February 4, 2017 | Author: baroquette | Category: N/A
Stregoneria popolare e usanze pagane, inquisizione, religiosità spontanea nel nord Italia. Raccolto dal Web....
Streghe, paganesimo e tradizioni popolari in Piemonte e Lombardia. E anche in Veneto.
Tratto dal web: Roberto Corbella - Massimo Centini La STREGONERIA in INSUBRIA Tradizione popolare, Inquisizione e riti pagani tra Lombardia e Piemonte MACCHIONE EDITORE Via Salvo D'Acquisto, 2 21100 Varese Tel. e fax 0332.232.387
[email protected] http//www.macchione.it ISBN 978-88-8340-492-4
INDICE pag. 7 Premessa 13 Le druide: antenate delle streghe insubriche (R. Corbella) 38 San Massimo vescovo contro i demoni (M. Centìni) 56 La questione longobarda (R. Corbella) 66
Il malocchio: una forma di stregoneria sempre attuale (R. Corbella) 74 La "fisica" (R. Corbella) 82 Il fenomeno dei Benandanti (R. Corbella) 93 I processi a carico dei Benandanti (R. Corbella) 98 Riti a sfondo sciamanico nel Piemonte del XV secolo (M. Centini) 118 La "caccia alle streghe" in Ossola, Ticino e Varesotto (R. Corbella) 139 L'Inquisizione a Milano (R. Corbella) 151 Il "caso Monteviasco" (R. Corbella) 161 Le streghe lombarde: "straniere pericolose" (M. Centini)
164 Le streghe bergamasche tra storia e folklore (M. Centini) 181 La Valcamonica... (M. Centini) 190 Streghe e stregoni tra Ceresio e Verbano nel XX secolo (R. Corbella)
PREMESSA La stregoneria, non solo quella dell'Insubria, ha tante facce: molteplici aspetti che coinvolgono ambiti diversi, lasciando intravedere un'ampia e diversificata struttura nella quale sono radicati fatti storici, tradizioni, miti e leggende che ne hanno ampiamente contrassegnato l'apparenza e un retroterra che è dominio dell'immaginario. Prima di andare avanti è però necessario riflettere brevemente su un aspetto importante: le fonti storiche sulla stregoneria. Tralasciando quindi tutto il patrimonio mitico-leggendario, le fonti dalle quale è possibile trarre importanti informazioni sull'argomento sono: documenti relativi ai processi intentati contro le streghe; libri e manuali ad uso degli inquisitori; saggi teologici e giuridici di imminenti personaggi della Chiesa, ma anche di laici, prò e contro la persecuzione delle streghe; immagini dell'universo della stregoneria realizzate dagli artisti, soprattutto tra la fine del XIV e l'inizio del XVII secolo. Inoltre sulla base delle informazioni provenienti da queste fonti si evince che: la stregoneria è una pratica antichissima; la stregoneria presuppone un legame con il demonio; molte sono le pratiche magico-rituali che hanno caratterizzato l'attività delle streghe (dalla riunione sabbatica, alla metamorfosi in animale, il volo, ecc.); l'aggettivo stregonesco è utilizzato per indicare esperienze e forme che hanno qualcosa a che vedere con il mondo della magia, dell'incantesimo, del male. Se lasciamo da parte i clamori della mitologia e delle errate ricostruzioni storiche, spesso alimentate da intenzioni falsamente populistiche, o da dirette volontà anticlericali, abbiamo quindi modo di riferirci a fonti oggettive che ci offrono l'immagine concreta della caccia
alle streghe. Queste fonti offrono un affresco attendibile sul modo in cui la stregoneria venne considerata e interpretata dalla gente attraverso le memorie lasciateci da personaggi che, si presuppone, non fossero vittime di illusioni e di paure immotivate. Senza dubbio - a livello generale - la stregoneria è certamente un tema che si presta a numerose interpretazioni, suscita suggestioni, fa riemergere aspetti oscuri del nostro passato, ma può anche essere oggetto di luoghi comuni e vittima di numerosi preconcetti. Non va inoltre dimenticato che, in particolare gli aspetti rituali della stregoneria, sono ancora oggetto di studio e molte delle loro sfaccettature sono avvolte dal mistero. Analizzando i documenti sulla stregoneria è possibile anche constatare che spesso la caccia alla strega fu il risultato di effettivi disagi interni di società che, disperatamente, cercavano un capro espiatorio per dare un senso al proprio malessere. Ma non furono secondarie motivazioni religiose, interpretazioni giuridiche e teologiche, colme di superstizione e ossessionate dalla paura del diavolo e del male. Si deve inoltre considerare che la grande caccia alle streghe non fu solo il risultato della repressione attuata dalla Chiesa, ma coinvolse anche il potere laico e il mondo protestante: una crociata contro il male che unì cattolici e protestanti. Questa la definizione tecnica di stregoneria secondo il Grande Dizionario della Lingua Italiana di Salvatore Battaglia: "complesso di credenze superstiziose e di pratiche magiche a esse legate, attestate dalla preistoria ai giorni nostri (ancora presso popolazioni primitive), esercitate da streghe e stregoni e per lo più intese a danneggiare la comunità (e spesso appaiono connesse nell'immaginario popolare a misteriosi contatti di coloro che praticano tali arti con il demonio o con le forze del male). Con significato attenuato: occultismo, spiritismo. In senso concreto: pratica magica, incantesimo, fattura, malia". Già da questa breve definizione abbiamo modo di comprendere alcuni aspetti precisi: - la stregoneria è una pratica antichissima;
- la stregoneria presuppone un legame con il demonio; - l'aggettivo stregonesco è utilizzato per indicare esperienze e forme che hanno qualcosa a che vedere con il mondo della magia, dell'incantesimo, del male. Ne consegue quindi che la strega è colei che "pratica la magia nera e che la superstizione popolare immagina ispirata da forze demoniache, capace di compiere incantesimi, di trasformarsi in animale, di partecipare a misteriosi riti notturni, ecc. In senso pratico: maga, indovina, negromante". In genere il termine strega, per quanto riguarda la lingua italiana, è collegato al latino strix (uccello notturno), anche se l'etimologia è incerta. I termini francesi sorciere/sorciére si collegano a sortes, cioè alla tradizione di trarre auspici che era dominio dei maghi e delle fattucchiere. Di contro l'inglese wizard/witch deriva dal sassone wicca/ wicce, che corrisponde a saggio/saggia e anche a sapiente; di simile significato è anche il tedesco hexer/hexe. II modello della strega e la sua fisionomia vennero definendosi, secondo stereotipi ancora oggi diffusi, a partire dal XIV secolo, quindi in concomitanza con l'inizio della grande persecuzione. Anche se tali definizioni risultavano (e risultano) caratterizzate da peculiarità sostanzialmente unificate, vi furono comunque varianti determinate da motivazioni di carattere locale. Importante, l'influenza della lotta all'eresia che certo costituì un humus favorevole alla persecuzione delle persone che si diceva si fossero alleate con Satana. Nella sostanza: anche se le accuse erano quasi sempre le stesse, il tipo di reazione a livello di repressione poteva cambiare in relazione al luogo in cui si verificavano i casi di stregoneria. Valutando in generale il fenomeno con gli strumenti delle moderne scienze sociali, si potrebbe postulare che le streghe fossero persone occupanti aree marginali, verso le quali si proiettava l'aggressività di una collettività travolta da problematiche intrinseche: ad esempio le streghe erano riconosciute colpevoli
dei malesseri che colpivano un singolo o l'intera comunità. Naturalmente le interpretazioni esclusivamente sociologiche non possono dare una risposta totale al fenomeno stregoneria. Infatti, se certamente le streghe non volavano, o si mutavano in animali, e molto probabilmente non possedevano neppure i mezzi per causare tempeste e far morire gli animali a distanza, non va neppure escluso a priori che esistessero sacche di dissidenza religiosa dedite alla magia e forse praticanti il satanismo. Per correttezza va comunque considerato che quelle pratiche, bollate come "culto del diavolo", in realtà potevano essere esperienze religiose pagane, rimaste impigliate nella cultura tradizionale, anche molto tempo dopo la diffusione del Cristianesimo. Sulla base delle osservazioni fin qui poste in rilievo, abbiamo modo di sintetizzare il quadro generale sulla realtà della stregoneria: - le streghe erano persone che praticavano esperienze dirette a celebrare Satana e orientate a colpire gli uomini, in dichiarata opposizione al Cristianesimo; - la strega fu una donna riconosciuta amante di Satana, anche in ragione di comportamenti in opposizione alle regole sociali condivise (tra le donne accusate di stregoneria c'erano prostitute, medichesse, erboriste, levatrici e persone con situazioni familiari in contraddizione alle norme: ad esempio vivevano more uxorio)-, - la donna definita strega era l'ultima esponente di una tradizione religiosa precristiana e pertanto perseguita perché portatrice di esperienze rituali in antitesi con il Cristianesimo. Le antiche divinità pagane furono così equiparate a Satana e ai demoni, secondo un metodo attuato da ogni religione dominante nei confronti delle precedenti, o di quelle dissidenti. La strega comunque non è mai stata un personaggio definito nitidamente, i suoi confini sfumano, si fanno evanescenti e sibillini. Tutto ciò naturalmente fa parte della sua identità e, per quanto le indagini degli studiosi continuino ad indagarne la storia, il suo mistero non sarà mai completamente chiarito, suscitando immagi-
ni che spaventano e affascinano. Va considerato che l'"idea" della strega che spesso è presente nella cultura contemporanea, è stata condizionata luoghi comuni che non sempre trovano riscontri nelle fonti storiche. In realtà, la cultura si avvale di stereotipi visivi che hanno il ruolo di fornire un'identità, per quanto fittizia, ai soggetti della storia, siano essi protagonisti o semplici comprimari. Possedendo un'immagine fissa e ricorrente, si accerta un'esistenza, si chiariscono delle funzioni, si ipotizza un'evoluzione. Spesso però questi stereotipi visivi sorgono in seno a consuetudini interpretative che hanno tratto numerose delle loro prerogative dall'immaginario e in esso hanno trovato il modo per esprimersi ed amplificarsi. In genere però la storicità di queste prerogative trova solo piccole e momentanee occasioni per ottenere una verifica nella storia e quasi sempre trae la sua linfa dal mondo del mito e della leggenda. Il caso della strega non si sottrae a questa tradizione visiva, infatti ne abbiamo una chiara testimonianza osservando l'ampia iconografia che, dal XIV secolo fino ad oggi, ha rappresentato l'aspetto delle adepte di Satana. Dalla "ritrattistica" sui generis fino alle composizioni in cui le streghe appaiono colte nelle loro molteplici attività specifiche, la storia dell'arte e dell'illustrazione ci consente di verificare alcuni temi ricorrenti, che contrassegnano il soggetto qui esaminato: a) in genere la strega è spesso brutta, vecchia e vestita con scarsa cura per la propria femminilità (fino al XVII secolo); b) dal XVII secolo lo stereotipo subisce una parziale evoluzione e la strega può anche apparire in opposizione al tipo descritto in a; c) dalla fine del XVIII secolo si va definendo anche un modello tendente a porre in rilievo la forte carica sensuale della strega, con i conseguenti rivolgimenti dello stereotipo descritto in a. In genere, le varie rappresentazioni della strega, via via definite nel corso dei secoli, pur subendo delle modificazioni in relazione a condizionamenti contingenti, hanno prodotto un modello figura-
tivo entrato a far parte della cultura, con toni anche in contrasto con le fonti. Infatti i documenti sulla stregoneria - in particolare i processi - propongono un'"immagine" della strega non sempre sovrapponibile all'interpretazione iconografica. Nelle fonti spesso ritroviamo delle streghe giovani, il cui aspetto - stando alle sommarie descrizioni - risulta ben lontano dallo stereotipo della "vecchia, brutta" e, di conseguenza, "cattiva"... Come si evince da questa sommaria "carta d'identità" della strega, i temi che possono essere oggetto di riflessione sono molteplici: in questa occasione cercheremo, razionalmente, di offrire una panoramica sulle stregoneria in terra d'Insubria, tenendo conto delle tante problematiche che il tema suggerisce. Naturalmente non tratteremo "tutti" i casi, ma riporteremo una serie di testimonianze che possano offrire un quadro esaustivo dell'argomento. Abbiamo quindi strutturato il libro cercando di far convivere fonti storiche con leggende e testimonianze che ci consentono di constatare come una certa idea di stregoneria sia rimasta impigliata nelle credenze, in alcuni riti e soprattutto nell'immaginario della gente dell'Insubria. Gli autori
LE DRUIDE: ANTENATE DELLE STREGHE INSUBRICHE (R. Corbella) Senza dubbio, nell'immaginario collettivo, la categoria dei sacerdoti celti era costituita da soli uomini: maschi attempati, con lunghi capelli e barba bianchi. Insomma figure che si cristallizzano intorno al diffuso e romantico stereotipo del druido. In effetti non sappiamo se tra i Celti vi fosse, in ambito religioso, una precisa distribuzione di ruoli in relazione al sesso, come invece si verificava in numerose altre religioni dell'antichità. Probabilmente no: tra i popoli celti, perciò anche tra i nostri antenati insubri, la donna aveva un ruolo preminente nella società ed era perfettamente equiparata all'uomo. Questo è quanto traspare non solo dalle fonti letterarie antiche irlandesi e bretoni, ma soprattutto dalla tradizione orale diligentemente trasmessaci dai monaci evangelizzatori nei loro manoscritti agli inizi della cristianizzazione delle isole britanniche. Va tenuto conto che anche le fonti greche e latine non hanno nascosto il ruolo importate svolto dalle donne in seno alla civiltà celtica, dove occupavano una posizione di rilievo, usufruendo di libertà del tutto assenti in altre culture. Le fonti storiche non consentono di stabilire con la dovuta chiarezza se effettivamente fosse attiva una classe sacerdotale femminile indipendente dal suo contrapposto maschile; in passato tale credenza era diffusa, non sempre con la dovuta lucidità critica ed esagerandone l'importanza. Ciò era probabilmente dovuto alla volontà di individuare, a tutti i costi, una connessione con l'universo mitico religioso femminile a cui, tra Ottocento e Novecento, spesso si collegavano figure
provenienti dal mondo mitico e folkloristico quali ninfe e fate. Al di là delle contaminazioni e degli azzardi determinati dal comparativismo, va osservato che nelle fonti classiche non troviamo un termine femminile che possa essere correlato al nostro druida, lo troviamo però nelle fonti irlandesi dei primi secoli dopo Cristo: sono le cosiddette Bran Druì. Pomponio Mela, nel De Chorographia, fa riferimento alle Gallicenae: nove sacerdotesse britanniche, sacre vergini, che vivevano in un tempio dedicato ad un oracolo gallico. Esse sapevano provocare magicamente le tempeste marine, trasformarsi in animali a loro volontà, curare ferite e malattie considerate incurabili dagli altri sacerdoti ed erano anche in grado di predire il futuro. Le Gallicenae, in seguito, con la mediazione della tradizione epica, sono entrate a far parte di ballate e leggende, sempre però senza possedere alcun referente preciso nella storia. Thomas Downing Kendrick, nel suo saggio The Druidsa a Study in Keltic Prehistory (1927), narra che a "Cluain Feart (Clonfert) esisteva una comunità di druide che erano in grado di suscitare tempeste, causare malattie e uccidere i nemici per mezzo di maledizioni soprannaturali", ma si tratta di una descrizione del tutto scollegata da ogni possibile connessione con la realtà, che di fatto rimanda all'immagine delle strega medievale, alla quale erano spesso attribuite accuse come quelle riconosciute alle druide di Cluain Feart. Possono essere scoperte effettive connessioni tra le druide e le leggende celtiche sulle fate e le streghe nella tradizione cristiana, il che si evince in particolare dalla letteratura apologetica. Senza dubbio, pur constatando la presenza di numerosi elementi tendenti a creare una stretta connessione tra alcune donne celtiche e il sacro, dalla tradizione letteraria greco-romana non riusciamo comunque a far riemergere l'immagine della druida. Possiamo tratteggiarla interpretando alcune immagini presenti nell'isola di Mona (oggi isola di Man), o recuperando, qua e là, presenze dell'epica e del folklore. Ma di fatto, nelle fonti, non c'è
nulla di concreto che sia nella condizione di dare ragione alle ipotesi. Secondo i celti Leponti, Oscela, Orobi ed Insubri che abitavano le nostre terre prima dell'invasione e della colonizzazione romana, le pozze di acqua purissima e trasparente che si trovavano nel fitto della foresta erano soggette ad una maledizione: chiunque si fermava a fissarne le acque veniva irresistibilmente attratto da esse, vi cadeva dentro e annegava. I torrenti di montagna sono tutto un susseguirsi di vortici d'acqua lucente che si torcono in fondo a forre di roccia generando rapide, formando mulinelli e risucchi violenti. Questi torrenti e ruscelli delle montagne prealpine, quali il Tinella, la Cavallizza, il Rancina, il Torregione, il Gesone, creano aspre gole di roccia calcarea o di porfido perse in una selva primordiale. Pietra, foresta, tenebre. Un unico grande labirinto. Qui le tribù ceke adoravano la trina dea delle acque Belisama e nella cascata di Fermona o del Pesech i druidi gettavano le offerte sacrificali in un turbinio di schiuma ed onde. Secondo i celti, questi luoghi particolari erano infestati da creature femminili dai poteri sovrumani che, in un secondo tempo, il folklore ne trasformerà il ricordo mutandole in "Fate". La tradizione locale popolare, residuo di antichissime credenze, in Irlanda, Bretagna e Galles, ultime regioni d'Europa dove è ancora viva la lingua celtica, vuole che questi esseri misteriosi ed ultraterreni non siano altro che antiche sacerdotesse ceke, vissute prima della globalizzazione religiosa provocata dal Cristianesimo, che rifiutarono di farsi battezzare dai sacerdoti del nuovo Dio e così furono colpite dalla maledizione divina: trasformate in esseri fatati sarebbero state costrette a vivere eternamente in quei luoghi. Altri autori contemporanei di San Patrizio1, riferivano che le sacerdotesse della Dea Brigit, incapaci di competere con San Patrizio ed il suo dio, preferirono effettuare una trasformazione da donne terrene in esseri magici immortali, piuttosto che scomparire dal mondo dei viventi e perdere per sempre il loro potere magico, mistico ed esoterico. In ogni caso, questa terra celtica di cui fa parte l'Insubria racchiu-
de tutto un mondo di credenze e leggende particolari: nel Parco del Ticino, a Sesto Calende, vi sono alcuni grandi affioramenti rocciosi incisi che precedono un masso gigantesco chiamato la "Preja Buja"2. La "Preja Buja"3, che è oggi dichiarata monumento naturale nazionale, si erge enorme ed impressionante nelle vicinanze dell'oratorio di San Vincenzo che sorge sulle rovine di una probabile costruzione paleocristiana a sua volta sostituente un tempietto familiare romano4 edificato su di un luogo di culto celta-ligure: siamo di fronte ad una catena di sacralità diluita nel tempo. Riconosciuto quale antichissimo centro di culto della civiltà celta di Golasecca, il suo immenso potere di misteriosa energia pagana ha fatto sorgere una corona di cappelle ed oratori cristiani di antica origine che, circondandola, ne contengono la potenzialità spirituale negativa. Nel XIX secolo il folklore locale lo aveva definito quale luogo stregato dove nelle notti di plenilunio streghe e demoni si scatenavano nel sabba infernale. La "Preja Buja" in realtà è un'importante realtà archeologica e le sue stranissime incisioni potrebbero essere tra le più antiche dell'arco alpino. Il masso, un erratico di pietra verde scura trascinato dove è ora dal ghiacciaio nel periodo Quaternario, faceva parte di una più grande roccia che si è frantumata dividendosi in diversi massi sparsi nei dintorni. La "Preja Buja" è stata poi lavorata rozzamente dall'uomo, che l'ha scavata alla base e sopra sino a darle vagamente l'aspetto di un grande orso col muso che punta verso il lago; muso su cui sono stati ingegnosamente evidenziati occhi, naso e bocca, sagomando fratture e sporgenze naturali. Su di esso vi sono incisioni preistoriche che potrebbero essere collegate al culto sciamanico di epoca neolitica che qualcuno collega alla Dea Madre. Sono disegni a geometria composta, figure di carattere simbolico che forse riproducevano situazioni reali, oppure semplicemente motivi decorativi con valenza apotropaica per protezione magica dei campi coltivati, dei villaggi, dei recinti del bestiame. Alla sinistra della "Preja Buja" un'altra grande roccia reca incisioni geometriche dello stesso stile; inoltre vi
è una larga e lunga incisione inclinata e ben lucidata che parrebbe uno masso a scivolo per riti femminili di fertilità5. Davanti al masso principale, due rocce più piccole presentano altre incisioni di notevoli dimensioni. A breve distanza, nel fìtto sottobosco, appoggiato al monte, vi è un grande macigno ricoperto di grandi incisioni con sotto un piccolo rifugio che poteva contenere una persona rannicchiata. L'effetto visivo totale di queste incisioni è talmente enigmatico e ripetitivo da far pensare ad un linguaggio criptico. La tipologia delle incisioni di Sesto Calende è piuttosto rara in Nord Italia: essa ha qualche attinenza solo con quelle che sono state rinvenute a Ruciagliè, in Val Pellice (Piemonte), che il Priuli6 data attorno al 2000 a.C. Certamente sono antecedenti alla cultura di Canegrate7. Essendo queste incisioni collegate probabilmente ad un culto di duplice valenza religiosa: alla Dea Madre, vista come terra e anche come acqua benefica, erano dedicati i rituali effettuati da sacerdotesse celtiche (druide) non sopra alle rocce ma dinanzi ad esse, quasi che queste fossero pale d'altare. Sappiamo che questo territorio fu molto popolato nella preistoria perciò un complesso sacrale di tale fatta, una vera e propria cattedrale all'aperto, doveva essere un santuario importante per le tribù insubri stabilite sulla sponda orientale del Verbano e sul Ticino. Con ogni probabilità, il culto della "Preja Buja" si protrasse dal tardo Neolitico sino al trionfo del Cristianesimo nel 400 d.C., forse segretamente sopravvisse ancora a lungo. L'energia esoterica e metafisica che emanava questo monolito doveva essere potente; durante il tardo Impero Romano, e per tutto il Medioevo, queste rocce che allora si trovavano in mezzo a un'intricata foresta, originarono credenze la cui eco è ancora viva. Nel folklore popolare, convivente con il credo religioso, era diffusa la credenza che in quel luogo, a San Silvestro, la regina delle fate si ponesse sul masso più alto (la "Preja Buja") e tutte le altre creature femminili fatate si sistemassero intorno, riunite in assemblea per giudicare e punire chi, umano o fatato, avesse trasgredito all'ordine naturale della Creazione. In questi casi il colpevole veniva trasformato in una gros-
sa pietra o in un albero. Così succedeva che quando una persona del luogo si recava al bosco per fare provvista di legna, sul far della sera, incontrava queste splendide fate intente a chiacchierare, pettinarsi i lunghi capelli, ridere e giocare. Figuratevi la sorpresa del buon uomo e la sua costernazione quando, alla sua vista, le medesime fate volavano via veloci con ali colore d'arcobaleno8. Oltre alla "Preja Buja" anche altre grandi rocce con incisioni rupestri presenti tuttora nel territorio insubre e risalenti all'Età del Bronzo9 parrebbero utilizzate quale fulcro da sacerdotesse per rituali e sacrifici di tipo orgiastico che poi lasciarono talmente il segno nella memoria storica e nel Dna del popolo da essere ricordate ancora nel XX secolo, sia pure trasfigurate, e le streghe del passato. Infatti, i vecchi di Albate (Como) raccontavano che in certe notti particolari strane figure femminili ammantate di scuro salivano dal sentiero di Muggiò verso i contrafforti del monte Tre Croci. Giunte a metà strada, nello spiazzo aperto tra gli alberi, le figure si gettavano su di un masso di arenaria lungo e basso, simile per forma ad una balena spiaggiata, sfregandosi contro e rotolandosi su di esso, quindi si spogliavano mostrando di essere donne, giovani e vecchie; ignude iniziavano a ballare una danza selvaggia in equilibrio sul masso, pestandolo con i calcagni. Dalla pietra allora si levavano lingue di fiamma che illuminavano satanicamente la scena. Così esse proseguivano nella loro orgia per tutta la notte lanciando strani versi fino alle prime luci dell'alba; a quel punto, esauste, si rivestivano e scivolando tra gli alberi scomparendo come nebbia nel bosco10. Il lungo e basso masso ornato di incisioni è da sempre chiamato "Sass di Strii" (Sasso delle streghe)11. Oggi lo si può raggiungere facilmente da Albate per comoda strada sterrata. Che il masso si trovi proprio al centro di un quadrivio è già un fatto importante per provare la sua antichità e per il suo significato apotropaico: per i celti il quadrivio era il regno magico di Lug12, il divino, beffardo, artigiano ingannatore, assimilato al greco Ermes. Il creatore delle arti, ma anche il mistico signore dell'occulto. Apportatore di ric-
chezza per i suoi seguaci ai quali chiedeva in cambio riti misteriosi e terribili. Il "Sass di Strii" venne esorcizzato nel medioevo scolpendo su di esso 4 piccole croci. Anche il grande masso detto "Pedana dur Ciappin Negher" (Pedana del Diavolo) sul monte Pelada a Lentate (frazione di Sesto Calende), era ritenuto un tempo sede di presenze demoniache e collegato a una strega immortale. La leggenda dice che qui il diavolo compare da secoli sotto le attraenti forme di una bellissima donna nuda di colore scuro, che in passato attirava i contadini ed anche i frati del convento di Lentate13, inducendoli al peccato, probabilmente con loro gran piacere; la montagna fu quindi esorcizzata nel XVI secolo ma la diabolica strega non se ne andò. Anzi ricomparve più frequentemente nei secoli seguenti fino al 1950, questa volta insidiando con grande successo (sempre sotto forme femminili) i giovani maschi locali. Il masso, considerato il ricettacolo di questa espressione larvale femminile diabolica, è di forma allungata, non è molto alto ma di dimensioni ragguardevoli14. Come si vede dalla loro disposizione geografica, questi massi-altari dedicati ad un antico culto di fertilità dalla forte valenza sessuale e risalenti al periodo storico Celto-Ligure (2000-300 a.C.), sono tutti collegati a culture liguri e proto-celtiche15. Le sacerdotesse che con ogni probabilità eseguivano i riti che si svolgevano davanti a questi massi istoriati di incisioni simboliche, furono chiamate "druide"16 dai conquistatori romani, mentre il nome usato dai Galli continentali, tra cui i nostri antenati Insubri e Leponti, era Bna Deruyd, ovvero "Donna che conosce la quercia" (Donna saggia); invece tra i popoli celti del nord, quali irlandesi e scozzesi, il loro nome era "Bran Druì", sempre con lo stesso significato. Queste donne formavano una particolare categoria del sacerdozio celta, anche se dire sacerdozio è un termine errato: in realtà queste donne facevano parte degli "Aos Dana", la gente dotata, però esse non possedevano tutte le prerogative della loro controparte maschile, i druidi, ma erano più simili alle sciamane siberiane o
degli amerindiani. La loro funzione era quella di curare gli appartenenti al villaggio, oppure lanciare il malocchio e con appositi rituali provocare la rovina di una o più persone. Insomma guaritrici e maghe, il che le avvicina al nostro concetto di streghe, solo che erano streghe istituzionalizzate protette e riverite. Al contrario di quello che l'immaginario collettivo ci ha abituato a considerare, cioè l'immagine di un sacerdote canuto, barbuto e chiomato, vestito di una lunga tunica candida e con un falcetto d'oro in mano, questa sua controparte femminile vestiva di nero o completamente nuda, col corpo tinto di blu scuro, i lunghissimi capelli sciolti ed arruffati, gli occhi arrossati e spiritati e spesso i denti erano limati a punta come quelli di una belva. Dai racconti celtici sappiamo che queste sciamane amavano muoversi a scatti con grazia felina e mandavano suoni gutturali e inquietanti17. Insomma non dovevano essere certo un bello spettacolo e probabilmente da ricordi ancestrali di esse è derivato l'archetipo iconografico della nostra strega. Durante alcune cerimonie, però indossavano un ampio manto di piume (il "Tuigen") di anatra e di cigno, in più avevano una gonna di pelle di bue e un singolare copricapo fatto con la testa e il collo imbalsamati di un cigno. Questo abbigliamento ci ricorda sia l'importanza che gli uccelli acquatici avevano nella mitologia e nell'arte della cultura celta di Golasecca, sia quella dell'elmo ornato da una testa di cigno in bronzo tipico delle etnie celto-liguri piemontesi e provenzali preromane. Si accompagnavano con un'oca, la quale pare servisse loro a interpretare e divinare il futuro. Era compito delle Bna Deruyd di pugnalare alla schiena il vecchio re sacro, divenuto impotente, e leggere il futuro della tribù interpretando le convulsioni del moribondo 18. I romani, solitamente indifferenti alle propensioni religiose dei popoli a loro sottomessi e generalmente tolleranti, giustamente videro nella classe sacerdotale celta un pericolo per la loro egemonia, per cui combatterono aspramente queste donne-sciamane come pure i loro corrispettivi maschili e per indicarle utilizzarono il sostantivo dispregiativo che serviva ad indicare una donna che pro-
duceva incantesimi: strix ovvero civetta, allocco. Da questi termini deriva il nostro termine "strega". Queste sciamane celte erano suddivise in ragione delle loro diverse specialità di cui purtroppo si è persa l'esatta nomenclatura e tipologia. Sappiamo dalle fonti irlandesi altomedievali che le indovine o profetesse erano chiamate "Bna faith", per cui evidentemente vi dovevano essere vari gradi tra esse. Un'altra notizia che trapela dalle cronache tarde è che divenute anziane venivano preposte alla custodia ed ai rituali concernenti i pozzi o le sorgenti sacre e chiamate Cailleach. L'uomo che desiderava acquisire particolari poteri magici legati alla sacralità dell'acqua, doveva baciare la Cailleach se essa accettava il bacio, era obbligato a giacere e accoppiarsi con lei. Atto ricco di simbologia perché la Cailleach simboleggiava non solo la Dea trina potente Signora delle acque19, ma anche divinità della guerra e delle stragi; psicopompa signora della morte: la "Morrigna", le tre sorelle fuse in un solo essere, la nera e spaventosa creatura genesi e nemesi, allo stesso tempo, dell'umanità celta20. La "Morrigna" o dea Morrigan, è associata al corvo, anzi potremmo affermare che il corvo sia in realtà la sua trasformazione, il suo alter-ego, ed è sintomatico come nell'immaginario popolare la figura della strega sia spesso legata a questo uccello. La "Morrigna" ha forti connessioni con la dea-uccello presente nelle ceramiche e sulle incisioni rupestri in un arco di tempo che va dal Neolitico all'Età del Bronzo; dobbiamo ricordare come il corvo (perciò la "Morrigna") sia oltre che una divinità legata alla morte anche un simbolo di rinascita o rigenerazione. Dea-uccello, allora, simbolo del volo più alto, tra le nubi apportatrici di pioggia benefica, umidità che dà la vita, e questo altro viso della triade divina fa capo a Brigit. In alcuni testi epici irlandesi essa appare ai guerrieri come la "Lavandaia del guado", colei che lavando armi e armature sporche di sangue decide chi tra gli eroi dovrà morire nel successivo combattimento. Questa dea è colei che lavando l'anima dei guerrieri morti li prepara per la reincarnazione. Dal punto di vista simbolico
e ideale così facendo essa spinge la mente dell'eroe verso nuove avventure, nuove conoscenze21. Tra i celti vi è un'unità di contenuti che accomunano zone apparentemente eterogenee come la Renania, la Francia, l'arco alpino, la Pianura Padana, l'Irlanda, la Scozia e la Galizia, tra essi sono presenti anche le tracce di un culto estatico orgiastico legato ad una divinità femminile e praticato soprattutto da donne. Questo culto comprendeva, tra altri rituali, un "viaggio" notturno probabilmente ottenuto tramite ingestione di allucinogeni verso mondi al confine tra la vita e l'aldilà e si potrebbe individuare nella divinità che presiedeva a questi riti femminili la dea celtica dei cavalli Epona, associata al viaggio mortuario, il cui culto era molto forte e presente nelle terre appena citate. Epona era spesso raffigurata con una cornucopia, rivelandosi quindi inoltre una dea dispensatrice di ricchezze, cibo e buona fortuna, in questo molto simile alle varie "Signore del Gioco" (Abundia, Richella) citate spesso come loro protettrici dalle streghe medievali. Ma ad Epona si collegano altre divinità celtiche tipiche delle terre di cui abbiamo parlato, ossia le Matres. Ad esse sono state dedicate una grande quantità di iscrizioni rinvenute nel basso Reno, in Francia, in Inghilterra e nell'Italia Settentrionale. Assieme alle iscrizioni, sono stati rinvenuti bassorilievi che rappresentano queste Matres come tre donne sedute che, come Epona, esibivano simboli di prosperità e fertilità: una cornucopia, un cesto di frutta, un bambino in fasce. Le iscrizioni fanno spesso riferimento a contatti diretti con le divinità, facendo così pensare proprio ad un culto di natura estatica. Come Epona, queste dee erano protettrici delle partorienti e legate al mondo dei morti, tanto che a volte vengono associate alle Parche. Divinità quindi connesse al fato, concetto che ci rimanda alla parola"Fata". Un'altra divinità celta collegata alle Bran Druì e molto celebre in Irlanda, era la dea Brigit, figlia di Dagda22, fu protettrice della poesia, della metallurgia e anche della medicina. Altri suoi no-
mi erano Belisama (Lucente Estate), consorte del dio della luce solare Beleños e Sulevia (Acqua di Salute). Il nome di Brigit è considerato un'eredità indoeuropea e il fatto che riporti spesso tre nomi diversi, la pone in relazione alla triade delle Tre Madri (Matres) a cui abbiamo accennato precedentemente. Il suo nome è richiamato dai fiumi Brent nel Middlesex e Braint ad Anglesey, mentre nella forma Brigantia era invocata dalla tribù dei Brigantes, il cui territorio copriva sei contee dell'Inghilterra settentrionale. L'immagine di Brigit ci è giunta attraverso alcune raffigurazioni; in una, già tarda e risalente al III secolo d.C., appare con le vesti di una matrona romana e quindi equiparabile alla dea Minerva. Queste Bran Druì o Bna Deruyd erano le uniche persone, tra i celti, che possedevano l'autorità e il potere di togliere i Geas agli uomini che ne erano afflitti. Il Geas è una proibizione, un tabù che il celta doveva rispettare se voleva essere fortunato e protetto dagli dei nella vita: per alcuni è la proibizione di cibarsi delle carni di un animale particolare, per altri l'obbligo di andare nudi in battaglia23, o di non frequentare donne. Secondo la cultura celta, molte persone nascono con Geas personali e non sanno di averli, in questo caso solo la Bna Deruyd può rivelarglieli e impedire così che essi li rompano inconsciamente e cadano così in un ciclo ricorrente di sfortuna. L'idea del tabù, del Geas, è collegato alla Grande Dea Anu, la Dea della Terra, in un modo che ancora oggi non si è riusciti a svelare: parrebbe che nella mitologia celtica una persona che anche inconsciamente rompesse o turbasse l'ordine della natura, venisse "punito" con l'attribuzione di un tabù, penitenza rituale per ripristinare l'armonia naturale creata da Anu al momento della formazione della Terra. A volte anche oggetti particolarmente preziosi erano soggetti a Geas-. la lancia dell'eroe non deve toccare per terra o egli sarà sconfitto, la coppa sacra deve essere spostata solo dopo averla avvolta in tre strati di stoffe preziose altrimenti perderà il suo magico potere24. Infrangendo il Geas si mette in pericolo l'esistenza stessa dell'oggetto nonché le sue caratteristiche magico-esoteri-
che. Le Bna Deruyd già da bambine si distinguevano dalle altre fanciulle in ragione dei loro poteri: la loro funzione nell'ordinamento cosmico era quello di essere le depositarie della saggezza ancestrale, conoscitrici e mediatrici tra l'uomo ed i poteri occulti. Le Bna Deruyd studiavano, tra l'altro, astrologia, cosmologia, fisiologia, teologia e medicina erboristica. Ognuna di esse possedeva una bacchetta di salice rosso che, secondo la tradizione, poteva trasformare un uomo in un verme o in una mosca25. Studiavano oralmente "dalla bocca del maestro" e tenevano tutto a memoria. Ogni parte della loro conoscenza era applicata alla pratica giornaliera, sia che si trattasse di conoscere il periodo favorevole alla semina dei cereali, o di curare le malattie infantili, oppure regolare la fertilità di una donna, saldare un arto fratturato, compiere rituali che provocassero la sconfitta di un nemico. Insomma si diceva di loro che fossero "samildanach", letteralmente detentrici di molte abilità. Vivevano sole, a qualche distanza dal villaggio. Non avevano rapporti sessuali con uomini se non una sola volta all'anno, giorno in cui esse stesse andavano da chi avevano scelto e con cui passavano la notte e l'indomani ritornavano alla loro capanna-tempio. Era loro costume d'abbattere il tetto dell'abitazione ogni anno e quindi ricostruirlo prima che il sole tramontasse. Tale rito probabilmente simboleggiava la distruzione e la rinnovazione del mondo26. Dobbiamo pensare a queste sciamane anche come un punto di riferimento per il popolo: una saggia donna di conoscenza superiore e inusuali abilità, il cui consiglio era cercato in tutte le questioni pratiche e religiose della vita di tutti i giorni. Una figura di riferimento che sapeva radunare la gente per le celebrazioni comuni e la cui parola era legge, anche per il timore che incutevano le sue misteriose capacità di maga e profetessa. Per concludere, la druida, quale depositaria di saggezza e conoscenze paranormali, era senza dubbio in una posizione di riguardo nella tribù, superiore anche al Rix o alla Rigana, A seconda della sua abilità nel giocare il proprio ruolo, essa poteva essere quasi divinizzata.
Da tutte queste informazioni raccolte, dobbiamo supporre che queste druide formassero una classe professionale che sintetizzava magia, sciamanesimo e tecniche mnemoniche spirituali27. Secondo Giulio Cesare, il sistema religioso sacerdotale celta nacque in Britannia e da lì si estese alla Gallia. Ancora ai suoi tempi, i druidi e le druide galliche solitamente si recavano in Britannia per imparare e perfezionarsi. Effettivamente, nei paesi anglosassoni ed in Irlanda il druidismo sopravvisse (più o meno clandestinamente) fino al 400-600 d.C.28. Ma gli storici e gli annalisti greci e romani come videro le Druide e soprattutto riuscirono a comprenderne l'importanza e il ruolo nella società celta che essi si apprestavano a colonizzare e distruggere? Alla luce delle testimonianze lasciateci dagli autori classici dobbiamo dire che frequentemente, come avvenne per tante istituzioni celtiche, la loro figura fu travisata e il più delle volte confusa con l'istituzione della Regaña, la regina sacra divinizzata che conduceva il suo popolo in battaglia combattendo lei stessa con abilità e ferocia. Per capire meglio come questi scrittori dell'antichità (che mai di persona conobbero druidi e druide, ma scrivevano sempre con notizie di seconda o terza mano) fossero personalmente portati a far fare bella figura ai loro compatrioti romani e a distruggere l'immagine dei celti, ritenuti barbari e selvaggi, riportiamo di seguito i passi dei testi classici concernenti druide e regine. Strabone pone in rilievo {La Geografìa IV, 5), rifacendosi a Posidonio, che in "un'isola alla foce della Ligeris" (Loira) vi era una "tribù di donne", spesso travolte da una sorta di furore. Questo tema ci rimanda a Tacito che negli Annali (XXIXXXX), quando narra la presa dell'isola di Mona del 61 d.C., fa riferimento a donne simili a Furie che impugnavano delle fiaccole. Per Tacito e Plinio il Vecchio (Historia Naturalis II, 75), si tratta di Anglesey, centro di culto druidico e rifugio dei ribelli di Roma; però per Giulio Cesare {De Bello Gallico V, 13) "insula appellatur Mona" sarebbe l'attuale isola di Man.
Rileggiamo il passo di Tacito, poiché risulta particolarmente utile per il tema delle druidesse: "In quel momento era al governo della Britannia Paolino Svetonio, che nell'arte militare la voce pubblica, che non lascia mai alcuno che eccella senza termine di confronto, giudicava emulo di Corbulone, e che, assoggettando i Britanni, bramava eguagliare la fama del rivale, conquistatore dell'Armenia. Svetonio si preparò, dunque, all'assalto dell'isola di Mona, forte dei suoi abitanti e rifugio di profughi; fabbricò navi piatte destinate a fondi di mare bassi e malsicuri, in esse pose la fanteria, seguita dalla cavalleria, che passò a guado; dove le onde erano più alte, spinse a nuoto i cavalli. Stava sulla spiaggia la schiera dei nemici, densa di uomini e d'armi, percorsa da donne, coperte di nere vesti al modo delle Furie e che, sparse le chiome, agitavano delle fiaccole; intorno stavano i Druidi, che levate al cielo le mani, lanciavano preghiere e maledizioni contro di noi e non lo strano loro aspetto colpirono i soldati al punto che questi, in un primo tempo, col corpo paralizzato si esponevano alle ferite, come avessero tutte le membra legate. Poi scossi dagli incitamenti dei capi e facendo stimolo a se stessi, per non dare spettacolo di paura dinanzi ad una massa di donne e d'invasati, si lanciarono contro di loro, li abbatterono e li travolsero nelle loro stesse fiamme. Dopo di ciò fu imposto ai vinti un preludio, e furono abbattuti i boschi sacri ai loro riti superstiziosi e selvaggi, poiché essi consideravano precetto divino che i loro altari fumassero di sangue di prigionieri, e che si dovesse consultare gli dèi, servendosi di viscere umane" (Tacito, Annali, XXIX; XXX). Il testo pone in evidenza un dato importante: queste donne sembrava svolgessero un ruolo rituale da non confondere con quello dei druidi. Infatti le donne "coperte di nere vesti" apparentemente sono più vicine alla figura della donna guerriera, combattente alla stessa stregua dell'uomo, piuttosto che a quella del capo religioso. Lo storico Lampridio, nella biografia dedicata ad Alessandro Severo (LIX, 6), narra che l'imperatore fu messo in guardia da una
"profetessa druidica" sull'affidabilità del proprio esercito. Sullo stesso tenore è l'esperienza di Diocleziano che, secondo quando narrato nella Vita dell'imperatore Numeriano di Vopisco (XIV, 2), ebbe da una "druidessa" indicazioni sul suo futuro. Inoltre, sempre secondo Vopisco ( Vita di Aureliano XLIV, 4), Diocleziano ebbe modo di rivolgersi alle dryades per ottenere indicazioni concrete da attuare nel corso della sua politica dinastica. Teniamo conto che quelle "donne nere" combattenti, furiose e ben lontane dalla figura femminile classica, ebbero un effetto molto forte nell'immaginario degli invasori, destinato a lasciare un segno profondo nella memoria collettiva. Così Plinio il Vecchio: "le donne dei Britanni dopo essersi cosparse il corpo (di unguento nero) si presentano nude in alcune cerimonie imitando il colore degli etiopi" (Historia Naturalis XXII, 2). Anche Strabone {La Geografìa III, 2) non trattenne il suo stupore di osservatore occidentale davanti all'opera delle donne cimbre, che seguivano i loro uomini in guerra, spingendoli addirittura allo scontro con azioni frenetiche negli accampamenti, suonando strumenti e agitando le armi (tutto un iteróie. potrebbe essere posto in relazione ad una sorta di danza rituale). E comunque importante ricordare che quando si parla di druidesse, nella cui immagine entrano in gioco, ma anche in conflitto, concetti e figure prive di fonti, tracciare una demarcazione precisa tra la storia e la leggenda risulta un compito arduo. Infatti intorno alla druidessa si è coagulato tutto un humus che è stato soprattutto alimentato da due fattori specifici: - l'enfatizzazione (come nel caso di Tacito) della donne attive in battaglia; - la ricostruzione letteraria di tradizione romantica, alimentata dalla volontà di porre in rilievo l'emancipazione femminile presso i Celti, quasi sempre considerata necessità per sopravvivere alla pressione degli invasori.
La condizionante letteraria non va però solo connessa al vivace universo romantico, in quanto anche nelle fonti più antiche, l'idea della donna guerriera, spesso relazionata alla divinità, occupa un ruolo importante. Tale situazione fu probabilmente la causa che spinse Tacito ad affermare: "non è la prima volta che i Britanni sono stati guidati in battaglia da una donna". Per gli storici moderni, "le saghe sostengono anche l'idea che le donne fossero guerriere. In molte storie compaiono delle regine-guerriere, tra le quali emerge Medb del Connacht che comandava personalmente il proprio esercito e che personalmente trucidò l'eroe guerriero Cethren in combattimento. Scàthach, una donna con funzioni di campione, fu la principale maestra di Cùchulainn per quanto concerne le arti della guerra, sua sorella, Aoife, fu un'altra famosa guerriera e, per quanto grande fosse l'eroe Cùchulainn, egli dovette ricorrere all'inganno per avere ragione del suo valore. Tra i Fianna di Fionn Mac Cumhail, che costituivano una élite di guerrieri, troviamo in veste di campione un'altra donna, Credne. Art si trovò in difficoltà nel domare la guerriera Coinchend. Ancora una donna con funzioni di campione, Estiu, ebbe un ruolo preminente nella storia di Suibhne Geilt durante il periodo trascorso a Snàmh Dà En (in inglese Swim Two Bird) che costituì la fonte di ispirazione del romanzo comico classico di Flann O'Brien, At Swim Two Birds 29. Va osservato che nelle fonti non mancano riferimenti a donne che svolsero ruolo di combattenti: Dione Cassio indica Boudicca, a cui si affianca la contemporanea Cartimandua posta a capo dei Briganti britanni e vissuta tra il 43 e il 69 d.C. Di Boudicca ci fornisce alcune indicazioni anche Tacito nella Vita di Agricola: "sotto la sua guida, donna di stirpe regale (perché nel comando non tengono conto del sesso) si levano tutti in armi e danno la caccia ai soldati sparsi nelle guarigioni e, espugnati i presidi, attaccano la colonia stessa, centro dell'oppressione, e nel loro furore di vincitori i barbari non rinunciano a nessuna atrocità" (XVI).
Tacito indica questa donna come la moglie del re degli Iceni, Prasutago, e ne pone in rilievo le sue doti di coraggio e fermezza. Patì il supplizio e le sue figlie furono stuprate (AnnaliXIV, 37). Dione Cassio specifica che questa donna possedeva uno sguardo che incuteva paura e la sua voce era roca; era piuttosto alta e la sua testa era coperta da una folta chioma di capelli rossi. In genere stringeva sempre in una mano una lunga lancia. Di Cartimandua, Tacito (Historiae III, 45) delinea l'immagine di una donna libera da vincoli imposti dal marito, Venuzio, che la regina tradiva regolarmente con vari amanti, fino a quando decise di cacciarlo per sostituirlo con Vellocato, spasimante di turno. Quanto ci sia di attendibile in tale ricostruzione è tutto da dimostrare. In un'altra occasione {Annates XII, 40) lo storico latino offre un'immagine molto diversa della regina, di cui sono poste in rilievo le straordinarie capacità politiche che raggiunsero la massima espressione nella rivolta antiromana del 61 a.C. "I Briganti, sotto il comando di una donna, sono riusciti ad incendiare una colonia e espugnare accampamenti. Se l'ebbrezza della vittoria non li avesse infiacchiti, davvero avrebbero potuto scuotere il giogo" ( Vita di Apuleio 31). Il fatto è relativo alla presa della colonnia di Camulodunum, di cui abbiamo notizia anche negli Annales (XII, 31). Tacito e Plutarco ricordano le vicende di una donna gallica, Eponina, moglie di Giulio Sabino dei Lingoni30, che prese parte alla sollevazione dei Galli nel 69 d.C. Fu uccisa dai Romani insieme al consorte. Significativo è il legame di Eponina con Epona, dea celtica dei cavalli, che ha svolto un ruolo certamente non limitato nella formazione delle tradizioni moderne intorno alla funzione sacrale e mitica della donna celtica. Ritornando espressamente alla posizione delle donne in seno alla cultura celtica, ricordiamo che, come osservava Tacito, "in Britannia non vi sono norme che escludono le donne dal trono o dalla
guida degli eserciti": ma ciò costituiva, per i Greci e i Romani, un fatto difficile da comprendere. Tacito, che parlando delle donne simili alle Furie dell'isola di Mona non diceva nulla che potesse correlarle alle druidesse, nel descrivere i Brutteri (definiti "tribù teutonica") indica la profetessa Veleda, vissuta ai tempi di Vespasiano, "oggetto di venerazione e oracolo della Germania" (Tacito in alcune occasioni chiama Celti i Germani). Tacito ci conferma il ruolo di Veleda, indicata spesso dai commentatori come druidessa: "Pensano che anzi che le donne abbiano in sé qualcosa di sacro e profetico: non osano disprezzarne i consigli o trascurarne i vaticini. Sotto il divo Vespasiano abbiamo visto molti e per lungo tempo adorare Velleda come una divinità. Più anticamente Albruna e parecchie altre furono venerate non certo per adulazione né per elevarle al rango di divinità" (Tacito, Germania, Vili). Veleda era un'autorità in campo politico e "fu scelta come arbitro nel contrasto tra i Tenteri e gli abitanti di Colonia, collocati sulle opposte rive del Reno, insieme a Giulio Civile. Tacito afferma che nessun ambasciatore aveva il permesso di vedere personalmente Veleda. I Legati, comunque, non furono ammessi alla sua presenza. Per accrescere la venerazione dovuta alla sua figura, veniva negato ogni accesso alla sua persona. Ella risiedeva nella parte alta di una torre elevata. Un parente prossimo, appositamente scelto, le trasmise alcune domande, e riportò da quel santuario risposte oracolari, come un messaggero che si fosse messo in contatto con lei" (P. Berresford Ellis - "Celtic women: Women in celtic society and literature" - London 1995). È possibile che Tacito abbia visto Veleda quando, nel 70, fu condotta prigioniera a Roma, ed ormai non era più "riverita come divinità dalle sue genti". Secondo Tacito però non era la sola, prima di lei altre donne furono considerate profetesse e depositarie del sacro come Aurinia e Ganna.
