Storia Dell'Architettura Xx Tutto
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Storia Dell'Architettura Xx Tutto...
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Renato De Fusco
Storia dell’architettura del XX secolo Introduzione
Ridurre in forma semplice ciò che è complesso e individuare principi comuni in opere, tendenze ed esperienze diverse sono gli obiettivi principali di questo libro, che riflette quasi puntualmente il corso di storia dell'architettura moderna da me svolto presso la facoltà di architettura dell'università di Napoli da vari decenni. Il presente volume costituisce pertanto la testimonianza di un'attività didattica realmente svolta e, pur riflettendo una teoria dell'architettura e una metodologia storiografica analizzate e descritte in altri miei saggi, intende rivolgersi agli studenti e a tutti coloro che si accostano per la prima volta alla storia dell'architettura del Novecento; il suo fine è quindi quasi esclusivamente didascalico. Come ogni trattazione sono necessarie alcune premesse che, specie in questo saggio, intendono anche essere il programma del libro, le linee direttrici per l'organizzazione espositiva dell'argomento, la chiave di lettura e consultazione del volume, i punti di riferimento per l'intero discorso la cui verificabilità, da ritrovarsi nel contesto del libro, dovrebbe garantire il grado del suo contributo scientifico. La prima premessa riguarda il termine «riduzione» che ho utilizzato nell'esporre gli obiettivi principali di questo saggio. Esso denota non solo un'attività semplificatrice, ma anche un'altra mirante a cogliere l'organizzazione basilare e sistematica dei fenomeni, la loro significazione, la loro struttura. Il termine «struttura» ci porta alla seconda premessa del libro e al modo col quale esso è stato conformato e organizzato. Assimilata al concetto del tipoideale weberiano,[I «Esso non è una rappresentazione del reale, ma intende fornire alla rappresentazione un
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mezzo di espressione univoco [...] è ottenuto mediante l'accentuazione unilaterale di uno o di alcuni punti di vista, e mediante la connessione di una quantità di fenomeni particolari diffusi e discreti, esistenti qui in maggiore e là in minore misura, e talvolta anche assenti, corrispondenti a quei punti di vista unilateralmente posti in luce, in un quadro concettuale in s unitario. Nella sua purezza concettuale questo quadro non può mai essere rintracciato empiricamente nella realtà; esso è un'utopia, e al lavoro storico si presenta il compito di constatare in ogni caso singolo la maggiore o minore distanza della realtà da quel quadro ideale». Cfr. M. Weber, Il metodo delle scienze storicosociali, Einaudi, Torino 1958, p. 108] la nozione di struttura equivale a un modello che, accentuando unilateralmente alcuni aspetti dell'esperienza storica contemporanea, quali il contesto storico sociale, le teorie criticoestetiche, le poetiche, ecc., serve a suddividere in vari codici o stili l'oggetto della mia trattazione e in pari tempo a confrontare con essi le opere più significative di ciascun periodo o tendenza. Pertanto, stabilita questa equivalenza tra i concetti di struttura, modello, tipoideale, stile e codice, ho diviso il libro in tanti capitoli (L'eclettismo storicistico, L'Art Nouveau, Il protorazionalismo, ecc.) quante sono queste cosiddette poetiche «costruendole» appunto come altrettante strutture stilistiche. Ognuno di tali capitoli si comporrà di due parti. La prima sarà l'esposizione degli eventi scelti a rappresentare le suddette strutture; essa non esaurirà evidentemente la tematica culturale connessa alla storia dell'architettura contemporanea, ma servirà sia come una «riduzione» storiografica delle vicende di un dato periodo, sia come un'introduzione e un parametro referenziale per le opere di quel periodo; cosicché questa prima parte potrà assumersi come un codicestile. La seconda parte sarà dedicata allo studio delle opere corrispondenti a quest’ultimo e potranno assumersi come altrettanti messaggi. La terza premessa riguarda il tipo di tali operemessaggio, Esse saranno tra le più «paradigmatiche» (opere che derogano dal
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precedente codice ponendosi come modello per la produzione successiva), ed «emblematiche» (opere che rappresentano fedelmente il linguaggio del loro tempo). In quanto tali, risponderanno alla generale esigenza riduttiva del libro e serviranno a confermare o a smentire quello che, nella prima parte, è stato ipotizzato come il loro codicestruttura. Benché l’impostazione metodologica del saggio, sia francammente strutturalista, fondata, come ripeto, sulla ricerca delle invarianti, queste non stanno mai da sole, ma associate alle varianti di ciascuna tendenza storica esaminata. Nonostante le caratteristiche teoriche, in ogni caso questo libro tende a essere il più semplice e facile, il meglio di molti altri manuali del genere, a unificare storiografia e progettazione. Capitolo primo L'ECLETTISMO STORICISTICO Con questa espressione si indica generalmente una fase della storia dell'architettura dell'800, in cui coesistono stili diversi e tutti facenti capo a differenti periodi storici precedenti; così il neoclassico, il neogotico, il neorinascimento, il neobarocco, ecc. costituiscono altrettanti ritorni, ravvivamenti (revivals) rispettivamente dell'architettura del mondo antico, medievale, rinascimentale, ecc., senza parlare delle tendenze che si rifanno al gusto esotico. Non è nostra intenzione smentire tali nomenclature, rispondenti peraltro alla precisa intenzione degli architetti militanti in dette tendenze. Vogliamo, di fronte alla esigenza di costruire un più ampio codice stile relativo alla produzione ottocentesca, anzitutto affrancare la dizione «eclettismo storicistico» dalle sue connotazioni negative, considerandola indicativa di uno stile nel suo complesso unitario, e insecondo luogo includere in essa altri fenomeni, come quello della nascita dell'urbanistica moderna, o altri eventi solitamente trattati dalla storiografia in capitoli a parte, come a esempio l'opera degli ingegneri o la scuola di Chicago. E ciò non tanto per condensare un materiale
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storico altrove frazionato, quanto perché riteniamo che tutta la produzione del periodo suddetto rifletta cause ed esigenze comuni a tutto il mondo occidentale industrializzato; inoltre, nonostante le diverse poetiche, i differenti personaggi ed eventi, la dissimiglianza delle opere, riteniamo che il significato di fondo dell'intera vicenda sia sostanzialmente storicoeclettico, nell'accezione fenomenologica ed epocale dell'espressione e non in quella puramente formale e «stilistica». Già gli assunti ora detti costituiscono una sorta di tipoideale, un quadro concettuale cioè unitario ottenuto mediante l'accentuazione di un punto di vista e la connessione di una quantità di fenomeni particolari. Proviamo dunque a costruire questa strutturamodello che chiamiamo «eclettismo storicistico» con la quale studieremo alcune delle principali opere del periodo sopra indicato. Tale costruzione equivale a una narrazione «angolata» delle principali vicende le condizioni storicosociali, quelle tecnologiche, le teorie critico estetiche, le poetiche, i protagonisti (temi che ricorreranno quali invarianti in tutti gli altri capitoli) avvertiti però dalla premessa che la nostra non sarà una storia rispecchiante la realtà dei fatti e certamente meno esaustiva di altre, ma una tendente principalmente a fornire un quadro unitario di essi nonostante la loro eterogeneità. Le condizioni storicosociali. L'architettura e l'urbanistica moderne nascono dall'incontro di una serie di fattori tra i più tipici della cultura databili tra il XVIII e il XIX secolo. Molti autori, con fondati motivi, vedono l'inizio di esse nel ‘700 e segnatamente fanno coincidere la loro genesi con la cosiddetta architettura dell'Illuminismo (Boullée e Ledoux) e con l'ampio dibattito teorico del secolo XVIII. Per parte nostra, pur riconoscendo la grande importanza di questi fenomeni, riteniamo che, a parte la datazione, i fattori causali della moderna vicenda architettonico urbanistica siano soprattutto il liberalismo, l'industrialismo, il
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positivismo, la rivoluzione tecnologica, il socialismo utopistico, il marxismo, ecc., dei quali tracciamo qui una rapida sintesi. Nato con le ideologie democratiche, egalitarie e umanitarie dalla Rivoluzione francese, il liberalismo si affermò come traduzione politica, sociale ed economica dell'individualismo. Dal punto di vista economico il liberalismo, il cui punto di forza era il principio della proprietà privata, sosteneva che ogni attività di scambio dovesse svolgersi senza alcuna interferenza, secondo le leggi dell'utile individuale e il gioco spontaneo della domanda e dell'offerta; inoltre esso riteneva che l'interesse privato, stimolando il ritmo lavorativo e la concorrenza, si risolvesse in un vantaggio collettivo e che, grazie sempre a quel libero rapporto di domanda e offerta, ogni situazione di cambiamento e di crisi economica si riequilibrasse automaticamente. Intanto, grazie al positivismo, per cui solo la conoscenza sperimentale dei fatti è feconda, e al crescente progresso delle scienze naturali, si ebbe un notevole sviluppo tecnologico con l'invenzione di nuove macchine capaci di sostituire il lavoro artigianale e rivoluzionate radicalmente i tradizionali processi lavorativi. Al liberalismo si associa così l'industrialismo. Inoltre, poiché il costo dei nuovi macchinari e impianti, non sostenibile dagli artigiani, richiedeva l'anticipo di un ingente capitale iniziale, questo, unitamente alla nuova organizzazione produttiva e a uno smercio rapido e quantitativamente notevole dei manufatti, tale cioè da utilizzare al massimo le macchine e recuperare al più presto il capitale impiegato nelle spese d'impianto, portarono al capitalismo. Dall'insieme di questi fenomeni nascono la produzione di massa, l'economia di consumo e di profitto, il regime concorrenziale, sorretto dall'etica e dal parametro economico per cui tutto è lecito, utile e va bene purché si venda. Quando dalla competizione a livello nazionale si passa alla conquista dei mercati esteri, il regime capitalistico impone allo stato il conflitto con altri paesi produttori e la politica coloniale dando luogo ad una nuova versione del vecchio imperialismo.
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La classe che fece propria l'ideologia del capitalismo industriale fu quella della borghesia che, a differenza della nobiltà, a suo tempo interessata alla gestione dell'attività agricola se non alla pura rendita parassitaria, s'impegnò totalmente nell'industria e nel commercio e, una volta acquisiti i moderni strumenti di produzione, divenne la classe egemone della società ottocentesca. Oltre all'indiscutibile ruolo storico svolto tra grandi successi e profonde contraddizioni, questa classe era caratterizzata dal fatto di essere aperta: ad essa poteva accedere chiunque, indipendentemente dalla nascita e dalle condizioni di partenza, fosse stato capace di acquisire efficienza, ricchezza e potere. L'altra protagonista della rivoluzione industriale è la classe del proletariato, in precedenza i lavoratori erano organizzati in corporazioni, ossia in società fra addetti allo stesso mestiere, che se da un lato garantiva i membri contro le classi egemoni del tempo, dall'altro presentava i limiti propri d'una oligarchia retta dai cosiddetti maestri d'arte, che si tramandavano questa carica da padre in figlio, e d'una organizzazione che impediva ai non corporati di svolgere liberamente qualsiasi tipo di lavoro. Tuttavia, abolita questa anacronistica struttura dalla Rivoluzione francese, la classe operaia ottenne solo alla fine dell'Ottocento il riconoscimento del sindacato; cosicché per oltre un secolo, a parte le iniziative spontanee e isolate, i lavoratori non ebbero alcun organismo che ne tutelasse i diritti e consentisse loro un potere contrattuale. Il liberalismo si risolveva a tutto vantaggio della classe padronale in quanto, affermando tra l'altro il principio della libera contrattazione, sanciva che, mentre la proprietà degli strumenti produttivi, come del resto ogni altro tipo di proprietà privata, costituiva un diritto, il lavoro era soltanto un dovere, contestando il capitalismo il diritto al lavoro, le associazioni di categoria, i sindacati operai, ecc., ossia tutto quanto potesse impedire l'esercizio assoluto del suo potere economico. Da queste condizioni e grazie al fatto che le concentrazioni produttive e l'esperienza della vita nelle fabbriche danno agli operai una maggiore coscienza di classe
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[1 «La rivoluzione industriale ha avuto per l'Inghilterra la stessa importanza che la rivoluzione politica per la Francia e quella filosofica per la Germania, e la distanza tra l'Inghilterra del 1760 e l'Inghilterra del 1844 è almeno pari a quella tra la Francia dell'ancien régime e la Francia della Rivoluzione di luglio. Il frutto più importante di questo rivolgimento industriale è però il proletariato inglese»; cfr. F. Engels, La situazione della classe operaia in Inghilterra, Editori Riuniti, Roma 1972, p. 56.], nasce il socialismo scientifico dopo una serie di formulazioni, proposte e riforme dovute al cosiddetto socialismo utopistico. Alla libertà del capitalismo si oppongono le rivendicazioni operaie, all'organizzazione padronale quella dei lavoratori. Il movimento operaio s'organizza secondo i principi del marxismo. Per esso l'operaio produce valore in eccesso rispetto alla sua remunerazione e questo plusvalore viene assorbito dal capitalista a proprio esclusivo vantaggio. Da questo ineliminabile sfruttamento deriva la lotta di classe. Tale conflitto, esistente in ogni altro momento della storia, quale che siano i nomi delle classi antagoniste, e che spiega, secondo i marxisti, la stessa evoluzione storica, assume con la rivoluzione industriale il suo più chiaro ed esplicito rapporto dialettico. E poiché la democrazia parlamentare è facilmente manovrata dal sistema capitalistico, solo con la rivoluzione politica ed il trionfo del proletariato si avrà la fine di questo dissidio e una società senza classi. Intanto termine che caratterizza sia una strategia a medio termine del movimento operaio, sia la politica dei riformisti accanto all'organizzazione rivoluzionaria del proletariato, ad alleviarne la condizione di estremo disagio, sorge una serie di azioni riformatrici avanzate da tecnici democratici, da organismi religiosi, da associazioni filantropiche. Passando da queste generali note informative all'esame più diretto delle condizioni che presiedono alla nascita dell'architettura e dell'urbanistica moderne, bisogna far cenno alla situazione dell'Inghilterra, ossia della nazione che per prima visse l'esperienza della civiltà industriale. Il primo manifestarsi di questo cambiamento
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culturale antropologico si verifica in corrispondenza all'azione congiunta e correlata della rivoluzione demografica e della rivoluzione industriale. Dalla seconda metà del Settecento al 1830, periodo che si considera per le innovazioni tecnologiche e il nuovo assetto economico quello corrispondente appunto alla rivoluzione industriale, si calcola che la popolazione inglese passa da sei milioni e mezzo a quattordici milioni di abitanti. Le cause dell’incremento furono d'ordine alimentare, igienico, edilizio; sono legate ai progressi della medicina e dell'assistenza sanitaria, agli impianti per la fornitura e lo smaltimento delle acque, agli aspetti positivi (tra i numerosi negativi) del processo d'industrializzazione. All'incremento demografico si associa una diversa distribuzione degli abitanti sul territorio, legata alla utilizzazione in campo produttivo di alcune invenzioni tecnologiche. La più importante fu la macchina a vapore di James Watt brevettata nel 1769. Essa incise immediatamente in tre settori produttivi fra i più tipici e attivi in Inghilterra, il minerario, il siderurgico e il tessile, fra loro intimamente connessi. Il campo siderurgico era stato in precedenza innovato dalla scoperta di Abraham Darby, avvenuta nel 1735 e perfezionata da suo figlio, consistente in un procedimento per fondere il ferro dal minerale impiegando il coke di carbone minerale al posto del carbone ottenuto dalla combustione del legno, ossia di un materiale di difficile approvvigionamento e comunque utilizzabile per numerosi altri scopi. La macchina di Watt consentì anzitutto un notevole aumento nell'estrazione del carbone minerale e poi l'immediata utilizzazione delle miniere per la produzione siderurgica. Questo fatto, come s'è accennato, ebbe una grande ripercussione sulla trasformazione degli insediamenti territoriali. Infatti gli impianti di estrazione del carbone che prima nascevano nelle zone boscose, ossia lontane dai centri cittadini, successivamente furono installati nelle regioni minerarie che, o per la loro vicinanza ai centri urbani, o soprattutto per la loro più complessa organizzazione, richiamarono un ingente numero di addetti, determinando così nelle zone di lavoro dei
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nuovi nuclei abitati. In campo tessile la macchina a vapore di Watt fornì la necessaria energia meccanica alla tessitrice inventata da Edmund Cartwright nel 1784, che subentrò alla filatrice di Richard Arkwright mossa dall'energia idraulica, ideata nel 1768, la quale a sua volta aveva sostituito i telai a mano jenny del 1764 e il fly shuttle del 1733. Ora, mentre i telai a mano consentivano la lavorazione a domicilio, affidata prevalentemente alle donne, sia indipendente che a commessa, effettuata di solito nelle zone agricole da alcuni membri delle famiglie contadine, le macchine tessili furono concentrate, nei pressi delle fonti di energia idraulica o mineraria, in officine e filande che richiamarono dalla campagna un numero sempre crescente di lavoratori. Cosicché anche l'industria tessile, accanto a quelle minerarie e siderurgiche, produsse una concentrazione in alcune zone di impianti che, per la loro relazione con quelli degli altri settori, contribuirono a determinare una lavorazione a ciclo completo. Il costo di tali impianti, come s'è detto, e loro organizzazione centralizzata sono all'origine della formazione della nuova classe imprenditoriale. La domanda del mercato aumentava sia per il più alto tenore di vita degli abitanti, sia per il perfezionamento di molti prodotti dovuto alle nuove macchine che soprattutto consentivano di immettere sul mercato una quantità di merce a un prezzo tanto basso da essere accessibile alla maggioranza dei compratori. Si stabilisce così la logica del lavoro industriale: quantificare la produzione, ridurre i prezzi per produrre di più in un tempo sempre più breve. Intanto il nuovo velocizzato ritmo produttivo, la necessità di incrementare gli scambi e i trasporti sollecitarono il rinnovamento della rete di comunicazione dell'intero paese. Furono aperte nuove strade, resi navigabili i canali e avviato il processo di trasporti su rotaie, dapprima in legno, poi in ferro finché con la locomotiva di George Stephenson del 1829 si ebbe la nascita della ferrovia. La città risulta il nodo più favorevole in cui s'intrecciano le attività produttive, quelle di scambio e quelle economicodirezionali. Secondo i dati del Lavedan, dal 1750 al 1850 Manchester passa da 12.000 a
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400.000 abitanti; Glasgow da 30.000 a 300.000; Leeds da 17.000 a 170.000 [cfr. P. Lavedan Histoire de l’urbanisme. Èpoc contemporaine, H. Laurenz Editeur, Parigi 1952]. Londra è la prima città europea che alla fine del Settecento raggiunge un milione di abitanti. I motivi che attraggono nella città la gente dalla campagna sono d'ordine economico: la possibilità di un salario più elevato e regolarmente corrisposto; tecnico: una condizione di vita più igienica e la fruizione di una maggiore assistenza; ricreativo: la città offre più occasioni d'incontri e di divertimento rispetto alla campagna. Questi vantaggi si accompagnano a una notevole contropartita. La città con le sue antiche strutture non regge alle spinte dei mutamenti e dell'ingente immigrazione; è il luogo dove più forte si verifica lo scontro di classe; diventa essa stessa con le sue aree fabbricabili e i suoi edifici oggetto di mercificazione capitalistica. Seguendo le teorie economiche liberali (già nel 1776 Adam Smith consigliava ai governi di cedere i terreni demaniali per sanare i loro bilanci), gli enti pubblici cedono ai privati la proprietà delle aree edificabili, perdendo così ogni possibilità di controllo urbanistico. Nel periodo più tipico della rivoluzione industriale, gli anni cioè dal 1760 al 1830, si manifestano i maggiori disagi: le vecchie costruzioni del centro, specie quelle più fatiscenti e malsane vengono occupate dagli immigrati dalla campagna e le inchieste avviate qualche anno più tardi descrivono condizioni di abitabilità inumane a Londra, Manchester, Liverpool, Leeds; né diversa era la situazione delle nuove abitazioni costruite in periferia proprio per accogliere la nuova massa dei lavoratori; anzi al fine di trarre vantaggio da questa precaria condizione sorse un'apposita categoria di imprenditori edili, i jerry builders cui si deve la formazione degli slums e del moderno suburbio proletario. Il problema delle abitazioni popolari divenne il punto centrale della città ottocentesca. F. Engels con il suo libro The Condition of the Working Class in England del 1845, fornì il contributo più attendibile, sia pure angolato dalla sua visuale rivoluzionaria, per tutti coloro che, sociologi, tecnici, urbanisti, successivamente si sono occupati di tale
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problema. Secondo un'indagine del tempo, a Bristol su 2.800 famiglie il 46% disponeva di una sola stanza; in una zona di Londra, l'East End, vengono segnalate 1.400 case abitate da 12.000 persone; nella Parrocchia SaintGeorge, ad Hannover Square, su 1.465 famiglie, 929 hanno una sola stanza, 408 vivono in due, mentre 623 hanno addirittura un solo letto [Cfr. F. Engels La questione delle abitazioni, Edizioni Rinascita, Roma 1950]. Gli alloggi sotterranei sono numerosissimi a Londra, Manchester, Liverpool, Leeds. Le carenze urbanistiche della città paleoindustriale furono generali; i disagi di ciascun settore si ripercossero su tutti gli altri. Gli elevati indici di affollamento, le carenze dei servizi igienici, le difficoltà di approvvigionamento idrico e soprattutto quelle relative allo smaltimento delle acque nere sono tutte cause concomitanti delle ripetute epidemie pestilenziali. Queste vanno peraltro ricordate come i soli fatti capaci di smuovere lo stato e gli enti pubblici, come le principali cause di quegli interventi di risanamento, che indiziano peraltro la incapacità ed i limiti del regime liberistico, dell'ideologia del laissez faire, a risolvere i problemi senza l'intervento della mano pubblica. Ancora, tra i fenomeni tipici della prima città industriale, va ricordata la mancata distinzione fra le diverse funzioni delle zone urbane: in assenza di appositi regolamenti, opifici e filande si installavano laddove volevano creando dannose conseguenze per le adiacenti zone abitate, per il traffico, per l'inquinamento idrico ed atmosferico, ma forse soprattutto perché la loro presenza avrebbe compromesso gli sviluppi successivi delle città. Il quadro che abbiamo descritto trova un'interpretazione abbastanza fedele nella città che Dickens chiama Coketown nel suo libro Tempi difficili, ma la città del carbone, del fumo, della macchina segna anche un punto di riferimento, costituisce il simbolo d'un processo irreversibile, ricco di contraddizioni, ma anche tappa di una straordinaria vicenda umana e sociale. Peraltro dalla diagnosi e dalla terapia di questa città malsana nasce a opera di tecnici, di legislatori, di amministratori, riformatori ed utopisti, l'urbanistica moderna.
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Questa può considerarsi generata, dal punto di vista sociopolitico al quale abbiamo dedicato il presente paragrafo, da tre diversi atteggiamenti: uno legislativoriformistico, uno peculiare agli utopisti ottocenteschi ed un terzo che riflette l'atteggiamento dei primi marxisti sull'argomento. Quanto agli sforzi per riequilibrare in campo edilizio e urbanistico gli scompensi prodotti dalla rivoluzione industriale secondo la via delle riforme legislative, essi seguono quasi dovunque le seguenti fasi: dapprima si effettuano delle accurate inchieste sulle condizioni igienicosanitarie e sulle condizioni abitative del preesistente patrimonio edilizio, segnatamente per ciò che concerne le abitazioni popolari (in Inghilterra, ad esempio, si ha l'inchiesta condotta ufficialmente da Edwin Chadwick e quella «privata» di Engels, unitamente a una serie di minori indagini promosse da organismi religiosi e filantropici); in un secondo momento, tra profondi travagli politici, perché entrano in conflitto l'interesse pubblico e quello privato, si emanano alcune leggi sulla salute pubblica (il Public Health Act del 1848, l'Artisan's and Labourer's Dwelling Act del 1866, lo Housing of Worker Class Act del 1890); la terza fase riguarda le leggi relative all'esproprio di beni privati dichiarati di pubblica utilità; è questo l'istituto che pone in crisi l'ideologia liberistica, quello che costituisce una sorta di inversione di tendenza rispetto alla politica consigliata da Adam Smith e in definitiva lo strumento rimasto basilare per ogni successiva riforma urbanistica. In questo campo è la Francia a svolgere un'azione più decisa. La prima legge sulla espropriation pour cause d'utilité publique è del 1810, ma riguarda casi eccezionali; la legge del 1841 estende l'esproprio ai casi di grands travaux publics; quella del 1850 ne prevede l'applicazione a tutta l'area dei lavori da effettuare, ivi compresi i quartieri d'abitazione [Cfr. G. Astengo, voce Urbanistica dell’Enciclopedia Unversale dell’arte, Istituto per la collaborazione culturale, VeneziaRoma 1958, Vol XIV col. 607]. Il secondo atteggiamento sociologico connesso alla nascita della moderna urbanistica è quello degli utopisti. Poiché il punto nodale per
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garantire a tutti migliori condizioni di vita era il superamento del contrasto fra il diritto privato e quello pubblico e poiché la proprietà privata era la chiave di volta del sistema capitalistico, i primi riformatori radicali avanzarono proposte attuabili soltanto in un'organizzazione economicosociale diversa da quella del loro tempo e perciò furono definiti utopisti. Tuttavia, se è vero che i loro piani furono a volte privi di concretezza e contrari al senso comune, essi ebbero il grande merito di anticipare varie riforme e di indicare che i disagi urbanistici sarebbero stati insolubili senza le adeguate trasformazioni economiche; non solo ma, sul terreno pratico, essi seppero cogliere spesso il tipo e la scala degli interventi di più immediata necessità. Infatti, se consideriamo l'esempio di Robert Owen, ex operaio divenuto il maggiore azionista delle filande di New Lanark in Scozia, troviamo presso la sua azienda sin dal 1816 il miglioramento dei salari, la riduzione della giornata lavorativa a dieci ore, la sistemazione degli operai in alloggi decorosi e una serie di iniziative tendenti ad elevare l'istruzione professionale e civile dei dipendenti. Tutto ciò produceva un ambiente (e un «rendimento») diametralmente opposto a quello dei quartieri malsani di Londra, Manchester, Liverpool e di ogni altra città toccata dalla rivoluzione industriale. Ma l'opera di Owen va oltre queste iniziative filantropiche e di corretta conduzione aziendale. Egli fu infatti tra i primi a occuparsi dell'equilibrio fra la quantità della produzione, il suo smercio e il modo più razionale d'impiegare le forze lavorative disponibili. Inoltre intese la necessità di non abbandonare a vantaggio dell'industria il lavoro della campagna, di organizzarsi in maniera cooperativa e sfruttando nell'agricoltura le nuove possibilità tecnologiche. In un rapporto del 1817 egli delinea un vero e proprio piano urbanistico relativo ad una serie di comunità semirurali, confederate tra loro e destinate ad accogliere ognuna dalle 500 alle 1500 persone, occupate nella lavorazione industriale dei prodotti della terra. L'impianto urbanistico di questi centri, definiti «parallelogrammi» dalla disposizione a forma di rettangolo degli
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edifici contenenti case, laboratori e servizi comuni, prevedeva la costruzione di scuole, cappelle, sale per riunioni, biblioteche, centrali termiche, ecc. Ma la logica del sistema liberistico era inattaccabile: queste comunità owenite, tentate prima in Inghilterra e successivamente negli Stati Uniti d'America, ebbero vita breve e portarono alla rovina economica del loro fondatore. Esse incentivarono però una serie di riforme. Gli esempi di New Lanark e le teorie dei parallelogrammi costituirono i modelli delle future company towns, furono le prime attuazioni del movimento cooperativo, contribuirono ad originare le Trade Unions e, tra l'altro, produssero l'istituzione delle prime scuole d'obbligo e soprattutto delle scuole materne, che sono alla base dell'organizzazione familiare del proletariato industriale. Contemporanea alle riforme proposte da Owen è la teoria economico urbanistica di Charles Fourier, che pone l'accento su una più chiusa comunità operaia, governata da rigide norme di vita collettiva, economicamente basata sul tipo d'una società per azioni i cui dividendi sarebbero stati commisurati alle capacità lavorative d'ogni singolo membro. L'attuazione urbanistica del complesso schema teorico di Fourier veniva affidata alla costruzione di un grande edificio per 1.620 abitanti, il «falansterio», una sorta di moderno albergo provvisto di locali e servizi comuni, quali cucine, lavanderie, impianti centralizzati, ecc. L'utopico edificio di Fourier veniva realizzato, con le opportune modifiche, nella seconda metà del secolo da un industriale progressista JeanBaptiste Godin nei pressi della sua fabbrica a Guisa. Mentre nel falansterio gli abitanti erano divisi per età, nel più modesto edificio di Godin essi hanno dei tradizionali alloggi familiari, donde il nome di «familisterio» dell'intero complesso, che conserva tuttavia la centralizzazione degli impianti del modello originario. Tra i motivi del successo di questo esperimento, anch'esso fondato economicamente sul sistema cooperativo, è la diretta dipendenza del nucleo residenziale dalla fabbrica e quindi la specifica attività industriale di tutti gli abitanti. Secondo lo schema di
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Godin il profitto di questa organizzazione comunitaria si divideva in quattro parti: compenso dei lavoratori, interesse del capitale, diritto degli inventori, fondo di sicurezza sociale. Ma, a parte queste innovazioni di carattere economico, col familisterio di Guisa siamo già in presenza del fenomeno delle company towns, ossia dei nuclei di case operaie realizzate nei pressi di alcuni importanti impianti industriali. Sia per motivi filantropici, sia, com'è stato osservato, per migliorare il rendimento dei lavoratori, furono fondati nel 1853 il nucleo di Saltaire per un'industria laniera, nel 1859 quello citato di Godin, nel 1863, quello di Krupp ad Essen, nel 1887 il quartiere Port Sunlight per l'industria di sapone Lever, nel 1895 il centro residenziale Bournville del fabbricante di cioccolato G. Cadbury, ecc. Alcune di queste ultime iniziative sono associabili o addirittura s'innestano con il movimento delle cittàgiardino promosso da Ebenezer Howard, sul quale ritorneremo più avanti. Il terzo atteggiamento politico, economico e sociale verso i problemi della città industriale è quello dei primi marxisti. Engels, dopo l’inchiesta sulle condizioni della classe operaia in Inghilterra, ritornò ad occuparsi delle case dei lavoratori, vale a dire il punto centrale dell'urbanistica ottocentesca, in tre articoli apparsi nel 1872 su «Volksstaat». In essi l'autore, in polemica con i socialisti riformisti, critica negativamente tutti tentativi fino a quel tempo avviati per risolvere il problema delle abitazioni operaie, dalle company towns alle cités ouvrières napoleoniche alle building societies, ritenendole espressioni del paternalismo, della mistificazione e soprattutto un'ulteriore causa di sfruttamento da parte del padronato sui lavoratori; più articolate sono le riserve che egli muove sull'opera dei primi socialisti utopisti. In sostanza, Engels considera quella delle abitazioni una fra le tante contraddizioni del sistema capitalistico, insolubile in maniera soddisfacente finché vige tale regime e da rimandare alla gestione dello stato socialista, in considerazione peraltro della imminenza di una rivoluzione che avrebbe rovesciato detto sistema. Riferendosi a questi scritti, Benevolo osserva: « Engels
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preferisce [...] considerare il futuro assetto urbano come una semplice conseguenza della rivoluzione economica a cui deve tendere il movimento operaio, e assorbire la questione delle abitazioni, senza residui, nella questione sociale. Così la critica marxista, mentre enuncia alcuni principi fondamentali per l'interpretazione delle esperienze in corso, lascia scoperta la loro applicazione nel campo specifico della programmazione edilizia, e si estranea per lungo tempo dalla vicenda urbanistica » [L. Benevolo, Le origini dell’urbanistica moderna, Laterza, Bari 1972, pp. 1901]. Questo è vero perché quasi tutto quanto s'è realizzato in campo architettonicourbanistico nel periodo in esame non è frutto di una rivoluzione, che non avvenne alla scadenza prevista, ma di uno spirito riformistico. Le elaborazioni «particolari» che Engels rifiuta dalla sua visuale costituiscono proprio lo sforzo che, dagli utopisti a Morris, dai tecnici più avanzati alle amministrazioni democratiche, ha tradotto in azione concreta e positiva quelle pur imperfette condizioni socioeconomiche. Ma se i primi marxisti non nutrirono questo interesse e considerarono inefficaci tali tipi d'intervento, non è vero che essi sono risultati estranei alla vicenda urbanistica. Intanto, come abbiamo osservato altrove, non si trova negli scritti di Engels il rifiuto dell'opera dei socialisti utopisti, ma il loro storico dimensionamento; anzi si riconosce, per alcuni non trascurabili aspetti, la correttezza di certe loro analisi e previsioni. «Già i primi socialisti utopisti moderni egli scrive , Owen e Fourier, avevano visto correttamente la questione: nei loro schemi della società modello l'antitesi fra città e campagna non esisteva più [...] soltanto una distribuzione il più possibile uniforme della popolazione su tutto il territorio, soltanto un intimo coordinamento della produzione industriale e di quella agricola, accompagnati dall'estensione della rete di comunicazioni che così si rende necessaria, presupponendo effettuata l'abolizione del modo di produrre capitalistico, sono in grado di strappare la popolazione agricola dall'isolamento [...] l'utopia sorge quando si propone “in base alle condizioni attualmente esistenti” di prescrivere la forma in cui
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dovrebbe essere risolta questa o quella contraddizione della attuale società» [Cfr. Prefazione alla terza edizione di Der Deutsche Bauernkrieg, Leipzig 1875]. Come si vede, oltre a ribadire il rifiuto di considerare le riforme urbanistiche attuabili persistendo i limiti del sistema capitalistico (e di questo ne testimonia l'esperienza storica successiva), si riconosce alla cultura precedente l'individuazione di alcuni principi, il rapporto cittàcampagna, il coordinamento delle rispettive attività, la distribuzione equilibrata degli abitanti sul territorio, ecc. che, pur divenuti patrimonio ideologico di tutti, hanno trovato nei marxisti i loro principali sostenitori. Ma, a parte ciò, quale che sia stato il suo intervento «tecnico» nelle vicende urbanistiche, il marxismo, nelle sue varie articolazioni, come concezione antagonista del capitalismo, per essere la forza rappresentativa della gran parte del movimento operaio, si è sempre posto come energia propulsiva, parametro di riferimento, fattore dialettico, in una parola protagonista (anche se talvolta indiretto) di tutta la moderna cultura urbanistica, come del resto di tutta la storia contemporanea. Laddove manca questa forza, che vale talvolta anche come energia frenante, e persino quella serie d’iniziative riformistiche che fanno da remora allo sviluppo incontrastato del sistema liberistico, questo si manifesta nel modo più esplicito: pensiamo al caso emblematico di tutta la vicenda paleocapitalistica americana, la scuola di Chicago, che studieremo tra le altre opere dell'eclettismo storicistico. L'architettura dell'ingegneria. La rivoluzione industriale, il progresso tecnologico, la produzione e lo smercio quantificato e accelerato dei beni di consumo non potevano non incidere direttamente nel campo delle costruzioni. Anche qui, come in ogni altro settore si ebbero due grandi categorie di prodotti, quelli tradizionali, ma realizzati con le nuove tecniche, e quelli del tutto nuovi sia perché rispondenti a nuove esigenze, sia perché attuabili solo grazie alla moderna tecnologia. Questa coesistenza di vecchio e nuovo all'insegna di una comune tecnica, la quale è
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contemporaneamente causa ed effetto delle trasformazioni in atto, si riscontra in tutti i campi della cultura ottocentesca. Così abbiamo limitandoci al settore delle costruzioni e rimandando ad un altro paragrafo il discorso più generale dei manufatti la coesistenza di antiche e moderne tipologie, di tendenze rivolte al recupero del passato e di altre prettamente avveniristiche, di Ecole polytechnique (1794), chiamata inizialmente Ecole des travaux publics, e di Ecole des BeauxArts (1806), di ingegneri ed architetti. Per queste dicotomie e per altre ragioni, siamo propensi a considerare l'intera vicenda tecnologica dell'architettura dalla fine del '700 a tutto il secolo XIX come un fenomeno rientrante nel quadro dell'eclettismo storicistico. Certo, l'architettura dell'ingegneria è la più distante dai revivals contemporanei; è quella che meglio riesce, grazie alla sua matrice scientifica (LouisMarie H. Navier pubblica nel 1826 il corso di Scienza delle costruzioni tenute all'Ecole polytechnique) e tecnologica (la produzione, in seguito alla scoperta di A. Darby, della ghisa, del ferro forgiato, dell'acciaio e più tardi del cemento armato) a sottrarsi dalla ripetizione passiva di stilemi storicistici e dalle altre aporie in cui incorse l'opera degli architetti; tuttavia non è del tutto immune da esse. Vedremo, infatti, oltre alle dicotomie suddette e alla relazione tra l'opera degli ingegneri e le correnti neoclassica e neogotica, cui dedicheremo un apposito paragrafo, il diverso e talvolta contraddittorio manifestarsi della produzione ingegneresca nelle diverse tipologie edilizie. Ma che cos'è l'architettura dell'ingegneria? Diciamo subito che è la più significativa manifestazione in campo costruttivo della cultura ottocentesca e, poiché non è un fenomeno meramente tecnico, essa segna la più chiara svolta tra il passato ed il presente nella storia dell'architettura, senza la quale è impensabile la nascita del Movimento Moderno. Come tale, rispecchiando nel modo più esplicito i significati e le funzioni della società del tempo, proponendo una sua propria e inedita interna spazialità, quella degli ingegneri ottocenteschi è architettura a tutti gli effetti; e, proprio in quanto
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architettura, essa non è immune dalla caratteristica invariante del suo tempo, ossia, come s'è detto, dall'eclettismo storicistico. Basta allora la sua classificazione in questo codicestruttura epocale a spiegare tutte le contraddizioni dell'opera degli ingegneri? E in tal caso tutti i discorsi sulla scissione fra arte e tecnica, fra le metodologie proprie all'architettura e all'ingegneria, fra le figure sociali di queste due categorie professionali, ecc. riflettono tutti dei falsi problemi? Rispondiamo che lo sono quando queste attività raggiungono una sintesi conformativa, in ciò conservando lo specifico dell'architettura che è la conformazione spaziale di determinate istanze della società. Non sono falsi problemi viceversa quelle distinzioni che intendono cogliere il diverso atteggiamento di ingegneri e architetti di fronte al più generale quadro politico ed economico della società. L'architettura dell'ingegneria ebbe tre grandi campi di applicazione, quello dei ponti in ferro (il primo fu costruito nel 1775 da Darby e Wilkinson sul fiume Severn a Coalbrookdale), quello delle grandi coperture in ferro e vetro, quello degli edifici multipiani a scheletro metallico. Esaminando solo questi due ultimi campi perché più pertinenti all'architettura, ci sembra utile considerarli come due distinte categorie di diverso significato e valore. Infatti, mentre il «principio» della costruzione a scheletro è un'invenzione prevalentemente tecnica, che verrà coniugata in tutti i successivi linguaggi e permane attiva fino ad oggi, il campo delle coperture in ferro e vetro non è uno schema definito una volta per tutte, ma una conformazione sempre variabile; come tale ci sembra che esso, nulla perdendo in valenze scientifiche e tecniche, rappresenti meglio la più tipica espressione dell'architettura dell'ingegneria ottocentesca. Anche le date paiono confermare la nostra osservazione. Già dal 1780 vengono impiegate le colonne in ghisa all'interno delle filande per ridurre l'ingombro dei muri e dei pilastri di pietra. La filanda Philip & Lee di Salford, Manchester, costruita nel 1801 dalla fonderia di Boulton e Watt, è il primo edificio in cui, ad eccezione dell'involucro murario esterno, s’impiega una struttura a scheletro formata da
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colonne in ghisa e travi a doppio T. Giustamente Giedion sottolinea l'interesse per tale fabbrica dicendo: «il tipo di costruzione rappresentato da questa filanda a sette piani [...] divenne il prototipo dei magazzeni attraverso il secolo, e fu pure adottata per alcuni edifici pubblici di spirito avanzato. L'esperimento di Watt a Salford segna la prima fase dello sviluppo dell'ossatura di acciaio, che fece finalmente la sua comparsa a Chicago dopo il 1880»[S. Giedion, Spazio, tempo ed architettura, Hoepli, Milano 1954, p.184]. Ora, il fatto stesso che dalla filanda suddetta al primo edificio costruito da William Le Baron Jenney a Chicago molte costruzioni lo Harper & Brothers Building di New York realizzato da James Bogardus nel 1854, gli anonimi fabbricati lungo il fronte del fiume a St. Louis, la fabbrica di cioccolata Menier, vicino Parigi, costruita nel 1871 da Jules Saulnier, per citare i casi più noti , ognuna delle quali con vistose implicazioni storicoeclettiche, abbiano adottato la struttura a scheletro, dimostra che siamo in presenza non tanto di una conformazione architettonica, quanto appunto di un «principio» costruttivo. Viceversa, il campo delle coperture in ferro e vetro presenta tutt'altra fenomenologia. Sebbene anche qui vi siano dei precedenti settecenteschi (la costruzione del tetto in ferro del Théâtre Francais del 1786), questi organismi costruttivi generano e si applicano ad una vasta e varia tipologia edilizia che si afferma e sviluppa nel pieno dell'Ottocento; si pensi alle serre, ai mercati coperti, ai grandi magazzini, alle stazioni ferroviarie, agli impianti per le esposizioni universali, ecc. Passando in rassegna alcune di queste tipologie, ricorderemo la Galerie d'Orléans, parte del Palais Royal a Parigi, costruita da Fontaine nel 1829 come il primo esempio delle gallerie pubbliche ottocentesche; le serre botaniche, il cui prototipo fu quello realizzato nel '33 a Parigi da Rouhault; il caso del Jardin d'Hiver agli Champs Elysées, realizzato nel '47, quale fusione appunto di una grande serra con una galleria sovrastante un luogo di passeggio e di ritrovo. Fra le
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principali stazioni ferroviarie vanno menzionate la Euston Station del '46 a Londra, la King's Cross del '52 nella stessa città, la Gare du Nord del '62 a Parigi, la St. Pancras del '68 sempre a Londra, la Anhalter Bahnhof di Berlino del '78, la stazione di Francoforte che anticipa la struttura della celebre Halle des Machines dell'Esposizione di Parigi dell'89. Un altro campo d'applicazione delle coperture in ferro e vetro si ebbe nei mercati coperti, dei quali i più noti sono quello della Madeleine a Parigi del '24, il mercato Hungerford costruito a Londra nel '35, le Grandes Halles di Parigi, iniziate nel '53 da Victor Baltard nel quadro delle sistemazioni urbanistiche dirette da Haussmann, che fecero della capitale francese il modello dell'urbanistica ufficiale, cui si ispirarono tutte le altre città europee. Alla tipologia dei mercati coperti si associa quella dei grandi magazzini, la cui incarnazione più tipica, dopo una serie di esperimenti per trovare la sistemazione più adatta a questa nuovissima funzione commerciale e pubblicitaria, fu il Magasin au Bon Marché realizzato a Parigi nel '76 da Eiffel e Boileau. Infine le grandi Esposizioni (i cui capolavori sono il palazzo di Cristallo costruito da Joseph Paxton nel '51 a Londra, la Galerie des Machines di Dutert e Contamin e la celeberrima torre di Eiffel entrambe realizzate in occasione dell'Esposizione di Parigi nel 1889) riassumono tutte queste esperienze nel quadro di un gigantismo architettonico col quale s'intese associare il mondo dell'industria e del commercio all'ottimistica fiducia verso un futuro pacifico e progressivo per l'intera umanità. Come si vede, questi settori tipologici, pur avendo in comune lo schema costruttivo della struttura in ferro e vetro, presentano una gamma vastissima di differenti implicazioni. Le gallerie pubbliche risolvono un problema urbanistico, quello di collegare diversi punti del centro cittadino con un percorso pedonale coperto. Le serre botaniche, oltre ad assolvere la loro propria funzione, valsero come il più duttile campo di sperimentazione per le nuove strutture. Con le
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stazioni ferroviarie venne creato un tipo di costruzione del tutto nuovo, mentre gli impianti per le esposizioni universali, i mercati coperti ed i grandi magazzini, anch'essi promotori di inedite tipologie, rappresentano l'intera gamma del commercio, quello internazionale, quello all'ingrosso e quello al dettaglio. Cosicché, a differenza del «principio» costruttivo dell'edificio multipiano a scheletro metallico, che nasce e rimane un asemantico sistema disponibile ad ogni uso, il settore delle grandi coperture in ferro e vetro produce tante conformazioni quanti sono i campi in cui esse vengono impiegate; assolve indubbiamente alcune funzioni, ma queste diventano sempre più specifiche; non solo, ma spesso alle ragioni funzionali se ne associano altre di tipo rappresentativo, comunicativo e persino simbolico. Possiamo dire che in questo campo l'architettura dell'ingegneria trova il suo proprio e nuovo linguaggio. Comunque il fatto veramente nuovo di questa architettura sta nell'aver conformato una spazialità interna totalmente inedita. Infatti, quando le conformazioni di questi spazi interni si affidano alla sola copertura e alla struttura del solo invaso, lasciando inalterato, ossia nei termini stilistici tradizionali, il loro involucro esterno (le gallerie Mengoni di Milano e Umberto I di Napoli), abbiamo delle manifestazioni meramente tecniche, un'inevitabile collusione tra ingegneria e architettura eclettica. Quando, viceversa, la conformazione strutturale interna si manifesta francamente anche all'esterno (cioè quando il «significato» si associa indissolubilmente al «significante», per usare una terminologia semiologica), non è più lecito parlare di architettura e d'ingegneria, ma senz'altro di architettura che ha fatto proprie alcune modalità della scienza e della tecnica delle costruzioni, superando così un'aporia e un dualismo ancora presenti nella critica e nel dibattito architettonico. Ma se queste considerazioni valgono oggi a porre in termini criticamente più corretti la questione del rapporto fra architettura e ingegneria, a facilitare l'analisi linguistica delle opere, resta d'altra parte indubitabile il fatto che dalla fine del '700 si è determinato uno sdoppiamento nella
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figura del costruttore che non sarà più ricomposta: il binomio architettoingegnere quale inevitabile conseguenza della divisione del lavoro, dello specialismo, dell'organizzazione didattica, ecc., tutti portati della moderna civiltà industriale. Le poetiche dell'eclettismo storicistico. Alla base dei principali revivals architettonici, sviluppatisi dalla seconda metà del Settecento a tutto il secolo successivo sta la storiografia e la teorizzazione, in vario modo motivata di alcuni stili dell'arte del passato. Nell'economia del presente testo prenderemo in esame due sole tendenze storicistiche, il neoclassicismo e il neogotico, essendo le altre trascurabili e il neoromanico, che invece informò l'opera di significativi architetti, riducibile ad una fusione delle due tendenze suddette. Il neoclassicismo, ossia la codificazione setteottocentesca del classicismo, di un atteggiamento cioè presente in quasi ogni periodo della storia dell'architettura, è la prima incarnazione architettonica e artistica dell'Illuminismo. Esso si afferma quale reazione al barocco, rilettura critica della trattatistica antica, conseguenza diretta delle campagne archeologiche, azione operativa generata dalla storiografia dell'arte antica, attività di eruditi dilettanti, ecc. E ciascuno dei protagonisti mirò ad accentuare qualcuna delle componenti suddette, così come del resto accade per l'esegesi critica odierna del fenomeno neoclassico. Il punto più dibattuto riguarda la componente ideologica di questo movimento. Indubbiamente essa comporta un rinnovato impegno civile e morale al pari di tutti i fenomeni sorti dall'Illuminismo, ma, a parte la stessa «dialettica» di quest'ultimo, il neoclassicismo nelle sue varie fasi non è affatto univoco e assume talvolta aspetti notevolmente contrastanti. Recentemente tali oscillazioni ideologiche sono state periodizzate, per cui si avrebbe un primo periodo (171540) nel quale emergono appunto le valenze culturali illuministiche; un secondo (174080) caratterizzato da un
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«consolidamento» le cui matrici sono filologiche, archeologiche, accademiche, ecc.; un terzo (17801805) definito della «espressione rivoluzionaria» con evidente riferimento alla cosiddetta architettura dell'Illuminismo di Boullée e Ledoux, nonché all'aspetto urbanistico del neoclassicismo; un quarto (180514) coincidente con lo stile impero che strumentalizza politicamente il gusto neoclassico; un quinto (181448) coincidente culturalmente e politicamente con la Restaurazione; un sesto (18481910) come il periodo del neoclassicismo degli stati borghesi nazionali; un settimo (192040) che segna la fase più recente e più retriva ideologicamente dei neoclassicismo adottato per tutte le manifestazioni «ufficiali» ed antimoderne, negli Stati Uniti come in Russia, in Italia come in Germania [Cfr. V. Vercelloni, Voce Neoclassicismo del Dizionario enciclopedico di Architettura e Urbanistica, Istituto Editoriale Romano, Roma 1969, vol IV, pp. 1901]. Questa proposta di classificazione, intesa evidentemente solo come indicazione di ricerca, non manca di fondamenti e di utilità, ma nella sua stessa esposizione indica il principale limite ideologico del neoclassicismo. Infatti, poiché molti di quei periodi sono contrassegnati più dalle condizioni storicopolitiche che non dalla «logica» interna del neoclassicismo, abbiamo una conferma che questo, inteso come stilecodice linguistico dell'architettura non ha una propria ideologia, ma si è rivelato un linguaggio disponibile ad ogni istanza della committenza, da quella degli eruditi dilettanti del '700 a quella dei contemporanei paesi totalitari o comunque esigenti una ufficiale «arte di Stato». Cosicché, pur riconoscendo varie motivazioni ed intenzionalità architetti come Boullée e Ledoux associarono alle loro opere, scritti e progetti, ora radicali contenuti sociopolitici, ora proposte di nuove tipologie, evidenziando soprattutto valenze simboliche e semantiche siamo propensi ad accantonare, almeno in questa sede, la componente ideologica del neoclassicismo per considerarne gli aspetti morfologici, razionali, didattici e operativi. Ben diverso, come vedremo, è il caso
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del neogotico, i cui valori morfologici e sintattici sono pari o addirittura meno rilevanti dei significati e delle motivazioni ideologiche. Ritornando alle prime nostre osservazioni sulla genesi storiografica e teorica del neoclassicismo, ricorderemo l'opera di Johann Joachim Winckelmann che, appunto quale contributo storico e teorico insieme, propone l'arte degli antichi come paradigma da imitare. La sua fondazione del neoclassicismo s'inquadra in tutta la complessa elaborazione critica settecentesca, dal Cordemoy al Lodoli, dal Laugier al Milizia, tendente a cogliere dentro e fuori il modello antico la natura razionale dell'architettura. Cosicché la poetica neoclassica si sviluppa in parallelo con la ricerca della logica costruttiva e della funzionalità al punto che i termini «classico» e «razionale» finirono spesso per identificarsi, non senza qualche equivoco sul primo aggettivo che è al tempo stesso qualificativo in generale e indicativo dell'arte antica in particolare. Comunque, sia in virtù della sua disponibilità alle più varie istanze sociali, sia perché riassume nelle sue regole impersonali, obiettive e facilmente comunicabili questa indubbia valenza razionale, il neoclassicismo è stato il gusto più affine alla produzione architettonica (specie all'architettura dell'ingegneria) corrispondente agli anni culminanti della rivoluzione industriale. E ciò soprattutto in forza della corrispondenza del repertorio neoclassico alle forme richieste dalla cultura tecnica dell'epoca; donde la definizione di neoclassicismo «empirico» dato da Benevolo a questo tipo di neoclassicismo spoglio delle sue componenti ideologiche. Tuttavia le convergenze tra gusto neoclassico, pratiche esigenze del tempo, tecnica e metodologia ingegneresche vanno ridimensionate in quanto al loro valore innovativo. Infatti, senza voler negare i caratteri peculiari dello stile, neoclassico, va ricordato che il moderno classicismo si sviluppa in perfetta continuità con l'accento classicheggiante della produzione precedente; basti pensare che nella stessa età barocca la produzione architettonica più diffusa
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internazionalmente non segue i modelli di Borromini o di Guarini, bensì quello francese di Versailles che viene definito appunto classicismo barocco. Cosicché, nonostante lo spirito nuovo che anima il neoclassicismo e la sua complessa ideologia, questo stile non segna una svolta nella storia dell'architettura moderna, non rappresenta quella soluzione di continuità che era lecito attendersi da un movimento svoltosi negli stessi anni della rivoluzione industriale. Il neogotico, invece, sia pure con un atteggiamento negativo, riflette i tempi nuovi e presenta i suoi più significativi aspetti nelle proposte derivate dalla critica alla società industriale. Anche il neogotico, in un paese come l'Inghilterra, mostra una continuità con la tradizione in quanto forme medievali persistettero fino all'Ottocento e sopravvissero nonostante il dominante classicismo palladiano; come pure in Francia i fautori del neogotico si richiamarono alla tradizione costruttiva delle grandi cattedrali. Tuttavia, poiché le motivazioni del Gothic Revival sono prevalentemente di natura ideologica, sono un'esplicita presa di posizione contro la cultura e il gusto corrente contemporanei e implicano una serie di fattori sociali, esso segna appunto quella soluzione di continuità di cui sopra abbiamo parlato. In Inghilterra il neogotico ebbe inizialmente, ossia sin dalla prima metà del '700, matrici letterarie e archeologiche ispirate alla tradizione e al gusto romantico (Milton, Spencer, Pope, Hughes, Warton, Walpole, Gray, Batty Langley, Hurd, ecc.), per acquistare a distanza di un secolo precise connotazioni eticosociali. Il passaggio dall'una all'altra fase è caratterizzato da una componente religiosa e dalla manifestazione più propriamente architettonica del movimento. Ci riferiamo all'opera di Augustus Welby Pugin (18121852). La sua conversione al cattolicesimo nel 1834 e la pubblicazione del libro Contrasts: Or, a Parallel Between the Noble Edifices of the Middle Ages and the Corresponding Building of the Present Day, Showing the Present Decay of Taste (titolo quanto mai programmatico) del 1836 segnano il punto culminante della vicenda neogotica e il momento in cui il revival esce da una cerchia di eruditi dilettanti per
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porsi con altre motivazioni all'attenzione della più vasta sfera sociale. Pugin, architetto molto operoso e autore di altri scritti oltre quello citato, partiva dall'assunto che non fosse lecito rifare le forme gotiche senza rivivere e riproporre il loro originario contenuto religioso; in secondo luogo, sempre sostenendo l'indissociabilità tra espressione e significati e polemizzando coi neoclassici, giungeva ad affermare che l'architettura gotica era da preferire a quella grecoromana, così come il cristianesimo era migliore della religione pagana. Da questi scaturivano altri principi, come quello dell'intimo legame fra la qualità dell'architettura e la moralità del suo autore o l'altro per cui il valore dell'architettura sta nell'espressione della sua struttura e non nel suo mascheramento con forme d'accatto o l'altro ancora, ripreso da Ruskin e Morris, dell'organico rapporto fra architettura e società, donde il precetto che il livello dell'una serve a misurare quello dell'altra. A differenza del suo precursore, Pugin, i cui interessi erano prevalentemente architettonici ed operativi, John Ruskin (18191900) si occupò di tutto, dalla poesia alla pittura, dall'artigianato alle scienze naturali, dall'architettura alla polemica politicosociale. E ognuno di questi campi fu affrontato da una visuale di esteta, mentre tutte le sue argomentazioni furono informate alla incessante contraddizione, alle intuizioni notevoli, al gusto della smentita (negò talvolta persino la sua adesione al neogotico) e del paradosso. Anche se non lo ammise mai, Ruskin derivò da Pugin, come s'è detto, le equazioni architetturasocietà ed eticaestetica, nonché la profonda avversione per la civiltà industriale contemporanea e la proposta alternativa del modello medievale. Questi assunti e atteggiamenti subirono tuttavia in lui una flessione e un rafforzamento. Da un lato, infatti, essi furono indeboliti perché, mentre il loro sostegno ideologico era in Pugin di natura religiosa e segnatamente cattolica, in Ruskin la loro giustificazione divenne assai più vaga, oscillante tra un estetismo naturalistico e un sociologismo sentimentale. Dall'altro lato la poetica neogotica e tutte le sue implicazioni socioculturali assunsero con Ruskin, proprio a causa del suo eclettismo, della sua
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avvincente vena di scrittore e della sua forza polemica, una diffusione popolare mai raggiunta in precedenza dal Gothic Revival. Negli anni della sua maggiore notorietà bastava che Ruskin scrivesse un articolo su un fenomeno del gusto o sull'attività di alcuni artisti per decretarne la fortuna e il successo, così come accadde per i pittori Preraffaelliti. L'asistematico pensiero ruskiniano presenta proprio nel campo architettonico le sue maggiori contraddizioni, per cui, nonostante il grande interesse che egli nutrì per questa attività, la storia e la teoria dell'architettura sembrano poter ignorare senza gran danno il suo contributo. In realtà, così facendo, sarebbe una gran perdita perché alcune sue felici intuizioni non mancarono in questo settore. Infatti, quando egli sostiene il valore puramente figurativo e naturalistico dell'architettura fino a considerarla pura costruzione, ossia non arte, se manca dell'adeguato ornamento, questo palmare errore criticoestetico va inquadrato nella sua polemica contro il razionalismo e il positivismo nutrito dalla classe dirigente del tempo e da ogni categoria interessata all'uso e agli sviluppi della tecnica moderna. Inoltre lo stesso equivoco estetizzante ebbe il merito di non dissociare così come allora si tendeva l'architettura dal novero delle arti figurative. Altrettanto inaccettabile, se letteralmente intesa, è la sua teoria del restauro, per cui gli edifici del passato non andrebbero restaurati, ma curati solo con la manutenzione o lasciati allo stato di ruderi. Anche qui però la sua concezione del restauro come la peggior forma di distruzione, come «una menzogna dal principio alla fine», va vista non solo come polemica contro i restauri di ripristino stilistico effettuati da ViolletleDuc in Francia, ma anche come alternativa della tendenza alla manomissione delle fabbriche antiche e alla edilizia di sostituzione, che proprio in quegli anni si sviluppava notevolmente nella città industriale. Oltre che per i punti sopra accennati, ancora a causa delle contraddizioni, l'opera di Ruskin interessa la cultura architettonica non tanto per la sua parte criticoestetica quanto soprattutto per quella sociale (i suoi saggi divulgativi, il finanziamento di case operaie
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modello, la restaurazione di antiche manifatture, la fondazione della St. George's Guild, ecc.), che egli svolse nella seconda metà della sua vita, quando cioè da critico d'arte divenne critico della società. In tale settore egli enuncia un concetto, già anticipato da Pugin, dai riformatori cattolici e marxisti ma con minore efficacia, per cui non è possibile modificare alcun settore della vita associata, arte compresa, se non si modificano in pari tempo tutti gli altri, stabilendo così la necessità d'integrare tutti i problemi che s'intendono risolvere. Tale integrazione ripropone l'interdipendenza qualitativa dei vari settori e la relazione fra arte e società: «Every nation's vice or virtue is written in its art». E fra tutte le arti, l'architettura è la più indicativa e deve essere appresa da tutti, perché tocca gli interessi di tutti. Un'altra felice intuizione, anch'essa ripresa poi da Morris, è quella per cui il lavoro deve produrre gioia in chi lo compie: in ciò sta il grande divario tra il proletariato ottocentesco e l'artigianato medievale; donde il sogno di restaurare antiche comunità e arcadiche corporazioni. Come si vede, alla esattezza di una diagnosi si contrappone un'anacronistica terapia. D'altra parte per Ruskin hanno senso e vanno incoraggiate solo quelle attività che non contrastano la natura umana. Egli ammette la cultura se ha una base morale, la scienza se non compromette l'esistenza dell'uomo; giustifica l'arte solo se ha un valore sociale. Insomma, se la predicazione ruskiniana è per molti aspetti anacronistica e persino reazionaria non è da escludere la consapevolezza che la sua intransigenza morale comportasse inevitabilmente una contropartita essa contiene in pari tempo la demitizzazione di un meccanicistico «progresso» e soprattutto rappresenta la prima autorevole antitesi della moderna alienazione. Quest'ultimo atteggiamento costituirà il parametro di riferimento per tutta la successiva opposizione e critica alla civiltà industriale. L'azione di William Morris (18341896) si svolse in vari campi e a vari livelli, dall'arte alla politica, dall'artigianato al commercio, dal diretto impegno individuale alla promozione di movimenti collettivi, dall'attività pratica alla formulazione teorica. I fatti più importanti
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della sua biografia sono: gli studi ad Oxford; l'esperienza (interrotta) nel campo dell'architettura; il sodalizio coi Preraffaelliti; la costruzione della sua abitazione, la Casa Rossa, progettata da P. Webb, ma arredata da lui; l'apertura della ditta Morris, Marshall, Faulkner & Co, produttrice di mobili, tessuti ed elementi d'arredo; la sua attività politica svolta prima nell'ala radicale del partito liberale e poi nella SocialistLeague; la fondazione d'una officina tipografica, la Kelmscott Press, l'istituzione dell'Art Workers Guild, la promozione nel 1888 delle esposizioni di Arts and Crafts, dizione rimasta a denotare l'intero movimento originato dalla sua opera. Collegando la posizione di Morris a quella dei suoi predecessori, possiamo dire che se il sostegno ideologico dell'attività di Pugin è il cattolicesimo e quello di Ruskin l'estetismo prima e il moralismo sociale poi, l'opera di Morris trova il suo più coerente sbocco nel socialismo, non importa quanto ortodosso alla linea marxista. Egli eredita da Ruskin la valutazione sociale dell'arte, la profonda adesione al lavoro e al gusto medievali, l'avversione per la contemporanea produzione industriale, ecc., ma di questi attegiamenti ormai tradizionali per il Gothic Revival fornisce una spiegazione meno intuitiva, più logica e coerente di quella ruskiniana. Non solo, ma soprattutto indica, attraverso una razionale evoluzione, anche un modo per superare le contraddizioni del suo tempo. In tal senso Morris non è un moralista, ma un autentico riformatore. Egli parte dalla considerazione di Ruskin che l'arte è l'espressione della gioia nel lavoro e poiché quasi tutti gli uomini vivono del proprio lavoro, dedicano ad esso la maggior parte della loro vita, è un enorme danno sociale meccanizzarlo, togliere ad esso ogni umana partecipazione. Questa non riguarda solo l'artefice, ma traducendosi in qualità dei manufatti, interessa tutti quelli che fruiscono della produzione. L'arte quindi non è un fenomeno meramente estetico, ma «un serio sostegno di vita». Da tale acquisizione, Morris estende l'idea dell'arte a tutto il mondo della vita: essa non riguarda solo la pittura, la scultura e l'architettura, bensì anche le forme e i colori di tutti gli
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oggetti d'uso, la sistemazione dei campi, la rete stradale, l'amministrazione delle città. Da questa visione estensiva e qualificatrice dell'arte prende l'avvio quel metodo di considerazione unitario che nel Movimento Moderno informerà ogni settore della progettazione, dal disegno del più modesto manufatto all'urbanistica. L'incarnazione di questo unitario principio è offerto dalla stessa architettura ove la si intenda secondo la sua celebre definizione per cui « essa rappresenta l'insieme delle modifiche e delle alterazioni operate sulla superficie terrestre, in vista delle necessità umane, eccettuato il puro deserto»(W. Morris, Prospects of Architecture in Civilization, in Architettura e Socialismo, Laterza Bari 1973, pp.34]. Se tale è l'architettura, nessuno può disinteressarsene, né affidarne la cura ad un gruppo di tecnici: l'arte e l'architettura diventano così un problema eminentemente politico. Ed è questo accento politico, come s'è detto, a differenziare positivamente il contributo di Morris da quello di Ruskin. Inoltre, contrariamente all'idea convenzionale di lui come semplice esecutore delle teorie del maestro e come un anacronistico medievalista, egli, pur confondendo a volte il sistema corporativo medievale col moderno socialismo, pur non avendo altro modello disponibile che il gusto e lo «spirito» del gotico, ebbe assai vivo il senso della storicità del suo tempo. Grazie al socialismo capì che le negatività della produzione industriale non stavano tanto negli strumenti di produzione, quanto soprattutto nel modo in cui erano gestiti: le vere cause dei mali della città moderna e della crisi artistico produttiva sono il sistema liberistico, il commercialismo, la legge del massimo profitto non le macchine, «le meravigliose macchine egli scrive che nelle mani di uomini giusti e previdenti avrebbero potuto minimizzare la fatica più spiacevole e migliorare la vita della razza umana, sono invece usate al rovescio» [W. Morris, Art and Socialism Cit. in op. cit. p.101102]. Grazie ancora al socialismo egli riconosce che fra i tanti mali della rivoluzione industriale è sorta una positiva realtà: la crescente potenza della classe lavoratrice. Inoltre, individuando nel ritmo della produzione il maggiore scompenso del
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lavoro meccanico in quanto impone il massimo della quantificazione a scapito della qualità e delle condizioni lavorative, Morris osserva: «è una calamità che la civiltà si è autoimposta e che ora è impotente a fronteggiare o controllare: tanto, almeno, risulta allo stato attuale delle cose, ma dato il portentoso cambiamento che la meccanizzazione introduce, può ben essere che essa apporti qualcosa di più che un semplice danno: annienterà, infatti, l'arte come l'intendiamo adesso, a meno che questa non venga rimossa da una nuova arte; ma probabilmente, male che vada, distruggerà anche ciò che produce il veleno dell'arte e così preparerà la via ad una nuova arte, le cui forme, ancora, ci sono ignote»[W. Morris, Prospects, p.33]. Come si vede, la possibilità di un cambiamento di funzione delle macchine è qui chiaramente ammessa unitamente alla considerazione della morte dell'arte tema centrale dell'estetica moderna o quanto meno della morte di un certo tipo d'arte per dar vita ad un altro. In tal senso la sua s'è dimostrata una vera profezia. In particolare, ammettendo il cambiamento di funzione nell'uso delle macchine, Morris inizia quel tentativo di qualificazione del prodotto industriale che costituisce un altro fondamento del Movimento Moderno e la sua presa di posizione in tale orientamento è assai più significativa di quella assunta da altri, come Cole, Laborde o Viollet leDuc che all'industrializzazione avevano quasi incondizionatamente aderito. Infatti, mentre questi volevano risolvere dall'interno del moderno sistema produttivo le sue contraddizioni, per così dire, tecnicamente, Morris, pur distinguendosi dall'anacronismo del suo maestro e, riconoscendo l'irreversibilità del processo in atto, rimane un oppositore del liberismo industriale. Quando nel romanzo News from Nowhere del 1890, fra molte proposizioni utopiche, sostiene l'abolizione della fatica, la sostituzione del lavoro meccanico con quello creativo, la riduzione delle esigenze superflue e quindi l'eliminazione della superproduzione quantitativa, egli, basandosi ancora sul precetto della joy in labour, indica anche i modi per combattere ciò che Marx aveva definito la Entfremdung, ossia la
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scissione della coscienza umana in due parti estranee, l'alienazione; non solo, ma una problematica sociologicoproduttiva rivelatasi sempre più pressante man mano che la civiltà industriale si è venuta evolvendo. Da quanto precede possiamo dire che nell'opera di Morris è distinguibile una previsione a lungo termine (la rivoluzione sociale, la nascita di un'arte radicalmente diversa, la fiducia che la nuova classe nutrirà dell'arte un'idea più sana, ecc.) da un'azione immediata (l'interesse e la pratica delle arti applicate, la polemica riformatrice, la fondazione del movimento delle Arts and Crafts, ecc.). La parola «intanto» che ricorre nei suoi scritti e nelle sue conferenze indica la convinzione della necessità di agire anche prima che quelle più radicali modifiche trasformeranno l'intero sistema. Questo duplice aspetto, rivoluzionario e riformistico, contribuisce molto alla nascita del Movimento Moderno e definisce un orientamento di critica sociologica che ha informato l'opera di architetti e progettisti delle generazioni successive. A conclusione di questi cenni sull'attività di Morris, vogliamo sottolineare due considerazioni. La prima tende a superare il luogo comune che distingue una parte arretrata da una avanzata nella sua opera. Per noi questo dualismo è inconsistente, né in essa esiste contraddizione. Infatti, se è vero che l'azione di Morris nel suo complesso appartiene al capitolo dell'eclettismo storicistico, va detto anche che quegli aspetti apparentemente anacronistici sono da interpretare come consapevoli atteggiamenti paradossali per rafforzare l'unilateralità delle idee, per conseguire una critica più radicale, per istituire un risoluto parametro di riferimento. Poiché ad essi si sono riferiti molti riformatori e da essi ha preso vita la critica alla città industriale, dobbiamo riconoscere che i fini suddetti sono stati ampiamente raggiunti. La seconda considerazione riguarda direttamente il rapporto fra architettura e arti applicate. Morris si occupò delle seconde ma la sua azione incise sulla prima più di quella degli stessi architetti innovatori
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del suo tempo. Infatti, posto che la riforma di tutte le arti dipendesse dalla riforma della società, l'architettura e l'urbanistica erano troppo legate al sistema socioeconomico dell'epoca, ne rappresentavano l'effetto ed il rispecchiamento, donde la difficoltà di un intervento diretto in questi settori e l'inevitabile caduta nel formalismo di chi ne tentava dall'interno, ossia disciplinarmente, una revisione. Viceversa, una volta teorizzato il principio unitario delle arti, anzi esteso il campo artistico a fenomeni prima considerati ad esso estranei, era proprio il settore manifatturiero che andava per primo riformato. Questo, se non era proprio la causa della produzione industriale, era certamente uno dei principali anelli della sua catena; era un'attività più direttamente a contatto con le macchine ed il campo di maggiore espansione, in una parola, un fenomeno che per vari aspetti stava a monte dell'architettura. Puntando alla qualificazione del settore manifatturiero e richiamando su di esso l'interesse degli artisti migliori del tempo, Morris, non solo intuì il suo valore prioritario, ma che essendo maggiore sia il numero degli addetti sia quello dei consumatori in questo campo, esso agiva potenzialmente in tutta la sfera sociale. La riforma dell'architettura e dell'urbanistica sarebbe stata in tal modo una logica conseguenza. E così fu infatti. Il movimento delle Arts and Crafts, nonché produrre un rinnovamento delle arti applicate, muovendosi, per dir così, dal basso o quanto meno nella sfera privata e non « ufficiale », determinò un rinnovamento edilizio e persino una notevole svolta urbanistica. Intanto i seguaci di Morris, cioè la generazione nata intorno al '50, pur nella direzione da lui indicata, aderirono con maggiore realismo alle condizioni storiche del tempo: alla bottega artigiana sostituirono una vasta rete di organizzazioni produttive e cominciarono ad ammettere la possibilità di una produzione industriale accanto al lavoro fatto totalmente a mano. Per quanto riguarda l'evoluzione del gusto, l'opera di W. Crane, di A. Mackmurdo, di S. Image, di C. F. Annesley Voysey prefigurò con il Liberty alcuni aspetti dell'Art Nouveau continentale. Un altro campo nel quale influirono i seguaci di Morris
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fu quello dell'edilizia domestica, delle case unifamiliari extraurbane. Al loro elevato standard costruttivo ed estetico non fu estraneo il senso della misura e della praticità costantemente presente nella tradizione edilizia britannica, alla quale peraltro si rifaceva la stessa Casa Rossa di Morris, che divenne il modello di questa produzione architettonica sviluppatasi nell'ultimo quarto del secolo in Inghilterra ed avente una vasta influenza anche sul continente, specie in seguito al libro di Muthesius Das englische Haus del 1904. Tra gli architetti operanti in questo settore, emerge la figura di Voysey che, aderendo al rinnovamento promosso dalle Arts and Crafts, svolse un'attività professionale completa dall'architettura al disegno degli oggetti d'uso. Al movimento delle Arts and Crafts, infine, viene associata da Zevi l'opera di Ebenezer Howard per la fondazione della cittàgiardino, che può considerarsi un caposaldo della moderna cultura urbanistica. Nel libro Tomorrow, a Peaceful Path to Real Reform del 1898, ristampato quattro anni dopo col titolo Garden Cities of Tomorrow, Howard parte dal contrasto creatosi fra la città industriale e la campagna, annovera vantaggi e svantaggi dell'una e dell'altra, giungendo alla conclusione che è possibile unire gli aspetti positivi di entrambe in un particolare tipo d'insediamento ch'egli definisce cittàgiardino. Questa è una comunità di 30.000 abitanti occupante un'area edificabile di 405 ettari, circondata da una campagna di circa 2.025 ettari, pari cioè a cinque volte la superficie del centro abitato. Distanziata in tal modo dalla grande città, con la quale tuttavia è direttamente collegata, la città giardino rappresenta un'unità urbanistica autosufficiente in quanto l'attività industriale che si svolge ed il terreno agricolo che si coltiva sono proporzionati al numero degli abitanti ivi residenti. L'intera proprietà dell'area è intestata ad una società anonima senza profitto che cede i suoli edificatori in locazione a tempo limitato, mentre gli impianti lavorativi sono di imprese municipalizzate o cooperative. In base a questo schema teorico, ma analiticamente e realisticamente studiato tanto che, come scrive Astengo, «l'utopia urbanistica di Howard è così l'unico dei sistemi teorizzati nel secolo XIX a diventare
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realtà e che abbia dimostrato una sufficiente flessibilità per adeguarsi nel tempo alle esigenze di uno sviluppo pianificato a vasto raggio» [G. Astengo, voce Urbanistica cit. col. 597] furono realizzate le città giardino di Letchworth, iniziata nel 1902 quella su progetto di B. Parker e R. Unwin, e quella di Welwyn, iniziata nel 1919 su progetto di L. de Soissons. Molti altri insediamenti seguiranno, in vari paesi e più o meno fedelmente, il modello di Howard, mentre il tema teorico della città giardino è stato al centro del dibattito urbanistico, rappresentando una delle proposte alternative alla grande città industriale. A tal proposito qui ci limiteremo a ricordare che, al di là dell'utopismo ottocentesco, del neogotico, dello spirito più ruskiniano che morrisiano dell'opera di Howard, ossia di un'ultima manifestazione dell'eclettismo storicistico, l'idea della cittàgiardino dà inizio alla tendenza urbanistica che, ripresa da Geddes, Mumford, Gutkind ed altri auspica il ridimensionamento delle metropoli a vantaggio degli insediamenti autosufficienti organicamente disposti in un più vasto territorio regionale. Abbiamo finora parlato del contributo inglese al neogotico; non possiamo chiudere questo paragrafo su tale revival e lo stesso capitolo sull'eclettismo storicistico senza menzionare l'apporto francese e segnatamente quello di ViolletleDuc. Della sua opera teorica ci siamo occupati in altra sede, qui vogliamo far cenno all'aspetto più propriamente operativo che scaturì dalla sua particolare interpretazione del gotico. Per ViolletleDuc (18141879), cui la conoscenza dell'architettura gotica derivava dall'esperienza del restauro campo del quale può considerarsi l'iniziatore il medioevo non è l'età oscura descritta dal luogo comune. Esso è invece un periodo d'industrie e di ricerche tecniche, di affermazioni (anche) laiche e temporali, di straordinarie audacie costruttive di splendidi risultati figurativi e semantici, come quello di visualizzare il messaggio religioso. Cosicché l'architettura gotica non è tanto un modello di gusto formale, né tanto esemplare per l'organizzazione
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etica e sociale del lavoro artigianale, né ancora un paradigma alternativo alla bruttezza della moderna produzione industriale. ViolletleDuc condivide questi aspetti del gotico, ma per lui esso vale soprattutto come insuperato modello costruttivo, anzi come la più alta incarnazione di «principi» costruttivi. Egli interpreta la cattedrale gotica con spirito cartesiano e vede in essa anticipato chiaramente ciò che è possibile realizzare nei tempi moderni grazie alla nuova tecnologia, specie quella del ferro. La struttura della cattedrale è per lui il precedente più diretto delle ottocentesche fabbriche a scheletro metallico e delle grandi coperture in ferro e vetro che, a loro volta, in quanto continuatrici di una tradizione altamente espressiva e «classica» perché razionale, nonché ricca di «principi», non sono mera tecnica, ma tout court architettura. Alla domanda perché il secolo XIX non ha ancora un suo stile, risponde che ciò dipende unicamente dall'aver perduto un «metodo». ViolletleDuc, osserva P. Francastel, «supera Cole e Laborde in quanto rinuncia al compromesso conciliativo tra arti e industria. E stato dunque lui a porre, e in termini ben precisi, quella che sarà la rivoluzionaria concezione estetica di fine secolo: che esista cioè una bellezza legata direttamente all'uso delle tecniche»[P. Francastel, L’arte e la civiltà modera, Feltrinelli, Milano 1959, p. 249] La prova più convincente dell'esattezza di questo giudizio e del fatto che l'atteggiamento di ViolletleDuc supera allo stesso tempo l'estetismo degli altri storicisti e il tecnicismo architettonicamente incerto degli ingegneri, è data dall'influenza da lui esercitata sull'architettura posteriore, com'è ampiamente testimoniato dai protagonisti delle successive generazioni. «Nessun artista scrive H. P. Berlage ha potuto imparare dai libri come deve creare le sue opere. Sono stati grandi artisti pratici come ViolletleDuc e Semper che con le loro opere hanno insegnato molto di più di tutti i filosofi. Ed essi insegnano dandoci la verità, l'essenza dell'architettura» [H. P. Berlage, Considerazioni sullo stile, in «Casabella continuità,n. 249, marzo 1961]. Questo apporto propriamente architettonico è visibile
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nelle prime opere di Berlage. Gli interni della Borsa di Amsterdam ricordano moltissimo i disegni di ViolletleDuc, quelle avveniristiche prospettive d'interni dove la struttura in ferro assume un'intenzione architettonica distinta dai sistemi costruttivi metallici adottati dagli ingegneri contemporanei. Il legame poi tra gli altri suoi disegni, quelli relativi alle strutture in ferro, ai dettagli costruttivi, anticipano con tutta evidenza lo stile di Horta, che considerava il Djctjonnajre raisonné del Nostro come la sua Bibbia [S. T. Madsen, Sources of Art Nouveau, Ascheroug, Oslo 1956, pp. 667]. Il contributo di Violletle Duc all'Art Nouveau, ossia alla prima tendenza dell'architettura moderna affrancata dall'eclettismo storicistico, è stato assai più decisivo di quello di ogni altro studioso dell'Ottocento. Egli ne definì forse tutte le premesse culturali e ne prefigurò anche alcuni aspetti del gusto. E chiudiamo questo capitolo sull'eclettismo storicistico con una citazione di Zevi: «La cultura del secolo XIX con Ruskin e Morris in Inghilterra, col ViolletleDuc in Francia, col Wickhoff e poi il Riegl in Austria, applica alla storia dell'arte quella revisione di valori che la storiografia politica aveva operato subito dopo la rivoluzione francese. La storia concepita come continuità statica alterata violentemente dall'intervento di eroi che ne trasformano il corso, cede il campo a una più complessa interpretazione nella quale l'azione dell'individuo diviene sempre meno determinante di fronte a una materia perpetuamente dinamica, movendosi per forze collettive ed anonime. La storia dell'arte fino allora intesa come storia di geni fieri e isolati, e perciò puntualizzata sulla rinascenza, allarga i suoi orizzonti per accogliere le epoche di arte corale, segnatamente l'Evo Medio e la cosiddetta decadenza di Roma antica. In questa cultura non vi è posto per ambizioni di forzosa originalità, ma per compiti concordati»[ B. Zevi, Storia dell’architettura moderna, Einaudi, Torino 1950, pp. 66 7]. Ed è forse quest'ultimo uno dei principali caposaldi del Movimento Moderno.
