Storia Dell'Architettura Xx Tutto

October 9, 2017 | Author: Ernesto Liszt Valdivieso | Category: Marxism, Friedrich Engels, Capitalism, Socialism, Politics
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Storia Dell'Architettura Xx Tutto...

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Renato De Fusco

Storia dell’architettura del XX secolo Introduzione

Ridurre in forma semplice ciò che è complesso e individuare principi comuni   in   opere,   tendenze   ed   esperienze   diverse   sono   gli   obiettivi principali di questo libro, che riflette quasi puntualmente il corso di storia   dell'architettura   moderna   da   me   svolto   presso   la   facoltà   di architettura dell'università di Napoli da vari decenni. Il presente volume costituisce pertanto la testimonianza di un'attività didattica realmente svolta e, pur riflettendo una teoria dell'architettura e   una   metodologia   storiografica   analizzate   e   descritte   in   altri   miei saggi, intende rivolgersi agli studenti e a tutti coloro che si accostano per la prima volta alla storia dell'architettura del Novecento; il suo fine è quindi quasi esclusivamente didascalico. Come ogni trattazione sono necessarie alcune premesse che, specie in questo saggio, intendono anche essere il programma del libro, le linee direttrici per l'organizzazione espositiva dell'argomento, la chiave di lettura e consultazione del volume, i punti di riferimento per l'intero discorso   la   cui   verificabilità,   da   ritrovarsi   nel   contesto   del   libro, dovrebbe garantire il grado del suo contributo scientifico. La prima premessa riguarda il termine «riduzione» che ho utilizzato nell'esporre gli obiettivi principali di questo saggio. Esso denota non solo un'attività semplificatrice, ma anche un'altra mirante a cogliere l'organizzazione   basilare   e   sistematica   dei   fenomeni,   la   loro significazione,   la   loro   struttura.   Il   termine   «struttura»   ci   porta   alla seconda   premessa   del   libro   e   al   modo   col   quale   esso   è   stato conformato e organizzato. Assimilata al concetto del tipo­ideale weberiano,[I  «Esso non è una rappresentazione del reale, ma intende fornire alla rappresentazione un

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mezzo di espressione univoco [...] è ottenuto mediante l'accentuazione unilaterale di uno o di alcuni punti di vista, e mediante la connessione di una quantità di fenomeni particolari diffusi e discreti, esistenti qui in   maggiore   e   là   in   minore   misura,   e   talvolta   anche   assenti, corrispondenti a quei punti di vista unilateralmente posti in luce, in un quadro concettuale in s unitario. Nella sua purezza concettuale questo quadro  non   può   mai   essere   rintracciato   empiricamente   nella  realtà; esso è un'utopia, e al lavoro storico si presenta il compito di constatare in ogni caso singolo la maggiore o minore distanza della realtà da quel quadro ideale». Cfr. M. Weber, Il metodo delle scienze storico­sociali, Einaudi, Torino 1958, p. 108] la nozione di struttura equivale a un modello   che,   accentuando   unilateralmente   alcuni   aspetti dell'esperienza   storica   contemporanea,   quali   il   contesto   storico­ sociale, le teorie critico­estetiche, le poetiche, ecc., serve a suddividere in vari codici o stili l'oggetto della mia trattazione e in pari tempo a confrontare con essi le opere più significative di ciascun periodo o tendenza. Pertanto,   stabilita   questa   equivalenza   tra   i   concetti   di   struttura, modello, tipo­ideale, stile e codice, ho diviso il libro in tanti capitoli (L'eclettismo storicistico, L'Art Nouveau, Il protorazionalismo, ecc.) quante sono queste cosiddette poetiche «costruendole» appunto come altrettante strutture stilistiche. Ognuno di tali capitoli si comporrà di due   parti.   La   prima   sarà   l'esposizione   degli   eventi   scelti   a rappresentare le suddette strutture; essa non esaurirà evidentemente la tematica culturale connessa alla storia dell'architettura contemporanea, ma servirà sia come una «riduzione» storiografica delle vicende di un dato periodo, sia come un'introduzione e un parametro referenziale per le opere di quel periodo; cosicché questa prima parte potrà assumersi come un codice­stile. La seconda parte sarà dedicata allo studio delle opere   corrispondenti   a   quest’ultimo   e   potranno   assumersi   come altrettanti messaggi.  La   terza   premessa   riguarda   il   tipo   di   tali   opere­messaggio,   Esse saranno     tra   le   più   «paradigmatiche»   (opere   che   derogano   dal

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precedente   codice   ponendosi   come   modello   per   la   produzione successiva), ed «emblematiche» (opere che rappresentano fedelmente il   linguaggio   del   loro   tempo).   In   quanto   tali,   risponderanno   alla generale esigenza riduttiva del libro e serviranno a confermare o a smentire quello che, nella prima parte, è stato ipotizzato come il loro codice­struttura. Benché   l’impostazione   metodologica   del   saggio,   sia   francammente strutturalista,   fondata,   come   ripeto,   sulla   ricerca   delle   invarianti, queste non stanno mai da sole, ma associate alle varianti di ciascuna tendenza storica esaminata. Nonostante le caratteristiche teoriche, in ogni caso questo libro tende a essere il più semplice e facile, il meglio di   molti   altri   manuali   del   genere,   a   unificare   storiografia   e progettazione. Capitolo primo L'ECLETTISMO STORICISTICO Con questa espressione si indica generalmente una fase della storia dell'architettura dell'800, in cui coesistono stili diversi e tutti facenti capo   a   differenti   periodi   storici   precedenti;   così   il   neoclassico,   il neogotico,   il   neorinascimento,   il   neobarocco,   ecc.   costituiscono altrettanti   ritorni,   ravvivamenti   (revivals)   rispettivamente dell'architettura   del   mondo   antico,   medievale,   rinascimentale,   ecc., senza parlare delle tendenze che si rifanno al gusto esotico. Non  è nostra intenzione smentire tali nomenclature, rispondenti peraltro alla precisa   intenzione   degli   architetti   militanti   in   dette   tendenze. Vogliamo, di fronte alla esigenza di costruire un più ampio codice­ stile   relativo   alla   produzione   ottocentesca,   anzitutto   affrancare   la dizione   «eclettismo   storicistico»   dalle   sue   connotazioni   negative, considerandola indicativa di uno stile nel suo complesso unitario, e insecondo luogo includere in essa altri fenomeni, come quello della nascita dell'urbanistica moderna, o altri eventi solitamente trattati dalla storiografia in capitoli a parte, come a esempio l'opera degli ingegneri o la scuola di Chicago. E ciò non tanto per condensare un materiale

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storico   altrove   frazionato,   quanto   perché   riteniamo   che   tutta   la produzione del periodo suddetto rifletta cause ed esigenze comuni a tutto   il   mondo   occidentale   industrializzato;   inoltre,   nonostante   le diverse poetiche, i differenti personaggi ed eventi, la dissimiglianza delle opere, riteniamo che il significato di fondo dell'intera vicenda sia sostanzialmente   storico­eclettico,   nell'accezione   fenomenologica   ed epocale   dell'espressione   e   non   in   quella   puramente   formale   e «stilistica». Già   gli   assunti   ora   detti   costituiscono   una   sorta   di   tipo­ideale,   un quadro concettuale cioè unitario ottenuto mediante l'accentuazione di un   punto   di   vista   e   la   connessione   di   una   quantità   di   fenomeni particolari. Proviamo dunque a costruire questa struttura­modello che chiamiamo «eclettismo storicistico» con la quale studieremo alcune delle   principali   opere   del   periodo   sopra   indicato.   Tale   costruzione equivale   a   una   narrazione   «angolata»   delle   principali   vicende   ­   le condizioni   storico­sociali,   quelle   tecnologiche,   le   teorie   critico­ estetiche,   le   poetiche,   i   protagonisti   (temi   che   ricorreranno   quali invarianti in tutti gli altri capitoli) avvertiti però dalla premessa che la nostra non sarà una storia rispecchiante la realtà dei fatti e certamente meno esaustiva di altre, ma una tendente principalmente a fornire un quadro unitario di essi nonostante la loro eterogeneità. Le condizioni storico­sociali. L'architettura   e   l'urbanistica   moderne   nascono   dall'incontro   di   una serie di fattori tra i più tipici della cultura databili tra il XVIII e il XIX secolo. Molti autori, con fondati motivi, vedono l'inizio di esse nel ‘700 e segnatamente fanno coincidere la loro genesi con la cosiddetta architettura   dell'Illuminismo   (Boullée   e   Ledoux)   e   con   l'ampio dibattito teorico del secolo XVIII. Per parte nostra, pur riconoscendo la  grande   importanza   di   questi  fenomeni,  riteniamo  che,   a  parte  la datazione,   i   fattori   causali   della   moderna   vicenda   architettonico­ urbanistica   siano   soprattutto   il   liberalismo,   l'industrialismo,   il

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positivismo,   la   rivoluzione   tecnologica,   il   socialismo   utopistico,   il marxismo, ecc., dei quali tracciamo qui una rapida sintesi. Nato   con   le   ideologie   democratiche,   egalitarie   e   umanitarie   dalla Rivoluzione   francese,   il  liberalismo  si   affermò   come   traduzione politica, sociale ed economica dell'individualismo. Dal punto di vista economico   il liberalismo, il cui punto di forza era il principio della proprietà   privata,   sosteneva   che   ogni   attività   di   scambio   dovesse svolgersi   senza   alcuna   interferenza,   secondo   le   leggi   dell'utile individuale e il gioco spontaneo della domanda e dell'offerta; inoltre esso riteneva che l'interesse privato, stimolando il ritmo lavorativo e la concorrenza,   si   risolvesse   in   un   vantaggio   collettivo   e   che,   grazie sempre a quel libero rapporto di domanda e offerta, ogni situazione di cambiamento e di crisi economica si riequilibrasse automaticamente. Intanto, grazie al positivismo, per cui solo la conoscenza sperimentale dei fatti è feconda, e al crescente progresso delle scienze naturali, si ebbe   un   notevole   sviluppo   tecnologico   con   l'invenzione   di   nuove macchine   capaci   di   sostituire   il   lavoro   artigianale   e   rivoluzionate radicalmente   i   tradizionali   processi   lavorativi.   Al   liberalismo   si associa   così   l'industrialismo.   Inoltre,   poiché   il   costo   dei   nuovi macchinari   e   impianti,   non   sostenibile   dagli   artigiani,   richiedeva l'anticipo di un ingente capitale iniziale, questo, unitamente alla nuova organizzazione produttiva e a uno smercio rapido e quantitativamente notevole dei manufatti, tale cioè da utilizzare al massimo le macchine e recuperare al più presto il capitale impiegato nelle spese d'impianto, portarono al  capitalismo. Dall'insieme di questi fenomeni nascono la produzione di massa, l'economia di consumo e di profitto, il regime concorrenziale, sorretto dall'etica e dal parametro economico per cui tutto è lecito, utile e va bene purché si venda.  Quando dalla competizione a livello nazionale si passa alla conquista dei mercati esteri, il regime capitalistico impone allo stato il conflitto con altri paesi produttori e la politica coloniale dando luogo ad una nuova versione del vecchio imperialismo.

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La classe che fece propria l'ideologia del capitalismo industriale fu quella  della   borghesia   che,   a  differenza   della   nobiltà,  a   suo   tempo interessata alla gestione dell'attività agricola se non alla pura rendita parassitaria,  s'impegnò  totalmente  nell'industria  e  nel   commercio  e, una   volta   acquisiti   i   moderni   strumenti   di   produzione,   divenne   la classe egemone della società ottocentesca. Oltre all'indiscutibile ruolo storico  svolto  tra  grandi   successi  e   profonde  contraddizioni,  questa classe   era   caratterizzata   dal   fatto   di   essere   aperta:   ad   essa   poteva accedere chiunque, indipendentemente dalla nascita e dalle condizioni di   partenza,   fosse   stato   capace   di   acquisire   efficienza,   ricchezza   e potere. L'altra   protagonista   della   rivoluzione   industriale   è   la   classe   del proletariato,   in   precedenza   i   lavoratori   erano   organizzati   in corporazioni, ossia in società fra addetti allo stesso mestiere, che se da un   lato   garantiva   i   membri   contro   le   classi   egemoni   del   tempo, dall'altro presentava i limiti propri d'una oligarchia retta dai cosiddetti maestri d'arte, che si tramandavano questa carica da padre in figlio, e d'una   organizzazione   che   impediva   ai   non   corporati   di   svolgere liberamente   qualsiasi   tipo   di   lavoro.   Tuttavia,   abolita   questa anacronistica   struttura   dalla   Rivoluzione   francese,   la   classe   operaia ottenne solo alla fine dell'Ottocento il riconoscimento del sindacato; cosicché per oltre un secolo, a parte le iniziative spontanee e isolate, i lavoratori   non   ebbero   alcun   organismo   che   ne   tutelasse   i   diritti   e consentisse loro un potere contrattuale. Il liberalismo si risolveva a tutto vantaggio della classe padronale in quanto, affermando tra l'altro il principio della libera contrattazione, sanciva che, mentre la proprietà degli strumenti produttivi, come del resto ogni altro tipo di proprietà privata,   costituiva   un   diritto,   il   lavoro   era   soltanto   un   dovere, contestando   il   capitalismo   il   diritto   al   lavoro,   le   associazioni   di categoria, i sindacati operai, ecc., ossia tutto quanto potesse impedire l'esercizio assoluto del suo potere economico. Da queste condizioni e grazie al fatto che le concentrazioni produttive e l'esperienza della vita nelle fabbriche danno agli operai una maggiore coscienza di classe

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  [1   «La   rivoluzione   industriale   ha   avuto   per   l'Inghilterra   la   stessa importanza che la rivoluzione politica per la Francia e quella filosofica per la Germania, e la distanza tra l'Inghilterra del 1760 e l'Inghilterra del 1844 è almeno pari a quella tra la Francia dell'ancien régime e la Francia della Rivoluzione di luglio. Il frutto più importante di questo rivolgimento industriale è però il proletariato inglese»; cfr. F. Engels, La   situazione   della   classe   operaia   in   Inghilterra,   Editori   Riuniti, Roma 1972, p. 56.], nasce il socialismo scientifico dopo una serie di formulazioni,   proposte   e   riforme   dovute   al   cosiddetto   socialismo utopistico. Alla libertà del capitalismo si oppongono le rivendicazioni operaie,   all'organizzazione   padronale   quella   dei   lavoratori.   Il movimento operaio s'organizza secondo i principi del marxismo. Per esso   l'operaio   produce   valore   in   eccesso   rispetto   alla   sua remunerazione   e   questo   plusvalore   viene  assorbito  dal   capitalista   a proprio   esclusivo   vantaggio.   Da   questo   ineliminabile   sfruttamento deriva la lotta di classe. Tale conflitto, esistente in ogni altro momento della   storia,   quale   che   siano   i   nomi   delle   classi   antagoniste,   e   che spiega, secondo i marxisti, la stessa evoluzione storica, assume con la rivoluzione   industriale   il   suo   più   chiaro   ed   esplicito   rapporto dialettico.   E   poiché   la   democrazia   parlamentare   è   facilmente manovrata dal sistema capitalistico, solo con la rivoluzione politica ed il trionfo del proletariato si avrà la fine di questo dissidio e una società senza   classi.   Intanto   ­   termine   che   caratterizza   sia   una   strategia   a medio termine del movimento operaio, sia la politica dei riformisti ­ accanto   all'organizzazione   rivoluzionaria   del   proletariato,   ad alleviarne la condizione di estremo disagio, sorge una serie di azioni riformatrici avanzate da tecnici democratici, da organismi religiosi, da associazioni filantropiche. Passando   da   queste   generali   note   informative   all'esame   più   diretto delle   condizioni   che   presiedono   alla   nascita   dell'architettura   e dell'urbanistica   moderne,   bisogna   far   cenno   alla   situazione dell'Inghilterra, ossia della nazione che per prima visse l'esperienza della civiltà industriale. Il primo manifestarsi di questo cambiamento

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culturale   antropologico   si   verifica   in   corrispondenza   all'azione congiunta e correlata della rivoluzione demografica e della rivoluzione industriale. Dalla seconda metà del Settecento al 1830, periodo che si considera   per   le   innovazioni   tecnologiche   e   il   nuovo   assetto economico quello corrispondente appunto alla rivoluzione industriale, si calcola che la popolazione inglese passa da sei milioni e mezzo a quattordici   milioni   di   abitanti.   Le   cause   dell’incremento   furono d'ordine alimentare, igienico, edilizio; sono legate ai progressi della medicina e dell'assistenza sanitaria, agli impianti per la fornitura e lo smaltimento delle acque, agli aspetti positivi (tra i numerosi negativi) del   processo   d'industrializzazione.   All'incremento   demografico   si associa una diversa distribuzione degli abitanti sul territorio, legata alla   utilizzazione   in   campo   produttivo   di   alcune   invenzioni tecnologiche.  La più importante fu la macchina a vapore di James Watt brevettata nel 1769. Essa incise immediatamente in tre settori produttivi fra i più tipici e attivi in Inghilterra, il minerario, il siderurgico e il tessile, fra loro   intimamente   connessi.   Il   campo   siderurgico   era   stato   in precedenza innovato dalla scoperta di Abraham Darby, avvenuta nel 1735 e perfezionata da suo figlio, consistente in un procedimento per fondere il ferro dal minerale impiegando il coke di carbone minerale al posto del carbone ottenuto dalla combustione del legno, ossia di un materiale di difficile approvvigionamento e comunque utilizzabile per numerosi   altri   scopi.   La   macchina   di   Watt   consentì   anzitutto   un notevole   aumento   nell'estrazione   del   carbone   minerale   e   poi l'immediata utilizzazione delle miniere per la produzione siderurgica. Questo fatto, come s'è accennato, ebbe una grande ripercussione sulla trasformazione   degli   insediamenti   territoriali.   Infatti   gli   impianti   di estrazione del carbone che prima nascevano nelle zone boscose, ossia lontane   dai   centri   cittadini,   successivamente   furono   installati   nelle regioni   minerarie   che,   o   per   la   loro   vicinanza   ai   centri   urbani,   o soprattutto per la loro più complessa organizzazione, richiamarono un ingente numero di addetti, determinando così nelle zone di lavoro dei

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nuovi nuclei abitati. In campo tessile la macchina a vapore di Watt fornì   la   necessaria   energia   meccanica   alla   tessitrice   inventata   da Edmund Cartwright nel 1784, che subentrò alla filatrice di Richard Arkwright mossa dall'energia idraulica, ideata nel 1768, la quale a sua volta aveva sostituito i telai a mano jenny del 1764 e il fly shuttle del 1733.   Ora,   mentre   i   telai   a   mano   consentivano   la   lavorazione   a domicilio, affidata prevalentemente alle donne, sia indipendente che a commessa, effettuata di solito nelle zone agricole da alcuni membri delle famiglie contadine, le macchine tessili furono concentrate, nei pressi delle fonti di energia idraulica o mineraria, in officine e filande che   richiamarono   dalla   campagna   un   numero   sempre   crescente   di lavoratori.   Cosicché   anche   l'industria   tessile,   accanto   a   quelle minerarie e siderurgiche, produsse una concentrazione in alcune zone di   impianti   che,   per   la   loro   relazione   con   quelli   degli   altri   settori, contribuirono a determinare una lavorazione a ciclo completo. Il   costo   di   tali   impianti,   come   s'è   detto,   e   loro   organizzazione centralizzata   sono   all'origine   della   formazione   della   nuova   classe imprenditoriale. La domanda del mercato aumentava sia per il più alto tenore   di   vita   degli   abitanti,   sia   per   il   perfezionamento   di   molti prodotti dovuto alle nuove macchine che soprattutto consentivano di immettere sul mercato una quantità di merce a un prezzo tanto basso da essere accessibile  alla maggioranza  dei compratori. Si stabilisce così la logica del lavoro industriale: quantificare la produzione, ridurre i prezzi per produrre di più in un tempo sempre più breve. Intanto il nuovo velocizzato ritmo produttivo, la necessità di incrementare gli scambi   e   i   trasporti   sollecitarono   il   rinnovamento   della   rete   di comunicazione   dell'intero   paese.   Furono   aperte   nuove   strade,   resi navigabili i canali e avviato il processo di trasporti su rotaie, dapprima in legno, poi in ferro finché con la locomotiva di George Stephenson del 1829 si ebbe la nascita della ferrovia. La città risulta il nodo più favorevole in cui s'intrecciano le attività produttive, quelle di scambio e quelle economico­direzionali. Secondo i dati del Lavedan, dal 1750 al 1850 Manchester passa da 12.000 a

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400.000 abitanti; Glasgow da 30.000 a 300.000; Leeds da 17.000 a 170.000  [cfr.   P.   Lavedan  Histoire   de   l’urbanisme.   Èpoc contemporaine, H. Laurenz Editeur, Parigi 1952]. Londra è la prima città   europea   che   alla   fine   del   Settecento   raggiunge   un   milione   di abitanti. I motivi che attraggono nella città la gente dalla campagna sono   d'ordine   economico:   la   possibilità   di   un   salario   più   elevato   e regolarmente corrisposto; tecnico: una condizione di vita più igienica e la fruizione di una maggiore assistenza; ricreativo: la città offre più occasioni d'incontri e di divertimento rispetto alla campagna. Questi vantaggi si accompagnano a una notevole contropartita. La città con le sue antiche strutture non regge alle spinte dei mutamenti e dell'ingente immigrazione; è il luogo dove più forte si verifica lo scontro di classe; diventa essa stessa con le sue aree fabbricabili e i suoi edifici oggetto di mercificazione capitalistica. Seguendo le teorie economiche liberali (già nel 1776 Adam Smith consigliava ai governi di cedere i terreni demaniali per sanare i loro bilanci), gli enti pubblici cedono ai privati la proprietà  delle  aree edificabili,  perdendo  così  ogni  possibilità  di controllo   urbanistico.   Nel   periodo   più   tipico   della   rivoluzione industriale, gli anni cioè dal 1760 al 1830, si manifestano i maggiori disagi: le vecchie costruzioni del centro, specie quelle più fatiscenti e malsane   vengono   occupate   dagli   immigrati   dalla   campagna   e   le inchieste   avviate   qualche   anno   più   tardi   descrivono   condizioni   di abitabilità   inumane   a   Londra,   Manchester,   Liverpool,   Leeds;   né diversa era la situazione delle nuove abitazioni costruite in periferia proprio per accogliere la nuova massa dei lavoratori; anzi al fine di trarre   vantaggio   da   questa   precaria   condizione   sorse   un'apposita categoria   di   imprenditori   edili,   i  jerry   builders  cui   si   deve   la formazione degli slums e del moderno suburbio proletario. Il problema delle abitazioni popolari divenne il punto centrale della città ottocentesca.  F. Engels  con  il  suo  libro  The  Condition of  the Working Class in England del 1845, fornì il contributo più attendibile, sia pure angolato dalla sua visuale rivoluzionaria, per tutti coloro che, sociologi, tecnici, urbanisti, successivamente si sono occupati di tale

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problema. Secondo un'indagine del tempo, a Bristol su 2.800 famiglie il 46% disponeva di una sola stanza; in una zona di Londra, l'East End, vengono segnalate 1.400 case abitate da 12.000 persone; nella Parrocchia Saint­George, ad Hannover Square, su 1.465 famiglie, 929 hanno   una   sola   stanza,   408   vivono   in   due,   mentre   623   hanno addirittura un solo letto [Cfr. F. Engels La questione delle abitazioni, Edizioni   Rinascita,   Roma   1950].   Gli   alloggi   sotterranei   sono numerosissimi  a Londra, Manchester, Liverpool, Leeds. Le carenze urbanistiche della città paleo­industriale furono generali; i disagi di ciascun settore si ripercossero su tutti gli altri. Gli elevati indici di affollamento,   le   carenze   dei   servizi   igienici,   le   difficoltà   di approvvigionamento   idrico   e   soprattutto   quelle   relative   allo smaltimento   delle   acque   nere   sono   tutte   cause   concomitanti   delle ripetute epidemie pestilenziali. Queste vanno peraltro ricordate come i soli   fatti   capaci   di   smuovere   lo   stato   e   gli   enti   pubblici,   come   le principali   cause   di   quegli   interventi   di   risanamento,   che   indiziano peraltro la incapacità ed i limiti del regime liberistico, dell'ideologia del  laissez faire, a risolvere i problemi senza l'intervento della mano pubblica. Ancora, tra i fenomeni tipici della prima città industriale, va ricordata   la   mancata   distinzione   fra   le   diverse   funzioni   delle   zone urbane:   in   assenza   di   appositi   regolamenti,   opifici   e   filande   si installavano laddove volevano creando dannose conseguenze per le adiacenti   zone   abitate,   per   il   traffico,   per   l'inquinamento   idrico   ed atmosferico,   ma   forse   soprattutto   perché   la   loro   presenza   avrebbe compromesso gli sviluppi successivi delle città. Il quadro che abbiamo descritto trova un'interpretazione abbastanza fedele nella città che Dickens chiama  Coketown  nel suo libro  Tempi difficili, ma la città del carbone, del fumo, della macchina segna anche un   punto   di   riferimento,   costituisce   il   simbolo   d'un   processo irreversibile,   ricco   di   contraddizioni,   ma   anche   tappa   di   una straordinaria vicenda umana e sociale. Peraltro dalla diagnosi e dalla terapia di questa città malsana nasce a opera di tecnici, di legislatori, di amministratori, riformatori ed utopisti, l'urbanistica moderna.

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Questa può considerarsi generata, dal punto di vista socio­politico al quale   abbiamo   dedicato   il   presente   paragrafo,   da   tre   diversi atteggiamenti: uno legislativo­riformistico, uno peculiare agli utopisti ottocenteschi ed un terzo che riflette l'atteggiamento dei primi marxisti sull'argomento. Quanto agli sforzi per riequilibrare in campo edilizio e urbanistico   gli   scompensi   prodotti   dalla   rivoluzione   industriale secondo la via delle riforme legislative, essi seguono quasi dovunque le seguenti fasi: dapprima si effettuano delle accurate inchieste sulle condizioni   igienico­sanitarie   e   sulle   condizioni   abitative   del preesistente patrimonio edilizio, segnatamente per ciò che concerne le abitazioni   popolari   (in   Inghilterra,   ad   esempio,   si   ha   l'inchiesta condotta   ufficialmente   da   Edwin   Chadwick   e   quella   «privata»   di Engels,   unitamente   a   una   serie   di   minori   indagini   promosse   da organismi   religiosi   e   filantropici);   in   un   secondo   momento,   tra profondi   travagli   politici,   perché   entrano   in   conflitto   l'interesse pubblico   e   quello   privato,   si   emanano   alcune   leggi   sulla   salute pubblica (il  Public Health Act  del 1848,  l'Artisan's and Labourer's Dwelling Act del 1866, lo Housing of Worker Class Act del 1890); la terza   fase   riguarda   le   leggi   relative   all'esproprio   di   beni   privati dichiarati   di   pubblica   utilità;   è   questo   l'istituto   che   pone   in   crisi l'ideologia liberistica, quello che costituisce una sorta di inversione di tendenza   rispetto   alla   politica   consigliata   da   Adam   Smith   e   in definitiva lo strumento rimasto basilare per ogni successiva riforma urbanistica. In questo campo   è la Francia  a svolgere un'azione  più decisa.   La   prima   legge   sulla  espropriation   pour   cause   d'utilité publique  è del 1810, ma riguarda casi eccezionali; la legge del 1841 estende l'esproprio ai casi di grands travaux publics; quella del 1850 ne   prevede   l'applicazione   a   tutta   l'area   dei   lavori   da   effettuare,   ivi compresi i quartieri d'abitazione  [Cfr. G. Astengo, voce  Urbanistica dell’Enciclopedia Unversale  dell’arte, Istituto per  la collaborazione culturale, Venezia­Roma 1958, Vol XIV col. 607]. Il   secondo   atteggiamento   sociologico   connesso   alla   nascita   della moderna urbanistica è quello degli utopisti. Poiché il punto nodale per

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garantire   a   tutti   migliori   condizioni   di   vita   era   il   superamento   del contrasto fra il diritto privato e quello pubblico e poiché la proprietà privata   era   la   chiave   di   volta   del   sistema   capitalistico,   i   primi riformatori   radicali   avanzarono   proposte   attuabili   soltanto   in un'organizzazione economico­sociale diversa da quella del loro tempo e perciò furono definiti utopisti. Tuttavia, se è vero che i loro piani furono a volte privi di concretezza e contrari al senso comune, essi ebbero il grande merito di anticipare varie riforme e di indicare che i disagi   urbanistici   sarebbero   stati   insolubili   senza   le   adeguate trasformazioni   economiche;   non   solo   ma,   sul   terreno   pratico,   essi seppero   cogliere   spesso   il   tipo   e   la   scala   degli   interventi   di   più immediata   necessità.   Infatti,   se   consideriamo   l'esempio   di   Robert Owen, ex operaio divenuto il maggiore azionista delle filande di New Lanark   in   Scozia,   troviamo   presso   la   sua   azienda   sin   dal   1816   il miglioramento dei salari, la riduzione della giornata lavorativa a dieci ore, la sistemazione degli  operai in alloggi decorosi e una serie di iniziative   tendenti   ad   elevare   l'istruzione   professionale   e   civile   dei dipendenti.   Tutto   ciò   produceva   un   ambiente   (e   un   «rendimento») diametralmente   opposto   a   quello   dei   quartieri   malsani   di   Londra, Manchester, Liverpool e di ogni altra città toccata dalla rivoluzione industriale. Ma l'opera di Owen va oltre queste iniziative filantropiche e   di   corretta   conduzione   aziendale.   Egli   fu   infatti   tra   i   primi   a occuparsi   dell'equilibrio   fra   la   quantità   della   produzione,   il   suo smercio   e   il   modo   più   razionale   d'impiegare   le   forze   lavorative disponibili. Inoltre intese la necessità di non abbandonare a vantaggio dell'industria   il   lavoro   della   campagna,   di   organizzarsi   in   maniera cooperativa   e   sfruttando   nell'agricoltura   le   nuove   possibilità tecnologiche. In un rapporto del 1817 egli delinea un vero e proprio piano   urbanistico   relativo   ad   una   serie   di   comunità   semirurali, confederate tra loro e destinate ad accogliere ognuna dalle 500 alle 1500 persone, occupate nella lavorazione industriale dei prodotti della terra.   L'impianto   urbanistico   di   questi   centri,   definiti «parallelogrammi»   dalla   disposizione   a   forma   di   rettangolo   degli

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edifici   contenenti   case,   laboratori   e   servizi   comuni,   prevedeva   la costruzione di scuole, cappelle, sale per riunioni, biblioteche, centrali termiche, ecc. Ma la logica del sistema liberistico era inattaccabile: queste   comunità   owenite,   tentate   prima   in   Inghilterra   e successivamente   negli   Stati   Uniti   d'America,   ebbero   vita   breve   e portarono   alla   rovina   economica   del   loro   fondatore.   Esse incentivarono però una serie di riforme. Gli esempi di New Lanark e le   teorie   dei   parallelogrammi   costituirono   i   modelli   delle   future company   towns,   furono   le   prime   attuazioni   del   movimento cooperativo, contribuirono ad originare le Trade Unions e, tra l'altro, produssero l'istituzione delle prime scuole d'obbligo e soprattutto delle scuole materne, che sono alla base dell'organizzazione familiare del proletariato industriale.  Contemporanea alle riforme proposte da Owen è la teoria economico­ urbanistica di Charles Fourier, che pone l'accento su una più chiusa comunità   operaia,   governata   da   rigide   norme   di   vita   collettiva, economicamente   basata   sul   tipo   d'una   società   per   azioni   i   cui dividendi sarebbero stati commisurati alle capacità lavorative d'ogni singolo   membro.   L'attuazione   urbanistica   del   complesso   schema teorico di Fourier veniva affidata alla costruzione di un grande edificio per   1.620   abitanti,   il   «falansterio»,   una   sorta   di   moderno   albergo provvisto di locali e servizi comuni, quali cucine, lavanderie, impianti centralizzati, ecc. L'utopico edificio di Fourier veniva realizzato, con le   opportune   modifiche,   nella   seconda   metà   del   secolo   da   un industriale   progressista   Jean­Baptiste   Godin   nei   pressi   della   sua fabbrica a Guisa. Mentre nel falansterio gli abitanti erano divisi per età,   nel   più   modesto   edificio   di   Godin   essi   hanno   dei   tradizionali alloggi   familiari,   donde   il   nome   di   «familisterio»   dell'intero complesso, che conserva tuttavia la centralizzazione degli impianti del modello originario. Tra i motivi del successo di questo esperimento, anch'esso   fondato   economicamente   sul   sistema   cooperativo,   è   la diretta dipendenza del nucleo residenziale dalla fabbrica e quindi la specifica attività industriale di tutti gli abitanti. Secondo lo schema di

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Godin il profitto di questa organizzazione comunitaria si divideva in quattro parti: compenso dei lavoratori, interesse del capitale, diritto degli   inventori,   fondo   di   sicurezza   sociale.   Ma,   a   parte   queste innovazioni di carattere economico, col familisterio di Guisa siamo già in presenza del fenomeno delle company towns, ossia dei nuclei di case   operaie   realizzate   nei   pressi   di   alcuni   importanti   impianti industriali. Sia per motivi filantropici, sia, com'è stato osservato, per migliorare   il   rendimento   dei   lavoratori,   furono   fondati   nel   1853   il nucleo di Saltaire per un'industria laniera, nel 1859 quello citato di Godin, nel 1863, quello di Krupp ad Essen, nel 1887 il quartiere Port Sunlight per l'industria di sapone Lever, nel 1895 il centro residenziale Bournville del fabbricante di cioccolato G. Cadbury, ecc. Alcune di queste ultime iniziative sono associabili o addirittura s'innestano con il movimento   delle   città­giardino   promosso   da   Ebenezer   Howard,   sul quale ritorneremo più avanti. Il terzo atteggiamento politico, economico e sociale verso i problemi della   città   industriale   è   quello   dei   primi   marxisti.   Engels,   dopo l’inchiesta sulle condizioni della classe operaia in Inghilterra, ritornò ad occuparsi  delle case dei lavoratori, vale a dire il punto centrale dell'urbanistica   ottocentesca,   in   tre   articoli   apparsi   nel   1872   su «Volksstaat». In essi l'autore, in polemica con i socialisti riformisti, critica   negativamente   tutti   tentativi   fino   a   quel   tempo   avviati   per risolvere il  problema delle abitazioni operaie, dalle  company towns alle  cités ouvrières  napoleoniche alle  building societies, ritenendole espressioni   del   paternalismo,   della   mistificazione   e   soprattutto un'ulteriore   causa   di   sfruttamento   da   parte   del   padronato   sui lavoratori; più articolate sono le riserve che egli muove sull'opera dei primi   socialisti   utopisti.   In   sostanza,   Engels   considera   quella   delle abitazioni   una   fra   le   tante   contraddizioni   del   sistema   capitalistico, insolubile   in   maniera   soddisfacente   finché   vige   tale   regime   e   da rimandare   alla   gestione   dello   stato   socialista,   in   considerazione peraltro della imminenza di una rivoluzione che avrebbe rovesciato detto sistema. Riferendosi a questi scritti, Benevolo osserva: « Engels

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preferisce [...] considerare il futuro assetto urbano come una semplice conseguenza   della   rivoluzione   economica   a   cui   deve   tendere   il movimento operaio, e assorbire la questione delle abitazioni, senza residui,   nella   questione   sociale.   Così   la   critica   marxista,   mentre enuncia   alcuni   principi   fondamentali   per   l'interpretazione   delle esperienze in corso, lascia scoperta la loro applicazione nel campo specifico della programmazione edilizia, e si estranea per lungo tempo dalla vicenda urbanistica »  [L. Benevolo,  Le origini dell’urbanistica moderna, Laterza, Bari 1972, pp. 190­1]. Questo è vero perché quasi tutto   quanto   s'è   realizzato   in   campo   architettonico­urbanistico   nel periodo in esame non è frutto di una rivoluzione, che non avvenne alla scadenza   prevista,   ma   di   uno   spirito   riformistico.   Le   elaborazioni «particolari» che Engels rifiuta dalla sua visuale costituiscono proprio lo  sforzo   che,  dagli   utopisti   a  Morris,   dai  tecnici   più   avanzati   alle amministrazioni   democratiche,   ha   tradotto   in   azione   concreta   e positiva quelle pur imperfette condizioni socio­economiche. Ma se i primi   marxisti   non   nutrirono   questo   interesse   e   considerarono inefficaci   tali   tipi   d'intervento,   non   è   vero   che   essi   sono   risultati estranei   alla   vicenda   urbanistica.   Intanto,   come   abbiamo   osservato altrove,   non   si   trova   negli   scritti   di   Engels   il   rifiuto   dell'opera   dei socialisti   utopisti,   ma   il   loro   storico   dimensionamento;   anzi   si riconosce, per alcuni non trascurabili aspetti, la correttezza di certe loro analisi e previsioni. «Già i primi socialisti utopisti moderni ­ egli scrive ­, Owen e Fourier, avevano visto correttamente la questione: nei loro schemi della società modello l'antitesi fra città e campagna non esisteva più [...] soltanto una distribuzione il più possibile uniforme della   popolazione   su   tutto   il   territorio,   soltanto   un   intimo coordinamento   della   produzione   industriale   e   di   quella   agricola, accompagnati dall'estensione della rete di comunicazioni che così si rende necessaria, presupponendo effettuata l'abolizione del modo di produrre   capitalistico,   sono   in   grado   di   strappare   la   popolazione agricola dall'isolamento [...] l'utopia sorge quando si propone “in base alle condizioni  attualmente esistenti” di prescrivere la  forma  in cui

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dovrebbe  essere  risolta  questa  o quella  contraddizione  della  attuale società»  [Cfr.   Prefazione   alla   terza   edizione   di  Der   Deutsche Bauernkrieg, Leipzig 1875]. Come si vede, oltre a ribadire il rifiuto di considerare  le riforme urbanistiche  attuabili  persistendo  i limiti del sistema   capitalistico   (e   di   questo   ne   testimonia   l'esperienza   storica successiva),   si   riconosce   alla   cultura   precedente   l'individuazione   di alcuni   principi,   il   rapporto   città­campagna,   il   coordinamento   delle rispettive   attività,   la   distribuzione   equilibrata   degli   abitanti   sul territorio, ecc. che, pur divenuti patrimonio ideologico di tutti, hanno trovato nei marxisti i loro principali sostenitori. Ma, a parte ciò, quale che sia stato il suo intervento «tecnico» nelle vicende urbanistiche, il marxismo, nelle sue varie articolazioni, come concezione antagonista del capitalismo, per essere la forza rappresentativa della gran parte del movimento   operaio,   si   è   sempre   posto   come   energia   propulsiva, parametro di riferimento, fattore dialettico, in una parola protagonista (anche se talvolta indiretto) di tutta la moderna cultura urbanistica, come del resto di tutta la storia contemporanea. Laddove manca questa forza, che vale talvolta anche come energia frenante, e persino quella serie d’iniziative riformistiche che fanno da remora  allo sviluppo  incontrastato  del sistema  liberistico,  questo  si manifesta nel modo più esplicito: pensiamo al caso emblematico di tutta la vicenda paleo­capitalistica americana, la scuola di Chicago, che studieremo tra le altre opere dell'eclettismo storicistico. L'architettura dell'ingegneria. La rivoluzione industriale, il progresso tecnologico, la produzione e lo smercio quantificato e accelerato dei beni di consumo non potevano non   incidere   direttamente   nel   campo   delle   costruzioni.   Anche   qui, come in ogni altro settore si ebbero due grandi categorie di prodotti, quelli tradizionali, ma realizzati con le nuove tecniche, e quelli del tutto   nuovi   sia   perché   rispondenti   a   nuove   esigenze,   sia   perché attuabili solo grazie alla moderna tecnologia. Questa coesistenza di vecchio   e   nuovo   all'insegna   di   una   comune   tecnica,   la   quale   è

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contemporaneamente causa ed effetto delle trasformazioni in atto, si riscontra in tutti i campi della cultura ottocentesca. Così abbiamo ­ limitandoci   al   settore   delle   costruzioni   e   rimandando   ad   un   altro paragrafo   il   discorso   più   generale   dei   manufatti   la   coesistenza   di antiche   e   moderne   tipologie,   di   tendenze   rivolte   al   recupero   del passato e di altre prettamente avveniristiche, di  Ecole polytechnique (1794), chiamata inizialmente  Ecole des travaux publics, e di  Ecole des BeauxArts (1806), di ingegneri ed architetti. Per queste dicotomie e per altre ragioni, siamo propensi a considerare l'intera vicenda tecnologica dell'architettura dalla fine del '700 a tutto il secolo XIX come un fenomeno rientrante nel quadro dell'eclettismo storicistico. Certo, l'architettura dell'ingegneria  è la più distante dai revivals  contemporanei;   è  quella  che meglio  riesce,  grazie  alla  sua matrice scientifica (Louis­Marie H. Navier pubblica nel 1826 il corso di  Scienza   delle   costruzioni  tenute  all'Ecole   polytechnique)   e tecnologica (la produzione, in seguito alla scoperta di A. Darby, della ghisa, del ferro forgiato, dell'acciaio e più tardi del cemento armato) a sottrarsi   dalla  ripetizione  passiva  di  stilemi  storicistici   e  dalle  altre aporie in cui incorse l'opera degli architetti; tuttavia non  è del tutto immune da esse. Vedremo, infatti, oltre alle dicotomie suddette e alla relazione   tra   l'opera   degli   ingegneri   e   le   correnti   neoclassica   e neogotica, cui dedicheremo un apposito paragrafo, il diverso e talvolta contraddittorio   manifestarsi   della   produzione   ingegneresca   nelle diverse tipologie edilizie. Ma che cos'è l'architettura dell'ingegneria? Diciamo subito che è la più significativa   manifestazione   in   campo   costruttivo   della   cultura ottocentesca e, poiché non è un fenomeno meramente tecnico, essa segna   la   più   chiara   svolta   tra   il   passato   ed   il   presente   nella   storia dell'architettura,   senza   la   quale   è   impensabile   la   nascita   del Movimento   Moderno.   Come   tale,   rispecchiando   nel   modo   più esplicito i significati e le funzioni della società del tempo, proponendo una   sua   propria   e   inedita   interna   spazialità,   quella   degli   ingegneri ottocenteschi   è   architettura   a   tutti   gli   effetti;   e,   proprio   in   quanto

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architettura, essa non è immune dalla caratteristica invariante del suo tempo, ossia, come s'è detto, dall'eclettismo storicistico. Basta allora la sua classificazione in questo codice­struttura epocale a spiegare tutte le   contraddizioni   dell'opera   degli   ingegneri?   E   in   tal   caso   tutti   i discorsi sulla scissione fra arte e tecnica, fra le metodologie proprie all'architettura   e   all'ingegneria,   fra   le   figure   sociali   di   queste   due categorie   professionali,   ecc.   riflettono   tutti   dei   falsi   problemi? Rispondiamo   che   lo   sono   quando   queste   attività   raggiungono   una sintesi conformativa, in ciò conservando lo specifico dell'architettura che è la conformazione spaziale di determinate istanze della società. Non sono falsi  problemi  viceversa quelle distinzioni che intendono cogliere il diverso atteggiamento di ingegneri e architetti di fronte al più generale quadro politico ed economico della società. L'architettura dell'ingegneria ebbe tre grandi campi di applicazione, quello dei ponti in ferro (il primo fu costruito nel 1775 da Darby e Wilkinson   sul   fiume   Severn   a   Coalbrookdale),   quello   delle   grandi coperture in ferro e vetro, quello degli edifici multipiani a scheletro metallico.   Esaminando   solo   questi   due   ultimi   campi   perché   più pertinenti   all'architettura,   ci   sembra   utile   considerarli   come   due distinte   categorie   di   diverso   significato   e   valore.   Infatti,   mentre   il «principio»   della   costruzione   a   scheletro   è   un'invenzione prevalentemente   tecnica,   che   verrà   coniugata   in   tutti   i   successivi linguaggi e permane attiva fino ad oggi, il campo delle coperture in ferro e vetro non è uno schema definito una volta per tutte, ma una conformazione sempre variabile; come tale ci sembra che esso, nulla perdendo in valenze scientifiche e tecniche, rappresenti meglio la più tipica espressione dell'architettura dell'ingegneria ottocentesca. Anche le date paiono confermare la nostra osservazione. Già dal 1780 vengono  impiegate   le   colonne  in   ghisa   all'interno  delle   filande   per ridurre l'ingombro dei muri e dei pilastri di pietra. La filanda Philip & Lee   di   Salford,   Manchester,   costruita   nel   1801   dalla   fonderia   di Boulton e Watt, è il primo edificio in cui, ad eccezione dell'involucro murario   esterno,   s’impiega   una   struttura   a   scheletro   formata   da

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colonne in ghisa e travi a doppio T. Giustamente Giedion sottolinea l'interesse   per   tale   fabbrica   dicendo:   «il   tipo   di   costruzione rappresentato da questa filanda a sette piani [...] divenne il prototipo dei magazzeni attraverso il secolo, e fu pure adottata per alcuni edifici pubblici di spirito avanzato. L'esperimento di Watt a Salford segna la prima fase dello sviluppo dell'ossatura di acciaio, che fece finalmente la sua comparsa a Chicago dopo il 1880»[S. Giedion, Spazio, tempo ed architettura, Hoepli, Milano 1954, p.184]. Ora,   il   fatto   stesso   che   dalla   filanda   suddetta   al   primo   edificio costruito da William Le Baron Jenney a Chicago molte costruzioni ­ lo   Harper   &   Brothers   Building   di   New   York   realizzato   da   James Bogardus nel 1854, gli anonimi fabbricati lungo il fronte del fiume a St. Louis, la fabbrica di cioccolata Menier, vicino Parigi, costruita nel 1871 da Jules Saulnier, per citare i casi più noti ­, ognuna delle quali con   vistose   implicazioni   storico­eclettiche,   abbiano   adottato   la struttura a scheletro, dimostra che siamo in presenza non tanto di una conformazione   architettonica,   quanto   appunto   di   un   «principio» costruttivo. Viceversa, il campo delle coperture in ferro e vetro presenta tutt'altra fenomenologia.   Sebbene   anche   qui   vi   siano   dei   precedenti settecenteschi (la costruzione del tetto in ferro del Théâtre Francais del 1786),   questi   organismi   costruttivi   generano   e   si   applicano   ad   una vasta e varia tipologia edilizia che si afferma e sviluppa nel pieno dell'Ottocento;   si   pensi   alle   serre,   ai   mercati   coperti,   ai   grandi magazzini,  alle stazioni  ferroviarie,  agli impianti per   le esposizioni universali, ecc. Passando   in   rassegna   alcune   di   queste   tipologie,   ricorderemo   la Galerie   d'Orléans,   parte   del   Palais   Royal   a   Parigi,   costruita   da Fontaine   nel   1829   come   il   primo   esempio   delle   gallerie   pubbliche ottocentesche; le serre botaniche, il cui prototipo fu quello realizzato nel '33 a Parigi da Rouhault; il caso del Jardin d'Hiver agli Champs Elysées, realizzato nel '47, quale fusione appunto di una grande serra con una galleria sovrastante un luogo di passeggio e di ritrovo. Fra le

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principali stazioni ferroviarie vanno menzionate la Euston Station del '46 a Londra, la  King's Cross  del '52 nella stessa città, la  Gare du Nord  del   '62   a   Parigi,   la  St.   Pancras  del   '68   sempre   a   Londra,   la Anhalter Bahnhof  di Berlino del '78, la stazione di Francoforte che anticipa la struttura della celebre Halle des Machines dell'Esposizione di   Parigi   dell'89.   Un   altro   campo   d'applicazione   delle   coperture   in ferro e vetro si  ebbe nei  mercati coperti, dei quali i più noti sono quello   della   Madeleine   a   Parigi   del   '24,   il   mercato  Hungerford costruito a Londra nel '35, le Grandes Halles di Parigi, iniziate nel '53 da Victor Baltard nel quadro delle sistemazioni urbanistiche dirette da Haussmann,   che   fecero   della   capitale   francese   il   modello dell'urbanistica ufficiale,  cui si ispirarono tutte le altre città europee. Alla   tipologia   dei   mercati   coperti   si   associa   quella   dei   grandi magazzini,   la   cui   incarnazione   più   tipica,   dopo   una   serie   di esperimenti per trovare la sistemazione più adatta a questa nuovissima funzione commerciale e pubblicitaria, fu il  Magasin au Bon Marché realizzato   a   Parigi   nel   '76   da   Eiffel   e   Boileau.   Infine   le   grandi Esposizioni (i cui capolavori sono il palazzo di Cristallo costruito da Joseph Paxton nel '51 a Londra, la Galerie des Machines di Dutert e Contamin   e   la   celeberrima   torre   di   Eiffel   entrambe   realizzate   in occasione dell'Esposizione di Parigi nel 1889) riassumono tutte queste esperienze   nel   quadro   di   un   gigantismo   architettonico   col   quale s'intese   associare   il   mondo   dell'industria   e   del   commercio all'ottimistica   fiducia   verso   un   futuro   pacifico   e   progressivo   per l'intera umanità. Come   si   vede,   questi   settori   tipologici,   pur   avendo   in   comune   lo schema   costruttivo   della   struttura   in   ferro   e   vetro,   presentano   una gamma   vastissima   di   differenti   implicazioni.   Le   gallerie   pubbliche risolvono un problema urbanistico, quello di collegare diversi punti del   centro   cittadino   con   un   percorso   pedonale   coperto.   Le   serre botaniche, oltre ad assolvere la loro propria funzione, valsero come il più duttile campo di sperimentazione per le nuove strutture. Con le

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stazioni   ferroviarie   venne   creato   un   tipo   di   costruzione   del   tutto nuovo,   mentre   gli   impianti   per   le   esposizioni   universali,   i   mercati coperti ed i grandi magazzini, anch'essi promotori di inedite tipologie, rappresentano l'intera gamma del commercio, quello internazionale, quello all'ingrosso e quello al dettaglio. Cosicché,   a   differenza   del   «principio»   costruttivo   dell'edificio multipiano a scheletro metallico, che nasce e rimane un asemantico sistema disponibile ad ogni uso, il settore delle grandi coperture in ferro e vetro produce tante conformazioni quanti sono i campi in cui esse vengono impiegate; assolve indubbiamente alcune funzioni, ma queste   diventano   sempre   più   specifiche;   non   solo,   ma   spesso   alle ragioni   funzionali   se   ne   associano   altre   di   tipo   rappresentativo, comunicativo e persino simbolico. Possiamo dire che in questo campo l'architettura dell'ingegneria trova il suo proprio e nuovo linguaggio. Comunque il fatto veramente nuovo di questa architettura sta nell'aver conformato una spazialità interna totalmente inedita. Infatti, quando le conformazioni di questi spazi interni si affidano alla sola   copertura   e   alla   struttura   del   solo   invaso,   lasciando   inalterato, ossia   nei   termini   stilistici   tradizionali,   il   loro   involucro   esterno   (le gallerie Mengoni di Milano e Umberto I di Napoli), abbiamo delle manifestazioni   meramente   tecniche,   un'inevitabile   collusione   tra ingegneria   e   architettura   eclettica.   Quando,   viceversa,   la conformazione   strutturale   interna   si   manifesta   francamente   anche all'esterno (cioè quando il «significato» si associa indissolubilmente al «significante»,   per   usare   una   terminologia   semiologica),   non   è   più lecito   parlare   di   architettura   e   d'ingegneria,   ma   senz'altro   di architettura che ha fatto proprie alcune modalità della scienza e della tecnica   delle   costruzioni,   superando   così   un'aporia   e   un   dualismo ancora presenti nella critica e nel dibattito architettonico. Ma se queste considerazioni   valgono   oggi   a   porre   in   termini   criticamente   più corretti   la   questione   del   rapporto   fra   architettura   e   ingegneria,   a facilitare l'analisi linguistica delle opere, resta d'altra parte indubitabile il fatto che dalla fine del '700 si è determinato uno sdoppiamento nella

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figura   del   costruttore   che   non   sarà   più   ricomposta:   il   binomio architetto­ingegnere quale inevitabile conseguenza della divisione del lavoro,   dello   specialismo,   dell'organizzazione   didattica,   ecc.,   tutti portati della moderna civiltà industriale. Le poetiche dell'eclettismo storicistico. Alla   base   dei   principali  revivals  architettonici,   sviluppatisi   dalla seconda   metà   del   Settecento   a   tutto   il   secolo   successivo   sta   la storiografia e la teorizzazione, in vario modo motivata di alcuni stili dell'arte del passato.  Nell'economia   del   presente   testo   prenderemo   in   esame   due   sole tendenze   storicistiche,   il  neoclassicismo  e   il  neogotico,   essendo   le altre   trascurabili   e   il  neoromanico,   che   invece   informò   l'opera   di significativi   architetti,  riducibile  ad  una  fusione  delle   due  tendenze suddette. Il   neoclassicismo,   ossia   la   codificazione   sette­ottocentesca   del classicismo, di un atteggiamento cioè presente in quasi ogni periodo della storia dell'architettura, è la prima incarnazione architettonica e artistica dell'Illuminismo. Esso si afferma quale reazione al barocco, rilettura   critica   della   trattatistica   antica,   conseguenza   diretta   delle campagne archeologiche, azione operativa generata dalla storiografia dell'arte   antica,   attività   di   eruditi   dilettanti,   ecc.   E   ciascuno   dei protagonisti mirò ad accentuare qualcuna delle componenti suddette, così come del resto accade per l'esegesi critica odierna del fenomeno neoclassico. Il punto più dibattuto riguarda la componente ideologica di   questo   movimento.   Indubbiamente   essa   comporta   un   rinnovato impegno   civile   e   morale   al   pari   di   tutti   i   fenomeni   sorti dall'Illuminismo, ma, a parte la stessa «dialettica» di quest'ultimo, il neoclassicismo nelle sue varie fasi non  è affatto univoco e assume talvolta   aspetti   notevolmente   contrastanti.   Recentemente   tali oscillazioni ideologiche sono state periodizzate, per cui si avrebbe un primo   periodo   (1715­40)   nel   quale   emergono   appunto   le   valenze culturali   illuministiche;   un   secondo   (1740­80)   caratterizzato   da   un

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«consolidamento»   le   cui   matrici   sono   filologiche,   archeologiche, accademiche, ecc.; un terzo (1780­1805) definito della «espressione rivoluzionaria»   con   evidente   riferimento   alla   cosiddetta   architettura dell'Illuminismo di Boullée e Ledoux, nonché all'aspetto urbanistico del   neoclassicismo;   un   quarto   (1805­14)   coincidente   con   lo   stile impero   che   strumentalizza   politicamente   il   gusto   neoclassico;   un quinto   (1814­48)   coincidente   culturalmente   e   politicamente   con   la Restaurazione;   un   sesto   (1848­1910)   come   il   periodo   del neoclassicismo   degli   stati   borghesi   nazionali;   un   settimo   (1920­40) che   segna   la   fase   più   recente   e   più   retriva   ideologicamente   dei neoclassicismo   adottato   per   tutte   le   manifestazioni   «ufficiali»   ed antimoderne,   negli   Stati   Uniti   come   in   Russia,   in   Italia   come   in Germania  [Cfr. V. Vercelloni,    Voce  Neoclassicismo  del  Dizionario enciclopedico   di   Architettura   e   Urbanistica,   Istituto   Editoriale Romano, Roma 1969, vol IV, pp. 190­1]. Questa   proposta   di   classificazione,   intesa   evidentemente  solo   come indicazione di ricerca, non manca di fondamenti e di utilità, ma nella sua   stessa   esposizione   indica   il   principale   limite   ideologico   del neoclassicismo.   Infatti,   poiché   molti   di   quei   periodi   sono contrassegnati   più   dalle   condizioni   storico­politiche   che   non   dalla «logica»   interna   del   neoclassicismo,   abbiamo   una   conferma   che questo,   inteso   come   stile­codice   linguistico   dell'architettura   non   ha una propria ideologia, ma si è rivelato un linguaggio disponibile ad ogni istanza della committenza, da quella degli eruditi dilettanti del '700 a quella dei contemporanei paesi totalitari o comunque esigenti una ufficiale «arte di Stato». Cosicché,   pur   riconoscendo   varie   motivazioni   ed   intenzionalità   ­ architetti come Boullée e Ledoux associarono alle loro opere, scritti e progetti,   ora   radicali   contenuti   sociopolitici,   ora   proposte   di   nuove tipologie, evidenziando soprattutto valenze simboliche e semantiche ­siamo propensi ad accantonare, almeno in questa sede, la componente ideologica del neoclassicismo per considerarne gli aspetti morfologici, razionali, didattici e operativi. Ben diverso, come vedremo, è il caso

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del   neogotico,   i   cui   valori   morfologici   e   sintattici   sono   pari   o addirittura   meno   rilevanti   dei   significati   e   delle   motivazioni ideologiche. Ritornando alle prime nostre osservazioni sulla genesi storiografica e teorica   del   neoclassicismo,   ricorderemo   l'opera   di   Johann   Joachim Winckelmann che, appunto quale contributo storico e teorico insieme, propone   l'arte   degli   antichi   come   paradigma   da   imitare.   La   sua fondazione   del   neoclassicismo   s'inquadra   in   tutta   la   complessa elaborazione   critica   settecentesca,   dal   Cordemoy   al   Lodoli,   dal Laugier al Milizia, tendente a cogliere dentro e fuori il modello antico la natura razionale dell'architettura. Cosicché la poetica neoclassica si sviluppa   in   parallelo   con   la   ricerca   della   logica   costruttiva   e   della funzionalità al punto che i termini  «classico»  e «razionale» finirono spesso   per   identificarsi,   non   senza   qualche   equivoco   sul   primo aggettivo che è al tempo stesso qualificativo in generale e indicativo dell'arte antica in particolare. Comunque, sia in virtù della sua disponibilità alle più varie istanze sociali, sia perché riassume nelle sue regole impersonali, obiettive e facilmente   comunicabili   questa   indubbia   valenza   razionale,   il neoclassicismo   è   stato   il   gusto   più   affine   alla   produzione architettonica   (specie   all'architettura   dell'ingegneria)   corrispondente agli anni culminanti della rivoluzione industriale. E ciò soprattutto in forza   della   corrispondenza   del   repertorio   neoclassico   alle   forme richieste   dalla   cultura   tecnica   dell'epoca;   donde   la   definizione   di neoclassicismo   «empirico»   dato   da   Benevolo   a   questo   tipo   di neoclassicismo spoglio delle sue componenti ideologiche. Tuttavia le convergenze tra gusto neoclassico, pratiche esigenze del tempo, tecnica e metodologia ingegneresche vanno ridimensionate in quanto al loro valore innovativo. Infatti, senza voler negare i caratteri peculiari   dello   stile,   neoclassico,   va   ricordato   che   il   moderno classicismo   si   sviluppa   in   perfetta   continuità   con   l'accento classicheggiante della produzione precedente; basti pensare che nella stessa   età   barocca   la   produzione   architettonica   più   diffusa

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internazionalmente non segue i modelli di Borromini o di Guarini, bensì   quello   francese   di   Versailles   che   viene   definito   appunto classicismo barocco. Cosicché, nonostante lo spirito nuovo che anima il neoclassicismo e la sua complessa ideologia, questo stile non segna una   svolta   nella   storia   dell'architettura   moderna,   non   rappresenta quella   soluzione   di   continuità   che   era   lecito   attendersi   da   un movimento svoltosi negli stessi anni della rivoluzione industriale. Il neogotico, invece, sia pure con un atteggiamento negativo, riflette i tempi nuovi e presenta i suoi più significativi aspetti nelle proposte derivate dalla critica alla società industriale. Anche il neogotico, in un paese come l'Inghilterra, mostra una continuità con la tradizione in quanto   forme   medievali   persistettero   fino   all'Ottocento   e sopravvissero nonostante il dominante classicismo palladiano; come pure in Francia i fautori del neogotico si richiamarono alla tradizione costruttiva delle grandi cattedrali. Tuttavia, poiché le motivazioni del Gothic   Revival   sono   prevalentemente   di   natura   ideologica,   sono un'esplicita   presa   di   posizione   contro   la  cultura   e  il   gusto   corrente contemporanei   e   implicano   una   serie   di   fattori   sociali,   esso   segna appunto quella soluzione di continuità di cui sopra abbiamo parlato. In   Inghilterra   il   neogotico   ebbe   inizialmente,   ossia   sin   dalla   prima metà del '700, matrici letterarie e archeologiche ispirate alla tradizione e   al   gusto   romantico   (Milton,   Spencer,   Pope,   Hughes,   Warton, Walpole, Gray, Batty Langley, Hurd, ecc.), per acquistare a distanza di un secolo precise connotazioni etico­sociali. Il passaggio dall'una all'altra   fase   è   caratterizzato   da   una   componente   religiosa   e   dalla manifestazione più propriamente architettonica del movimento.  Ci riferiamo all'opera di Augustus Welby Pugin (1812­1852). La sua conversione   al   cattolicesimo   nel   1834   e   la   pubblicazione   del   libro Contrasts: Or, a Parallel Between the Noble Edifices of the Middle Ages and the Corresponding Building of the Present Day, Showing the   Present   Decay   of   Taste  (titolo   quanto   mai   programmatico)   del 1836   segnano   il   punto   culminante   della   vicenda   neogotica   e   il momento in cui il revival esce da una cerchia di eruditi dilettanti per

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porsi con altre motivazioni all'attenzione della più vasta sfera sociale. Pugin, architetto molto  operoso  e  autore di  altri  scritti oltre quello citato, partiva dall'assunto che non fosse lecito rifare le forme gotiche senza rivivere e riproporre il loro originario contenuto religioso; in secondo luogo, sempre sostenendo l'indissociabilità tra espressione e significati e polemizzando coi neoclassici, giungeva ad affermare che l'architettura gotica era da preferire a quella greco­romana, così come il   cristianesimo   era   migliore   della   religione   pagana.   Da   questi scaturivano altri principi, come quello dell'intimo legame fra la qualità dell'architettura e la moralità del suo autore o l'altro per cui il valore dell'architettura sta nell'espressione della sua struttura e non nel suo mascheramento con forme d'accatto o l'altro ancora, ripreso da Ruskin e   Morris,   dell'organico   rapporto   fra   architettura   e   società,   donde   il precetto che il livello dell'una serve a misurare quello dell'altra. A   differenza   del   suo   precursore,   Pugin,   i   cui   interessi   erano prevalentemente architettonici ed operativi, John Ruskin (1819­1900) si occupò di tutto, dalla poesia alla pittura, dall'artigianato alle scienze naturali, dall'architettura alla polemica politico­sociale. E ognuno di questi campi fu affrontato da una visuale di esteta, mentre tutte le sue argomentazioni furono informate alla incessante contraddizione, alle intuizioni notevoli, al gusto della smentita (negò talvolta persino la sua adesione al neogotico) e del paradosso. Anche se non lo ammise mai, Ruskin derivò da Pugin, come s'è detto, le equazioni architettura­società ed etica­estetica, nonché la profonda avversione   per   la   civiltà   industriale   contemporanea   e   la   proposta alternativa   del   modello   medievale.   Questi   assunti   e   atteggiamenti subirono tuttavia in lui una flessione e un rafforzamento. Da un lato, infatti,   essi   furono   indeboliti   perché,   mentre   il   loro   sostegno ideologico era in Pugin di natura religiosa e segnatamente cattolica, in Ruskin la loro giustificazione divenne assai più vaga, oscillante tra un estetismo naturalistico e un sociologismo sentimentale. Dall'altro lato la   poetica   neogotica   e   tutte   le   sue   implicazioni   socioculturali assunsero con Ruskin, proprio a causa del suo eclettismo, della sua

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avvincente vena di scrittore e della sua forza polemica, una diffusione popolare mai raggiunta in precedenza dal Gothic Revival. Negli anni della sua maggiore notorietà bastava che Ruskin scrivesse un articolo su un fenomeno del gusto o sull'attività di alcuni artisti per decretarne la fortuna e il successo, così come accadde per i pittori Preraffaelliti. L'asistematico   pensiero   ruskiniano   presenta   proprio   nel   campo architettonico le sue maggiori contraddizioni, per cui, nonostante il grande interesse che egli nutrì per questa attività, la storia e la teoria dell'architettura   sembrano   poter   ignorare   senza   gran   danno   il   suo contributo. In realtà, così facendo, sarebbe una gran perdita perché alcune sue felici intuizioni non mancarono in questo settore. Infatti, quando   egli   sostiene   il   valore   puramente   figurativo   e   naturalistico dell'architettura fino a considerarla pura costruzione, ossia non arte, se manca dell'adeguato ornamento, questo palmare errore critico­estetico va   inquadrato   nella   sua   polemica   contro   il   razionalismo   e   il positivismo nutrito dalla classe dirigente del tempo e da ogni categoria interessata   all'uso   e   agli   sviluppi   della   tecnica   moderna.   Inoltre   lo stesso equivoco estetizzante ebbe il merito di non dissociare ­ così come allora si tendeva ­ l'architettura dal novero delle arti figurative. Altrettanto inaccettabile,  se  letteralmente  intesa,  è la sua teoria del restauro, per cui gli edifici del passato non andrebbero restaurati, ma curati solo con la manutenzione o lasciati allo stato di ruderi. Anche qui   però   la   sua   concezione   del   restauro   come   la   peggior   forma   di distruzione, come «una menzogna dal principio alla fine», va vista non solo come polemica contro i restauri di ripristino stilistico effettuati da Viollet­le­Duc in Francia, ma anche come alternativa della tendenza alla   manomissione   delle   fabbriche   antiche   e   alla   edilizia   di sostituzione, che proprio in quegli anni si sviluppava notevolmente nella città industriale. Oltre   che   per   i   punti   sopra   accennati,   ancora   a   causa   delle contraddizioni, l'opera di Ruskin interessa la cultura architettonica non tanto   per   la   sua   parte   critico­estetica   quanto   soprattutto   per   quella sociale   (i   suoi   saggi   divulgativi,   il   finanziamento   di   case   operaie