Quest'ultima, secondo Dione Cassio, era una "vergine dei Celti" che succedette a Veleda e accompagnò Masyos, re dei Senoni in un'ambasciata a Domiziano (81-96 d.C.). Tornando alle druide propriamente dette, Bna Deruyd o Bran Druì, ricordiamo che mentre nelle Gallie esse erano già state perseguitate dalla legge romana all'epoca della conquista, erano in parte sopravissute e equiparate a fattucchiere, mammane e praticone. Con il trionfo del Cristianesimo è facile immaginare come, nel vortice demonizzante sostenuta contro il paganesimo da parte degli evangelizzatori, ci siano finite anche quelle figure femminili in sospensione tra mitologia e religione, alcune delle quali appunto indicate genericamente come druidesse. In Irlanda, l'ultimo dei liberi paesi celti, i romani non misero mai piede e il Cristianesimo giunse tardi, solo nel 400 d.C., prima con Palladius, un sacerdote proveniente dalla Gallia Transalpina e quindi con Patrizio, un vescovo britanno romanizzato che in seguito venne santificato31. San Patrizio cercava di condurre al Cristianesimo gli irlandesi con la dolcezza e la convinzione. Da buon britanno credeva fermamente nella parità tra uomo e donna e rispettava le druide, come dimostra l'episodio del suo incontro con due druide impegnate a compiere un rituale magico, Ethne e Feldem, figlie del re dell'ovest d'Irlanda e custodi di una fontana sacra "Esse chiesero a Patrick: «Chi è il tuo Dio? E dove è? E nei cieli o sulla terra, o sotto la terra, o sopra la terra, o nei mari, o nei torrenti? È giovane? È bello? Ha figli o figlie? È uno degli immortali?» e Patrick le prese per mano per rispondere alle loro domande e per insegnare loro la vera fede; e disse loro che andava bene che si unissero al Re della Gloria, essendo figlie di un re della terra". San Patrizio quindi invocò le dee d'Irlanda che "Non gli risposero essendo addormentate nella morte, allora egli sposò le due sacerdotesse a Cristo, nostro marito..."32. Come si evince, si è ben lungi dalla persecuzione contro le sacerdotesse pagane portata avanti con ferocia dai primi vescovi cri-
stiani dopo la loro "vittoria" sul paganesimo ottenuta con l'editto costantiniano! Infatti, il primo sinodo organizzato in Irlanda da San Patrizio, comminava la scomunica a chiunque perseguitasse una strega, una druida. Infatti, l'articolo 16 di questo primo sinodo recita: "Un cristiano che crede che nel mondo esistano le incantatrici, ossia le streghe, e che accusa una persona di esserlo, deve essere scomunicato e non può essere più accolto in chiesa fino a quando - per sua stessa affermazione - abbia revocato la criminale accusa ed abbia di conseguenza fatto debita penitenza con pieno rigore"33. Riguardo a ciò la Chiesa celtica cattolica irlandese può a buon diritto ritenersi unica. A un periodo più tardo appartiene un Inno attribuito a San Patrizio, in questo caso l'evangelizzatore chiede a Dio protezione contro le "druidesse", indicate con toni che le pongono sullo stesso piano delle streghe. Questa duplicità si spiega con il fatto che San Patrizio, notoriamente contro la violenza, intendeva portare rispetto alle antiche usanze del paese che era giunto ad evangelizzare, soprattutto perché i cristiani in Irlanda ai suoi tempi erano una minoranza ed egli intendeva procedere con diplomazia nella sua opera di conversione. Perciò V Inno era principalmente ad "uso interno" e inteso a mettere in guardia contro rigurgiti pagani. Secondo alcuni autori moderni irlandesi, tra cui Berresford Ellis, addirittura Santa Brigida, la più famosa santa irlandese, ebbe un passato nell'universo dei druidi, rinnegato — in parte - con il riconoscimento dell'autorità del Cristianesimo: "Brigit era una ban-druì prima della sua conversione al Cristianesimo. Si dice che ella sia nata intorno al 455 d.C. presso Faughart, vicino a Newry, nella Contea di Down. Anche il padre, Dubhtach, era un druido. La sua nascita e la sua educazione, secondo la tradizione, furono immerse in un clima di simbolismo druidico; si supponeva che ella fosse stata nutrita con il magico latte delle mucche dell'aldilà. Divenuta cristiana, è ordinata da Mael (calvo o tonsurato), il vescovo di Ardagh. Si registra come sua prima fondazione religiosa quella di Drumcree, situata all'ombra di un'alta quercia. An-
che la sua fondazione a Kildare era basata sul valore simbolico della quercia, essendo nota come cill-dara, la chiesa della quercia: in questo luogo la santa morì nel 525"34. In Inghilterra ed Irlanda sono ancora diffusi i "pozzi di Santa Brigit": luoghi in cui il folklore ha rivisitato l'antica tradizione celtica delle sorgenti sacre. Così vediamo come il culto irlandese di Brigit fu soppiantato, con il diffondersi del Cristianesimo, da quello di Santa Brigida, venerata a Kildare (toponimo che guarda caso significa "Tempio della quercia") e fondatrice dell'ordine monastico delle Brigidine, che ebbe vita fino al 1620. L'ordine aveva il compito di educare le fanciulle; la festa della santa aveva luogo, come per Brigit, in occasione delle calende di febbraio e a Kildare diciannove monache avevano il compito di mantenere acceso un fuoco perenne. Questa tradizione perdurò fino al 1220. Possiamo considerare queste druide, più che sacerdotesse, sciamane che ritroviamo nelle Gallie (ovvero anche in Insubria), in Britannia, in Irlanda e praticamente in tutto il mondo celta, come antenate e prototipi della strega presente nel nostro substrato popolare fino a tutto il secolo ventesimo? Probabilmente sì. L'idea della donna connessa con il magico e l'inconscio in quanto madre e depositaria dei segreti della Terra, il cui ciclo di ambedue è legato alle fasi lunari, per l'uomo guerriero e cacciatore della prima Età del Ferro rappresentava un grande mistero insondabile ed era oggetto di timore e soggezione per cui ecco che il profilo della druida-sciamana veniva divinizzato e contemporaneamente temuto. Poiché essa è in contatto diretto con le forze oscure della natura è la guaritrice ma è anche colei che ti può portare alla morte con un semplice malefìcio, con un batter di ciglia! Così che il passaggio dalla divinizzazione alla demonizzazione avviene naturalmente con il Cristianesimo, ed anche chi cristiano non è approfitta della forza travolgente del nuovo Dio per usarlo come arma per debellare non solo lo sciamanesimo femminile, ma soprattutto il potere occulto della donna e sottometterla al ma-
schio togliendole la magia, l'unica arma che possedeva. Nei paesi nordici di tradizione celta, per diversi secoli, né la chiesa né lo stato riuscirono efficacemente a perseguire le cosiddette streghe, nonostante la spinta del clero di Roma e questo perché questa forma di sciamanesimo era così radicata nel costume gaelico da essere ritenuta, sia dal popolino che dai nobili, indispensabile per la società irlandese e scozzese. L'inquisitore che partecipò all'unico processo per stregoneria avvenuto in Irlanda fu accusato dal popolo che il vescovo locale decise di processarlo per eresia e l'inquisitore fuggì ad Avignone, alla sede del papa Giovanni XXII, allora antipapa. Nel 1324, Richard de Lendrede tentò di accusare e processare Alice Kyteler per stregoneria. Non riuscì ad arrestarla e così fece bruciare sul rogo la sua domestica, Petronilla di Meath. Il vescovo metropolita Alexander de Bickor in conseguenza di ciò accusò Richard de Lendrede di eresia. Egli fuggì ad Avignone dove Giovanni XXII gli diede un certificato che dichiarava la sua innocenza, ma i suoi possedimenti vennero confiscati. Egli fece ritorno in Irlanda nel 1339, ma nel 1349 fu nuovamente accusato di eresia. Dopo questi tentativi, per fortuna falliti sul nascere, la persecuzione contro le streghe non ebbe luogo in Irlanda e neppure in Scozia fino alla Riforma protestante. Fu allora che il seme della lotta contro le streghe venne gettato: John Knox pubblicò lo Squillo di tromba contro il mostruoso governo delle donne mentre si trovava ancora a Ginevra e lo fece pubblicare non solo in Irlanda ma anche in Scozia. In risposta Reginald Scot scrisse La scoperta della stregoneria (1584) che negava l'esistenza delle streghe. Tuttavia con il re Giacomo I d'Inghilterra (che fece pubblicare la Bibbia tradotta in inglese, che è utilizzata ancora oggi) ebbe inizio la persecuzione e tra il 1590 e il 1650 furono "ritualmente" sterminate circa 3.000 persone con l'accusa di stregoneria.
NOTE 1 II miglior testo su questi argomenti è quello di Liam de Paor, Saint Patrick's World, Dublin 1993. 2 Nei tempi antichi vi fu una grande inondazione nella zona di Sesto Calende e l'acqua del lago salì fino a lambire le colline. Una madre e i figlioletti che fuggivano sotto il temporale furono colpiti dal fulmine e rimasero pietrificati: questa è l'origine leggendaria del gruppo di massi erratici che in un secondo tempo furono chiamati "Preja Buja". 3 II nome Preja buja è di etimologia incerta in dialetto lombardo-occidentale significherebbe "pietra scura" ma potrebbe anche avere il significato di "preghiera pagana". Nel mio volume Magia e Mistero nella terra dei Celti, Macchione Editore, Varese 2004, descrivevo cosi le incisioni presenti sul monolite: "...un cerchio che racchiude al centro una coppella, un emiciclo con al vertice una coppella, ed attraversato da un raggio ricurvo, un lungo canale incurvato verso l'alto. Queste incisioni, molto grandi (20-40 cm.) si trovano a 1,30-1,60 metri dal suolo. Verso la cima sulla gobba vi è una piccola coppella. Sulla facciata che guarda a monte vi sono due strani disegni grandi in basso che spuntano dalla base: uno a linee curve sembrerebbe ricordare una serpe in movimento, l'altro, complesso, formato da semicerchi, cerchi ed un elisse ricorda un idolo stilizzato tipo le statue steli della lunigiana. Un'altra incisione simile, ma più piccola è posta alla stessa altezza sull'estrema sinistra... A tre metri d'altezza in posizione impossibile, in bilico sulla parete a picco è inciso un cerchio! Forse le cerimonie si svolgevano rivolti a questa facciata. Sul ripiano superiore (il "tetto" della roccia) oltre ad alcune coppelle vi è incisa una fantastica sequenza di grandi forme quadrate, circolari ed ovoidali disposte senza ordine apparente tra cui un segno ad "8" ed un piccolo cerchio con inscritta una croce". 4 Tempietto familiare perché facente parte di una struttura più ampia, probabilmente una villa i cui resti sono tuttora sepolti nel grande prato che si estende sulla sinistra dell'attuale chiesetta 5 Un rituale propiziatorio della fertilità femminile molto comune prevedeva che la donna si lasciasse scivolare su questi particolari massi di modo che la fertilità della terra entrasse in lei. Proibito dalla Chiesa Cattolica, questo rito rimase segretamente in uso nel territorio insubrico fino a metà del XX secolo. 6 Cfr. E Coppiati - A. De Giuli - A. Priuli, Incisioni rupestri e Megalitismo nel Verbano, Cusio, Ossola, Domodossola 2003. 7 La cultura di Canegrate fu una civiltà dell'Italia preistorica che si sviluppò a panire dall'Età del bronzo recente (XIII secolo a.C.) fino all'Età del Ferro, nella Pianura Padana in Lombardia occidentale, in Piemonte orientale e in Canton Ticino. Il nome deriva dalla località di Canegrate dove, nel XX secolo, furono rinvenute circa
cinquanta tombe con ceramiche e oggetti metallici. La Cultura di Canegrate rappresenta l'irrompere di una prima ondata migratoria di popolazioni celtiche provenienti dal nord delle Alpi che, oltrepassati i valichi alpini, si infiltrarono e si stabilirono nell'area padana occidentale. Portatori di una nuova ideologia funeraria, soppiantarono il vecchio culto dell'inumazione ed introdussero la cremazione. 8 Tradizione raccolta da Enrico Filippini per T'Archivio per lo Studio delle Tradizioni Popolari", 19, 1900. 9 Cultura di Canegrate (1200 a.C.). 10 R. Corbella, Magia e Mistero nella terra dei Celti, Macchione Editore, Varese 2004. 11 E un monolito di 12 metri di lunghezza su cui sono incise 160 coppelle grandi e piccole, alcune singole, altre unite da lunghi canali filiformi che a volte si perdono sulla pietra o con lunghe code che le fanno sembrare comete, altre ancora unite da solidi canaletti ben scavati. Due composizione ricordano la costellazione dell'Orsa maggiore. 12 Per un esauriente riscontro sulla figura di Lug cfr. P. MacCana, Celtic Mythology, London 1970; L. Gregory, W.B. Yeats, Complete Irish Mythology, London 1902. 13 C. Ranci, La sponda magra. Leggende del Lago Maggiore, Milano 1931. 14 Come al solito si tratta di un antico altare celta recante incisioni rupestri tra cui 13 coppelle, 3 di esse inserite in uno scavo a forma di clava da cui fuoriesce un lungo filiforme, una chiara allusione sessuale rinforzata da 6 forme vulvari completano il raggruppamento. Sul colmo del masso troviamo una coppella di dimensioni e profondità ragguardevoli ed un incisione quadrangolare simile a quelle del Sass de Preja Buja. 15 A A . W , Coppelle e dintorni, in Atti del convegno del Parco Regionale della Spina Verde & Archeologia Comense, Cavallasca 2002. 16 II sostantivo Druida deriva dal gallico Deruidus, irlandese Drui, gallese Derwydd. Tutti questi fonemi hanno in comune la radice sanscrita Veda = Conoscenza. Nello stesso tempo i celti facevano derivare mitologicamente la Conoscenza Magica da un mitico albero di quercia che perciò era chiamato in gallico Dervo, in irlandese Daur, in gallese Derw. Anche il vocabolo celta per indicare il legno (Fid) è molto simile a quello che era usato per indicare la Saggezza (Fios). Questa stretta connessione fonetica suggerisce che per i celti il sacerdote era intimamente collegato al mondo vegetale: infatti Druida potrebbe essere tradotto come "Conoscitore degli alberi" oppure "Saggio dell'albero". Una nuova interpretazione darebbe un altra etimologia: Daur = Quercia è anche sinonimo di Porta, intesa come entrata metafìsica verso un mondo esoterico, avremmo così il "Saggio della Porta della Conoscenza", cfr. C. Matthews, The Way of the Celtic Tradition, Shaftesbury (Dorset) 1989. 17 Un'antica cronaca irlandese (300 d.C. circa) così descrive la Bran Drui in azione: "Il suo mento ed il suo naso erano lunghi ed arcuati (...) ed essa era nera come la schiena di uno scarafaggio. Essa era vestita solo con un mantello di lana grigio scuro
e i capelli spettinati erano così lunghi che le giungevano alle ginocchia. Le labbra aveva contorte. Essa giunse e si appoggiò con una spalla allo stipite della porta, guardò il Re e scagliò il malocchio su di lui". Non sembra una descrizione della nostra classica immagine popolare della strega? T.P. Cross, C.H. Slover, Ancient Irish Tales, Dublin 1936. 18 Molte tribù celte erano a governo matrilineare e guidate da una Regana (regina) considerata una semidea, essa rappresentava la Madre Terra. La Regana si accompagnava ad un famoso guerriero che diveniva il Rix (re) sacro e che a Beitane (la festa di primavera) doveva accoppiarsi pubblicamente e cerimonialmente con lei: il Rix simboleggiava il cielo, la Regana la terra, il pene era il fulmine e la vagina la sorgente, la sperma dell'uomo simboleggiava la pioggia che rendeva fertili i campi. Quando il Rix, invecchiando, non riusciva più ad accoppiarsi egli veniva ucciso cerimonialmente pugnalandolo nella schiena. 19 C. Matthews, King Arthur and the Goddess o f t h e land Rochester 2002. 20 C. Matthews, The Way o f t h e Celtic Tradition, Shaftesbury (Dorset) 1989. 21 C. Matthews, op. cit., 1989. 22 Dagda: divinità che in Gallia era chiamata Dagdadevos e che i romani equiparavano a Dis Pater, con Cernunnos era una delle più antiche divinità indoeuropee. 23 Ad esempio questo era il Geas dei guerrieri sacri, i Gaeseti degli Allobrogi, che combatterono contro i romani a Telamone. 24 Probabilmente da questa Coppa Sacra, misterioso oggetto rituale druidico che permetteva a chi la usava di entrare in diretta connessione con gli Dei, è derivata la leggenda cristiana del Graal. 25 Anonimo Irlandese del III sec. (J. O'Donovan traduttore), Sanas Chormaic, Calcutta 1868. 26 Anonimo Irlandese op. cit. (Fantasiosamente ripreso in un testo di G.V. Caligari - "Il druidismo nell'antica Gallia" Fratelli Drucker, Padova-Lipsia 1904). 27 P.W. Joyce, A social History ofAncient Ireland 1903. 28 B. Cunliffe, The Ancient Celts, Oxford, 1997. 29 Flann O'brien: "At swim two birds", Dublin, 1968 - Pubblicato in Italia da Adelphi e Bompiani con il titolo: Una pinta di inchiostro irlandese, 1939 (P. Berresford Ellis, 1997). 30 I Lingoni erano un popolo celtico della Gallia, stanziato tra i fiumi Senna e Marna (Francia). Alcuni di loro migrarono attorno alle Alpi, stanziandosi nella Gallia Cisalpina (Italia settentrionale), alla foce del Po nella zona del ferrarese (Emilia), attorno al 400 a.C. 31 L. De Paor, Saint Patrick's World, Dublin 1993.
32 L. Gregory, Books ofSaints and Wonders, London, 1903. 33 L De Paor, op. cit. 34 P. Berresford Ellis, 1997.
SAN MASSIMO VESCOVO CONTRO I DEMONI (M. Centini) Il diversificato complesso di fonti sull'effettiva presa di posizione degli evangelizzatori contro le reminiscenze di culti pagani, è molto ampio e si conforma intorno ad una serie di motivi ricorrenti, sui quali si innestano naturali variazioni locali1. In genere, le formule sono stereotipate, ma nei loro multiformi aspetti pongono nitidamente in evidenza la tendenza della Chiesa dei primi secoli a collegare ogni forma religiosa precristiana al culto del diavolo. In questo senso un importante contributo per la conoscenza dei rapporti tra Cristianesimo delle origini e culti pagani del IV e V secolo, ci giunge dalla raccolta dei Sermoni di San Massimo, vescovo torinese che dal pulpito si impegnò dialetticamente ad abbattere la diffusa fede autoctona: "quoties mandavit idem Deus idolorum sacrilegia destruenda"2. Infatti furono proprio le prese di posizione del Cristianesimo delle origini a creare un territorio particolarmente fertile alla tradizione che collocava ogni manifestazione cultuale non cristiana nel gorgo del culto dei demoni. Gorgo dal quale prese forma anche l'accesa lotta contro le streghe. L'unica fonte storica in grado di offrirci una notizia su San Massimo, è la testimonianza di Gennadio, del V secolo, che nel suo elenco degli scrittori cristiani pone il prelato tra i più colti e profondi conoscitori delle Sacre Scritture3. Massimo forse non fu originario di Torino: ne abbiamo infatti un indizio rilevante nei suoi Sermoni in cui afferma: "come dal giorno in cui presi a stare con voi, non ho cessato di
richiamarvi tutti i comandamenti del Signore" {Sermone 33). Gennadio ci comunica che Massimo "moritur Honorio et Teodosio uniore regnantibus"; quindi il vescovo torinese morì tra il 408 (inizio del regno di Teodosio II) e il 423 (fine del regno di Onorio). Non è comunque da escludere la possibilità che vi fossero due vescovi successivi, entrambi chiamati Massimo: il primo fu il celebre santo,vissuto tra il 370 o 380 circa fino al 420; per l'altro invece il periodo indicato sarebbe posto tra il 451 e il 465. Secondo alcune fonti non documentabili, pare che a Massimo I successe Amatore, ma mancano oggettivi riferimenti storici per confermare l'ipotesi. Infatti, ritroviamo la firma di Massimo vescovo di Torino nei verbali dei Concilii di Milano (452) e di Roma (465). Se valutiamo alcuni scritti attribuiti a San Massimo, in effetti isoliamo alcune indicazioni che segnalano una cronologia posteriore al 450. L'omelia 94, In reparatione ecclesiae Mediolanensis, non può essere datata prima del 452, quando cioè questa chiesa fu dedicata; l'identica osservazione per il Sermone 107 "nel quale si nomina Eutiche che cominciò solo nel 448 a spargere i suoi errori; infine l'Omelia 10 e i Sermoni 37 e 43 che contengono frasi chiaramente imitate da San Leone Magno"4. L'atteggiamento fortemente repressivo di San Massimo nei confronti delle pratiche pagane, impone un'importante osservazione cronologica: le sue espressioni non combinano con la legge del 391, poiché San Massimo parla di distruggere gli idoli, mentre Valentiniano II e Teodosio I, nella legge suddetta vietano solo di praticare il culto idolatrico. E quindi probabile che egli alludesse alla legge fatta da Onorio nel 399, che prescriveva di distruggere gli idoli5. Dall'esame dei Sermoni di San Massimo traspare senza dubbio l'immagine di un ecclesiastico attivamente impegnato a diffondere le basi dogmatiche di una Chiesa ancora giovane, certamente non priva di concreti problemi dopo essersi staccata dalla diocesi vercellese. La diocesi torinese assunse un'autonomia ecclesiastica tra la fine del IV e l'inizio del V secolo, quando alla morte del vescovo
Eusebio, si staccò dalla diocesi di Vercelli. Le parole del vescovo torinese sono sapientemente articolate intorno ad una struttura metaforica comunque sempre chiara, che si avvale di puntuali rimandi alla Sacra Scrittura per meglio supportare l'immagine quasi palpabile - evocata. Calato nella quotidianità e nelle problematiche della collettività, San Massimo usò un linguaggio che non si affidava all'astrazione e nei suoi Sermoni ritroviamo un frequente invito alla carità e alle elemosine. Appellandosi in vari modi alla sensibilità dei suoi fedeli, fino a considerarsi "speculator" (sentinella), Massimo sentì certamente molto forte la responsabilità affidatagli e in più occasioni ebbe modo di porre in evidenza la sua amarezza nel riscontrare scarse adesioni tra i suoi uditori. L'accesa lotta contro il paganesimo, condotta con vari mezzi e con azioni decise6, è un altro degli aspetti che rivelano l'impegno catechistico del vescovo torinese. Il tutto attuato con una personalissima convinzione dell'approssimarsi della fine del mondo: "Gerico (...) abbattuta con suono delle trombe (...) come sotto il titolo d'una singola città è rappresentato il mondo, così nel susseguirsi dei sette giorni sono contrassegnati i periodi di settemila anni lungo i quali le trombe delle predicazioni sacerdotali proclamano al mondo la sua distruzione e minacciano il giudizio, come è scritto: Poiché il mondo e quanto è in esso perirà, ma chi fa la volontà del Signore rimarrà in eterno" {Sermone 92; cfr. lGv 2,17). Da un punto di vista tematico, la campagna attuata dal vescovo per abbattere il paganesimo si concretizzò contro gli idoli e gli altari pagani {Sermoni 91; 107; 108), contro le pratiche simboliche effettuate in occasione dell'eclissi lunari {Sermoni 30; 31) e contro le calende di gennaio {Sermoni 63; 68). Se ci affidiamo alle affermazioni di San Massimo, sembrerebbe che certe forme magico-rituali tipiche del paganesimo avessero nella sua diocesi una notevole diffusione, in particolare nelle campagne cir-
costanti, dove evidentemente il Cristianesimo tardò a sedimentarsi. In un primo caso (Sermoned\), San Massimo, sfruttando come monito la formula della fine del mondo, a cui in effetti ebbe modo di richiamarsi più volte, entra nel vivo di una questione cultuale dominata da un forte sincretismo, in cui vibrano ancora i riverberi della religiosità naturalistica: "Non si deve poi tacere come soprattutto a quanti sono sterili, vada rammentato l'approssimarsi della fine del mondo, l'imminente sopraggiungere del giorno del giudizio ed il fuoco della Geenna7. Ciascuno di noi dovrà rendere ragione delle sue azioni e della sua vita e non soltanto della sua ma anche di quella dei suoi subordinati {cfr. Mt 5,29; Me 9,43, n.d.a). Mi rammarico, perciò che voi — anche se non sono i vostri peccati a danneggiarvi - sarete però vincolati dalle colpe di quanti dipendono da voi. In realtà, fatta eccezione di pochi devoti, difficilmente la campagna di ciascuno risulta incontaminata dagli idoli; difficilmente un possedimento si può ritenere immune dal culto dei demoni. Dovunque si offende l'occhio, dovunque è ferita un'anima veramente devota. Puoi volgere lo sguardo dappertutto e scorgi o altari del demonio o segni sacrileghi dei pagani o teste di animali fissate ai confini dei campi; con la differenza che senza testa è chi pur essendo al corrente di quanto avviene sui suoi possedimenti non lo impedisce. Senza dubbio è senza testa quel tale che per un atteggiamento distorto ha gli occhi stralunati come quelli di un animale ucciso ". L'affermazione del vescovo è emblematica e pone bene in chiaro la difficoltà di sradicare totalmente, nel IV-V secolo, il paganesimo dalle campagne torinesi. Resta il fatto che, al di là dell'interpretazione dei non meglio identificati "altari dei demoni e segni sacrileghi", come le "teste di animali fissate ai confini dei campi", bisogna comunque constatare che tutti questi "segni pagani", fanno parte di un patrimonio apotropaico antichissimo e tuttora segnalato dagli studiosi del folklore. Infatti, sugli architravi delle cascine e delle stalle, ancora oggi, non è raro incontrare parti di crani di bovidi o capridi inchiodati in
quelle particolari posizioni perché ritenute validi strumenti contro il malocchio. Secondo quanto riportato da Plinio {Nat. Hist., XIX, 10), una testa equina posta su un palo ai lati di un campo o di un pascolo, aveva il ruolo di proteggere da ogni sventura l'area che risentiva dei benefici influssi del simbolo. In un'altra occasione (Sermone 107), San Massimo ci offre una più articolata visione della persistenza del paganesimo, che da un lato aveva mantenuto integri i suoi aspetti peculiari e le sue forme rituali, dall'altro invece si era fatto composito, diventando un'eterogenea espressione religiosa. In questo particolare contesto, "intolleranza e persecuzioni verso i dissidenti furono la conseguenza negativa d'una concezione della religione che era caratterizzata dalla mentalità antica e che si protrasse nei suoi effetti nel Sacro Romano Impero medievale e sino alle soglie dell'età moderna"8. "Giorni fa, o fratelli, avevo ammonito la vostra carità perché da uomini devoti e santi foste in grado di rimuovere dai vostri poderi ogni contagio degli idoli ed aveste a distruggere dalle campagne tutto l'inganno del paganesimo. Non è certo conveniente che teniate Cristo nel cuore e nelle vostre dimore reniate l'anticristo; che quando voi nelle chiese adorate Dio, quelli della vostra famiglia nei tempietti venerino il diavolo9. E nessuno si ritenga giustificato con dire: Non ho comandato che facessero così, non ho ordinato. In realtà chiunque è al corrente che nei suoi possedimenti sono compiuti atti sacrileghi è lui stesso a comandarli". Le testimonianze del vescovo, confermano l'esistenza di luoghi destinati al culto pagano in area rurale che, a differenza della città, fu più legata alla tradizione religiosa precristiana, secondo i canoni del conservatorismo contadino. Massimo considerò colpevoli anche quanti - e non dovevano essere pochi - tolleravano la persistenza dei culti pagani; lasciare impuniti certi "atti sacrileghi", per il vescovo corrispondeva ad una tacita accettazione degli stessi. A sostegno della sua idiosincrasia per
l'ignavia di certi cristiani, il vescovo ricorse più volte alla Lettera ai Romani in cui San Paolo, elencando le tante aberrazioni dei pagani, conclude sottolineando che tali peccatori "sono degni di morte, non solo se le fanno, ma danno il loro consenso approvando chi le compie" (Rm 1,32). "Tu dunque o fratello, quando vedi che un tuo contadino10 sacrifica e non glielo proibisci, pecchi e non perché gli hai dato la possibilità, bensì perché lo hai permesso ". In questa affermazione di San Massimo è contenuta un'importante testimonianza della sopravvivenza delle forme precristiane nelle campagne ("un tuo contadino sacrifica"): il male profondo dell'idolatria, contaminava le campagne intorno la città, dove una gran quantità di "altari di legno ed idoli di pietra" offrivano un fertile territorio per il diavolo e per gli "dei insensibili"... "Quando il contadino sacrifica il proprietario è contaminato. Non può non essere macchiato quando prende un cibo che un contadino sacrilego ha coltivato, che una terra imbrattata di sangue ha prodotto, che un tetro granaio ha conservato. Dove abita il diavolo, infatti, tutte le cose sono inquinate ed esecrabili: nelle case, nei campi, nei contadini. Non v'è nulla che sia immune all'empietà quando tutto si trova in mezzo all'empietà. Se entrerai nella stanza dei servi vi troverai dei ceppi -bruciacchiati e dei carboni spenti, è un adeguato sacrificio del demonio: supplicare con cose morte una morta divinità". Il peccato del pagano poteva risultare aggravato dal vino, che nei Sermoni appare un'ulteriore caratterizzazione dell'anomalia e della trasgressione religiosa: "se poi esci in campagna, vedi oggetti di culto analoghi: altari di legno ed idoli di pietra. Qui su altari putridi si presta culto a degli dei insensibili. Se poi presti maggiore attenzione e noti un contadino aggravato dal vino, devi sapere che - come dicono - si tratta di un pazzo affetto dal demone Diana o di un aruspice. Una divinità insensata, appunto, suole avere un pontefice delirante. In effetti, un sacerdote del genere con il vino si dispone alle ferite in onore della sua dea in modo che da ubriaco il
disgraziato non percepisca la sua sofferenza. E tutto questo essi fanno non soltanto per intemperanza, ma con l'intenzione di soffrir meno per le ferite in quanto in preda al vino". La credenza del cosiddetto "Dianaticus" ebbe una notevole affermazione per tutto il medioevo, assumendo caratterizzazioni intrinseche fortemente sincretistiche, fino ad essere uno dei "segni" dominanti nell'ambito della caccia alle streghe11. Consapevole della forte componente diabolica insita nel culto pagano correlabile al "Dianaticus", il vescovo nel suo Sermone di fatto si allineava alla politica demonizzante atta a porre in cattiva luce le tradizioni religiose precristiane, al punto di ironizzare sulla forma cultuale, accentuandone le prerogative violente e sanguinarie: "Descriviamo un siffatto indovino: ha la testa arruffata di capelli acconciati in modo femmineo, il petto è nudo, le gambe sono cinte a metà dal pallio; disposto per il combattimento come fosse un gladiatore ha nelle mani una spada. Eppur è peggiore di un gladiatore perché questo è costretto a lottare contro un altro, egli è indotto a combattere contro se stesso. Quello colpisce gli organi altrui, questo dilania le proprie membra. E, se si può dir così, quello è spinto alla crudeltà dal maestro dei gladiatori, questo dalla divinità. Ma giudicate voi stessi se egli così abbigliato ed insanguinato da questo suo tagliarsi sia un gladiatore o un sacerdote? Se, pertanto, per la devozione religiosa dei sovrani è stata abolita l'onta pubblica dei gladiatori, così anche questi gladiatori di pazzia, per il rispetto della cristianità, siano cacciati dalle loro dimore"12. Nell'ampia raccolta dei Sermoni di San Massimo, ne troviamo alcuni sull'eclissi lunare che produsse molta agitazione tra i torinesi, causando fenomeni di isteria collettiva, in cui ancora si agitava il demone del paganesimo. Tra le varie prese di posizione di Massimo, quella contro le irrazionali manifestazioni popolari che si verificarono in occasione dell'eclissi, certamente dimostra in concreto quali dimensioni rag-
giunse un aspetto della superstizione nel V secolo. È interessante notare come il vescovo sia riuscito a mantenere un atteggiamento di distacco, senza scivolare nella mera demonizzazione, ma attribuendo una gran parte delle cause di tali manifestazioni ad un poco morigerato consumo del vino. Massimo però non si affidò alla sola ironia e infine cercò di individuare nella vicenda un aspetto metaforico, destinato comunque a svolgere un ben preciso ruolo pastorale "Verso sera si sono avute tali grida concitate di popolo da far giungere la sua empietà sino al cielo. Quando domandai che significasse tutto quel rumore, mi dissero che le vostre grida prestavano soccorso alla luna in travaglio, aiutata nella sua eclissi13 dalle vostre urla. Da parte mia risi, e restai sorpreso della vostra leggerezza per il fatto che voi, come cristiani devoti, prestavate aiuto a Dio. In effetti gridavate perché a causa del vostro silenzio quell'elemento non andasse in rovina. Prestavate dunque aiuto a Dio come se Egli non fosse per nulla in grado, senza le vostre grida, di preservare gli astri che aveva creato. Fate proprio bene nel prestare soccorso alla divinità in modo che col vostro aiuto possa governare il cielo. Ma se volete farlo più comodamente dovreste stare svegli tutte le notti. Non pensate, però, quante volte la luna, proprio mentre voi dormivate, ha sofferto senza tuttavia precipitare dal cielo? E non è forse vero che verso sera si oscura sempre mentre mai è in travaglio verso il mattino? Ma, secondo voi, essa ha l'abitudine di essere in pena soltanto alla sera, quando il ventre è appesantito dalla cena abbondante e la testa sconvolta da coppe sempre più ricolme. È proprio allora che per voi la luna è in azione, quando anche il vino agisce. Allora, dico, secondo voi è offuscato dagli incantesimi il globo della luna quando dai calici vengono offuscati anche gli occhi. Da ubriaco, dunque, come puoi vedere quando a riguardo della luna avviene in cielo se non vedi quanto a tuo riguardo avviene in terra? (...) Questo è proprio quanto afferma Salomone: L'insensato si muta come la luna (Sir 27,12, n.d.a) (...) Il tuo mutamento è dunque più grave di quello
della luna: la luna patisce la perdita della luce, tu la perdita della salvezza (...) Non voglio allora che tu, o fratello, sia come la luna nel suo venir meno; voglio invece che tu sia come lei quando è piena e salda! A proposito del giusto, infatti è scritto: Come la luna salda in eterno testimone fedele nel cielo {Sai 88,38, n.d.a.)". Nel Sermone 31, Massimo ritorna a parlare dell'eclissi e dopo una premessa che si riallaccia a quanto già sottolineato nel Sermone precedente, il vescovo paragona la Chiesa alla luna attraverso l'impostazione metaforica che caratterizza il suo linguaggio: "giorni fa, o fratelli, abbiamo continuato a contraddire quanti ritengono che la luna possa essere rimossa dal cielo per gli incantesimi dei maghi (...) Abbiamo esortato costoro perché lasciato da parte l'errore pagano, ritornino tanto prontamente alla sapienza quanto prontamente la luna perviene alla sua pienezza (...) Se allora Cristo è più opportunamente paragonato al sole, non paragoneremo forse la Chiesa alla luna? Di fatto essa, come la luna, per brillare tra le genti trae luce dal sole di giustizia è attraversata dai raggi di Cristo, ovvero dalle predicazioni degli apostoli, acquista lo splendore d'immortalità di quel sole". Nella riflessione finale che conclude questo Sermone, è ancora l'esortazione ad abbandonare le adulazioni della magia a dominare l'impegno pastorale di Massimo. Il riferimento ai maghi che si opposero a Mosè (2 Tim 3,8) e a Paolo (At 13,6-11) oifre ancora una volta l'opportunità al vescovo di paragonare ogni pratica magico-simbolica al paganesimo e quindi di demonizzarne le manifestazioni: "In realtà già i maghi Jamnes e Mambres nel resistere ai segni e ai prodigi di Mosé desideravano distruggere la Chiesa, eppure l'incantesimo degli stregoni non potè danneggiare le parole divine. Gli incantatori infatti non possono nulla quando è cantato l'inno di Cristo. Per questo quando Simon Mago fece opposizione a Paolo dinanzi al proconsole Sergio Paolo, attaccava sicuramente la barca della Chiesa e tentava di sconquassarla con malefici artefici eppure fu confutato con tal forza da non vederci più oltre che per la malattia inerente alla magia anche per la perdita degli occhi. In tal modo gli venne contemporaneamente sot-
tratto l'incantesimo e la vista. Non meritava certo d'avere gli occhi del corpo chi non meritava d'avere gli occhi del cuore". L'atteggiamento irrazionale della popolazione in occasione dell'eclissi non va comunque visto come un caso isolato e sorge da tutta una serie di credenze presenti in particolare nella cultura popolare. È ancora il vescovo a fornircene un esempio: "in effetti se alla luna non fosse stato dato dal Creatore una sua finalità, non esisterebbe in tutte le cose il mutamento che conosciamo. In realtà quando la luna cala, il mare si ritrae e quando essa cresce quello aumenta (...) Inoltre, persino dei pesci si afferma che sono più in carne quando la luna è piena mentre risultano vuoti e ridotti di peso quando essa decresce". Sostanzialmente, le superstizioni legate alle eclissi lunari si basavano su credenze che collegavano tali fenomeni ai sortilegi dei maghi e delle streghe. Si riteneva quindi necessaria la partecipazione di tutta la collettività, che con urla e schiamazzi avrebbe così "supportato" l'astro aiutandolo a non morire. Le pratiche adottate dal popolo per "sorreggere" la luna, non vanno interpretate solo come un'azione magica o una forma di religiosità deviata e volutamente opposta al Cristianesimo, sono soprattutto espressioni di un corpus quasi "comportamentale", che era parte integrante nel rapporto tra uomo e soprannaturale (o presunto tale). Quindi, malgrado le spiegazioni di dotti14 che avevano già identificato nell'eclissi lunare un fatto del tutto naturale e le azioni demonizzanti della Chiesa, il popolo continuò per molto tempo a guardare al cielo come allo specchio dell'umore degli dei. Un universo a parte, che confermava agli uomini la costante presenza delle divinità nelle cose quotidiane, nelle più semplici manifestazioni della natura, nei segni soprannaturali difficili da comprendere con i soli strumenti forniti dalla Chiesa. Va comunque ricordato che l'astro ha mantenuto inalterato il proprio simbolismo per molto tempo, creando spesso singolari legami con l'universo del mistero e dell'occulto: "Gli egiziani pensavano che
l'eclissi di luna corrispondesse al divoramento dell'astro da parte della scrofa celeste. Ancora oggi si racconta che gli abitanti del villaggio di Puyvendran, in Dordogna, scontenti delle notti buie, decisero di fare imprigionare la luna piena. Una sera, mentre essa si specchiava nello stagno di un fabbro, venne fatta inghiottire da un'enorme scrofa che vi era stata attirata con della crusca gettata in acqua"15. La credenza che certe creature fossero in grado di divorare la luna, era notevolmente affermata nelle tradizioni della Transilvania, in cui spesso i varcolaci, sorta di stregoni (strigoi) molto simili ai vampiri, erano ritenuti in grado di salire fino al cielo per divorare l'astro notturno: "si crede che i varcolaci siano diversi da qualsiasi altro essere sulla terra. Essi causano le eclissi di luna, ed anche del sole salendo nel cielo e divorando sia il sole che la luna. Alcuni credono che essi siano degli animali più piccoli dei cani. Altri ancora credono che essi siano dei dragoni, o qualche sorta di animale con molte bocche, che succhiano come una forza tentacolare, altri che siano degli spiriti e possono essere chiamati anche pricolici. Essi hanno origini diverse; alcuni dicono che siano delle anime di bambini non battezzati, o di bambini nati da genitori non sposati,maledetti da Dio e trasformati in varcolaci (...) salgono al cielo con il filo e divorano il sole e la luna (...) Essi attaccano i corpi celesti, mordono la luna, così che essa appare coperta di sangue, o fin quando non ne resta alcuna parte (...) Come mai, allora la luna ritorna intera dopo un eclisse se è stata divorata? Alcuni dicono che, poiché la luna è realmente più forte dei varcolaci, essi possono solo morderla, ma alla fine la luna esce vincitrice, poiché il mondo morirebbe se la luna fosse realmente inghiottita"16. Un'altra delle azioni rituali poste al centro delle accuse di paganesimo dal vescovo di Torino, riguarda le ambigue celebrazioni contro le calende di gennaio: "quanti, dopo aver celebrato con noi il Natale del Signore, si dedicano alle feste dei pagani disponendosi, dopo quel celeste banchetto, ad un pasto di superstizione (...) Pertanto, chi vuol essere partecipe delle realtà divine, non dev'esse-
re in compagnia degli idoli. La relazione con l'idolo, poi, si esprime nell'inebriare la ragione con il vino, nel colmare di cibo il ventre, nel torcere le membra mediante i balli (...) Come potete dunque disporvi a celebrare religiosamente l'epifania del Signore dopo che - per quanto stava in voi- celebraste con grande devozione le calende di Giano? Giano, infatti, fu un uomo costruttore di una rocca che è detta Gianicolo ed in onore del quale dalle genti sono state dedicate le calende cosiddette di gennaio. Pertanto, chi solennizza le calende di gennaio pecca, perché tributa ad un uomo morto l'omaggio da rendere alla divinità" (Sermone 63). Massimo sottolinea che tale culto sacrilego si esprimeva in particolare nelle campagne - atteggiamento peraltro noto e evidente anche nei Sermoni citati in precedenza - ma, per la prima volta, avverte i suoi fedeli di evitare non solo: "la comunanza con i pagani, ma anche quella con i giudei. Persino i colloqui con essi costituiscono un grave peccato". L'affermazione suona un po' eccessiva e trasuda smaccatamente quell'antisemitismo che, come ha puntualmente osservato Padovese, si stacca dal modus operandi di un evangelizzatore per eccellenza, Sant'Ambrogio: "siamo sollecitati a non sfuggire quanti sono separati dalla nostra fede e dalla nostra comunità"17. Nel Sermone 98, entrando nel vivo della questione sulle calende, San Massimo puntualizza: "Per volere di Dio è stato giustamente disposto che Cristo nascesse nel mezzo delle feste pagane e che il fulgore della vera luce avesse a brillare tra le tenebrose superstizioni degli errori. Ciò avvenne perché gli uomini, immersi nelle loro vuote superstizioni, vedendo brillare la giustizia della pura divinità, avessero a dimenticare i passati sacrilegi e non avessero a praticare quelli futuri. Qual è la persona saggia che, comprendendo il mistero della nascita del Signore, non condanna l'ebrità delle feste Saturnali e non evita la lascivia delle calende? (...) Vuote superstizioni celebrano il giorno delle calende e vogliono godersela in modo che poi ne deriva per loro tristezza maggiore".
La festa della nascita di Cristo, sovrapponendosi ai Saturnali in modo più o meno diretto, tendeva ad offuscarne il ruolo religioso, assegnando alla tradizione cultuale pagana una collocazione in bilico tra superstizione e culto demoniaco. Secondo un'interpretazione piuttosto diffusa, il Natale di. Cristo risultava il sostituto delle festività pagane del solstizio invernale, come quello di Giovanni Battista aveva occultato i riti del solstizio estivo18. Sull'origine dei Saturnali romani le fonti non sono certe: sappiamo che nella Roma imperiale fra il 17 e il 23 dicembre si eleggeva un rex Saturnaliorum, si dava largo spazio ai banchetti, alle danze e spesso alle orge, inoltre era ammesso pubblicamente il gioco d'azzardo e i ruoli sociali si invertivano. Il tutto era forse una sorta di recupero della mitica Età dell'Oro in cui regnò Saturno. Secondo Macrobio, le statuette di argilla (sigilloria) e le candele che si donavano in occasione dei Saturnali, erano di fatto dei sostituti dei sacrifici cruenti, sicuramente affermati in tempi precedenti19. San Massimo puntualizza sul ruolo prettamente materialista del dono, affermato spesso seguendo una sterile tradizione pagana: "Che è poi questo, che di buon mattino ciascuno se ne va per strada con un piccolo regalo ovvero con doni augurali e si dispone a salutare l'amico prima con il dono che con il bacio, offrendo le labbra al bacio e mettendo la mano nella mano, ma non per rendere una testimonianza di amore, bensì per sciogliere un tributo all'avarizia (...) Come per molti conta di più l'adulazione presente che la remunerazione futura. Infatti, hanno più a cuore il bacio del superiore che la gloria del Salvatore. Il bacio, poi, non va chiamato bacio, poiché è interessato. Anche Giuda Iscariota, infatti, baciò così il Signore, ma mentre si preparava a tradirlo". La tradizione dei Saturnali romani ebbe epigoni anche nell'alto medioevo, determinando accese accuse da parte della Chiesa delle origini. Una tra le prime azioni del Cristianesimo (V secolo) è rin-
tracciatale in un sermone di Asterio (Amasea, Cappadocia), diretto ad evidenziare il ruolo quasi diabolico della questua praticata da uomini mascherati nei giorni precedenti l'Epifania20. Ancora massiccia, circa un secolo dopo, la lotta contro i cortei mascherati che, con la loro azione simbolica, presentavano le antiche tradizioni cultuali dei Saturnali. Il tutto in un periodo particolarmente delicato, in cui si spegne l'anno vecchio e si profila quello nuovo. Cesario di Arles, in più occasioni, ebbe modo di testimoniare lo sdegno dei religiosi contro certe pratiche di chiaro sapore pagano, in particolare le strenne21 e i cortei mascherati22. La mascherata poteva diventare una "pretesa sacrilega di trasformare la creazione divina e di abolire la distanza radicale dell'uomo dalla bestia, o dell'uomo dalla donna: due linee di demarcazione che la civiltà giudaico-cristiana, forse più di ogni altra, ha difeso con la massima fermezza"23. San Massimo conclude il suo Sermone con una nota che non può non farci pensare a certi atteggimenti "divinatori" ancora vivi nelle tradizioni contadine connesse alle calende: "che senso ha poi, che trascorso il giorno, come se per esempio cominciassero a vivere all'inizio dell'anno, se ne vadano fuori città a raccogliere auspici e a ricercare presagi? E a partire da ciò che valutano per sé la prosperità o la durezza dell'intero anno?". Premesse per alcune tradizioni che, come molti sanno, sono rimaste invariate nel corpus della cultura popolare, ma che il vescovo torinese riteneva: "cose inette e ridicole (...) inutili e dannose...".
NOTE 1 Un indicativo esempio per il Piemonte: Philiberti Pingonii Sabaudi, Augusta Taurinorum, Taurini opud Haeredes Nicolai Bevilacquae, 1672. 2 Parte di questo capitolo proviene dal mio saggio Streghe, roghi e diavoli. Iprocessi di stregoneria in Piemonte, Cuneo 1995, pagg. 58-71. 3 Gennadio, De viris illustribus, cap. 41, a cura di E. C. Richardson, Lipsia 1896. 4 E Gallesio, a cura, ISermoni di San Massimo, Torino 1915, pag. 14. L'autore fa riferimento all'edizione S. Maximi Episcopi taurinensis Opera, Roma 1748. Per un'edizione recente: San Massimo: la vita cristiana. Esperienze di comunità con Dio e con i fratelli. Sermoni, a cura da L. Padovese, Casale Monferrato 1989; C. de Filippis Cappai, Massimo. Vescovo di Torino, Torino 1995. 5 "Quante volte proprio Dio comandò di distruggere le contaminazioni degli idoli e mai ci siamo preoccupati di questo dovere. Abbiamo sempre dissimulato, sempre ci siamo rifiutati! In seguito è stata un'ordinanza imperiale a sollecitarci. Rendetevi conto di come questo accrescimento dell'autorità umana rappresenti un'offesa nei confronti di Dio" (Sermone 106). 6 "Il padre non sempre bacia il figlio. Quando si castiga chi si ama si esercita nei suoi confronti un atto di amore. Anche l'amore ha le sue ferite che sono tanto più dolci quando più amorosamente sono inferte" (Sermone 80). 7 Geenna risulta la trascrizione popolare di Ge-Hinnon, che significa "Valle dell'Hinnon": un'area a sud-ovest di Gerusalemme, utilizzata come discarica per i rifiuti della città. NeW Antico Testamento, la zona è chiamata "Valle dei Figli di Hinnon", poiché li si sacrificavano i bambini alle divinità pagane: "Si! I figli di Giuda hanno agito malvagiamente ai miei occhi, oracolo del Signore! Hanno collocato le loro abominazioni nella casa della quale è stato invocato il mio nome, contaminandola, e hanno costruito sulle alture di Tofet, nella Valle di BenHinnon, per bruciare i loro figli e le loro figlie con il fuoco (...) non si dirà più Tofet e Valle Ben-Hinnon, bensì Valle del Massacro e si seppellirà in Tofet perché non vi sarà altro posto" (Grl, 30-32). Sulla memoria di questa tradizione idolatrica, gli abitanti di Gerusalemme considerarono la Geenna sinonimo di luogo infernale, arso dalle fiamme e invaso dalla putrefazione (Is 66, 24; Mt 5, 22; Me 9, 47-48). 8 M. Sordi, Impero romano e cristiano, in A A . W , Problemi di storia delle chiesa, Milano 1970. È interessante ricordare che nel IV-V secolo erano attive "bande di fanatici" che si erano arrogate il compito di rimuovere gli idoli pagani, prima ancora di una effettiva legislazione. Tutto era condotto con spirito purificante e con la convinzione che ciò avrebbe garantito il paradiso. "E che non si trattasse di episodi isolati e di non lievi conseguenze è confermato dal canone sesto del sinodo di Elvira, in cui si legge che non deve essere considerato martire colui che
viene assassinato nell'atto di distruggere un idolo; dichiarazione che lascia trapelare l'ansia dei vescovi dinanzi al manifestarsi di una sorta di guerra santa", C. de Filippis Cappai, op. cit., pag. 57. , 9 Con la demonizzazione delle reminiscenze di culti antichi ancora vivi nelle campagne, ciò che precederftemente era religione, rito diffuso e legalizzato, diventava anomalia, ma soprattutto peccato contro Dio, perché il culto delle divinità in effetti corrispondeva al culto del diavolo. Massimo considera contaminante il culto pagano effettuato in ambito agricolo e nel suo Sermone, sottolinea l'eroismo del martire Alessandro e dei suoi compagni, uccisi ad Anaunia perché cercarono di impedire una lustratio agri. Il rito (Catone, Sull'Agricoltura, 141) consisteva in una processione diretta dal contadino capofamiglia e con l'uccisione di vittime sacrificali, ogni 29 maggio. Nella seconda metà del V secolo la lustratio agri fu sostituita dal vescovo di Vienne Mamerto con le rogazioni. 10 San Massimo ritorna, nel Sermone 107, sul peccato compiuto da quanti, pur sapendo della diffusione di pratiche pagane, non fanno nulla per vietarle: "del resto, chi è al corrente che nella sua campagna si sacrifica agli idoli e non lo vieta, anche se egli risiede lontano nella città, nondimeno quella empia profanazione lo raggiunge; e quantunque sia il contadino a starsene presso gli altari pagani, l'esecrabile contaminazione retrocede sino al proprietario. Infatti ne è reso partecipe se non per la connivenza, certo per conoscenza. Crediamo dunque che torni a vostro vantaggio quando nei vostri poderi impedite il culto sacrilego". L'opinione che i proprietari cristiani avessero il dovere di convertire i loro dipendenti pagani, era diffusa già all'inizio del IV secolo, come risulta di 41° canone del Concilio di Elvira. La diffusione dei culti pagani evidentemente non era facile da arrestare, nonostante "la legge del 392, che sia stata esplicita nel precisare i divieti: sacrifici, offerte ai Lari, ai Penati, al Genio, aruspicina, magia. Né essa aveva trascurato di circostanziare le proibizioni in materia di culti campestri, per cui chi aveva avvolto un albero con sacre bende o aveva eretto un'ara di zolle o bruciato incenso dinanzi a simulacri o, ancora, chi aveva fatto offerte veniva considerato reo di sacrilegio e punito con l'esproprio della casa o del terreno dove era stato consumato il rito superstizioso, se di sua proprietà, multato se era dimostrata l'appartenenza ad altri. Se il proprietario poi risultava complice, a lui era riservata la medesima pena" C. de Filippis Cappai, op. cit., pagg. 55-56. 11 II culto lunare di Diana, considerata una dea della fertilità (venerata come venatrix e nutrix) forse — nell'area geografica in cui operò il vescovo Massimo aveva una discendenza celtica e trovava effettive connessioni con la tradizione cultuale delle Matrone. "Le epigrafi attestano il culto di Diana in Piemonte, tra cui, per l'area torinese, quella di Chieri e di Pino Torinese; a Torino un'iscrizione posta sulla facciata della chiesa dello Spirito Santo ricorda la tradizione secondo la quale lì sarebbe sorto un tempio sacro a quella dea. Infine che Diana potesse invasare conducendo a manifestazioni di follia, come ricorda Orazio, si comprende facil-
mente ricordando che essa era assimilata alla luna, donde l'aggettivo lunáticas usato da Massimo può valere anche come invasato da Diana, così come cerritus significava invasato da Cerere, cioè folle", C. de Filippis Cappai, op. cit., pag. 57. 12 In questa affermazione del vescovo rintracciamo un importante elemento cronologico: infatti dalle sue parole abbiamo modo di constatare che negli anni in cui parlava i giochi dei gladiatori erano stati aboliti. Poiché sappiamo che fu Onorio a sopprimere definitivamente le pratiche nel 404-405, dobbiamo ovviamente porre il Sermone oltre questo periodo. 13 Le rituali chiassate che accompagnavano le eclissi di luna, pare fossero piuttosto diffuse: indubbiamente curiosa l'affinità tra l'episodio di San Massimo e un caso analogo accaduto nel IX secolo in Germania e riportato da J.C. Schmitt. In quel periodo l'arcivescovo di Magonza Rabano Mauro "una notte, tra l'imbrunire e l'inizio della notte" fu messo in allarme da "una così spaventosa vociferazione del popolo che la sua irreligione sembrava dover penetrare in cielo. Quando chiesi loro cosa volevano ottenere con quella chiassata, mi risposero che le loro grida dovevano venire in soccorso della luna sofferente che si sforzavano di aiutare durante la sua eclissi". Quella gente non si contentava di far chiasso, brandendo armi, tirando frecce verso la luna e scagliando torce accese verso il cielo gettava un vero grido di guerra "Vinceluna" (vinca la luna). "Mi misi a ridere e mi stupii che, nelle loro semplicità, quei cristiani andassero in aiuto di Dio come se, malato e debole, fosse incapace, senza l'aiuto delle nostre voci, di difendere l'astro da lui creato", Medioevo superstizioso, Roma-Bari 1982, pag. 79. Sul legame tra la luna e i culti demoniaci e stregoneschi, va ricordato che spesso le divinità femminili considerate la guida delle adepte di Satana, erano identificate con la luna. Un astro "associato alla donna per la ciclicità con cui si manifesta, còme Diana amava la notte ed incarnava, nello stesso tempo, una delle forme della triplice Ecate, la dea della magia adorata con riti misterici, atti soprattutto ad eccitare l'immaginazione. Ecate, onorata in Efeso, con danze di donne insieme alla schiera delle sue seguaci, anime senza sepoltura o morte anzitempo, in cerca di pace", S. Abbiati, A. Agnoletto, M. R. Lazzari, La stregoneria, Milano 1984, pag. 22. 14 Plinio ci offre un'importante documentazione sull'impegno, da parte degli uomini colti e razionali dell'antichità, di interpretare scientificamente l'eclissi lunare: "fra i romani il primo che espose al popolo la causa delle eclissi di Sole e di Luna fu Sulpicio Gallo che, in seguito, fu console insieme a M. Marcello (166, n.d.a), ma allora era tribuno militare. Un giorno prima della battaglia in cui Perseo fu sconfitto da Paolo, invitato dal comandante a parlare davanti alle truppe riunite, predisse un'edissi, liberando così l'esercito dall'apprensione. Dell'argomento in seguito trattò anche in un volume apposito (un trattato andato perduto, n.d.a). Fra i greci il primo a studiare questa materia fu Tálete di Mileto ( a l f i l o s o f o ioni-
co la tradizione ha attribuito la capacità di predire l'eclissi, n.d.a.) che, nel quarto anno della quarantottesima olimpiade, annunciò l'eclissi di Sole che avvenne sotto il regno di Aliatte nel 170 di Roma. In seguito Ipparco {astronomo greco attivo a Rodi e Alessandria nel IIsecolo a. C„ n.d.a) giunse a predire tutte le eclissi di Sole e di Luna che si sarebbero verificate in un arco di ben seicento anni. Questi uomini mirabili, di impegno quasi sovraumano, scoprirono le leggi che regolano i moti di divinità tanto grandi e liberarono dal terrore la misera mente degli uomini che, in tutte le eclissi, paventavano il manifestarsi di delitti ed una specie di morte degli astri (anche le sublimi voci poetiche di un Pindaro e di uno Stesicoro provarono orrore davanti al venir meno del Sole) ed in quelle di Luna, sospettavano la presenza di incantesimi e di pratiche magiche e perciò venivano in aiuto all'astro in travaglio con urla e strepiti. Preso da terrore per l'eclissi anche il generale ateniese Nicia, ignorando la vera causa del fenomeno, non osò far uscire la flotta dal porto e provocò così la rovina della potenza di Atene (forse si tratta dell'eclissi del27agosto 413 a.C., n.da.)", Plinio, Storia naturale, II, 9. Lo Pseudo-Eligio, neli' Indiculus superstitionum et paganorum, specificava: "nessuno deve temere di avviare una nuova impresa con la luna nuova: Dio ha fatto la luna perché segni il ritmo del tempo e attenui le tenebre della notte; non per impedire il lavoro di nessuno o per provocare la follia dell'uomo, come ritengono gli stolti, secondo cui gli indemoniati soffrono per via della luna. Nessuno deve chiamare signori il sole o la luna, né farsene degl'idoli. Sono infatti creature di Dio e servono ai bisogni degli uomini eseguendo l'ordine di Dio". 15 A. Lamontellerie, Les Astres dans un village de Dordogne, in B.S.M.E, LX, 83, citato da J. Bril, Lilith o l'aspetto inquietante del femminile, Genova 1990. 16 I. Otescu, Credimele Taranului despre Cer si Stele, riportato in A. Murgogi, The Vampire in Romania, in "Folklore", Londra 1926, voi. 27, pag. 321. 17 L. Padovese, op. cit., Sant'Ambrogio, Exameron, dies III, ser V 15, 55, Biblioteca Ambrosiana, Roma 1978. 18 E. Lupieri, Giovanni Battista tra storia e leggenda, Brescia 1988. 19 Macrobio, Saturnaliorum convivio, I, 15, 16. 20 A. De Gubernardis, Storia comparata degli usi natalizi in Italia e presso gli altri popoli indo-europei, Milano 1878. 21 Secondo M. Meslin le strenaee.rano legate all'organizzazione sociale romana basata sul clientelismo; tra la fine di un anno e l'inizio di un altro, il patronus distribuiva le sue elargizioni per ottenere i favori dei propri clienti: un atteggiamento decisamente in contrasto con l'ideale cristiano della carità, Lafìte des calendes de Janvier dans l'empire romain. Étude d'un rituel de nouvel An, Bruxelles 1970. 22 Cesario di Arles, Sermons au peuple, 175, t. I., pah. 255, Parigi 1971. 23 J. C. Schmitt, op. cit., pag. 84.