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LE OPERE DELL’ECLETTISMO STORICISTICO
Il cristal Palace
Il nostro programma di tracciare una storia dell'architettura contemporanea attraverso poche opere paradigmatiche ed emblematiche fissa il suo punto di partenza nell'edificio che ospitò la prima Esposizione universale, tenutasi a Londra nel 1851, e che presenta entrambe le caratteristiche suddette. Infatti, il palazzo di Cristallo si pone come opera paradigmatica perché costituisce uno dei primi esempi in cui la struttura costruttiva assume interamente valenza architettonica; perché introduce una nuova tipologia edilizia, quella dei grandi impianti espositivi, rispondente peraltro all'istanza di un'architettura come mezzo di comunicazione di massa; perché costruito sui principi della modularità e della iterazione, tutti aspetti che lo rendono un modello per la produzione successiva. In pari tempo, esso è un'opera emblematica sia nel senso che, nonostante il carattere innovativo, riflette il linguaggio, il codice dell'epoca, ovvero l'eclettismo storicistico, sia nel senso che simboleggia puntualmente la storicità del suo tempo: la rivoluzione industriale, la condizione socioeconomica dell'Inghilterra vittoriana, la fiducia nelle magnifiche sorti e progressive dell'umanità, tipica del mondo ottocentesco. L'iniziativa della Esposizione universale si deve al principe consorte Albert e ad Henry Cole e faceva seguito ad una serie di grandi esposizioni, dopo la prima tenutasi a Parigi nel 1798, aventi però carattere nazionale. Nate nello spirito dell'Illuminismo e della Proclamation de la liberté du travail del 1791, le Esposizioni avevano intenti conoscitivi e propagandistici del progresso sociale e tecnologico, stimolavano l'emulazione fra gli imprenditori, favorivano il commercio e gli scambi. E proprio al fatto che l'Inghilterra non poneva limitazioni al commercio con l'estero, cui ricorrevano invece
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gli altri paesi per proteggere la loro nascente industria, si deve il carattere internazionale dell'Esposizione di Londra del 1851. Questo carattere della mostra, avente palesi connotazioni politiche e reso possibile dalla «perfetta sicurezza della proprietà, dalla libertà commerciale e dalla facilità di trasporto, che l'Inghilterra preminentemente possiede», come scrisse Cole nell'introduzione al catalogo, si associava ad un altro intento, quello di promuovere un'integrazione fra arte e industria. Henry Cole, il personaggio, più impegnato in tale programma e che, contrariamente a Ruskin e Morris, credeva nell'utilità di applicare il lavoro artistico alla produzione industriale, tanto da disegnare egli stesso oggetti realizzati a macchina, da fondare scuole d'arte applicata, da raccogliere gli oggetti d'arte decorativa costituenti il nucleo di quello che sarà il Victoria and Albert Museum, trovò un appoggio incondizionato e partecipe proprio nel principe consorte, che gli affidò l'incarico dell'organizzazione generale dell'Esposizione. Puntando sempre sul carattere universale della manifestazione, fu bandito nel 1850 un concorso internazionale per la sede: un unico grande edificio capace di contenere le sezioni di tutti i paesi espositori da realizzarsi in Hyde Park. Nessuno dei 245 progetti presentati fu ritenuto idoneo (ebbero una menzione speciale ex aequo quello del francese Hector Horeau e dell'irlandese Richard Turner) e la Commissione per la sede, facente parte dello stesso Comitato promotore dell'Esposizione, elaborò un suo progetto e fu bandito un appaltoconcorso per realizzarlo. Solo in questa fase, in ritardo cioè rispetto al concorso per il progetto e prima che fosse espletata la gara d'appalto, Joseph Paxton, un giardiniere costruttore di serre, presentò un suo elaborato che pubblicò nello stesso tempo sull'«Illustrated London News» e raccomandò tale progetto a Robert Stephenson, membro del Comitato. Presso quest'ultimo e la stessa opinione pubblica, l'idea di Paxton di raccogliere l'intera esposizione in un'immensa serra dovette riscuotere ampio successo se, con una irregolare procedura, il suo progetto, della cui realizzazione
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s'impegnarono gli imprenditori Fox e Henderson, venne ammesso all'appaltoconcorso quale variante del banale edificio progettato dal Comitato. L'opera venne realizzata nell'eccezionale tempo di soli nove mesi. Il modo col quale Paxton riuscì ad imporre la sua soluzione, il suo associarsi ad una efficiente impresa di costruzioni, la scelta dei suoi collaboratori, la versatilità nell'adattare questa e altre sue opere alle circostanze, fanno di lui il tipico esponente dell'attiva borghesia vittoriana. L'edificio, aveva una pianta rettangolare lunga 1851 piedi (pari cioè alla data dell'esposizione) e articolata in base ad un modulo quadrato di circa 7 m, corrispondente alla disposizione dei montanti in ghisa. Tale modulo costituiva l'unità di campata quadrata delle navate minori che si alternavano a quelle maggiori larghe 14 m, pari a due moduli, mentre la navata centrale era ampia 21 m, pari cioè a tre moduli. La «figura» di sezione, uguale a quella delle testate terminali, mostrava un edificio scalare a cinque navate. Dalla pianta si rilevava altresì la presenza di un corpo di fabbrica trasversale, «il transetto» articolato internamente come l'altro, ma più alto e coperto da una volta a botte per la conservazione di un gruppo di alberi ivi esistenti. Ai piani superiori, in corrispondenza delle navate strette, correvano quattro file di gallerie, per consentire al pubblico la visione dall'alto dei prodotti esposti al pianterreno; una serie di scale collegava le gallerie e gli altri passaggi allo spazio espositivo, nonché alle refreshment courts, la cui ubicazione era anch'essa imposta dalla presenza di alberi. All'esterno, la scarna volumetria della costruzione, un «capannone» a tre ordini, sormontato al centro del suo lato lungo dalla volta a botte del transetto, ritrovava nella sua articolazione modulare, oltre all'estrema trasparenza e luminosità, anche un suo decoro architettonico. Al modulo planimetrico se ne associa un altro altimetrico o di facciata: si trattava di un elemento di altezza costante nei tre ordini dell'edificio e largo circa 2,30 m, ripetuto tre volte per ogni modulo strutturale che, come s'è detto, era di 7 m. Esso era realizzato con un telaio di legno e ferro, a sua volta scandito dalla più grande dimensione della lastra di
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vetro allora normalmente prodotta nel Regno Unito, avente la lunghezza di soli 4 piedi. Quasi certamente Paxton partì da questa condizione per modulare l'intera sua opera. Al di sopra della parte arcuata del telaio era un sopralluce recante al centro un oculo. L'elemento descritto, iterato su ogni superficie, costituiva strutturalmente e figurativamente l'involucro dell'edificio. La natura grammaticale di tale elemento, il disegno a raggiera nel prospetto della volta del transetto, la presenza del coronamento a palmette che mascherava su tutti i lati l'andamento inclinato delle lastre di copertura erano gli unici motivi che si richiamavano al linguaggio architettonico tradizionale. E non furono sovrapposti in fase esecutiva, perché le archeggiature e le trine sono presenti sin dall'originario schizzo di Paxton, oggi conservato al Victoria and Albert Museum. In sostanza il Crystal Palace non era altro che un grande contenitore trasparente, capace di ospitare al suo interno alberi e macchine, opere artistiche e manufatti industriali, oggetti e visitatori, insomma era il luogo ideale del sogno progressista ottocentesco di conciliare artificio e natura. Non possiamo omettere nel nostro discorso, che mira proprio a cogliere il significato dello spazio interno, il noto passo di Bucher, già citato da altri storici, perché ci sembra una testimonianza insostituibile, specie per questo edificio perduto: «Possiamo scorgere scrive l'autore tedesco una delicata rete di linee senza avere alcuna chiave per giudicare la loro distanza dall'occhio o le vere dimensioni. I muri laterali sono troppo distanti per essere abbracciati in un solo sguardo. Invece di correre da un muro terminale all'altro, l'occhio spazia in una prospettiva senza fine, che svanisce all'orizzonte. Non siamo in grado di affermare se questo edificio torreggia cento o mille piedi sopra di noi, e se il tetto è piano od è composto da una successione di costole, poiché non v'è giuoco d'ombre che metta i nostri nervi ottici in grado di stimare le misure. Se lasciamo il nostro sguardo scendere, esso incontra i travi in ferro dipinti in azzurro. Dapprima questi si susseguono soltanto ad ampi intervalli; poi si
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stringono sempre più frequentemente, finché non sono interrotti da una abbagliante striscia di luce il transetto che si dissolve in uno sfondo lontano dove ogni elemento naturale si fonde nell'atmosfera[[L.Bucher, Kulturhistorische Skizzen aus der Industrieausstellung aller Völker, Frankfurt 1851, p. 174. Nel citare questo brano, Giedion associa l'effetto spaziale del Crystal Palace all'atmosfera dematerializzata dei dipinti di Turner. Dallo stesso passo Benevolo evince che l'indefinita estensione prodotta dalla iterazione modulare assimila il risultato spaziale di quest'opera a quello delle strade parigine di Haussmann, «dove le regole prospettiche tradizionali sono applicate a spazi troppo grandi, non si chiudono più su se stesse e si trasformano in ambienti sconfinati, qualificati dinamicamente dal traffico che vi si svolge » (L. Benevolo op. cit., p. 141)]. Questo tipo di lettura, mirante a cogliere il significato di uno spazio architettonico in base ai suoi soli elementi e alla loro disposizione, ci conferma l'assunto che la ragion d'essere dell'edificio, il suo significato» era tutto da ritrovarsi nel suo spazio interno. L'esterno «significante» altro non è che una proiezione su di esso dell'interno; anzi la grande novità dell'opera di Paxton sta in ciò che l'involucro esterno ha perduto le due facce tradizionali, non ha più praticamente spessore, s'è ridotto ad un piano trasparente. E se tali caratteristiche devono in primo luogo essere ascritte alla tecnologia adottata, sta di fatto però che l'edificio mancava di una vera e propria facciata, essendo quelle terminali non altro che «sezioni» strutturali. Il senso quindi del Crystal Palace sta non solo nella sua interna spazialità, il che è proprio di ogni fabbrica riuscita, quanto soprattutto nel modo totalmente inedito del rapporto internoesterno e nei mezzi utilizzati per realizzare tale rapporto: i fattori modulari, le caratteristiche schematiche, iterative, di provvisorietà, di recuperabilità, ecc., grazie alle quali, considerata opera d'ingegneria, la sede della prima Esposizione universale riuscì a passare tra le maglie del gusto vittoiano. Tali aspetti sono abbondantemente
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testimoniati dalla letteratura del tempo; la rivista «The Ecclesiologist», che ebbe un ruolo notevole nel Gothic Revival, così scrive dell'opera in esame: «Le condizioni alle quali fu intrapresa la costruzione del Crystal Palace non avrebbero potute essere rispettate, riteniamo, in nessun altro modo se non con l'esecuzione dell'ammirevole progetto di Mr. Paxton. E ammettiamo senz'altro che siamo pieni di ammirazione per gli effetti interni, senza precedenti di una tale struttura [...] un effetto di spazio, e invero una effettiva spaziosità sin qui mai ottenuta; una prospettiva così vasta che l'effetto atmosferico della estrema distanza è del tutto nuovo e singolare; una diffusa luminosità ed un favoloso brillio, mai supposti prima; e soprattutto uno degli attributi per noi più soddisfacenti una palese franchezza e un realismo costruttivo impagabili. Tuttavia, si è formata in noi la convinzione che questa non è architettura: è ingegneria della migliore qualità ed eccellenza ma non architettura. La forma è ancora tutta da venire e così pure l'idea di stabilità e di solidità [...]. Ancora, la infinita ripetizione degli stessi elementi componenti indispensabile in una tale struttura ci sembra negare ogni aspirazione ad una più alta qualità architettonica»[The Design of the Crystal Palace, in «The Ecclesiologist» XLI, 1851, cit. in G. F. Chadwick, The Work of Sir Joseph Paxton, London 1961] Ma, proprio quegli aspetti che il gusto e la critica contemporanei misconoscevano, accettando il Crystal Palace solo per i suoi lati funzionali ed economici, sono i valori dell'opera che oggi maggiormente apprezziamo. È ben vero che le caratteristiche per noi più positive nascevano più dalle circostanze (tempi ridotti per l'esecuzione dell'opera, necessità di recuperare un materiale tanto costoso, ecc.) che da una precisa intenzionalità; tant'è vero che i successivi progetti di Paxton e già la stessa ricostruzione del Crystal Palace a Sydenham (distrutto poi da un incendio nel 1936), acquistano un tono aulico, risentono appieno dell'eclettismo stilistico contemporaneo. Tuttavia, se è vero che molte opere successive si sono ispirate nella loro veste formale più al Palazzo ricomposto a
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Sydenham che a quello originario di Londra, è indubbio peraltro che le caratteristiche oggi apprezzate sono quelle che hanno influenzato altre strutture ben oltre gli aspetti stilistici. Il Crystal Palace è quindi risultato paradigmatico per le più significative opere delle successive Esposizioni universali, si pensi ai notissimi casi della torre di Eiffel e della Galerie des Machines, entrambe realizzate a Parigi nel 1889, fino alle edizioni più recenti di tali manifestazioni che ormai, data la diversa organizzazione degli scambi e soprattutto dei diversi sistemi d'informazione di massa, risultano totalmente anacronistiche.
La scuola di Chicago.
Rispetto all’intensa attività urbanistica, pochi edifici di grande interesse moderno furono realizzati nel periodo che va dagli anni '50 agli '80 del secolo XIX. Prosegue l'opera dei grandi costruttori: H. Labrouste, dopo la Bibliothèque SainteGeneviève (184350), costruisce la Bibliothèque Nationale (186268); V. Baltard inizia nel '53 le Halles Centrales nel quadro delle opere urbanistiche di Parigi. Entra nella sua fase culminante l'eclettismo, nell'accezione più corrente del termine: Ch. Garnier realizza tra il 1861 ed il '74 l'Opéra di Parigi in quello stile del neoclassicismo barocco, che in Italia si chiamerà «umbertino» e che informerà moltissimi edifici «ufficiali» di vari paesi. È assai viva in questo periodo la ricerca teorica e critica: ViolletleDuc pubblica tra il '54 ed il '68 il Dictionnaire raisonné de l'architecture francaise e tra il '63 ed il '72 gli Entretiens sur l'Architecture. Il fenomeno più significativo di quegli anni fu la trasformazione delle grandi città: quella di Parigi per opera di Napoleone III e del suo prefetto Haussmann avvenuta fra il 1853 ed il '69, quella di Bruxelles (186771), di Barcellona iniziata nel '59, di Vienna (185972), ecc., nonché le modifiche parziali degli organismi urbani attraverso piani di «risanamento» avviate in quasi tutte le città europee sul modello di Parigi. Insomma la seconda metà dell'Ottocento, come s’è detto, fu la grande stagione dell'urbanistica,
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vi fu una grande sperimentazione tecnicocostruttiva, si elevò il livello dell'edilizia, segnatamente quella britannica, ma non quello dell'architettura; comunque non sorsero opere definibili paradigmatiche. Per trovare edifici che, pur nell'ambito dell'eclettismo storicistico, nel senso più ampio da noi dato a questa espressione, rappresentino una svolta nella storia dell'architettura, bisogna trasferirsi negli Stati Uniti ed attendere l'inizio degli anni '80. Ci riferiamo alle fabbriche della scuola di Chicago. S'intende con tale espressione l'insieme delle opere che costituirono il centro direzionale di questa città, fondata nel 1830 con un impianto a scacchiera ad estensione illimitata, divenuta ben presto il maggiore centro di scambi e il più grande nodo ferroviario degli Stati Uniti. Distrutta da un'incendio nel 1871, Chicago era una tale concentrazione di interessi da essere ricostruita in poco meno d'un ventennio e ampliata al punto da contenere 1.700.000 abitanti alla fine del secolo. La ricostruzione fu inizialmente affidata ad un gruppo di tecnici provenienti dal genio militare e formatisi durante la guerra di secessione. Tra il 1880 ed il 1900 nacque appunto il centro degli affari della città, il Loop, caratterizzato da grandi edifici per uffici, alberghi, grandi magazzini, pubblici locali, ecc., talvolta concentrati in uno stesso stabile. L'alto prezzo delle aree fabbricabili a Chicago come a New York fu la causa che determinò la nascita del grattacielo, tipo edilizio in un primo tempo realizzato come «torre di pietre» e poi a scheletro metallico. Esso consentiva il minimo ingombro di strutture, la massima utilizzazione degli spazi interni, la loro polifunzionalità, le massime luminosità e aperture, soprattutto il massimo sfruttamento del suolo edificabile. Tecnicamente il grattacielo si avvaleva appunto delle innovazioni strutturali derivanti dall'uso razionale della costruzione in ferro, dei sistemi di trasporto verticali (ascensore a vapore: Otis del 1864, idraulico: Baldwin del 1870, elettrico: Siemens del 1887), nonché degli impianti di telefono e di posta pneumatica. Benevolo opportunamente paragona il tipo edilizio del grattacielo con un'estensione altimetrica illimitata al piano di lottizzazione urbana a
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scacchiera con una estensione planimetrica illimitata, considerandoli entrambi come mere operazioni aritmetiche. « Né l'una né l'altra sono realtà architettoniche, ma contengono la possibilità di una radicale trasformazione della scena architettonica tradizionale, e il principio su cui si fondano, essendo lo stesso che governa l'industria, può servire a metter d'accordo il nuovo scenario urbano con le esigenze della società industriale»[L. Benevolo, op. cit., p.261] . Dal canto suo Zevi afferma: « Nulla di contemporaneo in Europa è paragonabile a questa pagina americana» [ B. Zevi, op. cit., p. 392] e tenta di distinguere fra i costruttori di Chicago le personalità creative da quelle dotate di sole capacità tecniche, nonché gli architettiorganizzatori dai puri e semplici affaristi. Tutto ciò è vero, ma visti da una visuale più ampia e in uno studio di sintesi come il nostro, possiamo dire che la scuola di Chicago fu un coacervo di conquiste tecniche indiscutibili; di ambizioni stilistiche che vanno dal neoromanico alla ricerca neodecorativa (non a caso molti dei suoi esponenti studiarono in Francia presso l'Ecole des BeauxArts); di connubi architettonico ingegnereschi; di estrema disponibilità professionale; di drammatiche frustrazioni per chi, non senza accenti velleitari, tentava di conciliare l'arte con questo sbrigativo e risoluto mondo degli affari. Al di là di ogni conquista tecnologica, tipologica, protorazionalistica, nella vicenda di Chicago la cultura architettonica gioca un ruolo decisamente secondario e strumentale essendo quello della committenza il ruolo del vero protagonista. Gli edifici di quella scuola testimoniano la piena attuazione dell'attivo e del passivo derivanti dal sistema liberistico applicato al settore edilizio e urbanistico. Il realismo commerciale d'un gruppo di imprenditori, libero com'è da ogni remota, ha qui la possibilità di esprimere e realizzare ciò che in Europa sarebbe stato impedito da vincoli di ogni sorta, dalle preesistenze ambientali ai conflitti di classe. E saranno proprio queste condizioni storicoculturali, economiche, sociopolitiche, rappresentanti lo specifico della tradizione europea, a differenziare
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sostanzialmente il Movimento Moderno nel vecchio continente da quello attuatosi in America del Nord. La scuola di Chicago ebbe quale iniziatore l'ingegnerearchitetto William Le Baron Jenney (18321907) che aveva studiato in Francia presso l'Ecole Polytechnique ed era stato maggiore nel corpo dei genieri di Shermann. Nel suo studio professionale furono Martin Roche, William Holabird, Daniel Burnham e Louis Sullivan, ossia i principali esponenti della scuola di Chicago. Tuttavia la produzione architettonica di questa città, come del resto quella degli altri centri americani dell'ultimo quarto del secolo, fu influenzata da un altro architetto, Henry Hobson Richardson (183886) che, pur avendo costruito un solo importante edificio a Chicago, il Marshall Field Wholesale Store and Warehouse nel 1885 [ In precedenza Richardson aveva realizzato a Chicago un edificio per l'American Express Company, che non ebbe però grande ripercussione], per aver studiato anch'egli in Europa presso l'Ecole des BeauxArts e presso Labrouste e per aver svolto al suo ritorno in patria una intensissima attività professionale, finì per incidere notevolmente negli sviluppi della vicenda di cui ci occupiamo, rappresentandone, per così dire, il momento «culturale», impersonandone l'opera di Le Baron Jenney il momento «tecnico». Sia pure con una certa approssimazione, possiamo collegare alle fabbriche di quest'ultimo la tendenza caratterizzata dagli edifici a scheletro, quelli indubbiamente più innovatori, che affidavano l'intero programma architettonico all'impianto strutturale quasi senza alcun accorgimento stilisticofigurativo. All'opera di Richardson notissima, come s'è detto, anche prima della sua fabbrica costruita a Chicago, possiamo collegare la tendenza che, pur riflettendo il programma edilizio degli edifici commerciali, affrontava questo compito con notevoli implicazioni stilistiche, storicoeclettiche, segnatamente ispirate al romanico. Come osserva Zevi, «Nel romanico egli non vide uno stile paragonabile agli altri di importazione, ma un austero metodo compositivo che teneva conto delle realtà costruttive
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fondamentali, lasciava ampio margine a originali interpretazioni, restaurava una schiettezza nell'uso del materiale laterizio, riduceva all'essenziale la decorazione » [Zevi, op. cit., p. 386]. Poiché tutti gli altri architetti di Chicago, seguirono ora l'una ora l'altra di queste tendenze, assai spesso fondendole in uno stesso edificio, proviamo ad elencare quelle fabbriche, indipendentemente dai loro versatili autori, in due filoni che convenzionalmente definiremo «strutturistico» e neoromanico. Nella prima corrente possiamo annoverare: il primo Leiter Building del 1879, progettato da Le Baron Jenney. Esso era alto sei piani oltre quello terreno, aveva una struttura in ghisa, manifestata all’esterno con una maglia ortogonale di travi e lesene che inquadravano ampie aperture. A questa fabbrica, considerata capostipite della scuola di Chigago, facva seguito l’edificio della Home Insurance Company del 1884 ad undici piani realizzato dallo stesso architetto nella stessa linea architettonica, anche se un risalto dei marcapiani tende forse a mitigare percettivamente l'alta mole dell'edificio; di poco più tardi era il Tacoma Building di Holabird e Roche del 1888 di dodici piani che introduce nella struttura a scheletro poligonali bowwindows, ossia un elemento architettonico appartenente tanto ai revivals stilistici quanto ad una ininterrotta tradizione edilizia nordica; seguiva il secondo Leiter Building di Le Baron Jenney, realizzato nel 1889 in perfetta continuità con l'altro di dieci anni prima; più tardi nasceva il Fair Building del 1891, sebbene con qualche concessione al motivo storicistico delle lesene giganti sormontate da un capitello; del 1894 era il Marquette Building di Holabird e Roche, un binomio desinato a diventare famoso; e finalmente il Reliance Building, iniziato nel 1890 da Burnham e Root, alto dapprima cinque piani e ultimato nel '95 con l'aggiunta di altri dieci piani. Questo edificio, il più significativo delle fabbriche di Chicago, può considerarsi il punto d'arrivo della corrente strutturistica. Nella seconda tendenza, quella neoromanica ispirata a Richardson e arricchita da accenti neodecorativi dovuti all'opera di Louis Sullivan si possono includere: il Rothschild Store del 1881; il Revell Store del
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188183; il Troescher Building del 1884, tutti progettati appunto da Sullivan; il Marshall Field Store di Richardson, già menzionato, ossia l'opera principale di questo architetto e la più influente per la corrente che stiamo esaminando; direttamente collegato ad essa è l'Auditorium Building costruito dal 1887 all'89 da Sullivan e Adler, un altro degli immobili più significativi di Chicago anche per la sua polifunzionlità (conteneva oltre al teatro, uffici commerciali e un albergo); il Great Northern Hotel del 1891 progettato da Burnham e Root, i quali realizzano nel '92 il Capitol detto anche Masonic Temple, ossia l'edificio più alto di questo periodo a Chicago con i suoi 22 piani, entrambi chiaramente ispirati a forme richardsoniane enfatizzate come richiedeva l'importanza commerciale di tali edifici. Accanto a questi due filoni, strutturistico e neoromanico, nei quali si possono includere numerose altre opere e i cui accenti venivano spesso fusi, valga per tutti il caso del Manhattan Building (1890) dello stesso William Le Baron Jenney dove sono mescolati la struttura a scheletro, bowwindows poligonali e curvilinei, finestre orizzontali e persino archi terminali di coronamento, vi sono delle fabbriche affatto originali e indipendenti come il Monadnock Building del 1891 progettato da Burnham e Root. Questo edificio con i suoi ininterrotti quindici piani, i suoi bowwindows, alternati ad aperture verticali, i suoi raccordi lievemente incurvati alla base e alla sommità, si differenzia sensibilmente sia dalle configurazioni a scheletro della prima tendenza sia dalle archeggiature romaniche richardsoniane, sia infine, nudo com'è col suo continuo paramento in mattoni, dagli accenti decorativi delle opere di Sullivan. Di quest'ultimo autore è un altro edificio «indipendente», il Carson, Pirie e Scott Department Store, realizzato tra il 1899 ed il 1904, dove ad eccezione del raccordo curvilineo d'angolo, ossia una soluzione tipicamente ottocentesca degli edifici per grandi magazzini, è chiaramente espresso il programma di Sullivan d'integrare ad una nitida struttura ortogonale di facciata quel «sistema decorativo», cui l'architetto dedicò la sua migliore energia [36 Oltre alle opere realizzate da Sullivan a Chicago,
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vanno ricordati tra i suoi lavori più significativi il Wainwright Building di St. Louis (1891) e il Guaranty Building di Buffalo (1895) entrambi progettati in collaborazione con Dankmar Adler]. Nella vicenda della scuola di Chicago, l'Esposizione colombiana del 1893, secondo la maggioranza degli storici, segna la fine di un'intensa attività di ricerca, nella quale, pur tra le evidenti contraddizioni, l'eclettismo storicistico si affianca ad un rigore esteticostrutturale che può dirsi protorazionalista, fino ad apporti che sembrano anticipare l'Art Nouveau. Tale Esposizione avrebbe arrestato questo insieme di spinte innovatrici e restaurato vecchi stilemi nella linea BeauxArts provenienti dal vecchio continente. Indubbiamente c'è del vero in questo giudizio, specie se si considera il passaggio di uno dei maggiori protagonisti di Chicago, Daniel Burnham, alla corrente neoaccademica ed il fallimento professionale di un artista come Sullivan, sul quale influì il mutato gusto del pubblico in seguito all'Esposizione colombiana. Tuttavia, a parte la personale vicenda di alcuni architetti e quella di Sullivan in particolare, l'Esposizione colombiana riuscì solo in parte ad arrestare il vitalistico flusso produttivo dell'edilizia di Chicago. Anzi, a nostro avviso, producendo una momentanea crisi, tale manifestazione finì per determinare un chiarimento nella vicenda di cui ci occupiamo. Dopo il '93, infatti, quella che resiste è la corrente strutturistica iniziata da William Le Baron Jenney, la sola che si addiceva, fuori da ogni velleità culturalistica, alle ragioni tecniche, economiche, figurative più aderenti alle istanze della committenza. Già Hitchcock nel suo Architecture: Nineteenth and Twentieth Centuries aveva proseguito il suo elenco di opere americane del tardo Ottocento senza dare eccessivo peso all'azione ritardatrice dell'Esposizione colombiana; più recentemente l'influenza di quest'ultima è stata ridimensionata nel modo più convincente. Luigi Pellegrin sostiene che: «La celebre Scuola contrassegnata nei libri con la data 188093 non si deve andare a cercare solo negli episodi isolati dell'Ottocento: continua e produce almeno in tutto il primo
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quarto del nostro secolo. I grattacieli di Mies oggi si ambientano perfettamente in questa tradizione. Nulla di più falso perciò che credere letteralmente al mito dell'Esposizione Columbiana distruggitrice di tutti i valori della Scuola di Chicago. Questi valori non erano meramente figurativi e perciò non potevano essere banditi dall'insorgere di una moda accademica. Aderivano al mondo sociale e tecnico di Chicago e, ostracizzati dalla cultura ufficiale, riemergevano nella pratica edilizia ineluttabilmente»[L. Pellegrin, Autonomia espressiva della scuola di Chicago, in «L'architettura, cronache e storia », agosto 1956, n. 10]. Concordiamo con questo assunto che, a sua volta, conferma implicitamente gli aspetti positivi e negativi del fenomeno architettonico di Chicago, emblematico nel suo insieme, da noi rilevati nelle considerazioni generali espresse all'inizio del presente paragrafo. La Borsa di Amsterdam L'edificio che sembra realmente concludere l'eclettismo storicistico è quello della Borsa costruita Hendrik Petrus Berlage (18561934) ad Amsterdam tra il 1898 ed il 1903. E ciò non solo per il suo ritardo quest'opera neoromanica fu realizzata negli anni in cui l'Art Nouveau aveva decretato la fine di ogni revival ma anche perché riassume gli aspetti migliori di tutti i fenomeni che abbiamo inglobato nell'eclettismo storicistico: la selezione motivata di un modello storico rispetto agli altri, l'istanza morale, l'identificazione eticaestetica, le ragioni costruttive, il valore simbolicorappresentativo, ecc. Insomma essa costituisce (grazie anche a quanto si rileva dall'opera teorica del suo autore) un compendio di tutto il travaglio del secolo, dalle indicazioni di Ruskin e Morris a quelle di ViolletleDuc e Semper; dalla continuità della tradizione all'istanza innovativa; dal mercantilismo borghese al socialismo; dalle tecniche tradizionali dell'artigianato a quelle industriali dell'ingegneria. Come tale la Borsa di Amsterdam è fra le opere più emblematiche del tardo Ottocento, ma anche una fabbrica paradigmatica per la produzione successiva,
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dell'architettura olandese contemporanea e persino dell'urbanistica di questo paese, uno dei pochi nei quali il Movimento Moderno abbia vinto la sua battaglia. L'edificio sorge nel cuore della città seicentesca, dove la scena urbana è caratterizzata dall'allineamento di case dalla stretta facciata lungo i canali. Esso occupa una vasta area assimilabile ad un trapezio rettangolo molto allungato. I suoi ambienti principali sono le tre sale: della Borsa merci, della Borsa cereali e della Borsa valori; e mentre quest'ultime si affiancano sfruttando l'ampiezza prodotta dalla base maggiore del trapezio, la prima, cioè lo spazio interno più significativo, ne occupa il lato più stretto corrispondente alla fronte con l'ingresso principale e la torre angolare. Lungo i lati maggiori delle tre sale, che hanno forma rettangolare, si snodano tre ordini di piccoli spazi modulari destinati ad uffici; sui lati brevi dei saloni, ovvero in tre zone, una mediana e due corrispondenti alle basi del trapezio vi sono locali, per così dire, intermedi, contenenti la camera di commercio, la direzione, gli ambienti di rappresentanza, gli uffici postali, ecc.; il collegamento di queste tre zone è assicurato da un loggiato che corre lungo i lati dei saloni. All'esterno, tutto in mattoni come l'interno, la gerarchia planimetrica si manifesta puntualmente anche in una altimetrica. Alla torre angolare che è l'elemento preminente, seguono in ordine d'altezza il volume tra le tre sale a tetto inclinato, quello delle zone degli ambienti intermedi e quello dei tre piani degli uffici, mentre le scale, racchiuse in corpi autonomi articolano la volumetria generale, evitando la monotonia dei cantoni o dei tratti più lunghi delle facciate. Ma parlare di volumetria è forse improprio: ogni lato dell'edificio è un muro assolutamente privo di sporgenze o rientranze e questa rasata parete si articola solo in senso altimetrico. Solo grazie all'alternarsi di elevazioni e di abbassamenti di questo profilato piano si scorge, al livello delle digradanti coperture, tutta la varietà della volumetria interna, corrispondente appunto alla sagoma del compatto muro perimetrale. Al di sopra di esso e tutto svolto sull'interno, è un ricco gioco di
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prismi rettangolati, triangolari, piramidali ecc., che fanno pensare ad una cittadella medievale recintata da una liscia murazione turrita oppure ad un «oggetto», assai ricco di sfaccettature geometriche, ma tagliato come da un rasoio lungo le sue facce laterali. Non vorremmo spingere oltre tali similitudini, ma non possiamo però trascurare l'ipotesi che questa tecnica dei muri rasati che ricorre costantemente anche all'interno e persino in tutta la plastica minore sia stata ispirata dal taglio dei diamanti che proprio ad Amsterdam trova i suoi più esperti esecutori, per i quali lo stesso Berlage costruì nel 1900 la sede del loro sindacato. Similitudini a parte, questo «artificio » del muro rasato rende le facciate, nel modo che s'è detto, un rispecchiamento degli spazi interni, ossia di fattori propri all'architettura e in pari tempo, per il loro rigoroso allineamento, nonché il tentativo di riprodurre nel ritmo delle aperture quello delle case allineate lungo i canali, fa sì che le stesse facciate costituiscono fattori della scena urbana. E se di ogni edificio ben inserito si può dire che i suoi prospetti siano al tempo stesso «figure» dell'architettura e dell'urbanistica, qui tale fenomeno è accentuato al massimo proprio dalla mancanza di qualunque aggetto o rientranza, dalla riduzione di interno ed esterno ad un muro perfettamente piano. Pertanto la caratteristica esponente che informa tutta l'opera la fusione di ogni sporgenza con la superficie piana del muro non va solo intesa come una semplificazione stilistica, un ammodernamento ottocentesco del romanico, non è solo questione di dettaglio e di plastica minore, come quella dei capitelli, delle cornici, delle decorazioni che non aggettano dai pilastri, dal vano delle finestre, ecc., ma soprattutto come intenzione di rendere ancor più netta la definizione spaziale che già avevano gli elementi e l'articolazione degli spazi nel romanico. Il confronto della Borsa di Amsterdam con esso, finora stabilito solo sul piano del gusto e dell'istanza «morale», ossia della schiettezza costruttiva, andrebbe approfondito soprattutto per quanto riguarda il rapporto dialettico della conformazione spaziale, il gioco norma
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deroga che quest'opera del tardo Ottocento stabilisce col suo modello medievale. Nello stilecodice romanico e segnatamente nel suo principale tipo edilizio, la chiesa basilicale, tutto era costruttivamente e spazialmente chiaro e distinto: la metrica modulata delle navate, il rapporto semplice fra quella maggiore e le minori, il ritmo delle facciate interne coi matronei, la soluzione della facciata principale che altro non era se non il riflesso sulla fronte principale della sezione trasversale dell'edificio, ecc. Berlage riprende quasi puntualmente queste caratteristiche; cosicché, contrariamente a Richardson, al quale viene spesso collegato, del romanico non apprezza tanto la massiva struttura degli archi, che nella Borsa diventano poco più che sagome di aperture, né il gusto barbarico dei grossi conci di pietra (di cui l'Americano fa uso magistrale) che qui si traducono in un uniforme paramento di mattoni, quanto appunto la intelligibile conformazione e funzione spaziale di ciascuna parte della cattedrale romanica, il cui stesso messaggio religioso era affidato alla semplicità commensurabile delle parti e dell'intero organismo. E veniamo a parlare di ciò che lega o distingue l'opera in esame con la basilica romanica. Che la volumetria interna dell'edificio olandese si traduca, al pari delle chiese medievali, in sagomatura di facciata lo abbiamo già notato, che la stessa fronte principale denunzi una sorta di navata centrale (il salone della Borsa merci) e due navate laterali (quelle degli uffici), risulta evidente, nonostante la presenza della torre e del corpo della scala diposti ai due lati dello stesso prospetto. All'interno e parliamo del celebre invaso del salone il parallelo col modello medievale è meno palese. ma pure sussiste. Paragonato alla navata centrale della basilica romanica il grande ambiente della Borsa presenta, come quella, le navatelle laterali, lo stesso ritmo di due arcate tra un pilastro e l'altro, una teoria di logge sopra logge assimilabile, per così dire, ad un doppio matroneo, soprattutto quel senso di un interno che vale come un «esterno», là dovuto, nonché all'ampiezza, alla maggiore altezza della navata che prende luce al di
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sopra delle navatelle e dei matronei, qua dovuta alla copertura in ferro e vetro che illumina dall'alto il grande invaso. L'analogia però è totalmente trasfigurata non solo per le innovazioni morfologiche, quali la struttura metallica ad arcate reticolari ogivali della copertura, contrassegno della modernità dell'opera, i già menzionati muri rasati con la riduzione al piano di tutte le articolazioni, ecc., quanto soprattutto per il diverso accento dimensionale, che conferisce all'opera un significato affatto moderno. Considerato il salone nella sua globalità, ovvero percorrendolo e distinguendo la sua funzione da quella delle logge con gli uffici che lo affiancano, cade l'idea di confrontarlo con una navata centrale di basilica romanica per far posto ad un'altra ferma restante la sua caratteristica di spazio interno che vale come un « esterno » quella cioè di una piazza medievale circondata da portici e da logge. Quest'ultima similitudine è già stata notata da altri e richiamandola qui entriamo nel vivo dell'interpretazione simbolicosemantica dell'opera. Come osserva G. Grassi la Borsa di Amsterdam «è un edificio pubblico la cui importanza rappresentativa può essere afferrata a pieno solo se si pensa alla grande tradizione mercantile olandese; è situato nel nodo vitale della città, affacciato sul mare...; [Berlage] partendo dalla impostazione schematica di un palazzo per uffici, volle vedere nei liberi rapporti di lavoro la condizione per il formularsi dello spazio. Così nelle sale di contrattazione, aperte alla luce attraverso la copertura in ferro e vetro, si ispirò alle piazze civili medioevali, dove si stringevano legami fra uomini liberi, e non certo a quegli edifici improntati a proterva monumentalità che si erano innalzati nelle maggiori capitali europee» [G, Grassi, Immagine di Berlaghe, in «Casabellacontinuità, marzo 1961, n.249] Ma ad affrancare l'opera che studiamo da tali edifici, oltre a questo richiamo eticocivile, che riprende, sul piano dei contenuti, la continuità con la tradizione, che l'uso dei materiali, la distinzione «calma» [ Giedion riporta una frase di Berlage relativa a quella qualità che distingue i monumenti antichi dalle costruzioni di oggi: la calma!» e chiara delle parti nel tutto
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riprendono sul piano delle forme, contribuiscono altre valenze semantiche. Il senso un po' cupo e greve dell'intero spazio interno è sottolineato, talvolta per contrasto, dagli elementi di dettaglio, quali il bianco dei giunticapitello che si stacca dal rosso scuro dei mattoni, gli elementi lineari della copertura metallica, la trama rada delle catene e dei tiranti verticali al cui incrocio sono disposti dei fermagli, i lunghi cavi che assicurano alle travi le lampade dal pregevole disegno come quello, singolarissimo, dei lampioni posti all'esterno, gli scanni austeri e la solida severità dell'arredo in legno, ecc. Tutto ciò conferisce segnatamente alla sala principale della Borsa un significato laico ed ecclesiastico insieme, un misto di cattedrale e di filanda. Anche Grassi parla di «fascino “mistico” (“fides qua creditur” nel lavoro) di questa sala ». Dopo la Borsa, che a sua volta faceva seguito ad una serie di edifici ecletticorinascimentali, Berlage compie un viaggio negli Stati Uniti; ne ritorna fortemente influenzato dall'opera del primo Wright e ne diffonde la conoscenza in Olanda. Le sue fabbriche più significative oltre quella esaminata sono la Holland House a Londra del 1914 e il Gemeente Museum a L'Aja terminato nel 1934. In campo urbanistico, dove svolse una intensa attività come consulente presso le amministrazioni di Rotterdam, Utrecht, L'Aja, Berlage oppone all'idea della cittàgiardino il valore socioculturale della grande città, favorito in ciò dalla particolarissima condizione territoriale olandese, dal più lento diffondersi qui dell'industrializzazione e dalla stessa legislazione urbanistica del paese. La sua opera più significativa in questo settore fu il quartiere Zuid di Amsterdam, progettato nel 1917. Come tutti i precursori del Movimento Moderno svolse anche una efficace azione teorica e divulgativa informata al rinnovamento del rapporto fra architettura e società. E su questo tema, svolse la relazione presentata al primo congresso del ClAM tenutosi a La Sarraz nel 1928, cui partecipò quale unico esponente della vecchia generazione. Alla sua opera si collegano, sia pure per diversi motivi, il che dimostra l'ampiezza del suo insegnamento, le due principali tendenze
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dell'architettura moderna in Olanda, il gruppo di Wendingen e quello di De Stijl. Capitolo secondo L'ART NOUVEAU Il nostro intento di periodizzare la storia dell'architettura contemporanea con la «costruzione», per ogni sua fase, di un codice stile tipicoideale risulta più agevole per l'Art Nouveau di quanto non sia stato per l'eclettismo storicistico. Nel precedente capitolo infatti l'esigenza di informare il lettore su una serie di «fatti» preliminari a tutto lo sviluppo dell'architettura moderna e quella di inglobare questa sorta di generale premessa nell'idea stessa di eclettismo storicistico ci hanno impedito di realizzare un modello storicostrutturale chiaro ed univoco, cui riferire tutte le opere coeve, ben oltre evidentemente le poche analizzate in dettaglio. Con l'Art Nouveau, sia perché rimangono invariate o in via di sviluppo le condizioni storiche generali, sia perché questo stile già traduce in forme tali condizioni, introitandole, per così dire, nelle vicende interne dell'architettura e delle arti applicate, sia ancora perché esso ebbe una vita più breve dell'altro, sia infine perché sin dal suo sorgere si pose appunto come uno stile unitario, riteniamo che risulti più netta la formulazione del nostro modello tipicoideale Ricordando che questo si realizza mediante l'accentuazione unilaterale di uno o pochi punti di vista e mediante la connessione di una quantità di fenomeni particolari, corrispondenti non tanto alla «realtà dei fatti», quanto soprattutto a quei punti di vista unilateralmente posti in luce, onde formare un quadro concettuale in sé unitario, ci tocca esplicitare all'inizio del nostro discorso sull'Art Nouveau quali sono l'accentuazione suddetta e i fenomeni particolari che ad essa intendiamo connettere. Tale accentuazione o scelta è quella per cui questo stile non ci interessa tanto per la sua dibattuta origine, né per la sua prematura fine, connessa alla prima guerra mondiale, né ancora per le grandi personalità creative che lo inventarono o lo adottarono,
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quanto perché esso costituì un decisivo e riconosciuto «inizio» della moderna vicenda architettonica, anzi una sorta di unità genetica fondamentale che trasmise la grande eredità culturale dell'Ottocento al nostro secolo. Quest'assunto dell'Art Nouveau come il gene dell'architettura moderna, nel quale, come in ogni processo ereditario, sono riconoscibili aspetti ancora attuali, imporrebbe a chi ne voglia studiare la struttura di connettere ad esso molti più caratteri, fenomeni e idee di quanto abbia fatto finora la ricerca storiografica. L'origine dell'Art Nouveau è stata indicata in una serie di circostanze concomitanti tra le quali, a seconda dell'autore, di volta in volta emergono il Gothic Revival, il movimento delle Arts and Crafts, la costruzione in ferro, l'influenza dei pittori preraffaelliti, impressionisti, simbolisti, la moda degli oggetti orientali, segnatamente giapponesi, di cui uno dei maggiori importatori fu l'inglese A. L. Liberty (donde il nome, non privo di doppio significato, fra i tanti che ebbe questo stile), il gusto legato a nuove tecniche particolari come quella della curvatura del legno adottata da Thonet sin dal 1830, ecc. Tutte queste componenti apportarono un contributo alla nascita del nuovo linguaggio, ma è assai arduo definire quale fu quella decisiva. Per parte nostra la genesi dell'Art Nouveau, che peraltro non fu solo uno stile architettonico ma informò tutto il costume di un'epoca, va vista come l'esito di una lunga evoluzione di problemi culturali e di moti del gusto che per tutto l'Ottocento miravano a costruire ex uovo uno «stile». Nulla togliendo alla fantasia geniale di Victor Horta, che diede di questo la prima completa incarnazione architettonica con la casa Tassel costruita nel 1893 in rue de Turin 12 a Bruxelles, notiamo che se il suo edificio non fosse stato preceduto da una lunga evoluzione del gusto (termine che usiamo nel senso datogli da L. Venturi, ovvero esteso a tutti i fattori socioculturali che accompagnano la storia dell'arte) e non avesse risposto ad una aspettativa di qualche decennio, non avrebbe riscosso il successo immediato, né l'enorme influenza che ebbe. Se poi ci chiediamo quali siano stati i precedenti dell'opera di Horta, si può più concretamente pensare, rifacendosi cioè alle esplicite
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dichiarazioni dell'architetto, a ViolletleDuc, ai pittori post impressionisti, ad un interesse organico, ma non naturalistico che proprio in quegli anni veniva teorizzato dall'estetica dell'Einfühlung. Caratteri invarianti dell'Art Nouveau. Tralasciata la vexata quaestio dell'origine di questo stile ed entrando nel vivo degli aspetti di esso che vogliamo accentuare, ovvero la forma che esso diede ad una tradizione culturale con le relative implicazioni per il futuro, dobbiamo rifarci alla fenomenologia dei suoi anni migliori e cominciare a distinguere i caratteri invarianti dell'Art Nouveau dalle varie produzioni nazionali ispirate a questo codicestile. Parlando di caratteristiche costanti da un architetto all'altro, da un paese all'altro, incontriamo il primo aspetto peculiare del fenomeno di cui ci occupiamo: nonostante le diversità interpretative, dovute ai vari ambienti in cui sorse, l'Art Nouveau fu uno stile internazionale. E questa è la prima eredità ottocentesca, assorbita ma debitamente trasformata. Erano stati tali anche il neoclassicismo, il neogotico e in generale tutto l'eclettismo storicistico, ma con accenti decisamente diversi; le forme del mondo classico erano state un ideale super nazionale al quale ci si ispirava o in nome della loro perfezione «razionale» o presumendo che il proprio paese, la propria città, amministrazione, istituzione, ecc. fosse il moderno erede di quell'antica civiltà d'arte e di cultura. Il neogotico poi, mentre aveva connotazioni d'ordine universale, l'ideale religioso ad esempio, aveva anche nei paesi nordici il disegno di una rinascita delle diverse tradizioni nazionali, per non parlare di una sorta di rivalsa della cultura settentrionale contro l'antica egemonia classicorinascimentale del Sud europeo. In ogni caso il carattere internazionale dell'eclettismo si rifaceva a vari modelli, tutti distanti nel tempo. L'internazionalismo dell'Art Nouveau fu decisamente sincronico sia per quanto concerne le forme che per quanto riguarda i significati socioculturali. Che esso fosse internazionale era nella logica del sistema capitalistico, negli
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ideali e negli interessi di quei paesi industrialmente più sviluppati che avevano incrementato e tratto i maggiori vantaggi dalla liberalizzazione degli scambi, dal superamento di un certo tipo di nazionalismo, dai moderni sistemi di trasporti e di comunicazioni. D'altro canto, anche l'altra classe protagonista della rivoluzione industriale, quella del proletariato, e gli intellettuali che ne assunsero la guida avevano da tempo compreso che, sia in nome di valori ideali quanto in quello di pratici interessi, dovevano trarre la loro maggiore forza dall'unione internazionale. E cogliamo qui l'occasione per parlate del problema politicosociale dell'Art Nouveau. È stato osservato che esso fu espressione di una cultura di classe, anzi si è visto nell'estetismo di questo stile il tentativo della borghesia di comporre il conflitto di classe, la «bellezza» e il basso costo dei manufatti compensando più forti e sostanziali esigenze del proletariato che rimanevano inappagate. Che l' Art Nouveau fosse frutto culturale della classe egemone è indubbio, addirittura ovvio, che fosse una cultura classista nel senso che si sviluppò a vantaggio di una classe a scapito dell'altra è assai meno convincente. Considerare le più serie rivendicazioni del proletariato appagate dall'«ornamento» dei prodotti liberty significa attribuirgli una ingenuità che come classe non ebbe mai. È vero che il nuovo stile presentò connotazioni di progressivo ottimismo, di gioia di vivere, di gusto per lo spendere e il consumare; ma questi aspetti, ereditati dalla cultura ottocentesca e legittima esigenza di ogni società in via di sviluppo, non riflettevano tanto l'astuzia del padronato, quanto quella dinamica fra produzione e consumo, quella dialettica tra domanda ed offerta che è alla base della moderna civiltà industriale. Certo, anche questi aspetti stanno nella logica dell'economia capitalistica, ma abbiamo l'obbligo di distinguere all'interno di essa quei fattori socialmente più avanzati che sono diventati storico patrimonio culturale per tutti: l'aver, ad esempio, l'Art Nouveau qualificato una produzione di manufatti accessibile all'intera sfera sociale, la nascita con esso del moderno industrial design coi limiti ma anche con la sua primitiva e più genuina espressione che
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vedremo meglio più avanti. Insomma se l'Art Nouveau fu lo stile dei quartieri signorili e dei villini borghesi (ma sono i borghesi intellettualmente e socialmente più avvertiti) fu anche lo stile dei grandi magazzini e delle metropolitane, delle case del popolo (una di esse fu il capolavoro di Horta) e persino delle filande, che fecero da sfondo alle più impegnative battaglie sindacali, non le prime naturalmente, ma quelle cui il proletariato partecipò con maggiore coscienza di classe e non più in pochi paesi, ma in tutti quelli in cui era ormai giunta la civiltà industriale. Il secondo aspetto invariante dell'Art Nouveau fu quello di un completo affrancamento dalle forme del passato. Dopo oltre un secolo in cui sconvolgenti innovazioni ideologiche, tecnicoscientifiche ed economiche avevano segnato la nascita del mondo contemporaneo e avevano inciso direttamente in campo architettonico e urbanistico con la formazione di nuove tipologie edilizie, con la quantificazione degli alloggi popolari, con il risanamento, la ristrutturazione e in pratica la creazione della moderna città, senza tuttavia aver prodotto il tanto auspicato «stile» nuovo, oggetto di tante teorizzazioni, concorsi e convegni, ecco sorgere con il liberty il codice più aderente e più adatto ad esprimere questi nuovi messaggi. L'affrancamento dagli stilemi tradizionali può dirsi basato su tre principali componenti fra loro intimamente correlate: l'accettazione della moderna tecnologia, anzi la volontà di «piegarla» alle nuove istanze del gusto, la definizione di questo derivata da un nuovo modo d'intendere il rapporto artificio natura, il sostegno teoricoestetico dell'Einfühlung che a sua volta definiva tale rapporto. A questa triade morfologica, che specificheremo meglio più oltre, si associarono vecchi e nuovi contenuti fusi in una unitaria quanto medita «volontà d'arte» (Kunstwollen). Certo, non mancarono in questo stile totalmente nuovo, a seconda degli artisti e delle scuole nazionali, ora un richiamo al medioevo (Mackintosh e più ancora Gaudi), ora uno al classicismo (Wagner, Olbrich, Hoffmann), ora uno di tipo vernacolare (il primo Van de
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Velde), ecc., ma questi richiami, peraltro completamente trasfigurati, non erano frutto di eclettiche scelte, bensì derivanti dalla tradizione e dalla formazione di questi architetti. La terza caratteristica invariante dello stile, che si realizza più o meno completamente in ordine al grado d'industrializzazione dei paesi interessati al fenomeno è l'accorciamento delle distanze, la paritetica considerazione per tutti i settori toccati dal nuovo gusto, dall'abbigliamento alla grafica, dalle arti figurative al teatro, dalla pubblicità all'arredamento, dall'architettura all'urbanistica. In ciò si realizza quell'ideale unificazione tra arti maggiori e minori, cosiddette pure e applicate che non fu solo nutrita da Morris, ma da tutta la cultura ottocentesca più avvertita: ne parlarono e ne studiarono gli aspetti Semper, ViolletleDuc, Cole, Laborde, ecc. L'Art Nouveau unifica questi vari contributi, non solo superando il preconcetto dualismo artigianatoindustria, ma soprattutto dando a quelle teorie e intenzioni unificatrici una ben precisa forma stilistica. È questa forma, questa «riduzione» formale, che traduce il dibattito ottocentesco sul problema dei manufatti in un tema avvertito da tutti e quindi di grande rilievo sociale; anzi, solo producendo una «moda» fenomeno che consideriamo di importanza primaria nella storia della cultura e dell'arte, specie nella contemporanea civiltà industriale di massa si poteva diffondere quell'idea morrisiana di architettura come insieme di tutte le modificazioni e le conformazioni compiute dall'uomo per assolvere alle proprie necessità. Com'è stato osservato, con l'Art Nouveau si «fissa il principio della “qualità ” nel prodotto industriale. E in tanto lo fissa, in quanto l'idea della forma come ritmo o musicalità disgiunti da una funzione rappresentativa costituisce la prima intuizione di un bello “che si attua piuttosto nella ideazione che nel processo esecutivo e che si pone come un a priori dell'utile. Sostituendo al “feticismo del prodotto o della merce” il feticismo del progetto, del design cesserà infatti di essere unico e irripetibile e varrò, invece, proprio per la sua infinita ripetibilità, cioè per la sua illimitata, livellatrice espansione in tutta la sfera sociale» 5[G. C.