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modello, la restaurazione di antiche manifatture, la fondazione della St. George's Guild, ecc.), che egli svolse nella seconda metà della sua vita, quando cioè da critico d'arte divenne critico della società. In tale settore   egli   enuncia   un   concetto,   già   anticipato   da   Pugin,   dai riformatori cattolici e marxisti ma con minore efficacia, per cui non è possibile modificare alcun settore della vita associata, arte compresa, se non si modificano in pari tempo tutti gli altri, stabilendo così la necessità d'integrare tutti i problemi che s'intendono risolvere. Tale integrazione ripropone l'interdipendenza qualitativa dei vari settori e la relazione fra arte e società: «Every nation's vice or virtue is written in its art». E fra tutte le arti, l'architettura è la più indicativa e deve essere appresa da tutti, perché tocca gli interessi di tutti. Un'altra felice intuizione, anch'essa ripresa poi da Morris, è quella per cui il lavoro deve produrre gioia in chi lo compie: in ciò sta il grande divario tra il proletariato ottocentesco e l'artigianato medievale; donde il   sogno   di   restaurare   antiche   comunità   e   arcadiche   corporazioni. Come   si   vede,   alla   esattezza   di   una   diagnosi   si   contrappone un'anacronistica terapia. D'altra parte per Ruskin hanno senso e vanno incoraggiate solo quelle attività che non contrastano la natura umana. Egli   ammette   la   cultura   se   ha   una   base   morale,   la   scienza   se   non compromette   l'esistenza   dell'uomo;   giustifica   l'arte   solo   se   ha   un valore   sociale.   Insomma,   se   la   predicazione   ruskiniana   è   per   molti aspetti   anacronistica   e   persino   reazionaria   ­   non   è   da   escludere   la consapevolezza   che   la   sua   intransigenza   morale   comportasse inevitabilmente   una   contropartita   ­   essa   contiene   in   pari   tempo   la demitizzazione   di   un   meccanicistico   «progresso»   e   soprattutto rappresenta   la   prima   autorevole   antitesi   della   moderna   alienazione. Quest'ultimo atteggiamento costituirà il parametro di riferimento per tutta la successiva opposizione e critica alla civiltà industriale. L'azione di William Morris (1834­1896) si svolse in vari campi e a vari   livelli,  dall'arte   alla  politica,   dall'artigianato  al   commercio,  dal diretto impegno individuale alla promozione di movimenti collettivi, dall'attività   pratica   alla   formulazione   teorica.   I   fatti   più   importanti

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della sua biografia sono: gli studi ad Oxford; l'esperienza (interrotta) nel   campo   dell'architettura;   il   sodalizio   coi   Preraffaelliti;   la costruzione   della   sua   abitazione,   la   Casa   Rossa,   progettata   da   P. Webb,   ma   arredata   da   lui;   l'apertura   della   ditta   Morris,   Marshall, Faulkner & Co, produttrice di mobili, tessuti ed elementi d'arredo; la sua attività politica svolta prima nell'ala radicale del partito liberale e poi nella Socialist­League; la fondazione d'una officina tipografica, la Kelmscott Press, l'istituzione  dell'Art Workers Guild, la promozione nel   1888   delle   esposizioni   di  Arts   and   Crafts,   dizione   rimasta   a denotare l'intero movimento originato dalla sua opera. Collegando   la   posizione   di   Morris   a   quella   dei   suoi   predecessori, possiamo dire che se il sostegno ideologico dell'attività di Pugin è il cattolicesimo   e   quello   di   Ruskin   l'estetismo   prima   e   il   moralismo sociale   poi,   l'opera   di   Morris   trova   il   suo   più   coerente   sbocco   nel socialismo, non importa quanto ortodosso alla linea marxista. Egli   eredita   da   Ruskin   la   valutazione   sociale   dell'arte,   la   profonda adesione   al   lavoro   e   al   gusto   medievali,   l'avversione   per   la contemporanea produzione industriale, ecc., ma di questi attegiamenti ormai tradizionali per il Gothic Revival fornisce una spiegazione meno intuitiva,   più   logica   e   coerente   di   quella   ruskiniana.   Non   solo,   ma soprattutto indica, attraverso una razionale evoluzione, anche un modo per superare le contraddizioni del suo tempo. In tal senso Morris non è un moralista, ma un autentico riformatore. Egli   parte   dalla   considerazione   di   Ruskin   che   l'arte   è   l'espressione della  gioia   nel   lavoro  e   poiché   quasi   tutti   gli   uomini   vivono   del proprio lavoro, dedicano ad esso la maggior parte della loro vita, è un enorme   danno   sociale   meccanizzarlo,   togliere   ad   esso   ogni   umana partecipazione. Questa non riguarda solo l'artefice, ma traducendosi in qualità   dei   manufatti,   interessa   tutti   quelli   che   fruiscono   della produzione. L'arte quindi non è un fenomeno meramente estetico, ma «un serio sostegno di vita». Da tale acquisizione, Morris estende l'idea dell'arte a tutto il mondo della vita: essa non riguarda solo la pittura, la scultura e l'architettura, bensì  anche  le forme e i colori di tutti gli

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oggetti   d'uso,   la   sistemazione   dei   campi,   la   rete   stradale, l'amministrazione   delle   città.   Da   questa   visione   estensiva   e qualificatrice dell'arte prende l'avvio quel metodo di considerazione unitario   che   nel   Movimento   Moderno   informerà   ogni   settore   della progettazione, dal disegno del più modesto manufatto all'urbanistica. L'incarnazione   di   questo   unitario   principio   è   offerto   dalla   stessa architettura ove la si intenda secondo la sua celebre definizione per cui « essa rappresenta l'insieme delle modifiche e delle alterazioni operate sulla superficie terrestre, in vista delle necessità umane, eccettuato il puro deserto»(W. Morris,  Prospects of Architecture in Civilization, in Architettura e Socialismo,  Laterza Bari 1973, pp.3­4]. Se tale è l'architettura, nessuno può disinteressarsene, né affidarne la cura ad un gruppo di tecnici: l'arte e l'architettura diventano così un problema eminentemente politico. Ed è questo accento politico, come s'è   detto,   a   differenziare   positivamente   il   contributo   di   Morris   da quello di Ruskin. Inoltre, contrariamente all'idea convenzionale di lui come   semplice   esecutore   delle   teorie   del   maestro   e   come   un anacronistico medievalista, egli, pur confondendo a volte il sistema corporativo medievale col moderno socialismo, pur non avendo altro modello disponibile che il gusto e lo «spirito» del gotico, ebbe assai vivo il senso della storicità del suo tempo. Grazie al socialismo capì che le negatività della produzione industriale non stavano tanto negli strumenti   di   produzione,   quanto   soprattutto   nel   modo   in   cui   erano gestiti: le vere cause dei mali della città moderna e della crisi artistico­ produttiva sono il sistema liberistico, il commercialismo, la legge del massimo profitto non le macchine, «le meravigliose macchine ­ egli scrive ­ che nelle mani di uomini giusti e previdenti avrebbero potuto minimizzare la fatica più spiacevole e migliorare la vita della razza umana, sono invece usate al rovescio» [W. Morris, Art and Socialism Cit. in op. cit. p.101­102]. Grazie ancora al socialismo egli riconosce che fra i tanti mali della rivoluzione industriale è sorta una positiva realtà:   la   crescente   potenza   della   classe   lavoratrice.   Inoltre, individuando nel ritmo della produzione il maggiore scompenso del

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lavoro meccanico in quanto impone il massimo della quantificazione a scapito della qualità e delle condizioni lavorative, Morris osserva: «è una calamità che la civiltà si è autoimposta e che ora è impotente a fronteggiare o controllare: tanto, almeno, risulta allo stato attuale delle cose,   ma   dato   il   portentoso   cambiamento   che   la   meccanizzazione introduce,   può   ben  essere   che   essa   apporti   qualcosa   di  più   che   un semplice danno: annienterà, infatti, l'arte come l'intendiamo adesso, a meno   che   questa   non   venga   rimossa   da   una   nuova   arte;   ma probabilmente, male che vada, distruggerà anche ciò che produce il veleno dell'arte e così preparerà la via ad una nuova arte, le cui forme, ancora, ci sono ignote»[W. Morris, Prospects, p.33]. Come   si   vede,   la   possibilità   di   un   cambiamento   di   funzione   delle macchine è qui chiaramente ammessa unitamente alla considerazione della morte dell'arte ­ tema centrale dell'estetica moderna ­ o quanto meno della morte di un certo tipo d'arte per dar vita ad un altro. In tal senso   la   sua   s'è   dimostrata   una   vera   profezia.   In   particolare, ammettendo   il   cambiamento   di   funzione   nell'uso   delle   macchine, Morris inizia quel tentativo di qualificazione del prodotto industriale che costituisce un altro fondamento del Movimento Moderno e la sua presa   di   posizione   in   tale   orientamento   è   assai   più   significativa   di quella   assunta   da   altri,   come   Cole,   Laborde   o   Viollet   le­Duc   che all'industrializzazione   avevano   quasi   incondizionatamente   aderito. Infatti,   mentre   questi   volevano   risolvere   dall'interno   del   moderno sistema produttivo le sue contraddizioni, per così dire, tecnicamente, Morris,   pur   distinguendosi   dall'anacronismo   del   suo   maestro   e, riconoscendo   l'irreversibilità   del   processo   in   atto,   rimane   un oppositore del liberismo industriale. Quando nel romanzo News from Nowhere  del   1890,   fra   molte   proposizioni   utopiche,   sostiene l'abolizione   della   fatica,   la   sostituzione   del   lavoro   meccanico   con quello   creativo,   la   riduzione   delle   esigenze   superflue   e   quindi l'eliminazione   della   superproduzione   quantitativa,   egli,   basandosi ancora   sul   precetto   della  joy   in   labour,   indica   anche   i   modi   per combattere   ciò   che   Marx   aveva   definito   la  Entfremdung,   ossia   la

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scissione della coscienza umana in due parti estranee, l'alienazione; non   solo,   ma   una   problematica   sociologico­produttiva   rivelatasi sempre più pressante man mano che la civiltà industriale si è venuta evolvendo. Da   quanto   precede   possiamo   dire   che   nell'opera   di   Morris   è distinguibile una previsione a lungo termine (la rivoluzione sociale, la nascita di un'arte radicalmente diversa, la fiducia che la nuova classe nutrirà   dell'arte   un'idea   più   sana,   ecc.)   da   un'azione   immediata (l'interesse e la pratica delle arti applicate, la polemica riformatrice, la fondazione   del   movimento   delle  Arts   and   Crafts,   ecc.).   La   parola «intanto»  che ricorre nei suoi scritti e nelle sue conferenze indica la convinzione   della   necessità   di   agire   anche   prima   che   quelle   più radicali   modifiche   trasformeranno   l'intero   sistema.   Questo   duplice aspetto, rivoluzionario e riformistico, contribuisce molto alla nascita del   Movimento   Moderno   e   definisce   un   orientamento   di   critica sociologica  che ha informato l'opera di architetti e progettisti  delle generazioni successive. A   conclusione   di   questi   cenni   sull'attività   di   Morris,   vogliamo sottolineare due considerazioni. La prima tende a superare il luogo comune che distingue una parte arretrata da una avanzata nella sua opera.   Per   noi   questo   dualismo   è   inconsistente,   né   in   essa   esiste contraddizione.   Infatti,   se   è   vero   che   l'azione   di   Morris   nel   suo complesso appartiene al capitolo dell'eclettismo storicistico, va detto anche   che   quegli   aspetti   apparentemente   anacronistici   sono   da interpretare come consapevoli atteggiamenti paradossali per rafforzare l'unilateralità delle idee, per conseguire una critica più radicale, per istituire un risoluto parametro di riferimento. Poiché ad essi si sono riferiti  molti  riformatori  e da  essi  ha preso vita la critica alla città industriale,   dobbiamo   riconoscere   che   i   fini   suddetti   sono   stati ampiamente raggiunti. La   seconda   considerazione   riguarda   direttamente   il   rapporto   fra architettura e arti applicate. Morris si occupò delle seconde ma la sua azione incise sulla prima più di quella degli stessi architetti innovatori

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del suo tempo. Infatti, posto che la riforma di tutte le arti dipendesse dalla riforma della società, l'architettura e l'urbanistica erano troppo legate   al   sistema   socioeconomico   dell'epoca,   ne   rappresentavano l'effetto   ed   il   rispecchiamento,   donde   la   difficoltà   di   un   intervento diretto in questi settori e l'inevitabile caduta nel formalismo di chi ne tentava dall'interno, ossia disciplinarmente, una revisione. Viceversa, una volta teorizzato il principio unitario delle arti, anzi esteso il campo artistico a fenomeni prima considerati ad esso estranei, era proprio il settore manifatturiero che andava per primo riformato. Questo, se non era proprio la causa della produzione industriale, era certamente uno dei principali anelli della sua catena; era un'attività più direttamente a contatto con le macchine ed il campo di maggiore espansione, in una parola,   un   fenomeno   che   per   vari   aspetti   stava   a   monte dell'architettura.   Puntando   alla   qualificazione   del   settore manifatturiero e richiamando su di esso l'interesse degli artisti migliori del   tempo,  Morris,   non  solo  intuì  il  suo  valore  prioritario,  ma  che essendo   maggiore   sia   il   numero   degli   addetti   sia   quello   dei consumatori in questo campo, esso agiva potenzialmente in tutta la sfera   sociale.   La   riforma   dell'architettura   e   dell'urbanistica   sarebbe stata in tal modo una logica conseguenza. E così fu infatti. Il movimento delle Arts and Crafts, nonché produrre un rinnovamento delle arti applicate, muovendosi, per dir così, dal basso o quanto meno nella sfera privata e non « ufficiale », determinò un rinnovamento edilizio e persino una notevole svolta urbanistica. Intanto i seguaci di Morris, cioè la generazione nata intorno al '50, pur nella direzione da lui indicata, aderirono con maggiore realismo alle condizioni storiche del tempo: alla bottega artigiana sostituirono una vasta rete di organizzazioni produttive e cominciarono ad ammettere la   possibilità   di   una   produzione   industriale   accanto   al   lavoro   fatto totalmente a mano. Per quanto riguarda l'evoluzione del gusto, l'opera di   W.   Crane,   di   A.   Mackmurdo,   di   S.   Image,   di   C.   F.   Annesley Voysey   prefigurò   con   il   Liberty   alcuni   aspetti   dell'Art   Nouveau continentale. Un altro campo nel quale influirono i seguaci di Morris

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fu quello dell'edilizia domestica, delle case unifamiliari extra­urbane. Al   loro   elevato   standard   costruttivo   ed   estetico   non   fu   estraneo   il senso   della   misura   e   della   praticità   costantemente   presente   nella tradizione edilizia britannica, alla quale peraltro si rifaceva la stessa Casa Rossa di Morris, che divenne il modello di questa produzione architettonica sviluppatasi nell'ultimo quarto del secolo in Inghilterra ed avente una vasta influenza anche sul continente, specie in seguito al libro  di  Muthesius  Das  englische  Haus  del 1904.  Tra  gli  architetti operanti in questo settore, emerge la figura di Voysey che, aderendo al rinnovamento   promosso   dalle  Arts   and   Crafts,   svolse   un'attività professionale completa dall'architettura al disegno degli oggetti d'uso.  Al movimento delle  Arts and Crafts, infine, viene associata da Zevi l'opera di Ebenezer Howard per la fondazione della città­giardino, che può considerarsi un caposaldo della moderna cultura urbanistica. Nel libro Tomorrow, a Peaceful Path to Real Reform del 1898, ristampato quattro anni dopo col titolo Garden Cities of Tomorrow, Howard parte dal contrasto creatosi fra la città industriale e la campagna, annovera vantaggi e svantaggi dell'una e dell'altra, giungendo alla conclusione che è possibile unire gli aspetti positivi di entrambe in un particolare tipo   d'insediamento   ch'egli   definisce   città­giardino.   Questa   è   una comunità di 30.000 abitanti occupante un'area edificabile di 405 ettari, circondata da una campagna di circa 2.025 ettari, pari cioè a cinque volte la superficie del  centro abitato. Distanziata in tal modo dalla grande città, con la quale tuttavia è direttamente collegata, la città­ giardino   rappresenta   un'unità   urbanistica   autosufficiente   in   quanto l'attività industriale che si svolge ed il terreno agricolo che si coltiva sono   proporzionati   al   numero   degli   abitanti   ivi   residenti.   L'intera proprietà dell'area è intestata ad una società anonima senza profitto che cede i suoli edificatori in locazione a tempo limitato, mentre gli impianti lavorativi sono di imprese municipalizzate o cooperative. In base   a   questo   schema   teorico,   ma   analiticamente   e   realisticamente studiato   ­   tanto   che,   come   scrive   Astengo,   «l'utopia   urbanistica   di Howard è così l'unico dei sistemi teorizzati nel secolo XIX a diventare

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realtà e che abbia dimostrato una sufficiente flessibilità per adeguarsi nel tempo alle esigenze di uno sviluppo pianificato a vasto raggio» [G. Astengo, voce  Urbanistica  cit. col. 597]  ­ furono realizzate le città­ giardino   di   Letchworth,   iniziata   nel   1902   quella   su   progetto   di   B. Parker e R. Unwin, e quella di Welwyn, iniziata nel 1919 su progetto di L. de Soissons. Molti   altri   insediamenti   seguiranno,   in   vari   paesi   e   più   o   meno fedelmente, il modello di Howard, mentre il tema teorico della città­ giardino è stato al centro del dibattito urbanistico, rappresentando una delle proposte alternative alla grande città industriale. A tal proposito qui ci limiteremo a ricordare che, al di là dell'utopismo ottocentesco, del neogotico, dello spirito più ruskiniano che morrisiano dell'opera di Howard, ossia di un'ultima manifestazione dell'eclettismo storicistico, l'idea   della   città­giardino   dà   inizio   alla   tendenza   urbanistica   che, ripresa   da   Geddes,   Mumford,   Gutkind   ed   altri   auspica   il ridimensionamento   delle   metropoli   a   vantaggio   degli   insediamenti autosufficienti   organicamente   disposti   in   un   più   vasto   territorio regionale. Abbiamo   finora   parlato   del   contributo   inglese   al   neogotico;   non possiamo chiudere questo paragrafo su tale revival e lo stesso capitolo sull'eclettismo   storicistico   senza   menzionare   l'apporto   francese   e segnatamente   quello   di   Viollet­le­Duc.   Della   sua   opera   teorica   ci siamo occupati in altra sede, qui vogliamo far cenno all'aspetto più propriamente   operativo   che   scaturì   dalla   sua   particolare interpretazione   del   gotico.   Per   Viollet­le­Duc   (18141879),   cui   la conoscenza   dell'architettura   gotica   derivava   dall'esperienza   del restauro ­ campo del quale può considerarsi l'iniziatore ­ il medioevo non   è   l'età   oscura   descritta   dal   luogo   comune.   Esso   è   invece   un periodo   d'industrie   e   di   ricerche   tecniche,   di   affermazioni   (anche) laiche   e   temporali,   di   straordinarie   audacie   costruttive   di   splendidi risultati   figurativi   e   semantici,   come   quello   di   visualizzare   il messaggio   religioso.   Cosicché   l'architettura   gotica   non   è   tanto   un modello   di   gusto   formale,   né   tanto   esemplare   per   l'organizzazione

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etica   e   sociale   del   lavoro   artigianale,   né   ancora   un   paradigma alternativo   alla   bruttezza   della   moderna   produzione   industriale. Viollet­le­Duc condivide questi aspetti del gotico, ma per lui esso vale soprattutto come insuperato modello costruttivo, anzi come la più alta incarnazione   di   «principi»   costruttivi.   Egli   interpreta   la   cattedrale gotica con spirito cartesiano e vede in essa anticipato chiaramente ciò che   è   possibile   realizzare   nei   tempi   moderni   grazie   alla   nuova tecnologia, specie quella del ferro. La struttura della cattedrale è per lui il precedente più diretto delle ottocentesche fabbriche a scheletro metallico e delle grandi coperture in ferro e vetro che, a loro volta, in quanto   continuatrici   di   una   tradizione   altamente   espressiva   e «classica» perché razionale, nonché ricca di «principi», non sono mera tecnica, ma tout court architettura. Alla domanda perché il secolo XIX non   ha   ancora   un   suo   stile,   risponde   che   ciò   dipende   unicamente dall'aver perduto un «metodo». Viollet­le­Duc, osserva P. Francastel, «supera   Cole   e   Laborde   in   quanto   rinuncia   al   compromesso conciliativo tra arti e industria. E stato dunque lui a porre, e in termini ben precisi, quella che sarà la rivoluzionaria concezione estetica di fine secolo:  che esista cioè una bellezza legata direttamente all'uso delle tecniche»[P. Francastel,  L’arte e la civiltà modera, Feltrinelli, Milano 1959, p. 249] La prova più convincente dell'esattezza di questo giudizio e del fatto che   l'atteggiamento   di   Viollet­le­Duc   supera   allo   stesso   tempo l'estetismo   degli   altri   storicisti   e   il   tecnicismo   architettonicamente incerto   degli   ingegneri,   è   data   dall'influenza   da   lui   esercitata sull'architettura   posteriore,   com'è   ampiamente   testimoniato   dai protagonisti delle successive generazioni. «Nessun artista ­ scrive H. P.   Berlage   ­   ha   potuto   imparare   dai   libri   come   deve   creare   le   sue opere. Sono stati grandi artisti pratici come Viollet­le­Duc e Semper che con le loro opere hanno insegnato molto di più di tutti i filosofi. Ed essi insegnano dandoci la verità, l'essenza dell'architettura» [H. P. Berlage, Considerazioni sullo stile, in  «Casabella­ continuità,n. 249, marzo  1961].  Questo apporto propriamente architettonico  è visibile

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nelle prime opere di Berlage. Gli interni della Borsa di Amsterdam ricordano moltissimo i disegni di Viollet­le­Duc, quelle avveniristiche prospettive d'interni  dove la struttura in ferro assume  un'intenzione architettonica   distinta   dai   sistemi   costruttivi   metallici   adottati   dagli ingegneri contemporanei. Il legame poi tra gli altri suoi disegni, quelli relativi  alle   strutture  in  ferro,  ai  dettagli  costruttivi,  anticipano  con tutta   evidenza   lo   stile   di   Horta,   che   considerava   il  Djctjonnajre raisonné del Nostro come la sua Bibbia [S. T. Madsen, Sources of Art Nouveau, Ascheroug, Oslo 1956, pp. 66­7]. Il contributo di Viollet­le­ Duc   all'Art   Nouveau,  ossia   alla   prima   tendenza   dell'architettura moderna   affrancata   dall'eclettismo   storicistico,   è   stato   assai   più decisivo di quello di ogni altro studioso dell'Ottocento. Egli ne definì forse tutte le premesse culturali e ne prefigurò anche alcuni aspetti del gusto. E   chiudiamo   questo   capitolo   sull'eclettismo   storicistico   con   una citazione di Zevi: «La cultura del secolo XIX con Ruskin e Morris in Inghilterra, col Viollet­le­Duc in Francia, col Wickhoff e poi il Riegl in Austria, applica alla storia dell'arte quella revisione di valori che la storiografia politica aveva operato subito dopo la rivoluzione francese. La   storia   concepita   come   continuità   statica   alterata   violentemente dall'intervento di eroi che ne trasformano il corso, cede il campo a una più   complessa   interpretazione   nella   quale   l'azione   dell'individuo diviene   sempre   meno   determinante   di   fronte   a   una   materia perpetuamente dinamica, movendosi per forze collettive ed anonime. La storia dell'arte fino allora intesa come storia di geni fieri e isolati, e perciò   puntualizzata   sulla   rinascenza,   allarga   i   suoi   orizzonti   per accogliere le epoche di arte corale, segnatamente l'Evo Medio e la cosiddetta decadenza di Roma antica. In questa cultura non vi è posto per ambizioni di forzosa originalità, ma per compiti concordati»[ B. Zevi, Storia dell’architettura moderna, Einaudi, Torino 1950, pp. 66­ 7]. Ed è forse quest'ultimo uno dei principali caposaldi del Movimento Moderno.

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LE OPERE DELL’ECLETTISMO STORICISTICO

Il cristal Palace

Il   nostro   programma   di   tracciare   una   storia   dell'architettura contemporanea   attraverso   poche   opere   paradigmatiche   ed emblematiche fissa il suo punto di partenza nell'edificio che ospitò la prima   Esposizione   universale,   tenutasi   a   Londra   nel   1851,   e   che presenta   entrambe   le   caratteristiche   suddette.   Infatti,   il   palazzo   di Cristallo si pone come opera paradigmatica perché costituisce uno dei primi esempi in cui la struttura costruttiva assume interamente valenza architettonica;  perché introduce una nuova tipologia edilizia, quella dei   grandi   impianti   espositivi,   rispondente   peraltro   all'istanza   di un'architettura   come   mezzo   di   comunicazione   di   massa;   perché costruito sui principi della modularità e della iterazione, tutti aspetti che   lo   rendono   un   modello   per   la   produzione   successiva.   In   pari tempo, esso è un'opera emblematica sia nel senso che, nonostante il carattere innovativo, riflette il linguaggio, il codice dell'epoca, ovvero l'eclettismo storicistico, sia nel senso che simboleggia puntualmente la storicità   del   suo   tempo:   la   rivoluzione   industriale,   la   condizione socioeconomica dell'Inghilterra vittoriana, la fiducia nelle magnifiche sorti e progressive dell'umanità, tipica del mondo ottocentesco. L'iniziativa della Esposizione universale si deve al principe consorte Albert   e   ad   Henry   Cole   e   faceva   seguito   ad   una   serie   di   grandi esposizioni,   dopo   la   prima   tenutasi   a   Parigi   nel   1798,   aventi   però carattere   nazionale.   Nate   nello   spirito   dell'Illuminismo   e   della Proclamation de la liberté du travail del 1791, le Esposizioni avevano intenti   conoscitivi   e   propagandistici   del   progresso   sociale   e tecnologico, stimolavano l'emulazione fra gli imprenditori, favorivano il   commercio  e   gli  scambi.  E   proprio  al  fatto  che   l'Inghilterra   non poneva limitazioni al commercio con l'estero, cui ricorrevano invece

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gli   altri   paesi   per   proteggere   la   loro   nascente   industria,   si   deve   il carattere internazionale dell'Esposizione di Londra del 1851. Questo carattere della mostra, avente palesi connotazioni politiche e reso possibile dalla «perfetta  sicurezza della  proprietà, dalla libertà commerciale   e   dalla   facilità   di   trasporto,   che   l'Inghilterra preminentemente   possiede»,   come   scrisse   Cole   nell'introduzione   al catalogo,   si   associava   ad   un   altro   intento,   quello   di   promuovere un'integrazione fra arte e industria. Henry Cole, il personaggio, più impegnato in tale programma e che, contrariamente a Ruskin e Morris, credeva   nell'utilità   di   applicare   il   lavoro   artistico   alla   produzione industriale,   tanto   da   disegnare   egli   stesso   oggetti   realizzati   a macchina, da fondare scuole d'arte applicata, da raccogliere gli oggetti d'arte decorativa costituenti il nucleo di quello che sarà il Victoria and Albert Museum, trovò un appoggio incondizionato e partecipe proprio nel   principe   consorte,   che   gli   affidò   l'incarico   dell'organizzazione generale dell'Esposizione. Puntando   sempre   sul   carattere   universale   della   manifestazione,   fu bandito  nel   1850  un  concorso  internazionale  per  la  sede:  un  unico grande edificio capace di contenere le sezioni di tutti i paesi espositori da realizzarsi in Hyde Park. Nessuno dei 245 progetti presentati fu ritenuto idoneo (ebbero una menzione speciale  ex aequo  quello del francese   Hector   Horeau   e   dell'irlandese   Richard   Turner)   e   la Commissione   per   la   sede,   facente   parte   dello   stesso   Comitato promotore dell'Esposizione, elaborò un suo progetto e fu bandito un appalto­concorso per realizzarlo. Solo in questa fase, in ritardo cioè rispetto al concorso per il progetto e prima che fosse espletata la gara d'appalto, Joseph Paxton, un giardiniere costruttore di serre, presentò un   suo   elaborato   che   pubblicò   nello   stesso   tempo   sull'«Illustrated London   News»   e   raccomandò   tale   progetto   a   Robert   Stephenson, membro   del   Comitato.   Presso   quest'ultimo   e   la   stessa   opinione pubblica,   l'idea   di   Paxton   di   raccogliere   l'intera   esposizione   in un'immensa   serra   dovette   riscuotere   ampio   successo   se,   con   una irregolare   procedura,   il   suo   progetto,   della   cui   realizzazione

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s'impegnarono   gli   imprenditori   Fox   e   Henderson,   venne   ammesso all'appalto­concorso quale variante del banale edificio progettato dal Comitato. L'opera venne realizzata nell'eccezionale tempo di soli nove mesi. Il modo col quale Paxton riuscì ad imporre la sua soluzione, il suo associarsi ad una efficiente impresa di costruzioni, la scelta dei suoi collaboratori, la versatilità nell'adattare questa e altre sue opere alle circostanze, fanno di lui il tipico esponente dell'attiva borghesia vittoriana. L'edificio, aveva una pianta rettangolare lunga 1851 piedi (pari cioè alla data dell'esposizione) e articolata in base ad un modulo quadrato di circa 7 m, corrispondente alla disposizione dei montanti in ghisa. Tale modulo costituiva l'unità di campata quadrata delle navate minori che si alternavano a quelle maggiori larghe 14 m, pari a due moduli, mentre la navata centrale era ampia 21 m, pari cioè a tre moduli. La «figura» di sezione, uguale a quella delle testate terminali, mostrava un edificio scalare a cinque navate. Dalla pianta si rilevava altresì la presenza di un corpo di fabbrica trasversale, «il transetto» articolato internamente come l'altro, ma più alto e coperto da una volta a botte per   la   conservazione   di   un   gruppo   di   alberi   ivi   esistenti.   Ai   piani superiori, in corrispondenza delle navate strette, correvano quattro file di gallerie, per consentire al pubblico la visione dall'alto dei prodotti esposti al pianterreno; una serie di scale collegava le gallerie e gli altri passaggi allo spazio espositivo, nonché alle refreshment courts, la cui ubicazione era anch'essa imposta dalla presenza di alberi. All'esterno, la scarna volumetria della costruzione, un «capannone» a tre ordini, sormontato   al   centro   del   suo   lato   lungo   dalla   volta   a   botte   del transetto, ritrovava nella sua articolazione modulare, oltre all'estrema trasparenza   e   luminosità,   anche   un   suo   decoro   architettonico.   Al modulo planimetrico se ne associa un altro altimetrico o di facciata: si trattava di un elemento di altezza costante nei tre ordini dell'edificio e largo circa 2,30 m, ripetuto tre volte per ogni modulo strutturale che, come s'è detto, era di 7 m. Esso era realizzato con un telaio di legno e ferro, a sua volta scandito dalla più grande dimensione della lastra di

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vetro   allora   normalmente   prodotta   nel   Regno   Unito,   avente   la lunghezza di soli  4 piedi. Quasi certamente Paxton partì da questa condizione per  modulare l'intera sua opera. Al di sopra della parte arcuata   del   telaio   era   un   sopralluce   recante   al   centro   un   oculo. L'elemento   descritto,   iterato   su   ogni   superficie,   costituiva strutturalmente e figurativamente l'involucro dell'edificio. La natura grammaticale   di   tale   elemento,   il   disegno   a   raggiera   nel   prospetto della volta del transetto, la presenza del coronamento a palmette che mascherava su tutti i lati l'andamento inclinato delle lastre di copertura erano gli unici motivi che si richiamavano al linguaggio architettonico tradizionale.   E   non   furono   sovrapposti   in   fase   esecutiva,   perché   le archeggiature   e   le   trine   sono   presenti   sin   dall'originario   schizzo   di Paxton, oggi conservato al Victoria and Albert Museum.  In sostanza il Crystal Palace non era altro che un grande contenitore trasparente, capace di ospitare al suo interno alberi e macchine, opere artistiche e manufatti industriali, oggetti e visitatori, insomma era il luogo ideale del sogno progressista ottocentesco di conciliare artificio e natura. Non   possiamo   omettere   nel   nostro   discorso,   che   mira   proprio   a cogliere il significato dello spazio interno, il noto passo di Bucher, già citato   da   altri   storici,   perché   ci   sembra   una   testimonianza insostituibile, specie per questo edificio perduto: «Possiamo scorgere ­ scrive l'autore tedesco ­ una delicata rete di linee senza avere alcuna chiave per giudicare la loro distanza dall'occhio o le vere dimensioni. I muri   laterali   sono   troppo   distanti   per   essere   abbracciati   in   un   solo sguardo.   Invece   di   correre   da   un   muro   terminale   all'altro,   l'occhio spazia in una prospettiva senza fine, che svanisce all'orizzonte. Non siamo in grado di affermare se questo edificio torreggia cento o mille piedi   sopra   di   noi,   e   se   il   tetto   è   piano   od   è   composto   da   una successione   di   costole,   poiché   non  v'è   giuoco   d'ombre   che   metta  i nostri nervi ottici in grado di stimare le misure. Se lasciamo il nostro sguardo   scendere,   esso   incontra   i   travi   in   ferro   dipinti   in   azzurro. Dapprima   questi   si   susseguono   soltanto   ad   ampi   intervalli;   poi   si

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stringono sempre più  frequentemente,  finché  non sono interrotti da una abbagliante striscia di luce ­ il transetto ­ che si dissolve in uno sfondo   lontano   dove   ogni   elemento   naturale   si   fonde nell'atmosfera[[L.Bucher,  Kulturhistorische   Skizzen   aus   der Industrieausstellung aller  Völker, Frankfurt 1851, p. 174.  Nel citare questo brano, Giedion associa l'effetto spaziale del Crystal Palace   all'atmosfera   dematerializzata   dei   dipinti   di   Turner.   Dallo stesso passo Benevolo evince che l'indefinita estensione prodotta dalla iterazione   modulare   assimila   il   risultato   spaziale   di   quest'opera   a quello   delle   strade   parigine   di   Haussmann,   «dove   le   regole prospettiche tradizionali sono applicate a spazi troppo grandi, non si chiudono   più   su   se   stesse   e   si   trasformano   in   ambienti   sconfinati, qualificati dinamicamente dal traffico che vi si svolge » (L. Benevolo op. cit., p. 141)]. Questo tipo di lettura, mirante a cogliere il significato di uno spazio architettonico in base ai suoi soli elementi e alla loro disposizione, ci conferma   l'assunto   che   la   ragion   d'essere   dell'edificio,   il   suo significato» era tutto da ritrovarsi nel suo spazio interno. L'esterno «significante» altro non è che una proiezione su di esso dell'interno; anzi la grande novità dell'opera di Paxton sta in ciò che l'involucro esterno ha perduto le due facce tradizionali, non ha più praticamente spessore, s'è ridotto ad un piano trasparente. E se tali caratteristiche devono in primo luogo essere ascritte alla tecnologia adottata, sta di fatto   però   che   l'edificio   mancava   di   una   vera   e   propria   facciata, essendo quelle terminali non altro che «sezioni» strutturali. Il   senso   quindi   del   Crystal   Palace   sta   non   solo   nella   sua   interna spazialità, il che è proprio di ogni fabbrica riuscita, quanto soprattutto nel modo totalmente inedito del rapporto interno­esterno e nei mezzi utilizzati   per   realizzare   tale   rapporto:   i   fattori   modulari,   le caratteristiche   schematiche,   iterative,   di   provvisorietà,   di recuperabilità, ecc., grazie alle quali, considerata opera d'ingegneria, la   sede   della   prima   Esposizione   universale   riuscì   a   passare   tra   le maglie   del   gusto   vittoiano.   Tali   aspetti   sono   abbondantemente

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testimoniati   dalla   letteratura   del   tempo;   la   rivista   «The Ecclesiologist», che ebbe un ruolo notevole nel Gothic Revival, così scrive dell'opera in esame: «Le condizioni alle quali fu intrapresa la costruzione del Crystal Palace non avrebbero potute essere rispettate, riteniamo,   in   nessun   altro   modo   se   non   con   l'esecuzione dell'ammirevole progetto di Mr. Paxton. E ammettiamo senz'altro che siamo pieni di ammirazione per gli effetti interni, senza precedenti di una   tale   struttura   [...]   un   effetto   di   spazio,   e   invero   una   effettiva spaziosità sin qui mai ottenuta; una prospettiva così vasta che l'effetto atmosferico della estrema distanza è del tutto nuovo e singolare; una diffusa   luminosità   ed   un   favoloso   brillio,   mai   supposti   prima;   e soprattutto ­ uno degli attributi per noi più soddisfacenti ­ una palese franchezza e un realismo costruttivo impagabili. Tuttavia, si è formata in noi la convinzione che questa non è architettura: è ingegneria ­ della migliore   qualità   ed   eccellenza   ­   ma   non   architettura.   La   forma   è ancora tutta da venire e così pure l'idea di stabilità e di solidità [...]. Ancora,   la   infinita   ripetizione   degli   stessi   elementi   componenti   ­ indispensabile in una tale struttura ­ ci sembra negare ogni aspirazione ad   una   più   alta   qualità   architettonica»[The   Design   of   the   Crystal Palace,  in «The Ecclesiologist» XLI, 1851, cit. in G. F. Chadwick, The Work of Sir Joseph Paxton, London 1961] Ma,   proprio   quegli   aspetti   che   il   gusto   e   la   critica   contemporanei misconoscevano,   accettando   il   Crystal   Palace   solo   per   i   suoi   lati funzionali   ed   economici,   sono   i   valori   dell'opera   che   oggi maggiormente apprezziamo. È ben vero che le caratteristiche per noi più   positive   nascevano   più   dalle   circostanze   (tempi   ridotti   per l'esecuzione   dell'opera,   necessità   di   recuperare   un   materiale   tanto costoso,   ecc.)   che   da   una   precisa   intenzionalità;   tant'è   vero   che   i successivi progetti di Paxton e già la stessa ricostruzione del Crystal Palace a Sydenham (distrutto poi da un incendio nel 1936), acquistano un   tono   aulico,   risentono   appieno   dell'eclettismo   stilistico contemporaneo. Tuttavia, se è vero che molte opere successive si sono ispirate   nella   loro   veste   formale   più   al   Palazzo   ricomposto   a

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Sydenham che a quello originario di Londra, è indubbio peraltro che le caratteristiche oggi apprezzate sono quelle che hanno influenzato altre strutture ben oltre gli aspetti stilistici. Il Crystal Palace è quindi risultato paradigmatico per le più significative opere delle successive Esposizioni universali, si pensi ai notissimi casi della torre di Eiffel e della Galerie des Machines, entrambe realizzate a Parigi nel 1889, fino alle   edizioni   più   recenti   di   tali   manifestazioni   che   ormai,   data   la diversa organizzazione degli scambi e soprattutto dei diversi sistemi d'informazione di massa, risultano totalmente anacronistiche.

La scuola di Chicago.

Rispetto   all’intensa   attività   urbanistica,   pochi   edifici   di   grande interesse moderno furono realizzati nel periodo che va dagli anni '50 agli '80 del secolo XIX. Prosegue l'opera dei grandi costruttori: H. Labrouste,   dopo   la   Bibliothèque   Sainte­Geneviève   (1843­50), costruisce la Bibliothèque Nationale (1862­68); V. Baltard inizia nel '53 le Halles Centrales nel quadro delle opere urbanistiche di Parigi. Entra   nella   sua   fase   culminante   l'eclettismo,   nell'accezione   più corrente del termine: Ch. Garnier realizza tra il 1861 ed il '74 l'Opéra di Parigi in quello stile del neoclassicismo barocco, che in Italia si chiamerà «umbertino» e che informerà moltissimi edifici «ufficiali» di vari paesi. È assai viva in questo periodo la ricerca teorica e critica: Viollet­le­Duc pubblica tra il '54 ed il '68 il Dictionnaire raisonné de l'architecture   francaise  e   tra   il   '63   ed   il   '72   gli  Entretiens   sur l'Architecture.   Il   fenomeno   più   significativo   di   quegli   anni   fu   la trasformazione   delle   grandi   città:   quella   di   Parigi   per   opera   di Napoleone III e del suo prefetto Haussmann avvenuta fra il 1853 ed il '69, quella di Bruxelles (1867­71), di Barcellona iniziata nel '59, di Vienna (1859­72), ecc., nonché le modifiche parziali degli organismi urbani attraverso piani di «risanamento» avviate in quasi tutte le città europee   sul   modello   di   Parigi.   Insomma   la   seconda   metà dell'Ottocento, come s’è detto, fu la grande stagione dell'urbanistica,

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vi fu una grande sperimentazione tecnico­costruttiva, si elevò il livello dell'edilizia,   segnatamente   quella   britannica,   ma   non   quello dell'architettura;   comunque   non   sorsero   opere   definibili paradigmatiche. Per trovare edifici che, pur nell'ambito dell'eclettismo storicistico, nel senso più ampio da noi dato a questa espressione, rappresentino una svolta nella storia dell'architettura, bisogna trasferirsi negli Stati Uniti ed attendere l'inizio degli anni '80. Ci riferiamo alle fabbriche della scuola di Chicago. S'intende con tale espressione l'insieme delle opere che costituirono il centro direzionale di questa città, fondata nel 1830 con un impianto a scacchiera ad estensione illimitata, divenuta ben presto il maggiore centro di scambi e il più grande nodo ferroviario degli Stati Uniti. Distrutta da un'incendio nel 1871, Chicago era una tale concentrazione di interessi da essere ricostruita in poco meno d'un ventennio e ampliata al punto da contenere 1.700.000 abitanti alla fine del secolo. La ricostruzione fu inizialmente affidata ad un gruppo di tecnici provenienti dal genio militare e formatisi durante la guerra di secessione. Tra il 1880 ed il 1900 nacque appunto il centro degli affari della città, il Loop, caratterizzato da grandi edifici per uffici, alberghi, grandi   magazzini,   pubblici   locali,   ecc.,   talvolta   concentrati   in   uno stesso stabile. L'alto prezzo delle aree fabbricabili a Chicago come a New York fu la causa che determinò la nascita del grattacielo, tipo edilizio in un primo tempo realizzato come «torre di pietre» e poi a scheletro metallico. Esso consentiva il minimo ingombro di strutture, la massima utilizzazione degli spazi interni, la loro polifunzionalità, le massime   luminosità  e  aperture,  soprattutto  il  massimo   sfruttamento del suolo edificabile. Tecnicamente il grattacielo si avvaleva appunto delle   innovazioni   strutturali   derivanti   dall'uso   razionale   della costruzione   in   ferro,   dei   sistemi   di   trasporto   verticali   (ascensore   a vapore: Otis del 1864, idraulico: Baldwin del 1870, elettrico: Siemens del 1887), nonché degli impianti di telefono e di posta pneumatica. Benevolo opportunamente paragona il tipo edilizio del grattacielo con un'estensione altimetrica illimitata al piano di lottizzazione urbana a

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scacchiera con una estensione planimetrica illimitata, considerandoli entrambi come mere operazioni aritmetiche. « Né l'una né l'altra sono realtà   architettoniche,   ma   contengono   la   possibilità   di   una   radicale trasformazione della scena architettonica tradizionale, e il principio su cui si fondano, essendo lo stesso che governa l'industria, può servire a metter   d'accordo   il   nuovo   scenario   urbano   con   le   esigenze   della società industriale»[L. Benevolo, op. cit., p.261] . Dal canto suo Zevi afferma: « Nulla di contemporaneo in Europa è paragonabile a questa pagina americana» [ B. Zevi, op. cit., p. 392] e tenta di distinguere fra i costruttori di Chicago le personalità creative da quelle dotate di sole capacità   tecniche,   nonché   gli   architetti­organizzatori   dai   puri   e semplici affaristi. Tutto ciò è vero, ma visti da una visuale più ampia e in uno studio di sintesi come il nostro, possiamo dire che la scuola di Chicago   fu   un   coacervo   di   conquiste   tecniche   indiscutibili;   di ambizioni   stilistiche   che   vanno   dal   neoromanico   alla   ricerca neodecorativa   (non   a   caso   molti   dei   suoi   esponenti   studiarono   in Francia   presso   l'Ecole   des   Beaux­Arts);   di   connubi   architettonico­ ingegnereschi; di estrema disponibilità professionale; di drammatiche frustrazioni per chi, non senza accenti velleitari, tentava di conciliare l'arte con questo sbrigativo e risoluto mondo degli affari. Al di là di ogni   conquista   tecnologica,   tipologica,   protorazionalistica,   nella vicenda   di   Chicago   la   cultura   architettonica   gioca   un   ruolo decisamente   secondario   e   strumentale   essendo   quello   della committenza il ruolo del vero protagonista. Gli edifici di quella scuola testimoniano la piena attuazione dell'attivo e del passivo derivanti dal sistema   liberistico   applicato   al   settore   edilizio   e   urbanistico.   Il realismo commerciale d'un gruppo di imprenditori, libero com'è da ogni remota, ha qui la possibilità di esprimere e realizzare ciò che in Europa   sarebbe   stato   impedito   da   vincoli   di   ogni   sorta,   dalle preesistenze ambientali ai conflitti di classe. E saranno proprio queste condizioni   storico­culturali,   economiche,   sociopolitiche, rappresentanti   lo   specifico   della   tradizione   europea,   a   differenziare

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sostanzialmente   il   Movimento   Moderno   nel   vecchio   continente   da quello attuatosi in America del Nord. La   scuola   di   Chicago   ebbe   quale   iniziatore   l'ingegnere­architetto William Le Baron Jenney (1832­1907) che aveva studiato in Francia presso   l'Ecole   Polytechnique   ed   era   stato   maggiore   nel   corpo   dei genieri   di   Shermann.   Nel   suo   studio   professionale   furono   Martin Roche, William Holabird, Daniel Burnham e Louis Sullivan, ossia i principali esponenti della scuola di Chicago. Tuttavia la produzione architettonica di questa città, come del resto quella degli altri centri americani   dell'ultimo   quarto   del   secolo,   fu   influenzata   da   un   altro architetto,   Henry   Hobson   Richardson   (1838­86)   che,   pur   avendo costruito   un   solo   importante   edificio   a   Chicago,   il   Marshall   Field Wholesale Store and Warehouse nel 1885 [ In precedenza Richardson aveva   realizzato   a   Chicago   un   edificio   per   l'American   Express Company, che non ebbe però grande ripercussione], per aver studiato anch'egli in Europa presso l'Ecole des Beaux­Arts e presso Labrouste e   per   aver   svolto   al   suo   ritorno   in   patria   una   intensissima   attività professionale,   finì   per   incidere   notevolmente   negli   sviluppi   della vicenda   di   cui   ci   occupiamo,   rappresentandone,   per   così   dire,   il momento «culturale», impersonandone l'opera di Le Baron Jenney il momento «tecnico». Sia   pure   con   una   certa   approssimazione,   possiamo   collegare   alle fabbriche   di   quest'ultimo   la   tendenza   caratterizzata   dagli   edifici   a scheletro, quelli indubbiamente più innovatori, che affidavano l'intero programma   architettonico   all'impianto   strutturale   quasi   senza   alcun accorgimento stilistico­figurativo. All'opera di Richardson notissima, come s'è detto, anche prima della sua fabbrica costruita a Chicago, possiamo   collegare   la   tendenza   che,   pur   riflettendo   il   programma edilizio   degli   edifici   commerciali,   affrontava   questo   compito   con notevoli   implicazioni   stilistiche,   storico­eclettiche,   segnatamente ispirate al romanico. Come osserva Zevi, «Nel romanico egli non vide uno   stile   paragonabile   agli   altri   di   importazione,   ma   un   austero metodo   compositivo   che   teneva   conto   delle   realtà   costruttive

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fondamentali,   lasciava   ampio   margine   a   originali   interpretazioni, restaurava   una   schiettezza   nell'uso   del   materiale   laterizio,   riduceva all'essenziale la decorazione » [Zevi, op. cit., p. 386]. Poiché tutti gli altri architetti di Chicago, seguirono ora l'una ora l'altra di   queste   tendenze,   assai   spesso   fondendole   in   uno   stesso   edificio, proviamo   ad   elencare   quelle   fabbriche,   indipendentemente   dai   loro versatili   autori,   in   due   filoni   che   convenzionalmente   definiremo «strutturistico»   e   neoromanico.   Nella   prima   corrente   possiamo annoverare: il primo Leiter Building del 1879, progettato da Le Baron Jenney. Esso era alto sei piani oltre quello terreno, aveva una struttura in ghisa, manifestata all’esterno con una maglia ortogonale di travi e lesene   che   inquadravano   ampie   aperture.   A   questa   fabbrica, considerata   capostipite   della   scuola   di   Chigago,   facva   seguito l’edificio della Home Insurance Company del 1884 ad undici piani realizzato dallo stesso architetto nella stessa linea architettonica, anche se un risalto dei  marcapiani tende forse a mitigare percettivamente l'alta mole dell'edificio; di poco più tardi era il Tacoma Building di Holabird e Roche del 1888 di dodici piani che introduce nella struttura a scheletro poligonali bow­windows, ossia un elemento architettonico appartenente   tanto   ai  revivals  stilistici   quanto   ad   una   ininterrotta tradizione edilizia nordica; seguiva il secondo Leiter Building di Le Baron Jenney, realizzato nel 1889 in perfetta continuità con l'altro di dieci anni prima; più tardi nasceva il Fair Building del 1891, sebbene con   qualche   concessione   al   motivo   storicistico   delle   lesene   giganti sormontate   da   un   capitello;   del   1894   era   il   Marquette   Building   di Holabird   e   Roche,   un   binomio   desinato   a   diventare   famoso;   e finalmente il Reliance Building, iniziato nel 1890 da Burnham e Root, alto dapprima cinque piani e ultimato nel '95 con l'aggiunta di altri dieci   piani.   Questo   edificio,   il   più   significativo   delle   fabbriche   di Chicago, può considerarsi il punto d'arrivo della corrente strutturistica. Nella seconda tendenza, quella neoromanica ispirata a Richardson e arricchita da accenti neodecorativi dovuti all'opera di Louis Sullivan si possono includere: il Rothschild Store del 1881; il Revell Store del

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1881­83; il Troescher Building del 1884, tutti progettati appunto da Sullivan; il Marshall Field Store di Richardson, già menzionato, ossia l'opera principale di questo architetto e la più influente per la corrente che stiamo esaminando; direttamente collegato ad essa è l'Auditorium Building costruito dal 1887 all'89 da Sullivan e Adler, un altro degli immobili più significativi di Chicago anche per la sua polifunzionlità (conteneva oltre al teatro, uffici commerciali e un albergo); il Great Northern   Hotel   del   1891   progettato   da   Burnham   e   Root,   i   quali realizzano   nel   '92   il   Capitol   detto   anche   Masonic   Temple,   ossia l'edificio più alto di questo periodo a Chicago con i suoi 22 piani, entrambi chiaramente ispirati a forme richardsoniane enfatizzate come richiedeva l'importanza commerciale di tali edifici. Accanto a questi due filoni, strutturistico e neoromanico, nei quali si possono   includere   numerose   altre   opere   e   i   cui   accenti   venivano spesso fusi, valga per tutti il caso del Manhattan Building (1890) dello stesso William Le Baron Jenney dove sono mescolati la struttura a scheletro, bow­windows poligonali e curvilinei, finestre orizzontali e persino archi terminali di coronamento, vi sono delle fabbriche affatto originali   e   indipendenti   come   il   Monadnock   Building   del   1891 progettato da Burnham e Root. Questo edificio con i suoi ininterrotti quindici piani, i suoi bow­windows, alternati ad aperture verticali, i suoi   raccordi   lievemente   incurvati   alla   base   e   alla   sommità,   si differenzia   sensibilmente   sia   dalle   configurazioni   a   scheletro   della prima tendenza sia dalle archeggiature romaniche richardsoniane, sia infine,   nudo   com'è   col   suo   continuo   paramento   in   mattoni,   dagli accenti decorativi delle opere di Sullivan. Di quest'ultimo autore è un altro   edificio   «indipendente»,   il   Carson,   Pirie   e   Scott   Department Store, realizzato tra il 1899 ed il 1904, dove ad eccezione del raccordo curvilineo   d'angolo,   ossia   una   soluzione   tipicamente   ottocentesca degli   edifici   per   grandi   magazzini,   è   chiaramente   espresso   il programma di Sullivan d'integrare ad una nitida struttura ortogonale di facciata   quel   «sistema   decorativo»,   cui   l'architetto   dedicò   la   sua migliore energia [36 Oltre alle opere realizzate da Sullivan a Chicago,

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vanno   ricordati   tra   i   suoi   lavori   più   significativi   il   Wainwright Building di St. Louis (1891) e il Guaranty Building di Buffalo (1895) entrambi progettati in collaborazione con Dankmar Adler]. Nella vicenda della scuola di Chicago, l'Esposizione colombiana del 1893, secondo la maggioranza degli storici, segna la fine di un'intensa attività   di   ricerca,   nella   quale,   pur   tra   le   evidenti   contraddizioni, l'eclettismo storicistico si affianca ad un rigore estetico­strutturale che può dirsi  protorazionalista, fino ad apporti che sembrano anticipare l'Art Nouveau. Tale Esposizione avrebbe arrestato questo insieme di spinte innovatrici e restaurato vecchi stilemi nella linea Beaux­Arts provenienti   dal   vecchio   continente.   Indubbiamente   c'è   del   vero   in questo giudizio, specie se si considera il passaggio di uno dei maggiori protagonisti   di   Chicago,   Daniel   Burnham,   alla   corrente neoaccademica   ed   il   fallimento   professionale   di   un   artista   come Sullivan,   sul   quale   influì   il   mutato   gusto   del   pubblico   in   seguito all'Esposizione colombiana. Tuttavia, a parte la personale vicenda di alcuni architetti e quella di Sullivan in particolare, l'Esposizione colombiana riuscì solo in parte ad   arrestare   il   vitalistico   flusso   produttivo   dell'edilizia   di   Chicago. Anzi,   a   nostro   avviso,   producendo   una   momentanea   crisi,   tale manifestazione finì per determinare un chiarimento nella vicenda di cui ci occupiamo. Dopo il '93, infatti, quella che resiste è la corrente strutturistica   iniziata   da   William   Le   Baron   Jenney,   la   sola   che   si addiceva,  fuori  da   ogni   velleità  culturalistica,   alle  ragioni  tecniche, economiche, figurative più aderenti alle istanze della committenza. Già   Hitchcock   nel   suo   Architecture:  Nineteenth   and   Twentieth Centuries aveva proseguito il suo elenco di opere americane del tardo Ottocento   senza   dare   eccessivo   peso   all'azione   ritardatrice dell'Esposizione   colombiana;   più   recentemente   l'influenza   di quest'ultima è stata ridimensionata nel modo più convincente.   Luigi Pellegrin sostiene che: «La   celebre Scuola contrassegnata nei libri con la data 1880­93 non si deve andare a cercare solo negli episodi isolati   dell'Ottocento:   continua   e   produce   almeno   in   tutto   il   primo

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quarto   del   nostro   secolo.   I   grattacieli   di   Mies   oggi   si   ambientano perfettamente   in   questa   tradizione.   Nulla   di   più   falso   perciò   che credere   letteralmente   al   mito   dell'Esposizione   Columbiana distruggitrice di tutti i valori della Scuola di Chicago. Questi valori non erano meramente figurativi e perciò non potevano essere banditi dall'insorgere di una moda accademica. Aderivano al mondo sociale e tecnico di Chicago e, ostracizzati dalla cultura ufficiale, riemergevano nella   pratica   edilizia   ineluttabilmente»[L.   Pellegrin,  Autonomia espressiva   della   scuola   di   Chicago,   in   «L'architettura,   cronache   e storia », agosto 1956, n. 10]. Concordiamo   con   questo   assunto   che,   a   sua   volta,   conferma implicitamente   gli   aspetti   positivi   e   negativi   del   fenomeno architettonico di Chicago, emblematico nel suo insieme, da noi rilevati nelle considerazioni generali espresse all'inizio del presente paragrafo. La Borsa di Amsterdam L'edificio che sembra realmente concludere l'eclettismo storicistico è quello della Borsa costruita Hendrik Petrus Berlage (1856­1934)   ad Amsterdam tra il 1898 ed il 1903. E ciò non solo per il suo ritardo ­ quest'opera neoromanica fu realizzata negli anni in cui l'Art Nouveau aveva decretato la fine di ogni revival ­ ma anche perché riassume gli aspetti   migliori   di   tutti   i   fenomeni   che   abbiamo   inglobato nell'eclettismo storicistico: la selezione motivata di un modello storico rispetto agli  altri, l'istanza morale, l'identificazione etica­estetica, le ragioni costruttive, il valore simbolico­rappresentativo, ecc. Insomma essa costituisce (grazie anche a quanto si rileva dall'opera teorica del suo   autore)   un   compendio   di   tutto   il   travaglio   del   secolo,   dalle indicazioni di Ruskin e Morris a quelle di Viollet­le­Duc e Semper; dalla   continuità   della   tradizione   all'istanza   innovativa;   dal mercantilismo   borghese   al   socialismo;   dalle   tecniche   tradizionali dell'artigianato a quelle industriali dell'ingegneria. Come tale la Borsa di Amsterdam è fra le opere più emblematiche del tardo Ottocento, ma anche   una   fabbrica   paradigmatica   per   la   produzione   successiva,

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dell'architettura olandese contemporanea e persino dell'urbanistica di questo paese, uno dei pochi nei quali il Movimento Moderno abbia vinto la sua battaglia. L'edificio sorge nel cuore della città seicentesca, dove la scena urbana è caratterizzata dall'allineamento di case dalla stretta facciata lungo i canali.   Esso   occupa   una   vasta   area   assimilabile   ad   un   trapezio rettangolo molto allungato. I suoi ambienti principali sono  le tre sale: della Borsa merci, della Borsa cereali e della Borsa valori; e mentre quest'ultime   si   affiancano   sfruttando   l'ampiezza   prodotta   dalla   base maggiore   del   trapezio,   la   prima,   cioè   lo   spazio   interno   più significativo, ne occupa il lato più stretto corrispondente alla fronte con  l'ingresso   principale   e  la  torre  angolare.  Lungo  i lati  maggiori delle tre sale, che hanno forma rettangolare, si snodano tre ordini di piccoli   spazi   modulari   destinati   ad   uffici;   sui   lati   brevi   dei   saloni, ovvero in tre zone, una mediana e due corrispondenti alle basi del trapezio vi sono locali, per così dire, intermedi, contenenti la camera di commercio, la direzione, gli ambienti di rappresentanza, gli uffici postali, ecc.;  il  collegamento  di queste tre zone  è  assicurato  da un loggiato che corre lungo i lati dei saloni. All'esterno, tutto in mattoni come l'interno, la gerarchia planimetrica si manifesta puntualmente anche in una altimetrica. Alla torre angolare che è l'elemento preminente, seguono in ordine d'altezza il volume tra le tre sale a tetto inclinato, quello delle zone degli ambienti intermedi e quello dei tre piani degli uffici, mentre le scale, racchiuse in corpi autonomi articolano la volumetria generale, evitando la monotonia dei cantoni o dei tratti più lunghi delle facciate. Ma parlare di volumetria è   forse   improprio:   ogni   lato   dell'edificio   è   un   muro   assolutamente privo di sporgenze o rientranze e questa rasata parete si articola solo in senso   altimetrico.   Solo   grazie   all'alternarsi   di   elevazioni   e   di abbassamenti   di   questo   profilato   piano   si   scorge,   al   livello   delle digradanti   coperture,   tutta   la   varietà   della   volumetria   interna, corrispondente appunto alla sagoma del compatto muro perimetrale. Al   di   sopra  di   esso   e  tutto  svolto   sull'interno,   è   un  ricco  gioco   di

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prismi rettangolati, triangolari, piramidali ecc., che fanno pensare ad una   cittadella   medievale   recintata   da   una   liscia   murazione   turrita oppure ad un «oggetto», assai ricco di sfaccettature geometriche, ma tagliato come da un rasoio lungo le sue facce laterali. Non vorremmo spingere   oltre   tali   similitudini,   ma   non   possiamo   però   trascurare l'ipotesi che questa tecnica dei muri rasati ­ che ricorre costantemente anche all'interno e persino in tutta la plastica minore ­ sia stata ispirata dal taglio dei diamanti che proprio ad Amsterdam trova i suoi più esperti esecutori, per i quali lo stesso Berlage costruì nel 1900 la sede del loro sindacato. Similitudini a parte, questo «artificio » del muro rasato rende le facciate, nel modo che s'è detto, un rispecchiamento degli   spazi   interni,   ossia   di   fattori   propri   all'architettura   e   in   pari tempo,   per   il   loro   rigoroso   allineamento,   nonché   il   tentativo   di riprodurre nel ritmo delle aperture quello delle case allineate lungo i canali,   fa   sì   che   le   stesse   facciate   costituiscono   fattori   della   scena urbana.   E   se   di   ogni   edificio   ben   inserito   si   può   dire   che   i   suoi prospetti   siano   al   tempo   stesso   «figure»   dell'architettura   e dell'urbanistica, qui tale fenomeno è accentuato al massimo proprio dalla mancanza di qualunque aggetto o rientranza, dalla riduzione di interno   ed   esterno   ad   un   muro   perfettamente   piano.   Pertanto   la caratteristica esponente che informa tutta l'opera ­ la fusione di ogni sporgenza con la superficie piana del muro ­ non va solo intesa come una semplificazione stilistica, un ammodernamento ottocentesco del romanico, non è solo questione di dettaglio e di plastica minore, come quella dei capitelli, delle cornici, delle decorazioni che non aggettano dai   pilastri,   dal   vano   delle   finestre,   ecc.,   ma   soprattutto   come intenzione di rendere ancor più netta la definizione spaziale che già avevano   gli   elementi   e   l'articolazione   degli   spazi   nel   romanico.   Il confronto della Borsa di Amsterdam con esso, finora stabilito solo sul piano   del   gusto   e   dell'istanza   «morale»,   ossia   della   schiettezza costruttiva, andrebbe approfondito soprattutto per quanto riguarda il rapporto   dialettico   della   conformazione   spaziale,   il   gioco   norma­

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deroga che quest'opera del tardo Ottocento stabilisce col suo modello medievale. Nello  stile­codice  romanico  e  segnatamente  nel  suo   principale   tipo edilizio, la chiesa basilicale, tutto era costruttivamente e spazialmente chiaro   e   distinto:   la   metrica   modulata   delle   navate,   il   rapporto semplice fra quella maggiore e le minori, il ritmo delle facciate interne coi matronei, la soluzione della facciata principale che altro non era se non   il   riflesso   sulla   fronte   principale   della   sezione   trasversale dell'edificio,   ecc.   Berlage   riprende   quasi   puntualmente   queste caratteristiche; cosicché, contrariamente a Richardson, al quale viene spesso collegato, del romanico non apprezza tanto la massiva struttura degli   archi,   che   nella   Borsa   diventano   poco   più   che   sagome   di aperture,   né   il   gusto   barbarico   dei   grossi   conci   di   pietra   (di   cui l'Americano fa uso magistrale) che qui si traducono in un uniforme paramento di mattoni, quanto appunto la intelligibile conformazione e funzione spaziale di ciascuna parte della cattedrale romanica, il cui stesso   messaggio   religioso   era   affidato   alla   semplicità commensurabile delle parti e dell'intero organismo. E veniamo a parlare di ciò che lega o distingue l'opera in esame con la basilica romanica. Che la volumetria interna dell'edificio olandese si traduca, al pari delle chiese medievali, in sagomatura di facciata lo abbiamo già notato, che la stessa fronte principale denunzi una sorta di navata   centrale   (il   salone   della   Borsa   merci)   e   due   navate   laterali (quelle degli uffici), risulta evidente, nonostante la presenza della torre e   del   corpo   della   scala   diposti   ai   due   lati   dello   stesso   prospetto. All'interno ­ e parliamo del celebre invaso del salone ­ il parallelo col modello medievale è meno palese. ma pure sussiste. Paragonato alla navata centrale della basilica romanica il grande ambiente della Borsa presenta,   come   quella,   le   navatelle   laterali,   lo   stesso   ritmo   di   due arcate   tra   un   pilastro   e   l'altro,   una   teoria   di   logge   sopra   logge assimilabile, per così dire, ad un doppio matroneo, soprattutto quel senso di un interno che vale come un «esterno», là dovuto, nonché all'ampiezza, alla maggiore altezza della navata che prende luce al di

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sopra delle navatelle e dei matronei, qua dovuta alla copertura in ferro e   vetro   che   illumina   dall'alto   il   grande   invaso.   L'analogia   però   è totalmente trasfigurata non solo per le innovazioni morfologiche, quali la   struttura   metallica   ad   arcate   reticolari   ogivali   della   copertura, contrassegno della modernità dell'opera, i già menzionati muri rasati con   la   riduzione   al   piano   di   tutte   le   articolazioni,   ecc.,   quanto soprattutto   per   il   diverso   accento   dimensionale,   che   conferisce all'opera un significato affatto moderno. Considerato il salone nella sua globalità, ovvero percorrendolo e distinguendo la sua funzione da quella   delle   logge   con   gli   uffici   che   lo   affiancano,   cade   l'idea   di confrontarlo con una navata centrale di basilica romanica per far posto ad un'altra ­ ferma restante la sua caratteristica di spazio interno che vale   come   un   «   esterno   »   ­   quella   cioè   di   una   piazza   medievale circondata da portici e da logge. Quest'ultima similitudine è già stata notata da altri e richiamandola qui entriamo nel vivo dell'interpretazione simbolico­semantica dell'opera. Come   osserva   G.   Grassi   la   Borsa   di   Amsterdam   «è   un   edificio pubblico la cui importanza rappresentativa può essere afferrata a pieno solo se si pensa alla grande tradizione mercantile olandese; è situato nel nodo vitale della città, affacciato sul mare...; [Berlage] partendo dalla impostazione schematica di un palazzo per uffici, volle vedere nei   liberi   rapporti   di   lavoro   la   condizione   per   il   formularsi   dello spazio. Così nelle sale di contrattazione, aperte alla luce attraverso la copertura in ferro e vetro, si ispirò alle piazze civili medioevali, dove si stringevano legami fra uomini liberi, e non certo a quegli edifici improntati   a   proterva   monumentalità   che   si   erano   innalzati   nelle maggiori   capitali   europee»  [G,   Grassi,  Immagine   di   Berlaghe,   in «Casabella­continuità, marzo 1961, n.249] Ma ad affrancare l'opera che studiamo da tali edifici, oltre a questo richiamo etico­civile, che riprende, sul piano dei contenuti, la continuità con la tradizione, che l'uso dei materiali, la distinzione «calma» [ Giedion riporta una frase di Berlage relativa a  quella qualità che distingue i monumenti antichi dalle   costruzioni   di   oggi:   la   calma!»  e   chiara   delle   parti   nel   tutto

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riprendono   sul   piano   delle   forme,   contribuiscono   altre   valenze semantiche. Il senso un po' cupo e greve dell'intero spazio interno è sottolineato, talvolta per contrasto, dagli elementi di dettaglio, quali il bianco dei giunti­capitello che si stacca dal rosso scuro dei mattoni, gli elementi lineari della copertura metallica, la trama rada delle catene e dei tiranti verticali al cui incrocio sono disposti dei fermagli, i lunghi cavi che assicurano alle travi le lampade dal pregevole disegno come quello, singolarissimo, dei lampioni posti all'esterno, gli scanni austeri e   la   solida   severità   dell'arredo   in   legno,   ecc.   Tutto   ciò   conferisce segnatamente alla sala principale della Borsa un significato laico ed ecclesiastico insieme, un misto di cattedrale e di filanda. Anche Grassi parla di «fascino “mistico” (“fides qua creditur” nel lavoro) di questa sala ». Dopo la Borsa, che a sua volta faceva seguito ad una serie di edifici eclettico­rinascimentali, Berlage compie un viaggio negli Stati Uniti; ne  ritorna   fortemente   influenzato   dall'opera   del   primo  Wright   e  ne diffonde la conoscenza in Olanda. Le sue fabbriche più significative oltre quella esaminata sono la Holland House a Londra del 1914 e il Gemeente Museum a L'Aja terminato nel 1934. In campo urbanistico, dove   svolse   una   intensa   attività   come   consulente   presso   le amministrazioni di Rotterdam, Utrecht, L'Aja, Berlage oppone all'idea della città­giardino il valore socio­culturale della grande città, favorito in ciò dalla particolarissima condizione territoriale olandese, dal più lento diffondersi qui dell'industrializzazione e dalla stessa legislazione urbanistica del paese. La sua opera più significativa in questo settore fu il quartiere Zuid di Amsterdam, progettato nel 1917. Come tutti i precursori del Movimento Moderno svolse anche una efficace azione teorica   e   divulgativa   informata   al   rinnovamento   del   rapporto   fra architettura e società. E su questo tema, svolse la relazione presentata al   primo   congresso   del   ClAM   tenutosi   a   La   Sarraz   nel   1928,   cui partecipò quale unico esponente della vecchia generazione. Alla sua opera si collegano, sia pure per diversi motivi, il che dimostra l'ampiezza   del   suo   insegnamento,   le   due   principali   tendenze