LA QUESTIONE LONGOBARDA (R. Corbella) N: rello studio della stregoneria in Insubria vi è un periodo che purtroppo è stato spesso volutamente ignorato: l'alto Medioevo e più precisamente l'epoca longobarda che va grosso modo dal 500 al 1000 d.C., calcolando anche il periodo dei vari ducati longobardi che furono assimilati ma non distrutti dalla colonizzazione franca e dalla Chiesa di Roma loro alleata che li aveva guardati con sospetto, se non apertamente avversati. Questo perché i Longobardi, pur essendo stati convertiti al Cristianesimo, continuavano a conservare le loro più arcaiche usanze pagane adorando divinità che facevano parte del loro bagaglio di antiche tradizioni norrene1. Una parte importante nei loro antichi riti soprattutto era occupata dalla vipera: i cronisti ci raccontano come l'adorassero sottoforma di idolo in oro o altro metallo prezioso, inoltre, la ponevano nelle proprie abitazioni sulla porta o al di sopra del camino a scopo apotropaico, oppure dipingendola sugli scudi2; ancora con un rituale che ci ricorda le loro origini nomadi: appendendo una pelle di serpente ad un albero sacro3; il rito prevedeva che uomini e donne passassero sotto la spoglia del serpente e gli toccassero la testa come segno di devozione. Vi sono diversi pareri sull'aspetto simbolico con cui veniva rappresentato questo animale divino e totemico: secondo alcuni essa aveva due teste, secondo altri era alata. Probabilmente ambedue le immagini si sono sovrapposte e formavano quell'icona del drago che tanta fortuna avrà nella cultura medievale. Sicuramente il culto longobardo della serpe avrà trovato facilmente il modo di collegarsi agli epigoni di culti precedenti romani4.
In un altro rito che univa il culto degli alberi con quello della serpe, i Longobardi appendevano la pelle e carne di una vipera - da ' poco uccisa ed a cui era stato tolto sommariamente lo scheletro - ai rami di un albero sacro; quindi cavalcando velocemente al rovescio cioè con la parte anteriore del corpo rivolto verso la coda dell'animale, dovevano strappare con una lancia dei brandelli dell'animale appeso all'albero, brandelli che poi, in un modo ricordante la comunione cristiana, essi mangiavano tutti insieme5. L'Historia Langobardorum, di Paolo Diacono è la più importante fonte per la conoscenza delle tradizioni longobarde. Purtroppo questo testo è molto lacunoso e le informazioni che ci dà sulle tradizioni di questo popolo sono filtrate attraverso la tradizione storiografica romana. Paolo Diacono, che scrive nel 700, per inserire la storia del suo popolo nell'ambito del mondo classico a cui pensava di appartenere, ha proceduto ad un lavoro di autocensura mediante una scelta accurata di quegli episodi della storia longobarda, delle sue saghe e miti, che più si adattavano ad un pubblico cristiano-romano, eliminando tutto ciò che potesse essere troppo sfacciatamente pagano e germanico6. Ma nonostante questo lavoro di "pulizia etnica", nel testo di Paolo Diacono e nelle altre poche fonti dell'epoca compaiono alcuni elementi relativi agli usi tribali di questo popolo che sono utilissimi e importanti sotto il profilo etnografico e antropologico: consentono infatti di scoprire attraverso essi una connessione con il mondo della magia e sulle streghe. In particolare alcuni capitoli déX Historia relativi alle origini della stirpe longobarda offrono un raffronto interessante con la tradizione indoeuropea germanico-norrena. Nei miti di fondazione e migrazione di questi popoli indoeuropei, rivestiva sempre un ruolo di primaria importanza una coppia di fratelli gemelli semidivini. Uno dei due fratelli è immortale e guerriero, mentre l'altro è un agricoltore ed è mortale. Quest'ultimo aspetto, ammantato da una componente più prettamente religiosa, è presente anche nella figura femminile che si aggiunge ai due fratelli7. Questa figura di an-
tenato divino femminile è una sciamana. Essa è la madre dei due giovani condottieri: nei primi testi è chiamata sacerdotessa mentre in un testo più tardo, XHistoria Langobardorum (cod. Goth., IX sec.), è detta "profetessa" in realtà è la progenitrice della sciamana longobarda, l'antenata alto medievale delle nostre streghe. Essa nel mito rappresenta quindi la funzione mantico-magico-religiosa e risulta determinante in quello che si configura come il mito di genesi della stirpe longobarda. Si tratta del celebre episodio, - stigmatizzato da Paolo Diacono come "una ridicola favola di Godan e Frea"8 — in cui Gambara prega la moglie di Odino, Frea, di intercedere affinché il dio concedesse ai suoi figli una vittoria sugli aggressori Vandali. Un aspetto interessante collegato alla sfera magico-religiosa è quello relativo alla persistenza tra i longobardi dell'antropofagia rituale e dell'offerta agli dei delle teste recise dei nemici. Il cannibalismo e la conservazione dei crani sono tuttora dei fenomeni ben attestati presso alcune etnie dei nostri tempi e considerate "primitive"9. Il culto dell'antropofagia rituale longobarda non apparteneva ai tempi mitici dell'emigrazione, ma persisteva ancora durante il regno di Alboin, il sovrano-eroe con cui ha inizio la fase "italiana" di sedentarizzazione e formazione del regno. Il cranio del nemico veniva affidato a tre sciamane di nobile famiglia e queste donne procedevano ad una serie di riti10 con i quali annullavano la capacità dello spettro del decapitato a tornare sulla terra per esigere vendetta. L'anima del defunto veniva inoltre "domata" e convinta a servire come spirito protettore il suo uccisore, ciò mediante un banchetto rituale durante il quale le tre sciamane cucinavano parte della carne del morto e se ne cibavano insieme ai guerrieri più importanti. Dopo di che le sciamane (chiamate in longobardo Spacone)11 utilizzavano la calotta cranica per farne una coppa in cui bere. Quel singolare tipo di coppa, era chiamata "skala" in longobardo. Nella narrazione di Paolo Diacono si nomina il trofeo cranico mentre non c'è traccia del cannibalismo rituale: l'avvenuta cristianizzazione dei Longobardi sconsigliava evidentemente di ritenere possibile che un
simile rito avesse avuto luogo in una corte regale ormai "civilizzata". In realtà, presso i Longobardi queste pratiche rituali di tipo canni' balistico sono esplicitamente menzionate nell'Editto di Rothari nei capitoli riguardanti le streghe (capp. 197-198); inoltre appaiono citate come prassi normali presso altri popoli germanici e scandinavi dai quali i longobardi infatti discendevano12. Le sciamane longobarde e in seguito le streghe lombarde-ticinesi che da loro derivano, effettuavano culti, per incrementare la fecondità del gregge: si trattava di una danza molto veloce e spiritata accompagnata da un canto strano, definito dai primi vescovi scandalizzati "nefandum". In questa cerimonia magica veniva uccisa una capra di cui si immolava la testa su di un palo sacro ("pertica" in longobardo) simile a quelli innalzati sulle loro tombe13. Questo rito magico è collegato al mito di Thor/Donar: il dio con uccide due capri di cui fa conservare le ossa e le pelli, con essi sfama se stesso e i compagni, quindi con il suo martello sacro consacra pelli e ossa resuscitando i due animali14. Durante le loro emigrazioni, i Longobardi, ancora pagani, portarono seco dal nord una forma di sciamanesimo tribale istituzionalizzato che si poneva all'interno di una tradizione norrena15 risalente al Neolitico, nella quale la strega o stregone erano al contempo sciamani e sacerdoti, ricoprendo contemporaneamente il ruolo di maghi, indovini, guaritori e sacerdoti custodi delle sacre scritture e del culto.degli dei. Nel mondo germanico a cui appartenevano i nostri antenati longobardi, il soprannaturale e l'organizzazione magica aveva origine in un territorio spirituale e mentale di confine, che giace in qualche punto tra la religione, con i suoi rituali precisi, i suoi dogmi e le sue regole ed il profondo buio del mistero e della ricerca personale tra paure e desideri inconsci. L'attrazione verso la magia, verso il potere che va al di là delle normali capacità dell'uomo, oggi può essere anche un'aspirazione di conoscenza intellettuale, ma a quei tempi era certamente la risposta dell'umile e del debole alle forze apparentemente invinci-
bili della natura. La domanda importante a cui dobbiamo dare una risposta è: il praticante e la praticante longobardi di arti magiche appartenevano ad una precisa gerarchia? Inoltre, seguivano una tradizione che potremmo anche definire scuola ("Scola" in longobardo) 16? A prima vista sembrerebbe che le "Spacone" fossero dei personaggi isolati, sia che vivessero soli nella foresta e agissero su richiesta del popolo che li pagava per i loro incantesimi o cure, oppure fossero come sacerdoti-maghi della "sippe"17 e agissero solo a beneficio della loro gente in particolari momenti di crisi. Dai testi consultati, molto spesso trattanti temi leggendari, parrebbe che questi sciamani fossero quasi sempre donne: infatti, dopo che i longobardi vennero a contatto con la cultura romana e iniziarono ad usare il latino come lingua colta, ecco che il termine "Spacona" venne sostituito da quello di "Strix" e in un secondo tempo con il volgare "Striga". Chi già in giovane età si sentiva portato verso il mondo oscuro della magia, si recava da una sciamana, la quale, in cambio di favori e danaro trasmetteva alla discepola tutta la sua conoscenza magico-esoterica. Poteva essere quella forza gentile e benevola che serve all'amore ed alla procreazione oppure il potere oscuro e terrorizzante che provoca la sventura dell'avversario, il malocchio e l'uso di un'emissario": un proprio doppio animale (uno spirito ausiliare?) che compie vendetta uccidendo per conto nostro. A volte la strega sceglieva un bambina che le sembrasse introversa, solitaria e particolarmente dotata e la "allevava" addestrandola e trasmettendogli tutto il suo potere. La discepola diveniva prima l'assistente, poi la sostituta della strega-sacerdote sino a prenderne il posto. Spesso i discepoli erano diversi e, completato il tirocinio, si dirigevano verso altri territori per praticare in proprio. Oltre all'insegnamento per far "crescere" l'allieva, necessitavano rituali di iniziazione terrificanti e dolorosi, vere e proprie morti e rinascite18. Non sappiamo se vi fossero anche delle vere scuole di magia
dove si preparasse una classe sacerdotale pagana germanica. Non ve ne è traccia nei testi più antichi, così come mancano testi scritti riguardanti incantesimi o rituali magici. Nelle saghe trasmesse oralmente e quindi tramandate dalla tradizione, qualche volta si accenna ad una misteriosa caverna di roccia situata su un monte di cui non conosciamo il nome e tanto meno l'ubicazione, questa caverna era nota come "scuola nera". Pare non vi fossero maestri o custodi, ma le formule e i riti erano scritti sulle pareti. Secondo le leggende si doveva vivere là per tre anni e ripartire nel giorno e nel mese stesso nel quale si era arrivati, pena la morte. Col passare dei secoli e l'affermarsi del Cristianesimo si narra che la "scuola nera" fu chiusa e nessuno ne conoscesse più l'ubicazione. Qualcuno però aveva ricopiato le formule magiche su pergamena scrivendole in latino volgare e se ne trassero due manoscritti: il "libro grigio" che serviva per incantesimi ordinari ed il "libro rosso" con i sortilegi più tremendi. E da notare che si diceva che con il "libro rosso" si potevano evocare gli antichi dei e piegarli al proprio volere. La tradizione orale racconta come più tardi, tra il 1100 e il 1300, molti preti cristiani ed anche alcuni papi durante lo scisma avignonese, divennero maghi e segretamente praticarono occultamente la magia imparata dai due libri. La tradizione germanico-longobarda sosteneva che dopo la morte della strega il suo libro magico fosse sempre sepolto da un suo accolito in un luogo segreto, soprattutto se essa era anche una sacerdotessa dell'antica religione. Il neofita che avesse avuto sentore che la data persona defunta fosse stata una strega, doveva recarsi sulla sua tomba, invocarne lo spettro, costringerlo a parlargli e a rivelargli dove era sepolto il libro degli incantesimi. Con la cristianizzazione totale dei longobardi questi usi segreti andarono perdendosi in quanto furono fortemente osteggiati dall'autorità ecclesiastica. Mantenere il segreto non ebbe più tanta importanza e attraver-
so la tradizione trasmessa con leggende e fiabe, veniamo a conoscere vita, miracoli e nomi di molti di questi stregoni-sacerdoti. Il libro grigio e quello rosso sono mai esistiti o sono solo leggende tardo medievali? Contenevano l'antica sapienza germanica o erano testi degenerati di stregoneria spicciola? La "scuola nera" è realmente esistita? Forse era una grotta-labirinto iniziatico? Possiamo presumere che vi fosse una vera scuola sacerdotale a cui, tra il 400 e il 700 d.C., si riferivano tutte le genti di stirpe germanica, longobardi compresi, e che essa forniva una confraternita di sacerdotesse che poi si inserirono nelle pieghe del Cristianesimo per sopravvivere indisturbate, tramandandosi la loro antica sapienza almeno fino al 1300 e formando una confraternita segreta all'interno della religione cristiana. Questa era, nei secoli precedenti, la vera casta sacerdotale germanica con la sua gerarchia, le sue scuole e i suoi testi scritti? Sono domande che restano per ora senza risposta. Solo una scoperta archeologica che riportasse alla luce la "scuola nera" potrebbe offrire nuove indicazioni. Ma se la scuola nera fosse in realtà un luogo della mente, un sito dove si giunge in stato di trance per avere lampi di conoscenza e percorrere passo dopo passo il labirinto dell'inconscio? Lo sconosciuto compilatore dell'Editto rothariano19 assume una posizione incredula e scettica a riguardo della stregoneria, ma nonostante ciò appare evidente che la questione è ritenuta molto importante se nel capitolo 376 dell'Editto, si sancisce la condanna di chiunque uccida una donna, ritenendola una strega, sia essa di alto o basso rango. Addirittura, nel passo seguente, il re Rothari contempla la possibilità che l'uccisore della "Striga" possa essere un longobardo del più alto lignaggio, uno iudex, legalmente punibile nell'identico modo. Per cui non sorprenderà certo che, la fede nella stregoneria e nelle pratiche delle "Strigae divoratrici di uomini" fosse oltremodo diffusa nella cultura dei longobardi nonostante fosse ufficialmente condannata dal re. A loro onore bisogna dire che
i longobardi più evoluti avvertirono presto la necessità proibire e arginare queste usanze tradizionali legate alla magia nera. Per la società longobarda il momento decisivo di svolta, in senso filo-cattolico e anti-pagano, venne con il regno di Liutprand (713-735), re cristiano e cattolico per definizione, che introdusse sul piano politico-legislativo, per la prima volta nella storia longobarda, leggi fortemente punitive nei confronti degli ultimi pagani e di chi adorasse anche nascostamente le divinità arcaiche. Viene imposto il divieto di consultare indovini e incantatori; è proibito adorare e portare offerte alle sorgenti ed agli alberi un tempo considerati sacri. Per contrappasso Liutprand aumenta enormemente i privilegi accordati alle istituzioni religiose cristiane, sancendo così tra l'altro l'inviolabilità del diritto ecclesiastico. La sciamana-strega longobarda passa da istituzione tribale a iniqua rappresentante di un paganesimo demoniaco al tramonto della sua storia: con Liutprand la sua condanna è irreversibile20.
NOTE 1 Cfr. J. Misch, Die Langobarden, 1970. 2 Forse questo culto longobardo della vipera è alla base della vera origine del simbolo del "Biscione" che orna lo stemma visconteo? 3 Come i celti anche i germani credevano nella sacralità degli alberi e nel loro potere magico. In particolare la quercia, la betulla e l'agrifoglio erano considerati possenti conduttori di magia e tratto d'unione tra questo e gli altri mondi paralleli metafìsici. 4 Ad esempio, Iside, filtrata attraverso una revisione romano-imperiale è mostrata come divinità in grado di controllare i serpenti. 5 La comunione cristianapotrebbe derivare da antichi riti sciamanici di cannibalismo rituale. Nell'ambito eurasiatico tuttora il rito di mangiare insieme nel corso di cerimonie religiose, è presente nei culti Shivaiti (India e Nepal) e nella cerimonia buddista dello Tzog che è il più simile alla comunione cristiana durante il quale ci si comunica con un pezzetto di carne e un sorso di vino (Tibet). 6 Altre informazioni possono esser tratte anche dall'Editto di Rothari del 643 col quale si procedette, al tempo stesso, alla codificazione delle leggi e alla conservazione dei costumi e tradizioni longobarde; ved. anche il catalogo Origo gentis Langobardorum (VIII sec.). 7 G. Dumezil, L'idéologie tripartite des Indo-Européens, Bruxelles, Collection Latomus, voi. XXXI, 1958; ibidem, Mythes et dieux des Germains, essai d'interprétation comparative, Parigi 1939. 8 P. Diacono, Historia Langobardorum, I, 8. 9 La raccolta di teste trofeo e susseguente esposizione dei crani quali simboli di valore e per impadronirsi delle proprietà magiche del nemico ucciso, è tuttora presente presso popolazioni quali i Naga dell'Assam, gli Jivaro dell'Amazzonia e i Dayak del Borneo. 10 L'immolazione del teschio è un rito propiziatorio tipico dei popoli cacciatori del Nord Europa. 11 II termine "Spacona" è poi passato nel dialetto lombardo e quindi all'italiano (spaccone-a) non più col significato di sciamana-strega, ma indicante una persona vanagloriosa che ostenta le proprie prodezze fìsiche e intellettuali. 12 Queste pratiche di cannibalismo rituale sciamanico erano prassi comune tra i Sassoni (il popolo germanico più affine ai Longobardi), i Visigoti, gli Alemanni e i Vichinghi Norvegesi. 13 Le "pertiche" erano pali ornati di disegni incisi e recanti alla sommità scolpito un corvo se posti sulla tomba di un uomo, una colomba se la sepoltura era quella di una donna. A Velate (Varese) uno di questi cimiteri era sul monte San Francesco.
14 Riportato nel poema antico germanico Gylfaginning. 15 Con la parola "Norreno-a" si intende indicare l'antico areale nordico dell'attuale Scandinavia più l'Islanda, la Danimarca e parte della Germania, territori interessati ad una stessa cultura e religione. 16 Nell'antico germanico (longobardo e franco) il termine "Scola" indicava non solo un luogo di insegnamento ma soprattutto una consorteria, un'associazione di persone dedite tutte allo stesso mestiere, o alle stesse arti praticate da fanciulli, imparando cosi il mestiere a cui si restava poi legati per tutta la vita. Celebre fu ai tempi di Carlomagno la "Scola" franca di cavalleria pesante da cui uscirono i famosi "Paladini". 17 Clan allargato composto da più famiglie che si ritenevano imparentate, nucleo base della società germanica primitiva. 18 J. de Vries, Altgermanische Religionsgeschichte, (1° edizione) Voi. I; A. Hofler, Kultische Geheimbunde der Germanen, FranKfurt 1934. 19 L'editto di Rpthari fu la prima raccolta scritta delle leggi dei Longobardi, promulgato da re Rothari nel 643. 20 Paolo Diacono, Historia Langobardorum.
IL MALOCCHIO: UNA FORMA DI STREGONERIA SEMPRE ATTUALE (R. Corbella) Dopo il 1950 si ebbe un impatto culturalmente violento fra i modi di vita ancora arcaici delle piccole comunità dell'Insubria, in cui si era mantenuto intatto quel tessuto di tradizioni riguardanti la stregoneria, la magia ed il sovrannaturale, e la forte espansione industriale verificatasi nella fascia di Pianura Padana adiacente ai rilievi. Questa modernizzazione forzata comportò un aumentato fabbisogno di generi di consumo voluttuari, nonché di comodità impensabili un tempo. L'abitante del territorio rurale lombardo, fino a poco prima spinto dalla necessità di pensare solo in termini di sopravivenza e ad accettare il distacco dalla modernità, lavorando in fabbrica a fianco con l'operaio di città, in contatto con un mondo materialmente più evoluto del suo, non si accontentò più del necessario ma desiderò ottenere il superfluo per sé e la sua famiglia. Nel secondo dopoguerra, con i nuovi stimoli e bisogni dell'era moderna, giunse anche un'ondata di scetticismo e razionalità che portò scoramento, diniego della tradizione e soprattutto vergogna di essere ancora legato alle credenze e superstizioni degli avi. Un altro motivo che condusse alla caduta in disuso delle tradizioni fu dovuto all'abbandono del dialetto che venne sradicato come vergognosa usanza di una volta. In quel periodo post-bellico di fame e ricostruzione, anche l'emigrazione di artigiani specializzati interna (dalla campagna alla città) ed esterna (verso la Svizzera, la Francia e la Germania) stagionale od annuale1 contribuì pesantemente alla confusione delle genti italiche, tanto diverse tra loro, ed al loro sradicamento dalle tradizioni locali. Gli emigrati di quei
tempi, lavorando sodo, riuscirono ad accumulare delle discrete fortune. Però, la maggior parte di essi non tornò più in paese, ma si sistemò stabilmente presso i centri urbani dove si trovavano i posti di lavoro2. Questo fattore lacerò e distrusse il già debole tessuto sociale del micromondo rurale e fu motivo di maggiore confusione ed allontanamento dalle tradizioni degli avi. All'abbandono delle piccole comunità rurali montane, dove più forte era il permanere dei modelli tradizionali di vita, si aggiunse il susseguente taglio trasversale di un turismo dedito all'acquisto di seconde case da utilizzare per pochi mesi all'anno. Un turismo apportatore soprattutto di solitudine spirituale ed alieno all'antico tessuto sociale. Se da un lato questo turismo ha riportato in parte la vita (una vita fittizia ritmata dalle stagioni, o meglio dai giorni legati al "tempo libero") là dove si paventava l'abbandono totale di paesi un tempo floridi, dall'altro ha dato il colpo di grazia non solo al permanere di una cultura tradizionale ormai incapace di sostenere la concorrenza di modelli internazionali urbani, ma anche alla conservazione di un patrimonio di tradizioni e usanze che queste popolazioni alpine avevano accumulato in secoli di storia3. In questa situazione di confusione e sradicamento nonostante tutto sopravvissero segretamente le leggende nella magia, basata sulla credenza che vi potessero essere persone, donne o uomini, che con essa potessero agire nel bene o nel male intervenendo nell'ordine naturale delle cose e nelle vite di altre persone per mutarle e deviarle a loro capriccio, in modo da ottenerne un beneficio personale. Queste credenze, dopo aver covato sotto la cenere come braci ardenti, durante il periodo "razionale" del Boom economico degli anni '60, uscirono nuovamente allo scoperto in modo drastico nel periodo di crisi dei valori che si ebbe quando, dopo il 1980, raggiungendo il culmine del razionalismo superficiale del "non credere a nulla" e del "Dio è morto", iniziò immediatamente la parabola discendente del materialismo mentale per essere sostituito da una nuova spinta spirituale di ricerca. Bisogna dire che il fenomeno delle streghe di Lentate e Gola-
secca era unico nel territorio che oggi fa parte del Parco Naturale della valle del Ticino: infatti più si scende verso la pianura e più si attenua il fenomeno stregonesco. Parrebbe che per quanto riguarda la cultura del magico e dell'esoterico, i contadini della pianura fluviale non abbiano prodotto manifestazioni di particolare rilevanza in rapporto a quanto si può osservare nei comprensori montani. Rileviamo perciò il paradosso di una società sensibile al tema della morte, ai santi, succube dell'autorità clericale spesso in modo superstizioso, ma che non produsse quel volume di credenze esoteriche legate al magico che sarebbe logico attendersi dagli agricoltori, legati come sono ai capricci del tempo e alla fertilità della terra. La spiegazione potrebbe essere fornita da una facilità di controllo e un ruolo sempre vigile ed attento da parte della chiesa locale, abilissima nel ricondurre nel culto religioso cattolico dei santi delle manifestazioni dichiaratamente pagane. Il resto deve averlo fatto il naturale scetticismo che insorge spontaneo in una società ancora agricola, ma urbanizzata o perlomeno situata a ridosso di grossi centri urbani moderni ed industrializzati. Tra questa popolazione rurale di pianura (gallaratese, bustocca) esistono ancora manifestazioni scaramantiche diffuse tra il popolino, ma non così rilevanti da pesare sul comportamento individuale e perciò degne di essere citate. Però, anche in questo contesto positivista, vi è un aspetto segreto e ben nascosto che merita attenzione: quello dell'esercizio della magia personale, spicciola, detta "malocchio" effettuata da alcune donne particolari, quali vedove senza figli e vecchie abbandonate dai figli emigrati in città. In questo caso la magia viene usata quale forma di rivalsa verso le altre donne della comunità, le più fortunate. Infatti, nella pianura insubrica di estrazione agricola c'era (ed esiste tuttora) la convinzione che alcune donne gettassero il "malocchio" o "maldocchio"; così come si pensava che vi fossero altre persone, sempre di sesso femminile, capaci di levarlo. Ma c'erano anche signore a cui veniva riconosciuta una valenza sia attiva che passiva nel "fare malia" e "contro malia"4.
È questo un mondo esclusivamente femminile nel quale gli agenti sono quasi sempre e solo donne e dal quale la componente maschile della comunità è quasi esclusa. I fattucchieri sono una sparuta minoranza rispetto alle fattucchiere e curiosamente i pochi uomini intervistati che ammettevano, con reticenza s'intende, di saper fare il malocchio erano tutti omosessuali. Che questa forma di stregoneria sia un triste appannaggio femminile? Si sono avuti casi di ragazzi con tendenze omosessuali che sono stati sospettati di "gettare il malocchio", proprio a causa del loro comportamento e aspetto femmineo e perciò isolati, ma rispettati e temuti. A volte anche un fanciullo che aveva gli occhi di due diversi colori era considerato portatore di "malocchio" e capace anche inconsciamente di provocare malattie e sfortuna fissando una persona. Un ragazzo di questo tipo non doveva mai essere accarezzato sulla testa o provocato, perché altrimenti si rischiava di scatenare in lui la "malia" negativa5. Il "malocchio" di cui stiamo scrivendo ed in cui si crede ancora nel nostro territorio, non è la cosiddetta "fisica" alpina e prealpina alla quale abbiamo dedicato il capitolo successivo. Il "malocchio" è semplicemente una capacità acquisita da alcune donne di interferire nella vita altrui in senso paranormale negativo, ma alla quale qualunque persona di sesso femminile può accedere. Il "malocchio" non ha radici ben definite nell'antica tradizione popolare e neppure è relazionato in qualsiasi modo a sopravvivenze pagane, o perlomeno collegate ad una qualsivoglia religione alternativa. La donna che pratica il "malocchio" non ha poteri particolari, non può trasformarsi in animale, o comparire e sparire a piacere, influire sulla natura o sugli agenti atmosferici (come nel caso della "fisica"): può, su richiesta d'altri o per mero interesse personale, eseguire delle semplici pratiche, generalmente di magia imitativa e solitamente a base di formule che arrecavano danno ad una persona specifica. Nel caso del "malocchio" la candidata a divenire "maga" (usia-
mo questa parola un poco arbitrariamente non esistendo in queste comunità agricole di pianura, e non a caso, un termine per definire questa "professione") doveva avere alcune caratteristiche precise6, molto diverse tra loro: essere la terza figlia di una "maga", nipote della medesima, nata nei giorni dei solstizi ed altro. Considerando che non esistono assolutamente fonti scritte riguardanti questa particolare forma di stregoneria, gli informatori consultati mi hanno però dato versioni di rituali d'iniziazione all'uso del "malocchio" così perfettamente simili tra loro da far pensare alla presenza di specie di consorteria di praticanti a tutt'oggi molto attiva e particolarmente chiusa verso gli estranei. La trasmissione di formule e rituali avveniva sempre da madre a figlia e, solo in un secondo tempo, si potevano iniziare alla tecnica di gettare il "malocchio" altre donne meritevoli di fiducia, ma al di fuori della stretta cerchia familiare. I riti_e le formule sono generalmente para-cristiani, ovvero come nel Vodoo o nella Santeria brasiliana, utilizzano santi e figure del Vangelo quali mentori e forze trascendentali da cui derivare il potere sopranaturale con cui attuare il maleficio. Questo fatto in se parrebbe addirittura una contraddizione: usare figure religiose che sono un esempio illustre di bontà suprema per danneggiare il prossimo. In realtà, nella mentalità di chi getta il malocchio vi è la convinzione egoistica che egli è il buono e l'avversario da colpire è il cattivo, per cui i santi a cui ci si appella lo aiuteranno a compiere la vendetta o a favorire gli affari a danno di un altro che è il nemico per antonomasia. Mentre la strega tradizionale solitamente "sta dall'altra parte", ovvero rifiuta il Dio cristiano e si appoggia, se non direttamente al demonio, perlomeno a divinità del passato o a forze paranormali quali spiriti della foresta o delle acque, la fattucchiera (o il fattucchiere) che usa il malocchio è solitamente una fervente cristiana, oserei dire una bigotta, per cui i suoi spiriti protettori che sono anche le sue armi vengono scelti tra i suoi santi preferiti. Non per niente i più potenti fattucchieri nel gettare il malocchio su qualcuno, molto spesso invocano in loro aiuto la più
potente santa di tutte: nientemeno che la santa Madre di Cristo. L'iniziazione di una fattucchiera consisteva principalmente nell'insegnamento di una formula rituale che la neo maga si impegnava solennemente a non rivelare a nessuno se non alla propria "erede" dell'arte negromantica. Ovviamente questa formula (o formule?) non sono note e, al di là di quanto detto sopra, non siamo riusciti ad accertarne la tipologia. Vogliamo però riferire una delle poche formule per levare il "malocchio" d'amore di cui siamo giunti in possesso. Premettiamo che in questo caso la "maga" dopo averci offerto il caffè, che ci venne versato non nella tazza ma nel piattino e avere posto al centro del tavolo una pietra, di colore verde scuro e perfettamente ovale, accese una candelina profumata di fronte ad una fotografia della vittima di "malocchio" e al buio completo recitò questa formula: "Malia vai via - esci fuori dalla fotografia- con l'aiuto di Maria, di Gesù e Santa Lucia - fai dispetto a Satanasso entra dentro questo sasso"; il sasso, l'indomani, venne gettato in uno scolo d'acqua piovana posto dietro la chiesa7. Qui si potrebbe arguire che, trattandosi di un incantesimo per scacciare il malocchio, i nomi dei santi sono in fin dei conti un ragionevole scongiuro, ma in un altro caso a cui abbiamo assistito dopo la cerimonia del caffè e della candela, la fattucchiera sputò sulla fotografia della persona da fatturare e la infilzò tre volte con uno spillone declamando: "Trinità e san Gregorio riducete la casa di costui in un mortorio — sant'Antonio e sant'Ignazio fate morire costui nello strazio". In questo tipo di negromanzia, purtroppo tuttora in voga, vi sono delle specializzazioni che potremmo definire i "santi al contrario", il santo ritenuto protettore di un particolare gruppo di esseri viventi viene utilizzato, mediante appositi riti, per procurare il male ai suoi protetti. Ad esempio, sant'Antonio, protettore degli animali, è invocato "al rovescio" per far ammalare e morire il bestiame del contadino nostro rivale; sant'Espedito, che è protettore degli studenti, eccolo diventare il mezzo per distruggere il primo della classe, odiosamente secchione. A volte a queste sconclusionate filastroc-
che pseudo religiose potevano far seguito indicazioni aggiuntive quali l'ordine di procurarsi peli o capelli di colui o colei che si voleva ammaliare. Alcuni dei sistemi ritenuti più efficaci per "fare la fattura" consistevano nel far cadere alcune gocce del proprio sangue sulla fotografìa della futura vittima del "malocchio", ma il modo più potente di gettare il malocchio su una persona consisteva nell'"ungere" di nascosto il nemico con alcune gocce del proprio sudore o fargli bere qualche goccia della propria sperma se lo stregone era maschio, o mestruo, se la strega era femmina, mescolata al vino. I dolci "affatturati" erano un altro modo per far ingerire nascostamente alla vittima queste sostanze umane che si pensava procurassero il "malocchio". Normalmente le donne dedite al "malocchio" esercitavano a pagamento anche l'arte della cartomanzia, oppure sapevano leggere il futuro nei fondi di caffè. Logicamente secondo la tradizione, chi fa il "malocchio" lo può anche togliere e questo ha spinto persone senza ritegno a giocare sulla credulità della gente per guadagnare anche ingenti cifre. Si sceglie la vittima: una persona ingenua e credulona, della quale ci si finge amici. Quindi si fa in modo di nascondergli in casa o nei vestiti qualcosa di inquietante: un insetto trafitto da aghi, un talismano strano, mettendolo in un luogo in cui la vittima lo ritrovi facilmente. Quando poi il poveretto avrà una piccola avversità naturale, ecco che si inizierà ad insistere sulla storia della fattura, del nemico segreto ed altre bagiannate indisponenti. Quando la vittima sarà sufficientemente spaventata, gli si rivela che conosciamo un modo per liberarlo per sempre dalla fattura e ci si fa pagare lautamente per farlo. Cosa si può dire a conclusione di questo capitolo? Purtroppo questa forma di stregoneria è ancora oggi segretamente diffusa, comunque stanno nascendo nuove forme quali il "malocchio" tramite il telefono, posta elettronica o addirittura il televisore...
NOTE 1 In merito all'argomento si consiglia la visione di uno studio approfondito a cura di P. Frigerio, B. Galli, A. Trapletti, Le valli varesine e l'emigrazione delle maestranze d'arte, contenuto in Emigrazione e territorio: tra bisogno e ideale, Varese 1994. 2 I proventi derivati dall'emigrazione, che metteva in circolo nuove risorse e soprattutto il miglioramento delle vie di comunicazione, che rendevano più facili i contatti con Luino, fecero sì che gli abitanti dei piccoli centri montani in un primo tempo aumentassero. Con il sopraggiungere della moderna era industriale, si ebbe un rapido e impressionante declino della popolazione stanziale. 3 P. Astini Miravalle, L. Giampaolo, Monteviasco, storia di un paese solitario, Varese 1974. 4 Inf. M. Franzetti - Gornate (1995). 5 Inf. E. Brugherio - Laveno (2001). 6 Queste caratteristiche variano a seconda degli informatori che abbiamo interpellato e dei vari paesi. Informatori: G. M. di Busto Arsizio, P. Gavazzi di Somma Lombardo, A. G. e Filomena B. di Cassano Magnano. 7 Inf A. Rossetti - Gavirate (1972).
LA "FISICA" (R. Corbella) La tradizione orale riferita alle streghe ed alla stregoneria occulta nell'Insubria non è omogenea: nell'area prealpina occidentale prevaleva la credenza nell'esistenza degli "stroligh" e della "fisica", nella pianura si credeva più genericamente alle "strie" ed al "malocc". La parola chiave dialettale per penetrare nei misteri del mondo fantasticamente pauroso della magia è "fisica"1. Il lettore a questo punto deve essere come un bambino desideroso di conoscere ma non di capire, perché la fisica non va compresa o analizzata con metro scientifico o semplicemente razionale. La magia, di cui la fisica è solo un ramo minore, la si accetta e la si prende come una curiosità folkloristica tipica di un mondo nordico che Celti e soprattutto Longobardi ci hanno lasciato in retaggio2. Con questa parola si indica tutto ciò che non si comprende ma che ha un grande potere paranormale al di là della conoscenza umana, una forza soprannaturale inspiegabile e che travalica religione, modernità e scienza, benevola o malefica a seconda dei casi e del modo con cui la si utilizza. Un potere le cui radici affondano nel passato degli dei pagani collegati alla natura e soprattutto a particolari luoghi in situazioni che riemergono nell'anima popolare dalle profondità dell'inconscio, del caos primordiale. Gli "striunasc" (stroligh, strie, striurì) secondo la tradizione popolare delle Prealpi, erano quelle persone che attraverso un apprendistato doloroso e stravolgente, avevano acquisito capacità paranormali tali da poter interagire con forze cosmiche sconosciute, richiamando in vita poteri ancestrali ultraterreni e utilizzandoli per i loro scopi. Essendo questa stregoneria legata a forme metafisiche natura-
li, è logico che tra i protagonisti delle storie che abbiamo registrato vi siano gli animali. Sono parte dell'immaginario popolare, dell'ignoto, per cui il loro ruolo e potere, molto forte e relativamente facile da realizzare dagli adepti, è però velato di mistero riguardo alla sua sorgente. Alcuni "stroligh" parlano vagamente di un "sciur di beest" (Dio degli animali), né dio né demonio che, se invocato in modo giusto, concederebbe alla "stria" di trasformarsi o apparire sotto forma di un animale innocuo, in modo da poter compiere le sue malefatte senza destare sospetti, ritornando poi alla forma umana quando fosse sicura di non essere osservata3. Quasi tutti gli informatori mi hanno confermato che esisteva, in un tempo molto remoto, un sistema di utilizzo "diverso" della forma animale. "Entrare" con la mente nel corpo di un animale domestico, amato dalla futura vittima del maleficio, serviva alla "stria" per fare la fìsica buja, una sorta di malocchio che qualcuno compiva a danno di altri, grazie a rituali assolutamente misteriosi e non rivelabili ma tramandati da "stria a stria" e, si diceva, contenuti in un misterioso manoscritto detto semplicemente "Il libro" (ur liber griss)^. La fisica si esplica in svariati modi e lo scopo è sempre quello di agire attraverso un "medium" provocato ad arte (animali, rumori, apparizioni, voci, fenomeni atmosferici) per ottenere facilmente qualcosa che danneggi l'avversario e porti fortuna e benefìcio a chi si avvale del mezzo magico. Il linguaggio della fisica, non sempre è immediatamente intelligibile, ma si incanala in passaggi sotterranei, si muove sotto sembianze cangianti, alimenta diversi stati d'animo. L'idea della fìsica, in qualche modo, resta comunque collegata al sacro: alcune chiese e cappellette isolate vengono citate come luoghi maledetti dove "si sente la fisica a fior di pelle", quelli che la sanno fare in quei luoghi possiedono un potere tanto forte quanto misterioso. La "fìsica fa stravegàa", cioè ti fa vedere cose che non esistono. Spesso gli animali del vicino che passavano accanto a certe edicole di santi venivano "incantati", cioè non facevano più latte, o dimagrivano fino alla morte. Perché la strega attraverso i ri-
tuali particolari della "fisica" può impadronirsi esotericamente di una cappella o edicola votiva cristiana, costringendo il santo lì raffigurato (il suo doppio spirituale) a legarsi a lei e a obbedirgli in tutto e per tutto, anche compiendo le peggiori malvagità. Ad esempio, San Grato è il protettore dai fulmini: se la strega si impadronisce magicamente tramite la fìsica di una cappella dedicata a questo santo, lo costringerà a lanciare saette e fulmini su cose e persone a lei ostili. Il protettore trascendentale è spinto dalla fisica ad agire come braccio armato della strega, che ha compiuto il giusto rituale di "cattura", rovesciando la sua "protezione" e trasformandola in terribile minaccia perché costretto ad assecondare il volere della strega che lo ha legato a sé momentaneamente5. Secondo le regole (ma ci sono regole nella magia?) della "fìsica", ognuno di noi ha un suo doppio che vive in un mondo parallelo al nostro, etereo inconsistente ed inconcepibile ai nostri comuni cinque sensi. Questo doppio possiede poteri che vanno al di là della più fervida immaginazione superando tutte le barriere di tempo, gravità e forma tangibile o intangibile. Con questi poteri, detti appunto fisica, la strega può fare ciò che vuole e nemmeno il Dio dei cristiani può fermarla perché se è vero che la fisica è legata ai vecchi Dei pagani della natura e anche pur vero che essa rappresenta il lato oscuro del nuovo Dio cristiano, che attraverso i suoi santi li ha sostituiti. Tanto è vero che, sempre secondo le tradizioni popolari, sarebbero i preti i migliori depositari delle tecniche e dei rituali della fisica. La fisica serviva spesso a fini pratici: una strega in ritardo col pagamento dell'affitto quando vedeva giungere l'incaricato alla riscossione "faceva la fisica" alle portiere dell'auto del malcapitato, che restava così bloccato all'interno. Si racconta di una strega che bloccò in quel modo un messo comunale per tre giorni senza che nessuno riuscisse a farlo uscire dall'auto stregata. Nello sciamanesimo indoeuropeo, che sta alla base della fisica, il mondo nel quale viviamo è solo il primo e più materialistico di una serie di tre mondi paralleli, che compenetrano e avviluppano il pianeta Terra. Le forme di vita presenti sui tre mondi
sono dissimili tra loro come forma e sostanza, ma legate inscindibilmente le une alle altre: ogni forma di vita terrestre ha il suo doppio sugli altri due mondi e ad ogni azione di una forma vivente corrisponde una reazione dei suoi due doppi eterei, dotati di poteri magici e sovrannaturali presenti negli altri due mondi paralleli invisibili. I tre mondi sono il vertice di un triscele che ruotando provoca un vortice di energia cosmica pura da cui ha origine ogni azione che noi attribuiamo alla magia ed alla fìsica. Questa rotazione crea la spirale del potere magico. Il primo mondo è quello degli umani, animali, vegetali, minerali materiali e palpabili. Il secondo mondo è quello dei folletti, gnomi, fate, esseri immateriali ma altamente sviluppati. Capaci di rigenerarsi e vivere per eoni, dotati di grandi poteri paranormali. Il terzo mondo è solo essenza, luce, pura vibrazione ed energia: lì ogni essere presente sul primo mondo (la Terra) ha il suo doppio pura anima e pura energia superiore. Un mondo senza principio né fine dove tutto è possibile e non esiste contrario. E in questo mondo che ognuno di noi ha il suo potere puro e magico con cui attuare cose al di là della conoscenza umana6. Il mezzo per poter contattare ed utilizzare questo potere è appunto ciò che gli stroligh insubri chiamavano fìsica. La donna-strega andava nel bosco di notte, si spogliava nuda e si strofinava contro il tronco dell'agrifoglio per ottenere il potere di fare la fisica e così gettare il malocchio sulle rivali. Una protezione contro la fisica è costituita da un rametto di pungitopo posto sopra il camino oppure la carlina inchiodata sulla porta. In novembre, chi riteneva di essere vittima della fisica raccoglieva rami di agrifoglio che poneva sulla soglia per tenere lontano il "malocchio"; poi, a dicembre, l'agrifoglio vecchio veniva bruciato e si diceva che quando si bruciava un rametto di quella pianta moriva la strega che aveva fatto la fìsica. Vi erano alcune regole rituali per evitare di restare vittime della fìsica: non si doveva mai portare il bestiame agli alpeggi estivi di venerdì; non si seminava nei giorni con le lettera "R" perché altrimenti le piantine colpite da una probabile fisica divenivano cibo per i vermet-
ti (detti in dialetto carioé), se grandinava per evitare che fosse un segno di fìsica con un segno di croce si "rompeva l'aria"7. Quando una strega voleva fare la fìsica ad una famiglia, con una scusa andava a trovarli e quindi rovesciava del sale o del tabacco a terra: così il malocchio avrebbe colpito gli abitanti di quella casa. Una fisica molto potente da usare per fare del male ai giovani uomini era quella detta di sant'Espedito. Questo santo protettore degli studenti adolescenti è raffigurato con un corvo accanto ai piedi: prendendo una penna di corvo e, dopo avere completato su di essa i rituali della fisica, la poneva sotto il materasso del giovinetto che voleva colpire, ecco che questi perdeva la memoria e per quanto studiasse non riusciva più a tenere a mente le lezioni, inoltre era perseguitato da un terribile mal di testa che lo faceva impazzire. Questo è uno di quei casi che con la fisica si costringeva un santo ad agire al contrario, negativamente. A volte una strega residente in un paese voleva che un'altra strega sua amica di un'altra località facesse la fisica ad un suo nemico: così che lei non fosse incolpata, ma risultasse al di sopra di ogni sospetto. In questo caso gli mandava a dire: «Vieni a volo d'uccello». È importante questo modo di dire perché l'uccello, falco, corvo o gufo, raffigurava il mondo della magia, del mistero. Nei casi più tragici si diceva che una strega con la fisica potesse fare ammalare una persona a distanza e farla così morire a poco a poco nell'arco di alcuni mesi. La fisica usata dalle streghe o da certi preti poteva anche servire a scopi benefici: a Brusino nella via detta ancora oggi "streccia du scrii" vivevano alcune streghe di fama, alla fine del 1800 un certo Rinaldi detto "ur Besanell", perché nato a Besano, ogni giorno col suo calesse doveva trasportare le merci da Porto a Brusimpiano. Quest'uomo era un gran bestemmiatore. Un giorno il cavallo che tirava il carro del Besanell si bloccò a metà strada e per quanto il carrettiere lo frustasse o lo incitasse, sembrava trasformato in pietra. Il prete, stanco di sentirlo bestemmiare, gli aveva fatto la fìsica! Solo al calar della notte il cavallo girò su se stesso e, col rischio di rove-
sciare il carretto, tornò da dove era venuto. I giorni seguenti accadde la stessa cosa. Ur Besanel disperato, perchè il suo lavoro di trasportatore andava a rotoli, promise al prete della chiesa di San Martino di Brusino che se riusciva a togliergli il malocchio non solo non avrebbe mai più bestemmiato, ma addirittura avrebbe costruito una piccola cappella dedicata a San Giuseppe in ringraziamento. Il prete accettò e fece la fisica contraria: da allora il cavallo non si fermò più e tutto tornò normale come prima. In fondo questa fisica fu benefica: come una madre punisce, a volte duramente, poi infine perdona conservando intatto tutto il suo potere intriso di magia, di fattura, di religiosa eresia. I parroci dei paesini di montagna di una volta consigliavano ai loro parrocchiani che temevano la fìsica, poiché avevamo offeso in qualche modo una presunta strega, un metodo rituale per proteggersi soprattutto la notte. La protezione consisteva nella seguente filastrocca: "A letto a letto me ne vo, l'anima a Dio la do. La do a Dio e a San Silvestro che mi guardin nel mio letto: il mio letto da quattro canti che li guardino i quattro santi: due da piedi e due da capo e Gesù Cristo da ogni lato"8. Nessuno dei nostri interlocutori dichiara ufficialmente di conoscere queste pratiche rituali, ma tutti si limitano a raccontare ciò che essi hanno appreso da mamme, nonne e persone anziane. E praticamente impossibile farsi raccontare qualche episodio in cui il narratore stesso sia stato protagonista: vi è sempre paura o timore reverenziale. Nei racconti persone e nomi non sono direttamente riferiti se non con preghiera di non rivelarli mai. Comunque, in qualche caso l'informatrice lascia intendere che anche lei qualche volta ha usato la fisica per intimorire o danneggiare una rivale. Da tutto ciò emerge un dato costante: la fisica si faceva per invidia, cattiveria o anche per ottenere giustizia e raddrizzare torti subiti. La fìsica non è un aspetto stregonesco paranormale presente solo in Lombardia e Piemonte, infatti la ritroviamo con il nome "phisica" o "phusica" anche in tutto il territorio della Confederazione Elvetica nonché in Francia e nella Spagna nord-orientale.
NOTE 1 Cornelio Agrippa Von Nettesheim (1486-1535) è uno dei primi filosofi che trattano dell'arte della fisica stregonesca. Agrippa considerava la fisica come parte della filosofia occulta, ovvero sinonimo di magia. Nei capitoli iniziali del suo libro sulla Magia naturale Agrippa aveva delineato il piano dell'opera chiarendo che l'Essere era costituito da tre mondi: quello Elementare, quello Celeste e quello Religioso. Di essi si occupano le tre scienze della fìsica (magia naturale), della matematica (magia celeste) e della teologia (magia cerimoniale). In particolare la mgia ha il compito di tradurre queste tre scienze in atto. 2 Per James Frazer la magia è dominio su forze impersonali e si contrapporrebbe alla religione, perché questa comporta la subordinazione a forze sovrumane ma personali. La scuola sociologica francese vede invece nella religione un atteggiamento positivo della comunità di fronte al sacro, mentre nella magia indica un atteggiamento antisociale dell'individuo di fronte alla comunità. 3 E. Lot-Falck, Les rìtes de chasse chez lespeuples sibériens, Parigi 1953; in questo saggio si affronta con particolare attenzione l'interazione sciamanica uomo-animale. 4 La storia dell'occultismo conosce due tipi di "libri magici": i Grimoires e le Clavicole. I Grimoires sono lo strumento per realizzare operazioni di magia bassa e di magia nera, con le Clavicole operazioni di magia alta. I Grimoires sono una corruzione del francese "grammaires" vale a dire grammatiche. I Grimoires erano tipici della magia bassa e della magia nera ed erano quelli usati da streghe e stregoni. Nei Grimoires si trovano le formule e i rituali legati alla fisica; il Libro Grigio citato dalle nostre streghe, si riferisce probabilmente ad un Grimoires. Le Clavicole invece derivano il loro nome dal latino e significano piccole chiavi. Tale nome viene attribuito ai libri della magia alta o magia bianca. Con le Clavicole si identificano quelle forze mistiche ma razionali espresse per mezzo di segni e simboli che servono ad evocare gli spiriti, ma soprattutto a proteggere dalle infiltrazioni negative durante le esperienze con le scienze occulte. L'insieme di questi libri è stato definito dalla Chiesa "Biblioteca del Diavolo" e questo suo atteggiamento si spiega - oltre che per fatti dottrinari - anche sotto l'aspetto più squisitamente storico: ad esempio, per i rapporti con Io gnosticismo, la Chiesa, ebbe fin dalle origini (II-IV sec.), il problema delle eresie e, quindi quello dell'esistenza di libri contrari alla ortodossia, o comunque non contenuti in un canone (non rivelati). 5 All'inizio del XX secolo, Marcel Mauss sosteneva, tra l'altro, che la magia può realizzare uno stretto collegamento tra iniziato ed alleati soprannaturali, a qualunque religione essi appartengano. In altre parole, l'iniziazione magica avrebbe lo scopo di determinare nell'adepto-iniziato una possessione virtuale ambivalente da parte di forze sovrannaturali.
6 Per approfondire questa interessante teoria vedere l'intera opera di Oberto Airaudi nelle collane "Incontri" e "Cibale" della Casa Editrice Horus di Torino. 7 Esiste una branca di "magia naturale" della quale è quasi impossibile stabilire i confini o le limitazioni, poiché si interseca anche con le grandi religioni tradizionali: Cristianesimo (Esorcismo), Islam (Sufi), Ebraismo (Cabala), Induismo (Tantrismo) e Buddismo (Vajrayana). 8 Con questo scongiuro il letto è considerato uno spazio sacro, inviolabile dalle forze del male perché protetto da quattro santi, uno per ogni angolo. C. Lapucci, Il libro delle filastrocche, Milano 1997. * Tutte le notizie sulla fìsica sono state raccontate all'autore dalla nonna materna, Dolores Peroni, medium e visionaria, che sapeva fare la fisica e leggeva il futuro nei fondi di caffè e da Don Emilio Barbosi suo indimenticabile "prefetto" e insegnante di religione in collegio, nonché studioso per diletto di folklore.
