma non mi ha detto quale. E ti dico un’altra cosa: le ho telefonato perché ti avevo creduto, Marco. Volevo metterla in guardia da Max. Mi sono fidata di te. E di quell’altro, il tuo bell’amico Pm. – Se mi hanno concesso questo colloquio è grazie a lui, Alice. – Ah, sí? Ringrazialo tanto da parte mia. Potrebbe essere cosí cortese da farmi avere almeno i domiciliari? – ribatté lei, al vetriolo. – Farideh ti ha detto dove arrivavano con la barca? – Fiumicino.

– E sai anche quando partivano? – Mi hai rotto le palle con le tue domande. Malatesta alzò la voce. – Quando partivano? – Ma che ne so! Partivano. Malatesta le voltò le spalle e chiamò Silvana nel corridoio perché riportasse Alice alle celle. Lei, uscendo dalla sala interrogatori, gli urtò volutamente la spalla. – E adesso che fai, eh? Vuoi distruggere anche la vita di Farideh, pezzo di animale? – Quello che faccio non ti riguarda piú, Savelli. Si fermò in un pulcioso bar di piazza Conca d’Oro. Non era neanche mezzogiorno, ma per lui poteva essere mezzanotte. E dopo aver passato in rassegna le mensole impolverate alle spalle del bancone, indicò un Johnnie Walker. Era con quella bottiglia dall’etichetta rossa che da ragazzino aveva esorcizzato la prima, cocente delusione amorosa. – Un baby? – La bottiglia, grazie. Risalí in macchina impugnando nella destra il collo del bibitone, come l’ultimo degli alcolizzati, e con la sinistra estrasse il cellulare dalla tasca interna della cenciosissima giacca. Lo aveva spento entrando a Rebibbia e uscendo aveva deciso di non riaccenderlo. Rimanesse pure muto. Si sentiva addosso la febbre. Gli bruciavano gli occhi. Se De Candia lo avesse interrogato, non avrebbe saputo che dirgli. Era accecato, accidenti. Che aveva capito da Alice? Nulla. Assolutamente nulla. Quel colloquio informativo su cui aveva scommesso le sue ultime carte era stato un buco nell’acqua. Forse Alice continuava a mentirgli perché, come tutti i bugiardi, aggiustava le sue «verità» solo quando i suoi bluff e le omissioni seriali non erano piú difendibili. O forse aveva ragione il naso di Silvana e quello che, in un angolo remoto del suo ipotalamo, continuava a dirgli la testa. Quella ragazza era stata messa in mezzo. I Neri e la loro violenza nichilista non le appartenevano. E poi, quella storia della telefonata con Farideh, una sua logica ce l’aveva. Possibile che anche quello fosse un copione studiato a tavolino? Che ne poteva sapere che qualcuno le avrebbe chiesto a bruciapelo di quella chiamata? Le tempie gli scoppiavano. Aprí la porta di casa ed evitò anche di accendere la luce. Tirò dritto verso lo stereo. Infilò nel lettore un Cd di Eric Dolphy. Tenderly. Un sax solo da strappare l’anima. Note adatte per l’agonia del suo io. Alzò il volume, appena qualche decibel sotto la soglia che faceva tremare i vetri sottili delle finestre della cucina. Tirò fuori dal freezer una dozzina di cubetti di ghiaccio, riempí del liquore benedetto uno di quei bicchieri colorati da Coca-Cola che si vincono con i punti del supermercato. Gettò in un angolo la giacca e quindi la camicia e la T-shirt bianca, che avevano un odore orribile. Frugò nell’armadio e si infilò una maglietta della Roma con il 10 di Francesco Totti. Il capitano. Seduto a gambe divaricate sulla sedia della cucina, cominciò a bere, sperando che quella roba gli chiudesse gli occhi. E Tenderly facesse il resto. Forse si addormentò. O forse rimase semplicemente in uno stato di catalessi per un tempo che non riuscí a quantificare. Lo risvegliò il suono cattivo, insistente del citofono.

Si trascinò fino alla cornetta. Aveva la voce impastata e la lingua che graffiava il palato. – Chi è? La voce di Alba era disturbata dal contatto elettrico che non aveva mai fatto riparare. – Sono Alba. – Ci vediamo domani. – Aspetti, colonnello. Mi faccia salire. – È meglio di no. – È importante. – Per me non è piú importante niente. Almeno fino a domani. – Riguarda Alice Savelli. – So già tutto. Basta e avanza. – È un video. Pigiò con forza l’apriporta e sentí il clac del cancello. Malatesta lasciò socchiusa la porta di casa e decise di aspettare Alba in cucina. Faticava a stare in piedi. – È permesso? – È permesso? Le voci erano due. Una donna, e va bene. Ma l’uomo? Chi cazzo si era portato dietro la Bruni? Si voltò di scatto. Brandolin. Il carabiniere Brandolin. E come diavolo era ridotto, poi? Il ragazzo entrò in cucina, e avvicinandosi a Malatesta si scusò di non poter salutare in modo conveniente. Aveva il braccio al collo, un occhio tumefatto e semichiuso, e la postura di chi ha una scopa infilata nel culo. – Mi deve perdonare, colonnello, ma ho un paio di costole spezzate e con il busto devo fare attenzione… – Che t’è successo? Sei caduto nella doccia? – Ieri, a San Giovanni. Il reparto celere c’è andato un po’ pesante. – Eri in borghese? – No, ero libero dal servizio. – E che ci facevi lí? Non mi dire che pure tu sei un Drago Ribelle. Perché va bene il mondo alla rovescia, ma questo sarebbe troppo. Il Brandolin indignato. – Riprendevo. E per questo mi hanno legnato, comandante. La celere mi voleva portare via la telecamera. – E cosa riprendevi? E perché stavi lí a riprendere? Alba li interruppe. – Come le dicevo al citofono, colonnello, il video. Brandolin ha filmato tutti gli incidenti in piazza e soprattutto l’arresto della Savelli in via Cavour e le fasi che l’hanno preceduto. Marco si alzò di scatto dalla sedia. La testa improvvisamente pulita. Fasciato nella sua maglietta di Totti, versò del whisky per Brandolin. Il quale fece cenno di no e riprese a parlare. – Non so se ho fatto bene, ma la sera prima della manifestazione, in caserma, ho sentito il maresciallo Terenzi che si metteva d’accordo al telefono con Anacleti. Lo rassicurava. Parlavano della Savelli. Il maresciallo diceva: «A quella troia, – chiedo scusa, – ci penso io domani. Le faccio un servizietto completo. Che poi buttano la chiave. E quando ho fatto, tu fai sapere subito a chi sai che l’arrestata è la donna di quella, – chiedo scusa, – merda di Malatesta». Chiedo scusa ancora, ma ha detto proprio cosí.

– Vai avanti, per favore. – Cosí, ieri, ho deciso di seguire in piazza gli spostamenti del maresciallo Terenzi. E ho visto come hanno incastrato quella povera ragazza. Non aveva fatto niente. Se ne stava da una parte a gridare «Fascisti» a quelli che sfasciavano tutto. Il maresciallo e alcuni colleghi l’hanno massacrata a freddo. Poi ho visto Terenzi che si chinava a raccogliere delle biglie e le infilava in una giacca nera. Marco deglutí. – Sei certo di quello che dici? Voglio dire, sei certo innanzitutto che quello con cui parlava al telefono Terenzi fosse Anacleti? – Certissimo. Lo chiamava per nome. «Rocco», diceva. – E sei riuscito davvero a riprendere tutto quello che hai visto? Brandolin appoggiò la telecamera sul tavolo di formica della cucina. E fece partire le immagini. Malatesta volle rivederle tre volte. Era tutto vero. Tutto assolutamente vero. Gli ci volle un po’ per riuscire a riprendere il filo. – Ascolta, Brandolin… – Lo so, colonnello, mi dispiace. Sarei dovuto venire prima, ma mi hanno dimesso dall’ospedale stanotte alle tre. E stamattina, quando l’ho cercata in ufficio, il capitano mi ha detto che nessuno sapeva dove rintracciarla. Alba ora sorrideva. E anche lui, sorrideva. Per la prima volta da due giorni. Si sfilò la maglietta di Totti, rimanendo a torso nudo. E cominciò a frugare nei cassetti cercando una camicia pulita. Si rivolse al capitano, notando che le guance le si erano leggermente avvampate. Un rossore che riconosceva. – Alba, ascolta. La barca si chiama Runa… – La barca? Quale barca, colonnello? – Lascia stare. Dimmi solo questo: abbiamo qualcuno alla guardia costiera? Intendo dire, qualcuno alla sala operativa nazionale qui a Roma? – Ho un amico. Diciamo un ragazzo che ho conosciuto da poco, che forse… – Quanto è amico? – Siamo usciti… Usciamo da un po’. – Non intendo quello, Alba. Voglio dire: puoi chiedergli un favore? Ma un favore importante. Perché non c’è tempo per richieste ufficiali e pezzi di carta. Mi serve la posizione di una barca a vela che si chiama Runa, partita da un’isola greca che non conosciamo quattro-cinque giorni fa e diretta al porto di Fiumicino. Bisogna provare con tutto. Posizionamento Gps, eventuali segnalazioni delle nostre capitanerie, registri navali. Voglio sapere dov’è ora. E quando sarà qui, è chiaro? – È chiaro. – Quanto è sveglio questo tuo amico? – È sveglio ed è svelto, Marco. – Svelto? – Direi di sí. Sí, non è un tipo che si perde in chiacchiere. Almeno con me non lo ha fatto. Malatesta provò una punta di gelosia, mista a un languore che riconobbe come eccitazione. Il che lo fece sentire vivo. Finalmente vivo, perdio. Guardò l’orologio. Le tre del pomeriggio. – E allora chiamalo, Alba. Chiamalo ora. Riaccese il cellulare che cominciò a vibrare impazzito di tutte le chiamate perse. C’era anche un Sms. Il generale Thierry de Roche. Ma non aveva il coraggio di guardare. Chiuse gli occhi mentre con il

pollice apriva la bustina. «Ho saputo della Savelli. Che sta succedendo?» Marco fissò Brandolin. – Ti posso chiedere un ultimo favore, ragazzo? – Comandi, signor colonnello. – Questo video, due copie. Una al generale De Roche e una al Pm De Candia. Portale di persona a tutti e due.

XLVIII. Marco si aggiustò lo zuccotto di lana sulle orecchie, affondò le mani nelle tasche profonde del giaccone da marina e fissò l’imboccatura del canale, l’antica Fossa di Traiano che tagliava a metà Fiumicino, con i suoi moli pressoché deserti nel buio precoce di una sera di novembre. Forse era destino che tutto si dovesse compiere proprio in quel luogo, pensò. Si incamminò lentamente verso un Fiat Ducato bianco fermo alla testa della banchina settentrionale, appena sotto i frangiflutti illuminati dal riverbero fioco delle luci interne del ristorante Bastianelli. Dietro quelle grandi vetrate sul mare erano state scritte pagine epiche della storia nera di Roma. Ora ci mangiavano oligarchi russi e sceicchi arabi. Del resto, girando il mondo, aveva capito che questo siamo noi italiani: sarti e cuochi. Accostò le labbra al piccolo microfono nascosto nel bavero del giaccone e controllò un’ultima volta con il tenente Gaudino che il dispositivo fosse pronto. Una ventina di uomini tra personale del Ros e territoriale e due unità cinofile chiudevano a semicerchio l’accesso da terra al canale. A luci spente, tre «squali» – le motovedette dell’arma – disegnavano un ampio semicerchio di un miglio di raggio al largo del porto vecchio. – Maestrale a Grecale, mi ricevi? – Ti copio bene, Maestrale. – Procedo a piedi sul molo verso Ducato bianco parcheggiato a ore dodici. – Ricevuto, Maestrale. Copertura attiva. Intorno al mezzo vediamo un solo uomo. L’amico di Alba alla guardia costiera aveva fatto un lavoro eccellente. Sveglio, quel ragazzo. Si era sbattuto a dovere. E peraltro Malatesta ne comprendeva bene il motivo, pensando al culo di Alba. Era riuscito in un paio d’ore a individuare il porto greco di partenza della Runa e il resto non era stato troppo complicato. Il segnale Gps aveva consentito di ricostruire la rotta della barca partita da Folegandros cinque giorni prima. Dacché era entrata nelle acque territoriali italiane, la Runa era monitorata da un ricognitore aereo. Il pesce si avvicinava docile alla rete. Che a quel punto andava solo chiusa. Ancora mezz’ora e la Runa avrebbe concluso il suo ultimo viaggio. Nonostante il piumino dal cappuccio alzato, Malatesta riconobbe subito il tipo corpulento che, seduto a braccia conserte sul cofano del Ducato, fissava l’imboccatura del canale dandogli le spalle. Lo chiamò per nome quando era ormai a pochi passi da lui. – Tito Maggio, ma guarda un po’ che bella sorpresa! Il ciccione si voltò di scatto e uno schizzo di adrenalina gli accese le guance livide di freddo. – Colonne’! Mamma mia, che coincidenza. E che ci fa qui? Malatesta tirò fuori il pacchetto di Camel e gliene offrí una. – Sono come i ragazzini, Tito. Ogni tanto mi piace tornare alle giostre. Te lo ricordi questo posto, no? – E come no, colonne’. Ci hanno girato pure Romanzo. Quanto me piace quer firm, colonne’. L’ho visto tre volte. – E mi sa che ci hai capito poco, però. Tutti amici del Libanese, qua, eh? – No, per carità. – Certo, per carità. E dimmi un po’, tu che ci fai qui? – Sto a lavora’, colonne’. – Ma va’? – Devo compra’ er pesce. Sto a aspetta’ i pescherecci. Lo sa, io faccio solo pesce vivo. – Eccome no. La sigaretta che Tito stringeva fra le labbra tremava come un filo di paglia nella bufera.

– Che ci hai freddo, Tito? – No, perché? – Tremi. – Davero? – Devi stare attento. Ci hai un’età ormai. – Ci ha ragione, colonne’. Ma il lavoro è il lavoro. – E che, non lo so? Anzi, sai che ti dico? Ti faccio compagnia. – Aspetta pure lei, colonne’? – Ma sí, aspetto i pescherecci con te. – Nun se deve sta’ a preoccupa’. Io posso… – E chi si preoccupa? È che mi è venuta voglia di totani. Proprio come li fai te. Compro una bella cassetta anch’io. Com’è che li chiami? I Totani dell’Imperatore, no? Buoni. Che ci metti? Ah, sí. I ceci, i fagioli, le patate lesse e poi, aspetta… – Er rosmarino. – Bravo, il rosmarino. – Ma magari… – Magari? – No, colonne’, me sa che nun è serata. – Per i totani? – No, è che… Me sa che… S’è fatto tardi. Quasi quasi me ne vado. Anzi, me ne sto proprio a anna’. Maggio fece il gesto di aprire la portiera del Ducato. Malatesta gli bloccò il braccio in una morsa dolorosa. – Dove vai, Tito? Non hai pazienza. Arriveranno questi pescherecci, no? Non l’hai detto tu che devono arrivare? E poi, scusa, ma dove devi andare? È lunedí. – E ’nfatti. – Lunedí è giorno di chiusura, Tito. Sei chiuso, il lunedí. – Davero oggi è lunedí? – E già. – Ma dimme te… – Pensa un po’ quanto sei stronzo, Tito. Vieni a comprare il pesce fresco il giorno di chiusura. Il ciccione cominciò a frignare. Prima dei singulti. Poi quel pianto da filodrammatica che Malatesta conosceva a memoria. – Colonne’, sto nella merda. Sto alla canna del gas. – Onestamente, non vedo dove sia la novità. – I Tre Porcellini m’hanno spolpato vivo. Che dovevo fa’? Nun ci avevo scelta, mannaggia a me, colonne’! A me me portano via er locale. – Sai che guaio. La notizia mi devasta. – A me m’hanno solo detto de aspetta’ ’sta barca… – Ah, quindi aspetti una barca, non un peschereccio. E chi te l’ha detto di venire qui col furgone? Che devi caricare? – No, volevo di’ ’n’antra cosa. – Ecco, appunto, vedi che ho ragione? Sei solo un povero stronzo, Tito. – E mo’ che succede? – E che succede? Ti riposi per un po’.

– A bottega? – Secondo te? Anzi, sai che facciamo? Ci fumiamo un’altra bella sigaretta e la aspettiamo insieme, questa barca. Tanto ci siamo, mi pare. Il profilo della Runa, ormai, si distingueva nitidamente nella rada che introduceva al canale. Le vele erano ammainate, le luci di stazionamento e crociera accese, e l’acqua di prua era appena increspata dai tre nodi di velocità. Sopra coperta si indovinavano due sagome. Una in piedi, a manovrare uno dei due timoni di poppa, l’altra accovacciata sul lato di dritta del boma, assicurato al pozzetto da un fascio teso di sartie. Malatesta sorrise. Pronunciate sottovoce, le parole si impastarono nel soffio nebulizzato di vapore acqueo del suo respiro, che misurava l’umidità e il freddo di quella notte. – Cari Max e Farideh, benvenuti a casa. – Che dice, colonne’? – Tito, non mi dire che non conosci gli amici che stavi aspettando. – Veramente, colonne’… Malatesta avvicinò il bavero del giaccone alla bocca. – Ora, Grecale. Ora. Il fascio di due potenti fotoelettriche illuminò a giorno la Runa di una luce fredda e accecante. Per un attimo, l’uomo al timone sembrò congelato in un lampo di repentina frenesia, mentre tentava inutilmente un’inversione di forza e direzione dei motori. Tre motovedette sbucarono a poppa del due alberi, accendendosi dei lampeggianti blu. Una voce amplificata ordinò di accostare lentamente alla banchina. In pochi secondi il molo si animò di carabinieri, mentre Malatesta invitò Maggio a darsi da fare con le gomene che erano state lanciate dal pozzetto della Runa verso una grande bitta arrugginita. – Animo, Maggio! Vorrai mica far fare tutto a noi. Tra gente di mare ci si aiuta. Max aveva spento i motori e, in piedi nel pozzetto, stringeva a sé Farideh come una naufraga. Preceduto da due militari e da Alba Bruni con le armi in pugno, Malatesta si presentò mostrando il tesserino. – Ci conosciamo già tutti, se non sbaglio. E diciamo pure che ci siamo incrociati di recente da un amico comune, vero Tito? – disse rivolgendosi a Maggio sulla banchina, mentre il grassone porgeva i polsi alle manette. Farideh aveva la voce rotta dal pianto. – Max, ma che vuol dire? Che sta succedendo? La domanda non ebbe risposta. Malatesta provò a sollecitarla. – Vorrei saperlo anch’io, Farideh, cosa sta succedendo. Magari, se non ce lo sa spiegare Max, puoi spiegarmelo tu. La ragazza scosse il capo. Nei suoi occhi, il colonnello leggeva l’angoscia di chi è affacciato su un baratro. – Forza, Max, da quando in qua ti diletti in crociere autunnali? – Non ho nulla da dire. – Fai molto male. Con un cenno della mano, Malatesta ordinò di far salire a bordo della Runa i cani antidroga. – Quanto tempo credi che ci metteremo a trovare il carico? Farideh strattonò Max. – Quale carico? Amore, di quale carico parla? – Dài, Max, hai sentito? Fallo per amore. Ammesso e non concesso che non stiate facendo una