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dell'architettura moderna in Olanda, il gruppo di Wendingen e quello di De Stijl. Capitolo secondo L'ART NOUVEAU Il   nostro   intento   di   periodizzare   la   storia   dell'architettura contemporanea con la «costruzione», per ogni sua fase, di un codice­ stile tipico­ideale risulta più agevole per l'Art Nouveau di quanto non sia stato per l'eclettismo storicistico. Nel precedente capitolo infatti l'esigenza di informare il lettore su una serie di «fatti» preliminari a tutto lo sviluppo dell'architettura moderna e quella di inglobare questa sorta di generale premessa nell'idea stessa di eclettismo storicistico ci hanno impedito di realizzare un modello storico­strutturale chiaro ed univoco, cui riferire tutte le opere coeve, ben oltre evidentemente le poche   analizzate   in   dettaglio.   Con   l'Art   Nouveau,   sia   perché rimangono   invariate   o   in   via   di   sviluppo   le   condizioni   storiche generali, sia perché questo stile già traduce in forme tali condizioni, introitandole,   per   così   dire,   nelle   vicende   interne   dell'architettura   e delle arti applicate, sia ancora perché esso ebbe una vita più breve dell'altro, sia infine perché sin dal suo sorgere si pose appunto come uno stile unitario, riteniamo che risulti più netta la formulazione del nostro modello tipico­ideale Ricordando che questo si realizza mediante l'accentuazione unilaterale di uno o pochi punti di vista e mediante la connessione di una quantità di fenomeni particolari, corrispondenti non tanto alla «realtà dei fatti», quanto soprattutto a quei punti di vista unilateralmente posti in luce, onde formare un quadro concettuale in sé unitario, ci tocca esplicitare all'inizio   del   nostro   discorso   sull'Art   Nouveau  quali   sono l'accentuazione   suddetta   e   i   fenomeni   particolari   che   ad   essa intendiamo connettere. Tale accentuazione o scelta  è quella per cui questo stile non ci interessa tanto per la sua dibattuta origine, né per la sua prematura fine, connessa alla prima guerra mondiale, né ancora per le grandi personalità creative che lo inventarono o lo adottarono,

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quanto perché esso costituì un decisivo e riconosciuto «inizio» della moderna   vicenda   architettonica,   anzi   una   sorta   di   unità   genetica fondamentale che trasmise la grande eredità culturale dell'Ottocento al nostro   secolo.   Quest'assunto   dell'Art   Nouveau  come   il   gene dell'architettura moderna, nel quale, come in ogni processo ereditario, sono riconoscibili aspetti ancora attuali, imporrebbe a chi ne voglia studiare la struttura di connettere ad esso molti più caratteri, fenomeni e idee di quanto abbia fatto finora la ricerca storiografica.  L'origine dell'Art Nouveau è stata indicata in una serie di circostanze concomitanti   tra   le   quali,   a   seconda   dell'autore,   di   volta   in   volta emergono il Gothic Revival, il movimento delle  Arts and Crafts, la costruzione in ferro, l'influenza dei pittori preraffaelliti, impressionisti, simbolisti, la moda degli oggetti orientali, segnatamente giapponesi, di cui uno dei maggiori importatori fu l'inglese A. L. Liberty (donde il nome,   non   privo   di   doppio   significato,   fra   i   tanti   che   ebbe   questo stile), il gusto legato a nuove tecniche particolari come quella della curvatura del legno adottata da Thonet sin dal 1830, ecc. Tutte queste componenti   apportarono   un   contributo   alla   nascita   del   nuovo linguaggio, ma  è assai  arduo definire quale  fu quella decisiva. Per parte nostra la genesi dell'Art Nouveau, che peraltro non fu solo uno stile architettonico ma informò tutto il costume di un'epoca, va vista come l'esito di una lunga evoluzione di problemi culturali e di moti del gusto che per tutto l'Ottocento miravano a costruire ex uovo uno «stile». Nulla togliendo alla fantasia geniale di Victor Horta, che diede di questo la prima completa incarnazione architettonica con la casa Tassel costruita nel 1893 in rue de Turin 12 a Bruxelles, notiamo che se il suo edificio non fosse stato preceduto da una lunga evoluzione del gusto (termine che usiamo nel senso datogli da L. Venturi, ovvero esteso   a   tutti   i   fattori   socioculturali   che   accompagnano   la   storia dell'arte) e non avesse risposto ad una aspettativa di qualche decennio, non avrebbe riscosso il successo immediato, né l'enorme influenza che ebbe. Se poi ci chiediamo quali siano stati i precedenti dell'opera di Horta, si può più concretamente pensare, rifacendosi cioè alle esplicite

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dichiarazioni   dell'architetto,   a   Viollet­le­Duc,   ai   pittori   post­ impressionisti,   ad   un   interesse   organico,   ma   non   naturalistico   che proprio in quegli anni veniva teorizzato dall'estetica dell'Einfühlung. Caratteri invarianti dell'Art Nouveau. Tralasciata la  vexata quaestio  dell'origine di questo stile ed entrando nel   vivo   degli   aspetti   di   esso   che   vogliamo   accentuare,   ovvero   la forma   che   esso   diede   ad   una   tradizione   culturale   con   le   relative implicazioni   per   il   futuro,   dobbiamo   rifarci   alla   fenomenologia   dei suoi   anni   migliori   e   cominciare   a   distinguere   i   caratteri   invarianti dell'Art   Nouveau  dalle   varie   produzioni   nazionali   ispirate   a   questo codice­stile. Parlando   di   caratteristiche   costanti   da   un   architetto   all'altro,   da   un paese all'altro, incontriamo il primo aspetto peculiare del fenomeno di cui ci occupiamo: nonostante le diversità interpretative, dovute ai vari ambienti   in   cui   sorse,   l'Art   Nouveau  fu   uno   stile   internazionale.   E questa   è   la   prima   eredità   ottocentesca,   assorbita   ma   debitamente trasformata. Erano stati tali anche il neoclassicismo, il neogotico e in generale   tutto   l'eclettismo   storicistico,   ma   con   accenti   decisamente diversi;   le   forme   del   mondo   classico   erano   state   un   ideale   super­ nazionale   al   quale   ci   si   ispirava   o   in   nome   della   loro   perfezione «razionale»   o   presumendo   che   il   proprio   paese,   la   propria   città, amministrazione,   istituzione,   ecc.   fosse   il   moderno   erede   di quell'antica civiltà d'arte e di cultura. Il neogotico poi, mentre aveva connotazioni d'ordine universale, l'ideale religioso ad esempio, aveva anche   nei   paesi   nordici   il   disegno   di   una   rinascita   delle   diverse tradizioni   nazionali,   per   non   parlare   di   una   sorta   di   rivalsa   della cultura settentrionale contro l'antica egemonia classico­rinascimentale del Sud europeo. In ogni caso il carattere internazionale dell'eclettismo si rifaceva a vari modelli, tutti distanti nel tempo. L'internazionalismo dell'Art Nouveau fu decisamente sincronico sia per quanto concerne le forme che per quanto riguarda i significati socioculturali. Che esso fosse   internazionale   era   nella   logica  del   sistema   capitalistico,   negli

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ideali e negli interessi di quei paesi industrialmente più sviluppati che avevano   incrementato   e   tratto   i   maggiori   vantaggi   dalla liberalizzazione   degli   scambi,   dal   superamento   di   un   certo   tipo   di nazionalismo,   dai   moderni   sistemi   di   trasporti   e   di   comunicazioni. D'altro   canto,   anche   l'altra   classe   protagonista   della   rivoluzione industriale, quella del proletariato, e gli intellettuali che ne assunsero la guida avevano da tempo compreso che, sia in nome di valori ideali quanto in quello di pratici interessi, dovevano trarre la loro maggiore forza   dall'unione   internazionale.   E   cogliamo   qui   l'occasione   per parlate   del   problema   politico­sociale   dell'Art   Nouveau.   È   stato osservato che esso fu espressione di una cultura di classe, anzi si  è visto   nell'estetismo   di   questo   stile   il   tentativo   della   borghesia   di comporre   il   conflitto   di   classe,   la   «bellezza»   e   il   basso   costo   dei manufatti compensando più forti e sostanziali esigenze del proletariato che rimanevano inappagate. Che l' Art Nouveau fosse frutto culturale della   classe   egemone   è   indubbio,   addirittura   ovvio,   che   fosse   una cultura classista nel senso che si sviluppò a vantaggio di una classe a scapito dell'altra è assai meno convincente. Considerare le più serie rivendicazioni del proletariato appagate dall'«ornamento» dei prodotti liberty significa attribuirgli una ingenuità che come classe non ebbe mai. È vero che il nuovo stile presentò connotazioni di progressivo ottimismo, di gioia di vivere, di gusto per lo spendere e il consumare; ma   questi   aspetti,   ereditati   dalla   cultura   ottocentesca   e   legittima esigenza   di   ogni   società   in   via   di   sviluppo,   non   riflettevano   tanto l'astuzia   del   padronato,   quanto   quella   dinamica   fra   produzione   e consumo, quella dialettica tra domanda ed offerta che è alla base della moderna civiltà industriale. Certo, anche questi aspetti stanno nella logica dell'economia capitalistica, ma abbiamo l'obbligo di distinguere all'interno   di   essa   quei   fattori   socialmente   più   avanzati   che   sono diventati storico patrimonio culturale per tutti: l'aver, ad esempio, l'Art Nouveau qualificato una produzione di manufatti accessibile all'intera sfera sociale, la nascita con esso del moderno  industrial design  coi limiti ma anche con la sua primitiva e più genuina espressione che

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vedremo meglio più avanti. Insomma se l'Art Nouveau fu lo stile dei quartieri   signorili   e   dei   villini   borghesi   (ma   sono   i   borghesi intellettualmente   e   socialmente   più   avvertiti)   fu   anche   lo   stile   dei grandi magazzini e delle metropolitane, delle case del popolo (una di esse fu il capolavoro di Horta) e persino delle filande, che fecero da sfondo   alle   più   impegnative   battaglie   sindacali,   non   le   prime naturalmente,   ma   quelle   cui   il   proletariato   partecipò   con   maggiore coscienza di classe e non più in pochi paesi, ma in tutti quelli in cui era ormai giunta la civiltà industriale. Il   secondo   aspetto   invariante   dell'Art   Nouveau  fu   quello   di   un completo affrancamento dalle forme del passato. Dopo oltre un secolo in   cui   sconvolgenti   innovazioni   ideologiche,   tecnico­scientifiche   ed economiche avevano segnato la nascita del mondo contemporaneo e avevano inciso direttamente in campo architettonico e urbanistico con la formazione di nuove tipologie edilizie, con la quantificazione degli alloggi popolari, con il risanamento, la ristrutturazione e in pratica la creazione   della   moderna   città,   senza   tuttavia   aver   prodotto   il   tanto auspicato   «stile»   nuovo,   oggetto   di   tante   teorizzazioni,   concorsi   e convegni, ecco sorgere con il liberty il codice più aderente e più adatto ad   esprimere   questi   nuovi   messaggi.   L'affrancamento   dagli   stilemi tradizionali   può   dirsi   basato   su   tre   principali   componenti   fra   loro intimamente correlate: l'accettazione della moderna tecnologia, anzi la volontà di «piegarla» alle nuove istanze del gusto, la definizione di questo derivata da un nuovo modo d'intendere il rapporto artificio­ natura,   il   sostegno   teorico­estetico   dell'Einfühlung  che   a   sua   volta definiva   tale   rapporto.   A   questa   triade   morfologica,   che specificheremo   meglio   più   oltre,   si   associarono   vecchi   e   nuovi contenuti   fusi   in   una   unitaria   quanto   medita   «volontà   d'arte» (Kunstwollen). Certo,   non   mancarono   in   questo   stile   totalmente   nuovo,   a   seconda degli   artisti   e   delle   scuole   nazionali,   ora   un   richiamo   al   medioevo (Mackintosh e più ancora Gaudi), ora uno al classicismo (Wagner, Olbrich,   Hoffmann),   ora   uno   di   tipo   vernacolare   (il   primo   Van   de

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Velde), ecc., ma questi richiami, peraltro completamente trasfigurati, non erano frutto di eclettiche scelte, bensì derivanti dalla tradizione e dalla formazione di questi architetti. La terza caratteristica invariante dello stile, che si realizza più o meno completamente   in   ordine   al   grado   d'industrializzazione   dei   paesi interessati al fenomeno è l'accorciamento delle distanze, la paritetica considerazione   per   tutti   i   settori   toccati   dal   nuovo   gusto, dall'abbigliamento   alla   grafica,   dalle   arti   figurative   al   teatro,   dalla pubblicità   all'arredamento,   dall'architettura   all'urbanistica.   In   ciò   si realizza quell'ideale unificazione tra arti maggiori e minori, cosiddette pure  e  applicate  che non  fu solo  nutrita  da  Morris,  ma  da tutta  la cultura   ottocentesca   più   avvertita:  ne  parlarono  e  ne  studiarono  gli aspetti   Semper,   Viollet­le­Duc,   Cole,   Laborde,   ecc.   L'Art   Nouveau unifica   questi   vari   contributi,   non   solo   superando   il   preconcetto dualismo artigianato­industria, ma soprattutto dando a quelle teorie e intenzioni unificatrici una ben precisa forma stilistica. È questa forma, questa «riduzione» formale, che traduce il dibattito ottocentesco sul problema dei manufatti in un tema avvertito da tutti e quindi di grande rilievo sociale;  anzi, solo producendo una «moda» ­ fenomeno che consideriamo   di   importanza   primaria   nella   storia   della   cultura   e dell'arte, specie nella contemporanea civiltà industriale di massa ­ si poteva diffondere quell'idea morrisiana di architettura come insieme di tutte   le   modificazioni   e   le   conformazioni   compiute   dall'uomo   per assolvere   alle   proprie   necessità.   Com'è   stato   osservato,   con   l'Art Nouveau si «fissa il principio della “qualità ” nel prodotto industriale. E   in   tanto   lo   fissa,   in   quanto   l'idea   della   forma   come   ritmo   o musicalità   disgiunti   da   una   funzione   rappresentativa   costituisce   la prima intuizione di un bello “che si attua piuttosto nella ideazione che nel   processo   esecutivo   e   che   si   pone   come   un  a   priori  dell'utile. Sostituendo al “feticismo del prodotto o della merce” il feticismo del progetto,   del   design   cesserà   infatti   di   essere   unico   e   irripetibile   e varrò, invece, proprio per la sua infinita ripetibilità, cioè per la sua illimitata,   livellatrice   espansione   in   tutta   la   sfera   sociale»   5[G.   C.

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Argan, Lo Art Nouveau in Studi e note, Bocca, Roma 1955, p.281]. In verità, lo stile di cui ci occupiamo anticipa soltanto il principio della quantità come valore, ma non effettua quel processo di quantificazione di un prototipo che sarà peculiare al disegno industriale; i vari Horta, Van   de   Velde,   Mackintosh,   Olbrich   sono   troppo   impegnati   in esperienze varie, talvolta eterogenee, dimostrative della versatilità del loro   stile,   per   condurre   una   ricerca   lunga   e   paziente   sulla progettazione   di   un   prototipo   che   nessuna   industria   può   e   vuole produrre in migliaia di esemplari. Pertanto l'Art Nouveau, nonostante qualche eccezione e qualche significativo precedente  [Ci riferiamo in particolare a caso della produzione delle sedie di Thonet diffuse in migliaia   di   esemplari   in   Europa   e   in   America   sin   dalla   metà   del secolo]  rimase ad un livello produttivo artigianale. Tuttavia, se con esso non si attua il moderno industrial design, è certo che con questo stile   il   problema   teorico   e   l'indicazione   metodologica   del   design restano   quasi   completamente   definiti.   Infatti,   mentre   la   produzione britannica di ascendenza morrisiana nella sua prescelta intenzionalità artigianale identificava la figura dell'artista con quella dell'esecutore, la   produzione   dell'Art   Nouveau,   accogliendo   «intenzionalmente»   il processo   industriale,   determina   il   rapporto   artista­fabbricante   o, quanto   meno,   quello   fra   artista   ed   esecutore,   nel   quale   al   primo   è devoluto il compito della «qualità» dei manufatti. Le   altre   caratteristiche   invarianti   dello   stile­codice   che   studiamo vanno ricercate in architettura sul piano morfologico o nell'ambito ad esso assai  prossimo e sono: l'accentuazione lineare su tutte le altre componenti linguistiche; l'uso del ferro, la cui preparazione industriale in profilati consentiva il suo più vario impiego e il massimo di varietà nelle conformazioni lineari; l'adozione congiunta di ferro e muratura; la tendenza anzi ad usare più materiali in uno stesso edificio, la pietra, il mattone, il vetro, la ceramica, il legno, la varietà dei colori, in ciò determinando   non   solo   l'esuberanza   dello   stile,   ma   anche   il programma   di   raggruppare   più   settori   produttivi;   ancora   in   questo proposito inglobante va considerato il fatto che, come all'interno l'Art

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Nouveau  modella gli spazi con un arredamento e degli oggetti dalla rigorosa unità stilistica, così all'esterno tende a fondere l'architettura alla natura, la casa al giardino, i complessi edilizi al quadro dell'intera scena urbana. Se l'architettura dell'ingegneria aveva risolto il rapporto con la natura sfruttando la trasparenza delle sue «grafiche» strutture, oppure inglobando materialmente alcuni elementi naturali, si pensi al modello   delle   serre   e   allo   stesso   palazzo   di   Paxton,   l'Art   Nouveau instaura   un  rapporto   ancor   più   stretto  con   la  natura:   l'organicità   di questa informa e ispira la stessa conformazione architettonica. A tal proposito va menzionata un'altra caratteristica primaria di questo stile, cui   abbiamo   già   accennato:   la   tangibile   incarnazione   in   esso   della teoria   estetica   dell'Einfiihlung.   Di   questa   ci   siamo   occupati specificamente   altrove,   ma   poiché   i   suoi   segni   sono   tangibilmente presenti in molte opere, poiché serve a distinguere le due principali correnti   dello   stile   in   esame,   quella   organica   e   quella   geometrica, poiché infine proprio la sua presenza denota il grado qualitativo del migliore  Art   Nouveau,   differenziandolo   sensibilmente   dalla produzione degli epigoni e dei centri periferici, ne dobbiamo far cenno anche in questa sede, sottolineando che l'Einfühlung  vale a spiegare sia   una   delle   principali   matrici   stilistico­conformative   dell'Art Nouveau, sia la sua valenza semantico­comunicativa. Senza dire che il rapporto con la suddetta teoria costituisce un altro segno dell'eredità ottocentesca che il nuovo stile trasmise al nostro secolo e che presenta ancor oggi aspetti attuali. Einfühlung e «astrazione». L'estetica dell'Einfühlung  (termine traducibile con «introduzione del sentimento»,   «sentire   insieme»,   «simpatia   simbolica»,   consenso, empatia) nacque dal connubio del pensiero idealistico e della ricerca psicologica per rispondere alla domanda sul perché gli uomini sono attratti o respinti dalle forme dei fenomeni, sia d'arte che di natura. Sintetizzando i risultati di molti studi sul rapporto tra osservatore e

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oggetto) fra artista e opera, fra opera e fruitore, tutti sorti nell'ambito della   cultura   tedesca,   la   Nicco   Fasola   scrive:   «Nulla   di   ciò   che percepiamo agisce puramente per se stesso, ma tutto agisce insieme, come   risonanza   dell'affine   che   è   in   noi»  4   G.   Nicco   Fasola, Ragionamemti   sulla   architettura,   Macrì,   Cittaà   di   Castello   1940, p.132]. Veniva così a determinarsi una serie di simboli e di forme la cui   presenza   consentiva   una   lettura   semantica   dell'architettura.   Le linee   verticali,   orizzontali,   oblique,   le   forme   geometriche   piane   e solide, le illusioni ottiche ed i colori si associano e vengono accolte o respinte   grazie   ad   analoghe   sensazioni   preesistenti   in   noi,   come   il senso   di   calma,   di   equilibrio,   di   incertezza   e   simili.   Fra   tutti   gli studiosi che si occuparono di tali problemi, l'architetto Henry Van de Velde ne diede una interpretazione e ne ricavò una metodologia che rese l'Einfühlung uno dei principali sostegni teorici dell'Art Nouveau. «La linea  è una forza ­ egli scrive nel 1902 ­ che agisce in modo simile alle forze naturali elementari: più linee­forza poste in reciproca presenza, agendo in senso contrario nelle stesse condizioni provocano gli stessi  risultati delle forze naturali in reciproca opposizione [...]. Operano in tali linee le stesse forze che in natura sono presenti nel vento, nel fuoco e nell'aria. Il ruscello che precipita contro una pietra che si oppone al suo corso cambia direzione e dirige le sue acque verso la riva opposta a  scavarne e a  sbrecciarne i margini. I  venti soffiando   sulle   possenti   cime   delle   montagne   si   rompono   su   quei massi incrollabili e il fuoco acceso sotto le volte di pietra si stende, corre e si lancia alla ricerca di sfoghi» 5 H. Van de Velde, La linea è una forza, in «Casabella­continuità», marzo 1960, n. 237. In questo saggio edito nel 1923 l'autore riprende il concetto di linea­forza, già enunciato   nel   suo   libro  Laienpredigten  del   1902.  Con   queste osservazioni Van de Velde non solo stabilisce un rapporto di azione e reazione ritrovabile tanto in natura che nel calcolo statico, ma anche, con un procedimento per immagini, spiega quel gusto sinuoso della linea,   cosiddetto   «a   colpo   di   frusta»,   tipico   del  liberty,   riferendolo appunto all'andamento dinamografico delle forze naturali. Tuttavia, ed

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è   ciò   che   più   conta,   «la   linea   trae   forza   dall'energia   di   chi   l'ha tracciata».   Con   questa   precisazione   Van   de   Velde   affranca   l'opera dell'artista da un passivo mimetismo naturalistico. Dal canto suo Horta affermava,  Je   laisse   la   fleur   et   la   feuille   et   je   prends   la   tige, riconfermando la sua ispirazione organica ma non naturalistica. Ma   se   i   cenni   suddetti   bastano   a   dare   un'idea   della   relazione   fra l'Einfühlung  e   lo   stile   di   cui   ci   occupiamo,   essi   spiegano   solo   la tendenza organica che si sviluppò nell'ambito di questo, non l'altra che pure   ebbe   un   grande   rilievo.   Infatti,   nell'Art   Nouveau  sono distinguibili due linee del gusto ­ è con ciò cominciamo ad affrontare il   tema   dei   fattori   variabili   di   questo   codice­stile   ­,   due   famiglie morfologiche:   l'una   caratterizzata   dalle   forme   concavo­convesse (Horta, Van de Velde, GaudÍ), l'altra impostata prevalentemente su forme   dal   rigore   geometrico   (La   scuola   di   Wagner,   Mackintosh,   il primo Wright). Ora, è lecito associare anche alla seconda tendenza la teoria dell'Einfühlung? Una risposta può trarsi dall'opera di Worringer Cfr. Abstration und Einfühlung del 1908 e Form­probleme del Gotik del 1912. Egli prosegue gli studi su tale teoria, ma li associa ad una nuova   ricerca   riguardante   l'«astrazione»,   da   lui   considerata   come esperienza   storica   ricorrente.   A   suo   dire,   esisterebbero   nell'uomo un'esigenza psicologica che lo spinge verso l'organico, che determina in lui un rapporto di simpatia con il bello di natura e una opposta esigenza, sempre di tipo psicologico, che lo spinge verso la perfezione matematica,   l'oggettività   delle   forme   regolari,   l'astrazione.   Detti impulsi sarebbero connessi alle fasi evolutive dei fenomeni percettivi e   concettuali   della   storia   umana.   La   tendenza   all'astrazione   si troverebbe nell'uomo primitivo esposto e indifeso nei confronti della realtà   fenomenica,   che   riesce   solo   a   percepire,   ma   difficilmente   a modificare   secondo   le   proprie   esigenze;   creazione   artistica   per   lui sarebbe   l'evasione   dal   caotico   mondo   percettivo   per   conformare immagini   «concettuali»   e   controllate,   rientranti   nel   dominio dell'astrazione   geometrica.   La   tendenza   opposta,   quella dell'organicismo vitale, si troverebbe più tardi nell'arte classica. In una

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cultura   cioè   dove   l'individuo   è   divenuto   capace   di   controllare l'arbitrarietà   del   mondo   fenomenico   al   punto   da   interpretare   col proprio sentimento quella realtà, da goderla, da immedesimarvisi. Prescindendo   da   queste   considerazioni   storico­antropologiche, peraltro   assai   discutibili,   è   significativo   che   entrambe   le   correnti, quella   organica   dell'Einfühlung  e   quella   geometrica   dell'astrazione siano   interpretate   da   un'unica   visuale   fisio­psichica;   la   psicologia diventa la chiave conformativa e comunicativa dell'Art Nouveau, di tutte   e   due   le   tendenze   che   lo   compongono.   Considerate   da   una prospettiva   odierna,   le   conclusioni   ricavabili   dal   contributo   di Worringer   risultano   assai   più   significative   di   quanto   egli   stesso supponeva.   Infatti,   l'aver   associato   alla   famiglia   morfologica   dai motivi concavo­convessi l'Eifühlung  e a quella dai ritmi geometrici l'astrazione, poiché questo organicismo e geometrismo coesistettero nello stesso periodo e nella stessa «cultura» dell'Art Nouveau, è lecito includere   in   esso   molte   più   opere   e   personalità   creative   di   quanto prima   si   riteneva.   In   pari   tempo,   riconoscendo   all'organicità   e all'astrazione   una   comune   matrice   psicologica,   specie   per   ciò   che concerne la valenza semantica, appare evidente che esse furono, in un certo  senso,   intercambiabili;  si   ebbero  cioè  opere  che,  pur   essendo nella   linea   organica,   presentavano   un   significato,   per   così   dire, «geometrico»,   razionale,   funzionalista   (pensiamo   non   tanto   ai capolavori emergenti, ma a quella colta produzione «letteraria» che darà luogo al protorazionalismo, segnatamente in Germania) e opere che,   totalmente   informate   all'astrazione   geometrica,   ebbero   un significato organico ed è il caso del primo Wright. Nel loro impianto spaziale   le   sue   Prairie   Houses   precorrono   di   qualche   decennio   il linguaggio   architettonico   europeo,   ma   rimangono   pur   sempre nell'ambito della cultura Art Nouveau. Oltre che nella plastica minore e nei partiti decorativi, dove l'affinità con il gusto di Mackintosh è incontestabile, le prime opere di Wright, dalla casa Willitts all'Unity Temple,  dal   Larkin  alla  casa   Rohie  si   legano  a  questo   codice­stile nella   misura   che   traducono   in   conformazione   spaziale   (in

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Raumgestaltung, un'altra teoria europea strettamente imparentata con l'Einfühlung) la poetica della linea­forza di esso. In dette opere l'Art Nouveau, invece di scadere in florealismo naturalistico o, all'opposto, in purismo moralistico, dà vita ad un nuovo senso della geometria, di una   geometria   cioè   non   aprioristica   ma   legata   alla   realtà   fisio­ psicologica dell'organismo architettonico. Cosicché possiamo dire che nel primo Wright e dietro di lui negli architetti la cui opera sta fra Art Nouveau  e   protorazionalismo,   trovano   una   perfetta   sintesi   le   due tendenze indicate da Worringer. Le varianti dell'Art Nouveau. Poiché la nostra storia non è condotta per profili di singoli autori, ma per   codici   e   sottocodici   strutturali,   parleremo   dell'opera   di   alcuni maestri per ciò che concerne il loro apporto alla formazione di questi, che indicano peraltro la linea di tendenza assunta dallo stile nei vari paesi.   In   Belgio,   dove   nacque,   l'Art   Nouveau  trovò   un   ambiente particolarmente   favorevole   al   rinnovamento   figurativo.   Accanto   ai grandi impianti industriali, agevolati anche dalle risorse naturali del paese, in un clima di progressismo, di rinnovamento e di ottimismo, si sviluppò un'industria leggera particolarmente attenta, negli anni che precedettero e accompagnarono la linea  Art Nouveau, al movimento promosso   dagli   inglesi.   Sin   dal   '92   a   Bruxelles   esposero   artisti britannici legati alle  Arts and Crafts, mentre mecenati, intellettuali e artisti organizzarono mostre dei principali pittori impressionisti e post­ impressionisti.   La   rivista   «L'Art   Moderne»,   fondata   nel   1881,   il gruppo   d'avanguardia   Les   XX,   trasformatosi   nell'associazione  La libre Esthétique  furono il frutto di una cultura autonoma, ma anche istituzioni che importarono in Belgio tanto l'arte «industriale» degli inglesi, quanto l'arte «indipendente» dei francesi. In un ambiente così attivo e informato emergono due architetti, Victor Horta (1861­1947) ed Henry Van de Velde (1863­1957). II primo, cui

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si deve l'«invenzione» dell'Art Nouveau  e le sue manifestazioni più autentiche, tanto da poter identificare questo stile con il suo nome, occupa uno dei posti di maggiore rilievo nella storia dell'architettura contemporanea   per   le   opere   realizzate   nell'ultimo   decennio dell'Ottocento e nel primo del nostro secolo. Tali opere, fra le quali ricorderemo le case unifamiliari Tassel del '93, Winssinger del '94, Solvay del '94, Van Eetvelde del '95, Horta del '98, Aubecq del 1900 e gli edifici pubblici quali la Maison du Peuple del '95 e i magazzini «A l'Innovation» del 1901, nonché eccezionali prove di valore estetico e di   rivoluzionaria   svolta   nella   vicenda   dell'architettura   moderna, contrassegnando anche un particolare momento di storia sociale e di costume.   I   committenti   di   Horta   appartengono   alla   borghesia   più avanzata   di   Bruxelles,   sono   grandi   professionisti,   industriali, scienziati,   molti   dei   quali   legati   al   circolo   di   Armand   Solvay,   uno degli  eredi   della grande  industria internazionale  della soda.  Questi, oltre ad essere mecenate delle arti e delle scienze ­ riuniva nel suo istituto scienziati   quali  Planck,  Rutherford,  Mme  Curie, Poincaré  e Einstein ­, era attento osservatore delle riforme sociali che negli anni a cavallo del secolo fecero seguito alle più accese battaglie sindacali; com'è stato ricordato nella sua azienda furono adottati provvedimenti sociali   con   cinquant'anni   d'anticipo   rispetto   ad   analoghe   riforme attuate in altri paesi. 7 Cfr. F. Borsi L’opera di Horta, in F. Borsi e P. Portoghesi, Victor Horta, Edizioni del Tritone, Roma 1969, p.75 Non a caso in questo clima socioculturale, in cui il capitalismo va assumendo nuove forme e in cui la produzione manifatturiera tende ad espandersi in tutta la sfera sociale, Horta realizza il suo capolavoro, la Maison du Peuple, ossia la sede del partito socialista belga, della sua cooperativa di consumo, del sindacato operaio di Bruxelles. Alla fine della prima guerra mondiale, dopo un soggiorno in Inghilterra e in America, Horta riceve grandi riconoscimenti ufficiali, ma il suo genio declina   in   opere   che   non   sono   classicistiche,   come   pretende   tanta critica, ma del tutto imparagonabili a quelle che egli aveva prodotto negli anni '90. Insomma la vicenda artistica di questo architetto segue

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fatalmente il destino dello stile che egli aveva iniziato e di cui rimane la più alta espressione. A differenza di Horta, che rappresenta, per così dire il «talento» del nuovo stile e che concentrò nell'architettura vera e propria ogni suo interesse,   Van   de   Velde   appare   come   l'artista   colto,   interessato   ai problemi teorici, alla diffusione del nuovo stile, al dibattito culturale, all'insegnamento e indirizza ogni suo sforzo, almeno all'inizio della sua carriera, nel settore delle arti decorative e industriali, anche se per tutta la sua vita rimane fedele all'idea che un metodo unitario debba informare   ogni   settore   progettuale.   Van   de   Velde   contribuisce   alla conoscenza   dell'Art   Nouveau  in   Francia,   dove   espone   alcuni   suoi arredamenti nel '95 presso il negozio di Sigfried Bing, e soprattutto in Germania, dove svolgerà la gran parte della sua attività professionale e didattica ­ dal 1902 dirige il Weimar Kunstgewerblicher Institut che diventerà   nel   1919   il   Bauhaus   di   Gropius   ­   innestando   l'apporto originario e altamente espressivo del  liberty  belga ai caratteri e alle esigenze   del   tutto   particolari   che   questa   tendenza,   come   vedremo, ebbe nella vicenda tedesca. Volendo   definire   le   caratteristiche   della   tendenza   in   esame   nei principali paesi europei, cominciamo dal Belgio di cui ci siamo già occupati,   che  può   considerarsi   non  tanto   una   variante,   ma   come  il paradigma   dello   stile   stesso,   rispetto   al   quale   le   altre   produzioni nazionali   si   pongono   appunto   come   variazioni   e   come   sottocodici, valutabili proprio nei confronti di esso. Un altro centro per la vicenda dei codice­stile in esame si ebbe in Scozia, a Glasgow, con l'opera di Charles Rennie Mackintosh (1868­ 1928). Questi da un lato eredita la tradizione delle Arts and Crafts, che negli anni '90 viene da qualche critico definita Proto­Art Nouveau, e segnatamente   il   contributo   architettonico   di   Voisey,   e   dall'altro elabora un suo originale apporto al nuovo stile in una sfera, per così dire, privata e nell'ambito della scuola d'arte di Glasgow 8 Pur aendo avuto una risonanza internazionale, il lavoro di Mackintosh si svolse nella   piccola   cerchia   della   scuola   citata   e   all'interno   di   un   nucleo

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familiare; Mackintosh ed il suo compagno H. Macnair sposano le due sorelle Macdonald, anch'esse interessate alle arti decorative, formando il gruppo operativo noto come « i quattro » di Glasgow. Nell'edificio di questa scuola, costruito nel '97, nell'ampliamento dello stesso con la sistemazione della biblioteca del 1907, nella Hill House del 1903, nei mobili esposti alla Secessione di Vienna del 1900 e alla Esposizione di   Torino   del   1902,   per   citare   le   opere   principali   e   le   maggiori manifestazioni fuori dall'Inghilterra, Mackintosh fornisce una versione dell'Art Nouveau sensibilmente diversa da quella belga. Essa consiste in una progressiva riduzione alla geometria delle fluenze lineari che informano il disegno degli oggetti, della decorazione, della plastica minore.   Infatti,   mentre   le   decorazioni   pittoriche   murali,   gli   oggetti minuti, le vetrate, gli elementi architettonici minori sono informati ad un linearismo che, sebbene diverso dai ritmi concavo­convessi di un Horta, accusa francamente il suo carattere decorativo, man­mano che si   passa   da   questi   settori,   per   così   dire   accessori,   ai   mobili   e all'architettura, prevale il gusto dei piani, dei volumi, del loro incastro geometrico. Schematizzando ulteriormente questi accenti dello stile di Mackintosh, possiamo dire che lo spazio interno dell'architettura e gli oggetti   che   esso   contiene   appartengono   al   dominio   della   linea,   del colore,   del   gioco   prezioso   di   quadrettature   e   di   morbide   fluenze, mentre   lo   spazio   esterno   di   essa   appartiene   al   dominio   del   rigore volumetrico,   dei   piani   ad   incastro,   della   geometria   delle   lastre   di pietra,   della   chiara   uniformità   coloristica   degli   intonaci.   Una   veste esterna scarna e rigorosa riflette solo nella volumetria la ricchezza e la varietà   degli   interni;   e   tutto   ciò   viene   svolto   con   una   straordinaria coerenza, una perfetta sintesi di organicità e astrazione. Anzi proprio questa   coesistenza,   che   segna   un   declino   degli   accenti   dettati esclusivamente   dal   gusto   dell'Einfühlung,   rappresenta   in   definitiva lavariante apportata dal gruppo di Glasgow rispetto allo stile belga. Una terza variazione dell'Art Nouveau è quella che viene dall'opera di Antoni  Gaudí (1852­1926), che va considerata in un'ottica particolare. Egli, infatti, sconvolge tutte le periodizzazioni «lineari» della moderna

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storiografia («da Morris a Gropius», «da Ledoux a Le Corbusier»), donde la sua difficile inclusione in opere di sintesi, specie se redatte sulla   falsariga   di   un   evoluzionismo   razionalista.   D'altra   parte,   non bisogna cadere nella superstizione opposta, quella di un  Gaudí   genio isolato fuori dalla storicità del tempo suo. È vero proprio il contrario: il   grande   architetto   catalano   vive   tutta   l'esperienza   culturale contemporanea,   dall'eclettismo   storicistico   all'Art   Nouveau anticipando soluzioni architettoniche e figurative ancor oggi attuali. Che poi il suo eclettismo non si limiti all'imitazione di stilemi di un solo linguaggio, ma affondi le radici in tutta la tradizione spagnola dall'arte mudéjar al romanico, dal gotico al plateresco, dal manierismo al   barocco,   esperienze   tutte   che   vengono   rifuse   in   una   eccezionale quanto unitaria opera di  bricolage, dipende semplicemente dal fatto che egli, come dice Le Corbusier è «colui che possiede la maggior forza architettonica tra gli uomini della sua generazione». E questo naturale talento è sostenuto da una notevole capacità di costruttore che lo portò ad eleggere come una delle sue fonti l'opera di Viollet­le­Duc; da un forte senso di continuità della storia che lo indusse a vedere nel rapporto   storia­progettazione   un   problema   chiave   della   cultura architettonica moderna; da uno spiccato senso dell'uso dei materiali che gli presentò la relazione natura­artificio come un'altra questione nodale del dibattito contemporaneo; dall'intuizione della proprietà di alcuni   principi   morfologico­costruttivi,   come   quello   dell'arco parabolico che contribuì a rafforzare il senso dinamografico delle sue linee   a   risolvere   ogni   statica   stereometria   in   una   conformazione organica. Bastano questi ultimi cenni a spiegare i suoi legami con la cultura Art Nouveau, che si manifesta esplicitamente nelle opere della sua maturità: il Parco GüeIl (1900­1914), la casa BatlIó (1905­1907), la casa Milà (1905­1910) e alcuni aspetti della Sagrada Familia, la sua opera incompiuta iniziata nel 1884, le sole pertinenti all'oggetto del nostro discorso. Ma tali fabbriche ed il loro legame con lo stile che studiamo, che in Spagna prende il nome di  modernismo  catalano, se denotano la storicità dell'opera di   Gaudí  , non si pongono come una

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negazione di tutta la sua precedente produzione, così come avviene con Horta, Mackintosh, Wagner e altri contemporanei che passarono dall'eclettismo ad uno stile totalmente nuovo con un atto di «volontà» innovativa.   Moltissimi   accenti,   elementi   e   significati   presenti   nelle ultime opere del nostro sono ritrovabili nelle sue fabbriche anteriori con   le   quali   si   saldano   in   perfetta   continuità.   Cosicché,   se   ci domandiamo ­ ed è ciò che maggiormente ci preme in questa sede ­ quale   fu   l'apporto   che   l'architetto   catalano   diede   all'Art   Nouveau, dobbiamo rispondere che fu anzitutto questo senso di continuità con la tradizione senza alcun programmatico e volontaristico scarto che si registra   negli   altri   maestri   contemporanei;   il   che   giovò   molto, contrariamente   al   luogo   comune   di   un  Gaudí    senza   seguaci,   ad agevolare   e   ad   incoraggiare,   presso   gli   epigoni   e   le   aree   culturali periferiche, il passaggio dal gusto ottocentesco al nuovo stile. Oltre a ciò, da un punto di vista morfologico, il contributo della sua opera arricchisce le fluenze lineari di un Horta e gli incastri volumetrici di un Mackintosh, tra l'altro, del senso articolato e fluido delle masse: le opere   del   Belga   e   dello   Scozzese   sono   tutte   generate   (e rappresentabili)   da   disegni,   quelle   del   Catalano   solo   da   modelli scultorei.   E   tale   è   l'attributo   che   si   addice   ad   ogni   suo   elemento formale, da un tratto di sedile del Parco Güell ai bow­windows della casa Batlló all'intera volumetria della casa Milà. Quanto alla plastica minore delle sue architetture, le zone di coronamento, le balaustre, i portali,   la   folla   dei   comignoli   si   danno   non   solo   nel   loro   spessore volumetrico, tradotto a volte in corpose strutture di ferro, ma anche in tutta   l'esuberanza   del   colore,   spesso   ottenuto   con   frammenti   di ceramica. L'apporto morfologico e sintattico dato all'Art Nouveau si salda con quello   simbolico   e   semantico,   con   il   particolare   significato   e messaggio   espressi   dalla   sua   architettura.   Che   il   nuovo   stile   fosse intenzionalmente   comunicativo   lo   abbiamo   già   visto   parlando dell'Einfühlung; alla semantica della linea, dei piani, dei volumi, cioè ai valori sintagmatici del linguaggio architettonico, Gaudí aggiunge di

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suo un acceso simbolismo fatto di motivi zoomorfici, arborescenti, fiabeschi, religiosi, ecc. Ma che senso ha questo universo popolato di animali   primitivi,   di   forme   arcane,   di   simboli   mistici,   di   fantasie popolaresche che, presenti quasi in ogni opera, trovano la loro epifania nel   tempio   della   Sagrada   Familia,   mentre   la   cultura   architettonica mitteleuropea è tutta pervasa di laicismo e di un attivismo mirante a risolvere   concreti   problemi   sociali   quali   quello   dell'arte   industriale, dell'edilizia funzionale, dell'urbanistica? Rispondiamo che ha il senso proprio alla dimensione dell'immaginario, che può essere affiancata da quella   del   razionale   ma   non   assorbita   o   sostituita   da   questa,   come negli   stessi   anni   veniva   riaffermato   dalla   ricerca   psicanalitica,   da Freud e più tardi da Jung. Ove si ammetta che tutta la vicenda dell'arte contemporanea, tra le sue numerose componenti dialettiche, presenti anche quella del binomio razionale­immaginario,  Gaudí  è l'architetto che, non in progetti ma in opere effettivamente realizzate, ha sondato più di tutti questa seconda via; non quella della fantasticheria individuale che si riduce in atti incomunicabili, ma quella dell'immaginario e dell'inconscio collettivo che, per manifestarsi, si è rifatta ad una condivisa idea religiosa. Ed è proprio a questa valenza immaginaria, distaccata almeno in apparenza dalla problematica contingenza, si deve il fatto che nell'architettura di Gaudí sono ritrovabili anticipazioni di molti altri momenti e tendenze dell'arte   moderna,   dall'espressionismo   al   surrealismo,   dal   cubismo all'informale. L'Art Nouveau fu dunque solo un momento del gusto di questo grande architetto, come del resto accadde per molti altri, con la differenza che questi una volta sconfessata la loro giovanile esperienza approdarono, nel migliore dei casi, al protorazionalismo, quando non rientrarono nei ranghi del neoclassicismo novecentesco e nella routine professionale. Per  Gaudí  lo stile che studiamo costituì invece un punto d'arrivo, e così denso di indicazioni e di significati da darci di esso un'idea molto più   ampia   delle   sue   manifestazioni   mitteleuropee   e   da   precorrere, come s'è detto, numerosi aspetti dell'arte successiva.

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Tutt'altro   discorso   è   quello   che   si   svolge   contemporaneamente   in Austria   dove   l'Art   Nouveau,   che   qui   si   chiamò   stile  Secessione, presenta ancora una variante. Questa, nonostante l'accento superficiale di   molte   sue   manifestazioni,   segna   una   svolta   nella   vicenda dell'architettura  moderna  facendo  emergere  dal  nuovo  stile   tutti  gli accenti «decorativi» per poi operare una semplificazione che prelude al protorazionalismo. Nella Vienna aristocratica, capitale di un Impero decadente, in un clima culturale tuttavia assai vivo in ogni settore, Otto   Wagner   (1841­1918)   pubblica   in   un   volumetto  Moderne Architektur la conferenza tenuta nel '94 in occasione della sua nomina a professore presso l'Accademia. Il contenuto di esso, in parte ispirato alle teorie del Semper, in parte al rinnovamento prodottosi in ogni campo   sul   finire   del   secolo,   indica   il   proposito   di   legare   più «realisticamente»   l'architettura   alle   esigenze   del   tempo   e   può riassumersi nella formula artis sola domina necessilas. Quest'appello è tanto più significativo in quanto proviene da un ingegnere­architetto, assai   affermato   professionalmente   con   opere   eclettiche   tra   le   più tipiche della produzione urbana ottocentesca, informate all'osservanza più scrupolosa della composizione bloccata, della simmetria, dell'uso più sobrio della decorazione; un'architettura, la sua, classicistica nel senso più ampio del termine; e tale rimarrà anche quando, dopo il famoso libretto, Wagner sostituirà alla decorazione eclettica quella più propria al nuovo gusto. Questa gli deriva in gran parte dai suoi allievi Olbrich e Hoffmann, specie dal primo che collabora alla sua opera migliore,   la   Metropolitana   viennese.   Per   essa   Wagner   progetta   le stazioni   (le   più   significative   sono   quelle   sulla   Karlsplatz   e   il padiglione   Imperiale   che   corrisponde   alla   fermata   del   parco   di Schönbrunn), i viadotti nei tratti soprelevati della ferrovia, gli uffici amministrativi.   È   un   grande   impegno   tecnico   e   architettonico   che contrassegna   col   gusto   nuovo   molti   punti   della   scena   urbana   della capitale austriaca. Tra le altre opere maggiori di Wagner rientranti nel nostro tema sono la Banca postale del 1905 e la chiesa dell'ospedale psichiatrico di Steinhof del 1906, nelle quali si allenta il legame con lo

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stile   Secessione   e   si   anticipa,   specie   nella   nitida   Sala   Casse   della Banca, il protorazionalismo. Ma se Wagner è l'iniziatore del rinnovamento e colui che avalla col suo prestigio il movimento viennese, la Secessione trova in Joseph Maria Olbrich (1869­1908) la sua maggiore e più versatile personalità. Il gruppo della Secessione, costituito in prevalenza da pittori, si formò nel   1897;   vi   aderirono   tra   gli   altri   Gustav   Klimt,   J.   M.   Olbrich, Koloman Moser e J. Hoffmann; più tardi lo stesso Wagner. Esso curò la   pubblicazione   della   rivista   «Ver   Sacrum»   e   organizzò   mostre annuali con la partecipazione di artisti stranieri soprattutto britannici; tra questi Mackintosh, presente col gruppo di Glasgow alla mostra del 1900,   esercitò   larga   influenza   sull'ambiente   austriaco.   Olbrich costruisce   nel   1898   la   «Casa   della   Secessione»,   un   edificio   per esposizioni   dalla   pianta   bloccata   con   un   atrio   sormontato   da   una cupola ricoperta di foglie dorate; alcune ville nei dintorni di Vienna (tra queste emerge la casa Friedmann e Hinterbrühl), nelle quali la semplicità volumetrica è compensata dalla medita sagoma di alcune aperture,   dall'articolazione   dei   tetti,   dalla   decorazione   pittorica   e lineare   di   chiara   ispirazione   naturalistica.   Trasferitosi   nel   '99   in Germania su invito del principe Ernst Ludwig von Hessen, realizza per questo mecenate la Künstler­Kolonie di Darmstadt, un complesso di case per artisti e di ambienti espositivi che viene inaugurato nel 1901, ampliato nel 1904 e completato dal Palazzo per esposizioni nel 1907. In questa eccezionale occasione di lavoro, Olbrich interviene in ogni   settore   progettuale,   dalla   sistemazione   dell'intera   colonia all'architettura, dall'arredamento agli oggetti minuti, dal disegno dei giardini   alla   grafica   pubblicitaria   delle   mostre.   E   se   questa progettazione   totale   rientra   ormai   negli   schemi   dell'Art   Nouveau internazionale, resta sorprendente la versatilità, la rapidità di ideazione e   di   esecuzione,   peraltro   tecnicamente   ineccepibile,   con   le   quali Olbrich affronta tali opere. Ancora degno di nota  è il fatto che nel Palazzo   per   le   esposizioni   e   nella   sua   torre,   Olbrich   si   libera totalmente   dalle   bloccate   simmetrie   di   Wagner   e   dal   naturalismo

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decorativo del suo periodo viennese. Segue una intensissima attività professionale   che   culmina   nel   progetto   dei   magazzini   Tietz   di Düsseldorf,   ch'egli   progetta   nel   1908   nello   stesso   anno   in   cui prematuramente muore. L'opera di Joseph Hoffmann, anche se indubbiamente legata a quella di Wagner e alla Secessione viennese, se ne distacca per molti aspetti; in realtà egli è l'inventore del cosiddetto «stile '900», nell'accezione migliore del termine e come tale va meglio inquadrato nel capitolo di quella   complessa   e   tutt'altro   che   uniforme   vicenda   del protorazionalismo.   Del   resto   la   versione   austriaca   dell'Art   Nouveau passa attraverso tre fasi, quella classicistica, quella decorativa e quella della   semplificazione   protorazionalistica   che,   sebbene   tutte   presenti nella   produzione   di   ciascuno   degli   architetti   citati,   emergono rispettivamente nelle opere di Wagner, Olbrich e Hoffmann. Vista a distanza l'intera esperienza viennese sembra, come abbiamo anticipato più sopra, far emergere dall' Art Nouveau una serie di aspetti, per così dire, isolabili: il volume, il piano, la linea, nonché i più vari istinti «decorativi». Quest'ultimi, una volta separati dal contesto di base e dagli  altri  fattori   linguistici,  si eclissarono  a  vantaggio di  un gusto conformativo   schematico   ed   elementare,   donde   l'influenza   della Secessione sul protorazionalismo, anzi il risolversi di quella in questo, nonché   la   ripercussione   della   scuola   viennese   in   Germania   dove   il nostro stile ebbe ancora un'altra variante. L'Art   Nouveau,  che   in   Germania   si   chiamò   Jugendsiil,   non   si manifesta in opere architettoniche degne di rilievo, ma si esplica quasi totalmente nel settore delle arti applicate, la cui organizzazione, anche a prescindere dall'apporto di questo stile, merita un cenno più generale in quanto a partire dagli anni '10 la Germania assume il ruolo di paese­ guida nella vicenda del Movimento Moderno. L'unità della nazione tedesca e la formazione dell'impero germanico erano nati dalla guerra franco­prussiana   conclusasi   nel   1870.   Dopo   tale   data   si   ebbe   in Europa, e segnatamente presso i paesi interessati all'Art Nouveau, un periodo   di   pace   relativamente   lungo,   se   si   eccettuano   le   guerre

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coloniali,   che   in   una   certa   misura   rimasero   estranee   alla   vita metropolitana.   La   politica   di   quegli   anni   fu   caratterizzata prevalentemente dalla concorrenza economica, dalla lotta industriale, alla quale le grandi potenze parteciparono con lo stesso impegno che aveva   richiesto   il   loro   sforzo   bellico.   Ciò   vale   soprattutto   per   la Germania   che   trasferì   la   sua   organizzazione   militare   nella competizione economica con gli altri paesi, rispetto ai quali era più povera di risorse naturali. Per compensare tale svantaggio si cominciò a   riformare   ogni   ordine   e   grado   della   scuola;   quella   industriale divenne un modello di praticità e disciplina cui aspireranno per anni studiosi ed imprenditori di tutti gli altri paesi. Il Movimento Moderno in Germania non nasce da grandi personalità artistiche,   ma   nell'ambito   di   un   preciso   programma   di   politica culturale. Nel settore delle arti applicate, nell'intento di potenziare la nascente   produzione   e   di   poter   competere   con   i   mercati   esteri,   il principio   seguito   fu   quello   che,   sia   gli   operai   manifatturieri,   sia   il pubblico dovessero istruirsi e aggiornarsi mediante la visione diretta degli oggetti e la più ampia possibilità di confronti. Ciò si ottenne con la formazione di numerose scuole di arte applicata e, al tempo stesso, di una vasta rete di musei industriali che con le scuole erano in stretto ed efficiente contatto. Tale organizzazione espositiva faceva capo al Museo Imperiale di Arte Decorativa di Berlino, che forniva con le sue raccolte   le   scuole   regionali   e   i   vari   musei   di   stato,   dai   quali dipendevano   i   musei   municipali   e   quelli   delle   società   artistico­ industriali. Queste ultime, associazioni produttive tra artisti fabbricanti e   commercianti,   rappresentavano   la   parte   più   viva   e   concreta dell'intero   sistema.   Tra   esse   vanno   ricordate   la  Deutscher Kunstgewerbeverein  di   Berlino   con   1263   soci,   la  Bayerischer Kwistgewerbeverein   di   Monaco  con   1713   soci;   intorno   al   '900   il numero   di   tali   società   salì   a   178   con   145.000   aderenti.   Accanto   a questa   metodica   organizzazione   didattico­commerciale   e   alle   citate società produttrici, non sempre però informate al rinnovamento del gusto, operarono altre forze che aggiornarono la produzione del paese

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in   base   alle   forme   più   vive   della   cultura   figurativa   europea. Trasformare le tendenze straniere secondo le attitudini nazionali era il programma   della   rivista   «Pan»   pubblicata   da   J.   Meier   Graefe   nel 1895, mentre il più attivo importatore del movimento inglese e colui che   ne   intuì   la   solidità   e   la   durata   fu   l'architetto   Hermann   von Muthesius   che   dal   1896   al   1903   fu   addetto   commerciale   presso l'ambasciata   tedesca   a   Londra.   Inoltre   la   particolare   ricettività dell'ambiente tedesco per le influenze estere è provata dalla presenza in   Germania   e   dall'opera   migliore   del   belga   Van   de   Velde   e dell'austriaco   Olbrich.   In   questo   clima   si   inquadrano   le   iniziative culturali dovute agli artisti, agli studiosi e ai produttori locali . [A Monaco lavorarono O. E.ckmann, H. Obrist, A. Endeli, B. Paul e in  questa   città   si   pubblicarono  le   riviste   «Kunst   und   Handwerk»  e «Dekorative Kunst» insieme ai giornali «Simplicissimus» e «Jugend», che darà il nome alla corrente tedesca. Nella stessa Monaco nel 1897 fu   fondata   la  Münchener   Vereinigte   Werkstätten   für   Kunst   und Handwerk.  A   Dresda   nasce   un'organizzazione   simile,   la  Deutsche Werkstätte,   dovuta   al   mobiliere   Karl   Schmidt,   che   incrementerà notevolmente la produzione meccanica del mobilio. A   risentire   dell'organizzazione   tedesca   fu   soprattutto   la   Francia. Malgrado   la   presenza   di   uomini   di   talento   quali   Hector   Guimard (1867­1942), autore tra l'altro del Castel Béranger del 1897 e delle stazioni del Métro del 1900; Gallé, Majorelle, André, che costituivano la scuola i Nancy; De Feure, Gaillard, Colonna, operanti intorno alla bottega di S. Bing, l'Art Nouveau francese fu inferiore alla tradizione artistica   del   paese,   fu   uno   stile   eminentemente   decorativo   e, nonostante   la   sua   espansione,   non   fu   in   grado   di   reggere   la concorrenza   commerciale   dei   tedeschi;   tutto   ciò   ebbe   una   vasta ripercussione   sul   livello   produttivo   e   sulla   stessa   Esposizione universale   del   1900,   considerata   da   molti   come   l'inizio   della   fine dell'Art Nouveau internazionale. LE OPERE DELL’ART NOUVEAU

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Casa Tassel. Rileggare fino alla Casa della Secessione esclusa Il primo edificio informato al codice­stile Art Nouveau fu questa casa unifamiliare   costruita   da   Victor   Horta   a   Bruxelles   nel   1893.   Essa s'inserisce in un lotto stretto e profondo fra due muri ciechi in modo da   prendere   luce   solo   lungo   i   suoi   lati   brevi.   Per   illuminare   gli ambienti interni è stata prevista una chiostrina di forma e dimensioni uguali all'invaso contenente la scala principale che, illuminata da un ampio lucernaio, realizza un secondo pozzo di luce. La struttura è a scheletro metallico, totalmente visibile all'interno, mentre in facciata è in evidenza solo nella parte centrale vetrata. Distributivamente la casa è divisa in due settori: quello disimpegnato dalla scala principale che collega l'atrio ai due grandi ambienti superiori prospicienti la strada e quello, sul lato del giardino, disimpegnato da una scala secondaria. Il soggiorno,   appartenente   a   questo   secondo   settore   dell'edificio,   è disposto   ad   una   altezza   maggiore   dell'atrio   d'ingresso,   in   modo   da ottenere   una   dinamicità   dello   spazio   interno   in   contrasto   con   la superficie angusta del lotto. Il  prospetto  principale  ripete,  nel  suo   elemento  dominante,  il  bow­ window delle case contigue. Tuttavia esso si differenzia sensibilmente dagli altri per il suo andamento curvilineo che, in due dei tre piani della casa, si raccorda con le pareti laterali del prospetto. Questo corpo centrale   presenta   al   primo   piano   una   serie   di   finestre   scandite   da colonnine   di   pietra   e,   al   secondo,   balconi   alti   da   solaio   a   solaio lievemente arretrati che racchiudono una balaustra di ferro. Al terzo piano   il   bow­window   diventa   il   terrazzino   corrispondente   alle   tre aperture che continuano il filo piano della parete. Sono presenti in facciata   molti   elementi   inconsueti   quali   le   superfici   ondulate,   le piattabande metalliche in vista, il particolare disegno delle balaustre, ecc. Tuttavia il loro impiego ha una misura tale che la parte dominante dell'edificio è ancora quantitativamente affidata ai tradizionali conci di pietra.   All'interno   l'affermazione   della   nuova   tendenza   figurativa   si

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manifesta con maggiore rilievo. Qui un nuovo senso unitario lega gli elementi statici a quelli visivi, in particolare, nella scala principale che presenta completamente in vista la sua struttura metallica. Da essa si diramano   curvilinee   sagome   di   ferro   a   formare   ringhiere   e decorazioni; a questi elementi, che determinano con il loro andamento sinuoso   una   particolare   definizione   dello   spazio,   corrispondono analoghe forme tracciate sui piani come il disegno delle vetrate e dei pavimenti   a   mosaico.   Cosicché   l'articolazione   concavo­convessa propria al gusto Art Nouveau informa tanto il volume della scala e per esso l'invaso spaziale, quanto le linee che la strutturano e persino i punti del serpeggiante mosaico del pavimento. La   casa   Tassel   è   ricordata   come   la   prima   opera   moderna completamente   libera   da   derivazioni   storicistiche;   come   la   prima realizzazione   architettonica   dove   le   istanze   costruttive   della   nuova tecnica   del   ferro   trovano   un   loro   significato   espressivo   e   come   il primo edificio che ispirandosi al codice­stile dell'Art Nouveau ne fu il maggiore   «messaggio»   promotore.   Va   infine   menzionata   una caratteristica   di   quest'opera   che   fu   sottolineata   dalla   critica contemporanea: il perfetto adattamento di essa al suo proprietario, il signor   Tassel,   professore   di   geometria   descrittiva   all'Università   di Bruxelles   e   collaboratore   dell'ufficio   studi   della   ditta   Solvay.   Di questo hotel particulier fu scritto che ospitava nel modo più perfetto immaginabile   l'uomo   per   cui   fu   costruito,   perfettamente   come   «la conchiglia   del   mitilo   ospita   il   mitilo».   Come   si   vede   la   cultura dell'Einfühlung  da   gusto   figurativo   si   fa   anche   ragion   d'essere funzionale.

La Maison du Peuple 

Commissionato   dal   Parti   Ouvrier   Belge,   l'edificio   della   Società cooperativa operaia di Bruxelles (distrutto per la più inqualificabile attività di  sostituzione)  doveva assolvere, in conformità allo spirito socialista riformatore di fine secolo, tre principali funzioni coi locali

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che vedremo più avanti: una politico­sindacale, una «commerciale» e una ricreativa. La forma planimetrica del fabbricato, libero su tre lati, era   totalmente   condizionata   da   quella   del   lotto   entro   cui   doveva inserirsi. A tale vincolo si univa quello dell'allineamento stradale: la parte   concava   della   facciata   principale   completava   la   ovale   piazza Vandervelde, mentre i lati obliqui seguivano rispettivamente le linee di rue des Pigeons e di rue Stevens, che fiancheggiava la cattedrale. Dette linee determinavano in gran parte anche la distribuzione interna dell'edificio,   anzi   la   sua   divisione   in   blocchi.   Sulla   rue   Stevens   vi erano i magazzini di abbigliamento che occupavano il pianterreno e il primo   piano,   con   un   loro   autonomo   ingresso   da   una   scala indipendente. Sulla piazza Vandervelde la stessa altezza di due piani fuori terra era occupata dalla sala del caffè. Nell'angolo tra la parte concava e quella allineata con rue des Pigeons era l'ingresso principale dell'edificio,   cui   seguivano   un   grande   vestibolo   e   una  hall,   che terminava in fondo con la doppia scala, elemento di raccordo verticale di tutti i piani della costruzione. Sul fianco, allineati con la rue de La Samaritaine vi erano i negozi di generi alimentari che, a differenza di quelli   d'abbigliamento   e   della   sala   del   caffè,   impegnavano   solo   il pianterreno, essendo il primo piano corrispondente a questo lato della fabbrica adibito ad uffici, cui si accedeva da due scale a chiocciola che partivano dal vestibolo. Il secondo piano ­ ove si eccettui la sala di riunioni   politiche   (dedicata   più   tardi   a   Matteotti)   era   interamente destinato   agli   uffici.   A   questo   livello   l'edificio   perdeva   la   sua frammentarietà verticale, dovuta alle diverse funzioni sopra elencate, per   assumere   un'omogeneità   distributiva   e   un   unitario   andamento orizzontale. Ancor più unitari in tal senso erano il terzo e quarto piano che interamente ospitavano la sala da spettacolo o auditorium, capace di   1500   posti   a   sedere.   Sempre   nell'ambito   di   una   generale descrizione,   va   ricordato   che   l'edificio   presentava   una   fronte posteriore   dal   perimetro   planimetrico   mistilineo   tuttavia   disposto   a squadro con il lato sulla rue de La Samaritaine. Cosicché, lo schema planimetrico   può   idealmente   dividersi   con   una   linea   longitudinale,

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sulla quale vi sono ambienti che, adattandosi al perimetro irregolare, assumono   forma   di   pentagono,   esagono,   ottagono,   ecc.,   mentre dall'altro lato si uniformano alla regolarità dell'angolo retto. Passando ad esaminare gli ambienti più significativi della Maison du Peuple, sopra gli altri emergevano la sala del caffè e l'auditorium. La prima era   situata   al   pianterreno,   al   centro   dell'edificio   occupandone   per intera la dimensione trasversale; ad essa si accedeva da tre lati: dalla vetrata concava di piazza Vandervelde, dal vestibolo laterale e dalla facciata postica. Tante aperture erano dovute al fatto che la sala veniva anche utilizzata per pubbliche manifestazioni con notevole afflusso di pubblico. Poiché anche il quarto lato, quello col banco di mescita, era praticamente svuotato dalle aperture che davano nei locali annessi al bar, in tal modo, e grazie alla struttura metallica, Horta realizzava un ambiente dalla pianta libera delimitata al contorno da vetrate. Queste concretavano   quell'ideale   della   massima   permeabilità   visiva   e luminosa   fra   interno   ed   esterno   che   alimenterà   la   gran   parte   delle opere   del   Movimento   Moderno.   Fra   tante   superfici   leggere   e trasparenti,   l'intradosso   della   copertura   assumeva   il   ruolo dell'elemento   più   stabile   e   figurativamente   contrassegnato.   È   stato giustamente notato che la copertura della sala si richiamava ad alcuni disegni di Viollet­le­Duc; qui però il fatto nuovo era che l'intelaiatura metallica del piano di copertura non poggiava su solide e compatte murature, ma su montanti di ferro che, per la loro snella volumetrica, per   la   loro   continuità   «grafica»   con   le   travi,   finivano   per   dare   il massimo   rilievo   al   piano   orizzontale   dell'intradosso,   di   notevole valenza sia statica che figurativa, dovuta alla rete di elementi metallici che   lo   conformavano.   Ma   oltre   la   descritta   conformazione dell'intradosso,   emblematica   associazione   della   tecnica   del   ferro   e della poetica dell'Einfühlung, la sala del caffè presentava un'altra sua particolare   caratteristica.   Rispetto   al   più   prezioso   ed   elaborato auditorium, il locale al pianterreno si avvicinava più ad un ambiente «esterno»   che   ad   uno   «interno»,   nel   senso   che   richiamava   più   un capannone   industriale   o   una   attrezzatura   ferroviaria   che   la   raccolta

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intimità di un caffè borghese. Le lampade (e del resto tutti gli elementi d'arredo) erano più vicine a quelle stradali che non ad apparecchi per l'illuminazione degli interni; le sedie non erano disegnate da Horta, ma quelle di Thonet della produzione di serie; soprattutto quell'accento geometrico   e   un   po'   meccanico   s'addiceva,   denotava   e   significava meglio d'ogni altro un locale francamente popolare, un luogo di ristoro e di riunione, adattabile, all'occorrenza, allo svolgersi di un comizio. L'auditorium   occupava   gli   ultimi   due   piani   dell'edificio   con   un regolare   volume   parallelepipedo,   tuttavia   il   senso   di   questo   spazio interno   era   assai   diverso   da   quello   di   un   ambiente   ad   angoli   retti. Anche qui la generale conformazione percettiva era più affidata ad elementi lineari (montanti,  poutrelles, mensole metalliche, ringhiere della balconata, ecc.) che alla bidimensionalità delle pareti. Di fronte ai   tratti   lineari   metallici,   le   pareti   laterali   risultavano   virtualmente annullate o comunque subordinate alla figura strutturale della sezione trasversale.   Questa   era   costituita   da   telai   reticolari   con   montanti inclinati   verso   l'interno   e   da   travi   inflesse.   Dalle   pareti   laterali fuoriuscivano due ordini di mensole, il primo che reggeva il piano della   balconata   e   il   secondo   un   altro   piano   più   stretto   adibito   agli impianti tecnici di illuminazione, acustica e riscaldamento.  L’andamento   concavo­convesso   della   copertura   apribile   sembrava riproporre all'interno quello della facciata principale, dove tuttavia la tematica   compositiva   era   assai   più   articolata   e   complessa,   nonché composta   da   elementi   eterogeni:   la   struttura   metallica   in   vista,   la scansione modulare delle vetrate, i bow­windows, le fasce in mattoni verticali ed orizzontali, i vari tipi di balaustre, ecc. e quel frammentare le parti corrispondenti alle diverse sezioni dell'edificio. Insomma la symmetria  generale è ottenuta dal tenere insieme tante dissimmetrie particolari   finché   la   balaustra   della   terrazza   non   unifica orizzontalmente, marcando il profilo ondulato della facciata, l'intera composizione d'insieme. In altri termini, a differenza degli edifici in ferro e vetro della scuola di Chicago, contrariamente alla più recente edilizia   con  curtain­wall,   dove   tutto   si   riduce   ad   una   meccanica

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iterazione   di   un   modulo   che   nulla   dice   sullo   spazio   interno,   nella Maison du Peuple ogni ambiente interno si manifesta e in pari tempo collabora   alla   conformazione   del   prospetto,   nulla   perdendo   della propria   individualità.   Tutto   dev'essere   chiaro   e   comunicativo,   tanto all'interno,   così   ampiamente   permeato   di   luce   e   accessibile   a   tutti, quanto   all'esterno   rispecchiante   ogni   forma   e   funzione   interna. Sebbene con carattere marginale, le stesse scritte sulla balaustra della terrazza   ­  Science,   Coopération,   Travail,   Karl   Marx,   Proudhon, Fourier,  Robert  Owen,  ecc.  quasi   simili  alle  insegne   dei  negozi  al pianterreno ­  Nouvautés, Draperies, Tissus pour Dames, Vétements confectionnés   sur   mesure,   Merceries,  ecc.   ­   tutte   sovrastate   dalla dicitura  La Maison du Peuple, contribuiscono alla significazione di questa singolare fabbrica, rappresentando come una grande didascalia per la sua già eloquente immagine.