IL FENOMENO DEI BENANDANTI (R. Corbella) Margaret Murray, una studiosa influenzata da J. Frazer1, nel 1921 espresse una sua tesi sul fenomeno della stregoneria nel medioevo che a quei tempi fu presa poco sul serio. Secondo Margaret Murray, gli atti di magia e i convegni notturni descritti dalle imputate, non erano parti favolosi di menti alterate e neppure false confessioni estorte con la forza, ma erano veri rituali segreti di una religione antichissima, un culto preceltico, preromano e soprattutto precristiano, dedicato alla fertilità. Logicamente questo antico culto pagano era visto dai giudici, in massima parte ecclesiastici, solo come una perversione maligna ispirata da Satana in persona che avevano rifiutato Cristo per legarsi al demonio. Per alcuni giudici più illuminati, quelle unioni erano un'alterazione mentale in donne deboli, perciò facilmente influenzabili soggette a possessione diabolica. La tesi della Murray, quando enunciata era probabilmente troppo avanzata per i suoi tempi, per cui venne subito respinta sia dagli storici che dagli antropologi. In tempi recenti questa tesi è stata riabilitata, tanto che oggi nessuno studioso dubita più che le cosiddette orgie di streghe nel sabba non siano altro che una trasformazione in chiave medievale di antichi riti di fecondità agreste. Nel suo libro I Beneandanti, lo storico Carlo Ginzburg2, rivaluta le affermazioni della Murray, dimostrando l'antica presenza, nel Veneto e soprattutto nel Friuli, di un culto della fertilità, in cui compaiono delle curiose figure di stregoni: i Benandanti, gelosi custodi di rituali segreti di fecondità e che si presentavano come difensori dei raccolti e della fertilità dei campi, soprattutto contro i malefici delle streghe e quelli dovuti al maloc-
chio. Questo culto continuò certamente sino agli inizi del XIX secolo: presenza inequivocabile di un retaggio protostorico che si perdeva nella notte dei tempi. I Benandanti erano in primo luogo degli stregoni, benefici ma pur sempre stregoni, riuniti in una setta vera e propria con regole e statuti tramandati oralmente. Si riunivano per congreghe per così dire "regionali", nel senso che vi appartenevano tutti i Benandanti che vivevano in un dato territorio. Dai processi che furono loro intentati a partire dal 1570, si evince che queste singolari figure di streghe e stregoni pensavano che la prosperità e l'abbondanza dei raccolti dell'anno successivo dipendevano sopratutto da una cerimonia beneaugurale complessa e antichissima, che essi dovevano compiere alla fine dell'inverno, tra febbraio e marzo. Proprio nel periodo in cui cadeva l'antica festa celtica di Imbolc, di cui riprendevano alcuni rituali. Il loro rito di fecondità più conosciuto era quello della battaglia. I Benandanti, ritenevano di essere predestinati divinamente alla loro condizione, pensavano che se avessero rifiutato il loro stato di stregoni sarebbero stati maledetti per l'eternità e avrebbero rotto l'equilibrio cosmico. Sapevano di essere stati scelti da Dio per combattere le streghe malvagie e soprattutto per presiedere alla fertilità del suolo. Perciò erano moralmente obbligati a partecipare a quelle battaglie rituali simboliche che permettevano di sconfiggere il malocchio e portare, mediante la loro vittoria, l'abbondanza e la ricchezza delle messi. Tutti i Benandanti avevano dalla nascita un elemento in comune, un segno divino caratteristico che li marchiava: l'essere nati con la camicia, cioè partoriti ancora avvolti nella membrana amniotica. Già agli inizi del Cristianesimo in area culturale celtica si parlava di questa anomalia: essa era chiamata la "lorica"3, l'armatura, e si pensava che il portatore fosse protetto da tutti i tentativi del demonio di impadronirsi della sua anima. Evidentemente, con il passare dei secoli questo fatto venne trasformato dall'immaginario popolare e, non sappiamo per quale motivo, assunse caratteristiche stregonesche e quindi diaboliche. Quest'oggetto (la "camicia") si riteneva proteggesse magica-
mente i guerrieri dai colpi dell'avversario, allontanasse il malocchio e i nemici. Addirittura si reputava che aiutasse persino gli avvocati a vincere le cause. Era un oggetto dalle virtù magiche: e per accrescere queste virtù alcuni portavano in chiesa i resti rinsecchiti di essa chiusi in una teca e nel giorno del loro genetliaco usavano farvi celebrare sopra delle messe. Come abbiamo visto oltre ai poteri magici e sacrali consolidati della "camiciola", vi era anche quello speciale di predestinare gli individui che erano nati entro di essa, volenti o nolenti, al destino di stregoni ed alla professione di Benandanti. Questa particolarità anatomica della loro nascita li legava a doppio filo ad un destino al quale era impossibile sottrarsi, perché era il loro stesso popolo che ve li costringeva, ben lieto di avere al suo servizio un essere anomalo, capace, tramite il suo potere innato, di incrementare i raccolti e proteggerli dagli insetti nocivi, dalla grandine e dalla tempesta, scongiurare la siccità e, cosa di gran lunga più importante per quei tempi oscuri, soprattutto salvarli dal malocchio. Il bambino nato "con la camicia" apprendeva subito dalla comunità di essere un predestinato, nato sotto un "pianeta" speciale, un individuo dotato di poteri unici. Al culmine dell'adolescenza, quando più forte era in lui la tempesta ormonale, improvvisamente un giovedì notte egli sarebbe caduto in un sonno profondo, una specie di catalessi o "trance", un letargo misterioso che poteva durare anche diversi giorni. Un vero e proprio stato di morte apparente durante la quale egli viveva un'esperienza di "uscita" dal corpo in piena coscienza ed entrava in un mondo parallelo, un universo pauroso, popolato da tutti gli incubi contadini e i timori collettivi di quell'epoca. Eventi destinati in futuro a ripetersi per anni con piccole varianti: il terrore della carestia, la speranza di un buon raccolto, l'orrore della guerra, il pensiero di un oltretomba e i dubbi sulla vita ultraterrena a cui il Cristianesimo, perso col rinascimento l'abbrivio ingenuamente glorioso del medioevo, non sapeva più dare risposta. Il Benandante durante questa "trance" si ritrovava a partecipare o assistere a strane cerimonie e magie rituali, con parte-
cipazioni paranormali che, pur essendo puramente oniriche, avevano la caratteristica di sembrare una realtà effettiva. Di conseguenza i Benandanti non mettevano mai in dubbio la fisicità e verità di quei convegni a cui essi, dicevano, si erano recati e avevano partecipato in "spirito", uscendo con la mente dal loro corpo e ritornandovi ad esperienza conclusa4. Quindi, dopo questa prima esperienza sciamanica5 di quando in quando, se c'era bisogno di loro per ripristinare l'armonia cosmica, essi udivano risuonare nella loro mente un rullo di tamburo, il che costituiva un invito coercitivo ad uscire in spirito dal proprio corpo, per recarsi a fronteggiare una schiera di streghe malefiche. Dalle testimonianze offerte dai processi contro i Benandanti, emerge il complesso problema del rapporto tra stregoneria e associazioni segrete giovanili: si noti che i Benandanti entrano nella loro «compagnia» - e il termine stesso è significativo - in un'età precisa, corrispondente all'incirca all'inizio della pubertà, e la abbandonano dopo un certo tempo; inoltre va sottolineato il carattere militare di questa sorta di associazione, provvista di un capitano, ecc.. Dalla prima "chiamata", fino all'età di circa quarantacinque anni, i Benandanti avrebbero partecipato a quelle battaglie visionarie; l'esito decideva dell'abbondanza o della scarsità del raccolto di quell'anno. Combattendo contro le streghe, i Benandanti avevano la possibilità di identificarle: ciò li rendeva molto stimati nelle comunità; inoltre, si riteneva conoscessero il destino dei morti, pur avendo l'obbligo di non svelarlo. Come agivano i Benandanti per assicurare coi loro riti alla comunità un buon raccolto e scongiurare il malocchio? Due gruppi di adepti di sesso diverso (i Benandanti tutti uomini contro le loro avversarie donne che fingevano di essere streghe) simulavano uno scontro simbolico: le donne armate di fasci di spighe di sorgo e gli uomini muniti di mazze di finocchio si battevano ritualmente danzando e frustando gli avversari con le loro "armi" vegetali. Di volta
in volta gli uomini cantavano a seconda del risultato che volevano ottenere: "Noi ci battiamo per il frumento... ci battiamo per l'avena... e per la biada... col combattere che facciamo salviamo la vite e il vino". Questo combattimento rituale veniva eseguito per quattro volte in quattro giorni e ogni volta si combatteva per un tipo di raccolto diverso: se vincevano i Benandanti di quei frutti in quell'anno vi sarebbe stata abbondanza, se perdevano sarebbe stata carestia. Inoltre, essi si battevano simbolicamente sulle reni con rami di finocchio e di sorgo per stimolare il proprio potere generativo e, per analogia, la fertilità dei campi della comunità. Sul costume di combattere finte battaglie durante le quali la cosa importante era l'atto scaramantico di battere o frustare parti del corpo come rito di fertilità, vi sono molte testimonianze in tutta la cultura indoeuropea. Fino a tutto il XX secolo, nei paesi di cultura germanica si usava battere, al principio della primavera o alla fine dell'inverno, uomini o animali con piante o rami d'albero: uso che può essere interpretato simbolico della cacciata degli spiriti maligni dell'inverno ostili al rinnovarsi della vegetazione. Tra i celti alla festività di Imbolc, alla fine dell'inverno quando si faceva uscire il bestiame dalle stalle per portarlo sui pascoli, si usava far saltare gli adolescenti maschi attraverso il fuoco e fustigarli con rametti di salice, al fine di far uscire gli spiriti folletti dai loro corpi resi pigri dall'inverno, rendendoli obbedienti e sani per il resto dell'anno. Più modernamente, in questa tradizione si è voluto vedere un rituale sciamanico volto a comunicare agli uomini fustigati le virtù dell'albero il cui rametto veniva usato come frusta6. I Lupercali erano tra i più antichi riti eseguiti dagli antichi romani: in essi i sacerdoti (i Luperci) correvano attorno al colle Palatino frustando i passanti che, non solo ne erano felici per il ptere fecondante della fustigazione sacra, ma spesso molti di loro chiedevano di ricevere i colpi, soprattutto le donne che così speravano di rimanere incinte o di essere a lungo feconde. Queste dei celti e dei latini erano cerimonie che avevano luogo all'inizio della primavera,
quando la natura si risveglia ed erano volte a propiziare la fecondità di uomini, animali e soprattutto della terra. Per quanto riguarda i culti agrari medievali, non ci resta molto, al di là di leggende orali passate nella tradizione popolare e rimaste in forma fantasiosa nei racconti ottocenteschi, purtroppo ci restano pochi testi scritti che ci illuminino sul soggetto dei Benandanti. Nel medioevo praticamente vi erano solo due grandi classi sociali: i contadini e tutti gli altri. Pochi sapevano scrivere, chi scriveva era generalmente legato in qualche modo alla Chiesa, per cui in questi scritti non si trova molto di interessante: aride cronache vescovili, vite di santi, elenchi di battezzati, attestati di compravendita fondiaria. Del punto di vista contadino non ci resta nulla di scritto fino ai testi originali prodotti nel XVIII-XIX secolo7. La discriminante tra religione delle città e culti nelle campagne merita una breve parentesi. Quando, dopo Costantino, il Cristianesimo divenne prima "religione dominante" e poi "unica religione autorizzata", il nuovo culto fu quasi esclusivamente cittadino, mentre i gli abitanti dei piccoli villaggi agresti, soprattutto in montagna, continuarono ad adorare segretamente i loro antichi dei, tra cui Cernunnos l'antica divinità celta ed il suo epigone greco-romano Pan, il dio pastorale coperto di peli, mezzo uomo e mezzo animale con gambe di capro, corna e zoccoli biforcuti che lasciò in eredità le sue sembianze al nemico di Cristo, il Diavolo. Pan, il dio dei non-cristiani, diviene così l'antidio dei seguaci di Gesù, diventa la rappresentazione di Satana. Non sappiamo sino a che punto questo fatto influenzò il fenomeno popolare e contadino dei Benandanti. Fino al XIX secolo erano in voga due concezioni opposte sul problema della streghe, stregoni e Benandanti: da parte dei cristiani tradizionalisti si credeva che queste persone fossero tutte senza distinzioni adepte di un culto dedicato al demonio, d'altra parte gli "illuminati" o razionalisti che sostenevano essere in realtà solo delle fantasie di vecchie frustrate ed ignoranti, donnette facili preda dei vaneggiamenti dell'Inquisizione, che gli facevano confessare i loro presun-
ti, ma in realtà esclusivamente fantasiosi ed onirici, omaggi a Satana. Nel 900 d.C. il Canon Episcopi, importante testo ecclesiastico, affermava senza ombra di dubbio che stregonerie, malocchio, sabba, culto del diavolo, erano solo fantasie, sogni di donne deboli di mente8. La tesi della fantasia e del sogno, prevalse nella Chiesa fino a metà del 12009 dopo di che, a seguito del proliferare di Catari e Valdesi, iniziarono le persecuzioni contro tutto ciò che anche minimamente potesse insidiare il potere economico e politico della Chiesa trionfante. Nel frattempo le credenze dei Benandanti si erano andate evolvendo nel tempo. Se fino al 1500 i testi relativi ad essi narravano delle battaglie simboliche come del residuo di un culto agrario, un secolo più tardi i testimoni raccontarono il loro culto in modo tale da renderlo simile alla stregoneria legata ad un rituale più o meno satanico: Secondo questi testi (in gran parte estrapolati da cronache giudiziarie) la congregazione eseguiva un rito il cui punto culminante era il solito bacio sul sedere al diavolo nel corso di un sabba sfrenato; era opinione diffusa che il diavolo desse il potere di far le malie, di fare ammalare bambini e rivali, provocare le tempeste. Se essi non effettuavano i malefici il diavolo si vendicava di loro. Il giudizio sui Benandanti velocemente si evolve in peggio. Se prima essi erano visti come maghi combattenti per il bene e la fertilità, ed erano considerati i nemici delle streghe, quelli che tolgono fatture e malocchio, dopo la fine del XVI secolo il popolino e la Chiesa videro nei Benendanti stregoni capaci di fare malefici. Ecco dunque le accuse rivolte contro di loro: i Benandanti, si mormora, mettono talismani dentro i materassi di chi vogliono fare ammalare, preparano pozioni per fare impazzire o uccidere, fanno il malocchio con fatture che pongono sotto lo stipite della porta delle loro vittime, seguono un culto diabolico e regolarmente organizzano orge sfrenate alla presenza di satana in persona. Chi furono in realtà i Benandanti del periodo più tardo? Essi
continuano ad affermare di contrapporsi a streghe estregoni, di lavorare per ostacolarne i disegni malefici, di curare le vittime delle loro fatture. Però non diversamente dai presunti avversari, i "cattivi", anche loro asseriscono di recarsi in sogno a misteriosi raduni notturni, di cui non possono far parola sotto pena di essere bastonati, cavalcando lepri, gatti e altri animali. Ecco quindi lo "strigozzo", il "gioco" o "corso", insomma il sabba, che viene immaginato come un luogo dove si pratica soprattutto un sesso sfrenato, non solo con donne, ma anche sodomia e accoppiamenti con animali e con creature mostruose. D'altronde è risaputo che al sabba può arrivare gente che si è tramutata in animale per potere meglio godere. Il sabba è l'opposto della messa. Lussuria contro castità. Chi frequenta il sabba si autoesclude ed è in contraddizione con la chiesa. Al sabba non si devono mai nominare Dio o i santi, altrimenti si farà adirare gli spiriti demoniaci che lo dirigono. Ormai il passo è compiuto ed i Benandanti non si distinguono più dai comuni stregoni. L'Inquisizione inizia a processarli e dopo i primi processi, nessuno parla più di battaglie simboliche. Ben presto nelle riunioni della congrega, fantastiche o reali che fossero, gli inquisitori vedranno solo messe nere e riti satanici. I Benandanti si riuniscono ormai solo per scambiarsi ricette per fatture e vanterie di malvagità compiute. Se fanno sogni collettivi, vi si vedono intenti solo a baciare il sedere a Satana. Nel XVIII secolo dei veri Benandanti restava ormai solo un ricordo. Furono un fenomeno del Friuli, del Cadore e delle adiacenti regioni slave e in Insubria? Dato il comune retaggio celtico-germanico certamente in antico essi furono presenti tra noi. Nonostante i secoli trascorsi nella tradizione popolare, in un certo qual modo fiabesco e appannato da troppi pregiudizi, figure simili ai Benandanti compaiono nel folklore dell'Ossola e del Ticino: nati con la "camicia", dediti ad una vita errabonda quali negromanti e praticoni di una certa medicina popolare, essi sono solo di sesso maschile e ufficialmente svolgevano lavori quali l'arrotino o il calzolaio ambulante che permet-
teva di errare di paese in paese, senza una base fissa. Il lavoro tradizionale però nasconde il loro vero mestiere: combattere le fatture ed il malocchio in cambio di una manciata di denaro. In Ossola ed in Ticino li chiameranno "matlosa", dal tedesco heimatloss i vagabondi senza patria. Nel 1890 se ne contavano ancora parecchi.
NOTE 1 Margaret Alice Murray (1863-1963) egittologa inglese che con il suo libro Witch Cult in Western Europe (1921) ha posto le basi per teorizzare la presenza di una religione precristiana, collegata al culto della dea madre e comune a tutta l'Europa, che produsse una resistenza segreta clandestina contro il Cristianesimo protrattasi sino ai tempi moderni. Le tesi della Murray, ebbero anche il ruolo di influenzare sia il movimento femminista che la cosidetta "New Age". 2 Nel saggio I Benandanti. Ricerche sulla stregoneria e sui culti agrari tra Cinquecento e Seicento (Torino 1966) Carlo Ginzburg ha reperito negli archivi friulani dell'Inquisizione veneta i documenti relativi ad una serie di processi, avviati in seguito ad una segnalazione di un sacerdote: questi aveva riférito di persone che quattro volte all'anno volavano in spirito ad una battaglia con le streghe. 3 Nei testi sciamanici del nord-europa (vichinghi, irlandesi, lapponi) l'officiante recita all'inizio la formula: "Entro nella corazza del dio...", lo stesso accade nello sciamanesimo amerindiano e nelle formule del primitivo Cristianesimo celta dove si parla della "lorica" o armatura di protezione dai demoni ottenuta indossando una reliquia o un particolare abbigliamento consacrato. Ved.: R.H. Lowie, The Crow Indians (1923); A.L. Kroeber, Handbook ofindians of California (1919); C. Matthews, The celtic Devotional (1980); Anonimo Islandese, Nijls Saga, Rekiyavik Archives (manoscritto). 4 Nel Buddismo Vajrayana tibetano e nella più antica religione Bon, quest'esperienza di uscita dal corpo della mente, viaggio spirituale con visualizzazioni ed esperienze oniriche e rientro nel corpo, è una pratica comune legata a molte divinità Dharmapala. 5 Lo sciamano vero, sia esso asiatico, europeo o amerindiano, si sente chiamato a ripristinare l'ordine microcosmico nel contesto del suo popolo quando l'armonia è distrutta da agenti negativi esterni o interni. Questo egli fa con appropriati rituali, se non lo facesse il suo spirito protettore lo punirebbe. Archivio Corbella - manoscritto A/3: intervista con il padre adottivo dell'autore, lo sciamano Tashunka Wasichun dei Sichangu Lakota (South Dakota 1961). 6 R. Corbella, Celti e Magia e mistero nella terra dei Celti, Macchione editore. 7 W. Mannhardt, Wald und Feld eulte (1875); il Mannhardt raccolse un gran numero di testimonianze tedesche su questo ed altri riti agrari. 8 Questo il testo: "Esistono certe donne depravate, le quali si sono volte a Satana e si sono lasciate sviare da illusioni e seduzioni diaboliche, credono e affermano di cavalcare la notte certune bestie al seguito di Diana, dea dei pagani, e di una moltitudine di donne; di attraversare larghi spazi di terre grazie al silenzio della notte e ubbidire ai suoi ordini e di essere chiamate alcune notti al suo servizio.
Ma volesse il cielo che soltanto loro fossero perite nella loro falsa credenza e non avessero trascinato parecchi altri nella perdizione dell'anima. Moltissimi, infatti, si sono lasciati illudere da questi inganni e credono che tutto ciò sia vero, e in tal modo si allontanano dalla vera fede e cadono nell'errore dei pagani, credendo che vi siano altri dèi o divinità oltre all'unico Dio", 9 Un grande giurista della chiesa, Francesco Giovanni Graziano, nel XII secolo, inserì le tesi riguardanti le streghe del Canon Espicopi in una raccolta di documenti ufficiali.
I PROCESSI A CARICO DEI BENANDANTI1 (R. Corbella) L'Inquisizione, creata per combattere gli eretici, rivolse sempre di più i suoi mezzi contro chiunque si opponesse al credo cattolico, comprendendo nel mucchio anche chi credeva ad antichi riti agrari. Il tutto fu aggravato dalla riforma protestante. Dal XVI secolo, ci furono regolari ispezioni dei vescovi anche nelle parrocchie più sperdute. Giravano per i monti facendo precise domande su tutto e tutti: il minimo sospetto di non-ortodossia bastava a farti finire sotto processo. Nella repressione contro i protestanti finirono così anche i Benandanti, perseguitati fino a tutto il 1600. I processi iniziarono intorno al 1575-1580; gli inquisitori che li arrestarono e interrogarono vennero per la prima volta a conoscenza delle loro credenze e particolarità. Secondo gli stessi inquisitori queste persone, chiamate nei testi canonici dei procedimenti giudiziari "Beneandanti", erano tutti bambini "nati con la camicia", ovvero avvolti nella membrana amniotica, tradizionalmente individui dotati di poteri che gli stessi giudici ritennero straordinari. Gli inquisitori volevano sapere se i Benandanti partecipassero, come le streghe, al famigerato sabba; in effetti gli inquisitori erano in buona fede, essendo ingannati dalla definizione di "stregoni beneandanti" usata dalla gente comune, in particolar modo dai contadini. Gli inquisitori cercarono pressantemente di accumulare testimonianze contro gli imputati interrogando, in molti casi spaventando con minacce di torture, i contadini che si erano serviti dei Benandanti per salvare o incrementare il raccolto. In pratica però fu assai difficile ottenere da questi testimoni risposte coerenti e precise che fornissero quelle notizie che premevano agli inquisitori. In realtà, tutte le depo-
sizioni fornite dai contadini ai prelati della Santa Inquisizione sono molto ricche di particolari sulla vita quotidiana, sul loro lavoro e sulle loro superstizioni spicciole (per esempio leggiamo: "Se mi more la gallina gli è certa che San Espedito che non la ha guardata bene"). Queste testimonianze sono utili per uno studio antropologico ma purtroppo sono molto marginali rispetto allo scopo dell'inchiesta che, ricordiamolo, era quello precipuo di colpevolizzare i Benandanti accumunandoli alle streghe e a tutti i presunti adoratori di Satana. Logicamente, come sempre in queste persecuzioni, vi era anche un risvolto economico notevole: la Chiesa in generale e i parroci locali erano altresì preoccupati dal fatto che il contado, in tempi di carestia o per impetrare la grazia del buon raccolto, si rivolgesse ai più economici Benandanti piuttosto che versare alla parrocchia pingui offerte e ex-voto d'oro e argento perché il curato sistemasse le cose con una messa. Insomma per colpa dei Benandanti per la curia "il piatto piange". Osserviamo, ad esempio, alcuni particolari dell'inchiesta effettuata da un parroco friulano di nome Sgabarizza, per capire fino a che punto c'entrasse la stregoneria con i cosiddetti Benandanti. Questo parroco ha appreso che in un villaggio non lontano, Iassico, vive un certo Paolo Gasparutto, il quale cura gli stregati e afferma di «andar vagabondo la notte con strigoni et sbilfoni (folletti)» Incuriosito, il prete l'ha fatto chiamare. Il Gasparutto ammette di essere stato chiamato per curare un bimbo e di avere dichiarato al padre del fanciullo infermo che «il detto figliolino era stato dalle streghe fatturato, ma che nel tempo della fatura andorono li vagabondi et lo cavorono di mano alle dette streghe, et che se non gli I'havessero cavato dalle mani sarebbe restato morto», quindi gli ha insegnato un incantesimo atto a guarirlo. Incalzato dalle domande dello Sgabarizza, il Gasparutto raccontò che ogni giovedì sera andava insieme con gli altri Benandanti in più campagne dove «combattevano, giocavano, saltavano, et cavalcavano diversi animali, et facevan diverse cose fra loro; et... le donne battevano con le cane di sorgo gl'home-
ni che erano con loro, et li quali non havevano in mano altro che mazze di fìnochio». Sconcertato da questi strani discorsi, il parroco si recò subito a Cividale per confidarsi con l'inquisitore o col vicario patriarcale, e, imbattutosi nuovamente nel Gasparutto, lo fece portare nel convento di San Francesco per farlo inquisire. Alla presenza del padre inquisitore, il Gasparutto confermò senza alcuna esitazione il proprio racconto, fornendo nuovi particolari sui Benandanti di cui faceva parte. Il Gasparutto addirittura si offrì di farli assistere ai loro misteriosi raduni notturni. Gli inquisitori conclusero che esistevano, a quanto pareva, stregoni, come appunto il Gasparutto, «che sono boni, detti vagabondi et in loro linguaggio benandanti» i quali «impediscono il male», mentre altri stregoni «lo fanno». La sostanza di queste deposizioni dello Sgabarizza viene confermata da Pietro Rotaro, padre del fanciullo curato da Paolo Gasparutto. Sospettando che il fanciullo fosse stato stregato, egli si era rivolto a Paolo, poiché questi «ha nome d'andar con detti strigoni, et esser delli bene andanti... et... li streghoni et le streghe quando si partano vanno a far del male, et bisogna che sian seguitati da quelli benandanti per impedirli ». Anche a lui il Gasparutto ha parlato a lungo dei raduni notturni, aggiungendo, su richiesta dei giudici,- particolari sul modo in cui Paolo afferma di recarsi ai convegni, e cioè «in spirito» e a cavallo di vari animali, come lepri, gatti e cosi via. Il Rotaro aggiunge di aver inteso dire che anche a Cividale vi è uno di questi stregoni: un certo Battista Moduco, che chiacchierando sulla piazza ha affermato di essere benandante e di uscire anch'egli la notte del giovedì per andare ai loro raduni. Viene allora chiamato a testimoniare Troiano de' Attimis, nobile cividalese. Questi conferma di aver appreso dal cognato, chiacchierando in piazza, che «in Brazzano erano di questi streghoni, et che anco in Cividale, poco discosto da nói, ne era uno»; allora Troiano, scorgendo Battista Moduco, gli aveva chiesto se per caso fosse anche lui uno di quegli stregoni. Il Moduco rispose che era un Benandante, e che la notte di giovedì, andava con gli altri in certi luoghi lì a far baldoria, ballare, mangiare e bere. Il Troiano non lo interroga più,
pensando tra sé, e lo dirà poi agli inquisitori, che i racconti del Moduca sono tutte fanfaronate. Di fronte a queste testimonianze, l'inquisitore Giulio d'Assisi dovette concordare con la sprezzante conclusione del nobile cividalese, ovvero che in fondo queste storie dei Benandanti erano solo fole e balordaggini di menti malate. Con questa deposizione, infatti, gli interrogatori suscitati dalle confidenze del Gasparutto s'interrompono. Per iniziativa di un altro inquisitore, le inchieste e gli interrogatori sui Benandanti riprenderanno cinque anni, dopo il 27 giugno 1580; il frate inquisitore Felice da Montefalco riprende la causa lasciata a mezzo dal suo predecessore, facendo comparire nuovamente davanti a sé Paolo Gasparutto, uno dei due che si erano proclamati Benandanti. L'uomo dichiara subito di non capire per quale motivo sia stato chiamato. Si è sempre comportato da buon cristiano, confessandosi e comunicandosi ogni anno dal suo parroco; non ha mai sentito dire che nel paese «ci sia alcuno che viva da lutherano, et viva malamente» quindi però si lascia andare ad alcune mezze frasi che, in sostanza, ripetono quanto aveva dichiarato cinque anni prima. La stessa cosa avviene con l'altro interrogato, il Moduco. A questo punto non è certo difficile immaginare lo sconcerto dell'inquisitore che si trova davanti a questi Benandanti, persone evidentemente in buona fede convinte di fare del bene, ma d'altro canto per tanti versi simili a veri e propri stregoni. Eppure essi dichiarano di battersi contro gli stregoni e si atteggiano a difensori della fede cattolica. Di fronte a queste affermazioni degli imputati, l'inquisitore cerca di scavare nel profondo ed esige ulteriori particolari, e sopratutto i nomi di altri Benandanti, poiché i due hanno sempre affermato di non essere i soli rappresentanti della categoria. Il Moduco rifiuta di rivelarli perché teme la loro vendetta, e dice che, se anche egli ormai si è staccato dal gruppo, ritiene tuttora valido il giuramento d'obbedienza e segretezza fatto a, suo tempo. Soltanto di fronte a nuove obbiezioni del frate cede e rivela due nomi, tra cui quello di una donna che aveva tolto il latte a certo bestiame. A questo punto termina l'interrogatorio del Moduco; evidentemente le sue risposte non
l'hanno messo troppo in cattiva luce dinanzi all'Inquisizione, giacché fra Felice lo rimette in libertà. Peggio va a finire per il Benandante Giacomo Tech di Cividale, che viene arrestato e trattenuto per lungo tempo in carcere; molti altri Benandanti inquisiti e processati verranno condannati chi alla prigione chi a remare sulle galere della Serenissima. Le pene saranno sempre abbastanza lievi: da qualche mese a due anni. Questo trattamento piuttosto blando in un epoca di roghi e supplizi, fu dovuto soprattutto alla pertinace lentezza del Sant'Uffizio di Aquileia, nonché, per fortuna, alla sua particolare trascuratezza in materia di Benandanti, considerati per lo più fantasiose creature inventate da contadini ignoranti. Infine, nel 1649 il Beneandante Michele Soppe affermò che i suoi poteri gli erano stati conferiti dal diavolo nel sabba, ma che servivano per combattere le streghe. Poiché ormai i tempi dell'Inquisizione volgevano al termine, rimase impunito. Purtroppo dagli interrogatori e dai processi, che non erano certo rivolti a fini puramente conoscitivi, non riusciamo a trarre molte notizie. Ma anche dalla parte degli inquisiti non vi fu chiarezza: messi alle strette con ripetuti ed approfonditi interrogatori (durante i quali però non si fece mai uso di tortura), i Benandanti iniziarono a fornire risposte evasive attingendo al folklore ed alle superstizioni generali del loro tempo. Ad esempio, generalmente, ammisero di recarsi al sabba ma solo per giustificare la loro conoscenza delle streghe. Solo se teniamo conto della differenza fra gli schemi mentali dell'inquirente e quelli dell'interrogato, possiamo permetterci di ricostruire, sia pure con una certa approssimazione, i costumi e le idee dei Benandanti. NOTE 1 Tutto il materiale di questo capitolo è tratto dai resoconti dei processi raccolti nel saggio di C. Ginzburg, I Benandanti. Ricerche sulla stregoneria e sui culti agrari tra Cinquecento e Seicento, Torino 1966.
RITI A SFONDO "SCIAMANICO" NEL PIEMONTE DEL XV SECOLO (M. Centini) All'interno dei complessi rapporti tra la stregoneria e gli animali, oltre a tutta una serie di contatti eminentemente rituali, ne troviamo anche alcuni il cui ruolo primario sembrerebbe soprattutto di ordine pratico. Però, solo scandagliando con attenzione gli aspetti intrinseci della tradizione, si scorge un sostrato più articolato, che rivela reminiscenze di manifestazioni rituali pagani. Spesso si tratta di forme deviate e maturate in seno ad una realtà popolare, che con ogni mezzo cercava di non perdere i propri atavici legami con la tradizione naturalistica. Ci riferiamo alla presunta capacità delle streghe di resuscitare gli animali mangiati attraverso una misteriosa manipolazione dei loro resti... Una traccia di grande interesse sull'argomento è rintracciabile nel verbale redatto dall'inquisitore in occasione di un processo per stregoneria che, nel novembre 1474, portò al rogo due donne di Levone (in provincia di Torino), Antonia De Alberto e Francesca Viglone, condannate per orribili delitti: dal classico "ammascamento" all'omicidio di bambini, dal furto di animali al culto del diavolo. Ecco alcuni frammenti del processo che riportano con chiarezza la tradizione qui indagata: "d'essere andate (si accusa Antonia e Francesca, n.d.a.) coi loro complici in grandissima comitiva talora di più e talora di meno, coi loro maestri, amanti e demoni infernali, di notte tempo e con altri della setta degli stregoni, dei quali alcuna volta ve n'era cento, altre volte duecento, cinquecento e settecento e più, ed anche tanti da non potersi più numerare e conoscere, al
Pian del Roc, sul monte Soglio, al luogo detto al Porcher, nel prato Aviglio, nella Cepegna, nel prato Lanceo, e in altri molti e diversi luoghi, nei quali menavano danze e facevano le loro sinagoghe, al suono ed ai canti dei demoni infernali, ballavano con essi e cogli altri tutti della loro setta (...) D'essere le predette, andate di notte tempo in corso presso Torino, nel prato Aviglio, ove intervenne tanta gente della setta degli stregoni che era una moltitudine senza fine, la quale appena si sarebbe potuta contare. E dopo di aver ballato al modo solito, alcuni di essi andarono ivi presso in una mandria ove presero due manzi, che furono scorticati nello stesso prato Aviglio, e stregati ed ammaliati in modo che dovessero morire fra breve tempo determinato. Dopoché ne ebbero mangiate le carni uno della società proclamò che tutti quelli che avevano delle ossa le prendessero, le quali involte nelle pelli dei manzi dissero: Sorgi, Ranzola, ed i manzi risuscitarono (...) "'. Nell'ambito della nostra ricerca delle tracce di rituali sciamanici che possano essere riscontrati nelle pratiche della stregoneria, il caso appena citato appare emblematico, poiché propone lo svolgimento di un banchetto sabbatico conclusosi con un ambiguo rituale, contrassegnato da temi richiamanti pratiche caratteristiche del medicine man. Al di là del furto di alimenti da parte di pseudo congreghe notturne, quanto risulta particolarmente interessante è proprio l'aspetto rituale che caratterizza la fine del banchetto: "due manzi, che furono scorticati nello stesso prato Aviglio,e stregati ed ammaliati in modo che dovessero morire fra breve tempo determinato. Dopoché ne ebbero mangiate le carni uno della società proclamò che tutti quelli che avevano delle ossa le prendessero, le quali involte nelle pelli di manzi dissero: Sorgi, Ranzola, ed i manzi resuscitarono". Il caso è reperibile anche in documenti relativi a processi per stregoneria, in particolare quelli celebrati in aree rurali: le ossa degli animali uccisi, dopo essere state poste all'interno delle loro pelli, formando un fagotto, erano percosse con dei bastoni dai parteci-
panti al sabba. Alla fine del rito, gli animali riprendevano vita... Ad esempio, nel 1519 a Modena si svolse un processo per stregoneria in cui una certa Zilia fu accusata, sulla base delle testimonianze raccolte, di aver frequentato ad un sabba (ad cursum) in cui i partecipanti, dopo aver mangiato un bue, ne raccolsero le ossa nelle pelli dell'animale "et veniens ultimo domina cursus, baculo percussit corium bovis et visus est reviviscere bos"2. La testimonianza sulla vicenda fu rilasciata all'inquisitore Giovanni da Rodigo, ma dietro questo nome in realtà si celeva il domenicano Bartolomeo Spina (1474-1576). L'identificazione di questo personaggio non sarebbe in fondo determinate se nella Quaestio de strigibus 3, scritta dallo Spina, non trovassimo una precisa indicazione sulla magia delle ossa e delle pelli riconducibile proprio al processo celebrato a Modena contro la Zilia. Questi i frammenti dei due documenti che ci interessano particolarmente: "mentre erano sul posto vide in quel luogo molti altri, e mangiavano e bevevano e tra tutti mangiarono un intero bue cotto le cui ossa tutti gettavano sulla pelle del bue, e giungendo infine la signora (domina cursus), con un bastone percosse la pelle del bue e fu visto il bue rivivere" (Processo contro Zilia); "infatti dicono che, dopo aver mangiato qualche grasso bue (...) quella Signora ordina che tutte le ossa del bue morto vengano raccolte sopra la pelle stesa di quello e, rivoltandola sopra le ossa per le quattro parti, le tocca con la bacchetta. Il bue ritorna in vita come prima e la Signora ordina che venga ricondotto nella stalla" ( Quaestio de strigibus). Leggermente diversa la versione rintracciabile negli atti di un processo per stregoneria celebrato nel 1505 in Val di Fiemme, in cui le accusate, durante l'interrogatorio, ammisero di essersi riunite al sabba dove mangiarono vacche e vitelli, che il diavolo richiamò in vita attraverso il rito delle pelli e delle ossa4. A differenza delle altre testimonianze note, nel caso del processo trentino il rituale era coordinato dal diavolo e non dalla domina
ludi, Signora Oriente o domina cursus, come risulta nelle altre fonti. Una variante non da poco, che attribuisce ad una figura maschile il compito di catalizzatore all'interno di un rito di tradizione nordica r.he^come vedremo, ha nel dio Thor l'archetipo iniziale. Anche se conosciamo alcune opere precedenti la Quaestio in cui si fa riferimento al rito della resurrezione5, dal raffronto delle fonti appare abbastanza chiaro che il testo dello Spina risentì profondamente della testimonianza della strega modenese. Per inciso va detto che nelle fonti a noi note sulla resurrezione dei buoi e dei vitelli, gli animali riportati in vita erano condannati ad un esistenza breve, quasi la loro immagine fosse una fantasmagoria prodotta dal diavolo e senza alcun riferimento alla realtà. In un caso è anche detto che gli animali resuscitati "unquam sunt bona prò labore". Bartolomeo Spina rifiutava di considerare le visioni delle streghe e i loro voli, mentre le magie erano ritenute frutto di "prò parte quaestionis falsa"; per l'inquisitore era peccato attribuire al diavolo i poteri delle donne datesi a Satana e "delusione omnia contingunt". Di contro però dimostrò particolare attenzione per gli episodi relativi alle ossa e alle pelli di bue. Questa specifica attenzione potrebbe essere dovuta al fatto che il fenomeno della resurrezione di animali in certi casi fu interpretato come un fatto riportabile sul piano della realtà, come testimoniano le tesi di alcuni studiosi coevi allo Spina. Nel suo trattato De incantationibus, Pietro Pomponazzi specificava che "se ciò infatti è parso veramente a qualcuno, e non fu detto a mo' di favola, tali animali non erano realmente morti, come volte si è visto ai tempi nostri (...) se fu vera resurrezione, non fu tuttavia opera dei demoni, ma di Dio stesso"6. Vi era quindi, nella coscienza para-scientifica del periodo, il bisogno di interpretare, senza rinunciare alla riflessione teologica, come un fatto possibile anche certi fenomeni magico-stregoneschi, quale appunto la resurrezione degli animali.
Per lo Spina il fenomeno era frutto di una finzione determinata dai demoni che producevano un corpo fittizio da porre all'interno delle pelli degli animali: l'artificio però era destinato ad avere una breve durata in quanto, quasi sempre, gli animali resuscitati morivano nelle loro stalle dopo alcuni giorni: "quasi macie in horsas exsiccentur ex toto". Per l'autore del De Strigibus, la resurrezione dei buoi effettuata dal diavolo con la mediazione delle streghe, sarebbe un tentativo di scimmiottare l'esperienza straordinaria di san Germano, che resuscitò un vitello offertogli da una famiglia di poveri contadini7. Come nel caso sacrilego delle streghe, anche in questa tradizione agiografica il santo ottenne la sorprendente resurrezione semplicemente toccando le ossa del vitello avvolte nella pelle. Le più antiche fonti che possediamo sullo specifico miracolo di san Germano sono costituite da una Vita Germani e una raccolta, Miracula Germani, entrambi del IX secolo, redatti dal monaco Eirico (citato anche come Enrico) d'Auxerre8. fQuesta sommariamente la vicenda: Germano, vescovo di Auxerre, nella prima parte del V secolo, durante un suo viaggio in Britannia, chiese ospitalità al re ma gli fu negata. Del tutto opposta la reazione di un contadino locale, che se pur povero offrì al vescovo la sua casa e preparò una lauta cena con l'unico vitello che possedeva. Alla fine del banchetto, Germano ordinò "ut ossa vituli collecta diligentius super pellicolam eius ante matrem in praesepio componat" e così il vitello ritornò in vita9. Da Jacopo da Varagine apprendiamo anche che San Germano ebbe modo di incontrare le "bonis illis mulieribus quae de nocte incendut" che avrebbero apprezzato le mense ordinate: queste figure si contrappongono ai diavoli, che disordinatamente si gettavano su tavole e cibi di ogni specie10. Nella vicenda di san Germano percepiamo chiaramente l'intenzione di cristianizzare un mito che, secondo l'agiografo, diventò prova oggettiva della potenza divina. L'esperienza ha però un prece-
dente veterotestamentario, che, se pur con valenze evocatrici diverse, ritroviamo in una visione del profeta Ezechiele: "fu su di me la mano del Signore e il Signore mi fece uscire in spirito e mi fece fermare in mezzo alla pianura: essa era piena di ossa! Mi fece girare da ogni parte intorno ad esse; erano proprio tante sulla superfìcie della pianura, si vedeva che erano molto secche. Mi disse: Figlio dell'uomo, possono rivivere queste ossa? Io dissi: Dio, mio Signore, tu lo sai! Mi disse: Profetizza alle ossa e di' loro: Ossa secche, ascoltate la parola del Signore; così dice Dio, mio Signore a queste ossa: Ecco, 10 vi infonderò lo spirito e vivrete" (37, 1-5). Il mito della resurrezione dalle ossa è rintracciabile anche in altre religioni, in cui, nella sostanza, il ruolo evocativo ha nell'azione magica un topos sostanzialmente invariato11. Così, ad esempio, 11 Corano-, "vi fu un uomo che, passando presso una città distrutta fino alle sue fondamenta, si chiese: Potrebbe Dio ridare vita a questa città? Subito Dio lo fece morire e lo tenne in quella condizione per cento anni. Alla fine del centesimo anno lo resuscitò e gli chiese: Quanto tempo pensi di essere rimasto così? Un giorno od una parte di giorno, fu la risposta. No! Disse Dio, ci sei rimasto cent'anni. Guarda il tuo cibo e la tua bevanda essi sono ancora come li hai lasciati. Ma del tuo asino sono rimaste solo le ossa: ed ora Noi le rivestiamo di carne e lo riportiamo alla vita. Abbiamo voluto darti un Nostro Segno, affinché tu ti renda conto della Nostra Onnipotenza" (II, 259). In genere il rito della resurrezione attraverso le ossa rivela una diffusione geografica molto ampia, che indica come il principio vitale delle ossa abbia occupato una posizione rilevante nella tradizione spirituale di molte culture religiose. NelXHistoria Brittorum, scritta nel Vili secolo, non è menzionato l'episodio delle ossa e delle pelli, però nel testo è detto che San Germano, prima di iniziare a mangiare, ordinò ai commensali di non spezzare alcun osso dell'animale mangiato12. Secondo alcuni interpreti13, l'imposizione di non spezzare alcun osso dell'animale
mangiato, corrisponderebbe ai tabù tipici del simbolismo rituale dei cacciatori. Siamo al cospetto di un motivo che ancora ci riconduce alle culture, in cui i rituali apotropaici connessi alla caccia, svolgevano un ruolo fondamentale nell'apparato magico-religioso. Tale tradizione imponeva che le ossa della preda uccisa, integre e non fratturate, fossero raccolte nelle pelli e quindi seppellite, poiché si pensava che lo spirito della vittima potesse ritornare presso i resti per incarnarsi e ridare vita all'animale. Questa tradizione aveva quindi la funzione di garantire l'abbondanza della selvaggina, attraverso la simbolica rinascita delle prede uccise: un espediente per la conservazione delle specie cacciate e di conseguenza utile per provvedere al mantenimento della comunità. Nelle culture venatorie, i popoli cacciatori praticavano riti tendenti ad annullare simbolicamente la morte della selvaggina, attraverso danze mascherate, inumazione o esposizione delle ossa della vittima: azioni che ridavano allegoricamente la vita all'animale morto, la cui uccisione avrebbe turbato l'ordine naturale14. Le pratiche simboliche che fanno parte della cosiddetta "finzione rituale"15, si connettono alla credenza che gli animali uccisi durante la caccia, possano vendicarsi. Questi riti sono dominati dal primigenio senso di colpa, che viene così in qualche modo esorcizzato mediante l'iter coreutico della cosiddetta finzione post-venatoria. La ricostruzione rituale assume il compito di stabilire un buon rapporto con la vittima, allo scopo di evitare la sua vendetta o una reazione negativa da parte degli altri animali appartenenti alla specie; infine, di ristabilire i rapporti con la divinità, messi eventualmente in crisi dall'uccisione dell'animale, f Esperienze rituali del genere sono rintracciabili nell'antichità classica, in particolare nei Bauphonia, in cui il sacrifico del bue era ritualmente strutturato in modo da eliminare il senso di colpa, trasferendolo dal gruppo umano all'oggetto materiale con il quale si
dava la morte (ascia) che veniva poi estromessa dal gruppo16. La realizzazione di feticci di animali, o addirittura il seppellimento rituale dei resti delle vittime della caccia, tenderebbe a confermare l'esistenza di pratiche definite e connesse alla concezione della caccia come fatto trasgressivo dell'ordine cosmico. Le diverse forme di rituale post-venatorio servono quindi per decolpevolizzare il cacciatore, in modo tale da ritenere inesistente la sua azione, o almeno trasformata. Con la finzione rituale, attivata dalla consapevolezza di agire recitando, si invalidano quelle pratiche venatorie considerate un animalicidio. Attraverso atti e discorsi di riconciliazione (che si rivolgono all'animale chiamandolo nonno, vecchio, amato zio, buon padre, tendenti quindi ad umanizzare l'animale cacciato), l'uomo annulla la propria violenza, giustificandola. In qualche caso il cacciatore finge di incontrare casualmente l'orso: "sei venuto a me principe-orso, tu vuoi che ti uccida...vieni, dunque, la tua morte è pronta, ma io non l'ho cercata"... In altre occasioni, quando ormai l'animale era stato ucciso e scuoiato, i cacciatori si riuniscono e cantano: "ti sei arrampicato su un ontano, sei scivolato e ti sei ucciso. Mangiavi le bacche, sei caduto dalla roccia e ti sei ucciso. Mangiavi le bacche del sorbo, sei caduto e ti sei ucciso, Mangiavi dei lamponi, sei affondato nella palude e ti sei ucciso". La pratica venatoria, quasi sempre un'attività collegata a precise necessità alimentari, è stata demonizzata forse sulla base di paure radicate nel più profondo dell'inconscio; tale atteggiamento appare poi riaffermato in modo già incisivo in epoca classica, come evidenziano numerose testimonianze letterarie. Nei tempi antichi "quando gli uomini offrivano soltanto frutti della terra, non sacrificavano agli dei gli animali né si alimentavano di essi"17. Nella mentalità primitiva l'uccisione di un animale era spesso una sorta di scontro tra realtà apparente e soprannaturale: con la caccia l'uomo, limitato da ferree regole connesse alla sua condizio-
ne, in qualche modo consapevolmente intaccava un equilibrio superiore. Questa alterazione volontaria andava esorcizzata, poiché "modificare l'ambiente, la natura, il ritmo del mondo animale, pur nella indispensabilità imposta dalla legge della sopravvivenza, è provocare l'ira o comunque l'intervento delle forze superiori che governano il mondo. L'uomo cosciente di tutto ciò, ha dovuto ingraziarsi queste forze per renderle comprensive ed il meno possibile ostili, attraverso complessi rituali"'8. Risulta quindi evidente come il valore religioso e mitico dell'animale sia più forte del solo valore pratico; pertanto l'uccisione ha il sé qualcosa dell'animalicidio, un concetto molto evoluto che si esprime chiaramente nel passaggio dallo stato di Natura a quello di Cultura. Tra alcune popolazioni africane era diffusa la credenza che le anime dei bufali e dei leopardi uccisi potessero vendicarsi dei loro carnefici uccidendoli o traendoli in inganno durante la caccia. Alcuni rituali funerari praticati con i resti di animali selvatici (basti citare le sepolture di crani d'orso o le cerimonie con le corna di cervi) che si crede fossero già diffusi nelle ultime fasi del Paleolitico, andrebbero quindi letti come cerimoniali post mortem atti in qualche modo a favorire l'oggettiva rinascita dell'animale. Questo sviluppo rituale potrebbe essere in parte una messa in scena voluta dal cacciatore per risollevarsi dell'animalicidio19. Queste forme di riconciliazione sono già state studiate dagli antropologi all'interno delle diverse culture, in ognuna delle quali si rilevano atteggiamenti e comportamenti eterogenei, in linea con la realtà culturale locale e con le problematiche mitico-religiose interne. Appare ben chiaro che alla base di tutto questo c'è l'ancestrale convinzione di un'affinità tra uomo e animale. Questa consapevolezza insorge nell'uccisore osservando il comportamento dell'animale cacciato, che nel tentativo di sottrarsi alla morte, si comporta in modo molto simile all'uomo. Siamo quindi di fronte ad un cerimoniale che rappresenta "la risposta ritualizzata e tradizionale a una dimensione di malessere del
proprio stato culturale nella sua dimensione di difficoltà, nel suo urto di insopportabilità, malessere che l'impianto di finzione rituale non consolida, ma esorcizza e rende sopportabile"20. E indubbiamente di grande interesse constatare come il rituale delle ossa e delle pelli delle culture di caccia fosse praticato anche dalle streghe, con identiche modalità, in alcune riunioni sabbatiche. La resurrezione degli animali cacciati, sulla quale esiste una specifica letteratura etnologica21, conferma ancora una volta come certe espressioni dei culti pagani22 fossero ben assestate nelle forme simboliche più ermetiche presenti nel meccanismo del sabba, e penetrate nella stregoneria popolare senza variare il proprio apparato rituale. Se gradatamente cerchiamo di ricomporre il mosaico della nostra indagine, per porre all'interno di una sola dimensione rituale pagana la vicenda delle ossa chiuse all'interno delle pelli, dobbiamo necessariamente far riferimento alla resurrezione dei capri del dio Thor. La vicenda che ci interessa in questa occasione è raccolta neW'Edda, e propone delle sorprendenti analogie non solo con la magia attuata dalle streghe, ma risulta particolarmente aderente al noto miracolo di San Germano: "a sera giunsero presso un contadino e là ebbero alloggio per la notte. Verso l'ora di cena Thor prese i suoi capri e li abbattè tutt'e due, poi vennero scuoiati e messi in pentola (...) Thor invitò il contadino, sua moglie e i loro figli a mangiare con lui (...) poi Thor stese la pelle dei capri presso il fuoco e disse al contadino e ai suoi di gettare su quelli pelli tutte le ossa. Thialfi, il figlio del contadino, afferrò l'osso della coscia di un capro e lo divise con il coltello e lo spezzò per prenderne il midollo. Thor trascorse la notte in quella casa. E nel crepuscolo prima di giorno si alzò, si vestì, prese il martello Miolnirr, lo levò in alto e consacrò la pelle dei capri, e i capri si levarono in piedi; ma uno di essi zoppicava. Thor lo notò e disse che il contadino o qualcuno dei suoi non dovevano aver fatto attenzione nel maneggiare le ossa di un capro,
lo riconosceva dal farro che l'osso della coscia era rotto"23. Un aspetto che ben si inquadra nel contesto della nostra analisi, è quello relativo al rapporto esistente tra il dio Thor e la fertilità24: un rapporto che ancora una volta non stona con l'episodio delle ossa e delle pelli, ma che anzi la supporta notevolmente, rivelando intrinseche connessioni con la figura del Signore degli Animali25. "Al martello di Thor appartiene tuttavia la potenza di far rinascere, con esso egli rende la vita ai capri macellati quotidianamente per il banchetto degli dei, purché le ossa siano conservate intatte, raccolte nelle pelli dell'animale"26. Di fatto quindi, attraverso convergenze e sovrapposizioni, il mito primitivo non fu mai cancellato27, subendo una profonda trasformazione nella testimonianza agiografica di san Germano e una repentina demonizzazione nella stregoneria28. Pertanto, se nel dio Thor possiamo scorgere i riflessi del mitico Signore degli animali della tradizione venatoria più antica, di contro abbiamo modo di vedere in san Germano un personaggio cristiano in cui ancora permangono le tracce del medesimo mito, anche se in un contesto (quello del mondo gallo-romano) leggermente diverso da quello scandinavo29. E interessante notare che l'avvertimento di San Germano di non spezzare le ossa dell'animale mangiato, ci offre delle opportunità per ampliare la riflessione intorno alla questione qui affrontata. Ne abbiamo testimonianza attraverso Propp: "tra i Lopari (abitanti della penisola di Kola) se per caso un osso veniva mangiato da un cane, il cane veniva ucciso e l'osso della renna era sostituito dal corrispondente osso del cane"30. La tradizione è reperibile anche nelle credenze della stregoneria in cui si riferisce che "domina ludi precipit eis quod servent ossa"31. Ma l'esempio più interessante è riscontrabile nella deposizione rilasciata dalla presunta strega Pierina de Bugatis (1390), in cui, come al solito, troviamo il mito della resurrezione degli animali attraverso il rito delle ossa e delle pelli effettuato dalla "Signora Oriente".