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Argan, Lo Art Nouveau in Studi e note, Bocca, Roma 1955, p.281]. In verità, lo stile di cui ci occupiamo anticipa soltanto il principio della quantità come valore, ma non effettua quel processo di quantificazione di un prototipo che sarà peculiare al disegno industriale; i vari Horta, Van de Velde, Mackintosh, Olbrich sono troppo impegnati in esperienze varie, talvolta eterogenee, dimostrative della versatilità del loro stile, per condurre una ricerca lunga e paziente sulla progettazione di un prototipo che nessuna industria può e vuole produrre in migliaia di esemplari. Pertanto l'Art Nouveau, nonostante qualche eccezione e qualche significativo precedente [Ci riferiamo in particolare a caso della produzione delle sedie di Thonet diffuse in migliaia di esemplari in Europa e in America sin dalla metà del secolo] rimase ad un livello produttivo artigianale. Tuttavia, se con esso non si attua il moderno industrial design, è certo che con questo stile il problema teorico e l'indicazione metodologica del design restano quasi completamente definiti. Infatti, mentre la produzione britannica di ascendenza morrisiana nella sua prescelta intenzionalità artigianale identificava la figura dell'artista con quella dell'esecutore, la produzione dell'Art Nouveau, accogliendo «intenzionalmente» il processo industriale, determina il rapporto artistafabbricante o, quanto meno, quello fra artista ed esecutore, nel quale al primo è devoluto il compito della «qualità» dei manufatti. Le altre caratteristiche invarianti dello stilecodice che studiamo vanno ricercate in architettura sul piano morfologico o nell'ambito ad esso assai prossimo e sono: l'accentuazione lineare su tutte le altre componenti linguistiche; l'uso del ferro, la cui preparazione industriale in profilati consentiva il suo più vario impiego e il massimo di varietà nelle conformazioni lineari; l'adozione congiunta di ferro e muratura; la tendenza anzi ad usare più materiali in uno stesso edificio, la pietra, il mattone, il vetro, la ceramica, il legno, la varietà dei colori, in ciò determinando non solo l'esuberanza dello stile, ma anche il programma di raggruppare più settori produttivi; ancora in questo proposito inglobante va considerato il fatto che, come all'interno l'Art
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Nouveau modella gli spazi con un arredamento e degli oggetti dalla rigorosa unità stilistica, così all'esterno tende a fondere l'architettura alla natura, la casa al giardino, i complessi edilizi al quadro dell'intera scena urbana. Se l'architettura dell'ingegneria aveva risolto il rapporto con la natura sfruttando la trasparenza delle sue «grafiche» strutture, oppure inglobando materialmente alcuni elementi naturali, si pensi al modello delle serre e allo stesso palazzo di Paxton, l'Art Nouveau instaura un rapporto ancor più stretto con la natura: l'organicità di questa informa e ispira la stessa conformazione architettonica. A tal proposito va menzionata un'altra caratteristica primaria di questo stile, cui abbiamo già accennato: la tangibile incarnazione in esso della teoria estetica dell'Einfiihlung. Di questa ci siamo occupati specificamente altrove, ma poiché i suoi segni sono tangibilmente presenti in molte opere, poiché serve a distinguere le due principali correnti dello stile in esame, quella organica e quella geometrica, poiché infine proprio la sua presenza denota il grado qualitativo del migliore Art Nouveau, differenziandolo sensibilmente dalla produzione degli epigoni e dei centri periferici, ne dobbiamo far cenno anche in questa sede, sottolineando che l'Einfühlung vale a spiegare sia una delle principali matrici stilisticoconformative dell'Art Nouveau, sia la sua valenza semanticocomunicativa. Senza dire che il rapporto con la suddetta teoria costituisce un altro segno dell'eredità ottocentesca che il nuovo stile trasmise al nostro secolo e che presenta ancor oggi aspetti attuali. Einfühlung e «astrazione». L'estetica dell'Einfühlung (termine traducibile con «introduzione del sentimento», «sentire insieme», «simpatia simbolica», consenso, empatia) nacque dal connubio del pensiero idealistico e della ricerca psicologica per rispondere alla domanda sul perché gli uomini sono attratti o respinti dalle forme dei fenomeni, sia d'arte che di natura. Sintetizzando i risultati di molti studi sul rapporto tra osservatore e
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oggetto) fra artista e opera, fra opera e fruitore, tutti sorti nell'ambito della cultura tedesca, la Nicco Fasola scrive: «Nulla di ciò che percepiamo agisce puramente per se stesso, ma tutto agisce insieme, come risonanza dell'affine che è in noi» 4 G. Nicco Fasola, Ragionamemti sulla architettura, Macrì, Cittaà di Castello 1940, p.132]. Veniva così a determinarsi una serie di simboli e di forme la cui presenza consentiva una lettura semantica dell'architettura. Le linee verticali, orizzontali, oblique, le forme geometriche piane e solide, le illusioni ottiche ed i colori si associano e vengono accolte o respinte grazie ad analoghe sensazioni preesistenti in noi, come il senso di calma, di equilibrio, di incertezza e simili. Fra tutti gli studiosi che si occuparono di tali problemi, l'architetto Henry Van de Velde ne diede una interpretazione e ne ricavò una metodologia che rese l'Einfühlung uno dei principali sostegni teorici dell'Art Nouveau. «La linea è una forza egli scrive nel 1902 che agisce in modo simile alle forze naturali elementari: più lineeforza poste in reciproca presenza, agendo in senso contrario nelle stesse condizioni provocano gli stessi risultati delle forze naturali in reciproca opposizione [...]. Operano in tali linee le stesse forze che in natura sono presenti nel vento, nel fuoco e nell'aria. Il ruscello che precipita contro una pietra che si oppone al suo corso cambia direzione e dirige le sue acque verso la riva opposta a scavarne e a sbrecciarne i margini. I venti soffiando sulle possenti cime delle montagne si rompono su quei massi incrollabili e il fuoco acceso sotto le volte di pietra si stende, corre e si lancia alla ricerca di sfoghi» 5 H. Van de Velde, La linea è una forza, in «Casabellacontinuità», marzo 1960, n. 237. In questo saggio edito nel 1923 l'autore riprende il concetto di lineaforza, già enunciato nel suo libro Laienpredigten del 1902. Con queste osservazioni Van de Velde non solo stabilisce un rapporto di azione e reazione ritrovabile tanto in natura che nel calcolo statico, ma anche, con un procedimento per immagini, spiega quel gusto sinuoso della linea, cosiddetto «a colpo di frusta», tipico del liberty, riferendolo appunto all'andamento dinamografico delle forze naturali. Tuttavia, ed
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è ciò che più conta, «la linea trae forza dall'energia di chi l'ha tracciata». Con questa precisazione Van de Velde affranca l'opera dell'artista da un passivo mimetismo naturalistico. Dal canto suo Horta affermava, Je laisse la fleur et la feuille et je prends la tige, riconfermando la sua ispirazione organica ma non naturalistica. Ma se i cenni suddetti bastano a dare un'idea della relazione fra l'Einfühlung e lo stile di cui ci occupiamo, essi spiegano solo la tendenza organica che si sviluppò nell'ambito di questo, non l'altra che pure ebbe un grande rilievo. Infatti, nell'Art Nouveau sono distinguibili due linee del gusto è con ciò cominciamo ad affrontare il tema dei fattori variabili di questo codicestile , due famiglie morfologiche: l'una caratterizzata dalle forme concavoconvesse (Horta, Van de Velde, GaudÍ), l'altra impostata prevalentemente su forme dal rigore geometrico (La scuola di Wagner, Mackintosh, il primo Wright). Ora, è lecito associare anche alla seconda tendenza la teoria dell'Einfühlung? Una risposta può trarsi dall'opera di Worringer Cfr. Abstration und Einfühlung del 1908 e Formprobleme del Gotik del 1912. Egli prosegue gli studi su tale teoria, ma li associa ad una nuova ricerca riguardante l'«astrazione», da lui considerata come esperienza storica ricorrente. A suo dire, esisterebbero nell'uomo un'esigenza psicologica che lo spinge verso l'organico, che determina in lui un rapporto di simpatia con il bello di natura e una opposta esigenza, sempre di tipo psicologico, che lo spinge verso la perfezione matematica, l'oggettività delle forme regolari, l'astrazione. Detti impulsi sarebbero connessi alle fasi evolutive dei fenomeni percettivi e concettuali della storia umana. La tendenza all'astrazione si troverebbe nell'uomo primitivo esposto e indifeso nei confronti della realtà fenomenica, che riesce solo a percepire, ma difficilmente a modificare secondo le proprie esigenze; creazione artistica per lui sarebbe l'evasione dal caotico mondo percettivo per conformare immagini «concettuali» e controllate, rientranti nel dominio dell'astrazione geometrica. La tendenza opposta, quella dell'organicismo vitale, si troverebbe più tardi nell'arte classica. In una
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cultura cioè dove l'individuo è divenuto capace di controllare l'arbitrarietà del mondo fenomenico al punto da interpretare col proprio sentimento quella realtà, da goderla, da immedesimarvisi. Prescindendo da queste considerazioni storicoantropologiche, peraltro assai discutibili, è significativo che entrambe le correnti, quella organica dell'Einfühlung e quella geometrica dell'astrazione siano interpretate da un'unica visuale fisiopsichica; la psicologia diventa la chiave conformativa e comunicativa dell'Art Nouveau, di tutte e due le tendenze che lo compongono. Considerate da una prospettiva odierna, le conclusioni ricavabili dal contributo di Worringer risultano assai più significative di quanto egli stesso supponeva. Infatti, l'aver associato alla famiglia morfologica dai motivi concavoconvessi l'Eifühlung e a quella dai ritmi geometrici l'astrazione, poiché questo organicismo e geometrismo coesistettero nello stesso periodo e nella stessa «cultura» dell'Art Nouveau, è lecito includere in esso molte più opere e personalità creative di quanto prima si riteneva. In pari tempo, riconoscendo all'organicità e all'astrazione una comune matrice psicologica, specie per ciò che concerne la valenza semantica, appare evidente che esse furono, in un certo senso, intercambiabili; si ebbero cioè opere che, pur essendo nella linea organica, presentavano un significato, per così dire, «geometrico», razionale, funzionalista (pensiamo non tanto ai capolavori emergenti, ma a quella colta produzione «letteraria» che darà luogo al protorazionalismo, segnatamente in Germania) e opere che, totalmente informate all'astrazione geometrica, ebbero un significato organico ed è il caso del primo Wright. Nel loro impianto spaziale le sue Prairie Houses precorrono di qualche decennio il linguaggio architettonico europeo, ma rimangono pur sempre nell'ambito della cultura Art Nouveau. Oltre che nella plastica minore e nei partiti decorativi, dove l'affinità con il gusto di Mackintosh è incontestabile, le prime opere di Wright, dalla casa Willitts all'Unity Temple, dal Larkin alla casa Rohie si legano a questo codicestile nella misura che traducono in conformazione spaziale (in
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Raumgestaltung, un'altra teoria europea strettamente imparentata con l'Einfühlung) la poetica della lineaforza di esso. In dette opere l'Art Nouveau, invece di scadere in florealismo naturalistico o, all'opposto, in purismo moralistico, dà vita ad un nuovo senso della geometria, di una geometria cioè non aprioristica ma legata alla realtà fisio psicologica dell'organismo architettonico. Cosicché possiamo dire che nel primo Wright e dietro di lui negli architetti la cui opera sta fra Art Nouveau e protorazionalismo, trovano una perfetta sintesi le due tendenze indicate da Worringer. Le varianti dell'Art Nouveau. Poiché la nostra storia non è condotta per profili di singoli autori, ma per codici e sottocodici strutturali, parleremo dell'opera di alcuni maestri per ciò che concerne il loro apporto alla formazione di questi, che indicano peraltro la linea di tendenza assunta dallo stile nei vari paesi. In Belgio, dove nacque, l'Art Nouveau trovò un ambiente particolarmente favorevole al rinnovamento figurativo. Accanto ai grandi impianti industriali, agevolati anche dalle risorse naturali del paese, in un clima di progressismo, di rinnovamento e di ottimismo, si sviluppò un'industria leggera particolarmente attenta, negli anni che precedettero e accompagnarono la linea Art Nouveau, al movimento promosso dagli inglesi. Sin dal '92 a Bruxelles esposero artisti britannici legati alle Arts and Crafts, mentre mecenati, intellettuali e artisti organizzarono mostre dei principali pittori impressionisti e post impressionisti. La rivista «L'Art Moderne», fondata nel 1881, il gruppo d'avanguardia Les XX, trasformatosi nell'associazione La libre Esthétique furono il frutto di una cultura autonoma, ma anche istituzioni che importarono in Belgio tanto l'arte «industriale» degli inglesi, quanto l'arte «indipendente» dei francesi. In un ambiente così attivo e informato emergono due architetti, Victor Horta (18611947) ed Henry Van de Velde (18631957). II primo, cui
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si deve l'«invenzione» dell'Art Nouveau e le sue manifestazioni più autentiche, tanto da poter identificare questo stile con il suo nome, occupa uno dei posti di maggiore rilievo nella storia dell'architettura contemporanea per le opere realizzate nell'ultimo decennio dell'Ottocento e nel primo del nostro secolo. Tali opere, fra le quali ricorderemo le case unifamiliari Tassel del '93, Winssinger del '94, Solvay del '94, Van Eetvelde del '95, Horta del '98, Aubecq del 1900 e gli edifici pubblici quali la Maison du Peuple del '95 e i magazzini «A l'Innovation» del 1901, nonché eccezionali prove di valore estetico e di rivoluzionaria svolta nella vicenda dell'architettura moderna, contrassegnando anche un particolare momento di storia sociale e di costume. I committenti di Horta appartengono alla borghesia più avanzata di Bruxelles, sono grandi professionisti, industriali, scienziati, molti dei quali legati al circolo di Armand Solvay, uno degli eredi della grande industria internazionale della soda. Questi, oltre ad essere mecenate delle arti e delle scienze riuniva nel suo istituto scienziati quali Planck, Rutherford, Mme Curie, Poincaré e Einstein , era attento osservatore delle riforme sociali che negli anni a cavallo del secolo fecero seguito alle più accese battaglie sindacali; com'è stato ricordato nella sua azienda furono adottati provvedimenti sociali con cinquant'anni d'anticipo rispetto ad analoghe riforme attuate in altri paesi. 7 Cfr. F. Borsi L’opera di Horta, in F. Borsi e P. Portoghesi, Victor Horta, Edizioni del Tritone, Roma 1969, p.75 Non a caso in questo clima socioculturale, in cui il capitalismo va assumendo nuove forme e in cui la produzione manifatturiera tende ad espandersi in tutta la sfera sociale, Horta realizza il suo capolavoro, la Maison du Peuple, ossia la sede del partito socialista belga, della sua cooperativa di consumo, del sindacato operaio di Bruxelles. Alla fine della prima guerra mondiale, dopo un soggiorno in Inghilterra e in America, Horta riceve grandi riconoscimenti ufficiali, ma il suo genio declina in opere che non sono classicistiche, come pretende tanta critica, ma del tutto imparagonabili a quelle che egli aveva prodotto negli anni '90. Insomma la vicenda artistica di questo architetto segue
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fatalmente il destino dello stile che egli aveva iniziato e di cui rimane la più alta espressione. A differenza di Horta, che rappresenta, per così dire il «talento» del nuovo stile e che concentrò nell'architettura vera e propria ogni suo interesse, Van de Velde appare come l'artista colto, interessato ai problemi teorici, alla diffusione del nuovo stile, al dibattito culturale, all'insegnamento e indirizza ogni suo sforzo, almeno all'inizio della sua carriera, nel settore delle arti decorative e industriali, anche se per tutta la sua vita rimane fedele all'idea che un metodo unitario debba informare ogni settore progettuale. Van de Velde contribuisce alla conoscenza dell'Art Nouveau in Francia, dove espone alcuni suoi arredamenti nel '95 presso il negozio di Sigfried Bing, e soprattutto in Germania, dove svolgerà la gran parte della sua attività professionale e didattica dal 1902 dirige il Weimar Kunstgewerblicher Institut che diventerà nel 1919 il Bauhaus di Gropius innestando l'apporto originario e altamente espressivo del liberty belga ai caratteri e alle esigenze del tutto particolari che questa tendenza, come vedremo, ebbe nella vicenda tedesca. Volendo definire le caratteristiche della tendenza in esame nei principali paesi europei, cominciamo dal Belgio di cui ci siamo già occupati, che può considerarsi non tanto una variante, ma come il paradigma dello stile stesso, rispetto al quale le altre produzioni nazionali si pongono appunto come variazioni e come sottocodici, valutabili proprio nei confronti di esso. Un altro centro per la vicenda dei codicestile in esame si ebbe in Scozia, a Glasgow, con l'opera di Charles Rennie Mackintosh (1868 1928). Questi da un lato eredita la tradizione delle Arts and Crafts, che negli anni '90 viene da qualche critico definita ProtoArt Nouveau, e segnatamente il contributo architettonico di Voisey, e dall'altro elabora un suo originale apporto al nuovo stile in una sfera, per così dire, privata e nell'ambito della scuola d'arte di Glasgow 8 Pur aendo avuto una risonanza internazionale, il lavoro di Mackintosh si svolse nella piccola cerchia della scuola citata e all'interno di un nucleo
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familiare; Mackintosh ed il suo compagno H. Macnair sposano le due sorelle Macdonald, anch'esse interessate alle arti decorative, formando il gruppo operativo noto come « i quattro » di Glasgow. Nell'edificio di questa scuola, costruito nel '97, nell'ampliamento dello stesso con la sistemazione della biblioteca del 1907, nella Hill House del 1903, nei mobili esposti alla Secessione di Vienna del 1900 e alla Esposizione di Torino del 1902, per citare le opere principali e le maggiori manifestazioni fuori dall'Inghilterra, Mackintosh fornisce una versione dell'Art Nouveau sensibilmente diversa da quella belga. Essa consiste in una progressiva riduzione alla geometria delle fluenze lineari che informano il disegno degli oggetti, della decorazione, della plastica minore. Infatti, mentre le decorazioni pittoriche murali, gli oggetti minuti, le vetrate, gli elementi architettonici minori sono informati ad un linearismo che, sebbene diverso dai ritmi concavoconvessi di un Horta, accusa francamente il suo carattere decorativo, manmano che si passa da questi settori, per così dire accessori, ai mobili e all'architettura, prevale il gusto dei piani, dei volumi, del loro incastro geometrico. Schematizzando ulteriormente questi accenti dello stile di Mackintosh, possiamo dire che lo spazio interno dell'architettura e gli oggetti che esso contiene appartengono al dominio della linea, del colore, del gioco prezioso di quadrettature e di morbide fluenze, mentre lo spazio esterno di essa appartiene al dominio del rigore volumetrico, dei piani ad incastro, della geometria delle lastre di pietra, della chiara uniformità coloristica degli intonaci. Una veste esterna scarna e rigorosa riflette solo nella volumetria la ricchezza e la varietà degli interni; e tutto ciò viene svolto con una straordinaria coerenza, una perfetta sintesi di organicità e astrazione. Anzi proprio questa coesistenza, che segna un declino degli accenti dettati esclusivamente dal gusto dell'Einfühlung, rappresenta in definitiva lavariante apportata dal gruppo di Glasgow rispetto allo stile belga. Una terza variazione dell'Art Nouveau è quella che viene dall'opera di Antoni Gaudí (18521926), che va considerata in un'ottica particolare. Egli, infatti, sconvolge tutte le periodizzazioni «lineari» della moderna
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storiografia («da Morris a Gropius», «da Ledoux a Le Corbusier»), donde la sua difficile inclusione in opere di sintesi, specie se redatte sulla falsariga di un evoluzionismo razionalista. D'altra parte, non bisogna cadere nella superstizione opposta, quella di un Gaudí genio isolato fuori dalla storicità del tempo suo. È vero proprio il contrario: il grande architetto catalano vive tutta l'esperienza culturale contemporanea, dall'eclettismo storicistico all'Art Nouveau anticipando soluzioni architettoniche e figurative ancor oggi attuali. Che poi il suo eclettismo non si limiti all'imitazione di stilemi di un solo linguaggio, ma affondi le radici in tutta la tradizione spagnola dall'arte mudéjar al romanico, dal gotico al plateresco, dal manierismo al barocco, esperienze tutte che vengono rifuse in una eccezionale quanto unitaria opera di bricolage, dipende semplicemente dal fatto che egli, come dice Le Corbusier è «colui che possiede la maggior forza architettonica tra gli uomini della sua generazione». E questo naturale talento è sostenuto da una notevole capacità di costruttore che lo portò ad eleggere come una delle sue fonti l'opera di ViolletleDuc; da un forte senso di continuità della storia che lo indusse a vedere nel rapporto storiaprogettazione un problema chiave della cultura architettonica moderna; da uno spiccato senso dell'uso dei materiali che gli presentò la relazione naturaartificio come un'altra questione nodale del dibattito contemporaneo; dall'intuizione della proprietà di alcuni principi morfologicocostruttivi, come quello dell'arco parabolico che contribuì a rafforzare il senso dinamografico delle sue linee a risolvere ogni statica stereometria in una conformazione organica. Bastano questi ultimi cenni a spiegare i suoi legami con la cultura Art Nouveau, che si manifesta esplicitamente nelle opere della sua maturità: il Parco GüeIl (19001914), la casa BatlIó (19051907), la casa Milà (19051910) e alcuni aspetti della Sagrada Familia, la sua opera incompiuta iniziata nel 1884, le sole pertinenti all'oggetto del nostro discorso. Ma tali fabbriche ed il loro legame con lo stile che studiamo, che in Spagna prende il nome di modernismo catalano, se denotano la storicità dell'opera di Gaudí , non si pongono come una
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negazione di tutta la sua precedente produzione, così come avviene con Horta, Mackintosh, Wagner e altri contemporanei che passarono dall'eclettismo ad uno stile totalmente nuovo con un atto di «volontà» innovativa. Moltissimi accenti, elementi e significati presenti nelle ultime opere del nostro sono ritrovabili nelle sue fabbriche anteriori con le quali si saldano in perfetta continuità. Cosicché, se ci domandiamo ed è ciò che maggiormente ci preme in questa sede quale fu l'apporto che l'architetto catalano diede all'Art Nouveau, dobbiamo rispondere che fu anzitutto questo senso di continuità con la tradizione senza alcun programmatico e volontaristico scarto che si registra negli altri maestri contemporanei; il che giovò molto, contrariamente al luogo comune di un Gaudí senza seguaci, ad agevolare e ad incoraggiare, presso gli epigoni e le aree culturali periferiche, il passaggio dal gusto ottocentesco al nuovo stile. Oltre a ciò, da un punto di vista morfologico, il contributo della sua opera arricchisce le fluenze lineari di un Horta e gli incastri volumetrici di un Mackintosh, tra l'altro, del senso articolato e fluido delle masse: le opere del Belga e dello Scozzese sono tutte generate (e rappresentabili) da disegni, quelle del Catalano solo da modelli scultorei. E tale è l'attributo che si addice ad ogni suo elemento formale, da un tratto di sedile del Parco Güell ai bowwindows della casa Batlló all'intera volumetria della casa Milà. Quanto alla plastica minore delle sue architetture, le zone di coronamento, le balaustre, i portali, la folla dei comignoli si danno non solo nel loro spessore volumetrico, tradotto a volte in corpose strutture di ferro, ma anche in tutta l'esuberanza del colore, spesso ottenuto con frammenti di ceramica. L'apporto morfologico e sintattico dato all'Art Nouveau si salda con quello simbolico e semantico, con il particolare significato e messaggio espressi dalla sua architettura. Che il nuovo stile fosse intenzionalmente comunicativo lo abbiamo già visto parlando dell'Einfühlung; alla semantica della linea, dei piani, dei volumi, cioè ai valori sintagmatici del linguaggio architettonico, Gaudí aggiunge di
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suo un acceso simbolismo fatto di motivi zoomorfici, arborescenti, fiabeschi, religiosi, ecc. Ma che senso ha questo universo popolato di animali primitivi, di forme arcane, di simboli mistici, di fantasie popolaresche che, presenti quasi in ogni opera, trovano la loro epifania nel tempio della Sagrada Familia, mentre la cultura architettonica mitteleuropea è tutta pervasa di laicismo e di un attivismo mirante a risolvere concreti problemi sociali quali quello dell'arte industriale, dell'edilizia funzionale, dell'urbanistica? Rispondiamo che ha il senso proprio alla dimensione dell'immaginario, che può essere affiancata da quella del razionale ma non assorbita o sostituita da questa, come negli stessi anni veniva riaffermato dalla ricerca psicanalitica, da Freud e più tardi da Jung. Ove si ammetta che tutta la vicenda dell'arte contemporanea, tra le sue numerose componenti dialettiche, presenti anche quella del binomio razionaleimmaginario, Gaudí è l'architetto che, non in progetti ma in opere effettivamente realizzate, ha sondato più di tutti questa seconda via; non quella della fantasticheria individuale che si riduce in atti incomunicabili, ma quella dell'immaginario e dell'inconscio collettivo che, per manifestarsi, si è rifatta ad una condivisa idea religiosa. Ed è proprio a questa valenza immaginaria, distaccata almeno in apparenza dalla problematica contingenza, si deve il fatto che nell'architettura di Gaudí sono ritrovabili anticipazioni di molti altri momenti e tendenze dell'arte moderna, dall'espressionismo al surrealismo, dal cubismo all'informale. L'Art Nouveau fu dunque solo un momento del gusto di questo grande architetto, come del resto accadde per molti altri, con la differenza che questi una volta sconfessata la loro giovanile esperienza approdarono, nel migliore dei casi, al protorazionalismo, quando non rientrarono nei ranghi del neoclassicismo novecentesco e nella routine professionale. Per Gaudí lo stile che studiamo costituì invece un punto d'arrivo, e così denso di indicazioni e di significati da darci di esso un'idea molto più ampia delle sue manifestazioni mitteleuropee e da precorrere, come s'è detto, numerosi aspetti dell'arte successiva.
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Tutt'altro discorso è quello che si svolge contemporaneamente in Austria dove l'Art Nouveau, che qui si chiamò stile Secessione, presenta ancora una variante. Questa, nonostante l'accento superficiale di molte sue manifestazioni, segna una svolta nella vicenda dell'architettura moderna facendo emergere dal nuovo stile tutti gli accenti «decorativi» per poi operare una semplificazione che prelude al protorazionalismo. Nella Vienna aristocratica, capitale di un Impero decadente, in un clima culturale tuttavia assai vivo in ogni settore, Otto Wagner (18411918) pubblica in un volumetto Moderne Architektur la conferenza tenuta nel '94 in occasione della sua nomina a professore presso l'Accademia. Il contenuto di esso, in parte ispirato alle teorie del Semper, in parte al rinnovamento prodottosi in ogni campo sul finire del secolo, indica il proposito di legare più «realisticamente» l'architettura alle esigenze del tempo e può riassumersi nella formula artis sola domina necessilas. Quest'appello è tanto più significativo in quanto proviene da un ingegnerearchitetto, assai affermato professionalmente con opere eclettiche tra le più tipiche della produzione urbana ottocentesca, informate all'osservanza più scrupolosa della composizione bloccata, della simmetria, dell'uso più sobrio della decorazione; un'architettura, la sua, classicistica nel senso più ampio del termine; e tale rimarrà anche quando, dopo il famoso libretto, Wagner sostituirà alla decorazione eclettica quella più propria al nuovo gusto. Questa gli deriva in gran parte dai suoi allievi Olbrich e Hoffmann, specie dal primo che collabora alla sua opera migliore, la Metropolitana viennese. Per essa Wagner progetta le stazioni (le più significative sono quelle sulla Karlsplatz e il padiglione Imperiale che corrisponde alla fermata del parco di Schönbrunn), i viadotti nei tratti soprelevati della ferrovia, gli uffici amministrativi. È un grande impegno tecnico e architettonico che contrassegna col gusto nuovo molti punti della scena urbana della capitale austriaca. Tra le altre opere maggiori di Wagner rientranti nel nostro tema sono la Banca postale del 1905 e la chiesa dell'ospedale psichiatrico di Steinhof del 1906, nelle quali si allenta il legame con lo
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stile Secessione e si anticipa, specie nella nitida Sala Casse della Banca, il protorazionalismo. Ma se Wagner è l'iniziatore del rinnovamento e colui che avalla col suo prestigio il movimento viennese, la Secessione trova in Joseph Maria Olbrich (18691908) la sua maggiore e più versatile personalità. Il gruppo della Secessione, costituito in prevalenza da pittori, si formò nel 1897; vi aderirono tra gli altri Gustav Klimt, J. M. Olbrich, Koloman Moser e J. Hoffmann; più tardi lo stesso Wagner. Esso curò la pubblicazione della rivista «Ver Sacrum» e organizzò mostre annuali con la partecipazione di artisti stranieri soprattutto britannici; tra questi Mackintosh, presente col gruppo di Glasgow alla mostra del 1900, esercitò larga influenza sull'ambiente austriaco. Olbrich costruisce nel 1898 la «Casa della Secessione», un edificio per esposizioni dalla pianta bloccata con un atrio sormontato da una cupola ricoperta di foglie dorate; alcune ville nei dintorni di Vienna (tra queste emerge la casa Friedmann e Hinterbrühl), nelle quali la semplicità volumetrica è compensata dalla medita sagoma di alcune aperture, dall'articolazione dei tetti, dalla decorazione pittorica e lineare di chiara ispirazione naturalistica. Trasferitosi nel '99 in Germania su invito del principe Ernst Ludwig von Hessen, realizza per questo mecenate la KünstlerKolonie di Darmstadt, un complesso di case per artisti e di ambienti espositivi che viene inaugurato nel 1901, ampliato nel 1904 e completato dal Palazzo per esposizioni nel 1907. In questa eccezionale occasione di lavoro, Olbrich interviene in ogni settore progettuale, dalla sistemazione dell'intera colonia all'architettura, dall'arredamento agli oggetti minuti, dal disegno dei giardini alla grafica pubblicitaria delle mostre. E se questa progettazione totale rientra ormai negli schemi dell'Art Nouveau internazionale, resta sorprendente la versatilità, la rapidità di ideazione e di esecuzione, peraltro tecnicamente ineccepibile, con le quali Olbrich affronta tali opere. Ancora degno di nota è il fatto che nel Palazzo per le esposizioni e nella sua torre, Olbrich si libera totalmente dalle bloccate simmetrie di Wagner e dal naturalismo
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decorativo del suo periodo viennese. Segue una intensissima attività professionale che culmina nel progetto dei magazzini Tietz di Düsseldorf, ch'egli progetta nel 1908 nello stesso anno in cui prematuramente muore. L'opera di Joseph Hoffmann, anche se indubbiamente legata a quella di Wagner e alla Secessione viennese, se ne distacca per molti aspetti; in realtà egli è l'inventore del cosiddetto «stile '900», nell'accezione migliore del termine e come tale va meglio inquadrato nel capitolo di quella complessa e tutt'altro che uniforme vicenda del protorazionalismo. Del resto la versione austriaca dell'Art Nouveau passa attraverso tre fasi, quella classicistica, quella decorativa e quella della semplificazione protorazionalistica che, sebbene tutte presenti nella produzione di ciascuno degli architetti citati, emergono rispettivamente nelle opere di Wagner, Olbrich e Hoffmann. Vista a distanza l'intera esperienza viennese sembra, come abbiamo anticipato più sopra, far emergere dall' Art Nouveau una serie di aspetti, per così dire, isolabili: il volume, il piano, la linea, nonché i più vari istinti «decorativi». Quest'ultimi, una volta separati dal contesto di base e dagli altri fattori linguistici, si eclissarono a vantaggio di un gusto conformativo schematico ed elementare, donde l'influenza della Secessione sul protorazionalismo, anzi il risolversi di quella in questo, nonché la ripercussione della scuola viennese in Germania dove il nostro stile ebbe ancora un'altra variante. L'Art Nouveau, che in Germania si chiamò Jugendsiil, non si manifesta in opere architettoniche degne di rilievo, ma si esplica quasi totalmente nel settore delle arti applicate, la cui organizzazione, anche a prescindere dall'apporto di questo stile, merita un cenno più generale in quanto a partire dagli anni '10 la Germania assume il ruolo di paese guida nella vicenda del Movimento Moderno. L'unità della nazione tedesca e la formazione dell'impero germanico erano nati dalla guerra francoprussiana conclusasi nel 1870. Dopo tale data si ebbe in Europa, e segnatamente presso i paesi interessati all'Art Nouveau, un periodo di pace relativamente lungo, se si eccettuano le guerre
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coloniali, che in una certa misura rimasero estranee alla vita metropolitana. La politica di quegli anni fu caratterizzata prevalentemente dalla concorrenza economica, dalla lotta industriale, alla quale le grandi potenze parteciparono con lo stesso impegno che aveva richiesto il loro sforzo bellico. Ciò vale soprattutto per la Germania che trasferì la sua organizzazione militare nella competizione economica con gli altri paesi, rispetto ai quali era più povera di risorse naturali. Per compensare tale svantaggio si cominciò a riformare ogni ordine e grado della scuola; quella industriale divenne un modello di praticità e disciplina cui aspireranno per anni studiosi ed imprenditori di tutti gli altri paesi. Il Movimento Moderno in Germania non nasce da grandi personalità artistiche, ma nell'ambito di un preciso programma di politica culturale. Nel settore delle arti applicate, nell'intento di potenziare la nascente produzione e di poter competere con i mercati esteri, il principio seguito fu quello che, sia gli operai manifatturieri, sia il pubblico dovessero istruirsi e aggiornarsi mediante la visione diretta degli oggetti e la più ampia possibilità di confronti. Ciò si ottenne con la formazione di numerose scuole di arte applicata e, al tempo stesso, di una vasta rete di musei industriali che con le scuole erano in stretto ed efficiente contatto. Tale organizzazione espositiva faceva capo al Museo Imperiale di Arte Decorativa di Berlino, che forniva con le sue raccolte le scuole regionali e i vari musei di stato, dai quali dipendevano i musei municipali e quelli delle società artistico industriali. Queste ultime, associazioni produttive tra artisti fabbricanti e commercianti, rappresentavano la parte più viva e concreta dell'intero sistema. Tra esse vanno ricordate la Deutscher Kunstgewerbeverein di Berlino con 1263 soci, la Bayerischer Kwistgewerbeverein di Monaco con 1713 soci; intorno al '900 il numero di tali società salì a 178 con 145.000 aderenti. Accanto a questa metodica organizzazione didatticocommerciale e alle citate società produttrici, non sempre però informate al rinnovamento del gusto, operarono altre forze che aggiornarono la produzione del paese
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in base alle forme più vive della cultura figurativa europea. Trasformare le tendenze straniere secondo le attitudini nazionali era il programma della rivista «Pan» pubblicata da J. Meier Graefe nel 1895, mentre il più attivo importatore del movimento inglese e colui che ne intuì la solidità e la durata fu l'architetto Hermann von Muthesius che dal 1896 al 1903 fu addetto commerciale presso l'ambasciata tedesca a Londra. Inoltre la particolare ricettività dell'ambiente tedesco per le influenze estere è provata dalla presenza in Germania e dall'opera migliore del belga Van de Velde e dell'austriaco Olbrich. In questo clima si inquadrano le iniziative culturali dovute agli artisti, agli studiosi e ai produttori locali . [A Monaco lavorarono O. E.ckmann, H. Obrist, A. Endeli, B. Paul e in questa città si pubblicarono le riviste «Kunst und Handwerk» e «Dekorative Kunst» insieme ai giornali «Simplicissimus» e «Jugend», che darà il nome alla corrente tedesca. Nella stessa Monaco nel 1897 fu fondata la Münchener Vereinigte Werkstätten für Kunst und Handwerk. A Dresda nasce un'organizzazione simile, la Deutsche Werkstätte, dovuta al mobiliere Karl Schmidt, che incrementerà notevolmente la produzione meccanica del mobilio. A risentire dell'organizzazione tedesca fu soprattutto la Francia. Malgrado la presenza di uomini di talento quali Hector Guimard (18671942), autore tra l'altro del Castel Béranger del 1897 e delle stazioni del Métro del 1900; Gallé, Majorelle, André, che costituivano la scuola i Nancy; De Feure, Gaillard, Colonna, operanti intorno alla bottega di S. Bing, l'Art Nouveau francese fu inferiore alla tradizione artistica del paese, fu uno stile eminentemente decorativo e, nonostante la sua espansione, non fu in grado di reggere la concorrenza commerciale dei tedeschi; tutto ciò ebbe una vasta ripercussione sul livello produttivo e sulla stessa Esposizione universale del 1900, considerata da molti come l'inizio della fine dell'Art Nouveau internazionale. LE OPERE DELL’ART NOUVEAU
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Casa Tassel. Rileggare fino alla Casa della Secessione esclusa Il primo edificio informato al codicestile Art Nouveau fu questa casa unifamiliare costruita da Victor Horta a Bruxelles nel 1893. Essa s'inserisce in un lotto stretto e profondo fra due muri ciechi in modo da prendere luce solo lungo i suoi lati brevi. Per illuminare gli ambienti interni è stata prevista una chiostrina di forma e dimensioni uguali all'invaso contenente la scala principale che, illuminata da un ampio lucernaio, realizza un secondo pozzo di luce. La struttura è a scheletro metallico, totalmente visibile all'interno, mentre in facciata è in evidenza solo nella parte centrale vetrata. Distributivamente la casa è divisa in due settori: quello disimpegnato dalla scala principale che collega l'atrio ai due grandi ambienti superiori prospicienti la strada e quello, sul lato del giardino, disimpegnato da una scala secondaria. Il soggiorno, appartenente a questo secondo settore dell'edificio, è disposto ad una altezza maggiore dell'atrio d'ingresso, in modo da ottenere una dinamicità dello spazio interno in contrasto con la superficie angusta del lotto. Il prospetto principale ripete, nel suo elemento dominante, il bow window delle case contigue. Tuttavia esso si differenzia sensibilmente dagli altri per il suo andamento curvilineo che, in due dei tre piani della casa, si raccorda con le pareti laterali del prospetto. Questo corpo centrale presenta al primo piano una serie di finestre scandite da colonnine di pietra e, al secondo, balconi alti da solaio a solaio lievemente arretrati che racchiudono una balaustra di ferro. Al terzo piano il bowwindow diventa il terrazzino corrispondente alle tre aperture che continuano il filo piano della parete. Sono presenti in facciata molti elementi inconsueti quali le superfici ondulate, le piattabande metalliche in vista, il particolare disegno delle balaustre, ecc. Tuttavia il loro impiego ha una misura tale che la parte dominante dell'edificio è ancora quantitativamente affidata ai tradizionali conci di pietra. All'interno l'affermazione della nuova tendenza figurativa si
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manifesta con maggiore rilievo. Qui un nuovo senso unitario lega gli elementi statici a quelli visivi, in particolare, nella scala principale che presenta completamente in vista la sua struttura metallica. Da essa si diramano curvilinee sagome di ferro a formare ringhiere e decorazioni; a questi elementi, che determinano con il loro andamento sinuoso una particolare definizione dello spazio, corrispondono analoghe forme tracciate sui piani come il disegno delle vetrate e dei pavimenti a mosaico. Cosicché l'articolazione concavoconvessa propria al gusto Art Nouveau informa tanto il volume della scala e per esso l'invaso spaziale, quanto le linee che la strutturano e persino i punti del serpeggiante mosaico del pavimento. La casa Tassel è ricordata come la prima opera moderna completamente libera da derivazioni storicistiche; come la prima realizzazione architettonica dove le istanze costruttive della nuova tecnica del ferro trovano un loro significato espressivo e come il primo edificio che ispirandosi al codicestile dell'Art Nouveau ne fu il maggiore «messaggio» promotore. Va infine menzionata una caratteristica di quest'opera che fu sottolineata dalla critica contemporanea: il perfetto adattamento di essa al suo proprietario, il signor Tassel, professore di geometria descrittiva all'Università di Bruxelles e collaboratore dell'ufficio studi della ditta Solvay. Di questo hotel particulier fu scritto che ospitava nel modo più perfetto immaginabile l'uomo per cui fu costruito, perfettamente come «la conchiglia del mitilo ospita il mitilo». Come si vede la cultura dell'Einfühlung da gusto figurativo si fa anche ragion d'essere funzionale.
La Maison du Peuple
Commissionato dal Parti Ouvrier Belge, l'edificio della Società cooperativa operaia di Bruxelles (distrutto per la più inqualificabile attività di sostituzione) doveva assolvere, in conformità allo spirito socialista riformatore di fine secolo, tre principali funzioni coi locali
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che vedremo più avanti: una politicosindacale, una «commerciale» e una ricreativa. La forma planimetrica del fabbricato, libero su tre lati, era totalmente condizionata da quella del lotto entro cui doveva inserirsi. A tale vincolo si univa quello dell'allineamento stradale: la parte concava della facciata principale completava la ovale piazza Vandervelde, mentre i lati obliqui seguivano rispettivamente le linee di rue des Pigeons e di rue Stevens, che fiancheggiava la cattedrale. Dette linee determinavano in gran parte anche la distribuzione interna dell'edificio, anzi la sua divisione in blocchi. Sulla rue Stevens vi erano i magazzini di abbigliamento che occupavano il pianterreno e il primo piano, con un loro autonomo ingresso da una scala indipendente. Sulla piazza Vandervelde la stessa altezza di due piani fuori terra era occupata dalla sala del caffè. Nell'angolo tra la parte concava e quella allineata con rue des Pigeons era l'ingresso principale dell'edificio, cui seguivano un grande vestibolo e una hall, che terminava in fondo con la doppia scala, elemento di raccordo verticale di tutti i piani della costruzione. Sul fianco, allineati con la rue de La Samaritaine vi erano i negozi di generi alimentari che, a differenza di quelli d'abbigliamento e della sala del caffè, impegnavano solo il pianterreno, essendo il primo piano corrispondente a questo lato della fabbrica adibito ad uffici, cui si accedeva da due scale a chiocciola che partivano dal vestibolo. Il secondo piano ove si eccettui la sala di riunioni politiche (dedicata più tardi a Matteotti) era interamente destinato agli uffici. A questo livello l'edificio perdeva la sua frammentarietà verticale, dovuta alle diverse funzioni sopra elencate, per assumere un'omogeneità distributiva e un unitario andamento orizzontale. Ancor più unitari in tal senso erano il terzo e quarto piano che interamente ospitavano la sala da spettacolo o auditorium, capace di 1500 posti a sedere. Sempre nell'ambito di una generale descrizione, va ricordato che l'edificio presentava una fronte posteriore dal perimetro planimetrico mistilineo tuttavia disposto a squadro con il lato sulla rue de La Samaritaine. Cosicché, lo schema planimetrico può idealmente dividersi con una linea longitudinale,
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sulla quale vi sono ambienti che, adattandosi al perimetro irregolare, assumono forma di pentagono, esagono, ottagono, ecc., mentre dall'altro lato si uniformano alla regolarità dell'angolo retto. Passando ad esaminare gli ambienti più significativi della Maison du Peuple, sopra gli altri emergevano la sala del caffè e l'auditorium. La prima era situata al pianterreno, al centro dell'edificio occupandone per intera la dimensione trasversale; ad essa si accedeva da tre lati: dalla vetrata concava di piazza Vandervelde, dal vestibolo laterale e dalla facciata postica. Tante aperture erano dovute al fatto che la sala veniva anche utilizzata per pubbliche manifestazioni con notevole afflusso di pubblico. Poiché anche il quarto lato, quello col banco di mescita, era praticamente svuotato dalle aperture che davano nei locali annessi al bar, in tal modo, e grazie alla struttura metallica, Horta realizzava un ambiente dalla pianta libera delimitata al contorno da vetrate. Queste concretavano quell'ideale della massima permeabilità visiva e luminosa fra interno ed esterno che alimenterà la gran parte delle opere del Movimento Moderno. Fra tante superfici leggere e trasparenti, l'intradosso della copertura assumeva il ruolo dell'elemento più stabile e figurativamente contrassegnato. È stato giustamente notato che la copertura della sala si richiamava ad alcuni disegni di ViolletleDuc; qui però il fatto nuovo era che l'intelaiatura metallica del piano di copertura non poggiava su solide e compatte murature, ma su montanti di ferro che, per la loro snella volumetrica, per la loro continuità «grafica» con le travi, finivano per dare il massimo rilievo al piano orizzontale dell'intradosso, di notevole valenza sia statica che figurativa, dovuta alla rete di elementi metallici che lo conformavano. Ma oltre la descritta conformazione dell'intradosso, emblematica associazione della tecnica del ferro e della poetica dell'Einfühlung, la sala del caffè presentava un'altra sua particolare caratteristica. Rispetto al più prezioso ed elaborato auditorium, il locale al pianterreno si avvicinava più ad un ambiente «esterno» che ad uno «interno», nel senso che richiamava più un capannone industriale o una attrezzatura ferroviaria che la raccolta
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intimità di un caffè borghese. Le lampade (e del resto tutti gli elementi d'arredo) erano più vicine a quelle stradali che non ad apparecchi per l'illuminazione degli interni; le sedie non erano disegnate da Horta, ma quelle di Thonet della produzione di serie; soprattutto quell'accento geometrico e un po' meccanico s'addiceva, denotava e significava meglio d'ogni altro un locale francamente popolare, un luogo di ristoro e di riunione, adattabile, all'occorrenza, allo svolgersi di un comizio. L'auditorium occupava gli ultimi due piani dell'edificio con un regolare volume parallelepipedo, tuttavia il senso di questo spazio interno era assai diverso da quello di un ambiente ad angoli retti. Anche qui la generale conformazione percettiva era più affidata ad elementi lineari (montanti, poutrelles, mensole metalliche, ringhiere della balconata, ecc.) che alla bidimensionalità delle pareti. Di fronte ai tratti lineari metallici, le pareti laterali risultavano virtualmente annullate o comunque subordinate alla figura strutturale della sezione trasversale. Questa era costituita da telai reticolari con montanti inclinati verso l'interno e da travi inflesse. Dalle pareti laterali fuoriuscivano due ordini di mensole, il primo che reggeva il piano della balconata e il secondo un altro piano più stretto adibito agli impianti tecnici di illuminazione, acustica e riscaldamento. L’andamento concavoconvesso della copertura apribile sembrava riproporre all'interno quello della facciata principale, dove tuttavia la tematica compositiva era assai più articolata e complessa, nonché composta da elementi eterogeni: la struttura metallica in vista, la scansione modulare delle vetrate, i bowwindows, le fasce in mattoni verticali ed orizzontali, i vari tipi di balaustre, ecc. e quel frammentare le parti corrispondenti alle diverse sezioni dell'edificio. Insomma la symmetria generale è ottenuta dal tenere insieme tante dissimmetrie particolari finché la balaustra della terrazza non unifica orizzontalmente, marcando il profilo ondulato della facciata, l'intera composizione d'insieme. In altri termini, a differenza degli edifici in ferro e vetro della scuola di Chicago, contrariamente alla più recente edilizia con curtainwall, dove tutto si riduce ad una meccanica
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iterazione di un modulo che nulla dice sullo spazio interno, nella Maison du Peuple ogni ambiente interno si manifesta e in pari tempo collabora alla conformazione del prospetto, nulla perdendo della propria individualità. Tutto dev'essere chiaro e comunicativo, tanto all'interno, così ampiamente permeato di luce e accessibile a tutti, quanto all'esterno rispecchiante ogni forma e funzione interna. Sebbene con carattere marginale, le stesse scritte sulla balaustra della terrazza Science, Coopération, Travail, Karl Marx, Proudhon, Fourier, Robert Owen, ecc. quasi simili alle insegne dei negozi al pianterreno Nouvautés, Draperies, Tissus pour Dames, Vétements confectionnés sur mesure, Merceries, ecc. tutte sovrastate dalla dicitura La Maison du Peuple, contribuiscono alla significazione di questa singolare fabbrica, rappresentando come una grande didascalia per la sua già eloquente immagine.
La scuola d'arte di Glasgow. Un'altra opera paradigmatica del codicestile Art Nouveau e segnatamente della sua versione astrattogeometrica è la scuola che Charles R. Mackintosh costruì a Glasgow nel 1898 e ampliò nel 1907. L'edificio presenta uno schema planimetrico molto lineare: ai lati dell'ingresso due file di aule prospettano sulla Renfrew Street; nella parte posteriore è la scala principale circondata da una galleria adibita a museo; ai lati estremi del fabbricato vi sono due corpi di fabbrica destinati rispettivamente alla direzione e alla biblioteca. Queste due ali hanno entrambe una scala per il collegamento dei due piani coi corridoi che disimpegnano le aulestudio. Nonostante questa schematicità distributiva, la pianta denuncia alcuni caratteri che saranno ancora più evidenti sul prospetto principale. Infatti ai lati dell'atrio d'ingresso si aprono rispettivamente quattro e tre aulestudio; e ciò non corrisponde solo all'esigenza di avere un numero dispari di ambienti per piano, bensì a quella compositiva di rendere asimmetrici
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gli elementi della facciata, la mancanza di simmetria essendo una caratteristica costante di quasi tutte le opere di Mackintosh. Oltre a ciò la facciata principale è definita dalle grandi vetrate delle aulestudio che si aprono su un continuo paramento di pietra, dal corpo centrale ricco di elementi plastici e dalla originale recinzione lungo il marciapiede, dietro la quale, fortemente arretrata e con un piano sotto il livello stradale, si eleva la facciata stessa. Le vetrate sono realizzate con semplici regoli metallici e le piattabande che le sormontano denunciano il loro incastro nei conci di pietra. Con lo stesso gusto delle superfici piane, il coronamento dell'edificio è affidato ad un cornicione a lastre fortemente aggettante. In tanta geometrica semplicità emerge il corpo pieno centrale, fortemente caratterizzante l’intera opera, ispirato forse all'architettura baronale scozzese dell'epoca stuartiana. Tale organismo, nonché denunciare l'ispirazione medievale di Mackintosh, prelude anche a quegli incastri volumetrici che in altre sue opere anticipano la tematica neoplastica. La scuola d'arte di Glasgow, come s'è detto, fu ampliata nel 1907 con la costruzione della biblioteca. Il nuovo corpo di fabbrica prospetta sulla salita di Scott Street che porta dal centro della città alla Renfrew Street, dov'è la facciata principale della scuola. In pianta il nuovo corpo si affianca alla preesistente aulastudio e ne prolunga il filo esterno lungo la ripida salita. Mackintosh denuncia chiaramente il corpo aggiunto; conserva cieca la testata della fabbrica primitiva, legando solo le bucature del primo piano col ritmo verticale dei tre nuovi elementi sporgenti che, lievemente aggettanti dal filo di facciata, sono larghi quanto gli spazi fra essi racchiusi. Lungo tali elementi verticali si aprono le finestre che ne continuano il profilo senza interrompere il ritmo ascensionale. Va notato in questo prospetto, nel quale la valenza espressiva ha superato ogni inflessione di gusto (tanto da poter sembrare addirittura costruita oggi, quale manifeazione del neoliberty), il suo efficace modo di legarsi tanto al vecchio edificio, quanto di comporsi con la ripida salita contro la quale si eleva; inoltre il suo parziale
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arredamento ne accentua il carattere severo, preciso, fortemente chiaroscurale. In perfetta coerenza con l'esterno è l'interno della biblioteca. L'ambiente ha una pianta perfettamente quadrata e il principale fattore della sua conformazione è dato da una galleria che gira lungo le pareti sostenuta da una struttura in legno completamente in vista. Essa si compone di pilastri che vanno da pavimento soffitto, ai quali si collegano travi doppie che sostengono la soletta della galleria, arretrata rispetto ai montanti e recintata da una balaustra che aggiunge alla dinamica spaziale degli elementi suddetti un accento decorativo dato dall'intaglio e dal colore dei balaustrini. Sul signiflcato e il carattere di quest'ambiente, autentico punto nodale nella storia del gusto, è stato osservato: «tutti gli incastri e le giustapposizioni sono denunciati da una coerenza che sembra neo plastica nell'assunto, ma arricchisce di elementi fantastici, irrazionali, cui gli ismi postbellici dovranno rinunziare. V'è in quest'opera quel tanto di ricchezza artigiana, quel senso del fare nel tempo con le proprie mani, che proviene appunto dalla tradizione della scuola di Morris e va necessariamente perduto con la produzione industriale». (8) Zevi, op. cit., p. 86.
La Hill House
Nel 1902, negli anni del suo pieno successo, dopo la partecipazione alla mostra della Secessione del 1900 a Vienna e alla esposizione del 1902 a Torino, Mackintosh costruisce ad Helensburgh questa grande residenza unifamiliare. Al piano terreno della casa le camere di soggiorno, esposte a sud, occupano il corpo di fabbrica prinpale. Normalmente a questo è il corpo contenente i servizi che determina con l'altra ala, comprendente l'ingresso una sala da biliardo, una pianta ad U intorno al giardino. Al piano superiore le camere da letto sovrastano sia gli ambienti di soggiorno sia il gruppo dei servizi. Un piano attico, contenente altre camere da letto, si eleva in corrispondenza del corpo di fabbrica occupato al pianterreno dai
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servizi. I tre piani sono collegati da una scala a chiocciola visibile all'esterno, mentre un'altra grande scala serve i due piani principali della casa. All'esterno il prospetto ad ovest presenta un'ampia parete sagomata in alto secondo l'andamento del tetto; su di essa aggetta un corpo contenente la sala da biliardo, il camino e il bowwindow dell'ambiente che sovrasta il portico d'ingresso; camino e bow window sono fusi in un'unica conformazione plastica. Sul fronte a sud, il maggior numero di aperture non toglie la prevalenza dei pieni sui vuoti; da notare la veranda incassata nell'angolo formato da questa parete col corpo di fabbrica ad essa normale e la soluzione angolare del camino contro cui si aprono le due finestre del secondo piano. Sull'angolo tra i prospetti sud ed est, più alti perché contenenti l'attico, s'incastra la scala elicoidale sormontata da una copertura conica. La facciata a nord si apre sul giardino e risulta in piano col terreno, mentre le altre fronti sono soprelevate dal suolo e circondate da un alto muro di recinzione. Le analogie con alcune case di Voysey sono numerose, ma il linguaggio è qui assai più ricco: a parte la presenza di elementi Art Nouveau, le originali soluzioni angolari, che rappresentano uno dei primi esempi di scomposizione della massa volumetrica in una serie successiva di piani, anticipano in tal modo il tema dominante che ritroveremo nella corrente neoplastica. Come abbiamo già notato nella prima parte del presente capitolo, se l'esterno di questa casa appartiene al dominio del rigore volumetrico, dei piani ad incastro, della chiara uniformità coloristica degli intonaci, il suo interno, dove forse Mackintosh fornisce la prova migliore del suo gusto di arredatore, appartiene al dominio della linea, del colore, del gioco di quadrettature e di ritmiche fluenze. Nel suo complesso la Hill House fa pensare ad un frutto nato in un clima nordico, in cui alla scarna e robusta nudità della scorza corrisponde una polpa ricca di forme, di colori, di delicati umori vitali; e tale similitudine sembra confermare la particolare sintesi di organicità ed astrazione che è
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peculiare alla corrente dell’Art Nouveau caratterizzata proprio dalle opere dell'architetto scozzese.
La casa Mila
Per trovare un'altra opera paradigmatica indicativa d'una terza variante dell'Art Nouveau bisogna rifarsi alla produzione di Antoni Gaudí e segnatamente alla casa Mila che si lega al linguaggio europeo meglio di quanto non facciano altre sue fabbriche pur di elevato valore espressivo. Costruito a Barcellona tra il 1905 e il 1910, questo edificio per abitazioni alto cinque piani, si svolge lungo langolo formato dal paseo de Gracia e la calle de Provenza. In pianta esso presenta due grandi cortili, tre gruppi di scale che servono quattro grandi appartamenti per piano (ma il numero di questi può variare data la grande flessibilità distributiva) e una doppia chiostrina per ogni scala che illumina i locali di servizio i quali non dovevano figurare né sulle facciate, né sulle superfici che si aprono sui cortili. Poiché il tema simbolico della casa «era un grande basamento roccioso che a sua volta simboleggiava la cintura montuosa di fra' Gherau, una delle ondulazioni orogeniche più popolari del Monserrat» R. Pane, Gaudí, Einaudi, Torino 1964, p. 213, sia in pianta che nelle fronti domina un organico andamento di linee concavoconvesse. Tuttavia questo simbolismo il basamento era quello di un gruppo scultoreo in onore della Vergine del Rosario rimasto allo stato di progetto non deve indurre a considerare quest'opera unicamente ispirata al motivo simbolicoreligioso o a quello simboliconaturalistico, come 1o stesso nome dato popolarmente alla fabbrica, La Pedrera, sembrerebbe accreditare. Se indubbiamente queste intenzioni sono all'origine dell'opera, è altresì vero che simbolismo e mimetismo della natura sono ampiamente trasfigurati da Gaudí in una conformazione prettamente architettonica. Si pensi, oltre alla già accennata valenza distributiva, alla capacità dell'autore di normalizzare ciascun ambiente interno pur conservando la generale volontà conformatrice che si
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manifesta in un esaltato succedersi di linee ondulate. Così se Gaudí risolve i pratici problemi degli spazi interni, la varietà delle facciate e della ricca e complessa volumetria gli è consentita dal geniale uso della tecnica. Per la plastica dinamicità delle fronti, l'ampiezza delle aperture e la stessa fluidità dell'immagine, la casa Mila si direbbe costruita sfruttando le più tipiche proprietà del cemento armato. Viceversa la costruzione si regge su pilastri realizzati da grossi blocchi di calcare e su travi in ferro, materiali sollecitati fortemente data la complessa stereometria della fabbrica e posti in opera con eccezionale sapienza costruttiva sulla scorta di un modello di gesso, «modello sufficientemente grande perché, lungo le sue superfici, si potessero studiare e determinare i giunti corrispondenti al taglio dei singoli blocchi» Ivi, pp. 2134. Un'ennesima prova di esaltante fantasia, tradotta in grande perizia tecnica, ci è data dalla copertura dell'edificio e in particolare dal desván (abbaino) il cui invaso è realizzato con archi parabolici di mattoni disposti in coltello; ma quello della copertura è un discorso da fare nel contesto di tutta la volumetria dell'opera. Lasciando ad altri, come vedremo, l'interpretazione della casa Mila come La Pedrera, proviamo a rileggerla come fluenze di piani e di linee. Tale fluenza è presente sia con un andamento verticale, sia con uno orizzontale e questa doppia ortogonale ondulazione sembra una grande rete che struttura l'intera superficie dell'involucro parietale; le aperture dal canto loro emergono ora da un punto rientrante, ora da uno sporgente contribuendo ad esaltare i ritmi di queste instabili onde. Ma quale copertura poteva concludere un'immagine plastica così tormentata di sporgenze e rientranze? Lo stesso coronamento della casa Batlló che richiama alla mente una corrugata pelle zoomorfa sarebbe stato qui l'equivalente di un tetto che avrebbe in ogni caso «limitato» queste libere fluenze. Gaudì decide allora di far terminare il muro di facciata senza alcun coronamento, ovvero prolungandolo al di sopra del piano del terrazzo; in tal modo è una linea concavo convessa che conclude la facciata; ma non basta: questa linea per
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essere espressivamente più efficace deve stagliarsi contro qualcosa e questo è il corpo continuo dell'abbaino, a sua volta terminante con un'altra linea ondulata dalla quale emerge il fantastico gioco delle torrette, dei comignoli e di altri motivi plastici, molti dei quali ricoperti dal solito collage di frammenti di maioliche. Insomma non bastavano le ondulazioni sul piano di facciata; esse sono sottolineate da un'ultima onda ottenuta in profondità dall'arretramento appunto della linea di coronamento dell'abbaino. Poiché la dimensione di quest'architettura appartiene al dominio dell'immaginario, essa legittima ogni sorta di similitudine. «La Casa Mila scrive Vincent Scully sia planimetricamente che nei prospetti, è come una scogliera traforata dal mare, la sua facciata intagliata nella roccia è lisciata ed erosa dall'acqua, ne pendono marine alghe metalliche, la bucano finestre come occhi... Essa sembra incarnare una partecipazione umana totale ai ritmi che sono trasfusi nel mondo naturale; ecco perché gli strani dei che affollano il tetto dell'acropoli marina di Gaudì fruiscono a tal punto di una vita fantastica»(V. Scully, L'architettura moderna, Rizzoli, Milano 1963, p. 25. D'altra parte, similitudini del genere particolarmente calzante quella dei ferri battuti con le alghe marine non devono indurci, come s'è detto, a riproporci una lettura dell'opera gaudiana in chiave mimetica. Il maestro catalano partecipa alla cultura dell'Einfühlung e dell'Art Nouveau, come a quella del simbolismo e anticipa cubismo, espressionismo e surrealismo; vale a dire è un artista moderno e come tale «contrappone» alla natura l'artefatto (non importa qui se dettato da motivi religiosi, da ansie esistenziali, da tracce oniriche). Se poi l'opera d'arte ha cento capacità evocative, non ultima quella di un mondo naturale, va detto che interpretandola dobbiamo riportare questo quella e non viceversa.
La casa della Secessione. Una quarta variante del codicestile Art Nouveau può individuarsi in quest'opera di Joseph Maria Olbrich costruita a Vienna nel 1898. Essa
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fu la prima significativa prova dell'architetto e come tale embrionale di tutto lo stile Secessione; al tempo stesso contiene in nuce molte caratteristiche della versione che gli austriaci diedero dell'Art Nouveau: l'ispirazione classicistica, le assialità prospettiche, la tendenza ad una riduzione stereometrica e decorativa, ecc. L'edificio, che aveva la duplice funzione di ospitare la sede del gruppo degli artisti secessionisti e di padiglione per le esposizioni, presenta una pianta bloccata, quasi a croce greca ottenuta dall'incastro di quattro rettangoli, ed è inserito in un lotto triangolare. Lo spazio di risulta, sistemato a giardino doveva servire all’esposizione all'aperto di sculture. In pianta, quel tanto che differenzia la forma dell'edificio dalla croce greca riflette appunto le due distinte zone e funzioni del fabbricato. La prima, contenente l'atrio d'ingresso e i locali per gli artisti e gli uffici, manifesta nella sua volumetria esterna un accento più monumentale. La facciata principale, accanto alla gradinata centrale, presenta due volumi pieni che sorreggono due dei quattro bassi pilastri che racchiudono la cupola di copertura dell'atrio d'ingresso. Questa, realizzata con una struttura in ferro reca sul suo estradosso un rivestimento con un fitto frascame dorato. Essa è certamente l'elemento di maggiore richiamo e unitamente alle decorazioni disposte in varie altre parti dell'edificio costituisce l'elemento più congeniale al gusto pittorico di Olbrich. Tuttavia, «pagato» questo scotto alla parte più rappresentativa dell'edificio, la casa della Secessione presenta altre valenze. Intanto, i fianchi dei due volumi pieni che compongono il prospetto principale sono svuotati da due ordini di aperture, il che riduce i volumi suddetti a due pesanti lastre e consente loro, unitamente a quella sorta di fregio che le sovrasta sul tratto corrispondente all'ingresso, al basamento della cupola con i quattro pilastri torrette e all'insolito corpo della cupola stessa, di svolgere un gioco di astratti volumi pieni tipico della corrente astrattogeometrica dell'Art Nouveau. Per questi ed altri motivi la casa della Secessione è accostabile al Tempio Unitario a Oak Park, costruito da Wright nel 1906. (12)Parlando della Casa della
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Secessione, Gregotti afferma: «L'edificio è di una importanza fondamentale per lo sviluppo dell'architettura: a quella data è difficile trovare qualcosa di altrettanto avanzato: la sua influenza su F. L. Wright è, credo, innegabile »; cfr. L'Art Nouveau, « L'Arte moderna », a. 1967, vol. XI, n. 91. I pregi dell'edificio relativi alla parte destinata a galleria d'esposizione sono d'altra natura. Qui il giovane Olbrich abbandona la via del pittoricismo e quella della composizione per grandi masse plastiche, per predisporre un organismo che mira soprattutto ad essere un involucro funzionale. Una volta definita la volumetria esterna, è la copertura coi suoi alti lucernari e lo studio di pareti mobili a richiamare tutto il suo interesse. A tal proposito ancora nel 1906 un commentatore inglese scriveva che «mai erano stati meglio risolti i particolari problemi posti da un palazzo per esposizione. Gli interni erano stati ideati a pareti mobili, così che ogni più piccola porzione di spazio poteva essere utilizzata nel modo più adatto e secondo la luce desiderata, o piovente dall'alto o direttavi di fianco»(13)Cit. in G. Veronesi, Joseph M. Olbrich, Il Balcone, Milano 1948, pp. 212. Che la parte della costruzione destinata a galleria rifletta una destinazione e un intento diverso da quello plasticomonumentale del corpo dell'ingresso è dimostrato all'esterno dal trattamento delle piene pareti laterali e dalla stessa facciata posteriore sulle quali l'intervento dell'architetto si limita ad una poco convincente decorazione parietale. Eppure nonostante questo evidente limite non è escluso che l'intenzione di Olbrich fosse quella di tenere in sottordine queste pareti affidando anche per il lato della galleria il risultato plastico alla composizione volumetrica, al gioco cioè dei lucernari e dei corpi di fabbrica che tuttavia il gusto dell'epoca non consentiva, come sarebbe stato da preferire, di lasciare completamente nudi. Questo passo sarà effettuato poco più tardi dal suo amico Hoffmann a partire dal convalescenziario di Purkersdorf, ma con esso siamo già oltre l'Art Nouveau e la Secessione, ossia nell'ambito del protorazionalismo.
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Certo, nel loro complesso le stazioni della metropolitana di Vienna progettate da Otto Wagner, con la collaborazione dello stesso Olbrich, sono opere più compiute e coerenti dell'edificio da noi esaminato ed anche altre opere di Wagner incarnano meglio il gusto viennese a cavallo del secolo. Tuttavia, ad esse manca proprio quel senso di ambiguità, di incertezza, di stare in bilico tra Art Nouveau e protorazionalismo che è proprio dell'intera attività di Olbrich e peculiare a questa sua opera prima. Se è vero quindi che la personalità di Olbrich è quella che per la sua versatilità e polivalenza incarna meglio di altri lo stile Secessione, questa sua fabbrica giovanile può considerarsi l’«involontario» programma dell'intera tendenza e del suo stesso superamento. Capitolo terzo
IL PROTORAZIONALISMO Con tale espressione designamo un momento della storia del gusto che in architettura e nel campo del design va dagli anni ’10 alla fine della prima guerra mondiale. Esso si distingue dall’Art Nouveau, col quale talvolta si svolse in continuità e talaltra in opposizione, in quanto ne rifiutò la morfologia o ne attuò una notevole riduzione alla geometria. Ne accolse tuttavia la problematica socioculturale, anzi la sviluppò nel settore delle arti applicate — è ora che nasce il vero e proprio industriai design —, nella tecnologia edilizia, nell’urbanistica. D’altro canto il protorazionalismo non riuscì a sfociare nel razionalismo degli anni ’2030, sia perché rispecchiò ancora una realtà storica prebellica, sia perché, dal punto di vista linguistico, non fu in grado di assorbire l’apporto delle avanguardie figurative, segnatamente quelle cubiste e postcubiste che trasformarono radicalmente la concezione, la conformazione e la rappresentazione dello spazio. Ma per tradurre in un codicestile il suddetto momento del gusto non basta evidentemente dire da che cosa esso si distingue: bisogna
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indicare i suoi aspetti specifici e i suoi significati. Compito tutt’altro che agevole in quanto il protorazionalismo ingloba personalità e opere assai dissimili e tuttavia non classificabili in altro modo. Si consideri, ad esempio, la componente classicistica di questo stile, una delle sue principali invarianti: classicistica è l’eversiva ed iconoclastica opera di Loos e classicistica, sebbene evidentemente con altre e intenzioni e connotazioni, è la produzione che fino alla seconda guerra mondiale accompagnò il razionalismo, a volte come la sua ala più moderata, a volte come atteggiamento decisamente in contrasto con esso. Un’altra difficoltà nell’esegesi di questo codicestile è il fatto che la sua indubbia e costante intenzionalità semplificatrice e riduttiva ora vale come presa di posizione contro l’accademia, il malinteso senso della tradizione, le mistificazioni decorative tardoliberty, ora all’opposto come restaurazione, neoaccademismo, riduzione del linguaggio architettonico intesa come mero risparmio, ecc., in una parola, nel protorazionalismo, e spesso nelle opere di uno stesso architetto, coesistono due atteggiamenti che, sia pure con espressioni generiche, possiamo definire moderno e antimoderno. Né giovano per distinguere tali aspetti la tematica e la tipologia dei singoli interventi; infatti un fenomeno di indubbio valore e significato progressivo — pensiamo in particolare alle realizzazioni del democratico Comune di Vienna — fu tradotto in termini morfologicamente antiquati, mentre nella borghese tipologia delle case unifamiliari troviamo i migliori e più avanzati esempi di questo stile. Con ciò vogliamo sottolineare il fatto che sia l’uno che l’altro momento, tanto le conquiste quanto le cadute stanno soprattutto nelle contraddizioni proprie al linguaggio protorazionalista. Avvertiti di questi limiti, cerchiamo ora di costruire il tipoideale corrispondente al codicestile del protorazionalismo, accentuando, come al solito, alcuni punti di vista e connettendo ad essi alcuni fenomeni particolari. Il che vale a dire, grosso modo, individuare i caratteri invarianti dello stile e le sue diverse manifestazioni dovute sia all’opera dei suoi maggiori protagonisti, sia alle vicende nazionali.
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Le invarianti del protorazionalismo
Il termine «protorazionalismo» fu usato la prima volta da Edoardo Persico parlando del palazzo Stoclet costruito da Hoffmann a Bruxelles. Di esso il critico italiano scriveva: «Veramente il palazzo Stoclet non è né il miracolo di un mondo emerso dal caos, né una profezia messianica [...] è la conclusione di un lungo processo del gusto; un’opera rappresentativa per la stessa assenza di quel “genio” che segna invece le opere di un Otto Wagner o di un Behrens», il valore dell’edificio starebbe, sempre secondo Persico, ne «la coerenza con il proprio tempo […] in una particolare storicità della fantasia, nel rapporto dello stile con le idee più vive del proprio tempo [...]. In esso non si radunano soltanto l’insegnamento di Wagner e le aspirazioni di Olbrich: ma gli ideali più virili della borghesia europea, a cui si deve l’abbandono delle forme neoclassiche, e l’affermazione del protorazionalismo, con le sue esposizioni universali, con l’impiego delle tecniche nuove, con il principio dell’“arte per tutti”»[1E. Persico, Trent'anni dopo il Palazzo Stoclet, in « Casabella» luglio 1935, ora in E. P., Tutte le opere (1923.1935), Edizioni Comunità, Milano 1964, p. 213]. Queste considerazioni sul palazzo Stoclet possono estendersi a tutto il protorazionalismo; quell’assenza di «genio» si può riscontrare nell’opera di quasi tutti i suoi maggiori protagonisti Hoffmann, Loos, Perret, Garnier, Behrens, ecc., in quanto la principale caratteristica invariante di questo stile non fu quella dell’arte emergente, ma dell’artisticità diffusa. La gran parte della produzione di questo periodo non mira più alla bellezza del singolo esemplare, sia esso un edificio o un oggetto di design, ma si pone come un atto mirante ad «altro»: Loos dichiara addirittura che assolvendo ad una pratica funzione l’architettura vada estrapolata dal campo dell’arte; Perret mira a qualificare la costruzione; Garnier all’inquadramento dell’architettura nell’urbanistica; Behrens ad attuare, tra l’altro, nella
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prassi la teoria del design, a dar forma architettonica all’edilizia industriale, ecc. Questo carattere «prosastico» e non «poetico» del protorazionalismo si fonde con altre caratteristiche invarianti: tra le principali è il nuovo atteggiamento verso la tecnica. Se l’architettura dell'ingegneria aveva risolto l’arte nella tecnica e se l'Art Nouveau aveva tentato di «piegare» i prodotti della tecnica alla fantasia dell’artista, il protorazionalismo, che coincide peraltro con la diffusione del cemento armato, sfrutta proprio le possibilità dei materiali per raggiungere il suo programma semplificatorio e della massima economia; quella dell’economia essendo un’altra invariante dello stile che studiamo. Ma il criterio dell’economia, a suo modo sempre presente nella storia dell’architettura, non avrebbe inciso sulla genesi del protorazionalismo se non fosse stato angolato da due orientamenti, uno di natura «estetica» e uno sociologico. Sebbene intimamente connessi e producenti una sintesi, è tuttavia utile accennare alla loro specificità. La polemica condotta da Loos con le sue opere e soprattutto con i suoi scritti, tra i quali è il celebre articolo Ornamento e delitto del 1908, contro un atteggiamento che egli definisce forse emblematicamente col termine «ornamento» rientra senz’altro nel tipo di economia «estetica». La semplificazione delle forme, il loro affrancarsi dallo spirito decorativo proprio alla Secessione viennese e agli epigoni del liberty costituisce anzitutto una scelta di configurazioni essenziali valide proprio per il gusto, la tendenza, il partito preso della semplicità. Ciò si traduce in lotta allo spreco e al superfluo acquistando pertanto un accento morale e una precisa connotazione sociale, ma quello che muove questo aristocratico architetto radicale è in primo luogo una scelta di natura estetica. Nello scritto citato, tra le numerose tesi moralistiche di Loos e nel suo considerare selvaggi coloro che si attardano sulla parte decorativa dell’architettura a scapito di quella funzionale e sociale, emergono i motivi principali che
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muovono la sua polemica. «Poiché l’ornamento — egli scrive — non è più organicamente connesso con la nostra cultura, non è più neppure l’espressione della nostra cultura. L’ornamento che oggi viene prodotto non ha nessun rapporto con noi, non ha in generale nessun rapporto umano, nessun rapporto con l’ordine cosmico. Non è suscettibile di sviluppo»[2 A. Loos, Decorazione e delitto, in U. Conrads, Manifesti e programmi per l'architettura del XX secolo, Vallecchi, Centro Di, Firenze 1970, p. 18]. Ma il passo più esplicito e icastico a sostegno dell’interpretazione «estetica» della semplificazione, dell’«economia» architettonica concepita dall’architetto austriaco è quello in cui afferma: «Il difensore dell’ornamento crede che il mio bisogno di semplicità equivalga ad una mortificazione della carne. No, egregio professore della scuola d’arte, io non mi mortifico! Mi piace più così. I piatti spettacolari dei secoli passati, che mettono in mostra ogni genere d’ornamenti per far apparire saporiti i pavoni, i fagiani e i gamberi, su di me producono l’effetto contrario. Provo ribrezzo quando passo davanti ad un’esposizione di arte culinaria e penso che dovrei mangiare queste carcasse di animali ripiene. Io mangio roastbeaf» [3 Ivi, p. 17]3. Come si vede, l’avversione adornamento che, ripetiamo, va inteso come un generale atteggiamento emblematico e più di natura psicologica, viscerale e in definitiva estetica anziché motivata da ragioni eticosociali. Che poi il messaggio di Loos abbia avuto più diffusione e presa sulla realtà operativa e professionale di altri criticamente più avvertiti è un altro discorso. Nelle vicende dell’architettura moderna la fortuna di alcuni princìpi è spesso dovuta alla loro tempestività, al veicolo della loro diffusione, alla loro unilateralità, alla capacità di scuotere gli schemi più diffusi. Il verificarsi di ciò si deve alla esigenza di concentrare tutta la problematica architettonica in pochi, precisi e popolari patterns capaci di raggiungere ogni livello della cultura e della produzione edilizia. Nel caso di Loos, tali modelli, sia teorici che operativi, implicarono
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una tale quantità di fenomeni culturali da rendere l’intera attività di questo architetto, una delle pietre miliari del Movimento Moderno. Di tipo produttivo, sociologico, organizzativo fu, invece, la tendenza all’economia, alla semplificazione del linguaggio architettonico e dei manufatti promossa dal protorazionalismo in Germania con Muthesius, il Werkbund, il Maschinenstil, la Sachlichkeit, di cui diremo più avanti parlando dei contributi nazionali al codicestile che studiamo. Un'altra caratteristica invariante di esso può ancora trovarsi sul piano della teoria esteticoarchitettonica. Ci riferiamo in particolare alle trasformazioni del gusto al passaggio dalla famiglia morfologica dai motivi concavoconvessi dell'Eìnfühlung alla famiglia morfologicogeometrica facente capo all’«astrazione». Infatti, solo pensando al succedersi di due moti del gusto accomunati tuttavia da una stessa teoria estetica, possiamo spiegarci l’evoluzione dall'Art Nouveau al protorazionalismo, addirittura la presenza nella stessa produzione di alcuni artisti di queste due fasi evolutive. Se poi riteniamo che architetti e designers nella loro maggioranza ignorassero queste teorizzazioni, dobbiamo solo rifarci a quel fenomeno che, con felice espressione, Persico chiamava «storicità della fantasia», intendendo forse con essa che in un dato momento opere, artisti e moti del gusto hanno in comune una sorta di affinità di aspirazioni e di espressione. Ora, volendo dare un carattere unitario ai fattori invarianti del protorazionalismo, possiamo considerarlo uno stile fondamentalmente riduttivo. Esso ereditò la riduzione dell’architettura alla costruzione dalla produzione degli ingegneri ottocenteschi, nella cui linea s’inserisce Perret; la riduzione stilistica dell’Art Nouveau di cui continua il filone facente capo all'«astrazione»; la riduzione «economica» da tutti i precedenti stili, dal neoclassico in poi, innestandovi motivazioni
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socioproduttive e, come s’è detto, esteticopsicologiche; soprattutto la riduzione alla geometria che col protorazionalismo assume accenti assai particolari. Al geometrismo teorizzato dal Worringer ed espresso nelle opere di Voysey, di Mackintosh, del primo Wright, il protorazionalismo aggiunge di suo l’adesione alla geometria dei prodotti meccanici, standardizzati, modulari, unificati, iterabili con tutte le relative implicazioni socioeconomiche. Questi motivi ispiratori comportano evidentemente anche una influenza linguistica, entrano come parte viva nella determinazione del nuovo stile. Tuttavia, come abbiamo accennato nel paragrafo precedente, è proprio al livello linguistico dove si manifestano le maggiori contraddizioni del protorazionalismo e dove si arena il suo ideale di un’arte «pura». Infatti questo stile — sostanzialmente uno stile in negativo — se combatte l’ornamento dell'Art Nouveau ed ogni accento che non nasca dall’artifìcio, al tempo stesso non riesce a sostituirlo, tranne qualche eccezione, che con un ritorno al classicismo. Le varie riduzioni del protorazionalismo cui sopra abbiamo accennato non trovarono alcun codice se non quello classicistico degli impianti a blocco chiuso, delle simmetrie bilaterali, delle stereometrie elementari, che entrambe le correnti dell'Art Nouveau avevano, se non abbattute, certamente accantonate. La riduzione del protorazionalismo, segnatamente quella geometrica, acquisterà un accento nuovo (ma saremo già in pieno razionalismo) o in forza di una grande capacità di sintesi espressiva — e pensiamo alle opere di Wright che nella sua prima esposizione europea del 1910 mostrò risolti molti problemi di fronte ai quali si erano dibattute invano molte ricerche protorazionaliste — o grazie all’apporto delle avanguardie figurative. Queste diedero allo stile geometrico un contributo che non va frainteso come una mera semplificazione, ma ridussero (nel senso che trasferirono e trasformarono) il linguaggio figurativo a nuovi codici e a nuovi significati.