La scuola d'arte di Glasgow. Un'altra   opera   paradigmatica   del   codice­stile  Art   Nouveau  e segnatamente della sua versione astratto­geometrica è la scuola che Charles R. Mackintosh costruì a Glasgow nel 1898 e ampliò nel 1907. L'edificio   presenta   uno   schema   planimetrico   molto   lineare:   ai   lati dell'ingresso due file di aule prospettano sulla Renfrew Street; nella parte posteriore è la scala principale circondata da una galleria adibita a museo; ai lati estremi del fabbricato vi sono due corpi di fabbrica destinati rispettivamente alla direzione e alla biblioteca. Queste due ali hanno   entrambe   una   scala   per   il   collegamento   dei   due   piani   coi corridoi   che   disimpegnano   le   aule­studio.   Nonostante   questa schematicità   distributiva,   la   pianta   denuncia   alcuni   caratteri   che saranno   ancora   più   evidenti   sul   prospetto   principale.   Infatti   ai   lati dell'atrio d'ingresso si aprono rispettivamente quattro e tre aule­studio; e ciò non corrisponde solo all'esigenza di avere un numero dispari di ambienti per piano, bensì a quella compositiva di rendere asimmetrici

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gli   elementi   della   facciata,   la   mancanza   di   simmetria   essendo   una caratteristica costante di quasi tutte le opere di Mackintosh. Oltre a ciò la facciata principale è definita dalle grandi vetrate delle aule­studio che si aprono su un continuo paramento di pietra, dal corpo centrale ricco   di   elementi   plastici   e   dalla   originale   recinzione   lungo   il marciapiede, dietro la quale, fortemente arretrata e con un piano sotto il livello stradale, si eleva la facciata stessa. Le vetrate sono realizzate con   semplici   regoli   metallici   e   le   piattabande   che   le   sormontano denunciano il loro incastro nei conci di pietra. Con lo stesso gusto delle   superfici   piane,   il   coronamento   dell'edificio   è   affidato   ad   un cornicione   a   lastre   fortemente   aggettante.   In   tanta   geometrica semplicità emerge il corpo pieno centrale, fortemente caratterizzante l’intera   opera,   ispirato   forse   all'architettura   baronale   scozzese dell'epoca stuartiana. Tale organismo, nonché denunciare l'ispirazione medievale di Mackintosh, prelude anche a quegli incastri volumetrici che in altre sue opere anticipano la tematica neoplastica. La scuola d'arte di Glasgow, come s'è detto, fu ampliata nel 1907 con la costruzione della biblioteca. Il nuovo corpo di fabbrica prospetta sulla salita di Scott Street che porta dal centro della città alla Renfrew Street,   dov'è   la   facciata   principale   della   scuola.   In   pianta   il   nuovo corpo   si   affianca   alla   preesistente   aula­studio   e   ne   prolunga   il   filo esterno   lungo   la   ripida   salita.   Mackintosh   denuncia   chiaramente   il corpo   aggiunto;   conserva   cieca   la   testata   della   fabbrica   primitiva, legando solo le bucature del primo piano col ritmo verticale dei tre nuovi   elementi   sporgenti   che,   lievemente   aggettanti   dal   filo   di facciata,  sono   larghi  quanto  gli  spazi   fra  essi  racchiusi.   Lungo  tali elementi verticali si aprono le finestre che ne continuano il profilo senza interrompere il ritmo ascensionale. Va   notato   in   questo   prospetto,   nel   quale   la   valenza   espressiva   ha superato ogni inflessione di gusto (tanto da poter sembrare addirittura costruita   oggi,   quale   manifeazione   del  neo­liberty),   il   suo   efficace modo di legarsi tanto al vecchio edificio, quanto di comporsi con la ripida   salita   contro   la   quale   si   eleva;   inoltre   il   suo   parziale

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arredamento   ne   accentua   il   carattere   severo,   preciso,   fortemente chiaroscurale.   In   perfetta   coerenza   con   l'esterno   è   l'interno   della biblioteca.   L'ambiente   ha   una   pianta   perfettamente   quadrata   e   il principale fattore della sua conformazione è dato da una galleria che gira lungo le pareti sostenuta da una struttura in legno completamente in vista. Essa si compone di pilastri che vanno da pavimento soffitto, ai   quali   si   collegano   travi   doppie   che   sostengono   la   soletta   della galleria, arretrata rispetto ai montanti e recintata da una balaustra che aggiunge  alla  dinamica  spaziale  degli  elementi   suddetti  un  accento decorativo   dato   dall'intaglio   e   dal   colore   dei   balaustrini.   Sul signiflcato   e   il   carattere   di   quest'ambiente,   autentico   punto   nodale nella   storia   del   gusto,   è   stato   osservato:   «tutti   gli   incastri   e   le giustapposizioni   sono   denunciati   da   una   coerenza   che   sembra   neo­ plastica nell'assunto, ma arricchisce di elementi fantastici, irrazionali, cui gli  ismi  post­bellici dovranno rinunziare. V'è in quest'opera quel tanto   di   ricchezza   artigiana,   quel   senso   del   fare   nel   tempo   con   le proprie mani, che proviene appunto dalla tradizione della scuola di Morris e va necessariamente perduto con la produzione industriale». (8) Zevi, op. cit., p. 86.

La  Hill House

Nel 1902, negli anni del suo pieno successo, dopo la partecipazione alla mostra della Secessione del 1900 a Vienna e alla esposizione del 1902 a Torino, Mackintosh costruisce ad Helensburgh questa grande residenza   unifamiliare.   Al   piano   terreno   della   casa   le   camere   di soggiorno,   esposte   a   sud,   occupano   il   corpo   di   fabbrica   prinpale. Normalmente a questo è il corpo contenente i servizi che determina con l'altra ala, comprendente l'ingresso una sala da biliardo, una pianta ad   U   intorno   al   giardino.   Al   piano   superiore   le   camere   da   letto sovrastano sia gli ambienti di soggiorno sia il gruppo dei servizi. Un piano   attico,   contenente   altre   camere   da   letto,   si   eleva   in corrispondenza   del   corpo   di   fabbrica   occupato   al   pianterreno   dai

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servizi. I tre piani sono collegati da una scala a chiocciola visibile all'esterno, mentre un'altra grande scala serve i due piani principali della casa. All'esterno il prospetto ad ovest presenta un'ampia parete sagomata in alto   secondo   l'andamento   del   tetto;   su   di   essa   aggetta   un   corpo contenente   la   sala   da   biliardo,   il   camino   e   il   bow­window dell'ambiente   che   sovrasta   il   portico   d'ingresso;   camino   e   bow­ window sono fusi in un'unica conformazione plastica. Sul fronte a sud, il maggior numero di aperture non toglie la prevalenza dei pieni sui vuoti; da notare la veranda incassata nell'angolo formato da questa parete col corpo di fabbrica ad essa normale e la soluzione angolare del camino contro cui si aprono le due finestre del secondo piano. Sull'angolo tra i prospetti sud ed est, più alti perché contenenti l'attico, s'incastra la scala elicoidale sormontata da una copertura conica. La facciata   a   nord   si   apre   sul   giardino   e   risulta   in   piano   col   terreno, mentre le altre fronti sono soprelevate dal suolo e circondate da un alto muro di recinzione. Le analogie con alcune case di Voysey sono numerose, ma il linguaggio è qui assai più ricco: a parte la presenza di elementi  Art   Nouveau,   le   originali   soluzioni   angolari,   che rappresentano   uno   dei   primi   esempi   di   scomposizione   della   massa volumetrica in una serie successiva di piani, anticipano in tal modo il tema dominante che ritroveremo nella corrente neoplastica. Come abbiamo già notato nella prima parte del presente capitolo, se l'esterno di questa casa appartiene al dominio del rigore volumetrico, dei piani ad incastro, della chiara uniformità coloristica degli intonaci, il suo interno, dove forse Mackintosh fornisce la prova migliore del suo gusto di arredatore, appartiene al dominio della linea, del colore, del gioco di quadrettature e di ritmiche fluenze. Nel suo complesso la Hill House fa pensare ad un frutto nato in un clima nordico, in cui alla scarna e robusta nudità della scorza corrisponde una polpa ricca di forme, di colori, di delicati umori vitali; e tale similitudine sembra confermare   la   particolare   sintesi   di   organicità   ed   astrazione   che   è

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peculiare alla corrente dell’Art Nouveau  caratterizzata proprio dalle opere dell'architetto scozzese.

La casa Mila

Per trovare un'altra opera paradigmatica indicativa d'una terza variante dell'Art Nouveau  bisogna rifarsi alla produzione di Antoni  Gaudí    e segnatamente alla casa Mila che si lega al linguaggio europeo meglio di   quanto   non   facciano   altre   sue   fabbriche   pur   di   elevato   valore espressivo. Costruito a Barcellona tra il 1905 e il 1910, questo edificio per abitazioni alto cinque piani, si svolge lungo langolo formato dal paseo de Gracia  e la  calle de Provenza. In pianta esso presenta due grandi   cortili,   tre   gruppi   di   scale   che   servono   quattro   grandi appartamenti per piano (ma il numero di questi può variare data la grande flessibilità distributiva) e una doppia chiostrina per ogni scala che illumina i locali di servizio i quali non dovevano figurare né sulle facciate, né sulle superfici  che si aprono sui cortili. Poiché il tema simbolico della casa «era un grande basamento roccioso che a sua volta   simboleggiava   la   cintura   montuosa   di   fra'   Gherau,   una   delle ondulazioni orogeniche più popolari del Monserrat»  R. Pane,  Gaudí, Einaudi, Torino 1964, p. 213,   sia in pianta che nelle fronti domina un organico   andamento   di   linee   concavo­convesse.   Tuttavia   questo simbolismo ­ il basamento era quello di un gruppo scultoreo in onore della Vergine del Rosario rimasto allo stato di progetto ­ non deve indurre   a   considerare   quest'opera   unicamente   ispirata   al   motivo simbolico­religioso o a quello simbolico­naturalistico, come 1o stesso nome   dato   popolarmente   alla   fabbrica,  La   Pedrera,  sembrerebbe accreditare.   Se   indubbiamente   queste   intenzioni   sono   all'origine dell'opera,  è  altresì   vero  che  simbolismo  e  mimetismo  della  natura sono   ampiamente   trasfigurati   da  Gaudí  in   una   conformazione prettamente architettonica. Si pensi, oltre alla già accennata valenza distributiva, alla capacità dell'autore di normalizzare ciascun ambiente interno   pur   conservando   la   generale   volontà   conformatrice   che   si

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manifesta in un esaltato succedersi di linee ondulate. Così se  Gaudí risolve i pratici problemi degli spazi interni, la varietà delle facciate e della ricca e complessa volumetria gli  è consentita dal geniale uso della tecnica. Per la plastica dinamicità delle fronti, l'ampiezza delle aperture   e   la   stessa   fluidità   dell'immagine,   la   casa   Mila   si   direbbe costruita   sfruttando   le   più   tipiche   proprietà   del   cemento   armato. Viceversa la costruzione si regge su pilastri realizzati da grossi blocchi di calcare e su travi in ferro, materiali sollecitati fortemente data la complessa stereometria della fabbrica e posti in opera con eccezionale sapienza   costruttiva   sulla   scorta   di   un   modello   di   gesso,   «modello sufficientemente grande perché, lungo le sue superfici, si potessero studiare   e   determinare   i   giunti   corrispondenti   al   taglio   dei   singoli blocchi»  Ivi,   pp.   213­4.  Un'ennesima   prova   di   esaltante   fantasia, tradotta in grande perizia tecnica, ci è data dalla copertura dell'edificio e in particolare dal  desván  (abbaino) il cui invaso  è realizzato con archi   parabolici   di   mattoni   disposti   in   coltello;   ma   quello   della copertura   è   un   discorso   da   fare   nel   contesto   di   tutta   la   volumetria dell'opera. Lasciando ad altri, come vedremo, l'interpretazione della casa Mila come  La Pedrera, proviamo a rileggerla come fluenze di piani e di linee. Tale fluenza è presente sia con un andamento verticale, sia con uno orizzontale e questa doppia ortogonale ondulazione sembra una grande rete che struttura l'intera superficie dell'involucro parietale; le aperture dal canto loro emergono ora da un punto rientrante, ora da uno sporgente contribuendo ad esaltare i ritmi di queste instabili onde. Ma   quale   copertura   poteva   concludere   un'immagine   plastica   così tormentata   di   sporgenze   e  rientranze?   Lo   stesso   coronamento   della casa   Batlló   che   richiama   alla   mente   una   corrugata   pelle   zoomorfa sarebbe stato qui l'equivalente di un tetto che avrebbe in ogni caso «limitato» queste libere fluenze.   Gaudì decide allora di far terminare il muro di facciata senza alcun coronamento, ovvero prolungandolo al di   sopra   del   piano   del   terrazzo;   in   tal   modo   è   una   linea   concavo­ convessa   che   conclude   la   facciata;   ma   non   basta:   questa   linea   per

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essere espressivamente più efficace deve stagliarsi contro qualcosa e questo è il corpo continuo dell'abbaino, a sua volta terminante con un'altra   linea   ondulata   dalla   quale   emerge   il   fantastico   gioco   delle torrette,   dei   comignoli   e   di   altri   motivi   plastici,   molti   dei   quali ricoperti dal solito  collage  di frammenti di maioliche. Insomma non bastavano le ondulazioni sul piano di facciata; esse sono sottolineate da   un'ultima   onda   ottenuta   in   profondità   dall'arretramento   appunto della   linea   di   coronamento   dell'abbaino.   Poiché   la   dimensione   di quest'architettura   appartiene   al   dominio   dell'immaginario,   essa legittima ogni sorta di similitudine. «La Casa Mila ­ scrive Vincent Scully ­ sia planimetricamente che nei prospetti, è come una scogliera traforata dal mare, la sua facciata intagliata nella roccia è lisciata ed erosa   dall'acqua,   ne   pendono   marine   alghe   metalliche,   la   bucano finestre   come   occhi...   Essa   sembra   incarnare   una   partecipazione umana   totale   ai   ritmi   che   sono   trasfusi   nel   mondo   naturale;   ecco perché gli strani dei che affollano il tetto dell'acropoli marina di Gaudì fruiscono a tal punto di una vita fantastica»(V. Scully, L'architettura moderna, Rizzoli, Milano 1963, p. 25.  D'altra parte, similitudini del genere ­ particolarmente calzante quella dei ferri battuti con le alghe marine ­ non devono indurci, come s'è detto, a riproporci una lettura dell'opera gaudiana in chiave mimetica. Il maestro catalano partecipa alla   cultura   dell'Einfühlung  e   dell'Art   Nouveau,   come   a   quella   del simbolismo e anticipa cubismo, espressionismo e surrealismo; vale a dire   è   un   artista   moderno   e   come   tale   «contrappone»   alla   natura l'artefatto   (non   importa   qui   se   dettato   da   motivi   religiosi,   da   ansie esistenziali, da tracce oniriche). Se poi l'opera d'arte ha cento capacità evocative,   non   ultima   quella   di   un   mondo   naturale,   va   detto   che interpretandola dobbiamo riportare questo quella e non viceversa.

La casa della Secessione. Una quarta variante del codice­stile  Art Nouveau  può individuarsi in quest'opera di Joseph Maria Olbrich costruita a Vienna nel 1898. Essa

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fu la prima significativa prova dell'architetto e come tale embrionale di tutto lo stile Secessione; al tempo stesso contiene  in nuce  molte caratteristiche   della   versione   che   gli   austriaci   diedero   dell'Art Nouveau:   l'ispirazione   classicistica,   le   assialità   prospettiche,   la tendenza ad una riduzione stereometrica e decorativa, ecc. L'edificio, che aveva  la duplice funzione  di ospitare la sede  del gruppo degli artisti  secessionisti   e  di   padiglione  per   le esposizioni,  presenta  una pianta bloccata, quasi a croce greca ottenuta dall'incastro di quattro rettangoli, ed è inserito in un lotto triangolare. Lo spazio di risulta, sistemato   a   giardino   doveva   servire   all’esposizione   all'aperto   di sculture.  In  pianta,  quel   tanto  che  differenzia  la   forma  dell'edificio dalla croce greca riflette appunto le due distinte zone e funzioni del fabbricato. La prima, contenente l'atrio d'ingresso e i locali per gli artisti e gli uffici, manifesta nella sua volumetria esterna un accento più   monumentale.   La   facciata   principale,   accanto   alla   gradinata centrale, presenta due volumi pieni che sorreggono due dei quattro bassi   pilastri   che   racchiudono   la   cupola   di   copertura   dell'atrio d'ingresso. Questa, realizzata con una struttura in ferro reca sul suo estradosso   un   rivestimento   con   un   fitto   frascame   dorato.   Essa   è certamente   l'elemento   di   maggiore   richiamo   e   unitamente   alle decorazioni   disposte   in   varie   altre   parti   dell'edificio   costituisce l'elemento   più   congeniale   al   gusto   pittorico   di   Olbrich.   Tuttavia, «pagato» questo scotto alla parte più rappresentativa dell'edificio, la casa della Secessione presenta altre valenze. Intanto, i fianchi dei due volumi pieni che compongono il prospetto principale sono svuotati da due ordini di aperture, il che riduce i volumi suddetti a due pesanti lastre   e   consente   loro,   unitamente   a   quella   sorta   di   fregio   che   le sovrasta   sul   tratto   corrispondente   all'ingresso,   al   basamento   della cupola con i quattro pilastri torrette e all'insolito corpo della cupola stessa,   di   svolgere   un   gioco   di   astratti   volumi   pieni   tipico   della corrente   astratto­geometrica   dell'Art   Nouveau.   Per   questi   ed   altri motivi la casa della Secessione è accostabile al Tempio Unitario a Oak Park,   costruito   da   Wright   nel   1906.   (12)Parlando   della   Casa   della

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Secessione,   Gregotti   afferma:   «L'edificio   è   di   una   importanza fondamentale per lo sviluppo dell'architettura: a quella data è difficile trovare   qualcosa   di   altrettanto   avanzato:   la   sua   influenza   su   F.   L. Wright è, credo, innegabile »; cfr. L'Art Nouveau, « L'Arte moderna »,   a.   1967,   vol.   XI,   n.   91.   I   pregi   dell'edificio   relativi   alla   parte destinata a galleria d'esposizione sono d'altra natura. Qui il giovane Olbrich abbandona la via del pittoricismo e quella della composizione per grandi  masse plastiche, per predisporre un organismo che mira soprattutto ad essere un involucro funzionale. Una volta definita la volumetria esterna, è la copertura coi suoi alti lucernari e lo studio di pareti mobili a richiamare tutto il suo interesse. A tal proposito ancora nel   1906   un   commentatore   inglese   scriveva   che   «mai   erano   stati meglio   risolti   i   particolari   problemi   posti   da   un   palazzo   per esposizione. Gli interni erano stati ideati a pareti mobili, così che ogni più piccola porzione di spazio poteva essere utilizzata nel modo più adatto e secondo la luce desiderata, o piovente dall'alto o direttavi di fianco»(13)Cit. in G. Veronesi, Joseph M. Olbrich, Il Balcone, Milano 1948, pp. 21­2. Che   la   parte   della   costruzione   destinata   a   galleria   rifletta   una destinazione e un intento diverso da quello plastico­monumentale del corpo dell'ingresso è dimostrato all'esterno dal trattamento delle piene pareti laterali e dalla stessa facciata posteriore sulle quali l'intervento dell'architetto si limita ad una poco convincente decorazione parietale. Eppure   nonostante   questo   evidente   limite   non   è   escluso   che l'intenzione di Olbrich fosse quella di tenere in sottordine queste pareti affidando   anche   per   il   lato   della   galleria   il   risultato   plastico   alla composizione volumetrica, al gioco cioè dei lucernari e dei corpi di fabbrica che tuttavia il gusto dell'epoca non consentiva, come sarebbe stato da preferire, di lasciare completamente nudi. Questo passo sarà effettuato   poco   più   tardi   dal   suo   amico   Hoffmann   a   partire   dal convalescenziario di Purkersdorf, ma con esso siamo già oltre l'Art Nouveau e la Secessione, ossia nell'ambito del protorazionalismo.

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Certo, nel loro complesso le stazioni della metropolitana di Vienna progettate da Otto Wagner, con la collaborazione dello stesso Olbrich, sono opere più compiute e coerenti dell'edificio da noi esaminato ed anche   altre   opere   di   Wagner   incarnano   meglio   il   gusto   viennese   a cavallo   del   secolo.   Tuttavia,   ad   esse   manca   proprio   quel   senso   di ambiguità,   di   incertezza,   di   stare   in   bilico   tra  Art   Nouveau  e protorazionalismo   che   è   proprio   dell'intera   attività   di   Olbrich   e peculiare a questa sua opera prima. Se è vero quindi che la personalità di  Olbrich  è  quella che per  la sua  versatilità  e polivalenza incarna meglio di altri lo stile Secessione, questa sua fabbrica giovanile può considerarsi l’«involontario» programma dell'intera tendenza e del suo stesso superamento.  Capitolo terzo

IL PROTORAZIONALISMO Con tale espressione designamo un momento della storia del gusto che in architettura e nel campo del design va dagli anni ’10 alla fine della prima guerra mondiale. Esso si distingue dall’Art Nouveau, col quale talvolta si svolse in continuità e talaltra in opposizione, in quanto ne rifiutò la morfologia o ne attuò una notevole riduzione alla geometria. Ne accolse tuttavia la problematica socio­culturale, anzi la sviluppò nel settore delle arti applicate — è ora che nasce il vero e proprio industriai design —, nella tecnologia edilizia, nell’urbanistica. D’altro canto il protorazionalismo non riuscì a sfociare nel razionalismo degli anni ’20­30, sia perché rispecchiò ancora una realtà storica prebellica, sia perché, dal punto di vista linguistico, non fu in grado di assorbire l’apporto delle avanguardie figurative, segnatamente quelle cubiste e post­cubiste   che   trasformarono   radicalmente   la   concezione,   la conformazione e la rappresentazione dello spazio. Ma per tradurre in un codice­stile il suddetto momento del gusto non basta   evidentemente   dire   da   che   cosa   esso   si   distingue:   bisogna

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indicare i suoi aspetti specifici e i suoi significati. Compito tutt’altro che agevole in quanto il protorazionalismo ingloba personalità e opere assai dissimili e tuttavia non classificabili in altro modo. Si consideri, ad esempio, la componente classicistica di questo stile, una delle sue principali invarianti: classicistica è l’eversiva ed iconoclastica opera di Loos e classicistica, sebbene evidentemente con altre e intenzioni e connotazioni, è la produzione che fino alla seconda guerra mondiale accompagnò il razionalismo, a volte come la sua ala più moderata, a volte come atteggiamento decisamente in contrasto con esso. Un’altra difficoltà   nell’esegesi   di   questo   codice­stile   è   il   fatto   che   la   sua indubbia e costante intenzionalità semplificatrice e riduttiva ora vale come presa di posizione contro l’accademia, il malinteso senso della tradizione, le mistificazioni decorative tardo­liberty, ora all’opposto come   restaurazione,   neoaccademismo,   riduzione   del   linguaggio architettonico   intesa   come   mero   risparmio,   ecc.,   in   una   parola,   nel protorazionalismo,   e   spesso   nelle   opere   di   uno   stesso   architetto, coesistono due atteggiamenti che, sia pure con espressioni generiche, possiamo   definire   moderno   e   anti­moderno.   Né   giovano   per distinguere tali aspetti la tematica e la tipologia dei singoli interventi; infatti un fenomeno di indubbio valore e significato progressivo — pensiamo in particolare alle realizzazioni del democratico Comune di Vienna — fu tradotto in termini morfologicamente antiquati, mentre nella borghese tipologia delle case unifamiliari troviamo i migliori e più avanzati esempi di questo stile. Con ciò vogliamo sottolineare il fatto che sia l’uno che l’altro momento, tanto le conquiste quanto le cadute   stanno   soprattutto  nelle   contraddizioni  proprie   al  linguaggio protorazionalista. Avvertiti   di   questi   limiti,   cerchiamo   ora   di   costruire   il   tipo­ideale corrispondente   al   codice­stile   del   protorazionalismo,   accentuando, come   al   solito,   alcuni   punti   di   vista   e   connettendo   ad   essi   alcuni fenomeni particolari. Il che vale a dire, grosso modo, individuare i caratteri invarianti dello stile e le sue diverse manifestazioni dovute sia all’opera dei suoi maggiori protagonisti, sia alle vicende nazionali.

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Le invarianti del protorazionalismo

Il  termine «protorazionalismo»  fu usato  la prima  volta  da Edoardo Persico   parlando   del   palazzo   Stoclet   costruito   da   Hoffmann   a Bruxelles. Di esso il critico italiano scriveva: «Veramente il palazzo Stoclet non è né il miracolo di un mondo emerso dal caos, né una profezia  messianica  [...]   è  la  conclusione  di un  lungo processo  del gusto; un’opera rappresentativa per la stessa assenza di quel “genio” che segna invece le opere di un Otto Wagner o di un Behrens», il valore dell’edificio starebbe, sempre secondo Persico, ne «la coerenza con il proprio tempo […] in una particolare storicità della fantasia, nel rapporto dello stile con le idee più vive del proprio tempo [...]. In esso non si radunano soltanto l’insegnamento di Wagner e le aspirazioni di Olbrich: ma gli ideali più virili della borghesia europea, a cui si deve l’abbandono   delle   forme   neoclassiche,   e   l’affermazione   del protorazionalismo,   con   le   sue   esposizioni   universali,   con   l’impiego delle tecniche nuove, con il principio dell’“arte per tutti”»[1E. Persico, Trent'anni dopo il Palazzo Stoclet, in « Casabella» luglio 1935, ora in E. P., Tutte le opere (1923.1935), Edizioni Comunità, Milano 1964, p. 213].  Queste considerazioni sul palazzo Stoclet possono estendersi a tutto il protorazionalismo; quell’assenza di «genio» si può riscontrare nell’opera di quasi tutti i suoi maggiori protagonisti Hoffmann, Loos, Perret,   Garnier,   Behrens,   ecc.,   in   quanto   la   principale   caratteristica invariante   di   questo   stile   non   fu   quella   dell’arte   emergente,   ma dell’artisticità   diffusa.   La   gran   parte   della   produzione   di   questo periodo non mira più alla bellezza del singolo esemplare, sia esso un edificio o un oggetto di  design,  ma si pone come un atto mirante ad «altro»:   Loos   dichiara   addirittura   che   assolvendo   ad   una   pratica funzione   l’architettura   vada   estrapolata   dal   campo   dell’arte;   Perret mira   a   qualificare   la   costruzione;   Garnier   all’inquadramento dell’architettura nell’urbanistica; Behrens ad attuare, tra l’altro, nella

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prassi   la   teoria   del  design,  a   dar   forma   architettonica   all’edilizia industriale, ecc. Questo carattere «prosastico» e non «poetico» del protorazionalismo si fonde con altre caratteristiche invarianti: tra le principali è il nuovo atteggiamento verso la tecnica. Se l’architettura dell'ingegneria aveva risolto   l’arte   nella   tecnica   e   se  l'Art   Nouveau  aveva   tentato   di «piegare»   i   prodotti   della   tecnica   alla   fantasia   dell’artista,   il protorazionalismo, che coincide peraltro con la diffusione del cemento armato, sfrutta proprio le possibilità dei materiali per raggiungere il suo   programma   semplificatorio   e   della   massima   economia;   quella dell’economia essendo un’altra invariante dello stile che studiamo. Ma il   criterio   dell’economia,   a   suo   modo   sempre   presente   nella   storia dell’architettura,   non   avrebbe   inciso   sulla   genesi   del protorazionalismo  se  non  fosse  stato  angolato  da due  orientamenti, uno   di   natura   «estetica»   e   uno   sociologico.   Sebbene   intimamente connessi e producenti una sintesi, è tuttavia utile accennare alla loro specificità. La polemica condotta da Loos con le sue opere e soprattutto con i suoi scritti, tra i quali è il celebre articolo  Ornamento e delitto  del 1908, contro un atteggiamento che egli definisce forse emblematicamente col   termine   «ornamento»   rientra   senz’altro   nel   tipo   di   economia «estetica».   La  semplificazione   delle   forme,   il  loro  affrancarsi   dallo spirito decorativo proprio alla Secessione viennese e agli epigoni del liberty  costituisce   anzitutto   una   scelta   di   configurazioni   essenziali valide   proprio   per   il   gusto,   la   tendenza,   il   partito   preso   della semplicità.   Ciò   si   traduce   in   lotta   allo   spreco   e   al   superfluo acquistando pertanto un accento morale e una precisa connotazione sociale, ma quello che muove questo aristocratico architetto radicale è in primo luogo una scelta di natura estetica. Nello scritto citato, tra le numerose   tesi   moralistiche   di   Loos   e   nel   suo   considerare   selvaggi coloro che si attardano sulla parte decorativa dell’architettura a scapito di   quella   funzionale   e   sociale,   emergono   i   motivi   principali   che

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muovono la sua polemica. «Poiché l’ornamento — egli scrive — non è più organicamente connesso con la nostra cultura, non è più neppure l’espressione   della   nostra   cultura.   L’ornamento   che   oggi   viene prodotto non ha nessun rapporto con noi, non ha in generale nessun rapporto   umano,   nessun   rapporto   con   l’ordine   cosmico.   Non   è suscettibile   di   sviluppo»[2   A.   Loos,  Decorazione   e   delitto,   in   U. Conrads,  Manifesti   e   programmi   per   l'architettura   del   XX   secolo, Vallecchi, Centro Di, Firenze 1970, p. 18].  Ma il passo più esplicito e icastico   a   sostegno   dell’interpretazione   «estetica»   della semplificazione,   dell’«economia»   architettonica   concepita dall’architetto   austriaco   è   quello   in   cui   afferma:   «Il   difensore dell’ornamento crede che il mio bisogno di semplicità equivalga ad una mortificazione della carne. No, egregio professore della scuola d’arte, io non mi mortifico! Mi piace più così. I piatti spettacolari dei secoli passati, che mettono in mostra ogni genere d’ornamenti per far apparire saporiti i pavoni, i fagiani e i gamberi, su di me producono l’effetto   contrario.   Provo   ribrezzo   quando   passo   davanti   ad un’esposizione di arte culinaria e penso che dovrei mangiare queste carcasse di animali ripiene. Io mangio roastbeaf» [3 Ivi, p. 17]3. Come   si   vede,   l’avversione   adornamento   che,   ripetiamo,   va   inteso come   un   generale   atteggiamento   emblematico   e   più   di   natura psicologica,   viscerale   e   in   definitiva   estetica   anziché   motivata   da ragioni etico­sociali. Che poi il messaggio di Loos abbia avuto più diffusione   e   presa   sulla   realtà   operativa   e   professionale   di   altri criticamente   più   avvertiti   è   un   altro   discorso.   Nelle   vicende dell’architettura moderna la fortuna di alcuni princìpi è spesso dovuta alla   loro   tempestività,   al   veicolo   della   loro   diffusione,   alla   loro unilateralità,   alla   capacità   di   scuotere   gli   schemi   più   diffusi.   Il verificarsi   di   ciò   si   deve   alla   esigenza   di   concentrare   tutta   la problematica architettonica in pochi, precisi e popolari patterns capaci di raggiungere ogni livello della cultura e della produzione edilizia. Nel caso di Loos, tali modelli, sia teorici che operativi, implicarono

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una tale quantità di fenomeni culturali da rendere l’intera attività di questo architetto, una delle pietre miliari del Movimento Moderno. Di tipo produttivo, sociologico, organizzativo fu, invece, la tendenza all’economia, alla semplificazione del linguaggio architettonico e dei manufatti   promossa   dal   protorazionalismo   in   Germania   con Muthesius,   il   Werkbund,   il  Maschinenstil,   la  Sachlichkeit,  di   cui diremo più avanti parlando dei contributi nazionali al codice­stile che studiamo. Un'altra caratteristica invariante di esso può ancora trovarsi sul piano   della   teoria   estetico­architettonica.   Ci   riferiamo   in particolare   alle   trasformazioni   del   gusto   al   passaggio   dalla famiglia   morfologica   dai   motivi   concavo­convessi dell'Eìnfühlung  alla   famiglia   morfologico­geometrica   facente capo all’«astrazione». Infatti, solo pensando al succedersi di due moti del gusto accomunati tuttavia da una stessa teoria estetica, possiamo   spiegarci   l’evoluzione  dall'Art   Nouveau  al protorazionalismo,   addirittura   la   presenza   nella   stessa produzione di alcuni artisti di queste due fasi evolutive. Se poi riteniamo   che   architetti   e  designers  nella   loro   maggioranza ignorassero   queste   teorizzazioni,   dobbiamo   solo   rifarci   a   quel fenomeno   che,   con   felice   espressione,   Persico   chiamava «storicità   della   fantasia»,   intendendo   forse   con   essa   che   in   un dato   momento   opere,   artisti   e   moti   del   gusto   hanno   in   comune una sorta di affinità di aspirazioni e di espressione. Ora,   volendo   dare   un   carattere   unitario   ai   fattori   invarianti   del protorazionalismo,   possiamo   considerarlo   uno   stile fondamentalmente   riduttivo.   Esso   ereditò   la   riduzione dell’architettura   alla   costruzione   dalla   produzione   degli ingegneri   ottocenteschi,   nella   cui   linea   s’inserisce   Perret;   la riduzione   stilistica   dell’Art  Nouveau  di   cui   continua   il   filone facente capo all'«astrazione»; la riduzione «economica» da tutti i precedenti stili, dal neoclassico in poi, innestandovi motivazioni

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socio­produttive   e,   come   s’è   detto,   estetico­psicologiche; soprattutto la riduzione alla geometria che col protorazionalismo assume accenti assai particolari. Al geometrismo teorizzato dal Worringer ed espresso nelle opere di   Voysey,   di   Mackintosh,   del   primo   Wright,   il protorazionalismo aggiunge di suo l’adesione alla geometria dei prodotti   meccanici,   standardizzati,   modulari,   unificati,   iterabili con   tutte   le   relative   implicazioni   socio­economiche.   Questi motivi ispiratori comportano evidentemente anche una influenza linguistica,   entrano   come   parte   viva   nella   determinazione   del nuovo   stile.   Tuttavia,   come   abbiamo   accennato   nel   paragrafo precedente, è proprio al livello linguistico dove si manifestano le maggiori  contraddizioni del protorazionalismo e dove si arena il suo ideale di un’arte «pura». Infatti questo stile — sostanzialmente uno stile in negativo — se combatte l’ornamento dell'Art Nouveau ed ogni accento   che   non   nasca   dall’artifìcio,   al   tempo   stesso   non   riesce   a sostituirlo,   tranne   qualche   eccezione,   che   con   un   ritorno   al classicismo.   Le   varie   riduzioni   del   protorazionalismo   cui   sopra abbiamo   accennato   non   trovarono   alcun   codice   se   non   quello classicistico degli impianti a blocco chiuso, delle simmetrie bilaterali, delle   stereometrie   elementari,   che   entrambe   le   correnti   dell'Art Nouveau  avevano,   se   non   abbattute,   certamente   accantonate.   La riduzione   del   protorazionalismo,   segnatamente   quella   geometrica, acquisterà un accento nuovo (ma saremo già in pieno razionalismo) o in forza di una grande capacità di sintesi espressiva — e pensiamo alle opere di Wright che nella sua prima esposizione europea del  1910 mostrò   risolti   molti   problemi   di   fronte   ai   quali   si   erano   dibattute invano molte ricerche protorazionaliste — o grazie all’apporto delle avanguardie   figurative.   Queste   diedero   allo   stile   geometrico   un contributo che non va frainteso come una mera semplificazione, ma ridussero (nel  senso che trasferirono e trasformarono) il linguaggio figurativo a nuovi codici e a nuovi significati.

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Le variazioni del protorazionalismo Come   abbiamo   già   affermato   nell’analogo   paragrafo   sull’Art Nouveau,  studieremo l’opera di alcuni maestri non tanto per le loro specifiche valenze storiche ed estetiche, quanto per il loro apporto, alla   formazione   del   codice   protorazionalistico   e   dei   sottocodici   (le scuole   nazionali).   Se   consideriamo   lo   stile   che   accomuna   la produzione di Hoffmann, di Loos, Behrens, Perret e Garnier, per citare gli architetti maggiori, come un fenomeno sviluppatosi in continuità o in   opposizione   con   l'Art   Nouveau,  risulta   che   il   contributo   di   essi, nonché individuale, comprende anche tanti rispettivi apporti di scuola. Già parlando dei personaggi della Secessione viennese abbiamo notato una   evoluzione   verso   il   protorazionalismo   e   protorazionaliste   si possono considerare alcune opere di Wagner e la maggior parte di quelle di Josef Hoffmann (1870­1956). Questi, dopo aver curato una serie di allestimenti e arredamenti con un gusto assai vicino a quello di Mackintosh e costruito negli anni dal 1901 al 1904 un gruppo di ville sulla   Hohe   Warte   a   Vienna,   che   segnano   una   «semplificazione» stilistica   rispetto   alla   Secessione,   realizza   nel   1903   il   sanatorio   di Purkersdorf,   che   possiamo   considerare,   privo   com’è   di   concessioni decorative, come il primo edificio protorazionalista. Notiamo   per   inciso   che   d’ora   in   poi,   nell’ambito   di   questo   stile, un’opera risulta tanto più valida quanto più povera di superfetazioni decorative.   Come   l'Art   Nouveau  aveva   combattuto   l’eclettismo storicistico,   così   il   protorazionalismo   combatte   quel   complesso   e radicato costume di un’arte rivestita con spreco, quella serie di norme obbliganti sotto l’apparente libertà della fantasia, quel gusto che alla rude sostanza preferisce la molle e decadente apparenza, in una parola 1’«ornamento». Nel   1905   Hoffmann   inizia   la   costruzione   del   suo   capolavoro,   il Palazzo   Stoclet   a   Bruxelles,   che   sarà   ultimato   solo   nel   1914 Quest’opera, se per il suo dispendioso programma, per il suo carattere di ricca dimora magnatizia e per alcune concessioni decorative riflette

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ancora vecchie istanze, per la sua inedita conformazione spaziale, per il suo rigore stilistico e l’eccezionale coerenza di tutte le sue parti, rispecchia anche molte esigenze della nuova architettura. Pertanto essa può   considerarsi   come   il   più   tangibile   punto   di   passaggio   tra   la Secessione e il protorazionalismo. La carriera professionale di Hoffmann è ricca di opere, tra le quali ricorderemo   un   secondo   gruppo   di   ville   sulla  Hohe   Warte,   il Padiglione dell’Austria, alla mostra del Werkbund del ’14 a Colonia e, oltre il periodo da noi considerato, le case popolari del Comune di Vienna sulla Stromstrasse del ’24 e sulla Luxemburgstrasse del ’31, le case   nella  Internationale   Werkbundsiedlung  di   Vienna   del   ’32,   il Padiglione austriaco alla Biennale di Venezia del ’34 fino all’attività del   secondo   dopoguerra   in   massima   parte   svolta   nel   settore dell’edilizia popolare; ma egli rimane nella storia dell’architettura per il   sanatorio   di   Purkersdorf   e   il   palazzo   Stoclet,   nonché   per   aver fondato e diretto le  Wiener Werkstätte.  Questa ditta, ampliatasi ben presto con uffici, laboratori, locali di esposizione e di vendita, può considerarsi l’esperimento di produzione artigianale moderno meglio riuscito fra i tanti generati dalla famosa bottega di Morris e il settore nel quale Hoffmann diede il suo maggiore contributo al protorazio­ nalismo,   alle  Arts   Déco,   al   cosiddetto   «stile   ’900».   Parlando   delle Wiener Werkstätte, dopo aver ricordato il giudizio di Max Eisler in cui Hoffmann viene definito artigiano più che architetto e i suoi edifici considerati   come   ingrandimenti   di   mobili   e   soprammobili,   Giulia Veronesi scrive:«Durante un trentennio, dal 1903 al 1933, esse furono al   centro   dei   suoi   interessi   di   artista   e   di   uomo,   in   pari   tempo rappresentando nel mondo l’Austria nella più tipica forma della sua “arte moderna”, quella che, con un termine non del tutto proprio per quanto   esplicitamente   indicatore,   chiameremo   decorativa:   l’arte dell’oggetto, dal mobile all’utensile, disegnato secondo le linee di una bellezza   di   origine   puramente   “estetica”,   fine   a   se   stessa   sebbene congeniale ad una  sicura funzionalità, e determinante con forza un gusto, persino una moda. Quello delle “Wiener Werkstätte” fu il gusto

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aristocratico e non di rado lezioso dell’alta borghesia viennese, a cui fu   anche   destinata   in   massima   parte   l’architettura   di   Hoffmann»   4. [4G. Veronesi, Josef Hoffmann, Il Balcone, Milano 1956, p. 11]. Aggiungiamo a queste icastiche considerazioni che, se aristocratico all’origine, lo stile dell’arredamento iniziato da Hoffmann venne ben presto acquisito anche dalla media e piccola borghesia, diffondendosi con   grande   successo   e   soppiantando   le   tradizioni   locali   in   tutta Europa. In   complesso   l’apporto   di   Hoffmann,   che   poi   sintetizza   l’intero contributo austriaco al protorazionalismo, può considerarsi non tanto la fine di ogni accento decorativo, quanto quello di una evoluzione semplificatrice della Secessione; né le sue opere si riducono ad una semplice   trasformazione   dell’«ornamento»,   in   quanto   tentano   di affrancarsi, talvolta riuscendovi, dalle bloccate simmetrie di Wagner. Cosicché il suo non è solo un rinnovamento del gusto, ma uno che incide anche nella conformazione degli spazi. Tuttavia, ed è qui che sta l’ambiguità maggiore del Nostro, la sua architettura ha bisogno di un   costante   supporto   linguistico   extra   architettonico.   Quando   vien meno   il   contributo   pittorico   di   Gustav   Klimt,   l’artista   che   oggi   ci sembra   il   più   significativo   del   gruppo   viennese,   oppure   s’eclissa l’originale slancio delle Wiener  Werkstätte, Hoffmann ricade in un classicismo   che,   sebbene   anch’esso   estremamente   raffinato,   non   si giustifica di fronte alle sue opere più originali. Il caso di Hoffmann conferma  l’idea  che  il  protorazionalismo  si  rivela  esangue  senza  il sostegno delle avanguardie figurative. Diverso è il caso di Loos che tentò la conformazione di un’architettura autonoma   e   «pura».   Egli   non   realizzò   mai   edifici   del   valore   del Palazzo Stoclet, né incise così diffusamente sul gusto del tempo come fecero le  Wiener  Werkstätte,  ma rimane nella storia dell’architettura contemporanea   come   esempio   di   grande   rigore   e   coerenza   sia   al livello   teorico   che   operativo;   il   carattere   emblematico   della   sua

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iconoclastia ebbe notevole ripercussione sulla generazione successiva e in generale su tutto il Movimento Moderno. Le sue opere più famose (la villa Karma a Montreux del 1904, la casa Steiner, il fabbricato sulla Michaelerplatz del 1910, la casa Scheu del ’12 e, oltre il periodo del protorazionalismo, la casa  Rufer  del ’22, quella del poeta dadaista Tristan Tzara del ’26, la casa Müller del ’30, ecc.) sono quasi tutte una dimostrazione di due assunti fondamentali: a) lotta ad ogni forma di decorazione per realizzare una economia che abbiamo definito di natura «estetica» e per una sociale avversione allo spreco; b) tendenza a dimostrare l’indipendenza dell’architettura dalle altre forme d’arte figurativa, puntando al suo specifico spaziale, alle proprietà figurative insite nella natura dei materiali: le venature dei marmi, le fibre del legno, il colore degli stucchi, ecc. In   particolare,   per   quanto   concerne   la   conformazione   degli   spazi interni, Loos fonda la sua progettazione su un principio di economia e di proporzionamento, che alcuni ritengono derivatogli dall’esperienza del suo viaggio in America (1893­96) e per parte nostra anche dalla trattatistica rinascimentale. Tale principio, definito  Raumplan  muove dalla   considerazione   che   gli   ambienti   planimetricamente   ampi richiedono   un’altezza   maggiore   degli   ambienti   contigui   aventi   una pianta più piccola; ne consegue che in sezione non è possibile coprire con   un   solo   solaio   invasi   di   altezza   differente;   così   Loos   incastra verticalmente uno sull’altro gli ambienti a quota diversa assicurando il passaggio   dall’uno   all’altro   dislivello   mediante   scale   e   gradini   che peraltro articolano in modo assai originale la spazialità degli invasi, finché   l’intera   aggregazione   degli   spazi   interni   non   trova   la   sua conclusione sotto un unitario tetto piano. Si realizza così una notevole economia spaziale (ciascun volume è grande quanto basta ad assolvere la  sua   funzione)   e  una  notevole  varietà  nella   stessa  conformazione degli spazi interni. Sulle facciate, questi incastri di ambienti a varie quote   sono   denunciati   dalle   aperture   disposte   in   maniera dissimmetrica.

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Come l’opera di Horta per l’Art Nouveau, così quella di Loos risulta la più paradigmatica del protorazionalismo; in quanto tale non è esente dai limiti propri a questo codice­stile. Infatti, oltre ad avere un divario tra gli spazi interni tanto articolati e quelli esterni che assai spesso valgono   come   mero   involucro,   le   opere   di   Loos   non   riescono   a sottrarsi al neoclassicismo. E questo è tanto più frequente quanto più impegnative sono le prove che l’architetto è chiamato ad affrontare, segnatamente   nei   progetti   che   risultano   assai   più   classicistici   delle opere effettivamente realizzate, per non parlare del suo elaborato per il concorso della «Chicago Tribune» del ’23 consistente in un grattacielo a   forma   di   colonna   dorica,   che   è   da   considerare   forse   un   gesto polemico, ironico, ispirato magari dai suoi amici dadaisti [5Eppure in un suo scritto incredibilmente Loos afferma: « La grande colonna dorica sarà costruita. Se non a Chicago, in qualche altra città. Se non per la Chicago Tribune per qualche altro. Se non da me, da un altro architetto » (cit. in H. Kulka, Adolf Loos, Schroll, Wien 1931,pp. 37­8]).  È ben vero che le sue più tarde e significative opere, le case Tzara,  Kuhner,   Müller,  Moller   abbandonano   quasi   ogni   inflessione classicistica,   ma   è   vero   altresì   che   tali   opere   sono   già   oltre   il protorazionalismo. Cosicché Loos è uno dei pochi architetti, forse il solo   della   sua   generazione,   a   passare   dallo   stile   che   studiamo   al razionalismo   e   a   conservare   una   notevole   coerenza   perché   seppe tradurre il classicismo in classicità. Se per i contributi di Hoffmann e di Loos al protorazionalismo, che sono diversi ma non totalmente dissimili, è lecito parlare di un apporto della scuola viennese, ancor più legati alle tradizioni nazionali sono quelli dei francesi Perret e  Garnier.  Alle loro spalle sta l’architettura dell’ingegneria ottocentesca, l’invenzione ed il perfezionamento del cemento   armato   che   è   frutto   della   ricerca   tecnologica   francese   (J. Monier,   F.  Coignet,   F.   Hennebique,   A.   de   Baudot),   la   tradizione storiografica di indirizzo tecnicistico (Viollet­le­Duc, Enlart, Choisy) e per quanto concerne l’opera urbanistica di Garnier, questa ha chiare

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ascendenze nella tradizione utopistica francese (Saint­Simon, Fourier, Godin ecc.). Il contributo di Auguste Perret (1874­1954) al protorazionalismo sta in   primo   luogo   nell’aver   acquisito   all’architettura   la   tecnica   del cemento   armato,   così   come   fece   Horta   con   la   tecnica   del   ferro. Tuttavia,   mentre   con   l’architettura   dell'Art   Nouveau  la   struttura metallica veniva «piegata» agli stilemi di quel gusto, nella variante del protorazionalismo   prodotta   dall’opera   di   Perret   si   direbbe   che   è l’architettura ad adeguarsi alla struttura  del cemento armato. Ma in realtà   ci   troviamo   in   presenza   di   un   doppio   compromesso:   se   la conformazione   architettonica   risente   indubbiamente   dell’uso   del cemento   armato,   questo,   a   sua   volta,   pur   essendo   potenzialmente capace di produrre le più libere e plastiche forme, viene utilizzato — per motivi economici, di più facile calcolo statico, di più elementare organizzazione   tecnologica   —   in   strutture   a   gabbia   con   elementi orizzontali e verticali, ossia in maniera non dissimile dal ferro o dal legno. Perret è tra i primi costruttori a tradurre in elementi lineari, in rigidi   telai   la   plastica   fluidità   del   cemento   armato   e   certamente   il primo   a   trarre   da   questo   procedimento   il   massimo   effetto architettonico. La disposizione pianimetrica dei pilastri gli consente il massimo   sfruttamento   e   la   maggiore   libertà   degli   spazi   interni;   la messa in evidenza sulle facciate della struttura portante gli consente di caratterizzare anche figurativamente le sue fabbriche. D’altro canto il problema   dei   tamponamenti,   dell'encadrement,  dei   pannelli   di chiusura dei riquadri lasciati dall’ossatura portante può essere risolto in infiniti modi; quando questi vuoti non vengono chiusi da ampie vetrate,   inevitabilmente   è   necessario   rifarsi   ad   una   indicazione figurativa, ad elementi di un dato momento del gusto. Pertanto Perret, contrariamente   a   Loos,   non   abbandona   la   «decorazione».   Nel   suo capolavoro, la casa di rue Franklin a Parigi del 1903 (che studieremo in dettaglio), i tamponamenti sono realizzati con pannelli di ceramica a motivi floreali; nel garage di rue Ponthieu del 1905, con un grande

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rosone in ferro e vetro; nelle chiese di Notre Dame­du­Raincy del ’22 e   di   Santa   Teresa   di   Montmagny   del   ’26   l’involucro   parietale   è costruito con una tessitura di minuti motivi geometrici, anch’essi in cemento armato; negli edifici relativi alla ricostruzione di Le  Havre, realizzati nel secondo dopoguerra, la soluzione dei tamponamenti  è affidata al modulo delle pannellature prefabbricate. Sebbene l’architettura di Perret non sia riducibile al binomio struttura­ elementi di chiusura, perché uguale peso presenta l’articolazione degli spazi interni, resta tuttavia certo che uno dei suoi maggiori apporti al moderno   linguaggio   architettonico   è   quello   di   avere   con   estrema chiarezza definito la relazione tra elementi portanti e portati in una condizione   dialettica   che   informerà   tutta   la   produzione   successiva. Partito dal compromesso di una tecnologia «adattata» alle circostanze e d’una conformazione architettonica «adattata» alle possibilità di una simile tecnica, Perret seppe operare una valida sintesi di questi due fenomeni configurando un linguaggio che è ancora attuale. Anche   per   l’opera   di   Perret   va   ripetuto   il   limite   proprio   a   tutto   il protorazionalismo:  le   sue  travi  e  i  suoi  pilastri  lasciati  in  evidenza ripropongono o richiamano alla mente i marcapiani e le lesene giganti del   linguaggio   classico­rinascimentale;   l’impianto   bloccato   e simmetrico delle sue fabbriche riconferma la vecchia collusione tra neoclassicismo e ingegneria; le sue opere più recenti non sembrano risentire minimamente del razionalismo e delle avanguardie figurative. Tuttavia   se   queste   sono   le   carenze   tipiche   del   codice­stile   che studiamo,   va   d’altro   canto   riconosciuto   il   merito   a   Perret   di   una straordinaria   coerenza:   egli   (come   del   resto   il   suo   connazionale Garnier,   sebbene   in   misura   minore)   rimase   un   architetto protorazionalista per tutta la vita. Tony   Garnier   (1869­1948)   fornisce   un’altra   versione   del protorazionalismo, quella per cui ogni opera architettonica s’inquadra in un  programma  urbanistico.  Nel  1901 Garnier  elabora  un grande progetto   urbanistico   ed   edilizio   per   una  cité   industrielle  di   35.000 abitanti   da   edificarsi   in   un   luogo   imprecisato   avente   tuttavia

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particolari caratteristiche. L’insediamento riguarda una zona con una parte in pianura e una in collina; lungo la parte bassa del territorio scorre   un   fiume   in   cui   confluisce   dall’alto   un   torrente.   Nell’ansa limitata   dai   due   corsi   d’acqua   è   previsto   il   nucleo   industriale,   che costituisce la ragion d’essere dell’intero piano urbanistico. Un’ampia fascia di verde separa tale nucleo e gli impianti ferroviari dalla zona residenziale posta a mezzacosta sulla collina; nella parte più alta di questa è la zona ospedaliera. La parte residenziale della città ha un andamento allungato e presenta sull’asse mediano il centro civico, le scuole,   le   attrezzature   sportive.   L’area   destinata   alle   abitazioni   è suddivisa in lotti dalla dimensione di m.150X30, che possono essere edificati   in   vari   modi   purché   se   ne   lasci   la   metà   libera   a   verde pubblico.   I   tipi   edilizi   previsti   possono   essere   case   unifamiliari   o collettive,   ma   sono   vietati   i   cortili   e   le   chiostrine;   sono   fissate   le distanze tra gli edifici e i rapporti di questi con le strade; il materiale da costruzione è il cemento armato, le coperture sono a tetto piano, le finestre   ampie   e   regolari,   i   partiti   architettonici   sono   privi   di decorazione. Oltre a questa edilizia residenziale e le norme che ne regolano   la   costruzione   e   l’utenza,   i   progetti   dei   principali   edifici pubblici   precorrono   di   oltre   vent’anni   analoghe   realizzazioni tipologiche.   Bastano   questi   pochi   cenni   per   intendere   il   senso   di grande   anticipazione,   nonché   la   globale   visione   unitaria   di   questo progetto, curato in ogni dettaglio da Garnier ed accompagnato, come s’è detto, da una adeguata regolamentazione edilizia. Pertanto esso è considerato a buon diritto il modello dell’urbanistica razionalista per la sua rigorosa funzionalità, zonizzazione, lottizzazione ecc. Sia nel 1901 che nella mostra tenuta a Parigi nel 1904, il progetto di Garnier   non   riscuote   il   pubblico   consenso   [6Il   progetto   venne pubblicato a Parigi nel 1917 in un volume dal titolo: T. G., Une cité industrielle, étude pour la construction des villes. e l’architetto ritorna a   Lione,   sua   città   natale,   dove   tra   il   1905   e   il   ’19,   sostenuto   dal sindaco radicale E. Herriot, esegue Les grands travaux de la ville de Lyon [7E il titolo di un'altra pubblicazione di Gamier edita a Parigi nel

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1919]. Questi consistono in una serie di opere, rientranti in una sorta di   piano   unitario,   comprendente   il   complesso   degli   edifici   per   il macello e il mercato per il bestiame (1903­ 1913); lo stadio (1913­16); l’ospedale   della   Grange­Blanche   (1915­30);   il   quartiere   di   case popolari   detto  Etats­Unis  (1928­35),   ecc.   Dette   opere,   nonché progettate alcuni anni prima della loro realizzazione, risalgono nella loro generale e talvolta particolare concezione ad analoghi impianti previsti sin dai 1901 nel progetto per una  cité industrielle.  Cosicché questo   giovanile   studio   può   considerarsi   come   la   falsariga   di   tutto quanto Garnier costruì a Lione, con uno scarto fra disegno e realtà talvolta   minimo,   e   in   generale   di   tutta   l’attività   professionale   del Nostro.  Anche in Garnier troviamo il solito limite dell’ispirazione classicistica comune a tutto il protorazionalismo; anzi si direbbe che manchi in lui l’intenzione stessa di ricercare un nuovo linguaggio, tutta la sua opera basandosi su una semplificazione geometrica, su una riduzione ad un «presunto» essenziale che gli consente di produrre alcune fabbriche, per   così   dire,   senza   tempo.   I   suoi   edifici   possono   datarsi   con   un decennio in più o in meno senza che ciò comporti un mutamento di giudizio. E se questo può considerarsi un’altra loro limitazione, una sorta di indifferenza per quanto avveniva nel campo delle arti negli anni ’10 e ’20, d’altra parte denota la fedeltà ad un «disegno» e ad un’idea   cui   l’architetto   lionese   rimase   legato   tutta   la   vita.   In   altre parole, le opere di Garnier altro non sono che le tessere pazienti di un mosaio urbanistico e d’una urbanistica non storicistica (C. Sitte), non sociologica   (Howard),   non   ingegneresca   (Wagner),   non   negatrice della città stessa (la città­giardino o la Broadacre di Wright), ma come la può concepire un architetto. In tal senso la più chiara indicazione ci viene dallo stesso Garnier quando nel volume del ’17 che illustra il progetto della  cité industrielle  scrive: «Gli studi di architettura che presentiamo   qui,   in   una   lunga   serie   di   tavole,   riguardano l’organizzazione   di   una   città   nuova,   la   città   industriale,   poiché   la maggior   parte   delle   città   nuove,   che   saranno   fondate   d’ora   in   poi,

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saranno   dovute   a   motivi   d’ordine   industriale,   onde   abbiamo considerato il caso più generale. D’altra parte in una città di questo genere tutte  le applicazioni  dell’architettura  possono  trovar  posto  a buon diritto, e vi è la possibilità di esaminarle tutte». Come si vede egli   affronta   il   suo   compito   non   con   la   mentalità   del   pianificatore verboso   e   spesso   velleitario,   ma   dell’architetto   che   colloca   le   sue opere in un piano più vasto, che a sua volta si sostiene sulla realtà di tali opere, saldandosi in un tutto unitario di architettura e urbanistica; non   a   caso   Garnier   esordisce   chiamando   i   suoi   elaborati   «studi   di architettura». La versione tedesca al protorazionalismo non si limita all’opera, pur assai   notevole   di   un   solo   architetto,   Peter   Behrens,   ma   riflette numerosi fenomeni di varia e complessa natura. Peraltro il codice­stile che   studiamo   coincide   con   gli   anni   del   decollo   della   cultura architettonica tedesca, ossia del paese che assumerà la leadership del Movimento   Moderno.   Cosicché   parlando   del   protorazionalismo   in Germania si  va ben oltre un moto del gusto e d’uno stesso codice linguistico incontrandosi eventi nodali per tutta la successiva vicenda architettonica. Nel   capitolo   precedente   abbiamo   parlato   del   trasferimento dell’organizzazione   militare   tedesca   nel   campo   della   produzione industriale; della istituzione di numerose scuole d’arte applicata (le famose Kunstgewerbeschule dell’età guglielmina); della formazione di molte   associazioni   tra   produttori;   dell’appoggio   dello   stato   a   tutte queste   manifestazioni   artistico­produttive.   Nel   primo   decennio   del secolo il quadro dell’ambiente tedesco s’infittisce di altri nuovi fattori: le lotte sociali, la costituzione di una sorta di proletariato della cultura, la crisi dello Jugendstil, la nascita dell’espressionismo, lo scontro fra contrastanti   aspetti   tipici   della   cultura   tedesca:   l’individualismo romantico   e   lo   spirito   associativo,   l’apertura   verso   il   linguaggio straniero   e   l’  Heimatkunst,  ossia   l’espressione   più   autoctona   della tradizione popolare germanica; l’arte pura e quella applicata, la cui diversità   non   nasceva   soltanto   dai   generici   discorsi   dell’opinione

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pubblica, ma trovava un solido fondamento nella tradizione filosofica del paese, ecc. Pertanto in questo coacervo di spinte che venivano producendosi negli anni ’10 le cose non si svolsero secondo il ben noto schema lineare Art and Crafts ­ Kunstgewerbeschule ­ Werkbund ­ Bauhaus. D’altra parte, non potendo in questa sede produrre analisi più puntuali della complessa   vicenda   donde   nacque   il   Movimento   Moderno   in Germania,  ne   angoleremo  i   fatti   principali   dalla   prospettiva   di   una politica culturale. Questa,   passata   la   breve   stagione   dello  Jugendstil  —   che   non   fu importante in sé quanto nella sua fusione con l’espressionismo —, mirò ad importare nel settore dell’architettura e delle arti applicate il modello inglese,  che  appariva  tanto più   adatto alle  nuove  esigenze dopo le orge decorative della Secessione; potenziò al massimo tutte le energie   produttive   locali   e   vinse   le   numerose   resistenze   —   la tradizione artigianale, l’individualismo degli espressionisti, le rivalità regionali ecc. — facendo leva sia sul diffuso senso di modernità e di progresso tecnico e civile, sia sullo spirito nazionalistico con un palese risvolto   economico:   la   conquista   dei   mercati   esteri.   Della   suddetta politica culturale il maggiore protagonista fu Muthesius che abbiamo già   ricordato   quale   addetto   culturale   presso   l’ambasciata   tedesca   a Londra,  esperienza  che  gli servì   a diffondere  in patria  gli  esiti  del movimento delle Arts and Crafts, nonché l’edilizia domestica inglese: il suo libro Das englische Haus del 1905 ebbe un’influenza notevole sul   protorazionalismo   tedesco.   Successivamente,   sempre   ricoprendo cariche pubbliche, Muthesius si occupò di organizzazione scolastica, di associazioni culturali e produttive, di commercio estero. Nel 1907 egli appoggia la fondazione del Deutscher Werkbund, un’associazione fondata   da   produttori,   politici,   artisti,   uomini   di   cultura,   il   cui programma, come dice lo statuto «è di mobilitare il lavoro artigiano, collegandolo con l’arte e con l’industria. L’associazione vuol fare una scelta del meglio nell’arte, nell’industria, nell’artigianato e nelle forze attive manuali; vuol mettere assieme gli sforzi e le tendenze verso il

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lavoro di qualità esistente nel mondo del lavoro; forma il punto di raccolta per tutti coloro che sono capaci e desiderosi di produrre un lavoro  di  qualità»  [8 Cit.  in N.  Pevsner,  I  pionieri  del Movimento Moderno, daWilliam Morris a Walter Gropius, Rosa e Ballo, Milano 1945, pp. 122­3]. Come   si   vede,   vuoi   perché   il   Werkbund   era   nato   dalla   «Terza esposizione dell’artigianato tedesco», tenuta a Dresda nel 1906, vuoi perché  era   buona  politica   cooptare  tutte   le  forze  disponibili,   anche quelle artigianali e persino le «forze attive manuali», il programma della nuova associazione è ancora incerto fra industria e artigianato e si   risolve   in   un   generico   richiamo   al  Qualitätsarbeit.  Assai   più risolute,   rispetto   a   tale   programma,   nell’orientamento   verso   il Maschinenstil  risultano   non   solo   le   prese   di   posizioni   di   storici dell’arte quali Alfred Lichtwark, che per primo parlò di  Sachlichkeit (oggettività,   correttezza,   corrispondenza   esatta   e   calcolata   di   un oggetto   alla   funzione)   o   di   politici   quali  F.  Neumann,   anch’egli schieratosi   per   l’industrializzazione   ed   il   funzionalismo,   ma soprattutto   del   fabbricante   Karl  Schmidt  che   fonda   nel   1898   le Deutsche  Werkstätten,  una impresa produttrice di mobili di serie, a basso costo, ad elementi unificati e che si vantava di «far nascere lo stile   dei   mobili   dallo   spirito   della   macchina».   Anche   Muthesius   è ovviamente per una Sachlich Schönheit, per una architettura tendente al tipico, per la standardizzazione, per la produzione in serie, ecc. Ma coesiste  in  lui,  come  funzionario  statale,  la  preoccupazione   che  un atteggiamento troppo radicale possa alienargli il favore di quanti sono ancora su posizioni artigianali, artistico­romantiche, individualistiche. E   queste   forze   non   vanno   assolutamente   perdute   per   l’unitario programma di politica economico­culturale. Ne abbiamo conferma nel suo intervento al congresso del Werkbund del 1911, avente per tema «La spiritualizzazione della produzione tedesca» dove, tra l’altro, egli afferma: «Questo sviluppo del gusto, il piacere di operare sulla Forma, ha   un   decisivo   significato   per   il   futuro   stato   della   Germania   nel mondo.   Prima   dobbiamo   mettere   ordine   nella   nostra   stessa   casa,   e

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quando   tutto   è   chiaro   e   luminoso   dentro,   possiamo   cominciare   ad avere dei risultati fuori. Solo allora ci mostreremo al mondo degni del compito, tra l’altro, di ridare al mondo e alla nostra epoca i perduti benefici di una cultura architettonica»[9Cit. in R. Banham, Theory and Design in the First Machine Age, The Architectural Press, London 1962, pp. 75­7]. Non vorremmo, con questi risvolti nazionalistici fornire un’idea errata del  Werkbund  — i  giudizi unilaterali e generalizzanti  sulla cultura tedesca   risultano   quasi   sempre   aberranti   —   né   con   queste dichiarazioni di Muthesius offuscare i meriti di quest’associazione che furono   moltissimi   nella   vicenda   del   Movimento   Moderno.   Tuttavia alcune   finalità   del  Werkbund  non   si   differenziano   molto   da   quelle dell’organizzazione   produttiva   nazionale   che   prese   l’avvio   in   ogni settore   industriale   tedesco   dopo   la   vittoria   del   ’70.   Il   sostegno ideologico   del  Werkbund  sembra   peraltro   confermare   la   tesi   del capitalismo come vocazione religiosa, dello sforzo industriale come palingenesi collettiva dell’anima germanica. EMMA In   questa   stessa   chiave   è   da   interpretare   l’opera   di   Peter  Behrens (1868­1940) sia per l’ampiezza dei settori nei quali intervenne, sia soprattutto   per   il   suo   rapporto   con   la   committenza.   E   proprio attraverso   i   committenti   si   può   registrare   nonché   l’evoluzione personale   dell’architetto,   lo   stesso   evolversi   socioculturale   del movimento  tedesco del primo ventennnio del secolo. Al suo esordio Behrens lavora per un mecenate, il già citato Granduca Ernst Ludwig von Hessen nella colonia di Darmstadt,  occupandosi in prevalenza di arti decorative e di arredamento; il suo secondo committente è l’AEG, che rappresenta per lui il grande incontro con il design e l’architettura per   i  grandi   impianti   industriali;  il  terzo   committente  è   il  Comune socialista di Vienna, per il quale s’impegna nel settore dell’edilizia popolare. In quest’arco completo, dal sogno di un aristocratico alle realistiche   istanze   di   una   borghesia   industriale   avanzata   fino   al programma di un’amministrazione di pubblico interesse,  Behrens  ha modo di effettuare una delle esperienze professionali più complete che