Ma se l'artefice della pratica, nel riporre le ossa si fosse accorta che ne mancava qualcuna, la sostituiva con del legno di sambuco 32... Anche nella tradizione leggendaria armena troviamo una vicenda che riconduce a questo motivo: un invitato ad una festa si trattenne una costola di bue che gli era stata offerta. In seguito, gli spiriti che raccolsero tutte le ossa dell'animale per farlo rivivere, furono costretti a sostituire la costola mancante con un ramo di noce33. E di certo interessante segnalare che nella Roma classica si riteneva che le striges riempissero di paglia i corpi delle loro vittime. Da Burcardo di Worms sappiamo che le streghe ponevano al posto del cuore di quanti avevano subito il loro maleficio "stramen aut lignum". Anche in alcuni processi per stregoneria del XVI secolo troviamo traccia di azioni del genere, in cui le inquisite confessarono di aver asportato il cuore di quanti avevano ucciso e di aver inserito stracci e paglie all'interno del corpo34. L'analogia offre l'occasione per scorgere una vivida continuazione del mito penetrato nella stregoneria attraverso vie che si sovrappongono e si intersecano, riportando in superfìcie esperienze rituali di tradizione sciamanica. Anche il. fatto che nella deposizione della de Bugatis si facesse riferimento alla "Signora Oriente", è di certo un'indicazione preziosa destinata a porre in luce la consapevolezza da parte della strega di essere di fronte ad una figura per così dire "esotica". Alla vicenda fin qui descritta corre in parallelo la documentazione etnologica sulla consuetudine di avvolgere i cadaveri all'interno di pelli di animale, un riferimento di certo ricco di stimolanti occasioni di riflessione35. Inoltre va ancora detto che i rituali con parti di animali uccisi, hanno nelle culture di natura un forte ruolo iniziatico, che da un lato corrisponde all'evocazione dell'animale ucciso e di conseguenza al suo perdono, dall'altro introduce l'iniziando all'interno di una nuova dimensione in cui il rapporto con la morte (simbolica) è molto stretto36.
In sostanza quindi, due linee del mito nordico si sarebbero diffuse sia a livello popolare laico nella tradizione della stregoneria, sia a livello di culto cristiano nella tradizione di San Germano. Mentre per il secondo caso la trasformazione risulta abbastanza naturale, appare qui complicato capire come la divinità pagana Thor abbia potuto riversarsi nella Domina ludi ritualmente attiva ad cursus. La chiave di volta, secondo alcuni interpreti, potrebbe essere ricercata nella figura di Perchta. Infatti va considerata la possibilità che questa divinità, della quale la Domina ludi probabilmente era una delle molte personificazioni, condividesse con Thor il potere di richiamare in vita gli animali, così come pare condividesse con Odino la funzione di guida dell'esercito furioso. La tipologia proposta dalla documentazione qui osservata ci consente di stabilire che la struttura della vicenda presenta alcune varianti formali reperibili nelle diverse fonti, ma che nella sostanza non alterano la struttura ricorrente della fenomenologia: a) il documento più antico (1390) sul mito proviene dal processo milanese contro la Bugatis, in cui ad operare è la Domina ludi, mentre risulta che gli animali resuscitati "unquam sunt bona pro labore"; b) nel processo piemontese di Levone (1474) la resurrezione era effettuata con l'ausilio di un rito praticato da "uno della società" e gli animali morirono dopo alcuni giorni; c) anche nei processi trentini (1505) i buoi resuscitati erano destinati a morire nel giro di pochi giorni, solo che ad effettuare il rito era il diavolo; d) nel processo modenese del 1519 l'azione magica era dominio della Domina cursus. Il rito permetteva la resurrezione degli animali precedentemente mangiati, però non abbiamo notizia sulla loro sorte futura; e) nella Quaestio de strigibus (1522) i buoi resuscitati dalla Domina cursus erano destinati a morire entro i tre giorni successivi;
f) in testimonianze coeve (Visconti; Rategno) il fenomeno è considerato del tutto illusorio e privo di oggettivi riscontri nella realtà. Fin qui l'aspetto del rituale delle ossa e delle pelli connesso alla stregoneria, con chiari riferimenti alla tradizione sciamanica. Ma, sulla scorta dei contributi dell'indagine etnografica, va comunque sottolineato che l'uso rituale di ossa propone evidenti connessioni con il corpus di pratiche sciamaniche legate al complesso iter iniziatico. Ci riferiamo in particolare alla tradizione relativa allo squartamento simbolico del futuro sciamano, che deve appunto subire tale esperienza prima di acquisire ufficialmente il ruolo di medicine man. Anche se non sono presenti solo in aree culturali dominate dalla fenomenologia sciamanica, i miti e i riti sulle ossa dell'animale ucciso sembrerebbero infatti riconducibili all'iter simbolico che permette allo sciamano di conoscere la propria vocazione: un percorso basato sull'esperienza di essere fatto a pezzi, di osservare il proprio scheletro e quindi rinascere totalmente ricomposto. Il rito del "tagliare a pezzi" il corpo, "di cuocerlo in un recipiente, mangiarne le carni, berne il sangue, aprirne il ventre e sostituire i visceri, inserirvi delle pietre sacre, tutti motivi che hanno nella tradizione sciamanica siberiana una evidenza paurosa, si ritrovano con una coesione diversa o minore, estesi dall'Australia ai Papua Kiwai, ai Dayaki di Borneo; né esiteremmo a riconoscerli alla base di miti e rituali greci: oltre che nei miti di Pelope, di Medea, anche perfino in tutto il culto Dionisiaco. E questa estensione impressionante, tutta radicata in esperienze estatiche, oniriche, visionarie, non può che confermare il ruolo che ebbe, ed ha ancora, l'attitudine visionaria dell'uomo"37. Dall'ambito sciamanico la tradizione sembrerebbe essersi diffusa in contesti anche diversi, senza peraltro perdere la sua forte matrice simbolica, che la pone in diretta relazione con l'universo della magia. In effetti lo smembramento e la ricomposizione estatica, sono prerogative determinanti all'interno della cultura sciama-
nica e attraverso un itinerio di cui ci sfuggono le linee di trasmissione, può essere penetrato anche nella cultura della stregoneria. Le esperienze iniziatiche di molte tradizioni sciamaniche, sia quelle della famiglia altaica che quelle della famiglia uralica, hanno nello smembramento rituale un punto di riferimento molto preciso, preludio alla metamorfosi dell'uomo, non più semplice mortale, ma creatura in qualche modo prescelta, più vicina alla sua divinità. Il tema dello smembramento e ricomposizione si è anche riversato nella fiaba, con caratteristiche correlabili ancora alla tradizione iniziatica: "lo sciamano samoiedo Djuhadie racconta della sua iniziazione: Vagavo nell'altro mondo e vidi un fabbro completamente nudo che soffiava su un fuoco, il quale, vedendomi, mi afferrò con un gancio. Ero talmente spaventato, che pensai di essere morto. L'uomo mi tagliò la testa; taglio a pezzi il mio corpo e lo mise in un paiolo, dove lo fece cuocere per tre giorni. Quando ogni osso fu separato dalla carne, il fabbro mi disse - Guarda le tue ossaAllora vidi un fiume in cui galleggiavano le mie ossa, che venivano pescate dall'uomo con un gancio. Quando ebbe recuperato tutto il mio scheletro, lo pulì e lo ricoprì di carne ed il mio corpo diventò di nuovo come prima"38.
NOTE 1 Archivio Storico di Torino, Materie criminali, Mazzo 1, fascicolo 1. 2 Archivio di Stato di Modena, Inquisizione di Modena e di Reggio, Processi, b.2; 1.4. 3 Bartolomeo Spina, Quaestio de strigibus, una cum Tractatu de praeminentia Sacrae Theologiae, et quadruplici Apologia de Lamis contra Ponzinibium, Roma 1576. 4 A. Panizza, Iprocessi contro le streghe nel Trentino, in "Archivio trentino", VII, 1888; Vili, 1889; 1890. 5 Abbiamo indicazioni in Girolamo Visconti e in Bernardo Rategno. Per entrambi la resurrezione degli animali era un'esperienza fantastica del tutto priva di realtà. Visconti (1460): "Dopo aver mangiato, radunate le ossa, la Signora del gioco toccando con un bastone i resti di tale animale fa in modo che sembri rivivere. Ma ciò è chiaramente falso, poiché secondo il pensiero teologico il diavolo non può risuscitare i morti, quindi sembra che siffatto gioco sia un'illusione, anche perché tali persone al mattino hanno così fame e sete come se non avessero mangiato: è segno manifesto di inganno, come volevasi dimostrare". Rategno (1505): "Ma se veramente quei vitelli furono cucinati e mangiati, in nessun modo si può fare sì che un diavolo, anzi tutti i diavoli, insieme con tutta la potenza loro, valgano a richiamarli in vita; giacché resuscitare un corpo morto è proprio di infinita potenza, e questa spetta a Dio solo, mentre in nessun modo può competere al diavolo. Ne deriva che se quel pranzo fu vero e reale, è necessario convenire che la resurrezione successiva sarà fantastica e illusoria; oppure che tanto il pranzo era fittizio e immaginario quanto illusoria la resurrezione; e così, giacché il diavolo sottomise a sé una prima volta le streghe mediante il rinnegamento delle fede cristiana, mostra loro di volta in volta, traendole in inganno nei sogni o con apparizioni fantastiche". Giovan Francesco Pico della Mirandola nel dialogo Stryx sive de ludificatione daemonum (1523) ricorda che, negli incontri sabbatici, i partecipanti mangiavano e bevevano senza ritegno, il cibo era costituito dai buoi rubati nelle case dei contadini ma "non manca di registrare, a tal proposito l'inganno ( p r a e s t i g i u m ) della pelle ravvolta del bue già mangiato che si rizza in piedi ( c o m p l i c a t a e p e l l i s comesti iam bovis et exsurgentis in pedes). È proprio Dicaste, l'inquisitore del dialogo, a liquidare con una lapidaria sentenza la credibilità della resurrezone dei buoi: De bobus videntur ludibrio', M. Bertolotti, Le ossa e le pelli dei buoi. Un mito popolare tra agiografia e stregoneria, in "Quaderni storici", 1979, N. 41, pag. 473. 6 E P. Pomponazzi, De naturalium effectuum admirandorum causis, seu de incantationibus liber, in Pomponatii Opera, Basilea 1567. 7 Probabilmente, le fonti di Bartolomeo Spina erano costituite dallo Speculum historiae di Vincenzo di Beauvais e dalla Legenda aurea di Jacopo da Varagine.
8 Nella più antica biografìa su san Germano di Costanzo di Lione (V secolo) non è riportato il miracolo della resurrezione del vitello: Costance de Lyon, Vie de Saint Germain d'Auxerre, a cura di R. Borius, Parigi 1965. 9 Eirico d'Auxerre, Miracula Germani, in Acta Sanctorum Julii, t.VII, 1731. 10 Jacopo da Varagine, Legenda aurea vulgo Historia Lombardica dieta ad optimorum librorumfìdem recensuit, Bratislava 1908, pag. 864. 11 Ad esempio, Il Libro dei Morti egizio, CXXV. 12 "Praecepit sanctus Germanus ut non confringeretur os de ossibus eius", ELot, Nennius et l'Historia Brittonum. Etude critique d'une edition des diverses versions de ce texte, in "Bibliothèques de l'Ecole des Hautes Etudes. Sciences historiques et philologiques", 263, 1934. 13 M. Bertolotti, op. cit., pag. 476. 14 Secondo M. Eliade, "le ossa, il cranio in particolare, hanno notevole valore rituale (probabilmente perché si crede che racchiudano l'anima o la vita dell'animale, e che il Signore degli Animali farà crescere carne nuova, a partire appunto dallo scheletro); per questa ragione il cranio e le ossa lunghe vengono esposti su rami e su alture; presso alcune popolazioni si invita l'anima dell'animale ucciso verso la sua patria spirituale (...) vi è anche l'uso di offrire agli Esseri Supremi un pezzo di ogni animale ucciso o il cranio e le ossa lunghe;", Storia delle credenze e delle idee religiose, Firenze 1980, pag. 18. 15 Per finzione rituale si intende un comportamento che, in specifici contesti culturali, attiva, secondo schemi rituali fissi e collettivamente condivisi, una serie di procedure che invalidano fittizziamente, un atto compiuto in precedenza e avvertito come fatto negativo, colpa o infrazione. 16 M. Eliade, op. cit., pag. 21. 17 Porfirio, De Abst., II, 29. 18 A. Lobeck, Aglophmus, Vol.I, pag. 67. 19 A. Priuli, La raffigurazione della caccia nella preistoria dei popoli, Ivrea 1988, pagg. 241-242. 20 I. Paulson, Le religioni dei popoli artici, in Storia delle religioni. Ipopoli senza scrittura, a cura di H.C. Puech, Bari 1978, pag. 360. 21 A. M. Di Nola, Antropologia religiosa. Introduzione al problema e campioni di ricerca, Roma 1984, pag. 262. 22 J. G. Frazer, Spirit of the Corn and of the wild, Londra 1913. 23 A. Friedrich, Afrikanische prestertumer, 1939.
24 Snorri Sturluson, Edda, a cura di G. Dolfini, Milano 1975, pagg. 96-97 25 B. Branston, Gli dei del nord Milano 1962. 26 R. Pettazzoni, L'essere supremo nelle religioni primitive, Torino 1957. 27 A. Seppilli, op. cit., pag. 330. 28 "Il nostro mito non deperì con il passaggio da un'economia di caccia ad un'e-
conomia agricola, ciò anche per l'importanza che gli animali continuavano a rivestire laddove alla coltivazione si affianca l'allevamento. Non sembra casuale, al proposito, che Thor sia ospitato nel suo viaggio da un contadino. Il particolare va considerato alla luce di quanto sopra si diceva circa la caratterizzazione, non esclusiva, di Thor come dio dei campi e protettore dei contadini. Al suo martello Miolnirr sono pertinenti cospicui significati di fecondità: esso fa rinascere, come sappiamo, i capri macellati; ma il martello di Thor veniva pure posto sul grembo della sposa nei riti nuziali, per assicurarne la fertilità. Tali elementi rimandano al legame simbolico tra il martello e il fulmine, quest'ultimo contenendo, unitamente alla pioggia, l'idea di una forza fecondatrice, segno e mezzo di rinascita", M. Bertolotti, op. cit., pag. 482. 29 La persistenza di motivi precristiani all'interno di culti di santi evangelizzatori 0 di martiri, poi diventati, ad esempio, santi patroni, è abbastanza frequente nella religiosità popolare. L'agiografia intrisa di leggenda, la fantasia e non ultimi gli interventi delle chiese locali, intenzionate a mettere a punto certe tradizioni religiose sulle quali si fondava il culto collettivo, hanno sicuramente favorito la formazione di una sorta di mitologia cristiana, che a sua volta ha anche permesso a certe manifestazioni folkloriche di ramificarsi. E così intorno ad alcuni santi sono sorti culti e pratiche popolari che riverberano paganesimo, rivelati un forte sincretismo in sospensione tra l'evocazione spirituale e i rituali più arcaici. 1 miracoli attribuiti al santo - che sul piano laico ritroviamo in leggende e fiabe, sotto forma di fatti soprannaturali effettuati da un personaggio straordinario dotato di poteri magici - a livello psicologico allontanano la tensione tra uomo e divino, garantendo una possibilità di "comunicazione" privilegiata, attraverso una figura che di fatto non ha perduto le sue connotazioni terrene, caricandosi di simbologie molteplici, spesso condizionate dalla realtà locale in cui la credenza si è attestata. 30 V. Ja Propp, Edipo alla luce del folklore. Quattro studi di etnografìa storico-strutturale, Torino 1975, pag. 19. Indubbiamente interessante l'esempio rintracciabile in una fiaba voguli, in cui il rito della resurrezione degli animali incontrato nelle vicende di stregoneria, assume nel folklore dei popoli nordici una' valenza pedagogica molto importante. "Nella casa c'era un vecchio con una vecchia: Siediti, nipotino - gli dissero - sii nostro ospite. La vecchia andò fuori e ritornò con delle oche e delle anatre. Le spiumò e le mise a cuocere. Quando la fragrante carne delle oche e delle anatre fu pronta, essa la sistemò in due scodelle di legno. Una scodella la diede a Mir-susne-chum. Mangia bene nipotino - gli disse — ma non rompere le ossa. Mangiarono e bevvero. La vecchia raccolse in una sola scodella le ossa rimaste e le portò fuori. Dietro la casa c'era un lago on acqua viva. La vecchia gettò le ossa in quel lago, e dall'acqua si levarono in volo anatre vive e oche vive.
Bene — disse Mir-susne-chum — adesso so che tutto nel mondo rinasce, muore e
ancora rinasce... solo, non si devono rompere le ossa. Allora la nostra terra sarà sempre ricca", L. Vagge Saccorotti, Miti e leggende dei popoli siberiani, Milano 1994, pag. 140. 31 Girolamo Visconti, Lamiarum sive striarum opusculum, 1460. 32 Pierina de Bugatis confermò di partecipare al "gioco" condotto da una donna chiamata Horiens. Ecco come il Bonomo riporta le fasi salienti della deposizione resa dall'imputata: "all'assemblea prendono parte anche uomini vivi e morti, eccetto però i decapitati e gli impiccati, i quali non osano levarvi il capo. Ivi si uccidono animali le cui carni si mangiano e se ne ripongono le ossa nelle pelli: la Signora Oriente, percuotendo con la sua bacchetta queste pelli, li risuscita. Oriente e tutte le sue seguaci vanno per le case dei ricchi, dove mangiano e bevono, e quando trovano abitazioni pulite e ordinate quella le benedice. Dio non è mai nominato: la Signora insegna alle sue compagne le virtù delle erbe e risponde, dicendo sempre la verità, alle loro domande sulle malattie, sui furti e i malefici, ordinando di non dire assolutamente nulla a nessuno di quel che si fa nell'assemblea. Ecco la ragione per cui sebbene richiesta dal confessore, non ha fatto mai parola del giuoco dianiano. Dichiara di credere la Oriente padrona della sua società come Cristo è padrone del mondo. La seconda deposizione, resa il 21 luglio 1390, all'inquisitore Beltramino, offre ancora qualche aggiunta. Pierina ripete l'operazione fatta agli animali, aggiungendo che se nel riporne le ossa nelle pelli ci si accorge che non sono tutte, al loro posto si mette legno de sambria. Quando vuol recarsi all'assemblea chiama lo spirito Lucifelus il quale accorre subito presentandosi in forma d'uomo, la porta al giuoco e la istruisce in quello che lei desidera. Richiesta se si sia data al diavolo, risponde affermativamente, precisando che in premio aveva ricevuto da esso, che se l'era cavato da una mano, un po' di sangue, quanto può contenerne un cucchiaio, e con questo sangue il diavolo aveva scritto come ella gli si fosse data. Ciò era avvenuto all'età di trent'anni, ma fin da quando ne aveva sedici andava al giuoco di Diana. La prima volta vi era andata controvoglia in luogo di una sua zia, che altrimenti non avrebbe potuto morire. Conclude, dichiarando che dal giorno in cui si era data al diavolo non aveva più potuto confessarsi e pregare l'inquisitore di salvarle l'anima", G. Bonomo, Caccia alle streghe, Palermo 1959, pag. 17; E. Verga, Intorno a due inediti documenti di stregheria milanese del secolo XIV, in "Rendiconti del Regio Istituto lombardo di scienze e lettere", s. II, 32, 1889. 33 C.E Coxwell, Siberian and other folk-tales, Londra 1925. 34 Sull'imbottitura di paglia dell'animale ucciso, si ha notizia anche nei Bouphonia classici, M. Harva, Morvalaisten Muinaisuski, Parva 1942, pag. 9. 35 "Tra gli Osseti si racconta che Soslan riesce a espugnare una città facendosi chiudere nella pelle di un bue appositamente ucciso, e fingendosi morto. Nelle varianti circasse della stessa leggenda Soslan viene schernito brutalmente, come se fosse
morto davvero: Ehi, mago dalle gambe storte, i vermi brulicano su di te! Soslan, che ha le ginocchia vulnerabili in seguito a un tentativo fallito di assicurargli l'immortalità quand'era bambino, è infatti un mago, una specie di sciamano, uno che è capace di andare vivo nell'aldilà e tornare. Per questo può resuscitare dalla pelle di bue in cui è stato avvolto", C. Ginzburg, Storie notturne, Torino 1989, pag. 241. 36 "Il grande pericolo della vita è che il nutrimento degli uomini è fatto interamente di anime. Tutte le creature che dobbiamo uccidere e mangiare, tutte quelle che dobbiamo abbattere e distruggere per farci gli indumenti, hanno un'anima; un'anima che non muore con il corpo e che deve pertanto essere pacificata nel timore che si vendichi su di noi per averle sottratto il corpo", K. Rasmussen, Intellectual Culture of the Hudson Bay Eskimos, Copenhagen. 37 A. Seppilli, op. cit., pag. 56. 38 V. Dioszegi, A samanthit emlékei a magyar népi muveltséghen, Budapest 1958, pag. 142; V. Ja Propp, op. cit., 1982; A. D. Afanasjev, Antiche fiabe russe, Torino 1953; W. Denton, Serbian Folkbre, Londra 1874; G. Pitré, Fiabe, novelle e racconti popolari siciliani, Palermo 1870; P. E. Guarnerio, Primo saggio di novelle sarde, 1883; P. Sébillot, Comes populaires de la Haute-Bretagne, Parigi 1880; Th. KochGrunberg, Favole e miti dellAmazzonia, Milano 1982; S. Thompson, La fiaba nella tradizione popolare, Milano 1966; A. Steiner, Sciamanismo e folclore, Parma 1980.
LA "CACCIA ALLE STREGHE" IN OSSOLA, TICINO E VARESOTTO (R. Corbella) La persecuzione dei "diversi", dissidenti e libertari, da parte della Chiesa con l'appoggio spesso incondizionato del potere civile, è uno dei più tragici capitoli della storia europea. La cosiddetta "caccia alle streghe", col suo terribile costo di vite umane, è un fenomeno storico di diffìcile valutazione per la deliberata distruzione delle fonti storiche primarie attuata, nel XVIII e nel XIX secolo dall'autorità ecclesiastica. In Lombardia l'archivio dell'Inquisizione dello Stato di Milano, che era conservato a Santa Maria delle Grazie, fu appositamente bruciato nel giugno 1788. Per fortuna fascicoli di processi per stregoneria erano stati dimenticati dalla burocrazia dell'epoca in archivi militari, cittadini o presso privati. Grazie ad essi, alla diaristica e alla corrispondenza processuale del 1500-600, in possesso di collezionisti, è possibile ricostruire, sia pure in modo lacunoso la storia di uno dei più terribili eccidi della storia. La Chiesa cattolica in Insubria iniziò presto, nel 1416, a perseguitare in modo sistematico le cosiddette streghe: viene inviato a Como l'inquisitore Antonio da Casale, che, con una fitta rete di delatori, nel corso dell'anno fa arrestare centinaia di donne sotto l'accusa di stregoneria. A questo punto il solerte sacerdote organizza degli assurdi "processi di massa" contro le streghe: ben 300 donne vengono riconosciute colpevoli di stregoneria e di avere avuto rapporti carnali col demonio. Le poverette vennero consegnate al braccio secolare perché fossero bruciate. Non una di loro si salvò dal rogo. Tutto questo in un solo anno! Nel 1416, togliendo le domeniche, praticamente don Antonio da Casale fece bruciare una stre-
ga al giorno. Parte del Canton Ticino nel 1431 era ancora sotto l'influenza del Ducato di Milano ed è in quell'anno che iniziarono i processi per stregoneria in Val Leventina. Poco più tardi inizieranno numerosi processi anche in Valtellina. I processi si intensificheranno all'epoca di Francesco Sforza. Papa Paolo III, nella scia della Controriforma, per la difesa del Cattolicesimo contro i movimenti Luterani e Calvinisti che stavano provocando la frattura e la diaspora del Cristianesimo, il 21 luglio 1542, istituì la Congregazione della Santa Inquisizione della Eretica Provità, per mezzo della quale la Chiesa Cattolica iniziò la caccia agli eretici. Purtroppo l'episcopato cattolico approfittò di questa occasione per tentare di sterminare i cosiddetti "diversi": non solo spiriti liberi e critici della chiesa ma anche vagabondi, matti, donne di facili costumi, od anche semplicemente malati cronici che davano fastidio alle buone famiglie cattoliche. La bolla di Papa Paolo III sosteneva: "diamo ai cardinali-inquisitori il potere di investigare contro quanti si allontanano dalla via del Signore e dalla fede cattolica, o la intendano in modo diverso, o siano in un modo qualunque sospetti di eresia, e contro i seguaci, fiancheggiatori e difensori; come contro chi presta loro aiuto, consiglio e favori". In tutte le valli montane sia del futuro Canton Ticino che dell'Ossola e del Luinese, la miseria imponeva ai valligiani di emigrare stagionalmente al di là delle Alpi, nei cantoni tedeschi della nascente e più fiorente Confederazione Elvetica, dove lavoravano come muratori, scalpellini, spazzacamini o pastori, durante il periodo primaverile-estivo. A partire dal tardomedioevo e per molti secoli a venire, su ordine dei rispettivi vescovi, questi lavoratori stagionali che attraversano il Passo del San Bernardino, Gries e dell'Arbola, furono costretti a presentare un "attestato di frequenza alla Santa Messa" di una chiesa cattolica d'oltralpe, per dimostrare di non avere abbracciato una nuova fede o di non essere atei. Se non adempivano a questa regola, al ritorno a casa, rischiavano di essere inquisiti, torturati e bruciati sul rogo. Inoltre, le loro misere proprietà
venivano confiscate dalla parrocchia e la loro famiglia ridotta in servaggio. Questa fu l'origine delle grandi proprietà terriere montane detenute dall'Episcopato svizzero o lombardo-piemontese. In questa ottica persecutoria cadde logicamente anche la stregoneria, ormai da tempo equiparata all'eresia. La stregoneria non è stata una forma di superstizione, ma la traccia rimasta di tradizioni culturali celtagermaniche. Questa persistenza spingeva gruppi di persone eredi di una sapienza antica pre-cristiana a utilizzarla segretamente per scopi personali che, di volta in volta, potevano avere diverse applicazioni. In tempi in cui era assente una qualunque forma di medicina istituzionale e alla portata di tutte le borse (solo i ricchi potevano permettersi cure mediche spesso di dubbia efficacia, ma molto costose), la povera gente di montagna si affidava a donne e uomini che tenevano viva l'efficace medicina erboristica degli antenati. Logicamente vi erano streghe "buone" e streghe "cattive" ovvero sapienti che curavano con dedizione il prossimo e chi invece approfittava di potere e conoscenza, per guadagnarci e si prestava per denaro a fare fatture, incantesimi e magia nera. Queste persone formarono una confraternita segreta, misteriosa e soprattutto molto potente che, utilizzando l'antica conoscenza riportava un soffio liberatorio di paganesimo in una popolazione oppressa da tutti i poteri. In questa realtà storica prende forma un universo di paure, allucinazioni e leggende popolari che non attecchiscono solo tra le classi più ignoranti e arretrate, ma che in breve tempo coinvolgono in buona fede anche personaggi di spicco non solo del potere religioso e civile. La persecuzione delle streghe porterà nelle nostre montagne un'atmosfera di sospetto, paura e fanatismo che è assente invece nella Pianura Padana. Mentre nel resto dell'Insubria prealpina l'atteggiamento dell'Inquisizione fu certamente più tollerante che in altre regioni d'Europa, il Mendrisiotto e il Luganese, a quell'epoca dal punto di vista religioso pur sempre sottoposti alla Diocesi di Como, ma proprietà dei tre Cantoni di Uri, Svitto e Unterwald, si fecero notare per la fe-
roce applicazione della tortura e per la durezza delle pene che furono sempre capitali. Parrebbe che il potere politico locale rappresentato dal Landfogto 1, che, dopo la recente acquisizione della regione aveva bisogno di rafforzare una dimensione istituzionale ancora in fase di assestamento, utilizzasse la persecuzione delle streghe, con tutta la sua ferocia, ad uso di avvertimento e controllo sociale di un territorio ancora ostile e da domare. All'origine dei processi per stregoneria ci sono spesso delle semplici voci che indicano qualcuno come strega o stregone, soprattutto a causa di alcuni atteggiamenti considerati, per l'epoca, eccentrici e devianti dalla morale comune. Altro motivo di accusa è il possesso di una conoscenza medica superiore, tipico della guaritrice che guadagna bene con i suoi rimedi e perciò si attira l'invidia dei compaesani sospettosi. Dai documenti processuali risulta che le imputate svolgono le loro azioni malefiche sempre nell'ambito del villaggio natio: niente voli a cavallo di scope o trasferimenti di anima in corpi d'animali per raggiungere il luogo, lontano, del sabba. Tutto è oltremodo casalingo e si limita a località "maledette" raggiungibili con una comoda passeggiatina. Insomma il diavolo della porta accanto! 1514. Nel territorio di Lugano e Mendrisio si verifica una grande caccia alle streghe, si parla di 300 donne arse sul rogo. E un episodio famoso, spesso citato in seguito negli scritti contro l'Inquisizione, ma poco documentato. Mendrisio fu il borgo che ospitò i processi per stregoneria. La condanna capitale però, rogo o decapitazione, veniva sempre eseguita dopo una "parata" per un percorso stabilito che toccava tra l'altro Chiasso e Balerna. Al contrario di ciò che avveniva nel resto d'Europa, l'esecuzione della sentenza non avveniva in piazza ma in aperta campagna, spesso in un vallone sinistro e fuori mano. Si pensava che avendo le streghe incontrato il diavolo in una località naturale boschiva, era logico che venissero bruciate nello stesso contesto, quasi per negare l'appartenenza di queste poverette alla società paesana. La valletta di Carcera, tra Mendrisio e Rancate, era uno dei luoghi preferiti per le esecuzioni. Il primo processo di cui si
ha notizia scritta, con relativa condanna, ebbe luogo nel 1536 e ne fu protagonista una certa Margherita del Castello di Stabio. Tra l'altro essa è accusata da una comare sua vicina di aver partecipato al sabba (in dialetto: "barlott"). Accusa grave e pericolosa in quanto la vicina, per confermarla, doveva anch'essa essere stata presente all'orgia infernale. Purtroppo questi processi seguono tutti lo stesso copione, l'incriminata nega per cui è sottoposta a torture inumane: il curio in cui la poveretta con le mani legate dietro la schiena viene issata e quindi lasciata cadere a strappo di modo da sconnettere le giunture delle ossa, i tratti di corda nei quali la sospetta viene "stirata" atrocemente, l'aculeo dove la presunta strega con dei pesi attaccati ai piedi è fatta sedere su un grande cuneo aguzzo che la penetra profondamente nel sesso o nell'ano squarciandola, i vari morsetti con cui le si frantuma dita, caviglie, piedi e così via. Se, stravolta dal dolore confessa, bene, è condannata, ma se resiste la si condanna lo stesso perché evidentemente solo il diavolo può darle la forza di resistere a tanto strazio. Praticamente non c'era modo di uscirne vive! In questi processi per stregoneria la procedura giudiziaria si attivava sulla base di semplici sospetti e della conseguente delazione: anche una semplice denuncia era recepita dal Landfogto come indizio sicuro di colpevolezza. I processi di stregoneria erano divisi in tre momenti per procedura: l'ascolto delle testimonianze, l'interrogatorio degli accusati, la sentenza finale. Queste accuse oggigiorno ci farebbero sorridere: nel 1626 un testimone afferma che l'accusata ha messo la mano sopra la spalla di una sua mucca la quale da allora è rimasta paralizzata; in un altro caso una donna è accusata di aver ballato con ben tre diavoletti alti "come un grande cane" e muniti di zampe di asino, corna e coda a ciuffo: uno si chiamava Angelino, gli altri due Cornino e Bizabò. Fra i sortilegi accreditati alle streghe vi era l'aver provocato la grandine e l'uccisione di bambini mediante il soffio di una polverina nera, far precipitare vacche nell'abisso per mezzo del sortilegio, paralizzare braccia col semplice tocco delle dita, saltare a piè pari su un crocefisso. Ed è sulla base di queste testimonianze che si stabili-
va in modo inequivocabile che la sospettata era una strega! Anche negli atti processuali della Valle di Blenio, le streghe erano accusate della totalità delle disavventure che turbavano l'equilibrio della valle: dalla caduta di valanghe ai danneggiamenti di raccolti o alle epidemie del bestiame. E da notare come gli atti di stregoneria, presubimilmente subite dai valligiani, non uscissero mai dal contesto rurale. L'elenco di queste poverette condannate a morte "per stregoneria ed eresia", come recita la formula d'accusa, è lungo: ricordiamo tra le altre Bellasina di Castello, Mayneta di Guglielmetti, Algerina di Obino, Pina di Obino, Margherita de Bossi. Ma vi sono anche uomini come Tognino de Cordila "che suonava il timpano e la viola ai sabba" accusati di stregoneria. Sembrerebbe però che gli uomini, se confessi, se la cavassero meglio delle donne (misoginia dei giudici?): infatti Domenico Colonnetto di Vacallo viene liberato sotto pagamento di cento scudi d'oro di cauzione (un vero patrimonio per quei tempi) e la promessa che non si vendicherà dei suoi accusatori. In effetti nel Cinquecento, la caccia alle streghe in Canton Ticino fu violenta e decine di donne furono condannate e uccise in pochi anni. Bisogna far presente che, a causa di un accordo tra i tre Cantoni, nonostante le Diete di Ilanz del 1524 e del 1526, che avevano proclamato la libertà di culto nella vicina Repubblica delle Tre Leghe2, per secoli il Cattolicesimo rimase l'unica confessione consentita dalle autorità in Canton Ticino: i Luterani erano costretti a emigrare o, se restavano, venivano accusati di eresia. Non bisogna però pensare che i Landfogti fossero legati alla gerarchia ecclesiastica diocesana. Infatti, ad esempio, nel 1532, Bernardino della Croce, vescovo di Como, chiese inutilmente alla Dieta di Baden (a cui apparteneva il Landfogto di Riva San Vitale) di poter punire i sacerdoti che non adempivano ai loro obblighi e soprattutto erano tiepidi nella caccia a streghe e stregoni. Nel corso del primo Concilio provinciale della chiesa milanese indetto da Carlo Borromeo viene approvato il decreto De magicis artibus, veneficiis divinationibusque prohibitis che proibisce, pena la morte, qualunque forma di
cura magica e divinazione. Questo decreto praticamente scatena la caccia alle streghe nelle sue forme più crudeli e violente, ma nel Canton Ticino gli stessi sacerdoti cattolici sono restii a portare avanti un'inquisizione che andrebbe a urtare molti aspetti della cultura alpina, sempre in bilico tra rigurgiti di paganesimo e sincretismo cristiano. Di conseguenza con l'appoggio dell'autorità centrale svizzera, si impedì alla Santa Inquisizione di varcare i confini della Confederazione elvetica. Nel 1571, Carlo Borromeo volle costringere i preti ticinesi all'obbedienza, ma il Landfogto di Mendrisio inviò gli sbirri armati contro gli inquisitori comaschi, mandati da Carlo Borromeo, che da Chiasso erano entrati in Ticino. La Dieta Elvetica, tra il 1572 ed il 1581, dimostrò chiaramente di non volere seguire la gerarchia ecclesiastica italiana sulla strada della persecuzione. Promulgò un editto nel quale si obbligava i commissari preposti ai processi per stregoneria di non procedere a tortura di sorta e tantomeno a condanne, prima che l'accusato non avesse scelto un procuratore che lo difendesse e le autorità avessero avvertito la famiglia del sospettato. Più tardi, la Dieta elvetica si oppose energicamente all'introduzione dall'Italia della Santa Inquisizione nel Canton Ticino e nei Grigioni, giudicando che l'autorità civile locale fosse abbastanza forte e in grado di processare e punire le persone sospette senza intrusioni clericali. Questa volta San Carlo Borromeo tentò l'atto di forza (era il quarto tentativo) ma gli fu concesso solo di effettuare una visita pastorale, per cui raggiunse le tre valli superiori ticinesi e l'ospizio del passo del San Gottardo. Finalmente, nel 1583, Carlo Borromeo riuscì ad aggirare l'ostacolo diplomatico e con la scusa di una visita pastorale atta ad imporre rigidamente i dettami del Concilio di Trento per combattere il protestantesimo nelle valli svizzere di lingua italiana. Giunto in Val Mesolcina, si scatenò facendo arrestare e processare per stregoneria centocinquanta persone in un sol colpo. Tra l'altro questo fu uno dei processi per stregoneria meglio documentati della storia della caccia alle streghe. Vi erano un centinaio di donne tra gli
arrestati e tutti furono sadicamente torturati fuori dalla legge elvetica. In conclusione undici furono condannati al rogo, tra cui lo stesso parroco (riconosciuto stregone) e dieci donne considerate ree confesse di stregoneria. Furono bruciati appese a testa in giù. Nel 1500, anche nel territorio di Varese l'ossessione della stregoneria e la conseguente caccia alle streghe raggiunse momenti di frenesia a dir poco inquietanti: i sacerdoti giravano per la contrada, di loro giurisdizione ecclesiastica, armati di archibugi e spada guidando gruppi di "bravi", anche loro armati di tutto punto e assoldati apposta per la caccia alle streghe. Queste bande armate parrocchiali su semplici delazioni attaccavano di sorpresa le case, sfondavano la porta, e dopo aver saccheggiato l'abitazione, trascinavano via la donna sospettata per processarla e bruciarla sul rogo. Non sempre però a queste ronde anti-streghe andava tutto liscio. A Domo, in Valtravaglia, un parroco venne ucciso con un colpo d'arma da fuoco dai parenti della presunta strega che non avevano nessuna intenzione di cedere alla violenza. Non sappiamo il seguito della storia ma si presume che strega e familiari siano riusciti a fuggire in luoghi più ospitali. Sempre in Valtravaglia, nel settembre del 1586, Carlo Borromeo chiede la cattura a Dumenza (Luino) di Domenica di Scappi, detta la Gioggia, "denontiata al offitio della Sanctissima Inquisitione per stria notoria". Dell'arresto venne incaricato un sacerdote, tale Giovanni Antonio Melli che, aiutato da alcune guardie, arrestò per stregoneria "la Gioggia". Mentre conduceva la donna in carcere, il sacerdote venne aggredito e ferito gravemente dai parenti della presunta strega. La Gioggia di cui si è detto, venne più tardi catturata e condannata al rogo, il notaio Silvestro Scappi che l'aveva difesa al processo, fu poi indagato perché sospetto di eresia ma si salvò. In un altro caso, due donne di Cossano, madre e figlia, sospettate di stregoneria furono inquisite, torturate, processate ma prosciolte dall'accusa. Il clima di sospetto ed il timore che le idee della Riforma luterana si infiltrassero tra la popolazione lombarda era tal-
mente forte che anche i mercanti e i nobili che avessero viaggiato in paesi protestanti, al ritorno a casa, dovevano presentarsi in chiesa durante la messa e pubblicamente professare la loro fede cattolica. Recentemente, presso l'archivio di stato di Milano, è stato rinvenuto un fascicolo riguardante un caso di stregoneria accaduto nel 1520 a Venegono Superiore. Dagli atti giudiziari del processo emergono l'invito alla delazione, l'uso della tortura, ferocemente applicata anche oltre ciò che i regolamenti dell'epoca consentivano, la volontà perversa degli inquisitori che tentarono con ogni mezzo di convincere l'inquisita a chiamare a correo altre persone. Inoltre, si nota chiaramente l'impossibilità oggettiva di difendere l'accusata poiché il difensore sarebbe stato accusato a sua volta di eresia. In questo caso, a Venegono, le persone sospettate di stregoneria furono ventuno, dodici vennero prosciolte, due abiurarono, sette furono condannate al rogo. Si giunse alla farsa macabra di una imputata morta in prigione a seguito delle torture subite della quale venne riesumato il cadavere ormai putrefatto che poi fu arso sul rogo. È singolare che sette fra le persone indagate presentassero difetti fisici, come se l'aspetto influenzasse i delatori. Particolarmente sospette erano le ostetriche poiché si pensava che, se streghe, potessero uccidere i neonati prima del battesimo per offrirne il corpo al demonio durante i sabba, sia a Venegono sia nel caso di Cossano una delle sospette è ostetrica. Nel caso di Venegono anche un uomo, figlio e fratello di una delle presunte streghe, viene accusato di essere uno stregone. Egli però riceve la pena più mite: l'esilio (che questo fatto adombri un caso di corruzione?). Durante il processo queste sette donne incriminate si autoaccusarono principalmente dell'uccisione per mezzo di magia che avveniva toccando la vittima con la mano "unta": bambini, ragazzi, buoi, porci e vari animali. Inoltre, si riconoscono colpevoli essenzialmente di crimini a sfondo sessuale dichiarando di essersi accoppiate con due diavoli che chiamarono Martino e Angelino e di avere partecipato ai sabba.
(La storia ha inizio con l'arresto, in un casolare vicino a Monza, di un certo Giacomo da Seregno, il quale sotto tortura denuncia la presenza di streghe a Venegono. Giacomo da Seregno verrà condannato per eresia e stregoneria e poco dopo arso sul rogo. Da questo fatto le autorità iniziano un'inchiesta che porterà all'arresto di alcune donne di Venegono^ La prima chiamata in giudizio e costretta a confessare fu Margherita Fornasari, accusata con la figlia Caterina di essere strega ed eretica. Sotto tortura le due donne dichiarano di essere state avvicinate da "un bell'uomo vestito come un signore" che le aveva convinte a darsi al diavolo, promettendo loro che dal momento che fossero entrate nella congrega delle streghe avrebbero avuto ricchezza e potere e sarebbero "state bene". Malgrado Margherita confessi subito, tutto quanto le viene addebitato, con l'accortezza di non coinvolgere nessun'altra persona; dai verbali apprendiamo che Margherita morì improvvisamente, probabilmente a seguito delle torture subite. Seguì l'interrogatorio della figlia Caterina Fornasari a cui l'inquisitore chiede se provasse piacere durante il coito con il demonio e se l'atto sessuale fosse simile a quello provato con suo marito. Caterina rispose: "No, nell'atto vero e proprio provavo meno piacere di quanto ne provassi con mio marito, perché il membro del demonio non era né duro né rigido, come è quello di un vero corpo, e quando era nella vulva risultava freddo, mentre nei preliminari, negli abbracci, nei baci, nelle tenerezze e carezze d'ogni tipo, Martino (il demonio) mi procurava maggior piacere, perché lui mi dava l'illusione di prediligermi sinceramente e profondamente". Nelle confessioni, le "streghe" di Venegono affermano che per le loro magie si servivano sempre dello stesso unguento, il quale serviva sia per uccidere che per volare, anzi, scendendo in particolari, dichiarano che per volare se lo spalmavano nella vulva dove veniva assorbito attraverso le secrezioni vaginali. Notiamo come una di queste imputate, Elisabetta Oleari, si proclamò innocente dall'inizio alla fine del processo, resistendo alle
torture più terribili. Per costringerla a confessare, le vengono perfino praticati esorcismi (che in realtà sono altre torture più raffinate) ma lei sopporta fino allo svenimento ogni genere di tormento, ma non confessa. Sicura della sua innocenza sperava così di riuscire a cavarsela e a convincere gli inquisitori della sua buona fede. Purtroppo anche questo fu inutile, perché in ogni caso, secondo gli inquisitori, la colpevolezza di Elisabetta era già ampiamente provata dalle testimonianze delle altre donne. Certamente fu sotto la sofferenza inaudita provocata dai tormenti che queste sette donne confessarono crimini che non avevano commesso e raccontarono ciò che i loro aguzzini volevano sentire. Dobbiamo ricordare che gli inquisitori erano prodighi di promesse di perdono e misericordia, qualora la strega avesse mostrato pentimento e confessato i suoi crimini. Bastava che, ottenuta la confessione, l'inquisitore vincolato da queste promesse di clemenza abbandonasse il processo e al suo posto subentrasse un altro inquisitore, che non ne era vincolato e perciò condannava l'imputata senza nessuna pietà. Anche in questo processo di Venegono, ad un certo punto l'inquisitore, frate Battista da Pavia, abbandona e a lui subentra un altro inquisitore: Michele d'Aragona. Il quale, non riconosce le promesse fatte dal predecessore e le manda tutte al rogo3. 1605. Un caso di stregoneria sul lago di Varese. Questo strano caso avvenne attorno al 1605-1607 ne è protagonista involontario un certo Antonio Binda detto "Tugnin", pescatore professionista con base a Groppello di Gavirate. Possedeva una bella barca da pesca a fondo piatto del tipo detto "Nonna" o "Lucia"; secondo il manoscritto se la cavava piuttosto bene nel suo mestiere. Un mattino trovò la barca ormeggiata al contrario di come l'aveva lasciata la sera e questo accadde per l'intera settimana. Pareva che qualcuno l'avesse usata di notte, anche se lui la sera portava via sia i remi che la vela e senza l'attrezzatura per navigare. Si decise a legare alla barca un grosso cane da guardia. Ma il mattino dopo era ancora ormeggiata al contrario. La notte seguente il pescatore si nascose nei pres-
si e a mezzanotte vide tre figure di donne incappucciate e avvolte in lunghi mantelli avvicinarsi alla barca. Quando il cane balzò in avanti ringhiando e abbaiando la prima donna della fila gesticolò in aria e il cane si bloccò immobile come se fosse stato una statua, evidentemente si trattava di streghe che con la "fisica" avevano bloccato l'animale. Le donne salirono sulla barca che, come per miracolo, partì da sola e si diresse verso la palude dove il Brabbia confluisce nel lago. L'indomani la barca era al solito posto. Alla sera il pescatore si nascose sotto alcuni sacchi sul fondo della barca e a mezzanotte, quando salirono a bordo le tre streghe, le sentì mormorare un incantesimo, quindi la barca partì da sola e si arenò tra le canne della palude. Sulla riva illuminata dalla luna altre quattro streghe attendevano le loro consorelle. Venne acceso un gran fuoco e le donne bevvero, mangiarono e ballarono nude intorno ad esso. D'un tratto comparve un uomo alto, grande, nudo e tutto tinto di rosso che le possedette carnalmente una dopo l'altra. A quel punto Tugnin, che nascosto sulla barca aveva visto tutto, ebbe paura e preferì rincantucciarsi sotto i sacchi. L'orgia sabbatica andò avanti ancora fino all'alba, quando le donne risalirono sulla barca che magicamente le riportò a Groppello. Tugnin aspettò che esse fossero sbarcate e allontanate prima di uscire dal nascondiglio e correre dal prete ad informarlo di tutto. Alla domenica seguente i curati di tutti i paesi rivieraschi sparsero del sale benedetto davanti alla porta delle loro chiese. Si sa che le streghe sono prese da delirio se mettono i piedi sul sale benedetto per cui sette donne rifiutarono di entrare in chiesa. Erano sette donne irreprensibili tra cui la nipote del parroco di Bodio e la stessa moglie di Antonio Besozzi. Accusate di stregoneria vennero arrestate e sottoposte ad interrogatorio: confessarono di recarsi al sabba, di incontrare il demonio e di avere rapporti sessuali con esso. Ma negarono recisamente di avere mai fatto magia nera o di avere affatturato qualcuno. Alle poverette andò bene i tempi erano mutati e gli inquisitori (almeno in questo caso) erano propensi alla clemenza: queste donne infatti furono condannate ad essere
esorcizzate e a trascorrere alcuni mesi in un convento di clausura. Nel 1621 in Valle Vigezzo, voluta dal pretore Giacomo Guidizone, si scatenò una spietata caccia alle streghe. Alcuni fatti poco chiari avevano fomentato nella popolazione un autentica paura isterica, basata sul pregiudizio e sulla malafede nei confronti di vagabondi e strani individui che si aggiravano in vallata, considerati diabolici. Il pretore ordinò quindi una serie di provvedimenti restrittivi dettati dal desiderio di quietare la cittadinanza. Consigliò ai consoli di allargare le prigioni in ogni paese, rendendole più sicure e organizzare ronde composte da uomini abili alle armi. I consoli non solo applicano alla lettera i suoi suggerimenti ma perfino si procurano gli strumenti di tortura nella vicina Svizzera. Diverse sono le località dove si pensava che le streghe incontrassero il demonio e svolgessero i loro sabba: raduni di streghe effettuati sul monte Cervandone e alla conca e il laghetto di "Sass di stri" sopra Arvogno, sotto il quale si riunivano le streghe facendosi piccolissime e il famosissimo "Pian di stri", posto alle falde del monte Gridone. Tra Druogno e Santa Maria Maggiore si incontra il "Piano delle Lutte", che per la fantasia popolare è un altro luogo di ritrovo delle streghe. Le streghe ticinesi, vigezzine o cannobine erano unite in una misteriosa congregazione segreta detta "Stremmia" e seguivano precise regole e durante la settimana ogni giorno era dedicato ad un maleficio diverso. Il lunedì svolgono le malìe di poco conto: azzoppano i cavalli, rendono sterili le vacche, fanno ammalare i bambini. Al martedì rovinano le famiglie, fanno litigare i coniugi e fomentano dissidi ed incomprensioni. Al mercoledì streghe e stregoni ammaliano le loro vittime giovani e piacenti e le obbligano a congiungersi carnalmente con loro. Giovedì è riservato alla preparazione dei filtri e delle magie particolari, alle pratiche abortive e a tutti gli altri malefici importanti. Venerdì si riuniscono in luogo segreto i caporioni di streghe e stregoni per definire le modalità per il sabba che si terrà la notte del sabato al "U1 bai di stri", dove streghe e strego-
ni tutti parteciperanno nudi all'orgia sfogando le loro lussuriose voglie, ballando come indemoniate e "dulcis in fundo" incontrando a mezzanotte il loro Signore: Belzebù in persona. In questo sabba le streghe sono descritte come da manuale: grinzute, scarmigliate, orribili a vedersi, libertine sfrenate dedite agli amplessi più immondi. Esse hanno la proprietà di tramutarsi in caproni, gatti, gufi, cani, topi, uccelli, galline. Prima di uscire di nascosto la sera, si ungono mani, piedi e sedere con un olio magico che dà la proprietà di volare. Se la svignano volando su per il camino per eludere la sorveglianza dei vicini di casa. Il sabba orgiastico del sabato notte, che si svolgeva alle falde del monte Gridone, in cui si faceva ampio uso di erbe e funghi che potevano indurre eccitazione psichica accompagnata da allucinazioni, si protraeva fino a quando il campanile di Olgia, posto proprio di fronte alla montagna, suonava l'Ave Maria del mattino dopo. La domenica anche le streghe si riposano. Sembrerebbe evidente che sia i sabba che gli incontri carnali con il diavolo, citati così spesso da queste donne, non fossero altro che delle proiezioni evidenti di desideri che la realtà quotidiana della vita di queste contadine, sottomesse e trattate spesso come bestie, negava e reprimeva in linea con la cultura dell'epoca, profondamente misogina. Il sabba, che si svolgeva di norma una volta alla settimana, a volte il giovedì ma sopratutto il sabato, era qualcosa che a noi moderni sembrerebbe una allegra scampagnata notturna con finale boccaccesco. Infatti le streghe si trovavano di notte in una radura appartata tra i monti e cucinavano dentro grandi pentoloni carne di pollo e di maiale, a cui aggiungevano a parte pane e uova sode, il tutto portato da casa. Dopo aver allegramente mangiato e bevuto vino in abbondanza, si scatenavano a ballare e saltare con i loro amanti, finendo la serata "a copulare". Nei processi non troviamo però traccia degli uomini che prendevano parte al sabba, ma abbiamo solo notizia di alcuni diavoli che alla fine si accoppiavano con tutte le streghe presenti. Del resto gli inquisitori erano convinti che gli uomini pre-
senti al sabba fossero veramente demoni e pertanto sarebbe stato impossibile sottoporli a un processo e... condannarli! Nel loro furore giustizialista, neppure in un'occasione a questi inquisitori è mai venuto in mente che, per quanto riguardava le presenze maschili ai sabba, non si trattasse di demoni ma di uomini in carne ed ossa, che da bravi furboni altro non facevano se non spassarsela beatamente con delle donne istericamente convinte che fossero diavoli. Intanto vediamo come veniva descritto il diavolo dalle streghe negli atti processuali di quei tempi: "Uomo grande e deforme con le corna di un becco in capo, le zampe di capra e i piedi asinini, un sesso smisurato e grossissimo con cui copulava carnalmente con streghe e stregoni"4. Per il popolino, molto distante dalle dispute teologiche sulle varie eresie, le streghe erano semplicemente persone considerate possedute dal demonio: per essere adepti di Satana la condizione principale era di aver rinnegato Dio e aver accettato il diavolo come padrone. Si diceva che il rituale stregonesco richiedesse di calpestare il crocefisso. Tra gli incantesimi usati dalle streghe di quell'epoca che ci sono stati tramandati, ve ne sono alcuni che utilizzano le piante. La corteccia, le bacche e le foglie della sanguinella ( Cornus Sanguineei) servivano alle streghe durante il sabba per preparare un unguento velenoso che faceva impazzire chi ne era unto. La "fìresessa", soprannome della felce femmina, era considerata in Ticino l'arma preferita delle streghe e dei "possenti", cioè gli stregoni. La strega, raccolte le felci se le sfregava violentemente tra le mani ecco che si accumulavano in cielo nubi temporalesche. A quel punto, la strega strappava una radice di felce e con essa indicava la direzione dove voleva che si sfogasse il maltempo. Si dice che lentamente le nubi si accumulassero sulla valle o sul casolare che la donna intendeva colpire. Ora la strega raccoglieva altra felce: sfregandola rapidamente provocava una pioggia torrenziale, seguita da grandine violenta che rovinava le colture. Se ne spezzava lo stelo ecco che le saette si abbattevano sul villaggio o su una casa presa di mira, a volte provocando
incendi. Se la strega voleva uccidere qualcuno si recava in vista dell'abitazionedella vittima recando con sé una felce; con un rapido colpo di coltello tagliava la foglia in due parti nette: si racconta che la vittima si accasciasse al suolo fulminato da un colpo apoplettico. Una storia, raccolta in vai Colla, narra di un "possente" che con questo metodo uccise alcune persone che riteneva nemici e distrusse diverse case. Poi, sconvolto dai risultati di ciò che aveva fatto con la sua magia nera, si mise a piangere e per il rimorso decise di ritirarsi in convento. Una strega di Tesserete, vissuta nel 1500, era così potente da scatenare la grandine dove e quando voleva con una furia tale da restarne anch'essa allibita. In un'occasione decise di vendicarsi di un gruppo di abitanti di alcuni casolari situati alle falde del monte Bigorio. La donna scatenò una grandine così violenta e dai chicchi tanto grossi che le case furono sommerse fino al primo piano da un gigantesco cumulo di ghiaccio; gli abitanti ci misero quasi un giorno per scavarsi un'uscita di salvezza tra i blocchi di ghiaccio. Per sottrarsi da queste stregonerie, i poveri contadini avevano due mezzi: raccogliere subito una manciata di grandine e gettarla sul fuoco, in questo modo, per la "legge degli opposti", la grandine cessava subito; oppure come prevenzione porre rametti di ulivo benedetto ai quattro punti cardinali del luogo da proteggere. Un altro modo di scatenare il fulmine a comando contro i nemici era quello usato dalle streghe della Valmaggia: la donna cercava prima di tutto un "Sass d'ia Lèsna" (un sasso del fulmine), un masso erratico la cui composizione fosse stratigrafica e ondulata, trovatolo vi girava quattro volte intorno a occhi chiusi, quindi vi si sdraiava sopra sfregando sulla pietra le parti intime e in seguito vi incideva sopra le iniziali di chi voleva colpire e sputava loro sopra. A questo punto non le restava che aspettare il primo temporale, certa che un fulmine avrebbe colpito e incenerito il nemico. I "rattucell", "ratapignatta" erano i nomi che i nostri antenati davano ad alcuni tipi di pipistrelli che ritenevano fedeli alleati delle streghe ticinesi e da loro usati come messaggeri di morte.