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Le variazioni del protorazionalismo Come abbiamo già affermato nell’analogo paragrafo sull’Art Nouveau, studieremo l’opera di alcuni maestri non tanto per le loro specifiche valenze storiche ed estetiche, quanto per il loro apporto, alla formazione del codice protorazionalistico e dei sottocodici (le scuole nazionali). Se consideriamo lo stile che accomuna la produzione di Hoffmann, di Loos, Behrens, Perret e Garnier, per citare gli architetti maggiori, come un fenomeno sviluppatosi in continuità o in opposizione con l'Art Nouveau, risulta che il contributo di essi, nonché individuale, comprende anche tanti rispettivi apporti di scuola. Già parlando dei personaggi della Secessione viennese abbiamo notato una evoluzione verso il protorazionalismo e protorazionaliste si possono considerare alcune opere di Wagner e la maggior parte di quelle di Josef Hoffmann (18701956). Questi, dopo aver curato una serie di allestimenti e arredamenti con un gusto assai vicino a quello di Mackintosh e costruito negli anni dal 1901 al 1904 un gruppo di ville sulla Hohe Warte a Vienna, che segnano una «semplificazione» stilistica rispetto alla Secessione, realizza nel 1903 il sanatorio di Purkersdorf, che possiamo considerare, privo com’è di concessioni decorative, come il primo edificio protorazionalista. Notiamo per inciso che d’ora in poi, nell’ambito di questo stile, un’opera risulta tanto più valida quanto più povera di superfetazioni decorative. Come l'Art Nouveau aveva combattuto l’eclettismo storicistico, così il protorazionalismo combatte quel complesso e radicato costume di un’arte rivestita con spreco, quella serie di norme obbliganti sotto l’apparente libertà della fantasia, quel gusto che alla rude sostanza preferisce la molle e decadente apparenza, in una parola 1’«ornamento». Nel 1905 Hoffmann inizia la costruzione del suo capolavoro, il Palazzo Stoclet a Bruxelles, che sarà ultimato solo nel 1914 Quest’opera, se per il suo dispendioso programma, per il suo carattere di ricca dimora magnatizia e per alcune concessioni decorative riflette
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ancora vecchie istanze, per la sua inedita conformazione spaziale, per il suo rigore stilistico e l’eccezionale coerenza di tutte le sue parti, rispecchia anche molte esigenze della nuova architettura. Pertanto essa può considerarsi come il più tangibile punto di passaggio tra la Secessione e il protorazionalismo. La carriera professionale di Hoffmann è ricca di opere, tra le quali ricorderemo un secondo gruppo di ville sulla Hohe Warte, il Padiglione dell’Austria, alla mostra del Werkbund del ’14 a Colonia e, oltre il periodo da noi considerato, le case popolari del Comune di Vienna sulla Stromstrasse del ’24 e sulla Luxemburgstrasse del ’31, le case nella Internationale Werkbundsiedlung di Vienna del ’32, il Padiglione austriaco alla Biennale di Venezia del ’34 fino all’attività del secondo dopoguerra in massima parte svolta nel settore dell’edilizia popolare; ma egli rimane nella storia dell’architettura per il sanatorio di Purkersdorf e il palazzo Stoclet, nonché per aver fondato e diretto le Wiener Werkstätte. Questa ditta, ampliatasi ben presto con uffici, laboratori, locali di esposizione e di vendita, può considerarsi l’esperimento di produzione artigianale moderno meglio riuscito fra i tanti generati dalla famosa bottega di Morris e il settore nel quale Hoffmann diede il suo maggiore contributo al protorazio nalismo, alle Arts Déco, al cosiddetto «stile ’900». Parlando delle Wiener Werkstätte, dopo aver ricordato il giudizio di Max Eisler in cui Hoffmann viene definito artigiano più che architetto e i suoi edifici considerati come ingrandimenti di mobili e soprammobili, Giulia Veronesi scrive:«Durante un trentennio, dal 1903 al 1933, esse furono al centro dei suoi interessi di artista e di uomo, in pari tempo rappresentando nel mondo l’Austria nella più tipica forma della sua “arte moderna”, quella che, con un termine non del tutto proprio per quanto esplicitamente indicatore, chiameremo decorativa: l’arte dell’oggetto, dal mobile all’utensile, disegnato secondo le linee di una bellezza di origine puramente “estetica”, fine a se stessa sebbene congeniale ad una sicura funzionalità, e determinante con forza un gusto, persino una moda. Quello delle “Wiener Werkstätte” fu il gusto
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aristocratico e non di rado lezioso dell’alta borghesia viennese, a cui fu anche destinata in massima parte l’architettura di Hoffmann» 4. [4G. Veronesi, Josef Hoffmann, Il Balcone, Milano 1956, p. 11]. Aggiungiamo a queste icastiche considerazioni che, se aristocratico all’origine, lo stile dell’arredamento iniziato da Hoffmann venne ben presto acquisito anche dalla media e piccola borghesia, diffondendosi con grande successo e soppiantando le tradizioni locali in tutta Europa. In complesso l’apporto di Hoffmann, che poi sintetizza l’intero contributo austriaco al protorazionalismo, può considerarsi non tanto la fine di ogni accento decorativo, quanto quello di una evoluzione semplificatrice della Secessione; né le sue opere si riducono ad una semplice trasformazione dell’«ornamento», in quanto tentano di affrancarsi, talvolta riuscendovi, dalle bloccate simmetrie di Wagner. Cosicché il suo non è solo un rinnovamento del gusto, ma uno che incide anche nella conformazione degli spazi. Tuttavia, ed è qui che sta l’ambiguità maggiore del Nostro, la sua architettura ha bisogno di un costante supporto linguistico extra architettonico. Quando vien meno il contributo pittorico di Gustav Klimt, l’artista che oggi ci sembra il più significativo del gruppo viennese, oppure s’eclissa l’originale slancio delle Wiener Werkstätte, Hoffmann ricade in un classicismo che, sebbene anch’esso estremamente raffinato, non si giustifica di fronte alle sue opere più originali. Il caso di Hoffmann conferma l’idea che il protorazionalismo si rivela esangue senza il sostegno delle avanguardie figurative. Diverso è il caso di Loos che tentò la conformazione di un’architettura autonoma e «pura». Egli non realizzò mai edifici del valore del Palazzo Stoclet, né incise così diffusamente sul gusto del tempo come fecero le Wiener Werkstätte, ma rimane nella storia dell’architettura contemporanea come esempio di grande rigore e coerenza sia al livello teorico che operativo; il carattere emblematico della sua
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iconoclastia ebbe notevole ripercussione sulla generazione successiva e in generale su tutto il Movimento Moderno. Le sue opere più famose (la villa Karma a Montreux del 1904, la casa Steiner, il fabbricato sulla Michaelerplatz del 1910, la casa Scheu del ’12 e, oltre il periodo del protorazionalismo, la casa Rufer del ’22, quella del poeta dadaista Tristan Tzara del ’26, la casa Müller del ’30, ecc.) sono quasi tutte una dimostrazione di due assunti fondamentali: a) lotta ad ogni forma di decorazione per realizzare una economia che abbiamo definito di natura «estetica» e per una sociale avversione allo spreco; b) tendenza a dimostrare l’indipendenza dell’architettura dalle altre forme d’arte figurativa, puntando al suo specifico spaziale, alle proprietà figurative insite nella natura dei materiali: le venature dei marmi, le fibre del legno, il colore degli stucchi, ecc. In particolare, per quanto concerne la conformazione degli spazi interni, Loos fonda la sua progettazione su un principio di economia e di proporzionamento, che alcuni ritengono derivatogli dall’esperienza del suo viaggio in America (189396) e per parte nostra anche dalla trattatistica rinascimentale. Tale principio, definito Raumplan muove dalla considerazione che gli ambienti planimetricamente ampi richiedono un’altezza maggiore degli ambienti contigui aventi una pianta più piccola; ne consegue che in sezione non è possibile coprire con un solo solaio invasi di altezza differente; così Loos incastra verticalmente uno sull’altro gli ambienti a quota diversa assicurando il passaggio dall’uno all’altro dislivello mediante scale e gradini che peraltro articolano in modo assai originale la spazialità degli invasi, finché l’intera aggregazione degli spazi interni non trova la sua conclusione sotto un unitario tetto piano. Si realizza così una notevole economia spaziale (ciascun volume è grande quanto basta ad assolvere la sua funzione) e una notevole varietà nella stessa conformazione degli spazi interni. Sulle facciate, questi incastri di ambienti a varie quote sono denunciati dalle aperture disposte in maniera dissimmetrica.
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Come l’opera di Horta per l’Art Nouveau, così quella di Loos risulta la più paradigmatica del protorazionalismo; in quanto tale non è esente dai limiti propri a questo codicestile. Infatti, oltre ad avere un divario tra gli spazi interni tanto articolati e quelli esterni che assai spesso valgono come mero involucro, le opere di Loos non riescono a sottrarsi al neoclassicismo. E questo è tanto più frequente quanto più impegnative sono le prove che l’architetto è chiamato ad affrontare, segnatamente nei progetti che risultano assai più classicistici delle opere effettivamente realizzate, per non parlare del suo elaborato per il concorso della «Chicago Tribune» del ’23 consistente in un grattacielo a forma di colonna dorica, che è da considerare forse un gesto polemico, ironico, ispirato magari dai suoi amici dadaisti [5Eppure in un suo scritto incredibilmente Loos afferma: « La grande colonna dorica sarà costruita. Se non a Chicago, in qualche altra città. Se non per la Chicago Tribune per qualche altro. Se non da me, da un altro architetto » (cit. in H. Kulka, Adolf Loos, Schroll, Wien 1931,pp. 378]). È ben vero che le sue più tarde e significative opere, le case Tzara, Kuhner, Müller, Moller abbandonano quasi ogni inflessione classicistica, ma è vero altresì che tali opere sono già oltre il protorazionalismo. Cosicché Loos è uno dei pochi architetti, forse il solo della sua generazione, a passare dallo stile che studiamo al razionalismo e a conservare una notevole coerenza perché seppe tradurre il classicismo in classicità. Se per i contributi di Hoffmann e di Loos al protorazionalismo, che sono diversi ma non totalmente dissimili, è lecito parlare di un apporto della scuola viennese, ancor più legati alle tradizioni nazionali sono quelli dei francesi Perret e Garnier. Alle loro spalle sta l’architettura dell’ingegneria ottocentesca, l’invenzione ed il perfezionamento del cemento armato che è frutto della ricerca tecnologica francese (J. Monier, F. Coignet, F. Hennebique, A. de Baudot), la tradizione storiografica di indirizzo tecnicistico (ViolletleDuc, Enlart, Choisy) e per quanto concerne l’opera urbanistica di Garnier, questa ha chiare
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ascendenze nella tradizione utopistica francese (SaintSimon, Fourier, Godin ecc.). Il contributo di Auguste Perret (18741954) al protorazionalismo sta in primo luogo nell’aver acquisito all’architettura la tecnica del cemento armato, così come fece Horta con la tecnica del ferro. Tuttavia, mentre con l’architettura dell'Art Nouveau la struttura metallica veniva «piegata» agli stilemi di quel gusto, nella variante del protorazionalismo prodotta dall’opera di Perret si direbbe che è l’architettura ad adeguarsi alla struttura del cemento armato. Ma in realtà ci troviamo in presenza di un doppio compromesso: se la conformazione architettonica risente indubbiamente dell’uso del cemento armato, questo, a sua volta, pur essendo potenzialmente capace di produrre le più libere e plastiche forme, viene utilizzato — per motivi economici, di più facile calcolo statico, di più elementare organizzazione tecnologica — in strutture a gabbia con elementi orizzontali e verticali, ossia in maniera non dissimile dal ferro o dal legno. Perret è tra i primi costruttori a tradurre in elementi lineari, in rigidi telai la plastica fluidità del cemento armato e certamente il primo a trarre da questo procedimento il massimo effetto architettonico. La disposizione pianimetrica dei pilastri gli consente il massimo sfruttamento e la maggiore libertà degli spazi interni; la messa in evidenza sulle facciate della struttura portante gli consente di caratterizzare anche figurativamente le sue fabbriche. D’altro canto il problema dei tamponamenti, dell'encadrement, dei pannelli di chiusura dei riquadri lasciati dall’ossatura portante può essere risolto in infiniti modi; quando questi vuoti non vengono chiusi da ampie vetrate, inevitabilmente è necessario rifarsi ad una indicazione figurativa, ad elementi di un dato momento del gusto. Pertanto Perret, contrariamente a Loos, non abbandona la «decorazione». Nel suo capolavoro, la casa di rue Franklin a Parigi del 1903 (che studieremo in dettaglio), i tamponamenti sono realizzati con pannelli di ceramica a motivi floreali; nel garage di rue Ponthieu del 1905, con un grande
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rosone in ferro e vetro; nelle chiese di Notre DameduRaincy del ’22 e di Santa Teresa di Montmagny del ’26 l’involucro parietale è costruito con una tessitura di minuti motivi geometrici, anch’essi in cemento armato; negli edifici relativi alla ricostruzione di Le Havre, realizzati nel secondo dopoguerra, la soluzione dei tamponamenti è affidata al modulo delle pannellature prefabbricate. Sebbene l’architettura di Perret non sia riducibile al binomio struttura elementi di chiusura, perché uguale peso presenta l’articolazione degli spazi interni, resta tuttavia certo che uno dei suoi maggiori apporti al moderno linguaggio architettonico è quello di avere con estrema chiarezza definito la relazione tra elementi portanti e portati in una condizione dialettica che informerà tutta la produzione successiva. Partito dal compromesso di una tecnologia «adattata» alle circostanze e d’una conformazione architettonica «adattata» alle possibilità di una simile tecnica, Perret seppe operare una valida sintesi di questi due fenomeni configurando un linguaggio che è ancora attuale. Anche per l’opera di Perret va ripetuto il limite proprio a tutto il protorazionalismo: le sue travi e i suoi pilastri lasciati in evidenza ripropongono o richiamano alla mente i marcapiani e le lesene giganti del linguaggio classicorinascimentale; l’impianto bloccato e simmetrico delle sue fabbriche riconferma la vecchia collusione tra neoclassicismo e ingegneria; le sue opere più recenti non sembrano risentire minimamente del razionalismo e delle avanguardie figurative. Tuttavia se queste sono le carenze tipiche del codicestile che studiamo, va d’altro canto riconosciuto il merito a Perret di una straordinaria coerenza: egli (come del resto il suo connazionale Garnier, sebbene in misura minore) rimase un architetto protorazionalista per tutta la vita. Tony Garnier (18691948) fornisce un’altra versione del protorazionalismo, quella per cui ogni opera architettonica s’inquadra in un programma urbanistico. Nel 1901 Garnier elabora un grande progetto urbanistico ed edilizio per una cité industrielle di 35.000 abitanti da edificarsi in un luogo imprecisato avente tuttavia
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particolari caratteristiche. L’insediamento riguarda una zona con una parte in pianura e una in collina; lungo la parte bassa del territorio scorre un fiume in cui confluisce dall’alto un torrente. Nell’ansa limitata dai due corsi d’acqua è previsto il nucleo industriale, che costituisce la ragion d’essere dell’intero piano urbanistico. Un’ampia fascia di verde separa tale nucleo e gli impianti ferroviari dalla zona residenziale posta a mezzacosta sulla collina; nella parte più alta di questa è la zona ospedaliera. La parte residenziale della città ha un andamento allungato e presenta sull’asse mediano il centro civico, le scuole, le attrezzature sportive. L’area destinata alle abitazioni è suddivisa in lotti dalla dimensione di m.150X30, che possono essere edificati in vari modi purché se ne lasci la metà libera a verde pubblico. I tipi edilizi previsti possono essere case unifamiliari o collettive, ma sono vietati i cortili e le chiostrine; sono fissate le distanze tra gli edifici e i rapporti di questi con le strade; il materiale da costruzione è il cemento armato, le coperture sono a tetto piano, le finestre ampie e regolari, i partiti architettonici sono privi di decorazione. Oltre a questa edilizia residenziale e le norme che ne regolano la costruzione e l’utenza, i progetti dei principali edifici pubblici precorrono di oltre vent’anni analoghe realizzazioni tipologiche. Bastano questi pochi cenni per intendere il senso di grande anticipazione, nonché la globale visione unitaria di questo progetto, curato in ogni dettaglio da Garnier ed accompagnato, come s’è detto, da una adeguata regolamentazione edilizia. Pertanto esso è considerato a buon diritto il modello dell’urbanistica razionalista per la sua rigorosa funzionalità, zonizzazione, lottizzazione ecc. Sia nel 1901 che nella mostra tenuta a Parigi nel 1904, il progetto di Garnier non riscuote il pubblico consenso [6Il progetto venne pubblicato a Parigi nel 1917 in un volume dal titolo: T. G., Une cité industrielle, étude pour la construction des villes. e l’architetto ritorna a Lione, sua città natale, dove tra il 1905 e il ’19, sostenuto dal sindaco radicale E. Herriot, esegue Les grands travaux de la ville de Lyon [7E il titolo di un'altra pubblicazione di Gamier edita a Parigi nel
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1919]. Questi consistono in una serie di opere, rientranti in una sorta di piano unitario, comprendente il complesso degli edifici per il macello e il mercato per il bestiame (1903 1913); lo stadio (191316); l’ospedale della GrangeBlanche (191530); il quartiere di case popolari detto EtatsUnis (192835), ecc. Dette opere, nonché progettate alcuni anni prima della loro realizzazione, risalgono nella loro generale e talvolta particolare concezione ad analoghi impianti previsti sin dai 1901 nel progetto per una cité industrielle. Cosicché questo giovanile studio può considerarsi come la falsariga di tutto quanto Garnier costruì a Lione, con uno scarto fra disegno e realtà talvolta minimo, e in generale di tutta l’attività professionale del Nostro. Anche in Garnier troviamo il solito limite dell’ispirazione classicistica comune a tutto il protorazionalismo; anzi si direbbe che manchi in lui l’intenzione stessa di ricercare un nuovo linguaggio, tutta la sua opera basandosi su una semplificazione geometrica, su una riduzione ad un «presunto» essenziale che gli consente di produrre alcune fabbriche, per così dire, senza tempo. I suoi edifici possono datarsi con un decennio in più o in meno senza che ciò comporti un mutamento di giudizio. E se questo può considerarsi un’altra loro limitazione, una sorta di indifferenza per quanto avveniva nel campo delle arti negli anni ’10 e ’20, d’altra parte denota la fedeltà ad un «disegno» e ad un’idea cui l’architetto lionese rimase legato tutta la vita. In altre parole, le opere di Garnier altro non sono che le tessere pazienti di un mosaio urbanistico e d’una urbanistica non storicistica (C. Sitte), non sociologica (Howard), non ingegneresca (Wagner), non negatrice della città stessa (la cittàgiardino o la Broadacre di Wright), ma come la può concepire un architetto. In tal senso la più chiara indicazione ci viene dallo stesso Garnier quando nel volume del ’17 che illustra il progetto della cité industrielle scrive: «Gli studi di architettura che presentiamo qui, in una lunga serie di tavole, riguardano l’organizzazione di una città nuova, la città industriale, poiché la maggior parte delle città nuove, che saranno fondate d’ora in poi,
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saranno dovute a motivi d’ordine industriale, onde abbiamo considerato il caso più generale. D’altra parte in una città di questo genere tutte le applicazioni dell’architettura possono trovar posto a buon diritto, e vi è la possibilità di esaminarle tutte». Come si vede egli affronta il suo compito non con la mentalità del pianificatore verboso e spesso velleitario, ma dell’architetto che colloca le sue opere in un piano più vasto, che a sua volta si sostiene sulla realtà di tali opere, saldandosi in un tutto unitario di architettura e urbanistica; non a caso Garnier esordisce chiamando i suoi elaborati «studi di architettura». La versione tedesca al protorazionalismo non si limita all’opera, pur assai notevole di un solo architetto, Peter Behrens, ma riflette numerosi fenomeni di varia e complessa natura. Peraltro il codicestile che studiamo coincide con gli anni del decollo della cultura architettonica tedesca, ossia del paese che assumerà la leadership del Movimento Moderno. Cosicché parlando del protorazionalismo in Germania si va ben oltre un moto del gusto e d’uno stesso codice linguistico incontrandosi eventi nodali per tutta la successiva vicenda architettonica. Nel capitolo precedente abbiamo parlato del trasferimento dell’organizzazione militare tedesca nel campo della produzione industriale; della istituzione di numerose scuole d’arte applicata (le famose Kunstgewerbeschule dell’età guglielmina); della formazione di molte associazioni tra produttori; dell’appoggio dello stato a tutte queste manifestazioni artisticoproduttive. Nel primo decennio del secolo il quadro dell’ambiente tedesco s’infittisce di altri nuovi fattori: le lotte sociali, la costituzione di una sorta di proletariato della cultura, la crisi dello Jugendstil, la nascita dell’espressionismo, lo scontro fra contrastanti aspetti tipici della cultura tedesca: l’individualismo romantico e lo spirito associativo, l’apertura verso il linguaggio straniero e l’ Heimatkunst, ossia l’espressione più autoctona della tradizione popolare germanica; l’arte pura e quella applicata, la cui diversità non nasceva soltanto dai generici discorsi dell’opinione
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pubblica, ma trovava un solido fondamento nella tradizione filosofica del paese, ecc. Pertanto in questo coacervo di spinte che venivano producendosi negli anni ’10 le cose non si svolsero secondo il ben noto schema lineare Art and Crafts Kunstgewerbeschule Werkbund Bauhaus. D’altra parte, non potendo in questa sede produrre analisi più puntuali della complessa vicenda donde nacque il Movimento Moderno in Germania, ne angoleremo i fatti principali dalla prospettiva di una politica culturale. Questa, passata la breve stagione dello Jugendstil — che non fu importante in sé quanto nella sua fusione con l’espressionismo —, mirò ad importare nel settore dell’architettura e delle arti applicate il modello inglese, che appariva tanto più adatto alle nuove esigenze dopo le orge decorative della Secessione; potenziò al massimo tutte le energie produttive locali e vinse le numerose resistenze — la tradizione artigianale, l’individualismo degli espressionisti, le rivalità regionali ecc. — facendo leva sia sul diffuso senso di modernità e di progresso tecnico e civile, sia sullo spirito nazionalistico con un palese risvolto economico: la conquista dei mercati esteri. Della suddetta politica culturale il maggiore protagonista fu Muthesius che abbiamo già ricordato quale addetto culturale presso l’ambasciata tedesca a Londra, esperienza che gli servì a diffondere in patria gli esiti del movimento delle Arts and Crafts, nonché l’edilizia domestica inglese: il suo libro Das englische Haus del 1905 ebbe un’influenza notevole sul protorazionalismo tedesco. Successivamente, sempre ricoprendo cariche pubbliche, Muthesius si occupò di organizzazione scolastica, di associazioni culturali e produttive, di commercio estero. Nel 1907 egli appoggia la fondazione del Deutscher Werkbund, un’associazione fondata da produttori, politici, artisti, uomini di cultura, il cui programma, come dice lo statuto «è di mobilitare il lavoro artigiano, collegandolo con l’arte e con l’industria. L’associazione vuol fare una scelta del meglio nell’arte, nell’industria, nell’artigianato e nelle forze attive manuali; vuol mettere assieme gli sforzi e le tendenze verso il
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lavoro di qualità esistente nel mondo del lavoro; forma il punto di raccolta per tutti coloro che sono capaci e desiderosi di produrre un lavoro di qualità» [8 Cit. in N. Pevsner, I pionieri del Movimento Moderno, daWilliam Morris a Walter Gropius, Rosa e Ballo, Milano 1945, pp. 1223]. Come si vede, vuoi perché il Werkbund era nato dalla «Terza esposizione dell’artigianato tedesco», tenuta a Dresda nel 1906, vuoi perché era buona politica cooptare tutte le forze disponibili, anche quelle artigianali e persino le «forze attive manuali», il programma della nuova associazione è ancora incerto fra industria e artigianato e si risolve in un generico richiamo al Qualitätsarbeit. Assai più risolute, rispetto a tale programma, nell’orientamento verso il Maschinenstil risultano non solo le prese di posizioni di storici dell’arte quali Alfred Lichtwark, che per primo parlò di Sachlichkeit (oggettività, correttezza, corrispondenza esatta e calcolata di un oggetto alla funzione) o di politici quali F. Neumann, anch’egli schieratosi per l’industrializzazione ed il funzionalismo, ma soprattutto del fabbricante Karl Schmidt che fonda nel 1898 le Deutsche Werkstätten, una impresa produttrice di mobili di serie, a basso costo, ad elementi unificati e che si vantava di «far nascere lo stile dei mobili dallo spirito della macchina». Anche Muthesius è ovviamente per una Sachlich Schönheit, per una architettura tendente al tipico, per la standardizzazione, per la produzione in serie, ecc. Ma coesiste in lui, come funzionario statale, la preoccupazione che un atteggiamento troppo radicale possa alienargli il favore di quanti sono ancora su posizioni artigianali, artisticoromantiche, individualistiche. E queste forze non vanno assolutamente perdute per l’unitario programma di politica economicoculturale. Ne abbiamo conferma nel suo intervento al congresso del Werkbund del 1911, avente per tema «La spiritualizzazione della produzione tedesca» dove, tra l’altro, egli afferma: «Questo sviluppo del gusto, il piacere di operare sulla Forma, ha un decisivo significato per il futuro stato della Germania nel mondo. Prima dobbiamo mettere ordine nella nostra stessa casa, e
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quando tutto è chiaro e luminoso dentro, possiamo cominciare ad avere dei risultati fuori. Solo allora ci mostreremo al mondo degni del compito, tra l’altro, di ridare al mondo e alla nostra epoca i perduti benefici di una cultura architettonica»[9Cit. in R. Banham, Theory and Design in the First Machine Age, The Architectural Press, London 1962, pp. 757]. Non vorremmo, con questi risvolti nazionalistici fornire un’idea errata del Werkbund — i giudizi unilaterali e generalizzanti sulla cultura tedesca risultano quasi sempre aberranti — né con queste dichiarazioni di Muthesius offuscare i meriti di quest’associazione che furono moltissimi nella vicenda del Movimento Moderno. Tuttavia alcune finalità del Werkbund non si differenziano molto da quelle dell’organizzazione produttiva nazionale che prese l’avvio in ogni settore industriale tedesco dopo la vittoria del ’70. Il sostegno ideologico del Werkbund sembra peraltro confermare la tesi del capitalismo come vocazione religiosa, dello sforzo industriale come palingenesi collettiva dell’anima germanica. EMMA In questa stessa chiave è da interpretare l’opera di Peter Behrens (18681940) sia per l’ampiezza dei settori nei quali intervenne, sia soprattutto per il suo rapporto con la committenza. E proprio attraverso i committenti si può registrare nonché l’evoluzione personale dell’architetto, lo stesso evolversi socioculturale del movimento tedesco del primo ventennnio del secolo. Al suo esordio Behrens lavora per un mecenate, il già citato Granduca Ernst Ludwig von Hessen nella colonia di Darmstadt, occupandosi in prevalenza di arti decorative e di arredamento; il suo secondo committente è l’AEG, che rappresenta per lui il grande incontro con il design e l’architettura per i grandi impianti industriali; il terzo committente è il Comune socialista di Vienna, per il quale s’impegna nel settore dell’edilizia popolare. In quest’arco completo, dal sogno di un aristocratico alle realistiche istanze di una borghesia industriale avanzata fino al programma di un’amministrazione di pubblico interesse, Behrens ha modo di effettuare una delle esperienze professionali più complete che
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siano mai state possibili ad un architetto moderno. Ma ai fini del nostro discorso, mirante a cogliere il quadro della cultura tedesca negli anni del protorazionalismo e d’individuare in che modo quel contesto socioculturale incise su questo codice stile, l’esperienza di Behrens presso l’AEG risulta la più significativa. Chi era intanto l’Allgemeine Elektrizitäts Gesellschaft e quali erano le sue implicazioni tecniche, sociali e politiche? Quest’azienda è tra le prime ad effettuare quelle trasformazioni che dal ’70 in poi imposero l’industria tedesca al livello internazionale. Le primitive officine del signor Weber ricevettero un forte impulso dall’ingegnere berlinese ebreo Emil Rathenau che operò una sintesi fra le più progredite esperienze europee nel campo delle macchine elettriche e i moderni sistemi americani; ottenuta la concessione dei brevetti Edison, fonda nel 1889 l’AEG. Una volta acquisita la struttura tecnologica, perfezionati gli strumenti di produzione, avviati imponenti cicli produttivi e affermatasi sul piano commerciale, l’azienda, che intanto aveva modernamente organizzato il rapporto col personale, affronta una seconda fase, che oggi definiremmo neocapitalista. Artefice di tale svolta è il figlio di Emil Rathenau, Walter. Questi eredita la grande esperienza imprenditoriale paterna ma, essendo oltre che fisico, ingegnere, specialista di elettrochimica, anche vivamente interessato alle «scienze dello spirito» (fu infatti allievo di Helmholtz e di Dilthey), affronta in maniera nuova la problematica sociale ed economica, tecnica e politica, ideologica e sindacale che, specie nella Germania di quegli anni, si imponeva ad una grande impresa industriale. Walter Rathenau è uno dei primi dirigenti d’azienda che tentarono un equilibrio tra i fattori suddetti, che concepirono la grande industria come una forza collettiva ed un potenziale idoneo ad «una più equa distribuzione dei beni di natura» (Argan) nell’intera sfera sociale. In altre parole, la concezione di Rathenau, in cui confluirono la fiducia nella cooperazione tra capitale e lavoro, il revisionismo di Bernstein, lo sforzo di scongiurare
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l’alienazione prodotta dal lavoro meccanico e, per quanto attiene agli aspetti qualitativi dei manufatti, il dibattito e l’azione del Werkbund, può riassumersi appunto in quel pensiero citato del capitalismo come vocazione religiosa, teorizzato, sia pure in senso avalutativo, da Max Weber. Nel 1907 Behrens succede ad Alfred Messel nell’incarico di consulente artistico dell’AEG di Berlino; per questa ditta curerà la forma di ogni prodotto, dalle lampade ai radiatori, dall’arredamento delle filiali alla grafica pubblicitaria, realizzando la prima e forse insuperata figura di industriai designer, in modo tanto completo. [10 Sebbene la questione del design rimarrà problematica ed aperta, il successo di Behrens presso 1'AEG sembra in un certo senso confermare il giudizio per cui: « E proprio all'inizio di una nuova Tecnica Espressiva che il livello è più alto. Sulle nuove tecniche pesano meno pregiudizi e tradizionalismi. Le nuove arti sono generalmente concepite da uomini nuovi che non sono schiacciati dal passato. La vetrata, l'arazzo, la pittura a olio non sono mai stati più grandi che nella loro prima età. La fotografia ottocentesca è spesso più notevole di quella del nostro tempo. E i grandi film devono essere già stati girati »; cfr. J. Gimpel, Contro l'arte e gli artisti, Bompiani, Milano 1970, p. 193]. Nel 1909 inizia con la Turbinenfabrik dell’AEG a Berlino (il suo capolavoro architettonico) ad operare nel settore in cui, come architetto, non ebbe rivali: l’edilizia industriale. Oltre agli altri impianti costruiti per la stessa azienda, Behrens realizza nel ’12 le officine del gas a Francoforte, nello stesso anno gli Uffici della Mannesmann a Düsseldorf e gli Uffici della Hoechster Farbwerke a Francoforte del 192024, le acciaierie HOAG a Oberhäuser nella Ruhr del 192125, la Manifattura di Tabacchi a Linz del 1930. Nel campo dell’edilizia popolare Behrens progetta nel 1910 un gruppo di case per lavoratori della AEG a Hennigsdorf; nel 1915 le Siedlungen Berlino Lichtenberg e BerlinoOberschöneweide; due anni dopo il quartiere a Spandau; dal 1924 al ’26 realizza le case a blocco chiuso di Vienna, nel programma di edilizia popolare promosso da quel Comune sin dal
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1920, quando cioè A. Loos ne divenne l’architetto capo. Svolse inoltre quasi ininterrottamente l’attività didattica finché nel ’27, trasferitosi a Vienna, occupò la cattedra che era stata di Otto Wagner. A conclusione del nostro discorso sul protorazionalismo tedesco, intendiamo ribadire che qui il nostro codicestile si caricò di tali e tante valenze da superare se stesso. Quasi tutta la tematica di fondo socioculturale e politica del razionalismo è chiaramente anticipata, anche se persistono non pochi nodi che la produzione postbellica tenterà, spesso riuscendovi, di sciogliere. Ma se in definitiva ci chiediamo qual è, al di là delle vicende ricordate, lo specifico apporto del protorazionalismo tedesco, rispondiamo che esso sta soprattutto nell’aver assunto come fattore positivo e positivo criterio di valutazione la «quantità». Col protorazionalismo si comincia a parlare esplicitamente di fenomeni che fino a qualche anno prima sembravano contraddizioni in termini: sachliche Schönheit, Qualitätsarbeit, sachliche Ausbildung, Typisierung, Maschinenstil, ecc. non sono più espressioni metaforiche conciliative di buon gusto e funzionalità, ma termini entrati nel glossario architettonico e critici a denotare una valenza estetica tra le più tipiche del nostro tempo, per cui non si dà qualità e «bellezza» di un oggetto se questo non è, almeno potenzialmente, quantificabile. LE OPERE DEL PROTORAZIONALISMO La casa di rue Franklin Nel 1903 August Perret(18741954) realizza con questo edificio la sua prima opera di rilievo. Il fabbricato per abitazioni alto otto piani s’inserisce fra i muri ciechi di due edifici contigui; data la poca profondità dell’area, non si poteva ricavare un cortile interno né, posto che si riuscisse ad aprire una chiostrina, aprirvi finestre; non v’era quindi altra possibilità di luce diretta se non dalla strada. Perret
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disegna allora una pianta ad U e nella parte centrale arretrata incastra due balconi a 45°, aumentando così la superficie di prospetto per risolvere l’illuminazione diretta degli ambienti interni. Il piano tipo, oltre alla scala e ai servizi, presenta cinque vani principali, tanti cioè quanti sono stati ricavati articolando la parete nel modo suddetto. Tali locali per la libera distribuzione dei pilastri, disponendo diversamente i tramezzi che a questi si collegano, possono mutare anche di numero e di conformazione. L’architetto realizza così una pianta libera pur nell’angustia dell’area disponibile. Partito dalla struttura in cemento armato, cui si devono tutte le valenze statiche, distributive ed espressive dell’opera, Perret svuota il pianterreno da ogni chiusura muraria, continua il prospetto compatto per cinque piani, arretrando gradualmente gli altri con attici, superattici e altane fino al tetto piano. Questo variare dell’edificio in senso altimetrico completa, integra e ripropone un’articolazione equivalente a quella della sua ricca forma pianimetrica. La struttura, sebbene rivestita, è chiaramente in evidenza. Travi e pilastri, elementi verticali e orizzontali costituiscono lo scheletro di questo edificio, ma anche uno dei suoi principali caratteri architettonici. Infatti questa è la prima opera in cemento armato dove la presenza degli elementi strutturali serve anche a scandire un ritmo lineare, a definire uno spartito figurativo. Fra tali elementi sono inserite le pannellature di tamponamento; è significativo che pur essendo tutto l’edificio rivestito in ceramica, quella che ricopre travi e montanti è a listelli lisci, mentre quella delle pannellature reca motivi floreali. Questa differenza è un indubbio segno della volontà dell’autore di tenere chiaramente distinte le parti portanti da quelle portate dell’edificio. Va infine segnalata la grande parete vetrata (un’anticipazione del vetrocemento) posta per illuminare la scala sul prospetto secondario, che, come s’è detto, non poteva avere aperture. Forse in reazione a ciò, e in genere alla difficoltà di dar luce a tutti gli ambienti, nella fronte principale i vuoti delle aperture, che vanno tutte da pavimento a soffitto,
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prevalgono nettamente sui pieni, ridotti in pratica al solo scheletro strutturale. In conclusione potremmo apprezzare questo edificio, nato con un programma commerciale della ditta «Perret frères entrepreneurs» e fra cento vincoli di spazio e di regolamenti, come un’opera che per la prima volta sperimenta soluzioni ed elementi che resteranno patrimonio comune del successivo linguaggio architettonico validi fini ai nostri giorni, ma l’elenco di questi «primati» ci impedirebbe di cogliere il valore intrinseco dell’opera. Come scrisse Rogers, «la vera importanza non consiste tanto nella novità, quanto nel fatto che l’elemento strutturale ha subito la volontà formatrice d’uno spirito architettonico, il quale gli ha conferito un’espressione, un ritmo, un ordinamento: “l’architecture n’est pas dans la matière, elle est dans l’ordonnance”, ricordiamocelo in particolare per questo esempio, quando gli storici, presi dall’entusiasmo della primizia, ne hanno troppo spesso trascurato il sapore» 11 . 11' E. N. Rogers, Auguste Perret, Il Balcone, Milano 1955, p. 25. La casa Steiner Abbiamo descritto nella prima parte del presente capitolo il procedimento tipicamente loosiano del Raumplan; questo viene forse per la prima volta applicato nella casa Steiner, costruita a Vienna nel 1910. Qui come nell’edificio di Perret sopra esaminato tutto sembra nato dall’intento di superare un regolamento edilizio; in particolare il vincolo che imponeva alla facciata principale verso la strada di essere poco più alta d’un piano. Partendo da questa condizione, Loos sviluppa il suo edificio inserendolo nel dislivello fra la strada e il giardino, ossia ricavando su quest’ultimo un’altezza di quattro piani e raccordando la copertura di essi con quella dell’unico piano concesso sulla strada mediante un grande tetto curvo. Tutta l’articolazione degli ambienti interni, oggi notevolmente trasformati, doveva basarsi
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appunto su quell’accostamento di ambienti grandi e piccoli, cui s’incastravano superiormente ambienti piccoli e grandi in modo da ottenere una varietà dello spazio interno pur conservando un unitario piano di copertura, anzi qui avendo una copertura mistilinea prima piana e poi curva. Che l’interno presentasse i dislivelli tipici dell’articolazione spaziale suddetta, la casa Steiner lo accusa chiaramente sui prospetti laterali dove le finestre, sfalsate e di diversa dimensione, denunciano ambienti interni decisamente dissimili. Il che contrasta in modo notevole con la facciata aperta sul giardino tutta ordinata e composta nella sua iconoclastica e classicistica nudità. Qui il volume unico è articolato con due avancorpi che delimitano una parete centrale a sua volta divisa in due parti orizzontali, la superiore lievemente rientrante dal filo di quella sottostante. Le aperture si differenziano a ogni piano, ma non tanto da interrompere un allineamento orizzontale, né la speculare simmetria dell’intera composizione. La casa Steiner non è, come appare dalla sua facciata più riprodotta, quella sul giardino, un’opera che si distingue per i suoi caratteri anticipatori in senso linguistico — abbiamo visto che già Hoffmann nel sanatorio di Purkersdorf articola analoghi volumi privi di decora zione —, né un’opera valida per un rinnovato senso del classicismo perché molte altre appartenenti al protorazionalismo la superano in tal senso, né ancora come un’opera contrassegnata da una particolare «bellezza»; anche in questo è di molto inferiore ad altre case dello stesso Loos. Essa vale soprattutto come operamanifesto della poetica dell’architetto austriaco; è quella che incarna quasi letteralmente la sua teoria. Certo, la famosa facciata sul giardino è una concessione alla «bellezza» del gusto neoclassico proprio al codicestile del protorazionalismo, ma le fronti laterali preannunziano già, come s’è detto, il principio del Raumplan, senza parlare che la facciata prin cipale decisamente brutta col suo tetto di lamiera ricurvo poteva essere concepita, forse polemicamence e dimostrativamente, da un architetto
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che escludeva l’architettura dal novero delle arti per il fatto stesso che assolveva una funzione. Insomma la casa Steiner, al pari della teoria di Loos, contiene quasi ogni aspetto positivo e negativo di una concezione che, condivisa o meno, segna una svolta nell’idea stessa di architettura. La fabbrica di turbine AEG di Berlino Il protorazionalismo non poteva trovare una tipologia edilizia più emblematica di quella relativa alle costruzioni industriali, né edificio in tal senso più significativo della Turbinenfabrik che Behrens costruì a Berlino nel 1909. Essa consta di un grande capannone di m. 207 X 39 affiancato da un corpo di fabbrica a due ordini con copertura piana. La struttura metallica, un telaio a traliccio a tre cerniere, è visibile all’esterno solo per quanto concerne i montanti disposti fra ampie vetrate; ma se ciò vale per i lati lunghi della costruzione, sulle fronti di testata la struttura, sebbene invisibile, determina tuttavia la conformazione di questi prospetti. Infatti, l’estradosso della copertura segue la sagoma della parte incurvata secondo una spezzata; proseguendo tale sezione fino alla testata, Behrens realizza un frontone che non è triangolare secondo gli schemi classici, ma ha appunto il profilo superiormente formato da una spezzata. Al di sotto di tale frontone ritorna una grande vetrata del tutto simile a quelle racchiuse fra i montanti lungo le facciate laterali. Sugli angoli tra queste e la parete di testata s’inseriscono massicci corpi murari a ricorsi digradanti che, come tali, raggiungono il filo del cornicione determinando l’aggetto di questo e dell’adiacente timpano, nonché una forte zona chiaroscurale. Già da questa sommaria descrizione risulta che l’intento di Behrens non è quello di affidare il carattere dell’opera unicamente alle sue valenze costruttive e funzionali. Com’è stato osservato, qui l’architetto sembra voler piuttosto idealizzare detta funzione secondo la massima
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di Schinkel per cui «la rappresentazione dell’ideale della funzionalità determina il valore artistico dell’opera». 12 Cit. in G. K. Koenig, L'eredità dell'Espressionismo, in F. Borsi e G. K. Koenig, Architettura dell'Espressionismo, Vitali e Ghianda, Genova 1967, p. 183. Altri ha giustamente parlato di questo edificio come d’una sintesi tra un tempio greco e un’officina, notando peraltro la coesistenza di elementi strutturali francamente denunciati, si pensi alle grandi cerniere di ferro visibili alla base dei montanti, e ai sottili accorgimenti ottici di vitruviana memoria. 13 Cf r. F. Borsi, voce Behrens del DAU, vol. I, p. 309. Quanto al valore simbolico che idealizzerebbe la funzione dell’opera, Koenig ha osservato: «Nel caso dell’AEG berlinese mi pare evidente che la Turbinenfabrik non sia affatto come il ballo Excelsior, la rappresentazione della glorificazione del lavoro, con il minatore a torso nudo che buca il Sempione, all’onesta insegna del socialismo universale. Essa è invece la glorificazione della macchina elettrica in un enorme volume unico dominato dal carroponte; in cui il lavoro umano è simile al paziente ragno nel tessere gli interminabili avvolgimenti dei motori elettrici accoppiati alle turbine»14. 14 G. K. Koenig, L'eredità dell'Espressionismo, cit., pp. 1834. In ogni caso questo edificio, il più noto dei cinque costruiti da Behrens per l’AEG, rimane sia pure con le sue contraddizioni e il suo classicismo, per il quale non deroga dal codicestile protorazionalista, una svolta dell’architettura contemporanea in questo settore tipologico e il paradigma di tutta l’edilizia industriale del periodo razionalista a cominciare dalla Faguswerk di Walter Gropius. Capitolo quarto IL RAZIONALISMO Avanguardia e architettura razionale
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L’origine teorica del razionalismo in architettura si può trovare nei trattati più antichi e in tutti quei momenti, segnatamente il secolo XVIII, in cui la letteratura architettonica tenta una descrizione degli elementi, una loro classificazione, un metodo operativo trasmissibile attraverso pochi e verificabili precetti, donde l’associazione giustamente avanzata da qualche autore, tra il moderno razionalismo e la cultura del classicismo. Peraltro la triade vitruviana firmitas, utilitas, venustas, l’assunto lodoliano per cui «nulla si deve mettere in rappresentazione che non sia anche in funzione», fino alla formula del naturalista Lamarck, importata in architettura da Horatio Greenough, secondo la quale «la forma segue la funzione», costituiscono, fra molti altri, gli esempi di una precettistica con intenti razionalistici. Ma per il moderno razionalismo non bastano questi richiami. Esso nasce da una fiducia tardoilluministica di risolvere secondo ragione tutti i problemi che la realtà contingente pone; dall’avanguardia figurativa e segnatamente dalla necessità di far fronte alle continue esigenze socioeconomiche della contemporanea civiltà industriale di massa. A segnare la svolta che portò dal protorazionalismo al razionalismo, contribuirono vari fattori: la crisi postbellica, i notevoli cambiamenti politici avvenuti in Europa dopo il ’18, l’acuirsi della conflittualità delle classi, la insoluta «questione delle abitazioni» popolari, il rilancio in ogni paese del movimento socialista in seguito alla Rivoluzione russa donde l’aumentata forza contrattuale del proletariato, l'incrinatura ideologica, e in alcuni paesi economica, subita dalla proprietà privata che intanto aveva perduto ogni giustificazione di carattere liberale per arroccarsi nella conservazione del puro privilegio, a difesa del quale il capitalismo era disposto a qualunque avventura. Tutti questi fenomeni e nonostante le loro contraddizioni rendevano indispensabile una nuova politica edilizia e urbanistica, nonché la massima quantificazione dei beni di consumo, perché tale obiettivamente era la domanda sociale. Constatata la mancata volontà e talvolta l’incapacità del capitale privato di risolvere
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i problemi suddetti, si diffonde la convinzione che solo lo stato, i comuni, le associazioni cooperative siano in grado di affrontare i compiti improcrastinabili del settore edilizio, che assume valore e significato di un «servizio sociale». I nuovi committenti degli architetti non sono più principi illuminati o industriali progressisti, ma gli enti pubblici, e molti progettisti, per evitarne la fatale sclerosi burocratica, entrano nell’organico di tali istituti. In questo quadro generale — rispecchiante soprattutto la situazione tedesca — va seguito in maggiore dettaglio il rapporto tra avanguardia e razionalismo, sia perché esso include la suddetta problematica sociologica, sia perché ci preme soprattutto l’istituzione linguistica dell’architettura razionale. Sarà bene notare che il razionalismo, in quanto fenomeno che si realizza nella prassi, non rientra nel novero dell’avanguardia, tuttavia per la singolare situazione della Germania, sconfitta da una guerra e sospesa tra una rivoluzione socialista e una malferma repubblica socialdemocratica, i successi e le aporie dell’avanguardia si riflettono, almeno per i primi anni dopo il conflitto, anche nella vera e propria attività architettonica. Ma in un’ottica più generale, quale fu l’influenza dell’avanguardia sull’istituzione del linguaggio razionalista? Quale ruolo ebbe nella formazione di un codice rimasto per molti aspetti insuperato? Oltre a tutta una serie di sollecitazioni sociologiche, il principio dell’«arte per tutti», o estetiche, come quella per cui l’arte non ha più una funzione contemplativa e consolatoria, bensì un’altra conoscitiva, fattuale, «critica», ecc., il primo influsso dell’avanguardia sull’architettura fu quello del distacco dalla natura: come, quasi per evoluzione, dall’impressionismo si arriva alla pittura astratta, così dagli ordini architettonici, dalle composizioni bloccate, dalla simmetria (che sono tutti fattori d’origine naturalistica) si giunge a una conformazione disadorna, nuda, d’artificio, dissimmetrica ecc. La sola caduta della simmetria, che è il segno più tangibile del passaggio dal protorazionalismo al razionalismo, meriterebbe un capitolo a parte;
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qui ci limitiamo a notare che ne fu causa la poetica cubista e con più decisione programmatica il movimento neoplastico, fautori della quarta dimensione e di un equilibrio dinamico, fattori che, oltre ad essere antinaturalistici, si prestavano egregiamente a una conformazione architettonica motivata da ragioni funzionali. Infatti, solo lo svincolarsi dalla composizione bloccata e dagli assi di simmetria consentiva all’architettura razionalista di distribuire liberamente i suoi invasi spaziali a seconda della funzione, dell’orientamento, dell’economia dei percorsi ecc. Il secondo influsso dell’avanguardia sul razionalismo è la rinnovata concezione spaziale. Se è vero che col cubismo si pone in crisi lo spazio monocentrico della prospettiva rinascimentale e abbiamo appena detto che ciò comporta una conformazione architettonica dinamica e dissimmetrica, nelle correnti dell’astrattismo geometrico l’anticipazione del nuovo spazio architettonico è ancora più pregnante. Infatti, come in quelle opere di pittura, lo spazio non è più quello in cui si rappresenta una scena, ma l’articolazione dello spazio stesso del quadro, così in architettura, entro certi limiti, non c’è più «rappresentazione» dello spazio — le facciate principali e secondarie, i punti di vista obbligati, gli scorci «privilegiati» —, ma una conformazione spaziale legata unicamente, o quasi, alla valenza funzionale degli invasi. Ne discende che il processo progettuale ora più che mai procede dall'interno verso l’esterno. Un altro aspetto dell’avanguardia che ha una certa incidenza sul razionalismo è il rapporto di essa con la storia. In linea generale non riteniamo possibile una soluzione di continuità fra passato e presente della storia reale nel suo farsi, tuttavia nel caso dell’avanguardia, che rientra comunque nel concetto di «ideologia» nell’accezione positiva e negativa del termine, riteniamo che si debba tener conto del suo volontaristico atto di rottura col passato. Si tratta comunque di vedere come tale atto si compie. Nel cubismo e nell’espressionismo questa volontà di soluzione si attua con la scelta di figure ed elementi prelevati da culture esotiche e remote. L’architettura razionalista, pur
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senza negare la storia (da non confondere ciò con l’esclusione dell’insegnamento della storia dal programma didattico del Bauhaus, ch’è tutt’altro problema), è in questo assai più radicale: privilegia una sola delle componenti del fare architettonico tradizionale, la funzione. Con la differenza che mentre in passato la funzione veniva occultata a vantaggio o alla ricerca dell’immagine, ora si ostenta la funzione e da essa si tenta di ricavare l’immagine. Da queste tre principali influenze dell’avanguardia sull’architettura razionalista — e se ne potrebbero indicare molte altre — discende che in entrambi i settori, combattendo il naturalismo, alimentando una nuova concezione dello spazio, privilegiando la condizione presente, si verifica che i modelli soddisfacenti tutte queste esigenze sono le macchine, gli aeroplani, i transatlantici, in una parola gli artefatti più tipici della tecnica moderna. Non è vero che è finita ogni forma di mimesi; per la comunicazione l’atto mimetico rimane indispensabile; c’è solo, e non è poco, l’assunzione di nuovi modelli, aventi le ca ratteristiche, come s’è detto, di non essere naturali, né storici ma tecnologici. L’unità metodologica della progettazione razionale, espressa dal famoso slogan «dal cucchiaio alla città», si fonda tra l’altro su questa scelta di una nuova iconografìa soddisfacente le caratteristiche suddette.
Il Bauhaus La scuola di design fondata da Gropius(18831969) nel 1919 ebbe vari significati e valori, e più ne ha assunti nei discorsi critici e polemici posteriori. Quello per noi prevalente fu la sua azione di filtro attraverso il quale le tendenze dell’avanguardia figurativa passarono a informare il design e l’architettura, producendo, come vedremo, uno stile Bauhaus e con esso un apporto notevole al linguaggio ra zionalista. Nata nel clima della Neue Sachlichkeit, questa scuola, il cui programma non sorse di getto ma venne chiarendosi col tempo, era
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intenzionata a essere una versione «positiva» di tale corrente e mirava a tradurre la protesta espressionista nella costruzione di un rigoroso metodo operativo. L’inizio fu quindi di marca espressionista ma, mentre i suoi compagni dell’Arbeitsrat für Kunst parlavano in termini «antiprofessionali» e «antiutilitari», schierandosi decisamente per l’utopia, Gropius manifestava il suo avanguardismo puntando sulla raccolta di tutte le energie operanti nei vari campi artistici e indirizzandole verso l’architettura. Donde il famoso passo che compare nel programma del Bauhaus, assai simile agli altri scritti in precedenza: «insieme concepiamo e creiamo il nuovo edificio del futuro, che abbraccerà architettura, scultura e pittura in una sola unità, e che sarà alzato un giorno verso il cielo dalle mani di milioni di lavoratori, come il simbolo di cristallo di una nuova fede». Dopo questo esordio espressionista, molte altre tendenze richiamarono l’interesse di Gropius e degli altri insegnanti della scuola, talvolta esponenti di tali tendenze figurative, talaltra ricercatori comunque in teressati a esse per motivi didattici. Così il Bauhaus «filtrò» il cubismo, il futurismo, l’espressionismo astratto, il dadaismo, il neoplasticismo, il costruttivismo, ecc. E a ognuna di queste correnti trovò il suo congeniale campo d’applicazione nelle varie sezioni della scuola: l’arredamento, il teatro, la scenografia, la grafica pubblicitaria ecc. Che il Bauhaus fosse a sua volta il richiamo di quasi ogni corrente dell’avanguardia europea è dimostrato dalla presenza di coloro che vi insegnarono stabilmente (J. Itten, L. Feininger, G. Marcks, P. Klee, G. Muche, O. Schlemmer, W. Kandinsky, L. MoholyNagy, ecc.) e di altri che comunque fecero sentire la loro presenza (Malevich, Van Doesburg, El Lissitzky, ecc.). Il senso di questa difficile operazione di convogliare tante differenti correnti dell’avanguardia in una scuola, che a rigore sembrerebbe una contraddizione in termini, sta nel fatto che Gropius, così facendo rese attuabile una duplice istanza. Da un lato offrì alla produzione industriale, sia pure nel microcosmo di una scuola e con implicazioni pedagogiche, un enorme potenziale creativo, un grande patrimonio di
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idee conformative, e dall’altro rese possibile all’avanguardia un ancoraggio alla realtà produttiva, visto che la gran parte delle tendenze miravano a «uscire» dalla pittura e dalla scultura per dar luogo ad oggetti di design e in definitiva a integrarsi con l’architettura. Questa operazione, che è insieme sociologica, didattica e stilistica, nel senso che contribuì alla istituzione della metodologia e del linguaggio razionalista, ci sembra la più significativa della vicenda del Bauhaus, quella più tangibile e indiscutibile, mentre tutte le altre ambizioni, i programmi, le crisi, soprattutto il significato sociopolitico della scuola hanno successivamente dato vita a un dibattito, di indubbio interesse critico, ma oscillante a tal punto tra l’agiografia e il ripudio da rendere in definitiva incomprensibile il senso e l’apporto della didattica di Gropius, fatta eccezione della monografia di Argan, che rimane il migliore studio su questo tema. Nell’economia del presente volume, per assolvere anche a una funzione informativa accenneremo, unitamente alle linee generali della vicenda, a questi aspetti più problematici e discussi del Bauhaus. Indubbiamente tutta l’azione di Gropius per dar vita e alimentare la sua scuola fu un «compromesso» (di quelli beninteso di cui sono capaci i grandi uomini politici), a cominciare da quello che, secondo alcuni, egli compì proprio politicamente svolgendo un’azione mediatrice e quindi moderata tra la spinta rivoluzionaria della Germania postbellica e la socialdemocrazia. A questo diffuso giudizio rispondiamo che, se ciò è vero, vale per tutto il Movimento Moderno, operante in un dato sistema (a questo generico termine andrebbero sostituiti i diversi regimi nazionali) e quindi per quanto progressive e avanzate possano essere state alcune sue punte, queste, se volevano tradursi in realtà architettonica, non potevano uscire dalla sua logica. Restava per gli altri l’area del dissenso, dell’avanguardia ortodossa che, ripetiamo, è tale se non si invera in fabbriche e quartieri. Gropius, che non era uomo dell’avanguardia, ha semmai il merito o se si vuole l’ingenuità di aver tentato di infrangere la ferrea legge suddetta. Altrove, discutendo lo stesso argomento, abbiamo
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osservato che quella di Gropius non fu una politica culturale ispirata da destra o da sinistra, tanto che fu stigmatizzato dall’una e dall’altra parte, ma uno dei più tipici esempi di una politica della cultura1. I Cfr. L'idea di architettura, cit., pp. 81 sgg. Un secondo «compromesso» egli lo effettuò all’atto della fondazione della scuola. Succedendo ad H. Van de Velde nella direzione della Kunstgewerbeschule di Weimar, egli unificò questa scuola a carattere artigianale con la Hochschule fiir Bildende Kunst della stessa città, ossia con una accademia artistica, dando vita al Staatlicbe Bauhaus, cioè scuola statale di costruzione. Ancora un «compromesso si riscontra nell’organizzazione didattica, dove un insegnamento tecnico (Werklehre) viene associato a uno formale (Formlehre) svolti rispettivamente da un artigiano e da un artista. I termini artista e artigiano ci riportano al tema del rapporto dell’arte con la produzione industriale, che al tempo, di Gropius era già stato ampiamente dibattuto sul piano teorico e aveva prodotto pratiche esperienze, rimanendo al centro del dibattito sul ruolo dell’arte della moderna società. Come osserva Benevolo, «di fronte alla polemica tra artigianato e industria, che si svolge da un decennio nel Werkbund, Gropius non sceglie l’uno o l’altro termine, avvertendo che si tratta di una battaglia tra due opposte astrazioni. In concreto tra le due esperienze c’è solo una differenza di grado, poiché né l’artigianato è pura ideazione (dovendo sempre l’idea esser mediata attraverso un espediente tecnico) né l’industria è pura manualità (poiché la macchina medesima, in quanto produttrice di forme, pone un problema creativo)» 2 Benevolo, Storia dell'architettura moderna, cit., p. 450. La differenza poi tra artista e artigiano è, per così dire, un problema «interno» che tende a sparire; tant’è vero che quando la scuola entrerà nella sua fase più matura e impiegherà come insegnanti alcuni ex allievi, i due settori Werklehre e Formlehre saranno unificati. Una volta superato un corso preliminare attitudinale, i 250 allievi della scuola venivano indirizzati ai vari insegnamenti che — fondati sulla
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duplice esperienza citata, secondo la metodologia dell’«imparare facendo», dell’estetica normativa di tipo psicologicosperimentale e soprattutto le indicazioni pedagogiche di Froebel, per non parlare di una possibile convergenza di questi insegnamenti con la teoria della pura visibilità — si svolgevano nelle varie specializzazioni: legno, metallo, ceramica, tessuti, ecc. In sostanza, al posto dei manufatti prodotti nelle scuole d’arte applicata tradizionali, nel Bauhaus si mirava a studiare e a conformare dei prototipi che, sfruttando le ca ratteristiche delle tecniche industriali, costituivano dei modelli per la produzione di serie. Molti di questi venivano ceduti alle industrie, diventando in tal modo assai spesso matrici di oggetti paradigmatici del gusto contemporaneo: mobili, lampade, tessuti, elementi d’arredo, di scenografia, ecc. Alcuni di essi conservavano l’impronta del suo ideatore, si pensi alle sedie di Breuer, ma molti altri erano il frutto della collaborazione di insegnanti e allievi, ossia di quel teamwork che resterà uno dei caposaldi della didattica gropiusiana. Qual era il posto dell’architettura nella vicenda del Bauhaus? Intanto, quando la scuola per motivi politici, ostracizzata dagli ambienti conservatori di Weimar, fu costretta a lasciare la città e a trasferirsi nel ’24 a Dessau, è nel suo ambito che si progetta la nuova sede (che rimane il capolavoro di Gropius), le case per gli insegnanti e il quartiere popolare di Torten. Ma al di là di questi motivi contingenti, l’architettura è l’obiettivo di fondo di quasi ogni ricerca didattica. Tutte le conformazioni particolari — quando non rimangono pure esperienze plastiche, ovvero un potenziale formativo disponibile per future applicazioni — si traducono sì in autonomi oggetti, ma sono sempre «pensati» come parti di un più vasto insieme architettonicospaziale (Raumgestaltung). Dal canto suo l’oggetto architettonico secondo la metodica del razionalismo viene scomposto nelle sue varie parti elementari che, una volta messe a punto, possono dar luogo ad una ricomposizione basata sulle combinazioni di tali parti. Comunque, sia che si parta dalla realizzazione di un
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oggetto, sia dalla scomposizione dell’architettura in elementi, emergono delle leggi di natura funzionale, economica, gestaltica, ecc. che unificano il modo di progettare un oggetto e quello di progettare l’architettura, riducendo entrambi ad una operazione di design. Peraltro questa unità metodologica è in pratica imposta dal processo di lavorazione industriale: come in architettura il progetto equivale a un programma che ha il compito, specie adottando le nuove tecniche, di risolvere preventivamente ogni problema esecutivo evitando scarti ed imprevisti, così l’oggetto da produrre in serie deve trovare ne varietur risolti nella sua fase progettuale ogni problema ed eliminati tutti gli imprevisti. Ritornando alla vicenda storica della scuola, mentre nel periodo di Dessau essa diventa il centro internazionale più vivo del Movimento Moderno e mentre si attuano nuove iniziative (assai notevole quella editoriale con la collana dei Bauhausbücher), l’istituto entra in crisi. Le cause sono molteplici: i contrasti fra vecchi e nuovi insegnanti, la polemica con Van Doesburg, le scissioni tra gli stessi studenti, il riaccendersi della politicizzazione e forse la consapevolezza dei raggiunti limiti del Bauhaus in quel contesto socioeconomico, sono tutti fattori che inducono Gropius a lasciarla nel 1928 per dedicarsi alla libera professione e a quelle ricerche sugli alloggi e i quartieri popolari, già avviate da altri e che costituiscono l'apporto più significativo del razionalismo tedesco. Alla direzione della scuola gli succedono H. Mayer prima e Mies van der Rohe poi, finché non verrà soppressa dai nazisti. La vicenda del Bauhaus è legata alle sorti della Repubblica di Weimar; non solo, ma tutta la sua problematica artistica e civile appartiene nel modo più emblematico alla cultura e alla storia europea degli anni Venti. Tuttavia l’influenza della scuola, sia per i propri meriti, sia perché rimasta senza alternative, sia infine perché la critica e il dibattito successivo le hanno attribuito, in senso positivo e negativo, molto di più di quello che essa era, s’è protratta almeno fino agli anni ’50.
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Concludiamo le nostre note sulla celebre scuola di Gropius con un cenno al problema dello «stile» nato dal Bauhaus. L’operazione che all’inizio abbiamo definito di «filtraggio» (i «filtri» essendo l’impegno civile, il rapporto con l’industria, l’adozione di tutte le più moderne tecniche pedagogiche ecc.) delle tendenze dell’avanguardia figurativa, passate a conformare il design e per esso l’architettura, non poteva non dar luogo a uno stile. Infatti, una volta integratesi all’architettura e al design, molte di quelle tendenze non erano più riconoscibili nel loro originario aspetto e contribuivano a determinare un unico e abbastanza omogeneo crogiuolo conformativo: lo stile Bauhaus riconoscibile per ogni oggetto elaborato nella scuola, nonostante che Gropius e alcuni suoi esegeti non abbiamo amato l’espressione stile, preferendo ad essa quella di unità metodologica. Viceversa, a parte il fatto che ogni metodica dà inevitabilmente luogo ad uno stile, di fatto, accanto al contributo di Wright e di Le Corbusier, il linguaggio dell’architettura moderna si istituzionalizza stilisticamente, anche a livello internazionale, durante e dopo l’esperienza del Bauhaus.