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siano   mai   state   possibili   ad   un   architetto   moderno.   Ma   ai   fini   del nostro discorso, mirante a cogliere il quadro della cultura tedesca negli anni del protorazionalismo e d’individuare in che modo quel contesto socioculturale incise su questo codice­ stile, l’esperienza di  Behrens presso l’AEG risulta la più significativa. Chi   era   intanto   l’Allgemeine   Elektrizitäts  Gesellschaft  e   quali erano le sue implicazioni tecniche, sociali e politiche? Quest’azienda è tra   le   prime   ad   effettuare   quelle   trasformazioni   che   dal   ’70   in   poi imposero   l’industria   tedesca   al   livello   internazionale.   Le   primitive officine del signor Weber ricevettero un forte impulso dall’ingegnere berlinese   ebreo   Emil   Rathenau   che   operò   una   sintesi   fra   le   più progredite esperienze europee nel campo delle macchine elettriche e i moderni   sistemi   americani;   ottenuta   la   concessione   dei   brevetti Edison,   fonda   nel   1889   l’AEG.   Una   volta   acquisita   la   struttura tecnologica,   perfezionati   gli   strumenti   di   produzione,   avviati imponenti   cicli   produttivi   e   affermatasi   sul   piano   commerciale, l’azienda, che intanto aveva modernamente organizzato il rapporto col personale,   affronta   una   seconda   fase,   che   oggi   definiremmo neocapitalista.   Artefice   di   tale   svolta   è   il   figlio   di   Emil   Rathenau, Walter.   Questi   eredita   la   grande   esperienza   imprenditoriale   paterna ma, essendo oltre che fisico, ingegnere, specialista di elettrochimica, anche   vivamente   interessato   alle   «scienze   dello   spirito»   (fu   infatti allievo   di   Helmholtz   e   di   Dilthey),   affronta   in   maniera   nuova   la problematica   sociale   ed  economica,   tecnica   e   politica,  ideologica   e sindacale che, specie nella Germania di quegli anni, si imponeva ad una   grande   impresa   industriale.   Walter   Rathenau   è   uno   dei   primi dirigenti d’azienda che tentarono un equilibrio tra i fattori suddetti, che concepirono la grande industria come una forza collettiva ed un potenziale idoneo ad «una più equa distribuzione dei beni di natura» (Argan)   nell’intera   sfera   sociale.   In   altre   parole,   la   concezione   di Rathenau, in cui confluirono la fiducia nella cooperazione tra capitale e   lavoro,   il   revisionismo   di   Bernstein,   lo   sforzo   di   scongiurare

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l’alienazione prodotta dal lavoro meccanico e, per quanto attiene agli aspetti qualitativi dei manufatti, il dibattito e l’azione del Werkbund, può riassumersi appunto in quel pensiero citato del capitalismo come vocazione religiosa, teorizzato, sia pure in senso avalutativo, da Max Weber.  Nel   1907   Behrens   succede   ad   Alfred   Messel   nell’incarico   di consulente  artistico  dell’AEG di Berlino; per  questa ditta curerà la forma di ogni prodotto, dalle lampade ai radiatori, dall’arredamento delle   filiali   alla   grafica   pubblicitaria,   realizzando   la   prima   e   forse insuperata figura di  industriai designer, in modo tanto completo. [10 Sebbene   la   questione   del   design   rimarrà   problematica   ed   aperta,   il successo   di   Behrens   presso   1'AEG   sembra   in   un   certo   senso confermare  il   giudizio per   cui: «  E  proprio all'inizio  di una  nuova Tecnica   Espressiva   che   il   livello   è   più   alto.   Sulle   nuove   tecniche pesano   meno   pregiudizi   e   tradizionalismi.   Le   nuove   arti   sono generalmente concepite da uomini nuovi che non sono schiacciati dal passato. La vetrata, l'arazzo, la pittura a olio non sono mai stati più grandi che nella loro prima età. La fotografia ottocentesca è spesso più notevole di quella del nostro tempo. E i grandi film devono essere già stati   girati   »;   cfr.   J.   Gimpel,   Contro   l'arte   e   gli   artisti,   Bompiani, Milano 1970, p. 193]. Nel 1909 inizia con la Turbinenfabrik dell’AEG a Berlino (il suo capolavoro architettonico) ad operare nel settore in cui, come architetto, non ebbe rivali: l’edilizia industriale. Oltre agli altri impianti costruiti per la stessa azienda, Behrens realizza nel ’12 le officine   del   gas   a   Francoforte,   nello   stesso   anno   gli   Uffici   della Mannesmann  a  Düsseldorf  e gli Uffici della  Hoechster Farbwerke  a Francoforte del 1920­24, le acciaierie HOAG a Oberhäuser nella Ruhr del 1921­25, la Manifattura di Tabacchi a Linz del 1930. Nel campo dell’edilizia popolare Behrens progetta nel 1910 un gruppo di case per lavoratori della AEG a Hennigsdorf; nel 1915 le Siedlungen Berlino­ Lichtenberg e Berlino­Oberschöneweide; due anni dopo il quartiere a Spandau; dal 1924 al ’26 realizza le case a blocco chiuso di Vienna, nel programma di edilizia popolare promosso da quel Comune sin dal

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1920, quando cioè A. Loos ne divenne l’architetto capo. Svolse inoltre quasi ininterrottamente l’attività didattica finché nel ’27, trasferitosi a Vienna, occupò la cattedra che era stata di Otto Wagner. A   conclusione   del   nostro   discorso   sul   protorazionalismo   tedesco, intendiamo ribadire che qui il nostro codice­stile si caricò di tali e tante valenze da superare se stesso. Quasi tutta la tematica di fondo socioculturale   e   politica   del   razionalismo   è   chiaramente   anticipata, anche   se   persistono   non   pochi   nodi   che   la   produzione   post­bellica tenterà,   spesso   riuscendovi,   di   sciogliere.   Ma   se   in   definitiva   ci chiediamo qual è, al di là delle vicende ricordate, lo specifico apporto del protorazionalismo tedesco, rispondiamo che esso sta soprattutto nell’aver   assunto   come   fattore   positivo   e   positivo   criterio   di valutazione la «quantità». Col   protorazionalismo   si   comincia   a   parlare   esplicitamente   di fenomeni che fino a qualche anno prima sembravano contraddizioni in termini:  sachliche Schönheit, Qualitätsarbeit, sachliche Ausbildung, Typisierung,  Maschinenstil,  ecc.   non   sono   più   espressioni metaforiche   conciliative   di   buon   gusto   e   funzionalità,   ma   termini entrati   nel   glossario   architettonico   e   critici   a   denotare   una   valenza estetica tra le più tipiche del nostro tempo, per cui non si dà qualità e «bellezza»   di   un   oggetto   se   questo   non   è,   almeno   potenzialmente, quantificabile. LE OPERE DEL PROTORAZIONALISMO La casa di rue Franklin Nel 1903 August Perret(1874­1954) realizza con questo edificio la sua prima   opera   di   rilievo.   Il   fabbricato   per   abitazioni   alto   otto   piani s’inserisce   fra   i   muri   ciechi   di   due   edifici   contigui;   data   la   poca profondità dell’area, non si poteva ricavare un cortile interno né, posto che si  riuscisse ad aprire una chiostrina, aprirvi finestre; non v’era quindi   altra   possibilità   di   luce   diretta   se   non   dalla   strada.   Perret

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disegna allora una pianta ad U e nella parte centrale arretrata incastra due   balconi   a   45°,   aumentando   così   la   superficie   di   prospetto   per risolvere l’illuminazione diretta degli ambienti interni. Il piano tipo, oltre alla scala e ai servizi, presenta cinque vani principali, tanti cioè quanti sono stati ricavati articolando la parete nel modo suddetto. Tali locali per la libera distribuzione dei pilastri, disponendo diversamente i tramezzi che a questi si collegano, possono mutare anche di numero e di conformazione. L’architetto realizza così  una pianta libera pur nell’angustia dell’area disponibile. Partito dalla struttura in cemento armato,   cui   si   devono   tutte   le   valenze   statiche,   distributive   ed espressive   dell’opera,   Perret   svuota   il   pianterreno   da   ogni   chiusura muraria, continua il prospetto compatto per cinque piani, arretrando gradualmente gli altri con attici, superattici e altane fino al tetto piano. Questo variare dell’edificio in senso altimetrico completa, integra e ripropone un’articolazione equivalente a quella della sua ricca forma pianimetrica.   La   struttura,  sebbene   rivestita,   è   chiaramente   in evidenza.   Travi   e   pilastri,   elementi   verticali   e   orizzontali costituiscono   lo  scheletro  di  questo   edificio,  ma  anche   uno  dei suoi   principali   caratteri   architettonici.   Infatti   questa   è   la   prima opera   in   cemento   armato   dove   la   presenza   degli   elementi strutturali serve anche a scandire un ritmo lineare, a definire uno spartito figurativo. Fra tali elementi sono inserite le pannellature di tamponamento; è significativo che pur essendo tutto l’edificio rivestito   in   ceramica,   quella   che   ricopre   travi   e   montanti   è   a listelli   lisci,   mentre   quella   delle   pannellature   reca   motivi floreali.   Questa   differenza   è   un   indubbio   segno   della   volontà dell’autore   di   tenere   chiaramente   distinte   le   parti   portanti   da quelle portate dell’edificio. Va infine segnalata la grande parete vetrata (un’anticipazione del vetrocemento) posta per illuminare la   scala   sul   prospetto   secondario,   che,   come   s’è   detto,   non poteva avere aperture. Forse in reazione a ciò, e in genere alla difficoltà di dar luce a tutti gli ambienti, nella fronte principale i vuoti   delle   aperture,   che   vanno   tutte   da   pavimento   a   soffitto,

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prevalgono   nettamente   sui   pieni,   ridotti   in   pratica   al   solo scheletro strutturale. In   conclusione   potremmo   apprezzare   questo   edificio,   nato   con un   programma   commerciale   della   ditta   «Perret   frères entrepreneurs»   e   fra   cento   vincoli   di   spazio   e   di   regolamenti, come   un’opera   che   per   la   prima   volta   sperimenta   soluzioni   ed elementi   che   resteranno   patrimonio   comune   del   successivo linguaggio architettonico validi fini ai nostri giorni, ma l’elenco di   questi   «primati»   ci   impedirebbe   di   cogliere   il   valore intrinseco dell’opera. Come scrisse Rogers, «la vera importanza non consiste tanto nella novità, quanto nel fatto che l’elemento strutturale   ha   subito   la   volontà   formatrice   d’uno   spirito architettonico, il quale gli ha conferito un’espressione, un ritmo, un ordinamento: “l’architecture n’est pas dans la matière, elle est dans l’ordonnance”, ricordiamocelo in particolare per questo esempio, quando gli storici, presi dall’entusiasmo della primizia, ne hanno troppo spesso trascurato il sapore»  11 . 11' E. N. Rogers, Auguste Perret, Il Balcone, Milano 1955, p. 25. La casa Steiner Abbiamo   descritto   nella   prima   parte   del   presente   capitolo   il procedimento tipicamente loosiano del Raumplan; questo viene forse per la prima volta applicato nella casa Steiner, costruita a Vienna nel 1910. Qui come nell’edificio di Perret sopra esaminato tutto sembra nato dall’intento di superare un regolamento edilizio; in particolare il vincolo che imponeva alla facciata principale verso la strada di essere poco   più   alta   d’un   piano.   Partendo   da   questa   condizione,   Loos sviluppa   il   suo   edificio   inserendolo   nel   dislivello   fra   la   strada   e   il giardino, ossia ricavando su quest’ultimo un’altezza di quattro piani e raccordando la copertura di essi con quella dell’unico piano concesso sulla strada mediante un grande tetto curvo. Tutta l’articolazione degli ambienti   interni,   oggi   notevolmente   trasformati,   doveva   basarsi

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appunto   su   quell’accostamento   di   ambienti   grandi   e   piccoli,   cui s’incastravano  superiormente ambienti  piccoli e  grandi in  modo da ottenere una varietà dello spazio interno pur conservando un unitario piano di copertura, anzi  qui avendo una copertura mistilinea prima piana   e   poi   curva.   Che   l’interno   presentasse   i   dislivelli   tipici dell’articolazione   spaziale   suddetta,   la   casa   Steiner   lo   accusa chiaramente sui prospetti laterali  dove le finestre, sfalsate e di diversa dimensione, denunciano ambienti interni decisamente dissimili. Il che contrasta in modo notevole con la facciata aperta sul giardino tutta ordinata e composta nella sua iconoclastica e classicistica nudità. Qui il volume unico è articolato con due avancorpi che delimitano una parete centrale a sua volta divisa in due parti orizzontali, la superiore lievemente   rientrante   dal   filo   di   quella   sottostante.   Le   aperture   si differenziano   a   ogni   piano,   ma   non   tanto  da   interrompere   un allineamento   orizzontale,   né   la   speculare   simmetria   dell’intera composizione. La casa Steiner non è, come appare dalla sua facciata più riprodotta, quella   sul   giardino,   un’opera   che   si   distingue   per   i   suoi   caratteri anticipatori in senso linguistico — abbiamo visto che già Hoffmann nel sanatorio di Purkersdorf articola analoghi volumi privi di decora­ zione —, né un’opera valida per un rinnovato senso del classicismo perché molte altre appartenenti al protorazionalismo la superano in tal senso,   né   ancora   come   un’opera   contrassegnata   da   una   particolare «bellezza»; anche in questo è di molto inferiore ad altre case dello stesso Loos. Essa vale soprattutto come opera­manifesto della poetica dell’architetto austriaco;  è quella che incarna quasi letteralmente la sua teoria. Certo, la famosa facciata sul giardino è una concessione alla   «bellezza»   del   gusto   neoclassico   proprio   al   codice­stile   del protorazionalismo, ma le fronti laterali preannunziano già, come s’è detto, il principio del  Raumplan,  senza parlare che la facciata prin­ cipale decisamente brutta col suo tetto di lamiera ricurvo poteva essere concepita, forse polemicamence e dimostrativamente, da un architetto

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che escludeva l’architettura dal novero delle arti per il fatto stesso che assolveva una funzione. Insomma la casa Steiner, al pari della teoria di   Loos,   contiene   quasi   ogni   aspetto   positivo   e   negativo   di   una concezione che, condivisa o meno, segna una svolta nell’idea stessa di architettura. La fabbrica di turbine AEG di Berlino Il   protorazionalismo   non   poteva   trovare   una   tipologia   edilizia   più emblematica di quella relativa alle costruzioni industriali, né edificio in tal senso più significativo della Turbinenfabrik che  Behrens costruì a Berlino nel 1909. Essa consta di un grande capannone di m.  207 X 39 affiancato da un corpo di fabbrica a due ordini con copertura piana. La struttura   metallica,   un   telaio   a   traliccio   a   tre   cerniere,   è   visibile all’esterno   solo   per   quanto   concerne   i   montanti   disposti   fra   ampie vetrate; ma se ciò vale per i lati lunghi della costruzione, sulle fronti di testata   la   struttura,   sebbene   invisibile,   determina   tuttavia   la conformazione di questi prospetti. Infatti, l’estradosso della copertura segue   la   sagoma   della   parte   incurvata   secondo   una   spezzata; proseguendo   tale   sezione   fino   alla   testata,   Behrens   realizza   un frontone   che   non   è   triangolare   secondo   gli   schemi   classici,   ma   ha appunto il profilo superiormente formato da una spezzata. Al di sotto di tale frontone ritorna una grande vetrata del tutto simile a quelle racchiuse   fra   i   montanti   lungo   le   facciate   laterali.   Sugli   angoli   tra queste   e   la   parete   di   testata   s’inseriscono   massicci   corpi   murari   a ricorsi digradanti  che, come tali, raggiungono il filo del cornicione determinando   l’aggetto   di   questo   e   dell’adiacente   timpano,   nonché una forte zona chiaroscurale. Già da questa sommaria descrizione risulta che l’intento di Behrens non  è  quello  di   affidare  il  carattere  dell’opera  unicamente   alle  sue valenze costruttive e funzionali. Com’è stato osservato, qui l’architetto sembra voler piuttosto idealizzare detta funzione secondo la massima

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di Schinkel per cui «la rappresentazione dell’ideale della funzionalità determina il valore artistico dell’opera». 12 Cit. in G. K. Koenig, L'eredità dell'Espressionismo, in F. Borsi e G.   K.   Koenig,  Architettura   dell'Espressionismo,   Vitali   e   Ghianda, Genova 1967, p. 183. Altri ha giustamente parlato di questo edificio come d’una sintesi tra un   tempio   greco   e   un’officina,   notando   peraltro   la   coesistenza   di elementi   strutturali   francamente   denunciati,   si   pensi   alle   grandi cerniere   di   ferro   visibili   alla   base   dei   montanti,   e   ai   sottili accorgimenti ottici di vitruviana memoria. 13 Cf r. F. Borsi, voce Behrens del DAU, vol. I, p. 309. Quanto al valore simbolico che idealizzerebbe la funzione dell’opera, Koenig ha osservato: «Nel caso dell’AEG berlinese mi pare evidente che   la  Turbinenfabrik  non   sia   affatto   come   il   ballo   Excelsior,   la rappresentazione   della   glorificazione   del   lavoro,   con   il   minatore   a torso nudo che buca il Sempione, all’onesta insegna del socialismo universale. Essa è invece la glorificazione della macchina elettrica in un enorme volume unico dominato dal carro­ponte; in cui il lavoro umano   è   simile   al   paziente   ragno   nel   tessere   gli   interminabili avvolgimenti dei motori elettrici accoppiati alle turbine»14. 14 G. K. Koenig, L'eredità dell'Espressionismo, cit., pp. 183­4. In ogni caso questo edificio, il più noto dei cinque costruiti da Behrens per   l’AEG,   rimane   sia   pure   con   le   sue   contraddizioni   e   il   suo classicismo, per il quale non deroga dal codice­stile protorazionalista, una svolta dell’architettura contemporanea in questo settore tipologico e il paradigma di tutta l’edilizia industriale del periodo razionalista a cominciare dalla Faguswerk di Walter Gropius. Capitolo quarto  IL RAZIONALISMO  Avanguardia e architettura razionale

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L’origine teorica del razionalismo in architettura si può trovare nei trattati   più   antichi   e   in   tutti   quei   momenti,   segnatamente   il   secolo XVIII, in cui la letteratura architettonica tenta una descrizione degli elementi, una loro classificazione, un metodo operativo trasmissibile attraverso   pochi   e   verificabili   precetti,   donde   l’associazione giustamente avanzata da qualche autore, tra il moderno razionalismo e la   cultura   del   classicismo.   Peraltro   la   triade   vitruviana  firmitas, utilitas, venustas, l’assunto lodoliano per cui «nulla si deve mettere in rappresentazione che non sia anche in funzione», fino alla formula del naturalista Lamarck, importata in architettura da Horatio Greenough, secondo la quale «la forma segue la funzione», costituiscono, fra molti altri, gli esempi di una precettistica con intenti razionalistici. Ma per il  moderno razionalismo non bastano questi richiami. Esso nasce da una fiducia tardo­illuministica di risolvere secondo ragione tutti   i   problemi   che   la   realtà   contingente   pone;   dall’avanguardia figurativa e segnatamente dalla necessità di far fronte alle continue esigenze socioeconomiche della contemporanea civiltà industriale di massa.  A segnare la svolta che portò dal protorazionalismo al razionalismo, contribuirono vari fattori: la crisi post­bellica, i notevoli cambiamenti politici  avvenuti in Europa dopo il ’18, l’acuirsi della conflittualità delle   classi,   la   insoluta   «questione   delle   abitazioni»   popolari,   il rilancio   in   ogni   paese   del   movimento   socialista   in   seguito   alla Rivoluzione   russa   donde   l’aumentata   forza   contrattuale   del proletariato,   l'incrinatura   ideologica,   e   in   alcuni   paesi   economica, subita   dalla   proprietà   privata   che   intanto   aveva   perduto   ogni giustificazione di carattere liberale per arroccarsi nella conservazione del puro privilegio, a difesa del quale il capitalismo era disposto a qualunque   avventura.   Tutti   questi   fenomeni   e   nonostante   le   loro contraddizioni rendevano indispensabile una nuova politica edilizia e urbanistica, nonché la massima quantificazione dei beni di consumo, perché   tale   obiettivamente   era   la   domanda   sociale.   Constatata   la mancata volontà e talvolta l’incapacità del capitale privato di risolvere

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i   problemi   suddetti,   si   diffonde   la   convinzione   che   solo   lo   stato,   i comuni,   le   associazioni   cooperative   siano   in   grado   di   affrontare   i compiti   improcrastinabili   del   settore   edilizio,   che   assume   valore   e significato   di   un   «servizio   sociale».   I   nuovi   committenti   degli architetti non sono più principi illuminati o industriali progressisti, ma gli   enti   pubblici,   e   molti   progettisti,   per   evitarne   la   fatale   sclerosi burocratica, entrano nell’organico di tali istituti. In questo quadro generale — rispecchiante soprattutto la situazione tedesca — va seguito in maggiore dettaglio il rapporto tra avanguardia e   razionalismo,   sia   perché   esso   include   la   suddetta   problematica sociologica,   sia   perché   ci   preme   soprattutto   l’istituzione   linguistica dell’architettura razionale. Sarà   bene   notare   che   il   razionalismo,   in   quanto   fenomeno   che   si realizza nella prassi, non rientra nel novero dell’avanguardia, tuttavia per la singolare situazione della Germania, sconfitta da una guerra e sospesa   tra   una   rivoluzione   socialista   e   una   malferma   repubblica socialdemocratica, i successi e le aporie dell’avanguardia si riflettono, almeno per i primi anni dopo il conflitto, anche nella vera e propria attività architettonica. Ma   in   un’ottica   più   generale,   quale   fu   l’influenza   dell’avanguardia sull’istituzione   del   linguaggio   razionalista?   Quale   ruolo   ebbe   nella formazione di un codice rimasto per molti aspetti insuperato? Oltre a tutta una serie di sollecitazioni sociologiche, il principio dell’«arte per tutti», o estetiche, come quella per cui l’arte non ha più una funzione contemplativa   e   consolatoria,   bensì   un’altra   conoscitiva,   fattuale, «critica», ecc., il primo influsso dell’avanguardia sull’architettura fu quello   del   distacco   dalla   natura:   come,   quasi   per   evoluzione, dall’impressionismo   si   arriva   alla   pittura   astratta,   così   dagli   ordini architettonici, dalle composizioni bloccate, dalla simmetria (che sono tutti   fattori   d’origine   naturalistica)   si   giunge   a   una   conformazione disadorna, nuda, d’artificio, dissimmetrica ecc. La sola caduta della simmetria,   che   è   il   segno   più   tangibile   del   passaggio   dal protorazionalismo   al   razionalismo,  meriterebbe   un  capitolo  a  parte;

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qui ci limitiamo a notare che ne fu causa la poetica cubista e con più decisione   programmatica   il   movimento   neoplastico,   fautori   della quarta dimensione e di un equilibrio dinamico, fattori che, oltre ad essere   antinaturalistici,   si   prestavano   egregiamente   a   una conformazione architettonica motivata da ragioni funzionali. Infatti, solo   lo   svincolarsi   dalla   composizione   bloccata   e   dagli   assi   di simmetria   consentiva   all’architettura   razionalista   di   distribuire liberamente   i   suoi   invasi   spaziali   a   seconda   della   funzione, dell’orientamento, dell’economia dei percorsi ecc. Il secondo influsso dell’avanguardia sul razionalismo è la rinnovata concezione spaziale. Se è vero che col cubismo si pone in crisi lo spazio   monocentrico   della   prospettiva   rinascimentale   e   abbiamo appena   detto   che   ciò   comporta   una   conformazione   architettonica dinamica e dissimmetrica, nelle correnti dell’astrattismo geometrico l’anticipazione del nuovo spazio architettonico è ancora più pregnante. Infatti, come in quelle opere di pittura, lo spazio non è più quello in cui si rappresenta una scena, ma l’articolazione dello spazio stesso del quadro,   così   in   architettura,   entro   certi   limiti,   non   c’è   più «rappresentazione» dello spazio — le facciate principali e secondarie, i   punti   di   vista   obbligati,   gli   scorci   «privilegiati»   —,   ma   una conformazione   spaziale   legata   unicamente,   o   quasi,   alla   valenza funzionale degli invasi. Ne discende che il processo progettuale ora più che mai procede dall'interno verso l’esterno. Un   altro   aspetto   dell’avanguardia   che   ha   una   certa   incidenza   sul razionalismo è il rapporto di essa con la storia. In linea generale non riteniamo possibile una soluzione di continuità fra passato e presente della storia reale nel suo farsi, tuttavia nel caso dell’avanguardia, che rientra comunque nel concetto di «ideologia» nell’accezione positiva e negativa   del   termine,   riteniamo   che   si   debba   tener   conto   del   suo volontaristico atto di rottura col passato. Si tratta comunque di vedere come tale atto si compie. Nel cubismo e nell’espressionismo questa volontà   di   soluzione   si   attua   con   la   scelta   di   figure   ed   elementi prelevati da culture esotiche e remote. L’architettura razionalista, pur

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senza   negare   la   storia   (da   non   confondere   ciò   con   l’esclusione dell’insegnamento della storia dal programma didattico del Bauhaus, ch’è tutt’altro problema), è in questo assai più radicale: privilegia una sola delle componenti del fare architettonico tradizionale, la funzione. Con la differenza che mentre in passato la funzione veniva occultata a vantaggio o alla ricerca dell’immagine, ora si ostenta la funzione e da essa si tenta di ricavare l’immagine. Da   queste   tre   principali   influenze   dell’avanguardia   sull’architettura razionalista — e se ne potrebbero indicare molte altre — discende che in   entrambi   i   settori,   combattendo   il   naturalismo,   alimentando   una nuova concezione dello spazio, privilegiando la condizione presente, si verifica che i modelli soddisfacenti tutte queste esigenze sono le macchine, gli aeroplani, i transatlantici, in una parola gli artefatti più tipici della tecnica moderna. Non è vero che è finita ogni forma di mimesi; per la comunicazione l’atto mimetico rimane indispensabile; c’è solo, e non è poco, l’assunzione di nuovi modelli, aventi le ca­ ratteristiche,   come   s’è   detto,   di   non   essere   naturali,   né   storici   ma tecnologici.   L’unità   metodologica   della   progettazione   razionale, espressa   dal   famoso   slogan   «dal   cucchiaio   alla   città»,   si   fonda   tra l’altro   su   questa   scelta   di  una   nuova   iconografìa   soddisfacente   le caratteristiche suddette.

Il Bauhaus La scuola di design fondata da Gropius(1883­1969) nel 1919 ebbe vari significati e valori, e più ne ha assunti nei discorsi critici e polemici posteriori.   Quello   per   noi   prevalente   fu   la   sua   azione   di  filtro attraverso il quale le tendenze dell’avanguardia figurativa passarono a informare il  design  e l’architettura, producendo, come vedremo, uno stile   Bauhaus   e   con   esso   un   apporto   notevole   al   linguaggio   ra­ zionalista. Nata   nel   clima   della  Neue   Sachlichkeit,   questa   scuola,   il   cui programma non sorse di getto ma venne chiarendosi col tempo, era

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intenzionata a essere una versione «positiva» di tale corrente e mirava a tradurre la protesta espressionista nella costruzione di un rigoroso metodo   operativo.   L’inizio   fu   quindi   di   marca   espressionista   ma, mentre i suoi compagni dell’Arbeitsrat für Kunst  parlavano in termini «antiprofessionali»   e   «antiutilitari»,   schierandosi   decisamente   per l’utopia,   Gropius   manifestava   il   suo   avanguardismo   puntando   sulla raccolta   di   tutte   le   energie   operanti   nei   vari   campi   artistici   e indirizzandole   verso   l’architettura.   Donde   il   famoso   passo   che compare nel programma del Bauhaus, assai simile agli altri scritti in precedenza:   «insieme   concepiamo   e   creiamo   il   nuovo   edificio   del futuro, che abbraccerà architettura, scultura e pittura in una sola unità, e che sarà  alzato un giorno verso  il cielo dalle mani di milioni di lavoratori,   come   il   simbolo   di   cristallo   di   una   nuova   fede».   Dopo questo   esordio   espressionista,   molte   altre   tendenze   richiamarono l’interesse   di   Gropius   e   degli   altri   insegnanti   della   scuola,   talvolta esponenti di tali tendenze figurative, talaltra ricercatori comunque in­ teressati   a   esse   per   motivi   didattici.   Così   il   Bauhaus   «filtrò»   il cubismo,   il   futurismo,   l’espressionismo   astratto,   il   dadaismo,   il neoplasticismo, il costruttivismo, ecc. E  a ognuna di queste correnti trovò il suo congeniale campo d’applicazione nelle varie sezioni della scuola: l’arredamento, il teatro, la scenografia, la grafica pubblicitaria ecc. Che il Bauhaus fosse a sua volta il richiamo di quasi ogni corrente dell’avanguardia europea è dimostrato dalla presenza di coloro che vi insegnarono stabilmente (J. Itten, L. Feininger, G. Marcks, P. Klee, G. Muche, O. Schlemmer, W. Kandinsky, L. Moholy­Nagy, ecc.) e di altri   che   comunque  fecero   sentire  la   loro   presenza   (Malevich,   Van Doesburg, El Lissitzky, ecc.). Il senso di questa difficile operazione di convogliare tante differenti correnti dell’avanguardia in una scuola, che a rigore sembrerebbe una contraddizione in termini, sta nel fatto che Gropius, così facendo rese attuabile   una   duplice   istanza.   Da   un   lato   offrì   alla   produzione industriale, sia pure nel microcosmo di una scuola e con implicazioni pedagogiche, un enorme potenziale creativo, un grande patrimonio di

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idee   conformative,   e   dall’altro   rese   possibile   all’avanguardia   un ancoraggio alla realtà produttiva, visto che la gran parte delle tendenze miravano a «uscire» dalla pittura e dalla scultura per dar luogo ad oggetti di design e in definitiva a integrarsi con l’architettura. Questa operazione, che è insieme sociologica, didattica e stilistica, nel senso che contribuì alla istituzione della metodologia e del linguaggio razionalista, ci sembra la più significativa della vicenda del Bauhaus, quella più tangibile e indiscutibile, mentre tutte le altre ambizioni, i programmi, le crisi, soprattutto il significato sociopolitico della scuola hanno successivamente dato vita a un dibattito, di indubbio interesse critico, ma oscillante a tal punto tra l’agiografia e il ripudio da rendere in   definitiva   incomprensibile   il   senso   e   l’apporto   della   didattica   di Gropius,   fatta   eccezione   della   monografia   di   Argan,   che   rimane   il migliore studio su questo tema. Nell’economia   del   presente   volume,   per   assolvere   anche   a   una funzione   informativa   accenneremo,   unitamente   alle   linee   generali della vicenda, a questi aspetti più problematici e discussi del Bauhaus. Indubbiamente tutta l’azione di Gropius per dar vita e alimentare la sua   scuola   fu   un   «compromesso»   (di   quelli   beninteso   di   cui   sono capaci i grandi uomini politici), a cominciare da quello che, secondo alcuni,   egli   compì   proprio   politicamente   svolgendo   un’azione mediatrice   e   quindi   moderata   tra   la   spinta   rivoluzionaria   della Germania   post­bellica   e   la   socialdemocrazia.   A   questo   diffuso giudizio rispondiamo che, se ciò è vero, vale per tutto il Movimento Moderno,   operante   in   un   dato   sistema   (a   questo   generico   termine andrebbero sostituiti i diversi regimi nazionali) e quindi per quanto progressive e avanzate possano essere state alcune sue punte, queste, se volevano tradursi in realtà architettonica, non potevano uscire dalla sua logica. Restava per gli altri l’area del dissenso, dell’avanguardia ortodossa   che,   ripetiamo,   è   tale   se   non   si   invera   in   fabbriche   e quartieri. Gropius, che non era uomo dell’avanguardia, ha semmai il merito o se si vuole l’ingenuità di aver tentato di infrangere la ferrea legge   suddetta.   Altrove,   discutendo   lo   stesso   argomento,   abbiamo

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osservato che quella di Gropius non fu una politica culturale ispirata da destra o da sinistra, tanto che fu stigmatizzato dall’una e dall’altra parte, ma uno dei più tipici esempi di una politica della cultura1. I Cfr. L'idea di architettura, cit., pp. 81 sgg. Un secondo «compromesso» egli lo effettuò all’atto della fondazione della scuola. Succedendo ad H. Van de Velde nella direzione della Kunstgewerbeschule di Weimar, egli unificò questa scuola a carattere artigianale con la  Hochschule fiir Bildende Kunst  della stessa città, ossia con una accademia artistica, dando vita al  Staatlicbe Bauhaus, cioè   scuola   statale   di   costruzione.   Ancora   un   «compromesso   si riscontra nell’organizzazione didattica, dove un insegnamento tecnico (Werklehre)  viene   associato   a   uno   formale  (Formlehre)  svolti rispettivamente da un artigiano e da un artista. I termini artista e artigiano ci riportano al tema del rapporto dell’arte con la produzione industriale, che al tempo, di Gropius era già stato ampiamente   dibattuto   sul   piano   teorico   e   aveva   prodotto   pratiche esperienze, rimanendo al centro del dibattito sul ruolo dell’arte della moderna società. Come osserva Benevolo, «di fronte alla polemica tra artigianato e industria, che si svolge da un decennio nel  Werkbund, Gropius non sceglie l’uno o l’altro termine, avvertendo che si tratta di una   battaglia   tra   due   opposte   astrazioni.   In   concreto   tra   le   due esperienze c’è solo una differenza di grado, poiché né l’artigianato è pura   ideazione   (dovendo  sempre   l’idea  esser   mediata   attraverso   un espediente   tecnico)   né   l’industria   è   pura   manualità   (poiché   la macchina   medesima,   in   quanto   produttrice   di   forme,   pone   un problema creativo)» 2 Benevolo, Storia dell'architettura moderna, cit., p. 450. La differenza poi tra artista e artigiano è, per così dire, un problema «interno» che tende a sparire; tant’è vero che quando la scuola entrerà nella   sua   fase   più   matura   e   impiegherà   come   insegnanti   alcuni   ex allievi, i due settori Werklehre e Formlehre saranno unificati. Una volta superato un corso preliminare attitudinale, i 250 allievi della scuola venivano indirizzati ai vari insegnamenti che — fondati sulla

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duplice   esperienza   citata,   secondo   la   metodologia   dell’«imparare facendo», dell’estetica normativa di tipo psicologico­sperimentale e soprattutto le indicazioni pedagogiche di Froebel, per non parlare di una possibile convergenza di questi insegnamenti con la teoria della pura   visibilità   —   si   svolgevano   nelle   varie   specializzazioni:   legno, metallo,   ceramica,   tessuti,   ecc.   In   sostanza,   al   posto   dei   manufatti prodotti   nelle   scuole   d’arte   applicata   tradizionali,   nel   Bauhaus   si mirava a studiare e a conformare dei prototipi che, sfruttando le ca­ ratteristiche delle tecniche industriali, costituivano dei modelli per la produzione   di   serie.   Molti   di   questi   venivano   ceduti   alle   industrie, diventando in tal modo assai spesso matrici di oggetti paradigmatici del gusto contemporaneo: mobili, lampade, tessuti, elementi d’arredo, di scenografia, ecc. Alcuni di essi conservavano l’impronta del suo ideatore, si pensi alle sedie di Breuer, ma molti altri erano il frutto della collaborazione di insegnanti e allievi, ossia di quel  team­work che resterà uno dei caposaldi della didattica gropiusiana. Qual   era   il   posto   dell’architettura   nella   vicenda   del   Bauhaus? Intanto,  quando  la scuola  per   motivi  politici,  ostracizzata  dagli ambienti conservatori di Weimar, fu costretta a lasciare la città e a trasferirsi nel ’24 a Dessau, è nel suo ambito che si progetta la nuova sede (che rimane il capolavoro di Gropius), le case per gli insegnanti e il quartiere popolare di Torten. Ma al di là di questi motivi contingenti, l’architettura  è l’obiettivo di fondo di quasi ogni   ricerca   didattica.   Tutte   le   conformazioni   particolari   — quando   non   rimangono   pure   esperienze   plastiche,   ovvero   un potenziale   formativo   disponibile   per   future   applicazioni   —   si traducono   sì   in   autonomi   oggetti,   ma   sono   sempre   «pensati» come   parti   di   un   più   vasto   insieme   architettonico­spaziale (Raumgestaltung).   Dal   canto   suo   l’oggetto   architettonico secondo la metodica del razionalismo viene scomposto nelle sue varie parti elementari che, una volta messe a punto, possono dar luogo   ad   una   ricomposizione   basata   sulle   combinazioni   di   tali parti.   Comunque,   sia   che   si   parta   dalla   realizzazione   di   un

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oggetto,   sia   dalla   scomposizione   dell’architettura   in   elementi, emergono delle leggi di natura funzionale, economica, gestaltica, ecc. che unificano il modo di progettare un oggetto e quello di progettare   l’architettura,  riducendo   entrambi   ad  una   operazione di  design.  Peraltro   questa   unità   metodologica   è   in   pratica imposta   dal   processo   di   lavorazione   industriale:   come   in architettura   il   progetto   equivale   a   un   programma   che   ha   il compito,   specie   adottando   le   nuove   tecniche,   di   risolvere preventivamente   ogni   problema   esecutivo   evitando   scarti   ed imprevisti,   così   l’oggetto   da   produrre   in   serie   deve   trovare  ne varietur  risolti   nella   sua   fase   progettuale   ogni   problema   ed eliminati tutti gli imprevisti. Ritornando alla vicenda storica della scuola, mentre nel periodo di   Dessau   essa   diventa   il   centro   internazionale   più   vivo   del Movimento Moderno e mentre si attuano nuove iniziative (assai notevole   quella   editoriale   con   la   collana   dei  Bauhausbücher), l’istituto   entra   in   crisi.   Le  cause   sono   molteplici:   i   contrasti   fra vecchi e nuovi insegnanti, la polemica con Van Doesburg, le scissioni tra gli stessi studenti, il riaccendersi della politicizzazione e forse la consapevolezza   dei   raggiunti   limiti   del   Bauhaus   in   quel   contesto socioeconomico, sono tutti fattori che inducono Gropius a lasciarla nel 1928  per   dedicarsi   alla   libera  professione   e  a   quelle   ricerche   sugli alloggi e i quartieri popolari, già avviate da altri e che costituiscono l'apporto   più   significativo   del   razionalismo   tedesco.   Alla   direzione della scuola gli succedono H. Mayer prima e Mies van der Rohe poi, finché   non   verrà   soppressa   dai   nazisti.   La   vicenda   del   Bauhaus   è legata alle sorti della Repubblica di Weimar; non solo, ma tutta la sua problematica artistica e civile appartiene nel modo più emblematico alla cultura e alla storia europea degli anni Venti. Tuttavia l’influenza della   scuola,   sia   per   i   propri   meriti,   sia   perché   rimasta   senza alternative, sia infine perché la critica e il dibattito successivo le hanno attribuito, in senso positivo e negativo, molto di più di quello che essa era, s’è protratta almeno fino agli anni ’50.

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Concludiamo le nostre note sulla celebre scuola di Gropius con un cenno al problema dello «stile» nato dal Bauhaus. L’operazione che all’inizio abbiamo definito di «filtraggio» (i «filtri» essendo l’impegno civile, il rapporto con l’industria, l’adozione di tutte le più moderne tecniche pedagogiche ecc.) delle tendenze dell’avanguardia figurativa, passate a conformare il  design  e per esso l’architettura, non poteva non dar luogo a uno stile. Infatti, una volta integratesi all’architettura e al design, molte di quelle tendenze non erano più riconoscibili nel loro originario aspetto e contribuivano a determinare un unico e abbastanza omogeneo crogiuolo conformativo: lo stile Bauhaus riconoscibile per ogni oggetto elaborato nella scuola, nonostante che Gropius e alcuni suoi esegeti non abbiamo amato l’espressione stile, preferendo ad essa quella   di   unità   metodologica.   Viceversa,   a   parte   il   fatto   che   ogni metodica dà inevitabilmente luogo ad uno stile, di fatto, accanto al contributo di Wright e di Le Corbusier, il linguaggio dell’architettura moderna   si   istituzionalizza  stilisticamente,   anche   a   livello internazionale, durante e dopo l’esperienza del Bauhaus.

La «tecnica» del razionalismo

In una visione ampiamente sintetica quanto efficace, Argan ha così delineato   un   quadro   del   razionalismo:   «La   lotta   per   l’architettura moderna   è   stata   [...]   una   lotta   politica,   più   o   meno   inquadrata   nel conflitto   ideologico   di   forze   progressive   e   di   forze   reazionarie:   lo prova il fatto che là dove le forze reazionarie hanno preso il potere e soffocato le forze progressive (col fascismo in Italia, col nazismo in Germania,   col   prevalere   della   burocrazia   di   stato   sulle   spinte rivoluzionarie   in   URSS)   l’architettura   moderna   è   stata   repressa   e perseguitata. L’architettuta moderna si è sviluppata, in tutto il mondo, secondo   alcuni   princìpi   generali:   1)   la   priorità   della   pianificazione urbanistica sulla progettazione architettonica; 2) la massima economia dell’impiego del suolo e della costruzione al fine di poter risolvere, sia pure   a   livello   di   un   «minimo   di   esistenza»,   il   problema   delle

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abitazioni; 3) la rigorosa razionalità delle forme architettoniche, intese come deduzioni logiche (effetti) da esigenze obbiettive (cause); 4) il ricorso sistematico della tecnologia industriale, alla standardizzazione, alla prefabbricazione in serie, cioè la progressiva industrializzazione della   produzione   di   cose   comunque   attinenti   alla   vita   quotidiana (disegno   industriale);   5)   la   concezione   dell’architettura   e   della produzione   industriale   qualificata   come   fattori   condizionanti   del progresso sociale e dell’educazione democratica della comunità» 3 Argan, L'arte moderna 1770­1970, cit., pp. 324­5. Se questi sono stati i princìpi dell’architettura moderna (o razionale), in un testo come il nostro, divulgativo come quello donde abbiamo tratto la citazione, ma specificamente dedicato all’architettura, ci corre l’obbligo di approfondire alcuni di tali princìpi e segnatamente, dalla nostra visuale linguistica, tentare di descrivere il codice entro il quale essi   si   formalizzarono.   A   questo   fine   è   dedicato   l’intero   presente capitolo,   ma   per   individuare   il   codice   del   razionalismo   è indispensabile   esaminare   la   «tecnica»   elaborata   dagli   architetti militanti   in   questa   corrente,   che   costituisce   l’oggetto   del   presente paragrafo.   Preferiamo   parlare   di   «tecnica»   piuttosto   che   di metodologia, in quanto il primo termine denota un modo di fare più direttamente legato all’oggetto che si elabora. Tuttavia, parliamo di «tecnica»   non   tanto   riferendoci   alla   moderna   tecnologia,   che ovviamente   ebbe   un   ruolo   notevole   nel   codice­stile   che   studiamo, quanto soprattutto pensando all’ antica nozione di techne, ossia di un modo di fare con arte che si può apprendere tramite una serie di norme ed esperienze. Intesa in tal modo la «tecnica» dei razionalisti si rivela, nonché più duratura, presentando aspetti e modalità ancor oggi in gran parte   utilizzati,   anche   assai   più   definita   e   formalizzata   di   quelle adottate  dall’Art   Nouveau  e   dal   protorazionalismo,   tanto   da   poter essere quasi identificata col codice stesso del razionalismo. Ora,   pur   essendo   assai   grande   il   debito   di   questo   stile   verso l’avanguardia,  come   abbiamo  visto  in  precedenza,   esso   si  sviluppò con una notevole autonomia, grazie appunto all’elaborazione di una

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«tecnica» che muove dal principio dell’«arte per tutti», si sostiene sul criterio   di   «ridurre»   l’architettura   a   funzionale   «servizio   sociale»   e tende a rendere possibile l’integrazione fra architettura e urbanistica, anzi tra industriai design e urban design, quale tipico fenomeno della realtà   socioeconomica   contemporanea.   Questa   «tecnica»   del razionalismo   si   manifesta   nella   impostazione   e   soluzione   di   alcuni specifici temi. Quello   principale,   dopo   le   grandi   prove   date   dall’architettura dell’ingegneria dell’Ottocento e in vista di una comunità ipotizzata secondo un assetto socialista, nonché le esigenze della realtà sociale post­bellica, riguarda il problema della residenza e di quella popolare in   particolare.   «I   razionalisti   —   scrive   Samonà   —   sentirono l’abitazione   quasi   come   un   simbolo   di   natura   etica,   che   al   tempo stesso li spingeva ad agire con rigore logico. La casa e il quartiere furono al centro dell’esigenza morale, non sempre chiarita, di scoprire; nella   coerenza   fra   funzione   e   forma,   un’armonia   che   operasse dall’interno della cellula in cui l’uomo vive, indicando una strada per il superamento di tutti i contrasti sociali. Questi erano infatti giudicati fenomeni di incoerenza di struttura, riguardanti il trapasso alla forma operativa di espressioni che fino allora si erano impostate senza rigore funzionale»  4 Samonà,  L'urbanistica e l'avvenire della città, Roma­ Bari 1978 op. cit., p. 83. A parte la necessità di verificare fino a che punto e quali architetti razionalisti nutrissero tale atteggiamento, si deve proprio alla fiducia nella «logica» dei loro procedimenti se il loro stile sia diventato il co­ dice   più   diffuso   e   formalizzato   del   nostro   tempo.   D’altra   parte Samonà,   confrontando   il   funzionalismo   degli   architetti   tedeschi rispetto   a   quelli   di   altri   paesi   europei   e   americani,   osserva:«assai diversa era la situazione degli architetti tedeschi, in quella repubblica minacciata   di   morte   [...].   La   logica   ridotta   all'essenziale   dei   loro quartieri,   in   cui   ogni   parte   è   conseguenza   formale   di   un   dato sperimentale riproposto come problema, rivela il dramma interno, e

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costituisce   il   mordente   per   cui   la   Germania   d'allora   influenzò   in maniera così profonda tutta la cultura europea»[Ivi, pp.88­89]. E   veniamo   a   descrivere,   relativamente   all’alloggio   prima   e   alle implicazioni   di   esso   a   livello   urbanistico   poi,   questa   «tecnica»   del razionalismo.   Il   punto   di   partenza,   dando   per   note   le   premesse generali,   l’unità   metodologica   nel   progettare   qualunque   specie   di artefatto,   l’assorbimento   delle   tendenze   figurative   ecc.   è   il dimensionamento della cellula d’abitazione. Il valore di essa non è più commensurato alla superficie dell’alloggio, ma al numero dei letti che esso contiene, dove letto sta per unità di misura di tutte le esigenze abitative (aliquota di spazio del soggiorno­pranzo, della cucina, del bagno)   di   una   persona.   Una   volta   stabilita   questa   aliquota dimensionale si studia una conformazione distributiva che garantisca gli   standard   ottimali   di   soleggiamento,   areazione,   ventilazione   ecc. Tale   distribuzione   dà   luogo   a   diverse   tipologie   edilizie:   le   case   a schiera,  ovvero  cellule  a  uno  o  due   piani  accostate   linearmente  ed aventi i muri laterali in comune; le case a ballatoio, in cui le file di cellule sono disposte su più piani e servite da un ballatoio al quale si accede da una o più scale; le case in linea, ovvero una teoria di cellule dove ogni scala serve due alloggi per piano. Quest’ultimo sarà il tipo più usato perché sebbene meno economico di quello a ballatoio, dato il maggior numero di scale, offre il vantaggio che le cellule hanno due lati opposti compie tamente liberi e orientati, illuminati, ventilati nel modo migliore. Organizzate le cellule in una unità tipologica, la «tec­ nica» razionalista conforma un edificio; più edifici, disposti in modo da  garantire  il   loro   buon  orientamento,   le  distanze   ottimali,   il   loro rapporto con le strade d’accesso e le altre infrastrutture necessarie, formano un quartiere; più quartieri formano la città. Ciò che abbiamo sommariamente descritto rientra in un altro tipico tema del razionalismo, quello dell’Existenz­ minimum, cui dedicarono i loro sforzi migliori i Klein, i May, i Gropius e in genere tutta la generazione dei più validi architetti tedeschi operanti tra le due guerre. Essi   ridussero   in   sostanza   tutte   le   parti   dell’abitazione   a   un

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dimensionamento idoneo alle principali funzioni abitative, ipotizzate uguali per tutti gli uomini, teoricamente prescindendo dalla loro classe sociale,   ma   in   pratica   derivate   dalla   necessità   di   rispondere   nel migliore dei modi alle richieste più pressanti di alloggi popolari. La   suddetta   riduzione,   nonché   utile   alla   scomposizione dell’architettura nelle sue componenti le quali, diversamente associate, davano vita a diverse conformazioni basate appunto su pochi elementi invarianti, servivano anche ad avviare quel processo di unificazione, stardardizzazione,   industrializzazione   edilizia   che   doveva   essere   lo sbocco di tutta la logica della «tecnica» razionalista, ossia quello di essere il massimo risultato sociale con il minimo sforzo economico. Questo   vasto   piano   di   studi   e   ricerche,   la   cui   metodologia definiremmo   oggi   prettamente   strutturalistica   nel   suo   stabilire invarianti,   prevedere   possibilità   combinatorie,   calcolare,   date   le premesse, risultati e costi sia in senso economico che sociale, portò ad un vero e proprio codice progettuale che, come s’è detto, andava dal­ l’elemento   più   piccolo   e   discreto,   l’elemento   d’arredo,   il   letto, all’organizzazione funzionale di un ambiente — la famosa cucina di Francoforte   —,   dalla   cellula   abitativa   al   quartiere.   Ma,   salvo   a riprendere più oltre il discorso sul codice progettuale del razionalismo, mette   conto   a   questo  punto  di   accennare   brevemente   ad   alcune   di queste ricerche. Tra   le   più   emblematiche   è   quella   di   Alexander   Klein   sulla conformazione distributiva degli alloggi minimi. Klein presentò nel 1928, ossia lo stesso anno in cui Gropius abbandonava la direzione del Bauhaus — e la coincidenza non è affatto casuale — i suoi studi al Congresso   internazionale   sulle   abitazioni   e   sui   piani   regolatori   te­ nutosi a Parigi. Tali studi, servendosi di un metodo comparativo tra diverse soluzioni di cellule appartenenti allo stesso tipo, attraverso un dato procedimento, miravano ad individuare la distribuzione e quindi la   conformazione   di   un   alloggio   ottimale,   rispondente   cioè   ai   vari requisiti dell’Exìstenzminimum riscontrabili nel modo più obiettivo. In sintesi,   il   procedimento   si   divideva   in   tre   fasi.   La   prima,   definita

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«metodo   ai   punti»   fissava   un   certo   numero   di   caratteristiche (superficie coperta, cubatura, numero dei locali, numero dei letti, ecc.) di   alcune   cellule   e   un   certo   numero   di   requisiti,   orientamento   dei locali, illuminazione sufficiente, possibilità di dividere le camere dei figli, raggruppamento degli impianti igienici, collegamento dei locali fra   loro,   ecc.)   cui   quelle   cellule   dovevano   rispondere.   La comparazione avveniva fra quattro soluzioni di cellule, due delle quali progettate dallo stesso Klein, il quale assegnava un punto negativo o positivo   a   ciascuna   delle   quattro   cellule   a   seconda   della   loro   cor­ rispondenza   ai   requisiti   richiesti.   Da   preferirsi   alle   altre   era ovviamente   la   cellula   che   totalizzava   il   maggior   numero   di   punti positivi.   A   questa   prima   fase   ne   seguiva   una   seconda,   definita «metodo   degli   incrementi   successivi».   In   essa   le   piante precedentemente   selezionate   venivano   incrementate   in   larghezza   e profondità di una quantità costante via via che aumentava il numero dei letti in modo da poter formare dal loro insieme un abaco, dal quale si ricavava che le più convenienti cellule incrementate erano quelle che si trovavano disposte lungo la diagonale dell’abaco; le piante che capitavano   superiormente   non   erano   economiche,   né   igieniche,   né pratiche;   le   piante   disposte   inferiormente   alla   diagonale   erano igieniche,   ma   non   economiche   per   la   loro   eccessiva   lunghezza. Peraltro   le   cellule   più   convenienti,   corrispondenti   alla   diagonale dell’abaco, sono quelle il cui perimetro s’avvicina alla forma quadrata, ovvero consentono un rapporto d’incremento costante tra la lunghezza e la profondità. La terza fase è detta del « metodo grafico ». Questo è da   ritenersi,   secondo   Klein,   il   più   attendibile   e   rigoroso   poiché   i metodi precedenti sono suscettibili di interpretazioni soggettive. Esso consente numerose analisi riportando sulle quattro soluzioni di pianta comparate nella  prima  fase  il tracciato  dei percorsi,  la forma della superficie   impegnata   dai   passaggi,   lo   spazio   che   rimane   libero dall’ingombro dei mobili, le zone d’ombra portata sul pavimento e sulle pareti dagli elementi d’arredo, ecc. L’insieme di queste analisi, assunti   i   fattori   suddetti   come   parametri,   dovrebbe   consentire   la

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progettazione di cellule della massima funzionalità ed economia. È stato giustamente osservato che «non si può negare oggi la validità degli schemi di Klein o degli studi iconografici dello Stratemann o dei diagrammi   sull’insolazione   del   Kùnster,   per   il   fatto   che   Gropius   o Corbusier o Mies van der Rohe li hanno di fatto bruciati entro il loro linguaggio espressivo. Il fatto che architetti come Gropius o Corbusier o   i   Luckhardt,   o   Mies   van   der   Rohe,   formati   nell’ambiente razionalista,   abbiano   superato   nel   linguaggio   vincoli   metodologici, oltre ad essere del tutto normale è anche prova della validità di una metodologia che offriva concretezza alla ricerca e allo stesso tempo lasciava aperta la possibilità di superarla» 5 G. C. De Carlo, Funzione della   residenza   nella   Città   contemporanea,   in  Questioni   di architettura e di urbanistica, Argalia Editore, Urbino 1965, p. 50. Ma   se   ciò   è   vero   per   qualunque   rapporto   fra   norma   e   deroga   (e peraltro fa bene De Carlo a insistere sul fatto che fu proprio questa concretezza   a   rendere   possibile   la   messa   a   punto   del   supporto oggettivo  che  ha  portato  l’architettura  moderna   fuori  dal  campo  di arbitrio del naturalismo accademico), vale di più quando quella stessa norma   fu   «   impostata»   criticamente   e   quando   essa,   assumendo carattere dialettico, acquistò un più ampio valore di codice. Quanto   all’impostazione   critica   della   norma,   lo   stesso   Gropius precisa:   «il   problema   dell’alloggio   minimo   è   quello   del   minimo elementare   di   spazio,   aria,   luce,   calore   necessari   all’uomo   per   non subire,   nell’alloggio,   impedimenti   al   completo   sviluppo   delle   sue funzioni vitali, e cioè un “minimum vivendi” e non un “modus non moriendi”. Il minimo stesso cambia a seconda delle condizioni locali, da città a campagna, e a seconda del tipo di paesaggio e di clima. Una certa cubatura dell’abitazione ha un significato diverso nella via di una metropoli e nel quartiere periferico, meno densamente popolato 6 W. Gropius, I presupposti sociologici dell'alloggio minimo, in Atti  del II congresso ClAM di Francoforte, in C. Aymonino, L'abitazione  razionale, Marsilio, Padova 1971, p. 108.

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Come si vede, se assumiamo il tema dell’Existenzminimum  come il più emblematico del codice razionalista, questo risulta tutt’altro che rigido,   assai   dissimile   cioè   da   una   serie   di   precetti   fissi   ed indeclinabili. Esso fu un codice proprio nella misura che, pur essendo fondato su logiche e condivise certezze, consentì una vasta gamma di messaggi. Infatti, se prendiamo i quartieri di ampliamento realizzati da Ernst May dal ’25 al ’30 a Francoforte, questi riflettono puntualmente l’unitaria metodologia dall’urbanistica al  design  del razionalismo, le sue implicazioni con le arti figurative, in una parola il suo codice­stile; tuttavia, se poniamo mente all’entità dell’intervento, all’autonomia di ciascun   quartiere   pur   nella   omogeneità   del   piano   e   soprattutto   alla felice   coesistenza   tra   architettura   e   natura   ­—   in   ciò   agendo l’esperienza inglese fatta da May che in precedenza aveva lavorato in Inghilterra con Unwin, uno dei realizzatori della prima città­giardino —   possiamo   affermare   che   la   nuova   Francoforte   si   distingue nettamente   dalle   altre   realizzazioni   architettoniche­urbanistiche   del razionalismo. La variazione dei messaggi nell’unità del codice è dimostrata da altri numerosi   esempi.   Senza   parlare   dei   quartieri   realizzati   da   Taut   a Magdeburgo, da Haesler a Celle, da Martin Wagner a Berlino, nella stessa   urbanistica   di   Gropius,   quel   codice   si   declina   in   diversi messaggi. Nel quartiere Tòrten a Dessau, che presenta in pianta uno schema radiale intorno all’edificio cooperativo, si può dire che è la rete viaria, con.le strade limitate da un doppio nastro di case a schiera, a determinare la conformazione dell’intero complesso. Viceversa, nel quartiere  Dammerstock  presso  Karlsruhe  la   planimetria   generale rappresenta uno dei primi esempi ove si afferma l’indipendenza dello schema viario dalla conformazione e disposizione dei fabbricati. A sua volta questa rigorosa distinzione si allenta nuovamente per produrre una terza condizione nel quartiere Siemensstadt costruito a Berlino nel 1929. Qui per motivi orografici e paesistici, coesistono la tendenza ad allineare gli  edifici  alle strade  (si pensi ai lunghi corpi di fabbrica progettati rispettivamente da Bartning, da Scharoun e da Gropius) e la

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tendenza ad avere i blocchi edilizi indipendenti dalla rete viaria (gli edifici cioè progettati da  Häring,  Forbat,  Henning).  Il confronto fra questo quartiere e quello precedente, per ciò che attiene alla tipologia edilizia   mostra   alcuni   interessanti   aspetti   particolari.   Gli   edifici   di Karlsruhe,  forse   per   compensare   l’astratto   rigore   urbanistico, presentano una volumetria articolata, un alternarsi di volumi pieni agli spazi   svuotati   dei   terrazzini.   A   Berlino   abbiamo   una   situazione inversa: alla più flessibile composizione urbanistica corrisponde una più compatta massa edilizia. Nel lotto progettato da Gropius, che qui come nel  Dammerstock  coordina il lavoro di altri architetti, le parti piene prevalgono sulle vuote, trattate come semplici asole orizzontali. Nonostante   questa   schematicità,   una   lieve   vibrazione   plastica,   data dallo sporgere delle balaustre piene dal filo delle facciate, richiama il tema dell’articolazione volumetrica presente in ogni opera di Gropius. Ritornando al discorso sul codice del razionalismo, non è da credere che questo implicasse necessariamente il legame al sistema cellula ­ unità   tipologica   ­   quartiere.   Anche   coloro   che   non   si   occuparono specificamente   di   urbanistica,   come   Mies   van   der   Rohe   (poiché   la colonia Weissenhof di Stoccarda del ’27 fu un campionario di tipi architettonici  e non un’opera urbanistica) e s’impegnarono solo nel campo dell’architettura e relativamente ad esso realizzarono fabbriche di   varia   tipologia,   cioè   non   necessariamente   legate   al   tema dell’Existenzminimum,  rimasero   tuttavia   legati   alla   «logica»   del razionalismo, alla sua techne, al suo gusto. Persino coloro che, come Mendelsohn (con opere quali la fabbrica Steinberg a Luckenwalde del ’21, l’edificio del «Berliner Tageblatt» del ’23, i magazzini Schocken a Stoccarda del ’26 e quelli a Chemnitz del ’28, il cinema Capitol a Berlino   dello   stesso   anno,   il   Columbushaus   del   ’31,   ecc.)   o   come Scharoun,   che   menzioniamo   per   le   sue   opere   più   recenti, rappresentarono una sorta di opposizioni al razionalismo e una forma di continuazione dell’architettura espressionistica; in realtà si mossero nella linea dell’architettura razionale, comunque sempre in rapporto al suo   codice,   anzi   arricchendolo   di   valenze   lessicali,   si   pensi

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all’insistenza sulle linee orizzontali, alle finestre a nastro, ai terminali curvilinei, ecc. Abbiamo finora parlato del razionalismo tedesco e considerando le particolari   circostanze   storico­politiche   della   Germania   fra   le   due guerre, nonché il fatto che fino ad oggi è stata l’esperienza tedesca a far   testo   per   la   successiva   produzione   architettonica   internazionale, dovremmo dedurre che essa incarni tutte le invarianti del codice ra­ zionalista,   rispetto   al   quale   la   produzione   di   altri   paesi,   sia   pure esteticamente e culturalmente qualificata, apparterrebbe all’ordine dei messaggi. Se seguissimo questa classificazione, del tutto legittima per altre tendenze, commetteremmo lo stesso errore di tanti testi di storia condotte per monografie di singoli autori, con l’unica variante di porre al posto dei maestri questa o quella produzione nazionale, il che  è contro   la   natura   stessa   del   razionalismo   che   non   fu   un   fenomeno esclusivamente   tedesco,   ma   uno   stile   internazionale   sin   dalla   sua originaria   concezione.   In   esso   confluirono   vari   apporti,   talvolta individuali, come nel caso di Wright e di Le Corbusier sia pure con diversa   misura   ed   accenti,   talaltra   collettivi,   come   è   il   caso   della produzione   olandese.   Cosicché,   trattando   dell’opera   di   Wright   in un’altra parte di questo studio, il nostro programma di descrivere il codice del razionalismo deve ora rivolgersi all’esame dell’apporto di Le Corbusier e dell’esperienza olandese. EMMA Il contributo di Le Corbusier Indubbiamente   la   forte   personalità   creativa   di   Charles­Edouard Jeanneret detto Le Corbusier (1887­1965) indurrebbe a tracciarne la storia secondo  il  metodo dei profili monografici individuali. Ma, a parte la nostra diversa prospettiva, cioè quella di periodizzare la storia dell’architettura contemporanea attraverso una serie di codici­  stile, riteniamo che la stessa vicenda corbusiana, nonostante tutto, si spieghi meglio se riferita ad un certo numero di parametri, se, per così dire, viene strutturata diversamente dalla biografia. Cosicché, premesso che si vuole soprattutto studiare il contributo che Le Corbusier diede al

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razionalismo, riferiremo la sua attività teorica ed operativa ad alcuni temi invarianti in tutta la storia del Movimento Moderno, almeno nel periodo   fra   le   due   guerre,   salvo   a   riprendere   il   discorso   su   di   lui quando   tratteremo   degli   sviluppi   più   recenti   dell’architettura contemporanea. Il   primo   tema­parametro,   prioritario   anche   in   senso   cronologico,   è quello del rapporto di Le Corbusier con l’avanguardia, sia figurativa, sia specificamente architettonica. Dopo un periodo di apprendistato e di contatti con Hoffmann a Vienna, Garnier a Lione, Perret a Parigi e Behrens   a   Berlino,   ossia   dopo   un’esperienza   protorazionalista,   Le Corbusier esordisce come pittore e teorico dell’avanguardia. Abbiamo già parlato nel capitolo dedicato a questo tema della fondazione del purismo   e   della   pubblicazione   nel   1918   di  Après   le   Cubisme.  In particolare, abbiamo sottolineato il fatto che le opere pittoriche di quel periodo, alle quali peraltro il Nostro rimarrà sempre fedele, mediarono il passaggio tra il cubismo ed il suo stile architettonico, al punto che alcuni suoi quadri sono morfologicamente assai simili ad alcune sue piante architettoniche, come abbiamo avuto conferma dallo stesso au­ tore   .   Egli   sottoscrive   l’assunto   di   Juan   Gris   della   composizione pittorica quale architecture plate e colorée e al tempo stesso in Vers une architecture, pubblicato nel ’23 ma scritto tra il ’20 e il ’21, dopo aver affermato che «oggi la pittura ha preceduto le altre arti», egli scrive: «Il volume e la superfìcie sono gli elementi attraverso i quali si manifesta l’architettura. Il volume e la superficie sono determinati dal piano. Il piano è il generatore» 7Le Corbusier, Vers une architecture, Fréal & C., Paris1958, p. 35. Non vogliamo sottolineare che la parola ‘plan’ in francese sta tanto per   «piano»   che   per   «pianta»,   né   sostenere   che   in   quanto   piano (colorato) un quadro sia in definitiva il generatore delle superfici e dei volumi   architettonici,   ma   è   indubbio   che   la   pianta   assume   nel linguaggio di Le Corbusier un valore e un significato particolare: i caratteri emergenti di alcune piante sono costantemente riferibili alla pittura   purista,   a   sua   volta   interpretabile   come   una   potenziale

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architettura.   Ed   infatti   l’esperienza   pittorica   è   una   delle   famiglie morfologiche di cui si compone lo stile del Nostro, quella cioè delle forme cosiddette libere; l’altra, per così dire, «cartesiana» è legata ai motivi funzionali, ai tracciati regolatori, al modulor di cui diremo più avanti. Questa della doppia famiglia morfologica peraltro ci sembra la chiave più idonea a penetrare il linguaggio corbusiano. Ma parlare d’una matrice pittorica non vuol dire esaurire il rapporto di Le Corbusier con l’avanguardia. Certo, il purismo fu un movimento  d’avanguardia, ma non lo fu tanto per la sua valenza linguistica quanto perché venne associato all’Esprit machiniste. Contemporanea, infatti,  all’esperienza purista è la fondazione della rivista 1’«Esprit  Nouveau», il cui primo numero inizia affermando: « Una grande  epoca è cominciata, animata da uno spirito nuovo: uno spirito di  costruzione e di sintesi, condotto da una concezione chiara ». Questa  dichiarazione che l'architetto svizzero riprenderà più volte come  motivo ricorrente ci consente di conoscere appunto uno dei principali  modi di avvicinamento di lui al più generale tema dell'avanguardia.  Come è stato osservato, il carattere partigiano e sovversivo di questa  «non ignora il momento demagogico: donde la tendenza all’auto­ réclame, alla propaganda e al proselitismo. Dalla stessa radice  proviene quella pressione morale ch’essa riesce ad esercitare su gruppi e individui»8Poggioli, op. cit. pp. 49­50. Le Corbusier manifesta più di ogni altro in campo archi­ tettonico tale atteggiamento,   ma   proprio   in   questo,   che   è   tra   i   più   tipici   aspetti dell'avanguardia,   egli   si   distingue   nettamente   dagli   altri   teorici   e artisti­scrittori   contemporanei.   In   lui   molte   connotazioni avanguardistiche,   l’antipassatismo,   l’agonismo,   il   meccanicismo, soprattutto un avvertito « spirito del tempo », ecc. non sono mai fine a se   stesse,   non   sono   mai   pura   contestazione,   inconsolabile   sfiducia, scettica negazione, sottile ironia, ecc., ovvero atteggiamenti « negativi »,   bensì   previsioni   degli   sviluppi   di   movimenti   in   atto,   proposte risolutive di problemi che egli chiama ottimisticamente « soluzioni », richiamo   all’intelligenza   delle   situazioni,   illuministica   fiducia   che

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tutto dipende da una razionale e corretta impostazione dei problemi, che   l’architettura   sia   in   grado   da   sola   di   correggere   molte contraddizioni   della   società;   in   una   parola   l’avanguardia   di   Le Corbusier nasce ed è permeata da un atteggiamento « positivo ». Si aggiunga   che,   a   differenza   dell’ermetismo   di   tante   correnti avanguardistiche,   egli   vuole   ad   ogni   costo   la   comunicazione intersoggettiva, non solo al livello di élite ma di massa. Su tale aspetto torneremo   più  avanti;   qui,  a   conclusione   dell’avanguardismo   di   Le Corbusier   e   in   particolare   del   suo   interesse   per   la   comunicazione, notiamo   come   la   sua   pittura,   pur   riflettendo   una   concezione radicalmente nuova, conservi un notevole grado di referenzialità; il suo purismo resta sempre legato a decodificabili motivi figurativi, non diventa mai pittura  astratta, avendone peraltro tutti i presupposti, per essere accessibile al maggior numero di persone, allo stesso modo che i   suoi   schemi   teorici,   i   suoi   efficaci   slogans,   i   suoi   argomenti ricorrenti, per non alienarsi il favore del pubblico rischiano di essere semplicistici pur di essere semplici. Il   secondo   tema­parametro   per   studiare   l’apporto   corbusiano   al razionalismo è quello dell’alloggio minimo. Le premesse sociologiche (non   quelle   politiche)   sono   le   stesse   dei   razionalisti   tedeschi,   ma nell’architetto svizzero assumono una più netta accentuazione e un più deciso riferimento ad un fenomeno già largamente diffuso nella pro­ duzione industriale, lo standard. Altri prima di lui avevano trattato questo   tema:   il   problema   della   standardizzazione   era   già   stato affrontato   dal  Werkbund  e   dal   protorazionalismo,   come   pure   dai tecnici di oltre atlantico, gli uni nella linea di sviluppo che dalle arti applicate portava all’architettura, gli altri come questione meramente pragmatico­ingegneresca. Le Corbusier sembra estraneo sia alla prima che   alla   seconda   via.   Quella   dell’industrializzazione   e   dei   suoi procedimenti è per lui una realtà di fatto, sorta indipendentemente dal travagliato   dibattito   interno   alla   cultura   architettonica   che   va   da Morris a Gropius come pure dalle soluzioni puramente tecnicistiche americane; essa è semmai una sintesi di entrambe, ma di fatto è frutto

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di un sincretico Esprit Nouveau, cui l’architettura deve uniformarsi e trarre ispirazione, diventando, per dirla con Calvino (che si riferisce a tutta   la   linea   razionalista   dell’avanguardia   ma   che   si   adatta   par­ ticolarmente a Le Corbusier) « una mimesi formale­concettuale della realtà industriale»  9 Calvino, La sfida al labirinto, « Il menabò », a. 1962,   n.   5..   Ritornando   al   concetto   di   standard,   questo   risponde   a motivi   di   efficienza,   di   precisione,   d’ordine   e   quindi   di   bellezza: «L’architettura agisce sugli standard. Gli standard sono cose di logica, di   analisi,   di   studio   scrupoloso.   Gli   standard   si   stabiliscono   su   un problema   ben   posto.   L’architettura   è   immagine   plastica,   è speculazione   intellettuale,   e   matematica   superiore.   L’architettura   è un’arte assai degna. Lo standard, imposto dalla legge di relazione, è una   necessità   economica   e   sociale.   L’armonia   è   uno   stato   di concordanza con le norme  del nostro universo. La bellezza domina; essa è di pura creazione umana; essa è il superfluo necessario a coloro che   hanno   un’anima   elevata.   Ma   bisogna   prima   tendere   allo stabilimento di standard per affrontare il problema della perfezione» 10 Le Corbusier, op. cit., p. 115. .   Pur   dall’incertezza   di   tale   sincretismo   emergono   chiaramente   i modelli cui l’architettura deve rifarsi. Le Corbusier illustra le pagine dove svolge tali considerazioni sia con le immagini del Partenone, che garantisce l’antichità dei princìpi di misura, ordine e bellezza, sia con quelle di transatlantici, di aerei Caproni e Blériot, di automobili FIAT e  Citroën,  che   mostrano   la   incarnazione   più   moderna   dei   princìpi suddetti: misura, efficienza e bellezza del nostro tempo. L’architettura della casa minima di Le Corbusier pertanto non si rifa alle   tradizioni   nazionali,   né   ai   modelli   più   recenti   proposti   dagli inglesi   e   diffusi   sul   continente   da   Muthesius,   ma   direttamente   alla realtà industriale, sorge in perfetta sincronia con essa, è appunto la sua mimesi   formale­concettuale.   Così,   parlando   di   una   delle   sue   prime proposte di casa minima, risalente al 1920, egli scrive: «Casa in serie “Citrohan” (per non dire  Citroën).  Altrimenti detto, una casa come un’auto, concepita e sistemata come un autobus o una cabina di nave.