bella recita, diglielo tu a Farideh di che carico sto parlando. Su, forza. Sono sicuro che sei un tipo sincero. E sono certo che le hai raccontato pure di quella notte della scorsa estate in cui hai massacrato suo padre alla Romanina. Vero? Farideh si accasciò con un urlo, rannicchiandosi sul fondo del pozzetto in posizione fetale. I muscoli del corpo irrigiditi, le gambe che scalciavano, come in un attacco epilettico. Max la guardò a lungo mentre, avvolta in una coperta, veniva adagiata sul sedile posteriore di un’auto civetta. Quindi tornò a incrociare lo sguardo del colonnello. – Sei un bastardo, Malatesta. – Trovi? Di bastardi su questa barca io ne vedo uno solo. E sta in piedi di fronte a me. Te lo chiedo un’ultima volta, testa di cazzo. Dov’è la roba? Sottocoperta, impazziti, i cani antidroga avevano cominciato a raspare in coincidenza di un punto esatto delle paratie interne della barca. – Trovatela da solo. La voce di uno degli uomini del Ros richiamò Malatesta. – Ci siamo, colonnello. Guardi. Il militare puntò gli indicatori del serbatoio di acqua potabile fissi sul pieno da mille litri. Malatesta tornò nel pozzetto. Max era stato ammanettato dietro la schiena. – Hai fatto soffrire la sete a quella povera ragazza. Tre giorni su questo transatlantico e non avete consumato neanche un goccio d’acqua. Neanche una doccia le hai fatto fare, e che cazzo. Bravo il nostro Max. Hai chiuso. Lo portarono via abbassandogli la testa con una mano sulla nuca, mentre l’operatore del Ros riprendeva le immagini dell’arresto che il comando generale doveva diffondere in tempo utile per i Tg di mezzanotte. Gli specialisti armeggiavano con asce e fiamme ossidriche sui serbatoi d’acqua della Runa. Sulla banchina, ammanettato, era rimasto solo Maggio. – Colonnello, che facciamo, portiamo via anche lui? – No, lui aspetta con me. Vero, Tito? Un’ora prima o un’ora dopo non fa differenza. Tanto l’Albergo Roma non chiude. Vediamo cosa dovevi caricare. Sarai curioso anche tu, no? Marco rimase sulla banchina del porto vecchio fino all’una del mattino. Quando l’ultimo panetto della tonnellata di cocaina fu estratto dalle intercapedini ricavate nei serbatoi d’acqua della Runa e caricato nel Defender dell’arma. Quando anche l’auto su cui viaggiava Maggio in manette prese definitivamente la strada di Rebibbia. Quel rompicoglioni non aveva smesso di piagnucolare un istante. – Colonne’, mannaggia, colonne’, nun me rovini. A me nun m’avevano detto ’n cazzo. Cosí m’ammazza, colonne’… Salendo in macchina, Malatesta accese la radio per ripulirsi la testa da quella stucchevole nenia. I titoli dei Gr della notte aprivano sulla breaking-news del maxisequestro. E quando ne ebbe a sufficienza, Malatesta abbassò il volume e attivò il vivavoce dello smartphone. Gli restava un’ultima cosa da fare. Forse, la piú importante. – Pronto, Roberto? Sono Marco. Spero di non svegliarti. Hai un minuto per me? Roberto Zanni era il capo della Digos. Si conoscevano da anni. Coetanei e cresciuti in due botteghe concorrenti, avevano prima imparato a rispettarsi. Finché non erano diventati amici. Anche se questo non si doveva sapere. Soprattutto, la cosa che non guastava è che Roberto era malato della Roma come lui. – Ciao, Marco. Sveglio, sono sveglio e il minuto ce l’avrei, ma se chiami per rompermi i coglioni sul campionato facciamo un altro giorno, eh?

– Tranquillo, Roberto, ti cercavo per… – Per la brillante che avete appena fatto a Fiumicino? Che fai, vuoi i complimenti? – Roberto, facciamo che ora metto giú, richiamo e ricominciamo da capo, va bene? – Scusa, Marco, ti faccio sempre un po’ meno stronzo di quello che sei. – Stammi a sentire, ho un video che ti interessa. Una cosa su cui state lavorando voi. – Di che si tratta? – Gli incidenti di San Giovanni. – Embe’? – Che ne dici di un maresciallo dei carabinieri che pesta a freddo un’innocente, redige un falso verbale di arresto e la calunnia con false prove? – Che è, uno scherzo? – Mai stato cosí serio. – E com’è che stavolta avete deciso che i panni sporchi non ve li lavate in famiglia? – Non «abbiamo» deciso. «Ho» deciso. – Ho capito. Non ci siamo mai parlati e il film l’ho trovato in rete. – Poi sarei io lo stronzo. – Vaffanculo, Marco. – Una cosa. Il tuo maresciallo è quello col cappotto di cammello. Si chiama Terenzi. Terenzi Carmine: è in servizio alla stazione di Cinecittà. E la ragazza di nome fa Savelli. Savelli Alice. È a Rebibbia. – Vuoi venire qui e prendere il posto mio? Magari l’informativa la scrivi direttamente tu. Lo sai che non mi formalizzo. – Ti voglio bene, amico mio. Dammi un’ora e la pennetta con il video è sulla tua scrivania. Cosí domattina cominci a lavorare presto.

XLIX. Due ore di sonno, piú che altro un combattimento all’ultimo sangue fra l’adrenalina e i sensi di colpa. Condizione di merda, per Marco Malatesta: non potersi godere il meritato trionfo, pregustare senza gioia la faccia lunga di Rapisarda, sentirsi lacerare dalla voglia di prendere a capocciate il muro per aver dubitato di Alice. Il pensiero di lei innocente in galera e della sua cecità non gli dava pace. La brillante lo aveva catapultato all’improvviso nell’empireo degli intoccabili. Rapisarda era tacitato. Thierry rinfrancato. Michelangelo de Candia eccitato e ironico, anche se troppo signore per un carognesco e strameritato «che t’avevo detto?» Intoccabile, sí. Aveva la netta sensazione che lo sarebbe stato a lungo, perché quel sequestro, piú che un colpaccio, era un punto di svolta. Un risultato, per dirla col gergo dei burocrati che infestavano l’arma come ogni altro ganglio vitale dello stato. Ma soprattutto, la prima crepa in un sistema che sembrava inattaccabile. Eppure, se non ricordava male le letture del periodo mistico, quando si passava allegramente da Urlo a Lo zen e l’arte della manutenzione della motocicletta, «intoccabile» è un’espressione ambigua: indica chi è troppo in alto per poter essere insozzato dal sospetto e dalla maldicenza, ma anche chi sta troppo in basso per essere degnato d’attenzione. Intoccabile significa solo. Maledettamente solo. E che la solitudine sia lo splendore delle aquile, lo sguardo limpido e indecifrabile del saggio, be’, quella era soltanto fuffa fascista che lasciava volentieri al Samurai e ai suoi camerati. L’aveva delusa, chiaro. No, peggio. L’aveva tradita. L’aveva anche persa? Alice sarebbe stata scarcerata nel pomeriggio. Il tempo di consentire all’amico Zanni di fare la sua, di brillante, e a Setola di mandare giú la pillola amara del rilascio. Voleva esserci, e ci sarebbe stato. Forse non tutto era perduto. E in ogni caso, sottrarsi al momento della verità sarebbe stato da vigliacchi. Nel frattempo, soltanto una robusta dose di fatica poteva tenere a bada i demoni dell’ansia. Perciò, munito di autorizzazione rilasciata da De Candia, alle otto e trenta in punto si presentò al portone di Rebibbia. Impeccabilmente rasato, con i capelli in ordine e la maschera di marziale compostezza che era solito indossare quando aveva qualcosa da nascondere, si fece portare Max nella saletta colloqui. Il ragazzo non doveva passarsela meglio di lui, a giudicare da pallore, occhiaie, capelli arruffati e dalle prime avvisaglie dell’odore di galera che si levava dal suo corpo muscoloso. Max non era mai stato dentro. Ci si sarebbe abituato presto, pensò il colonnello. Lo aspettava una lunga vacanza. A meno che non avesse altri progetti. – Buongiorno, Nicce. Come si trova un superuomo al Nuovo Albergo Roma? Dormito bene? L’occhiata gelida che l’altro gli rivolse gli fece capire che, almeno per il momento, di altri progetti non era il caso di parlare. Max si atteggiava a duro. Ma non si poteva mai dire. Ne aveva visti crollare, di tipi tosti. Rapinatori professionisti. Assassini senza cuore. Fra i giovani mafiosi e camorristi, poi, per un certo periodo c’era stata una vera epidemia di pentimenti. Al punto che lo stato era corso ai ripari, pensò Marco sarcastico, e si era affrettato a sfornare norme per rendere sempre piú difficile la conversione dei cattivi.Ma meglio cosí. Se Max era davvero un duro, lo si sarebbe capito col tempo. Intanto, si poteva comunque provare una qualche avance. – Non farmi perdere tempo, ragazzo. Dimmi quello che voglio sapere e lascio Farideh fuori da questa storia. – Lei non c’entra niente, – rispose, di getto, il «filosofo». – Convincimi, – replicò Marco, – per questo sono qui.

– Ti dò la mia parola. – Non so che farmene. – Che cosa vuoi, esattamente? – Potremmo cominciare dal tuo amico, per esempio. Il Samurai. Max sembrò prendersi un tempo per riflettere. Marco intuí uno spiraglio. Pescò nella tasca le Camel e gliene offrí una. Max afferrò la paglia e la rigirò fra le dita. Il colonnello fece scattare l’accendino. Max sbriciolò la sigaretta e gli soffiò addosso le briciole di tabacco. – Sei una merda, sbirro. Sei peggio di me. – Lo prendo come un complimento. Posò il pacchetto sul tavolo, si alzò con lentezza studiata, richiamò con un cenno il maresciallo che sorvegliava fuori dalla sala colloqui e si fece aprire il cancello blindato. Max era rimasto immobile, limitandosi a fissarlo sprezzante. – Pensaci. L’offerta è sempre valida. Seguirono ore di sigarette, passeggiate a vuoto, corse in moto. Marco spense il cellulare. Ma era il pensiero che non voleva saperne di spegnersi. Stava giocando sporco con Farideh? C’era la possibilità che lei fosse davvero all’oscuro del carico di cocaina? Al diavolo, quella ragazza aveva gli occhi per vedere. C’era una tonnellata di roba, sulla Runa. E se fosse stata soltanto una ragazzina ingenua, innamorata dell’uomo sbagliato? Be’, lui aveva il dovere di spremere quella storia sino all’ultima goccia. Non poteva farsi prendere dal sentimentalismo. Però, forse, stava sbagliando con Farideh. Cosí come aveva sbagliato con Alice. Ed ecco che il pensiero tornava a lei. L’ossessione. Le ore passavano con una lentezza esasperante. Riaccese il cellulare. Messaggi di congratulazioni, uno personale del ministro dell’Interno, il leghista dalle lenti con la montatura rossa che credeva nella Padania libera e adesso governava sugli italiani in divisa. Cinque chiamate senza risposta dal comando generale. Thierry. O forse, perché no, Rapisarda. Due Sms sdolcinati di Alba. Uno sfottente di Zanni, che gli dava del laziale. In altri momenti lo avrebbe richiamato, sarebbero finiti a strologare davanti a un paio di birre. Spense l’apparecchio. Da un fioraio cingalese sulla Tiburtina prese al volo ventiquattro rose rosse. Mancava ancora mezz’ora. Parcheggiò la Bonneville a vista del cancello di Rebibbia Femminile e attaccò il terzo pacchetto della giornata. Arrivò un ragazzotto con la coda di cavallo su una city-car da fighetto. Diego dei Draghi Ribelli. Si lanciarono un’occhiata ostile, e restarono a distanza di sicurezza. Venti minuti. Dalla porta carraia uscí un corteo di auto di servizio. Gli parve di intravedere la sagoma del sostituto procuratore Setola. Si voltò, e subito si pentí di quel gesto istintivo. Ma che, si vergognava? Di Alice? Diego lo teneva d’occhio. Mosse verso di lui, poi ci ripensò. La porticina mal dipinta di grigio militare si aprí e un vivido raggio di sole illuminò Alice. Marco si mise a correre verso di lei, gridando il suo nome, sventolando le rose. La ragazza si guardò intorno, lo notò e, ignorandolo, si avviò verso Diego. Zoppicava. E si portava una mano alla schiena. Terenzi, bastardo, ti strapperò le palle. Con un’ultima accelerazione, la raggiunse che era a un passo da Diego. – Alice! Fermati, Alice, voglio solo chiederti scusa! Diego si fece avanti. – Ma che cazzo vuoi? Non hai già fatto abbastanza casini?

Marco arretrò. Alice posò una mano sul braccio del ragazzo. – Ci scusi un attimo, per favore? Diego scosse la testa, per niente convinto. Alice gli sorrise. Lui annuí e si allontanò di qualche passo. Ora erano uno davanti all’altra. Marco, con tutta la stupidità che riesce a esprimere un uomo innamorato, le porse i fiori, accennò un mezzo inchino e un sorriso che voleva essere umile. – Scusami, Alice. Sono un idiota. Lei scrutò le rose, sospirò e gli assestò un ceffone in piena guancia. I fiori volarono via. Diego si precipitò. Alice lo tenne a distanza con il braccio teso. – Me la vedo io con questo stronzo. Marco si accarezzò il volto senza smettere di sorridere. – Me lo merito. Scusami. – Ti meriti di peggio, carabiniere di merda. – Adesso non esagerare, Alice. – Sei tu che hai esagerato. Devi liberare Farideh, e subito! – Non posso. E anche se potessi, non lo farei. Una tonnellata di roba, Alice, una tonnellata. Roba degli Anacleti, roba del Samurai, roba di quelli che dici di combattere. Farideh deve convincermi che non sapeva. Possibile che tu non riesca a capire? Era il tono sbagliato, lo sapeva, ma non poteva farci niente. Era quella la sua vita, per la miseria! – Sei tu che non capisci. Lei non c’entra niente, e lo sai. Non le hai dato nemmeno una possibilità. E mi hai usata, cazzo! Mi hai trattata come una… com’è che dite? Infame? Alice aveva ragione. L’aveva usata. Poteva addurre un solo argomento a sua discolpa: l’aveva anche salvata da un’accusa ingiusta. Però non aveva creduto in lei. E dunque, meglio il silenzio. – Dammi una sigaretta, – ordinò lei, all’improvviso. Marco si affrettò. Alice aspirò una lunga boccata. – Ma ci pensi mai a come si vive là dentro? Ci pensi quando arresti qualcuno? Hai idea di che schifo di posto sia il carcere, Marco? Sentirsi chiamare per nome lo riempí di speranza. Fece per toccarla, ma lei si ritrasse, indignata, senza permettergli nemmeno di sfiorarla. – Non mi toccare, non ti azzardare! – Hai ragione, scusami. – E smettila di scusarti! – Sí, scusami! Alice gettò via quel che restava della sigaretta. Per un attimo, nel suo sguardo si accese un lampo d’ironia preludio a una risata liberatoria, si illuse Marco. Alice sospirò. Il suo tono si fece piú dolce. Ma era una dolcezza definitiva, senza appello. – Non sei una cattiva persona, Marco. Ma hai un problema. Un grosso problema. Tu non sai da che parte stare. Se con quelli che picchiano o con quelli che le prendono. Non riesci a deciderti. Cosí stai un po’ da una parte e un po’ dall’altra. E questo significa che non stai da nessuna parte. – Alice… – Non venirmi dietro. E non cercarmi. Ciao, Marco. Se ne tornò da coda-di-cavallo. Lui le circondò la vita, lei si appoggiò alla sua spalla. Marco li vide montare sulla city-car nel controluce di un sole beffardo, e comprese che aveva perso per sempre qualcosa di prezioso. Marco, l’Intoccabile.

L. Il Numero otto se n’era andato al creatore da una ventina di giorni. E arrivare al Tatami non fu complicato. Denis prese da parte un paio di pischelli di Ponente, due feroci mastini da stadio con ancora i brufoli sul mento e già la lama in tasca. Gli era arrivato all’orecchio che andavano vantandosi di essere entrati «in un giro importante» a Roma. Una sorta di confraternita nazistoide che si dava appuntamento settimanale in un fitness club giapponese oltre la Giustiniana. Dove un tipo sulla cinquantina che chiamavano il Maestro li addestrava come scimmiette insieme ad altre teste di cazzo, vuote come le loro. Peraltro, il loro silenzio per la preziosa confidenza costò appena un paio di grammi di coca. Perfettamente in linea con il prezzo dell’infedeltà a sedici anni. Tombola. Aveva beccato il Samurai. – Quel porco dobbiamo ammazzarlo. Morgana era scatenata. L’odio, nelle donne, se vuole sa essere piú ossessivo e resistente che negli uomini. E lei ne era gonfia. Ormai aveva anche l’odore della vendetta. Ma Denis, ora, era un capo. Anzi, il capo. E se una lezione aveva imparato dal Numero Otto era l’inutilità di una ferocia senza metodo. Il Samurai vivo – almeno per un po’ – era un’opportunità. E non ci voleva certo un genio per comprenderlo. Zio Nino era in galera e ci avrebbe fatto la muffa. Gli Anacleti stavano impicciati con le guardie che si ritrovavano addosso e non potevano muovere un passo. Max se l’erano bevuto i Ros con una tonnellata di cocaina e al gabbio ci avrebbe fatto le ragnatele. Il mercato chiedeva nuovi padroni e nuove regole. Dunque, bisognava solo trovare un’intesa. E con una pistola puntata alla tempia, anche il Samurai sarebbe diventato un cagnolino da salotto. Bisognava andargli a schiacciare la coda nella tana. Morgana non fece obiezioni. Denis sapeva perfettamente che non era d’accordo. Ma considerò il silenzio con cui accettò di adeguarsi un segno di sottomissione che valeva piú di un giuramento di sangue. – Quando arriverà il giorno, lo lascerò a te. Supino e a occhi chiusi sulla panca della sauna finlandese del Tatami, il Samurai non li vide arrivare. E quando la porta del box di legno si richiuse alle loro spalle, si sentí improvvisamente indifeso. Come gli era capitato solo una volta nella vita. La volta che Marco Malatesta avrebbe potuto porre fine all’intera storia. Un dito di donna gli si poggiò sullo sterno, esercitando una pressione minacciosa. La presa salda di un uomo gli immobilizzò le braccia. La voce di Morgana era un soffio. – Disturbiamo? La domanda cadde nel vuoto. Ma il silenzio del Samurai lasciò entrambi indifferenti. La pressione sullo sterno aumentò leggermente provocandogli una fitta al costato. Denis gli si avvicinò a un orecchio. – Un uomo educato risponde alle domande, Samurai. Glielo avevano descritto bene, quel Denis. Feroce, sarcastico, a suo modo spudorato. Nulla a che vedere con la rozzezza del troglodita di cui aveva preso il posto. Mentre Morgana era una scoperta. Quel dito irrigidito era peggio di un punteruolo, e avrebbe potuto finirlo in un attimo spezzandogli lo sterno. – Non sono in vena di cordialità. E non aspettavo ospiti, – disse il Samurai rivolto a Denis, provando a dissimulare il senso di costrizione fisica e psicologica che lo schiacciava sulla panca