La «tecnica» del razionalismo
In una visione ampiamente sintetica quanto efficace, Argan ha così delineato un quadro del razionalismo: «La lotta per l’architettura moderna è stata [...] una lotta politica, più o meno inquadrata nel conflitto ideologico di forze progressive e di forze reazionarie: lo prova il fatto che là dove le forze reazionarie hanno preso il potere e soffocato le forze progressive (col fascismo in Italia, col nazismo in Germania, col prevalere della burocrazia di stato sulle spinte rivoluzionarie in URSS) l’architettura moderna è stata repressa e perseguitata. L’architettuta moderna si è sviluppata, in tutto il mondo, secondo alcuni princìpi generali: 1) la priorità della pianificazione urbanistica sulla progettazione architettonica; 2) la massima economia dell’impiego del suolo e della costruzione al fine di poter risolvere, sia pure a livello di un «minimo di esistenza», il problema delle
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abitazioni; 3) la rigorosa razionalità delle forme architettoniche, intese come deduzioni logiche (effetti) da esigenze obbiettive (cause); 4) il ricorso sistematico della tecnologia industriale, alla standardizzazione, alla prefabbricazione in serie, cioè la progressiva industrializzazione della produzione di cose comunque attinenti alla vita quotidiana (disegno industriale); 5) la concezione dell’architettura e della produzione industriale qualificata come fattori condizionanti del progresso sociale e dell’educazione democratica della comunità» 3 Argan, L'arte moderna 17701970, cit., pp. 3245. Se questi sono stati i princìpi dell’architettura moderna (o razionale), in un testo come il nostro, divulgativo come quello donde abbiamo tratto la citazione, ma specificamente dedicato all’architettura, ci corre l’obbligo di approfondire alcuni di tali princìpi e segnatamente, dalla nostra visuale linguistica, tentare di descrivere il codice entro il quale essi si formalizzarono. A questo fine è dedicato l’intero presente capitolo, ma per individuare il codice del razionalismo è indispensabile esaminare la «tecnica» elaborata dagli architetti militanti in questa corrente, che costituisce l’oggetto del presente paragrafo. Preferiamo parlare di «tecnica» piuttosto che di metodologia, in quanto il primo termine denota un modo di fare più direttamente legato all’oggetto che si elabora. Tuttavia, parliamo di «tecnica» non tanto riferendoci alla moderna tecnologia, che ovviamente ebbe un ruolo notevole nel codicestile che studiamo, quanto soprattutto pensando all’ antica nozione di techne, ossia di un modo di fare con arte che si può apprendere tramite una serie di norme ed esperienze. Intesa in tal modo la «tecnica» dei razionalisti si rivela, nonché più duratura, presentando aspetti e modalità ancor oggi in gran parte utilizzati, anche assai più definita e formalizzata di quelle adottate dall’Art Nouveau e dal protorazionalismo, tanto da poter essere quasi identificata col codice stesso del razionalismo. Ora, pur essendo assai grande il debito di questo stile verso l’avanguardia, come abbiamo visto in precedenza, esso si sviluppò con una notevole autonomia, grazie appunto all’elaborazione di una
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«tecnica» che muove dal principio dell’«arte per tutti», si sostiene sul criterio di «ridurre» l’architettura a funzionale «servizio sociale» e tende a rendere possibile l’integrazione fra architettura e urbanistica, anzi tra industriai design e urban design, quale tipico fenomeno della realtà socioeconomica contemporanea. Questa «tecnica» del razionalismo si manifesta nella impostazione e soluzione di alcuni specifici temi. Quello principale, dopo le grandi prove date dall’architettura dell’ingegneria dell’Ottocento e in vista di una comunità ipotizzata secondo un assetto socialista, nonché le esigenze della realtà sociale postbellica, riguarda il problema della residenza e di quella popolare in particolare. «I razionalisti — scrive Samonà — sentirono l’abitazione quasi come un simbolo di natura etica, che al tempo stesso li spingeva ad agire con rigore logico. La casa e il quartiere furono al centro dell’esigenza morale, non sempre chiarita, di scoprire; nella coerenza fra funzione e forma, un’armonia che operasse dall’interno della cellula in cui l’uomo vive, indicando una strada per il superamento di tutti i contrasti sociali. Questi erano infatti giudicati fenomeni di incoerenza di struttura, riguardanti il trapasso alla forma operativa di espressioni che fino allora si erano impostate senza rigore funzionale» 4 Samonà, L'urbanistica e l'avvenire della città, Roma Bari 1978 op. cit., p. 83. A parte la necessità di verificare fino a che punto e quali architetti razionalisti nutrissero tale atteggiamento, si deve proprio alla fiducia nella «logica» dei loro procedimenti se il loro stile sia diventato il co dice più diffuso e formalizzato del nostro tempo. D’altra parte Samonà, confrontando il funzionalismo degli architetti tedeschi rispetto a quelli di altri paesi europei e americani, osserva:«assai diversa era la situazione degli architetti tedeschi, in quella repubblica minacciata di morte [...]. La logica ridotta all'essenziale dei loro quartieri, in cui ogni parte è conseguenza formale di un dato sperimentale riproposto come problema, rivela il dramma interno, e
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costituisce il mordente per cui la Germania d'allora influenzò in maniera così profonda tutta la cultura europea»[Ivi, pp.8889]. E veniamo a descrivere, relativamente all’alloggio prima e alle implicazioni di esso a livello urbanistico poi, questa «tecnica» del razionalismo. Il punto di partenza, dando per note le premesse generali, l’unità metodologica nel progettare qualunque specie di artefatto, l’assorbimento delle tendenze figurative ecc. è il dimensionamento della cellula d’abitazione. Il valore di essa non è più commensurato alla superficie dell’alloggio, ma al numero dei letti che esso contiene, dove letto sta per unità di misura di tutte le esigenze abitative (aliquota di spazio del soggiornopranzo, della cucina, del bagno) di una persona. Una volta stabilita questa aliquota dimensionale si studia una conformazione distributiva che garantisca gli standard ottimali di soleggiamento, areazione, ventilazione ecc. Tale distribuzione dà luogo a diverse tipologie edilizie: le case a schiera, ovvero cellule a uno o due piani accostate linearmente ed aventi i muri laterali in comune; le case a ballatoio, in cui le file di cellule sono disposte su più piani e servite da un ballatoio al quale si accede da una o più scale; le case in linea, ovvero una teoria di cellule dove ogni scala serve due alloggi per piano. Quest’ultimo sarà il tipo più usato perché sebbene meno economico di quello a ballatoio, dato il maggior numero di scale, offre il vantaggio che le cellule hanno due lati opposti compie tamente liberi e orientati, illuminati, ventilati nel modo migliore. Organizzate le cellule in una unità tipologica, la «tec nica» razionalista conforma un edificio; più edifici, disposti in modo da garantire il loro buon orientamento, le distanze ottimali, il loro rapporto con le strade d’accesso e le altre infrastrutture necessarie, formano un quartiere; più quartieri formano la città. Ciò che abbiamo sommariamente descritto rientra in un altro tipico tema del razionalismo, quello dell’Existenz minimum, cui dedicarono i loro sforzi migliori i Klein, i May, i Gropius e in genere tutta la generazione dei più validi architetti tedeschi operanti tra le due guerre. Essi ridussero in sostanza tutte le parti dell’abitazione a un
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dimensionamento idoneo alle principali funzioni abitative, ipotizzate uguali per tutti gli uomini, teoricamente prescindendo dalla loro classe sociale, ma in pratica derivate dalla necessità di rispondere nel migliore dei modi alle richieste più pressanti di alloggi popolari. La suddetta riduzione, nonché utile alla scomposizione dell’architettura nelle sue componenti le quali, diversamente associate, davano vita a diverse conformazioni basate appunto su pochi elementi invarianti, servivano anche ad avviare quel processo di unificazione, stardardizzazione, industrializzazione edilizia che doveva essere lo sbocco di tutta la logica della «tecnica» razionalista, ossia quello di essere il massimo risultato sociale con il minimo sforzo economico. Questo vasto piano di studi e ricerche, la cui metodologia definiremmo oggi prettamente strutturalistica nel suo stabilire invarianti, prevedere possibilità combinatorie, calcolare, date le premesse, risultati e costi sia in senso economico che sociale, portò ad un vero e proprio codice progettuale che, come s’è detto, andava dal l’elemento più piccolo e discreto, l’elemento d’arredo, il letto, all’organizzazione funzionale di un ambiente — la famosa cucina di Francoforte —, dalla cellula abitativa al quartiere. Ma, salvo a riprendere più oltre il discorso sul codice progettuale del razionalismo, mette conto a questo punto di accennare brevemente ad alcune di queste ricerche. Tra le più emblematiche è quella di Alexander Klein sulla conformazione distributiva degli alloggi minimi. Klein presentò nel 1928, ossia lo stesso anno in cui Gropius abbandonava la direzione del Bauhaus — e la coincidenza non è affatto casuale — i suoi studi al Congresso internazionale sulle abitazioni e sui piani regolatori te nutosi a Parigi. Tali studi, servendosi di un metodo comparativo tra diverse soluzioni di cellule appartenenti allo stesso tipo, attraverso un dato procedimento, miravano ad individuare la distribuzione e quindi la conformazione di un alloggio ottimale, rispondente cioè ai vari requisiti dell’Exìstenzminimum riscontrabili nel modo più obiettivo. In sintesi, il procedimento si divideva in tre fasi. La prima, definita
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«metodo ai punti» fissava un certo numero di caratteristiche (superficie coperta, cubatura, numero dei locali, numero dei letti, ecc.) di alcune cellule e un certo numero di requisiti, orientamento dei locali, illuminazione sufficiente, possibilità di dividere le camere dei figli, raggruppamento degli impianti igienici, collegamento dei locali fra loro, ecc.) cui quelle cellule dovevano rispondere. La comparazione avveniva fra quattro soluzioni di cellule, due delle quali progettate dallo stesso Klein, il quale assegnava un punto negativo o positivo a ciascuna delle quattro cellule a seconda della loro cor rispondenza ai requisiti richiesti. Da preferirsi alle altre era ovviamente la cellula che totalizzava il maggior numero di punti positivi. A questa prima fase ne seguiva una seconda, definita «metodo degli incrementi successivi». In essa le piante precedentemente selezionate venivano incrementate in larghezza e profondità di una quantità costante via via che aumentava il numero dei letti in modo da poter formare dal loro insieme un abaco, dal quale si ricavava che le più convenienti cellule incrementate erano quelle che si trovavano disposte lungo la diagonale dell’abaco; le piante che capitavano superiormente non erano economiche, né igieniche, né pratiche; le piante disposte inferiormente alla diagonale erano igieniche, ma non economiche per la loro eccessiva lunghezza. Peraltro le cellule più convenienti, corrispondenti alla diagonale dell’abaco, sono quelle il cui perimetro s’avvicina alla forma quadrata, ovvero consentono un rapporto d’incremento costante tra la lunghezza e la profondità. La terza fase è detta del « metodo grafico ». Questo è da ritenersi, secondo Klein, il più attendibile e rigoroso poiché i metodi precedenti sono suscettibili di interpretazioni soggettive. Esso consente numerose analisi riportando sulle quattro soluzioni di pianta comparate nella prima fase il tracciato dei percorsi, la forma della superficie impegnata dai passaggi, lo spazio che rimane libero dall’ingombro dei mobili, le zone d’ombra portata sul pavimento e sulle pareti dagli elementi d’arredo, ecc. L’insieme di queste analisi, assunti i fattori suddetti come parametri, dovrebbe consentire la
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progettazione di cellule della massima funzionalità ed economia. È stato giustamente osservato che «non si può negare oggi la validità degli schemi di Klein o degli studi iconografici dello Stratemann o dei diagrammi sull’insolazione del Kùnster, per il fatto che Gropius o Corbusier o Mies van der Rohe li hanno di fatto bruciati entro il loro linguaggio espressivo. Il fatto che architetti come Gropius o Corbusier o i Luckhardt, o Mies van der Rohe, formati nell’ambiente razionalista, abbiano superato nel linguaggio vincoli metodologici, oltre ad essere del tutto normale è anche prova della validità di una metodologia che offriva concretezza alla ricerca e allo stesso tempo lasciava aperta la possibilità di superarla» 5 G. C. De Carlo, Funzione della residenza nella Città contemporanea, in Questioni di architettura e di urbanistica, Argalia Editore, Urbino 1965, p. 50. Ma se ciò è vero per qualunque rapporto fra norma e deroga (e peraltro fa bene De Carlo a insistere sul fatto che fu proprio questa concretezza a rendere possibile la messa a punto del supporto oggettivo che ha portato l’architettura moderna fuori dal campo di arbitrio del naturalismo accademico), vale di più quando quella stessa norma fu « impostata» criticamente e quando essa, assumendo carattere dialettico, acquistò un più ampio valore di codice. Quanto all’impostazione critica della norma, lo stesso Gropius precisa: «il problema dell’alloggio minimo è quello del minimo elementare di spazio, aria, luce, calore necessari all’uomo per non subire, nell’alloggio, impedimenti al completo sviluppo delle sue funzioni vitali, e cioè un “minimum vivendi” e non un “modus non moriendi”. Il minimo stesso cambia a seconda delle condizioni locali, da città a campagna, e a seconda del tipo di paesaggio e di clima. Una certa cubatura dell’abitazione ha un significato diverso nella via di una metropoli e nel quartiere periferico, meno densamente popolato 6 W. Gropius, I presupposti sociologici dell'alloggio minimo, in Atti del II congresso ClAM di Francoforte, in C. Aymonino, L'abitazione razionale, Marsilio, Padova 1971, p. 108.
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Come si vede, se assumiamo il tema dell’Existenzminimum come il più emblematico del codice razionalista, questo risulta tutt’altro che rigido, assai dissimile cioè da una serie di precetti fissi ed indeclinabili. Esso fu un codice proprio nella misura che, pur essendo fondato su logiche e condivise certezze, consentì una vasta gamma di messaggi. Infatti, se prendiamo i quartieri di ampliamento realizzati da Ernst May dal ’25 al ’30 a Francoforte, questi riflettono puntualmente l’unitaria metodologia dall’urbanistica al design del razionalismo, le sue implicazioni con le arti figurative, in una parola il suo codicestile; tuttavia, se poniamo mente all’entità dell’intervento, all’autonomia di ciascun quartiere pur nella omogeneità del piano e soprattutto alla felice coesistenza tra architettura e natura — in ciò agendo l’esperienza inglese fatta da May che in precedenza aveva lavorato in Inghilterra con Unwin, uno dei realizzatori della prima cittàgiardino — possiamo affermare che la nuova Francoforte si distingue nettamente dalle altre realizzazioni architettonicheurbanistiche del razionalismo. La variazione dei messaggi nell’unità del codice è dimostrata da altri numerosi esempi. Senza parlare dei quartieri realizzati da Taut a Magdeburgo, da Haesler a Celle, da Martin Wagner a Berlino, nella stessa urbanistica di Gropius, quel codice si declina in diversi messaggi. Nel quartiere Tòrten a Dessau, che presenta in pianta uno schema radiale intorno all’edificio cooperativo, si può dire che è la rete viaria, con.le strade limitate da un doppio nastro di case a schiera, a determinare la conformazione dell’intero complesso. Viceversa, nel quartiere Dammerstock presso Karlsruhe la planimetria generale rappresenta uno dei primi esempi ove si afferma l’indipendenza dello schema viario dalla conformazione e disposizione dei fabbricati. A sua volta questa rigorosa distinzione si allenta nuovamente per produrre una terza condizione nel quartiere Siemensstadt costruito a Berlino nel 1929. Qui per motivi orografici e paesistici, coesistono la tendenza ad allineare gli edifici alle strade (si pensi ai lunghi corpi di fabbrica progettati rispettivamente da Bartning, da Scharoun e da Gropius) e la
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tendenza ad avere i blocchi edilizi indipendenti dalla rete viaria (gli edifici cioè progettati da Häring, Forbat, Henning). Il confronto fra questo quartiere e quello precedente, per ciò che attiene alla tipologia edilizia mostra alcuni interessanti aspetti particolari. Gli edifici di Karlsruhe, forse per compensare l’astratto rigore urbanistico, presentano una volumetria articolata, un alternarsi di volumi pieni agli spazi svuotati dei terrazzini. A Berlino abbiamo una situazione inversa: alla più flessibile composizione urbanistica corrisponde una più compatta massa edilizia. Nel lotto progettato da Gropius, che qui come nel Dammerstock coordina il lavoro di altri architetti, le parti piene prevalgono sulle vuote, trattate come semplici asole orizzontali. Nonostante questa schematicità, una lieve vibrazione plastica, data dallo sporgere delle balaustre piene dal filo delle facciate, richiama il tema dell’articolazione volumetrica presente in ogni opera di Gropius. Ritornando al discorso sul codice del razionalismo, non è da credere che questo implicasse necessariamente il legame al sistema cellula unità tipologica quartiere. Anche coloro che non si occuparono specificamente di urbanistica, come Mies van der Rohe (poiché la colonia Weissenhof di Stoccarda del ’27 fu un campionario di tipi architettonici e non un’opera urbanistica) e s’impegnarono solo nel campo dell’architettura e relativamente ad esso realizzarono fabbriche di varia tipologia, cioè non necessariamente legate al tema dell’Existenzminimum, rimasero tuttavia legati alla «logica» del razionalismo, alla sua techne, al suo gusto. Persino coloro che, come Mendelsohn (con opere quali la fabbrica Steinberg a Luckenwalde del ’21, l’edificio del «Berliner Tageblatt» del ’23, i magazzini Schocken a Stoccarda del ’26 e quelli a Chemnitz del ’28, il cinema Capitol a Berlino dello stesso anno, il Columbushaus del ’31, ecc.) o come Scharoun, che menzioniamo per le sue opere più recenti, rappresentarono una sorta di opposizioni al razionalismo e una forma di continuazione dell’architettura espressionistica; in realtà si mossero nella linea dell’architettura razionale, comunque sempre in rapporto al suo codice, anzi arricchendolo di valenze lessicali, si pensi
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all’insistenza sulle linee orizzontali, alle finestre a nastro, ai terminali curvilinei, ecc. Abbiamo finora parlato del razionalismo tedesco e considerando le particolari circostanze storicopolitiche della Germania fra le due guerre, nonché il fatto che fino ad oggi è stata l’esperienza tedesca a far testo per la successiva produzione architettonica internazionale, dovremmo dedurre che essa incarni tutte le invarianti del codice ra zionalista, rispetto al quale la produzione di altri paesi, sia pure esteticamente e culturalmente qualificata, apparterrebbe all’ordine dei messaggi. Se seguissimo questa classificazione, del tutto legittima per altre tendenze, commetteremmo lo stesso errore di tanti testi di storia condotte per monografie di singoli autori, con l’unica variante di porre al posto dei maestri questa o quella produzione nazionale, il che è contro la natura stessa del razionalismo che non fu un fenomeno esclusivamente tedesco, ma uno stile internazionale sin dalla sua originaria concezione. In esso confluirono vari apporti, talvolta individuali, come nel caso di Wright e di Le Corbusier sia pure con diversa misura ed accenti, talaltra collettivi, come è il caso della produzione olandese. Cosicché, trattando dell’opera di Wright in un’altra parte di questo studio, il nostro programma di descrivere il codice del razionalismo deve ora rivolgersi all’esame dell’apporto di Le Corbusier e dell’esperienza olandese. EMMA Il contributo di Le Corbusier Indubbiamente la forte personalità creativa di CharlesEdouard Jeanneret detto Le Corbusier (18871965) indurrebbe a tracciarne la storia secondo il metodo dei profili monografici individuali. Ma, a parte la nostra diversa prospettiva, cioè quella di periodizzare la storia dell’architettura contemporanea attraverso una serie di codici stile, riteniamo che la stessa vicenda corbusiana, nonostante tutto, si spieghi meglio se riferita ad un certo numero di parametri, se, per così dire, viene strutturata diversamente dalla biografia. Cosicché, premesso che si vuole soprattutto studiare il contributo che Le Corbusier diede al
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razionalismo, riferiremo la sua attività teorica ed operativa ad alcuni temi invarianti in tutta la storia del Movimento Moderno, almeno nel periodo fra le due guerre, salvo a riprendere il discorso su di lui quando tratteremo degli sviluppi più recenti dell’architettura contemporanea. Il primo temaparametro, prioritario anche in senso cronologico, è quello del rapporto di Le Corbusier con l’avanguardia, sia figurativa, sia specificamente architettonica. Dopo un periodo di apprendistato e di contatti con Hoffmann a Vienna, Garnier a Lione, Perret a Parigi e Behrens a Berlino, ossia dopo un’esperienza protorazionalista, Le Corbusier esordisce come pittore e teorico dell’avanguardia. Abbiamo già parlato nel capitolo dedicato a questo tema della fondazione del purismo e della pubblicazione nel 1918 di Après le Cubisme. In particolare, abbiamo sottolineato il fatto che le opere pittoriche di quel periodo, alle quali peraltro il Nostro rimarrà sempre fedele, mediarono il passaggio tra il cubismo ed il suo stile architettonico, al punto che alcuni suoi quadri sono morfologicamente assai simili ad alcune sue piante architettoniche, come abbiamo avuto conferma dallo stesso au tore . Egli sottoscrive l’assunto di Juan Gris della composizione pittorica quale architecture plate e colorée e al tempo stesso in Vers une architecture, pubblicato nel ’23 ma scritto tra il ’20 e il ’21, dopo aver affermato che «oggi la pittura ha preceduto le altre arti», egli scrive: «Il volume e la superfìcie sono gli elementi attraverso i quali si manifesta l’architettura. Il volume e la superficie sono determinati dal piano. Il piano è il generatore» 7Le Corbusier, Vers une architecture, Fréal & C., Paris1958, p. 35. Non vogliamo sottolineare che la parola ‘plan’ in francese sta tanto per «piano» che per «pianta», né sostenere che in quanto piano (colorato) un quadro sia in definitiva il generatore delle superfici e dei volumi architettonici, ma è indubbio che la pianta assume nel linguaggio di Le Corbusier un valore e un significato particolare: i caratteri emergenti di alcune piante sono costantemente riferibili alla pittura purista, a sua volta interpretabile come una potenziale
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architettura. Ed infatti l’esperienza pittorica è una delle famiglie morfologiche di cui si compone lo stile del Nostro, quella cioè delle forme cosiddette libere; l’altra, per così dire, «cartesiana» è legata ai motivi funzionali, ai tracciati regolatori, al modulor di cui diremo più avanti. Questa della doppia famiglia morfologica peraltro ci sembra la chiave più idonea a penetrare il linguaggio corbusiano. Ma parlare d’una matrice pittorica non vuol dire esaurire il rapporto di Le Corbusier con l’avanguardia. Certo, il purismo fu un movimento d’avanguardia, ma non lo fu tanto per la sua valenza linguistica quanto perché venne associato all’Esprit machiniste. Contemporanea, infatti, all’esperienza purista è la fondazione della rivista 1’«Esprit Nouveau», il cui primo numero inizia affermando: « Una grande epoca è cominciata, animata da uno spirito nuovo: uno spirito di costruzione e di sintesi, condotto da una concezione chiara ». Questa dichiarazione che l'architetto svizzero riprenderà più volte come motivo ricorrente ci consente di conoscere appunto uno dei principali modi di avvicinamento di lui al più generale tema dell'avanguardia. Come è stato osservato, il carattere partigiano e sovversivo di questa «non ignora il momento demagogico: donde la tendenza all’auto réclame, alla propaganda e al proselitismo. Dalla stessa radice proviene quella pressione morale ch’essa riesce ad esercitare su gruppi e individui»8Poggioli, op. cit. pp. 4950. Le Corbusier manifesta più di ogni altro in campo archi tettonico tale atteggiamento, ma proprio in questo, che è tra i più tipici aspetti dell'avanguardia, egli si distingue nettamente dagli altri teorici e artistiscrittori contemporanei. In lui molte connotazioni avanguardistiche, l’antipassatismo, l’agonismo, il meccanicismo, soprattutto un avvertito « spirito del tempo », ecc. non sono mai fine a se stesse, non sono mai pura contestazione, inconsolabile sfiducia, scettica negazione, sottile ironia, ecc., ovvero atteggiamenti « negativi », bensì previsioni degli sviluppi di movimenti in atto, proposte risolutive di problemi che egli chiama ottimisticamente « soluzioni », richiamo all’intelligenza delle situazioni, illuministica fiducia che
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tutto dipende da una razionale e corretta impostazione dei problemi, che l’architettura sia in grado da sola di correggere molte contraddizioni della società; in una parola l’avanguardia di Le Corbusier nasce ed è permeata da un atteggiamento « positivo ». Si aggiunga che, a differenza dell’ermetismo di tante correnti avanguardistiche, egli vuole ad ogni costo la comunicazione intersoggettiva, non solo al livello di élite ma di massa. Su tale aspetto torneremo più avanti; qui, a conclusione dell’avanguardismo di Le Corbusier e in particolare del suo interesse per la comunicazione, notiamo come la sua pittura, pur riflettendo una concezione radicalmente nuova, conservi un notevole grado di referenzialità; il suo purismo resta sempre legato a decodificabili motivi figurativi, non diventa mai pittura astratta, avendone peraltro tutti i presupposti, per essere accessibile al maggior numero di persone, allo stesso modo che i suoi schemi teorici, i suoi efficaci slogans, i suoi argomenti ricorrenti, per non alienarsi il favore del pubblico rischiano di essere semplicistici pur di essere semplici. Il secondo temaparametro per studiare l’apporto corbusiano al razionalismo è quello dell’alloggio minimo. Le premesse sociologiche (non quelle politiche) sono le stesse dei razionalisti tedeschi, ma nell’architetto svizzero assumono una più netta accentuazione e un più deciso riferimento ad un fenomeno già largamente diffuso nella pro duzione industriale, lo standard. Altri prima di lui avevano trattato questo tema: il problema della standardizzazione era già stato affrontato dal Werkbund e dal protorazionalismo, come pure dai tecnici di oltre atlantico, gli uni nella linea di sviluppo che dalle arti applicate portava all’architettura, gli altri come questione meramente pragmaticoingegneresca. Le Corbusier sembra estraneo sia alla prima che alla seconda via. Quella dell’industrializzazione e dei suoi procedimenti è per lui una realtà di fatto, sorta indipendentemente dal travagliato dibattito interno alla cultura architettonica che va da Morris a Gropius come pure dalle soluzioni puramente tecnicistiche americane; essa è semmai una sintesi di entrambe, ma di fatto è frutto
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di un sincretico Esprit Nouveau, cui l’architettura deve uniformarsi e trarre ispirazione, diventando, per dirla con Calvino (che si riferisce a tutta la linea razionalista dell’avanguardia ma che si adatta par ticolarmente a Le Corbusier) « una mimesi formaleconcettuale della realtà industriale» 9 Calvino, La sfida al labirinto, « Il menabò », a. 1962, n. 5.. Ritornando al concetto di standard, questo risponde a motivi di efficienza, di precisione, d’ordine e quindi di bellezza: «L’architettura agisce sugli standard. Gli standard sono cose di logica, di analisi, di studio scrupoloso. Gli standard si stabiliscono su un problema ben posto. L’architettura è immagine plastica, è speculazione intellettuale, e matematica superiore. L’architettura è un’arte assai degna. Lo standard, imposto dalla legge di relazione, è una necessità economica e sociale. L’armonia è uno stato di concordanza con le norme del nostro universo. La bellezza domina; essa è di pura creazione umana; essa è il superfluo necessario a coloro che hanno un’anima elevata. Ma bisogna prima tendere allo stabilimento di standard per affrontare il problema della perfezione» 10 Le Corbusier, op. cit., p. 115. . Pur dall’incertezza di tale sincretismo emergono chiaramente i modelli cui l’architettura deve rifarsi. Le Corbusier illustra le pagine dove svolge tali considerazioni sia con le immagini del Partenone, che garantisce l’antichità dei princìpi di misura, ordine e bellezza, sia con quelle di transatlantici, di aerei Caproni e Blériot, di automobili FIAT e Citroën, che mostrano la incarnazione più moderna dei princìpi suddetti: misura, efficienza e bellezza del nostro tempo. L’architettura della casa minima di Le Corbusier pertanto non si rifa alle tradizioni nazionali, né ai modelli più recenti proposti dagli inglesi e diffusi sul continente da Muthesius, ma direttamente alla realtà industriale, sorge in perfetta sincronia con essa, è appunto la sua mimesi formaleconcettuale. Così, parlando di una delle sue prime proposte di casa minima, risalente al 1920, egli scrive: «Casa in serie “Citrohan” (per non dire Citroën). Altrimenti detto, una casa come un’auto, concepita e sistemata come un autobus o una cabina di nave.
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Le necessità attuali dell’abitazione possono essere precisate ed esigono una soluzione. Bisogna agire contro l’antica casa che usava male lo spazio. Bisogna (necessità attuale: prezzo di costo) considerare la casa come una macchina per abitare o come un oggetto utile» 12 Le Corbusier, La parcellizzazione del suolo urbano (intervento al Ill congresso CLAM, Bruxelles 1930), in Aynionino, L'abitazione razionale, cit., pp. 1945. Ora, se è vero che l’alloggio minimo proposto da Le Corbusier sembra nascere non da una tradizionale evoluzione di tipi edilizi, bensì direttamente dal mondo della macchina, esso comporta di conseguenza altre implicazioni rispetto agli analoghi schemi elaborati dai razionalisti tedeschi o olandesi. Certo, è assai più realistica, ad esempio, la cellula di Klein, variamente coniugata fino ai nostri giorni, ma essa non potrà che dar luogo ad edifici in linea, non potrà dar luogo che ad un’urbanistica di quartiere o comunque legata ad una dimensione tradizionale. Viceversa, la casa Citrohan di Le Corbusier — una cellula stretta, sviluppata in profondità fra due muri ciechi, to talmente aperta sui lati brevi e avente all’interno la capacità di due piani affacciantisi l’uno sull’altro — viene utilizzata in cento modi e trova la sua più ampia giustificazione proprio in una più varia prospettiva urbanistica, anzi in una nuova dimensione urbanistica. Variando e perfezionando questo iniziale prototipo, l’architetto lo utilizza come alloggio isolato (1920), come cellula dell'immeuble villa progettato nel ’22 (una unità residenziale a blocco con un grande spazio rettangolare al centro, con 120 alloggi serviti da un ballatoio ad ogni piano, ispirata alla certosa di Ema in Toscana), come padiglione dell’« Esprit Nouveau » all’Esposizione internazionale delle arti de corative di Parigi nel 1925, in numerosi altri complessi facenti parte di piani urbanistici, come quello d’Algeri (1930), dove le cellule suddette colmano i vuoti della grande struttura che sostiene un lungo viadotto, fino alla loro più esauriente versione nell'Unité d’habitation di Marsiglia (194552) e nelle successive edizioni di Nantes, Berlino, Brieylaforèt.
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Prima che il tema della maison minimum s’incarni nella suddetta prospettiva urbanistica e che questa disciplina diventi il suo interesse costante, Le Corbusier concretamente realizza alcune case unifamiliari, la villa a Vaucresson del ’22, la casa del pittore Ozenfant nello stesso anno, la casa La RocheJeanneret del ’23, la casa LipchitzMiestcharninoff a BoulognesurSeine nel ’24, per citare le più note; nel ’26 egli formula i famosi «cinque punti di una nuova architettura». Questi, se costituiscono indubbiamente un apporto affatto originale del Nostro, riflettono tuttavia l’esigenza, presente nell’intera vicenda dell’architettura contemporanea, di codificare il proprio linguaggio. Essi pertanto costituiscono, per così dire, un sottocodice, ma di tale portata ed influenza da diventare parte integrale di tutto lo stile razionalista. I cinque punti sono: i «pilotis», il tettogiardino, la pianta libera, la finestra in lunghezza, la facciata libera. Essi sono consentiti dalla moderna tecnologia e in particolare dall’uso del cemento armato. Grazie a questo, infatti, è possibile sostenere una costruzione su esili pilastri, realizzare un tetto piano tanto forte da sopportare il peso della neve, avere una pianta sgombra da massicci sostegni, aprire finestre della lunghezza voluta, poiché le pareti di facciata non sono più portanti ma portate e portate a sbalzo dai solai; quest’ultimo principio costruttivo consente di avere una facciata libera da sostegni verticali. Ma, una volta affrancata da tali vincoli, la costruzione perderebbe anche con essi alcune sue caratteristiche figurative se non intervenissero fattori di una nuova figurazione. Questi sono, per le piante, il libero gioco dei tramezzi, disposti sì secondo necessità funzionali, ma anche seguendo le libere forme del gusto purista; lo stesso dicasi per i tettigiardino dove le tradizionali falde o le nude terrazze vengono sostituite o «arredate» da scultorei camini, solarium, ovvero passaggi che Le Corbusier chiama promenade architecturale. Quanto ai «pilotis», essi non equivalgono a semplici pilastri che sostengono l'edificio, ma sono a tal punto distanziati, talvolta plasticamente modellati e così ridotti di dimensione nei confronti del
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resto della costruzione da dimostrare la volontà da parte del progettista del loro annullamento, tanto che sotto la casa il giardino prosegue ininterrotto, così come in una diversa scala sarà libero e transitabile lo spazio urbanistico sottostante i grandi complessi edilizi. I più originali dei cinque punti, nel senso che la loro adozione comporta un rinnovato impegno figurativo, sono la finestra in lunghezza (già apparsa per l’esattezza in edifici di gusto espressionista) e la facciata libera, la cui composizione deve aver contribuito alla ricerca dei tracciati regolatori e della nuova scala dimensionale antropometrica, il modulor, elaborata da Le Corbusier intorno al ’40 in sostituzione di quella metrico decimale. Cosicché, l’apporto del Nostro al linguaggio razionalista non sta tanto nell’aver scoperto alcune proprietà formali consentite dalla moderna tecnologia (anche Gropius, e molti anni prima, aveva realizzato facciate libere e angoli svuotati, si pensi alle officine Fagus del 1911 e al palazzo degli uffici della fabbrica modello costruita per l’esposizione del Werkbund a Colonia nel ’14) quanto nell’aver codificato cinque punti cui corrispondono altrettante possibilità di una nuova figurazione architettonica. Essi trovano una fedele applicazione nella casa Stein a Garches del ’27, nella villa Savoye del ’29, nel Padiglione svizzero alla città universitaria del ’30, nell’Unité d’habitation, per citare sempre gli esempi più famosi. Il temaparametro dell’urbanistica è quello cui tende tutta la «ricerca paziente» di Le Corbusier ed il settore in cui egli si distacca maggiormente dai suoi contemporanei. La dimensione della sua urbanistica non è quella del quartiere come presso i tedeschi e gli olandesi; il complesso di alloggi economici realizzato tra il 1925 e il ’28 a Pessac, pur basato sulla standardizzazione, prefabbricazione, unificazione degli elementi, si risolve, sebbene per motivi esterni alla capacità e volontà dell’architetto, in un fallimento. D’altra parte, quando realizza delle grandi unità tipologiche (un insieme cioè di cellule organizzate in un edificio di notevole capacità ricettiva e munito di servizi collettivi) queste hanno una dimensione così notevole, richiedono un tale impegno economico ed amministrativo da
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rimanere isolate, cioè prive dell’originario contesto per il quale furono concepite, valga per tutti il caso della fab bica di Marsiglia. Un’urbanistica dunque destinata, almeno per molto tempo, a rimanere sulla carta; la «città contemporanea di tre milioni di abitanti» del ’22, il «Piano Voisin» di Parigi del ’25, la Ville Radieuse del ’30 (che costituisce il modello teorico forse più ricco e completo, riproposto in un gran numero di piani particolari), gli insediamenti composti da grandi unità di abitazioni sono tutti programmi rimasti allo stato di progetto, come pure i piani elaborati o soltanto abbozzati di Ginevra, Anversa, Marsiglia, Parigi, Algeri, Buenos Aires, Rio de Janeiro, Bogotá ecc. Ciononostante quella di Le Corbusier rimane l’urbanistica più significativa e aderente alla contemporanea civiltà industriale di massa. Da essa derivano un enorme patrimonio di idee e realizzazioni o immagini architettoniche in scala urbana o paesistica, vale a dire grandi architetture che contrassegnano e rimandano sempre al più vasto disegno urbanistico elaborato dal Nostro Quanto alle idee, Le Corbusier opta decisamente, nell’alternativa fra cittàgiardino e grande metropoli, per la seconda soluzione. La città contemporanea, grazie ad una serie di conquiste della cultura moderna, potrà risolvere quei problemi che alla fine dell’Ottocento portarono a concepire la disurbanizzazione. Essa potrà elevare la sua densità, realizzare una maggiore concentrazione e al tempo stesso raggiungere quei vantaggi di una vita salubre e libera individualmente che la cittàgiardino promette a scapito di tutti gli altri vantaggi derivanti dal vivere in grandi comunità urbane. In pratica, Le Corbusier suggerisce di allontanare gli edifici dalla strada che negli impianti tradizionali funziona come un « corridoio »; di distanziare tra loro questi stessi edifici, alti il più possibile, compensando appunto questo sviluppo in verticale con ampie zone di verde; di semplificare al massimo la rete viaria differenziandone tuttavia le funzioni; di ricavare all’interno stesso dei grandi immobili residenziali delle strade che consentano tanto un alleggerimento del traffico esterno quanto una maggiore autonomia per ciascuno di tali immobili attrezzati con
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servizi collettivi, asili, ambienti per lo sport, il tempo libero ecc; di distanziare le zone industriali e i centri direzionali, ancora con ampie zone verdi, dalle aree residenziali, con le quali comunque devono essere strettamente collegate per non disperdere tempo, energie, per non creare moti pendolari. Tutto ciò viene giustificato col fatto che la libertà individuale si realizza solo nella grande organizzazione collettiva. Viceversa la cittàgiardino non porta a tale libertà ma all’individualismo «a un individualismo che è in realtà, schiavitù; che è isolamento sterile dell’individuo; porta alla distruzione dello spirito sociale, delle forze collettive; conduce all’annientamento della volontà collettiva; in concreto, si oppone all’applicazione delle conquiste scientifiche, quindi al confort, al guadagno di tempo, quindi alla libertà» 13. Si potranno condividere o meno queste tesi, resta tuttavia indubbio che i «pezzi» del più grande mosaico urbanistico facente capo ad esse, ovvero i grattacieli cruciformi o ad Y, gli edifici a piegature ricorrenti, i redents, gli immeublevillas, le unités d’habitation rimangono, come s’è detto, le più significative proposte d’architettura a scala urbana sorte nell’ambito del codice razionalista e dell’intero Movimento Moderno. Non solo, ma una volta conformate, tutte queste fabbriche e «soluzioni», per il loro carattere logico e classicistico, possono tradursi in norme, in fattori comunicabili e trasmissibili, donde la loro attualità e la loro forza di reggere il confronto con le più recenti ed avanzate proposte, la gran parte delle quali peraltro sono derivate dalla lezione corbusiana. Un altro temaparametro per cogliere il contributo di Le Corbusier alla cultura del razionalismo può considerarsi quello, cui abbiamo già accennato, della divulgazione teorica, dei rapporti col pubblico. La gran parte dei maestri della sua generazione scrisse libri, pubblicò riviste, allestì mostre, costruì quartieri sperimentali, tentò rapporti con l’amministrazione politica, in una parola ebbe l’ansia di tradurre al più presto le sue teorie in pratica forse avvertendo quanto di lì a poco si sarebbe abbattuto sull’Europa. Le Corbusier è tra i più impegnati in tal
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senso, ma ciò che lo distingue dagli altri sta nella universalità, obiettività e semplicità dei suoi punti di riferimento; se ne possono ricordare moltissimi. In difesa dello standard e in generale della linea livellatrice del razionalismo scrive in Vers une architecture: «tutti gli uomini hanno un medesimo organismo, medesime funzioni. Tutti gli uomini hanno medesimi bisogni». Nella Carta d’Atene (che, redatta da lui, esprime i risultati del Congresso CIAM del ’33 e può considerarsi un vero e proprio codice degli orientamenti architettonici e urbanistici del razionalismo) ribadiva le quattro funzioni dell’urbanistica basate su altrettante obiettive esigenze: abitare, lavorare, circolare, coltivarsi. Ancora più scarno è il motivo ch’egli adduce contro gli spostamenti che la concezione del decentramento inevitabilmente impone: «il ciclo solare è breve, le sue ventiquattr’ore governano fatalmente le attività dell’uomo, stabilendo il limite dei suoi spostamenti». Ridotti ed esemplificati i problemi nei loro termini estremi, egli trovò i modi più adatti alla loro diffusione, intuì l’enorme forza di penetrazione degli slogans e della loro visualizzazione presso l’uomo della strada e gli amministratori. Una delle sue più tipiche proposizioni, «occorre ad ogni costo una linea di condotta che non sia né troppo, né troppo poco elaborata perché essa è necessaria e deve essere sufficiente» ci sembra riassumere alcune fra le principali istanze dell’odierna civiltà di massa: una indicazione «politica», una necessità «riduttiva », una indilazionabile urgenza. FIN QUI IL 29 LUGLIO L’apporto olandese In Olanda, si può dire, che esista in nuce l’intera esperienza dell’architettura moderna, dall’eclettismo storicistico (Cuypers, Berlage) alla più diretta influenza wrightiana, dall'Art Nouveau (De Bazel e segnatamente la matrice geometrica di questa tendenza) al protorazionalismo che, unitamente alla tradizione fantastica, al gusto «900» e all’espressionismo confluirono in quel vitalissimo coacervo
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della scuola di Amsterdam o «Wendingen», da De Stijl al razionalismo. Inoltre in nessun altro paese esiste una tradizione così predisposta al Movimento Moderno, nessun ambiente così interessato al suo sviluppo, nessuna legislazione e politica urbanistica così favorevoli alla sua attuazione. Qui non ci occuperemo dell’intera si gnifìcativa vicenda architettonica del paese, ma cercheremo di cogliere l’apporto ch’essa diede al codicestile razionalista. D’altra parte, poiché tutti i momenti della cultura architettonica olandese contemporanea sono fra loro interagenti e correlati non potremo non accennarvi; si tratterà di volta in volta di specificare ciò che rimane fenomeno locale, anche se di elevato interesse e valore arti stico culturale, e ciò che si lega o addirittura anticipa l’internazionale linguaggio del razionalismo. Comunque due fenomeni vanno premessi ad ogni altra considerazione: la condizione geograficourbanistica del paese da un lato e l’influenza dell’opera di Wright dall’altro. Quanto alla prima, com’è noto, l’Olanda occupa una regione piana, in gran parte sotto il livello del mare, dal quale è difesa da numerose dighe e canali; cosicché l’organizzazione del territorio, l’economia dello spazio, lo sfruttamento razionale delle aree e dell’edilizia ivi realizzata sono problemi esistenti da tempo nel paese e la mancata o scarsa discontinuità fra antico e nuovo in campo urbanistico ed architettonico si deve alla costante scala del fabbricato, alla ridotta dimensione degli alloggi, alla unificazione degli elementi costruttivi, che anticipano di qualche decennio i temi dell’Existenzminimum e degli standards razionalisti. Quanto all’influenza di Wright in Olanda, questa si fa risalire all’esperienza diretta fatta negli Stati Uniti da architetti quali Berlage e Van’t Hoff, nonché alla grande mostra del maestro americano svoltasi a Berlino nel 1910 e alla relativa pubblicazione di Wasmuth; ma se quest’ul timi episodi riguardano l'influsso wrightiano in tutta Europa, vi sono in Olanda numerose ragioni perché questo attecchisse in modo particolare. Tra queste sono state opportunamente notate la convergenza ideologicoarchitet tonica fra Wright e Berlage ed il loro
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comune interesse per ViolletleDuc ed il medioevo; la componente fantastica ed espressionistica della scuola di Amsterdam coniugata anche in termini wrightiani; l’influenza estremorien tale presente tanto nell’opera del maestro americano quanto, per autonoma via, nell’evoluzione del gusto olandese; l’interesse sia di Wright che degli architetti olandesi per le nuove tecniche costruttive accanto a quello per i materiali tradizionali; una comune matrice morfologica derivata dalla geometria elementare; una medesima attenzione rivolta alla continuità degli spazi interni dell’architettura, ecc.1313 Cfr. G. Fanelli, Architettura moderna in Olanda, Marchi & Bertolli, Firenze 1968, pp. 367. A queste ragioni va aggiunto il fatto che in De Stijl, vale a dire il punto nodale e più autonomo di tutta l’esperienza olandese, confluirono sia il gusto di Mackintosh sia quello di Wright, entrambi esponenti di quella tendenza geometrica o dell’«astrazione» dell’Art Nouveau. Ancora, quale tratto comune tra l’opera dell’architetto americano e la produzione olandese nel suo complesso va detto che entrambe non si fondano su un unico momento linguistico, ma presentano fasi discontinue formalmente e tuttavia unitarie nella loro più generale significazione. In altre parole, come non esiste soluzione di continuità tra le opere di Wright dei suoi diversi periodi malgrado le differenze di modi e di accenti, così tra la lezione di Berlage, la scuola di Amsterdam, De Stijl e il razionalismo olandese vi è una ininterrotta storicità, tanto che ognuno di tali momenti del gusto non si spiega senza il precedente. In particolare, entrando nel vivo del nostro argomento cioè quello di cogliere il contributo olandese al razionalismo, notiamo che in moltissime opere della scuola di Amsterdam, quali il singolare quartiere Spangen, realizzato a Rotterdam da Michiel Brinkman tra il 1919 ed il ’21 o i complessi edilizi che M. De Klerk e J. F. Staal co struirono intorno al ’20 nel distretto di Amsterdam Sud, ideato da Berlage sin dal 1902, esiste l’adozione di una tipologia edilizia e di criteri distributivi assai simili a quelli di Klein e dei razionalisti
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tedeschi adottati circa un decennio più tardi. Questi, unitamente a numerosi altri aspetti, quali l’urbanistica a scala di quartiere, la tematica dell’edilizia popolare, le felici sistemazioni esterne e la cura per l’arredo urbano, ci inducono a considerare la produzione della scuola di Amsterdam, tra l’altro, come una sorta di protorazionalismo. Questo però, dal punto di vista linguistico, non si arenerà nelle secche di una riduzione classicistica, ma continuerà rigoglioso a coesistere e più tardi a fondersi con gli accenti neoplastici, nonostante l’accesa polemica delle riviste dei due gruppi, rispettivamente «Wendingen» e «De Stijl». Pertanto, mentre in Austria, Francia e Germania l’avanguardia figurativa che fece seguito al cubismo venne ad alimentare un’architettura protorazionalista ricca nei contenuti ma povera nelle forme, in Olanda trovò in atto un movimento, quello della scuola di Amsterdam, assai vitale in ogni senso, tanto da influenzare gli stessi architetti neoplastici. In sostanza, per la presenza e la coesistenza dell’influsso di Wright, della lezione urbanistica di Berlage (è a lui che si deve il concetto di «isolato», che fino agli anni ’30 presiederà i concreti interventi urbanistici promossi dalla esemplare legge del 1901[14 14 Questa prescrive che ogni città con più di 10.000 abitanti è tenuta a redigere un piano generale di ampliamento; introduce la distinzione tra piano regolatore generale e piano di dettaglio; quest'ultimo regola l'esproprio delle aree e la realizzazione di qualsiasi costruzione. Le amministrazioni locali ricevono prestiti con interesse a carico dello Stato per il costo dei terreni e delle costruzioni; esse hanno facoltà di concedere suoli e sovvenzioni agli enti costruttori di case popolari; ogni procedura di esproprio viene regolata e facilitata. , grazie ad un protorazionalismo anticlassicistico, nonché ricco di valenze lessicali e soprattutto all’opera di De Stijl si ebbe in Olanda e negli anni fra le due guerre una produzione tra le più ricche e significative, che possiamo dividere in tre correnti.
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La prima, più eclettica ma più tipica della vicenda nazionale, è quella che fonde i contributi di Wendingen e di De Stijl. Il suo maggiore esponente è Willem Marinus Dudok, autore del piano regolatore di Hilversum del ’21, di numerosi quartieri popolari, di esemplari edifici scolastici e del Municipio della stessa città, che rimane il capolavoro dell’architetto e tra le opere più significative tra quelle prodotte in Olanda. Dudok è, a nostro avviso, la figura artisticamente più emergente dell’ambiente olandese e la sua opera rimane di vivo interesse anche dopo la crisi del razionalismo, del quale egli non fu mai esponente, il che, a rigor di termini, estranea il suo contributo dall’argomento del presente paragrafo. La seconda corrente è quella legata nel modo più ortodosso a De Stijl. Ne incarnano gli aspetti architettonici Gerrit Thomas Rietveld, autore di una serie di mobili, di alcuni negozi, della famosa casa Schroeder del 1924, delle case a schiera sulla Eras muslaan (1930) e sulla Schumannstraat (1934) a Utrecht; Robert Van’t Hoff, autore delle wrightiane case costruite a Huis ter Heide, rispettivamente del 1914 e del 1916; lo stesso Van Doesburg, l’uomo di punta dell’avanguardia olandese, nelle sue sperimentazioni architettoniche, alcune delle quali condotte in collaborazione con Cor Van Eeste ren, che sarà l’autore del Piano regolatore generale di Amsterdam del ’34, considerato il più emblematico dell’urbanistica del razionalismo. Ancora nell’ambito di De Stijl va registrato l’esordio di Jacobus Johannes Pieter Oud (1890 1963). La sua opera in rapporto al neopla sticismo, del quale fu uno dei fondatori nel 1917, si limita a qualche progetto: le case a schiera sul lungomare di Scheveningen, la fabbrica con uffici a Purmerend (1919); a qualche costruzione provvisoria come quella per i cantieri dell’«Oud Mathenesse» (1923); a qualche arredamento, come il caffè «De Unie » a Rotterdam (1925) La produzione urbanistica ed architettonica vera e propria di Oud appartiene alla terza corrente deH’architettura olandese, quella del razionalismo; anzi si può dire che egli sia stato il primo importante
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architetto olandese ad aderire a questo stile internazionale, donde il maggior peso che acquista la sua figura nell’ambito del nostro studio. Nominato nel 1918 architetto capo della città di Rotterdam, Oud progetta nello stesso anno un gruppo di casé popolari nel quartiere Spangen e nel ’19 un altro nucleo nel quartiere Tusschendijken, dove si ritrova una composizione a blocchi isolati, assai simili a quelli progettati da Berlage in Amsterdam Sud. Nel ’22 realizza il quartiere Mathenesse in un’area di forma triangolare che ancora presenta un tracciato di gusto berlaghiano, nonché legato ad una rigida simmetria. Le case basse del quartiere hanno ancora il tetto inclinato, ma anticipano per altri aspetti quel carattere iterativo e quella cura dei particolari che saranno tipici della produzione successiva di Oud. I due nuclei affiancati di case a schiera realizzati nel ’24 a Hoek van Holland costituiscono la prima opera in cui il linguaggio di Oud si affranca decisamente dalla tradizione. Coperture piane, finestre orizzontali, intonaco bianco alle facciate, uguaglianza pianimetrica e distributiva delle cellule, raccordi curvilinei nei terminali dei corpi di fabbrica sono tutti elementi che rientrano o anticipano il codice razionalista. Al tempo stesso queste case se ne distaccano per la cura dei dettagli, per le loro essenziali recinzioni e sistemazioni esterne, per l’uso dei colori vivaci alla Mon drian e soprattutto per la loro sapiente rifinitura, che mancava spesso nelle analoghe opere dei razionalisti te deschi e francesi, si pensi al caso di Pessac. Molti aspetti delle case e schiera di Hoek van Holland si trovano inglobati nel più vasto quartiere operaio «Kief hoek», iniziato nel ’25 a Rotterdam. Esso s’inserisce in una vasta area delimitata al contorno da tradizionali case a schiera in mattoni e tetti a doppio spiovente, che fanno da aguzza cornice al nucleo di Oud composto di case dal l’intonaco bianco e dalla copertura piana. Oltre a ciò le nuove costruzioni del quartiere, le cui cellule duplex sono ideate secondo il più rigoroso criterio dell’Existenzminimum, presentano un quadro più unitario di quello della vecchia edilizia al contorno. Infatti, nonché disposte secondo lo schema degli isolati berlaghiani, le case di Oud
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presentano le finestre del piano superiore così ravvicinate da segnare, al di sopra di una ininterrotta fascia piena, una continua apertura orizzontale. Ne deriva una immagine architettonica tanto sintetica ed unitaria da smentire la dimensione necessariamente frammentaria de gli spazi interni. La vecchia tipologia delle case a schiera viene così trasformata in un insieme di corpi orizzontali che segna la presenza di un nuovo gusto e di una nuova scala architettonica nell’ambiente preesistente, che tuttavia non viene tradito grazie alla solita cura dei particolari e delle sistemazioni esterne, che confermano il «significato» residenziale e la scala domestica dell’intero complesso. Il contributo al codice razionalista non si ferma alle opere citate; gli edifici di Mart Stam, di J. A. Brinkman e L. C. Van der Vlugt e segnatamente la loro fabbrica più nota, il complesso Van Nelle, realizzato a Rotterdam dal ’26 al ’29, sono ancor più «avanzate» di quelle di Oud, intanto che si vengono formando nuovi gruppi come il «De 8», che dichiara nel suo manifesto di essere «aaesthetish, a dramatish, aromantish, akubistish», ossia di optare per il puro funzionalismo. Tuttavia, benché Oud aderisca a questo gruppo, sono le sue opere sopra ricordate a segnare il punto più significativo dell’apporto olandese al Razionalismo. E questo consiste in definitiva nell’aver saputo trovare un rapporto di continuità con la recente tradizione (pensiamo in particolare alla ripresa dei grandi isolati di Berlage); nell’aver utilizzato ai fini dell’architettura, ossia piegato alla sua logica ed esigenze le sollecitazioni di De Stijl; nell’aver aderito o addirittura precorso le istanze funzionali e sociali del razionalismo senza perdere nella contestualità delle opere quel senso di «calma» e di ordinato progresso che, dalla conformazione del territorio alla politica amministrativa ed urbanistica, sembra negare o nascondere ogni condizione di conflittualità. Alla cultura del razionalismo hanno contribuito altri architetti, teorici e studiosi di molti altri paesi, che nell'economia del presente studio siamo costretti a trascurare unitamente alle vicende italiana, tedesca e russa degli anni del fascismo, del nazismo, dell’età staliniana, anche
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se le «difficoltà politiche» degli artisti operanti in tali paesi e in questo periodo accrescono il loro valore culturale ed il loro impegno civile; per essi rimandiamo alla vasta letteratura sull’argomento e a libri di storia più completi del nostro e diversamente strutturati. In conclusione, l’architettura centroeuropea tra le due guerre s’è mossa nella linea del razionalismo classico, ha esaltato i princìpi della sua logica interna e, ipotizzando un assetto sociale, quello della civiltà industriale di massa, nonché uno politico, quello socialista, in tutta la vasta e talvolta confusa gamma dei significati del termine, ha tradotto l’intero suo processo in princìpibase, tipologie, norme, regole lessicali e sintattiche. In una parola ha rappresentato forse il maggiore tentativo di «riduzione» prodottosi nella storia dell’architettura, con tutti i suoi pregi e i suoi numerosi limiti; ma essendo questi i limiti propri ad una stagione storicoculturale, la sua crisi rientra pertanto in quella che è stata definita «la crisi dell’arte come “scienza europea”». LE OPERE DEL RAZIONALISMO Il Bauhaus di Dessau L’edificio, realizzato tra il 1925 e il 1926, sembra trarre una delle sue prime ragioni conformative proprio dai vincoli della zona in cui sorge: esso fronteggia una strada, ne valica un’altra normale alla prima, delimita con due suoi corpi di fabbrica l’area di un vicino campo sportivo. Questo carattere urbanistico è stato sottolineato da Argan a dimostrazione che «l'assunto antimonumentale, in un’architettura ch’è insieme fabbrica e scuola e vuol dar forma all’ideale del lavoro come educazione, coincide con l’assunto urbanistico» [15 G. C. Argan, Walter Gropius e la Baubaus, Einaudi, Torino 1951, p. 103., poiché non esiste, a suo dire, «una formulazione più precisa della genesi storica della moderna urbanistica come antimonumentalità di principio» 17 Ivi, p. 104. Anche a non condividere la coincidenza dei due assunti suddetti, e non è il nostro caso, considerando l’edificio del Bauhaus come un
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plastico «nodo», esso s’inseriva in e necessitava di un «complementare» nodo di strade e di punti di vista. Infatti, solo dalle molteplici visuali — dal basso, dai vari lati e persino da sotto — offerte dalle strade che lambivano od attraversavano la fabbrica era possibile cogliere l’intera valenza spaziale di essa, indubbiamente concepita e progettata nei termini della cosiddetta quarta dimensione. Al pianterreno troviamo due corpi di fabbrica distinti; il primo a pianta rettangolare conteneva un certo numero di aule e di piccoli laboratori; il secondo, con pianta ad L, aveva in un’ala i laboratori e nell’altra l’auditorium, il palcoscenico, il refettorio e la cucina. Al piano superiore un corpo di fabbrica alto due piani e sospeso dal suolo conteneva gli uffici della scuola e gli studi degli insegnanti. Tale corpo di fabbrica valicando la strada congiungeva i due volumi edilizi prima citati che, per l’altezza di tre piani, avevano ad ogni piano rispettivamente aule e laboratori. Cosicché dal secondo piano l’edi ficio assumeva una forma pianimetrica a G di altezza costante ad eccezione del corpo di fabbrica contenente i locali collettivi (refettorio ed auditorium) che, conservando l’altezza di un solo piano, costituiva un basso raccordo tra il volume descritto ed il fabbricato alto cinque piani destinato agli alloggistudio per gli allievi. Passando ad una lettura di maggiore dettaglio, va notata la grande varietà plastica dell’intero complesso. Anzitutto, ad eccezione dell’incontro tra il corpo su pilastri e quello della scuola, tutti gli altri innesti di volumi sono preceduti o da una rientranza, come all’incontro del volume a ponte coi laboratori, o da una sporgenza, come all’innesto del refettorio con l’edificio per gli allievi. È indubbia l’influenza neoplastica in tutto l’edificio, ma sebbene anche qui si possa parlare della scomposizione del volume in piani, non fine a se stessa quanto per sotto lineare alcune parti della fabbrica, tale scomposizione è piuttosto un’articolazione della stessa massa volumetrica secondo un gusto, un ritmo ed un taglio che neoplastici nell’assunto diventano qui ben altra e più solida conformazione reale. Ciò vale soprattutto per la varietà volumetrica data dalla differente
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altezza dei corpi di fabbrica. Quelli contenenti rispettivamente le aule ed i laboratori avrebbero la stessa altezza e una stessa compatta massa volumetrica, se non vi fosse il vuoto lasciato al pianterreno dal corpo di congiunzione. Normalmente a questo vuoto ha inizio il corpo più basso dell’intero nucleo, ossia «l’elemento meno impegnato nella dinamica funzionale: luogo di raccoglimento e di riposo, rispetto alla vita della comunità, punto morto dove il moto cade e risale, rispetto alla meccanica compositiva».17 Ivi, p. 194. . ; vale a dire che proprio accanto alla parte più bassa contenente i locali comuni c'è quella più alta, il fabbricato a cinque piani per gli allievi. Il differente trattamento delle superfici di facciata, o meglio, il diverso modulare dei volumi, conferisce una ulteriore dinamicità alla fabbrica. Infatti, l’edificio alto è la massa più piena, interrotta solo sulle fronti ad est ed ovest rispettivamente da balconi a sbalzo e da finestre, mentre le due larghe testate presentano appena una fila di modeste bucature. Seguono, in ordine di leggerezza, i corpi della «passerella» e della scuola caratterizzati da una equivalenza di pieni e di vuoti, da un alternarsi di fasce murarie e di finestre orizzontali. Le superfici del corpo più basso sono ancora di più semplice trattamento: una serie di finestre verticali aperte in una uniforme superficie piena. Infine il corpo di fabbrica dei laboratori presenta la massima prevalenza dei vuoti sui pieni; sulle facciate Gropius riprende il tema della Faguswerk e della fabbrica di Colonia; determina cioè un involucro di vetro antistante i solai fuoriuscenti a sbalzo dai montanti di calcestruzzo e tali sbalzi eliminando la presenza dei pilastri negli spigoli consentono quel famoso carattere di trasparenza angolare che costituisce uno degli aspetti formali più tipici del Bauhaus. Commentando questi trasparenti angoli svuotati, Giedion scrive: « Due delle più urgenti istanze delParchitettura moderna trovano qui adempimento: il raggruppamento sospeso e verticale dei piani che soddisfa il nostro senso dei rapporti spaziali; e la trasparenza, realizzata in pieno, tanto che siamo in grado di vedere simultaneamente interno ed esterno, en face, e en profile come “
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L’Arlésienne ” di Picasso del 191112: molteplicità di livelli di riferimento o di punti di riferimento, e simultaneità — per dirla in breve la concezione dello spaziotempo»18 Giedion, op. cit., p. 480. Anche noi concordiamo con quanti ritengono l'edificio del Bauhaus il capolavoro del razionalismo europeo, con in più qualche connotazione che va oltre o, se si vuole, è meno, d’un’opera d’arte nel senso più condiviso del termine. Benevolo, partendo da un problema di rifiniture, osserva, che il Bauhaus col suo bianco intonaco, invecchia peggio delle officine Fagus per le quali furono impiegati più solidi materiali, per giungere ad individuare nell’edificio di Dessau una nuova concezione dei valori architettonici. « Se l’architettura non deve limitarsi a rappresentare le aspirazioni della società ma contribuire a realizzarle, i manufatti architettonici valgono in relazione alla vita che vi si svolge e non durano come oggetti di natura, indipendentemente dagli uomini, ma devono esser fatti durare con apposite operazioni. Perciò, ora che la vita primitiva s’è dileguata e l’opera è ridotta a un lamentoso ammasso di muri e di serramenti sconquassati, il Bauhaus a rigore non esiste più; non è una rovina, come i resti degli edifici antichi, e non ha alcun fascino fisico»19 Benevolo, Storia dell'architettura moderna, cit., p. 463. Ma anche se restaurata, la celebre scuola — che forse volle giocare il ruolo dell’architettura effimera proprio all’avanguardia razionalista — rimarrà una fabbrica morta, unitamente al momento politico, culturale ed economico che caratterizzò la sua storicità. Comunque, i suoi programmi, propositi e metodi didattici sono rimasti insuperati e senza alternative, almeno finora. Villa Savoye Un’opera in cui Le Corbusier applica integralmente i suoi famosi cinque punti è la villa Savoye a Poissy, realizzata tra il 1929 e il ’31, dimostrando in pari tempo quanta varietà è possibile ottenere pur rispettando tale guida normativa. Inoltre la costruzione riflette altri suoi parametri progettuali — i legami con la pittura purista, la
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coesistenza di forme «libere» e geometriche, l’architettura dei percorsi, il rapporto con l’ambiente naturale, ecc. — che la rendono tra le più emblematiche del suo stile. Morfologicamente la pianta della casa nasce da una maglia quadrata di pilotis aventi fra loro una distanza di m. 4,75; dimensionalmente essa deriva dall’arco di curvatura di un’automobile che, penetrando nella maglia, gira all’interno di essa e s’introduce nello spazio destinato a garage». Siamo pertanto in presenza di due motivi, per così dire, archetipi di Le Corbusier: la chiocciola ed il quadrato, che si ritrovano alla base di molte altre sue opere. Nel corpo di fabbrica a pianterreno, avente un lato curvo, oltre al garage, vi è un alloggio di servizio ed il vestibolo donde parte una scala e una rampa, disposta lungo l’asse della pianta ed equivalente alla spina centrale dell’intera costruzione. Il piano superiore contiene su tre lati l’alloggio (un grande soggiorno, tre camere con servizi) e sul qùarto lato, profondo dalla parete esterna alla rampa di spina, è una grande terrazza, cui corrisponde un vuoto sul solaio sovrastante. Nel parlare di questa terrazza, Le Corbusier afferma: « il vero giardino della casa non sarà sul suolo, ma al di sopra di esso a tre metri e cinquanta: questo sarà il giardino sospeso dove il suolo è secco e salubre, dal quale si vedrà tutto il paesaggio, assai meglio che non dal basso» 21 Le Corbusier e Jeanneret, Oeuvre complète 192934, Editions d'Architecture Erlenbach, Zurich 1946, p. Seguendo la rampa, dalla suddetta terrazzagiardino si arriva al piano di copertura della casa. Esso presenta i curvilinei corpi del solarium e della scala; due vuoti corrispondenti rispettivamente al terrazzo in feriore descritto e ad un altro più piccolo che sovrasta il terrazzino della cucina del piano sottostante; la conclusione della rampa centrale. Questa collega al coperto il pianterreno col primo piano e, all’aperto, quest’ultimo col tettogiardino. In tal modo la rampa, vera e propria promenade architecturale, costituisce un elemento plastico costantemente visibile nella parte centrale della casa sia per chi guarda dalPinterno sia per chi guarda dalla terrazzagiardino del primo piano.
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La volumetria esterna è tanto semplice e schematica da apparire «brutalista» ante lìtteram 22 Tendenza nata nel secondo dopoguerra in Inghilterra proprio dalla interpretazione dell'opera di Le Corbusier. 2[ un basso parallelepipedo, tagliato su ogni lato da un’asola orizzontale, sospeso dal suolo da sottili pilastri e sormontato da corpi semicircolari disposti dissimmetricamente. Quanto al rapporto con l’ambiente, Le Corbusier scrive: «la casa si poserà nel mezzo dell’erba come un oggetto» 23 Le Corbusier e Jeanneret, op. cit., p. 24. Tuttavia, se la scarna volumetria e questo distaccato rapporto con la natura — frutti entrambi di una poetica figurativa e d’un programma comune a tutto il razionalismo e all’arte astratta — rientrano indubbiamente nell’intenzionalità dell’autore, vi sono aspetti particolari dell’opera che trasformano ed arricchiscono i suoi lati schematici e programmatici. Notiamo anzitutto che le quattro facciate non sono, come sembrano, tutte uguali fra loro. Due di esse hanno i pilotis a filo di parete, mentre le altre due sono a sbalzo rispetto ai montanti, realizzando così la vera e propria facciata libera. Inoltre se tale divario si deve alla struttura, quello che andiamo a descrivere va attribuito ad una ancora più precisa volontà conformatrice; infatti la posizione dissimmetrica dei corpi sovrastanti l’edificio, formanti un plastico gruppo a sé e la loro stessa varietà morfologica conferiscono una nota di varietà ed ambiguità al tutto, così da rendere ogni visuale di prospetto diversa dall’altra: guardando dai vari lati il suddetto gruppo, ora appare a sinistra, ora a destra, ora scompare del tutto per chi guarda dal basso, disposto com’è in un angolo eccentrico del tetto giardino. Notiamo ancora che la facciata corripondente alla terrazza giardino è simile alle altre; e ciò chiaramente in deroga al principio funzionalista che l’esterno doveva rispecchiare fedelmente l’interno. E tale deroga, cui forse un Gropius o un Mies non avrebbero mai consentito, è la prova migliore del modo di progettare di Le Corbusier procedente per immagini. Interno ed esterno devono sì corrispondersi, ma non al punto da scompaginare una immagine che il Nostro aveva
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prefigurato in nome non solo duna logica funzionale, ma anche, come in questo e in numerosi altri casi, in quello d’una logica della fantasia. Il Padiglione tedesco all’Esposizione di Barcellona Dopo l’edificio del Bauhaus, o della plastica volumetrica quadridimensionale, dopo la villa Savoye che incarna i cinque punti di Le Corbusier, la terza fra le opere più paradigmatiche del codicestile razionalista è il Padiglione che Mies van der Rohe costruì nel 1929 a Barcellona. Ed essa è tale perché mostra come l’architettura, per così dire, reale, assorbì — con le adesioni e le deroghe che vedremo — le proposte ed i suggerimenti dell’avanguardia, in questo caso la poetica di De Stijl. Il Padiglione, che, sebbene costruito con materiali stabili, andò distrutto con tutte le opere effimere dell’Esposizione, era composto dalle seguenti parti o « pezzi » di un plastico meccanismo: un basamento di travertino, alto quanto otto scalini, che conteneva in un angolo una vasca d’acqua rettangolare, avente tra l’altro la funzione di rispecchiare le altre parti dell’edificio e di dare uno « spessore » al basamento stesso in cui risultava come « scavata »; un murolastra con una panchina addossata, il quale reggeva virtualmente e collegava i piani di copertura delle zone coperte del Padiglione, formando anche un setto di separazione fra gli spazi interni ed esterni di esso; otto montanti metallici cromati a sezione cruciforme reggevano il solaio di cemento armato che copriva la vera e propria zona d’esposizione, il cui ambiente interno era articolato con altre lastre di muratura o con pannelli di vetro e metallo; una seconda più piccola vasca d’acqua, dalla quale sorgeva una scultura figurativa di Georg Kolbe, era siste mata sul lato più breve della costruzione ed era contenuta entro una specie di patio circondato per tre lati da muri rivestiti di onice, formanti all’esterno non più un gioco di lastre ma un volume chiuso; un altro volume simile, sul lato opposto circondava parzialmente la vasca grande, delimitava l’altro lato breve dell’edifico e recintava, sempre con andamento ortogonale il reparto contenente due vani per
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uffici ed i servizi; un solaio sovrastante questa seconda zona coperta era sorretto dal muro suddetto e da quello parallelo alla piscina. Già dalla descrizione di questi elementi componenti la costruzione può dirsi quanto l’opera in esame debba al codice neoplástico e quanto ad altre tendenze del gusto. Infatti se le lastre verticali, quella esterna avente alla base la panchina e quelle interne alla zona espositiva giocavano una composizione di slittamenti e di compenetrazioni, cui non erano estranei gli stessi piani d’acqua, sono di indubbia ispirazione neoplastica, i lati brevi del padiglione che erano chiusi da muri formanti volumi, almeno verso l’esterno, si differenziano notevolmente dalla poetica di De Stijl. Non ci sono lungo questi lati le classiche sporgenze e rientranze dei muri tipici del movimento olandese, tendenti alla scomposizione del volume in piani ma, come s’è detto, murature che piegandosi a 90° formano, compongono appunto dei volumi. Si può dire che Mies abbia voluto limitare verso il perimetro il padiglione con tali elementi per meglio concentrare nella sua area il gioco di libere lastre formanti, all’interno di quell’area, interni ed esterni sia reali che virtuali. Questa differenza tra perimetro ed area ci sembra la chiave migliore per intendere l’opera in esame, specificando i «luoghi» dove l’edificio si affida o si discosta dalla poetica neoplastica. Ma come definire le parti, le zone, gli ambienti in cui il capolavoro di Mies si differenzia dalla corrente linguistica olandese? La risposta è ovviamente quella di considerare dette parti di pura marca ed invenzione miesiana. Ciò tuttavia non ci impedisce di cogliere altre derivazioni ed ascendenze. Intanto la zona del patio, con la sua recinzione muraria, col solaio che uscendo a sbalzo dall’ambiente espositivo rende detto patio parzialmente coperto, col piano d’acqua e la scultura, si badi bene, figurativa di Kolbe, non ha nulla di neoplastico, anzi ha un accento classicistico che risale al protorazionalismo di un Loos, al purismo di un Le Corbusier e soprattutto rivela una costante, appunto classica, che sarà propria a tutto lo stile delle future opere di Mies. L’accostamento a Loos ritorna per altri aspetti. Infatti se le architetture di Van Doesburg
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e di Rietveld si articolano in piani colorati artificialmente in blu, giallo e rosso, qui i piani hanno il colore proprio dei materiali, la lucentezza del metallo cromato, la grana del travertino, le venature dell’onice. Siamo insomma nella logica dell’unica «decorazione» ammessa da Loos, quella appunto derivante dalla natura dei materiali. E non è forse loosiano l’artificio di ingrandire e moltiplicare spazi ed ambienti interni con giochi di specchi — si pensi al Kärntner Bar e ad altri interni — riproposto da Mies a Barcellona questa volta all’esterno con delle vasche rispecchianti? Detto questo non intendiamo evidentemente sminuire l’originalità dell’opera di Mies, ma legarla alla sua storicità e mostrare come essa sintetizzi molti aspetti linguistici del Movimento Moderno: l’avanguardia e la tradizione, il gusto figurativo e quello astratto, la più inedita spazialità e un senso della classicità, sia pure totalmente riinventato. E non è forse classica la famosa poltrona che Mies disegnò proprio in occasione del Padiglione di Barcellona e che da esso prende il nome, nella quale sono ritrovabili antichissimi motivi d’arredo anche qui riproposti in una versione nel suo complesso affatto inedita? In sintesi, ci pare che ciò che rende il capolavoro di Mies «uno dei pochi edifici grazie al quale il secolo XX può gareggiare con le grandi epoche del passato» H. R. Hitchcock, L'architettura dell'Ottocento e del Novecento, Einaudi, Torino 1971, p. 506. per dirla con Hitchcock non senza una punta d’esagerazione, stia nell’aver saputo operare una sintesi in quella conformazione che abbiamo detta del perimetro e dell’area, fra esterno ed interno, tra la geometria e la natura organica dei materiali, tra neoplasticismo e classicità. Il Columbushaus Nell’economia del nostro discorso forse altre opere andrebbero assunte come paradigmatiche del codicestile razionalista al posto di questa fabbrica di Erich Mendelsohn, di un artista cioè meglio noto come colui che tradusse con coerenza e continuità l’espressionismo in
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architettura. Assai più indicative del Columbushaus potrebbero essere, ad esempio, il Padiglione svizzero all’università di Parigi (ma questo va menzionato come un precedente dell’Unità di abitazione di Marsiglia) oppure le due case a schiera di Oud a Hoek van Holland (delle quali abbiamo dato un cenno trattando della produzione olan dese) o ancora altre opere di Gropius, Le Corbusier, Mies, ecc. E tuttavia ci sembra più utile parlare di questo edificio costruito da Mendelsohn a Berlino tra il 1929 e il ’31 per i seguenti motivi: a) la figura di questo grande architetto va menzionata oltre a ciò che s’è detto nella prima parte del presente capitolo; b) il Columbushaus è una realizzazione importante anche per il suo programma edilizio e tale che all’epoca gli altri maestri non avevano avuto ancora l’occasione di realizzare; c) esso completa anche da un punto di vista tipologico la nostra scelta di edifici esponenti e rappresentativi del codicestile che studiamo; d) esso contribuisce a chiarire i complessi .rapporti tra razionalismo ed espressionismo; e) costituisce un esempio dimostrativo delle possibilità offerte anche sul piano pratico dalla nuova architettura. Il Columbushaus appartiene alla tipologia degli edifici commerciali cittadini che prima del ’29 il razionalismo non aveva, si può dire, ancora così compiutamente affrontata. Esso sorge sulla Potsdamerplatz a Berlino e consta di un pianterreno destinato a negozi, di un primo piano a ristorante, di altri sette piani per uffici, di un ultimo piano contenente un ristorante panoramico. La pianta del piano tipo contiene al centro un doppio gruppo di scale ed ascensori, più altre scale di servizio ubicate negli angoli opposti del fabbricato. A parte tali ingombri, distributivamente il piano tipo è lasciato completamente libero ed indeterminato per adattarvi la più varia disposizione degli uffici. La struttura portante è in acciaio e grazie all’arretramento dei pilastri dal filo delle pareti queste sono «libere» con continue fasce piene orizzontali alternate da finestre continue con un modulo verticale per gli infissi di cm. 90. Il solaio di copertura è
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una lastra piana, anch’essa sorretta da montanti arretrati in modo da formare una vasta zona chiaroscurale. La forma della pianta è quella di una L con l’ala lunga lievemente incurvata per accordarsi con un vicino palazzetto di gusto barocco. Parlando del Colum Inishaus, Benevolo rileva che «solo la termina/ione del luto corto con la vetrata continua della scala e la lieve piegatura del lato lungo movimentano la composizione, r serbano appena un’eco delle tumultuose composizioni giovanili» 24 Benevolo, op. cit., p. 544. . Certo, il Columbushaus è lontano dalla Torre di Einstein del 1919, dal « Berliner Tageblatt» del ’22, dui Magazzini di Schocken a Stoccarda del ’26’28, ma già non tanto da quelli della stessa ditta realizzati nel ’28’30 a Chemnitz, per citare solo alcune delle sue opere più fumose. Si direbbe che Mendelsohn, condizionato in parte dui tema, proceda per successive semplificazioni fino a questa sua opera in cui il linguaggio razionalista prevale su quello espressionista. Prevale ma non lo smentisce. Ricordiamo intanto che le finestre a nastro compaiono per la prima volta nel 1910 in un edificio espressionista della stessa tipologia costruito a Breslavia da Hans Poelzig e saranno una costante in quasi tutta l’opera di Mendelsohn, specie per edifici commerciali. In secondo luogo notiamo che il rigore geometrico non è appannaggio del solo razionalismo, ma appare, sia pure con diverse motivazioni, in aldini momenti e presso alcuni autori espressionisti, si pensi al Behrens degli uffici Höchst Farbwerke. Anzi proprio l’attitudine a comporre elementi geometrici con altri di più libera matrice consente a Mendelsohn di realizzare il particolare più felice della conformazione del Columbushaus: il lato incurvato che si allinea con il preesistente edificio contiguo, raccordandosi ad esso non solo con tale piegatura, ma anche col digradare dell’ultime due coppie di piani. Zevi sottolinea la pertinenza urbana dell’impianto: «l’angolo intercetta le energie dei nastri provenienti dal fianco e le direziona sul fronte che poi, incurvandosi, resta nonfinito. L’oggetto architettonico, così interrotto, privo di una cornice, s’attaglia al luogo, lo risucchia e
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contemporaneamente lo investe della propria presenza, sconfiggendo ogni velleità di autonomia e di eloquenza fine a se stessa» 26. Dal canto suo ancora Benevolo sostiene che quest'opera contribuisce meglio alla causa dell’architettura moderna più di quanto non facciano le ville suburbane di Le Corbusier e di Mies. «Essa fa vedere al pubblico, nel modo più persuasivo, che solo l’architettura moderna è in grado di risolvere certi problemi funzionali propri di un moderno centro d’affari [...] l’uomo comune può ritenere che la villa Savoye non lo ri guardi, ma non può fare a meno di accettare il Columbushaus, poiché alcune funzioni che impegnano la sua vita quotidiana trovano in quest’edificio, per la prima volta, una sistemazione soddisfacente25 B. Zevi, Spazi dell'architettura moderna, Einaudi, Torino 1973, didascalia delle figg. 242243. In conclusione il Columbushaus non è il capolavoro di Mendelsohn, né, come s’è detto, un’opera delle più paradigmatiche del razionalismo. Tuttavia se sul piano del linguaggio esso mostra come l’espressionismo alimenti e si fondi col codicestile che studiamo, su quello più generale, sociologico, tecnico, di una maturata esperienza, può ritenersi un punto d’arrivo della cultura europea, una delle sue ultime manifestazioni architettoniche prima che la Germania cadesse nella fase più oscura della sua storia. Abbiamo ridotta l’esemplificazione delle opere paradigmatiche del razionalismo a soli quattro edifici di altrettanti maestri. Ma non basterebbero altri dieci a coprire tutte le varianti del codicestile esaminato. Infatti il razionalismo segnò una svolta così radicale nella concezione dell’architettura da andare sempre oltre, da offrire un con tinuo scarto rispetto a qualsiasi fabbrica realizzata. Dobbiamo allora concludere che esso fu tale da non potersi rappresentare con opere paradigmatiche o emblematiche? Rispondiamo di no, ove (fatta salva la virtù espressiva e significativa di alcune opere che pure hanno la valenza che cerchiamo) soprattutto per opera non s’intenda il singolo edificio, ma un intervento intermedio fra architettura e urbanistica, pensiamo ai quartieri operai, alle Siedlungen. Sono queste le maggiori
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opere emblematiche del razionalismo in quanto ne incarnano meglio d’altre il codice e al tempo stesso le vere e proprie opere paradigmatiche in quanto rivoluzionando quasi tutti i precedenti valori della residenza ne istituiscono altri che serviranno da modello per la produzione futura. Ma se ciò è vero perché in questa seconda parte del capitolo dedicato alle «letture» delle più significative opere razionaliste non abbiamo incluso i quartieri di May realizzati a Francoforte, quelli di Gropius a Dessau, Karlsruhe e di Berlino? Perché mancano gli esempi olandesi? La ragione sta nel fatto che abbiamo preferito parlare dei quartieri suddetti nella prima parte del presente capitolo dove cioè abbiamo discusso dei metodi e della «tecnica» del razionalismo, del tema dell’Existenzminimum, delle tipologie, delle ragioni socio culturali che ne spiegavano resistenza e la conformazione. Estrapolarli da quel contesto e riproporli altrove «leggendoli» come opere autonome ci è sembrato come snaturarli. Rimandiamo quindi il lettore alle pagine precedenti dove le Siedlungen sono viste nella loro più complessa fenomenologia, ricordando qui, ripetiamo, che esse furono il meglio prodotto dalla cultura del razionalismo. Capitolo quinto L’ARCHITETTURA ORGANICA I caratteri invarianti Scartata la semplicistica distinzione di Giedion per cui «attraverso la storia si perpetuano due tendenze diverse — una verso il razionale e il geometrico, l’altra verso l’irrazionale e l’organico»1, 1Giedion, op. cit., p. 402. tenteremo di definire in un primo momento le caratteristiche invarianti dell’architettura organica, salvo poi ad integrarle con il contributo dei due principali esponenti di essa. F. LI. Wright ed A. Aalto.