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Le   necessità   attuali   dell’abitazione   possono   essere   precisate   ed esigono una soluzione. Bisogna agire contro l’antica casa che usava male   lo   spazio.   Bisogna   (necessità   attuale:   prezzo   di   costo) considerare la casa come una macchina per abitare o come un oggetto utile»  12   Le   Corbusier,   La   parcellizzazione   del   suolo   urbano (intervento al Ill congresso CLAM, Bruxelles 1930), in Aynionino, L'abitazione razionale, cit., pp. 194­5. Ora, se è vero che l’alloggio minimo proposto da Le Corbusier sembra nascere   non   da   una   tradizionale   evoluzione   di   tipi   edilizi,   bensì direttamente   dal   mondo   della   macchina,   esso   comporta   di conseguenza altre implicazioni rispetto agli analoghi schemi elaborati dai razionalisti tedeschi  o olandesi. Certo,  è assai più realistica, ad esempio, la cellula di Klein, variamente coniugata fino ai nostri giorni, ma essa non potrà che dar luogo ad edifici in linea, non potrà dar luogo che ad un’urbanistica di quartiere o comunque legata ad una dimensione tradizionale. Viceversa, la casa Citrohan di Le Corbusier — una cellula stretta, sviluppata in profondità fra due muri ciechi, to­ talmente aperta sui lati brevi e avente all’interno la capacità di due piani affacciantisi l’uno sull’altro — viene utilizzata in cento modi e trova   la   sua   più   ampia   giustificazione   proprio   in   una   più   varia prospettiva   urbanistica,   anzi   in   una   nuova   dimensione   urbanistica. Variando   e   perfezionando   questo   iniziale   prototipo,   l’architetto   lo utilizza   come   alloggio   isolato   (1920),   come   cellula   dell'immeuble­ villa progettato nel ’22 (una unità residenziale a blocco con un grande spazio rettangolare al centro, con 120 alloggi serviti da un ballatoio ad ogni piano, ispirata alla certosa di Ema in Toscana), come padiglione dell’« Esprit Nouveau » all’Esposizione internazionale delle arti de­ corative di Parigi nel 1925, in numerosi altri complessi facenti parte di piani   urbanistici,   come   quello   d’Algeri   (1930),   dove   le   cellule suddette colmano i vuoti della grande struttura che sostiene un lungo viadotto, fino alla loro più esauriente versione nell'Unité d’habitation di Marsiglia (1945­52) e nelle successive edizioni di Nantes, Berlino, Briey­la­forèt.

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Prima   che   il   tema   della  maison   minimum  s’incarni   nella   suddetta prospettiva urbanistica e che questa disciplina diventi il suo interesse costante,   Le   Corbusier   concretamente   realizza   alcune   case unifamiliari, la villa a Vaucresson del ’22, la casa del pittore Ozenfant nello   stesso   anno,   la   casa   La   Roche­Jeanneret   del   ’23,   la   casa Lipchitz­Miestcharninoff a Boulogne­sur­Seine nel ’24, per citare le più note; nel ’26 egli formula i famosi «cinque punti di una nuova architettura».   Questi,   se   costituiscono   indubbiamente   un   apporto affatto   originale   del   Nostro,   riflettono   tuttavia   l’esigenza,   presente nell’intera   vicenda   dell’architettura   contemporanea,   di   codificare   il proprio   linguaggio.   Essi   pertanto   costituiscono,   per   così   dire,   un sottocodice,   ma   di   tale   portata   ed   influenza   da   diventare   parte integrale di tutto lo stile razionalista. I cinque punti sono: i «pilotis», il tetto­giardino, la pianta libera, la finestra   in   lunghezza,   la   facciata   libera.   Essi   sono   consentiti   dalla moderna   tecnologia   e   in   particolare   dall’uso   del   cemento   armato. Grazie a questo, infatti, è possibile sostenere una costruzione su esili pilastri, realizzare un tetto piano tanto forte da sopportare il peso della neve, avere una pianta sgombra da massicci sostegni, aprire finestre della   lunghezza   voluta,   poiché   le   pareti   di   facciata   non   sono   più portanti ma portate e portate a sbalzo dai solai; quest’ultimo principio costruttivo consente di avere una facciata libera da sostegni verticali. Ma,   una   volta   affrancata   da   tali   vincoli,   la   costruzione   perderebbe anche   con   essi   alcune   sue   caratteristiche   figurative   se   non intervenissero fattori  di  una nuova  figurazione.  Questi sono,  per  le piante,   il   libero   gioco   dei   tramezzi,   disposti   sì   secondo   necessità funzionali, ma anche seguendo le libere forme del gusto purista; lo stesso dicasi per i tetti­giardino dove le tradizionali falde o le nude terrazze vengono sostituite o «arredate» da scultorei camini, solarium, ovvero passaggi che Le Corbusier chiama promenade architecturale. Quanto   ai   «pilotis»,   essi   non   equivalgono   a   semplici   pilastri   che sostengono   l'edificio,   ma   sono   a   tal   punto   distanziati,   talvolta plasticamente modellati e così ridotti di dimensione nei confronti del

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resto della costruzione da dimostrare la volontà da parte del progettista del  loro annullamento,  tanto  che sotto  la  casa  il  giardino  prosegue ininterrotto, così come in una diversa scala sarà libero e transitabile lo spazio urbanistico sottostante i grandi complessi edilizi. I più originali dei cinque punti, nel senso che la loro adozione comporta un rinnovato impegno   figurativo,   sono   la   finestra   in   lunghezza   (già   apparsa   per l’esattezza in edifici di gusto espressionista) e la facciata libera, la cui composizione deve aver contribuito alla ricerca dei tracciati regolatori e della nuova scala dimensionale antropometrica, il modulor, elaborata da   Le   Corbusier   intorno   al   ’40   in   sostituzione   di   quella   metrico decimale.   Cosicché,   l’apporto   del   Nostro   al   linguaggio   razionalista non sta tanto nell’aver  scoperto alcune proprietà formali consentite dalla moderna tecnologia (anche Gropius, e molti anni prima, aveva realizzato facciate libere e angoli svuotati, si pensi alle officine Fagus del 1911 e al palazzo degli uffici della fabbrica modello costruita per l’esposizione   del  Werkbund  a   Colonia   nel   ’14)   quanto   nell’aver codificato cinque punti cui corrispondono altrettante possibilità di una nuova figurazione architettonica. Essi trovano una fedele applicazione nella casa  Stein a Garches  del ’27, nella villa Savoye  del ’29, nel Padiglione   svizzero   alla   città   universitaria   del   ’30,   nell’Unité d’habitation, per citare sempre gli esempi più famosi. Il tema­parametro dell’urbanistica è quello cui tende tutta la «ricerca paziente»   di   Le   Corbusier   ed   il   settore   in   cui   egli   si   distacca maggiormente   dai   suoi   contemporanei.   La   dimensione   della   sua urbanistica  non  è  quella del  quartiere  come  presso  i tedeschi  e gli olandesi; il complesso di alloggi economici realizzato tra il 1925 e il ’28   a   Pessac,   pur   basato   sulla   standardizzazione,   prefabbricazione, unificazione degli elementi, si risolve, sebbene per motivi esterni alla capacità   e   volontà   dell’architetto,   in   un   fallimento.   D’altra   parte, quando   realizza   delle   grandi   unità   tipologiche   (un   insieme   cioè   di cellule   organizzate   in   un   edificio   di   notevole   capacità   ricettiva   e munito   di   servizi   collettivi)   queste   hanno   una   dimensione   così notevole, richiedono un tale impegno economico ed amministrativo da

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rimanere isolate, cioè prive dell’originario contesto per il quale furono concepite,   valga   per   tutti   il   caso   della   fab­   bica   di   Marsiglia. Un’urbanistica dunque destinata, almeno per molto tempo, a rimanere sulla carta; la «città contemporanea di tre milioni di abitanti» del ’22, il «Piano Voisin» di Parigi del ’25, la Ville Radieuse del ’30 (che costituisce il modello teorico forse più ricco e completo, riproposto in un   gran   numero   di   piani   particolari),   gli   insediamenti   composti   da grandi unità di abitazioni sono tutti programmi rimasti allo stato di progetto, come pure i piani elaborati o soltanto abbozzati di Ginevra, Anversa,   Marsiglia,   Parigi,   Algeri,   Buenos   Aires,   Rio   de   Janeiro, Bogotá ecc. Ciononostante quella di Le Corbusier rimane l’urbanistica più significativa e aderente alla contemporanea civiltà industriale di massa. Da essa derivano un enorme patrimonio di idee e realizzazioni o immagini architettoniche in scala urbana o paesistica, vale a dire grandi   architetture   che   contrassegnano   e   rimandano   sempre   al   più vasto disegno urbanistico elaborato dal Nostro Quanto alle idee, Le Corbusier opta decisamente, nell’alternativa fra città­giardino e grande metropoli, per la seconda soluzione. La città contemporanea,   grazie   ad   una   serie   di   conquiste   della   cultura moderna, potrà risolvere quei problemi che alla fine dell’Ottocento portarono a concepire la disurbanizzazione. Essa potrà elevare la sua densità,   realizzare   una   maggiore   concentrazione   e   al   tempo   stesso raggiungere quei vantaggi di una vita salubre e libera individualmente che   la   città­giardino   promette   a   scapito   di   tutti   gli   altri   vantaggi derivanti   dal   vivere   in   grandi   comunità   urbane.   In   pratica,   Le Corbusier suggerisce di allontanare gli edifici dalla strada che negli impianti tradizionali funziona come un « corridoio »; di distanziare tra loro questi stessi edifici, alti il più possibile, compensando appunto questo sviluppo in verticale con ampie zone di verde; di semplificare al   massimo   la   rete   viaria   differenziandone   tuttavia   le   funzioni;   di ricavare all’interno stesso dei grandi immobili residenziali delle strade che   consentano   tanto   un  alleggerimento  del   traffico  esterno  quanto una maggiore autonomia per ciascuno di tali immobili attrezzati con

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servizi collettivi, asili, ambienti per lo sport, il tempo libero ecc; di distanziare le zone industriali e i centri direzionali, ancora con ampie zone   verdi,   dalle   aree   residenziali,   con   le   quali   comunque   devono essere strettamente collegate per non disperdere tempo, energie, per non creare moti pendolari. Tutto ciò viene giustificato col fatto che la libertà   individuale   si   realizza   solo   nella   grande   organizzazione collettiva.   Viceversa   la   città­giardino   non   porta   a   tale   libertà   ma all’individualismo «a un individualismo che è in realtà, schiavitù; che è isolamento sterile dell’individuo; porta alla distruzione dello spirito sociale, delle forze collettive; conduce all’annientamento della volontà collettiva;   in   concreto,   si   oppone   all’applicazione   delle   conquiste scientifiche,   quindi   al   confort,   al   guadagno   di   tempo,   quindi   alla libertà» 13. Si potranno condividere o meno queste tesi, resta tuttavia indubbio che i «pezzi» del più grande mosaico urbanistico facente capo ad esse, ovvero i grattacieli cruciformi o ad Y, gli edifici a piegature ricorrenti, i redents, gli immeuble­villas, le unités d’habitation rimangono, come s’è detto, le più significative proposte d’architettura a scala urbana sorte   nell’ambito   del   codice   razionalista   e   dell’intero   Movimento Moderno. Non solo, ma una volta conformate, tutte queste fabbriche e «soluzioni»,   per   il   loro   carattere   logico   e   classicistico,   possono tradursi in norme, in fattori comunicabili e trasmissibili, donde la loro attualità e la loro forza di reggere il confronto con le più recenti ed avanzate proposte, la gran parte delle quali peraltro sono derivate dalla lezione corbusiana. Un altro tema­parametro per cogliere il contributo di Le Corbusier alla cultura   del   razionalismo   può   considerarsi   quello,   cui   abbiamo   già accennato,  della divulgazione teorica, dei rapporti col pubblico. La gran   parte   dei   maestri   della   sua   generazione   scrisse   libri,   pubblicò riviste, allestì mostre, costruì quartieri sperimentali, tentò rapporti con l’amministrazione politica, in una parola ebbe l’ansia di tradurre al più presto le sue teorie in pratica forse avvertendo quanto di lì a poco si sarebbe abbattuto sull’Europa. Le Corbusier è tra i più impegnati in tal

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senso,   ma   ciò   che   lo   distingue   dagli   altri   sta   nella   universalità, obiettività e semplicità dei suoi punti di riferimento; se ne possono ricordare moltissimi. In difesa dello standard e in generale della linea livellatrice del razionalismo scrive in Vers une architecture: «tutti gli uomini hanno un medesimo organismo, medesime funzioni. Tutti gli uomini hanno medesimi bisogni». Nella  Carta d’Atene  (che, redatta da   lui,   esprime   i   risultati   del   Congresso   CIAM   del   ’33   e   può considerarsi un vero e proprio codice degli orientamenti architettonici e   urbanistici   del   razionalismo)   ribadiva   le   quattro   funzioni dell’urbanistica   basate   su   altrettante   obiettive   esigenze:   abitare, lavorare, circolare, coltivarsi. Ancora più scarno è il motivo ch’egli adduce contro gli spostamenti che la concezione del decentramento inevitabilmente impone: «il ciclo solare è breve, le sue ventiquattr’ore governano   fatalmente   le   attività   dell’uomo,   stabilendo   il   limite   dei suoi spostamenti». Ridotti ed esemplificati i problemi nei loro termini estremi, egli trovò i modi   più   adatti   alla   loro   diffusione,   intuì   l’enorme   forza   di penetrazione degli slogans e della loro visualizzazione presso l’uomo della   strada   e   gli   amministratori.   Una   delle   sue   più   tipiche proposizioni, «occorre ad ogni costo una linea di condotta che non sia né troppo, né troppo poco elaborata perché essa è necessaria e deve essere   sufficiente»   ci   sembra   riassumere   alcune   fra   le   principali istanze dell’odierna civiltà di massa: una indicazione «politica», una necessità «riduttiva », una indilazionabile urgenza. FIN QUI IL 29 LUGLIO L’apporto olandese In   Olanda,   si   può   dire,   che   esista  in   nuce  l’intera   esperienza dell’architettura   moderna,   dall’eclettismo   storicistico   (Cuypers, Berlage) alla più diretta influenza wrightiana, dall'Art Nouveau  (De Bazel  e segnatamente  la matrice  geometrica  di questa tendenza)  al protorazionalismo che, unitamente alla tradizione fantastica, al gusto «900» e all’espressionismo confluirono in quel vitalissimo coacervo

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della   scuola   di   Amsterdam   o   «Wendingen»,   da  De   Stijl  al razionalismo. Inoltre in nessun altro paese esiste una tradizione così predisposta al Movimento Moderno, nessun ambiente così interessato al   suo   sviluppo,   nessuna   legislazione   e   politica   urbanistica   così favorevoli alla sua attuazione. Qui non ci occuperemo dell’intera si gnifìcativa   vicenda   architettonica   del   paese,   ma   cercheremo   di cogliere   l’apporto   ch’essa   diede   al   codice­stile   razionalista.   D’altra parte,   poiché   tutti   i   momenti   della   cultura   architettonica   olandese contemporanea sono fra loro interagenti e correlati non potremo non accennarvi; si tratterà di volta in volta di specificare ciò che rimane fenomeno locale,  anche  se  di  elevato  interesse  e  valore  arti­   stico­ culturale,   e   ciò   che   si   lega   o   addirittura   anticipa   l’internazionale linguaggio del razionalismo. Comunque due fenomeni vanno premessi ad ogni altra considerazione: la condizione geografico­urbanistica del paese da un lato e l’influenza dell’opera di Wright dall’altro. Quanto alla prima, com’è noto, l’Olanda occupa una regione piana, in gran parte sotto il livello del mare, dal quale  è difesa da numerose dighe   e   canali;   cosicché   l’organizzazione   del   territorio,   l’economia dello  spazio,   lo   sfruttamento  razionale   delle   aree   e   dell’edilizia   ivi realizzata sono problemi esistenti da tempo nel paese e la mancata o scarsa   discontinuità   fra   antico   e   nuovo   in   campo   urbanistico   ed architettonico si  deve alla costante scala del fabbricato, alla ridotta dimensione degli alloggi, alla unificazione degli elementi costruttivi, che   anticipano   di   qualche   decennio   i   temi   dell’Existenzminimum  e degli standards razionalisti. Quanto   all’influenza   di   Wright   in   Olanda,   questa   si   fa   risalire all’esperienza diretta fatta negli Stati Uniti da architetti quali Berlage e Van’t Hoff, nonché alla grande mostra del maestro americano svoltasi a Berlino nel 1910 e alla relativa pubblicazione di Wasmuth; ma se quest’ul­ timi episodi riguardano l'influsso wrightiano in tutta Europa, vi sono in Olanda numerose ragioni perché questo attecchisse in modo particolare.   Tra   queste   sono   state   opportunamente   notate   la convergenza ideologico­architet­ tonica fra Wright e Berlage ed il loro

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comune interesse per Viollet­le­Duc ed il medioevo; la componente fantastica   ed   espressionistica   della   scuola   di   Amsterdam   coniugata anche   in   termini   wrightiani;   l’influenza   estremorien­   tale   presente tanto   nell’opera   del   maestro   americano   quanto,   per   autonoma   via, nell’evoluzione del gusto olandese; l’interesse sia di Wright che degli architetti olandesi per le nuove tecniche costruttive accanto a quello per i materiali tradizionali; una comune matrice morfologica derivata dalla   geometria   elementare;   una   medesima   attenzione   rivolta   alla continuità   degli   spazi   interni   dell’architettura,   ecc.1313   Cfr.   G. Fanelli,  Architettura moderna in Olanda, Marchi & Bertolli, Firenze 1968, pp. 36­7. A queste ragioni va aggiunto il fatto che in  De Stijl,  vale a dire il punto   nodale   e   più   autonomo   di   tutta   l’esperienza   olandese, confluirono sia il gusto di Mackintosh sia quello di Wright, entrambi esponenti di quella tendenza geometrica o dell’«astrazione» dell’Art Nouveau.  Ancora,   quale   tratto   comune   tra   l’opera   dell’architetto americano e la produzione olandese nel suo complesso va detto che entrambe   non   si   fondano   su   un   unico   momento   linguistico,   ma presentano fasi discontinue formalmente e tuttavia unitarie nella loro più generale significazione. In altre parole, come non esiste soluzione di continuità tra le opere di Wright dei suoi diversi periodi malgrado le differenze di modi e di accenti, così tra la lezione di Berlage, la scuola di Amsterdam, De Stijl e il razionalismo olandese vi è una ininterrotta storicità, tanto che ognuno di tali momenti del gusto non si spiega senza il precedente. In particolare, entrando nel vivo del nostro argomento cioè quello di cogliere   il   contributo   olandese   al   razionalismo,   notiamo   che   in moltissime   opere   della   scuola   di   Amsterdam,   quali   il   singolare quartiere Spangen, realizzato a Rotterdam da Michiel Brinkman tra il 1919 ed il ’21 o i complessi edilizi che M. De Klerk e J. F. Staal co­ struirono   intorno   al   ’20   nel   distretto   di   Amsterdam   Sud,   ideato   da Berlage sin dal 1902, esiste l’adozione di una tipologia edilizia e di criteri   distributivi   assai   simili   a   quelli   di   Klein   e   dei   razionalisti

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tedeschi   adottati   circa   un   decennio   più   tardi.   Questi,   unitamente   a numerosi   altri   aspetti,   quali   l’urbanistica   a   scala   di   quartiere,   la tematica dell’edilizia popolare, le felici sistemazioni esterne e la cura per   l’arredo   urbano,   ci   inducono   a   considerare   la   produzione   della scuola di Amsterdam, tra l’altro, come una sorta di protorazionalismo. Questo però, dal punto di vista linguistico, non si arenerà nelle secche di una riduzione classicistica, ma continuerà rigoglioso a coesistere e più tardi a fondersi  con gli accenti neoplastici, nonostante l’accesa polemica delle riviste dei due gruppi, rispettivamente «Wendingen» e «De   Stijl».   Pertanto,   mentre   in   Austria,   Francia   e   Germania l’avanguardia   figurativa   che   fece   seguito   al   cubismo   venne   ad alimentare   un’architettura   protorazionalista   ricca   nei   contenuti   ma povera   nelle   forme,   in   Olanda   trovò   in   atto   un   movimento,   quello della   scuola   di   Amsterdam,   assai   vitale   in   ogni   senso,   tanto   da influenzare gli stessi architetti neoplastici. In sostanza, per la presenza e la coesistenza dell’influsso di Wright, della lezione urbanistica di Berlage (è a lui che si deve il concetto di «isolato»,   che   fino   agli   anni   ’30   presiederà   i   concreti   interventi urbanistici   promossi   dalla   esemplare   legge   del   1901[14  14   Questa prescrive che ogni città con più di 10.000 abitanti è tenuta a redigere un piano generale di ampliamento; introduce la distinzione tra piano regolatore generale e piano di dettaglio; quest'ultimo regola l'esproprio delle   aree   e   la   realizzazione   di   qualsiasi   costruzione.   Le amministrazioni locali ricevono prestiti con interesse a carico dello Stato per il costo dei terreni e delle costruzioni; esse hanno facoltà di concedere suoli e sovvenzioni agli enti costruttori di case popolari; ogni procedura di esproprio viene regolata e facilitata. ,   grazie   ad   un   protorazionalismo   anticlassicistico,   nonché   ricco   di valenze lessicali e soprattutto all’opera di De Stijl si ebbe in Olanda e negli   anni   fra   le   due   guerre   una   produzione   tra   le   più   ricche   e significative, che possiamo dividere in tre correnti.

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La prima, più eclettica ma più tipica della vicenda nazionale, è quella che fonde i contributi di  Wendingen  e di  De Stijl.  Il suo maggiore esponente è Willem Marinus Dudok, autore del piano regolatore di Hilversum del ’21, di numerosi quartieri popolari, di esemplari edifici scolastici e del Municipio della stessa città, che rimane il capolavoro dell’architetto e tra le opere più  significative tra quelle prodotte in Olanda.   Dudok   è,   a   nostro   avviso,   la   figura   artisticamente   più emergente   dell’ambiente   olandese   e   la   sua   opera   rimane   di   vivo interesse anche dopo la crisi del razionalismo, del quale egli non fu mai esponente, il che, a rigor di termini, estranea il suo contributo dall’argomento del presente paragrafo. La seconda corrente è quella legata  nel  modo  più  ortodosso   a  De  Stijl.  Ne  incarnano  gli  aspetti architettonici Gerrit Thomas Rietveld, autore di una serie di mobili, di alcuni   negozi,   della   famosa   casa   Schroeder   del   1924,   delle   case   a schiera sulla Eras­ muslaan (1930) e sulla Schumannstraat (1934) a Utrecht; Robert Van’t Hoff, autore delle wrightiane case costruite a Huis ter Heide, rispettivamente del 1914 e del 1916; lo stesso Van Doesburg,   l’uomo   di   punta   dell’avanguardia   olandese,   nelle   sue sperimentazioni   architettoniche,   alcune   delle   quali   condotte   in collaborazione con Cor Van Eeste­ ren, che sarà l’autore del Piano regolatore   generale   di   Amsterdam   del   ’34,   considerato   il   più emblematico dell’urbanistica del razionalismo. Ancora nell’ambito di De Stijl va registrato l’esordio di Jacobus Johannes Pieter Oud (1890­ 1963). La sua opera in rapporto al neopla­ sticismo, del quale fu uno dei fondatori nel 1917, si limita a qualche progetto: le case a schiera sul lungomare di Scheveningen, la fabbrica con uffici a Purmerend (1919); a qualche costruzione provvisoria come quella per i cantieri dell’«Oud Mathenesse» (1923); a qualche arredamento, come il caffè «De Unie » a Rotterdam (1925) La   produzione   urbanistica   ed   architettonica   vera   e   propria   di   Oud appartiene   alla   terza   corrente   deH’architettura   olandese,   quella   del razionalismo; anzi si può dire che egli sia stato il primo importante

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architetto olandese ad aderire a questo stile internazionale, donde il maggior peso che acquista la sua figura nell’ambito del nostro studio. Nominato   nel   1918   architetto   capo   della   città   di   Rotterdam,   Oud progetta nello stesso anno un gruppo di casé popolari nel quartiere Spangen e nel ’19 un altro nucleo nel quartiere Tusschendijken, dove si   ritrova   una   composizione   a   blocchi   isolati,   assai   simili   a   quelli progettati da Berlage in Amsterdam Sud. Nel ’22 realizza il quartiere Mathenesse in un’area di forma triangolare che ancora presenta un tracciato di gusto berlaghiano, nonché legato ad una rigida simmetria. Le   case   basse   del   quartiere   hanno   ancora   il   tetto   inclinato,   ma anticipano per altri aspetti quel carattere iterativo e quella cura dei particolari che saranno tipici della produzione successiva di Oud. I due nuclei affiancati di case a schiera realizzati nel ’24 a Hoek van Holland costituiscono la prima opera in cui il linguaggio di Oud si affranca   decisamente   dalla   tradizione.   Coperture   piane,   finestre orizzontali, intonaco bianco alle facciate, uguaglianza pianimetrica e distributiva delle cellule, raccordi curvilinei nei terminali dei corpi di fabbrica   sono   tutti   elementi   che   rientrano   o   anticipano   il   codice razionalista. Al tempo stesso queste case se ne distaccano per la cura dei dettagli, per le loro essenziali recinzioni e sistemazioni esterne, per l’uso dei colori vivaci alla Mon­ drian e soprattutto per la loro sapiente rifinitura, che mancava spesso nelle analoghe opere dei razionalisti te­ deschi e francesi, si pensi al caso di Pessac. Molti   aspetti   delle   case   e   schiera   di   Hoek   van   Holland   si   trovano inglobati nel più vasto quartiere operaio «Kief­ hoek», iniziato nel ’25 a Rotterdam. Esso s’inserisce in una vasta area delimitata al contorno da tradizionali case a schiera in mattoni e tetti a doppio spiovente, che fanno   da   aguzza   cornice   al   nucleo   di   Oud   composto   di   case   dal­ l’intonaco   bianco   e   dalla   copertura   piana.   Oltre   a   ciò   le   nuove costruzioni del quartiere, le cui cellule duplex sono ideate secondo il più rigoroso criterio dell’Existenzminimum, presentano un quadro più unitario di quello della vecchia edilizia al contorno. Infatti, nonché disposte secondo lo schema degli isolati berlaghiani, le case di Oud

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presentano le finestre del piano superiore così ravvicinate da segnare, al   di   sopra   di   una   ininterrotta   fascia   piena,   una   continua   apertura orizzontale. Ne deriva una immagine architettonica tanto sintetica ed unitaria da smentire la dimensione necessariamente frammentaria de­ gli spazi interni. La vecchia tipologia delle case a schiera viene così trasformata in un insieme di corpi orizzontali che segna la presenza di un   nuovo   gusto   e   di   una   nuova   scala   architettonica   nell’ambiente preesistente, che tuttavia non viene tradito grazie alla solita cura dei particolari   e   delle   sistemazioni   esterne,   che   confermano   il «significato» residenziale e la scala domestica dell’intero complesso. Il contributo al codice razionalista non si ferma alle opere citate; gli edifici   di   Mart   Stam,  di   J.   A.  Brinkman   e   L.   C.  Van   der   Vlugt   e segnatamente   la   loro   fabbrica   più   nota,   il   complesso   Van   Nelle, realizzato a Rotterdam dal ’26 al ’29, sono ancor più «avanzate» di quelle di Oud, intanto che si vengono formando nuovi gruppi come il «De   8»,   che   dichiara   nel   suo   manifesto   di   essere   «a­aesthetish,   a­ dramatish,   a­romantish,   a­kubistish»,   ossia   di   optare   per   il   puro funzionalismo. Tuttavia, benché Oud aderisca a questo gruppo, sono le   sue   opere   sopra   ricordate   a   segnare   il   punto   più   significativo dell’apporto olandese al Razionalismo. E questo consiste in definitiva nell’aver   saputo   trovare   un   rapporto   di   continuità   con   la   recente tradizione (pensiamo in particolare alla ripresa dei grandi isolati di Berlage); nell’aver utilizzato ai fini dell’architettura, ossia piegato alla sua logica ed esigenze le sollecitazioni di De Stijl; nell’aver aderito o addirittura   precorso   le   istanze   funzionali   e   sociali   del   razionalismo senza perdere nella contestualità delle opere quel senso di «calma» e di   ordinato   progresso   che,   dalla   conformazione   del   territorio   alla politica   amministrativa  ed  urbanistica,   sembra  negare  o  nascondere ogni condizione di conflittualità. Alla cultura del razionalismo hanno contribuito altri architetti, teorici e studiosi di molti altri paesi, che nell'economia del presente studio siamo costretti a trascurare unitamente alle vicende italiana, tedesca e russa degli anni del fascismo, del nazismo, dell’età staliniana, anche

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se le «difficoltà politiche» degli artisti operanti in tali paesi e in questo periodo accrescono il loro valore culturale ed il loro impegno civile; per essi rimandiamo alla vasta letteratura sull’argomento e a libri di storia più completi del nostro e diversamente strutturati. In   conclusione,   l’architettura   centro­europea   tra   le   due   guerre   s’è mossa nella linea del razionalismo classico, ha esaltato i princìpi della sua logica interna e, ipotizzando un assetto sociale, quello della civiltà industriale di massa, nonché uno politico, quello socialista, in tutta la vasta e talvolta confusa gamma dei significati del termine, ha tradotto l’intero   suo   processo   in   princìpi­base,   tipologie,   norme,   regole lessicali e sintattiche. In una parola ha rappresentato forse il maggiore tentativo di «riduzione» prodottosi nella storia dell’architettura, con tutti i suoi pregi e i suoi numerosi limiti; ma essendo questi i limiti propri ad una stagione storico­culturale, la sua crisi rientra pertanto in quella che è stata definita «la crisi dell’arte come “scienza europea”». LE OPERE DEL RAZIONALISMO Il Bauhaus di Dessau L’edificio, realizzato tra il 1925 e il 1926, sembra trarre una delle sue prime ragioni conformative proprio dai vincoli della zona in cui sorge: esso   fronteggia   una   strada,   ne   valica   un’altra   normale   alla   prima, delimita   con   due   suoi   corpi   di   fabbrica   l’area   di   un   vicino   campo sportivo. Questo carattere urbanistico è stato sottolineato da Argan a dimostrazione che «l'assunto antimonumentale, in un’architettura ch’è insieme fabbrica e scuola e vuol dar forma all’ideale del lavoro come educazione,   coincide   con   l’assunto   urbanistico»   [15   G.   C.   Argan, Walter Gropius e la Baubaus, Einaudi, Torino 1951, p. 103., poiché non   esiste,   a   suo   dire,   «una   formulazione   più   precisa   della   genesi storica   della   moderna   urbanistica   come   antimonumentalità   di principio» 17 Ivi, p. 104.   Anche a non condividere la coincidenza dei due assunti suddetti, e non  è il nostro caso, considerando l’edificio del Bauhaus come un

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plastico   «nodo»,   esso   s’inseriva  in  e   necessitava  di  un «complementare» nodo di strade e di punti di vista. Infatti, solo dalle molteplici   visuali   —   dal   basso,   dai   vari   lati   e   persino   da   sotto   — offerte dalle strade che lambivano od attraversavano la fabbrica era possibile   cogliere   l’intera   valenza   spaziale   di   essa,   indubbiamente concepita e progettata nei termini della cosiddetta quarta dimensione. Al   pianterreno   troviamo   due   corpi   di   fabbrica   distinti;   il   primo   a pianta  rettangolare   conteneva   un  certo  numero   di  aule   e  di   piccoli laboratori; il secondo, con pianta ad L, aveva in un’ala i laboratori e nell’altra   l’auditorium,   il   palcoscenico,   il   refettorio   e   la   cucina.   Al piano superiore un corpo di fabbrica alto due piani e sospeso dal suolo conteneva   gli   uffici   della   scuola   e   gli   studi   degli   insegnanti.   Tale corpo di fabbrica valicando la strada congiungeva i due volumi edilizi prima   citati   che,   per   l’altezza   di   tre   piani,   avevano   ad   ogni   piano rispettivamente aule e laboratori. Cosicché dal secondo piano l’edi­ ficio   assumeva   una   forma   pianimetrica   a   G   di   altezza   costante   ad eccezione del corpo di fabbrica contenente i locali collettivi (refettorio ed auditorium) che, conservando l’altezza di un solo piano, costituiva un basso raccordo tra il volume descritto ed il fabbricato alto cinque piani destinato agli alloggi­studio per gli allievi. Passando  ad  una  lettura  di maggiore  dettaglio, va  notata la  grande varietà   plastica   dell’intero   complesso.   Anzitutto,   ad   eccezione dell’incontro tra il corpo su pilastri e quello della scuola, tutti gli altri innesti   di   volumi   sono   preceduti   o   da   una   rientranza,   come all’incontro del volume a ponte coi laboratori, o da una sporgenza, come all’innesto del refettorio con l’edificio per gli allievi. È indubbia l’influenza   neoplastica   in   tutto   l’edificio,   ma   sebbene   anche   qui   si possa parlare della scomposizione del volume in piani, non fine a se stessa   quanto   per   sotto­   lineare   alcune   parti   della   fabbrica,   tale scomposizione   è   piuttosto   un’articolazione   della   stessa   massa volumetrica secondo un gusto, un ritmo ed un taglio che neoplastici nell’assunto diventano qui ben altra e più solida conformazione reale. Ciò vale soprattutto per la varietà volumetrica data dalla differente

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altezza dei corpi di fabbrica. Quelli contenenti rispettivamente le aule ed i laboratori avrebbero la stessa altezza e una stessa compatta massa volumetrica, se non vi fosse il vuoto lasciato al pianterreno dal corpo di congiunzione. Normalmente a questo vuoto ha inizio il corpo più basso   dell’intero   nucleo,   ossia   «l’elemento   meno   impegnato   nella dinamica funzionale: luogo di raccoglimento e di riposo, rispetto alla vita della comunità, punto morto dove il moto cade e risale, rispetto alla meccanica compositiva».17 Ivi, p. 194. .  ; vale a dire che proprio accanto alla parte più bassa contenente i locali comuni c'è quella più alta, il fabbricato a cinque piani per gli allievi. Il differente trattamento delle superfici di facciata, o meglio, il diverso modulare dei volumi, conferisce una ulteriore dinamicità alla fabbrica. Infatti, l’edificio alto  è la massa più piena, interrotta solo sulle fronti ad est ed ovest rispettivamente da balconi a sbalzo e da finestre, mentre le due larghe testate presentano appena una fila di modeste   bucature.   Seguono,   in   ordine   di   leggerezza,   i   corpi   della «passerella» e della scuola caratterizzati da una equivalenza di pieni e di vuoti, da un alternarsi di fasce murarie e di finestre orizzontali. Le superfici del corpo più basso sono ancora di più semplice trattamento: una serie di finestre verticali aperte in una uniforme superficie piena. Infine   il   corpo   di   fabbrica   dei   laboratori   presenta   la   massima prevalenza dei vuoti sui pieni; sulle facciate Gropius riprende il tema della   Faguswerk   e   della   fabbrica   di   Colonia;   determina   cioè   un involucro di vetro antistante i solai fuoriuscenti a sbalzo dai montanti di calcestruzzo e tali sbalzi eliminando la presenza dei pilastri negli spigoli consentono quel famoso carattere di trasparenza angolare che costituisce   uno   degli   aspetti   formali   più   tipici   del   Bauhaus. Commentando   questi   trasparenti   angoli   svuotati,   Giedion   scrive:   « Due   delle  più   urgenti   istanze   delParchitettura   moderna  trovano  qui adempimento:   il   raggruppamento   sospeso   e   verticale   dei   piani   che soddisfa   il   nostro   senso   dei   rapporti   spaziali;   e   la   trasparenza, realizzata   in   pieno,   tanto   che   siamo   in   grado   di   vedere simultaneamente   interno   ed   esterno,  en   face,   e  en   profile  come   “

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L’Arlésienne   ”   di   Picasso   del   1911­12:   molteplicità   di   livelli   di riferimento o di punti di riferimento, e simultaneità — per dirla in breve la concezione dello spazio­tempo»18 Giedion, op. cit., p. 480. Anche noi concordiamo con quanti ritengono l'edificio del Bauhaus il capolavoro del razionalismo europeo, con in più qualche connotazione che va oltre o, se si vuole, è meno, d’un’opera d’arte nel senso più condiviso   del   termine.   Benevolo,   partendo   da   un   problema   di rifiniture, osserva, che il Bauhaus col suo bianco intonaco, invecchia peggio delle officine Fagus per le quali furono impiegati più solidi materiali,   per   giungere   ad   individuare   nell’edificio   di   Dessau   una nuova concezione dei valori architettonici. « Se l’architettura non deve limitarsi a rappresentare le aspirazioni della società ma contribuire a realizzarle, i manufatti architettonici valgono in relazione alla vita che vi si svolge e non durano come oggetti di natura, indipendentemente dagli uomini, ma devono esser fatti durare con apposite operazioni. Perciò, ora che la vita primitiva s’è dileguata e l’opera è ridotta a un lamentoso ammasso di muri e di serramenti sconquassati, il Bauhaus a rigore   non   esiste   più;   non   è   una   rovina,   come   i   resti   degli   edifici antichi,   e   non   ha   alcun   fascino   fisico»19   Benevolo,   Storia dell'architettura moderna, cit., p. 463. Ma anche se restaurata, la celebre scuola — che forse volle giocare il ruolo dell’architettura effimera proprio all’avanguardia razionalista — rimarrà una fabbrica morta, unitamente al momento politico, culturale ed   economico   che   caratterizzò   la   sua   storicità.   Comunque,   i   suoi programmi, propositi e metodi didattici sono rimasti insuperati e senza alternative, almeno finora. Villa Savoye Un’opera   in   cui   Le   Corbusier   applica   integralmente   i   suoi   famosi cinque punti è la villa Savoye a Poissy, realizzata tra il 1929 e il ’31, dimostrando   in   pari   tempo   quanta   varietà   è   possibile   ottenere   pur rispettando   tale  guida  normativa.  Inoltre  la  costruzione   riflette  altri suoi   parametri   progettuali   —   i   legami   con   la   pittura   purista,   la

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coesistenza   di   forme   «libere»   e   geometriche,   l’architettura   dei percorsi, il rapporto con l’ambiente naturale, ecc. — che la rendono tra le più emblematiche del suo stile. Morfologicamente la pianta della casa   nasce   da   una   maglia   quadrata   di   pilotis   aventi   fra   loro   una distanza   di   m.   4,75;   dimensionalmente   essa   deriva   dall’arco   di curvatura   di   un’automobile   che,   penetrando   nella   maglia,   gira all’interno   di   essa   e   s’introduce   nello   spazio   destinato   a   garage». Siamo pertanto in presenza di due motivi, per così dire, archetipi di Le Corbusier: la chiocciola ed il quadrato, che si ritrovano alla base di molte altre sue opere. Nel corpo di fabbrica a pianterreno, avente un lato curvo, oltre al garage, vi è un alloggio di servizio ed il vestibolo donde parte una scala e una rampa, disposta lungo l’asse della pianta ed   equivalente   alla   spina   centrale   dell’intera   costruzione.   Il   piano superiore   contiene   su   tre   lati   l’alloggio   (un   grande   soggiorno,   tre camere con servizi) e sul qùarto lato, profondo dalla parete esterna alla rampa di spina, è una grande terrazza, cui corrisponde un vuoto sul solaio   sovrastante.   Nel   parlare   di   questa   terrazza,   Le   Corbusier afferma: « il vero giardino della casa non sarà sul suolo, ma al di sopra di esso a tre metri e cinquanta: questo sarà il giardino sospeso dove il suolo è secco e salubre, dal quale si vedrà tutto il paesaggio, assai meglio   che   non   dal   basso»  21   Le   Corbusier   e   Jeanneret,   Oeuvre complète 1929­34, Editions d'Architecture Erlenbach, Zurich 1946, p. Seguendo la rampa, dalla suddetta terrazza­giardino si arriva al piano di copertura della casa. Esso presenta i curvilinei corpi del solarium e della scala;   due vuoti   corrispondenti  rispettivamente  al terrazzo  in­ feriore descritto e ad un altro più piccolo che sovrasta il terrazzino della cucina del piano sottostante; la conclusione della rampa centrale. Questa collega al coperto il pianterreno col primo piano e, all’aperto, quest’ultimo col tetto­giardino. In tal modo la rampa, vera e propria promenade   architecturale,   costituisce   un   elemento   plastico costantemente visibile nella parte centrale della casa sia per chi guarda dalPinterno sia per chi guarda dalla terrazza­giardino del primo piano.

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La   volumetria   esterna   è   tanto   semplice   e   schematica   da   apparire «brutalista» ante lìtteram 22 Tendenza nata nel secondo dopoguerra in Inghilterra proprio dalla interpretazione dell'opera di Le Corbusier. 2[ un   basso   parallelepipedo,   tagliato   su   ogni   lato   da   un’asola orizzontale, sospeso dal suolo da sottili pilastri e sormontato da corpi semicircolari   disposti   dissimmetricamente.   Quanto   al   rapporto   con l’ambiente, Le Corbusier scrive: «la casa si poserà nel mezzo dell’erba come un oggetto» 23 Le Corbusier e Jeanneret, op. cit., p. 24. Tuttavia, se la scarna volumetria e questo distaccato rapporto con la natura — frutti entrambi di una poetica figurativa e d’un programma comune   a   tutto   il   razionalismo   e   all’arte   astratta   —   rientrano indubbiamente   nell’intenzionalità   dell’autore,   vi   sono   aspetti particolari   dell’opera   che   trasformano   ed   arricchiscono   i   suoi   lati schematici e programmatici. Notiamo anzitutto che le quattro facciate non sono, come sembrano, tutte uguali fra loro. Due di esse hanno i pilotis a filo di parete, mentre le altre due sono a sbalzo rispetto ai montanti, realizzando così la vera e propria facciata libera. Inoltre se tale divario si deve alla struttura, quello che andiamo a descrivere va attribuito ad una ancora più precisa volontà conformatrice; infatti la posizione dissimmetrica dei corpi sovrastanti l’edificio, formanti un plastico gruppo a sé e la loro stessa varietà morfologica conferiscono una nota di varietà ed ambiguità al tutto, così da rendere ogni visuale di   prospetto   diversa   dall’altra:   guardando   dai   vari   lati   il   suddetto gruppo, ora appare a sinistra, ora a destra, ora scompare del tutto per chi guarda dal basso, disposto com’è in un angolo eccentrico del tetto­ giardino. Notiamo ancora che la facciata corripondente alla terrazza­ giardino è simile alle altre; e ciò chiaramente in deroga al principio funzionalista che l’esterno doveva rispecchiare fedelmente l’interno. E tale   deroga,   cui   forse   un   Gropius   o   un   Mies   non   avrebbero   mai consentito, è la prova migliore del modo di progettare di Le Corbusier procedente per immagini. Interno ed esterno devono sì corrispondersi, ma non al punto da scompaginare una immagine che il Nostro aveva

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prefigurato in nome non solo duna logica funzionale, ma anche, come in questo e in numerosi altri casi, in quello d’una logica della fantasia. Il Padiglione tedesco all’Esposizione di Barcellona Dopo   l’edificio   del   Bauhaus,   o   della   plastica   volumetrica quadridimensionale, dopo la villa Savoye che incarna i cinque punti di Le Corbusier, la terza fra le opere più paradigmatiche del codice­stile razionalista è il Padiglione che Mies van der Rohe costruì nel 1929 a Barcellona. Ed essa è tale perché mostra come l’architettura, per così dire, reale, assorbì — con le adesioni e le deroghe che vedremo — le proposte ed i suggerimenti dell’avanguardia, in questo caso la poetica di De Stijl. Il   Padiglione,   che,   sebbene   costruito   con   materiali   stabili,   andò distrutto con tutte le opere effimere dell’Esposizione, era composto dalle   seguenti   parti   o   «   pezzi   »   di   un   plastico   meccanismo:   un basamento di travertino, alto quanto otto scalini, che conteneva in un angolo una vasca d’acqua rettangolare, avente tra l’altro la funzione di rispecchiare le altre parti dell’edificio e di dare uno « spessore » al basamento stesso in cui risultava come « scavata »; un muro­lastra con una panchina addossata, il quale reggeva virtualmente e collegava i piani di copertura delle zone coperte del Padiglione, formando anche un setto di separazione fra gli spazi interni ed esterni di esso; otto montanti metallici cromati a sezione cruciforme reggevano il solaio di cemento armato che copriva la vera e propria zona d’esposizione, il cui ambiente interno era articolato con altre lastre di muratura o con pannelli di vetro e metallo; una seconda più piccola vasca d’acqua, dalla quale sorgeva una scultura figurativa di Georg Kolbe, era siste­ mata sul lato più breve della costruzione ed era contenuta entro una specie   di   patio   circondato   per   tre   lati   da   muri   rivestiti   di   onice, formanti all’esterno non più un gioco di lastre ma un volume chiuso; un altro volume simile, sul lato opposto circondava parzialmente la vasca   grande,   delimitava   l’altro   lato   breve   dell’edifico   e   recintava, sempre con andamento ortogonale il reparto contenente due vani per

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uffici ed i servizi; un solaio sovrastante questa seconda zona coperta era sorretto dal muro suddetto e da quello parallelo alla piscina. Già dalla  descrizione   di  questi   elementi  componenti  la  costruzione   può dirsi quanto l’opera in esame debba al codice neoplástico e quanto ad altre tendenze del gusto. Infatti se le lastre verticali, quella esterna avente   alla   base   la   panchina   e   quelle   interne   alla   zona   espositiva giocavano una composizione di slittamenti e di compenetrazioni, cui non   erano   estranei   gli   stessi   piani   d’acqua,   sono   di   indubbia ispirazione neoplastica, i lati brevi del padiglione che erano chiusi da muri   formanti   volumi,   almeno   verso   l’esterno,   si   differenziano notevolmente dalla poetica di De Stijl. Non ci sono lungo questi lati le classiche   sporgenze   e   rientranze   dei   muri   tipici   del   movimento olandese, tendenti alla scomposizione del volume in piani ma, come s’è   detto,   murature   che   piegandosi   a   90°   formano,   compongono appunto dei volumi. Si può dire che Mies abbia voluto limitare verso il   perimetro   il   padiglione   con   tali   elementi   per   meglio   concentrare nella   sua   area   il   gioco   di   libere   lastre   formanti,   all’interno   di quell’area, interni ed esterni sia reali che virtuali. Questa differenza tra perimetro ed area ci sembra la chiave migliore per intendere l’opera in esame, specificando i «luoghi» dove l’edificio si affida o si discosta dalla   poetica   neoplastica.   Ma   come   definire   le   parti,   le   zone,   gli ambienti   in   cui   il   capolavoro   di  Mies  si   differenzia   dalla   corrente linguistica olandese? La risposta è ovviamente quella di considerare dette parti di pura marca ed invenzione miesiana. Ciò tuttavia non ci impedisce di cogliere altre derivazioni ed ascendenze. Intanto la zona del   patio,   con   la   sua   recinzione   muraria,   col   solaio   che   uscendo   a sbalzo   dall’ambiente   espositivo   rende   detto   patio   parzialmente coperto, col piano d’acqua e la scultura, si badi bene, figurativa di Kolbe, non ha nulla di neoplastico, anzi ha un accento classicistico che   risale   al   protorazionalismo   di   un   Loos,   al   purismo   di   un   Le Corbusier e soprattutto rivela una costante, appunto classica, che sarà propria a tutto lo stile delle future opere di  Mies.  L’accostamento a Loos ritorna per altri aspetti. Infatti se le architetture di Van Doesburg

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e di Rietveld si articolano in piani colorati artificialmente in blu, giallo e rosso, qui i piani hanno il colore proprio dei materiali, la lucentezza del metallo cromato, la grana del travertino, le venature dell’onice. Siamo   insomma   nella   logica   dell’unica   «decorazione»   ammessa   da Loos,   quella   appunto   derivante   dalla   natura   dei   materiali.   E   non   è forse loosiano l’artificio di ingrandire e moltiplicare spazi ed ambienti interni con giochi di specchi — si pensi al  Kärntner  Bar e ad altri interni — riproposto da Mies a Barcellona questa volta all’esterno con delle   vasche   rispecchianti?   Detto   questo   non   intendiamo evidentemente   sminuire   l’originalità   dell’opera   di   Mies,   ma   legarla alla   sua   storicità   e   mostrare   come   essa   sintetizzi   molti   aspetti linguistici del Movimento Moderno: l’avanguardia e la tradizione, il gusto figurativo e quello astratto, la più inedita spazialità e un senso della classicità, sia pure totalmente riinventato. E non è forse classica la   famosa   poltrona   che   Mies   disegnò   proprio   in   occasione   del Padiglione di Barcellona e che da esso prende il nome, nella quale sono ritrovabili antichissimi motivi d’arredo anche qui riproposti in una versione nel suo complesso affatto inedita? In sintesi, ci pare che ciò che rende il capolavoro di Mies «uno dei  pochi edifici grazie al quale il secolo XX può gareggiare con le grandi epoche del passato» H. R. Hitchcock, L'architettura dell'Ottocento e  del Novecento, Einaudi, Torino 1971, p. 506. per   dirla   con   Hitchcock   non   senza   una   punta   d’esagerazione,   stia nell’aver   saputo   operare   una   sintesi   in   quella   conformazione   che abbiamo detta del perimetro e dell’area, fra esterno ed interno, tra la geometria   e   la   natura   organica   dei   materiali,   tra   neoplasticismo   e classicità. Il Columbushaus Nell’economia   del   nostro   discorso   forse   altre   opere   andrebbero assunte come paradigmatiche del codice­stile razionalista al posto di questa fabbrica di  Erich Mendelsohn,  di un artista cioè meglio noto come colui che tradusse con coerenza e continuità l’espressionismo in

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architettura. Assai più indicative del Columbushaus potrebbero essere, ad esempio, il Padiglione svizzero all’università di Parigi (ma questo va   menzionato   come   un   precedente   dell’Unità   di   abitazione   di Marsiglia) oppure le due case a schiera di Oud a  Hoek van  Holland (delle quali abbiamo dato un cenno trattando della produzione olan­ dese)   o   ancora   altre   opere   di   Gropius,   Le   Corbusier,  Mies,  ecc.   E tuttavia   ci   sembra   più   utile   parlare   di   questo   edificio   costruito   da Mendelsohn a Berlino tra il 1929 e il ’31 per i seguenti motivi: a) la figura di questo grande architetto va menzionata oltre a ciò che s’è detto nella prima parte del presente capitolo; b) il Columbushaus è una realizzazione importante anche per il suo programma edilizio e tale che all’epoca gli altri maestri non avevano avuto ancora l’occasione di realizzare;  c)  esso completa anche da un punto di vista tipologico la nostra scelta di edifici esponenti e rappresentativi del codice­stile che studiamo;  d)  esso   contribuisce   a   chiarire   i   complessi   .rapporti   tra razionalismo   ed   espressionismo;  e)  costituisce   un   esempio dimostrativo   delle   possibilità   offerte   anche   sul   piano   pratico   dalla nuova architettura. Il Columbushaus appartiene alla tipologia degli edifici commerciali cittadini  che  prima  del   ’29  il razionalismo  non aveva,  si  può   dire, ancora   così   compiutamente   affrontata.   Esso   sorge   sulla Potsdamerplatz   a   Berlino   e   consta   di   un   pianterreno   destinato   a negozi, di un primo piano a ristorante, di altri sette piani per uffici, di un ultimo piano contenente un ristorante panoramico. La pianta del piano tipo contiene al centro un doppio gruppo di scale ed ascensori, più altre scale di servizio ubicate negli angoli opposti del fabbricato. A parte   tali   ingombri,   distributivamente   il   piano   tipo   è   lasciato completamente   libero   ed   indeterminato   per   adattarvi   la   più   varia disposizione degli uffici. La struttura portante  è in acciaio e grazie all’arretramento dei pilastri dal filo delle pareti queste sono «libere» con continue fasce piene orizzontali alternate da finestre continue con un modulo verticale per gli infissi di cm. 90. Il solaio di copertura è

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una lastra piana, anch’essa sorretta da montanti arretrati in modo da formare una vasta zona chiaroscurale. La forma della pianta è quella di una L con l’ala lunga lievemente incurvata per accordarsi con un vicino palazzetto di gusto barocco. Parlando del Colum­ Inishaus, Benevolo rileva che «solo la termina/ione del luto corto con la vetrata continua della scala e la lieve piegatura   del   lato   lungo   movimentano   la   composizione,   r   serbano appena un’eco delle tumultuose composizioni giovanili» 24 Benevolo, op. cit., p. 544. . Certo, il Columbushaus è lontano dalla Torre di Einstein del 1919, dal   «  Berliner   Tageblatt»   del   ’22,   dui   Magazzini   di  Schocken  a Stoccarda del ’26­’28, ma già non tanto da quelli della stessa ditta realizzati   nel   ’28­’30   a  Chemnitz,  per   citare   solo   alcune   delle   sue opere più fumose. Si direbbe che Mendelsohn, condizionato in parte dui  tema,  proceda  per   successive  semplificazioni  fino a  questa  sua opera in cui il linguaggio razionalista prevale su quello espressionista. Prevale   ma  non  lo  smentisce.   Ricordiamo  intanto  che  le  finestre  a nastro   compaiono   per   la   prima   volta   nel   1910   in   un   edificio espressionista   della   stessa   tipologia   costruito   a   Breslavia   da   Hans Poelzig e saranno una costante in quasi tutta l’opera di Mendelsohn, specie per edifici commerciali. In secondo luogo notiamo che il rigore geometrico non è appannaggio del solo razionalismo, ma appare, sia pure con diverse motivazioni, in aldini momenti e presso alcuni autori espressionisti, si pensi al Behrens degli uffici Höchst Farbwerke. Anzi proprio l’attitudine a comporre elementi geometrici con altri di più libera matrice consente a Mendelsohn di realizzare il particolare più felice della conformazione del Columbushaus: il lato incurvato che si allinea con il preesistente edificio contiguo, raccordandosi ad esso non solo con tale piegatura, ma anche col digradare dell’ultime due coppie di piani. Zevi sottolinea la pertinenza urbana dell’impianto: «l’angolo intercetta le energie dei nastri provenienti dal fianco e le direziona sul fronte che poi, incurvandosi, resta non­finito. L’oggetto architettonico, così interrotto, privo di una cornice, s’attaglia al luogo, lo risucchia e

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contemporaneamente lo investe della propria presenza, sconfiggendo ogni velleità di autonomia e di eloquenza fine a se stessa» 26. Dal canto suo ancora Benevolo sostiene che quest'opera contribuisce meglio alla causa  dell’architettura moderna più  di quanto non facciano  le ville suburbane di Le Corbusier e di Mies. «Essa fa vedere al pubblico, nel modo più persuasivo, che solo l’architettura moderna  è in grado di risolvere   certi   problemi   funzionali   propri   di   un   moderno   centro d’affari [...] l’uomo comune può ritenere che la villa Savoye non lo ri­ guardi, ma non può fare a meno di accettare il Columbushaus, poiché alcune   funzioni   che   impegnano   la   sua   vita   quotidiana   trovano   in quest’edificio, per la prima volta, una sistemazione soddisfacente25 B. Zevi,   Spazi   dell'architettura   moderna,   Einaudi,   Torino   1973, didascalia delle figg. 242­243. In conclusione il Columbushaus non è il capolavoro di Mendelsohn, né,   come   s’è   detto,   un’opera   delle   più   paradigmatiche   del razionalismo. Tuttavia se sul piano del linguaggio esso mostra come l’espressionismo alimenti e si fondi col codice­stile che studiamo, su quello più generale, sociologico, tecnico, di una maturata esperienza, può ritenersi un punto d’arrivo della cultura europea, una delle sue ultime manifestazioni architettoniche prima che la Germania cadesse nella fase più oscura della sua storia. Abbiamo   ridotta   l’esemplificazione   delle   opere   paradigmatiche   del razionalismo   a   soli   quattro   edifici   di   altrettanti   maestri.   Ma   non basterebbero   altri   dieci   a   coprire   tutte   le   varianti   del   codice­stile esaminato. Infatti il razionalismo segnò una svolta così radicale nella concezione dell’architettura da andare sempre oltre, da offrire un con­ tinuo scarto rispetto a qualsiasi fabbrica realizzata. Dobbiamo allora concludere che esso fu tale da non potersi rappresentare con opere paradigmatiche o emblematiche? Rispondiamo di no, ove (fatta salva la virtù espressiva e significativa di alcune opere che pure hanno la valenza che cerchiamo) soprattutto per opera non s’intenda il singolo edificio,   ma   un  intervento  intermedio  fra  architettura   e   urbanistica, pensiamo ai quartieri operai, alle Siedlungen. Sono queste le maggiori

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opere emblematiche del razionalismo in quanto ne incarnano meglio d’altre   il   codice   e   al   tempo   stesso   le   vere   e   proprie   opere paradigmatiche in quanto rivoluzionando quasi tutti i precedenti valori della residenza ne istituiscono altri che serviranno da modello per la produzione futura. Ma se ciò è vero perché in questa seconda parte del capitolo   dedicato   alle   «letture»   delle   più   significative   opere razionaliste   non   abbiamo   incluso   i   quartieri   di   May   realizzati   a Francoforte,   quelli   di   Gropius   a   Dessau,   Karlsruhe   e   di   Berlino? Perché   mancano   gli   esempi   olandesi?   La   ragione   sta   nel   fatto   che abbiamo preferito parlare dei quartieri suddetti nella prima parte del presente   capitolo   dove   cioè   abbiamo   discusso   dei   metodi   e   della «tecnica»   del   razionalismo,   del   tema   dell’Existenzminimum,   delle tipologie, delle ragioni socio­ culturali che ne spiegavano resistenza e la  conformazione.   Estrapolarli  da  quel  contesto   e  riproporli  altrove «leggendoli»   come   opere   autonome   ci   è   sembrato   come   snaturarli. Rimandiamo   quindi   il   lettore   alle   pagine   precedenti   dove   le Siedlungen  sono   viste   nella   loro   più   complessa   fenomenologia, ricordando qui, ripetiamo, che esse furono il meglio prodotto dalla cultura del razionalismo. Capitolo quinto  L’ARCHITETTURA ORGANICA I caratteri invarianti Scartata la semplicistica distinzione di Giedion per cui «attraverso la storia si perpetuano due tendenze diverse — una verso il razionale e il geometrico, l’altra verso l’irrazionale e l’organico»1,  1Giedion, op. cit., p. 402. tenteremo di definire in un primo momento le caratteristiche invarianti dell’architettura organica, salvo poi ad integrarle con il contributo dei due principali esponenti di essa. F. LI. Wright ed A. Aalto.