della sauna. – Abbiamo pensato a una sorpresa. – Detesto le sorprese. – Allora dovresti fare piú attenzione. – C’è solo una cosa peggiore delle improvvisate. Le minacce senza un seguito. – E chi lo dice? Il seguito dipende da te. – Che volete? – Morgana muore dalla voglia di ammazzarti. E anche a me non dispiacerebbe. In fondo potremmo finirla qui. Ora. – E allora fatelo. – Tu sei abituato al Numero Otto. Ma io non sono Cesare. Ti offro un accordo. – Che vuoi? – Tutto. – Ho bisogno di una doccia. – Prima, ho bisogno di un sí. – Ce l’hai. Shalva era in leggero ritardo. E arrivando nello spogliatoio del Tatami, notò che il Samurai stava confabulando vicino alla doccia con un tipo che non aveva mai visto prima. Di quell’uomo lo colpí l’eccessiva vicinanza fisica al Samurai. Strano che gliela permettesse. Fu dunque tentato di avvicinarsi, ma poi il Samurai e lo sconosciuto si strinsero con forza la mano. Lo sconosciuto, visibilmente soddisfatto, entrò nello spogliatoio senza salutare. Shalva se ne impresse la fisionomia. Senza trovarlo, cercò il suo asciugamano di spugna e dunque decise che avrebbe fatto senza. La sauna, a quell’ora, era sempre deserta. Ma non quel pomeriggio. Morgana era seduta nella posizione del loto. Il sudore le imperlava il corpo rendendolo lucente. Shalva la salutò con un cenno del capo, come si fa con le sconosciute. Lei rispose liberandosi la fronte e gli occhi dalla frangetta fradicia. Un segno di attenzione. Shalva fissò gli occhi di quella ragazza e passò a esplorarne ogni centimetro di pelle. Il seno proporzionato e sodo, la pancia piatta che si allargava in fianchi generosi. Le labbra carnose. Era un gioco famelico e non provò a dissimularlo. Lei sembrava complice. Quell’uomo, dal corpo completamente glabro e la carnagione bianchissima, era di una bellezza statuaria. Per quanto non giovanissimo, aveva muscoli definiti. I pettorali si aprivano su spalle larghe, gli addominali evidenziavano una tartaruga perfetta, e la schiena, scolpita da dorsali possenti, disegnava l’attaccatura alta delle natiche. Da nero, senza alcuna smagliatura. Morgana provò un’eccitazione intensa che vide riflessa nell’uomo che aveva di fronte. Si alzò dalla panca, si deterse lentamente con il palmo delle mani il seno e la pancia, quindi uscí dalla sauna, richiudendovi dentro lo sconosciuto. Il Samurai raggiunse Luca nel vialetto che portava alla casa giapponese. Si era congedato da quei cani di Denis e Morgana con un impegno che, per quanto lo riguardava, valeva quanto uno sputo in uno stagno. Quei due reclamavano un posto al sole, ma come tutti i loro coetanei di quella generazione smidollata, non avevano le palle per andare fino in fondo. La loro inclinazione al compromesso con i vecchi come lui li condannava all’irrilevanza. Dicevano di volersi prendere quel

che era loro. Ma non lo desideravano abbastanza per strapparlo dalle mani di chi glielo aveva rubato e non intendeva restituirglielo. Aveva avuto vent’anni anche lui. Ma lui aveva sfidato il mondo. Aveva ucciso. Non aveva chiesto il permesso. Non aveva caricato a salve la sua pistola. Un salto di generazione non era piú un’opzione. Era un obbligo verso la sopravvivenza della specie. E per questo servivano lo stupore e il furore di una nuova verginità. Serviva il tanfo di testosterone che affollava il locale in cui si preparava a entrare. – I ragazzi sono arrivati, – disse Luca, indicando una piccola folla di teste rasate. – Ce n’è uno nuovo. Il Samurai seguí l’indicazione e individuò Laurenti, il figlio dell’ingegnere. Scambiò con lui un cenno di saluto. – Lo conosci, Samurai? – Si chiama Sebastiano. È uno giusto. Ho dei progetti per lui. Sbaglio o i ragazzi sono di piú dell’ultima volta? – Non sbagli. – Qualcuno che ha voglia di ascoltare, finalmente. – Sono tutti qui per te. – Non dobbiamo commettere errori. – Perché dovremmo? – Perché è già successo. E non è piú il tempo della mediocrità. Non c’è redenzione nella cloaca in cui siamo immersi, Luca. Dobbiamo lavorare su un tempo nuovo. Il nostro puzza di carogna. Dobbiamo rieducarci all’io assoluto. Alla tensione del gesto. Sono stanco del superfluo. E della paccottiglia che genera. Questo razzismo antisemita da operetta, questa fascisteria glamour e questi banditi da strada di celluloide mi dànno il voltastomaco. La differenza tra un ariano e un giudeo passa attraverso lo spirito. Non i tratti somatici. È sul conflitto tra anelito alla redenzione e richiamo della materia che dobbiamo esercitarci. La crisi ci offre immensi spazi di manovra. L’odio sociale presto sommergerà l’Europa dei banchieri. Dobbiamo essere pronti. Per il prossimo futuro, rileggiti Evola. – Ho cominciato a farlo. E comunque non so se hai dato un’occhiata a quella bozza di documento. – Aurora. Sí, il titolo non mi sembra male. Shalva li interruppe. Era rimasto sotto la doccia piú a lungo del solito per spegnere, o forse prolungare, il desiderio esploso nella sauna. Abbracciò il Samurai, che chiese a Luca di lasciarli soli. Il sequestro del carico di coca a Fiumicino non era discussione pubblica. – È stato un incidente o se l’è cantata qualcuno, Samurai? – Direi un incidente, Shalva. – Devo preoccuparmi per quel Max? – Stai tranquillo. Lo conosco. Non fiaterà. Ha testa e cuore. Ma anche fegato. – E la tipa iraniana che era con lui? Farideh, mi pare si chiami. Max me l’ha presentata a Folegandros. Devo ammettere che è una gran bella scelta, ma… – La ragazza non era prevista. – Appunto. Tu dici che è stato un incidente, ma non vorrei che la tipa non fosse quello che sembra. – Se conosco Max, quella non sapeva e non sa nulla. – Hai ragione, amico mio. Però Max doveva dirtelo. Il Samurai sorrise. – È vero. Ma mi fido. E comunque la bella persiana terrà la bocca chiusa anche lei. Non ha alternative. Se parla si prende il traffico internazionale di stupefacenti. Se gioca alla svampita, può

persino cavarsela e uscire prima del processo. La terremo d’occhio, ma non mi sembra un problema. – A proposito, chi erano quei due nello spogliatoio? – Due fastidiose mosche di Ostia. Lui si chiama Denis. Lei, Morgana. Pensa. Pensa, la croce e la celtica. – Problemi? – Smanie, direi. Sciocche smanie. Che risolveremo una volta per tutte quando avremo finalmente chiuso il Grande Progetto e bonificheremo l’aria dagli ultimi insetti. E quei due, magari, chiederò a te di schiacciarli. – Con piacere, amico mio.

LI. Alla fine, Pericle Malgradi ce la fece per il rotto della cuffia. Il nodo da sciogliere, il masso che rischiava di mandare a monte il Grande Progetto, era l’improvviso e inatteso sfaldamento del suo gruppo. I consiglieri comunali sui quali contava per far approvare la delibera si erano ammutinati. Il capobastone, quello che aveva montato tutto il casino, era un vecchio vorace attrezzo della fascisteria de ’na vorta che per l’aspetto gelatinoso e la totale mancanza di scrupoli si era meritato il soprannome di Jabba, il batrace criminale di Guerre stellari. Il vecchio camerata, che controllava un pezzo del consiglio, s’era fatto rodere il culo dal «momento politico». Da quando la granitica maggioranza di centrodestra aveva cominciato a perdere un pezzo dopo l’altro, era partita la corsa al «riposizionamento». Jabba era stato fulmineo. Aveva marcato una netta «presa di distanza» dall’agonizzante regime. E s’era portato appresso quella che un tempo era stata la banda Malgradi. E cosí il Grande Progetto era diventato zavorra. Malgradi affrontò Jabba a muso duro. – Ma che, non lo sai chi ci sta dentro a ’st’affare? – Il fatto è che il Grande Progetto spaccherà l’opinione pubblica. Già questa storia del blog ha provocato un sacco di reazioni. Ci saranno polemiche a non finire. Saremo sommersi da una marea di ricorsi… – Ma è tutto regolare, lo sai, no? – Sí, come no. Ma i tempi sono cambiati. Il futuro è incerto. Da soli siamo troppo deboli per farcela. Non dico che non se ne farà niente, ma non adesso, Pericle, non adesso. Seeh, tutto regolare! Seeh, non adesso! Vaglielo a spiegare al Samurai, a Ciro Viglione, ai calabresi… e al monsignore. – Quindi, fammi capire, se ci fosse un largo consenso, la cosa si potrebbe comunque fare. – Certo, ma dove lo trovi, oggi, questo largo consenso? – Ci penso io, tu devi solo stare tranquillo e promettermi che quando sarà il momento non ti tirerai indietro. Tu e tutti gli altri. Gli altri che mangiavano da anni alla sua greppia, i morti loro, e che alla prima difficoltà si squagliavano. Jabba promise. Jabba era un politico raffinato. La promessa, si sa, è il futuro, ma in politica il futuro e il passato non esistono. In politica esiste solo il presente. Jabba sottovalutava Malgradi. In fatto di politica delle promesse l’onorevole si riteneva imbattibile. Ora cercava il consenso, ’stu fascistazzu ripulito che sino a poco prima portava a spalla la bara dei camerati bombaroli. Il consenso. E io te lo creo, stronzo che non sei altro. E alla fine, non potrai piú dirmi di no. Malgradi si impose uno scatto d’orgoglio. Chiuse di colpo con coca, listra e mignottume, perché ci sono momenti in cui la lucidità è tutto, e lanciò la campagna acquisti. Perché quando il fuoco amico sta per fotterti, allora bisogna tendere la mano al nemico. Individuò tre consiglieri di minoranza, due vecchie rozze da tiro agli ultimi fuochi, nessuna speranza di rielezione, e un giovane rampante infoiato che nel suo furioso sgomitare s’era distaccato dal partito che l’aveva spedito a calci in culo in Campidoglio. Un altro no future, ottimo terreno di coltura. Cominciò a lavorarseli. Spiegò cos’era il Grande Progetto. – Ne abbiamo sentito parlare, – risposero quelli, sulle prime, – e non ci piacciono le cascate di

cemento. – E ve le faccio piacere io. Un paio di cene alla Paranza e l’omaggio di alcune fra le piú notevoli esponenti del suo parco zoccole ammorbidirono le iniziali resistenze. Un po’ di fruscianti bigliettoni scatenò un improvviso interesse per le «ricadute sociali» dell’operazione. L’impegno per buoni affari messo nero su bianco dal notaio li conquistò alla causa. Su blog e rivistine di tendenza progressista fiorirono trafiletti che se la prendevano con Jabba. Già bersaglio della propaganda rossa per i suoi trascorsi giovanili, il vecchio camerata divenne oggetto di attacchi di crescente violenza per la sua opposizione a quel Progetto che, pubblicizzato da certi provocatori come il Male Assoluto, invece avrebbe garantito migliaia di posti di lavoro. Ovviamente, nel piú rigoroso rispetto dell’ambiente e della legalità. La campagna dilagò su radio e reti locali, approdò alla cronaca del «Messaggero» e da lí rimbalzò sulle maggiori emittenti nazionali. E quando sulla prima pagina dell’autorevole organo della borghesia progressista un noto economista indicò senza mezzi termini nell’housing sociale «l’intelligente risposta keynesiana alla crisi», Jabba s’incazzò di brutto e affrontò a viso aperto Malgradi, con la sua tradizionale franchezza cameratesca. – Che cazzo ti sei messo in testa, brutto stronzo? – Volevi il consenso? E ora ce l’hai! – Ma che stai a di’? Tu sei matto ar culo. Ma io so’ piú matto de te. – No, sei come minimo handicappato. Mi sa che ccu tutta l’acqua santa ca ti spruzzi per far vedere agli amichetti tuoi preti, ti finí il cervello a bagnomaria. – Malgradi, sei finito. – Sentimi bene, coglione. Domani tre consiglieri dell’opposizione presentano un ordine del giorno con il quale chiedono di mettere subito in calendario la delibera sul Progetto. Era quello che volevi, no? Consenso bipartisan. Che fai? Anzi, che fate? Ci state, o vi devo proprio sputtanare? Jabba sbiancò. Malgradi si prese una pausa per assaporare la débâcle del rivale, poi delineò lo scenario. – Una buona metà di quelli di sinistra si accoderanno subito. Gli altri seguiranno. Ci sarà una trattativa. Noi inseriamo qualche variante, tipo due panchine, quattro platani, un nido per i ragazzini, le cose che piacciono a ddi minchiuni. Tu farai un bel discorso sulla necessità di garantire posti di lavoro in un momento di crisi, e i sindacati se ne staranno buoni… – Ma ci sarà comunque qualcuno contrario, – azzardò Jabba, giusto per non arrendersi al primo assalto. – E certo. Ci stanno sempre ’i scassaminchia. Ma saranno quattro gatti. Ci mandiamo la celere, due manganellate e raus, tutti a casa. Sono stato chiaro, camerata? Jabba capitolò. Uno alla volta, i rinnegati, in mesta e speranzosa processione, resero omaggio a Malgradi, che elargí loro, con equanime magnanimità, strette di mano, consigli e vaffanculo. La delibera fu messa all’ordine del giorno. Il voto fissato per il 14 novembre. Malgradi festeggiò la fine del ramaḍān alla Chiocciola con tre amiche. A ognuna aveva imposto una parrucca di colore diverso: bianco, rosso e verde. Perché fosse chiaro che quella era la festa dell’Italia che non si arrende, del paese sano che non piange sulle sue miserie e se ne fotte dello spread. In un impeto di generosità, allungò cento euro al portiere albanese. Ma quando quello sfigato se ne venne con la litania della cittadinanza, lo mandò al diavolo. Kerion Kemani incassò senza battere ciglio, e decise, in quel preciso momento, che Malgradi l’avrebbe pagata.

Quando l’avvocato Parisi gli comunicò la notizia, il Samurai, di solito composto, non riuscí a nascondere un moto di autentica sorpresa. Aveva evidentemente sottovalutato l’onorevole. Tutto riprendeva a marciare. Non lo abbandonava, però, l’oscuro sentimento di catastrofe che da giorni aveva preso a tormentarlo. Possibile che si fosse cosí clamorosamente sbagliato? No. Non era possibile. Le cose sarebbero andate comunque male. Il Samurai aveva troppa fede nella sua natura di superuomo per non approntare un piano di riserva. Diede dunque a Parisi precise istruzioni che lasciarono l’altro di stucco. Il Samurai era diventato un autentico pessimista. – Ma perché dovrebbe andare cosí male, scusa? – Non mi risulta che tu sia pagato per fare domande. – Come vuoi. Ah, dimenticavo. Stasera c’è una festicciola nel locale di un amico di Temistocle. Ci saremo tutti, gli Anacleti, l’onorevole, Ciro, Perri. E naturalmente un po’ di ragazze. – Sai che detesto le ammucchiate. – Ma dovresti essere l’ospite d’onore, Samurai, perché è merito tuo se… – Rimetti la lingua a cuccia, avvocato. Il Samurai chiuse casa e si trasferí da Shalva, a Trevignano. Marco Malatesta e Michelangelo de Candia incassarono la notizia del voto in consiglio comunale con un misto di rabbia e impotenza. Erano entrambi troppo pragmatici per farsi delle illusioni. Il Grande Progetto sarebbe passato, e loro non avevano strumenti per impedirlo. L’inchiesta si era arenata con il sequestro della Runa. Max, Farideh e Tito Maggio, che durante gli interrogatori si erano buttati a Santa Nega avvalendosi della facoltà di non rispondere, erano i colpevoli ideali di un grosso traffico di cocaina. E la cosa finiva lí. L’opinione pubblica era stata sapientemente manipolata, o era distratta da altro. Nessuna prova collegava il Grande Progetto agli omicidi. Se De Candia si fosse azzardato ad aprire un fascicolo, magari contro ignoti, un «Atti relativi a progetto edilizio», l’avrebbero considerato un nemico del popolo. Un pazzo. Per quale motivo la procura avrebbe dovuto prendersela con chi stava lavorando per procacciare pane e lavoro a una città duramente colpita dalla crisi? Non era mica un reato tirar su case e porti. Chi gli avrebbe creduto se avesse cercato di spiegare che non ci sarebbe stata espansione ma corruzione, non posti di lavoro ma schiavitú? Un pazzo che strilla all’angolo di una strada, appunto. Ora sapevano persino chi era lo sponsor politico dell’operazione: Malgradi, che Alice aveva descritto come inveterato puttaniere. Ma gli italiani, si sa, sono teneri con chi pratica l’amore mercenario. Se non si riusciva a collegare l’affare ai cadaveri di Ostia e Cinecittà, la partita era persa. Restavano dunque alcuni morti che verosimilmente s’erano ammazzati fra loro, una guerra nata e finita senza motivo e un giro di pezzi di merda impuniti. In un ufficio dall’aria resa spessa dal fumo, risuonò infine l’orribile parola: fallimento. Michelangelo cercò di alleggerire l’atmosfera con una di quelle frasi di circostanza che gli irriducibili amano rivolgere a sé stessi: – Finché c’è vita c’è speranza. Abbiamo ancora una settimana prima del 14. Cerchiamo di sfruttare il poco tempo che ci resta. Marco stette al gioco. Promise, giurò che avrebbe raddoppiato gli sforzi. Sarebbe tornato in carcere da Max, mettendo ancora una volta sul piatto la liberazione di Farideh. Avrebbe piazzato i suoi alle costole di tutti i sospetti. Avrebbe attinto ai fondi riservati per pagare i vecchi informatori e

procurarsene di nuovi, avrebbe… Michelangelo, d’improvviso, gli chiese di Alice. Gli occhi di Marco si fecero di ghiaccio. Michelangelo si gingillò con un Cd dell’adorato Petrucciani. – Devo farti una confessione, colonnello. Quella ragazza mi piace. Mi è piaciuta dal primo momento che l’ho vista. E ammetto che ci ho fatto un pensierino. Non mi sentirei in pace con la coscienza se non te lo dicessi. Ho anche pensato di… cercarla, insomma, una telefonata, invitarla a sentire la mia musica. Michelangelo. – Lo so, è riprovevole. Ma ognuno ha i suoi punti deboli. Te ne chiedo scusa. E comunque, non l’ho fatto. Marco se ne tornò a Ponte Salario. De Candia aveva riaperto la ferita. Un senso di disfatta lo possedeva. Alice, Alice, Alice, Alice. Lei s’era dissolta nell’acquerugiola del freddo novembre capitolino. Mentre compulsava per l’ennesima volta le informative, cercando il maledetto legame che continuava a sfuggirgli, Marco pensava che il 14 non era solo la dead-line del Grande Progetto, ma la sua. Poteva rinunciare all’inchiesta e tenersi Alice. Poteva perdere Alice e cancellare dalla faccia della terra la paranza delle merde. Non era la stessa cosa, e sapeva di sacrificio umano. Si sarebbe rassegnato, col tempo. Ma poteva sopportare soltanto una perdita alla volta, non tutte insieme. Perdere tutto, e in un colpo solo, era intollerabile. Significava perdere Roma. Bene. Avrebbe lasciato Roma. Roma non si cambia. Roma non si redime. Aveva ragione Remo Remotti. E dunque, vaffanculo, Roma. Alba entrò senza bussare. Era diventata ormai un’abitudine. Piú lui si rinchiudeva, piú lei si affannava, inutilmente, a forzare il blocco. Alba lo vedeva progressivamente sprofondare e non riusciva a farsene una ragione. Se avesse avuto fra le mani quella maledetta zecca mora. Come aveva fatto a succhiargli l’anima in quel modo? Ma a lui non intendeva rinunciare. – Ho il cellulare di Spadino, – disse, scaraventando sulla scrivania una cartata di tabulati. – Non è possibile, – ribatté lui, stanco. – Non sappiamo che scheda usava e l’apparecchio è andato distrutto nell’incendio. – Ci sono arrivata sviluppando il telefono di Max. È tutto là dentro, – ribatté lei in tono di sfida, indicando i documenti. Marco sospirò. I tabulati non erano il suo forte. I gestori fornivano le informazioni col contagocce, manco gli chiedessero, ogni volta, di scoparsi la sorella. I dati affluivano confusi e disaggregati. Toccava a loro orientarsi nel labirinto di schede, codici Imei, intestazioni fittizie, chiamate in entrata e in uscita, celle agganciate. Alba aveva un vero talento per quei lavori di precisione. – Facciamo prima se mi racconti, Alba. La capitana si mise seduta. – Spadino usava una scheda intestata a un nominativo inesistente. Un romeno.