Quando un "ratapignatta" ti volava attorno al capo egli ti "segnava" e se non ti facevi benedire entro la giornata da un prete esorcista eri destinato a morte in breve tempo sicura. Anche il ghiro (il "cuccioletto del diavolo") era considerato amico delle streghe e si mormorava che veniva mandato da loro a spiare la casa dove viveva la vittima da colpire con un incantesimo. Le streghe ticinesi sapevano anche, con la magia, tenere lontani dalla loro casa gli intrusi ed i curiosi. Il metodo era semplice, la strega si recava al primo quadrivio della strada che portava alla sua abitazione e lì creava dei "cagnolitt": ovvero dopo aver pronunciato alcune formule magiche vi gettava una manciata di frammenti di legno del ceppo usato la notte di Ognissanti, tenute da parte per questa evenienza. Quando il visitatore importuno arrivava si trovava innanzi degli strani batuffoli di stoppa e segatura che ai suoi occhi impauriti prima si facevano grandi grandi poi piccoli piccoli per quindi animarsi e balzare sul malcapitato graffiandolo e mordendolo a sangue finché non fuggiva a gambe levate. Nelle vallate interne Antigono e Divedrò, soprattutto nel territorio tra Croceo e Baceno, l'Inquisizione lasciò un segno indelebile della sua crudele "funzionalità": decine di persone bruciate vive o uccise dopo torture inenarrabili, altre decine lasciate morire di fame e sete nelle fredde celle delle segrete del palazzo del vescovo di Novara. In queste valli remote dimenticate dall'autorità civile, nel XVI e XVII secolo vi erano ancora molte famiglie che seguivano gli antichi culti celti e retici legati alle rocce sacre coppellate e alle fonti. Culti atti a favorire la fertilità delle donne e del bestiame. Reminiscenze di antiche conoscenze della natura. Inoltre, questi montanari, quando erano cristiani, non riuscivano a capire perché ci dovessero essere differenze tra cattolici e luterani e ci si dovesse odiare per tale differenza, così continuavano ad assumere lavoranti stagionali elvetici che seguivano la religione riformata di Calvino. Fu la fama di questa libertà di culto che condusse, nel 1560, le bande armate dei soldati prezzolati dal vescovo di Novara a cercare e
catturare, in valle Antigono, gli eretici e le streghe. Di eretici dichiarati ne trovarono pochi, ma in compenso rinvennero un gran numero di quei liberi montanari, che furono considerati stregoni, nonché una libera morale sessuale che mal si adattava all'austero spirito della Controriforma. Non era raro il caso che i sacerdoti di questi paesi tenessero in canonica due o più concubine con i figli avuti da esse. Don Domenico Zuffo, parroco di Crodo, fu processato quattro volte per condotta immorale e violenta e ogni volta scacciato dalla parrocchia e poco dopo reintegrato nella carica. Nella colleggiata di Domodossola, nel 1579, fu ucciso un prete che teneva nascosti in canonica libri di magia nera, incantesimi ed altre formule di stregonerie. Dal 1574 al 1575 si ebbe il picco della caccia alle streghe della valle Antigono. Il vescovo di Novara, Buello, fece processare, torturare e bruciare sul rogo decine di povere montanare. Nel 1609-1620 vi fu la seconda grande epurazione contro le presunte streghe del territorio da Crodo a Formazza: un centinaio di donne furono processate e condannate quali streghe. Le poverette furono rinchiuse a Bascapè nei sotterranei del vescovado, dove vennero ripetutamente stuprate e seviziate dalla soldataglia e quindi lasciate morire di fame e di stenti. All'Alpe Devero, dominata dal monte Cervandone, luogo prediletto dai demoni del sabba, esiste ancora il "Lago delle streghe", un luogo paesaggisticamente incantevole, dove le streghe durante tutto il XVI secolo, tenevano i loro sabba infernali. Lì, su di una grande roccia, vi è traccia di innumerevoli riti di "scivolamento": le donne che volevano avere figli, dopo avere effettuato complessi rituali con formule magiche, si spogliavano e nude scivolavano lungo il masso; in questo modo pensavano che lo spirito della roccia penetrasse in loro e le rendesse fertili. Anche i bambini gracili che stentavano a crescere venivano denudati e fatti scivolare lungo la pietra, così che lo spirito buono li "allungasse" facendoli crescere sani e forti. La forma di questo macigno, col suo taglio in mezzo e la cavità oscura nel centro, ricorda l'organo sessuale femminile ed è l'ideale per evocare segreti riti di inizia-
zione stregonesca. Le streghe, catturate in queste valli e imprigionate a Novara, confesseranno che il diavolo si presentava loro proprio davanti a questa roccia e che usava come altare per le "messe nere" blasfeme un masso quadrangolare posto a breve distanza. Queste affermazioni portarono gli inquisitori a incidere due croci e le loro iniziali sulla roccia maledetta5. Arrestate e messe sotto tortura, le donne di Devero, Formazza, Baceno e Croveo dichiararono non solo di conoscere ed incontrare periodicamente il demonio, ma anche che esso era il loro amante e con lui volavano al sabba. Il demonio, affermarono, era nero, peloso, cornuto e con le orecchie a sventola e le faceva ballare nude suonando il violino, in più era dotato di un enorme membro virile doppio e biforcuto col quale le penetrava contemporaneamente davanti e di dietro. Anzi aggiunsero che il demonio si duplicava all'infinito finché ognuna di loro aveva il suo diavolo personale col quale copulava fino allo sfinimento. Per quanto riguardava gli stregoni, essi si accoppiavano con diavolesse. Dalle testimonianze fortunosamente rimaste di questi processi, si evince una cosa certa: la mentalità contorta e morbosa degli inquisitori che mostrano una curiosità perversa, chiedendo continuamente i minimi dettagli anatomici degli accoppiamenti, facendosi descrivere ripetutamente forme, misure e sensazioni. Queste streghe, prima di recarsi ad incontrare il demonio, si ungevano di una pomata di cui inutilmente i preti inquisitori cercano di scoprire la ricetta. Studi recenti6 hanno evidenziato che questo unguento altro non era che un potentissimo allucinogeno composto da sostanze di origine vegetale psicoattive, quali la belladonna, cicuta e soprattutto stramonio e ammanita mijscaria, non escludendo anche l'oppio, già coltivato nelle regioni alpine dall'epoca del tardo impero romano. Questi e certamente altri ingredienti di cui si è persa la conoscenza, venivano manipolati e mescolati con un eccipiente grasso, probabilmente strutto di maiale. Essendo ad alta tossicità, la crema non poteva essere presa per via orale ma veni-
va spalmata sulle parti del corpo più irrorate dal sangue o a stretto contatto con le ghiandole linfatiche (mucose vaginali, inguine, ascelle, collo), in modo da assorbirne velocemente la sostanza allucinogena e diffonderla nell'intero organismo raggiungendo terminali nervosi e cervello. L'effetto di queste droghe produceva sensazioni di euforica leggerezza, di librarsi nell'aria e nello stesso tempo una forte carica sessuale libera da freni inibitori. Da qui derivava forse l'affermazione di queste streghe che dicevano di volare al sabba sulle spalle dei propri demoni o a cavallo della tradizionale scopa. Anche le sensazioni copulatone e orgiastiche probabilmente non erano altro che pratiche masturbatone esaltate e esagerate dalle visioni prodotte dall'unguento. Purtroppo, alla fine del 1700, per timore che il vento libertario della Rivoluzione francese giungesse anche in Piemonte e che le carte relative ai processi alle streghe potessero essere usate come prove d'accusa verso la Chiesa cattolica, gran parte dei manoscritti sugli interrogatori e processi dell'archivio del vescovado di Novara furono opportunamente bruciati dai solerti Gesuiti. Per nostra fortuna molte copie di quegli incartamenti processuali, dimenticati nei polverosi archivi delle piccole parrocchie montane, sono state rinvenute ai nostri giorni e studiate a fondo.
NOTE Per tutte le notizie di processi per stregoneria si rimanda a: ASCMi, Registro della sentenza criminali. Cimeli, 147, f.51rss — Milano. 1 Dal tedesco Landvogt. magistrato con pieni poteri incaricato dai tre Cantoni del controllo politico e giuridico del territorio ticinese. La maggior parte dei Landvogt provenivano da Lucerna o Zug. 2 Oggi Cantone dei Grigioni. 3 A. Marcaccioli Castiglioni, Streghe e roghi nel ducato di Milano, Milano 2000. 4 Processo a Mayneta di Castello, udienza del 2 giugno 1543. 5 A testimonianza del persistere del culto della pietra legato alla Dea Madre e alla fertilità ancora oggi nel Canton Grigioni i massi erratici sono chiamati "Moma velha" (Madre antica). 6 G. Beccarla, Le streghe di Baceno, Antiquarium Mergozzo 1997.
L'INQUISIZIONE A MILANO (R. Corbella) Secondo il Cathalogus chronologicus fi-dei questor Mediolani nell'anno 1218 iniziò a Milano l'attività del tribunale dell'Inquisizione contro "maghi, streghe, patari ed eretici". 22 aprile 1233 Breve di Gregorio IX che affida ai domenicani la giurisdizione sul Nord Italia per quanto riguarda i processi penali contro gli eretici, affiancandoli ai vescovi. Chi sono in realtà queste streghe lombarde del 1200? Sono per lo più donne disgraziate o vedove abbandonate da tutti. Spesso relegate in una posizione marginale, donne che trovano nei loro poteri una capacità di rivalsa, soprattutto se hanno subito una condanna sociale per deformazioni, gravidanze illegittime, malattie neuropsichiche. Vivono ai margini della comunità professando un'arte medica di rango inferiore; sono guaritrici che si servono di una conoscenza segreta che viene dai poteri delle sostanze naturali, ma sono anche in grado di fornire filtri d'amore o veleni che, accompagnati da rituali magici, possono colpire i nemici dei loro clienti. La Chiesa afferma la presenza del demonio in tutti gli aspetti della stregoneria e, attraverso il potente strumento teorico del Martello delle streghe, legittima ed esige processi e roghi. È del 12 giugno 1233 la bolla Vox in Roma di papa Gregorio IX, nella quale per la prima volta vengono citate e condannate le pratiche di stregoneria, in questo caso relative alla sola Germania. Si parla di omaggio al demonio, profanazione dei sacramenti, balli, banchetti e orge sessuali, metamorfosi dell'uomo in animale. Nel 1320 Bernardo Gui, nel suo Manuale dell'Inquisitore, cita, al capitolo VI, "sortilegi, divinazioni e invocazioni" facendo rientrare le pratiche di stregoneria
nell'ambito dell'eresia. Ormai è sicuro: teologicamente chi è strega è anche eretica! Con la bolla Super illius specula di papa Giovanni XXII, del 1327, viene istituita una prima forma di Inquisizione; inoltre, la bolla conferisce validità universale alle precedenti raccomandazioni indirizzate a chiese locali per la lotta alla stregoneria. Con questa bolla inizia ufficialmente la caccia alle streghe da parte della Chiesa. La prima vittima di cui abbiamo notizia è Carlo Geno di Gaspare Grassi da Valenza, accusato di essere "pubblico negromante e incantatore di demoni" nel 1385 è condannato dal podestà di Milano ad essere torturato ed arso. La condanna viene eseguita nel Broletto Nuovo, davanti a una grandissima folla. E la prima esecuzione capitale a Milano per reati legati alla stregoneria. Nel 1390 l'inquisitore di Sant'Eustogio, fra Beltramino di Cernuscullo, condanna al rogo di Sibillia Zanni per stregoneria. Sibillia Zanni, come Pierina de' Bugatis, che verrà condannata due mesi dopo, confessa di aver partecipato al "gioco di Diana, che chiamano Erodiade". Le due donne affermano di aver chiamato Madama Horiente la Signora del Gioco. Gerolamo Visconti, vicario della provincia domenicana di Lombardia dal 1465 al 1478, anno della sua morte, scrive nel 1470 i due trattati sulle streghe intitolati Lamiarum sive striarum opusculum e Opusculum de striis. I due manoscritti si basano sui processi per stregoneria svoltisi a Milano in Sant'Eustorgio in quegli anni. Nei trattati si afferma con decisione che il gioco di Diana, Erodiade e Horiente è vera stregoneria voluta dal demonio, si verifica realmente e non è una semplice illusione. Anche Giordano da Bergamo tratta di streghe scrivendo la Quaestio de strigis. Ormai è un crescendo di isteria antistregonesca. La stregoneria è anche utilizzata come capro espiatorio nei momenti di crisi istituzionale. Nel 1470 viene processata e condannata al rogo Caterina de Pilli detta Ruggiera da Bergamo, strega confessa. Ci vogliono quattro mesi prima che venga messa in atto la sentenza, quando Caterina de Pilli sta per salire sul rogo l'esecuzione della strega fu rinviata su richiesta del duca Galeazzo Maria Sforza, che era molto interessato ad assistere all'avvenimento. Infatti il nobi-
le signore di Milano assisterà a Monza all'esecuzione. Negli anni 1483-85 vengono celebrati a Bormio numerosi processi contro le streghe che avranno grande risonanza in Europa a seguito delle numerose persone coinvolte. E del 1484 una nuova bolla pontificia per ribadire il pericolo insito nelle attività stregonesche: si tratta della Summis desiderantes affectibus di papa Innocenzo VIII. Con essa si la realtà effettiva del sabba e perciò si sollecita un'azione più energica contro le streghe. Da questa bolla proviene il mandato pontifìcio ai domenicani tedeschi Sprenger e Istitoris di redigere un testo definitivo sulla stregoneria e i metodi per combatterla. Ne uscirà il famoso Malleus maleficarum, il più autorevole manuale contro le streghe ad uso degli inquisitori che resterà in auge per secoli a venire. Alla fine del XV secolo, da Pallanza viene a cercare fortuna a Milano una certa Antonia, che presto si fa una certa fama come guaritrice. Purtroppo desta i sospetti di un curato che la denuncia come strega. Inquisita, torturata e processata viene bruciata in Broletto. Nel 1496 Giovanni da Beccaria informa Ludovico il Moro, sempre curioso di situazioni paranormali, di aver conosciuto a Sondrio uno stregone di 80 anni, di eccelsa arte e conoscenza negromantica, che avrebbe potuto rivelare al duca "qualche malignitade". E nel 1505 dall'inizio del XVI secolo si cerca, da parte delle menti più illuminate (e coraggiose), di chiarire razionalmente il problema dell'operato delle cosiddette streghe e far luce su di esse. Infatti Samuele di Cassinis pubblica a Milano un opuscolo nel quale si nega la realtà degli atti di cui erano accusate le streghe e si afferma che probabilmente si tratta di invenzioni di menti esaltate. Ci vuole un anno prima che qualcuno lo contraddica. Sarà il domenicano pavese Vincenzo Dodo a difendere il punto di vista della Chiesa e dei suoi inquisitori. Quasi a ribadire la ferrea volontà delle istituzioni ecclesiastiche a proseguire sulla strada dei roghi. Dieci anni dopo viene bruciata in piazza Sant'Eustorgio una certa strega di nome Giovannina. Nell'agosto dell'anno 1517 si abbatterono su
Milano una serie di terribili tempeste che presto provocarono un'inondazione. Prese corpo subito la leggenda che quelle tempeste fossero state provocate da sette streghe che si trovavano in carcere, alcune di Orago, altre di Lomazzo, le poverette vennero bruciate nella stesso giorno. Sempre in Sant'Eustorgio, nel 1519, viene bruciata la strega Simona Osterà, che abitava e operava a Porta Comasina e qualche anno dopo viene bruciata Lucia da Dissono, anche lei accusata di stregoneria. Dopo aver assistito ad alcuni processi per stregoneria tenuti a Bologna, Giovan Francesco Pico della Mirandola scrive il dialogo Strix, sive de ludificazione Daemonum nel quale, mostrandosi in questo caso veramente ottuso e al di sotto della sua fama, sostiene la tesi dell'esistenza di poteri reali nelle streghe e di una reale partecipazione del demonio ai loro raduni. Anni dopo gli risponde Gerolamo Cardano pubblicando il De subtilitate. Nel libro XVIII intitolato De mirabilibus. Cardano suggerisce, parlando della stregoneria, che siano le carenze di alimentazione che provocano disturbi mentali nelle donne accusate di essere streghe e descrive le sostanze allucinogene con le quali vengono composti gli unguenti. Ancora nel 1550, nella zona che si stendeva tutto attorno al Duomo di Milano, vi era un quartiere costituito da un ammasso di catapecchie di legno, capanne di argilla, pietre, mattoni, coi tetti di paglia, traversato da vicoli strettissimi dove scorrevano rigagnoli di fetidi liquami. Tuguri poverissimi dalle piccole finestre, luridi e puzzolenti. Era qui che, arrabattandosi nella miseria, viveva il vero popolo milanese, artigiani e operai, che ingrassavano col loro lavoro la ricca minoranza parassitaria, locale e straniera, che deteneva il potere in nome della Spagna. Alle spalle del Duomo vi era il mercato della frutta e della verdura. Il "Verziere", un mercato di miserabili. Un mondo in cui sopravvivevano i più forti ed i più furbi e dove la prostituzione in tutte le sue varianti più laide era di casa. I signori, quando passavano tra quei tuguri, erano sempre accompagnati da guardaspalle armati: i cosiddetti "bravi" di manzoniana memoria. Quartieri che erano anche tane di streghe, cioè di quelle
donne che conoscevano i modi di curare con le erbe e interpretavano i segni magici della natura, la grande madre. Leggevano il futuro, guarivano gli ammalati, aiutavano a fare nascere i bambini o a abortire, preparavano filtri d'amore e veleni, a seconda della richiesta. Le streghe di Milano si trovavano a "Ca di Tencitt"1. Da lì, la notte del sabato, le streghe a cavallo delle loro scope volavano via per andare al sabba, a ballare, cantare, far baldoria e adorare Belzebù. Si mormorava che quella che guidava la "Stremma"2 saliva sui tetti delle catapecchie e si metteva ad urlare, per chiamare le altre streghe al sabba. Quando erano tutte salite tra le tegole, dava il segnale ed esse partivano in volo insieme. In via Laghetto vi era un piccolo lago alimentato dalle acque dei Navigli dove giungevano i barconi carichi, tra l'altro, dei massi di marmo per la Fabbrica del Duomo e del carbone usato per riscaldare le case dei ricchi. Vi abitavano i lavoratori più infimi della scala sociale e si diceva che la maggior parte delle loro donne erano streghe, "cattive femine" accomunate da un identico destino e con la volontà di sfuggire ad una vita di oppressione e di fame con le visioni provocate dagli allucinogeni, e dalle evocazioni del demonio. Erano comunque accettate e benvolute tra il popolino perché svolgevano la funzione di guaritrici, ma anche temute per la loro capacità di operare magie e servire da tramite con gli spiriti invisibili. Purtroppo quando non servivano più alla nobiltà o semplicemente quando queste streghe si facevano troppo potenti e pericolose per le loro conoscenze, ecco che venivano denunciate all'Inquisizione quali adoratrici del demonio, dedite al sacrificio di bambini e allo spargimento di pestilenze. Il 1500 per i lombardi è un secolo di guerra, sofferenze, fame e pestilenze. Queste, a causa delle pessime condizioni igieniche, colpiscono soprattutto la città di Milano. La gente protesta e si raduna nottetempo a criticare i governanti. A volte questi raduni di protesta degenerano in tumulti contro le classi privilegiate, tra le quali è al primo posto il clero. Forse è proprio per scongiurare gli assem-
bramenti notturni del popolo affamato e deviare l'attenzione dei semplici che,J nel 1580, in piena Controriforma con l'Inquisizione che infura e miete vittime anche fra le classi più alte, la confraternita della Santa Croce progetta una colonna in pietra di Baveno, con tanto di Cristo Redentore in cima. Tali cippi servivano per scacciare le antiche entità, quei maledetti demoni che, evocati dagli stregoni, giungevano a tormentare gli uomini e sedurre le donne sottoforma di diavoli. Ogni diavolo, demonio o farfarello aveva la sua specialità. Queste colonne venivano piazzate di preferenza nei quadrivi, considerati luoghi a forte rischio magico già ai tempi dei romani. Viene deciso di erigere il "Sacro pilastro" nel bel mezzo del Verziere, quartiere notoriamente abitato da streghe, da dove si diceva esse partissero per recarsi al sabba. La colonna, debitamente benedetta, avrebbe dovuto avere il potere di tenere a bada le streghe. Il "Sacro pilastro" del Verziere ci mette quasi un secolo ad essere eretto: le autorità civili litigano con quelle religiose. Viene eretta ma crolla subito al suolo. Allora si demolisce la prima metà della colonna e si sbattono in galera i muratori innocenti, quasi fossero alleati delle streghe. Rimessa in piedi nel 1611, precipita a terra ancora un paio di volte durante i lavori di innalzamento. Colpa delle maledizioni scagliatele contro dalle streghe del quartiere? Non si sa. Alla fine fu inaugurata in pompa magna nel 1673 tra il tripudio di vescovo, preti e chierici. ì Nel 1569 Carlo Borromeo, nella sua ossessione di scoprire e distruggere tutte le streghe, attraversa la Brianza inutilmente, finché tra Grandate e Civate, le sue spie gli segnalano alcune donne in odore di stregoneria. La sua milizia personale, anche a costo di inimicarsi il potere politico, assale di sorpresa i cascinali e arresta e tortura le povere donne sospettate. Poco dopo egli organizza il solito processo-farsa a Lecco contro otto di loro. Le donne ritrattano. Si apre un aspro contrasto tra il Borromeo, che insiste per la condanna al rogo, e il Senato milanese che, stanco di tanti macelli in nome della Chiesa, vorrebbe l'assoluzione delle donne. Alla fine cede il
Senato e le donne sono condannate e giustiziate. Federico Borromeo viene consacrato arcivescovo di Milano nel 1598. Entra in Milano il 27 agosto. Sotto suo consiglio il Senato della città di Milano pensò di istituire un carcere apposito solo per le streghe nella Torre dell'Imperatore, antica fortezza dell'epoca del Barbarossa, situata nell'attuale via Santa Croce. In due anni vengono versate a questo scopo le prime 3252 lire nel Banco di Sant'Ambrogio. Il cardinale Federico mostra subito di non essere da meno del cugino Carlo, facendo dello sterminio di streghe e eretici uno scopo del suo apostolato. Il periodo nel quale Federico Borromeo fu arcivescovo di Milano (1595-1631) coincise con il culmine della caccia alle streghe in città. Il Tribunale dell'Inquisizione, dalla metà del Cinquecento venne alloggiato nella chiesa di Santa Maria delle Grazie, lì, dove teneva anche l'archivio dei casi e degli atti processuali, lavorava senza posa per inviare le povere sventurate ai roghi della Vetra. Ci si può rendere conto dell'entità del fenomeno considerando il calendario delle esecuzioni di streghe in piazza Vetra in questo periodo: nel 1599, tre giorni prima di Natale, viene bruciata sul rogo Marta de Lomazzi; nel 1601 la seguono Isabella Arienti, detta la Fabene e Gabbana la Montina, due donne considerate streghe dal cardinale, ma guaritrici ed erboriste dal popolo. In quell'anno vi furono a Milano molte altre esecuzioni per strangolamento e decapitazione, dopo tortura eseguita in piazza e che non sono state registrate nei documenti ufficiali. Proprio nel 1601 fra Agostino Galamini da Bresighella, inquisitore generale, emana l'Editto generale per il Santo Officio dell'Inquisizione di Milano, che impone a tutti i cittadini l'obbligo di denunciare, però non anonimamente, streghe, eretici e giudei. Così l'editto descrive le pratiche di stregoneria: "far sacrificio al Demonio, o giurare fedeltà, o esercitare incanti, magie, maleficii, stregherie, sortilegii, et altre azioni simili, o pur tentare rimedii, o medicamenti diabolici, con segni o parole incognite, o portando sopra di se anelli, o altre cose per attirare la buona sorte". Nel 1608 si giunge allo scontro di Federico Borromeo con il
demonio in persona! Il fattaccio avviene a Claro, presso Poleggio; durante una visita pastorale del cardinale in Ticino a Biasca, egli viene a sapere che Claro è un luogo prediletto dalle streghe per i loro raduni e sabba. Il Borromeo vi si reca sfidando le streghe, che gli mandano contro il diavolo. Dopo un epico scontro tra urla e saette tonanti, il cardinale Federico ne esce vincitore e pianta una croce intimando ai diavoli e alle streghe di non ritornare più in quel luogo. I diavoli si vendicheranno nell'agosto del 1613 assalendo il cardinale sul monte Piottino e scatenando una terribile tempesta. Il governatore di Milano Juan de Velasco invia una lettera nel 1608 a Francesco de Castro, ambasciatore della Spagna presso il Papa, dove lamenta l'inerzia dell'Inquisizione lombarda contro le streghe e descrive gravissima la situazione di Milano infestata da streghe malefiche. Più tardi lo stesso governatore manderà una lettera ai magistrati cittadini raccomandando loro l'acquisto della Torre dell'Imperatore, in disuso, al fine di istituirvi un carcere dove rinchiudere le streghe lombarde. Intanto nel 1611 sempre in piazza Vetra (che comincia ad essere soprannominata "la Vetera d'ia carna brusada") vengono bruciate sul rogo altre streghe: Doralice de' Volpi e Antonia de' Santini. Nel marzo 1617 sale sul rogo Caterina de Medici, accusata di aver fatto malefìci al suo padrone, il senatore Melzi. Per l'occasione viene costruita per la prima volta una "baltresca", ossia un palco sopraelevato per l'esecuzione, che consentiva alla grande folla dei presenti, assiepata nella piazza, di assistere comodamente a tutte le fasi delle torture ed allo strangolamento3 della strega che precedeva il rogo. Caterina de Medici era di Broni, a servizio da Alvisio Melzi, senatore, conte palatino, vicario di provvisione, luogotenente regio e consulente dell'Inquisizione. La poveretta era solo colpevole di essersi sottratta alle proposte indecenti di un certo capitano Vaccallo, carissimo amico del Melzi. Tutto inizia con una strana malattia di Alvisio Melzi. Il quale non riesce a capire l'origine di quei suoi malesseri. I medici chiamati a consulta non riescono a trovare una
cura. Così il suo amico capitano VaccaJlo insinua nella mente di Alvisio il sospetto di essere stato stregato proprio dalla sua donna di servizio, Caterina Medici. La poveretta, che aveva quarantaquattro anni e quindi, per l'epoca, era una vecchia zitella, anni prima aveva servito a casa del Vaccallo e lui aveva provato a farle .la corte, Caterina però l'aveva respinto e deriso, offendendo così il vendicativo capitano in maniera inqualificabile. Caterina non potendo più stare dal Vaccallo era andata a lavorare dall'Alvisio Melzi. E così che la malattia misteriosa di quest'ultimo dà modo al Vaccallo di vendicarsi della donna dichiarandola strega e responsabile delle sofferenze del suo padrone. Sotto la tortura, la poveraccia prima resiste negando ogni addebito, quindi quando lo strazio diventa insostenibile cede e confessa tutto: afferma che aveva firmato un patto con Lucifero, di essere andata al sabba volando su una scopa, sparso malefici e lanciato il malocchio; rovinato famiglie, succhiato il sangue di infanti. Era, insomma, una vera strega. L'ultima sua impresa era stata la malattia del padrone, ma ora si pentiva e voleva tornare a Dio. Venne prima torturata in pubblico: le sue carni furono straziate dalle tenaglie roventi, quindi, poiché si trattava di una strega pentita, fu strangolata prima di essere bruciata. Sulla stessa "baltresca", nel 1620, verranno bruciate sul rogo altre due streghe: Angela dell'Acqua e Maria de' Restelli. Il 12 novembre 1641 ebbe luogo l'ultima esecuzione di streghe in piazza Vetra: salgono sul patibolo Anna Maria Pamolea e la sua serva Margarita Martignona, accusate di essere dedite alla stregoneria e al culto del diavolo. Purtroppo di queste donne sappiamo solo i nomi, non la storia, né i dettagli dei capi d'accusa. Di fronte ad una folla entusiasta, le due donne furono torturate con le tenaglie roventi, invece di garrottarle il boia decide di impiccarle ma al primo tentativo la corda si spezzò e si accese una disputa violenta fra il boia, accusato d'incapacità e alcuni cavalieri presenti tra il pubblico. Tutto ciò davanti alle due vittime sanguinanti e con le carni straziate. Finalmente il boia si decise: le strangola e quindi le arde sul rogo. Il palco della "baltresca" era in
assi di legno, alto circa un metro, grande decine di metri quadrati. Sopra vi era un armamentario di strumenti di tortura per causare il più possibile dolore e sofferenza. Il palco era circondato un'inferriata per evitare che la gente si avvicinasse troppo o vi salisse sopra per impadronirsi di brandelli di carne delle vittime, reliquie ritenute miracolose per curare certe malattie. Un'altra zona di piazza Vetra era dedicata ai roghi di seconda serie. Vi si bruciavano persone di poco conto quali sodomiti e blasfemi. Non tutte le streghe venivano arse in piazza Vetra: le signore nobili accusate di stregoneria avevano il privilegio di non dover subire la pubblica tortura e venivano bruciate in piazza Mercanti, come tempo prima Maifreda, cugina di Matteo Visconti. Purtroppo la grande Milano diede i natali anche ad uno dei più celebri e feroci guardiani della fede: il famoso e per fortuna ormai dimenticato, Francesco Maria Guaccio, frate dell'ordine di Sant'Ambrogio ad Nemus, famosissimo cacciatore di streghe, nonché giudice del tribunale dell'Inquisizione, che fece bruciare talmente tante povere donne che lui stesso disse di averne perso il conto. Di frate Guaccio si hanno ben poche notizie, non si sa né la sua data di nascita, forse morì a Milano nel 1640. Fu considerato un luminare in materia di streghe e di diavoli, compì numerosi viaggi di studio su questa materia, aggiornamento e perfezionamento in tutta l'Europa. Più volte, fu consulente consigliere ed esperto in materia, sia in Italia che all'estero. Fu chiamato nel ducato di Kleve, in Germania, Io convocò per un importante processo di stregoneria: quello contro il duca Giovanni Guglielmo. Fu su precisa richiesta inoltrata dalla Curia ambrosiana che Guaccio raccolse tutto il materiale possibile su streghe e magie in uno dei più celebri libri del suo tempo: il Compendio Maleficarum (stampato nel 1608 a Milano), divenuto subito il testo base dell'Inquisizione. L'opera è divisa in tre libri: la parte più estesa riguarda le modalità delle attività stregonesche e lo svolgimento del sabba. Ma Francesco Maria Guaccio si distingue soprattutto per il suo fanatismo e la sua ferocia. Il suo libro è un un manuale il cui
scopo è quello di offrire un'esposizione semplice e chiara di una materia che ormai aveva assunto le caratteristiche di un labirinto di idee e distinguo di diffìcile interpretazione. Una materia su cui ci si scontrava nelle università, nei conventi e nei tribunali. Egli, citando ben 322 testi ecclesiastici sulla stregoneria, con l'aiuto di elaborazioni semplificanti, offre all'aguzzino uno strumento di lavoro semplice da usare subito per lo sterminio delle streghe. Frate Guaccio non si pone neppure per un attimo il problema di indagare e approfondire questioni di natura teorica: per lui le streghe esistono e poiché perché servono il demonio, sono il male peggiore dell'umanità e devono essere distrutte totalmente e fisicamente. La fine ufficiale della caccia alle streghe in Lombardia, almeno da parte delle istituzioni, è del 1749, siamo in pieno Illuminismo, finalmente si apre tra i dotti dell'epoca un ampio dibattito sull'esistenza delle streghe: esse esistono realmente o sono il prodotto di un compendio tra terrore clericale e allucinazione collettiva? Questa diatriba emerge per la prima volta ufficialmente con il libro di Girolamo Tartarotti Congresso notturno delle Lammie nel quale, pur illustrando situazioni tradizionali, si sostiene l'idea dell'inesistenza reale della stregoneria. Più tardi ha definitivamente successo, con gli scritti di Scipione Maffei, la posizione illuminista che considera il fenomeno una credenza fantastica, opera di "cervelli pazzi e teste strambe". Il clero non si esprime ufficialmente lasciando aperta la porta all'idea della "partecipazione diabolica" alla questione "streghe". Finalmente, nel 1788, per timore sia di rappresaglie da parte dell'intellighenzia rivoluzionaria, che per evitare ricatti e denuncie, per volere dell'imperatore Giuseppe II, dopo aspre contese con la Curia milanese e soprattutto coi Gesuiti, tra giugno e agosto vengono bruciati dai gendarmi nel chiostro di Santa Maria delle Grazie, tutti i documenti relativi all'Inquisizione di Milano, che coprivano un periodo di oltre quattro secoli di vergogna.
NOTE 1 Cioè "casa degli sporchi", che esiste ancora in via Laghetto. I "tencitt" erano i conciatori di pelli, i facchini e i carbonai. 2 La congrega segreta delle streghe, da cui deriva il verbo dialettale "Stremire": spaventare. 3 In realtà, secondo l'uso spagnolo, si trattava di un "garrottamento" uno strangolamento particolarmente lento e molto doloroso. Per il testo di questo capitolo sono state utilizzate le seguenti fonti: ASCMi, Registro della sentenze criminali. Cimeli, 147, f.53 ss - Giovanni Andrea Prato, Storia di Milano, Milano - Michela Zucca, Streghe, diavoli e sibille - Atti del Convegno - Como, 18-19 maggio 2001 - Comune di Como, Cultura e Musei, Biblioteca, NODO libri.
IL "CASO MONTEVIASCO" (R. Corbella) Monteviasco è un piccolo incantevole paese di montagna della Val Veddasca. Per lungo tempo è stato isolato dagli altri nuclei abitati della valle a causa della sua posizione di nido d'aquila, raggiungibile solo percorrendo sentieri impervi ed una ripida scalinata. La difficoltà dei suoi abitanti a rapportarsi coi paesi vicini fece nascere molte leggende1. Monteviasco nel medioevo era una terra di discordie per il possesso dei pascoli tra i locali e gli abitanti del Malcantone (Svizzera), terra di confine quindi e chiusa in sé stessa con poche famiglie e limitato rapporto con l'esterno. L'unico piccolo nucleo abitato con cui gli abitanti di Monteviasco potevano interagire era Piero (praticamente una frazione del precedente), ed in un secondo tempo il gruppo di baite edificate attorno ai mulini situati nel vallone del torrente Giona. Dagli abitanti di Curiglia e Dumenza la Viaschina, Monteviasco e Piero vennero considerati in passato un covo di briganti e stregoneria e ancora pochi anni prima dell'abbandono dei due paesi, attorno al 1950, si mormorava sottovoce che proprio il prete era il più potente "striun" di tutti e che per diventare parroco di questo strano paese bisognava avere relazione con il "Vescuv dur Bocc" (il "vescovo del caprone" ovvero il diavolo) che avrebbe favorito il suo allievo controllando segretamente la curia in modo sopranaturale e così fargli avere l'incarico. Dove non arrivava la grazia divina in Val Veddasca si usava la magia. Una delle ultime "stroligh" di Monteviasco aveva il potere di trasformarsi in qualunque animale volesse: un grande caprone nero ("Becc" o "Bocc") che d'improvviso si materializzava uscendo dal folto del bosco e caricando il montanaro con cui aveva litigato e
precipitandolo nell'abisso. Oppure trasformatasi in una grossa serpe sorgeva dal nulla sul sentiero per terrorizzare ed azzoppare le vacche del vicino a cui voleva male. In un altro caso si affermava che un "Prée stroligh" (prete-stregone) era solito trasformarsi in maialino per seguire e avvicinare la persona (donna o ragazzo poco importava) desiderata sessualmente: se la vittima prescelta toccava o carezzava il maiale ecco che cadeva in un torpore letargico e lo "stroligh", ritrasformatosi in uomo, se ne approfittava libidinosamente. Altre "fisiche" attribuite al prete consistevano nel provocare l'apparizione di animali: cani e gatti mostruosi per spaventare il parrocchiano poco ligio ai dieci comandamenti. Nei racconti dei montanari è frequente la comparsa di qualche enorme gatto nero che balzava improvvisamente fuori dal fuoco o di cagnolini-fantasma che seguivano, digrignando i denti, fino a casa il giovanotto troppo disinvolto con la sua ragazza. In questi casi il giovane, il giorno dopo, aveva una forte febbre. Un parroco lottò contro le idee politiche comuniste di un montanaro usando la fisica: ogni volta che il poveretto cercava di incollare un manifesto elettorale il prete appariva sotto le spoglie di un grosso cane spaventoso e minaccioso, il parrocchiano sovversivo non riusciva a scacciarlo perché il cane vedendo il bastone scompariva subito, per ricomparirgli alle spalle e mordergli le natiche. In questi casi si credeva che se si picchiava l'animale rimaneva ferito il prete. In molti racconti il "Prèe stroligh" usando la "fisica" provocava valanghe e frane per castigare il parrocchiano gaudente di cui invidiava la vita allegra e libertina oppure faceva perdere l'orientamento al boscaiolo poco religioso che non andava mai a messa: sotto effetto del maleficio girava stordito sempre attorno alle stesse piante in cerchio, fino ad impazzire. La tradizione vuole che questa arte magica fosse utilizzata molto dai parroci di Maccagno; ciò accadeva all'inizio del Novecento, ai tempi delle prime idee socialiste, per tenere i fedeli sottomessi al loro volere mediante il timore di questi poteri malefici sovrannaturali. La perpetua, ovvero la zitella che accudiva alla casa del parroco, la cosiddetta "miée dur prée" (moglie
del prete), considerata generalmente donna perfida e cattiva, era spesso identificata come strega esperta capace di compiere i peggiori malefici. Si diceva che i preti "striun" insegnassero alle loro perpetue come utilizzare "ur liber gris"2 per compiere malefici terribili contro i parrocchiani ribelli o poco devoti. Si racconta che, nell'ultima decade del 1800, una nota perpetua del prete di Monteviasco usasse la fisica per provocare piogge torrenziali, o spaventosi rumori e strane apparizioni, in modo da impedire che i ragazzi e le ragazze non sposati (i "Murus") si incontrassero segretamente in campagna per fare all'amore. Oppure provocava frane sul sentiero per bloccarlo ed impedire che un parrocchiano sposato commettesse adulterio con una bella fanciulla di altro alpeggio. Frane magiche che svanivano nel nulla appena il reprobo girava sui tacchi e tornava a casa dalla legittima consorte. Un "montino" chiamato "ur Felìiss"3 era un "mangiapreti" tornando da militare, ancora in divisa, davanti alla porta di casa gli comparve dinanzi un essere mostruoso cornuto e zannuto, il Felice prese la scure e gli diede addosso con innumerevoli colpi violenti per poi accorgersi che, per la gran paura che lo aveva preso, aveva in realtà demolito il suo stesso portone di casa. Il prete per punirlo gli aveva fatto la fisica mostrandogli un'immagine che in realtà non esisteva. La fisica veniva fatta dal parroco anche ai ragazzi e alle giovani che amavano troppo andare a ballare. In questo caso la magia li costringeva, quando erano a Messa, durante il Sanctus a starnazzare come dei galli e delle oche, con loro grande vergogna4. Un uomo detto "ur Sapiént" (il sapiente), perché aveva studiato sino ai primi anni del liceo, aveva un'amante, una donna di facili costumi che egli manteneva a Luino in cambio dei suoi favori sessuali; il prete ne era venuto a conoscenza, così come sapeva sempre tutti i segreti del paese, e decise di punirlo facendogli la fisica. In montagna vi era l'abitudine di alzarsi dal letto prima dell'alba per andare all'alpe dóve vi erano le bestie, così da giungervi allo spuntare del sole. Una notte "ur Sapiént" sentì una forza miste-
riosa imporgli di alzarsi. Non si sa come sia avvenuto: qualcosa gli aveva messo in testa l'idea che era venuta l'ora di andare dalle mucche. Per raggiungere le bestie bisognava passare per forza davanti al cimitero. Arrivato al camposanto, vide aprirsi il cancello e uscirne un fantasma tutto bianco e spaventoso che gli si gettò addosso, in quel momento si sentì battere al campanile l'una dopo mezzanotte: l'uomo si fece prendere dal panico e fuggì. "Ur Sapiént" non ha mai voluto raccontare ciò che aveva visto, limitandosi a parlare vagamente della sua gran paura incolpandone il prete. Lo spavento fu così forte che "ur Sapiént" decise di chiudere per sempre la sua relazione con la donna di Luino. ! Di ognuno di questi racconti vi sono diverse versioni. Un uomo aveva litigato con il prete e per vendetta, scrisse sulla porta della canonica: «Morte al prete». La domenica dopo il parroco durante la predica tuonò: «Coloro che hanno scritto "morte al prete!" fra non molto morte troveranno». In capo a pochi giorni il malcapitato morì schiacciato da un albero caduto. Un mandriano di Piero aveva avuto da dire con la perpetua ed era stato da lei maledetto; poco tempo dopo cadde la neve e il colpevole dovette necessariamente portare le bestie ad abbeverarsi al torrente e così si fece aiutare da altri due amici. Ma non fecero in tempo ad arrivare al torrente quand'ecco che cadde un slavina: uno si salvò, quello che aveva avuto il diverbio con la perpetua rimase sotto la valanga, il terzo riuscì ad uscirne scavando con le mani nella neve. Le capre erano sparite sotto la valanga. La gente del paese corse e scavò quando sentì, una voce provenire da sotto la neve dire «Piano con quelle pale, che sono vivo!». Gli uomini andarono dal curato chiedendogli di aiutare l'uomo anche se aveva litigato con lui, ma si sentirono rispondere: "Ha maltrattato la mia perpetua ! Me ne frego!". Gli astanti pregarono il parroco di punire il colpevole ma lasciarlo vivere. Il prete allora concluse: «Se Domineddio lo perdona, da me è perdonato!». Miracolosamente la neve si smollò e fu possibile estrarre il poveretto salvo anche se ferito.
/ Ma dove le arti magiche del prete si mostrano di più è nella narrazione di quella grande bufera che investì il paese, la cui origine fu attribuita dal prete, gli spiriti maligni. Corse perciò a suonare le campane, poi uscì sul sagrato per controllare l'andamento della tempesta ed ecco che improvvisamente un colpo di vento, gli fece volar via il cappello. Il sacrestano si mise a rincorrerlo ma il parroco lo fermò con queste parole: «Lassa sta, che chi l'ha porta via el porterà!». Nel frattempo i presenti, impauriti dalla violenza del vento corsero a casa a bruciare come atto scaramantico l'ulivo benedetto. Dopo poco, quasi per potenza magica, il temporale si placò e il cappello tornò a posarsi da solo sul capo del prete5. A Monteviasco negli anni dal 1910 e il 1950 vi furono numerosi casi di stregoneria molto ben documentati dalla tradizione orale: la strega più famosa era la Lina6. Bella donna giovane dallo sguardo impenetrabile, mai sazia d'amore a cui piaceva accoppiarsi con ogni uomo che la incapricciasse, senza badare se fosse sposato o scapolo. Tra l'altro si diceva fosse capace di trasformarsi in gufo e volare di notte rapidamente da un alpeggio all'altro allo scopo di gettare il malocchio e "fatturare" le rivali in amore o entrare nel letto del montanaro prescelto. Per fare ciò la Lina si spogliava e cosparso il corpo con una polvere magica si trasformava in volatile alzandosi in volo. Fu proprio questa "abilità" nel volo che la tradì: una mattina fu trovata nuda e tremante di freddo incastrata tra i rami più alti di un enorme faggio che si protendeva sull'abisso. Non riusciva più a scendere. Era successo che, mentre come gufo volava verso casa, un violento acquazzone aveva lavato via la polvere magica: lei era ritornata donna ed era precipitata nel vuoto, per sua fortuna atterrando tra i rami dell'albero. In tutte le tradizioni culturali del mondo, nell'immaginario popolare vi è la credenza che alcune persone siano dotate della capacità di trasformarsi in animali attraverso pratiche magiche e, come animali, pur mantenendo l'intelligenza umana e la mente, i ricordi, la capacità e la lucidità della loro precedente personalità, possono agire in modo da utilizzare il
loro nuovo corpo di cui hanno preso possesso, con tutti i vantaggi: forza e velocità animalesche, ma soprattutto la capacità di volare. Questa credenza fa parte probabilmente di un bagaglio inconscio di pratiche arcaiche rimaste come retaggio popolare dell'età celtica e romana. Apuleio, vissuto a Roma nel 170 d.C., autore di un romanzo in latino Le metamorfosi, anche conosciuto come L'asino d'oro, tra l'altro descrive una di queste trasformazioni che pare tratta dai racconti popolari che mi hanno dettato i miei informatori montanari parlando di streghe. Apuleio scriveva: "...verso le prime ore della notte, la strega Panfila comincia con lo svestirsi di tutti gli abiti, e aperto un armadio, ne trae numerosi vasetti. A uno di questi leva il coperchio, ne toglie l'unguento, se ne spalma a lungo le mani, poi si unge interamente dai piedi sino alla sommità dei capelli, e parlando sommessamente alla lucerna, muove le membra tremando tutta. A mano a mano che si scuote, le spuntano molli piume poi forti penne, il naso le si indurisce e le si incurva, le unghie diventano uncini. Panfila diventa un gufo. Poi, fatto uscire un lamentoso strido, la strega saltella in terra e tutt'a un tratto, levatasi in volo, fugge ad ali spiegate". Questo è il racconto di un'unzione di una strega e suo seguente acquistare forma animale, che sembra proprio un brano di racconto moderno. La casistica è perfetta: vi è l'unguento o polverina magica, e il seguente tramutarsi in animale, guarda caso come la Lina, in un uccello, un gufo. Ricordiamoci l'etimologia del termine "strega" derivante proprio dal nome latino del gufo: "strix-strigis" da cui l'italiano strega. La credenza nelle unzioni che provocano trasformazioni animalesche erano ritenute credibili nel periodo gallo-romano e vennero credute vere per altri 2900 anni e forse qualcuno ci crede ancora oggi! Apuleio, per le sue asserzioni, venne a sua volta accusato di essere un mago e dovette difendersi in tribunale. La credenza nella magia nera e nelle streghe era molto radicata in Val Veddasca come in tutta l'area prealpina lombarda. Così scriveva in Superstizioni popolari dell'alto contado milanese F.
Cherubini, nel 1843: "Il volgo crede ancora nelle streghe. Qualche vecchia accorta fa tesoro di siffatta credenza, e ottiene ciò che le occorre da' poveri contadini...". La tradizione orale del varesotto non è omogenea, nell'area prealpina prevale la credenza nell'esistenza degli "stroligh" e della "fisica", nella pianura si crede più genericamente al "malocchio". Per tornare alla Lina, strega emblematica della Val Veddasca, gli episodi della sua esperienza magica avvengono soprattutto in località "Mulini di Piero". Era molto legata a quel luogo anche perché molte delle sue "malie" le faceva (o diceva di farle) a Indemini, paesino svizzero in fondo alla valle dove essa diceva di avere l'amante. La Lina era magicamente collegata agli alberi e una delle suoi incantesimi era quello di far urlare le piante quando le si tagliava. Un taglialegna dell'epoca riferì che quando tentava di abbattere un albero particolarmente imponente per fare carbonella o per vendere il legname a Luino, al primo colpo di scure la pianta urlava come un essere umano: "Se non avessi bisogno di questa attività per mantenere la mia famiglia, cambierei lavoro. Questi alberi sembrano avere un'anima e una voce. Quando la sega penetra il legno vivo, io sento la loro sofferenza! Allora smetto e provo a tagliarne un altro ma anche questo urla come un bimbo sgozzato e io non ce la faccio a sopportarlo e corro a casa...". In realtà, il mattino dopo il tentato abbattimento, la Lina si presentava a casa del malcapitato taglialegna e si offriva di togliere la fattura al suo bosco in cambio di una piccola somma di denaro. L'uomo accettava e dopo aver pagato era sicuro che gli alberi non avrebbero più urlato. Più recente è la storia della "Pora Ghìti", la povera Margherita, che fu una strana strega: in effetti nessuno la incolpava di malefici o di lucrare sui suoi poteri veri o presunti. Anzi essa era forse vittima di questi strani accadimenti. Ghìti frequentava poco la chiesa e si sussurrava praticasse segretamente la "Religiun d'arbur" (il culto degli alberi), ovvero probabilmente i resti di un antico culto
celtico precristiano, i cui frammenti sono rimasti nella memoria popolare come superstizioni. La sua vita fu quella solita: lavoro, matrimonio, prole. Però diventata anziana cominciò a fare magie benefiche: preparava sortilegi per far riconciliare gli innamorati, o per curare un bambino anemico, o che non cresceva bene perché vittima dell'invidia di qualcuno che gli aveva gettato il malocchio. Si vantava di essere in grado di trasformarsi in animale, ma di non essere in grado di controllare i suoi poteri, che avevano il sopravvento e la costringevano a fare cose che non voleva fare. Un brutto giorno, dopo la benedizione alla chiesa della Madonna della Serta, Ghìti, giunta alla fontana, vide comparire due esseri che "non erano né uomini né bestie ma avevano qualcosa di tutti e due", sembravano fatti di fumo, l'avvolsero come in una nebbia e la portarono via. Qualche ora dopo ci si accorse della sua assenza e si suonarono le campane. Per tutta la notte la si cercò in paese o su per la montagna, ma senza trovarla. Il marito, che era via a lavorare, fu subito avvertito dai parenti. La trovarono due giorni dopo nel bosco nuda su di un noce che cantava come un uccellino. Un'altra volta si trasformò in un "ratt de nisciòra"7 cercò di farsi notare inutilmente in questa forma cadendo sui piedi di una donna che andava al mercato. Un'altra volta si dice che si trasformò in corvo e per una settimana non tornò a casa. Alla fine il postino che veniva da Maccagno, prima di giungere a Piero, sentì una donna piangere e lamentarsi. Giunto a Monteviasco avvertì il prete che con la croce e alcuni volonterosi corsero per aiutare la povera Ghìti. Il sacerdote giunto alla "Gràa"8 da dove venivano i lamenti, fece entrare una donna che aiutasse la Ghìti a rimettersi gli abiti. Lei piangeva e gridava dicendo che i diavoli l'avevano convinta a diventare corvo. Il prete la calmò e proibì agli altri di parlarle, o di farsi raccontare ciò che era successo. Per un poco stette bene e non si trasformò. Ma la primavera dell'anno seguente per fare la legna andò al monte, nel suo bosco, con una compagna e sparì sotto gli occhi dell'altra donna esterefatta. Fu trovata agli Aghée, trasformata in un cagnolino che girava per i prati.
I figli cercarono di uccidere l'animale con una rastrellata senza sapere che sotto le spoglie animali vi era la loro madre. Il parroco, dopo ogni metamorfosi, si recava a benedirla con l'ostensorio e l'acqua santa. L'ultima volta che si trasformò in un animale fu ritrovata nuda, morta attaccata, alla trave di una cascina in rovina. Attenzione abbiamo scelto questo lembo di Verbano come esempio emblematico di una situazione comune a tutti gli altri centri di montagna prealpina costretti dalla natura ad un regime di isolamento che favoriva la psicosi stregonesca che non risparmiava neppure i sacerdoti (non tutti s'intende, i più combatterono queste idee con forza e determinazione). L'unico motivo che ci ha fatto descrivere situazioni e personaggi propri della Veddasca è stata la facilità a reperire in loco fonti su queste tradizioni9.