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Che   un   discorso   su   tale   corrente   condotto   inizialmente   senza considerare gli apporti dei maestri suddetti sia legittimo è dimostrato dal fatto che di organicismo si parla assai prima ed indipendentemente dall’esordio di Wright. Infatti, senza risalire a Leon Battista Alberti, al Vasari,   al   Burckhardt,   tutta   la   cultura   estetica,   critica   e   teorica dell’architettura   europea   a   cavallo   del   secolo   è   permeata,   con   vari accenti,   di   organicismo.   Altrettanto   organicar   se   estendiamo  questa nozione   fino   a   comprendere   il  design  e   l’urbanistica,   è   la   linea   di pensiero   che   parte   da   Ruskin   e   Morris,   partecipa   alla   cultura dell’Einfùhlung, riceve da Wright il suo più alto momento espressivo, alimenta il contributo della scuola scandinava, sostanzia la corrente urbanistica che da Howard a Geddes giunge fino a Mumford. Pertanto, senza essere il parallelo romantico del razionalismo, così com’è stata da molti fraintesa, l’architettura organica costituisce un peculiare ed autonomo atteggiamento culturale, i cui segni sono manifesti prima, durante e dopo il periodo razionalista. Volendo schematizzare il nostro tema, sarà utile richiamare un elenco di   caratteri   indicativi   dell’architettura   organica   che   Zevi   ricava   da Behrendt, tutti collegabili ai concetti di  formative art  e di  fine art, l’uno contrassegnante l’architettura organica, l’altro quella razionale. Organica sarebbe un’architettura come prodotto intuitivo contro una prodotto   di   pensiero;   un’architettura   alla   ricerca   del   particolare   in opposizione ad un’altra alla ricerca dell’universale; una tendente al multiforme e una aspirante alla regola, al sistema, alla legge; l’una dinamica   e   l’altra   statica;   indipendente   dalla   geometria   elementare contro una basata proprio sulla geometria e stereometria elementari; la prima   avrebbe   «   la   struttura   concepita   come   organismo   che   cresce secondo la legge della propria individuale esistenza, secondo il suo ordine   specifico,   in   armonia   con   le   proprie   funzioni   e   ciò   che   la circonda,   come   una   pianta   o   qualunque   altro   organismo   vivente   », mentre   la   seconda   avrebbe   «   la   struttura   concepita   come   un   mec­ canismo   in   cui   tutti   gli   elementi   sono   disposti   secondo   un  ordine assoluto, secondo l’immutabile legge di un sistema apriori »; alla sfera

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dell’organico   apparterrebbero   il   realismo   contro   l’idealismo,   il naturalismo   in   opposizione   allo   stilismo,   le   forme   irregolari (medioevo) contro quelle regolari (classico), i prodotti dell’esperienza vissuta contro quelli dell’educazione, ecc2. 2 Cfr. B. Zevi, Verso un'architettura organica, Einaudi, Torino 1949,  pp. 66­7. Rinunciando   alle   facili   correzioni   e   rettifiche   di   tale   schema,   lo teniamo   per   valido   non   foss’altro   perché   serve   a   riconoscere   con immediatezza un edificio organico da uno razionale, ma cerchiamo di aggiungere altre specificazioni e di svolgere alcune riflessioni. Intanto è   significativo   che   per   parlare   di   architettura   organica   la   si   debba riferire ogni volta al parametro razionale, sia inteso nel senso storico (la razionalità delParte classica), sia in quello dell'orizzonte sincronico (il razionalismo europeo fra le due guerre). Così facendo, gli architetti organici da un lato sostengono la loro tendenza partendo da un punto sicuro e dall’altro mirano a revocare in dubbio tanto la tradizione del passato   quanto   quella   del   «nuovo»;   sulla   scena   internazionale   si affacciano   allora   nuove   e   più   giovani   culture,   quelle   appunto americana  e  scandinava,  nuovi  centri  culturali  tendono  a  sostituirsi alle vecchie capitali europee; alla Parigi di Picasso e dei cubisti si è sostituita in questo dopoguerra la New York di Pollock e della pittura informale che ha una indubbia matrice organica. Tuttavia, ritornando a quel modello classico­razionale, contro il quale si è mossa, sia pure in forma di continuità correttiva, l’architettura organica, la persistenza di esso dimostra la sua forza e la scarsa probabilità (così come s’è poi verificato) di contrapporgli una solida alternativa. Questa   non   s’è   attuata   sul   piano   linguistico   perché,   ripugnando all’architettura   organica   ogni   classificazione,   sistematizzazione, istituzione di norme ecc., essa non è stata in grado di offrire né un lessico né una metodologia operativa attraverso un corpus di fattori condivisi   e   trasmissibili.   Quando   alla   fine   della   seconda   guerra mondiale l’architettura organica s’innesta alla crisi del razionalismo propone   una   maggiore   libertà   stereometrica,   il   recupero   di   valenze

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individuali e psicologiche, una modalità di interventi urbani diversi tanto   dalla   città   ottocentesca   quanto   dalle  Siedlungen  razionaliste, indica   nello   sviluppo   regionale   il   solo   modo   per   risolvere   la congestione ipertrofica delle metropoli, ecc., tutto ciò non si traduce in una morfologia e in una sintassi, in definitiva in un codice tanto ampio da consentire la realizzazione di opere­messaggi che non accusino la loro esplicita derivazione wrightiana o aaltiana. Come tale, cioè dal punto di vista linguistico, l’architettura organica appare più come una tendenza del gusto con le sue forme libere, gli angoli diversi da 90°, la varietà e ricchezza dei materiali, il suo naturalismo talvolta mimetico ecc.,   che   un   vero   e   proprio   codice­   stile;   lo   è   semmai   come atteggiamento   ideologico.   Infatti,   il   movimento   organico   può considerarsi   nato   con   la   rivoluzione   industriale   ed   annoverarsi   in quell’area del dissenso (talvolta con accenti radicali talaltra moderati) che   ha   sempre   accompagnato   dialetticamente   le   tendenze   più «disponibili»   ed   integrate   allo   sviluppo   tecnologico.   Quando   detto movimento ha raggiunto la sua fase più matura e consapevole, che ha coinciso appunto col dibattito  architettonico ed urbanistico di questo dopoguerra, esso è stato in grado, come dimostra l’opera di Zevi, di spiegare dalla sua visuale l’intera vicenda dell’architettura moderna; il che   significa   aver   rivalutato   personaggi   trascurati   dall’ottica razionalista, si pensi ad un Gaudi e più in generale aver dato un senso, inevitabilmente ideologico, a tutta una serie di fenomeni che prima sembravano mancare spesso di connessione. Ma anche sul piano ideologico il movimento organico ha mostrato i suoi limiti. Se la storiografia e la critica hanno ricevuto un indubbio apporto, esso ha d’altro canto formulato una serie di previsioni rimaste inattuate e comunque non sempre chiarificatrici delle reali condizioni nelle   quali   ha   operato   la   cultura   architettonica:   la   ricostruzione,   la pianificazione urbanistica, l’incidenza sulle autorità politiche e sulla pubblica opinione. Come ha scritto Argan, «la contrapposizione della formula   “organica”   alla   “razionale”   è   umanamente   comprensibile come   tentativo   dialettico   di   forzare   una   situazione   chiusa;   ma   non

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bisogna   dimenticare   che   l’architettura   “organica”   è   fenomeno parallelo e non successivo all’architettura razionale, ed insiste in una situazione storica non sostanzialmente dissimile [...]. Il “razionale” e lo   “organico”   discendono   da   due   archetipi,   o   modelli   di   valore, diversi; l’archetipo è, nell’uno e nell’altro caso, una figura ideale della società e della relazione armonica dell’individuo col tutto»  3G. C. Argan, Progetto e destino, Il Saggiatore, Milano 1965, pp. 89­ 90. Se per «situazione chiusa» intendiamo tutto ciò che, specie in fatto di «difficoltà   politica»,   ha   impedito,   tranne   che   in   pochi   paesi,   la realizzazione di tale modello sociologico, dobbiamo riconoscere che se   quel   socialismo   umanistico   preconizzato   dai   razionalisti,   in   cui l’architettura   avrebbe   contribuito   al   superamento   di   molte   contrad­ dizioni, è ancora da realizzare, ancor meno attuata è quella democrazia come espressione dell’individuale in un tutto armonico che era propria al movimento organico. Il contributo di Wright Abbiamo   sopra   affermato   che   l’architettura   organica,   quasi   sempre considerata  rispetto  al  parametro  del  razionalismo,  si   è  manifestata prima, durante e dopo di esso. Ciò si deve in gran parte all’apporto qualitativo   e   quantitativo   (dovuto   anche   alla   longevità)   di   F.   LI. Wright   (1867­1959),   che   qui   studieremo   appunto   in   relazione   al razionalismo nel senso più esteso del termine, ovvero dalla corrente geometrica dell’Art Nouveau alla produzione cosiddetta funzionalista tuttora   in   atto.   Cosicché   avremo   modo   di   accennare   non   solo all’apporto   del   maestro   americano   alla   vera   e   propria   architettura organica,   ma   anche   a   quello   che   egli   diede   all’intero   Movimento Moderno, non senza stabilire un rapporto con la produzione e la cul­ tura architettonica europea per meglio cogliere la storicità dell’opera wrightiana.

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Che   la   cultura   americana   sia   tradizionalmente   pervasa   di   spirito organico   lo   attestano   scrittori   quali   Emerson,   Thoreau,   Melville   e Whitman,  artisti   quali   Horatio  Greenough,  architetti  quali  Sullivan, che   considerava   il   libro   di   Whitman  Leaves   of   Grass  «il   migliore avvio   alla   comprensione   di   come   l’arte   potesse   svilupparsi organicamente dalle forze della vita americana» 4Cit.   in   F.   O.   Matthiessen,   Rinascimento   americano,   Mondadori, Milano 1961, p. 214. D’altra   parte   è   indubbio   che   la   prima   teoria   artistica   dell’età contemporanea basata sul fattore organico, l’Einfùhlung,  è di pretta marca europea. In questo filone, anzi in quello dell’«astrazione» quale polo dialettico dell’Einfùhlung  —   astrazione   cui   Wright   giunge   grazie   anche   alla pedagogia froebeliana — si collocano le opere del suo primo periodo, le   case   Winslow   (1893),   Hickox   (1900),   Willitts,   la   prima  Prairie House (1902), Roberts (1908), Robie (1909), ovvero il capolavoro in questo genere di residenze unifamiliari, per citarne solo alcune. Infatti, non è difficile riconoscere, incarnato in queste costruzioni, qualcosa di simile   a   quella   simbologia   fisio­psicologica   teorizzata   dagli   autori dell’empatia: l’organico senso di espansione della pianta cruciforme, l’accento posto sulle orizzontali, la verticalità degli elementi disposti nei punti nodali, l’uso dei materiali, la dinamica delle linee, le pesanti coperture protettive, i camini simbolici per antonomasia, ìe tessiture murarie allusive all’interno dello spazio esterno, il legame dell ’edi­ ficio   alla   terra   ecc.   Inoltre   la   stessa   principale   proposizione   della poetica di Wright per cui, come egli ricordava, «fu Lao Tse il primo che io sappia, cinquecento anni prima di Cristo, a dichiarare che la realtà di un edifìcio non consiste in quattro pareti e nel tetto, ma nello spazio   racchiuso,   nello   spazio   entro   cui   si   vive»,   trova   una   esatta corrispondenza   nella   teoria   europea,   nella  Raumgestaltung  di Schmarsow che, oltre a privilegiare la spazialità dell’architettura, ne concepisce   la   formazione   dall’interno   verso   l’esterno,   esattamente come farà il movimento organico. Peraltro l’appartenenza del primo

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Wright   alla   cultura   dell’Art   Nouveau,  della   quale   costituisce, beninteso,   la   parte   più   «nuova»   tanto   da   contribuire   alla   crisi   dèi relativo codice,  è dimostrata dallo stesso successo col quale le sue opere furono accolte alla mostra di Berlino nel 1910; segno questo di una   predisposizione   a   recepirle   da   parte   dell’ambiente   europeo   in quanto si trovavano in esse risolti molti problemi qui da tempo agitati. Se questi  furono alcuni  dei legami dei primi edifici di Wright con l’Art   Nouveau  (molti   ancora   riguardano   la   plastica   minore   — pensiamo alle vetrate delle case Willitts, Coonley, Robie, ecc.) altri si possono trovare col protorazionalismo. Il Larkin Building di Buffalo del 1904 e il Tempio Unitario a Oak Park del 1906 — edifici sim­ metrici,   dalla   stereometria   rigida   il   primo,   come   si   addice   ad   una costruzione   per   il   lavoro,   dalla   massima   articolazione   il   secondo, come s’addice ad una chiesa — rientrano perfettamente nel codice­ stile   di   Hoffmann,   Behrens,   Perret,   Loos,   ecc.   Ma   anche   questo contatto col protorazionalismo acquista in Wright un accento speciale. Abbiamo visto la fine di quella tendenza nel suo inaridirsi in forme classicistiche, nell’esaurirsi della sua vena inventiva proprio per ciò che riguardava gli elementi della figurazione, tant’è vero che, come s’è detto, il passaggio dal protorazionalismo al razionalismo si deve in buona parte al contributo delle avanguardie figurative. Viceversa, il protorazionalismo,   per   così   dire,   wrightiano   trova   nei   suoi   stessi termini   architettonico­linguistici   la   capacità   di   affrancarsi   dal classicismo, non solo ma tanta ricchezza di nuovi elementi figurali da anticipare alcune correnti della pittura e scultura europee. Infatti, se nel   Larkin   prevale   l’invenzione   tipologica,   il   gigantismo   della «navata» centrale, le applicazioni tecniche degli impianti che rendono possibile il funzionamento di un edificio tutto risolto nel suo interno e se, all’opposto nei Midway Gardens di Chicago, costruiti più tardi, nel 1914, prevalgono gli accenti figurali, decorativi, plastico­pittorici in un insieme che non era certo un modello di buon gusto, è il Tempio Unitario il capolavoro che dimostra tutto quanto si potesse, nei primi anni del secolo, ottenere coi soli mezzi dell’archi­ tettura. Qui, infatti,

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oltre   a   fondersi   le   due   principali   componenti   del   linguaggio wrightiano,   il   senso   dell’«astrazione»   e   quello   della   continuità spaziale,   c’è   tutta   una   gamma   di   strumentazioni   architettoniche:   la severa ma articolata volumetria esterna, quindi il senso del blocco, la scomposizione all’interno dei volumi in piani, l’articolazione di questi in linee, l’ulteriore segmentazione di queste in angoli, in tratti ritmici, in giochi lineari; e se i piani strutturano lo spazio ora con superfici opache, ora con riquadri luminosi, le linee ed i segmenti definiscono il cassettonato, ritmano le pareti, si fanno elemento di arredo. Al pari della   coeva   biblioteca   di   Mackintosh,   ma   molto   più   di   quella,   il Tempio Unitario precorre con la sua inventiva figurale il cubismo, il neoplasticismo,   il   prounismo,   l’arte   astratta,   addirittura   temi   del Bauhaus. Per questa ed altre ragioni — l’essere ad esempio un edificio bloccato e simmetrico ma non classicistico — esso ci sembra, nonché una delle prove più felici di Wright, una fabbrica di grande attualità per l’odierna ricerca architettonica, come dimostrano tanti edifici di oggi che lo hanno assunto a modello. Nonostante   queste   chiare   anticipazioni,   a   sua   volta   l’avanguardia figurativa europea non passò senza influenzare lo stile di Wright. Nei fecondi   anni   Trenta  ben  tre  famiglie  morfologiche   si  trovano  nelle opere del maestro americano, quelle aventi per matrici il rettangolo, il triangolo  ed il   cerchio, che  nonostante  la  loro  inedita articolazione risentono in vario modo del cubismo, del purismo, del neoplasticismo, dell’arte astratta. La casa Kaufmann o  Fallingwater,  costruita fra il ’36 e il ’39, non si spiega senza il gusto di più pure stereometrie e soprattutto   senza   la   volontà   di   disarticolare   nel   modo   più programmatico e dissimmetrico i volumi e gli spazi, istanze queste che in definitiva costituivano il maggiore apporto delle avanguardie figurative all’architettura. Né, d’altro canto la conformazione spaziale e l’inserimento paesistico di questa casa sarebbero stati possibili senza il particolare interesse per la natura, per la natura dei materiali, per l’imprevisto,   per   il   risicato   rapporto   tra   artificio   e   natura   che sostanziano   la   poetica   organica.   Cosicché   questo   capolavoro

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dell’architettura   contemporanea   è   tale   anche   perché   costituisce   il momento del maggiore incontro della tradizione europea e di quella americana. Se per le  Prairie Houses  era lecito accostare Cézanne a Withman   qui,   dove   cade   ogni   accento   ottocentesco,   bisognerebbe accostare' nuovi pittori europei a nuovi poeti americani (Mondrian ed Ezra Pound?) o più correttamente attribuire al solo poeta­architetto la eccezionale sintesi delle due culture e di ogni genere di poesia. Allo stesso periodo appartiene il complesso degli Uffici Johnson  a Racine   nel   Wisconsin   che   segnano   una   nuova   svolta   nello   stile   di Wright:   l’adozione   d’una   morfologia   ad   elementi   curvilinei   e l’allusione   ad   una   dimensione,   per   così   dire,   utopica.   Gli   Uffici Johnson si ricollegano a quelli del Larkin costruiti trent’anni prima. Quanto al rapporto con l’ambiente circostante, entrambe le opere sono bloccate e chiuse in se stesse, ma mentre nel Larkin la chiusura è data dal blocco parallelepipedo, durissimo nelle sue angolature di mattoni, nel Johnson la chiusura si attua col convergere verso l’interno delle curvilinee superfìci dell’involucro murario. Relativamente all’interno, mentre nell’edificio di Buffalo, c’è uno spazio centrale stretto ed alto fino   alla  copertura   contornato   da  gallerie   in  un   immobile   e   severo ordine  di  massicci   pilastri   e  balaustre,  in  quello  di  Racine,   Wright realizza   uno   degli   ambienti   più   liberi   ed   imprevisti   di   tutta l’architettura   contemporanea,   dalla   struttura   elastica   antisismica all’impiego dei caratteristici pilastri a forma di fungo, dal grande sof­ fitto luminoso alle fasce continue delle pareti perimetrali ad elementi trasparenti forati da tubi in pirex. Questa   fabbrica   dà   inizio,   ovvero   fornisce   il   maggiore   esempio   di quelle opere impiantate sulla già menzionata morfologia curvilinea, che costituisce un altro contributo di Wright all’architettura organica. Fra   esse   ricorderemo   la   torre­laboratorio   dello   stesso   complesso Johnson, realizzata nel 1950; la seconda casa Jacobs, costruita nel ’48 (con la prima del ’37 «Wright creò il primo tipo di casa “usoniana”, cioè la risposta suburbana, o meglio agreste, alle case Citrohan di Le Corbusier, razionalisticamente cittadine» 

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5V. Scully, Frank Lloyd Wright, Il Saggiatore, Milano 1960, p. 25. 5

); la casa per il figlio David del ’52; i Magazzini Morris del ’48 che, con la loro spirale interna preludono al celebre Museo Guggenheim, costruito tra il ’46 ed il ’59. Accennavamo alla dimensione utopica di questi   edifici   dall’impianto   curvilineo.   Infatti,   il   Johnson   Wax Building prelude negli anni Trenta le immagini architettoniche e di scena ambientale che sono riscontrabili oggi in alcuni centri spaziali, anche   se   al   posto   dei   meccanismi   elettronici   e   robotici,   Wright coniuga   le   sue   conformazioni   avveniristiche   con   accenti   di   marca arcaica; sono riscontrabili peraltro in diverse occasioni riferimenti ad architetture   pre­colombiane   e   cretesi­micenee.   Altrettanto   utopica, futuribile,   quasi   extra­terrestre   è   l’immagine   del   Guggenheim Museum, che «plana», estraneo, nel contesto della Quinta Avenue a New York. Peraltro questa famiglia morfologica a base curvilinea ci sembra rappresentare il momento relativamente meno organico della produzione wrightiana; non a caso infatti, le opere di questo genere presentano   l’uso   monotono   di   un   solo   materiale.   Certo,   in   natura ricorrono forme curvilinee, ma quelle del Nostro non hanno la fluidità concavo­convessa   delle   forme   naturali:   sono   rigide,   astratte   —   s’è parlato di ascendenza romana, della villa Adriana a Tivoli — sono in una parola espressione d’una idea preconcetta e d’un modo artificiale assai alieno dallo spirito organico. Le riscatta in tal senso la fluidità delPintero   organismo   spaziale,   in   alcune   opere   acquistando   un andamento centrifugo in altre uno centripeto. Decisamente   più   organica   la   famiglia   morfologica   wrightiana   dagli angoli a 30° e 60° che, con il suo legame alla terra, con il suo evocare spigoluti  ed aspri  brani  di  roccia,  con il più ricco  uso di materiali diversi, con le sue composite strutture portanti, ha prodotto fabbriche che   si   legano   mirabilmente   al   paesaggio,   che   all’interno   hanno marcato quel senso di riparo, che fondono in una eccezionale sintesi

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natura   e   artificio   tanto   da   rendere   addirittura   incommensurabile percettivamente la loro spazialità, donde quell’idea che le opere del maestro americano, e segnatamente quelle di cui parliamo, non sono rappresentabili o fotografabili, ma vanno solo spazialmente vissute. L’edificio più emblematico di tale categoria è la casa­studio Taliesin West nella Paradise Valley presso Phoenix del 1938. Ma non è solo il deserto   dell’Arizona   a   sollecitare   l’adozione   di   queste   forme   dalla matrice triangolare, né queste appartengono solo agli anni Trenta. La chiesa Unitariana di Madison nel Wisconsin del ’47 è impiantata su modulo   triangolare,   forse,   per   motivi   simbolico­semantici,   la   Torre Price   a   Bartlesville,   Oklahoma,  del   ’56,   che   riprende   il   vecchio progetto della St. Mark’s Tower del ’29, presenta la stessa morfologia per scomporre un monoblocco in tante facce polivalenti ed ambigue come esige un intento anticlassico. Riassumendo   gli   apporti   linguistici   dell’opera   di   Wright all’architettura organica e con essi la sua attiva critica al razionalismo, ed ancora il suo contributo alla « generale lingua » del Movimento Moderno,   li   possiamo   così   parzialmente   elencare:  a)  invenzione tipologica e morfologica di un’architettura basata sull’astrazione che s’innesta   (ed   evolve)   alla   cultura   dell'Einfühlung  b)   adesione   allo spirito   e   alla   lettera   del   protorazionalismo,   ma   rivissuto   in   senso anticlassicista; c) prefigurazione di termini plastici elaborati più tardi dall’avanguardia figurativa; d) capacità di raccogliere e far propri gli esiti del migliore razionalismo; e) adozione di elementi architettonici basati su unità modulari con angoli a 30° e 60°; f) utilizzazione di una morfologia pianimetrica e spaziale curvilinea;  g)  anticipazione della dimensione utopica dell’architettura e della scena urbana. Tutti gli aspetti suddetti, nonostante la loro eterogeneità — una simile non   si   trova   forse   in   nessun   altro   architetto   in   tutta   la   storia dell’architettura — non tradiscono mai la notevole coerenza dell’opera wrightiana. Zevi elenca ben tredici aspetti dell’architettura di Wright per   poi   riconoscere   che   resta   ancora   «da   svelare   il   vero   segreto wrightiano.   Questo   segreto   consiste   nella   conquista   dello   spazio,

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motivo conduttore dell’ascesa che il maestro ha compiuto attraverso mezzo   secolo   di   prove   creatrici»   e   più   avanti:   «la   coerenza   della poetica   wrightiana   va   [...]   più   in   là   della   meccanica   ripetizione   di motivi figurai ivi e degli stessi princìpi psicologici, sociali e funzionali in cui si articola il suo pensiero. Si invera in una creatività spaziale che, partendo dall’interno dell’edificio, si irradia a formare volumi, permea la materia delle superfici e plasma la continuità urbanistica» 6 Zevi, Storia dell'architettura moderna, cit., pp. 435 e 455. Tale   giudizio   va   condiviso,   ma   affrancato   dal   rischio   di   cadere nell’ineffabilità critica. Affermare che la quiddità dello stile di Wright stia   nella   creatività   spaziale   equivale  a   dire   tutto   e   niente.   Senza impegnarci qui in una definizione di spazio, osserviamo che lo spazio del fare archi­ tettonico è sì uno spazo vuoto entro il quale si vive e si agisce,   ma   esso   a   sua   volta   è   il   risultato   degli   elementi   che   lo conformano, quelli che altrove abbiamo chiamato «figure» del segno spaziale, la pianta, le pareti, le facciate, le coperture, ecc. Ecco allora che la creatività spaziale  si fonda sulla creatività figurativa e  sulla relazione   di   tali   fattori,   e   questi   sono   tutt’altro   che   ineffabili.   In particolare, per restare ancor più nel concreto, ci sembra che una delle principali valenze wrightiane sia quella sintattica non meno di quella morfologica; egli inventò un repertorio vastissimo, ma quel che più conta, senza mai rimanere prigioniero della sua maniera, sia nel senso che coesistevano diverse famiglie morfologiche in uno stesso periodo, sia   perché   in   una   stessa   fabbrica   Wright   passava   quando   e   come voleva da una famiglia all’altra con inimitabile maestria. Quando i seguaci si sono provati ad adottare una di tali famiglie, per esempio quella dal modulo triangolare, non sono mai stati capaci di uscirne, tal che   triangolari   risultavano   non   solo   l’ambiente   più   fortemente segnato, ma lo sgabuzzino, i servizi, le cabine telefoniche, i vasi da fiore. Per questi ed altri motivi, essendo affatto personale lo stile del Nostro, quanto più abile si mostrava il suo gioco, tanto meno esso s’è dimostrato in grado di produrre un metodo generalizzabile. Per dirla in

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termini   linguistici,   Wright   inventa   un   suo   individuale   codice   per esprimere i suoi ammirevoli ed inimitabili messaggi. E forse proprio in questa individualistica irripetibilità sta la sua maggiore grandezza. Resterebbe   allora   da   spiegare   tutta   la   sua   opera   teorica,   la   sua predicazione (che rimane comunque autobiografica) il suo gusto del proselitismo, ma è proprio della genialità egocentrica la incapacità di ammettere i propri limiti. Ma che senso ha pertanto parlare di «contributo» alla poetica organica e più in generale al Movimento Moderno? Abbiamo già risposto in parte   a   questo   interrogativo   nel   paragrafo   precedente   dicendo   che quello   organico   è   più   un   atteggiamento   ideologico   che   un   vero   e proprio codice­stile. Qui è da aggiungere che, trovandoci in presenza di una delle più alte punte espressive dell’arte contemporanea, non è da attendersi un contributo immediato ma mediato, agente nell’intera sfera della cultura e non direttamente nell’odierno dibattito del pratico fare architettonico. Ancora, se la stessa cultura pragmatica americana ci   dice   che   i   valori,   altro   non   sono   che   valori­interessi,   proprietà soddisfattive di determinati interessi, saremmo d’altra parte ben stolti a   rinunciare   al   disinteressato   valore   che   solo   pochi   fenomeni   della vita, tra i quali è l’arte, sono ancora in grado di proporre. E ciò non nel senso   della   tradizionale   contemplazione   estetica,   quanto   nella convinzione   che   la   dimensione   del   «disinteresse»   è   necessaria   alla nostra esistenza non meno di quella pratica e contingente. Il contributo di Wright va quindi posto nell’ambito della storia dell’architettura e non in quello della teoria della progettazione architettonica, il che non toglie, come indicano alcune recenti correnti progettuali, che la storia stessa non possa assumersi come guida per il pratico operare; quel che conta però è sapere donde traiamo i nostri modelli. Il contributo di Alvar Aalto A   voler   distinguere   nell’opera   di   Aalto   le   carattestiche   costanti   da quelle variabili per individuare sinteticamente gli aspetti più tipici di essa   e   di   conseguenza   il   suo   apporto   all’architettura   organica,   si

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potrebbe anzitutto annoverare fra le prime il carattere nazionale delle fabbriche   aaltiane,   com’è   evidente   nel   padiglione   finlandese all’Esposizione  di   Parigi  del  ’37  e  nell’interno  di  quello  alla  Fiera mondiale di  New York del 1939. «La Finlandia  è dovunque Aalto vada — ha scritto Giedion —: Essa è 1’«intima fonte di energia che scorre sempre nelle sue opere. Come la Spagna per Picasso o l’Irlanda per James Joyce »7.  7Giedion, op. cit., pp. 543­4. Ma   se   ciò   vale   per   molti   suoi   edifici,   non   costituisce   un   carattere invariante   per   tutta   la   sua   architettura.   Infatti,   le   opere   che   Aalto realizza   intorno   ai   trent’anni,   la   biblioteca   di   Viipuri   (1927­35),   la sede del giornale «Turun­Sanomat» (1929) e il sanatorio di Paimio (1929­33),   sebbene   in   modo   estremamente   creativo,   partecipano tuttavia al « gusto » dell’architettura internazionale degli anni Trenta. Un’altra   costante   dello   stile   di   Aalto   potrebbe   essere   di   tipo morfologico, riguardare cioè quegli accenti che, superando il rigore schematico e geometrico dei razionalisti, portarono appunto a definire il Nostro come un architetto organico, un parallelo europeo di Wright. Ed infatti la villa Mairea (1938), la Baker House all’MIT (1947) e la Casa della cultura ad Helsinki (1955­58) — per citare solo tre opere assai diverse tra loro e distanti nel tempo — hanno in comune una libertà stereometrica e una fluenza formale che è ignota ai razionalisti. Per   questo   accento   morfologico,   definito   «positivo   irrazionalismo», s’è più volte accostata l’opera di Aalto alle forme di Mirò e di Arp. Tuttavia   per   quanto   l’attributo   di   «organico»   resti   il   più   adatto   a classificare   l’opera   di   questo   architetto,   uno   dei   pochissimi   a   non scrivere   nulla   sulla   sua   poetica,   e   per   quanto   sul   piano   linguistico appaiano   di   frequente   edifici   con   andamento   concavo­convesso   e piante   «informi»,   questi   caratteri   non   esauriscono   la   gamma vastissima del repertorio aaltiano. Anzi se consideriamo le sue opere

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industriali   come   la   fabbrica   di   cellulosa   a   Sunila   (1936­   1939), l’officina meccanica Ahlstrom a Karhula (1944) o quelle costruzioni più tipicamente cittadine, come l’Istituto nazionale per le pensioni ad Helsinki (1952­56), la Casa degli Ingegneri del 1952 o il «Rautatalo», ultimato   nel   ’54   nella   stessa   città,   sembrerebbe   che   il   rigore   geo­ metrico   rappresenti   la   regola,   mentre   le   forme   libere   costituiscano l’eccezione. L’uso   dei   materiali   e   la   presenza   espressiva   di   essi   —   altro   suo contributo   all’architettura   organica   —   rappresentano   un’altra caratteristica costante dello stile di Aalto. Infatti, vi sono «periodi» o gruppi di opere contrassegnati dal legno, dall’intonaco, dal mattone, ecc.; inoltre la natura dei materiali sembra anche alla base della mia attività di  design, ispirare la forma delle sue lampade in metallo, dei suoi vasi in vetro e soprattutto dei suoi mobili in legno. Ma anche in questo   settore   l’idea   convenzionale   (e   naturalistica)   dell’uso   dei materiali   è   smentita   dal   Nostro.   Infatti,   di   fronte   al   massimo sfruttamento della pasta e delle fibre del legno, di fronte alla semplice o   multipla   curvatura   e   taglio   del   compensato   fino   alle   giunzioni   a ventaglio   dei   suoi   più   recenti   tavoli   e   sgabelli,   quanto   si   deve all’artificio   del   chimico   e   quanto   alle   naturali   possibilità   del materiale?   È   chiaro   che   Aalto   media   genialmente   queste   due condizioni, ma è altrettanto evidente che egli adotta sia il materiale allo stato di natura, sia quello elaborato dalla più consumata tecnica industriale.   Inoltre,   al   di   là   del   feticismo   per   la   materia,   troviamo l’idea d’una forma realizzata nelle opere e coi materiali più diversi: la serpentina della Baker House si può considerare simile a quella di alcuni   vasi   di   vetro,   come   pure   la   giunzione   a   ventaglio   dei compensati d’un mobile ritorna del tutto analoga nei nodi strutturali della chiesa di Imatra. Cosicché per quanto di carattere primario, lo stesso uso dei materiali non costituisce ancora una costante nell’opera di Aalto. Tale   costante   potrebbe   infine   trovarsi   nel   fattore   «ambiente»,   nella presenza determinante dell’ambiente. Si pensi soprattutto alle opere

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urbanistiche, a cominciare dal complesso di Sunila (1937­39 e 1951­ 54). Qui tanto la fabbrica di cellulosa, quanto il nucleo residenziale degli   addetti   sono   concepiti   in   funzione   dell’ambiente   naturale;   la prima inserita in un’isola di granito aperta sulla baia, il secondo nella foresta di abeti sulla terraferma. Un analogo schema di rapporto fra centro di produzione, zona residenziale, servizi collettivi e paesaggio, formato in genere da boschi e laghi, informerà tutta l’urbanistica aal­ tiana   indipendentemente   dalla   scala   dell’intervento,   dal   piccolo complesso   sorto   intorno   ad   un’industria   ai   piani   regolatori   di Säynätsalo   (1942),   di   Rovaniemi   (1944),   di   Otaniemi   (1949),   di Imatra (1947), ecc. Ma, se l’interesse ambientale è sempre presente nell’opera   di   Aalto,   a   sua   volta   il   fattore   «ambiente»,   inteso nell’accezione   più   larga,   è   per   se   stesso   variabile   in   infiniti   modi. Pertanto dovremmo concludere che nella multiforme attività aal­ tiana non vi  sono caratteri  costanti ma solo  variabili, che  il suo metodo consiste nel ricominciare sempre daccapo, se non esistesse una interna «vita delle forme» che lega concretamente un’opera all’altra, la cui validità   non   è   solo   ovviamente   ed   ineffabilmente   estetica,   ma   si esprime anche come piena e completa adesione al «mondo della vita». E   tuttavia   questa   eccezionale   apertura   fenomenologica,   che   ha prodotto   alcune   delle   opere   più   convincenti   e   significative   del Movimento   Moderno,   se   dimostra   un’altra   faccia   dell’architettura organica, confermandone così la polivalenza e l’internazionalità, non riesce anch’essa a tradurla in un codice­stile. LE OPERE DELL’ARCHITETTURA ORGANICA La casa Robie Con buona approssimazione possiamo dire che la casa Robie, costruita da Wright nel 1909 in Woodlawn Avenue a Chicago, completi il ciclo di opere note come quello delle Prairie Houses. Completandolo essa riassume molti aspetti di queste case unifamiliari per cui torna utile ri­ cordarne   alcune   prima   d’una   lettura   specifica   dell’edificio   cui

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dedichiamo il presente paragrafo. Una delle prime Prairie Houses è la casa   Winslow   del   1893   nella   quale   appare   la   caratteristica   più ricorrente di questo tipo edilizio, cioè la tendenza alle linee orizzontali accentuata dall’uso del tetto a larghe falde sporgenti. La pianta, pur avendo   una   forma   bloccata   in   un   rettangolo,   contiene   già   quel movimento   di   espansione   che   ritroveremo   nelle   opere   successive, determinato dal  bow­windoiv, dalla sala semi­ circolare sporgente e dal corpo di fabbrica ad archi disposto al lato dell’edificio. La casa Hickox a Kankakee nelPIllinois del 1900  è uno dei tanti edifici di Wright   a   pianta   cruciforme.   La   concezione   architettonica   legata   a questo schema è quella di considerare la pianta non costruita da una serie   di   ambienti   parallelepipedi,   ma   come   uno   spazio   articolato   e continuo.   Ispirandosi   alla   tradizione   dell’edilizia   contadina,   Wright pone al centro della pianta il camino e snoda gli ambienti intorno a questo   nucleo   centrale;   l’espansione   verso   l’esterno   della   casa   dal camino   centrale   conferisce   alle   piante,   assai   spesso,   un   andamento appunto cruciforme. Questo tipo di espansione da un punto centrale è stato definito da Zevi «una conquista centrifuga dello spazio». Nella casa   Hickox   è   da   notare   inoltre   la   notevole   differenza   tra   il pianterreno, ove domina il soggiorno con due lati poligonali, e il piano superiore, dove le camere da letto sono racchiuse in uno schema più bloccato.   Tale   differenza   però   non   è   riscontrabile   nella   volumetria esterna della casa definita essenzialmente dal plastico intersecarsi dei tetti e dalla mancanza di simmetria, caratteristiche che anticipano di oltre un decennio i movimenti figurativi europei. Nella casa Willitts, costruita nel 1902, l’impostazione cruciforme della pianta mostra una maggiore   definizione   che   altrove.   Al   pianterreno   troviamo   nelle quattro espansioni della croce rispettivamente la zona dell’ingresso, quella   del   pranzo,   il   soggiorno   ed   i   servizi,   ciascuna   separata   dal blocco del camino centrale. Il piano superiore, con camere da letto e biblioteca, ha lo stesso perimetro della pianta sottostante; l’edificio sarebbe così esternamente bloccato da un volume determinato dalla pianta a croce e dall’altezza costante di due piani, se un lungo portico

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non eliminasse la bloccata streometria della casa con il suo dinamismo asimmetrico. Ancora a pianta cruciforme è la casa Roberts costruita nel   1908;   distributivamente   simile   a   quella   precedentemente esaminata,   essa   se   ne   differenzia   sensibilmente   quanto   alla conformazione   spaziale,   specie   al   suo   interno   dove   il   soggiorno acquista un aspetto particolare. Quest’ambiente, alto fino alle falde del tetto, è interrotto da una galleria sul lato del camino, la quale circonda la parte più intima del soggiorno e crea, con i suoi angoli a 45°, delle zone incassate e raccolte, sia al pianterreno che al primo piano. _I mattoni   del   camino,   le   superfici   bianche   scandite   da   liste   di   legno scuro che, oltre a sottolineare la plasticità dei riquadri, si prolungano a formare elemento d’arredo, costituiscono uno degli esempi più tipici del gusto dei materiali nello stile di Wright. Dopo questi precedenti esempi, che costituiscono solo una parte della produzione di Wright in questo campo, veniamo alla casa Robie, che li   assorbe   un   po’   tutti,   ribaltandone   tuttavia   il   carattere   principale; infatti   la   sua   caratteristica   esponente   è   quella   di   essere   una   villa urbana: non più piante a croce tendenti ad espandersi nel verde della campagna   o   dei   boschi,   ma   pianta   distesa   parallela­   mente   ad   un grande  viale  cittadino, sia  pure  a quell’epoca  ricco  di  verde  e  non soffocato, come ora, dall’edilizia circostante. Schematicamente la villa si compone di un pianterreno, di un primo piano e d’un secondo che si sviluppa   normalmente   al   volume   formato   da   due   piani   sottostanti; come si vede un compromesso fra un andamento lineare, quello del corpo di fabbrica parallelo alla Woodlawn Avenue, e uno cruciforme determinato dall’incrocio di detto corpo di fabbrica con quello assai più modesto del terzo piano. Ma se queste schematiche indicazioni volumetriche servono alla comprensione della conformazione generale dell’opera, la sua valenza è tutta affidata agli aspetti particolari; infatti basta la presenza di un muro di recinzione o di un mutato dettaglio a rendere la spazialità esterna ed interna della casa Robie assai ambigua e complessa. Cerchiamo allora di «leggere» quest’opera secondo que­ sta   sua   più   particolare   conformazione.   La   pianta   del   pianterreno

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presenta un suo nucleo centrale con al centro il camino fiancheggiato da   due   ambienti,   quello   del   biliardo   e   della   sala   per   i   giochi   dei bambini; tale nucleo è simmetrico nelle sue parti: due scalette disposte sui lati estremi lo collegano al terreno, due  bow­windows  uguali si aprono nelle sue testate, uno spartito di aperture assiali conferma tale simmetria. Al piano superiore detto nucleo conserva quasi inalterate le stesse caratteristiche: ritroviamo gli acuminati  bow­windows  in asse con quelli sottostanti, i due ambienti separati dal camino conservano la stessa superficie di quelli inferiori mutando solo la loro destinazione rispettivamente   in   zona   soggiorno   e   in   zona   pranzo.   Ma   una   volta definito questo nucleo di  base simmetrico, ecco intervenire le altre parti   della   casa   a   sconvolgere   quella   quiete   in   una   dinamica incessante. Intanto sia al primo che al secondo ordine si affianca un altro corpo di fabbrica traslato rispetto al nucleo descritto e contenente al pianterreno garage ed ambienti di servizi, al piano superiore una camera per ospiti, la cucina, un alloggio per domestici. Accanto al camino   si   snoda   la   scala   formando   con   esso   l’asse   verticale   della composizione. Tangenzialmente a questo e normalmente al corpo di fabbrica sottostante s’incrocia il piano contenente le camere da letto. Il gioco delle dissimmetrie prosegue: al pianterreno un cortile recintato da un muro sbilancia verso destra la composizione; le forti sporgenze laterali del tetto sarebbero simmetriche rispetto al nucleo centrale se la presenza del terzo ordine, coperto da un tetto ad andamento normale al primo,   non   alterasse   percettivamente   tale   disposizione;   nello   stesso nucleo   centrale   si   determina   un   forte   divario   fra   primo   e   secondo piano dovuto allo sbalzo di questo su quello che crea una forte zona d'ombra e un effetto di levitazione di tutti i volumi in fuga, accentuato anche dai sensibili aggetti delle falde di copertura e dalla teoria di finestre disposte proprio lungo la linea di sbalzo dei tetti. In sintesi, la casa Robie ci sembra un organismo, il quale sia all’interno — ed è qui dove   maggiormente   s’avverte   quell’adesione   di   Wright   alla   cultura dell’Einfuhlung   «astrazione»   —   sia   all’esterno   pare   aver   subito   un profondo   processo:   da   un   ordine   fisso   e   simmetrico   in   un   altro

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totalmente   dinamico   ed   inedito.   Tale   processo   rimane   però   una struttura   soggiacente   e   nascosta;   esso   non   è   più   avvertibile   nella conformazione finale dove tutto assume un uguale efficacia e valore, un muro di recinzione, come s’è detto, assume la stessa importanza di un piano abitato, Pelemento più modesto realizza ed è parte del ritmo generale nella stessa misura di quello più ricco. La casa Kaufmann (Fallingwater) Costruita tra il 1936 e il ’39 la casa della cascata è l’opera più nota di Frank   Lloyd   Wright   e   la   più   emblematica   di   tutta   l’architettura organica,   avendo   peraltro   alcune   connotazioni,   basti   pensare all’insolito luogo dove nacque, alle vicende della sua costruzione ecc., che in tutti i tempi hanno giovato alla popolarità di un’opera archi­ tettonica. Si direbbe che queste piccole mitologie aneddotiche servano in parte a colmare quel divario comunicativo fra arte e pubblico che si manifesta   maggiormente   per   le   cosiddette   arti   asemantiche   quali l’architettura e la musica. La costruzione sorge in una località detta Bear Run (Penn.), ricca d’alberi, di rocce, di cascate e torrenti e fu inserita   parallelamente   al   torrente   che   dà   il   nome   all’intera   zona proprio nel punto in cui scende in esso dal declivio sovrastante una cascata. Va detto anzitutto che gli sbalzi della costruzione verso valle non sono protesi su una vasta superficie d’acqua come un trampolino su una piscina, ma tendono idealmente a collegarsi con l’altra sponda del torrente, in realtà molto vicina, a guisa di un ponte fra le due rive. Ciò   non   appare   dalla   notissima   foto   dal   basso   e   ci   sembra   da sottolineare perché mostra come, inserendosi secondo l’andamento del torrente e nel punto più stretto di esso, l’edificio si leghi alla natura del luogo   senza   violenza   e   senza   giocare   effetti   di   sospensione psicologica. Al piano principale ed al lato del camino, poggiante su un macigno ed anche   qui   fulcro   dell’intera   composizione,   è   il   grande   soggiorno aperto verso sud e fiancheggiato da due terrazze; sul suo angolo ad est è l’ingresso (cui si accede da una carrozzabile che valica il torrente

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con un ponte e lambisce l’intero lato settentrionale della villa) al quale segue la scala che porta ai piani superiori, quindi una piccola zona per il pranzo e la cucina. Questa sequenza di locali occupa tutto il lato nord dell’edificio che da questa parte poggia e s’incastra nel blocco roccioso. Dal soggiorno con una grande scala si scende al basamento dell’edificio   dove   dall’acqua   della   cascata   emergono   sagomati sostegni di cemento ed altri elementi portanti formati da blocchi di pietra locale rudemente sgrossati e disposti a ricorsi orizzontali. Tra gli   elementi   più   significativi   del   piano   del   soggiorno   è   la   piccola terrazza   disposta   sul   lato   ad   ovest   che,   essendo   libera   su   tre   lati, accentua la volumetria dinamica della fascia piena orizzontale della prima balaustra. Al piano superiore lo spazio della parte coperta della casa si restringe lungo Passe nord­sud tanto da contenere tre camere da letto coi relativi bagni; ciascuna di esse si apre su una terrazza, disposte   rispettivamente   ad   ovest,   est   e   sud;   quest’ultima   incrocia quelle   del   soggiorno   sottostante,   del   quale   peraltro   costituisce   la copertura. Al terzo piano vi è una sola camera da letto, un bagno ed ancora una terrazza. I tre piani della casa si arretrano gradualmente verso il costone roccioso e in maniera tale che le terrazze di ciascuno risultano   nella   loro   maggiore   dimensione   normali   alle   terrazze   dei corpi sottostanti. Cosicché, tenendo fisso il fulcro del camino costruito anch’esso   della   pietra   del   luogo,   il   succedersi   dei   piani   descritto equivale ad un continuo incrociarsi di un volume sull’altro; lo schema cruciforme di molte Prairie Houses diventa qui una sorta di incrocio spaziale.   Dell’andamento   cruciforme,   però,   nella   casa   Kaufmann, rimane solo, per così dire, il sistema, ma non la morfologia; infatti pur assistendo   ad   un   continuo   incrociarsi   di   volumi   e   di   piani,   nulla presenta la vera e propria forma di una croce, sia perché questo in­ contrarsi a 90° degli elementi avviene a diversi livelli, sia soprattutto perché aggetti e rientranze sono del tutto imprevedibili, riflettendo un movimento di contrazione ed espansione che è proprio alla « logica » interna   di   questo   eccezionale   organismo.   Ma   oltre   al   criterio dell’incrocio spaziale, quali altri costituiscono la logica compositiva

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dell’opera? Due ci sembrano prevalere: quello di una progettazione che   procede   dall’interno   verso   l’esterno,   qui   reso   più   evidente   dal libero affermarsi di ciascun ambiente, completamente decondizionato da fissi accostamenti orizzontali e da rigide sovrapposizioni verticali, come confermano gli stessi ambienti esterni, le terrazze, e quello del­ l’integrarsi dell’edificio con un particolare ambiente naturale. I due princìpi danno luogo ad una profonda tensione fra il massimo grado di libertà   degli   elementi   artificiali   ed   il   massimo   vincolo   di   quelli naturali. La dissimmetria dei corpi, lo slitttamento dei volumi e dei piani   rispondono   sì   ad   una   volontà   conformatrice   figurativa,   ma riflettono   anche,   s’adeguano   ed   esaltano   l’organico   «disordine» proprio alla natura del luogo; anzi si può dire che la casa traduce in artificio la forza selvaggia di queste rocce e corsi d’acqua. E tuttavia la   traduce   senza   alcuna   concessione   mimetica;   infatti,   ove   si eccettuino gli elementi verticali in pietra locale (ma chi dubiterebbe che   non   siano   stati   a   loro   volta   artefatti?),   i   tratti   più   segnati dell’opera,   quelli   che   la   definiscono   e   la   distinguono   dal   contesto paesistico, sono le chiare terrazze a vassoio, ovvero bassi volumi così pregnanti, stereometrici ed artificiali da annullare figurativamente gli stessi   ambienti   interni,   appena   contrassegnati,   fra   il   verticalismo rustico dei sostegni e l­’orizzontalità liscia delle balaustre, tra traspa­ renti e riflettenti vetrate. A parte i preziosissimi dettagli (ricorderemo qui   solo   quella   finestra   ad   angolo   che   collega   un’intera   verticale disposta ad ovest), la casa della cascata è tutto un gioco dall’equilibrio apparentemente instabile di solidi massi rocciosi e di taglienti volumi stereometrici che, mentre sembrano ancorarsi ai primi, si librano nello spazio in virtù della loro rigidezza che in definitiva è quella della loro forma. La Price Tower Se   1’«accampamento»   di   Taliesin   West,   costruito   nel   1938   presso Phoenix in Arizona, è la fabbrica di Wright più organicamente legata alla terra, l’opera, per così dire, più orizzontale, la torre Price, pur

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composta anch’essa con forme ad angoli diversi da 90° è, fra quelle realizzate, l’opera più verticale. E ciò non tanto per il numero dei piani e   l’altezza   effettiva   dell’edificio,   quanto   per   la   sua   figurazione   di forme aguzze, di acute lamine, di ^disposizione di elementi a coltello, tutte puntate verso l’alto. Essendo stato costruito tra il 1953 e il ’56 questo piccolo grattacielo dovrebbe figurare nell’ultima parte del nostro libro dedicata appunto alle opere realizzate dopo la seconda guerra mondiale. D’altra parte esso  è in un certo senso retrodatabile in quanto si collega ad una precedente serie di progetti per edifici alti: quello per il Press Building di S. Francisco, quello per la National Life Insurance Company di Chicago del 1924, quello per la St. Mark’s Tower di New York del 1929, il progetto di un gruppo di grattacieli   per   il   quartiere   residenziale   Cry­   stal   Heights   di Washington   del   1940,   senza   parlare   della   torre­laboratorio   della fabbrica   Johnson   del   1947,   un   altro   dei   precedenti   più   diretti dell’opera cui dedichiamo il presente paragrafo. La Price Tower, costruita a Bartlesville in Oklahoma, si compone di 19 piani per complessivi 56 metri d’altezza. Ai primi due piani sono sistemati,   fruendo   anche   d’un   corpo   di   fabbrica   che   fuoriesce   dal perimetro della torre, un gruppo d’uffici, l’appartamento del custode e il garage. Dal terzo piano in poi si ripete un piano tipo che presenta un perimetro quadrato al centro del quale, lungo una croce, ruotata di 15° rispetto   alle   diagonali,   sono   disposte   quattro   «spine»   di   cemento armato   contenenti   ascensori   ed   impianti   e   formanti   la   struttura portante   dell’intero   edificio.   I   solai   sono   sostenuti   a   sbalzo   da   tali spine, che inoltre dividono ciascun piano in quattro settori a forma di trapezio.   Tre   di   essi   sono   adibiti   ad   ufficio,   mentre   nel   quarto   è ricavato un alloggio duplex. Il piano superiore di questo conserva la forma   trapezoidale   degli   altri   settori   e   contiene   la   zona   letto dell’alloggio,   mentre   quello   inferiore,   che   comprende   l’ingresso,   il soggiorno e la cucina, con la sua forma rettangolare, fuoriesce con uno dei suoi angoli dal perimetro del quadrato di base. La diversa forma

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pianimetrica   dell’alloggio   rispetto   a   quelle   degli   uffici,   non   solo realizza uno spazio interno più adeguato ad una casa, ma consente anche di  denunziare all’esterno i solai ad ogni due piani. Infatti la facciata corrispondente al lato degli alloggi (poiché il perimetro del piano superiore del duplex è contenuto in quello del piano sottostante, ovvero poiché dalla zona letto si affaccia sul soggiorno) segue il filo formato dal perimetro della pianta del soggiorno, ossia presenta una vetrata di chiusura verso l’esterno avente l’altezza di due piani. Ma nonché differenziarsi dai vicini settori degli uffici, aventi un modulo verticale   d’un   solo   piano,   quello   degli   alloggi,   con   i   suoi   solai fuoriuscenti   dal   quadrato   di   base,   presenta   anche   uno   sperone verticale, che rende dinamica ed ambigua l’intera volumetria esterna. E l’ambiguità è tanto più forte perché questo mutamento di profilo piano­volumetrico avviene proprio in una zona che, denunciando piani a doppia altezza, risulta maggiormente segnata. Un analogo gioco di speroni fuoriuscenti dalle pareti della torre si ha in corrispondenza dei bow­windows degli uffici, uguali a quello della cucina del duplex e in corrispondenza del pianerottolo della scala avente forma rettangolare. A parte i ricorsi orizzontali delle balaustre piene, in tutto l’edificio domina il vuoto delle aperture, che hanno una maglia orizzontale per i settori   degli   uffici   ed   una   verticale   per   quello   degli   alloggi;   l’una schermata   da  brise­soleil  orizzontali,   l’altra   da   lamine   frangisole verticali. Come risulta dalla nostra sommaria descrizione, la Price Tower è un organismo   dalla   conformazione   molto   serrata,   nel   senso   che   ogni elemento   sia   primario   che   secondario   gioca   un   suo   preciso   ed insostituibile ruolo. In quanto tale l’edificio fu curato da Wright in ogni particolare, dal centrale sostegno delle spine alle pareti esterne prefabbricate, dagli elementi fissi dei servizi e dell’arredo interno alla plastica   minore   e   la   decorazione   esterna.   Questa   si   evidenzia soprattutto sui parapetti alternativamente lasciati in cemento liscio e ricoperti da lastre di rame con basso­ rilievi, cui è stata chimicamente data la patina verdeazzurra che questo materiale acquista di solito col

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tempo. I motivi figurali della decorazione delle balaustre in rame e di alcuni ambienti interni all’edificio si rifanno sì ai ritmi architettonici generali,   ma   anche   al   gusto   di   forme   astratte   risalenti   ai   tempi dell’Imperial Hotel di Tokio e dei Mid­way Gardens a Chicago, ossia a quando Wright sperimentava per suo conto una sorta di astrattismo geometrico   simile   a   quello   dell’avanguardia   figurativa   fra   le   due guerre e ritornato in voga proprio negli anni ’50. La   Price   Tower   non   è   tra   gli   esempi   più   felici   della   produzione wrightiana,   ma   l’abbiamo   inclusa   tra   le   opere   paradigmatiche dell’architettura organica perché mentre incarna molti aspetti di questa tendenza — essa infatti è stata giustamente paragonata ad un albero — risulta anche il modello di numerosi edifici successivi che ne hanno ripreso   la   struttura   (un   fusto   centrale   sostenente   piani   e   volumi   in libera espansione), intendendo tale termine sia come fatto statico che come conformazione spaziale.

La biblioteca di Viipuri La   progettazione   di   quest’opera,   emblematica   dell’architettura organica di estrazione europea, fu affidata ad Alvar Aalto in seguito ad un concorso da lui vinto nel 1927 e il completamento dell’edificio avvenne nel 1935. Già da queste date si pone il problema di collocare la figura dell’architetto nel periodo del razionalismo e di vedere in che cosa egli si distacca da tale codice­stile. La   biblioteca   presenta   nella   sua   generale   volumetria   due   corpi   di fabbrica traslati fra loro. Il maggiore contiene locali di consultazione, la biblioteca ragazzi, i depositi e la sala di lettura articolata su due livelli.   Il   corpo   di   fabbrica   più   piccolo   presenta   al   pianterreno l’ingresso,   una   sala   per   conferenze   mentre   il   piano   superiore   è interamente occupato da una serie di uffici. La divisione di due zone della sala di lettura è ottenuta con un dislivello colmato da una grande scala a doppia rampa che collega la zona destinata ai lettori con una di

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smistamento e controllo e quest’ultima con i depositi. È da notare in questo   ambiente   quello  che   sarà   un  fattore  ricorrente   nello  stile   di Aalto e dell’architettura organica in genere, ossia la «sezione libera», vale a dire l’articolazione su due o più livelli dello spazio all’interno di una bloccata volumetria, sebbene in questo caso anche all’esterno, nella copertura sia denunciata la differenza d’altezza dei piani interni. Un altro elemento considerevole dell’ambiente in esame è la scala, funzionale   nel   suo   doppio   percorso,   ottenuto   con   una   semplice separazione dovuta ai corrimano della ringhiera, quello dal deposito al banco di  distribuzione e quello dal banco alla zona dei lettori. Ma nonché funzionale il disegno della scala e dei corrimano è tutta una anticipazione del gusto organico con le sue plastiche fluenze lineari. L’illuminazione è ottenuta con delle aperture tronco­coniche praticate nel soffitto così che all’esterno, a parte il già ricordato dislivello della copertura, la volumetria di questa parte dell’edificio è completamente chiusa in un unico blocco pieno. Passando al corpo di fabbrica minore, al di sopra degli uffici è la sala delle conferenze resa famosa dalla sua controsoffittatura   ondulata   realizzata   dall’accostamento   di   doghe   in pino di Carelia; essa conforma una superficie ad andamento concavo­ convesso,   giustificata   sì   da   ragioni   d’ordine   acustico,   ma indubbiamente dettata dal gusto di una nuova figuratività. Osserviamo tra l’altro che mentre nell’ambiente della biblioteca c’è una completa chiusura,   una   separazione   dal   mondo   esterno   per   la   massima concentrazione del lettore sul libro, nella sala delle conferenze, mentre si   ascolta   l’oratore,   è   dato   spaziare   con   lo   sguardo   sul   paesaggio circostante.  È  questo  un esempio  della funzione  psicologica  che la tendenza organica vanta sul mero funzionalismo di alcuni razionalisti. Altri aspetti tipici di quest’opera e segni del differenziarsi di Aalto dal razionalismo sono a livello linguistico, come abbiamo già notato, una fluida plasticità che specie negli interni si oppone alla legge delle pure stereometrie; il rifiuto o la limitata adozione di elementi e soluzioni già   pronte:   implicitamente   la   produzione   standard.   Essendo   ogni fabbrica un nuovo organismo, la progettazione deve cominciare ogni

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volta daccapo e tutto essere costruito ex novo; cosicché egli interviene in ogni settore a disegnare o ridisegnare tutto quanto è possibile dalla struttura   all’arredo   fisso,   dai   mobili   alle   lampade.   Ancor   più sintomatico   e   che   tale   orientamento   si   manifesti   sin   da   questa Biblioteca   che   per   la   sua   importanza   possiamo   considerare   la   sua opera prima. Il sanatorio di Paimio Originato anch’esso da un concorso vinto da Aalto e realizzato tra il 1929 e il ’33, questo edificio è composto da tre corpi di fabbrica. Il primo, che comprende le camere di degenza per 290 pazienti, è alto sei piani ed è orientato a sud­est; il secondo contiene sale da pranzo e di soggiorno, mentre il terzo è destinato alle cucine ed ai servizi; gli alloggi   per   i   medici   e   gli   infermieri   stanno   in   edifici   a   parte.   Il sanatorio è ispirato a due direttive: quella di seguire l’andamento del suolo e quella di sfruttare al massimo i vantaggi dell’orientamento ai fini terapeutici. Infatti mentre al mattino gli ammalati stanno nel lato più caldo, nel pomeriggio, quando il sole si sposta verso occidente, essi si trasferiscono in un corpo di fabbrica orientato in tale direzione. Inoltre   agli   estremi   di   ciascun   piano   del   corpo   delle   degenze, caratterizzato da un’articolazione abbastanza semplice di fasce piene e vuote, abbiamo balconi e terrazze, anch’essi destinati all’elioterapia, che   arricchiscono   notevolmente   la   testata   dell’edificio,   al   punto   da rendere   questa   parte   la   più   espressiva   ed   emblematica   dell’intero complesso. Apparentemente   il   sanatorio   risente   del   gusto   razionalista   più   di quanto non si verifichi per la Biblioteca di Viipuri. Ma anche qui, dove maggiormente Aalto raggiunge la sua qualificazione di architetto organico è all’interno dove, col disegno di tutti gli elementi mobili ed immobili, egli riesce a portare la cura e l’impegno qualitativo proprio all’artigianato nell’ambito dei manufatti prodotti industrialmente. Di   notevole   interesse   è   anche   la   struttura   portante   del   corpo   di fabbrica   principale;   essa   è   formata   da   un   grosso   pilastro,   posto   al

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centro del lato breve, che, risegando verso l’alto, regge i solai a sbalzo dall’uno e dall’altro lato. Dal punto di vista funzionale, molti autori hanno definito il tubercolosario «una trappola per il sole»; da quello linguistico, come ha osservato Benevolo, a proposito di ciò che unisce e divide  l’architettura di   Aalto da  quella  dei razionalisti,  in questo edificio l’autore «adopera gli elementi del linguaggio corrente quasi testualmente,   per   trasformare   poi   il   loro   significato   attraverso   la composizione d’assieme. Non v’è dubbio però che in questo edificio è espressa, con forte anticipo rispetto a tutto il movimento europeo, una tendenza  che   cinque  o  sei   anni  dopo  è  presente  in  molti  luoghi,  e anche nella produzione di Gropius dal soggiorno inglese in poi»8. 8­ Benevolo, Storia dell'architettura moderna, cit., p. 672. Tale tendenza è quella di snodare variamente tra loro, sia per motivi orografici, sia funzionali, sia infine di tendenze del gusto, corpi di fabbrica   lineari   e   stereometrici;   una   composizione   architettonica dunque più organica nella sua sintassi che nella sua morfologia. Il Padiglione finlandese all’Esposizione di New York Già   nel   ’37   Aalto   aveva   progettato   il   padiglione   del   suo   paese nell’Esposizione di Parigi, dove, obbligato a disporre il suo piccolo impianto   in   una   zona   un   po’   appartata,   seppe   trarre   il   massimo vantaggio   da   questa   condizione.   Infatti,   inserendo   la   sua   bassa costruzione   dietro   una   fila   d’alberi   ombrosi,   tradusse   questa ubicazione   riposante   nell’accento   modesto   ed   accogliente   del Padiglione finlandese, tanto più gradevole quanto più in contrasto con le retoriche installazioni dei paesi vicini. Ma se il padiglione del ’37 portò Aalto alla ribalta della notorietà internazionale, quello del ’39 a New York segnò una autentica svolta del gusto. Qui l’architetto costruiva una grande parete ondulata che, unitamente ad   uno   spazio   antistante   formava   una   fascia   quasi   diagonale   al rettangolo di pianta; questa fascia determinava poi due aree angolari, l’una   destinata   all’esposizione,   l’altra   al   ristorante   ed   al   bar. L’ondulata parete centrale, formata da listelli di legno simili a quelli

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della Biblioteca di Viipuri, era l’elemento caratterizzante dell’intera composizione. Si trattava di un supporto per fotografìe, ma nel suo differenziarsi   dai   supporti   tipici   del   razionalismo,   fatti   da   leggeri elementi   verticali   ed   orizzontali   ispirati   generalmente   alla   grafica neoplastica   —   dove   le   immagini   fotografiche   dovevano   annullare idealmente   ogni   sostegno   e   farsi,   per   così   dire,   aeree   —   quello   di Aalto s’imponeva per la sua massa e diventava un fatto plastico così pregnante da impegnare la percezione dell’intero spazio interno. Di fatto  Alvar  Aalto ribalta la tecnica espositiva dei razionalisti: fermo restante   l’interesse   per   le   cose   o   le   immagini   esposte,   egli   ai sottilissimi sostegni ne sostituisce uno che per il suo materiale e la sua conformazione è già di per sé portatore di un significato: in questo caso un emblema dell’orografia e del materiale tipico della Finlandia. Quanto all’evoluzione del gusto, è stato osservato che dopo o accanto all’astrattismo   geometrico   di   Malevich,   dei   costruttivisti,   dei neoplastici, si afferma un nuovo astrattismo di tipo organico, quello delle   forme   di   Mirò   e   di   Arp.   Allo   stile   di   quest’ultimo, contrassegnato da motivi «liberi», ed ameboidi, si associa, secondo alcuni   critici,   il   disegno   di   Aalto,   specie   per   quanto   concerne   la plastica minore, i mobili, le lampade, gli oggetti di vetro, ecc. In real­ tà,   oltre   a   rivendicare   l’autonomia­  dell’invenzione   plastica dell’architetto finlandese, così permeata in ogni suo intervento da non poter essere frutto di ispirazione altrui, ci pare che egli abbia operata una   profonda   sintesi   della   figurazione   astratta   che   fa   capo   al razionalismo con l’altra propria alla morfologia organica. Infatti, se in alcuni edifici come il sanatorio di Paimio troviamo — a parte il design organico dell’arredo — una stereometria razionalista negli elementi, questi, come s’è visto, seguono tuttavia una sintassi organica. In pari tempo, se nel Padiglione di New York prevale l’impiego delle forme libere,   esse,   sono   tuttavia   ottenute   con   l’adozione   rigorosa   di   tanti elementi modulari. Cosicché il supporto allestito a New York denota l’intenzione di rompere con le forme geometriche recuperando d’altra parte le risorse del procedimento additivo e modulare, conservando

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così la matrice razionalistica del prodotto industriale senza cadere in alcuna sorta di arbitrario formalismo; non si smentiscono i capisaldi del metodo razionalista ma se ne tenta una evoluzione. Informate alla stessa logica  sincrética  sono tutte le opere successive di Aalto, dai Dormitori dell’MIT al Municipio di Säynätsalo, dalla Torre di Brema alla chiesa di Imatra fino a tutte le altre costruzioni che esorbitano cronologicamente dal presente capitolo. Resta fermo tuttavia che lo stile   del   maestro   finlandese,   pur   così   definito   e   riconoscibile,   è contraddistinto, come s’è detto, dal procedimento fenomenologico di cominciare, per così dire, ogni volta daccapo. Capitolo sesto Un CODICE VIRTUALE Nella seconda metà del secolo il Movimento Moderno subisce una svolta tale da interrompere la continuità della linea razionale­organica a vantaggio di un  International Style, ma soprattutto si verifica che, alle   poche   tendenze   caratterizzanti   ciascuno   dei   periodi   precedenti, subentra una pluralità di correnti difficilmente riducibili a un unico codice­stile. Di   fronte   ad   una   produzione   meramente   quantitativa,   alla   mancata pianificazione,   all'espansione   senza   precedenti   con   la   quale   si realizzano   edifici   e   città   per   la   ricostruzione   post­bellica,   spesso guidata unicamente dall'economia di profitto, la cultura architettonico­ urbanistica per sopravvivere sembra dover lottare contro la condizione presente. Si parla appunto di «presente contestato». Ma ciò comporta profonde   contraddizioni.   Infatti,   secondo   l'estetica   del   pensiero «negativo», inteso come negazione dell'immediato, dello strapotente esistente   in   quanto   dato   insuperabile,   del   mondo   in   cui   domina   la legge   di   necessità   e   il   principio   di   prestazione,   l'arte   e   per   essa l'architettura avrebbe la funzione di negare la non­libertà che è propria al   presente   storico,   di   trascenderlo   in   nome   del   ricordo   e   della promessa di una natura e di un'umanità conciliate. Ma è qui che si rivela   il   paradosso   costitutivo   dell'arte   che   negando   la   non­libertà

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dell'esistenza umana, non può che farlo positivamente, ossia attraverso le seduzioni della forma estetica che dà parvenza di realtà a ciò che non esiste.  (1)  Cfr. V.  Corbi, L'estetica  del  «  pensiero negativo  in Marcuse, in «Op. cit.», settembre 1968, n. 1  Consapevoli o meno di questo  paradosso e nel tentativo di superarlo, i migliori   architetti   tendono   a   «distinguere»   le   loro   opere   dalla produzione corrente e in generale a introdurre nel ridondante contesto della scena urbana un fattore di «estraneamento» che vale appunto come   permanente   atto   di   critico   rifiuto   del   presente   contestato. Assunta   questa   posizione   alla   cultura   architettonica   non   resta   che puntare   su   una   sorta   di   tipo­ideale   formato   dalla   dimensione   del passato   coniugata   con   una   prospettiva   futura,   dal   binomio  storia­ utopia,   donde   la   nostra   proposta   di   un   «codice   virtuale»,  (2) L’aggettivo da non confondere con la virtualità della cultura digitale, così come successivamente è avvenuto. basato su questi fattori. Siamo   giunti   a   questa   conclusione,   che   tenteremo   di   motivare   nel modo   migliore,   dopo   aver   esaminato   i   sottocodici   (le   tendenze nazionali, i raggruppamenti per tipi morfologici, sintattici, semantici, ecc.) e constatato che i loro caratteri più invarianti sono da un lato il recupero della storia e dall'altro la spinta verso un prevedibile assetto futuro,   come   del   resto   è   implicito   in   ogni   atto   progettuale   che   in definitiva è sempre un programma d'una realtà in fieri.  Prima di  esaminare  i  sottocodici e quindi di narrare la storia delle principali   tendenze   dell'architettura   del   secondo   ‘900,   chiariamo meglio i termini e svolgiamo alcune considerazioni che confortano la nostra tesi. Anzitutto, riferendoci alla componente «storia», va distinta una   storia   come   produzione   del   passato,   da   una   storia   come «tradizione   del   nuovo».   Rispetto   al   passato,   l'architettura relativamente più recente non nutre più l'avversione propria ad alcuni maestri del Movimento Moderno; esso, si afferma, viene visto come «un   amico   »,   dal   quale   sembra   lecito   trarre   molteplici   indicazioni. Rispetto alla «tradizione del nuovo», alla produzione fra le due guerre, l'architettura   ha assunto una posizione che la critica contemporanea

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più   avvertita   ha   già   da   tempo   indicato.   Per   essa   il   Movimento Moderno   non   è   più   inteso   come   processo   lineare   «da   Morris   a Gropius» o «da Ledoux a Le Corbusier», ma come una vicenda assai più complessa, ricca di azioni e reazioni aventi diramazioni inespresse o inesplorate. Pertanto, il recupero della storia, inteso nei due sensi suddetti,   non  produce   mai   quel   fenomeno   di  eclettismo   storicistico lamentato da qualche autore. Esistono oggi condizioni sociali, scale d'intervento, possibilità tecnologiche tali da consentire all'architettura odierna ogni «citazione», ogni ripresa di elementi, ogni ripensamento della tradizione storica senza cadere nell'eclettismo; si può dire che possediamo   un   codice   forte   ancor   prima   della   sua   vera   e   propria istituzione, che abbiamo un nostro Kunstwollen anche se la critica non l'ha ancora teorizzato. Riferendoci   alla   componente   «utopia»,   essa   si   presenta   sotto   varie forme che avremo modo di specificare, resta comunque inteso che la componente utopica del nostro codice virtuale non vale quindi per il grado della sua realizzabilità, quando peraltro tutto sembra possibile, ma   soprattutto   per   la   sua   intenzionalità.   Come   per   l'utopia   conta l'intenzionalità, per la storia conta la dimensione della memoria. Una memoria collettiva e universale senza la specificità di un tempo e di un luogo, in ciò del tutto simile all'utopia come vuole la sua stessa definizione. Il codice­stile che intendiamo costruire intende riportare la diversità eclettica   all’unità   storico­critica   avvalendoci   dei   principali   sotto­ codici,   donde   la   ricerca   delle   individualità   nell’unità.   Esso,   inteso come   tipo­ideale   tenderà   a   fornirci   un   quadro   concettuale   unitario anche se non ci impedirà di cogliere il prevalere della componente storica   su   quella   utopica   o   viceversa   a   seconda   dei   casi   e   ancora quando   esse   saranno   intimamente   legate.   Detto   diversamente, cercheremo di individuare dove finisce per ogni architetto o tendenza il suo debito verso la storia e dove, per così dire, inizia il suo credito verso l'utopia.