– Come fai a esserne certa? – Ce lo vedi un romeno che non esiste chiamare ripetutamente la madre e la sorella di Spadino? Io no. – Va’ avanti. Ci sono telefonate con Max e con altri della paranza, Paja e Fieno, per esempio. Niente sul Numero Otto, ma non è questo il punto. Andiamo alla notte del 12 giugno. C’è traffico in entrata e uscita con il numero di una prostituta, nome d’arte Lara. Ho fatto qualche accertamento. Il cellulare di questa Lara risulta ora disattivato. E sai da quando? Da due giorni dopo la morte di Spadino, che è del 20 giugno. Ho sviluppato comunque i contatti di questa Lara. Numerose chiamate in entrata e uscita con il cellulare di un’altra prostituta, una certa Vicky Krulaitis. Bene. Questa Vicky l’hanno trovata dopo Ferragosto nella riserva naturale della Marcigliana. Mangiata dai cani. Da quel poco che ne era avanzato sono comunque riusciti a capire che era morta da un paio di mesi. Ultimi contatti telefonici: la notte del 12 giugno. E non è tutto. Lara aveva un sito, ora oscurato. www.larasecrets.com. Lavoravano in due, lei e un’amica… – Vicky. – Esatto. Il 12 giugno questa Vicky smette di comunicare. Due mesi dopo è morta. La sua amica del cuore sparisce dalla circolazione due giorni dopo la morte di Spadino. Chiude il sito, si libera del cellulare. È coinvolta. Ed è coinvolto anche Spadino. Per due motivi. Il primo: lui e Lara si cercano il 12. Il secondo: qualche giorno dopo anche Spadino muore. – Sí. I fatti sembrano collegati. La morte di Spadino dà inizio alla guerra. Ma si scatena una guerra per una puttana morta? E poi come è morta? – Questo lo scopriremo, – sorrise Alba, che aggiunse dopo una pausa sapiente: – E ora ti faccio sognare. Siamo al 14 giugno. Vicky è scomparsa da due giorni e ragionevolmente è già morta. Sono le nove del mattino. Spadino chiama il centralino della camera dei deputati. Ora, colonnello, se la tua zecca mora non ti ha mangiato tutto il cervello, quando io ti dico: puttane, Spadino, cioè tirapiedi degli Anacleti, camera dei deputati… tu a chi pensi? Buona la prima, eh, mi raccomando… Uno, due e… – Malgradi! – urlarono, all’unisono. Alba si abbatté sullo schienale della poltroncina, gli occhi che brillavano d’orgoglio. Cominciò cosí la loro corsa contro il tempo. Alba aggiunse alla sua esposizione un dettaglio che si sarebbe rivelato fondamentale. Tutte le telefonate della notte del 12 giugno erano state agganciate dalla stessa cella del centro storico. Lara, Vicky e Spadino, dunque, si trovavano quella notte in un perimetro che andava, grosso modo, fra piazza Venezia e il Ponte Sant’Angelo. Marco si ricordò di un altro dettaglio: Alice gli aveva detto che Malgradi usava portarsi le escort nell’albergo La Chiocciola. – E tu come fai a saperlo? – chiese Alba. – Lascia perdere, – le rispose pensando con una fitta al cuore a quello stronzo con la coda di cavallo. Che chi sa poi se ci erano stati davvero nella suite Anna Magnani. Decisero di partire da lí. Ci andarono verso mezzanotte, travestiti da coppia clandestina. Il portiere di notte, un albanese dall’aria grifagna che puzzava di broccolo, richiuse il «Corriere dello Sport» e non li lasciò nemmeno cominciare. – Siete poliziotti o carabinieri? Marco e Alba si fissarono come due ragazzini presi con le mani nella marmellata. – Carabinieri, – disse Marco. – Che grado?

Alba era sul punto di inalberarsi. Marco la placò con un calcetto. – Alto. Ti puoi fidare. – Vi ascolto. Alba mostrò le foto che i tecnici del Ris avevano estrapolato a tempo di record dalla ricostruzione del sito alterato. Erano le due che si facevano chiamare Lara e Vicky. L’albanese guardò, riguardò, sorrise. – Io amo molto Italia, – sospirò, – ma Italia non ama me. Sono cinque anni che io e mia sorella aspettiamo cittadinanza. Alba sbottò. Ma chi cazzo si credeva di essere, l’albanese? Quella non era una trattativa, era una ricognizione, un atto investigativo. Sapeva qualcosa? Lo dicesse, e senza fare storie. O gli avrebbero fatto passare un brutto quarto d’ora. Lo sapeva che potevano farlo rimpatriare in qualunque momento a calci in culo? Che cazzo, c’era lo stato di fronte a lui. L’albanese incassò lo sfogo senza scomporsi, poi scosse la testa. – Non le ho mai viste queste donne, mi dispiace. Marco fulminò Alba con un’occhiataccia e le fece segno di farsi da parte. Estrasse il tesserino e lo depositò davanti al portiere. – Facciamo cosí. Adesso lei fa una fotocopia del mio documento. Poi io ci scrivo sopra che mi impegno personalmente a far ottenere a lei e a sua sorella, nel piú breve tempo possibile, la cittadinanza. Io mi riprendo il foglio. Se le sue informazioni mi sono utili, glielo restituisco. – Marco! – scattò Alba. – Altrimenti, – concluse Malatesta, sempre rivolto all’uomo, – stanotte stessa ti porto a Regina Cœli con una bella accusa di sfruttamento della prostituzione, e tua sorella finisce al centro d’accoglienza di Tor Cervara con i clandestini da rimpatriare nelle prossime quarantotto ore. Senza dire una parola, l’albanese prese il tesserino, chiese al colonnello cinquanta centesimi – «Le fotocopie costano e qui gratis non si fa niente» – e scomparve nel retro dell’office. – Tu sei fuori di testa! – sibilò Alba. Marco la baciò su una guancia. Lei lo spinse via, infuriata. – Io non sono la ruota di scorta di nessuno. L’albanese ritornò, restituí a Marco l’originale e la fotocopia del documento e si fece ridare le foto. – Questa è Lara, ma ora è fuori da giro. Dice che sta con produttore di cinema. Quest’altra, poverina, si faceva chiamare Vicky. Lavoravano in coppia. Due professioniste, senza offesa, signora. Lei è morta qua. La sera del 12 giugno. – E come fai a saperlo? – L’ho vista. Secondo me ha esagerato con roba. Come dite voi? Overdose. Erano amiche di quel politico, quello che si vede in televisione. Malgradi, mi pare che si chiama. Quella sera erano insieme in suite Anna Magnani. – Saliamo, – disse Marco. Il portiere tossicchiò. – Scusate. Adesso c’è clienti. Ma c’è altro da vedere. Kerion Kemani li portò a casa della sorella, consegnò la federa e il cellulare con le foto che aveva scattato quella notte, quando Spadino e Lara avevano portato via il cadavere di Vicky. Marco e Alba si presentarono a casa di Michelangelo de Candia nel cuore della notte. Chiedevano

provvedimenti immediati per la donna e per Malgradi. Il Pm li gelò. – Lei prima trovatela, poi ne riparliamo. Quanto a Malgradi, non se ne parla. – Ma era proprio lui il cliente. La lituana gli è morta fra le mani. – Provatelo. Potrebbe sempre dire che se la stava spassando quando è stato chiamato per un impegno urgente, e che quando è andato via la ragazza era ancora viva. – Abbiamo la federa! Dev’esserci il suo Dna là sopra. – Come è stata conservata la federa? In mezzo alla biancheria sporca di un albanese probabilmente complice delle marachelle dell’onorevole. Al quale tu hai improvvidamente promesso la cittadinanza. Con un simile quadro, qualunque avvocaticchio ci farebbe a pezzi. Io non dico che non abbiate fatto un buon lavoro, ma non basta. Trovate questa Lara. È lei la chiave. – Però, – suggerí Alba, – potremmo far uscire la notizia. Sputtanare Malgradi. Michelangelo scoppiò a ridere. – Ma allora è un vizio. Ve lo insegnano in accademia? Marco si prese sottobraccio Alba, che non capiva, e sgombrò il campo prima che l’incidente diplomatico diventasse dichiarazione di guerra.

Trovare Lara, dunque. All’anagrafe faceva Proietti Sabrina, già piú volte segnalata per esercizio del meretricio. La dead line si avvicinava, poi tutto quello sbattimento sarebbe diventato vano. Si allertarono informatori, si coinvolse la squadra di prevenzione dei reati sessuali, si giunse a pensare a un appello, soluzione rapidamente scartata perché, se la cosa fosse diventata di pubblico dominio, il primo a saperlo sarebbe stato Malgradi. E Malgradi significava Samurai, Anacleti e compagnia cantante. Per la povera Sabrina in arte Lara la fuga di notizie equivaleva a una condanna a morte. Fu ancora una volta Alba a risolvere la situazione. Accadde la mattina dell’11, tre giorni prima dell’approvazione della delibera. Alba coltivava da anni una passione per le riviste di gossip. Si divertiva a leggere degli amori di regnanti e starlette, e piú ancora dei progetti pomposamente annunciati dalle mezzeseghe dei reality. Lo specchio dell’altrui vanità, in un certo senso, la faceva sentire migliore. Fu dalle pagine di «Chi», la Bibbia del genere, che si vide sfidare dallo sguardo sorridente di Sabrina. Abbracciata a un elegante cinquantenne sale e pepe, noto produttore, annunciava che presto la storia della sua vita sarebbe diventata un film, una grande produzione internazionale con un cast stellare: Charlize Theron, Uma Thurman, Michael Fassbender, Viggo Mortensen. Sí, l’Italia sbarcava a Hollywood con l’avventura della novella pretty baby de noantri. Fu con immenso piacere che portò la rivista a Marco. – Mentre tu ti titilli con le radio degli zulú, c’è chi si abbevera alla fonte della vera cultura popolare, caro il mio colonnello. L’ultimo atto si consumò nell’attico di Eugenio Brown. Era mezzogiorno, pioveva, e la coppia del momento era ancora a letto quando Marco e Alba suonarono. Eugenio Brown si calò un discreto cachemirino dalle tenui sfumature verdine. Sabrina, in mise rosa, era bellissima anche senza trucco, e non fece una piega quando il colonnello la chiamò Lara. – La storia della mia compagna è su tutti i giornali, – intervenne in sua difesa Eugenio, – e noi non abbiamo niente da nascondere. – Lei no, certo, – sussurrò Marco, al quale il produttore ispirò da subito simpatia, – ma forse ci

sono dettagli che sarebbe meglio discutere con la signora. Da soli. – No, – protestò Eugenio. – Io e Sabrina non abbiamo segreti. Marco si arrese. Poveretto. Aveva riconosciuto le stimmate dell’uomo innamorato. Ciò che stava per fare lo addolorava, ma non c’era altra soluzione. Si rivolse ostentatamente a Sabrina. – Spadino è morto, Lara. L’hanno ammazzato come un cane. Anche lei è in pericolo. Come l’abbiamo trovata noi, la troveranno quegli altri. E quelli non si limiteranno a un verbale. Perciò, lei non ha scelta. Deve fidarsi di noi. La maschera della signora si sgretolò. Sabrina fissò Eugenio Brown come se volesse incenerirlo. In un bicchiere d’acqua spezzò due fiale di ricostituente all’echinacea e ginseng che comprava a pacchi nel negozio bio del quartiere, perché la costruzione di una signora partiva anche da lí. Le mandò giú in un sorso. – Te l’avevo detto che ’st’idea del lancio pubblicitario era ’na cazzata! Ma tu non senti mai ragioni. La vera storia di Sabrina Proietti, la zoccola. M’hai rovinato, stronzo! Eugenio le rivolse uno sguardo attonito. – Ma, amore, io… Sabrina lo ignorò. Accavallò le gambe, si fece porgere dallo schiantato produttore una sigaretta e, stringendola fra le labbra, ne spezzò il filtro, che sputò nel posacenere al centro del tavolo. Si rivolse al colonnello, davvero un bel manzo, non c’è che dire, con un sorriso assassino. – E io che ce guadagno, da ’sta storia? – Dipende da quello che ha da perdere, – precisò Marco. – Diciamo che quanno la ragazza è morta ce stavo pure io. E che magari ho dato una mano a procurarle pietosa sepoltura… – Sabrina… – gemette disperato Eugenio Brown. – Statte zitto. Hai scoperchiato il vaso, e mo’ è troppo tardi per rimetterci il tappo. Allora, colonne’? – Allora… diciamo che certe informazioni non essenziali alla ricostruzione della vicenda non devono necessariamente diventare di dominio pubblico. – Me sta bene, – concluse Sabrina. – Vòi sape’ de quer porco de Malgradi, no? E mo’ te dico io com’è andata.

LII. La Subaru Outback metallizzata procedeva a fatica. Il lampeggiante dell’auto civetta illuminava il sabato di via del Corso, formicolante di un’umanità inconsueta e incongrua per un pomeriggio di shopping. Schiaffeggiava di blu facce stravolte da un’incredula felicità. A piedi, sui motorini, in bicicletta, da piazza Venezia e piazza del Popolo, uomini, donne, famiglie confluivano in un allegro disordine verso piazza Montecitorio. Ostruendo marciapiedi e corsie preferenziali. Marco diede un’occhiata al termometro sul cruscotto – sedici gradi – e batté la mano sulla coscia dell’autista. – Andrea, che giorno è oggi? – Sabato, colonnello. – Questo lo so. La data. Quanti ne abbiamo? – 12 novembre. Vuole pure il santo, comandante? – Che? – ’Sta macchina sul navigatore ci ha tutto. Ecco. Oggi è San Cristiano. – Poi dice che la provvidenza non c’entra. – Non ho capito. – Niente, niente. Si sintonizzò sulla frequenza della sala operativa. – Allora, a chi è in ascolto… Situazione in piazza del Quirinale in evoluzione. Si segnalano al momento due-tremila persone in aumento. Assembramenti in piazza Colonna, traffico bloccato in via del Corso. Raccomandiamo a tutto il personale in servizio nella zona di non, ripeto: non, impedire afflusso e deflusso pacifico tra Quirinale, Montecitorio, Dataria, via IV Novembre, piazza Venezia. Segnalare eventuali criticità. La Subaru ora era piantata in mezzo a via del Corso. Malatesta bloccò il braccio dell’autista. – Lascia stare la sirena. Non è aria. – Certo, mo’ che quello se ne va, sembra ieri che è arrivato. Com’era? «L’Italia è il paese che amo». E invece so’ passati vent’anni, eh, colonnello? – A me sembrano quaranta. – E mo’ chi comanderà, colonne’? – Un tecnico. – Tanto me sa che per noi nun cambia gnente. Sempre appresso ai ladri dovremo corre’. Destra, sinistra, eh, colonnello? Quanti ne abbiamo visti. – Andrea, meno male che voti ogni cinque anni. – Colonnello, in confidenza… da mo’ che ho smesso di votare. – Meglio. Malatesta tornò a fissare attraverso il finestrino la folla che circondava la macchina. Un tipo di mezza età portava a spalla un «bimbo» stereo – cazzo, e da dove è uscito quel pezzo di antiquariato? – che amplificava le note dell’Hallelujah di Händel. Forse non era la sera adatta per accendere la miccia, pensò. O forse sí. San Cristiano, la notte della fine del ventennio. Ma sí, la cabala qualcosa doveva pur dire. Ripensò al racconto di Sabrina nell’attico di piazza Vittorio. «Mo’ te dico com’è annata». Ma sí, ultimo giro, dunque. Guardò l’ora. Le diciannove. Aprí lo sportello della Subaru e scese.

– Proseguo a piedi. Faccio prima. Aspettami in largo dei Lombardi. Marco notò che le insegne sul fronte strada della fondazione Rialzati, Roma erano prudentemente spente. Ma dalle ombre che si intuivano oltre le vetrate illuminate dalla luce interna dei locali, capí che non aveva fatto un viaggio a vuoto. Senza rallentare il passo, superò i guardaspalle all’ingresso sventolandogli sotto il naso la piastra identificativa dell’arma, ed evitò anche solo di accennare una risposta alla domanda insistita della tipa che gli si parò dinanzi alla reception e incespicando sui tacchi 12 lo inseguí fino alla lounge. – Prego? Signore, prego? Chi cerca? Mauro Lotorchio si presentò, prodigandosi in un’untuosa stretta di mano. – Con chi ho il piacere? – Ros dei carabinieri. Sezione anticrimine. Tenente colonnello Marco Malatesta. – Dev’esserci un equivoco. Non abbiamo chiamato nessuno. Forse, i cattivi che cerca sono qui fuori in strada. Ah, ah, ah! La risata di quel baccalà in doppiopetto che odorava di profumo francese avrebbe meritato un ceffone a mano aperta. Ma in fondo c’era di meglio. Fargli abbassare la cresta. A lui e al suo padrone. – Senta, caro Lotorchio. Non mi ha chiamato nessuno. Diciamo che è una visita a sorpresa. E che lei adesso mi chiama l’onorevole Malgradi. Lo farei volentieri, colonnello. Ma l’onorevole è impegnato in una delicatissima riunione politica. Lei capirà, non sono ore semplici per il paese. La responsabilità di ciascuno di noi impone scelte… – Mi faccia indovinare. Scelte irrevocabili, si dice. Devo averla già letta da qualche parte. Quei portaborse erano allenati a essere piú malleabili del pongo, ma il tipo aveva accusato l’affondo e cambiato espressione. Sulle labbra dell’ebete, il sorriso da pubblicità del dentifricio si era spento in un visibile tremore di collera. Ora, Malatesta. Ora. – Allora, amico mio. Visto che come lei sa il Ros non si muove per furti in appartamento, se non mi annuncia lei, la identifico e poi la riunione dell’onorevole ci penso io a interromperla. Cosí ce ne andiamo tutti insieme in caserma. Malgradi si precipitò nell’anticamera della sala riunioni. Cristo, che cazzo voleva quel Malatesta? Lo sapeva, cribbio. Lo sapeva che quello stronzo se lo doveva togliere di torno da un pezzo. Che minchia faceva Rapisarda? Non lo aveva messo a posto con la storia di quella brigatista presa a San Giovanni? L’onorevole strinse la mano di Malatesta e allontanò Lotorchio con il gesto con cui si liquida un maggiordomo. Mise su una faccia di pietra. – Sono tutto per lei, colonnello. Se mi avesse avvisato, avrei fatto in modo di incontrarci in un luogo e in un tempo piú consoni. – Mi deve scusare, onorevole, ma sa come funzionano le cose in un caso di omicidio. Il filo si afferra all’improvviso. Giorno, notte. Le inchieste non vanno con l’orologio e nemmeno con il calendario. – Omicidio? Non capisco, francamente. Malgradi aveva preso il colore della camicia immacolata che indossava, su cui brillava un fermacravatte d’oro con un tricolore in miniatura dei centocinquant’anni dell’unità d’Italia. – Omicidio. Ha capito bene, onorevole. Per me, è importante sapere se ha mai sentito parlare di un certo Spadino. O se preferisce, Marco Summa, che era il suo nome prima che la scorsa estate lo arrostissero in una pineta. Abbiamo trovato solo i denti.