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Che un discorso su tale corrente condotto inizialmente senza considerare gli apporti dei maestri suddetti sia legittimo è dimostrato dal fatto che di organicismo si parla assai prima ed indipendentemente dall’esordio di Wright. Infatti, senza risalire a Leon Battista Alberti, al Vasari, al Burckhardt, tutta la cultura estetica, critica e teorica dell’architettura europea a cavallo del secolo è permeata, con vari accenti, di organicismo. Altrettanto organicar se estendiamo questa nozione fino a comprendere il design e l’urbanistica, è la linea di pensiero che parte da Ruskin e Morris, partecipa alla cultura dell’Einfùhlung, riceve da Wright il suo più alto momento espressivo, alimenta il contributo della scuola scandinava, sostanzia la corrente urbanistica che da Howard a Geddes giunge fino a Mumford. Pertanto, senza essere il parallelo romantico del razionalismo, così com’è stata da molti fraintesa, l’architettura organica costituisce un peculiare ed autonomo atteggiamento culturale, i cui segni sono manifesti prima, durante e dopo il periodo razionalista. Volendo schematizzare il nostro tema, sarà utile richiamare un elenco di caratteri indicativi dell’architettura organica che Zevi ricava da Behrendt, tutti collegabili ai concetti di formative art e di fine art, l’uno contrassegnante l’architettura organica, l’altro quella razionale. Organica sarebbe un’architettura come prodotto intuitivo contro una prodotto di pensiero; un’architettura alla ricerca del particolare in opposizione ad un’altra alla ricerca dell’universale; una tendente al multiforme e una aspirante alla regola, al sistema, alla legge; l’una dinamica e l’altra statica; indipendente dalla geometria elementare contro una basata proprio sulla geometria e stereometria elementari; la prima avrebbe « la struttura concepita come organismo che cresce secondo la legge della propria individuale esistenza, secondo il suo ordine specifico, in armonia con le proprie funzioni e ciò che la circonda, come una pianta o qualunque altro organismo vivente », mentre la seconda avrebbe « la struttura concepita come un mec canismo in cui tutti gli elementi sono disposti secondo un ordine assoluto, secondo l’immutabile legge di un sistema apriori »; alla sfera
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dell’organico apparterrebbero il realismo contro l’idealismo, il naturalismo in opposizione allo stilismo, le forme irregolari (medioevo) contro quelle regolari (classico), i prodotti dell’esperienza vissuta contro quelli dell’educazione, ecc2. 2 Cfr. B. Zevi, Verso un'architettura organica, Einaudi, Torino 1949, pp. 667. Rinunciando alle facili correzioni e rettifiche di tale schema, lo teniamo per valido non foss’altro perché serve a riconoscere con immediatezza un edificio organico da uno razionale, ma cerchiamo di aggiungere altre specificazioni e di svolgere alcune riflessioni. Intanto è significativo che per parlare di architettura organica la si debba riferire ogni volta al parametro razionale, sia inteso nel senso storico (la razionalità delParte classica), sia in quello dell'orizzonte sincronico (il razionalismo europeo fra le due guerre). Così facendo, gli architetti organici da un lato sostengono la loro tendenza partendo da un punto sicuro e dall’altro mirano a revocare in dubbio tanto la tradizione del passato quanto quella del «nuovo»; sulla scena internazionale si affacciano allora nuove e più giovani culture, quelle appunto americana e scandinava, nuovi centri culturali tendono a sostituirsi alle vecchie capitali europee; alla Parigi di Picasso e dei cubisti si è sostituita in questo dopoguerra la New York di Pollock e della pittura informale che ha una indubbia matrice organica. Tuttavia, ritornando a quel modello classicorazionale, contro il quale si è mossa, sia pure in forma di continuità correttiva, l’architettura organica, la persistenza di esso dimostra la sua forza e la scarsa probabilità (così come s’è poi verificato) di contrapporgli una solida alternativa. Questa non s’è attuata sul piano linguistico perché, ripugnando all’architettura organica ogni classificazione, sistematizzazione, istituzione di norme ecc., essa non è stata in grado di offrire né un lessico né una metodologia operativa attraverso un corpus di fattori condivisi e trasmissibili. Quando alla fine della seconda guerra mondiale l’architettura organica s’innesta alla crisi del razionalismo propone una maggiore libertà stereometrica, il recupero di valenze
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individuali e psicologiche, una modalità di interventi urbani diversi tanto dalla città ottocentesca quanto dalle Siedlungen razionaliste, indica nello sviluppo regionale il solo modo per risolvere la congestione ipertrofica delle metropoli, ecc., tutto ciò non si traduce in una morfologia e in una sintassi, in definitiva in un codice tanto ampio da consentire la realizzazione di operemessaggi che non accusino la loro esplicita derivazione wrightiana o aaltiana. Come tale, cioè dal punto di vista linguistico, l’architettura organica appare più come una tendenza del gusto con le sue forme libere, gli angoli diversi da 90°, la varietà e ricchezza dei materiali, il suo naturalismo talvolta mimetico ecc., che un vero e proprio codice stile; lo è semmai come atteggiamento ideologico. Infatti, il movimento organico può considerarsi nato con la rivoluzione industriale ed annoverarsi in quell’area del dissenso (talvolta con accenti radicali talaltra moderati) che ha sempre accompagnato dialetticamente le tendenze più «disponibili» ed integrate allo sviluppo tecnologico. Quando detto movimento ha raggiunto la sua fase più matura e consapevole, che ha coinciso appunto col dibattito architettonico ed urbanistico di questo dopoguerra, esso è stato in grado, come dimostra l’opera di Zevi, di spiegare dalla sua visuale l’intera vicenda dell’architettura moderna; il che significa aver rivalutato personaggi trascurati dall’ottica razionalista, si pensi ad un Gaudi e più in generale aver dato un senso, inevitabilmente ideologico, a tutta una serie di fenomeni che prima sembravano mancare spesso di connessione. Ma anche sul piano ideologico il movimento organico ha mostrato i suoi limiti. Se la storiografia e la critica hanno ricevuto un indubbio apporto, esso ha d’altro canto formulato una serie di previsioni rimaste inattuate e comunque non sempre chiarificatrici delle reali condizioni nelle quali ha operato la cultura architettonica: la ricostruzione, la pianificazione urbanistica, l’incidenza sulle autorità politiche e sulla pubblica opinione. Come ha scritto Argan, «la contrapposizione della formula “organica” alla “razionale” è umanamente comprensibile come tentativo dialettico di forzare una situazione chiusa; ma non
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bisogna dimenticare che l’architettura “organica” è fenomeno parallelo e non successivo all’architettura razionale, ed insiste in una situazione storica non sostanzialmente dissimile [...]. Il “razionale” e lo “organico” discendono da due archetipi, o modelli di valore, diversi; l’archetipo è, nell’uno e nell’altro caso, una figura ideale della società e della relazione armonica dell’individuo col tutto» 3G. C. Argan, Progetto e destino, Il Saggiatore, Milano 1965, pp. 89 90. Se per «situazione chiusa» intendiamo tutto ciò che, specie in fatto di «difficoltà politica», ha impedito, tranne che in pochi paesi, la realizzazione di tale modello sociologico, dobbiamo riconoscere che se quel socialismo umanistico preconizzato dai razionalisti, in cui l’architettura avrebbe contribuito al superamento di molte contrad dizioni, è ancora da realizzare, ancor meno attuata è quella democrazia come espressione dell’individuale in un tutto armonico che era propria al movimento organico. Il contributo di Wright Abbiamo sopra affermato che l’architettura organica, quasi sempre considerata rispetto al parametro del razionalismo, si è manifestata prima, durante e dopo di esso. Ciò si deve in gran parte all’apporto qualitativo e quantitativo (dovuto anche alla longevità) di F. LI. Wright (18671959), che qui studieremo appunto in relazione al razionalismo nel senso più esteso del termine, ovvero dalla corrente geometrica dell’Art Nouveau alla produzione cosiddetta funzionalista tuttora in atto. Cosicché avremo modo di accennare non solo all’apporto del maestro americano alla vera e propria architettura organica, ma anche a quello che egli diede all’intero Movimento Moderno, non senza stabilire un rapporto con la produzione e la cul tura architettonica europea per meglio cogliere la storicità dell’opera wrightiana.
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Che la cultura americana sia tradizionalmente pervasa di spirito organico lo attestano scrittori quali Emerson, Thoreau, Melville e Whitman, artisti quali Horatio Greenough, architetti quali Sullivan, che considerava il libro di Whitman Leaves of Grass «il migliore avvio alla comprensione di come l’arte potesse svilupparsi organicamente dalle forze della vita americana» 4Cit. in F. O. Matthiessen, Rinascimento americano, Mondadori, Milano 1961, p. 214. D’altra parte è indubbio che la prima teoria artistica dell’età contemporanea basata sul fattore organico, l’Einfùhlung, è di pretta marca europea. In questo filone, anzi in quello dell’«astrazione» quale polo dialettico dell’Einfùhlung — astrazione cui Wright giunge grazie anche alla pedagogia froebeliana — si collocano le opere del suo primo periodo, le case Winslow (1893), Hickox (1900), Willitts, la prima Prairie House (1902), Roberts (1908), Robie (1909), ovvero il capolavoro in questo genere di residenze unifamiliari, per citarne solo alcune. Infatti, non è difficile riconoscere, incarnato in queste costruzioni, qualcosa di simile a quella simbologia fisiopsicologica teorizzata dagli autori dell’empatia: l’organico senso di espansione della pianta cruciforme, l’accento posto sulle orizzontali, la verticalità degli elementi disposti nei punti nodali, l’uso dei materiali, la dinamica delle linee, le pesanti coperture protettive, i camini simbolici per antonomasia, ìe tessiture murarie allusive all’interno dello spazio esterno, il legame dell ’edi ficio alla terra ecc. Inoltre la stessa principale proposizione della poetica di Wright per cui, come egli ricordava, «fu Lao Tse il primo che io sappia, cinquecento anni prima di Cristo, a dichiarare che la realtà di un edifìcio non consiste in quattro pareti e nel tetto, ma nello spazio racchiuso, nello spazio entro cui si vive», trova una esatta corrispondenza nella teoria europea, nella Raumgestaltung di Schmarsow che, oltre a privilegiare la spazialità dell’architettura, ne concepisce la formazione dall’interno verso l’esterno, esattamente come farà il movimento organico. Peraltro l’appartenenza del primo
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Wright alla cultura dell’Art Nouveau, della quale costituisce, beninteso, la parte più «nuova» tanto da contribuire alla crisi dèi relativo codice, è dimostrata dallo stesso successo col quale le sue opere furono accolte alla mostra di Berlino nel 1910; segno questo di una predisposizione a recepirle da parte dell’ambiente europeo in quanto si trovavano in esse risolti molti problemi qui da tempo agitati. Se questi furono alcuni dei legami dei primi edifici di Wright con l’Art Nouveau (molti ancora riguardano la plastica minore — pensiamo alle vetrate delle case Willitts, Coonley, Robie, ecc.) altri si possono trovare col protorazionalismo. Il Larkin Building di Buffalo del 1904 e il Tempio Unitario a Oak Park del 1906 — edifici sim metrici, dalla stereometria rigida il primo, come si addice ad una costruzione per il lavoro, dalla massima articolazione il secondo, come s’addice ad una chiesa — rientrano perfettamente nel codice stile di Hoffmann, Behrens, Perret, Loos, ecc. Ma anche questo contatto col protorazionalismo acquista in Wright un accento speciale. Abbiamo visto la fine di quella tendenza nel suo inaridirsi in forme classicistiche, nell’esaurirsi della sua vena inventiva proprio per ciò che riguardava gli elementi della figurazione, tant’è vero che, come s’è detto, il passaggio dal protorazionalismo al razionalismo si deve in buona parte al contributo delle avanguardie figurative. Viceversa, il protorazionalismo, per così dire, wrightiano trova nei suoi stessi termini architettonicolinguistici la capacità di affrancarsi dal classicismo, non solo ma tanta ricchezza di nuovi elementi figurali da anticipare alcune correnti della pittura e scultura europee. Infatti, se nel Larkin prevale l’invenzione tipologica, il gigantismo della «navata» centrale, le applicazioni tecniche degli impianti che rendono possibile il funzionamento di un edificio tutto risolto nel suo interno e se, all’opposto nei Midway Gardens di Chicago, costruiti più tardi, nel 1914, prevalgono gli accenti figurali, decorativi, plasticopittorici in un insieme che non era certo un modello di buon gusto, è il Tempio Unitario il capolavoro che dimostra tutto quanto si potesse, nei primi anni del secolo, ottenere coi soli mezzi dell’archi tettura. Qui, infatti,
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oltre a fondersi le due principali componenti del linguaggio wrightiano, il senso dell’«astrazione» e quello della continuità spaziale, c’è tutta una gamma di strumentazioni architettoniche: la severa ma articolata volumetria esterna, quindi il senso del blocco, la scomposizione all’interno dei volumi in piani, l’articolazione di questi in linee, l’ulteriore segmentazione di queste in angoli, in tratti ritmici, in giochi lineari; e se i piani strutturano lo spazio ora con superfici opache, ora con riquadri luminosi, le linee ed i segmenti definiscono il cassettonato, ritmano le pareti, si fanno elemento di arredo. Al pari della coeva biblioteca di Mackintosh, ma molto più di quella, il Tempio Unitario precorre con la sua inventiva figurale il cubismo, il neoplasticismo, il prounismo, l’arte astratta, addirittura temi del Bauhaus. Per questa ed altre ragioni — l’essere ad esempio un edificio bloccato e simmetrico ma non classicistico — esso ci sembra, nonché una delle prove più felici di Wright, una fabbrica di grande attualità per l’odierna ricerca architettonica, come dimostrano tanti edifici di oggi che lo hanno assunto a modello. Nonostante queste chiare anticipazioni, a sua volta l’avanguardia figurativa europea non passò senza influenzare lo stile di Wright. Nei fecondi anni Trenta ben tre famiglie morfologiche si trovano nelle opere del maestro americano, quelle aventi per matrici il rettangolo, il triangolo ed il cerchio, che nonostante la loro inedita articolazione risentono in vario modo del cubismo, del purismo, del neoplasticismo, dell’arte astratta. La casa Kaufmann o Fallingwater, costruita fra il ’36 e il ’39, non si spiega senza il gusto di più pure stereometrie e soprattutto senza la volontà di disarticolare nel modo più programmatico e dissimmetrico i volumi e gli spazi, istanze queste che in definitiva costituivano il maggiore apporto delle avanguardie figurative all’architettura. Né, d’altro canto la conformazione spaziale e l’inserimento paesistico di questa casa sarebbero stati possibili senza il particolare interesse per la natura, per la natura dei materiali, per l’imprevisto, per il risicato rapporto tra artificio e natura che sostanziano la poetica organica. Cosicché questo capolavoro
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dell’architettura contemporanea è tale anche perché costituisce il momento del maggiore incontro della tradizione europea e di quella americana. Se per le Prairie Houses era lecito accostare Cézanne a Withman qui, dove cade ogni accento ottocentesco, bisognerebbe accostare' nuovi pittori europei a nuovi poeti americani (Mondrian ed Ezra Pound?) o più correttamente attribuire al solo poetaarchitetto la eccezionale sintesi delle due culture e di ogni genere di poesia. Allo stesso periodo appartiene il complesso degli Uffici Johnson a Racine nel Wisconsin che segnano una nuova svolta nello stile di Wright: l’adozione d’una morfologia ad elementi curvilinei e l’allusione ad una dimensione, per così dire, utopica. Gli Uffici Johnson si ricollegano a quelli del Larkin costruiti trent’anni prima. Quanto al rapporto con l’ambiente circostante, entrambe le opere sono bloccate e chiuse in se stesse, ma mentre nel Larkin la chiusura è data dal blocco parallelepipedo, durissimo nelle sue angolature di mattoni, nel Johnson la chiusura si attua col convergere verso l’interno delle curvilinee superfìci dell’involucro murario. Relativamente all’interno, mentre nell’edificio di Buffalo, c’è uno spazio centrale stretto ed alto fino alla copertura contornato da gallerie in un immobile e severo ordine di massicci pilastri e balaustre, in quello di Racine, Wright realizza uno degli ambienti più liberi ed imprevisti di tutta l’architettura contemporanea, dalla struttura elastica antisismica all’impiego dei caratteristici pilastri a forma di fungo, dal grande sof fitto luminoso alle fasce continue delle pareti perimetrali ad elementi trasparenti forati da tubi in pirex. Questa fabbrica dà inizio, ovvero fornisce il maggiore esempio di quelle opere impiantate sulla già menzionata morfologia curvilinea, che costituisce un altro contributo di Wright all’architettura organica. Fra esse ricorderemo la torrelaboratorio dello stesso complesso Johnson, realizzata nel 1950; la seconda casa Jacobs, costruita nel ’48 (con la prima del ’37 «Wright creò il primo tipo di casa “usoniana”, cioè la risposta suburbana, o meglio agreste, alle case Citrohan di Le Corbusier, razionalisticamente cittadine»
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5V. Scully, Frank Lloyd Wright, Il Saggiatore, Milano 1960, p. 25. 5
); la casa per il figlio David del ’52; i Magazzini Morris del ’48 che, con la loro spirale interna preludono al celebre Museo Guggenheim, costruito tra il ’46 ed il ’59. Accennavamo alla dimensione utopica di questi edifici dall’impianto curvilineo. Infatti, il Johnson Wax Building prelude negli anni Trenta le immagini architettoniche e di scena ambientale che sono riscontrabili oggi in alcuni centri spaziali, anche se al posto dei meccanismi elettronici e robotici, Wright coniuga le sue conformazioni avveniristiche con accenti di marca arcaica; sono riscontrabili peraltro in diverse occasioni riferimenti ad architetture precolombiane e cretesimicenee. Altrettanto utopica, futuribile, quasi extraterrestre è l’immagine del Guggenheim Museum, che «plana», estraneo, nel contesto della Quinta Avenue a New York. Peraltro questa famiglia morfologica a base curvilinea ci sembra rappresentare il momento relativamente meno organico della produzione wrightiana; non a caso infatti, le opere di questo genere presentano l’uso monotono di un solo materiale. Certo, in natura ricorrono forme curvilinee, ma quelle del Nostro non hanno la fluidità concavoconvessa delle forme naturali: sono rigide, astratte — s’è parlato di ascendenza romana, della villa Adriana a Tivoli — sono in una parola espressione d’una idea preconcetta e d’un modo artificiale assai alieno dallo spirito organico. Le riscatta in tal senso la fluidità delPintero organismo spaziale, in alcune opere acquistando un andamento centrifugo in altre uno centripeto. Decisamente più organica la famiglia morfologica wrightiana dagli angoli a 30° e 60° che, con il suo legame alla terra, con il suo evocare spigoluti ed aspri brani di roccia, con il più ricco uso di materiali diversi, con le sue composite strutture portanti, ha prodotto fabbriche che si legano mirabilmente al paesaggio, che all’interno hanno marcato quel senso di riparo, che fondono in una eccezionale sintesi
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natura e artificio tanto da rendere addirittura incommensurabile percettivamente la loro spazialità, donde quell’idea che le opere del maestro americano, e segnatamente quelle di cui parliamo, non sono rappresentabili o fotografabili, ma vanno solo spazialmente vissute. L’edificio più emblematico di tale categoria è la casastudio Taliesin West nella Paradise Valley presso Phoenix del 1938. Ma non è solo il deserto dell’Arizona a sollecitare l’adozione di queste forme dalla matrice triangolare, né queste appartengono solo agli anni Trenta. La chiesa Unitariana di Madison nel Wisconsin del ’47 è impiantata su modulo triangolare, forse, per motivi simbolicosemantici, la Torre Price a Bartlesville, Oklahoma, del ’56, che riprende il vecchio progetto della St. Mark’s Tower del ’29, presenta la stessa morfologia per scomporre un monoblocco in tante facce polivalenti ed ambigue come esige un intento anticlassico. Riassumendo gli apporti linguistici dell’opera di Wright all’architettura organica e con essi la sua attiva critica al razionalismo, ed ancora il suo contributo alla « generale lingua » del Movimento Moderno, li possiamo così parzialmente elencare: a) invenzione tipologica e morfologica di un’architettura basata sull’astrazione che s’innesta (ed evolve) alla cultura dell'Einfühlung b) adesione allo spirito e alla lettera del protorazionalismo, ma rivissuto in senso anticlassicista; c) prefigurazione di termini plastici elaborati più tardi dall’avanguardia figurativa; d) capacità di raccogliere e far propri gli esiti del migliore razionalismo; e) adozione di elementi architettonici basati su unità modulari con angoli a 30° e 60°; f) utilizzazione di una morfologia pianimetrica e spaziale curvilinea; g) anticipazione della dimensione utopica dell’architettura e della scena urbana. Tutti gli aspetti suddetti, nonostante la loro eterogeneità — una simile non si trova forse in nessun altro architetto in tutta la storia dell’architettura — non tradiscono mai la notevole coerenza dell’opera wrightiana. Zevi elenca ben tredici aspetti dell’architettura di Wright per poi riconoscere che resta ancora «da svelare il vero segreto wrightiano. Questo segreto consiste nella conquista dello spazio,
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motivo conduttore dell’ascesa che il maestro ha compiuto attraverso mezzo secolo di prove creatrici» e più avanti: «la coerenza della poetica wrightiana va [...] più in là della meccanica ripetizione di motivi figurai ivi e degli stessi princìpi psicologici, sociali e funzionali in cui si articola il suo pensiero. Si invera in una creatività spaziale che, partendo dall’interno dell’edificio, si irradia a formare volumi, permea la materia delle superfici e plasma la continuità urbanistica» 6 Zevi, Storia dell'architettura moderna, cit., pp. 435 e 455. Tale giudizio va condiviso, ma affrancato dal rischio di cadere nell’ineffabilità critica. Affermare che la quiddità dello stile di Wright stia nella creatività spaziale equivale a dire tutto e niente. Senza impegnarci qui in una definizione di spazio, osserviamo che lo spazio del fare archi tettonico è sì uno spazo vuoto entro il quale si vive e si agisce, ma esso a sua volta è il risultato degli elementi che lo conformano, quelli che altrove abbiamo chiamato «figure» del segno spaziale, la pianta, le pareti, le facciate, le coperture, ecc. Ecco allora che la creatività spaziale si fonda sulla creatività figurativa e sulla relazione di tali fattori, e questi sono tutt’altro che ineffabili. In particolare, per restare ancor più nel concreto, ci sembra che una delle principali valenze wrightiane sia quella sintattica non meno di quella morfologica; egli inventò un repertorio vastissimo, ma quel che più conta, senza mai rimanere prigioniero della sua maniera, sia nel senso che coesistevano diverse famiglie morfologiche in uno stesso periodo, sia perché in una stessa fabbrica Wright passava quando e come voleva da una famiglia all’altra con inimitabile maestria. Quando i seguaci si sono provati ad adottare una di tali famiglie, per esempio quella dal modulo triangolare, non sono mai stati capaci di uscirne, tal che triangolari risultavano non solo l’ambiente più fortemente segnato, ma lo sgabuzzino, i servizi, le cabine telefoniche, i vasi da fiore. Per questi ed altri motivi, essendo affatto personale lo stile del Nostro, quanto più abile si mostrava il suo gioco, tanto meno esso s’è dimostrato in grado di produrre un metodo generalizzabile. Per dirla in
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termini linguistici, Wright inventa un suo individuale codice per esprimere i suoi ammirevoli ed inimitabili messaggi. E forse proprio in questa individualistica irripetibilità sta la sua maggiore grandezza. Resterebbe allora da spiegare tutta la sua opera teorica, la sua predicazione (che rimane comunque autobiografica) il suo gusto del proselitismo, ma è proprio della genialità egocentrica la incapacità di ammettere i propri limiti. Ma che senso ha pertanto parlare di «contributo» alla poetica organica e più in generale al Movimento Moderno? Abbiamo già risposto in parte a questo interrogativo nel paragrafo precedente dicendo che quello organico è più un atteggiamento ideologico che un vero e proprio codicestile. Qui è da aggiungere che, trovandoci in presenza di una delle più alte punte espressive dell’arte contemporanea, non è da attendersi un contributo immediato ma mediato, agente nell’intera sfera della cultura e non direttamente nell’odierno dibattito del pratico fare architettonico. Ancora, se la stessa cultura pragmatica americana ci dice che i valori, altro non sono che valoriinteressi, proprietà soddisfattive di determinati interessi, saremmo d’altra parte ben stolti a rinunciare al disinteressato valore che solo pochi fenomeni della vita, tra i quali è l’arte, sono ancora in grado di proporre. E ciò non nel senso della tradizionale contemplazione estetica, quanto nella convinzione che la dimensione del «disinteresse» è necessaria alla nostra esistenza non meno di quella pratica e contingente. Il contributo di Wright va quindi posto nell’ambito della storia dell’architettura e non in quello della teoria della progettazione architettonica, il che non toglie, come indicano alcune recenti correnti progettuali, che la storia stessa non possa assumersi come guida per il pratico operare; quel che conta però è sapere donde traiamo i nostri modelli. Il contributo di Alvar Aalto A voler distinguere nell’opera di Aalto le carattestiche costanti da quelle variabili per individuare sinteticamente gli aspetti più tipici di essa e di conseguenza il suo apporto all’architettura organica, si
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potrebbe anzitutto annoverare fra le prime il carattere nazionale delle fabbriche aaltiane, com’è evidente nel padiglione finlandese all’Esposizione di Parigi del ’37 e nell’interno di quello alla Fiera mondiale di New York del 1939. «La Finlandia è dovunque Aalto vada — ha scritto Giedion —: Essa è 1’«intima fonte di energia che scorre sempre nelle sue opere. Come la Spagna per Picasso o l’Irlanda per James Joyce »7. 7Giedion, op. cit., pp. 5434. Ma se ciò vale per molti suoi edifici, non costituisce un carattere invariante per tutta la sua architettura. Infatti, le opere che Aalto realizza intorno ai trent’anni, la biblioteca di Viipuri (192735), la sede del giornale «TurunSanomat» (1929) e il sanatorio di Paimio (192933), sebbene in modo estremamente creativo, partecipano tuttavia al « gusto » dell’architettura internazionale degli anni Trenta. Un’altra costante dello stile di Aalto potrebbe essere di tipo morfologico, riguardare cioè quegli accenti che, superando il rigore schematico e geometrico dei razionalisti, portarono appunto a definire il Nostro come un architetto organico, un parallelo europeo di Wright. Ed infatti la villa Mairea (1938), la Baker House all’MIT (1947) e la Casa della cultura ad Helsinki (195558) — per citare solo tre opere assai diverse tra loro e distanti nel tempo — hanno in comune una libertà stereometrica e una fluenza formale che è ignota ai razionalisti. Per questo accento morfologico, definito «positivo irrazionalismo», s’è più volte accostata l’opera di Aalto alle forme di Mirò e di Arp. Tuttavia per quanto l’attributo di «organico» resti il più adatto a classificare l’opera di questo architetto, uno dei pochissimi a non scrivere nulla sulla sua poetica, e per quanto sul piano linguistico appaiano di frequente edifici con andamento concavoconvesso e piante «informi», questi caratteri non esauriscono la gamma vastissima del repertorio aaltiano. Anzi se consideriamo le sue opere
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industriali come la fabbrica di cellulosa a Sunila (1936 1939), l’officina meccanica Ahlstrom a Karhula (1944) o quelle costruzioni più tipicamente cittadine, come l’Istituto nazionale per le pensioni ad Helsinki (195256), la Casa degli Ingegneri del 1952 o il «Rautatalo», ultimato nel ’54 nella stessa città, sembrerebbe che il rigore geo metrico rappresenti la regola, mentre le forme libere costituiscano l’eccezione. L’uso dei materiali e la presenza espressiva di essi — altro suo contributo all’architettura organica — rappresentano un’altra caratteristica costante dello stile di Aalto. Infatti, vi sono «periodi» o gruppi di opere contrassegnati dal legno, dall’intonaco, dal mattone, ecc.; inoltre la natura dei materiali sembra anche alla base della mia attività di design, ispirare la forma delle sue lampade in metallo, dei suoi vasi in vetro e soprattutto dei suoi mobili in legno. Ma anche in questo settore l’idea convenzionale (e naturalistica) dell’uso dei materiali è smentita dal Nostro. Infatti, di fronte al massimo sfruttamento della pasta e delle fibre del legno, di fronte alla semplice o multipla curvatura e taglio del compensato fino alle giunzioni a ventaglio dei suoi più recenti tavoli e sgabelli, quanto si deve all’artificio del chimico e quanto alle naturali possibilità del materiale? È chiaro che Aalto media genialmente queste due condizioni, ma è altrettanto evidente che egli adotta sia il materiale allo stato di natura, sia quello elaborato dalla più consumata tecnica industriale. Inoltre, al di là del feticismo per la materia, troviamo l’idea d’una forma realizzata nelle opere e coi materiali più diversi: la serpentina della Baker House si può considerare simile a quella di alcuni vasi di vetro, come pure la giunzione a ventaglio dei compensati d’un mobile ritorna del tutto analoga nei nodi strutturali della chiesa di Imatra. Cosicché per quanto di carattere primario, lo stesso uso dei materiali non costituisce ancora una costante nell’opera di Aalto. Tale costante potrebbe infine trovarsi nel fattore «ambiente», nella presenza determinante dell’ambiente. Si pensi soprattutto alle opere
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urbanistiche, a cominciare dal complesso di Sunila (193739 e 1951 54). Qui tanto la fabbrica di cellulosa, quanto il nucleo residenziale degli addetti sono concepiti in funzione dell’ambiente naturale; la prima inserita in un’isola di granito aperta sulla baia, il secondo nella foresta di abeti sulla terraferma. Un analogo schema di rapporto fra centro di produzione, zona residenziale, servizi collettivi e paesaggio, formato in genere da boschi e laghi, informerà tutta l’urbanistica aal tiana indipendentemente dalla scala dell’intervento, dal piccolo complesso sorto intorno ad un’industria ai piani regolatori di Säynätsalo (1942), di Rovaniemi (1944), di Otaniemi (1949), di Imatra (1947), ecc. Ma, se l’interesse ambientale è sempre presente nell’opera di Aalto, a sua volta il fattore «ambiente», inteso nell’accezione più larga, è per se stesso variabile in infiniti modi. Pertanto dovremmo concludere che nella multiforme attività aal tiana non vi sono caratteri costanti ma solo variabili, che il suo metodo consiste nel ricominciare sempre daccapo, se non esistesse una interna «vita delle forme» che lega concretamente un’opera all’altra, la cui validità non è solo ovviamente ed ineffabilmente estetica, ma si esprime anche come piena e completa adesione al «mondo della vita». E tuttavia questa eccezionale apertura fenomenologica, che ha prodotto alcune delle opere più convincenti e significative del Movimento Moderno, se dimostra un’altra faccia dell’architettura organica, confermandone così la polivalenza e l’internazionalità, non riesce anch’essa a tradurla in un codicestile. LE OPERE DELL’ARCHITETTURA ORGANICA La casa Robie Con buona approssimazione possiamo dire che la casa Robie, costruita da Wright nel 1909 in Woodlawn Avenue a Chicago, completi il ciclo di opere note come quello delle Prairie Houses. Completandolo essa riassume molti aspetti di queste case unifamiliari per cui torna utile ri cordarne alcune prima d’una lettura specifica dell’edificio cui
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dedichiamo il presente paragrafo. Una delle prime Prairie Houses è la casa Winslow del 1893 nella quale appare la caratteristica più ricorrente di questo tipo edilizio, cioè la tendenza alle linee orizzontali accentuata dall’uso del tetto a larghe falde sporgenti. La pianta, pur avendo una forma bloccata in un rettangolo, contiene già quel movimento di espansione che ritroveremo nelle opere successive, determinato dal bowwindoiv, dalla sala semi circolare sporgente e dal corpo di fabbrica ad archi disposto al lato dell’edificio. La casa Hickox a Kankakee nelPIllinois del 1900 è uno dei tanti edifici di Wright a pianta cruciforme. La concezione architettonica legata a questo schema è quella di considerare la pianta non costruita da una serie di ambienti parallelepipedi, ma come uno spazio articolato e continuo. Ispirandosi alla tradizione dell’edilizia contadina, Wright pone al centro della pianta il camino e snoda gli ambienti intorno a questo nucleo centrale; l’espansione verso l’esterno della casa dal camino centrale conferisce alle piante, assai spesso, un andamento appunto cruciforme. Questo tipo di espansione da un punto centrale è stato definito da Zevi «una conquista centrifuga dello spazio». Nella casa Hickox è da notare inoltre la notevole differenza tra il pianterreno, ove domina il soggiorno con due lati poligonali, e il piano superiore, dove le camere da letto sono racchiuse in uno schema più bloccato. Tale differenza però non è riscontrabile nella volumetria esterna della casa definita essenzialmente dal plastico intersecarsi dei tetti e dalla mancanza di simmetria, caratteristiche che anticipano di oltre un decennio i movimenti figurativi europei. Nella casa Willitts, costruita nel 1902, l’impostazione cruciforme della pianta mostra una maggiore definizione che altrove. Al pianterreno troviamo nelle quattro espansioni della croce rispettivamente la zona dell’ingresso, quella del pranzo, il soggiorno ed i servizi, ciascuna separata dal blocco del camino centrale. Il piano superiore, con camere da letto e biblioteca, ha lo stesso perimetro della pianta sottostante; l’edificio sarebbe così esternamente bloccato da un volume determinato dalla pianta a croce e dall’altezza costante di due piani, se un lungo portico
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non eliminasse la bloccata streometria della casa con il suo dinamismo asimmetrico. Ancora a pianta cruciforme è la casa Roberts costruita nel 1908; distributivamente simile a quella precedentemente esaminata, essa se ne differenzia sensibilmente quanto alla conformazione spaziale, specie al suo interno dove il soggiorno acquista un aspetto particolare. Quest’ambiente, alto fino alle falde del tetto, è interrotto da una galleria sul lato del camino, la quale circonda la parte più intima del soggiorno e crea, con i suoi angoli a 45°, delle zone incassate e raccolte, sia al pianterreno che al primo piano. _I mattoni del camino, le superfici bianche scandite da liste di legno scuro che, oltre a sottolineare la plasticità dei riquadri, si prolungano a formare elemento d’arredo, costituiscono uno degli esempi più tipici del gusto dei materiali nello stile di Wright. Dopo questi precedenti esempi, che costituiscono solo una parte della produzione di Wright in questo campo, veniamo alla casa Robie, che li assorbe un po’ tutti, ribaltandone tuttavia il carattere principale; infatti la sua caratteristica esponente è quella di essere una villa urbana: non più piante a croce tendenti ad espandersi nel verde della campagna o dei boschi, ma pianta distesa parallela mente ad un grande viale cittadino, sia pure a quell’epoca ricco di verde e non soffocato, come ora, dall’edilizia circostante. Schematicamente la villa si compone di un pianterreno, di un primo piano e d’un secondo che si sviluppa normalmente al volume formato da due piani sottostanti; come si vede un compromesso fra un andamento lineare, quello del corpo di fabbrica parallelo alla Woodlawn Avenue, e uno cruciforme determinato dall’incrocio di detto corpo di fabbrica con quello assai più modesto del terzo piano. Ma se queste schematiche indicazioni volumetriche servono alla comprensione della conformazione generale dell’opera, la sua valenza è tutta affidata agli aspetti particolari; infatti basta la presenza di un muro di recinzione o di un mutato dettaglio a rendere la spazialità esterna ed interna della casa Robie assai ambigua e complessa. Cerchiamo allora di «leggere» quest’opera secondo que sta sua più particolare conformazione. La pianta del pianterreno
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presenta un suo nucleo centrale con al centro il camino fiancheggiato da due ambienti, quello del biliardo e della sala per i giochi dei bambini; tale nucleo è simmetrico nelle sue parti: due scalette disposte sui lati estremi lo collegano al terreno, due bowwindows uguali si aprono nelle sue testate, uno spartito di aperture assiali conferma tale simmetria. Al piano superiore detto nucleo conserva quasi inalterate le stesse caratteristiche: ritroviamo gli acuminati bowwindows in asse con quelli sottostanti, i due ambienti separati dal camino conservano la stessa superficie di quelli inferiori mutando solo la loro destinazione rispettivamente in zona soggiorno e in zona pranzo. Ma una volta definito questo nucleo di base simmetrico, ecco intervenire le altre parti della casa a sconvolgere quella quiete in una dinamica incessante. Intanto sia al primo che al secondo ordine si affianca un altro corpo di fabbrica traslato rispetto al nucleo descritto e contenente al pianterreno garage ed ambienti di servizi, al piano superiore una camera per ospiti, la cucina, un alloggio per domestici. Accanto al camino si snoda la scala formando con esso l’asse verticale della composizione. Tangenzialmente a questo e normalmente al corpo di fabbrica sottostante s’incrocia il piano contenente le camere da letto. Il gioco delle dissimmetrie prosegue: al pianterreno un cortile recintato da un muro sbilancia verso destra la composizione; le forti sporgenze laterali del tetto sarebbero simmetriche rispetto al nucleo centrale se la presenza del terzo ordine, coperto da un tetto ad andamento normale al primo, non alterasse percettivamente tale disposizione; nello stesso nucleo centrale si determina un forte divario fra primo e secondo piano dovuto allo sbalzo di questo su quello che crea una forte zona d'ombra e un effetto di levitazione di tutti i volumi in fuga, accentuato anche dai sensibili aggetti delle falde di copertura e dalla teoria di finestre disposte proprio lungo la linea di sbalzo dei tetti. In sintesi, la casa Robie ci sembra un organismo, il quale sia all’interno — ed è qui dove maggiormente s’avverte quell’adesione di Wright alla cultura dell’Einfuhlung «astrazione» — sia all’esterno pare aver subito un profondo processo: da un ordine fisso e simmetrico in un altro
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totalmente dinamico ed inedito. Tale processo rimane però una struttura soggiacente e nascosta; esso non è più avvertibile nella conformazione finale dove tutto assume un uguale efficacia e valore, un muro di recinzione, come s’è detto, assume la stessa importanza di un piano abitato, Pelemento più modesto realizza ed è parte del ritmo generale nella stessa misura di quello più ricco. La casa Kaufmann (Fallingwater) Costruita tra il 1936 e il ’39 la casa della cascata è l’opera più nota di Frank Lloyd Wright e la più emblematica di tutta l’architettura organica, avendo peraltro alcune connotazioni, basti pensare all’insolito luogo dove nacque, alle vicende della sua costruzione ecc., che in tutti i tempi hanno giovato alla popolarità di un’opera archi tettonica. Si direbbe che queste piccole mitologie aneddotiche servano in parte a colmare quel divario comunicativo fra arte e pubblico che si manifesta maggiormente per le cosiddette arti asemantiche quali l’architettura e la musica. La costruzione sorge in una località detta Bear Run (Penn.), ricca d’alberi, di rocce, di cascate e torrenti e fu inserita parallelamente al torrente che dà il nome all’intera zona proprio nel punto in cui scende in esso dal declivio sovrastante una cascata. Va detto anzitutto che gli sbalzi della costruzione verso valle non sono protesi su una vasta superficie d’acqua come un trampolino su una piscina, ma tendono idealmente a collegarsi con l’altra sponda del torrente, in realtà molto vicina, a guisa di un ponte fra le due rive. Ciò non appare dalla notissima foto dal basso e ci sembra da sottolineare perché mostra come, inserendosi secondo l’andamento del torrente e nel punto più stretto di esso, l’edificio si leghi alla natura del luogo senza violenza e senza giocare effetti di sospensione psicologica. Al piano principale ed al lato del camino, poggiante su un macigno ed anche qui fulcro dell’intera composizione, è il grande soggiorno aperto verso sud e fiancheggiato da due terrazze; sul suo angolo ad est è l’ingresso (cui si accede da una carrozzabile che valica il torrente
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con un ponte e lambisce l’intero lato settentrionale della villa) al quale segue la scala che porta ai piani superiori, quindi una piccola zona per il pranzo e la cucina. Questa sequenza di locali occupa tutto il lato nord dell’edificio che da questa parte poggia e s’incastra nel blocco roccioso. Dal soggiorno con una grande scala si scende al basamento dell’edificio dove dall’acqua della cascata emergono sagomati sostegni di cemento ed altri elementi portanti formati da blocchi di pietra locale rudemente sgrossati e disposti a ricorsi orizzontali. Tra gli elementi più significativi del piano del soggiorno è la piccola terrazza disposta sul lato ad ovest che, essendo libera su tre lati, accentua la volumetria dinamica della fascia piena orizzontale della prima balaustra. Al piano superiore lo spazio della parte coperta della casa si restringe lungo Passe nordsud tanto da contenere tre camere da letto coi relativi bagni; ciascuna di esse si apre su una terrazza, disposte rispettivamente ad ovest, est e sud; quest’ultima incrocia quelle del soggiorno sottostante, del quale peraltro costituisce la copertura. Al terzo piano vi è una sola camera da letto, un bagno ed ancora una terrazza. I tre piani della casa si arretrano gradualmente verso il costone roccioso e in maniera tale che le terrazze di ciascuno risultano nella loro maggiore dimensione normali alle terrazze dei corpi sottostanti. Cosicché, tenendo fisso il fulcro del camino costruito anch’esso della pietra del luogo, il succedersi dei piani descritto equivale ad un continuo incrociarsi di un volume sull’altro; lo schema cruciforme di molte Prairie Houses diventa qui una sorta di incrocio spaziale. Dell’andamento cruciforme, però, nella casa Kaufmann, rimane solo, per così dire, il sistema, ma non la morfologia; infatti pur assistendo ad un continuo incrociarsi di volumi e di piani, nulla presenta la vera e propria forma di una croce, sia perché questo in contrarsi a 90° degli elementi avviene a diversi livelli, sia soprattutto perché aggetti e rientranze sono del tutto imprevedibili, riflettendo un movimento di contrazione ed espansione che è proprio alla « logica » interna di questo eccezionale organismo. Ma oltre al criterio dell’incrocio spaziale, quali altri costituiscono la logica compositiva
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dell’opera? Due ci sembrano prevalere: quello di una progettazione che procede dall’interno verso l’esterno, qui reso più evidente dal libero affermarsi di ciascun ambiente, completamente decondizionato da fissi accostamenti orizzontali e da rigide sovrapposizioni verticali, come confermano gli stessi ambienti esterni, le terrazze, e quello del l’integrarsi dell’edificio con un particolare ambiente naturale. I due princìpi danno luogo ad una profonda tensione fra il massimo grado di libertà degli elementi artificiali ed il massimo vincolo di quelli naturali. La dissimmetria dei corpi, lo slitttamento dei volumi e dei piani rispondono sì ad una volontà conformatrice figurativa, ma riflettono anche, s’adeguano ed esaltano l’organico «disordine» proprio alla natura del luogo; anzi si può dire che la casa traduce in artificio la forza selvaggia di queste rocce e corsi d’acqua. E tuttavia la traduce senza alcuna concessione mimetica; infatti, ove si eccettuino gli elementi verticali in pietra locale (ma chi dubiterebbe che non siano stati a loro volta artefatti?), i tratti più segnati dell’opera, quelli che la definiscono e la distinguono dal contesto paesistico, sono le chiare terrazze a vassoio, ovvero bassi volumi così pregnanti, stereometrici ed artificiali da annullare figurativamente gli stessi ambienti interni, appena contrassegnati, fra il verticalismo rustico dei sostegni e l’orizzontalità liscia delle balaustre, tra traspa renti e riflettenti vetrate. A parte i preziosissimi dettagli (ricorderemo qui solo quella finestra ad angolo che collega un’intera verticale disposta ad ovest), la casa della cascata è tutto un gioco dall’equilibrio apparentemente instabile di solidi massi rocciosi e di taglienti volumi stereometrici che, mentre sembrano ancorarsi ai primi, si librano nello spazio in virtù della loro rigidezza che in definitiva è quella della loro forma. La Price Tower Se 1’«accampamento» di Taliesin West, costruito nel 1938 presso Phoenix in Arizona, è la fabbrica di Wright più organicamente legata alla terra, l’opera, per così dire, più orizzontale, la torre Price, pur
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composta anch’essa con forme ad angoli diversi da 90° è, fra quelle realizzate, l’opera più verticale. E ciò non tanto per il numero dei piani e l’altezza effettiva dell’edificio, quanto per la sua figurazione di forme aguzze, di acute lamine, di ^disposizione di elementi a coltello, tutte puntate verso l’alto. Essendo stato costruito tra il 1953 e il ’56 questo piccolo grattacielo dovrebbe figurare nell’ultima parte del nostro libro dedicata appunto alle opere realizzate dopo la seconda guerra mondiale. D’altra parte esso è in un certo senso retrodatabile in quanto si collega ad una precedente serie di progetti per edifici alti: quello per il Press Building di S. Francisco, quello per la National Life Insurance Company di Chicago del 1924, quello per la St. Mark’s Tower di New York del 1929, il progetto di un gruppo di grattacieli per il quartiere residenziale Cry stal Heights di Washington del 1940, senza parlare della torrelaboratorio della fabbrica Johnson del 1947, un altro dei precedenti più diretti dell’opera cui dedichiamo il presente paragrafo. La Price Tower, costruita a Bartlesville in Oklahoma, si compone di 19 piani per complessivi 56 metri d’altezza. Ai primi due piani sono sistemati, fruendo anche d’un corpo di fabbrica che fuoriesce dal perimetro della torre, un gruppo d’uffici, l’appartamento del custode e il garage. Dal terzo piano in poi si ripete un piano tipo che presenta un perimetro quadrato al centro del quale, lungo una croce, ruotata di 15° rispetto alle diagonali, sono disposte quattro «spine» di cemento armato contenenti ascensori ed impianti e formanti la struttura portante dell’intero edificio. I solai sono sostenuti a sbalzo da tali spine, che inoltre dividono ciascun piano in quattro settori a forma di trapezio. Tre di essi sono adibiti ad ufficio, mentre nel quarto è ricavato un alloggio duplex. Il piano superiore di questo conserva la forma trapezoidale degli altri settori e contiene la zona letto dell’alloggio, mentre quello inferiore, che comprende l’ingresso, il soggiorno e la cucina, con la sua forma rettangolare, fuoriesce con uno dei suoi angoli dal perimetro del quadrato di base. La diversa forma
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pianimetrica dell’alloggio rispetto a quelle degli uffici, non solo realizza uno spazio interno più adeguato ad una casa, ma consente anche di denunziare all’esterno i solai ad ogni due piani. Infatti la facciata corrispondente al lato degli alloggi (poiché il perimetro del piano superiore del duplex è contenuto in quello del piano sottostante, ovvero poiché dalla zona letto si affaccia sul soggiorno) segue il filo formato dal perimetro della pianta del soggiorno, ossia presenta una vetrata di chiusura verso l’esterno avente l’altezza di due piani. Ma nonché differenziarsi dai vicini settori degli uffici, aventi un modulo verticale d’un solo piano, quello degli alloggi, con i suoi solai fuoriuscenti dal quadrato di base, presenta anche uno sperone verticale, che rende dinamica ed ambigua l’intera volumetria esterna. E l’ambiguità è tanto più forte perché questo mutamento di profilo pianovolumetrico avviene proprio in una zona che, denunciando piani a doppia altezza, risulta maggiormente segnata. Un analogo gioco di speroni fuoriuscenti dalle pareti della torre si ha in corrispondenza dei bowwindows degli uffici, uguali a quello della cucina del duplex e in corrispondenza del pianerottolo della scala avente forma rettangolare. A parte i ricorsi orizzontali delle balaustre piene, in tutto l’edificio domina il vuoto delle aperture, che hanno una maglia orizzontale per i settori degli uffici ed una verticale per quello degli alloggi; l’una schermata da brisesoleil orizzontali, l’altra da lamine frangisole verticali. Come risulta dalla nostra sommaria descrizione, la Price Tower è un organismo dalla conformazione molto serrata, nel senso che ogni elemento sia primario che secondario gioca un suo preciso ed insostituibile ruolo. In quanto tale l’edificio fu curato da Wright in ogni particolare, dal centrale sostegno delle spine alle pareti esterne prefabbricate, dagli elementi fissi dei servizi e dell’arredo interno alla plastica minore e la decorazione esterna. Questa si evidenzia soprattutto sui parapetti alternativamente lasciati in cemento liscio e ricoperti da lastre di rame con basso rilievi, cui è stata chimicamente data la patina verdeazzurra che questo materiale acquista di solito col
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tempo. I motivi figurali della decorazione delle balaustre in rame e di alcuni ambienti interni all’edificio si rifanno sì ai ritmi architettonici generali, ma anche al gusto di forme astratte risalenti ai tempi dell’Imperial Hotel di Tokio e dei Midway Gardens a Chicago, ossia a quando Wright sperimentava per suo conto una sorta di astrattismo geometrico simile a quello dell’avanguardia figurativa fra le due guerre e ritornato in voga proprio negli anni ’50. La Price Tower non è tra gli esempi più felici della produzione wrightiana, ma l’abbiamo inclusa tra le opere paradigmatiche dell’architettura organica perché mentre incarna molti aspetti di questa tendenza — essa infatti è stata giustamente paragonata ad un albero — risulta anche il modello di numerosi edifici successivi che ne hanno ripreso la struttura (un fusto centrale sostenente piani e volumi in libera espansione), intendendo tale termine sia come fatto statico che come conformazione spaziale.
La biblioteca di Viipuri La progettazione di quest’opera, emblematica dell’architettura organica di estrazione europea, fu affidata ad Alvar Aalto in seguito ad un concorso da lui vinto nel 1927 e il completamento dell’edificio avvenne nel 1935. Già da queste date si pone il problema di collocare la figura dell’architetto nel periodo del razionalismo e di vedere in che cosa egli si distacca da tale codicestile. La biblioteca presenta nella sua generale volumetria due corpi di fabbrica traslati fra loro. Il maggiore contiene locali di consultazione, la biblioteca ragazzi, i depositi e la sala di lettura articolata su due livelli. Il corpo di fabbrica più piccolo presenta al pianterreno l’ingresso, una sala per conferenze mentre il piano superiore è interamente occupato da una serie di uffici. La divisione di due zone della sala di lettura è ottenuta con un dislivello colmato da una grande scala a doppia rampa che collega la zona destinata ai lettori con una di
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smistamento e controllo e quest’ultima con i depositi. È da notare in questo ambiente quello che sarà un fattore ricorrente nello stile di Aalto e dell’architettura organica in genere, ossia la «sezione libera», vale a dire l’articolazione su due o più livelli dello spazio all’interno di una bloccata volumetria, sebbene in questo caso anche all’esterno, nella copertura sia denunciata la differenza d’altezza dei piani interni. Un altro elemento considerevole dell’ambiente in esame è la scala, funzionale nel suo doppio percorso, ottenuto con una semplice separazione dovuta ai corrimano della ringhiera, quello dal deposito al banco di distribuzione e quello dal banco alla zona dei lettori. Ma nonché funzionale il disegno della scala e dei corrimano è tutta una anticipazione del gusto organico con le sue plastiche fluenze lineari. L’illuminazione è ottenuta con delle aperture troncoconiche praticate nel soffitto così che all’esterno, a parte il già ricordato dislivello della copertura, la volumetria di questa parte dell’edificio è completamente chiusa in un unico blocco pieno. Passando al corpo di fabbrica minore, al di sopra degli uffici è la sala delle conferenze resa famosa dalla sua controsoffittatura ondulata realizzata dall’accostamento di doghe in pino di Carelia; essa conforma una superficie ad andamento concavo convesso, giustificata sì da ragioni d’ordine acustico, ma indubbiamente dettata dal gusto di una nuova figuratività. Osserviamo tra l’altro che mentre nell’ambiente della biblioteca c’è una completa chiusura, una separazione dal mondo esterno per la massima concentrazione del lettore sul libro, nella sala delle conferenze, mentre si ascolta l’oratore, è dato spaziare con lo sguardo sul paesaggio circostante. È questo un esempio della funzione psicologica che la tendenza organica vanta sul mero funzionalismo di alcuni razionalisti. Altri aspetti tipici di quest’opera e segni del differenziarsi di Aalto dal razionalismo sono a livello linguistico, come abbiamo già notato, una fluida plasticità che specie negli interni si oppone alla legge delle pure stereometrie; il rifiuto o la limitata adozione di elementi e soluzioni già pronte: implicitamente la produzione standard. Essendo ogni fabbrica un nuovo organismo, la progettazione deve cominciare ogni
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volta daccapo e tutto essere costruito ex novo; cosicché egli interviene in ogni settore a disegnare o ridisegnare tutto quanto è possibile dalla struttura all’arredo fisso, dai mobili alle lampade. Ancor più sintomatico e che tale orientamento si manifesti sin da questa Biblioteca che per la sua importanza possiamo considerare la sua opera prima. Il sanatorio di Paimio Originato anch’esso da un concorso vinto da Aalto e realizzato tra il 1929 e il ’33, questo edificio è composto da tre corpi di fabbrica. Il primo, che comprende le camere di degenza per 290 pazienti, è alto sei piani ed è orientato a sudest; il secondo contiene sale da pranzo e di soggiorno, mentre il terzo è destinato alle cucine ed ai servizi; gli alloggi per i medici e gli infermieri stanno in edifici a parte. Il sanatorio è ispirato a due direttive: quella di seguire l’andamento del suolo e quella di sfruttare al massimo i vantaggi dell’orientamento ai fini terapeutici. Infatti mentre al mattino gli ammalati stanno nel lato più caldo, nel pomeriggio, quando il sole si sposta verso occidente, essi si trasferiscono in un corpo di fabbrica orientato in tale direzione. Inoltre agli estremi di ciascun piano del corpo delle degenze, caratterizzato da un’articolazione abbastanza semplice di fasce piene e vuote, abbiamo balconi e terrazze, anch’essi destinati all’elioterapia, che arricchiscono notevolmente la testata dell’edificio, al punto da rendere questa parte la più espressiva ed emblematica dell’intero complesso. Apparentemente il sanatorio risente del gusto razionalista più di quanto non si verifichi per la Biblioteca di Viipuri. Ma anche qui, dove maggiormente Aalto raggiunge la sua qualificazione di architetto organico è all’interno dove, col disegno di tutti gli elementi mobili ed immobili, egli riesce a portare la cura e l’impegno qualitativo proprio all’artigianato nell’ambito dei manufatti prodotti industrialmente. Di notevole interesse è anche la struttura portante del corpo di fabbrica principale; essa è formata da un grosso pilastro, posto al
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centro del lato breve, che, risegando verso l’alto, regge i solai a sbalzo dall’uno e dall’altro lato. Dal punto di vista funzionale, molti autori hanno definito il tubercolosario «una trappola per il sole»; da quello linguistico, come ha osservato Benevolo, a proposito di ciò che unisce e divide l’architettura di Aalto da quella dei razionalisti, in questo edificio l’autore «adopera gli elementi del linguaggio corrente quasi testualmente, per trasformare poi il loro significato attraverso la composizione d’assieme. Non v’è dubbio però che in questo edificio è espressa, con forte anticipo rispetto a tutto il movimento europeo, una tendenza che cinque o sei anni dopo è presente in molti luoghi, e anche nella produzione di Gropius dal soggiorno inglese in poi»8. 8 Benevolo, Storia dell'architettura moderna, cit., p. 672. Tale tendenza è quella di snodare variamente tra loro, sia per motivi orografici, sia funzionali, sia infine di tendenze del gusto, corpi di fabbrica lineari e stereometrici; una composizione architettonica dunque più organica nella sua sintassi che nella sua morfologia. Il Padiglione finlandese all’Esposizione di New York Già nel ’37 Aalto aveva progettato il padiglione del suo paese nell’Esposizione di Parigi, dove, obbligato a disporre il suo piccolo impianto in una zona un po’ appartata, seppe trarre il massimo vantaggio da questa condizione. Infatti, inserendo la sua bassa costruzione dietro una fila d’alberi ombrosi, tradusse questa ubicazione riposante nell’accento modesto ed accogliente del Padiglione finlandese, tanto più gradevole quanto più in contrasto con le retoriche installazioni dei paesi vicini. Ma se il padiglione del ’37 portò Aalto alla ribalta della notorietà internazionale, quello del ’39 a New York segnò una autentica svolta del gusto. Qui l’architetto costruiva una grande parete ondulata che, unitamente ad uno spazio antistante formava una fascia quasi diagonale al rettangolo di pianta; questa fascia determinava poi due aree angolari, l’una destinata all’esposizione, l’altra al ristorante ed al bar. L’ondulata parete centrale, formata da listelli di legno simili a quelli
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della Biblioteca di Viipuri, era l’elemento caratterizzante dell’intera composizione. Si trattava di un supporto per fotografìe, ma nel suo differenziarsi dai supporti tipici del razionalismo, fatti da leggeri elementi verticali ed orizzontali ispirati generalmente alla grafica neoplastica — dove le immagini fotografiche dovevano annullare idealmente ogni sostegno e farsi, per così dire, aeree — quello di Aalto s’imponeva per la sua massa e diventava un fatto plastico così pregnante da impegnare la percezione dell’intero spazio interno. Di fatto Alvar Aalto ribalta la tecnica espositiva dei razionalisti: fermo restante l’interesse per le cose o le immagini esposte, egli ai sottilissimi sostegni ne sostituisce uno che per il suo materiale e la sua conformazione è già di per sé portatore di un significato: in questo caso un emblema dell’orografia e del materiale tipico della Finlandia. Quanto all’evoluzione del gusto, è stato osservato che dopo o accanto all’astrattismo geometrico di Malevich, dei costruttivisti, dei neoplastici, si afferma un nuovo astrattismo di tipo organico, quello delle forme di Mirò e di Arp. Allo stile di quest’ultimo, contrassegnato da motivi «liberi», ed ameboidi, si associa, secondo alcuni critici, il disegno di Aalto, specie per quanto concerne la plastica minore, i mobili, le lampade, gli oggetti di vetro, ecc. In real tà, oltre a rivendicare l’autonomia dell’invenzione plastica dell’architetto finlandese, così permeata in ogni suo intervento da non poter essere frutto di ispirazione altrui, ci pare che egli abbia operata una profonda sintesi della figurazione astratta che fa capo al razionalismo con l’altra propria alla morfologia organica. Infatti, se in alcuni edifici come il sanatorio di Paimio troviamo — a parte il design organico dell’arredo — una stereometria razionalista negli elementi, questi, come s’è visto, seguono tuttavia una sintassi organica. In pari tempo, se nel Padiglione di New York prevale l’impiego delle forme libere, esse, sono tuttavia ottenute con l’adozione rigorosa di tanti elementi modulari. Cosicché il supporto allestito a New York denota l’intenzione di rompere con le forme geometriche recuperando d’altra parte le risorse del procedimento additivo e modulare, conservando
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così la matrice razionalistica del prodotto industriale senza cadere in alcuna sorta di arbitrario formalismo; non si smentiscono i capisaldi del metodo razionalista ma se ne tenta una evoluzione. Informate alla stessa logica sincrética sono tutte le opere successive di Aalto, dai Dormitori dell’MIT al Municipio di Säynätsalo, dalla Torre di Brema alla chiesa di Imatra fino a tutte le altre costruzioni che esorbitano cronologicamente dal presente capitolo. Resta fermo tuttavia che lo stile del maestro finlandese, pur così definito e riconoscibile, è contraddistinto, come s’è detto, dal procedimento fenomenologico di cominciare, per così dire, ogni volta daccapo. Capitolo sesto Un CODICE VIRTUALE Nella seconda metà del secolo il Movimento Moderno subisce una svolta tale da interrompere la continuità della linea razionaleorganica a vantaggio di un International Style, ma soprattutto si verifica che, alle poche tendenze caratterizzanti ciascuno dei periodi precedenti, subentra una pluralità di correnti difficilmente riducibili a un unico codicestile. Di fronte ad una produzione meramente quantitativa, alla mancata pianificazione, all'espansione senza precedenti con la quale si realizzano edifici e città per la ricostruzione postbellica, spesso guidata unicamente dall'economia di profitto, la cultura architettonico urbanistica per sopravvivere sembra dover lottare contro la condizione presente. Si parla appunto di «presente contestato». Ma ciò comporta profonde contraddizioni. Infatti, secondo l'estetica del pensiero «negativo», inteso come negazione dell'immediato, dello strapotente esistente in quanto dato insuperabile, del mondo in cui domina la legge di necessità e il principio di prestazione, l'arte e per essa l'architettura avrebbe la funzione di negare la nonlibertà che è propria al presente storico, di trascenderlo in nome del ricordo e della promessa di una natura e di un'umanità conciliate. Ma è qui che si rivela il paradosso costitutivo dell'arte che negando la nonlibertà
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dell'esistenza umana, non può che farlo positivamente, ossia attraverso le seduzioni della forma estetica che dà parvenza di realtà a ciò che non esiste. (1) Cfr. V. Corbi, L'estetica del « pensiero negativo in Marcuse, in «Op. cit.», settembre 1968, n. 1 Consapevoli o meno di questo paradosso e nel tentativo di superarlo, i migliori architetti tendono a «distinguere» le loro opere dalla produzione corrente e in generale a introdurre nel ridondante contesto della scena urbana un fattore di «estraneamento» che vale appunto come permanente atto di critico rifiuto del presente contestato. Assunta questa posizione alla cultura architettonica non resta che puntare su una sorta di tipoideale formato dalla dimensione del passato coniugata con una prospettiva futura, dal binomio storia utopia, donde la nostra proposta di un «codice virtuale», (2) L’aggettivo da non confondere con la virtualità della cultura digitale, così come successivamente è avvenuto. basato su questi fattori. Siamo giunti a questa conclusione, che tenteremo di motivare nel modo migliore, dopo aver esaminato i sottocodici (le tendenze nazionali, i raggruppamenti per tipi morfologici, sintattici, semantici, ecc.) e constatato che i loro caratteri più invarianti sono da un lato il recupero della storia e dall'altro la spinta verso un prevedibile assetto futuro, come del resto è implicito in ogni atto progettuale che in definitiva è sempre un programma d'una realtà in fieri. Prima di esaminare i sottocodici e quindi di narrare la storia delle principali tendenze dell'architettura del secondo ‘900, chiariamo meglio i termini e svolgiamo alcune considerazioni che confortano la nostra tesi. Anzitutto, riferendoci alla componente «storia», va distinta una storia come produzione del passato, da una storia come «tradizione del nuovo». Rispetto al passato, l'architettura relativamente più recente non nutre più l'avversione propria ad alcuni maestri del Movimento Moderno; esso, si afferma, viene visto come «un amico », dal quale sembra lecito trarre molteplici indicazioni. Rispetto alla «tradizione del nuovo», alla produzione fra le due guerre, l'architettura ha assunto una posizione che la critica contemporanea
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più avvertita ha già da tempo indicato. Per essa il Movimento Moderno non è più inteso come processo lineare «da Morris a Gropius» o «da Ledoux a Le Corbusier», ma come una vicenda assai più complessa, ricca di azioni e reazioni aventi diramazioni inespresse o inesplorate. Pertanto, il recupero della storia, inteso nei due sensi suddetti, non produce mai quel fenomeno di eclettismo storicistico lamentato da qualche autore. Esistono oggi condizioni sociali, scale d'intervento, possibilità tecnologiche tali da consentire all'architettura odierna ogni «citazione», ogni ripresa di elementi, ogni ripensamento della tradizione storica senza cadere nell'eclettismo; si può dire che possediamo un codice forte ancor prima della sua vera e propria istituzione, che abbiamo un nostro Kunstwollen anche se la critica non l'ha ancora teorizzato. Riferendoci alla componente «utopia», essa si presenta sotto varie forme che avremo modo di specificare, resta comunque inteso che la componente utopica del nostro codice virtuale non vale quindi per il grado della sua realizzabilità, quando peraltro tutto sembra possibile, ma soprattutto per la sua intenzionalità. Come per l'utopia conta l'intenzionalità, per la storia conta la dimensione della memoria. Una memoria collettiva e universale senza la specificità di un tempo e di un luogo, in ciò del tutto simile all'utopia come vuole la sua stessa definizione. Il codicestile che intendiamo costruire intende riportare la diversità eclettica all’unità storicocritica avvalendoci dei principali sotto codici, donde la ricerca delle individualità nell’unità. Esso, inteso come tipoideale tenderà a fornirci un quadro concettuale unitario anche se non ci impedirà di cogliere il prevalere della componente storica su quella utopica o viceversa a seconda dei casi e ancora quando esse saranno intimamente legate. Detto diversamente, cercheremo di individuare dove finisce per ogni architetto o tendenza il suo debito verso la storia e dove, per così dire, inizia il suo credito verso l'utopia.