NOTE 1 Una su tutte: Monteviasco sarebbe stato fondato nel XVI secolo da un gruppo di mercenari dediti al brigantaggio che si rifornirono di donne rapendole ai paesi vicini. In realtà, ritrovamenti archeologici hanno dimostrato che Monteviasco era già un importante centro religioso celta nel 300 a.C. 2 Libro Grigio: misterioso testo che si diceva contenesse tutte le formule magiche da usare per fare la "fisica". 3 Montino: abitante di Monteviasco, "ur Felìiss": il Felice. 4 Per i montanari prealpini il canto del gallo fuori orario ha significato di malaugurio e il verso delle oche si dice che porti la malattia in casa. G. Tassoni nel libro Tradizioni popolari nel dipartimento del Lario, scrive: "...quando sentono i contadini ed altra gente rozza cantare le galline alla foggia dei galli, il che dicasi cantare in gallesco, lo hanno per cattivo augurio, e perché cessi la loro mala ventura hanno in costume di vendere una tale gallina e di correre col danaro dal Parroco onde celebri una messa". 5 Qui abbiamo il "vento maligno" di E. De Martino in Sud e magia (Milano 1959): oscura presenza demoniaca che viene dominata dalla forza religiosa che si sprigiona dal prete. 6 Soprannome datole a Indemini, non siamo riusciti a sapere il vero nome. 7 Si tratta del moscardino, piccolo roditore fulvo dorato che, come i ghiri, nella credenza popolare è collegato al diavolo. 8 Cascinotto dove si essiccavano le castagne. 9 II miglior testo su Monteviasco resta: G. Astini, Monteviasco, storia di un paese solitario. Società Storica Varesina, Varese 1974.
LE STREGHE LOMBARDE: "STRANIERE PERICOLOSE" (M. Centini) Le credenze spesso si nutrono di luoghi comuni e stereotipi che lasciano tracce profonde nella tradizione, tracimando nel folklore e nella leggenda. Indicative, per quanto riguarda l'idea di stregoneria che qui si analizza, alcune leggende raccolte in Garfagnana. Pare che in un passato ilio tempore, quello tipico della leggenda e della fiaba, per il periodo della raccolta delle castagne si portassero in quell'area toscana molte donne che provenivano anche da lontano per lavorare come coglitrici. Numerose erano indicate come "Lombarde" e non di rado guardate con un certo sospetto. Si tenga conto che in genere la regione posta oltre l'Appennino Tosco-Emiliano era genericamente detta "Lombardia". Una prima leggenda locale narra che in quei tempi in località Madonnina della Neve lavorava presso una famiglia una Lombarda il cui comportamento era però tale da suscitare qualche sospetto. Infatti non prendeva mai parte alle funzioni religiose, e dopo cena era solita appartarsi. Una sera il padrone di casa volle seguirla e la trovò addormentata su una tavola con la bocca aperta. Provò a chiamarla ma senza ottenere alcuna risposta: la donna pareva morta! Ad un tratto un topolino si avvicinò alla Lombarda e le entrò in bocca. A quel punto la donna si svegliò improvvisamente e si stupì molto vedendo l'uomo che la osservava. Il padrone le domandò dove fosse stata ed essa cercò di sorvolare sulla questione, ma visto che l'altro incalzava divenendo aggressivo disse si essere stata in un paese vicino a "rovinare un ragazzo".
"Rovinare" è un modo di dire che si rinviene spesso nelle dichiarazioni delle streghe e in pratica corrisponde, a grandi linee, al concetto di fattura. Ritornando alla nostra Lombarda, apprendiamo dalla leggenda che l'uomo obbligò la strega a ritornare dove era stata per riparare il male fatto. Si addormentò e il topolino uscì dalla sua bocca: il ragazzo rovinato era salvo. Dopo quella tragica esperienza il padrone allontanò per sempre quella coglitora che fece ritorno nella "sua" Lombardia. Vi sono altre vicende di questo tenore, in cui gli animali demoniaci che entrano nella bocca delle Lombarde possono essere di altro tipo: ricorrente, accanto al topo, il moscone. Si tratta, come è noto, di due animali parassiti e dannosi, ampiamente demonizzati nella cultura contadina, spesso utilizzati come emblema del diavolo. In un'altra leggenda, sempre della Garfagnana (O. Guidi, Gli streghi, le streghe... Antiche credenze nei racconti popolari della Garfagnana, Lucca 1977), si narra di un boscaiolo che colpì un fastidiosissimo gatto con un'accetta. Dopo qualche mese, passando per la Lombardia, si sentì chiamare da un uomo senza un braccio. Si avvicinò e costui gli comunicò di essere uno "strego" che quando faceva parte della congrega degli stregoni si mutava in gatto e andava in giro a disturbare i contadini. Anche in questo caso, la metamorfosi in gatto costituisce uno dei modelli ricorrenti nelle credenze sulla stregoneria, rinvenibile in varie località e quasi sempre contrassegnata da identiche peculiarità. Quanto ci pareva significativo sottolineare è la presenza, in queste leggende, del tema dello straniero demonizzato, secondo uno schema presente in tutte le culture e in ogni paese. La violazione dei limiti territoriali esaspera naturalmente il concetto di separazione tra centro e periferia, determinando paure ataviche: il tema dei confini (fisici e culturali) coincide sempre con quello dell'identità, che risulta tanto più sentito quando la solidità di quei confini viene a mancare. Infatti, fino a quando una società
è concepita come una struttura architettonica od organica, basata su un concetto di spazio inalterabile e separato dall'esterno con confini naturali e inalienabili, il problema dell'identità culturale non è completamente sentito. La "spazialità dell'esserci" rivela soprattutto quanto sia robusto il legame tra l'identità e il luogo: se tale status viene alterato dalla presenza di portatori di cultura diversa, si rompe un equilibrio delicatissimo e consolidato. Scattano reazioni non sempre razionali, ma soprattutto si cercano spiegazioni anche soprannaturali per cogliere in foto le cause che possono aver condotto alla disarmonia collettiva. Il bisogno di trovare un'origine al disagio culturale oltre gli spazi delimitati di quella che è considerata la regolarità nasce dal malessere della società, che per giustificare le proprie anomalie riversa le sue frustrazioni su figure "altre". L'ambiguo atteggiamento nei confronti dell'altro può produrre reazioni diverse, che variano dal timore e dalla volontà di evitare ogni contatto, fino alla consapevolezza della necessità di distruggere "fisicamente" il portatore dell'alterità.
LE STREGHE BERGAMASCHE TRA STORIA E FOLKLORE (M. Centini) di Brescia), furono due aree particolarmente coinvolte nell'accesa lotta contro la stregoneria. Lotta che si concretizzò in una serie di azioni contro le adepte di Satana il cui effetto fu la condanna al rogo per un elevato numero di persone (donne nella prevalenza), considerate membri della setta diabolica. L'area geografica corrispondente all'attuale Bergamasca, vista la sua collocazione territoriale, di certo non fu indenne dagli influssi provenienti dalle zone attigue, anche se, sulla base delle fonti storiche disponibili, il territorio bergamasco risulta aver risentito in modo minore dell'influsso della caccia alle streghe. Innegabilmente però, come peraltro si verificò in altre aree, anche nella Bergamasca la strega ebbe una posizione molto forte nell'immaginario, trovando una propria fisionomia mitica, attraversata da un profondo sincretismo culturale. Di questo status abbiamo due tracce molto vivide che hanno il loro focus in una figura e in un luogo: la prima è la donna del zoch e il secondo il Passo del Tonale. Secondo un'interpretazione che sembra essere condivisa da numerosi studiosi della stregoneria, la singolare figura della donna del zoch (o zóck), ben attestata nella cultura locale di alcune aree lombarde, viene tradizionalmente paragonata alla nota Donna del Gioco e acquisisce peculiarità mitiche che ne fanno una "volgarizzazione della Erodiade, o Diana, citata già nel Canon Episcopi, una sorta di residuo di divinità pagana consacrata alla danza e di rango appena inferiore a ome ben noto anche al di fuori della storiografìa uffìcia'le, Valtellina (diocesi di Como) e Valcamonica (diocesi
Satana"1. Un personaggio a cui era attributo il potere "di attraversare larghi spazi di terre grazie al silenzio della notte profonda" e che le streghe "ai suoi ordini" consideravano "la loro signora" e "chiamate certe notti al suo servizio" ( Canon Episcopi)2. "La dona del zòch sarebbe una specie d'innocuo fantasma notturno di sesso femminile che, sotto vesti di contadina, si mostrava in atto di lavare vicino a una fontana o a qualche ruscello. Per altri, lo stesso spettro era visibile anche lungo le siepi delle stradette solitarie o sotto gli alberi, in aperta campagna: ma il curioso si è che, per alcuni, aveva la facoltà di allungarsi, in breve tempo, fino a raggiungere cospicue verticali". Così Carlo Traini descrive dona del zóch (la donna del gioco) nel libro Leggende bergamasche 3. Sull'etimologia di questa singolare figura dell'immaginario contadino gli esperti di linguistica e conoscitori delle sottili alchimie dei dialetti, hanno suggerito alcune tesi interpretative che si sostanziano in due ipotesi di traduzione: - zóch = gioco; - zóch come alterazione di lóch (luogo). Ne consegue che la tradizione potrebbe essere: la Donna del gioco o la Donna del luogo. Anche se apparentemente la seconda versione sembrerebbe essere l'interpretazione più razionale, forse l'eco di una figura storico-mitico ormai diffìcile da contestualizzare vista l'assenza di fonti precise, in realtà è la prima versione a porsi come ipotesi di maggiore interesse poiché si connette ad un'altra (?) Donna del gioco di cui abbiamo una vivida traccia nei documenti relativi alla caccia alle streghe. Nella nutrita messe di materiali sulla stregoneria, costituita da documenti processuali, lettere, testimonianze di inquisitori e di studiosi dell'epoca, troviamo frequentemente l'accusa rivolta alle presunte donne del diavolo di partecipare al cosiddetto "Buon gioco". "Al raduno o gioco (ludum) queste persone pestifere vanno fisicamente, ben sveglie e pienamente padrone dei propri sensi (...) co-
munque ci vadano, sia a piedi, sia portate dal diavolo, è cosa vera che realmente e veracemente, e non con la fantasia o ¿Ilusoriamente, rinnegano la fede cattolica, adorano il diavolo, calpestano la croce, commettono numerose e nefandissime oscenità", così Bernardo Rategno da Como nel De strigis (1510), commentava la pratica del "gioco". Un "gioco" che nell'interpretazione inquisitoriale fu accomunato al sabba, punto culminate dei rituali praticati dalle streghe per celebrare Satana, ma la cui effettiva fisionomia è ancora oggetto di discussione tra gli studiosi. Significativamente, in numerose delle dichiarazioni rilasciate dalle donne accusate di stregoneria, viene indicato che il rito (/«cium) era in qualche modo diretto da una Donna del gioco: una figura che risulta totalmente priva di connotazioni diaboliche, anzi, su più livelli, sembrerebbe riallacciarsi all'immagine di divinità femminili pagane e connesse alla fertilità. Osservando le fonti medievali, si constata che le "donnae nocturnae" in realtà erano esseri generalmente considerati buoni ("bonae res"), apportatrici di benessere, in cui erano presenti i riverberi di creature silvestri femminili assorbite nella tradizione folklórica e diventate spesso le ben note fate e ninfe di molte leggende. Nei primi secoli, il Cristianesimo considerava chi credeva in queste figure vittima delle illusioni diaboliche, ma non per questo coinvolta in alcun commercio con Satana. In effètti, anche nella trattatistica cristiana precedente la grande caccia alle streghe, abbiamo concrete testimonianze sul ruolo positivo delle "buone donne", a cui, secondo una diffusa ritualità agreste, erano richieste indicazioni e intercessioni. Jacopo da Varagine, nella Legenda aurea (XIII secolo), ci riferisce dell'abitudine delle popolazioni nordiche di porre offerte alimentari propiziatrici destinate alle "bonis mulieribus" che avanzavano di notte. In seguito, con la pressione esercitata dalla caccia alle streghe, la Domina ludi dei primi secoli fu associata ad una figura grondan-
te culti del diavolo, il cui punto di fuga nell'interpretazione fortemente demonizzante degli inquisitori era assegnato alla primitiva Ecate. Questa divinità, venerata in origine nel Vicino Oriente, nel mondo classico divenne la Signora delle arti magiche; in suo onore si allestivano dei banchetti nei crocevia e per questa sua particolare collocazione era anche raffigurata con tre o quattro facce. Il suo legame con i crocevia la collegò con gli spiriti malvagi che notoriamente si ritrovavano in tali luoghi nelle notti deputate al cueto del diavolo. La sua figura fu sempre più legata al male, diventando dea delle ombre ed evocata nella magia nera. Da numerose fonti sulla stregoneria, in genere atti processuali, denunce e documenti sinodali, apprendiamo che spesso le streghe lombarde avevano come luogo dei loro incontri il passo del Tonale, in alcune occasioni detto "Montagna di Venere". Quale nome più adatto per porre in evidenza l'alterità di un luogo delle streghe se non correlarlo ad una divinità femminile pagana? A vederlo oggi, con i suoi impianti, i tanti alberghi, i negozi e con i suoi mercatini improvvisati, sembra così difficile immaginarlo avvolto dalle nebbie della leggenda creata da una mitologia popolare che si perde nel passato lontano. "Credo non sia fuori di luogo il riferire che nel passaggio dalla Valle Sabbia alla Valle Camonica dalla parte del monte detto CroceDomini, avvi una montagna appellata Gauri, che resta a mano dritta partendo da Bagolino, ultimo paese della Sabina Valle. Colà fino al giorno d'oggi da que' semplici montanari si asserisce essere quella stata di stregoni stanza, e quel monte di maligni spiriti dimora"4. Nell'economia dell'argomento qui affrontato, ci pare importante segnalare che in un documento del 1620 il Croce Domini risulti indicato come "Mons Cros Demonia". Il passo del Tonale, posto tra la Valcamonica e la Val di Sole, fu fin dal passato considerato "reggia di Plutone, che serve di teatro, per farvi lor circoli, e diabolici tripudij ad un gran numero di streghe e Negromanti". Così indicava padre Gregorio Brunelli ricordando che
al passo streghe e stregoni convergevano cavalcando capre, cavalli e anche gatti, oltre ad ogni altra specie di animali fatati. Sempre da documenti processuali, apprendiamo che una strega bergamasca, certa Onesta, ci andava sopra una capra; un'altra, Pincinella, così descriveva il viaggio: "Meteva le gambe in spalla al me Zullian et in una Ave Maria el me ge aveva portà, et alcune volte veniva un demonio in forma o di cavallo o di capra, e sé me portava e cussi li altri". Spesso il loro numero era elevatissimo: il nostro cronista parla di circa duemila adepti di Satana che giungevano dalla Valtellina, Val Seriana e Val Trompia. Un accusato di stregoneria giunse addirittura ad affermare che in certe occasioni si erano contate fino a quattromila persone danzati intorno ai falò del sabba. Il Tonale era "il luogo preferito dalle streghe della Valtellina per le radunanze, scelto pure dalle streghe delle prossime altre terre, in ispecie della Valcamonica, al qual monte si associano ancora oggi tradizioni paurose di infernali congreghe, di notturne tregende"5. Il passo ritorna in molte dichiarazioni delle streghe e non, il che naturalmente sorregge la nomea diabolica di questo luogo. Ad esempio, tra i documenti dei processi celebrati a Sondrio nel 1523, il nome del Tonale ritorna con frequenza: "da poij la dieta Catelina monta a cavallo sopra uno bastone unto de un certo unguento che la dieta Margherita non sapeva da qual compositione fusse facto, supra il qual bastone la dieta Catelina fece anchora montare dreto de leij la soprascritta Margarita, et cossi tutte doij fumo portate nel loco del Tonale, dove se faceva el zogo del bariloto". E ancora. "Bartolomeo Scarpatetto, de sette anni, fu condocto parte per man et in parte in brazo per la dieta Iohannina sua amita al zogo del bariloto che se faceva in Tonai"6. Nel 1603 l'inquisitore Ignazio Lupi {Nova lux in edictum S. Inquisitionis) indicava che il passo del Tonale, da lui battezzato "Montagna di Venere", ospitava il giovedì tutte le streghe della bergamasca che in quel luogo si davano abitualmente convegno, con
loro i diavoli che "nei barlotti del Tonale eran per lo più circa quaranta; erano vestiti chi di turchino, chi di verde, chi di meschino et di pelle (...) erano mascherati"7. Emblematica la memoria del Mariani che, nel 1673, così descriveva quel luogo infernale: "Dal monte di Cles mi richiameria il monte Tonai in capo a Val di Sole, e mi faria voglia di salirvi, se non altro, per di là vagheggiar un tratto di Gallia Cisalpina, e notar il Passo che fa per le Valli Camonica e Tellina: ma perché ha fama questo monte di servir ad un gran numero di streghe e negromanti, per farvi di lor diabolici tripudij, e circoli non debbo hazardarmi di porvi piede: quando non havessi più, che armata la mano d'essorcismi, anco di buon legno per ¡sgombrarne que' tanto inuqi, e perfidi prestigiatori: se ben io non creddo in tal monte tante cose. Anzi vengo d'intendere da chi ha visto, come nella sommità di Tonai, dove s'apre una vasta e bella prateria, sorge nel mezzo piantatavi solennemente, anni sono, la Santa Croce: segno manifesto che sgombrate del tutto le parti avverse e a forza di quel nuovo trino disfatto ogni circolo d'incantesimo, non più v'annida e sibila l'antico Serpente"8. La tradizione che riconosceva nel passo del Tonale il luogo consacrato per eccellenza al sabba lombardo continuò per molto tempo: all'inizio del XX secolo lo storico Spinetti scriveva, "che la tradizione della ridda dei demoni e delle streghe sia sparita dalla Valle, non è neppure da immaginarsi. Il Tonale è ancora per il volgo ignorante della Valtellina e Valcamonica il luogo del Congresso degli spiriti e degli stregoni, come lo è pure il Painale e la Valle del Togno per Sondrio e per gli altri paesi di questa regione"9. Quindi vi erano Lombardia altri luoghi che, pur essendo di tono inferiore al Tonale, erano considerati un ricettacolo di streghe e demoni. In Valtellina il sabba si svolgeva al prato di Gambaro, nei castelli di Moncucco e Grumello, sul monte Camino vicino a Sondrio, al prato di Privilasco sopra Poschiavo e lungo l'Adda, sotto Ponte. In questo caso a darne notizia fu padre Bernardo Rategno da Co-
mo (attivo come inquisitore all'inizio del XVI secolo): "un tale fu per caso visto e riconosciuto poco prima del sorgere del giorno in un certo luogo da due persone fededegne, nei pressi di alcuni vigneti non lontani da Ponte, verso l'Adda, partecipare al gioco delle streghe". Malgrado tutto, chissà per quale strana alchimia della fantasia, ai 1883 metri del passo del Tonale è toccato il primato destinato a trasformare questo valico nel luogo deputato per streghe e diavoli. La sua aura magica non è stata cancellata neppure degli echi della Grande Guerra, riverberando qua e là nelle leggende narrate dai più anziani. Al di là della tradizione leggendaria che aleggia intorno al Tonale, è comunque importante osservare che quel luogo è presente nelle fonti storiche relative alla caccia alle streghe. Ad esempio, sappiamo che nel 1499, tre preti camuni - Martino Raimondi di Ossimo; Ermanno de Fostinibus di Breno; Donato de Buzolo di Paisco Loveno furono trasferiti a Brescia poiché accusati di recarsi al Tonale con olio santo e ostie consacrate, dove avrebbero effettuato una serie di riti atti a rendere "demoniaci" quei prodotti; inoltre i tre preti erano anche accusati di rifiutarsi si somministrare l'estrema unzione. Gli storici, fino al XIX secolo, offrivano del Tonale una visione fortemente travolta dalla leggenda: nei testi coevi si trovano infatti descrizioni di chiara impostazione romantica, con numeri strepitosi: ad esempio, 2.500 streghe che ogni notte si riunivano al passo per celebrare il sabba. La tradizione si basava ed enfatizzava testimonianze già esasperate ab origine: nel XVI secolo, Carlo Miani, scriveva che al Tonale gli "stregoni" mangiavano e bevevano ed erano intrattenuti da bellissime ragazze. Significativo il mezzo adottato da una donna bergamasca per raggiungere il Tonale in breve tempo: "meteva le gambe in spalla al me Zulian, et in una Ave Maria el me aveva già portà, at alcune volte veniva un demonio in forma odi cavallo o di cavra e sì me portava e cussi li altri"10. Il Tonale ricorre anche nei processi celebrati a Sondrio nel
1523: "la dieta Catelina monta a cavallo sopra un bastone unto de un certo unguento che la dieta Margarita non sapeva de qual compositione fusse facto, supra il qual bastone la dieta Catelina fece anchora montare dreto de leij la soprascritta Margarita. Et cossi tutte e doij fumo portate nel loco de tonale, dove se faceva al zogo del barilotto (...) Bartolomeo Scarpatetto, all'età di sette anni, fu condotto parte per man et parte in brazo per la dieta Iohannina sia amita al zogo del barilotto che se fava in tonai". Nel XVII secolo, M. Mariani scriveva: "questo monte (ilpasso del Tonale, n.d.a.) di servir ad un gran numero di streghe e negromanti, per farvi or loro diabolisi tripudij, e circoli, non debbo azzardi a porvi piede: quando non havessi più, che armata la mano d'essorcismi, anco di buon Legno per isgombrare que' tano inqui, e perfidi prestigiatori: se ben io non creddo di tal monte tante cose"11. A dominare nell'interpretazione che ebbe la sua affermazione soprattutto in ambiente romantico, era la volontà di individuare oggettive relazioni tra i "barilotti" del Tonale e gli echi di esperienze cultuali di origine pagana: "Tonale deriverebbe dal notturno lupercale dei maghi e delle fate (tunn-ahal)"12. Ciò in relazione al fatto che "nell'antichità pagana il passo era consacrato al dio Tonante Pennino, ed ivi si allestivano feste in suo onore, il popolino ha creduto che vi fossero inscenati anche i sabba fra le lamie e i demoni, versioni sacrileghe di quelle remote cerimonie"13. Lasciando a latere gli aspetti eminentemente folkloristici, e orientandoci in direzione della storia, constatiamo che per trovare le prime tracce sulla stregoneria nella Bergamasca dobbiamo ritornare all'inizio del XIV secolo; risale infatti al 1304 un breve accenno a "strigonecci e malefizii" segnalati in alcune aree del territorio diocesano14. Sarà necessario attendere oltre un secolo e mezzo per incontrare fonti che si esprimano con maggiore ufficialità: è del 1457 un Breve di Calisto III in cui si richiedeva di intervenire contro le streghe "in progresso a Bergamo e a Brescia". Segno che il fenomeno
cominciava a destare qualche preoccupazione. Anche i due successivi pontefici (Alessandro VI e Giulio II) segnalarono la pericolosità della "provincia lombarda", poiché "terra fortemente infetta di stregoneria". Spesso le vicende che avevano un'origine nella realtà, subivano comunque un'enfatizzazione attraverso la voxpopuliche si incuneava tra storia e leggenda diffondendosi attraverso la voce dei cronisti. Emblematiche in questo senso le memorie riportate da padre Donato Calvi, nella sua Effemeridi sacra e profana di quanto di memorabile sia successo a Bergamo (1676). Eccone un esempio indicativo: "Vien riferito in questo mese {16gennaio 1517, n.d.a.) il memorando evento di questa giovinetta bergamasca che, seguitando le pedate della malefica madre, nuda si ritrovò in Venetia in casa d'alcuni suoi parenti. Fu così il fatto. Nella notte del giorno d'hoggi, trovandosi la fanciulla con la madre a letto in Bergamo, sentì quella (che credea la figlia addormentata e non era) levarsi pian piano dal letto e portarsi in un angolo della casa. L'osservò la figlia e vide che, trattasi la camisa e cavato di sotto i mattoni un vasetto d'unguento, con esso s'andò ongendo il corpo, indi, preso un bastone a tal fine preparato, vi salì sopra a cavallo e aperta la finestra fuori se ne volò. La figlia, curiosa di vedere il fine della madre, levatasi dalle piume, fece il medesimo che fatto haveva quella, onde, sopra il bastone salita fu pur fuori della finestra a volo portata e nello stesso luogo trasferita ove la madre aerasi condotta. Questa era una casa in Venetia d'alcuni suoi parenti, ove la scelerata strega, più volte andata per ammaliare un bambino, mai potuto havea sortir l'intento perché sempre armato col segno della Croce et Sante orationi trovato l'haveva. All'arrivo della figlia conturbata la madre cominciò a minacciarla, onde la giovinetta atterrita e spaventata prese ad invocare il nome di Dio e della B. Vergine, sì che la madre disparve e la misera spogliata nuda et sole ivi rimase, trovata la mattina e conosciuta
da' parenti che poi, inteso il fatto, scrissero a Bergamo ove la maliarda vecchia riportò dalla Santa Inquisizione la ben meritata pena". Il racconto di padre Calvi trova una corrispondenza nella letteratura giuridico-teologica del XV-XVI secolo, che indicava nel volo della streghe una pratica diffusa e variabilmente interpretata, ma sempre considerata effetto dell'azione diabolica. La credenza è confermata in un'altra testimonianza del Calvi (riferita a fatti accaduti nel 1533) e riguardante una certa "Spadona", indicata come strega e artefice di una serie di fenomeni soprannaturali, anche dopo la sua morte. "Morì in Foipiano di Vall'Imania una donna chiamata Spadona, comunemente creduta e praticata strega. Seguì la sua morte alla sette della notte, e in quel punto che morì fu udito uno scoppio terribile che pareva rovinasse la casa; corsero genti e gittata in terra la porta (perché sola abitata e niuno al batter rispondeva), trovarono la rea femmina ignuda morta per distesa, ma nera come un carbone e co' denti inchiavati. Li aprirono per forza la bocca, in cui pareva sentirsi qualche moto, e n'uscì un serpe lungo mezzo braccio, che trasse seco horribil puzzo e in un tratto svanì. Fu in un bosco sepolta e in casa le fur trovate sette calvarie di piccoli fanciulli, con ossa infinite de morti, gruppi di capelli, un crocefisso di cera con aghi trapunto, et aktri magici arnesi. Il tempo s'oscurò e tutto il giorno seguente fu come notte tenebrosa". L'immagine che scaturisce dalla precedente descrizione risulta contrassegnata da un'aura contesa tra la fiaba e l'horror, vi sono infatti tutti gli ingredienti per assegnare alla Spadona il ruolo di strega secondo un modello più letterario che storico. Nell'ambiente in cui viveva vi erano crocifissi trafitti con spilli secondo un modus operandi caratteristico della magia nera; crani (calvarie) di bambini, ossa umane, ecc. Questa donna, comunque, condusse la propria esistenza con una certa libertà, visto che finì i suoi giorni presumibilmente per cause naturali nella propria casa. Non risultano azioni legali a suo carico, quindi vi è la possi-
bilità che la vicenda descritta dal Calvi fosse influenzata dalle tradizioni e dalle leggende locali. In realtà, nell'area bergamasca, si ha notizia di condanne a morte comminate a streghe dalla metà del XV secolo alla metà del XVIII, anche se la mancanza di documenti costituisce un'importante ipoteca allo studio15. Come sempre, la mancanza di fonti processuali non rappresenta la prova che la stregoneria non sia stata perseguita, ma rende comunque diffìcile il compito del ricercatore, ansimante nel suo instancabile tentativo di reperire indizi e tracce. In qualche caso la ricerca dà i suoi frutti proponendo fonti indirette, non legate alla pratica giuridica, ma comunque di rilevante valore documentario. Uno di questi frutti è stato raccolto da Tomaso Ghigliazza che, oltre vent anni fa, aveva pubblicato la "letera data a Clusun a dì 17 dezembrio 1518, scrita per uno da Francesco Rovello, drizata a Ser Hironimo Querini fò di Ser Pietro". Si tratta di un documento di notevole interesse che vale la pena di rileggere: "Magnifico Signor mio! Dominica passata, de imposition dil Magnifico podestà Domino Vetor Querini essendomi transferito a Gromo, loca dila valle distante di Clusòn miglia 6 in circa, dove si ritrovava il reverendo Inquisitor nominato missièr Fra Zuan Batista di l'ordine di San Domenego, da Brexa, persona in vero molto docta et maxime in theologia, per caxon di prozeder contro alcune stige di quel loco, et già cinque erano state retenute, et essendo stà presente al costituto di una di quella, mi ha parso satisfaction del debito di particolar notitia far partecipe Vostra magnificentia acciò quella di meraviglia si stupefza. Et invero dirò cussi, che se io cum li propri occhi et orecchie non avesse udito et visto, dubioso seria di prestargli fede. Dunque, gionto che fui al dito loco di Gromo, e verso sua paternità usate le debite cerimonie, mi disse: Sete opportuno venuto, et ne ho piazèr, ché sarete testimonio al costituto di questa scelleratissima femina. Et voltando li occhi vidi una di età di anni 50 in circa, di
comune statura, rubiconda in volto, più presti grassa che altramente, inzenochiata avanti sua paternità. Et, interrogata de plano senza tortura, admonita cum omni diligentia dal prefato reverendo Inquisitor se era deliberata dir la verità et redusi a la debita penitentia, overo volesse expectar di essere torturata, risposte esser prompta a dirla. Et la sub stantia del costituto in brevità è questa, che longo seria puntualmente et per ogni minima interogation narar il tutto". La donna confessò che "dal 1503 renegò la fede" venne avvicinata dal diavolo che la indusse ad entrare a far parte della congrega delle streghe. Il diavolo, con l'apparenza di un giovane, le disse: "monta qui sopra questa capra, che se ne andremo. Et subito si trasmutò in capra. Sopra la qual montata, in puoco spatio gionse in monte Tonàl (...) Et da poi tutti li piaceri (...) Havute polveri di più sorte, tra le qual una getata sopra qualche corpo a poco a poco mancando moriva, et cum questa polvere fece morire creature cinque, tra li qual uno figliuolo di uno suo fratello: et la sera avanti fusse per morir, essa Honesta {nome delle strega, n.d.a.) cum uno diavolo portarono via de cuna quella creatura, et in loco suo si posse uno diavolo trasformato in la propria effigie di quello fu levato. Et che poi quel diavolo fu seppellito; et quella creatura rubata portata in esso monte Tonàl, ne fu fatto rosto et poi mangiata. Et che il mangiar loro era tutto di carne humana; et che in tal monte vi erano portate dieci in quindici creature robate in lochi molti di essi lontanissimi. Et che quando essa Honesta voleva andar in monte Tonàl, gietava una altra qualità di polvere sopra le tempie del marito, et quello profondamente dormiva fino la matina seguente. Insuper, che ogni anno se confessava et comunicava, non palesando però la renegatiòn, et che subito receputo in boca il Sacramento, secundo la commission impostali, se '1 trava di boca et li dava di piedi sopra. Ancora che, per inimititia, più volte ha pregato il diavolo, a tempo che le biave maturaveno, in esse dovesse tempestar, et che la tempesta veniva cum tanta ruvina che devastava fino a li ultimi
nodi ussivano di la terra di quelle biave. Questo è quanto ho inteso per il costituto". Le informazioni che è possibile trarre da questa lettera sono tali da tracciare un quadro nel quale la stregoneria risulta presente nell'area bergamasca. Vi sono tutti gli elementi intrinseci: dall'incontro con il diavolo al volo, all'uso di polveri magiche, all'antropofagia, alle azioni contro la comunità, ecc. Non manca poi il ben noto volto al monte Tonale. Non è questa la sede per dibattere sul se e sul come e neppure se quanto dichiarato dalle streghe corrispondesse al vero, o fosse il risultato di allucinazioni di diverso tipo. Di certo sappiamo che, nella Bergamasca, le streghe non erano frutto della leggenda o di speculazioni atte ad individuare una sorta di capro espiatorio a cui far riferimento per dare un senso ai disagi di una società che cercava una risposta alle proprie inquietudini. A sorregge molte delle idee sui poteri delle streghe, contribuì uno studioso presumibilmente bergamasco: Giordano da Bergamo. Pochissime le notizie che lo riguardano: sappiamo che entrò nell'ordine dei Domenicani di Bologna il 31 marzo 1462, fu predicatore e docente di teologia nel 1470: da quell'anno dimorò a Verona dove scrisse il suo trattatello Questio de strigis edita a venerabili theologie magistro lordane de Bergamo, ordinis praedicatotum. L'opera, realizzata tra il 1469 e il 1471, non fu mai pubblicata: alcune sue parti sono però state riportate a partire dal XIX secolo in numerosi studi sulla stregoneria. Il testo del dotto domenicano di fatto è una lunga lettera scritta al padre Agostino Spica da Cortona: globalmente il contenuto non si allontana dall'idea allora dominante in fatto di stregoneria. Giordano da Bergamo non era contrario alla condanna delle streghe, che considerava colpevoli di stringere il patto con Satana, nello stesso tempo era però molto perplesso, perché considerava quello della stregoneria un universo nel quale giocavano un ruolo dominante la fantasia, la superstizione e l'ignoranza. Sostanzialmente il teologo assunse una posizione che potremmo
definire "moderata", guardando con occhio critico ad alcune pratiche repressive allora utilizzate. La sua riflessione verte soprattutto sulla capacità del diavolo di creare illusioni e stravolgere la verità. Le streghe sarebbero strumenti per attuare i piani malvagi di Satana: il loro connubio con il diavolo, al quale si piegano per mettere in atto le attività distruttive, va punito, anche se i loro presunti poteri sono frutto della superstizione, come già indicato a suo tempo dal Canon Episcopi16. Nella sue lettera a Agostino Spica (di fatto una risposta a domande che gli erano state poste dal destinatario), Giordano da Bergamo individua quattro punti salienti: 1. Che cosa dobbiamo credere delle streghe e degli stregoni. 2. Se tali persone, come comunemente si è soliti ritenere, possano tramutarsi in gatti o in qualunque altro genere di animali. 3. Ritenuto ciò impossibile, bisognerà intendere come i diavoli, o con la loro partecipazione queste streghe, determino questi fatti illusori. 4. Da ultimo, se possiamo mostrare senza peccato una tale fede. Relativamente al primo punto, Giordano da Bergamo scrive: "tali donne sono solite essere chiamate maliarde dalle malìe che procurano; presso altri, invero, vengono chiamate erbarie, da consimili effetti". Sul secondo punto il teologo esclude ogni possibile mutazione, che considera "insostenibile" e per dimostrare la validità del proprio assunto riporta un breve passo del Canon Episcopi-, "chiunque crede possibile che una creatura cambi in meglio o in peggio, o assuma aspetti o sembianze diverse per opera di qualcuno che non sia il Creatore stesso che ha fatto tutte le cose e per mezzo del quale tutte le cose sono state fatte, è indubbiamente un infedele, e peggiore di un pagano". Sul potere del diavolo (terzo punto) Fra Giordano è consapevole del ruolo svolto dal potere illusionistico di Satana: "lo stes-
so diavolo può illudere le streghe in tre modi e servirsi di esse per i suoi scopi, e cioè a) con l'illusione, b) con il turbamento nel sonno, c) con il trasporto da un luogo ad un altro (...) Il diavolo (...) mostra dinanzi agli occhi una figura con colori, dai quali appare qualcosa che non esiste (...) inganna le stesse streghe tanto da accoppiarsi talvolta con loro. Infatti i diavoli, nei corpi assunti, si trasformano ora in incubi per le donne, ora in succubi per gli uomini, come afferma espressamente Agostino e il santo Dottore. Perciò, anche le stesse streghe confessano affermando sempre che il membro del diavolo o il suo seme sono freddi". La versione razionale dell'autore della Questio de strìgis non esclude un suo atteggiamento possibilista sull'esistenza di relazioni concrete tra il diavolo e le streghe: "in certi giorni o notti con un particolare unguento cospargono un bastone e lo cavalcano e immediatamente vengono trasportate nei luoghi stabiliti dal diavolo. Oppure, ungono anche se stesse sotto le ascelle o nelle precise parti del corpo dove si formano i peli, portando a volte simili unguenti con certi brevi sotto i capelli, cose che sono tutte superstizioni e non concorrono affatto al loro trasporto. E per questo, una volta vidi delle streghe, catturate dagli inquisitori, essere rasate in tutte quelle parti del corpo in cui crescono i peli, cosa che mi è sempre dispiaciuta. Infatti, non è grazie a tali ungenti o bastoni che possono essere trasportate, ma tutto accade per virtù del diavolo che trasporta le streghe". Sul quarto punto, Giordano da Bergamo specifica che un uomo di fede può credere "solo a quanto risponde a verità", credere ad altro (volo, potere di comandare la pioggia, metamorfosi in animale, ecc.) è segno di "una fede pericolante". Però Giordano da Bergamo non chiarisce che cosa "risponde a verità", lasciando la questione delle streghe esposta alle adulazioni di un fuorviarne relativismo.
NOTE 1 M. Prevideprato, Tu hai renegà la fede. Stregoneria e Inquisizione in Valcamonica e nelle Prealpi lombarde dal XVal XVIII secolo, Nadro di Ceto 1992, pag. 38. 2 II Canon Episcopi è una breve istruzione ai vescovi sull'atteggiamento da assumere nei riguardi della stregoneria. Originariamente fu attribuito al concilio di Andra (314), in realtà è un testo più tardo, risalente presumibilmente all'867. 3 C. Traini, Leggende bergamasche, Bergamo 1979, pag. 69. Nelle varie tradizioni la Dona del zoch è descritta in modo diverso: fantasma, scheletro, cacciatrice, filatrice o lavandaia; in alcuni casi avrebbe un'altezza rilevante. Certe tradizioni la descrivono coma una ragazza molto bella che viveva nel bosco, coperta solo dei lunghi capelli. Si diceva inoltre che avesse il potere di ammaliare con il solo sguardo. 4 G. Gambara, Geste de' Bresciani durante ¡a Lega di Cambrai, Brescia 1821, pag. 67. 5 V. Spinetti, Le streghe in Valtellina, Sondrio 1903, pag. 51. 6 F. Odorici, Storie bresciane, Brescia 1860, voi. IX, pagg. 94-106. 7 In numerosi documenti dell'Inquisizione che si riferiscono ai presunti riti diabolici praticati dalle streghe al Tonale, si fa riferimento ai cosiddetti "barilotti". Un sinonimo di sabba, cioè la cerimonia satanica che si svolgeva in luoghi isolati e lontani da occhi indiscreti. Nelle prediche di San Bernardino, streghe e stregoni sono infatti detti "quelli del barilotto", in particolare perché il "barilotto" avrebbe svolto una funzione pratica molto specifica nell'ambito del rito: "Chiamansi quelli del barilotto. E questo nome si è perché eglino pigliaranno un tempo dell'anno uno fanciullino, e tanto il gittano de mano in mano che elli si muore. Poi che è morto, ne fanno polvare e mettono la polvare in uno barilotto, e danno poi bere di questo barilotto a ognuno; e questo fanno perché dicono che poi non possono manifestar niuna cosa che ellino faccino. Noi aviamo uno frate del nostro Ordine, in quale fu di loro, e hamme detto ogni cosa, che tengono pure è più disonesti modi ch'io creda che si possino tenere". 8 M. Mariani, Trento con il Sacro Concilio et altri notabili, Trento 1673 (rist. 1970), pag. 319. 9 V. Spinetti, op. cit., pag. 48. 10 M. Marin Sanudo, I Diari, v. XXV, col. 62. Nello studio dei processi della Valcamonica il contributo di Marin Sanudo (1466 -1536), noto anche con il nome italianizzato di Marino Sanuto il giovane) è particolarmente importante. Quest'autore, storico e politico veneziano, raccoglie le formazioni dei suoi Diari: un'opera composta di 58 volumi che abbraccia un arco cronologico compreso tra la fine del XV secolo e i primi trentasei anni del successivo. 11 G. Odorici, Le streghe della Valtellina e la Santa Inquisizione, Milano-Venezia 1862, pagg. 94-106.
12 M. Mariani, op. cit., pag. 319. 13 B. Favallini, I Carmini e la loro Valle, Brescia 1877, pag. 148. 14 T. Ghigliazza, Il mistero delle streghe bergamasche. Nota preliminare, in "La Rivista di Bergamo, anno XXXII, n. 4, 1981, pagg. 5-9. 15 Effettivamente è noto che circa quattrocento quaderni delle sentenze criminali riguardanti la Bergamasca (in cui erano contenuti anche gli atti dei processi per stregoneria) furono mandati al macero, probabilmente tra il XVIII e il XIX secolo. 16 Anche se vengono indicate altre fonti più antiche, la prima versione certa che fa riferimento al Canon Episcopi è il Canone di Reginone di Prum (Libri duo de synodalibus causis et disciplinis ecclesiasticis) del 906.
LA VALCAMONICA (M. Centini) Nella storia della caccia alle streghe, la Valcamonica occupa un ruolo rilevante poiché fu teatro di vicende che hanno rappresentato una traccia importante nel quadro della persecuzione della donne di Satana. Purtroppo sappiamo che al nutrito corpus di studi e ricerche sull'argomento, non si affianca però una corrispondente documentazione archivistica, che possa così descrive l'attività inquisitoria praticata in quei territori in cui si diceva fossero attive le streghe. In effetti, chi ha condotto indagini sui processi del 1510-1518 ha dovuto fare i conti con una quasi assente documentazione originale: ab origine i documenti avrebbero avuto la loro sede nelle parrocchie ma poi, verso la fine del XIX secolo, un parroco della valle avrebbe raccolto tutta la documentazione processuale per bruciarla... Un'azione condotta con la volontà di eliminare tracce che rappresentavano un utile contributo agli attacchi degli anticlericali. Ad oggi, per quanto sappiamo, vi è ancora del materiale relativo ai processi del 1518 nell'Archivio di Stato di Venezia. Più cospicue informazioni provengono dai documenti relativi ai processi contro streghe e stregoni celebrati dal 1518 a cui fecero seguito altri casi, susseguitisi fino alla seconda metà del XVIII secolo1. "Signori miei, son stato in Valcamonica per consultare le streghe di quel locose mi saprebbon di Turpin la cronica mostrar per forza d'incantato foco;una vecchiarda in volto malinconicarispose allor con un vocione roco: - Gnaffe, che sì tu lo vedrai di botto; entra qui tosto meco e non far motto"... Così, Teofilo Folengo (14951544)2, pur nel tracciato dissacrante caratterizzante la sua linea poe-
tica, poneva in evidenza lo stretto legame tra le streghe e la Valcamonica: luogo in cui le schiave di Satana avrebbero avuto il loro territorio deputato. In realtà, accanto al corpus leggendario e tradizionale, quest'area lombarda è stata "realmente" trattata come il luogo in cui le streghe furono effettivamente attive e degne dell'attenzione dei giudici. Va preliminarmente osservato che, in Valcamonica, il Cristianesimo, diffusosi alla fine dell'impero romano, non si affermò in profondità e quindi non coinvolse sacche di autonomia religiosa ancora strettamente legate al paganesimo. L'indosincrasia per la nuova religione, determinata soprattutto da motivazioni di ordine culturale e solo secondariamente di carattere fideistico, fu certamente alla base della formazione di un humus che favorì il mantenimento di culti precristiani e anche, se pur in misura minore, l'affermazione delle idee eterodosse anticattoliche. Quando, nel 1510, Silvestro Mazzolini Prierias (1456/571523) giunse in Valcamonica per occuparsi delle streghe, si trovò al cospetto di una credenza radicata da tempo e perseguita, in forme diverse, da almeno mezzo secolo. L'esperienza dell'inquisitore fu determinate per la realizzazione del suo noto trattato De strigimagarum daemonumque mirandis, ultimato intorno al 1520, in cui l'autore propone il termine strìgimagx per indicare le esponenti di una setta di nuova formazione (si spinge ad indicare una data: 1404) che si differenza dalle streghe genericamente considerate come le donne datesi a Satana e praticanti magia nera. Sappiamo infatti che tra il 1450 e il 1455, a Ponte di Legno e Edolo, si parlava del zoch, del gioco della buona società e soprattutto di streghe e stregoni che avevano il loro luogo deputato al Passo del Tonale (ved. il capitolo "Le streghe bergamasche tra storia e folklore"). Nel mese di dicembre 1485, l'inquisitore domenicano Antonio da Brescia aveva denunciato la presenza in Valcamonica di "eresia stregonica" segnalando che le streghe attive in quella zona commettevano atti sacrileghi sulla croce, adoravano il diavolo e
soprattutto "sacrificavano bambini e neonati al Maligno"3. Il 23 giugno 1505, a Cemmo, furono mandate sul rogo sette donne e un uomo con l'accusa di stregoneria. Nel 1510, a Edolo, alcune streghe furono arse vive perché accusate di aver causato la siccità attraverso l'uso della magia. "In Pisogne e in Edolo furono bruciate sessanta streghe e alcuni stregoni che assaltavano huomini, donne, animali, seccavano prati, herbe etc. coi loro incantesimi. Quando furono menati dal fuoco, dicevano che non lo temevano, che avrebbero fatto miracolo, loro era apparso il diavolo. Assurde accuse, ma allora i più le credevano ond'è a lodarsi la prudenza del governo di Venezia in tali occasioni (...) il vescovo Zane d'altra parte avuto eccitamenti dalla Valle Camonica, v'andò con un suo domenicano e fece abbracciare alcune streghe ad Edolo"4. "In Valcamonica et etiam qui a Bressa et per tutto lo mondo è sparsa questa triste eresia et abnegazione del Signore Dio e dei Santi. Et sono già brusati in Valcamonica in quattro luoghi circa 64 persone, maschi et femmine, at altrettanti e più ne sono in presone (...) et ne sono circa 5000, cosa inestimabile"5. Con il 1510 si concluse la prima fase della caccia alle streghe in quest'area lombarda. Per alcuni anni vi fu un periodo di apparente tranquillità; poi la caccia riprese con maggiore virulenza a partire dal 1518, parallelamente alla riconquista della Valcamonica da parte di Venezia. Già nei primi mesi del 1518, in valle, fissarono la loro dimora in cinque pievi camune altrettanti inquisitori: Bernardino de Grossis (Pisogne), Giacomo de Galani (Rogno), Valerio de Boni (Breno), Donato de Savallo (Cemmo), Battista Capurione (Edolo). Tra il mese di giugno e di luglio, dello stesso anno, furono arse sul rogo numerose persone, il cui numero non è facilmente individuabile con precisione nelle fonti: si passa da sessanta ad ottanta (di cui un quarto costituito da uomini)6. Nella rete inquisitoriale finirono anche persone che erano
importati membri della comunità: messer Pasino, cancelliere del Tonale, un anonimo indicato come "corriere del primo in Francia e Spagna" e una certa Agnese riconosciuta come "capitana delle fattucchiere" 7. Evidentemente la situazione risultò eccessiva se, il 31 luglio, il Consiglio dei Dieci di Venezia (informato dei fatti meno di un mese prima) impose il blocco dell'attività dell'Inquisizione in Valcamonica. Nel 1518, il castellano di Breno, Carlo Miani, scrivendo a Venezia, poneva il risalto che: "a Breno alcune donne tormentate confessarono di haver fatto morir homini infiniti mediante polvere avuta dal demonio, la quale sparsa in aria faceva sorgere procelle e con essa una asserì d'aver ucciso 20 persone". Nelle fonti viene anche posto in evidenza che alcune giovani, spinte dalle madri streghe, avevano tracciato croci nella terra e sulle quali sputavano e urlavano insulti e bestemmie. Tale pratica determinava l'apparizione del demonio (a cavallo) che le guidava fino al Tonale dove erano approntati banchetti di straordinaria ricchezza. La loro sottomissione a Satana garantiva bellezza ed eterna giovinezza. Abbiamo una lettera del 1° agosto 1518 in cui Giuseppe Orzinuovi, funzionario veneto "di terraferma", scriveva a Ludovico Quercini sulla situazione registrata in Valcamonica: "et pare che da quel tempo in qua siano trasferite le strigaria de albania in questa valle camonica; tanto che li è moltiplicata de tempo in tempo la maledizione, che se ora non se li feva condigna provisione, el morbo de tale peste andava tanto avanti che tutta quella valle, monte e piano, quei poveri sacerdoti et secolai, fati i fedeli parte di le Maestà divina et de loro senza più baptesimo che baptizzati et consequenter dediti ad opere diaboliche, dotti da fascinar li omini, strigar fantolini". Il 25 settembre dello stesso anno, il nunzio pontificio Altobello Averoldi, segnalava un reo confesso, un certo pre Betin, il quale affermò di aver partecipato ai sabba del Tonale. La questione proseguirà fino a quando, il 27 luglio 1521, il Consiglio dei
Dieci stabilì la sospensione dei processi in Valcamonica8. Le fasi di questa seconda ondata della caccia alle streghe camune sono alquanto articolate e complesse9: la ricostruzione risulta problematizzata dalla mancanza di fonti e dall'amalgama prodotta, come spesso accade, dall'unione tra le vicende storiche e le ricostruzioni della tradizione popolare. Sembra che, in Valcamonica, l'ultima donna ad essere condannata a morte per stregoneria salì sul rogo nel 1799... Le streghe camune furono accusate di "invocare consapevolmente il diavolo; calpestare e rinnegare la fede e disprezzare le cose sacre quali croce e sacramenti; colpire gli uomini con la morte o le malattie ". In fondo, non erano né peggio, né meglio di altre: erano l'espressione di un malessere sociale che convertiva nella figura della donna malvagia, le ansie, le paure e le angosce di una comunità travolta dalle inquietudini del proprio tempo. La repressione delle streghe camune risulta dominata dalla presenza di un tema fondamentale nella caccia alle donne di Satana: l'origine rurale delle accusate. Non è improbabile che le donne allora accusate di stregoneria fossero "macilente, pallide", con gli occhi "fuori dalle orbite" e presentassero "un'alta bile e melanconia (...) taciturne e folli, e poco differiscono da quelle che si ritengono possedute dal demonio: salde nelle loro opinioni, risultano così risolute che se soltanto si pensasse quanto impavidamente e con quale costanza riferiscono cose che non accaddero mai né potrebbero accadere, le si riterrebbe pur tut»1n tavia vere . Gli studiosi pongono in rilievo che comunque l'idea di stregoneria era spesso anche correlata ad un problema di interpretazione: "Può essere interessante osservare che, proprio nei decenni in cui la Valcamonica è percorsa dalla caccia alle streghe, a Bergamo e nel vicino Bergamasco è attestata la presenza di guaritrici che, con incantesimi e pratiche superstiziose, curano le vittime delle malìe e coloro che si ritenevano pesti dai morti"11.
Comunque nella seconda parte del XV secolo, la stregoneria destò già una certa inquietudine tra la popolazione camuna e indusse la chiesa locale a correre ai ripari. Come già osservato, fu tra il 1510 e il 1518 che la lotta conto il male raggiunse il suo vertice: certamente, allora, la comunità riconosceva nella strega l'origine dei malesseri che laceravano l'esistenza dei singoli e della collettività, rispondendo alla logica del capro espiatorio, che costituisce un tema ricorrente nella sociologia della stregoneria. Indicative le informazioni provenienti dal poema epico Geste de Bresciani durante la lega di Cambrai di Gianfrancesco Gambara (1820), che in riferimento ai casi di stregoneria camuna del 1510, scriveva: "Il primo fu che in Edolo e in Pisogne Della Valle Camuna bei paesi Molti stregon mostrando le vergogne E ben sessanta streghe in roghi accesi, Al suon di trombe, pifferi, e zampogne. Gittati furo, ed arsi: allorché presi, E il fuoco gli arrostiva, essi gridavano Che pel demonio lieti di morte andavano". Pur nell'invenzione letteraria, il Gambara si rifaceva a fonti che descrivevano eventi realmente accaduti: nello specifico si appoggiava agli Annali di Brescia dal 1030 al 1530 in cui si legge: "Furono abruciate in Pisogne, et in Edolo sessanta streghe, et alcuni stregoni, che assaltavano homeni, donne et animali, seccavano prati, herbe, etc. co' loro incantamenti. Quando furono menate al fuoco, non lo timevano dicendo, che avrebbero fatto miracoli & loro era apparso il Diavolo in loro prigione inaccessibile". Il silenzio delle fonti archivistiche coeve sui casi del 1510 rende diffìcile la valutazione dei fatti, di certo i roghi accesi ebbero un ruolo importante, non solo sul piano della realtà, ma anche su quello immaginario. Infatti, l'idea che la Valcamonica fosse uno dei luoghi deputati per le streghe divenne un leitmotiv ricorrente e
destinato a creare un modello di demonizzazione di cui abbiamo tracce significative nelle fonti. Nel folklore locale si narra che il concilio di Trento avesse definitivamente risolto il problema delle streghe confinandole tutte a Pisogne. Inoltre, la credenza che i membri della setta stregonesca continuassero le loro attività al Passo del Tonale è rimasta viva nel tempo fino ad oggi. In conclusione e razionalizzando gli elementi forniti dalle fonti, possiamo, in modo sommario, individuare nella caccia alle streghe in Valcamonica le seguenti fasi12: 9 dicembre 1485, l'inquisitore domenicano Antonio da Brescia denunciò al Senato veneziano l'esistenza dell'"eresia stregonica" in Val Camonica. 23 giugno 1505, presso Cemmo, sette donne e un uomo condannati arsi sul rogo. 1510, presso Edolo alcune streghe arse sul rogo perché ritenute colpevoli di aver causato la siccità con l'ausilio dei loro sortilegi. Primi mesi del 1518, giunsero in Valcamonica cinque inquisitori che fissarono la loro dimora in altrettanti pievi camune. Tra giugno e luglio del 1518, furono arse tra le 62 e le 80 streghe (tra cui 20 uomini). Subirono la condanna a morte anche tre personaggi di spicco della società stregonesca: tale Agnese "capitana delle fattucchiere", messer Pasino "cancelliere del Tonale" e un tale anonimo che era il corriere del primo in Francia e Spagna. 31 luglio 1518, il Consiglio dei Dieci a Venezia, informato sull'accaduto (14 luglio), impose il blocco dell'attività dell'Inquisizione in Valcamonica. 1 agosto, Giuseppe da Orzinuovi, funzionario veneto di Terraferma, scrivendo a Ludovico Quercini specificava: "et pare che da quel tempo in qua siano trasferite le strigaria de albania in questa valle camonica". 25 settembre, Altobello Averoldi, nunzio pontificio, condusse al cospetto del collegio un reo confesso: si trattava di certo "pre
Betin", il quale affermò presso il Passo del Tonale si svolgevano i sabba delle streghe. La testimonianza determinò che i vescovi di Famagosta, Mattia Ugoni, e Capodistria, Bartolomeo Assonica, fossero nominati delegati per i processi nell'area; il vice inquisitore, fra Lorenzo Maggi, riprese autonomamente l'attività giudiziaria: tale atteggiamento determinerà il suo richiamo a Venezia per dar conto della sua condotta. 28 settembre 1520, dopo due anni di disputa, Luca Tron, Savio del Consiglio dei Pregadi (o Consiglio dei Rogadi, più comunemente Senato, era un organo costituzionale della Repubblica di Venezia) si oppose alla persecuzione della stregoneria. La presa di posizione del Tron darà origine: 21 marzo, il Consiglio dei Dieci impose più rigide norme per i processi da parte dell'Inquisizione. 27 luglio, il Consiglio dei Dieci impose la definitiva sospensione dei processi in Valcamonica.