– Che orrore. – Forse se l’era cercata. O forse gliel’avevano giurata perché si era allargato. O forse aveva esagerato con qualcuno con cui non doveva. O forse aveva visto qualcosa che non doveva. – Prego? – Ragionavo a voce alta. Ma mi dica, dunque. Le suggerisce nulla questo nome? – Assolutamente no. – Ci pensi bene. Spadino. – Nulla. – Forse allora sono piú fortunato con tale Vicky. È una cittadina lituana. Pardon, era. – No, non conosco polacche. – Con lei siamo stati piú fortunati. I cani le avevano mangiato solo la metà della testa. E quando l’abbiamo trovata i vermi della decomposizione non se l’erano ancora digerita. Malgradi fu aggredito da un incontenibile desiderio di vomitare. – Senta, colonnello, non le vorrei sembrare scortese, ma davvero non credo di poterle essere utile in alcun modo. Quindi, se vuole scusarmi, dovrei tornare alla mia riunione. Naturalmente resto a sua disposizione qualora le venissero in mente altre circostanze su cui dovesse ritenere che io possa essere di aiuto. Malatesta sorrise. Era all’amo, l’onorevole. E ora provava ad allentare la tensione della lenza giocando a girarci intorno. Avrebbe potuto dare in escandescenze. Gridare che era un deputato della Repubblica. Cacciarlo a calci dalla fondazione e imporgli – ne avrebbe avuto diritto – le forme rituali della convocazione per un verbale da persona informata sui fatti o addirittura da indagato. Non lo aveva fatto. Malgradi non lo aveva fatto, perché non poteva. Era nella merda. Colpevole come il peccato. E ora lo sapeva. Cominciava dunque il conto alla rovescia. San Cristiano. San Cristiano. – Grazie onorevole. Ci vedremo prestissimo. Lei mi è stato piú utile di quanto immagini. La villa nel Parco della Caffarella era immersa in un’oscurità e un silenzio innaturali per essere a neppure tre chilometri in linea d’aria dalla spianata repubblicana in cui tutto si stava compiendo. Sul Sony 43 pollici ad alta definizione del salone ovale dai grandi bovindi, che di quella villa da duemila metri quadri era il cuore architettonico – «Una replica esatta dello studio del presidente degli Stati Uniti», si vantava con civetteria il padrone di casa –, le immagini di Sky da piazza del Quirinale arrivavano in presa diretta. Ripulite anche dalla voce della cronaca. Voci, canti, brusii, poi, ecco… Un grido dalla piazza che si faceva boato, trasformando i fischi in un ruggente jingle da stadio. «Buffone! Buffone! Buffone! Buffone!» Le venti e cinquantasette. «Mafioso! Mafioso! Mafioso! Mafioso!» Il corteo di motociclisti e l’Audi A8 blu notte, bombardata da flash che illuminavano oltre il cristallo antiproiettile la faccia del presidente del consiglio nel suo ultimo atto, entravano nel Palazzo del Quirinale. Benedetto Umiltà fece cenno al maggiordomo filippino in giacca gallonata. Gli ospiti erano sprofondati sui divani color panna disposti ad anfiteatro intorno allo schermo. Il domestico porse le flûte di spritz e fece girare le tartine al granchio che aveva disposto su un grande vassoio di argento. – Isidro, con garbo, per cortesia. Monsignor Tempesta avvicinò l’aperitivo alle labbra senza staccare lo sguardo dall’immenso

televisore. Il Samurai chiese se era possibile avere del tè bianco. – Sri Lanka o Zhejiang? Sono entrambi biodinamici, signore, – chiese il filippino piegato a squadra. – Il piú forte dei due. E niente zucchero. Umiltà provò a rompere quel silenzio teso che li incatenava alle immagini dell’addio del presidente. – Vedrà, sta per bere qualcosa di introvabile. Me li fa avere un amico, un dirigente generale del ministero dell’Agricoltura. Ha presente, eccellenza? È quello di cui ci siamo interessati un annetto fa e che ha comprato dalla Confraternita Dei quel magnifico immobile a Borgo Pio. – Il dottor Pavetta? No, aspetti, forse lo confondo con quello delle mozzarelle. – Sí, eccellenza, Pavetta è quello dell’itticoltura a Maratea. Quello dei finanziamenti Ue che mi ha dato una mano per quei cantieri sulla Salerno-Reggio. E peraltro, stasera abbiamo anche le sue bufale. Io, prima, intendevo il dottor Giansi. – È vero. Giansi. Galeazzo, giusto? Con il fratello in Sace e la figlia alla Farnesina. – Lei ha una memoria di ferro. Il Samurai li interruppe. – A proposito di ministeri. Con stasera cambia qualcosa? Tempesta sorrise. E con lui Umiltà. – Nulla. Un tuono a Palazzo Chigi si fa refolo nei ministeri. È questa la forza della Repubblica. E poi abbiamo avuto assicurazioni, giusto? Tempesta giunse le mani come in un gesto di preghiera sfiorandosi la punta del naso. – Abbiamo avuto ampie garanzie che la transizione sarà indolore. E poi, e qui è l’uomo di chiesa che parla, dall’alto, se mi è consentito, della millenaria saggezza dell’istituzione che indegnamente rappresento… passerà la bufera, e si dovranno fare i conti con l’indole eterna e immutabile dell’essere umano. E soprattutto con quella, tutt’affatto peculiare, del nostro popolo. Amen, pensò il Samurai con un fondo d’invidia. Era la stessa, identica morale di mafiosi e ’ndranghetisti: càlati, juncu, ca passa la china. Arrivò il tè. Il Samurai ne bevve due profumatissimi sorsi da una porcellana cinese. – Meglio cosí. Se i ministeri non tremano, figuriamoci se cade il Campidoglio. Lunedí è calendarizzata in consiglio comunale la nostra delibera. Ancora quarantotto ore e poi potremo finalmente partire. Alla fine, incredibilmente, Malgradi ha fatto quello che doveva. Da piazza del Quirinale tornava a farsi sentire la voce del cronista di Sky. Ecco, ci hanno appena comunicato che il presidente Silvio Berlusconi ha rassegnato formalmente le sue dimissioni e ha lasciato il Palazzo del Quirinale da un’uscita secondaria. Da domani mattina, il capo dello stato avvierà le consultazioni e già nella giornata di lunedí dovrebbe conferire l’incarico per la formazione del nuovo governo…

Umiltà afferrò il telecomando, mostrandolo ai suoi ospiti. – E se mettessimo della musica? Il suono diffuso dagli otto altoparlanti a stelo Bang & Olufsen avvolse i tre uomini in una culla di sonorità potenti. – Magnifico. Mozart, sinfonia numero 25 in sol minore. Primo movimento. Allegro con brio. Anche se da lei, Umiltà, mi sarei aspettato la quinta di Beethoven, o l’Eroica, – disse il Samurai con un ghigno sarcastico. – Lei mi fa dozzinale. – Preferisco che le persone mi sorprendano. Detesto le delusioni.

Non avevano notato la riapparizione del filippino. Isidro annunciava l’arrivo di Pericle Malgradi. L’onorevole aveva l’aspetto stravolto del naufrago. Benedetto Umiltà gli si fece incontro con studiata affettazione. – Caro onorevole, prego. In sua assenza ci siamo permessi di impegnare lo stomaco con qualche tartina. Granchio. Sono di suo gradimento? – Se posso dire, avrei bisogno di una toilette. Non credo di stare bene. – Immagino. La tensione in una serata cosí fa brutti scherzi allo stomaco. Isidro accompagnò l’ospite in uno dei tre bagni del pianterreno. Settanta metri quadri tappezzati di carta da parati rosso pompeiano con sanitari in marmo di Carrara nero. – Cazzo, e che è, ’na cripta? Riemerse dal cesso, vuoto come una canna di bambú. Ma se possibile, ancora piú stravolto. Rientrando nel salone ovale, Malgradi investí elettrico il Samurai. – È la fine. Maledetto carabiniere, è la fine. Il Samurai ritrovò lo sguardo da rettile. Benedetto Umiltà consegnò Mozart al tasto «pausa». – Di che parli? Di che diavolo parli? – Il Ros… Sanno tutto. Malatesta, due ore fa, è venuto alla fondazione. Sanno tutto, ti dico! Siamo tutti a rischio, Samura’, tutti, tu pure. Il Samurai si concesse una risatina che lasciò Malgradi atterrito. Alzò la voce. – E cosa dovrei rischiare io, secondo te? Su, dimmelo, Malgradi. Cosa? Un po’ di coca? Tra noi due, non sono io quello che tiro. Le mignotte? Le scopi tu. Da sempre. La lituana? Chi stava con lei la notte che è morta? E chi ha chiamato Spadino? Io, no. E chi ha chiesto al Numero Otto di toglierlo di mezzo? Io, no. Tu, forse? – Io potrei… raccontare delle cose… – lasciò cadere Malgradi. – Quanti figli hai, Malgradi? – riprese il Samurai, sorprendentemente dolce. – Due, mi pare, vero? Belle ragazze, a quanto mi dicono. Sarebbe un peccato se succedesse qualcosa. Hanno tutta una vita davanti… – Signori, vi prego! – salmodiò monsignor Tempesta. Il Samurai giunse le mani e tacque. Il vescovo si avvicinò a Malgradi. L’onorevole se ne stava accasciato sul divano, con le mani premute sul viso rigato da lacrime, come in attesa dell’estrema unzione. – Onorevole, credo che lei abbia bisogno di riposo. Malgradi lasciò cadere le mani dal viso e come una faina scattò verso il vescovo. – Riposo? Lunedí si vota in consiglio la delibera sul Progetto: è il mio capolavoro politico. Il nostro capolavoro. – Di nostro, onorevole, in questa storia non c’è nulla. Non c’è mai stato nulla. E poi lei lo sa. Due giorni in politica possono essere un’èra geologica. È caduto il governo e per giunta il suo piccolo segreto con i carabinieri non so quanto potrà resistere in questa città piena di spifferi. Non stia piú a pensare a quella delibera, mi creda. Piuttosto, immagini un luogo. – Un luogo? – Lei ha bisogno del beneficio del silenzio. È un grande balsamo, come la solitudine. Lei ha bisogno di ritrovarsi. È accaduto anche a me. Lei che l’ha letta, ricorda dove è nata la mia Etica per un nuovo millennio? Il Samurai chiese a Isidro di mescergli un’altra tazza di tè bianco. – Superbo. – Il tè o le parole di sua eccellenza? – chiese Benedetto Umiltà. – Direi l’uno e le altre. E ora, se non vi dispiace, temo di dovervi lasciare.

Il Samurai si alzò e Isidro gli porse il cappotto nero di Prada. Malgradi era sul divano, spiaggiato come un cetaceo. Sembrava dormisse. La camicia era sbottonata sul ventre, da una gamba penzoloni i pantaloni mostravano un calzino di Scozia sceso al malleolo, gli occhi erano semichiusi. Una patina biancastra gli incrostava gli angoli della bocca. Il respiro, affannoso, liberava una sorta di rantolo bronchiale. Il Samurai lo guardò con la stessa indifferenza con cui scavalcava i barboni stesi sui cartoni della stazione Termini. Tese la mano a Tempesta e quindi a Benedetto Umiltà. Isidro lo accompagnò al parcheggio interno della villa, aprendogli lo sportello della Smart nera. Il Samurai si congedò da lui con una pacca sulla spalla. – Ora che rientri, cambia aria al salone. C’è odore di morto. Il Samurai raggiunse Trevignano in meno di un’ora. Era tempo di cominciare le grandi pulizie. Shalva era sveglio davanti al televisore. La diretta dell’addio del presidente continuava no-stop. Ora scorrevano immagini di repertorio. 1994. La telecamera con l’obiettivo inguainato da una calza di nylon riprendeva la «discesa in campo» di quell’uomo quando ancora aveva i capelli. Il georgiano aveva l’aspetto ilare, e con movimenti circolari del polso lasciava ossigenare un calice di bas-armagnac. – Guarda guarda. E io che pensavo che a un maiale come te interessassero solo i porno. Trovi lo spettacolo esilarante, Shalva? – Amico mio, la politica di questo paese è piú divertente di quella russa e georgiana messe insieme. – Diciamo che non ci si annoia. – Troie, corruzione, tradimenti. Meglio di un porno. È la vita, Samurai. La vostra politica è lo specchio della vita. – E dire che invece io ti volevo chiedere di occuparti di un bel funerale. – La vita si dà e si toglie. Dimmi che devo fare. – Ti ricordi quei due insetti che hai visto al Tatami? Shalva ripensò a Morgana con un rush di desiderio. – Indimenticabili. – Vanno parcheggiati. Loro due e un terzo di Ostia. Si chiama Robertino. Te li porto a dama io. Tu devi solo chiudere. E… Shalva? – Dimmi, fratello. – È soltanto l’inizio. Ci vuole aria nuova, a Roma.

LIII. Erano davvero campioni di una generazione tanto immonda quanto ingenua. Pronti a credere che la stretta di mano di un «vecchio» in uno spogliatoio fosse garanzia di chi sa quale investitura. La domenica mattina, la chiamata Skype con cui il Samurai raggiunse Denis durò una manciata di secondi. Fu abbastanza concisa per non lasciare spazio a domande. Ma non troppo sbrigativa da suonare farlocca. – Denis, devo vedervi. Dobbiamo metterci al lavoro. Subito. Domani in comune arriva il semaforo verde al Grande Progetto. – Perché «vedervi»? Basto io. – Se non ricordo male, l’ultima volta che ci siamo salutati non eri da solo. O la compagnia è cambiata? – Non è cambiata. – Appunto. Visto che non mi piace cambiare la formazione in corsa, si continua come abbiamo cominciato. E ti dico di piú. Voglio che oltre alla ragazza ci sia anche Robertino. – Che quello ci stia o meno è uguale. Meno cose ha in testa, meno facce vede, meglio è. E poi sai che cazzo ne capisce lui di piani edilizi. – Io devo guardare negli occhi tutti quelli con cui ho stretto un patto. Robertino è un problema tuo, non mio. E fino a quando non lo avrai risolto, per me è della partita. – Contento tu. Ci sarà. Dove? – Da voi. All’Off-Shore. – Quando? – Stasera verso le otto. – Intesi. La preparazione era il bello. Meglio dell’esecuzione. Sempre. Consentiva di assaporare i dettagli, lasciando che l’adrenalina montasse. Shalva lo aveva imparato in Serbia da Zoran, un cecchino che, finita la guerra, organizzava battute di caccia all’orso per narcos e oligarchi russi. E la carabina di precisione M-93 Crna Strela Black Arrow calibro 50 di cui ora accarezzava la canna brunita e il calcio anatomico era un suo regalo. Shalva gli aveva salvato la pelle un giorno di primavera, sfilandolo dalle mani di un tagliagole di San Pietroburgo di cui il serbo aveva scopato la moglie. E l’unica gratitudine di cui Zoran era stato capace era stata la cerimoniosa e commossa consegna di quel fantastico strumento di morte prodotto dalla Zastava di Kragujevac. «Orsi? – aveva detto Zoran. – Ne ho ammazzati piú di cento con questa. A cinquecento metri di distanza, un orso o un uomo non fa differenza». Dopo aver controllato minuziosamente l’otturatore e l’ottica del puntatore agli infrarossi, Shalva infilò nelle tasche capienti dei pantaloni cachi due caricatori da cinque cartucce ciascuno, e si sistemò sulla schiena, all’altezza della cintura, due Noz, i coltelli tattici di quello che era stato l’esercito iugoslavo. Faceva parecchio freddo per essere metà novembre, e dall’armadio pescò uno zuccotto nero di lana sul cui risvolto era cucita la scritta «Grand», il nome dell’albergo di Tribeca dove per la prima volta, a New York, era stato con una modella nera. Un gran ricordo. Un oggetto per le occasioni importanti. E quella lo era. Controllò l’ora e si infilò in macchina. Da Trevignano al litorale di Coccia di Morto non ci sarebbe voluto molto.