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Nuovo empirismo. La prima reazione (o la più nota) al codicestile del razionalismo si ebbe in Scandinavia. Notiamo per inciso che senza perdere la sua valenza internazionale l'architettura postrazionalista si è talvolta caratterizzata diversamente nei vari paesi, cosicché il nostro codice virtuale tiene anche conto delle componenti nazionali. Questo appunto è il caso dei paesi scandinavi. Già s'è visto il notevole apporto di Aalto alla trasformazione del razionalismo in organicismo; la Svezia che nel secondo dopoguerra divenne per oltre un decennio il paeseguida per la sua saggia amministrazione urbanistica e per un'architettura come espressione diffusa senza contrasti, ebbe con Erik Gunnar Asplund (18851940) prima e con Sven Markelius (18891972) poi, due architetti che precorsero il clima del neoempirismo. Del primo ricorderemo l'Esposizione di Stoccolma del 1930, che segnò l'adesione dell'architetto al razionalismo e al tempo stesso un superamento di esso in quella chiave di più libere articolazioni che saranno proprie a tutta l'architettura svedese; l'ampliamento del Municipio di Goteborg 193437 (che con l'accostamento di un corpo di fabbrica schiettamente moderno al classicistico edificio preesistente creò il primo felice caso di coesistenza tra antico e nuovo, costantemente richiamato nel dibattito sviluppatosi su questo tema negli anni del dopoguerra); il Crematorio del cimitero di Stoccolma, 193540, che con il suo rigore classico costituisce forse il primo esempio di architettura contemporanea con ripensamento alla storia. Con Markelius del quale ricorderemo l'auditorio di Hälsingborg, 192632, il padiglione svedese all'Esposizione universale di New York del '39, la sede dei sindacati a Linkòping del '53 e il Nuovo centro di Stoccolma del '62 quali tappe di una vasta e fertile attività professionale il passaggio dal rigore razionalistico alla più ricca varietà del lessico e della sintassi organica risulta in tutta la sua evidenza. New Empirism
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Alla tendenza della generazione successiva, la critica inglese attribuiva il nome di New Empirism. Questa non nega la lezione razionalista, ma ne amplia i termini linguistici conferendovi nuovi accenti. Il termine «funzione», ad esempio, viene esteso ad includervi soprattutto quella psicologica. Riappaiono i tetti inclinati, le finestre nelle loro tradizionali dimensioni, l'uso dei materiali tradizionali, segnatamente legno e mattoni, la decorazione. Inoltre si tenta, attraverso l'uso di una geometria più ricca di elementi, di conformare edifici ed ambienti più variamente articolati; si pensi al quartiere Grùndal di Backström e Reinius del 1945, dove l'accostamento di un tipo edilizio trilobato ad altri uguali determina un complesso a cortili esagonali di notevole efficacia espressiva. Un'altra variazione rispetto alla disposizione lineare delle Siedlungen razionaliste è dato dal punkthus, dalla casa alta, vista sia come più economica evoluzione di una tipologia edilizia, sia come più vario elemento compositivo nella scena urbana e nel paesaggio. Inoltre, com'è stato osservato, il nuovo empirismo si presentò come una proposta completa, dall'arte applicata al design, dall'arredamento all'architettura e all'urbanistica. In questo campo va ricordata l'adozione, nel 195154 del cosiddetto piano delle cinque dita per Copenhagen, quello di Stoccolma, orientato da Markelius, del 1952, quello della regione di Oslo del 1959. Certamente tutto ciò non si spiega con il successo di una corrente del gusto, d'altra parte non è casuale la sua coincidenza con l'affermarsi del nuovo empirismo. In sintesi questo, a parte la favorevole congiuntura politica, economica e tecnica degli scandinavi e degli svedesi in particolare, rappresenta un superamento «incruento» del razionalismo, basato sulla sostituzione di rigide e programmatiche norme con il buonsenso, di uno spirito contestatario con uno d'adesione e d'integrazione, del rifiuto della storia con la ripresa di moti ed accenti tradizionali e regionali. Il mutato orientamento valse a rendere più popolare il processo del Movimento Moderno, più aderente ai nuovi tempi e accolto senza riserve, tanto da rendere i suoi prodotti privi di ogni carica eversiva e alla stregua di qualunque
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positivo apporto della cultura contemporanea. Ma è indubbio che con questo opulento professionalismo si sono perduti anche molti valori che sostanziavano la vicenda dell'architettura moderna. Non a caso, infatti, dopo gli anni '50, la produzione scandinava, neoempirista o meno, viene considerata un fenomeno limitato a quelle fortunate regioni e scarsamente in grado di incidere sulla complessa problematica architettonicourbanistica degli altri paesi. L 'Englishness Considerata la componente nazionale, per l'Inghilterra non ci sembra possibile ridurre l'intera esperienza postbellica ad un solo sottocodice, anche se, anticipando la conclusione va detto che una marca tipicamente inglese contrassegna tutta la più recente produzione architettonica di questo paese, donde il titolo del presente paragrafo. S'è parlato, a proposito della principale corrente affermatasi in Inghilterra, di New Brutalism, ma, posto che esso abbia una reale consistenza critica o almeno valga come ipotesi classificatoria, risulta che coprirebbe soltanto un lato della stimolante vicenda britannica di questi ultimi anni. È stato osservato che la Gran Bretagna, ossia il paese dove nacque con la rivoluzione industriale il Movimento Moderno, sia rimasta sostanzialmente estranea alla storia dell'architettura fra le due guerre; giudizio che richiede qualche nota di precisazione e di commento. Non è che l'Inghilterra si sia estraniata dalla cultura del razionalismo perché la presenza del gruppo MARS (Modern Architecture Research Society) operante fin dal 1931 e divenuto poi la sezione inglese del ClAM, l'attività del gruppo Tecton animata dal costruttivista russo Lubetkin trasferitosi in Gran Bretagna, come pure la presenza momentanea o definitiva di altri architetti e studiosi stranieri da Gropius a Breuer, da Mendelsohn a Pevsner, la ricca pubblicistica architettonica, le associazioni, la diffusione attraverso conferenze e traduzioni di scritti dei maestri del Movimento Moderno, sono tutti fenomeni contrassegnanti una indubbia attività architettonica del
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paese fra le due guerre. E tuttavia, per molteplici cause, la produzione dell'architettura inglese del tempo non è paragonabile a quella tedesca, olandese, svedese, svizzera, ecc. Si può dire, com'è stato notato, che in Gran Bretagna «l'architettura nuova sia stata un prodotto di importazione lentamente assimilata dalle giovani generazioni di architetti e dalla più consapevole opinione pubblica»2 M. Teodori, Architettura e città in Gran Bretagna, Cappelli, Bologna 1967, p. 86. Più vicina alla nostra tesi del codice virtuale è l'ipotesi che il suddetto ritardo si potrebbe attribuire al fatto che la cultura architettonica inglese ha quasi sempre avuto la necessità di richiamarsi alla storia; ha tradizionalmente maturato esperienze storiche autoctone o straniere e successivamente operato con tale sostegno. Se questo è vero, possiamo affermare che la cultura architettonica inglese ha ancora una volta atteso che il Movimento Moderno si consolidasse storicamente per poi intervenire nel modo più attivo; tanto più se si osserva che la ricerca storiografica in Gran Bretagna ha avuto spesso un carattere operativo, ossia un legame più o meno diretto col fare architettonico. A conclusione di queste motivazioni sul «ritardo» dell'architettura inglese ci sembra di poter sostenere che esso risulta tale anche e forse soprattutto dal confronto del poco che s'è prodotto nel paese negli anni '20'30 con il molto che è stato fatto e viene realizzandosi in questo dopoguerra, quando cioè l'Inghilterra sembra aver assunto, specie in campo urbanistico, addirittura il ruolo di paeseguida. Una serie di leggi urbanistiche che anticipano e accompagnano l'opera di ricostruzione Town and Country Planning Act, 1944; Distribution of Industry Act, 1946; New Towns Act, 1946; Town and Country Planning Act, 1947 consente il controllo e la pianificazione in quasi ogni settore d'intervento, dal classico rapporto cittàcampagna alla dislocazione degli impianti industriali, dalla costruzione di nuove città all'intervento nei centri storici. Il frutto più significativo di questa legislazione, degli apparati tecnici ed amministrativi che ne garantiscono efficacemente l'esecuzione, dello sforzo economico e della politica seguita con relativa continuità nonostante l'alternarsi al
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potere di conservatori e laburisti è dato dalle New Towns. Esse, collegate al piano della Grande Londra, curato nel '44 da P. Abercrombie e concepite per decongestionare con una espansione regionale la capitale nonché raccogliere la popolazione delle aree sottosviluppate, si rifanno evidentemente alla tradizione delle Città giardino e sono state attuate grazie alla preparazione politico economica delle commissioni Barlow del 1940, Scott del 1942, Uthwatt del 1942; alla costituzione del Ministery of Town and Country Planning (1943) e alla già citata legge urbanistica del '47. Sul piano tecnico le New Towns dipendono dalle Development Corporations, istituite dal New Towns Act del '46, alle quali sono affidate per la loro progettazione, costruzione e gestione. Quanto alla loro conformazione, le città nuove sorte nel dopoguerra, alcune, quali Stevenage, Crawley, Harlow, East Kilbride risentono della impostazione delle Garden Cities per il loro sviluppo estensivo, mentre gli esempi più recenti presentano aree a densità variabile, una «spina» centrale dal carattere più «cittadino» per i servizi ivi concentrati e una edilizia residenziale più densa e compatta; pensiamo in particolare alla città di Curnbernauld in Scozia. Un altro fenomeno della cultura architettonica inglese del dopoguerra, sostenuto dal gruppo redazionale della rivista «Architectural Review» è quello del Townscape; il suo principale interprete Gordon Cullen lo definisce «l'arte con cui si può trasformare un gruppo di alberi o quattro edifici da un insignificante pasticcio in una composizione ricca di significato o una città tutta intera da uno schema tracciato sulla carta in un ambiente tridimensionale di vita ». E infatti questa sorta di nuovo paesaggismo, anch'esso sotto molti aspetti legato alla storia, cura tutti quegli aspetti della scena urbana (il colore, la grana dei materiali, la pavimentazione stradale, le sistemazioni a terra, le recinzioni, il verde, le insegne, ecc.) che, assai vivi negli ambienti tradizionali, erano stati ignorati dal gusto razionalista. Ancora nel generale quadro della Englishness va menzionato il vasto programma di edilizia universitaria, non solo quale tema affrontato in
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maniera efficace e tempestiva di fronte all'aumentato numero di studenti, e quindi come esempio di avvertita politica, non solo perché assai spesso le nuove università o il loro ampliamento si realizzano in luoghi condizionati da preesistenze architettoniche e paesistiche, risolvendo talvolta egregiamente il rapporto fra l'antico e il nuovo, quanto soprattutto perché è proprio in questo settore dove viene attuandosi la migliore architettura inglese. Il fenomeno di quest’ultima richiede un cenno particolare. Fino a qualche tempo fa la produzione inglese veniva ammirata all'estero per l'urbanistica, l'impegno sociale, i rigorosi piani settoriali (quello appunto della scuola e dell'università), per l'austerity con la quale si stabilivano motivate ragioni di priorità all'interno dei vari campi d'intervento, ecc. E l'uniformità, il corretto anonimato, il gusto per il pratico, in una parola la mancanza di emergenze architettoniche sembrava essere lo scotto da pagare per tutti i vantaggi offerti dalla situazione britannica. Dalla seconda metà degli anni '50, una volta acquisite le suddette posizioni, la cultura architettonica inglese sembra esigere anche la qualità, l'individualità, la fantasia, l'inedito architettonico. Tra i fautori di questa svolta ricorderemo Alison e Peter Smithson, autori della scuola di Hunstanton a Norfolk del '54 (definito il primo edificio brutalista), dei progetti per Golden Lane e per la Sheffield University entrambi del '52, dell'«Economist» Building del '64; Denis Lasdun, autore di una scuola elementare a Paddington del '55, del Royal College of Physicians a Londra del '65, dell'East Anglia University a Norwich del '66, della casa per appartamenti a St. James's Park a Londra; James Stirling, autore tra l'altro della Facoltà d'Ingegneria a Leicester (in collaborazione con Gowan) del '59, della Facoltà di Storia a Cambridge del 64, dell'ampliamento della parte residenziale della St. Andrews University del '64, dei Laboratori di ricerca della Dorman Long a Middlesbourgh (progetto del '65) Come al solito, per i limiti del presente studio, non ci soffermeremo sull'analisi di queste fabbriche, alcune delle quali assai notevoli e tra le
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più significative prodotte in questi ultimi anni. Dedicheremo piuttosto un po' di spazio al discorso su un eventuale sottocodice emerso dalla più recente architettura inglese per rispondere alla struttura che informa il nostro libro ed alla tesi dell'esistenza di un codice virtuale, del quale la componente «storia» è in Inghilterra nettamente prevalente sulla componente « utopia». R. Banham, il critico che più s'è occupato dell'ultima produzione architettonica, ha definito col termine New Bratalism la sua tendenza più emergente. «Che cosa significa questo termine? Alla base vi era un senso di frustrazione, causato in parte dalle difficili condizioni dell'edilizia inglese nel dopoguerra, in parte dal disgusto per l'ipocrisia ed i compromessi degli anziani [..]. Essi [i giovani architetti] presero a modello la mancanza di compromessi di Mies van der Rohe e di Le Corbusier, la loro chiarezza intellettuale, la loro onesta presentazione di strutture e di materiali […]. In questo periodo, tuttavia, l'estremismo puritano dei Brutalisti inglesi venne incorporato in un più vasto movimento internazionale, nel quale coesistevano correnti di diversa origine che avevano diverse finalità, come la pittura informale di Jackson Pollock, la pianta informale della Cappella di Ronchamp, l'«art brut» di Dubuffet ed il «beton brut» dell'Unité d'habitation di Marsiglia [...]. Intento fondamentale del Brutalismo è sempre stato quello di determinare per ogni costruzione una concezione «necessaria» (così come l'intendeva Smithson) dal punto di vista delle strutture, dello spazio e dell'organizzazione del materiale. Questa concezione, espressa con perfetta onestà, condurrà a un'immagine architettonica inconfondibile».3 R. Banham, voce Brutalismo in Enciclopedia dell'architettura moderna, Garzanti, Milano 1967, pp. 812.](3) In realtà, leggendo per intero lo scritto donde abbiamo tratto tali citazioni ed altri saggi di Banham, la nozione di New Brutalism risulta assai più confusa di quanto non appaia dalle considerazioni suddette. Infatti, egli, per meglio specificare tale corrente, oltre ai richiami figurativi dell'informale che poco hanno in comune con la menzionata
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istanza di rigore, accosta opere sostanzialmente assai diverse; accanto ad alcuni edifici di Le Corbusier e di Mies, l'Art Gallery della Yale University di Louis Kahn, la Casa dei ragazzi di Aldo van Eyck ad Amsterdam, senza parlare dell'ammirazione che, sempre secondo Banham, i giovani brutalisti inglesi avrebbero per Palladio, per gli architetti barocchi Vanbrugh e Hawksmoor, per l'ingegneria dell'Ottocento. A parte l'eterogeneità di questi richiami la definizione di New Brutalism indica troppe cose per denotarne veramente qualcuna; e non a caso artisti di sicuro talento quali Stirling hanno decisamente rifiutato tale etichetta., Essa tuttavia non è totalmente da respingere, ove si accolga come un gusto non tanto «suaviter in modo», quanto «fortiter in re», dotato di «Jem'enfoutisme» e «bloodymindedness » (sono tutte espressioni di Banham) collocabile tra l'informale e la Pop Art che non riguarda solo l'architettura, ma appunto un moto del gusto comune alla pittura, all'arredamento, alla moda, al cinema e soprattutto alla grafica. Inteso in tal senso, se è vero che il New Bratalism nasce in Inghilterra non è tuttavia la componente più tipica del gusto contemporaneo inglese e quindi meno che mai può assumersi come il principale sottocodice della sua architettura. Pertanto proponiamo di chiamare Englishness la più recente architettura britannica, adoperando una espressione usata da Pevsner in altra occasione (4)Cfr. N. Pevsner, The Englishness of English Art, The Architectural Press, London 1956. e intendendo un insieme di caratteristiche che vanno oltre l'ovvia indicazione nazionale. Già l'impegno sociologico, la piattaforma urbanistica, l’invarianza tipologica dell'architettura inglese contemporanea la rende nettamente distinguibile da quella realizzata altrove. Qui come in Olanda il Movimento Moderno ha vinto la sua battaglia: l'architettura degli architetti prevale anche quantitativamente su quella prodotta dagli anonimi «uffici tecnici» di altrettante anonime imprese commerciali di costruzione. Solo che l'Olanda raggiunse il suo punto più alto fra le due guerre associando il codice razionalista alle pratiche esigenze locali ed agli autoctoni movimenti figurativi, mentre l'Inghilterra ha
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raggiunto il suo momento più significativo negli anni ‘50, correggendo le distorsioni del razionalismo operate dall'International Style. Abbiamo già accennato al fatto che la cultura inglese sembra aver atteso che il Movimento Moderno diventasse storia per apportarvi il suo contributo e quello della storia ci sembra il parametro più caratteristico della Englishness. Infatti, nessun'altra produzione nazionale sembra così legata alla tradizione come gli architetti inglesi sono legati alla cultura del loro palladianesimo, ai loro antenati pre e postjonesiani, al classicismo di Nash, allo strutturismo di Paxton. Ma l'interesse per il passato non si limita alla tradizione nazionale, né alla storia dell'età moderna, ossia rinascimentale e barocca; è soprattutto la «tradizione del nuovo», l'architettura dell'età contemporanea, il protorazionalismo, il neoplasticismo, soprattutto il costruttivismo russo ad influenzare la generazione degli architetti inglesi giunta oggi al pieno della maturazione. II caso più tipico di questo bricolage storicistico è offerto dall'opera di Stirling. Com'è stato notato, «il gioco del’ l'attribuzionismo cui il lavoro di Stirling offre pretesto [...] ci propone abbastanza paradigmaticamente la sua ricerca come un'operazione di scavo nella storia della produzione degli ultimi duecento anni che ogni architetto, cosciente della propria condizione storica, quotidianamente svolge. Il patrimonio linguistico messo a disposizione dall'architettura moderna viene in tal modo recuperato all'interno di ricerche tese a dilatare, arricchire ed al limite esasperare le possibilità semantiche di quello stesso linguaggio»5) C. Dardi, Il gioco sapiente. Tendenze della nuova architettura, Marsilio, Padova 1971, p. 74. Ma ciò che più conta, a nostro avviso, è che tali arricchimento e scavo nella storia riescono a produrre immagini complessivamente inedite, ossia nelle quali non sono più riconoscibili le «citazioni» particolari, e al tempo stesso, poiché appunto poggianti sull'esperienza storica, prive di quel senso di provvisorietà e di moda che caratterizza tante espressioni architettoniche prodotte altrove. In altri termini le conformazioni della Englishness non risultano degli inediti assoluti,
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ma dei messaggi nuovi sempre però decodificabili in base a parametri noti, soprattutto per quanto riguarda la chiarezza e la leggibilità della pianta, della struttura, dei materiali; unico fattore d'ambiguità può semmai essere nella non immediata identificazione delle tipologie e delle destinazioni d'uso, ma d'altra parte sappiamo quanto gioca nel rapporto comunicativo il fattore dell'ambiguità, affrancando il linguaggio dalle ridondanze e dalle ovvietà. Dal punto di vista morfologico possiamo dire che le fabbriche cui pensiamo (la Facoltà di Storia a Cambridge, l'Università dell'East Anglia, ecc.) costituiscono esempio di un'architettura che pur essendo assai avanzata, non diventa mai autre o avanguardistica. E tale condizione limite rappresenta un'altra caratteristica di quella tendenza che chiamiamo Englishness. Alla definizione di quest'ultima, come abbiamo già osservato, contribuisce anche la recente storiografia ed il già menzionato legame fra storia, critica e progettazione. Parlando di Architectural Principles in the Age of Humanism, Tentori scrive: «il libro di Wittkower, come le illustrazioni della trattatistica rinascimentale ed i suoi lucidi discorsi sulla storia, sulla simmetria, i “principi”, la proporzione armonica etc. ha generato una condizione culturale da cui germinarono, dapprima, progetti come quelli degli Smithsons per Hunstanton e Coventry, ma in seguito altri progetti più liberi e informali»(6 F. Tentori, Phoenix Brutalism, « Zodiac », novembre 1968, n. 18. Più direttamente implicata nel rapporto storia progettazione è tutta l'opera di Pevsner come dimostrano sia la sua attività di ricerca, sia l'azione da lui svolta nella redazione di «The Architectural Review ». Dal canto suo Banham fin dal '55 scriveva: «Non si può nemmeno accostare il fenomeno brutalista senza rendersi conto di quanto la nuova storiografia artistica fosse penetrata in profondità nel pensiero architettonico progressivo, e dentro i metodi di insegnamento, nonché nello stesso linguaggio adoperato negli scambi tra architetti e critici » 7Ibid Englishness è ancora la disciplina del Towoscape, tipico prodotto della tradizione, del costume, dei gusto britannici, non solo, ma nel campo
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stesso della rappresentazione architettonica: i disegni di Gordon Cullen sono diventati ben presto un modello internazionale e gli altri disegnatori inglesi hanno dimostrato, fra tante polemiche gestaltiche, di basic design, ecc., che si può ancora rappresentare l'architettura e l'urbanistica in prospettiva, anzi hanno individuato forse il modo col quale la prospettiva possa ancora essere una «forma simbolica» del nostro tempo. Questa pregevolissima produzione grafica, innestata al gusto della Pop Art, si ritrova nei progetti del gruppo Archigram, del quale ci occuperemo parlendo delle utopie, ma che costituisce per quanto concerne appunto il campo grafico una ennesima manifestazione della cultura dell'Englishness. Neorealismo e neoliberty. Abbiamo trascurato nel capitolo sul razionalismo la vicenda architettonica italiana fra le due guerre non perché mancassero opere di un certo rilievo (la casa del fascio di Terragni, la stazione di Firenze del gruppo Michelucci, la realizzazione urbanistica di Sabaudia, ecc.), ma perché nell'economia del nostro discorso abbiamo dovuto far posto alla produzione di altri paesi, rispetto ai quali quella italiana ebbe un ruolo secondario. In sostanza, ove si eccettui l'opera critica di Edoardo Persico, autore peraltro rimasto non completamente espresso, l'architettura italiana di quel periodo non vale tanto in sé quanto per ciò che riuscì a realizzare nonostante le «difficoltà politiche» del paese, ossia grazie all'impegno civile e morale di alcuni suoi protagonisti. E tuttavia la generazione che si formò in quell'epoca (i Samonà, i Ridolfi, i Quaroni, i BBPR, gli Albini, i Gardella, ecc.) è stata quella che dopo la liberazione ha dato il meglio dell'architettura italiana contemporanea, portando solo dopo il '45 la vicenda italiana alla ribalta internazionale. Oltre che per la produzione di tali architetti, l'Italia occupa oggi un suo posto nella cultura architettonica internazionale per alcune felici realizzazioni nel campo del design e soprattutto per la sua tradizione di studi storicocritici, il cui settore architettonico, avente per oggetto il Movimento Moderno, s'è in questi
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anni notevolmente sviluppato (Ragghianti, Argan, Brandi, Zevi, Benevolo, Portoghesi, Tafuri, ecc.). Cosicché, lungi dal voler ridurre la ricca e complessa vicenda architettonica italiana di questi ultimi decenni alle due tendenze più note, il neorealismo e il neoliberty, che anzi costituiscono degli epifenomeni, sono tuttavia esse, con le estensioni che diremo, a porsi, unitamente alla corrente italiana di architettura organica, come i soli movimenti collettivi aventi un certo respiro o un'ambizione nazionale. Il neorealismo nacque in relazione al movimento per l'architettura organica, promosso da Zevi nel '45, anzi si può dire che, come il neoempirismo scandinavo, il Bay Region Style californiano ed altri movimenti definiti regionalisti, ne costituì, a torto o a ragione, la versione italiana. La critica dell'architettura organica al razionalismo, alla sua astrattezza ideologica, alla sua vocazione tecnologica, al suo purismo linguistico; le esortazioni del movimento organico a rivalutare gli aspetti psicologici, ambientali, naturali, a ridimensionare la scala degli interventi, ad aderire più pragmaticamente alle condizioni storicosociali proprie ad ogni comunità, vennero intese o fraintese, unitamente alle indicazioni gramsciane di una cultura nazionalpopolare, come parametri orientativi dell'opera di ricostruzione e in generale della prima architettura della nuova Italia sorta dalla Resistenza. Tali parametri sembravano peraltro aderire ad una obiettiva condizione esistente nel paese per oltre un decennio dalla fine della guerra: forte domanda di alloggi, povertà d'industrie, necessità che nell'opera di ricostruzione fosse impiegata una ingente quantità di mano d'opera non specializzata, fenomeni che portarono a quell'emblematico «Piano incremento occupazione operaia case per lavoratori» mirante a risolvere con un solo provvedimento una duplice istanza. E se in altri paesi la ricostruzione del patrimonio edilizio fu preceduta da quella delle industrie, in Italia ciò non fu possibile a) perché le industrie in molte regioni non andavano ricostruite ma addirittura impiantate; b) perché la costruzione di alloggi mirava a
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riparare non solo il danno bellico, ma anche una più antica ingiustizia sociale; c) perché la proprietà immobiliare ha sempre giocato un ruolo notevole nell'economia nazionale. Una condizione quindi di estrema urgenza che sembrava impedire ogni programma a lungo termine ed imporre l'utilizzo immediato di tutte le forze disponibili: il capitale pubblico, quello privato e l'attitudine artigianale del cantiere edile con il richiamo di maestranze provenienti dalla campagna, il cui esodo inizia proprio in quegli anni. Sebbene a fruire dei nuovi quartieri sovvenzionati è questo il settore di maggiore interesse nel periodo in esame e del resto fino ad oggi fosse la piccola borghesia ed alcuni settori dell'élite proletaria, i nuovi insediamenti furono concepiti e progettati per i senzatetto, i baraccati, gli immigrati dalla campagna. Sembrò quindi lecito abbandonare i modelli delle Siediungen e degli stessi complessi costruiti dagli Istituti autonomi per le case popolari di stampo protorazionalista, e preordinare per queste nuove categorie di utenti un habitat che riproducesse, sia pure con diversi standard, un ambiente da rione operaio cittadino tradizionale o da comunità paesana. Il linguaggio architettonico per tale programma, com'è stato osservato, parve che « si potesse trovare solo attingendo a quel patrimonio di forme e di metodi che con approssimazione potrebbe definirsi la cultura artigiana, la cui attualità e validità era stata messa in rilievo dallo stesso Pagano in una sua celebre rassegna di fotografie. Il gusto dello spontaneo, del rustico, dell'anonimo, del resto, aveva avuto un lungo periodo di fortuna in tutto il Novecento, stava quindi, si può dire, nel sangue di quella generazione di mezzo che reggeva in quel momento il timone della cultura architettonica» 88 P. Portoghesi, Dal neorealismo al neoliberty, « Comunità », dicembre 1958, n. 65. Assumendo anche qui il nostro codice virtuale, si può dire che è ancora una volta la componente « storia » (intesa questa volta in senso vernacolare) a prevalere sulla componente «utopia».In questo spirito nacquero, con le debite differenze ambientali, il quartiere Tiburtino a Roma nel 1950 ad opera di un gruppo guidato da Ridolfi e Quaroni, il
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borgo La Martella a Matera nel '51 (capogruppo Quaroni), le Case INA realizzate da Ridolfi in viale Etiopia a Roma nello stesso anno, che molti considerano il capolavoro dell'architettura italiana del primo dopoguerra. Se questi futono gli esempi neorealistici più noti, molti altri complessi della stessa tendenza furono attuati negli anni '50 in varie località italiane, specie nel centro e nel Sud, e in prevalenza progettati da architetti di scuola romana. Accanto alle motivazioni socioeconomiche e ideologiche, cui prima abbiamo accennato, contribuì alla formazione della corrente neorealista una più precisa e relativamente nuova istanza, quella semantica. Se l'esigenza di realizzare dei quartieri «studiando composizioni urbaniste varie, mosse, articolate, tali da creare ambienti accoglienti e riposanti, con vedute in ogni parte diverse e dotate di bella vegetazione, dove ciascun edificio abbia la sua distinta fisionomia [...]» come raccomandavano i diffusissimi volumetti del «Piano incremento occupazione operaiacase per lavoratori», distribuiti nel '50 era il frutto dell'orientamento organico, il neorealismo di suo aggiunse un palese intento comunicativo. E poiché l'atto comunicativo implica sempre un riferimento al già noto, si spiega con ciò il ricorso al clima della borgata, dell'ambiente contadino o artigianale, del disordine proprio all'architettura cosiddetta spontanea; in ultima istanza quel comunicare era una sorta di mimesi della natura, d'una natura filtrata dal folklore e dalla tradizione. In fatto di comunicazione bisogna rapportare l'architettura neorealista al neorealismo che, con qualche anno d'anticipo, aveva informato la letteratura, la pittura e segnatamente il cinema, campo nel quale detta corrente diede la sua prova migliore. Non c'è dubbio che fra il neorealismo pittorico di un Guttuso, la ricca letteratura sulla Resistenza, il neorealismo cinematografico dei Rossellini, Visconti, De Sica da un lato e quello architettonico dall'altro vi sia stato un denominatore comune, anzi che questo unitario clima sia stato l'ultimo nella cultura italiana a raccogliere sotto un'unica insegna diverse manifestazioni artistiche. Ma accanto agli aspetti unificatori di tali
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esperienze, vi furono prevalenti gli aspetti che le divisero. Com'è stato osservato, «fermo restando [...] il comune valore, scaturito dalla resistenza, di ricerche di contenuti popolari e unitari, bisogna dire che il cinema neorealista è arrivato a svilupparsi in forma veramente, estesamente popolare ed accessibile alla comprensione di tutti, mentre l'architettura realista [...] ha creato sì dei lavori di molta importanza, ma che purtroppo non sono stati sufficienti a determinare quell'assimilazione generalizzata e veramente democratica» F. Tentori, Quindici anni di architettura, «Casabellacontinuità », a. 1961, n. 251. Inoltre, fatti salvi evidentemente i diversi mezzi espressivi, il maggior divario tra cinema e architettura neorealisti, sta in ciò che nel cinema il neorealismo ha codificato una serie di parametri, di tecniche, di atteggiamenti, in una parola ha costituito una scuola (come in architettura il razionalismo), alla quale devono ancora riferirsi molti operatori, mentre il neorealismo in architettura non è andato oltre i termini d'una cultura postbellica con tutte le aporie e le ambiguità proprie alla nozione di cultura popolare. Opportunamente, Portoghesi rileva un equivoco fondamentale: «Mentre il clima della città preparava l'affermazione e la generalizzazione della cultura di massa, ci si ostinava da parte degli architetti a rivalutare e studiare quella cultura popolare che non sapeva e non poteva resistere al duro confronto con il mondo e lo stile di vita della città » 10 P. Portoghesi, op. cit. Se il neorealismo rientra nei vari movimenti regionali di revisione postrazionalista, il neoliberty partecipa e talvolta anticipa un atteggiamento che diverrà sempre più condiviso nella odierna ricerca architettonica; quello in cui la componente «storia» del nostro codice virtuale assumerà caratteri tanto evidenti da costituire una vera e propria tendenza, lo storicismo. Di questo parleremo in un apposito paragrafo, qui limitandoci alla sua manifestazione italiana. Il neoliberty non interessa solo per alcune realizzazioni degli architetti torinesi R. Gabetti e A. D'Isola, che con la loro Bottega d'Erasmo produssero l'edificio più tipico di questa corrente; né per la produzone
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di alcuni giovani architetti milanesi; né infine per le sue specificazioni morfologiche e sintattiche tanto diffuse da marcare molte opere non sempre catalogabili come neoliberty, ma soprattutto come atteggiamento di revisione critica e di recupero storico di alcuni aspetti del Movimento Moderno, rimasti, come s'è detto più sopra, inespressi o inesplorati. Tale atteggiamento rientra nella tendenza internazionale appena menzionata e definita storicista. Vediamo ora le sue motivazioni ed esperienze emergenti dalla situazione italiana. Questa registrò proprio negli anni '50 un notevole boom edilizio, cui non corrispose né una adeguata pianificazione urbanistica, né un rinnovamento linguisticoarchitettonico, com'era lecito attendersi con tanti cantieri in funzione. Cosicché l'attesa espansione del Movimento Moderno apparve un mero fenomeno quantitativo, ricco di contraddizioni, di costose contropartite e con esigui margini di interventi correttivi. Di fronte a questo «presente da contestare», la cultura architettonica italiana, specie sotto la spinta della mancata volontà politica in fatto d'urbanistica, si orientò dapprima prevalentemente verso ricerche extradisciplinari: la sociologia, l'economia, ovvero l'impegno diretto nell'attività amministrativa. Ne derivarono alcuni indubbi vantaggi, come una maggiore presa di coscienza della realtà sociale, l'aspirazione ad un maggiore rigore critico ed operativo, l'esigenza dell'analisi e della ricerca interdisciplinare. Ma questo tipo di atteggiamento, per così dire «non progettuale» ebbe anche negativi risvolti: un inaridirsi della disciplina architettonica e della sua didattica, un senso di sfiducia nelle sue autonome possibilità, un diffuso velleitarismo e la stessa mancanza della componente architettonica al tavolo del lavoro interdisciplinare, sostituita da un'ingegneria civile più «pratica» e «disponibile». Col neoliberty, forse anche polemicamente, si tentò di invertire tale tendenza; vi fu il tentativo da parte degli architetti di correggere le disfunzioni in atto puntando principalmente sui termini propri alla loro disciplina. In altre parole, sembrò (ed evidentemente ci si illuse) opportuno scandagliare tanto il linguaggio, le tecniche, le tipologie da
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sperare in un conseguente cambiamento di significati e di comportamenti. Questa revisione operativa si associò ad un'altra di carattere storico e critico. Nel Movimento Moderno furono individuate alcune valenze ancora vive, si riconobbe che molti codici, sottocodici e lessici erano rimasti inoperanti ed incompiuti perché offuscati da più pregnanti e fortunate tendenze coeve. Quello dell'Art Nouveau ne rappresenta il più tipico caso; infatti dopo pochi anni di elevata produzione tale corrente,. rimasta anche criticamente indistinta nelle sue parti, venne arrestata dalla prima guerra mondiale e si risolse in un lessico diffuso quanto frainteso solo nei centri di provincia. Peraltro, nella sua azione di recupero storico il neoliberty italiano non s'è limitato al solo riesame dell'Art Nouveau; al centro della sua attenzione non è stata l'opera di Horta, bensì quella di Mackintosh e del primo Wright, ovvero la famiglia geometricomorfologica che accompagnò quella tendenza e con essa sono state rivedute le opere di Dudok e della Scuola di Amsterdam, molte delle quali accantonate dal successo di De Stijl. Inoltre è stato notato che in questo scandaglio disciplinare del neoliberty vi fu più d'una intenzione sociologica. «Per i torinesi, di estrazione prevalentemente cattolica scrive Portoghesi voleva dire tornare a interessarsi dei superstiti valori della borghesia, riconoscere la responsabilità di questa classe nei confronti della trasformazione delle strutture, riproporsi una tematica di adeguamento della nuova composita compagine sociale ai modi di dignitoso autocontrollo della borghesia europea più progressista [...]. Per i milanesi, prevalentemente di formazione marxista, il neoliberty fu un gesto di protesta, una volontà di rispecchiamento di una situazione, giudicata già negativamente, una sorta di ironico ritratto della borghesia italiana, ancora frenata da pregiudizi precapitalistici, che cerca di consumare tutto di un fiato il brodo ristretto di cinquant'anni di esperienze europee» (11"Ibid. Anche a non voler riconoscere tali intenzioni, è certo che il neoliberty pose i problemi di trovare un significato per l'architettura della società
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opulenta; di revocare in dubbio la funzione come l'unico senso dell'architettura; di arricchire il lessico architettonico; soprattutto di considerare il problema della continuità o della crisi del Movimento Moderno, come ebbe a discutere Rogers in un editoriale della rivista «Casabellacontinuità» che in quel tempo richiamò le energie migliori e fu al centro dell'intero dibattito architettonico italiano.
Il nuovo classicismo
Tra i molti eredi del razionalismo quali una «letteratura architettonica» dalla corretta professionalità, la linea Hightech, con la sua tradizione ingegneresca, e tutte quelle espressioni che continuano figure ed opere razionaliste con diversi accenti, talvolta a mo' di remoti revivals (si pensi emblematicamente alla produzione di un Eisenman) vanno annoverate alcune esperienze definibili «nuovo classicismo». Di esse certamente la più importante s'è rivelata quella di Aldo Rossi (19311997)) e della sua scuola, la cosiddetta Tendenza. Nata a cavallo degli anni '60 e '70, tale esperienza può considerarsi la prima manifestazione architettonica della condizione o del sapere postmoderno. Per convincersene basti pensare che alla inflazione dei fattori eteronomi, di natura politica, economica, urbanistica in senso tecnico, e soprattutto ideologica, così pressanti nel dibattito di quegli anni, Rossi oppone l'autonomia dell'architettura, la ricerca dello specifico architettonico, la continuità della disciplina nella unicità del suo corpus dottrinario: «Non ha senso dire che i problemi dell'architettura antica siano diversi dai nostri», «nella storia della città e dell'architettura si può affermare che non esistono rotture» 12 Cit. in E. Bonfanti, Elementi e costruzione. Note sull’architettura di Aldo Rossi, in «Controspazio», n. 10, 1970. Insomma il carattere innovativo delle prime proposizioni di Rossi sta in ciò che esse affermano con decisione cose che da tempo tutti sapevano, ma con l'astuzia di averle dette in un momento in cui molti le avevano dimenticate, donde forse
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quel processo di anamnesi di cui parla Lyotard per motivare la preposizione «post». Ma, se per un verso Rossi si rifà, per così dire, ad alcune datità originarie (beninteso interne alla disciplina) o più semplicemente ad un insieme di attese, che spiega il suo immediato successo ed il suo proselitismo, per altri più inediti aspetti egli sviluppa e supera più d'una concezione dell'architettura moderna, almeno alla data del suo famoso libro L'architettura della città, pubblicato nel 1966. Nonostante i limiti di questo saggio, che risente ancora del giovanile marxismo mal coniugato a uno strutturalismo non utilizzato fino in fondo, malgrado il suo linguaggio un po' ermetico e ripetitivo, nonché alcune sconnessioni che non si ritrovano in altri scritti e soprattutto nella sua opera di architetto, in esso vi sono o sono anticipati quegli apporti inediti cui accennavo sopra: un modo nuovo di considerare la città intesa come un «insieme di pezzi in sé compiuti»; un nuovo rapporto con la storia che, a suo dire, «costituisce il materiale dell'architettura»; nuovi modi di intendere il Movimento Moderno, il binomio formafunzione, la tematica tipologica, ecc.; soprattutto una nuova visione degli aspetti monumentali della città: «Un fatto urbano determinato da una funzione soltanto non è fruibile oltre l'esplicazione di quella funzione. In realtà noi continuiamo a fruire di elementi la cui funzione è andata da tempo perduta; il valore di questi fatti risiede quindi unicamente nella loro forma. La loro forma è intimamente partecipe della forma generale della città, ne è per così dire una invariante; spesso questi fatti sono strettamente legati agli elementi costitutivi, ai fondamenti della città, ed essi si ritrovano nei monumenti». [13 A. Rossi, L’architettura della città, Marsilio Editori, Padova 1966, p. 55]Ma quella teorica è solo una componente dell'opera di Rossi e nemmeno così solida da costituire la rifondazione della disciplina architettonica come qualcuno pretese: il meglio dell'esperienza rossiana sta nella sua attività di architetto, sia nelle opere realizzate, sia in quelle rimaste allo stato di progetto; dunque nelle questioni di linguaggio, del suo inconfondibile stile.
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Rossi sembra aver preso alla lettera la famosa frase di Cézanne per cui «in natura tutto è modellato secondo tre moduli fondamentali: la sfera, il cono e il cilindro. Bisogna imparare a dipingere queste semplicissime figure, poi si potrà fare tutto ciò che si vuole», aggiungendo, quasi a prevenire le successive esegesi quadridimensionali e a fornire un'utile indicazione per gli architetti: «Il tutto messo in prospettiva, in modo che ogni lato di un oggetto, di un piano, sia diretto verso un punto centrale». E in questa chiave si sviluppa il miglior saggio interpretativo del linguaggio rossiano, quello scritto da Ezio Bonfanti nel 1970. Dopo aver notato che il carattere esponente dell'architettura di Rossi sta nel suo essere una composizione di elementi, di un numero ristretto e preordinato di elementi, Bonfanti prova ad elencarli cilindrocolonna, pilastro, setto sottile, muro pieno, aperture limitate per forma e misura, scala esterna, traviponte a sezione triangolare e rettangolare, coperture piane, a cupola, a cono suggerendo anche le regole combinatorie di tali elementi: un procedimento per successione se si considerano gli schemi di pianta e per sovrapposizione e quelli di alzato. Come si vede un gioco tipicamente linguistico: elementi (e talvolta vere e proprie architetture finite, ovvero, per dirla con una terminologia proposta altrove, sottosegni, segni) e regole combinatorie, che consentono di decodificare e descrivere tutte le opere di Rossi: dal monumento alla Resistenza a Cuneo (1962) al ponte per la Triennale (1964), dalla sistemazione della piazza di Segrate (1965) al Municipio di Scandicci (1968), dalle case del quartiere Gallaratese (1970) al cimitero di Modena (1973), dalla scuola a Brioni al Teatro del Mondo, entrambi del '79, e via via fino alle realizzazioni più recenti, dagli edifici per l'IBA di Berlino al fabbricato per uffici «Casa Aurora» di Torino (1983), ecc. Ritornando all'articolo di Bonfanti, è significativo ciò che egli osserva sulla conformazione degli spazi interni: «anche qui si può parlare di parti, di gruppi finiti e dotati di senso e di una precisa funzione: è il caso delle cellule residenziali, che sono vere e proprie citazioni dalla
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manualistica razionalista ed ostentano questo loro carattere di prelievi. Corollario del procedimento additivo spinto fino a questo limite è infatti inversamente la separabilità»[14 E. Bonfanti, op. cit.]. Pertanto l'estrema semplificazione, la massima potenzialità dei messaggi conformativi (Tafuri fornendo un'altra interessante esegesi dell'opera rossiana la legge come «un'arcaica silenziosità»[15M. Tafuri, Storia dell’architettura italiana 19441985, Einaudi, Torino 1986, p. 169], ottenuta con così pochi elementi codificati, il loro carattere «discreto» e non «continuo», il principio del montaggio e smontaggio, la logica stessa che presiede a queste manipolazioni riduttive sono tutti caratteri che consentono di definire lo stile di Rossi «classico», in quanto razionale, tipico, se non archetipico, oggettivo, trasmissibile, didatticamente efficace. Va detto che l'innegabile influenza che tale stile continua ad esercitare nelle scuole di architettura, avrebbe molto guadagnato se fosse stato rielaborato col metodo semioticostrutturale, avendone peraltro tutte le predisposizioni ed ogni requisito. In mancanza di questa operazione, la Tendenza, che è erroneo sottovalutare specie in assenza di un'alternativa teoricamente più fondata, si è assestata su ricerche tipologiche, sui caratteri distributivi degli edifici, sui letterali tentativi di revisione del rapporto fra architettura e città, sugli inconciliabili aspetti di una cultura del progetto e di una cultura del piano; e ciò nei casi migliori, quando non si è perduta dietro la ripetizione dei più facili stilemi rossiani: i colonnati, le finestre quadrate, la rigidità di alcuni schemi compositivi. Così facendo la Tendenza s'è ridotta ad una delle tante «micrologie» della cultura architettonica contemporanea. Il distacco sempre più crescente di Rossi dalla sua scuola non si deve solo al naturale divario che presentano sempre i modelli rispetto alle loro repliche, quanto soprattutto ad altre valenze che consentono ulteriori chiavi interpretative dell'esperienza rossiana. Intanto, come ho avuto occasione di notare più volte, nella genealogia di Aldo Rossi non stanno solo Boullée e gli altri architetti dell'Illuminismo, quanto
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più direttamente quelli del protorazionalismo, da Loos ad Hoffmann, da Tessenow al nostro De Finetti, protagonisti tutti di una corrente che come abbiamo visto nel capitolo ad essa dedicato , vissuta accanto al razionalismo, ha trovato modo di riemergere allorquando quest'ultimo è entrato in crisi; e questa sua continuità o, se si vuole, rinascita, si deve proprio al «nuovo classicismo» e all'opera di Rossi, di Giorgio Grassi e di tutti gli altri architetti che citeremo nel presente paragrafo. Evidentemente non è solo la continuità del protorazionalismo a caratterizzare l'opera di Aldo Rossi, il cui successo si deve ad altri motivi. Come scrive Aymonino: «La produzione architettonica di Aldo Rossi è un punto di riferimento sia critico che operativo, tanto nel quadro della situazione italiana quanto a scala internazionale [...] per la qualità di ciò che produce, l'architettura di Aldo Rossi, si oppone sempre più chiaramente alle mode effimere, al mito del progresso perpetuo e alle tecnologie dominanti [...]. L'architettura nasce da una successione di problemi analoghi e di dimensioni simili nei contesti storici differenti [...]. L'analisi delle tipologie degli edifici e quella delle strutture urbane ne danno la prova; attraverso i loro rapporti reciproci si può dissociare il transitorio dal permanente [...] non si tratta più di una “architettura del silenzio” o di una “architettura della crisi” ma, ironia della storia, di una architettura dell'ottimismo, popolare» [16 C. Aymonino, Une architecture de l’optimisme, in L’Architecture d’aujourdhui, n. 90 1977]. Quando Bonfanti, riferendosi all’opera graficopittorica di Aldo Rossi, coglie la tensione fra rigore logico e fantasia, questo giudizio va riferito alle esperienze degli anni '70; successivamente, per la padronanza del proprio stile e per la stessa sicurezza che gli viene dal successo internazionale, questa tensione si allenta e si sviluppa tutta sul versante della fantasia. Sul versante del rigore logico invece nasce e si mantiene costante il contributo di Giorgio Grassi (1935). Se è una motivazione psicologica, un'«ansia di certezza», a costituire la spinta iniziale della
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sua opera di teorico, di architetto e di docente, essa è tutta risolta nei termini della più rigorosa razionalità. In un passo del suo libro, La costruzione logica della architettura, Grassi, nel descrivere un orientamento più generale databile con l'Illuminismo, sintetizza, a mio avviso, tutta una importante linea di pensiero «Esigenza di certezza, generalità, elementi costanti, norme: tali sono appunto le esigenze teoriche del pensiero deduttivo. Ad esse corrispondono: conoscenza ordinata, classificazione, manualistica, trattatistica. Ed è anche evidente che in questo atteggiamento razionalistico, proprio per quella caratteristica “limitazione” che esso esibisce sul piano metodico di fronte ad una ipotetica possibilità di cogliere la realtà in tutta la sua complessità, ha coinciso il più delle volte con un determinato tipo di classicismo» [17 G. Grassi, La costruzione logica dell’architettura,. Marsilio. Padova 1967,p. 23 Ora, proprio a quella «limitazione» si deve l'idea dell'autonomia dell'architettura nutrita e professata da Grassi in maniera più rigorosa ed ortodossa dello stesso Rossi. Infatti, se in quest'ultimo alcune forme archetipe assumono dapprima una valenza metafisica e successivamente il contrassegno di uno stile individuale, gli elementi primari di Grassi, quali il portico, le bucature nei muri, i cortili allungati, la pura stereometria, gli assi di simmetria, ecc. mirano ad essere impersonali, ad abolire ogni proposito rappresentativo, ogni tipo di rimando referenziale ed ogni simbolismo per affermare la loro più assoluta aseità, sia in quanto parti, sia nelle regole combinatorie che reiteratamente le articolano; a costo di cadere in una tautologia Grassi afferma: «l'architettura sono le architetture, tutte, quelle realizzate e quelle ideate, e poi i principi, le teorie, tutto questo è l'architettura»18G. Grassi, Il rapporto analisi progetto, in AA:VV: L’analisi urbana e la progettazione architettonica, CLUP, Milano 1970, p.71]30. Ma, la di là della tanto conclamata relazione fra tipologia edilizia e morfologia urbana, che costituì il centrale nodo teoricodidattico della Tendenza, evidentemente questa stessa riduzione alla più rigorosa oggettività «degenera» inevitabilmente in
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un personalissimo stile; questo classicismo, spinto al punto da concepire fabbriche così chiuse nella propria logica da apparire indifferenti al luogo in cui sorgono, non riesce ad impedire delle scelte, talvolta minimali, ma tanto più significative quanto più discrete: l'articolazione delle pareti in pilastri, superfici piene e quadrate bucature, l'accento posto sui corpi di fabbrica allungati, sul loro esasperato parallelismo, sulla loro disposizione a pettine, sulla iterazione dei montanti che contribuisce alla dinamicità di un'architettura apparentemente così immobile. «Parente ricco», per le sue molteplici realizzazioni, del nuovo classicismo è il ticinese Mario Botta (1943), impegnato in ogni settore dell'attività professionale, dall'urbanistica alla ristrutturazione di nuclei urbani, dall'architettura privata a quella pubblica, dagli allestimenti al design fino alla partecipazione ai grandi concorsi internazionali che lo ha inserito meritatamente nello star system. Dal punto di vista linguistico, Botta è riuscito a tenere insieme le lezioni di Le Corbusier, di Asplund, di Kahn e di Venturi, traducendole in un personalissimo stile non immune da rivisitazioni protorazionaliste, che anche nel suo caso costituiscono una chiave di lettura e ciò che lo accumuna ai Rossi, Grassi e a quant'altri incarnano la versione più attuale del classicismo. Nella monografia dell'architetto svizzero curata da Francesco Dal Co, un saggio di Mirko Zardini individua quattro temi ricorrenti nello stile di Botta: il luogo, che viene esemplificato con le case unifamiliari, con gli interventi urbani, con gli edifici cittadini (la banca di Friburgo, 1982, l'edificio Ransila I a Lugano, 1985); il muro, che si configura come un solido involucro articolato da un consumato impiego di materiali, spesso anche pregevoli; le aperture, che solitamente si identificano con personalissimi «tagli» anche nel corpo volumetrico; la luce, che ispira non solo i tagli suddetti ma i vari sistemi di copertura in ferro e vetro. Per parte nostra, il meglio dell'opera di Botta è da vedere nelle sue case unifamiliari: quella a Riva San Vitale (1973), a Pregassona (1980), a Viganello (1981), a Stabio (1982), ecc.
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In esse, tranne la prima che risente ancora del gusto neoplastico, lo schema è quello di un impianto centrale simmetrico, tagliato al centro della fronte principale da un motivo particolare un taglio verticale, circolare, gradonato, ecc. che trova una corrispondenza con la copertura dell'edificio. Per questo e altro, tali edifici, tendenzialmente chiusi a mo' di fortino o di torrette di guardia, lasciano sempre intuire e/o intravedere il loro spazio interno, realizzando quella dialettica fra involucro e invaso alla quale abbiamo dedicato più d'uno studio di teoria semiotica. L'architetturasegno delle case unifamiliari o comunque di piccola scala è, a nostro avviso, da preferire ai fabbricati cittadini e agli altri interventi di maggiore dimensione, perché in quest'ultimi si perde la maggiore valenza dello stile di Botta: il suo conformare degli edificioggetto, classici nel loro rigore minuto, nella preziosità del disegno e della natura dei materiali, chiusi come scrigni, definiti come «mobili» o sculture a tutto tondo. Evidentemente queste caratteristiche si attenuano nella scala urbana, dove l'edificiooggetto può essere soltanto iterato, o si dissolvono quasi totalmente in vista di altre circostanze che non consentono le assialità e le simmetrie di un classicismo rivissuto così modernamente. Storia e progettazione. Nel proporre d'inquadrare l'architettura contemporanea in un codice stile virtuale che contesta il presente e si avvale di una componente storica accanto ad una utopica, ci siamo finora occupati del recupero storico operato da alcune tendenze o sottocodici nazionali. Nel presente paragrafo intendiamo raccogliere, sempre relativamente alla componente «storia», alcune opere ed esperienze che si rifanno in vario modo alla storia indipendentemente, fin dove è possibile, dal loro costituirsi in correnti nazionali. In altri termini, vogliamo studiare le varie manifestazioni dello storicismo internazionale, assumendo l'intera componente «storia» del nostro modello come se fosse un'autonoma e grande tendenza.
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Che la ricerca architettonica più recente nutra un notevole interesse per la storia e che uno dei suoi temi centrali sia il rapporto storia progettazione risultano con notevole evidenza. Com'è stato osservato, «Il libro di storia dell'architettura accanto al tecnigrafo sul tavolo da disegno non è soltanto una brillante immagine inventata dalla critica per raffigurare la condizione presente, ma è una preciso riferimento ad una nuova dimensione della cultura, intervenuta con maggiore convinzione in questi anni ad illuminare il campo della ricerca progettuale » [(19) C. Dardi, op.cit.,p.28] Tuttavia, a differenza di altre epoche in cui il ricorso al passato avveniva in modo unitario, perché condiviso da tutti e perché si revocava in dubbio l'intero codice allora in atto, attualmente, benché si rifiuti la banausia della dimensione del presente, manca sia quell'unitario consenso verso il passato (rimanendo pur sempre questo un'operazione di vertice, di élite), sia la volontà di rifiutare totalmente il codice del Movimento Moderno. Ed è questa una caratteristica invariante dello storicismo contemporaneo: esso tende ad infrangere in più punti tale codice, ad arricchirlo con valenze di modelli più antichi, ma al tempo stesso vuole un linguaggio che si svolga in continuità con esso. Nel proporre d'inquadrare l'architettura contemporanea in un codice stile virtuale che contesta il presente e si avvale di una componente storica accanto ad una utopica, ci siamo finora occupati del recupero storico operato da alcune tendenze o sottocodici nazionali. Nel presente paragrafo intendiamo raccogliere, sempre relativamente alla componente «storia», alcune opere ed esperienze che si rifanno in vario modo alla storia indipendentemente, fin dove è possibile, dal loro costituirsi in correnti nazionali. In altri termini, vogliamo studiare le varie manifestazioni dello storicismo internazionale, assumendo l'intera componente «storia» del nostro modello come se fosse un'autonoma e grande tendenza. Che la ricerca architettonica più recente nutra un notevole interesse per la storia e che uno dei suoi temi centrali sia il rapporto storia
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progettazione risultano con notevole evidenza. Com'è stato osservato, «Il libro di storia dell'architettura accanto al tecnigrafo sul tavolo da disegno non è soltanto una brillante immagine inventata dalla critica[NOTA]per raffigurare la condizione presente, ma è una preciso riferimento ad una nuova dimensione della cultura, intervenuta con maggiore convinzione in questi anni ad illuminare il campo della ricerca progettuale» .[20 Ivi, p.94] Tuttavia, a differenza di altre epoche in cui il ricorso al passato avveniva in modo unitario, perché condiviso da tutti e perché si revocava in dubbio l'intero codice allora in atto, attualmente, benché si rifiuti la banausia della dimensione del presente, manca sia quell'unitario consenso verso il passato (rimanendo pur sempre questo un'operazione di vertice, di élite), sia la volontà di rifiutare totalmente il codice del Movimento Moderno. Ed è questa una caratteristica invariante dello storicismo contemporaneo: esso tende ad infrangere in più punti tale codice, ad arricchirlo con valenze di modelli più antichi, ma al tempo stesso vuole un linguaggio che si svolga in continuità con esso. In tal senso sarebbe forse più corretto parlare di un Manierismo simile a quello instauratosi nel tardo Rinascimento. In quanto operazione di vertice, in gran parte estranea alla «massa parlante», lo storicismo internazionale contemporaneo, a parte l'invariante suddetta, non si presenta in maniera univoca; cosicché studiare, sia pure per grandi linee, detto fenomeno, equivale ad individuare e classificare quanti tipi di riferimento alla storia vanno effettuando attualmente gli architetti. Il primo e più diffuso ricorso alla storia è quello che ricerca nell'ambito stesso del Movimento Moderno, della «tradizione del nuovo» (così da soddisfare in un certo senso quell'istanza di continuità di cui s'è detto sopra), riprendendo, come abbiamo già avuto modo d'osservare a proposito del neoliberty, tendenze, lessici ed elementi rimasti subordinati al successo del razionalismo. Sembrano così ridestati da nuovo interesse tutti quegli orientamenti architettonici che precedettero quel codicestile quali appunto l'architettura degli
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ingegneri, l'Art Nouveau, il protorazionalismo, la scuola di Amsterdam, il Novecento, ecc. Quanto al neoespressionismo esso è solo parzialmente una ripresa, infatti opere quali il nucleo residenziale Romeo e Giulietta, realizzato a Stoccarda tra il '54 ed il '59 o la Philharmonie berlinese (1963) di Scharoun non rappresentano tanto un ritorno all'espressionismo storico, quanto una sua evoluzione rimasta ininterrotta. Ancora quale recupero della «tradizione del nuovo», in questo caso dell'avanguardia storica, si riprendono da più parti motivi neoplastici, futuristi e soprattutto del costruttivismo russo, valga per tutti il caso della Facoltà d'Ingegneria a Leicester del '63 di Stirling e Gowan, che manifesta chiaramente, tra gli altri, i suoi legami col Club dei lavoratori dei trasporti, realizzato nel '28 a Mosca da K. S. Melnikov. Del resto gli stessi maestri del Movimento Moderno hanno, nelle opere realizzate in questo dopoguerra, ripreso caratteri già presenti nelle loro fabbriche e nelle relative correnti del gusto degli anni Venti. Così Le Corbusier con la Cappella NotreDame du Haut a Ronchamp (19501955) realizza sì una delle opere più inedite e paradigmatiche del nostro tempo, ma al tempo stesso una conformazione plastica di netta marca purista. Lo stesso architetto ripropone motivi «mediterranei» nella Casa Jaoul a Neuilly del '54 e meccanicopuristi nel Centro delle arti visuali a Cambridge del '61. Né è stato alieno Le Corbusier al senso della storia come tradizione di un ambiente locale e ce ne fornisce una prova con le opere di Chandigarh, la nuova capitale del Punjab. Ancor più « storicistiche » sono alcune opere dell'ultimo Wright: pensiamo al «protorazionalista» Masieri Memorial di Venezia del '53, alla Price Tower dello stesso anno, così legata, come s'è detto, anche nel gusto della plastica minore ad un analogo progetto, quello per la St. Mark's Tower del 1929, all'espressionismoliberty della sinagoga Beth Sholom realizzata a Philadelphia nel '59. E questi «ritorni» dei maestri non sono affatto dovuti ad una sorta di stanchezza creativa, quanto al desiderio di riprendere un dialogo col loro passato, con la loro storia, per sviluppare nuove tematiche linguistiche. Così Le Corbusier con il
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convento de La Tourette, costruito a Eveux sur l'Arbresle presso Lione nel 1957, rivede la sua metodologia progettuale nel senso della «storia». L'edificio infatti risulta planimetricamente più unitario e bloccato delle sue opere prebelliche, nasce da un più intimo legame con l'ambiente naturale circostante e riprende persino il modello distributivo di un altro convento domenicano. Ciononostante, anzi forse per alcune di queste valenze l'unità della pianta quale revisione della pianta libera la fabbrica de La Tourette diventa il paradigma di molte opere successive, dalla Boston City Hall di Kallmann, Mckinnell e Knowles all'Università Gakushuin di Maekawa, dal famoso Art and Architecture Building dell'Università di Yale, costruito da Paul Rudolph nel '63 all'edificio per la Ford Foundation a New York, progettato da Kevin Roche. Ed è proprio, ripetiamo, per questo ripensamento di precedenti schemi (oltre ai valori di pianta, un rinnovato interesse per i motivi delle facciate) che il convento corbusiano è diventato modello di queste ed altre costruzioni più recenti. Un'altra forma di storicismo è quella degli architetti che si rifanno ad un passato architettonico più remoto. Qui evidentemente l'intenzione è di revocare in dubbio gli stessi esiti del Movimento Moderno, mai tuttavia negandone il codice e la continuità con esso. Così Eero Saarinen nei Dormitori della Yale University del '60 ripensa all'ambiente di un borgo medievale, al neoromanico nella Cappella dell'MIT, al neogeorgiano nell'ambasciata USA a Londra; così il gruppo BBPR con la Torre Velasca a Milano, costruita nel 1958, ripropone lo schema del palazzo di città medievale e realizza il primo edificio italiano contemporaneo con intenti storicistici. Louis Kahn, il caposcuola dello storicismo contemporaneo in ogni sua forma, ripensa alle torri di San Gimignano nei Richards Laboratories del '57'61, a Carcassonne per il progetto del centro di Philadelphia, alle piante del Castello di Coomlogan nel Dumphriesshire per i dormitori del Bryn Mawr College in Pennsylvania, alla Roma di Adriano nell'istituto Jonas Salk del '59, negli studi per la ristruttrazione della Market Street
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East del '62 e negli edifici di Dacca nel Pakistan. Per altre opere, quali il progetto per la sinagoga Adath Jeshurum, la Trenton BathHouse, la chiesa unitanana di Rochester, le sale dei ricercatori dell'istituto Salk, l'edificio per la Tribune Review a Greensburg, ecc. Kahn sembra esplicitamente rifarsi agli architetti dell'Illuminismo, Boullée e Ledoux (21)Cfr. M. Angrisani, Louis Kahn e la storia, « Edilizia moderna », ottobre 1965, n. 86. Ancora una forma di storicismo dell'architettura contemporanea è quella che, in vari modi, riprende il latente filone classicistico, peraltro costantemente associato alla componente razionale dell'architettura, salvo che nelle fasi in cui in essa ha avuto un maggior peso l'influsso dell'avanguardia. Classicistico è Asplund già nel Crematorio del cimitero sud a Stoccolma del lontano 1935; è Mies van der Rohe nella Crown Hall dell'I.T.T. del 1956, nella Galleria d'arte sulla Potsdamerstrasse di Berlino del '68, nel progetto per la Convention Hall a Chicago e forse nello stesso Seagram Building di New York; Walter Gropius in una delle sue ultime opere più felici, l'Ambasciata USA ad Atene del 1961; Arne Jacobsen nel grattacielo della Sas a Copenaghen del '61; Philip Johnson in quasi tutte le sue opere; Kevin Roche nei Knights of Columbus Hall a New Haven; Louis Kahn in molte delle sue fabbriche, ma con un accento tutto particolare; come pure sui è il classicismo citato di Aldo Rossi e Giorgio Grassi. Nell'ambito stesso del classicismo, più per ragioni statico morfologiche e di assemblaggio modulare che per intenzione architettonica, vanno altresì annoverate le opere dei grandi strutturisti da Nervi a Torroja e, con altre implicazioni, da Wachsmann a Fuller. Ma al di là dei tipi di storicismo sopra considerati, la ricerca progettuale contemporanea non tende al recupero di intere «espressioni» da alcuni stili del passato, bensì a riprendere dal codice della storia isolati principi compositivi, motivi morfologici ed usi sintattici a suo tempo trascurati dal Movimento Moderno. In altre parole, non sono i messaggi espressi da quelle remote fabbriche che oggi interessano, quanto gli strumenti, le regole, le strutture che
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consentirono la loro realizzazione. Ritorna così l'uso delle piante bloccate, aventi già al livello di disegno una loro figurazione, delle unità monolitiche, di una articolazione tutta interna ai sistemi e non più necessariamente evidenziata, della simmetria, che variando di significazione da un contesto ad un altro, potrebbe, al pari della prospettiva, annoverarsi tra le «forme simboliche» ecc. È in quest'ambito che viene rivalutata essendo sempre Louis Kahn il maggiore esponente – la didattica architettonica derivata dall 'Ecole des BeauxArts. A tal proposito Scully scrive:«In un senso formale, simbolico e sociologico il BeauxArts certamente fu un fallimento fin dai primi anni del XX secolo, e fino agli anni '20 dell'America. Tuttavia le ricerche del Banham, e quelle, più recenti, dello Stern, ci costringono a riconoscere che la tenace solidità di molte teorie accademiche che vi facevano capo, distillate dai messaggi di Viollet leDuc e d'altri ad opera dello Choisy, del Guadet e del Moore, “tiene” ancora. Questo impianto teorico insisteva su di un'architettura muraria fatta di masse corporee e pesanti, ove spazi chiaramente definiti e ordinati prendono forma e caratterizzazione attraverso la solidità degli stessi elementi strutturali [...] Kahn apprese pure, alla maniera Beaux Arts, a considerare gli edifici del passato come amici, piuttosto che nemici; amici da cui ci si aspettava, e forse più per intima comunione che per vera comprensione, di ricevere generosamente dei prestiti (22).V. Scully, Louis I. Kahn, Il Saggiatore, Milano 1963, p. 12. È stato anche osservato che tutto il movimento derivante dalla lezione di Kahn consiste nel « recupero metastorico degli elementi linguistici e sintattici che la tradizione del classicismo ha consacrato lungo l'arco di sviluppo della cultura mercantile e borghese in Occidente, come materiali assoluti, dati preformati dotati di esistenza propria o comunque antecedenti alla loro organizzazione in sistema architettonico» (23 C.15 Dardi, op. cit., p. 24. Cosicché, come dicevamo, non si cercano nella storia tipi di messaggi, di conformazioni già realizzate da ripetere ecletticamente, bensì appunto materiali preformati come elementi d'un sistema riutilizzabili in un
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altro, quello della lingua architettonica oggi in atto. Donde la legittimità di definire «citazioni» questi fattori che tolti dall'originario contesto acquistano un significato affatto nuovo in quello delle nuove conformazioni architettoniche; certo, non sempre, ma assai spesso. Tuttavia più che queste antiche forme disponibili al «trasferimento» si ammira nella storia e segnatamente nella sua metastorica vena classicistica l'esistenza di un codice e con essa la possibilità di ordinare, classificare e trasmettere fattori, norme e deroghe di tale codice; una logica vita interna del linguaggio architettonico che sembrava letteralmente smentita dal Movimento Moderno, il quale non ha voluto o saputo intendere i termini dei codici passati. Insomma si vuole , accanto alla ragione che regola la prassi architettonica, una ragione che ne sostenga la teoria e la sua autonoma struttura. Nel caso migliore queste due istanze si fondono per tradursi in una critica fatta d'azione: « Lo storicismo della scuola kahniana è un richiamo al mito europeo della Ragione: a tale stregua è un fenomeno di opposizione alla tradizione pragmatistica americana, ormai in bilico fra un'irrazionalità fieristica e un colpevole cinismo» (24 M. Tafuri, Razionalismo critico e nuovo utopismo, «Casabellacontinuità », novembre 1964, n. 293. In definitiva ciò che riscatta, al di là dei risultati, tutta l'operazione storicistica contemporanea che tende a tenere in vita, talvolta al limite appunto dell'utopia, presente e passato, è l'intenzione di risemantizzare la produzione architettonica nuova rifacendosi ai due principali parametri del Movimento Moderno e della storia, rispettivamente le ragioni funzionali in senso lato e la dimensione della memoria. La poetica della grande dimensione. Assunte la storia e l'utopia come le componenti d'un codice virtuale per l'architettura dei nostri giorni, ci occuperemo ora della seconda di tali componenti. In particolare, poiché il termine «utopia» presenta molteplici valenze semantiche, investendo significati che talvolta esulano dal campo architettonicourbanistico, volendo subito indicare
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di quale utopia intendiamo occuparci, abbiamo preferito identificarla con una tendenza storicamente riconosciuta e riguardante una ricerca in atto, cioè la cosiddetta poetica della grande dimensione. Sorta tra gli anni '50 e '60 questa propone una progettazione a livello intermedio fra architettura e urbanistica, per cui si parla di macrostruttura, di grande scala, di towndesign, ecc. Essa coincide sociologicamente con l'avvenuta ricostruzione bellica, con l'inizio della grande produzione di massa e, legandosi allo sviluppo delle attività terziarie, che hanno ingigantito le moderne metropoli, è frutto della cultura di massa. Come questa ha revocato in dubbio l'ideologia del Movimento Moderno e molte delle stesse ideologie politiche, rifiuta la metodologia razionalista dello zoning, trascura l'elemento architettonico a scala tradizionale mentre privilegia il dato tecnologico, i problemi del grande numero, il richiamo a nuovi simboli e miti, per cui in un nostro precedente studio parlammo di architettura come massmedium. Pioniere della poetica macrostrutturale è ancora una volta Le Corbusier con tutte le sue proposte che stanno appunto ad un livello dimensionale intermedio fra architettura e urbanistica, si pensi aIl'ImmeubleVilla, alla stessa unità di abitazione di Marsiglia, ad alcuni aspetti dei suoi progetti urbanistici come il viadotto «abitato» del Piano di Algeri e agli stessi elementi morfologici della sua architettura pensati anche in funzione urbanistica: ci riferiamo in particolare all'uso dei pilotis. Non a caso le proposte più significative della tendenza in esame ci vengono dal più dotato architetto di derivazione corbusiana, il giapponese Kenzo Tange. Altri due precursori di tale tendenza, appartenenti anch'essi alla generazione dei maestri, sono Konrad Wachsmann e R. Buckminster Fuller. Il primo, che in collaborazione con Gropius ha legato il suo nome a studi e ricerche sulla normalizzazione e composizione di elementi prefabbricati, successivamente si è totalmente impegnato nel campo delle grandi strutture, basate su due elementi principali: l'asta ed il giunto. Come si ricava dalle stesse dichiarazioni di questo
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architettotecnologo, «lo studio di tali giunti [...] costituisce oggi l'essenza stessa del segreto dell'arte edilizia [...] un ordinamento continuo, partendo dagli elementi basilari che origineranno i giunti, che origineranno superfici e strutture, che origineranno gli edifici, che origineranno strade e piazze o parchi, che origineranno i complessi urbani, che origineranno il panorama futuro del mondo civile» [25 K. Wachsmann, Concetti di architettura, conferenza tenuta il aprile 1956 al Circolo Artistico di Roma, cit. in Benevolo, Storia dell'archietttura moderna, p. 714]. Come si vede qui il problema della grande dimensione e la concomitante intenzione utopica non nascono da una visione globale ed architettonica delle macrostrutture, che troveremo nelle pagine seguenti, bensì da un processo puramente addizionale, del tutto simile a quello dei razionalisti fra le due guerre, ma di esso assai più povero perché meramente tecnologico. Più radicale e complesso risulta il contributo di R. B. Fuller. Questi giudica formalistiche tutte le ricerche dei razionalisti degli anni Venti, in quanto egli nello stesso periodo si occupava di tradurre fedelmente i processi di lavorazione industriale in edilizia nulla concedendo alla componente estetica. Nel '27 realizzò una « macchina per abitare » denominata Dymaxion house (dinamismo+massimo di efficienza) che costituisce nella concezione e persino nella forma il prototipo a scala edilizia di molte recenti macrostrutture. Dopo aver studiato alcune parti prefabbricate dell'alloggio, il blocco bagno, il blocco cucina e numerose altre innovazioni tecnologiche, e realizzato nel '46 la Casa Wichita, utilizzando le linee di montaggio dell'industria aereonautica, Fuller elabora nel dopoguerra le cupole geodesiche. Studiando la rappresentazione cartografica della terra, la struttura dei metalli costituita da tetraedri e osservando che la cupola è una conformazione che racchiude il massimo spazio con il minimo di superficie d'involucro, egli conforma tali cupole con un reticolo involucrante a maglia tetraedrica. Questo prototipo sarà realizzato in plastica, in metallo e addirittura in cartone, mostrando sempre un elevato grado di resistenza. Gli impieghi delle cupole geodesiche sono stati molteplici,
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dalla copertura di qualche locale pubblico al Padiglione USA alla Expo di Montreal, dalle centrali per la basi artiche della marina militare al progetto di ricoprire tutta Manhattan, assicurandole peraltro una costante condizione climatica. Con tale progetto R. B. Fuller rientra a tutti gli effetti nel novero dei progettisti operanti nel campo macrostrutturale, sebbene tutta la sua lunga ricerca lo rende il maggior precursore della contemporanea utopia tecnologica. A questi architettitecnologi va accostato l’ingegnere Frei Otto, autore delle coperture a vela in tensione (le più famose sono quelle apparse alla Esposizione di Montreal e al villaggio olimpico di Monaco) e ricercatore tra i più promettenti sul piano internazionale in questo settore. Quanto alla influenza di R. B. Fuller sulla poetica della nuova dimensione, essa si manifesta nell'opera di Louis Kahn, anzi è alla base della componente utopica di questo singolare architetto che sembra incarnare entrambi gli aspetti del nostro codice virtuale. È assai probabile che a rendere Kahn l’architetto più significativo del periodo in esame sia stata proprio la sintesi da lui operata fra storia e utopia. L'influsso di Fuller su Kahn si manifesta nei solai della Art Gallery dell'Università di Yale che appaiono come una intelaiatura tridimensionale in calcestruzzo costituita da elementi cavi tetraedrici. Alla stessa linea morfologica s'ispira in ogni sua parte la torre per il nuovo centro di Philadelphia, un edificio che con il relativo contesto si colloca a suo modo tra i primi esempi della poetica macrostrutturale. Queste invece sono le caratteristiche esponenti dell'opera di Kenzo Tange Dopo una serie di fabbriche nella linea linguistica di Le Corbusier, Tange approda alla poetica della grande dimensione con un progetto redatto in collaborazione con un gruppo di studenti del MIT nel 1959, che prevedeva l'espansione di Boston sulla baia con un nucleo residenziale per 25.000 abitanti. Esso consiste in due macrostrutture che si articolano fra loro formando un vasto spazio centrale variamente organizzato; ciascuna di queste presenta in sezione dei grandi cavalletti triangolari di cemento armato sostenenti
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sul loro lato interno le piattaforme per le strade che scorrono a vari livelli e sul lato esterno altre piattaforme che sostengono le case, la cui dimensione e consistenza architettonica è del tutto trascurabile rispetto alla grande struttura portante, donde la loro trasformazione, asportazione, ecc. senza mutare l'equilibrio del sistema. Alla base dei portali triangolari è disposta la rete di circolazione principale che, a tre livelli, prevede la metropolitana, un'autostrada e una monorotaia. Nel '60, anticipato dalle proposte del gruppo Metabolism, anch'esso operante nell'ambito della poetica della grande dimensione e mirante a prefigurare strutture tanto mobili quanto le trasformazioni socio economiche e affidate alle più avanzate possibilità della tecnologia, un gruppo guidato da Kenzo Tange redige il piano di Tokio. Nell'intero organismo, che in prima approssimazione può assimilarsi ad un immenso ponte sospeso sulla baia, le macrostrutture a funzione architettonica sono concepite secondo un sistema che Tange definisce «midollare». I midolli sono dei pilotis ingigantiti che, oltre ad assolvere alla funzione statica, contengono ascensori, condutture ed impianti. Disposti secondo un reticolo planimetrico di quadrati aventi per lato circa 200 metri, detti midolli costituiscono un sistema sostenente in direzioni fra loro ortogonali edifici da dieci a venti piani. A loro volta questi, per superare le ampie luci da un sostegno all'altro, sono costituiti da ampie pareti che traducono le facciate in enormi travi reticolari antisismiche. Oltre all'evidente carica utopica di questi grandi organismi, non possiamo ignorarne un'altra, per così dire storica; il sistema midollare infatti con tutte le sue possibilità tecnologiche in fondo non esce dalla logica del sistema trilitico. Per questo ed altro il disegno di Arata Isozaki, uno dei collaboratori di Tange per il Piano di Tokio, che con un fotomontaggio sostituisce della macrostruttura sopra descritta parte dei midolli con colonne doriche, è il più emblematico del proposto codice virtuale composto di storia e utopia. Tra gli altri progettisti impegnati nella poetica della grande dimensione emerge la figura del polacco Jan LubiczNycz, che
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s'impose all'interesse internazionale con il progetto per il concorso della sistemazione dell'area fra TelAviv e Giaffa del 1963. Già i suoi precedenti progetti, quello del Golden Gateway per San Francisco del 1960, quello del Diamond Heights per la stessa città del '61 e quello per il concorso Ruberoid del '62, preannunciano l'intenzione di conformare dei grandi «contenitori», macrostrutture polifunzionali che intendono incidere con la loro forma architettonica particolare sulla scena urbana, rappresentando di questa alcuni punti fissi di riferimento. Per il concorso israeliano LubiczNycz, in collaborazione con Donald P. Reay, propone dei monumentali grattacieli a forma di cucchiaio; nella concavità di questi supporti trovano posto, digradando ed espandendosi fino alla base volumi architettonici di scala tradizionale destinati a funzioni commerciali, rappresentative e residenziali. L'idea programmatica è così esposta nella relazione che accompagna il progetto: «Le città dovranno diventare raggruppamenti di vasti contenitori piuttosto che agglomerati di singoli edifici. I contenitori dovranno essere assai ampi dando vita a forme aventi fini multipli, che abbracciano tutte le attività. Tali contenitori andranno sviluppandosi secondo linee strutturali stabilite schematicamente fino a quando si raggiungerà la maturità» [29 Cit. in M. Tafuri, Razionalismo critico e nuovo utopismo, in «Casabellacontinuità », novembre 1964, n. 293. Alla proposta dei contenitoricucchiaio segue quella che LubiczNvcz presenta al concorso per il Kursaal di San Sebastian in Spagna. Qui i contenitori assumono la forma di due enormi corna dentate con le punte rivolte verso l'alto che nella loro volumetria, nonché nei più regolari volumi a pianterreno, contengono appartamenti, un albergo, un auditorium, servizi sportivi e ricreativi, un grande parcheggio, ecc. In sostanza i contenitori polifunzionali di LubiczNycz, oltre a focalizzare l'interesse del towndesign in pochi punti fortemente contrassegnati, tendono anche a distruggere tutta una tipologia edilizia tradizionale con case, scuole, ecc. inglobandola nella prevista macrostruttura che richiede, inclusiva com'è, il massimo dell'impegno
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figurativo. Ma nonostante la chiarezza del programma riduzione di agglomerati edilizi a strutture più efficienti di quelli e contrassegnanti meglio la scena urbana le proposte dell'architetto polacco rimangono sempre ad un livello architettonico, non raggiungono mai quella dimensione intermedia, in quanto il problema urbanistico è chiamato in causa soprattutto come sfondo, come scena visiva. Di opposto orientamento, quasi del tutto indifferente al problema della forma è la proposta avanzata da Yona Friedman. Questi muove da considerazioni generali quali il crescente aumento demografico della popolazione mondiale; la necessità di urbanizzare le attuali aree disabitate, modificandone l'habitat con opportune tecniche di climatizzazione; le altre difficoltà relative all'assegnazione ad ogni uomo di un alloggio, ecc. Rispetto a questo quadro di riferimento, Friedman scrive: « Lo scienziato di domani troverà una soluzione che semplificherà [...] la vita dell'uomo di domani, ma qualsiasi sia questa soluzione è chiaro che l'architetto sarà eliminato e che nell'urbanistica dell'avvenire egli non avrà più posto. Il solo compito che gli resta attualmente è di sviluppare le tecniche interinali di costruzione, che serviranno da ponte fra le costruzioni classiche (che sono immobili, e che “lasciano delle tracce”) ed i sistemi del futuro, tendenti alle scienze astratte. Il ruolo di questi tecnici interinali sarà di moltiplicare la superficie utilizzabile per l'abitazione e l'architettura in funzione della crescita demografica. Questa è la ragion d'essere dell'architettura mobile» [30 Y. Friedman. Teoria generale della mobilità, «Casabella», giugno 1966, n. 306]. E tale è il nome che Friedman dà alla sua proposta, dove l'aggettivo «mobile» denota la duttilità dell'architettura nel seguire le trasformazioni strutturali della società. In pratica, La città spaziale o l'insediamento tridimensionale di Friedman si compone di una struttura uniforme e continua, ovvero di una griglia tridimensionale a vari piani sospesa dal suolo almeno di 15 metri e sostenuta da una maglia di pilastri distanziati da 40 a 60 metri. Lo spazio al di sotto della griglia è riservato al verde della campagna o alla conservazione della città preesistente, quello interno alla griglia è
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previsto per gli elementi, liberamente disposti della città spaziale, unità iesidenziali, uffici, edifici pubblici, ecc., mentre il tetto della griglia è adibito per le strade e per gli impianti speciali. La continuità della struttura a griglia consentirebbe anche di risolvere il problema della climatizzazione della nuova città spaziale. Se nella proposta di Friedman prevale la dimensione orizzontale, in quella di Paul Maymont prevale quella opposta, tanto che questi parla di città verticale; entrambe aventi in comune la possibilità di sorgere sollevate dal suolo e di sovrastare preesistenti nuclei urbani. Il progetto di Maymont (1963), fortemente influenzato dalla Dymaxion house di Fuller, è puramente tecnologico: un immenso pilone centrale si leva dal suolo portando in cima un certo numero di cavi che vengono fissati ad una base, ciascuno formando una linea curva dipendente dal proprio peso; l'insieme di questi cavi ad andamento ascensionale viene preteso per mezzo di un'altra serie di cavi concentrici. In una tale struttura vengono poi ad organizzarsi elementi e volumi architettonici fino a formare intere città grazie anche al collegamento di ciascuno di questi iperboloidi con altri simili. Potremmo continuare a lungo nell'elenco di tali proposte, dall'organica Mesa City di Paolo Soleri alle Torri elicoidali di Kurokawa, dalla città verticale di St. Florian alla Ville cóne di W. Jonas, dalla città cibernetica di N Schöffer alle macrostrutture di L. Ricci fino agli assemblaggi di case in plastica, ovvero ad elementi gonfiabili come quelle del gruppo Utopie, ecc., ma, oltre che ripeterci, ci troveremmo talvolta fuori dalla poetica della grande dimensione. Mette conto piuttosto esaminare più a lungo due fenomeni che la svilppano e in pari tempo ne segnano la crisi. Ci riferiamo all'habitat dell'Expo di Montreal del '67 e alle manifestazioni del gruppo inglese Archigram di cui diremo più avamti È stato osservato che uno dei fattori invarianti della poetica in esame è l'indifferenza per la dimensione architettonica al costituirsi di immagini urbane date appunto dalle macrostrutture o dai contenitori.