NOTE 1 II primo processo di cui c'è giunta documentazione risale al 1455, anche se già in precedenza si svolsero vicende analoghe. 2 T. Folengo, Orlandino, I, stanza 12. 3 Archivio di Stato di Venezia, Reg. Senato Terra, n. 9, f. 164; cfr. R. Putelli, Miscellanea di Storia e d'Arte Camuna da inediti documenti, Breno 1929, pag. 30. 4 C. Cocchetti, Brescia e sua provincia, Milano 1856. 5 M. Marin Sanudo, I Diari, v. XXV, pag. 586. Nello studio dei processi della Valcamonica il contributo di Marin Sanudo (1466-1536), noto anche con il nome italianizzato di Marino Sanuto il giovane), è particolarmente importante. Quest'autore, storico e politico veneziano, raccoglie le formazioni dei suoi Diari: un'opera composta di 58 volumi che abbraccia un arco cronologico compreso tra la fine del XV secolo e i primi trentasei anni del successivo. 6 F. Murachelli, Cemmo, storia di una pieve camuna, Esine 1978, pagg. 386-387. 7 M. Prevideprato, Tu hai renegà la fede. Stregoneria e Inquisizione in Valcamonica e nelle Prealpi lombarde dalXValXVIII secolo, Nadro di Ceto 1992, pag. 77. 8 R.A. Lorenzi, Medioevo camuno. Proprietà classi società, Brescia 1979, pag. 80. 9 Per un'analisi dettagliata sull'argomento si rimanda ai già citati studi di M. Prevideprato e di R.A. Lorenzi. 10 G. Tartarotti, Del congresso notturno delle Lammie, Rovereto-Venezia 1749, Lib. LXXX, pag. 570. 11 R.A. Lorenzi, op. cit., pag. 17512 Nella realizzazione di questa cronologia ci siamo avvalsi dei seguenti studi: M. Bernardelli Curuz, Streghe bresciane: confessioni, persecuzioni e roghi fra il XV e il XVIsecolo, Desenzano, 1988; M. Prevideprato, op. cit.-, R.A. Lorenzi, Sante medichesse e streghe nell'arco alpino, Bolzano, 1994; P.L. Milani, a cura, Ci chiamavano streghe, Bari 2009.
STREGHE E STREGONI TRA CERESIO E VERBANO NEL XX SECOLO (R. Corbella) Nell'area prealpina insubre dopo il ventennio fascista, che peraltro non aveva apportato grandi cambiamenti di base rispetto alla mentalità contadina legata alla tradizione, si ebbe apertamente il ritorno alle usanze collegate alla magia. Il fascismo ufficialmente ignorò tutti questi fenomeni. Nonostante i gerarchi e lo stesso Mussolini si affidassero spesso ai consigli di famosi veggenti (uno su tutti: il famoso Rol di Torino), ufficialmente la cosa rientrava nell'ambito del privato. Solamente ogni tanto, in casi particolarmente eclatanti e il più spesso su istigazione dell'autorità ecclesiastica, se un paranormale turbava l'ordine pubblico lo si rinchiudeva per qualche anno in manicomio. Nel secondo dopoguerra si sviluppò da noi una magia più moderna, ma pur sempre nell'ambito della tradizione dell'occulto e del richiamo ad ancestrali credenze che affondavano le loro radici nel substrato celta e longobardo del popolo insubre. Questo portò anche al ritorno delle credenze sulle streghe e in generale sulla "fìsica", credenze che non erano mai morte ma semplicemente erano rimaste sepolte in un limbo di complice clandestinità. Soprattutto nel Canton Ticino, Valdossola e Varesotto questa situazione incoraggiata dai prodomi del movimento neo-pagano (che sfocerà anni più tardi nella cosiddetta New-Age) e da un affievolirsi delle pratiche cristiane più strettamente legate ai dogmi della Chiesa Cattolica, portò ad un rifiorire di elementi collegati alla stregoneria del passato, che è particolarmente interessante da osservare. Negli anni seguenti il boom economico, si potevano annoverare sulla sponda
orientale del Verbano numerose donne che, dal popolo ma spesso anche da parroci ignoranti, erano considerate streghe. Non sappiamo come si fossero guadagnate questa triste fama, ma è certo che generalmente erano piuttosto temute nel circondario. Questo fatto portava virtualmente al loro isolamento in seno alla comunità. La situazione in cui vissero queste donne rendeva certamente molto triste la loro vita, tristezza mitigata dal potere che dava loro la credenza della gente nei loro supposti poteri soprannaturali. Streghe del Verbano occidentale - Tra il 1900 e il 1980 l'idea che alcune donne (ed anche qualche uomo) fossero dotate di poteri magici particolari, ottenuti tramite "patti" con esseri trascendentali, era ancora ben radicata nei territori montani prealpini del Vergante e dell'Ossola, sulla sponda piemontese del Lago Maggiore. Se le donne ritenute streghe generalmente non avevano connotazioni particolari, nel campo maschile tra gli "striun" si trovano molto spesso preti e frati, ad esempio i frati del monte Mesma a Ameno (Vergante) erano, fino a pochi anni fa, spesso accusati dalla gente del paese di essere "stroligh". Logicamente sono giudizi espressi a mezza voce, in segreto, perché il timore reverenziale che questi religiosi incutonom sia per il loro effettivo "potere" sulle cose divine, che per il supposto potere magico, li rende partecipi di rispetto e timore reverenziale. Il monte Mesma, per la sua posizione elevata (i rituali della fìsica si fanno sempre dall'alto), era ed è tuttora circondato da uno strano fascino composto di attrazione per la sua spiritualità cristiana ma anche per i molti misteri e paure legate al passato remoto. Infatti il Mesma è sempre stato un modello di intreccio tra fisicità e anima: è una montagna vibrante di un suo corpo spirituale particolare. Oggi sulla vetta, si erge un convento edificato nel 1600, grande complesso monumentale, con un percorso processionale ornato da alcune artistiche cappelle. Il convento fu edificato sui ruderi di un castello trecentesco, al quale sono attribuite influenze negative e diaboliche, giustificate da un certo numero di
apparizioni spettrali. Che questo fosse un territorio particolarmente "segnato"1 era noto al popolino già agli albori del 18002. Un territorio, quello che gravita attorno al monte, che presenta tra l'altro un notevole interesse archeologico: sono stati rinvenuti numerosi reperti di origine celtica-golasecchiana3, nonché materiale dell'epoca gallica di La Téne (IV secolo a.C.) e romano-imperiale. Le pendici del monte sono ricche di boschi di castagno e soprattutto di quercia, ritenuta l'albero sacro ai Druidi. Qui, nel Verbano occidentale, "strie" e "striun", preti e frati, erano considerati i depositari del vero sapere magico sopranaturale, fosse esso buono o malvagio. Che in un testo come questo dedicato alle streghe si debba parlare anche di "striun" maschi, equiparati alle "strie" femmine, non deve stupire: nel folklore popolare nordinsubrico, di derivazione celto-germanica, chi usava la magia era sempre considerato "femminile" ed effettivamente tutti gli "striun" famosi che ho conosciuto, o di cui mi hanno parlato i miei informatori, erano omosessuali. In secondo luogo, frati e preti erano "strani" per il loro voto di castità, incomprensibile alla gente comune, che per certi atteggiamenti femminei derivati dalla lunga permanenza in seminario. Per questi motivi, i sacerdoti, nell'immaginario contadino erano parificati sessualmente alle donne, o perlomeno a strani esseri androgini. Si diceva che queste persone si servissero della fisica4, il loro segreto potere esoterico-magico, anche per ottenere lasciti testamentari in punto di morte: donazioni di terreni particolarmente produttivi, oppure case che potevano poi utilizzare o rivendere, come ci è stato riferito da testimoni diretti. Gli esempi diretti che citerò in questo testo sono tutti di prima mano e mi sono stati riferiti negli anni 1990-2000 da persone intervistate5 durante il lavoro di raccolta di testimonianze che ho compiuto per un precedente mio libro sul folklore. La credenza nella magia nera e nelle streghe era molto radicata in tutta l'area prealpina lombardo-piemontese. Dobbiamo riba-
dire che sembrerebbe che la religione cristiana si sia affermata completamente nelle Prealpi piuttosto tardi rispetto al resto della penisola italiana: come da sempre, il montanaro, individualista e chiuso nel suo mondo legato agli arcani misteri di una natura splendida ma diffìcile, ha inconsciamente sincretizzato la parola del Vangelo con l'ideale pagano del "Deus loci", la divinità locale e personale legata alla montagna, a volte alla casa, più raramente agli antenati. Un dio protettore del microcosmo territoriale. Ecco perché presso i popoli di montagna hanno più successo questi dei locali, ribattezzati con il nome di santi cristiani, in alcuni casi mai esistiti nella realtà storica, che vengono implorati per ottenere risultati concreti e materiali. Mai le edicole o le cappelle di montagna, quelle davanti a cui si fa la "possa", ovvero ci si siede appoggiando la gerla ad un masso e si recita una preghiera beneaugurale, sono dedicate a Dio Padre, ma al "Signur", cioè Gesù Cristo, o ai santi locali che velano culti pagani improntati sui fenomeni naturali. Caso classico è quello delle varie "Madonne Nere" e "Madonne del latte", che sono presenti nell'immaginario religioso montano: una antica divinità ctonia, forse equiparabile alla celtica Anu o Danu, che probabilmente si integra con l'antica Dea Madre preistorica. Oppure il culto di San Grato, protettore dai fulmini e dalle tempeste, che cela Taranis, Dio celta delle tempeste e delle vette montane. L'alpigiano piemontese crede ancora in "Taran" e se lo immagina oggi come un "fulètt", che reca in mano una ruota che rotolando produce il tuono e il fulmine, effettivamente gli attributi antichi della divinità originale. Una delle "fisiche" più in voga tra le streghe piemontesi, era quella di procurarsi un frammento di un albero colpito dal fùlmine e nasconderlo nel portico della casa di qualcuno a cui volevano male. Quindi, in un giorno di tempesta, si recavano su un punto elevato e gridavano in dialetto: "Cristiano, che ti fulmini l'ira di Taran": si dice che, nove volte su dieci, poco dopo un fùlmine incendiava la cascina del malcapitato preso di mira.' Questa idea radicata nella mente del popolino accomuna la
cultura prealpina al mondo nordico6. In un racconto orale di Gurro (Val Cannobina), uno "stroligh" famoso di Falmenta consiglia, al suo giovane discepolo di magia nera, di farsi prete, così poi sarà riverito e considerato al di sopra di tutti i sospetti, in modo da potere segretamente svolgere il suo vero lavoro di stregone e tramite esso diventare ricco. Questo a conferma di come la tradizione degli "stroligh" maschi sia un archetipo germanico spiccatamente Norreno, ereditato dalla cultura Longobarda; anche in Baviera e in Norvegia abbiamo storie uguali a questa. Per chiarezza bisogna però anche ricordare che alcune di queste tradizioni magiche prealpine, sono simili ad altre della montagna provenzale. Il Vergante è uno dei luoghi dove abbiamo raccolto il più grande numero di testimonianze di stregoneria attuale. Sembrerebbe che lì vi sia un concentramento di streghe (o supposte tali) da "Guiness dei Primati". Prima che in quel territorio l'agricoltura intensiva lasciasse il posto al più redditizio lavoro nella fabbrica, nelle lunghe giornate estive, le donne falciavano il fieno e lasciavano i neonati sull'erba, all'ombra dei faggi, ma dovevano esercitare una stretta e continua vigilanza perché si diceva che le streghe erano sempre in agguato per rapire gl'infanti e portarseli nei loro antri sotterranei: grotte e balme perdute nel folto del bosco. La "Cilsc" era una delle streghe del Vergante più famose di quei tempi. Era una poveretta pelosa come una scimmia e brutta come la notte. Un po' per il suo aspetto e un po' per le sue idee poco ortodosse, se ne era andata dal paese e abitava in una caverna, attrezzata a casa, poco sopra Casale Corte Cerro, al "fùrn d'ia Cusc", si procurava di che vivere curando con le erbe e facendo malie d'amore su commissione, oltre che lavorando a maglia per i negozi di Gozzano. Unico suo passatempo erano i venerdì sera che passava bevendo vino e grappa all'osteria. Durante una nottata di queste, era stata sedotta da qualcuno di bocca buona e in seguito aveva partorito un bambino con il suo stesso aspetto selvaggio. Una notte rapì un neonato in paese e vi sostituì il suo pargolo, ma sia la madre a cui era
sparito il bimbo che le altre donne del posto rifiutavano di allattare quel mostriciattolo e la strega-madre, intenerita dai pianti del piccolo che giungevano fino alla spelonca, tornò a riprenderselo pronunciando la frase: "Tegn al tó pupin e damm al me plusin" (tieni il tuo pupo e dammi il mio pulcino). A Casale Corte Cerro, le streghe (pare ce ne fossero alcune fino a pochi anni fa) si spostavano rapidamente, col favore delle tenebre, volando sui classici manici delle scope e lanciando grida acute. Molti cittadini benpensanti, tuttora giurano di averle viste svolazzare nella luce del crepuscolo. Questi testimoni dicono che quando volano le loro gambe si trasformano momentaneamente in zampe di gallina e quindi tornano normali dopo l'atterraggio. Periodicamente, queste streghe si riuniscono all'Alpe Urcia per celebrare i loro riti demoniaci: in quelle occasioni assumono l'aspetto di bellissime fanciulle al fine di adescare i giovani pastori sprovveduti e usarli per soddisfare le loro voglie. La valenza sessuale unita alla magia nera è una peculiarità dei racconti stregoneschi del Verbano occidentale7. Ad Ameno, Sovazza, Coiromonte, Carpugnino e Gignese vi erano delle "strie" specializzate nella "fisica del falco": succedeva spesso che passasse in cielo un rapace e improvvisamente a qualcuno gli si incendiasse la stalla senza motivo apparente, se non si accorreva in fretta a spegnere l'incendio, in modo anomalo, le fiamme si propagavano alla casa. Era una "stria" che con la forza della fisica aveva mandato il fuoco a punire la rivale, o la famiglia che non le aveva portato rispetto. Quando succedeva che un cascinale bruciasse per magia, le fiamme bruciavano il legno con un fuoco che non emanava calore. Questi fatti avvenivano sempre dopo il passaggio di un falco. Una "stria" che voleva bloccare il passaggio notturno di indesiderati visitatori, si trasformava in un gigantesco asino dagli occhi fosforescenti, oppure in rovi, siepi, per bloccare improvvisamente il sentiero e non permetterne il valico: il confine magico non poteva essere oltrepassato. Un ragazzo di Ameno aveva la fidanzata dall'altra parte del paese; alla sera, andando a trovarla, passato
il ponte sull'Agogna, in mezzo alla strada trovò dei rovi tanto fìtti e con lunghe spine aguzze, tali da non permettergli il passaggio. Estrasse il coltello e tagliò il rovo che bloccava la strada. Il giorno dopo si vide una donna, sospettata di essere "stria", tutta tagliuzzata malamente. Costei, che odiava il ragazzo, non paga della punizione, tentò ancora di fermarlo cambiando sembianze: infatti la sera dopo, il giovane nello stesso posto si trovò di fronte a un asino che bloccava il ponte. Il ragazzo colpì l'asino con una forte bastonata e improvvisamente l'asino sparì; il giorno dopo la stessa "stria" di prima fu ricoverata in ospedale con una spalla rotta. Un'informatrice mi raccontava che c'era uno di Colazza che aveva la fidanzata all'alpeggio, ma per due o tre sere non aveva potuto andarla a trovare perché trovava il sentiero sbarrato da una enorme siepe spinosa. Infuriato andò a prendere la roncola e le tagliò. Il giorno dopo, trovò sua sorella maggiore, che non vedeva di buon occhio quella relazione, con un braccio tagliato. A Carona, negli anni '30, la perpetua del prete era una vecchiaccia sporcacciona e "stroliga", che si diceva si accoppiasse con i giovani dopo averli ammaliati con arti magiche; quando doveva fare la fisica ai bei ragazzi per stupidirli e attirarli a sé, con una scusa saliva sul campanile della chiesa e da lì lanciava il maleficio. L'incantesimo si spandeva nell'aria e penetrava nell'orecchio del giovinetto prescelto che sentiva un desiderio irrefrenabile di recarsi in canonica quando il prete era via e la perpetua tutta sola. Lì si diceva che la strega si mostrava al ragazzo con un ingannevole aspetto di fanciulla bellissima e solo a accoppiamento concluso riprendeva le sembianze poco invitanti della vecchia perpetua. Si era negli anni '50 a Magognino, e un uomo che andava a trovare l'amante percorrendo il vecchio sentiero nel bosco, quando arrivava alla cappella di San Grato incontrava un tacchino che gli camminava davanti per tutto il tragitto e poi, giunti a Carona, a casa della donna amata, faceva il suo verso e cercava di aggredirlo, ogni volta l'uomo gli tirava un sasso e il tacchino scompariva. Questo fatto
successe più volte fino a che un giorno il tacchino si trasformò in un grande uccello di fuoco ed incendiò tutti i cespugli a bordo sentiero ustionando il poveretto. Evidentemente quel tacchino era in realtà uno "stroligh" geloso dei due innamorati. Ancora negli anni '60, nelle sere d'estate, i giovani del Vergante, che giravano i paesi a cercare ragazze, spesso si trovavano a dovere affrontare la fìsica fatta contro di loro da vecchie donne inacidite, invidiose della loro gioventù. Ecco un caso divenuto famoso in tutto il territorio: su di un ponte, una sera, apparve un grosso serpente nero, enorme e minaccioso. Stupefatti e impauriti, i giovani tentarono la fuga ma vennero inseguiti dall'animalaccio per un centinaio di metri: era chiaro che il serpente era lì proprio per impedire loro il passaggio. Ciò si verificò per molte sere. Così una sera, uno di quei ragazzi prese coraggio e cercò di uccidere il rettile maligno con un falcetto che aveva con sé. Con movimento deciso cercò di tagliargli la testa, ma il colpo (fortunatamente per la "stria") non fu preciso e la bestia riportò solo un taglio alla gola e scomparve. Il giorno dopo, in paese si seppe che la signora P .C. era stata ricoverata all'ospedale con una profonda ferita alla gola. Quella falcettata avrebbe potuto esserle fatale, infatti se fosse stata uccisa mentre era ancora trasformata in serpente, non avrebbe più potuto riprendere possesso del proprio corpo e avrebbe vagato per sempre imprigionata in un oscuro mondo ultraterreno. Alcune vecchie un tempo erano tremende, non permettevano che le loro figlie si fidanzassero con chi volevano. Si faceva la fisica contro le persone per invidia, cattiveria, ignoranza. G. P. racconta: "Al mio vicino, anni fa, è successo qualcosa di straordinario: aveva un figlio di pochi anni che giocava spesso nel cortile della cascina. Un giorno il bambino stava giocando quando, all'improvviso, un maiale attraversa il cortile correndo. All'inizio nessuno ci fece caso, era normale allora che le bestie non si tenessero sempre nei recinti. Un'ora dopo il passaggio della bestia, però il bambino misteriosamente si ammalò di febbre altissima e il medico, subito chiamato, non seppe dare una spiegazione. Questo fatto
si ripete ancora tante volte, finché un giorno il padre del bimbo, appena vide arrivare il maiale lo colpì alla coscia con un forcone, l'animale scappò via strillando e non lo si vide più e il bambino guarì completamente. Il mio vicino poi seppe che in paese la vecchia tabaccaia, la signora V. B. da qualche giorno stava male perchè aveva avuto una coscia trapassata da un atrezzo di ferro. Mia nonna andò a trovarla e la tabaccaia le disse sottovoce: Dì a quel disgraziato del tuo vicino che ha salvato suo figlio. D'ora in poi lo lascerò in pace!" La V. B. sapeva fare la fisica. C'erano due ragazzini a Lorcallo che in estate alla sera andavano sempre a rubare ciliegie dalla pianta. Una sera notano un porcello che li aspettava sotto l'albero. Il maiale digrignava i denti e faceva rumori strani. Uno dei due ragazzi prese un bastone e diede una bella legnata alla bestia che scomparve all'istante. L'indomani i due amichetti seppero che la padrona del frutteto era a letto perché aveva ricevuto una brutta bastonata. Era noto che questa signora era una "stria" e faceva la fisica. Anche la Val Vigezzo, da tempi antichissimi, era afflitta da un gran numero di streghe: ce ne erano a Santa Maria Maggiore, a Druogno, ma soprattutto a Craveggia dove si radunavano alla Colma una volta al mese la notte di sabato, vicino alla chiesetta di San Rocco, a ballare nude ed accoppiarsi coi diavoli intorno ad un masso recante incisioni preistoriche: il "Sass d'ia Lesna" (Sasso del fulmine). Durante queste orge, le streghe di Craveggia usavano adorare un'antica immagine preistorica murata in un cascinotto vicino: una piccola lastra di pietra recante un bassorilievo celta della prima Età del ferro (IV secolo a.C.) raffigurante un uomo nudo itifallico a braccia aperte. La cosa ebbe fine quando il parroco fece "evirare" la statuetta per trasformarla in un rozzo crocefisso8. Secondo una diceria popolare, le "strie" più cattive si trovavano all'inizio della valle, a Montecrestese, anzi qualcuno afferma tuttora che lì tutte le donne sono o sono state streghe. Le streghe di Montecrestese ne combinavano di tutti i colori: lanciavano il malocchio sui poveri
valligiani, scambiavano i bimbi nelle culle con mostriciattoli figli di orchi, facevano deporre alle galline uova di pietra, annodavano tra loro le code dei cavalli, succhiavano il latte dalle mucche e dalle capre fino a renderle asciutte. Con il loro potere magico facevano ballare le case come se ci fosse un terremoto, in modo tale che si rovesciavano tutti i mobili e rompevano tutte le stoviglie e la gente terrorizzata correva all'aperto. Alcune volte, all'uscita dalla messa, bastava un loro gesto e le persone a cui avevano giurato odio si trovavano improvvisamente in mutande, senza calzoni o gonna. Usavano la fisica dell'" Incub": mediante un incantesimo creavano un essere inesistente, bellissima donna o uomo dotato di virilità eccezionale, in relazione del sesso della vittima prescelta, che compariva dopo la mezzanotte nel letto a fianco del (o della) malcapitato/a e si accoppiava furiosamente con esso/a fino a lasciarla stremata, sfinita e dolorante, quindi T'Incub" svaniva nel nulla. Questa procedura si ripeteva fino a che il poveretto (che al mattino non ricordava nulla di quello che gli era successo) non si ammalava gravemente per consunzione. Allora la strega si presentava ai famigliari proponendosi di salvarlo togliendoli la fattura in cambio di una grossa somma di denaro. Le streghe di Montecrestese, una volta al mese, al plenilunio, inforcavano la classica scopa e volavano fino al laghetto di Panelatte, in Val Vigezzo, dove tenevano il loro sabba. Lì decidevano chi dei loro concittadini era da "fatturare" per punirlo ma soprattutto per ricattarlo. Si dice che le streghe abbiano lì una tana segreta dove riposarsi dopo l'orgia: un grande masso erratico in cui hanno ricavato magicamente una camera in cui potersi nascondere e riposare. Lì dentro, protette dalle pareti di roccia, possono riposarsi al sicuro e ben nascoste prima di tornare a valle e riprendere la loro vita di donne comuni. Pure a Migiandone, nella bassa Val d'Ossola erano specialisti nel fare la fìsica: una donna abitava in un alpeggio sperduto, mentre una sua cognata, che aveva l'alpe più in basso, subì l'attacco del fuoco. La donna corse giù ad aiutarla a spegnere le fiamme e notò
un falco appollaiato su di un pruno. La donna tirò un sasso all'uccello e questo si trasformò in una ragazza bellissima completamente nuda, con i lunghi capelli biondi sciolti sulle spalle e gli occhi chiari. La visione durò alcuni minuti poi la ragazza sparì ed al suo posto vi fu un falco che sbattè le ali e prese il volo. Molti dichiararono che quella ragazza era una "stria" di Premosello, famosa per la sua malignità e per la sua abilità nel praticare la fìsica9. Streghe del Verbano orientale - Ad Angera vi furono due di queste streghe che raggiunsero un'ambigua fama: la stria Luminina e la stria Bruvela. Queste due donne furono temute soprattutto dalle giovani madri, perché i bambini erano i loro bersagli preferiti in caso di diatribe con gli adulti. Ad esempio la stria Luminina abitava nella stessa casa di una giovane vedova con un figlio piccolo. Luminina non aveva bisogno di fare la spesa: qualunque cosa le occorresse gliela comprava la vedova per timore delle sue arti magiche. Una volta la giovane vedova si dimenticò di fare la spesa alla vecchia, alle rimostranze di Luminina si scusò dicendo che quel giorno andava di fretta. "Te la do io la fretta!" sussurrò Luminina e da quel giorno molte cose strane accaddero in casa della vedova. Il latte del bambino, nel biberon, improvvisamente si riempiva di pezzetti di stracci sporchi, i cucchiai si ricoprivano di ruggine da un'ora all'altra e gli oggetti si muovevano senza che nessuno li toccasse, quindi sul corpo del bambino comparivano strani segni rossi e il povero piccolo strillava come se lo stessero spellando. Questi erano tutti segni del malefìcio in atto. La povera vedova corse da Luminina e si gettò ai suoi piedi piangendo e pregandola di perdonarla. Rabbonita la strega gli disse: "D'ora in avanti quando esci a far compere mi chiederai sempre se ho bisogno di qualcosa e me lo procurerai". La vedova accettò ed il bambino fu salvo e crebbe bello, vispo e sano. La Stria Bruvela fu un'altra strega di Angera degli inizi del XIX secolo. Era molto temuta perché se qualcuno le mancava di rispetto lei gli faceva istantaneamente la fisica e al poveretto capitavano una
disgrazia dietro l'altra. Bruvela sedeva spesso su un gradino in piazza, davanti alla chiesa parrocchiale e anche se pioveva a dirotto o nevicava, lei non si bagnava e il terreno tutto attorno a lei restava sempre asciutto. Un giorno un ragazzo per prenderla in giro continuava a passarle davanti gettando in aria e riprendendo al volo una moneta. Bruvela fece un gesto e la moneta cadde dritta in gola al ragazzo, soffocandolo, tant'è che dovette essere portato di corsa all'ospedale. Riuscirono a salvarlo ma restò muto per il resto della sua vita. Un uomo, passandole davanti la sgridò perché sedeva sul suo muretto: "Andate a casa - le gridò - non vedete che sta per piovere!". "Io lo vedo e rincaso ma sei tu che non ci vedrai mai più, così imparerai a impicciarti dei fatti tuoi!", rispose la strega ridendo e andandosene. L'uomo andò a fare le sue commissioni e quando tornò a casa fu preso da un forte mal di testa. Andò a dormire e il mattino dopo si svegliò completamente cieco e rimase per sempre così10. Sempre in Angera, viveva, fino a poco tempo fa un curioso per' sonaggio a metà tra lo stregone e il pranoterapeuta: era nato in Istria e quindi era venuto ad abitare ad Angera. Per la sua nascita istriana era soprannominato Gino "Pula" (ovvero di Pola) ed era dotato di quelle che si chiamavano le "mani calde", egli infatti guariva molti malanni imponendo le mani sulla parte del corpo inferma e declamando strane litanie in una qualche lingua straniera, che egli diceva essere il linguaggio delle fate. A volte le guarigioni che effettuava avevano del miracoloso. Era un uomo semplice e buono e raccontava che il suo potere gli veniva dall'aver frequentato da ragazzo i folletti degli alberi: gli "Abolic"11. Quando sentiva che il suo potere veniva meno, aspettava un giorno di temporale e, fra i tuoni e i fulmini correva nei boschi o nei frutteti e là, diceva, vedeva e comunicava con gli "Abolic" che gli trasferivano nelle mani nuovo potere. In Val Leventina un personaggio particolare fu l'Agnese. Agnese Bernasconi era considerata una "Matlosa"12 perché la madre era una rom venuta dalla Francia a lavorare in Ticino. Il padre era un pastore, fiero socialista anticlericale che aveva dato quel nome
alla figlia in memoria di Agnese di Altanca, una poveretta vittima dell'Inquisizione nel 143213. Agnese da bambina passò più tempo con le capre che a scuola. Non sappiamo da chi imparò a curare le malattie con le erbe ma per quanto riguarda la pranoterapia essa affermò sempre che fin da bambina aveva avuto "i man cald" (le mani calde), ovvero era in grado di guarire imponendo le mani sulla parte malata ed era molto esperta a dare sollievo al dolore mediante particolari massaggi. Certo è che anche da ragazzina sapeva guarire le capre e le pecore talmente bene che i pastori del circondario le portavano bambini e animali da curare. All'età di vent'anni lasciò la famiglia e andò ad abitare in città dove faceva la lavandaia, soprattutto curava in casa i poveretti che non avevano i soldi per pagarsi il dottore o per acquistare le medicine. Le si attribuirono diverse guarigioni miracolose e inoltre, essendo una bella ragazza di costumi liberi era molto corteggiata dai giovanotti. Insieme al successo come donna e come guaritrice, vennero le calunnie delle malelingue: si disse che si sapeva di certo che "Giugaa er fìsica", cioè che faceva la magia nera per far innamorare di sé e far impazzire gli uomini, nonché debellare le rivali. Il fatto che per molti anni fosse stata Capraia, faceva dire al parroco locale che "stà dònn e i sé càuvra i è i prèm parént dru Diàuvra"14. Un giovane confessò al prete di Olivone che era andato molte volte a fare l'amore con l'Agnese, finché una notte dopo l'amplesso mentre se ne stavano tutti e due nudi a giocare, ecco che lui la afferrò per la lunga treccia di capelli neri ma con suo grande spavento si trovò aggrappato al corno di una grande capra nera che lo fissava con occhi di brace. Logicamente il ragazzo scappò via e corse dal prete a confessarsi. Da allora in poi la fama di strega di Agnese fu consolidata, anche se continuò a curare e a guarire le persone (ma anche a portarsi i bei ragazzi a letto) divenne invisa alle autorità e soprattutto al parroco, che fece di tutto per cercare di allontanarla. Alla fine ci riuscì: Agnese Bernasconi fece i bagagli e, preso il "Postale"15, scomparve per sempre. Di lei non si ebbe più notizia. Voci ricorrenti dice-
vano che fosse emigrata in Francia, in un villaggio sui Pirenei. In Valcuvia vi fu negli anni '30-'50, un anomalo concentrarsi di storie collegate alla stregoneria. Alcune donne di Cuvio e di Casale venivano tacciate di essere streghe e di fare la "fisica" per appropriarsi dei beni altrui: Pare che la cosa funzionasse in questo modo: queste "strie" sceglievano la loro vittima tra i possidenti locali particolarmente vulnerabili alle grazie muliebri, vedovi o scapoli che vivevano da soli. La vittima veniva avvicinata e circuita nei giorni di mercato dopo di che la donna, del gruppetto delle streghe, verso la quale avesse mostrato simpatia trovava modo di incontrare il malcapitato sul sentiero, al pascolo o anche in casa finché non riusciva a impadronirsi di un ciuffo di capelli dell'uomo. A quel punto la strega fingeva di essere occupata altrove e faceva in modo di non incontrare più la vittima prescelta. Pochi mesi dopo la strega e le sue accolite iniziavano a "fare la fisica" al pover'uomo utilizzando i suoi capelli o altri resti, quali unghie o peli, e si dice che i rituali e gli incantesimi fossero tanto forti che in capo a poche settimane l'uomo era come rimbambito. Inoltre, le cose strane che gli succedevano in casa o sui campi erano tali da spingerlo a vendere i propri averi per trasferirsi in altro paese. A quel punto la strega ricompariva e compiangendo il poveretto e fingendo di consolarlo, faceva in modo di acquistare a poco prezzo i beni in vendita, oppure in cambio di un'ingente somma di denaro toglieva il maleficio. Il luogo prediletto da questa consorteria stregonesca era la località della vecchia miniera abbandonata sul monte Nudo detta Pozz Pian. Lì si svolgevano i sabba: infatti fino a pochi anni fa, nessuno aveva il coraggio di girare per la cresta del monte Nudo dalla sera dopo il 2 novembre fino a primavera, perché nei mesi invernali si affermava che su quel monte succedevano cose strane. A volte il cielo si incupiva d'improvviso che pareva già notte e si scatenava il finimondo. Strane luci si scorgevano al Pozz Pian dove la gente credeva che le streghe eseguissero i loro misteriosi riti. Queste streghe erano il terrore del circondario: la loro conoscenza della magia le
rendeva potentissime e nessuno sapeva chi fossero. Praticavano incantesimi crudeli: alcune persone erano rimasei storpiate dal loro malocchio, altre fulminate; nei casi più lievi facevano morire tutte le bestie di qualche poveretto o il suo raccolto di grano si seccava16. In una storia del 1950, la moglie di un allevatore di Casalzuigno era una "stria" famosa, che usava le sue arti magiche per aumentare il suo gregge di capre a spese di quello dei vicini. Tutti la temevano e nessuno aveva il coraggio di affrontarla17. Tranne la perpetua del parroco, anche lei "stria", che per punirla trasformò il suo gregge in modo tale che la donna quando la mattina aprì le stalle, invece di capre, trovò ad accoglierla una processione funebre di spettri coi ceri in mano. Terrorizzata la strega si gettò nel trogolo per l'abbeverata e quando si rialzò il suo volto si era tramutato nel muso di una capra e solo dopo avere fatto dure penitenze, la perpetua gli rese le sembianze umane. Anche Dumenza, nell'alto luinese, era conosciuta per ospitare alcune streghe particolari: si diceva che esse fossero nientemeno che alcune suore che, all'insapute dell'autorità ecclesiastica, adoravano Belzebù e compivano malefìci per arricchirsi. Pare che il locale santuario di Trezzo dedicato a Maria Vergine Assunta sia in realtà pervaso di simbolismo satanico e massonico e servisse da base a queste suore-streghe per le loro malefatte. Per eseguire liberamente i loro riti blasfemi, le suore (a cui si erano unite alcune donne del luogo), si ritrovavano a breve distanza dal santuario, nei boschi, in una radura ai piedi del piccolo monte Clivio; secondo la voce popolare il rito di iniziazione delle nuove adepte prevedeva l'accoppiamento della donna con un caprone, in linea con la migliore tradizione satanica. Cosa ci fosse di vero in queste storie degli anni dell'immediato dopoguerra non lo sappiamo, è un fatto però che negli anni '80 il convento venne chiuso, le suore rimaste trasferite e sostituite, dopo qualche tempo, da un gruppetto di frati. Almeno questo è quanto riferisce la gente del posto. Le "strie de Lentàa" (Lentate -Sesto Calende) praticavano il
maleficio nascondendo una piuma di corvo sotto il materasso della vittima designata: la poveretta cominciava a star male, aveva forte febbre, andava in delirio e lentamente si spegneva. A meno che, per combattere il maleficio, non si ricorresse ad un'altra "stria", pagandola bene perché eseguisse i rituali atti ad allontanare il misterioso male dalla povera vittima. Queste streghe di Lentate erano solite drogare e quindi rapire un giovanetto e utilizzarlo per i loro sfrenati sabba, che si tenevano nei boschi di Golasecca al "Sass de Biss (pietra dei serpenti). Il ragazzo solitamente impazziva per l'esperienza subita e ci volevano mesi di preghiere ed esorcismi da parte del parroco per farlo tornare normale. Il "Sass de Biss" è un affioramento roccioso ricoperto di incisioni preistoriche: soprattutto coppelle e impronte di piedi. E chiamato così perché si riteneva, secóndo un'antica leggenda, che il "Ciapin negher" (il Diavolo) nelle notti di luna nuova estive vi radunasse le vipere del luogo e a loro ordinasse chi dovevano mordere. In realtà il luogo è un antico santuario longobardo a cielo aperto collegato al culto delle serpi, un culto domestico molto popolare prima e dopo la cristianizzazione18. Quando a Lentate c'era ancora il convento, si diceva che queste streghe amavano turbare i fraticelli comparendo per magia nelle loro celle nude e vogliose19. La "Vulpa" era una donna di eccezionale bellezza che viveva da sola all'inizio del XX secolo a Biandronno, in una bella villa in stile Liberty. Proveniva dalla Toscana e si diceva fosse una contessa e che fosse rimasta vedova dopo pochi giorni di matrimonio. La "Vulpa" (volpe) era chiamata così anche per i suoi splendidi capelli rossi, che come una fiammata le illuminavano il volto. Era considerata una strega un poco particolare e sui generis: in effetti usava la magia solo per ammaliare i bei giovani (che probabilmente erano ben contenti di essere ammaliati!), proletari o contadini, e condurli in luoghi appartati dove far l'amore con discrezione, senza che né i concittadini né i suoi servitori se ne accorgessero. Tra le sue cosiddette "vittime" si cita anche un giovane prete che gettò la tonaca alle
ortiche per lei. Cominciò a correre voce che per invaghire i giovani di sé ed approfittarsi di loro, soprattutto quando fu un poco avanti negli anni, la contessa usasse la magia e soprattutto la fisica, tramite la quale non solo legava a sé e faceva impazzire d'amore gli uomini, ma anche si trasformava in una volpe (da qui il sopranome) per raggiungere l'amato velocemente ed in incognito. A conferma di ciò le donnette pettegole facevano notare come il colore del pelo della bestia corrispondeva al colore dei suoi capelli! Si mormorava che essa usasse anche la magia nera per colpire terribilmente chi gli si rifiutava, facendogli capitare qualche disgrazia che lo rendesse menomato o addirittura lo conducesse alla morte. Questa strana donna lasciò il paese allo scoppio della Prima Guerra Mondiale ed emigrò in Argentina. Streghe del Ceresio - Della "stroliga" di Arcisate più importante e della quale si conosce a sommi capi la storia non ci è rimasto il cognome, sappiamo solo che era detta "Maria la sperlusciona" (Maria la spettinata). Abitava nella cascina a ridosso della montagna detta appunto "Cà di stroligh"20. Come strega era celebre in tutta la Valceresio. Praticamente faceva l'erborista e i suoi rimedi erano molto efficaci. Purtroppo non si limitava a guarire la gente: si proclamava una "Donna di Mammone" e forniva a pagamento filtri d'amore e malefici per far star male uomini e bestie. Leggeva il futuro nei fondi di caffè e proclamava di essere anche capace di far grandinare a comando sui campi coltivati di chi voleva lei. Venne bastonata crudelmente da qualche ignorante paesano inferocito che credeva di essere stato da lei "fatturato" perché il fulmine gli aveva incendiato il fienile o la grandine gli aveva rovinato il raccolto; il malcapitato pagava però questa bastonatura con inspiegabili gravi incidenti: uno impazzì e si suicidò, altri divennero ciechi o paralitici. Si dice che, nelle notti senza luna, alla Maria piacesse andare a danzare nuda nel vecchio cimitero abbandonato di Viggiù e che lì cogliesse l'erba "Pirimpina" che usava nei suoi malefìci. La storia di questa donna è esemplare: nata da un connubio illegale venne affidata
ancora in fasce alle suore di un convento di Varese che, quando la bimba ebbe una decina d'anni e non mostrava alcuna tendenza religiosa, la mandarono a servizio presso una famiglia benestante di Ponte Tresa. A tredici anni la ragazzina scappò e per alcuni anni visse e vagabondò in Svizzera (Cantone Vallese) facendo la serva e, alcuni dicono, occasionalmente la prostituta. A venticinque anni ricomparve ad Arcisate e andò ad abitare dal vecchio erborista detto lo "stroligo" che viveva al limitare del bosco, nella casa omonima21. Chi scrive ha avuto occasione di visitare la "Cà di stroligh" quando era ormai abbandonata da decenni ed in rovina; soprattutto colpiva il colore delle stanze: le pareti erano tutte dipinte di un rosso acceso con lunghe striature e fiammate di giallo e arancione! Maria la sperlusciona era detta così per il suo aspetto trasandato. Visse con lo Stroligo more uxorio per alcuni anni e da lui imparò tutti i segreti delle erbe medicinali. Morto il vecchio, essa si sistemò nella cascina e lì riceveva le visite di gente sofferente. Lo scrivente aveva dieci anni quando, con le mani piene di porri e verruche, fu portato dalla "Maria Stria" (come era chiamata dietro le spalle "Maria la sperlusciona"). Mi trovai dinanzi una donna piccola, grassoccia, vecchia e laida che forse un tempo era stata carina. La Maria Stria mi guardò le mani e quindi mi fece alcune domande di prammatica che ora non ricordo. Poi mi fornì la sua "ricetta" contro porri e verruche. Dovevo aspettare che morisse un animale domestico (il giorno seguente per fare in fretta mia madre uccise un coniglio) e assolutamente da solo dovevo portarlo sotto un albero di salice in una notte serena, con la luna, seppellirlo ai piedi della pianta e quindi cogliere trecento foglie di salice e sfregarle fortemente una ad una sui miei porri pronunciando una formula che ora non ricordo. Feci tutto per bene secondo le istruzioni, anche se con comprensibili brividi di paura: qualche giorno dopo i porri si essiccarono e quindi scomparvero. Logicamente era stato il salicidato contenuto nelle foglie a curarmi ma Maria la sperlusciona era fatta così: amava ammantare i suoi rimedi fitoterapia di un'aria di mistero e rituale magico. Una
stradina della Valceresio, quella che porta a Brusinetto, è detta ancor oggi "re strecia di strii" (stradina delle streghe) e vi è, da parte degli abitanti, un certo timore a percorrerla a piedi di notte. Si dice che per anni era stata abitata da alcune donne dedite alla magia nera. A Brusimpiano un bambino sano e vispo, dopo che una donna di quella via, considerata strega, lo adocchiò (gli fece il malocchio), cadde ammalato. Ogni giorno deperiva ed i genitori erano disperati. Il padre chiese aiuto alla perpetua del prete del santuario di Ardena, una donna che, dicevano, se ne intendeva di esorcismi. Questa gli disse che l'unico rimedio contro le streghe era far bollire gli abiti del bambino nell'acqua benedetta per allontanare il maleficio. I genitori non erano superstiziosi, ma l'amore per la loro creatura era tanto grande che provarono anche questo rimedio. Mentre l'acqua bolliva entrò nella casa un gatto nero. Il padre subito prese una roncola e la scagliò con violenza colpendo il gatto ad una zampa. Proprio in quel momento, a Brusino, la donna considerata «strega» fu vista zoppicare e poco dopo cadere morta fulminata da un colpo apoplettico. Il bambino ritrovò tutta la sua salute ed il paese fu liberato dalla strega22. Guaritori e sensitivi - Magia e stregoneria sono andate sempre di pari passo nella tradizione popolare. Per l'immaginario collettivo dell'uomo qualunque del XX secolo, chi aveva a che fare con la magia era decisamente qualcuno da evitare o comunque da tenere lontano anche se molto spesso faceva comodo servirsi di queste persone sperando di perseguire i propri scopi reconditi e ottenere risultati poco legali, senza rischiare di persona. E per questi motivi che ancora oggi vi è una larga percentuale di persone che crede nella stregoneria. Ma non si deve credere solo all'aspetto negativo della negromanzia: dobbiamo chiarire che in tempi moderni vi sono state anche alcune streghe benefiche che gratuitamente, o in cambio di piccole somme, agivano per il bene degli altri a scopi positivi e che mai hanno fatto uso dei loro supposti poteri per danneggiare qual-
cuno. È il caso dello "striun de Sri" (Cittiglio), un prete spretato per amore, che assieme alla sua compagna, una famosa "stroliga", bella donna un poco attempata con degli splendidi capelli neri (l'avevano soprannominata la "spagnola"), su richiesta parlava coi morti e li faceva interagire a favore dei loro parenti viventi. La donna faceva le sue "fattur par ciamàa i mort" mentre l'uomo andava in trance e con voce mutata dava predizioni del futuro e ottimi consigli pratici al cliente. Questa coppia di "strolig" non voleva denaro in pagamento, ma si accontentava di un dono in natura: un pezzo di formaggio, un cestino di frutta, una bottiglia di vino23. Essi dicevano che il potere della divinazione gli era stato concesso dal "Buon Dio" per aiutare gli altri e perciò non dovevano farsi pagare per le loro prestazioni. Anche famosi attori, giocatori di basket, industriali, un celebre pittore, ricorsero al loro aiuto per ottenere lumi sul futuro prossimo, e aiuti per prendere decisioni su problemi anche di notevole importanza. Chi scrive ha assistito ad una seduta di evocazione dello spettro di una povera donna morta in circostanze misteriose e posso assicurare che, pur non capendo come fosse possibile, lo spettro rivelò attraverso il tramite dello "stroligo" alcuni importanti fatti che portarono al ritrovamento, da parte dei figli della defunta, di una notevole somma di denaro che si credeva andata perduta. Non è possibile determinare su che basi la coppia effettuasse le sue predizioni ma la questione inquietante era che ci azzeccava sempre! Dobbiamo pensare ad un reale potere paranormale? Da notare che questa coppia di stregoni non nominò mai né Gesù Cristo, né alcun santo quale loro ispiratore, ma invocava sempre un generico "Buon Dio". Che questi fosse il dio cristiano o una antica divinità locale non lo si è mai saputo24. Anche la "stria de Mumbell" (Laveno) e la "stroliga de Sunii" (Sunia-Verbania) mettevano le loro arti magiche solo al servizio del bene e si rifiutavano di fare la fìsica contro qualcuno. Queste persone erano benestanti (la strega di Sunia possedeva una ben avviata fabbrichetta di mobili) per cui concedevano gratuitamente i loro
servizi e parevano veramente dotate di poteri paranormali impressionanti. A volte hanno guarito adulti e bambini da malattie considerate incurabili. In segreto mi raccontarono che i loro strani poteri, di cui neppure essi si capacitavano, gli venivano dall'avere fin da bambini rifiutato istintivamente il Cristianesimo, sputando nascostamente l'ostia consacrata quando i genitori gli facevano fare la comunione, e di avere invece seguito la "vegia religiun d'piant i besti" (la vecchia religione degli alberi e degli animali) che un anziano parente gli aveva segretamente rivelato. Si tratta di un evidente caso di ritorno ad un paganesimo ancestrale25. Tranne questi pochi esempi di "strie" buone, in tutti i casi di stregoneria di cui ho raccolto testimonianze dirette appare chiaro che in queste storie "moderne" lo scopo ultimo è sempre quello di eliminare, o perlomeno danneggiare, un rivale o una persona antipatica e nel contempo ottenere un buon risultato economico con poco sforzo. Prima del 1980 questi racconti erano storie quotidiane che spesso la gente si sussurrava in segreto. C'erano tante "strie" nei piccoli borghi montani, esse si conoscevano bene tra loro e la gente, pur avendone paura spesso ricorreva ad esse per far fare qualche maleficio contro un nemico, o proteggere sé ed i suoi dalle malie degli altri. La stregoneria, vera o immaginaria, faceva parte della vita del paese e con le streghe bisognava sempre fare i conti. Per lo più le si ignorava e si evitava di parlare di esse con gli stranieri, i "Milanéss"; inoltre si aveva molta prudenza nei rapporti interpersonali con donne di famiglie non imparentate, perché non si sa mai: anche la vicina di casa tanto simpatica di notte poteva inforcare la scopa e via... volare verso il sabba più vicino!
NOTE * Le informazioni orali provengono dall'"Archivio Roberto Corbella" o dalT'Archivio Orienteoccidente". Gli informatori vengono elencati con l'iniziale del nome ed il cognome completo oppure solo con le iniziali, segue il nome del paese dove è stata registrata la testimonianza, l'anno di registrazione. 1 II "Segno" è una particolare situazione in cui viene a trovarsi una persona, o un luogo, scelti da esseri sopranaturali per divenire di loro dominio e dove l'influenza benefica del Cristianesimo non può nulla. 2 15 maggio 1811: circolare della Pubblica Istruzione ai professori di liceo del Regno Italico "Sulle diverse costumanze, pregiudizi e superstizioni che si mantengono nelle Campagne". 3 Civiltà di Golasecca: importante cultura celta che si sviluppò in Insubria dal 1000 al 300 a.C. 4 Ved. capitolo "La fisica". 5 Queste interviste servivano a raccogliere materiale per i miei volumi sul folklore insubrico Creature del mistero e Fantasmi nostri. 6 In Islanda e Norvegia, come evidenziato da racconti e leggende popolari, si pensa che i preti (in questo caso pastori protestanti), dopo il seminario, vadano segretamente a lezione di magia nera da qualche celebre sciamano locale. 7 Molti uomini di mezz'età da noi interrogati ci hanno descritto in termini schiettamente erotici in tutti i particolari questi "incontri" stregoneschi, aggiungendo di aver agito come in un sogno: capivano esattamente ciò che stava succedendogli ma non potevano reagire. 8 Questo bassorilievo, fino a qualche anno fa, era ancora visibile alla Colma di Craveggia presso la cappella di San Rocco. 9 Archivio R. Corbella conversazione con Caterina Steyt — Dorf (1976). 10 Ricordiamo che questi fatti o supposti tali avvennero tra il 1950 e il 1980. AA.W., L'albero del tempo, Angera 2003. 11 Gli Abolic sono degli spiritelli minuscoli, tipo di folletti della tradizione verbanese, che si cibano di frutta. Dotati di grandi poteri paranormali essi si mostrano agli uomini solo durante i temporali estivi. 12 Imbastardimento, ticinese da Heimat-loss. Senza patria. Erano chiamati così in Svizzera i vagabondi e i non appartenenti alla Confederazione Elvetica. 13 La strega Agnese di Altanca (Poschiavo) confessa nel 1432 che Lucifero le è apparso in forma di becco, offrendole pane e formaggio in cambio di un terzo del raccolto di fieno di tutta la valle. Per questo motivo venne giustiziata. Certo che a quei tempi diavoli e streghe si accontentavano proprio di poco!
14 Ovvero: "questa donna e le sue capre sono le prime parenti del Diavolo". Evidentemente la carità cristiana non era molto seguita da quel sacerdote! 15 II sistema di trasporto pubblico svizzero con corriere si chiama "Postale" perché collegato alle Poste Elvetiche. 16 Inf. A. Rossetti - Gavirate (1972). 17 Inf. A. Rossetti, D. Binda, G. Peregalli - Gavirate, Cuveglio (1972). 18 Paolo Diacono, Historìa Longobardorum. 19 C. Ranci, La sponda magra, Milano 1931. 20 La Cà di stroligh si trovava subito sopra Arcisate all'inizio della vecchia mulattiera che conduce al "Passo del Vescovo". Ora è stata abbattuta. 21 Su questo misterioso e singolare personaggio non si è riusciti ad avere notizie precise. Alcuni dicono fosse un ex-medico radiato dall'albo che per campare si era adattato a fare l'erborista. Per altri era una specie di "guru" legato a pratiche sataniche. 22 Inf. L.M. - Brusimpiano (2008). 23 Gavirate - Archivio Orienteoccidente; inf. L. Lazzari, L. Derla - Fascicolo 31 b anno 1996. 24 Inf. C. Sailer - Como (1939). 25 Molti casi di ritorno al paganesimo puro e semplice si sono avuti tra il 1959 ed il 1980 nella zona di Laveno Mombello e della Valtravaglia. Si tratta in genere di persone con una buona istruzione, esperienze alternative e una fierezza anticlericale di libertà anarchica. Generalmente sono simpatizzanti di movimenti autonomisti e si riconoscono nella cultura tradizionale celta irlandese.
L'archetipo della strega insubre: la Druida "Bna Deruyd", sacerdotessa e guaritrice celta con la sua oca sacra, la nudità è affermazione della sua appartenenza alla Grande Madre Terra (ricostruzione R. Corbella)
Sciamanesimo nordico nella stregoneria longobarda: la Spakona, diretta antenata della strega lombarda, "Donna di potpr~s~~—Stessa, evoca gli spiriti dei morti mediante il suono del tamburo scia~ •'menti sono ripresi da quelli rinvenuti nelle tombe longobarde ricostruzione R. Corbella)