L’Off-Shore era deserto. Era rimasto chiuso dalla morte del Numero Otto. Le perquisizioni dei carabinieri, l’inchiesta della procura, avevano consigliato un lungo periodo di ristrutturazione. E poi, Denis voleva ripulire quel posto della patina da bordello sudamericano di cui era impregnato. «Voglio una cosa nuova. Minimal», aveva detto a Morgana. E ne aveva incassato una risposta lapidaria. «Sí. Purché non sembri un posto da froci». Anche per questo, ingannando l’attesa del Samurai, Denis continuava a entrare e uscire dai privé insieme a Morgana con il piglio dell’architetto che rimugina trovate sorprendenti. – ’Sto letto a conchiglia nun se pò vede’. – E sí, però funziona alla grande. – E poi i cubi dal bar… via. Mica possiamo fa’ una discoteca anni Novanta. Sembravano una coppia di sposini all’Ikea, e Morgana non riusciva a capire se la cosa la rassicurasse o la mandasse in bestia. Non era stata fino in fondo del Numero Otto. E non aveva alcuna intenzione di diventare proprietà di Denis Sale. Era la sua donna, non la mogliettina che avrebbe messo prima incinta e poi magari a gestire un localino «minimal», come diceva lui, in cui fare la guardia a qualche troietta piú giovane. Robertino se ne stava in disparte. Camminava su e giú per la spiaggia. Vedere quei due scopare significava rigirare ogni volta il coltello nella piaga della morte di Cesare. Cesare suo. Avrebbe dovuto dirglielo da vivo che quella zoccola di Morgana se la faceva con Denis. Denis il fratello, seeh. Che lo avrebbe vendicato, come aveva giurato il giorno dei funerali. E come no. Eccolo là. Aspettava bono bono l’arrivo del Samurai. Ma mica per parcheggiarlo. No. Pe’ facce affari, li mortacci sua e de ’sto bastardo de nome e de fatto. E poi, quali affari? ’Sto famoso uoterfront che, vaffanculo, da quando era iniziata quella storia, Cesare aveva cominciato a mori’. Era furioso, Robertino. E troppo immerso nella collera per tenere vigile l’udito. Cosí, non colse l’arrivo della macchina nel parcheggio dell’Off-Shore. Shalva spense il motore dell’Audi. E abbassò il finestrino. Dal punto in cui era godeva di un’eccellente visuale. La prima sagoma che vide nell’oscurità appena rischiarata dalle luci interne del bar dell’Off-Shore fu quella dell’ometto che girava nervosamente in tondo sulle dune, a diverse centinaia di metri dal locale. Doveva essere il terzo di cui gli aveva parlato il Samurai. Robertino. Rimase a osservarlo per qualche minuto, per verificare che Denis e Morgana non fossero nelle vicinanze. Aprí il bagagliaio. Infilò i morbidi guanti in pelle di daino. Afferrò l’M-93, di cui verificò un’ultima volta caricatore e puntamento. Avvitò alla canna il silenziatore. Si accovacciò in corrispondenza del muso dell’auto. Assunse una perfetta posizione di tiro. Quindi, appoggiò l’occhio destro al puntatore telescopico. Testa, torace. Testa, torace. A cinquecento metri di distanza, un orso o un uomo non fa differenza. Crac. Il proiettile calibro 50 fece volare Robertino per una decina di metri, aprendogli uno squarcio all’altezza dello sterno in cui si sarebbe potuto infilare un braccio. Shalva si alzò e con passo lentissimo si diresse verso le dune. Il sangue e i frammenti di carne e ossa della preda erano sparpagliati in un raggio di qualche metro. L’espressione sul volto di Robertino era sorridente. Gli occhi spalancati. Il georgiano portò la mano alla schiena e ne sfilò uno dei due Noz. Evirò il cadavere con due rapidi movimenti della lama e infilò il trofeo nella bocca del

cadavere. Quindi puntò verso le luci dell’Off-Shore. Denis aveva aperto la porta del magazzino degli alcolici, quello da cui l’arsenale era stato fatto tempestivamente sparire il giorno della morte di Cesare. Accese la luce, invitando Morgana a entrare. Ma lei continuava a starsene immobile. – Ahò, e non startene piantata lí. Dài, dammi una mano. Che c’è? – Ho sentito una cosa. – Sarà il vento. – No. Non è il vento. – E sarà quer cojone de Robertino. – Perché, sai ’ndo’ sta? – Che ne so. Se n’era andato a fa’ du’ passi sulla spiaggia. – Ho capito. Mezz’ora fa, però. – Nun te preoccupa’, che nun lo rapisce nessuno. – Buonasera. La voce di Shalva li gelò. La canna dell’M-93 teneva sotto tiro entrambi, spostandosi impercettibilmente dalla fronte dell’uno a quella dell’altro. Denis fissò il georgiano. – E tu chi cazzo saresti? Shalva sorrise. – Ci conosciamo. Condividiamo una passione per le saune. E sono qui per portarvi i saluti del Samurai. Il cervello di Denis Sale imbrattò una cassa di Corona light. Il proiettile della 38 lo aveva centrato esattamente alla tempia. Shalva si voltò verso Morgana, che stringeva la pistola nella mano destra e continuava a tenere il braccio disteso in direzione del cadavere. Si fissarono. Shalva puntò l’M-93 verso il corpo di Denis. E fece di nuovo fuoco, facendogli esplodere il cranio. Quindi, appoggiò in terra la carabina senza distogliere lo sguardo dalla ragazza. Morgana fece lo stesso con la 38. Poi prese il georgiano per mano, dirigendosi verso il grande letto a conchiglia del privé. Fu la prima volta che provò un piacere cosí intenso con un uomo. E quando smise di tremare dell’ultimo orgasmo, trovò la forza delle parole. – Come ti chiami? – Shalva. Mi chiamo Shalva. – Io sono Morgana. Convincere il Samurai che la ragazza viva non era stato uno sbaglio e non sarebbe diventata una minaccia non fu complicato per Shalva. Parlavano lo stesso linguaggio essenziale. – Garantisco io, fratello. Ha risolto lei il problema. Ci sarà utile, – disse il georgiano. – Ricordati che resta sempre una donna. Quindi, toccò a Parisi rimboccarsi le maniche. Il lavoro non era finito. La telefonata del Samurai lo soprese la notte di domenica nella sua villa di Grottaferrata mentre dormiva accanto alla brava

mogliettina, ignara di tutto. – Avvocato, ti pago per rispondere al primo squillo. Non al decimo. – Mi devi scusare, ma… – Domattina alle otto devi stare da Max a Rebibbia. Non un minuto dopo. Digli che all’Off-Shore non vola piú una mosca. E che Denis e Robertino, pace all’anima loro, se ne sono andati come se ne vanno gli orsi. Grosso calibro. Armi slave. – Devo spiegargli altro? – Quel ragazzo non è come te. Non serve sprecare troppe parole.

LIV. In quel lunedí mattina di sole, dalla finestra dell’ufficio di Jabba, i Fori erano di una bellezza struggente, che tuttavia nulla poteva sull’agitazione motoria di quel camerata ripulito, ora alla sua prova piú difficile. Il televideo e tutti i siti di informazione on-line aprivano con la notizia che già era sulle prime pagine dei quotidiani. Spaccio di droga e occultamento di cadavere. Indagato il deputato Malgradi. I tre giuda dell’opposizione in consiglio non ebbero neppure bisogno di farsi annunciare. Jabba li arringò come tre scolaretti complici. – Vi è chiaro con quello che è successo che si cambia programma, no? Quella delibera non esiste piú. Non andrà in discussione né oggi né mai. Io non metto la faccia su un puttaniere e pure mezzo assassino. Il piú giovane dei tre mise su un’espressione compunta e di circostanza. Farsi manzi sí, ma con quel fetente non bisognava esagerare. – L’ordine del giorno lo fissano i capigruppo. E credo che lo abbiano già modificato. Se non sbaglio, oggi voteremo su Malagrotta. Quindi, il problema è risolto. Piuttosto, magari il progetto di housing sociale si potrà riconsiderare, un domani… «Mai» è una parola che in politica non esiste. E non vorremmo neanche infilarci proprio oggi in una polemica fastidiosa sugli amici di Malgradi in Campidoglio. Il camerata si sciolse in un sorriso da iena. – Lei mi anticipa, consigliere. Infatti, avrei pensato a una bella mozione bipartisan in cui maggioranza e opposizione si dicono concordi a rinviare a tempi migliori il progetto, perché consapevoli dei limiti che il nuovo esecutivo dovrà fissare in tema di spending review. Eh? Che ve ne pare? Roma dà l’esempio all’Italia. Si apre una nuova stagione. E cosí non si fa male nessuno. E con questo, pensò tra sé, buonanotte, Malgradi. Buonanotte al secchio. La telefonata dai laboratori del Ris arrivò a Ponte Salario verso le dieci del mattino, nella confusione di carte e accertamenti che si era portata dietro la mattanza dell’Off-Shore. Dopo tanto tempo era stata individuata l’arma che aveva ucciso il Numero Otto. Marco Malatesta dimenticò subito i cadaveri scempiati di Robertino e Denis e ascoltò attentamente il giovane capitano che aveva dall’altra parte della cornetta. – Ecco, colonnello, il frammento di proiettile estratto dal cranio di Adami Cesare appartiene a un lotto di cartucce Borghi. Parliamo di antiquariato. È un munizionamento prodotto in Argentina nel 1947. Abbiamo rovesciato i nostri archivi ed esaminato tutte le possibili compatibilità. E… – E? – E siamo arrivati alla conclusione che la pistola che ha esploso quel proiettile non può essere altro che una Mannlicher. – Una pistola austriaca del 1901. – Se posso permettermi, complimenti, colonnello. Conosce quella pistola? – Lasciamo stare. Vada avanti. – Ecco, l’unica cosa che ci appare interessante è che questa pistola… – Ha già sparato nel 1985 e nel 1993. – Accidenti. Mi sa che allora non abbiamo scoperto nulla e quello che le sto dicendo… – Avete fatto un lavoro eccellente, capitano. Lei non ha idea quanto. Malatesta chiuse la conversazione con la stessa rapidità con cui, in preda all’eccitazione, compose

il numero di De Candia. – La Mannlicher ha ucciso il Numero Otto, Michelangelo, capisci? Ora ce lo abbiamo in pugno. Il Samurai è fottuto. De Candia non si scaldò piú di tanto, e quella reazione freddina mise in apprensione Malatesta. – Non ti sento convinto, Michelangelo. – Di cosa dovrei essere convinto? Degli esami del Ris o del fatto che teniamo per le palle il nostro amico? – Ma scusa, Michelangelo, Mannlicher uguale Samurai. Ce lo siamo detti mille volte. – Certo, ma la pistola, dov’è? – Non c’è. – Appunto. E dunque? – Ma abbiamo chi può dirci dove trovarla. Max. Non ha scelta. È in un mare di merda. De Candia rimase alcuni istanti in silenzio. – Vacci a parlare. E vacci ora. Troverai l’autorizzazione al colloquio investigativo nel tempo che arrivi. Non erano ancora le undici, e all’ufficio matricola di Rebibbia Silvana accolse Malatesta con un abbraccio. – Oggi non vai dalle mie, eh? – No, oggi al maschile. – Lo so. M’hanno avvertito dalla procura. Piuttosto, non ho avuto modo di dirtelo, ma non sai quanto so’ stata felice per quella regazzina dei casini de San Giovanni. Com’è che se chiamava… Ah, sí, Alice. Te l’avevo detto io. Er naso nun se sbaja mai… – Silvana notò che Malatesta aveva cambiato improvvisamente espressione. E lasciò cadere. – Vai da quello della cocaina de Fiumicino? – Sí, Max. – C’è traffico oggi. – Perché? – Stamattina presto è venuto a colloquio l’avvocato suo. Quel Parisi. Roba che quello, normalmente, se nun è mezzogiorno manco sa come se chiama. E invece, non erano ancora le otto. Porca puttana. Porca di quella maledettissima puttana. Malatesta avrebbe voluto ammazzarsi. Le otto di mattina. Le fottute otto di mattina. Il Samurai l’aveva fregato. Ma come aveva potuto già sapere della Mannlicher? Max era raggiante. Lo stronzo. – Eccomi qui, colonnello. Immagino di cosa mi vuole parlare. – Anch’io immagino che tu lo sappia. Magari ti ci ha pure svegliato qualcuno con la notizia. – La Tv, colonnello. L’all-news è una grande invenzione. Strage sul litorale… – E allora? – Non ho piú motivo di tacere. – Ma va’? – La mattanza di stanotte all’Off-Shore è la vendetta degli slavi per il carico perduto a Fiumicino. – Quindi sei un morto che cammina anche tu? – Forse. O forse no. Dipende da cosa ha nella testa Dojcilo. – E chi sarebbe?

– Un serbo-bosniaco. È con lui che avevo concordato il carico a Folegandros. Deve aver concluso che quelli di Ostia se lo sono venduto a voialtri. E ha sistemato le cose a modo suo. Del resto… – Del resto abbiamo trovato cartucce di fabbricazione serba e Robertino aveva i coglioni in bocca. – Questo lo sa lei. – Forse non solo io. È tutto? – No. – Non dirmi che vuoi parlarmi anche del resto. – Non ho piú nulla da perdere. Quindi, tanto vale farla finita. Cesare Adami è roba mia. L’ho ucciso io. – E dovrei crederci? – Il Numero Otto si era spinto troppo in là. Paja e Fieno erano i miei ragazzi. – Li disprezzavi. – È male informato, colonnello. – Allora informami tu. Perché il Numero Otto ha ucciso Spadino? – Lo chieda a lui. – Che fai, lo spiritoso? – No. È che non capisco perché dovrei avere una risposta alla sua domanda. – Perché anche Spadino era uno dei tuoi. – Era. Prima che morisse mi avevano detto che si era messo in proprio. – Che bella storia di morti che mi stai raccontando. – È andata cosí. Max era falso come un giuda. Si stava autocalunniando e Malatesta ne aveva ormai le prove. Ma senza una sua chiamata di correo, il Samurai da quella storia sarebbe rimasto fuori. Fuori, ancora una volta. E capí anche, Marco, che il Samurai non aveva avuto bisogno di sapere della Mannlicher, perché aveva già previsto che prima o poi ci sarebbero arrivati. E dunque tutto, dall’omicidio del Numero Otto alla confessione di Max, passando per la mattanza dell’Off-Shore, tutto faceva parte di un piano. I Ris ci avevano messo un mare di tempo a rintracciare il proiettile, ma anche se fossero stati piú tempestivi, be’, c’era sempre un Max da mandare al macello. – Bene, Max. Allora adesso stammi a sentire. Facciamo finta che sia andata cosí. E facciamo finta che io creda al mucchio di menzogne che mi hai appena raccontato. E facciamo però che in cambio di tanta mia buona volontà tu mi dica una cosa sola. Che resta tra me e te. – Se posso, colonnello, perché tacerle la verità… – Dimmi dove hai messo la pistola con cui hai ammazzato il Numero Otto. O, se preferisci, visto che ti piace tanto la verità, dimmi dove l’ha messa il Samurai prima di convincerti ad accollarti un omicidio che non hai commesso. Max scoppiò a ridere. – Se non ricordo male l’ho buttata. – Sei un povero stronzo, Max. – E comunque, colonnello, quando mai è stato un problema rimediare un ferro a Roma? – Una Mannlicher del 1901. Un’arma da collezionista. L’arma del Samurai… Max sostenne lo sguardo del colonnello senza abbandonare l’atteggiamento sarcastico. – I ferri te li dànno come i giocattoli. Con tutti i pezzi per giocare. Che cambia se un giocattolo è antico o moderno? – Ho capito. Immagino vorrai anche verbalizzarla tutta questa roba, giusto? – Sapete dove trovarmi. Non ho impegni nei prossimi giorni.

– Non uscirai piú da qui, lo sai? – Il problema non sono io. Io ho quello che merito. Il problema è Farideh. Anche su di lei voglio verbalizzare la verità. Non sapeva nulla del carico. Le avevo raccontato che facevo lo skipper e me la sono trascinata in Grecia. Le ho detto che dovevo riportare indietro una barca a Fiumicino. A Folegandros ha cenato con me insieme a Dojcilo che si è presentato come un oligarca russo dell’acciaio proprietario della barca. Chiedeteglielo. So che fino ad adesso non ha voluto parlare, ma vedrà che confermerà quello che dico. Lei merita di restarne fuori. Malatesta afferrò Max per il bavero, sollevandolo dalla sedia del tavolo dei colloqui. La sua fronte era a pochi centimetri da quella del ragazzo. La cicatrice alla tempia pulsava impazzita. Cercava un guizzo in quegli occhi. Max se ne restava sereno, indifferente. Anche se ora puzzava di paura. Marco lo mollò, scaraventandolo sulla sedia. Volgendogli le spalle, bussò alla porta blindata per segnalare che il colloquio investigativo era concluso. – Un’ultima cosa, colonnello. Ho spezzato io le mani al padre di Farideh. Anche questo voglio verbalizzare. Quella ragazza deve sapere la verità. Il colonnello si voltò e lo guardò un’ultima volta. A Max sembrò improvvisamente stanco e sconsolato. – Ti capisco, Max, ti capisco. Il tuo maestro ha lavorato bene. Ma tu e lui vi fate delle illusioni. La strada non è piú quella di una volta. E per dirla tutta, sono cazzi. Per un istante, sembrò aver fatto breccia. Max s’incupí. Corse fra loro come una corrente, sotterranea, non dichiarata, di comprensione. Come fra due nemici che scoprono di parlare la stessa lingua. Ma fu solo un istante. Max si rifugiò nel ghigno mesto del martire. Ciao, Max, pensò il colonnello con un fondo di rammarico. Hai fatto la tua scelta. Peccato. Sei meglio di tanti altri. Ma hai fatto la tua scelta, quindi fottiti, stronzetto. Marco si chiuse dietro la porta blindata. Game over. Tutte le tessere del domino erano a posto. Cercò le Camel nella tasca. Si rivide al Fungo, faccia a faccia col Samurai. Il Grande Progetto era abortito. Malgradi aveva finito la sua corsa. Altri campioni della stessa razza si preparavano a prenderne il posto.

Epilogo Domani è un altro giorno

Caserma Pisacane. Il 20 di dicembre, alla presenza di Thierry de Roche e di una mezza dozzina di alti ufficiali in spolvero, nel cortile battuto dal vento della caserma Pisacane, il generale Rapisarda consegnò a Marco Malatesta l’encomio solenne «a titolo di riconoscimento per aver recuperato un ingente quantitativo di sostanza stupefacente con elevatissimo grado di purezza, e per l’eccezionale lavoro investigativo svolto nella risoluzione di plurime vicende omicidiarie». Mentre Rapisarda gli stringeva la mano, il volto acceso d’orgoglio da calendario della benemerita, Marco, tetro e impassibile, bofonchiò: – Omicide, signor generale, vicende omicide. L’aggettivo omicidiario non esiste nella lingua italiana. – Ah, sí, certo, certo… bravissimo! – ribatté Rapisarda, che non aveva nemmeno afferrato bene. – E volevo cogliere l’occasione per unire agli elogi ufficiali le mie personali congratulazioni, augurandomi che certi malintesi che in passato ci hanno divisi siano definitivamente alle nostre spalle. Marco non rispose, afferrò la pergamena, rivolse al «carabiniere a cavallo» un mezzo inchino beffardo e fece per voltarsi. Stronzo. Opportunista. Un mese fa eri pronto a spedirmi a calci in culo all’inferno. Avrei fatto bene ad accettare. Forse davvero mi sarei sentito piú a casa mia. Rapisarda, questa volta confidenziale, gli posò una mano sul braccio. – Terenzi, quel pessimo soggetto… me lo sono preso sotto il mio diretto controllo. Alla Custoza. L’ho messo nelle stalle, a pulire la merda dei cavalli. Si è deciso di evitare un processo imbarazzante. Alla Digos non hanno sollevato obiezioni, e anche col dottor Setola della procura abbiamo trovato un’intesa ragionevole. In questi tempi in cui le forze dell’ordine sono impegnate in una delicata operazione d’immagine è meglio non eccedere con il clamore… Spero che lei sia d’accordo… – Se è tutto, signor generale… – Forse sarebbe opportuno che lei dicesse due paroline alla sua amica, la dottoressa Savelli. Un atteggiamento meno… aggressivo da parte sua sarebbe consigliabile. – Tenuto conto dei miei rapporti con la dottoressa Savelli, temo che un mio intervento sarebbe quantomeno controproducente. Rapisarda ci rimase male. Per un istante lo fissò con un lampo dell’antico e piú sincero odio. Ma si ricompose subito, il mollusco. – La capisco, la capisco. Risolveremo in qualche modo. Bene, l’arma è fiera di poter annoverare tra le sue file un investigatore del suo calibro. Ah, un’ultima cosa. Riguardo a quel giovane carabiniere, quello del Nord, mi sfugge il nome… – Brandolin. – Ecco, bravo, Brandolin. La sua richiesta è stata accolta, Malatesta. Verrà a lavorare con lei al Ros. Soddisfatto, colonnello? Marco annuí, giusto per porre fine allo strazio, e se ne andò a raggiungere Thierry, che aveva assistito alla pantomima con un sorrisetto sardonico che non necessitava di alcuna didascalia. Protetto dal superiore, dribblò sorrisi invidiosi e sinceri, pacche malevole e affettuose, strette di mano ipocrite e sentite. Ritrovò finalmente un po’ di pace nella Camel e nel conforto del generale amico. – Non prendertela, non è da te. – Comandi, signor generale.