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Infatti, spostando l'interesse progettuale dalla tradizionale scala architettonica a quella del towndesign, l'elemento architettonico singolo, che rimane necessariamente invariato nella sua scala umana, perde di valore. Emblematico in tal senso è il disegno di Le Corbusier, che nella grande struttura del viadotto del Piano di Algeri presenta un alloggio addirittura in stile moresco. LE OPERE DEL CODICE VIRTUALE L'Unité d'babitation Che la fabbrica di Marsiglia sia emblematica di tutta l'opera di Le Corbusier e con essa di quasi tutta la problematica del Movimento Moderno è indubitabile. Come pure, per il suo carattere eccezionale e per il suo porsi come modello di successive realizzazioni, essa è al tempo stesso indubbiamente paradigmatica. Ed ancora ricco di significato è il fatto che l'Unité d'babitation, frutto di tutta una serie di decennali esperienze progettuali, fu concepita prima della guerra e realizzata quasi subito dopo, aprendo così la fase più recente della contemporanea storia dell'architettura. Volendo fornire un'analitica raccolta di dati, sia pure più rilevanti, dell'edificio, dovremmo descrivere la sua struttura portante principale in cemento armato che si eleva su una vasta piattaforma, definita dall'autore sol artificiel, tanto alta da contenere gli impianti ispezionabili e poggiante su diciassette coppie di pilotis sagomati plasticamente e cavi per alloggiare le canalizzazioni; dovremmo inoltre distinguere e raggruppare i 23 differenti tipi di alloggi formanti il totale di 337 appartamenti; esaminare il settimo ed ottavo piano, occupati per oltre la metà della superficie dai servizi collettivi, dalla galerie marchande coi negozi di prima necessità e, per l'area rimanente, da un albergo per ospiti ed altri alloggi aperti sulla testata a sud; parlare delle attrezzature disposte sul tettogiardino (l'asilonido, la palestra, il bar col solarium, la piscina dei piccoli, il loro angolo dei giochi, i volumi «puristi» degli impianti tecnici, ecc.); dovremmo infine ricordare che i collegamenti verticali sono affidati a tre gruppi
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di scale aventi ognuno una serie di ascensori, mentre quelli orizzontali sono affidati a rues intérieures disposte al 2°, 7°, 8°, 13° e 16° piano. Ma più che contabilizzare parti e funzioni, che in questo edificio sono peraltro eterogenee e complesse, preferiamo occuparci di alcuni suoi settori che meglio lo rappresentano. Diciamo intanto che l'Unité d'babitation è una grande fabbrica con parti altamente specializzate al fine di realizzare quell'ideale di casa collettiva ed autosufficiente, risalente a tutta la tradizione dei riformatori utopistici. Le tre parti dell'edificio che prenderemo in esame, tutte rientranti nel settore degli alloggi, sono: la struttura portante principale, la conformazione ed articolazione delle cellule e la griglia tridimensionale esterna delle loggias brisesoleil. Quanto al primo fattore, la grande ossatura di cemento armato, essa incarna una delle due famiglie morfologiche adottate da Le Corbusier, cui abbiamo accennato nel capitolo sul razionalismo, ossia quella d'impianto ortogonale, d'ispirazione classica, cartesiana, configurata in base ai tracés régulateurs. All'altra famiglia, quella contrassegnata dalle forme libere o derivate dall'esperienza della pittura e scultura puriste, appartengono le plastiche forme dei pilotis, del sol artificiel e delle attrezzature disposte sul piano di copertura. Pertanto, se consideriamo unitariamente queste parti della struttura portante, osserviamo che in essa coesistono entrambe le suddette famiglie morfologiche. Tale coesistenza, anzi il brusco passaggio dai fattori discontinui, ridotti o riducibili in unità discrete (la griglia ortogonale) a quelli continui e non scomponibili (le forme libere), costituisce forse l'aspetto più tipico dello stile di Le Corbusier. Parlando della struttura, va ricordato che l'evoluzione del rapporto fra le parti portanti e quelle portate contrassegna l'intera vicenda del Movimento Moderno. La struttura a scheletro viene esibita non senza perplessità nell'Ottocento; «piegata» ad un gusto figurativo con l' Art Nouveau; francamente accusata dal protorazionalismo, finché viene assorbita dal razionalismo nel suo programma di spazi dinamici dove talvolta essa serve a realizzare immagini leggere e incorporee, affidate
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alla pura stereometria dei volumi e alla netta bidimensionaità dei piani, si pensi agli angoli trasparenti di Gropius e alle facciate libere di Le Corbusier. E ciò sembra indicare che il razionalismo abbia fatta propria una tecnologia, la quale non ha più ragione d'essere esibita. E puntualmente troviamo che nell'Unité d'habitation, dove pure la struttura portante ha un suo preciso significato e un suo carattere espressivo, essa risulta, ad eccezione dei pilotis e del sol artificiel, nascosta ovvero una trama conformatrice e ordinatrice, ma soggiacente, occultata da una sovrastruttura ad essa sospesa, quella delle loggias brisesoleil. Cosicché la gabbia portante della fabbrica di Marsiglia, nella cui trama s'inseriscono le cellule e ai cui lati si sostengono le teorie dei terrazzini e dei frangisole, assume il doppio significato del termine struttura: quello architettonico costruttivo, di parte portante di un edificio, e quello più ampiamente strutturalistico, cioè di sistema soggiacente, di organizzazione nascosta, ma indispensabile alla significazione e alla vita stessa di un organismo. Quanto al secondo fattore della nostra analisi, le cellule abitative e la loro articolazione, è opportuno dare una breve descrizione del tipo d'alloggio più ricorrente. Questo si sviluppa su due piani di diversa grandezza; quello minore è destinato alla zona diurna e quello maggiore, che occupa l'intera profondità del corpo di fabbrica, realizzando la doppia esposizione con aperture ad est e ad ovest, contiene le camere da letto. Data la diversa profondità dei due piani, ogni cellula s'incastra con un'altra complementare, impegnando in tal modo l'altezza di tre piani; in quello intermedio, al centro del corpo di fabbrica, corre longitudinalmente una «strada interna» che dà l'accesso ai due alloggi. In quello posto da un lato, per via dell'incastro suddetto, dalla zona del pranzo si sale al piano delle camere da letto; in quello del lato opposto dal piano del pranzo si scende nella zona delle camere da letto. All'interno di ciascuna cellula il solaio del piano superiore è arretrato rispetto alla parete esterna, cosicché da esso ci si affaccia sulla zona inferiore che risulta alta quanto due piani.
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Com'è stato osservato, alla base del programma dell'edificio in esame c'è un assunto sociologico: « libertà individuale in una organizzazione collettiva [...]. La nostra civiltà è basata su questo principio, l'Unité cl'habitation anche». E questo assunto si riscontra già al livello costruttivo; infatti, come alloggi unitari completamente distinti, le cellule, che hanno un'autonoma struttura metallica, s'inseriscono nella maglia principale in cemento armato quasi con una semplice operazione d'incastro, senza toccarsi l'una con l'altra e, con speciali accorgimenti tecnici, realizzano il loro più completo isolamento. Ma il rapporto fra le cellule ed il tutto, questa relazione fra l'individuale ed il collettivo, acquista nella fabbrica di Marsiglia una conformazione ed un significato del tutto inediti e particolari. Di solito una cellula d'abitazione della stessa tendenza razionalista può considerarsi un sistema, il cui fattore unitario e basilare è dato da ciascuna camera o ambiente; ed anche all'esterno ogni camera contrassegna con la sua apertura la presenza di questa unità del sistema. Viceversa, nell'Unité d'babitation, che pure presenta distributivamente una separazione dei suoi ambienti interni, questi tuttavia sono concepiti con una tale fluidità spaziale (separazione del pranzo dalla cucina con bassi elementi d'arredo, spazi a doppia altezza fra la camera dei genitori ed il soggiorno, divisorio mobile tra le due camere dei figli) da presentare una complementarità di ciascun ambiente con gli altri; al limite da superare la nozione stessa di camera. Insomma, distributivamente la cellula non è più concepita come un sistema di camere, ma come un unitario ambiente diversamente articolato. Ed anche all'esterno, su ciascuna delle due fronti un'unica, grande apertura corrisponde a tale ambiente. E veniamo al terzo fattore della nostra «lettura», le loggias brise soleil. A parte le zone speciali dell'edificio pieni corrispondenti agli alloggi aperti a sud, il settore con gli altri alloggi particolari e i servizi sulla facciata ad est, la fascia dei due piani contenenti i negozi e le altre attrezzature collettive, ecc. per l'intera organizzazione delle tre fronti libere (quella a nord è cieca con la famosa scala che si arresta al
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piano dei negozi), Le Corbusier concepisce una grande sovrastruttura tridimensionale a griglia, la cui profondità è quella dei terrazzini; il suo ritmo verticale è dato dal proseguimento in facciata dei muri laterali della cellula, quello orizzontale dalle balaustre in cemento vibrato delle loggias che, oltre a costituire un brisesoleil per gli ambienti sottostanti, con la loro diversa disposizione in altezza indicano l'articolazione degli spazi interni. Infatti, poiché uno dei due solai della cellula è arretrato rispetto al filo della facciata donde la necessità di inserire al suo livello, nell'invaso delle singole loggias, un piano orizzontale funzionante da vero e proprio brisesoleil si ha che ogni cellula presenta un solo terrazzo per lato, il cui vano è di altezza semplice quando da quel lato prospetta la zona delle camere da letto e di altezza doppia quando sullo stesso lato prospetta la zona del pranzosoggiorno; ed essendo gli alloggi ad incastro, in facciata, ad ogni vano doppio succede verticalmente un vano semplice; cosicché la teoria delle balaustre, che conferisce una accentuazione orizzontale all'intero organismo, si presenta con un ritmo alternato: ad ogni due file di balaustre piene corrisponde una fila di spazi vuoti perfettamente quadrati. Il vano quadrato indica nel prospetto la presenza all'interno di una cellula avente da quel lato altezza doppia, mentre il più basso vano rettangolare, che divide una balaustra dall'altra, indica che la corrispondente cellula interna presenta dallo stesso lato un solo piano. Ad accentuare poi la varietà di questa struttura alveolare contribuisce la colorazione «disordinata», ma affidata a poche tinte basilari, delle pareti interne di ciascun terrazzo. La presenza del colore, unitamente a quella degli altri motivi plastici, le scultoree forme del tettogiardino, la scala esterna alla facciata a nord, il bassorilievo col simbolo del modulor ricavato nel cemento, ecc., confermano un altro caposaldo della poetica corbusiana, la famosa synthèse des arts majeurs. Oltre la suddetta descrizione, la griglia delle loggias brisesoleil assume un significato che contribuisce a quel salto di scala, cui sopra abbiamo accennato parlando delle cellule e che costituisce il carattere esponente della fabbrica di Marsiglia. Notando infatti che ciascun
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alveolo delle loggias rappresenta un vero e proprio invaso tridimensionale, che esso denuncia la presenza d'una cellula e addirittura ci dice con la sua doppia o semplice altezza in che modo all'interno è articolato l'alloggio, possiamo constatare che, a differenza dei tradizionali muri di facciata, l'intero involucro dell'Unité d'habit ation è a sua volta un organismo tridimensionale, una struttura spaziale che involucra a sua volta gli spazi interni. Cosicché, concludendo, se la struttura statica non si limita solo a portare elementi, bensì intere cellule abitative; se lo spazio interno di queste non va considerato come una somma di unità ambientali o «segni », ma inteso come un unico grande ambiente o « macrosegno»; se l'involucro esterno non è l'insieme di tante facce bidimensionali, ma un organismo spaziale contenente altri invasi tridimensionali, abbiamo che ogni parte della fabbrica in esame si articola nella scala di una più grande dimensione. In base a tali considerazioni si possono spiegare l'ipertrofia, il salto di scala, la nuova dimensione, lo sfalsamento in avanti dell'intera gamma dei fattori costitutivi dell'edificio e tale sfalsamento denota l'obiettivo ricercato per anni da Le Corbusier, ovvero l'idea di una architettura mirante a farsi (proposta, unità, brano, conformazione) urbanistica. Da questa visuale, l'Unite d'abitation conclude il ciclo della tendenza razionalista ed apre quello della poetica della grande dimensione, dell'architettura più idonea alla odierna cultura di massa. Il piano di Tokio. L'adesione all'idea (e alla realtà) della grande metropoli con oltre dieci milioni di abitanti contro l'urbanistica del decentramento; lo sviluppo delle tesi urbanistiche corbusiane; le proposte del gruppo Metabolism; il progetto per una comunità di 250.000 abitanti, concepito per la baia di Boston e redatto al M.I.T. nel 1959, costituiscono, come s'è già accennato, le premesse per il piano di Tokio che Kenzo Tange elabora con il suo gruppo nel 1960.
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Riconosciuto che la grande città contemporanea è il luogo dell'industria terziaria, quella dell'organizzazione, delle vendite e dei servizi, il suo principale requisito deve essere il più efficiente, dinamico e aperto sistema di comunicazioni e «dal momento che i trasporti sono essenziali per le comunicazioni dirette scrive Tange il sistema dei trasporti diviene la base fisica fondamentale per lo svolgersi funzionale dell'esistenza della metropoli»[36 K. Tange, Un piano per Tokio, «Casabellacontinuità», dicembre 1961]. Tale enunciato che potrebbe trovarsi in tanti piani ottocenteschi assume nel progetto di Tokio un significato particolare e contribuisce a generare una proposta di conformazione urbanistica generale tanto inedita da toccare la dimensione dell'utopia. In particolare, rifiutando l’espansione radiale centripeta della metropoli e il suo sviluppo per nuclei satelliti, Tange propone una struttura lineare da realizzarsi nella baia di Tokio, che partendo dal vecchio centro della città raggiunge in linea retta il punto opposto della costa. I caposaldi programmatici del piano sono: «1) Passaggio da un sistema centripeto radiale a un sistema di sviluppo lineare; 2) Reperimento dei mezzi per conglobare in una sola unità organica sia la struttura della metropoli che il sistema di trasporti e l'architettura urbana; 3) Attuare un nuovo ordine spaziale urbano capace di rispecchiare l'organizzazione aperta e la spontanea mobilità della società attuale » 38 Ibid. Questi punti programmatici trovano la loro attuazione progettuale, sebbene non in una corrispondenza di termine a termine, in tre parti distinguibili pur nell'unitaria struttura del piano: a) l'asse civico; b) gli impianti direzionali e terziari previsti entro tale asse; c) le nuove zone residenziali previste all'esterno di esso. L'asse civico è il cardine dell'espansione di Tokio sul mare. Attraversato da una ferrovia monorotaia e da una sotterranea, esso si compone di anelli o «cicli» stradali, paragonabili alle vertebre della spina dorsale. Ciascuno di essi contiene tre autostrade sovrapposte con tratti lunghi rispettivamente 9 Km. (colleganti tre cicli), 3 Km., ossia
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la lunghezza del vero e proprio ciclo, che si suddivide a sua volta in unità modulari interne lunghe 1 Km. La quota dell'autostrada più esterna e più alta è di 4050 metri. Ogni tratto dei cicli è unidirezionale: un percorso normale per conservare il senso unico deve procedere, per così dire, con un andamento a greca; per passare da un livello all'altro dei tratti del ciclo, ovvero, per cambiare di velocità, o ancora per invertire la direzione di marcia sono predisposte della rampe nei tratti brevi di ogni ciclo. Tali rampe segmentano l'asse civico, ne delimitano cioè i cicli e fungono da elemento di interscambio, sia fra un ciclo e quello successivo, sia per le strade normali all'asse che, sempre sulla baia, conducono alle zone residenziali poste lateralmente all'asse civico stesso. I cicli sono concepiti come entità autonome rispetto alle strutture edilizie interne ed esterne ad essi e, in prima istanza, condizionati alla velocità dei tre livelli di traffico: fino a 60 Km/ora, con rampe ogni chilometro per passare ad altri livelli o per uscire dal ciclo; fino a 90 Km., con rampe ogni 3 Km.; fino a 120 Km. con rampe ogni 9 Km. Ma in realtà la loro concezione va oltre queste caratteristiche funzionali. La loro autonomia consente di realizzarli uno dopo l'altro in un arco di vent'anni. In particolare, poiché il primo ciclo dell'asse civico è previsto a1 di sopra dell'attuale centro di Tokio, tale «sovrapposizione» dovrebbe garantire la ristrutturazione della città antica unitamente alla conformazione del primo nucleo della sua espansione assiale. «Inoltre scrive Tange , costruendo sulla baia, il Giappone riscoprirebbe il mare, poiché Tokio la quale ha perso gran parte delle sue zone costiere ora occupate dalle industrie potrebbe ridiventare una città di mare. In questo modo l'oceano diventerebbe non soltanto il simbolo del nostro sviluppo economico, ma costituirebbe anche un piacevole completamento dell'ambiente in cui si svolge la nostra vita di ogni giorno... Il nostro progetto, in pratica, darebbe luogo a un'architettura consona alla velocità e alle dimensioni dei nostri tempi, e tuttavia tale da consentire la prosecuzione della nostra vita urbana storica» 39 Ibid
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Nella parte centrale della serie dei cicli, su una piattaforma continua, si elevano le fabbriche del centro direzionale. Queste, come le stesse piattaforme sono sorrette da un sistema definito «midollare». Distribuiti in reticoli quadrati di circa 200 metri per lato i «midolli», come s'è già detto in precedenza, sono delle strutture verticali, ovvero dei giganteschi pilotis, alti dai 150 ai 250 metri contenenti ascensori, condutture, impianti e tutto ciò che serve ai percorsi e ai raccordi verticali. Oltre a questa funzione, i midolli sostengono a diverse altezze delle macrostrutture edilizie, ossia delle fabbriche con pareti antisismiche composte di travature reticolari per l'irrigidimento di facciate e solai i cui punti di appoggio sono tanto distanti l'uno dall'altro. Così come sono disposti, i «midolli» possono sostenere a diverse quote non solo questi enormi edifici dalle pareti reticolari, ma anche altri orientati in direzioni fra loro angolate a 90°. Cosicché il vecchio sistema dei pilotis, che vale a reggere soltanto edifici disposti in una unica direzione, ingigantendosi alla dimensione dei «midolli» previsti dai giapponesi, diventa sostegno di più fabbricati e per giunta orientati in più direzioni. La terza parte del piano riguarda le nuove zone residenziali. Prevedendo che fra vent'anni circa cinque milioni di persone risiederanno sulla baia, il piano di Tokio prefigura alcune aree residenziali che sorgeranno o su terreni sottratti dal mare o su piattaforme artificiali sostenute da grandi piloni immersi nel fondo marino. Ognuna delle aree residenziali è concepita almeno alla scala di un quartiere, provvisto delle relative attrezzature, scuole, asili, centri sociali, impianti sportivi, ecc., nonché di tutti i servizi di comunicazione diretta, autostradale, metropolitana, ecc. Nel descrivere le macrostrutture architettoniche delle aree residenziali, Tange accenna brevemente ad esse, dicendo che avranno sezioni «più o meno triangolari», che queste porteranno delle piattaforme sulle quali sorgeranno abitazioni individuali secondo la gamma dei materiali prefabbricati disponibili e secondo il gusto particolare degli abitanti. In realtà, questa parte del piano di Tokio e quella che risente
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maggiormente delle precedenti esperienze e segnatamente quella dell'insediamento sulla baia di Boston, progettato da Tange in collaborazione con gli studenti del M.I.T. Nella relazione che accompagnava il progetto redatto in America, Tange scriveva: «Un'organizzazione spaziale di questo tipo esprime la gerarchia delle diverse «scale»; la scala della natura, la scala superhuman, quella che più visibilmente introduce le possibilità della moderna tecnologia, la scala della collettività, legata alle funzioni sociali e, da ultimo, la scala umana, quella cioè della vita individuale. Nella grande struttura triangolare di sostegno sono compresi gli spazi per la vita collettiva, scuole, chiese, shoppingcenters, ecc. aperti all'aria e alla luce, mentre ogni tre livelli si sviluppano le strade pedonali lungo le quali sono disposte le abitazioni [...]. Le case insieme formano delle piccole strutture all'interno delle quali può anche essere cambiata la forma di esse. A questo «microscopico» livello i dettagli e la disposizione stessa della casa possono combinarsi secondo il gusto di ciascuno, Ciò significa che esiste la possibilità di distinguersi individualmente nell'ambito del sistema»[40 Ibid Come si vede, in questo brano è contenuta quasi per intero la «poetica della grande dimensione» e sono quasi puntualmente anticipate le macrostrutture residenziali del piano di Tokio. Ma qui esse assumono un accento particolare. Infatti, al di là della tendenza macrodimensionale, delle grandi strutture a scala urbanistica «aperte» all'inserimento delle variazioni individuali a scala architettonica, la forma delle aree residenziali di Tokio implica anche un intento simbolico, semantico e di suggestione ambientale. Le sezioni a cavalletto che Tange definisce «più o meno triangolari» richiamano delle immagini proprie alla cultura dell'estremo oriente e sono assai dissimili da quelle adottate per il progetto di Boston. Là esse ricordano figurativamente la forma dello squadro e del compasso, qui, nel piano di Tokio esse richiamano enormi tetti spioventi e più ancora fiancate di navi, parti di giunche, coperture di alcune tradizionali imbarcazioni, insomma una serie di conformazioni tutte aventi in un modo o
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nell'altro attinenza con le navi ed il mare. Ed è questo un altro aspetto di quella coesistenza di utopia e tradizione, ovvero i fattori del codice virtuale, nonché di quella riconquista del mare da parte dell'urbanistica e dell'architettura giapponesi di cui parla Tange. Yamanashi Broadcasting Building, Per questo centro di servizi delle comunicazioni visive di massa, realizzato nel '66 a Kofu, Tange adotta lo stesso sistema midollare usato nelle grandi strutture del Piano di Tokio; più esattamente adotta un sistema di grandi cilindri cavi (come nel citato disegno di Arata Isozaki) collegato nello spazio da ponti sostenenti a loro volta gli ambienti dell'edificio. Tale sistema, qui applicato ad un fabbricato di dimensioni normali, consente tanto una espansione orizzontale, quanto una verticale, realizzando così la principale caratteristica invariante della poetica macrostrutturale, ovvero la massima flessibilità e mobilità nello spazio e nel tempo delle grandi fabbriche al mutare delle istanze che generarono il loro primo nucleo conformativo. Riferendosi alla poetica dell'«opera aperta» teorizzata in Italia da Umberto Eco, riguardante sia quelle manifestazioni artistiche che trovano un loro completamento da parte dell'osservatore, sia quelle opere che sono strutturalmente suscettibili di ampliamenti e trasformazioni, alcuni autori italiani hanno visto appunto quale invariante della tendenza macrostrutturale questo carattere di «apertura», di mobilità, di trasformabilità. Le altre invarianti della poetica in esame sono, per altri critici, l'indifferenza per l'architettura al costituirsi delle forme a scala urbana; lo spostamento del rapporto formafunzione ad un limite tale da ritrovarsi solo ad un livello infrastrutturale; l'integrazione fra organismi polifunzionali ed impianti di comunicazione; l'esaltazione delle strutture tecnologiche; la tendenza ad individuare gli organismi suddetti come oggetti assoluti nella loro unicità; l'isolamento del problema figurativo in una dimensione totalizzante rispetto all'intero corpo urbano; il rifiuto dello
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zoning, ecc.[27 Cfr. M. Tafuri, La nuova dimensione urbana e la funzione dell'utopia, in «L'architettura, cronache e storia», febbraio 1966, n. 124. Peraltro non manca nello Yamanashi Building, un caso cioè di «utopia realizzata», un rapporto con la componente storica. Proponendo questo edificio «come alternativa focale ai resti del castello del XVII secolo che domina la scena urbana di Kofu, Kenzo Tange ha voluto assai esplicitamente sottolineare l'esigenza che la nuova attrezzatura per attività editoriali, per l'industria dell'informazione e per la comunicazione di massa rappresenti un fuoco civico di nuove relazioni, un'occasione di radicamento della socialità e della cultura contemporanea: in questo senso il monumentalismo che percorre l'opera ha, oltre ad un particolare taglio linguistico, anche un obiettivo riscontro programmatico » [20 C. Dardi, op. cit., p.24] I laboratori Richards dell'Università di Pennsylvania. Il codicestile che abbiamo definito virtuale non si manifesta soltanto in opere e progetti dalla dimensione insolita, quali l'Unite d'babitation o il piano di Tokio. Quella contestazione del presente (dell'International Style e dei suoi sottoprodotti) e l'intento di associare passato e futuro, storia e utopia, s'incontrano anche in fabbriche di normali dimensioni. Ci riferiamo ai Richards Laboratories di ricerca medica, costruiti da Louis Kahn a Philadelphia tra il 1957 ed il '61; un articolato edificio di soli sette piani che rievoca le torri di San Gimignano e prefigura con la sua conformazione, ispirata all'idea della differenziazione di spazi «serviti» e «che servono» (servedservant), un'architettura tutta rivolta al futuro, come già dimostra il carattere di paradigma che subito ha assunto quest'opera. Essa consta di quattro blocchi (cui sono stati aggiunti altri tre del Biology Building), rispondenti all'idea suddetta e all'intenzione di scandire al massimo ogni elemento della costruzione, che risulta un aggregato di distinti «segni» spaziali e volumetrici.
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Riferendoci ai quattro blocchi dei laboratori di ricerca medica, cui limitiamo la nostra lettura, quello centrale in pianta è un nucleo contenente scale, ascensori, servizi e due locali per l'allevamento delle cavie; a tale nucleo si collegano tre laboratori di forma quadrata col lato di m. 14,32. Ciascun laboratorio s'innesta al nucleo centrale non direttamente, ma attraverso un andito che serve figurativamente a tener distinti i quattro volumi, che risultano autonomi avendo ciascuno una propria scala di servizio (stair sub tower). Queste sono contenute in chiuse torri di cemento rivestito da una cortina di mattoni; in analoghe torri (exhaust sub tower) sono sistemati gli impianti per l'espulsione dell'aria contenente isotopi, l'aria infetta da germi e i gas nocivi; lo stesso tipo di torre contiene gli impianti per l'immissione di aria pura e quattro di esse sono disposte all'esterno del nucleo centrale dell'edificio. Al di là della loro funzione, queste torri giocano uno dei principali ruoli conformatori. Ciascuna di esse, svettando per ben otto metri oltre il solaio di copertura, è sistemata al centro di ogni lato libero dei laboratori e completamente in aggetto rispetto ad essi. In fase progettuale le torri dovevano servire anche da elementi portanti dei solai, ma successivamente forse per accentuare quella scansione di ogni elemento o per rendere autonoma ogni parte della fabbrica, in questo caso ciascun bloccolaboratorio dalla torre che vi si affianca, Kahn dispone pilastri di cemento a doppio T sui due terzi medi di ciascun lato. Cosicché, mentre nessuna struttura verticale ingombra lo spazio interno dei laboratori, i solai di questi fuoriescono a sbalzo di un terzo per ogni lato, tal che gli spigoli risultano anch'essi svuotati da ogni sostegno verticale. La struttura dei solai è costituita da sei travi prefabbricate che s'incastrano ai montanti, da quattro travi di collegamento perimetrali e da sedici travetti che s'incrociano due a due negli otto riquadri formati dall'orditura principale. Questa struttura, costituita da elementi reticolari e svuotati per il miglior alloggio degli impianti orizzontali, come nota Scully « esercitò un benefico influsso sulle ricerche tecniche connesse all'intero campo dell'industria dei prefabbricati in calcestruzzo, e costituì un precedente esemplare per
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tutti i passaggi che intercorrono tra la produzione e il montaggio in opera » Di particolare interesse anche figurativo è il fatto che nell'angolo svuotato, in corrispondenza del riquadro più esterno, la trave di collegamento del solaio riduce di metà la sua altezza come consente il diagramma degli sforzi; e questo gioco di riquadri e di assottigliamenti è tutto visibile dal basso, essendo l'intradosso d'ogni solaio lasciato liberamente in vista. Nella volumetria generale della fabbrica si passa pertanto dal massimo pieno del blocco centrale con le quattro torri addossate, anch'esse piene, al massimo vuoto degli angoli dei blocchilaboratori, che oltre a mostrare la loro vitrea trasparenza sul piano delle facciate dello spigolo, mettono in evidenza il sistema costruttivo, ovvero il disegno dei lacunari e dei travetti. Tutta la gamma quindi della morfologia architettonica, dal volume alla superficie, piena e svuotata, dalla sagoma bidimensionale del ritaglio che sormonta le torri con le scale fino alla dimensione lineare dei travetti, è presente in questa fabbrica dalla concezione apparentemente tanto semplice, ma ricca di soluzioni impreviste e di sottili elaborazioni. La Facoltà di Storia a Cambridge. I laboratori Richards di Kahn e la Facoltà di Storia, costruita da James Stirling dal '64 al '68, pur nelle loro diversità, sono due costruzioni che appartengono allo stesso codicestile, anzi che hanno contribuito fortemente a determinare il gusto architettonico contemporaneo. Nonché espressioni di quella sintesi fra storia ed utopia, che abbiamo individuato come caratteristica esponente delle più significative opere del nostro tempo, entrambe manifestano l'intento di contrassegnare gli spazi ed i volumi come un aggregato di entità autonome. La History Faculty per la Cambridge University si propone anch'essa [come l'Engineering Building di Leicesteril di essere considerata come un raggruppamento di elementi identificabili, cioè le colonne di ascensori e scale e il grande tetto a forma di tenda che indica la sala di lettura della biblioteca, lo spazio interno di maggiore capacità [...]. Di
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solito noi cerchiamo di conservare la forma specifica di una stanza e evitiamo di distorcerla per adattarla a un modulo strutturale o a una forma generale precostituita. Nella History Faculty queste forme di stanze ideali sono raggruppate a costituire la forma dell'intero edificio ed è possibile vedere che le stanze più piccole sono agli ultimi piani, mentre ai livelli inferiori e stanze diventano più grandi e grandissime [J. Stirling, Architettura (intervento al Simposio tenuto all’Università di Bologna nel novembre 1966), un «Zodiac», novembre 1968, n. 18) Così parla Stirling nel descrivere la sua opera, la quale, se conveniamo di definire « segno » ogni stanza, ogni invaso, per l'evidenza conformativa tanto all'esterno quanto all'interno di tali invasi, è uno degli esempi più tipici di una « architettura segnica ». La differenza tra l'edificio di Kahn prima esaminato e la facoltà di Storia progettata da Stirling, per quanto concerne il loro carattere di aggregazione di autonome entità segniche, sta in ciò che mentre nell'edificio americano questo gioco assume la massima evidenza, in quello inglese esso si coglie solo al livello di disegni e di modelli, la visione della fabbrica recuperando una ambiguità ed una complessità che rendono meno ovvia l'intenzione di contrassegnare e distinguere ciascuna parte dell'insieme. Ciò si deve non solo al differente assetto distributivo e funzionale, ma anche all'intenzione di « rifondere », per così dire, gli ambientisegno una volta individuati, nonché al programma di farli tutti convergere e gravitare intorno ad un « macrosegno », la sala di lettura della biblioteca. Da quanto precede possiamo dire che se nella volumetria generale l'edificio è contrassegnato da un blocco a forma di L, dal prisma vetrato della copertura della biblioteca, dal corpo di fabbrica basso che per tre lati circonda la sala di lettura, dalle due torri per i collegamenti verticali, ecc., all'interno alcuni di questi segniambienti si fondono l'uno con l'altro, creando appunto quell'ambiguità fra l'esplicito e il celato, che contribuisce ad arricchire il significato spaziale dell'opera. In particolare, la fusione suddetta si verifica maggiormente al pianterreno che, come quello seminterrato, ha complessivamente
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un'area più vasta degli altri piani, formando all'esterno una sorta di basamento sui quale, seguendo una ideale ascesa piramidale, poggiano il blocco ad L ed il prisma di copertura della biblioteca. All'interno questo piano più ampio è articolato in modo che la sala di consultazione, gli annessi depositi e gli uffici sono fra loro intimamente fusi e tali che l'area triangolare della copertura sovrasta solo una parte di esso. Possiamo dire che a questo livello Stirling associ il procedimento della pianta libera ereditata dal Movimento Moderno all'idea di un invaso geometricamente definito. Il primo piano già presenta una maggiore distinzione fra gli ambienti: al corpo di fabbrica ad L risulta ancora aggregato un locale destinato alle ricerche; all'area triangolare sovrastante la sala di lettura, il corpo poligonale adibito, come nei piani sottostanti a deposito di libri. Dal terzo piano in poi v'è solo il prisma della copertura e la pianta dell'edificio ad L. Questo, a sua volta digrada verso l'alto contenendo al terzo e quarto piano locali per seminari, mentre al quinto e sesto piano sono ubicati gli uffici, ossia i locali meno profondi dell'intera costruzione. Poiché la copertura della sala di lettura della biblioteca occupa tutta l'altezza dei sei piani dell'edificio, all'interno di essa si aprono i corridoi del corpo di fabbrica ad L, che in vari punti penetrano nell'invaso della biblioteca con una sorta di spazi poligonali simili a bowwindows. « I corridoi scrive Stirling sono concepiti come gallerie che corrono intorno agli spazi superiori della sala di lettura; sono rivestiti con materiali afonici e costituiscono il principale sistema di circolazione. Gli studenti che si muovono nell'edificio sono visualmente a contatto con la biblioteca, il più importante elemento di lavoro della Facoltà. Questa interrelazione deriva dalle esigenze espresse dalla Facoltà ». Abbiamo così un'altra conferma del fatto che, mentre all'esterno i volumi vetrati del fabbricato ad L, il prisma anch'esso vetrato della copertura, il corpo di fabbrica poligonale, dove i pieni in mattoni prevalgono sui vuoti, e costituente il basamento dell'intero organismo, sono nettamente distinti, all'interno, come s'è detto, gli invasi contenuti in tali volumi, pur distinguibili come parti,
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tendono funzionalmente o anche come puro effetto visivo a fondersi tra loro. La copertura inclinata, indubbiamente la parte più caratterizzante dell'opera, che plasticamente produce una sorta di pressione bilanciata dall'effetto di sostegno e di fermo prodotto dal blocco ad L, è notevole anche dal punto di vista tecnico. La sua struttura principale è in capriate d'acciaio che la segmentano in senso longitudinale, mentre il collegamento trasversale è affidato ad una orditura secondaria che porta anche i telai delle vetrate. All'interno di questo volume formato da lineari elementi metallici sono sistemati gli impianti di riscaldamento, gli areatori, le luci, ecc., che si adattano automaticamente al clima esterno producendo all'interno una temperatura costante. Abbiamo già accennato al fatto che l'opera in esame è un paradigma di quella fusione fra passato e futuro, è un modello di quello che abbiamo chiamato l'odierno codice virtuale; abbiamo altresì osservato che, ponendosi come un aggregato di volumi o d'ambientisegno, essa può anche esemplificare nel migliore dei modi quella che può definirsi un'architettura segnica. Tenteremo ora, come conclusione dell'intero nostro discorso, di verificare se fra queste due caratteristiche salienti si possa stabilire una relazione, onde meglio individuare il più recente codicestile. Quanto al binomio passatofuturo, a proposito della Facoltà di Storia di Cambridge è stato osservato: « Il disegno che avevamo visto, prima della costruzione, era un'assonometria che mostrava l'edificio dalla parte del Ironie [...] e in questa assonometria l'edificio sembrava forse per omissione, nel disegno, delle vetrate orizzontali lungo le facciate e delle vetrate verticali lungo la superficie obliqua del cono come chiuso da una membrana continua, uniformemente tesa, frutto di una tecnologia avanzatissima, viceversa il trattamento di tali superfici vetrate, quale appare ad edificio finito, fa pensare ad un'enorme serra vittoriana »(J.Rikwert, in «Domus»,n.18, novembre 1968) Altri critici, come riassume Dardi`, appaiono divisi nel ricordare per l'opera di cui
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ci occupiamo alcuni precedenti della tradizione architettonica ed ingegneresca dell'800 inglese: i capannoni ferroviari, i ponti, i depositi e più specificamente il Crystal Palace di Paxton, la Paddington Station di Brunel, la serra di Burton a Kew, l'edificio in Cook Street a Liverpool di Peter Ellis, ecc., oppure nel considerare l'edificio di Stirling come precorritore di un'avanzata civiltà tecnologica con immagini desunte dall'ingegneria aereospaziale o dalle « grandi tralicciature innalzate per consentire, nel mondo delle telecomunicazioni, di moltiplicare il rumore della terra o di distillare i silenzi delle stelle »(C.Dardi, op. cit. p.77) Per parte nostra, come abbiamo già notato, la Facoltà di Storia si rifà all'uno e all'altro universo di immagini. Che ci sia la presenza della storia è indubbio; che ci sia una tensione verso la più flagrante attualità, se non la prefigurazione di conformazioni architettoniche del futuro, appare altrettanto certo: « l'estetica visiva all'interno dice Stirling parlando della biblioteca è semmai più simile a quella di uno studio televisivo »; vale a dire l'architettura appartenente al mezzo di comunicazione di massa più attuale ed « aperto » ad un immaginabile futuro. Quanto al fatto che le caratteristiche suddette siano associabili alla valenza segnica dell'edificio, va considerato che tutta l'architettura contemporanea ha mirato, rompendo gli schemi classici delle assialità e delle simmetrie, a proporre conformazioni quali aggregati di volumi ambienti, di segni cioè espressivi all'esterno di una funzione interna. Più di recente, con la crisi del razionalismo, la significazione meramente funzionale degli ambientisegno è apparsa insufficiente; è nata l'esigenza di risemantizzare l'architettura ben oltre la sua funzione e quindi di recuperare dalla storia o prefigurando una realtà futura molti altri significati. In altri termini, una volta acquisite grammatica e sintassi del razionalismo, ovvero il suo codice di segni, si vuole attualmente rivederli sia in una loro più completa struttura, sia in una loro più significativa strutturazione. La storia oggi, oltre ad offrire esempi di più ricchi codici, vale anche come indispensabile mezzo
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dell'operazione architettonicocomunicativa. Infatti, quando si vogliono « dire » più cose, proporre più ricchi ed articolati messaggi, poiché (come abbiamo ricordato altre volte nel presente volume) il grado di novità di questi per essere decodificato e compreso necessita di un grado di informazione già noto, di un parametro familiare ed acquisito, è la storia ad offrire un tale ausilio; cosicché l'architettura dei nostri giorni, nella sua intenzionalità semantica, propone immagini totalmente nuove utilizzando i più vari aspetti della tradizione storica. La nuova architettura è pertanto segnica nella linea del Movimento Moderno e storicoutopica in ciò che i suoi segni strutturano ed intendono comunicare. Il suo impegno non è più solo nel senso della funzione, ma anche in quello della significazione. L’Habitat di Montrial È stato osservato – ed anche riportato nel nostro testo che uno dei fattori invarianti della tendenza macrostrutturale sia l'indifferenza per la dimensione architettonica al costituirsi di immagini urbane date appunto dalle macrostrutture o dai contenitori. Infatti, spostando l'interesse progettuale dalla tradizionale scala architettonica a quella del towndesign, l'elemento architettonico singolo, che rimane necessariamente invariato nella sua scala umana, perde di valore. L'habitat che Moshe Safdie, canadese ma di origine israele, costruisce nel 1967 a Montreal nell’ambito dell’Esposizione universale, pur esendo una macrostruttura, smetisce la suddetta idea delle tenenza in esame. Prima di affrontare questa singolare caratteristica, ricordiamo come dovesse essere originariamente quest’opera e come fosse stata poi effettivamente realizzata. Inizialmente Habitat venne concepito come un notevole brano di città capace di contenere in un organismo unico, dotato di pensato i servizi residenziali, commerciali e istituzionali. La stessa disposizione delle parti forma e si fonda su piani inclinati, simili ai pendii delle colline dove, specie le zone residenziali si dispongono per godere di una vista sgombra da ostruzioni ed esposte alla luce. L’insieme delle abitazioni,
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composto da involucri scatolari in cemento di forma regolare era disposto in modo da creare una formazione a spirale, che permetteva di avere giardini sul tetto in ogni modulo abitativo. Alla base della struttura erano fissate funi di tensione sotterranee che controbnilanciavano le spinte orizzontali di scivolameto. Quanto alle consistenze quantitatve, nell’originario progetto, erano previsti un settore di dodici piani e uno da ventidue, per un totale i 1200 unità abitative, un hotel di 350 camere, due scuole e unarea commerciale. In questo primo progetto, i residenti potevano uscire da casa e utilizzare le strade pedonali, gli ascensori inclinati e le aree pubbliche restando all’interno del complesso. Ridimensionata dalla presenta all’Expo di opere quali la cupola geodetica di Fuller e le tensostruttore di Frei Otto, per citarnee solo alcune, l’opera di Moshe Safdie fu presentata al governo canadese che decise di costruire solo una piccola parte del progetto: 158 unità abitative all’interno di un settore da 12 piani. Così fu riprogettato e denominato Habitat 67. Nonostante il ridimensionamento, l’opera – un rara utopia realizzata – presenta numerose valenze: il suo modulo costruttivo è adattabile ad aree altamente popolate, riducendo i costi di edificzione; consente, grazie alla sua conformazione, di avere abitazioni che, dal secondo come al dodicesiono piano vanno dai 57 mq a 160 mq con quattro camere da letto, tutte ugualmente di facile accesso e di libere visuali; si avvale su ogni livello di pedonali esterne che portano ad aree di gioco per i bambini in numerosi luoghi disposti attraverso tutto l’edificio. Inoltre Habitat è una struttura spaziale tridimensionale nella quale tutte le parti dell’edificio, unità abitative, vie pedonali e le tre trombe dell’ascensore fungono da elementi portanti. Per creare 158 abitazioni, sono stati assemblati 365 moduli prefabbricati attraverso tiranti cavi e saldature, in modo da formare un sistema continuo a sospensione. Gli elementi interni di ogni unità abitativa venivano prodotti, montati e installati in fabbrica. Le casette vengono costruite a terra, una per una; sollevate poi da una gru e depositate nel punto segnato, sono legate all'insieme tirando cavi metallici nascosti nelle
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pareti; sporgono quindi nei modi più spericolati, animando l'ossessivo groviglio»[23 B. Zevi, L'Expo '67 vale per l'habitat di Saftdie, in Cro nache di architettura, Laterza, Bari 1970, VI, p. 419]. In tal modo questo articolarsi di unità monocellulari, servite nella pn retrostante da ballatoi coperti, inseriti un po' « brutalisticamente » tra le sfalsate volumetric delle cellule abitative, ribalta letteralmente la nozione di contenitore; era questo a dar forma all'intera struttura, qui sono elementi contenuti ad assolvere tale compito vanificando ogni altro tipo di macrostruttura. Ritornando alla caratteristica primaria dell’habitat, cui accennavamo all’inizio, va ricordato il commento di Zevi:« rispetto alle celebri Unità di abitazione ideate da Le Corbusier e ad altre successive proposte di macrostrutture, il progetto dell'habitat presenta una singolare caratteristica: rifiuta di assimilare l'abitazione monofamiliare nell'ambito di un gigantesco complesso fabbricato, ne difende l'identità garantendone la privacy e l'isolamento» Ibid. Inoltre quest'opera presenta anche riferimento alla dimensione storica. La «tradizione del nuovo » è rappresentata con l'evidente richiamo a h plasticismo, mentre l'ispirazione ai villaggi algerini e medioorientali ha un indubbio ruolo, come nota ancora Zevi, in questa architettura a processo aperto e continuo Il piano per il centro di Philadelphia In tale progetto, sviluppato nel 1956, Kahn muovendo dall'analogia delle strade coi fiumi e dall'idea che quelle come questi hanno bisogno di «porti», concepisce il centro della città come un luogo servito e circondato da una serie di torri circolari destinati ad uffici e alberghi, soprattutto al parcheggio delle auto. Questi colossali contenitori hanno un esplicito riferimento all'urbanistica del passato. «L'architettura delle zone di stazionamento del traffico egli afferma ha la stessa importanza delle grandi mura che cintavano le città medioevali. Carcassonne fu disegnata per un ordinamento difensivo. Una città moderna si rinnoverà partendo da un ordinato concetto del
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movimento, che è anche la difesa contro la distruzione della città stessa da parte dell'automobile. Il centro della città è un luogo in cui ci si reca espressamente, non per attraversarlo. Grandi “porti” per i veicoli o torri d'ingresso al centro civico circonderanno il cuore più interno della città. Essi saranno i cancelli, i limiti, ed anche le prime immagini che si imprimeranno al visitatore»[26 Cit. in F. Tentori, Ordine e forma nell'opera di Louis Kahn, Casabellacontinuità », luglio 1960, n. 241.18. Se i «porti» s'ispirano al passato, la colossale torre a struttura tetraedrica, destinata agli uffici comunali, è la più esplicita concessione di Kahn alla dimensione dell'utopia. Egli la definisce una esercitazione sperimentale sulla triangolazione di membrature strutturali che si innalzano e si congiungono regolarmente in fasci, particolarmente resistenti alle sollecitazioni del vento. Le altre caratteristiche di questa grande fabbrica sono il superamento della struttura trilitica; la negazione dell'idea di facciata; un doppio ordine di ripiani orizzontali: il primo composto di nove elementi con un'altezza fra loro di circa 20 metri, per complessivi 187,75 metri (altezza della torre) e il secondo, compenetrato all'altro, costituito da solai che, traslando orizzontalmente, ora determinano locali di altezza normale, ora più alte sale ed ambienti di rappresentanza; entrambi gli ordini di ripiani hanno una struttura tetraedrica come i solai della Yale Art Gallery. Il rivestimento delle parti piene di questa poliedrica struttura era previsto in alluminio. Nel suo complesso il progetto (non realizzato) di Kahn per il centro di Philadelphia, nonostante le fabbriche descritte, appartiene alla poetica della grande dimensione più per la sua concezione urbanistica che per quella architettonica. Gli manca infatti proprio quella dimensione intermedia tra queste due esperienze, il concetto di polivalenza e di plurifunzionalità di altre più utopiche ipotesi, nonché la dimensione stessa della macrostruttura.
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Archigram
L'attività del gruppo inglese Archigram, formato dagli architetti Warren Chalk, Ron Herron, Dennis Crompton, Peter Cook, David Greene, Michael Webb, non produce un’opera realizzata come alcune di quelle descritte sopra, ma presenta l’utopia architettonica più famosa del XX secolo. Se ingloba i postulati della poetica della grande dimensione, ne fornisce una versione assai più avanzata. Se collusione con l'utopia dev'esserci che questa sia all'insegna della più flagrante attualità e storicità. Infatti, oltre a rispecchiare alcune istanze proprie alla cultura architettonicourbanistica britannica, per cui rientra anch'essa nel capitolo della Englishness, oltre ad ispirarsi con una buona dose di humor alla contemporanea macchinolatria, segnatamente ai calcolatori elettronici e agli ordigni spaziali, l'opera degli Archigram trasferisce nel nostro campo il gusto figurativo più recente, dalla Pop Art all'arte programmata, dagli happenings di tante manifestazioni della neoavanguardia a quel clima tipicamente inglese che ha rivoluzionato il costume, la moda, la musica dei giovani. Ed è proprio questo rapporto con le arti visive e col particolare gusto Pop sviluppatosi in Inghilterra a determinare, secondo noi, buona parte del successo di questo gruppo inglese. Peraltro, non va dimenticato che l'aspetto ludico e l'ironia dei loro progetti sono ampiamente giustificati e consentiti dal fatto che l'Inghilterra, come sappiamo, è il paese dove meglio si svolge ad ogni livello l'attività architettonicourbanistica, ben più drammatica o velleitaria o squallida, a seconda delle condizioni, si manifesta la neoavanguardia architettonica in altri paesi. Tra gli enunciati programmatici del gruppo è che i suoi membri sono «alla ricerca di un'idea, di un nuovo linguaggio, di qualche cosa da allineate con le capsule spaziali, le calcolatrici elettroniche, gli imballaggi a perdere dell'età elettroatomica»; tale assunto, unitamente a quello della « equivalenza tra i mezzi tecnici per l'architettura e per la conquista del cosmo » pongono i progetti di Archigram su una linea
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fantascientifica ed essi parlano infatti di Gordon, di Dan Dare, di Superman, ma si tratta di uno scherzo; all'occorrenza questi architetti sono in grado di elaborare in modo assai preciso e fattivo alcune loro proposte. Ci riferiamo alle cellule abitative come capsule spaziali di Warren Chalk e alla Gaskeit capsule progettata da Ron Herron e dallo stesso Chalk. Altri enunciati .programmatici del gruppo si rifanno al futurismo. Infatti la necessità d'introdurre la nozione di effimero in architettura e urbanistica, che nella loro opera più impegnativa, il progetto della Plugin City del '64, dovuto a Peter Cook, dove si prevede la durata di tre anni per i bagni, di 15 per le unità abitative, di 20 per i silos automobilistici e di 40 per l'intera struttura della città, rientra senz'altro nell'effimero e nel consumabile propri al Manifesto di Sant'Elia, ma anche ovviamente in quella della moderna produzione industriale di beni di consumo. Ancora di marca futurista è la concezione del movimento, non inteso nel senso della trasformabilità ed intercambiabilità delle cellule abitative o degli elementi architettonici all'interno della macrostruttura, come propongono altri autori operanti nell'ambito della grande dimensione, ma letteralmente concepito. Cosicché se le parti di Plugin City sono mobili soprattutto nel senso che sono smontabili e ricomponibili, nella Walking City di Ron Herron le megastrutture sono concepite come spostabili su gambe a telescopio o scivolanti su un cuscino d'aria. Così, relativamente ad un altro progetto, Livingpod, un enorme robot semovente, dotato di utensili programmati elettronicamente per le esigenze degli abitanti, l'autore, David Greene scrive: «Principio fondamentale dell'abitare è sempre stato la necessità della casa per l'essere umano, principio che dev'essere rivisto alla luce della possibilità di aumentare la mobilità personale e del progresso tecnologico. Tutto è probabile. Emerge il rifiuto della permanenza e della sicurezza nella casa mentre cresce la curiosità ed il desiderio di conoscere: potrebbe uscire un mondo in movimento come le prime società nomadi»[32 D. Greene, Livingpod, in «Architectural Design», 1966. n. 11. Ma accanto a questi aspetti, per così dire, più tecnici, gli architetti di Archigram, almeno nei
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cinque anni che operarono uniti, programmarono anche la «ricerca estetica fine a se stessa»; il che vale a dire, a nostro avviso, l'elaborazione di un particolare gusto grafico e rappresentativo nato dalla fusione della moderna scuola di disegnatori britannici pensiamo a Gordon Cullen e al Townscape con gli spunti tratti dalla Pop Art. Ma da tale connubio e dal già citato avvertito senso della moderna figurazione deriva il superamento dello stesso enunciato estetizzante e la spinta a ridurre quell'«estetica» in azione largamente comunicativa. In tal senso Archigram costituisce il tentativo più vistoso di introdurre in campo architettonicourbanistico la cultura dei massmedia, anzi le loro opere possono considerarsi una mimesi di questi. Com'è stato osservato i loro disegni hanno un «carattere evocativo piuttosto che descrittivo [...] la città è vista come agglutinazione di forme, episodi e modi d'essere del contemporaneo mondo della tecnica. Trasporti e comunicazioni, specializzazione funzionale degli apparati, la casa come oggetto di consumo come automobile, frigorifero, televisione , il movimento come composizione fondamentale dell'organizzazione e l'instabilità del quadro urbano come principio del paesaggio si compongono in un colossale collage della nuova civiltà urbana. Archigram [...] accetta la totale compromissione con l'ambiente della produzione, dei consumi, dei massmedia, ma si manifesta più a livello dell'immagine che organizzativo e sistematico»[33M. Porta, Le nuove tecnologie: ragioni e suggestioni fra tecnica e architettura, «L'arte moderna», Fabbri. 1967, vol. XI, n. 92] E questo puntare sull'immaginario, questo tradurre l'architettura e l'urbanistica in massa media o viceversa non è un'invenzione o un'interpretazione della critica, ma sostanzia le stesse intenzioni degli Archigram, come dimostra ampiamente una delle loro più recenti proposte progettuali, la Instant City del 1969 di Peter Cook. II punto di partenza è la critica alla cultura delle GardenCities e del provincialismo ch'essa determina sugli abitanti, disancorati dall'attivismo e dai beni di consumo che offre la grande metropoli. Per
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ovviare a ciò Archigram propone una cittàscenario, un circo mobile che offre alla popolazione extraurbana tutte le informazioni e gli «effetti » possibili della vita della grande città. «Bastano venti veicoli, sui quali trasportare tende, involucri pneumatici, schermi, amplificatori, antenne, macchine elettroniche, piattaforme per improvvisare rappresentazioni, e tutto quel materiale che può servire a spettacoli informali. Si arriva, si coinvolge il pubblico eccitandone la fantasia, chiamandolo a collaborare come autore, promotore e attore di eventi imprevisti. In poche ore l'ambiente muta: nasce una città elettrizzante e, specie di notte, travolgente [...]. L'Instant City può essere un fattore importante nel processo di pianificazione. In un paese come l'Inghilterra, grandi rivoluzioni sono improbabili. Dovremo sfruttare le istituzioni e le possibilità esistenti piuttosto che continuare a lamentarci della loro inefficienza. Nel prossimo mezzo secolo, l'Inghilterra dovrà vivere del proprio brio, oppure perire. Il nostro tentativo consiste nell'immaginare un circo ambulante che abbia l'intensità di una città, ma non la sua dimensione e la sua stabilità. Lo scopo è quello di scuotere dal sonno la provincia almeno per una settimana, inducendo la gente a fare, a guardare, ad entrare in comunicazione con quanto avviene a Londra o in altre metropoli» [34 Cit. in B. Zevi, Cronache di architettura, cit., VII, pp. 3189. A conclusione dei nostri cenni sull'attività degli Archigram vogliamo svolgere due considerazioni che sembrano puntualmente confermare due nostre precedenti tesi. La prima riguarda assai da vicino il binomio storiautopia che è presente persino in una esperienza così «spensierata » e vitalistica come quella descritta. «Una casa di plastica scrive Peter Cook rimane una casa, la Plugin City rimane una città, la strada in tubo rimane una strada. Ma accanto a questa via di sviluppo verso qualcosa più casuale e meno finita, c'è il risorgere della caratteristica inglese di assorbire il nuovo nel tradizionale. Possiamo vedere nel nostro stesso lavoro la tendenza a porre in relazione il progetto con la realtà di ciò che già conosciamo. È interessante vedere Plugin City applicata ad una preesistente parte di Londra e un intero
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plugin concept sviluppato in un dialogo tra conservazione e invenzione di zone che possono continuare ad essere conservate mentre appaiono drammaticamente nuove [...]. Questo senso di compatibilità del nuovo (persino dello sperimentalmente «nuovo») con l'antico è un carattere essenzialmente inglese. Comunque esso non sembra impedire il radicalismo della ricerca»[35 P. Cook, Experimental Architecture, Studio Vista, London 1970, pp. 901]. La seconda considerazione riguarda il già menzionato carattere visivo e comunicativo dei progetti Archigram. Evidentemente la loro esperienza, pur paradigmatica sotto molti aspetti, non risolve i problemi più pressanti della contemporanea vicenda architettonico urbanistica, non segna un punto d'arrivo della sua storia che rimane un processo in atto problematico ed aperto. Tuttavia, realizzabili o meno che siano, le loro proposte risultano, a nostro avviso, la manifestazione che meglio ingloba nell'architettura e nell'urbanistica la cultura contemporanea intesa sia in senso antropologico, sia in senso tradizionale. Quanto alla prima questi architetti tendono soprattutto a comunicare il rispecchiamento della ideologia moderna più diffusa e condivisa, della tecnologia attuale, del consumo, del tempo libero in uno scenario urbano, ovvero a risemantizzare architettura e urbanistica attraverso i massmedia e quindi a livello della cultura di massa; quanto all'altro modo d'intendere il termine cultura cioè come istituzione storico scientificoartistica ecc., la loro opera resta la più recente incarnazione dell'idea di architettura come arte figurativa. Ci sembra così di aver ritrovato, per via storica, quanto in un nostro precedente saggio, Architettura come mass medium, avevamo proposto in linea teorica. Concludiamo il nostro excursus con un commento di Peter Blake, riferito al gruppo Archigram, ma applicabile a molte altre opere e teorie dell’architettura del ‘900:«conosciamo tutti i progetti cosiddetti “visionari” proposti, in varie occasioni, da gente come Cedric Proce e altri Archigrammisti. Ora tutti sanno che le loro
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idee sono completamente assurde. Come può un individuo sensato proporre edifici mobili o città mobili? Tutti sanno che proposte simili rasentano la follia; ma qualcuno ha dimenticato di dirlo a quei pazzi patentati di capo Kennedy, e così quelli sono andati diritti per la loro strada e hanno costruito enormi strutture mobili, senza sapere che quello che facevano non si poteva fare»
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