– Pensa, – riprese Thierry, sorvolando sul tono sarcastico dell’altro, – che ti sei perso una bella omelia del nostro amico Spartaco Liberati. Improvvisamente sei entrato nella sua top ten. Dovevi sentirlo, stamattina. Il colonnello Malatesta… l’eroe che ripulisce le strade. – Fammi indovinare: da zingari e zammammeri… – Ma cosí mi togli il gusto della sorpresa. Ti ho registrato tutto. Marco, con una smorfia, gli strinse la mano. – Emanuele, mi sono rotto i coglioni. Voglio mollare tutto. – Questa l’ho già sentita. – Anch’io posso immaginare la tua risposta. Ma questa volta non riuscirai a convincermi. Il generale gli diede una pacca sulla spalla. Marco aveva le sue buone ragioni. Ma erano le ragioni di un animale ferito, ragioni irrazionali. Qualunque argomento, in quel momento, sarebbe stato vano. D’altronde, non solo l’arma, ma lo stato stesso non poteva permettersi il lusso di perdere uno come lui. Questo stato che cade a pezzi e che bisogna tenere incollato contro la sua intima tendenza a franare, unito contro il suo prepotente cupio dissolvi. – Sei venuto con quella? – chiese, indicando la Triumph Bonneville. – È una delle poche certezze che mi restano. – È da una vita che sogno di farmici un giro, Marco. Senza dire una parola, Malatesta gli porse un casco. – Guido io, – tagliò corto il generale, – è un ordine. Dalla finestra del suo ufficio, il generale Rapisarda aveva seguito con crescente disgusto la sceneggiata. Sicuro come la morte che quei due stavano parlando di lui. E in che termini, era facile intuirlo. E poi, quella moto lí alla Steve McQueen. Un ufficiale in Triumph era già un’anomalia, ma si sa, Malatesta è un anarchico, e diciamo che questa ripresa se l’è aggiudicata lui, ma la partita è ancora lunga. Ma due alti ufficiali in moto e in divisa era quasi uno sfregio. La degenerazione del costume aveva ormai contagiato anche l’arma, l’ultimo baluardo dell’ordine in un contesto di intollerabile degrado. L’attendente bussò e gli porse una busta elegante. Il generale prese atto con un sottile brivido di piacere dell’invito di Temistocle Malgradi. Trevignano sul lago e clinica Villa Marianna. Il lago le stava sulle palle. Da mori’ de pizzichi. Vòi mette’ Ostia co’ Trevignano? Ma alla fine Morgana si era abituata. I silenzi di Shalva non avevano prezzo. Quell’uomo non sprecava una sillaba. Parlava come scopava. Essenziale. E di coca con cui strafarsi era piena la villa, che peraltro, con il suo arrivo, si era popolata di una coppia di servizievolissime georgiane di mezza età fatte salire da Bari. Servita e riverita. Colazione a letto, pranzi e cene in tavola sette giorni su sette quando le veniva fame, biancheria pulita ogni mattina. Una principessa, era diventata. E cosí, per dare una smucinata a quel quadretto di idilliaca noia in cui si era cacciata, Morgana aveva deciso di cominciare con l’eroina. La fumava. La fumava solo. Mica quelle schifezze del secolo passato con il laccio emostatico e l’ago. Aveva cominciato con non piú di un grammo al giorno. E la cosa sembrava divertire molto anche Shalva, che la vedeva armeggiare per casa con stagnole e pipette. A differenza della coca, l’eroina le dava un senso di quiete profonda, definitiva, che non aveva mai avuto nella vita. Farsi era diventata una ricerca interiore, un armistizio con un passato doloroso, un sedativo al richiamo della strada che,

pure, ogni tanto la aggrediva. Come quel pomeriggio, in cui capitò tutto all’improvviso. Era scesa a Bracciano con la Aygo nera per andare a sparare in una cava non lontana – Shalva ci teneva che non perdesse la mano. «Non ho mai visto sparare una donna in questo modo» le ripeteva in continuazione – e al semaforo le si erano accostati due pischelli su un Sh. Sedici, diciassette anni. Quello seduto dietro l’aveva fissata e, dopo aver portato la mano alla bocca, aveva cominciato a gonfiare la guancia con la lingua. Pompinara. Le stava dando della pompinara. Per il gusto di umiliarla. Avrebbe potuto riderne. Anche lei, da ragazzina, lo faceva spesso a Ostia. Con Marzia, l’amica del cuore che aveva chiuso i giochi a sedici anni contro un pino marittimo della Cristoforo Colombo. Sceglievano uomini soli al volante. Possibilmente oltre la sessantina. E ghignavano all’idea dell’effetto che lo scherzo faceva a chi, forse, non gli si alzava neanche piú. Sí, avrebbe potuto ridere di quei due stronzetti al semaforo. Non lo fece. Inseguí i pischelli fuori Bracciano, e ai primi tornanti verso la Cassia gli tagliò la strada. Gli fece togliere pantaloni e mutande e inginocchiare in mezzo alla macchia. Quindi costrinse entrambi a spompinare la canna fredda della 38 che serrava nel pugno e che li aveva resi docili come agnellini. Tornò nella villa inseguita dai fantasmi. Cesare, Denis, Robertino, il marocchino di Cinecittà. La chiamavano. Ridevano, poi le loro teste esplodevano. Come palloncini. Frugò nella grande credenza in mogano del salone dove l’eroina era chiusa in un cellophane da un etto, e decise che il bilancino non le sarebbe servito. Scaldò la miscela. Portò la pipetta alla bocca e cominciò a riempirsi i polmoni. – Tieni gli occhi aperti! Tieni quei cazzo di occhi aperti! Adagiata sul sedile anteriore dell’Audi, sentí Shalva gridare. Con la sinistra, il georgiano teneva miracolosamente in strada l’auto lanciata a una velocità folle, e con la destra continuava a scuoterla, facendole dondolare il mento sul maglione di cachemire ridotto a una spugna intrisa di vomito, bile, muco. A Villa Marianna li aspettavano. Temistocle Malgradi fece ampi gesti a due orchi che dell’infermiere avevano solo il camice. E dedicò all’emergenza di quella overdose l’attenzione di un veterinario per un cane con l’indigestione. Aveva una fretta indiavolata. – Mi dovete scusare, eh. Ma ci ho da fare. È il grande giorno. Il grande giorno. Con occhi da lupo, Shalva accompagnò il professore mentre saliva sul suo Q7. Se lei moriva. Lui era morto. Morgana fu scaraventata su una lettiga che tirò dritto verso la rianimazione. Shalva le teneva la mano. – Ce la fai. Ce la fai. Facendo appello a tutte le forze che le erano rimaste, lei lo guardò spalancando gli occhi. – Non mi salvare, – disse. La porta della terapia intensiva inghiottí la lettiga con Morgana, e Shalva rimase solo nel corridoio. Paralizzato dalle parole che stava ascoltando. – Ti amo. Io ti amo. Erano le sue. Palazzo di giustizia e bar Necci.

Il giorno dopo aver ricevuto l’encomio solenne, Marco, accompagnato da Alba Bruni, assistette alla prima udienza della «direttissima» per gli incidenti di San Giovanni. Quando il Pm Setola invocò, in via preliminare, l’assoluzione ai sensi dell’articolo 129 codice di procedura penale di Alice Savelli, «vittima di un errore di persona», nell’aula della terza sezione, gremita di manifestanti piú o meno innocenti, scoppiò un applauso spontaneo. Il presidente minacciò lo sgombero. Tornò la calma. L’avvocato difensore si associò alla richiesta del Pm. Alice si alzò e chiese di rendere una dichiarazione spontanea. – Nel mio caso, signor presidente, errore di persona è quantomeno un eufemismo. Come il dottor Setola ben sa, io ho denunciato il maresciallo Terenzi per calunnia e lesioni. Nuovo applauso, urla scomposte. Il presidente perse la pazienza e minacciò una seconda volta lo sgombero. Si fece nuovamente silenzio. Setola prese la parola. Spiegò che la denuncia di Alice era agli atti e che si stava procedendo agli accertamenti. Alice abbozzò una nuova protesta. Deciso, il suo avvocato la tirò a forza sulla sedia, si scusò con il collegio e fece cenno che, per quanto lo riguardava, l’incidente era chiuso. Il presidente scambiò un’occhiata con i giudici a latere, poi lesse il dispositivo che, evidentemente, era già stato approntato. «In nome del popolo italiano, visto l’articolo 129 Cpp, assolve Savelli Alice perché il fatto non sussiste». Sul terzo applauso nemmeno il tribunale ebbe alcunché da obiettare, e Alice uscí dal processo e dall’aula salutata da frenetiche urla di gioia. Accanto a lei c’erano Diego codadi-cavallo, Farideh, scarcerata qualche giorno prima grazie all’interrogatorio di Max, e il vecchio Abbas, che aveva finalmente abbandonato la sedia a rotelle e si sorreggeva sulle stampelle. Marco attese che il trambusto si diradasse, poi, nel corridoio, le si parò davanti. D’istinto, codadi-cavallo le circondò i fianchi con una premura che fece sanguinare il cuore del tenente colonnello. – Sono qui solo per un saluto, – si giustificò Marco, – e per dirti che al processo verrò a testimoniare contro Terenzi. – Tu credi che ci sarà un processo, colonnello? – lo sfidò coda-di-cavallo. – Diego, per piacere… – sussurrò Alice. Coda-di-cavallo annuí, e si fece indietro. Marco e Alice restarono a fissarsi per un istante. Non sapevano da dove cominciare. Non sapevano se c’era ancora qualcosa da dirsi, o se tutto era già stato detto. Fu lei a rompere il silenzio. – Sono stata dura con te, scusami. – Sei felice? – le chiese lui. Il volto di lei si accese di un sorriso amichevole. – Non è questo il punto, Marco. Fra noi non poteva funzionare. Io… io sono una cosa, e tu un’altra. Marco le consegnò il pacchettino impresentabile che si era portato da casa. – Per te, Alice. – Cos’è? Una specie di buonuscita? – scherzò lei, senza aggressività. Ma quando scartò e riconobbe la testa del Buddha birmano che le era piaciuto tanto la prima volta che era stata da lui, un sorriso sincero e dolce finalmente la illuminò. Marco fece dietrofront e pose fine all’autocommiserazione. Il grido di lei: – Ti voglio bene! – lo raggiunse che era già a qualche metro di distanza. Ti voglio bene. A Marco venne in mente quell’antico verso di Catullo: plus amo minus bene velle… piú ti amo e meno ti voglio bene. Saggezza straziante del giovane innamorato deluso. I professori al liceo

declamavano secondo metrica… plusamò | minús | benevélle… plusamò | minús | benevélle… eufonico, carino, divertente, no? Quale miglior epitaffio per un amore strozzato sul nascere dall’ideologia? O dalla cocciutaggine del cacciatore di scalpi umani? O dalla divisa? O dallo stato? O da tutte queste cose insieme? E, soprattutto, ne era valsa la pena? Si tenne per sé l’interrogativo, perché tanto non c’era risposta. Ma quel ritornello beffardo, plusamòminúsbenevélle, continuava a ossessionarlo, quando Alba, la dolce, la puntuta Alba che lo fissava con quei suoi grandi occhi in cui forza e sottomissione si alternavano, gli mostrò il gruppetto di signori in grisaglia che si avviavano festanti verso l’uscita. – Viglione, il camorrista. L’hanno appena assolto in appello. – Chiederà il risarcimento per ingiusta detenzione, – commentò asciutto Marco. Seduta a un tavolino del bar Necci, Farideh scriveva a Max. «Amore mio, dicono di te cose orribili, ma io non ci credo. Io credo in te. E ti farò uscire da quel carcere. Ti voglio accanto a me, per sempre. Perché senza di te io non posso vivere…» Millennium Pride. Il Nuovo Inizio fu a centoventi metri da terra. In un terso tramonto di dicembre. Nel magnifico e lussureggiante giardino d’inverno pensile al ventottesimo piano della torre di granito piú alta del paese. Il Millennium Pride. L’orgoglio del millennio. Una vertiginosa erezione di lusso nel polmone verde dell’Eur. Una vista a perdifiato verso il mare di Ostia, la cintura dei Castelli, la città antica degli anfiteatri e della Suburra. Seicento «unità immobiliari» destinate ai Migliori. Loro. Di battezzare in quel luogo la lista – Nuovo Inizio, che nome evocativo, cinguettavano un paio di dame in naftalina affrettandosi all’evento – che sarebbe entrata dalla porta principale della Terza Repubblica e avrebbe «aiutato Roma a rialzarsi» era un’idea che aveva avuto lui. Temistocle Malgradi. Il Candidato. Leader di un nuovo riformismo «di centro moderato, ma progressista. Cattolico, ma laico. Liberale, ma libertario». Il Professore. Il nuovo campione della Società Civile. Il custode della nuova Casa di tutti. Orfani e Gattopardi. Intellettuali e Forchettoni. «La mia Casa, sarà la vostra Casa!» aveva fatto scrivere Temistocle sull’invito in cartoncino riciclato recapitato ai trecento migliori nomi – e cognomi – di Roma. Manager, boiardi di stato, grandi burocrati, produttori cinematografici, attori, professori universitari, avvocati, notai, primari, alti ufficiali come Rapisarda, firme del giornalismo televisivo e della carta stampata, alti prelati. Una grande macchia di cappotti, sfarzose pellicce sintetiche e soprabiti in piuma d’oca, che ora, come uno sciame nero di formiche, veniva inghiottita a turno nel montacarichi da cantiere che faceva la spola tra la base e la sommità della torre in costruzione. Temistocle Malgradi era raggiante. Al riparo di un ibiscus, non smetteva di ringraziare con una mano sul cuore Mariano Tempesta e Benedetto Umiltà, che se lo guardavano con la stessa soddisfazione di un Suv al battesimo in una concessionaria. La damnatio memoriæ di quel rottame del fratello Pericle era stato il loro capolavoro. Lo avevano

murato vivo a Camaldoli, in attesa di un processo che chissà quando si sarebbe celebrato. E nel frattempo, tutti avrebbero dimenticato. Amen. Il Candidato picchiettò dolcemente il microfono a stelo. Si schiarí la voce con un colpo di tosse studiato. Inspirò il fresco dello spray al mentolo con cui si era liberato le narici costipate dalla reazione alla striscia di coca che si era fatto una mezz’ora prima. Mentre tirava dal ventottesimo piano, contemplava il Fungo quattordici piani piú in basso. Povero Fungo. Aveva fatto il suo tempo. Come è giusto che sia, quando il Presente prende il posto di un Passato ormai sepolto. E il Futuro è una nuova, luminosa avventura. – Care amiche, cari amici. Innanzitutto, grazie. Grazie! Grazie! Mi rivolgo a voi da uomo di scienza e dunque con parole di verità. Soprattutto, da uomo emozionato perché prestato a questa magnifica avventura che comincia oggi e che, con onore e orgoglio, chiamo Politica. Con la P maiuscola. Quella che ha fatto la grandezza di mio padre e che ha perduto mio fratello. Vi chiederete, come se lo sono chiesto in questi giorni le persone a me piú care, con quale animo, con quale forza, dopo quanto è accaduto a Pericle, la mia famiglia possa tornare sulla scena pubblica. Ebbene, è proprio quel che è accaduto che rendeva la scelta un obbligo. Verso noi stessi, verso di voi, verso il paese. C’è un solo modo per risarcire una colpa: espiarla nel servizio alla comunità. E la politica è servizio, come mi ha insegnato e ci insegnano le pagine di quell’opera che in questi giorni ha accompagnato le mie riflessioni solitarie, l’Etica per un nuovo millennio di monsignor Mariano Tempesta, il pastore di anime che oggi è qui tra noi e a cui mi onoro di essere legato da profonda amicizia, la solida zattera di fede e speranza nella quale mio fratello, naufrago, ha trovato finalmente rifugio. La pippa di Malgradi soprese Eugenio Brown in un accenno di sbadiglio. Seduta accanto a lui nella piccola platea immersa in una lussureggiante vegetazione da serra, Sabrina, fasciata in un tubino nero mozzafiato, fremeva. – A’ Euge’, a parte che qui co’ tutte ’ste liane e ’sti alberi nani me sembra de sta’ allo zoo, pardon, bioparco. E comunque te vorrei di’ che ’sti Malgradi se confermano ’na famija de stronzi mignottari. – Ti prego, amore. Ti prego. Il linguaggio, il linguaggio… – Ma come te pò veni’ in mente de intruppacce in questa manica de teste de cazzo? – Amore, non si può sempre delegare nella vita. Dobbiamo cominciare a fare anche noi qualcosa per il paese. – Ho capito. Ma proprio coi Malgradi, dopo tutto quello che è successo? – A parte che essere fratelli non significa essere la stessa cosa. Di questo Temistocle mi dicono un gran bene. Un cattolico progressista. – Seeh. Temistocle chiuse in un crescendo che aveva provato e riprovato negli ultimi giorni di fronte alla sua ultima fiamma, un’avvenente igienista dentale. – La vecchia politica ha fallito, miei cari amici. E ci ha lasciato un’eredità che non esito e definire storica: signori, noi dobbiamo sancire in modo definitivo, irreversibile, la fine del Novecento. Basta! Non possiamo continuare a guardare il futuro con lo sguardo rivolto all’indietro. E questo lo dico agli amici della destra e della sinistra, che tanti errori hanno commesso in questi ultimi travagliati anni della nostra vita nazionale. C’è in giro una marea montante di indignazione, livore, antagonismo. In parte ne siamo responsabili tutti. Non dobbiamo lasciare che prevalga. Guardiamo con fiducia al rassemblement della migliore tradizione liberale e laburista. Basta con le vecchie contrapposizioni. Il nostro cammino non sarà né facile né breve, e per questo comincia oggi, perché il Futuro non attende, è impaziente di farsi Presente. Il Futuro comincia da oggi. Da qui.

La sala venne giú dagli applausi. Brown si rivolse a Sabrina. – Che ti avevo detto? Questo è di un’altra pasta. E comunque. È proprio con loro che si può ricominciare, dopo tutto quello che è successo e ti è successo, amore mio. Hai idea della forza simbolica della nostra presenza qui? Sai cosa significa? Che il tuo passato è chiuso. Finito. Cancellato. Un Nuovo Inizio, amore. E poi ho una sorpresa. Il broncio di Sabrina si allargò in un sorriso. Conosceva l’incipit per intuire il resto. Accostò come una gatta l’orecchio alle labbra di Eugenio. – Mi è sembrato che questo posto ti sia piaciuto. – A parte ’sto spazio Tarzan, molto. Ho visto che c’è pure il cinema. E la palestra. La piscina. Brown sorrise. – Ho parlato prima con il costruttore. Lo vedi? Quel bell’uomo in prima fila. – E sí. Niente male. E sarà pure bello impaccato de grano. ’Mbe’? – Ti ho preso una piccola cosa qui nella torre. Un centinaio di metri quadri. Cosí quando ti annoi a piazza Vittorio, puoi sempre usarla come studio e rifugio. Ho pensato che con il film, le fiction avrai bisogno di uno spazio tutto per te. Temistocle Malgradi aveva concluso e ora stringeva mani in un tripudio di ossequianti. Sabrina sfiorò con una carezza la nuca di Brown. Lo baciò dolcemente sulla fronte. – Ti amo, Euge’. Sei la vita mia. Ristorante La Paranza e villa del Samurai. Tito Maggio era raggiante. Scarcerato in attesa di giudizio, con buone possibilità di cavarsela grazie alla confessione di Max, rassicurato dal Samurai sull’annosa questione del debito coi Tre Porcellini, proprio nel giorno della riapertura della Paranza – mortacci sua, ’sto carabiniere del cazzo , bel danno da niente gli aveva fatto – si era visto onorare della visita di Perri, di Rocco e Silvio Anacleti e, naturalmente, di Ciro Viglione, ospite d’onore in quanto fresco di assoluzione – er trionfo d’a giustizzia, manco gnente! Il fatto, poi, che Viglione fosse il festeggiato, era un’altra buona notizia in sé: mentre gli Anacleti e il calabrese erano notori pitocchi, il camorrista amava sfoggiare. Esigeva immancabilmente «chillu ca costa ’e cchiú». Pagava in contanti e lasciava mance estremamente generose. D’altronde, anche a volerlo, di carte di credito, almeno per un po’, in conseguenza di sequestri, misure di prevenzione e altre rotture di cazzo legali, neanche a parlarne. Un bigliettino discreto, posato quasi con noncuranza sopra le bianche tovaglie di fiandra, avvisava che «per temporanei disguidi di linea non è possibile accettare carte di credito né bancomat». Ma per fortuna, almeno a giudicare da quella prima serata, le cose si rimettevano in moto. Sí. La clientela se ne fotteva delle traversie giudiziarie di Tito Maggio. Il pesce era buono? I vini erano all’altezza? E allora, fanculo a giudici e sbirri, si campa una sola volta, no? L’unica nota stonata era l’assenza del Samurai. Tito si sarebbe aspettato di vederlo entrare al seguito della combriccola, o magari un passo avanti a loro. Invece niente, nemmeno l’ombra. Assenza che stupiva e lasciava contrariato anche Ciro Viglione. – Chillu cazz’ ’e Samurai si poteva degnare per una volta, no? Che ne dite voi? – Sono stato io, – precisò Rocco Perri, – o meglio, non sono stato io. Insomma, non ci dissi della festa. – E perché?

– Perché è meglio parlare fra noi, prima. Ciro Viglione osservò il calabrese, sempre untuoso e sorridente, e vide annuire gli Anacleti. La mappa delle alleanze si ridisegnava, dunque. Non doveva essere un buon momento per il Samurai. – C’è aria di orapronobis? – s’informò il camorrista, addentando un gambero imperiale che si era congedato solo da pochi secondi dal novero delle creature viventi. – È prematuro, – spiegò Perri, – ma certo ha fatto un po’ di casino, ultimamente. – E noi ci abbiamo rimesso un po’ di soldi. Tutti quanti, – puntualizzò Silvio Anacleti. – E zio Nino rompe ’o cazz’! – completò Viglione, in evidente sintonia. Gli altri commensali annuirono. – Vuole vendetta, – disse Perri. – Ma io gli ho detto di stare calmo. Verrà il momento. Ora si tratta di ricostruire le batterie, capire bene se il Progetto ha ancora fiato o se ci dobbiamo mettere una croce sopra… – Il Samurai dice che è solo questione di tempo, – azzardò Silvio Anacleti. – E voi ’o credete? – spiò Viglione. Fu tutto un allargare di braccia e uno sbuffare. Sapevano e non sapevano. Credevano e non credevano. E ancora, soprattutto, pensò Ciro Viglione, ne avevano paura. Insomma, pensò il camorrista, ’o Samurai tiene ancora credito, ma è come uno in libertà vigilata. La prossima cazzata che fa è un uomo morto. Ma perché perdere tempo? La verità è che ’o Samurai ha rutt’ ’o cazz’. Meglio prendersi quattro, cinque guagliuncielli, mandarli a fare il servizietto, poi spiegargli come va la vita, promuoverli sul campo come ricompensa per l’azione, e ricominciare da loro. Come si faceva a Napoli, ai bei tempi. – Se era per me, si poteva fare pure stasera, – sintetizzò Viglione. – Aspettiamo la politica, Ciro, dammi retta. – ’A politica ha rutt’ ’o cazz’! – E per questo hanno cambiato, no, Ciro? Te lo ricordi il giuramento di sangue, no? «I pesci grandi si fecero piccoli, e quelli piccoli si fecero pescecani…» Ciro frenò gli ardenti spiriti. Rocco Perri era ricorso all’antico giuramento delle mafie. Era un modo per rafforzare il messaggio e far capire che la questione era già stata esaminata e risolta in tutte le sedi possibili. Al Samurai si concedeva una dilazione. Punto e basta. Con uno schiocco di dita attirò l’attenzione del cameriere. – Porta un’altra bottiglia di Krug, guaglio’. Questa è calda. Sebastiano, il figlio dell’ingegnere, e Manfredi, il figlio dell’usuraio, arrivarono sul motorino del secondo poco dopo l’una. Manfredi si dispose di copertura, come convenuto. Toccava al ragazzo, che aveva dimostrato di saperci fare e presto si sarebbe fatto un nome. Sebastiano lanciò un’occhiata dalle vetrate esterne. Le luci erano abbassate, i camerieri preparavano i tavoli per l’indomani. Ancora venti minuti, mezz’ora al massimo, si disse. Scambiò un cenno d’intesa con Manfredi, e per vincere l’ansia si fece un giro a piedi per le strade deserte del centro. Festoni e addobbi dell’imminente Natale lo colpivano con la dolorosa intensità della nostalgia per le cose che non sarebbero mai piú state. Appena un anno prima era un ragazzo felice. Aveva il mondo fra le mani e non se ne rendeva conto. Ora era solo uno senza piú niente da perdere. Ma, nello stesso tempo, lo attendeva una svolta. Era impaziente. Tornò davanti alla Paranza. Manfredi era nascosto da qualche parte. I camerieri se ne andarono alla spicciolata. L’ultimo a uscire fu il cuoco. Finalmente, anche l’ultima luce si spense. Il figlio dell’ingegnere indossò la calza di

nylon, controllò il funzionamento del tamburo, impugnò l’arma, respirò a fondo e si fece trovare pronto quando la sagoma corpulenta di Tito Maggio mosse un passo oltre l’uscio. – Stai zitto, non ti muovere, rientra, – ordinò, puntandogli contro il revolver. – Ma che cazzo… – Rientra, ho detto. Tito Maggio obbedí. – Chiudi la porta e accendi le luci. Quelle basse. Bravo, cosí. Adesso vai alla cassa e prendi i soldi. – Ce li ho qua, – disse Tito, mostrando il borsello agganciato alla cintura. – Dammelo. Tito Maggio non era un cuor di leone. Pensò che, al diavolo, se li tenesse pure i soldi, quel deficiente, e vaffanculo. Ma poi pensò che, data la sua situazione, c’era il rischio che i Tre Porcellini non credessero alla rapina. Erano capaci di dire che s’era inventato tutto per inguattarsi il contante. La voce poteva giungere alle orecchie del Samurai. Il Samurai poteva crederci. Se avesse perduto la sua protezione, sarebbe finito. Finito. Cosí, si dette il coraggio che non aveva. – Stamme a senti’, pische’… io nun so si me conosci… io so’ Tito Maggio. A Roma so’ amico de tutti. E soprattutto, so’ amico del Samurai… lo sai chi è il Samurai, no? – Dammi quel cazzo di borsello. Sto perdendo la pazienza. Ma chi era questo stronzo? Da dove veniva fuori? Ma lo sapeva o no che il Samurai teneva Roma in mano? Che chi si metteva contro di lui era carne morta? – Facciamo che te sei sbagliato, pische’. Tu mo’ te ne esci da là e amici come prima. Guarda, se vuoi te posso da’ un cento, ducento euro… Famo che t’ho invitato a cena, eh? ’Na bella cenetta gratis alla Paranza, oh, mica è roba che tutti se la possono permettere. Sebastiano, ora, era posseduto da una freddezza innaturale. Ripensò alle istruzioni di Manfredi, povero idiota, al suo tono leggero e a tratti strafottente. «Tito Maggio ci ha un vizio. Non paga i debiti. Perciò bisogna dargli una lezione. Ma una cosa leggera, non vogliamo mica levarlo dal giro, ci mancherebbe. Tu vai, ti fai consegnare l’incasso, poi gli dici: guarda, Tito, che i debiti si pagano, cosí lui capisce da dove viene il colpo e che la deve smettere di fare lo stronzo. Poi te ne torni a casa e io dico al notaio di registrare quell’atto che, nel frattempo, noi avremo stipulato». «E se quello reagisce? Che faccio, gli sparo?» «Reagisce? Tito? Ma quello è un cacasotto». Be’, Tito Maggio reagiva. E questo semplificava le cose. Tito Maggio era come Manfredi, come il sor Scipione, come gli avvoltoi che l’avevano spolpato, come i carnefici di suo padre. Solo il Samurai faceva eccezione. Era di un’altra pasta, lui. Gli aveva instillato il senso della rivolta, il Samurai. Aveva trasformato in pura energia l’odio. Bene. Bene. Sebastiano fece fuoco. Una, due, tre volte. Tito Maggio si abbatté senza un grido, nei suoi occhi un’espressione stupefatta. Ma davero l’hai fatto, pische’? Ma tu guarda che modo de fini’… Il figlio dell’ingegnere si tolse la calza, afferrò il borsello. Era gonfio di quattrini. Attirato dalle detonazioni, Manfredi si precipitò nel locale. – Ma che cazzo hai fatto? Ma sei impazzito? Damme ’sta cazzo de pistola, Sebastia’! Lui puntò l’arma, si godette lo sconcerto dell’altro e poi gli sparò. Due colpi. Uno al basso ventre. Questo è per Chicca. L’altro alla testa. E questo è per la vita che m’hai rubato. La comunicazione via Skype raggiunse il Samurai mentre nudo, sulla terrazza della sua villa,

danzava il solitario Tai Chi dei forti, degli indistruttibili. – Tutto fatto, maestro. Sebastiano era impassibile. Il Samurai annuí. – Bravo. Adesso per un po’ fatti da parte. Sai dove andare. Al resto penso io. La Paranza, quando il Samurai ci arrivò a bordo del Suv, era piena di sbirri che non volevano farlo avvicinare. Incrociò lo sguardo di Marco Malatesta. Con un cenno, il tenente colonnello ordinò ai suoi uomini di lasciar entrare il bandito. All’interno del locale, il povero sor Scipione si carezzava il corpo del figlio, in una grottesca parodia di una Pietà michelangiolesca. Il Samurai abbozzò uno sguardo corrucciato di circostanza. Erano «delusi», quei miserabili. Volevano «posarlo». Non avrebbero mai capito niente. Poi si chinò sul grasso cadavere dell’oste e giunse le mani nel saluto induista. – Namaste, Tito! Al tenente colonnello montò una furia tanto selvaggia quanto salutare. E no, niente ferie diplomatiche, niente mollo tutto e me ne vado, niente di niente. In guerra la fuga si chiama diserzione. E questa, cazzo se è una guerra. – Su una cosa avevi ragione, Samurai. Roma non ha piú un padrone. Neanche tu sei capace di tenerli a catena, ’sti cani. Io ripartirò da loro. E ti fotterò. Il Samurai inarcò un sopracciglio. Peccato. Marco continuava a non capire. Le regole del gioco erano cambiate. – La Paranza non era piú quella di una volta. Ormai si mangiava male. Povero Tito, era invecchiato. Ci rivediamo presto, Marco. Sulla strada, poco dopo. Mentre il Ris perimetrava con il nastro fluorescente l’ingresso della Paranza, Marco rivolse un ultimo sguardo a Scipione, inginocchiato nel sangue del figlio, e al cadavere di Tito Maggio, che la rigidità della morte rendeva ancora piú grottesco nella smorfia stupefatta del commiato. Erano arrivati anche la Bruni e Brandolin, con cui si limitò a bofonchiare qualche istruzione di routine e darsi appuntamento per l’indomani a Ponte Salario. Quindi, lentamente, si incamminò verso via del Gonfalone, dove aveva lasciato la sua Bonneville. Roma era deserta. La notte era gelida e l’aria profumava di legna bruciata, quella che ancora alimentava i camini delle case «importanti» del centro storico. Da quanto tempo non ne accendeva uno?, pensò. Quando era stata l’ultima volta che si era concesso una notte di quiete, lasciando che i ricordi non lo tormentassero? Si chinò sullo starter della Bonnie e attese che nel borbottio del sopragiri i due scarichi cromati cominciassero a rilasciare sbuffi di vapore bianco. Il rumore disturbò un gabbiano che affondava il becco nella carcassa di un piccione. Gli sembrò che l’uccello lo fissasse con uno sguardo lungo e cattivo. Poi si alzò in volo, strepitando la sua rabbia. Con gesti lenti e rituali, Marco calzò a fondo le mani nei guanti, allacciò il sottogola del casco jet con l’Union Jack stampigliata sulla nuca, ne abbassò la visiera in plexiglas e alzò fin sul naso la pashmina che gli ricordava l’altra vita da cui aveva deciso di tornare per saldare il suo conto. Il clac della prima rimbombò nel silenzio del vicolo alle spalle del tribunale dei minori, ma rese ugualmente distinguibile l’accensione del motore di quello che, nell’ombra, non riconobbe

immediatamente come un Suv, e che lo seguí a luci spente sin quando non sbucò sul lungotevere dei Tebaldi. Mentre risaliva il fiume superando uno dopo l’altro i ponti e i semafori lampeggianti che lo separavano dal Flaminio, cominciò a fissare nell’ovale degli specchietti retrovisori due fari che lo seguivano a velocità costante. All’altezza di Ponte Duca d’Aosta, Marco ebbe la certezza che l’inseguitore ce l’aveva con lui. Avrebbe potuto accostare e con una sola chiamata di cellulare chiudere lí quel pedinamento dichiarato, quella danza minacciosa. Non lo fece. Rivolse uno sguardo all’altra riva del Tevere, allo stadio Olimpico immerso nel buio e ripensò alle parole del Samurai il giorno in cui era tornato a incrociarne lo sguardo. «Lascia perdere la moto. Non hai piú l’età, Marco. E Roma è una città pericolosa». Scalò rapidamente in quarta, terza, aprí il gas e puntò dritto verso il tratto di lungotevere Thaon di Revel che portava alla rampa di corso di Francia. Gridò come per sovrastare l’altro urlo. Quello dei cavalli che aveva sotto la sella. – Lo so che sei tu. Lo so che sei tu. Vienimi a prendere. Vienimi a prendere! – urlò alzandosi sulle pedaline. Il Suv accorciò le distanze in una manciata di secondi, e all’imbocco di corso di Francia la distanza tra il paraurti del bestione e la livrea della Bonneville si fece di pochi metri. Marco fissò il rettifilo che aveva davanti. Ricordò quelle notti passate da pischelli ad «alzare» le due ruote su quel chilometro di asfalto, sfidando il cemento e il marmo delle spallette del cavalcavia che sovrastavano il fiume. Il Suv scartò sulla sinistra, mettendoglisi in parallelo. La lancetta della Bonneville andò in fuorigiri, mentre le ruote mastodontiche del Suv arrivarono quasi a contatto con lo pneumatico anteriore della moto. Marco «alzò» sulla ruota posteriore per evitare l’impatto. Il Suv sterzò ancora verso destra. Lo schianto che ne seguí sembrò l’ultimo suono di una vita a perdere. Malatesta si rialzò barcollando. Il sangue gli allagava la bocca e infradiciava la pashmina. La gamba sinistra bruciava di un dolore lancinante. Decise di non guardare. Gettò il casco lontano e sollevando la testa vide che la corsa del Suv era finita a poche decine di metri dal punto in cui la Bonneville si era polverizzata rimbalzando sull’asfalto. La macchina si era accartocciata intorno a un semaforo. Dallo sportello semiaperto sul lato passeggero, un uomo cercava di disincagliarsi dall’abitacolo. Malatesta afferrò da terra un rottame. Doveva essere la leva della frizione della moto. L’impatto con l’asfalto l’aveva resa un punteruolo. Quando raggiunse il Suv lo vide. Il Samurai, naturalmente. Si avventò con il suo pezzo di acciaio acuminato che stringeva nella destra prima contro lo sportello, quindi contro il vetro che esplose. Riverso sull’airbag, il guidatore sembrava esanime. Il Samurai era una maschera di sangue. Malatesta lo afferrò con tutto l’odio del mondo trascinandolo fuori dalla macchina. Doveva avere le gambe spezzate, perché si afflosciò come un sacco. Supino sull’asfalto, lo fissava dal basso in alto senza un lamento, con gli occhi spalancati. Marco gli sputò sul viso, liberando la bocca di grumi di sangue e muco. Poi, con la sola gamba destra, l’unica di cui controllava la forza e il movimento, prese a pestargli le caviglie e le tibie. Un fiume di lacrime inondò le orbite del Samurai.

– Fallo, Marco. Fallo ora o non ci sarà un’altra volta. Malatesta alzò il punteruolo al disopra della spalla, poi sentí solo l’urto di un corpo massiccio che lo precipitava a terra. Riverso su un fianco, tornò a incrociare lo sguardo del Samurai. Il capitano Alba Bruni lo stava ammanettando alla schiena. Quindi Marco si volse verso l’uomo che gli aveva impedito di rovinarsi la vita. O di fare giustizia. – Sta bene, colonnello? – Mai stato meglio, Brandolin. – Hai perso la tua occasione, Marco. Il rantolo del Samurai gli arrivò confuso con lo stridio altissimo dei gabbiani. Venivano tutti e due dalla notte. O da chi sa dove.

Degli stessi autori

Carlo Bonini Guantanamo Il mercato della paura (con G. D’Avanzo) Acab Giancarlo De Cataldo Teneri assassini Romanzo criminale Nero come il cuore Nelle mani giuste Onora il padre La forma della paura (con M. Rafele) Il padre e lo straniero I Traditori Giudici (con A. Camilleri e C. Lucarelli) Io sono il Libanese Cocaina (con M. Carlotto e G. Carofiglio)

© 2013 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino Questo libro è un’opera di narrativa. Nomi, personaggi, luoghi, eventi e circostanze, qualora non siano frutto dell’immaginazione degli autori, vengono utilizzati per scopi narrativi. In copertina: Igor Mitoraj, Torso di Ikaro, dettaglio della Gorgone, bronzo, 2002. © SIAE 2013. (© Foto Giovanni Ricci-Novara, Parigi). Progetto grafico: Riccardo Falcinelli.

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