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Nuovo empirismo. La prima reazione (o la più nota) al codice­stile del razionalismo si ebbe   in   Scandinavia.   Notiamo   per   inciso   che   senza   perdere   la   sua valenza   internazionale   l'architettura   post­razionalista   si   è   talvolta caratterizzata diversamente nei vari paesi, cosicché il nostro codice virtuale tiene anche conto delle componenti nazionali. Questo appunto è il caso dei paesi scandinavi. Già s'è visto il notevole apporto di Aalto alla trasformazione del razionalismo in organicismo; la Svezia che nel secondo dopoguerra divenne per oltre un decennio il paese­guida per la sua saggia amministrazione urbanistica e per un'architettura come espressione diffusa senza contrasti, ebbe  con Erik Gunnar  Asplund (1885­1940)   prima   e   con   Sven   Markelius   (1889­1972)   poi,   due architetti   che   precorsero   il   clima   del   neoempirismo.   Del   primo ricorderemo l'Esposizione di Stoccolma del 1930, che segnò l'adesione dell'architetto al  razionalismo e al tempo stesso  un superamento di esso in quella chiave di più libere articolazioni che saranno proprie a tutta l'architettura svedese; l'ampliamento del Municipio di Goteborg 1934­37 (che con l'accostamento di un corpo di fabbrica schiettamente moderno al classicistico edificio preesistente creò il primo felice caso di   coesistenza   tra   antico   e   nuovo,   costantemente   richiamato   nel dibattito sviluppatosi  su  questo tema  negli anni del dopoguerra); il Crematorio del cimitero di Stoccolma, 1935­40, che con il suo rigore classico   costituisce   forse   il   primo   esempio   di   architettura contemporanea   con   ripensamento   alla   storia.   Con   Markelius   ­   del quale ricorderemo l'auditorio di Hälsingborg, 1926­32, il padiglione svedese all'Esposizione universale di New York del '39, la sede dei sindacati a Linkòping del '53 e il Nuovo centro di Stoccolma del '62 quali tappe di una vasta e fertile attività professionale ­ il passaggio dal   rigore   razionalistico   alla   più   ricca   varietà   del   lessico   e   della sintassi organica risulta in tutta la sua evidenza. New Empirism

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Alla   tendenza   della   generazione   successiva,   la   critica   inglese attribuiva   il   nome   di  New   Empirism.   Questa   non   nega   la   lezione razionalista,   ma   ne   amplia   i   termini   linguistici   conferendovi   nuovi accenti. Il termine «funzione», ad esempio, viene esteso ad includervi soprattutto quella psicologica. Riappaiono i tetti inclinati, le finestre nelle   loro   tradizionali   dimensioni,   l'uso   dei   materiali   tradizionali, segnatamente   legno   e   mattoni,   la   decorazione.   Inoltre   si   tenta, attraverso l'uso di una geometria più ricca di elementi, di conformare edifici   ed   ambienti   più   variamente   articolati;   si   pensi   al   quartiere Grùndal di Backström e Reinius del 1945, dove l'accostamento di un tipo edilizio trilobato ad altri uguali determina un complesso a cortili esagonali di notevole efficacia espressiva. Un'altra variazione rispetto alla   disposizione   lineare   delle  Siedlungen  razionaliste   è   dato   dal punkthus, dalla casa alta, vista sia come più economica evoluzione di una tipologia edilizia, sia come più vario elemento compositivo nella scena urbana e nel paesaggio. Inoltre, com'è stato osservato, il nuovo empirismo si presentò come una proposta completa, dall'arte applicata al design, dall'arredamento all'architettura e all'urbanistica. In questo campo va ricordata l'adozione, nel 1951­54 del cosiddetto piano delle cinque   dita   per   Copenhagen,   quello   di   Stoccolma,   orientato   da Markelius,   del   1952,   quello   della   regione   di   Oslo   del   1959. Certamente tutto ciò non si spiega con il successo di una corrente del gusto, d'altra parte non è casuale la sua coincidenza con l'affermarsi del   nuovo   empirismo.   In   sintesi   questo,   a   parte   la   favorevole congiuntura   politica,   economica   e   tecnica   degli   scandinavi   e   degli svedesi   in   particolare,   rappresenta   un   superamento   «incruento»   del razionalismo,   basato   sulla   sostituzione   di   rigide   e   programmatiche norme   con   il   buonsenso,   di   uno   spirito   contestatario   con   uno d'adesione e d'integrazione, del rifiuto della storia con la ripresa di moti ed accenti tradizionali e regionali. Il mutato orientamento valse a rendere   più   popolare   il   processo   del   Movimento   Moderno,   più aderente ai nuovi tempi e accolto senza riserve, tanto da rendere i suoi prodotti   privi   di   ogni   carica   eversiva   e   alla   stregua   di   qualunque

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positivo apporto della cultura contemporanea. Ma è indubbio che con questo opulento professionalismo si sono perduti anche molti valori che sostanziavano la vicenda dell'architettura moderna. Non a caso, infatti, dopo gli anni '50, la produzione scandinava, neoempirista o meno,   viene   considerata   un   fenomeno   limitato   a   quelle   fortunate regioni   e   scarsamente   in   grado   di   incidere   sulla   complessa problematica architettonico­urbanistica degli altri paesi. L 'Englishness Considerata la componente nazionale, per l'Inghilterra non ci sembra possibile ridurre l'intera esperienza post­bellica ad un solo sottocodice, anche   se,   anticipando   la   conclusione   va   detto   che   una   marca tipicamente   inglese   contrassegna   tutta   la   più   recente   produzione architettonica di questo paese, donde il titolo del presente paragrafo. S'è   parlato,   a   proposito   della   principale   corrente   affermatasi   in Inghilterra, di New Brutalism,   ma, posto che esso abbia una reale consistenza critica o almeno valga come ipotesi classificatoria, risulta che coprirebbe soltanto un lato della stimolante vicenda britannica di questi ultimi anni. È stato osservato che la Gran Bretagna, ossia il paese dove nacque con la   rivoluzione   industriale   il   Movimento   Moderno,   sia   rimasta sostanzialmente estranea alla storia dell'architettura fra le due guerre; giudizio  che   richiede  qualche   nota   di  precisazione   e  di   commento. Non è che l'Inghilterra si sia estraniata dalla cultura del razionalismo perché la presenza del gruppo MARS (Modern Architecture Research Society) operante fin dal 1931 e divenuto poi la sezione inglese del ClAM,   l'attività   del   gruppo   Tecton   animata   dal   costruttivista   russo Lubetkin   trasferitosi   in   Gran   Bretagna,   come   pure   la   presenza momentanea   o   definitiva   di   altri   architetti   e   studiosi   stranieri   da Gropius   a   Breuer,   da   Mendelsohn   a   Pevsner,   la   ricca   pubblicistica architettonica,   le   associazioni,   la  diffusione   attraverso   conferenze   e traduzioni di scritti dei maestri del Movimento Moderno, sono tutti fenomeni   contrassegnanti   una   indubbia   attività   architettonica   del

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paese fra le due guerre. E tuttavia, per molteplici cause, la produzione dell'architettura inglese del tempo non è paragonabile a quella tedesca, olandese, svedese, svizzera, ecc. Si può dire, com'è stato notato, che in Gran   Bretagna   «l'architettura   nuova   sia   stata   un   prodotto   di importazione   lentamente   assimilata   dalle   giovani   generazioni   di architetti   e   dalla  più   consapevole   opinione   pubblica»2  M.   Teodori, Architettura e città in Gran Bretagna, Cappelli, Bologna 1967, p. 86. Più vicina alla nostra tesi del codice virtuale è l'ipotesi che il suddetto ritardo   si   potrebbe   attribuire   al   fatto   che   la   cultura   architettonica inglese ha quasi sempre avuto la necessità di richiamarsi alla storia; ha tradizionalmente maturato esperienze storiche autoctone o straniere e successivamente   operato   con   tale   sostegno.   Se   questo   è   vero, possiamo affermare che la cultura architettonica inglese ha ancora una volta atteso che il Movimento Moderno si consolidasse storicamente per poi intervenire nel modo più attivo; tanto più se si osserva che la ricerca storiografica in Gran Bretagna ha avuto spesso un carattere operativo, ossia un legame più o meno diretto col fare architettonico. A   conclusione   di   queste   motivazioni   sul   «ritardo»   dell'architettura inglese ci sembra di poter sostenere che esso risulta tale anche e forse soprattutto dal confronto del poco che s'è prodotto nel paese negli anni '20­'30 con il molto che è stato fatto e viene realizzandosi in questo dopoguerra, quando cioè l'Inghilterra sembra aver assunto, specie in campo urbanistico, addirittura il ruolo di paese­guida. Una serie di leggi urbanistiche che anticipano e accompagnano l'opera di ricostruzione ­ Town and Country Planning Act, 1944; Distribution of  Industry  Act,  1946;  New  Towns  Act,   1946;  Town  and  Country Planning Act, 1947 ­ consente il controllo e la pianificazione in quasi ogni   settore   d'intervento,   dal   classico   rapporto   città­campagna   alla dislocazione degli impianti industriali, dalla costruzione di nuove città all'intervento   nei   centri   storici.   Il   frutto   più   significativo   di   questa legislazione,   degli   apparati   tecnici   ed   amministrativi   che   ne garantiscono   efficacemente   l'esecuzione,   dello   sforzo   economico   e della politica seguita con relativa continuità nonostante l'alternarsi al

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potere   di   conservatori   e   laburisti   è   dato   dalle   New   Towns.   Esse, collegate   al   piano   della   Grande   Londra,   curato   nel   '44   da   P. Abercrombie   e   concepite   per   decongestionare   con   una   espansione regionale   la   capitale   nonché   raccogliere   la   popolazione   delle   aree sottosviluppate, si rifanno evidentemente alla tradizione delle Città­ giardino   e   sono   state   attuate   grazie   alla   preparazione   politico­ economica   delle   commissioni   Barlow   del   1940,   Scott   del   1942, Uthwatt   del   1942;   alla   costituzione   del   Ministery   of   Town   and Country Planning (1943) e alla già citata legge urbanistica del '47. Sul piano   tecnico   le   New   Towns   dipendono   dalle   Development Corporations,   istituite   dal   New  Towns   Act   del  '46,   alle   quali  sono affidate per la loro progettazione, costruzione e gestione. Quanto alla loro conformazione, le città nuove sorte nel dopoguerra, alcune,   quali   Stevenage,   Crawley,   Harlow,   East   Kilbride   risentono della impostazione delle Garden Cities per il loro sviluppo estensivo, mentre gli esempi più recenti presentano aree a densità variabile, una «spina»   centrale   dal   carattere   più   «cittadino»   per   i   servizi   ivi concentrati e una edilizia residenziale più densa e compatta; pensiamo in particolare alla città di Curnbernauld in Scozia. Un altro fenomeno della cultura architettonica inglese del dopoguerra, sostenuto dal gruppo redazionale della rivista «Architectural Review» è quello del Townscape; il suo principale interprete Gordon Cullen lo definisce   «l'arte   con   cui   si   può   trasformare   un   gruppo   di   alberi   o quattro edifici da un insignificante pasticcio in una composizione ricca di significato o una città tutta intera da uno schema tracciato sulla carta in un ambiente tridimensionale di vita ». E infatti questa sorta di nuovo paesaggismo, anch'esso  sotto molti aspetti legato  alla storia, cura   tutti   quegli   aspetti   della   scena   urbana   (il   colore,   la   grana   dei materiali,   la   pavimentazione   stradale,   le   sistemazioni   a   terra,   le recinzioni, il verde, le insegne, ecc.) che, assai vivi negli ambienti tradizionali, erano stati ignorati dal gusto razionalista. Ancora nel generale quadro della Englishness va menzionato il vasto programma di edilizia universitaria, non solo quale tema affrontato in

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maniera   efficace   e   tempestiva   di   fronte   all'aumentato   numero   di studenti, e quindi come esempio di avvertita politica, non solo perché assai spesso le nuove università o il loro ampliamento si realizzano in luoghi   condizionati   da   preesistenze   architettoniche   e   paesistiche, risolvendo talvolta egregiamente il rapporto fra l'antico e il nuovo, quanto   soprattutto   perché   è   proprio   in   questo   settore   dove   viene attuandosi la migliore architettura inglese. Il   fenomeno   di   quest’ultima   richiede   un   cenno   particolare.   Fino   a qualche tempo fa la produzione inglese veniva ammirata all'estero per l'urbanistica,   l'impegno   sociale,   i   rigorosi   piani   settoriali   (quello appunto della scuola e dell'università), per l'austerity  con la quale si stabilivano   motivate   ragioni   di   priorità   all'interno   dei   vari   campi d'intervento, ecc. E l'uniformità, il corretto anonimato, il gusto per il pratico,   in   una   parola   la   mancanza   di   emergenze   architettoniche sembrava essere lo scotto da pagare per tutti i vantaggi offerti dalla situazione   britannica.  Dalla   seconda   metà  degli  anni  '50,  una  volta acquisite le suddette posizioni, la cultura architettonica inglese sembra esigere   anche   la   qualità,   l'individualità,   la   fantasia,   l'inedito architettonico.   Tra   i   fautori   di   questa   svolta   ricorderemo   Alison   e Peter Smithson, autori della scuola di Hunstanton a Norfolk del '54 (definito il primo edificio brutalista), dei progetti per Golden Lane e per   la   Sheffield   University   entrambi   del   '52,   dell'«Economist» Building del  '64;  Denis  Lasdun,  autore di una scuola  elementare a Paddington del '55, del Royal College of Physicians a Londra del '65, dell'East   Anglia   University   a   Norwich   del   '66,   della   casa   per appartamenti a St. James's Park a Londra; James Stirling, autore tra l'altro  della   Facoltà  d'Ingegneria   a  Leicester   (in  collaborazione  con Gowan)   del   '59,   della   Facoltà   di   Storia   a   Cambridge   del   64, dell'ampliamento della parte residenziale della St. Andrews University del '64, dei Laboratori di ricerca della Dorman Long a Middlesbourgh (progetto del '65) Come al solito, per i limiti del presente studio, non ci soffermeremo sull'analisi di queste fabbriche, alcune delle quali assai notevoli e tra le

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più significative prodotte in questi ultimi anni. Dedicheremo piuttosto un po' di spazio al discorso su un eventuale sottocodice emerso dalla più   recente   architettura   inglese   per   rispondere   alla   struttura   che informa il nostro libro ed alla tesi dell'esistenza di un codice virtuale, del   quale   la   componente   «storia»   è   in   Inghilterra   nettamente prevalente sulla componente « utopia». R.   Banham,   il   critico   che   più   s'è   occupato   dell'ultima   produzione architettonica, ha definito col termine New Bratalism la sua tendenza più emergente. «Che cosa significa questo termine? Alla base vi era un   senso   di   frustrazione,   causato   in   parte   dalle   difficili   condizioni dell'edilizia inglese nel dopoguerra, in parte dal disgusto per l'ipocrisia ed i compromessi degli anziani [..]. Essi [i giovani architetti] presero a modello la mancanza di compromessi di Mies van der Rohe e di Le Corbusier, la loro chiarezza intellettuale, la loro onesta presentazione di   strutture   e   di   materiali   […].   In   questo   periodo,   tuttavia, l'estremismo puritano dei Brutalisti inglesi venne incorporato in un più vasto   movimento   internazionale,   nel   quale   coesistevano   correnti   di diversa origine che avevano diverse finalità, come la pittura informale di Jackson Pollock, la pianta informale della Cappella di Ronchamp, l'«art brut» di Dubuffet ed il «beton brut» dell'Unité d'habitation di Marsiglia  [...].  Intento  fondamentale  del  Brutalismo   è  sempre  stato quello   di   determinare   per   ogni   costruzione   una   concezione «necessaria» (così come l'intendeva Smithson) dal punto di vista delle strutture,   dello   spazio   e   dell'organizzazione   del   materiale.   Questa concezione,   espressa   con   perfetta   onestà,   condurrà   a   un'immagine architettonica   inconfondibile».3   R.   Banham,   voce   Brutalismo   in Enciclopedia   dell'architettura   moderna,   Garzanti,   Milano   1967,   pp. 81­2.](3) In   realtà,   leggendo   per   intero   lo   scritto   donde   abbiamo   tratto   tali citazioni ed altri saggi di Banham, la nozione di New Brutalism risulta assai più confusa di quanto non appaia dalle considerazioni suddette. Infatti,   egli,   per   meglio   specificare   tale   corrente,   oltre   ai   richiami figurativi dell'informale che poco hanno in comune con la menzionata

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istanza di rigore, accosta opere sostanzialmente assai diverse; accanto ad alcuni edifici di Le Corbusier e di Mies, l'Art Gallery della Yale University di Louis Kahn, la Casa dei ragazzi di Aldo van Eyck ad Amsterdam,   senza   parlare   dell'ammirazione   che,   sempre   secondo Banham,  i  giovani  brutalisti  inglesi   avrebbero  per  Palladio,  per   gli architetti   barocchi   Vanbrugh   e   Hawksmoor,   per   l'ingegneria dell'Ottocento. A parte l'eterogeneità di questi richiami la definizione di  New   Brutalism  indica   troppe   cose   per   denotarne   veramente qualcuna; e non a caso artisti di sicuro talento quali Stirling hanno decisamente rifiutato tale etichetta., Essa tuttavia non è totalmente da respingere,   ove   si   accolga   come   un   gusto   non   tanto   «suaviter   in modo»,   quanto   «fortiter   in   re»,   dotato   di   «Je­m'en­foutisme»   e «bloody­mindedness » (sono tutte espressioni di Banham) collocabile tra l'informale e la Pop Art che non riguarda solo l'architettura, ma appunto un moto del gusto comune alla pittura, all'arredamento, alla moda, al cinema e soprattutto alla grafica. Inteso in tal senso, se è vero che il New Bratalism nasce in Inghilterra non è tuttavia la componente più tipica del gusto contemporaneo inglese e quindi meno che mai può assumersi   come   il   principale   sottocodice   della   sua   architettura. Pertanto   proponiamo   di   chiamare  Englishness  la   più   recente architettura britannica, adoperando una espressione usata da Pevsner in altra occasione (4)Cfr. N. Pevsner, The Englishness of English Art, The Architectural  Press, London 1956.  e intendendo un insieme di caratteristiche   che   vanno   oltre   l'ovvia   indicazione   nazionale.   Già l'impegno   sociologico,   la   piattaforma   urbanistica,   l’invarianza tipologica dell'architettura inglese contemporanea la rende nettamente distinguibile   da   quella     realizzata   altrove.   Qui   come   in   Olanda   il Movimento   Moderno   ha   vinto   la   sua   battaglia:   l'architettura   degli architetti   prevale   anche   quantitativamente   su   quella   prodotta   dagli anonimi «uffici tecnici» di altrettante anonime imprese commerciali di costruzione. Solo che l'Olanda raggiunse il suo punto più alto fra le due   guerre   associando   il   codice   razionalista   alle   pratiche   esigenze locali ed agli autoctoni movimenti figurativi, mentre l'Inghilterra ha

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raggiunto   il   suo   momento   più   significativo   negli   anni   ‘50, correggendo le distorsioni del razionalismo operate dall'International Style. Abbiamo già accennato al fatto che la cultura inglese sembra aver   atteso   che   il   Movimento   Moderno   diventasse   storia   per apportarvi il suo contributo e quello della storia ci sembra il parametro più   caratteristico   della  Englishness.   Infatti,   nessun'altra   produzione nazionale sembra così legata alla tradizione come gli architetti inglesi sono legati alla cultura del loro palladianesimo, ai loro antenati pre e post­jonesiani, al classicismo di Nash, allo strutturismo di Paxton. Ma l'interesse per il passato non si limita alla tradizione nazionale, né alla storia dell'età moderna, ossia rinascimentale e barocca; è soprattutto la «tradizione   del   nuovo»,   l'architettura   dell'età   contemporanea,   il protorazionalismo,   il   neoplasticismo,   soprattutto   il   costruttivismo russo ad influenzare la generazione degli architetti inglesi giunta oggi al   pieno   della   maturazione.   II   caso   più   tipico   di   questo  bricolage storicistico   è   offerto   dall'opera   di   Stirling.   Com'è   stato   notato,   «il gioco del’ l'attribuzionismo cui il lavoro di Stirling offre pretesto [...] ci   propone   abbastanza   paradigmaticamente   la   sua   ricerca   come un'operazione   di   scavo   nella   storia   della   produzione   degli   ultimi duecento anni che ogni architetto, cosciente della propria condizione storica,   quotidianamente   svolge.   Il   patrimonio   linguistico   messo   a disposizione  dall'architettura  moderna viene  in tal modo recuperato all'interno di ricerche tese a dilatare, arricchire ed al limite esasperare le possibilità semantiche di quello stesso linguaggio»5) C. Dardi,  Il gioco sapiente. Tendenze della nuova architettura, Marsilio, Padova 1971, p. 74. Ma ciò che più conta, a nostro avviso, è che tali arricchimento e scavo nella storia riescono a produrre immagini complessivamente inedite, ossia nelle quali non sono più riconoscibili le «citazioni» particolari, e al   tempo   stesso,   poiché   appunto   poggianti   sull'esperienza   storica, prive di quel senso di provvisorietà e di moda che caratterizza tante espressioni   architettoniche   prodotte   altrove.   In   altri   termini   le conformazioni della  Englishness  non risultano degli inediti assoluti,

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ma dei messaggi nuovi sempre però decodificabili in base a parametri noti, soprattutto per quanto riguarda la chiarezza e la leggibilità della pianta,   della   struttura,   dei   materiali;   unico   fattore   d'ambiguità   può semmai essere nella non immediata identificazione delle tipologie e delle destinazioni d'uso, ma d'altra parte sappiamo quanto gioca nel rapporto   comunicativo   il   fattore   dell'ambiguità,   affrancando   il linguaggio   dalle   ridondanze   e   dalle   ovvietà.   Dal   punto   di   vista morfologico possiamo dire che le fabbriche cui pensiamo (la Facoltà di   Storia   a   Cambridge,   l'Università   dell'East   Anglia,   ecc.) costituiscono   esempio   di   un'architettura   che   pur   essendo   assai avanzata, non diventa mai autre o avanguardistica. E tale condizione­ limite   rappresenta   un'altra   caratteristica   di   quella   tendenza   che chiamiamo  Englishness.   Alla   definizione   di   quest'ultima,   come abbiamo già osservato, contribuisce anche la recente storiografia ed il già menzionato legame fra storia, critica e progettazione. Parlando di Architectural Principles in the Age of Humanism, Tentori scrive: «il libro   di   Wittkower,   come   le   illustrazioni   della   trattatistica rinascimentale ed i suoi lucidi discorsi sulla storia, sulla simmetria, i “principi”, la proporzione armonica etc. ha generato una condizione culturale   da   cui   germinarono,   dapprima,   progetti   come   quelli   degli Smithsons per Hunstanton e Coventry, ma in seguito altri progetti più liberi   e   informali»(6  F.   Tentori,   Phoenix   Brutalism,   «   Zodiac   », novembre 1968, n. 18. Più direttamente implicata nel rapporto storia­ progettazione è tutta l'opera di Pevsner come dimostrano sia la sua attività di ricerca, sia l'azione da lui svolta nella redazione di «The Architectural Review ». Dal canto suo Banham fin dal '55 scriveva: «Non si può nemmeno accostare il fenomeno brutalista senza rendersi conto   di   quanto   la   nuova   storiografia   artistica   fosse   penetrata   in profondità nel pensiero architettonico progressivo, e dentro i metodi di insegnamento, nonché nello stesso linguaggio adoperato negli scambi tra architetti e critici » 7Ibid Englishness è ancora la disciplina del Towoscape, tipico prodotto della tradizione, del costume, dei gusto britannici, non solo, ma nel campo

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stesso   della   rappresentazione   architettonica:   i   disegni   di   Gordon Cullen sono diventati ben presto un modello internazionale e gli altri disegnatori inglesi hanno dimostrato, fra tante polemiche gestaltiche, di  basic design, ecc., che si può ancora rappresentare l'architettura e l'urbanistica in prospettiva, anzi hanno individuato forse il modo col quale la prospettiva possa ancora essere una «forma simbolica» del nostro tempo. Questa pregevolissima produzione grafica, innestata al gusto della Pop Art, si ritrova nei progetti del gruppo Archigram, del quale   ci   occuperemo   parlendo   delle   utopie,   ma   che   costituisce   per quanto   concerne   appunto   il   campo   grafico   una   ennesima manifestazione della cultura dell'Englishness. Neorealismo e neoliberty. Abbiamo   trascurato   nel   capitolo   sul   razionalismo   la   vicenda architettonica italiana fra le due guerre non perché mancassero opere di un certo rilievo (la casa del fascio di Terragni, la stazione di Firenze del gruppo Michelucci, la realizzazione urbanistica di Sabaudia, ecc.), ma perché nell'economia del nostro discorso abbiamo dovuto far posto alla produzione di altri paesi, rispetto ai quali quella italiana ebbe un ruolo secondario. In sostanza, ove si eccettui l'opera critica di Edoardo Persico,   autore   peraltro   rimasto   non   completamente   espresso, l'architettura italiana di quel periodo non vale tanto in sé quanto per ciò   che   riuscì   a   realizzare   nonostante   le   «difficoltà   politiche»   del paese,   ossia   grazie   all'impegno   civile   e   morale   di   alcuni   suoi protagonisti. E tuttavia la generazione che si formò in quell'epoca (i Samonà, i Ridolfi, i Quaroni, i BBPR, gli Albini, i Gardella, ecc.) è stata quella che dopo la liberazione ha dato il meglio dell'architettura italiana contemporanea, portando solo dopo il '45 la vicenda italiana alla ribalta internazionale. Oltre che per la produzione di tali architetti, l'Italia   occupa   oggi   un   suo   posto   nella   cultura   architettonica internazionale per alcune felici realizzazioni nel campo del design e soprattutto per la sua tradizione di studi storico­critici, il cui settore architettonico, avente per oggetto il Movimento Moderno, s'è in questi

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anni   notevolmente   sviluppato   (Ragghianti,   Argan,   Brandi,   Zevi, Benevolo, Portoghesi, Tafuri, ecc.). Cosicché,   lungi   dal   voler   ridurre   la   ricca   e   complessa   vicenda architettonica italiana di questi ultimi decenni alle due tendenze più note,   il   neorealismo   e   il   neoliberty,   che   anzi   costituiscono   degli epifenomeni, sono tuttavia esse, con le estensioni che diremo, a porsi, unitamente alla corrente italiana di architettura organica, come i soli movimenti collettivi aventi un certo respiro o un'ambizione nazionale. Il   neorealismo   nacque   in   relazione   al   movimento   per   l'architettura organica,   promosso   da   Zevi   nel   '45,   anzi   si   può   dire   che,   come   il neoempirismo scandinavo, il Bay Region Style californiano ed altri movimenti   definiti   regionalisti,   ne   costituì,   a   torto   o   a   ragione,   la versione italiana. La critica dell'architettura organica al razionalismo, alla sua astrattezza ideologica, alla sua vocazione tecnologica, al suo purismo   linguistico;   le   esortazioni   del   movimento   organico   a rivalutare gli aspetti psicologici, ambientali, naturali, a ridimensionare la   scala   degli   interventi,   ad   aderire   più   pragmaticamente   alle condizioni storico­sociali proprie ad ogni comunità, vennero intese o fraintese,   unitamente   alle   indicazioni   gramsciane   di   una   cultura nazional­popolare,   come   parametri   orientativi   dell'opera   di ricostruzione e in generale della prima architettura della nuova Italia sorta dalla Resistenza. Tali   parametri   sembravano   peraltro   aderire   ad   una   obiettiva condizione esistente nel paese per oltre un decennio dalla fine della guerra:   forte   domanda   di   alloggi,   povertà   d'industrie,   necessità   che nell'opera   di   ricostruzione   fosse   impiegata   una   ingente   quantità   di mano   d'opera   non   specializzata,   fenomeni   che   portarono   a quell'emblematico «Piano incremento occupazione operaia ­ case per lavoratori» mirante a risolvere con un solo provvedimento una duplice istanza. E se in altri paesi la ricostruzione del patrimonio edilizio fu preceduta da quella delle industrie, in Italia ciò non fu possibile a) perché   le   industrie   in   molte   regioni   non   andavano   ricostruite   ma addirittura impiantate;  b)  perché  la costruzione di alloggi mirava  a

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riparare non solo il danno bellico, ma anche una più antica ingiustizia sociale; c) perché la proprietà immobiliare ha sempre giocato un ruolo notevole nell'economia nazionale. Una condizione quindi di estrema urgenza che sembrava impedire ogni programma a lungo termine ed imporre l'utilizzo immediato di tutte le forze disponibili: il capitale pubblico, quello privato e l'attitudine artigianale del cantiere edile con il richiamo di  maestranze provenienti dalla campagna, il cui esodo inizia proprio in quegli anni. Sebbene a fruire dei nuovi quartieri sovvenzionati ­ è questo il settore di maggiore interesse nel periodo in esame e del resto fino ad oggi ­ fosse la piccola borghesia ed alcuni settori dell'élite proletaria, i nuovi insediamenti furono concepiti e progettati per i senzatetto, i baraccati, gli   immigrati   dalla   campagna.   Sembrò   quindi   lecito   abbandonare   i modelli delle Siediungen e degli stessi complessi costruiti dagli Istituti autonomi   per   le   case   popolari   di   stampo   protorazionalista,   e preordinare   per   queste   nuove   categorie   di   utenti   un   habitat   che riproducesse,   sia   pure   con   diversi   standard,   un   ambiente   da   rione operaio  cittadino  tradizionale   o  da  comunità  paesana.   Il  linguaggio architettonico per tale programma, com'è stato osservato, parve che « si   potesse   trovare  solo   attingendo   a   quel  patrimonio  di  forme  e   di metodi   che   con   approssimazione   potrebbe   definirsi   la   cultura artigiana,   la   cui   attualità   e   validità   era  stata   messa   in   rilievo   dallo stesso Pagano in una sua celebre rassegna di fotografie. Il gusto dello spontaneo, del rustico, dell'anonimo, del resto, aveva avuto un lungo periodo di fortuna in tutto il Novecento, stava quindi, si può dire, nel sangue di quella generazione di mezzo che reggeva in quel momento il   timone   della   cultura   architettonica»   88   P.   Portoghesi,  Dal neorealismo al neoliberty, « Comunità », dicembre 1958, n. 65. Assumendo   anche   qui   il   nostro   codice   virtuale,   si   può   dire   che   è ancora una volta la componente « storia » (intesa questa volta in senso vernacolare) a prevalere sulla componente «utopia».In questo spirito nacquero, con le debite differenze ambientali, il quartiere Tiburtino a Roma nel 1950 ad opera di un gruppo guidato da Ridolfi e Quaroni, il

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borgo La Martella a Matera nel '51 (capogruppo Quaroni), le Case INA realizzate da Ridolfi in viale Etiopia a Roma nello stesso anno, che molti considerano il capolavoro dell'architettura italiana del primo dopoguerra. Se questi futono gli esempi neorealistici più noti, molti altri complessi della stessa tendenza furono attuati negli anni '50 in varie  località italiane, specie  nel centro e nel Sud, e in prevalenza progettati da architetti di scuola romana. Accanto alle motivazioni socioeconomiche e ideologiche, cui prima abbiamo   accennato,   contribuì   alla   formazione   della   corrente neorealista   una   più   precisa   e   relativamente   nuova   istanza,   quella semantica.   Se   l'esigenza   di   realizzare   dei   quartieri   «studiando composizioni urbaniste varie, mosse, articolate, tali da creare ambienti accoglienti e riposanti, con vedute in ogni parte diverse e dotate di bella   vegetazione,   dove   ciascun   edificio   abbia   la   sua   distinta fisionomia [...]»  ­ come raccomandavano i diffusissimi volumetti del «Piano   incremento   occupazione   operaia­case   per   lavoratori», distribuiti   nel   '50   era   il   frutto   dell'orientamento   organico,   il neorealismo di suo aggiunse un palese intento comunicativo. E poiché l'atto   comunicativo   implica   sempre   un   riferimento   al   già   noto,   si spiega   con   ciò   il   ricorso   al   clima   della   borgata,   dell'ambiente contadino o artigianale, del disordine proprio all'architettura cosiddetta spontanea; in ultima istanza quel comunicare era una sorta di mimesi della natura, d'una natura filtrata dal folklore e dalla tradizione. In fatto di comunicazione bisogna rapportare l'architettura neorealista al neorealismo che, con qualche anno d'anticipo, aveva informato la letteratura, la pittura e segnatamente il cinema, campo nel quale detta corrente   diede   la   sua   prova   migliore.   Non   c'è   dubbio   che   fra   il neorealismo   pittorico   di   un   Guttuso,   la   ricca   letteratura   sulla Resistenza,   il   neorealismo   cinematografico   dei  Rossellini,   Visconti, De Sica da un lato e quello architettonico dall'altro vi sia stato un denominatore comune, anzi che questo unitario clima sia stato l'ultimo nella   cultura   italiana   a   raccogliere   sotto   un'unica   insegna   diverse manifestazioni   artistiche.   Ma   accanto   agli   aspetti   unificatori   di   tali

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esperienze, vi furono prevalenti gli aspetti che le divisero. Com'è stato osservato,   «fermo   restando   [...]   il   comune   valore,   scaturito   dalla resistenza, di ricerche di contenuti popolari e unitari, bisogna dire che il   cinema   neorealista   è   arrivato   a   svilupparsi   in   forma   veramente, estesamente popolare ed accessibile alla comprensione di tutti, mentre l'architettura realista [...] ha creato sì dei lavori di molta importanza, ma   che   purtroppo   non   sono   stati   sufficienti   a   determinare quell'assimilazione   generalizzata   e   veramente   democratica»  F. Tentori,  Quindici   anni   di   architettura,   «Casabella­continuità   »,   a. 1961,   n.   251.  Inoltre,   fatti   salvi   evidentemente   i   diversi   mezzi espressivi, il maggior divario tra cinema e architettura neorealisti, sta in   ciò   che   nel   cinema   il   neorealismo   ha   codificato   una   serie   di parametri, di tecniche, di atteggiamenti, in una parola ha costituito una scuola (come in architettura il razionalismo), alla quale devono ancora riferirsi molti operatori, mentre il neorealismo in architettura non  è andato oltre i termini d'una cultura post­bellica con tutte le aporie e le ambiguità proprie alla nozione di cultura popolare. Opportunamente, Portoghesi rileva un equivoco fondamentale: «Mentre il clima della città preparava l'affermazione e la generalizzazione della cultura di massa, ci si ostinava da parte degli architetti a rivalutare e studiare quella cultura popolare che non sapeva e non poteva resistere al duro confronto con il mondo e lo stile di vita della città » 10 P. Portoghesi, op. cit. Se   il   neorealismo   rientra   nei   vari   movimenti   regionali   di   revisione post­razionalista,   il   neoliberty   partecipa   e   talvolta   anticipa   un atteggiamento che diverrà sempre più condiviso nella odierna ricerca architettonica; quello in cui la componente «storia» del nostro codice virtuale   assumerà   caratteri   tanto   evidenti   da   costituire   una   vera   e propria tendenza, lo storicismo. Di questo parleremo in un apposito paragrafo, qui limitandoci alla sua manifestazione italiana. Il neoliberty non interessa solo per alcune realizzazioni degli architetti torinesi  R. Gabetti  e  A. D'Isola, che con  la loro Bottega  d'Erasmo produssero l'edificio più tipico di questa corrente; né per la produzone

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di alcuni giovani architetti milanesi; né infine per le sue specificazioni morfologiche e sintattiche tanto diffuse da marcare molte opere non sempre   catalogabili   come   neoliberty,   ma   soprattutto   come atteggiamento   di   revisione   critica   e   di   recupero   storico   di   alcuni aspetti  del Movimento Moderno, rimasti, come s'è detto più sopra, inespressi   o   inesplorati.   Tale   atteggiamento   rientra   nella   tendenza internazionale appena menzionata e definita storicista. Vediamo ora le sue   motivazioni   ed   esperienze   emergenti   dalla   situazione   italiana. Questa registrò proprio negli anni '50 un notevole boom edilizio, cui non   corrispose   né   una   adeguata   pianificazione   urbanistica,   né   un rinnovamento linguistico­architettonico, com'era lecito attendersi con tanti cantieri in funzione. Cosicché l'attesa espansione del Movimento Moderno   apparve   un   mero   fenomeno   quantitativo,   ricco   di contraddizioni,   di   costose   contropartite   e   con   esigui   margini   di interventi correttivi. Di fronte a questo «presente da contestare», la cultura   architettonica   italiana,   specie   sotto   la   spinta   della   mancata volontà   politica   in   fatto   d'urbanistica,   si   orientò   dapprima prevalentemente   verso   ricerche   extra­disciplinari:   la   sociologia, l'economia, ovvero l'impegno diretto nell'attività amministrativa. Ne derivarono   alcuni   indubbi   vantaggi,   come   una   maggiore   presa   di coscienza   della   realtà   sociale,   l'aspirazione   ad   un   maggiore   rigore critico   ed   operativo,   l'esigenza   dell'analisi   e   della   ricerca interdisciplinare. Ma questo tipo di atteggiamento, per così dire «non progettuale» ebbe anche negativi risvolti: un inaridirsi della disciplina architettonica   e   della   sua   didattica,   un   senso   di   sfiducia   nelle   sue autonome possibilità, un diffuso velleitarismo e la stessa mancanza della componente architettonica al tavolo del lavoro interdisciplinare, sostituita da un'ingegneria civile più «pratica» e «disponibile». Col neoliberty,   forse   anche   polemicamente,   si   tentò   di   invertire   tale tendenza; vi fu il tentativo da parte degli architetti di correggere le disfunzioni in atto puntando principalmente sui termini propri alla loro disciplina.   In   altre   parole,   sembrò   (ed   evidentemente   ci   si   illuse) opportuno scandagliare tanto il linguaggio, le tecniche, le tipologie da

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sperare   in   un   conseguente   cambiamento   di   significati   e   di comportamenti. Questa revisione operativa si associò  ad un'altra di carattere   storico   e   critico.   Nel   Movimento   Moderno   furono individuate alcune valenze ancora vive, si riconobbe che molti codici, sottocodici   e   lessici   erano   rimasti   inoperanti   ed   incompiuti   perché offuscati da più pregnanti e fortunate tendenze coeve. Quello dell'Art Nouveau  ne rappresenta il più tipico caso; infatti dopo pochi anni di elevata produzione tale corrente,. rimasta anche criticamente indistinta nelle sue parti, venne arrestata dalla prima guerra mondiale e si risolse in   un   lessico   diffuso   quanto   frainteso   solo   nei   centri   di   provincia. Peraltro, nella sua azione di recupero storico il neoliberty italiano non s'è   limitato   al   solo   riesame   dell'Art   Nouveau;   al   centro   della   sua attenzione non è stata l'opera di Horta, bensì quella di Mackintosh e del   primo   Wright,   ovvero   la   famiglia   geometrico­morfologica   che accompagnò quella tendenza e con essa sono state rivedute le opere di Dudok e della Scuola di Amsterdam, molte delle quali accantonate dal successo di De Stijl. Inoltre   è   stato   notato   che   in   questo   scandaglio   disciplinare   del neoliberty vi fu più d'una intenzione sociologica. «Per i torinesi, di estrazione   prevalentemente   cattolica   scrive   Portoghesi   voleva   dire tornare a interessarsi dei superstiti valori della borghesia, riconoscere la responsabilità di questa classe nei confronti della trasformazione delle strutture, riproporsi  una tematica di adeguamento della nuova composita compagine sociale ai modi di dignitoso autocontrollo della borghesia   europea   più   progressista   [...].   Per   i   milanesi, prevalentemente di formazione marxista, il neoliberty fu un gesto di protesta, una volontà di rispecchiamento di una situazione, giudicata già negativamente, una sorta di ironico ritratto della borghesia italiana, ancora frenata da pregiudizi precapitalistici, che cerca di consumare tutto   di   un   fiato   il   brodo   ristretto   di   cinquant'anni   di   esperienze europee» (11"Ibid. Anche a non voler riconoscere tali intenzioni, è certo che il neoliberty pose i problemi di trovare un significato per l'architettura della società

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opulenta;   di   revocare   in   dubbio   la   funzione   come   l'unico   senso dell'architettura;  di  arricchire il lessico architettonico; soprattutto di considerare il problema della continuità o della crisi del Movimento Moderno, come ebbe a discutere Rogers in un editoriale della rivista «Casabella­continuità» che in quel tempo richiamò le energie migliori e fu al centro dell'intero dibattito architettonico italiano.

Il nuovo classicismo

Tra   i   molti   eredi   del   razionalismo   ­   quali   una   «letteratura architettonica» dalla corretta professionalità, la linea High­tech, con la sua tradizione ingegneresca, e tutte quelle espressioni che continuano figure   ed   opere   razionaliste   con   diversi   accenti,   talvolta   a   mo'   di remoti  revivals  (si   pensi   emblematicamente   alla   produzione   di   un Eisenman)   ­   vanno   annoverate   alcune   esperienze   definibili   «nuovo classicismo». Di esse certamente la più importante s'è rivelata quella di Aldo Rossi (1931­1997)) e della sua scuola, la cosiddetta Tendenza. Nata a cavallo degli anni '60 e '70, tale esperienza può considerarsi la prima   manifestazione   architettonica   della   condizione   o   del   sapere post­moderno. Per convincersene basti pensare che alla inflazione dei fattori eteronomi, di natura politica, economica, urbanistica in senso tecnico, e soprattutto ideologica, così pressanti nel dibattito di quegli anni,   Rossi   oppone   l'autonomia   dell'architettura,   la   ricerca   dello specifico architettonico, la continuità della disciplina nella unicità del suo  corpus  dottrinario:   «Non   ha   senso   dire   che   i   problemi dell'architettura antica siano diversi dai nostri», «nella storia della città e dell'architettura si può affermare che non esistono rotture» 12 Cit. in E.   Bonfanti,   Elementi   e   costruzione.   Note   sull’architettura   di   Aldo Rossi, in «Controspazio», n. 10, 1970. Insomma il carattere innovativo delle prime proposizioni di Rossi sta in ciò che esse affermano con decisione cose che da tempo tutti sapevano, ma con l'astuzia di averle dette in un momento in cui molti le avevano dimenticate, donde forse

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quel   processo   di   anamnesi   di   cui   parla   Lyotard   per   motivare   la preposizione «post». Ma,   se   per   un   verso   Rossi   si   rifà,   per   così   dire,   ad   alcune   datità originarie (beninteso interne alla disciplina) o più semplicemente ad un insieme di attese, che spiega il suo immediato successo ed il suo proselitismo,  per   altri  più  inediti  aspetti   egli  sviluppa  e  supera  più d'una concezione dell'architettura moderna, almeno alla data del suo famoso   libro  L'architettura   della   città,   pubblicato   nel   1966. Nonostante i limiti di questo saggio, che risente ancora del giovanile marxismo mal coniugato a uno strutturalismo non utilizzato fino in fondo, malgrado il suo linguaggio un po' ermetico e ripetitivo, nonché alcune sconnessioni che non si ritrovano in altri scritti e soprattutto nella sua opera di architetto, in esso vi sono o sono anticipati quegli apporti inediti cui accennavo sopra: un modo nuovo di considerare la città   intesa   come   un   «insieme   di   pezzi   in   sé   compiuti»;   un   nuovo rapporto   con   la   storia   che,   a   suo   dire,   «costituisce   il   materiale dell'architettura»; nuovi modi di intendere il Movimento Moderno, il binomio forma­funzione, la tematica tipologica, ecc.; soprattutto una nuova visione degli aspetti monumentali della città: «Un fatto urbano determinato da una funzione soltanto non è fruibile oltre l'esplicazione di quella funzione. In realtà noi continuiamo a fruire di elementi la cui funzione è andata da tempo perduta; il valore di questi fatti risiede quindi   unicamente   nella   loro   forma.   La   loro   forma   è   intimamente partecipe   della   forma   generale   della   città,   ne   è   per   così   dire   una invariante;  spesso questi  fatti sono strettamente legati agli elementi costitutivi,   ai   fondamenti   della   città,   ed   essi   si   ritrovano   nei monumenti».   [13   A.   Rossi,    L’architettura   della   città,   Marsilio Editori, Padova 1966, p. 55]Ma quella teorica è solo una componente dell'opera di Rossi e nemmeno così solida da costituire la rifondazione della   disciplina   architettonica   come   qualcuno   pretese:   il   meglio dell'esperienza   rossiana   sta  nella  sua  attività  di  architetto,  sia  nelle opere realizzate, sia in quelle rimaste allo stato di progetto; dunque nelle questioni di linguaggio, del suo inconfondibile stile.

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Rossi sembra aver preso alla lettera la famosa frase di Cézanne per cui «in natura tutto è modellato secondo tre moduli fondamentali: la sfera, il   cono   e   il   cilindro.   Bisogna   imparare   a   dipingere   queste semplicissime   figure,   poi   si   potrà   fare   tutto   ciò   che   si   vuole», aggiungendo,   quasi   a   prevenire   le   successive   esegesi quadridimensionali e a fornire un'utile indicazione per gli architetti: «Il tutto messo in prospettiva, in modo che ogni lato di un oggetto, di un piano, sia diretto verso un punto centrale». E in questa chiave si sviluppa   il   miglior   saggio   interpretativo   del   linguaggio   rossiano, quello   scritto   da   Ezio   Bonfanti   nel   1970.   Dopo   aver   notato   che   il carattere  esponente  dell'architettura di Rossi sta nel suo  essere  una composizione   di   elementi,   di   un   numero   ristretto   e   preordinato   di elementi, Bonfanti prova ad elencarli ­ cilindro­colonna, pilastro, setto sottile, muro pieno, aperture limitate per forma e misura, scala esterna, travi­ponte   a   sezione   triangolare   e   rettangolare,   coperture   piane,   a cupola,   a   cono   ­   suggerendo   anche   le   regole   combinatorie   di   tali elementi:   un   procedimento   per   successione   se   si   considerano   gli schemi  di  pianta e per  sovrapposizione e quelli di alzato. Come si vede   un   gioco   tipicamente   linguistico:   elementi   (e   talvolta   vere   e proprie   architetture   finite,   ovvero,   per   dirla   con   una   terminologia proposta   altrove,   sottosegni,   segni)   e   regole   combinatorie,   che consentono di decodificare e descrivere tutte le opere di Rossi: dal monumento alla Resistenza a Cuneo (1962) al ponte per la Triennale (1964), dalla sistemazione della piazza di Segrate (1965) al Municipio di   Scandicci   (1968),   dalle   case   del   quartiere   Gallaratese   (1970)   al cimitero di Modena (1973), dalla scuola a Brioni al Teatro del Mondo, entrambi del '79, e via via fino alle realizzazioni più recenti, dagli edifici per l'IBA di Berlino al fabbricato per uffici «Casa Aurora» di Torino (1983), ecc. Ritornando all'articolo di Bonfanti, è significativo ciò che egli osserva sulla conformazione degli spazi interni: «anche qui si può parlare di parti, di gruppi finiti e dotati di senso e di una precisa funzione: è il caso delle cellule residenziali, che sono vere e proprie citazioni dalla

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manualistica razionalista ed ostentano questo loro carattere di prelievi. Corollario   del   procedimento   additivo   spinto   fino   a   questo   limite   è infatti inversamente la separabilità»[14 E. Bonfanti, op. cit.]. Pertanto   l'estrema   semplificazione,   la   massima   potenzialità   dei messaggi conformativi (Tafuri fornendo un'altra interessante esegesi dell'opera   rossiana   la   legge   come   «un'arcaica   silenziosità»[15M. Tafuri,  Storia   dell’architettura   italiana  1944­1985,  Einaudi,  Torino 1986,   p.   169],   ottenuta   con   così   pochi   elementi   codificati,   il   loro carattere «discreto» e non «continuo», il principio del montaggio e smontaggio,   la   logica   stessa   che   presiede   a   queste   manipolazioni riduttive sono tutti caratteri che consentono di definire lo stile di Rossi «classico», in quanto razionale, tipico, se non archetipico, oggettivo, trasmissibile,   didatticamente   efficace.   Va   detto   che   l'innegabile influenza   che   tale   stile   continua   ad   esercitare   nelle   scuole   di architettura, avrebbe molto guadagnato se fosse stato rielaborato col metodo   semiotico­strutturale,   avendone   peraltro   tutte   le predisposizioni ed ogni requisito. In mancanza di questa operazione, la   Tendenza,   che   è   erroneo   sottovalutare   specie   in   assenza   di un'alternativa   teoricamente   più   fondata,   si   è   assestata   su   ricerche tipologiche, sui caratteri distributivi degli edifici, sui letterali tentativi di revisione del  rapporto fra architettura e città, sugli inconciliabili aspetti di una cultura del progetto e di una cultura del piano; e ciò nei casi  migliori, quando non si  è perduta dietro la ripetizione dei più facili stilemi rossiani: i colonnati, le finestre quadrate, la rigidità di alcuni schemi compositivi. Così facendo la Tendenza s'è ridotta ad una   delle   tante   «micrologie»   della   cultura   architettonica contemporanea. Il distacco sempre più crescente di Rossi dalla sua scuola non si deve solo al naturale divario che presentano sempre i modelli rispetto alle loro   repliche,   quanto   soprattutto   ad   altre   valenze   che   consentono ulteriori chiavi interpretative dell'esperienza rossiana. Intanto, come ho avuto occasione di notare più volte, nella genealogia di Aldo Rossi non stanno solo Boullée e gli altri architetti dell'Illuminismo, quanto

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più direttamente quelli del protorazionalismo, da Loos ad Hoffmann, da Tessenow al nostro De Finetti, protagonisti tutti di una corrente che ­ come abbiamo visto nel capitolo ad essa dedicato ­, vissuta accanto al   razionalismo,   ha   trovato   modo   di   riemergere   allorquando quest'ultimo è entrato in crisi; e questa sua continuità o, se si vuole, rinascita, si deve proprio al «nuovo classicismo» e all'opera di Rossi, di Giorgio Grassi e di tutti gli altri architetti che citeremo nel presente paragrafo.   Evidentemente   non   è   solo   la   continuità   del protorazionalismo   a   caratterizzare   l'opera   di   Aldo   Rossi,   il   cui successo   si   deve   ad   altri   motivi.   Come   scrive   Aymonino:   «La produzione architettonica di Aldo Rossi è un punto di riferimento sia critico che operativo, tanto nel quadro della situazione italiana quanto a   scala   internazionale   [...]   per   la   qualità   di   ciò   che   produce, l'architettura di Aldo Rossi, si oppone sempre più chiaramente alle mode   effimere,   al   mito   del   progresso   perpetuo   e   alle   tecnologie dominanti [...]. L'architettura nasce da una successione di problemi analoghi   e   di   dimensioni   simili   nei   contesti   storici   differenti   [...]. L'analisi delle tipologie degli edifici e quella delle strutture urbane ne danno la prova; attraverso i loro rapporti reciproci si può dissociare il transitorio dal permanente [...] non si tratta più di una “architettura del silenzio” o di una “architettura della crisi” ma, ironia della storia, di una   architettura   dell'ottimismo,   popolare»  [16   C.   Aymonino,  Une architecture   de   l’optimisme,   in   L’Architecture   d’aujourdhui,   n.   90 1977]. Quando Bonfanti, riferendosi all’opera grafico­pittorica di Aldo Rossi, coglie   la   tensione   fra   rigore   logico   e   fantasia,   questo   giudizio   va riferito   alle   esperienze   degli   anni   '70;   successivamente,   per   la padronanza del proprio stile e per la stessa sicurezza che gli viene dal successo internazionale, questa tensione si allenta e si sviluppa tutta sul versante della fantasia. Sul versante del rigore logico invece nasce e si mantiene costante il contributo   di   Giorgio   Grassi   (1935).   Se   è   una   motivazione psicologica, un'«ansia di certezza», a costituire la spinta iniziale della

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sua opera di teorico, di architetto e di docente, essa è tutta risolta nei termini della più rigorosa razionalità. In un passo del suo libro,  La costruzione   logica   della   architettura,   Grassi,   nel   descrivere   un orientamento più generale databile con l'Illuminismo, sintetizza, a mio avviso, tutta una importante linea di pensiero «Esigenza di certezza, generalità,   elementi   costanti,   norme:   tali   sono   appunto   le   esigenze teoriche del pensiero deduttivo. Ad esse corrispondono: conoscenza ordinata,   classificazione,   manualistica,   trattatistica.   Ed   è   anche evidente che in questo atteggiamento razionalistico, proprio per quella caratteristica  “limitazione”  che   esso   esibisce  sul   piano  metodico  di fronte ad una ipotetica possibilità di cogliere la realtà in tutta la sua complessità, ha coinciso il più delle volte con un determinato tipo di classicismo» [17 G. Grassi,  La costruzione logica dell’architettura,. Marsilio. Padova 1967,p. 23 Ora,   proprio   a   quella   «limitazione»   si   deve   l'idea   dell'autonomia dell'architettura nutrita e professata da Grassi in maniera più rigorosa ed   ortodossa   dello   stesso   Rossi.   Infatti,   se   in   quest'ultimo   alcune forme   archetipe   assumono   dapprima   una   valenza   metafisica   e successivamente il contrassegno di uno stile individuale, gli elementi primari   di   Grassi,   quali   il   portico,   le   bucature   nei   muri,   i   cortili allungati, la pura stereometria, gli assi di simmetria, ecc. mirano ad essere   impersonali,   ad   abolire   ogni   proposito   rappresentativo,   ogni tipo di rimando referenziale ed ogni simbolismo per affermare la loro più assoluta aseità, sia in quanto parti, sia nelle regole combinatorie che reiteratamente le articolano; a costo di cadere in una tautologia Grassi   afferma:   «l'architettura   sono   le   architetture,   tutte,   quelle realizzate  e  quelle  ideate,   e  poi  i  principi,  le  teorie,  tutto  questo   è l'architettura»18G.   Grassi,  Il   rapporto   analisi   progetto,   in   AA:VV: L’analisi   urbana   e   la   progettazione   architettonica,   CLUP,   Milano 1970,   p.71]30.   Ma,   la   di   là   della   tanto   conclamata   relazione   fra tipologia edilizia e morfologia urbana, che costituì  il centrale nodo teorico­didattico   della   Tendenza,   evidentemente   questa   stessa riduzione alla più rigorosa oggettività «degenera» inevitabilmente in

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un   personalissimo   stile;   questo   classicismo,   spinto   al   punto   da concepire   fabbriche   così   chiuse   nella   propria   logica   da   apparire indifferenti   al   luogo   in   cui   sorgono,   non   riesce   ad   impedire   delle scelte,   talvolta   minimali,   ma   tanto   più   significative   quanto   più discrete:   l'articolazione   delle   pareti   in   pilastri,   superfici   piene   e quadrate bucature, l'accento posto sui corpi di fabbrica allungati, sul loro esasperato parallelismo, sulla loro disposizione a pettine, sulla iterazione   dei   montanti   che   contribuisce   alla   dinamicità   di un'architettura apparentemente così immobile.  «Parente   ricco»,   per   le   sue   molteplici   realizzazioni,   del   nuovo classicismo è il ticinese Mario Botta (1943), impegnato in ogni settore dell'attività   professionale,   dall'urbanistica   alla   ristrutturazione   di nuclei   urbani,   dall'architettura   privata   a   quella   pubblica,   dagli allestimenti   al   design   fino   alla   partecipazione   ai   grandi   concorsi internazionali che lo ha inserito meritatamente nello star system. Dal punto di vista linguistico, Botta è riuscito a tenere insieme le lezioni di Le Corbusier, di Asplund, di Kahn e di Venturi, traducendole in un personalissimo stile non immune da rivisitazioni protorazionaliste, che anche nel suo caso costituiscono una chiave di lettura e ciò che lo accumuna ai Rossi, Grassi e a quant'altri incarnano la versione più attuale del classicismo. Nella monografia dell'architetto svizzero curata da Francesco Dal Co, un saggio di Mirko Zardini individua quattro temi ricorrenti nello stile di Botta: il luogo, che viene esemplificato con le case unifamiliari, con gli interventi urbani, con gli edifici cittadini (la banca di Friburgo, 1982, l'edificio Ransila I a Lugano, 1985); il  muro, che si configura come   un   solido   involucro   articolato   da   un   consumato   impiego   di materiali,   spesso   anche   pregevoli;   le  aperture,   che   solitamente   si identificano con personalissimi «tagli» anche nel corpo volumetrico; la  luce,  che   ispira   non   solo   i   tagli   suddetti   ma   i   vari   sistemi   di copertura  in  ferro  e  vetro.  Per   parte  nostra,   il  meglio  dell'opera  di Botta è da vedere nelle sue case unifamiliari: quella a Riva San Vitale (1973), a Pregassona (1980), a Viganello (1981), a Stabio (1982), ecc.

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In esse, tranne la prima che risente ancora del gusto neoplastico, lo schema è quello di un impianto centrale simmetrico, tagliato al centro della fronte principale da un motivo particolare ­ un taglio verticale, circolare,   gradonato,   ecc.   ­   che   trova   una   corrispondenza   con   la copertura dell'edificio. Per questo e altro, tali edifici, tendenzialmente chiusi a mo' di fortino o di torrette di guardia, lasciano sempre intuire e/o intravedere il loro spazio interno, realizzando quella dialettica fra involucro e invaso alla quale abbiamo dedicato più d'uno studio di teoria   semiotica.   L'architettura­segno   delle   case   unifamiliari   o comunque di piccola scala è, a nostro avviso, da preferire ai fabbricati cittadini   e   agli   altri   interventi   di   maggiore   dimensione,   perché   in quest'ultimi si perde la maggiore valenza dello stile di Botta: il suo conformare degli edifici­oggetto, classici nel loro rigore minuto, nella preziosità del disegno e della natura dei materiali, chiusi come scrigni, definiti come «mobili» o sculture a tutto tondo. Evidentemente queste caratteristiche si attenuano nella scala urbana, dove l'edificio­oggetto può essere soltanto iterato, o si dissolvono quasi totalmente in vista di altre circostanze che non consentono le assialità e le simmetrie di un classicismo rivissuto così modernamente. Storia e progettazione. Nel proporre d'inquadrare l'architettura contemporanea in un codice­ stile virtuale che contesta il presente e si avvale di una componente storica accanto ad una utopica, ci siamo finora occupati del recupero storico   operato   da   alcune   tendenze   o   sottocodici   nazionali.   Nel presente paragrafo intendiamo raccogliere, sempre relativamente alla componente   «storia»,   alcune   opere   ed   esperienze   che   si   rifanno   in vario modo alla storia indipendentemente, fin dove  è possibile, dal loro costituirsi in correnti nazionali. In altri termini, vogliamo studiare le   varie   manifestazioni   dello   storicismo   internazionale,   assumendo l'intera   componente   «storia»   del   nostro   modello   come   se   fosse un'autonoma e grande tendenza.

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Che la ricerca architettonica più recente nutra un notevole interesse per la storia e che uno dei suoi temi centrali sia il rapporto storia­ progettazione risultano con notevole evidenza. Com'è stato osservato, «Il libro di storia dell'architettura accanto al tecnigrafo sul tavolo da disegno non è soltanto una brillante immagine inventata dalla critica per raffigurare la condizione presente, ma è una preciso riferimento ad una   nuova   dimensione   della   cultura,   intervenuta   con   maggiore convinzione   in   questi   anni   ad   illuminare   il   campo   della   ricerca progettuale » [(19) C. Dardi, op.cit.,p.28] Tuttavia,   a   differenza   di   altre   epoche   in   cui   il   ricorso   al   passato avveniva   in   modo   unitario,   perché   condiviso   da   tutti   e   perché   si revocava in dubbio l'intero codice allora in atto, attualmente, benché si rifiuti   la   banausia   della   dimensione   del   presente,   manca   sia quell'unitario consenso verso il passato (rimanendo pur sempre questo un'operazione di vertice, di élite), sia la volontà di rifiutare totalmente il   codice   del   Movimento   Moderno.   Ed   è   questa   una   caratteristica invariante dello storicismo contemporaneo: esso tende ad infrangere in più punti tale codice, ad arricchirlo con valenze di modelli più antichi, ma al tempo stesso vuole un linguaggio che si svolga in continuità con esso.  Nel proporre d'inquadrare l'architettura contemporanea in un codice­ stile virtuale che contesta il presente e si avvale di una componente storica accanto ad una utopica, ci siamo finora occupati del recupero storico   operato   da   alcune   tendenze   o   sottocodici   nazionali.   Nel presente paragrafo intendiamo raccogliere, sempre relativamente alla componente   «storia»,   alcune   opere   ed   esperienze   che   si   rifanno   in vario modo alla storia indipendentemente, fin dove  è possibile, dal loro costituirsi in correnti nazionali. In altri termini, vogliamo studiare le   varie   manifestazioni   dello   storicismo   internazionale,   assumendo l'intera   componente   «storia»   del   nostro   modello   come   se   fosse un'autonoma e grande tendenza. Che la ricerca architettonica più recente nutra un notevole interesse per la storia e che uno dei suoi temi centrali sia il rapporto storia­

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progettazione risultano con notevole evidenza. Com'è stato osservato, «Il libro di storia dell'architettura accanto al tecnigrafo sul tavolo da disegno   non   è   soltanto   una   brillante   immagine   inventata   dalla critica[NOTA]per raffigurare la condizione presente, ma è una preciso riferimento ad una nuova dimensione della cultura, intervenuta con maggiore   convinzione   in   questi   anni   ad   illuminare   il   campo   della ricerca progettuale» .[20 Ivi, p.94] Tuttavia,   a   differenza   di   altre   epoche   in   cui   il   ricorso   al   passato avveniva   in   modo   unitario,   perché   condiviso   da   tutti   e   perché   si revocava in dubbio l'intero codice allora in atto, attualmente, benché si rifiuti   la   banausia   della   dimensione   del   presente,   manca   sia quell'unitario consenso verso il passato (rimanendo pur sempre questo un'operazione di vertice, di élite), sia la volontà di rifiutare totalmente il   codice   del   Movimento   Moderno.   Ed   è   questa   una   caratteristica invariante dello storicismo contemporaneo: esso tende ad infrangere in più punti tale codice, ad arricchirlo con valenze di modelli più antichi, ma al tempo stesso vuole un linguaggio che si svolga in continuità con esso. In tal senso sarebbe forse più corretto parlare di un Manierismo simile a quello instauratosi nel tardo Rinascimento. In quanto operazione di vertice, in gran parte estranea alla «massa parlante»,   lo   storicismo   internazionale   contemporaneo,   a   parte l'invariante   suddetta,   non   si   presenta   in   maniera   univoca;   cosicché studiare,   sia   pure   per   grandi   linee,   detto   fenomeno,   equivale   ad individuare e classificare quanti tipi di riferimento alla storia vanno effettuando attualmente gli architetti. Il   primo   e   più   diffuso   ricorso   alla   storia   è   quello   che   ricerca nell'ambito   stesso   del   Movimento   Moderno,   della   «tradizione   del nuovo» (così da soddisfare in un certo senso quell'istanza di continuità di cui s'è detto sopra), riprendendo, come abbiamo già avuto modo d'osservare a proposito del neoliberty, tendenze, lessici ed elementi rimasti   subordinati   al   successo   del   razionalismo.   Sembrano   così ridestati da nuovo interesse tutti quegli orientamenti architettonici che precedettero   quel   codice­stile   quali   appunto   l'architettura   degli

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ingegneri,   l'Art   Nouveau,   il   protorazionalismo,   la   scuola   di Amsterdam, il Novecento, ecc. Quanto al neoespressionismo esso è solo parzialmente una ripresa, infatti opere quali il nucleo residenziale Romeo   e   Giulietta,   realizzato   a   Stoccarda   tra   il   '54   ed   il   '59   o   la Philharmonie berlinese (1963) di Scharoun non rappresentano tanto un ritorno all'espressionismo storico, quanto una sua evoluzione rimasta ininterrotta. Ancora quale recupero della «tradizione del nuovo», in questo caso dell'avanguardia storica, si riprendono da più parti motivi neoplastici, futuristi e soprattutto del costruttivismo russo, valga per tutti il caso della Facoltà d'Ingegneria a Leicester del '63 di Stirling e Gowan, che manifesta chiaramente, tra gli altri, i suoi legami col Club dei   lavoratori   dei   trasporti,   realizzato   nel   '28   a   Mosca   da   K.   S. Melnikov. Del resto gli stessi maestri del Movimento Moderno hanno, nelle   opere   realizzate   in   questo   dopoguerra,   ripreso   caratteri   già presenti nelle loro fabbriche e nelle relative correnti del gusto degli anni Venti. Così Le Corbusier con la Cappella Notre­Dame du Haut a Ronchamp   (1950­1955)   realizza   sì   una   delle   opere   più   inedite   e paradigmatiche   del   nostro   tempo,   ma   al   tempo   stesso   una conformazione   plastica   di   netta   marca   purista.   Lo   stesso   architetto ripropone motivi «mediterranei» nella Casa Jaoul a Neuilly del '54 e meccanico­puristi nel Centro delle arti visuali a Cambridge del '61. Né è stato alieno Le Corbusier al senso della storia come tradizione di un ambiente   locale   e   ce   ne   fornisce   una   prova   con   le   opere   di Chandigarh, la nuova capitale del Punjab. Ancor più « storicistiche » sono alcune opere dell'ultimo Wright: pensiamo al «protorazionalista» Masieri Memorial di Venezia del '53, alla Price Tower dello stesso anno, così legata, come s'è detto, anche nel gusto della plastica minore ad   un   analogo   progetto,   quello   per   la   St.   Mark's   Tower   del   1929, all'espressionismo­liberty   della   sinagoga   Beth   Sholom   realizzata   a Philadelphia nel '59. E questi «ritorni» dei maestri non sono affatto dovuti   ad   una   sorta   di   stanchezza   creativa,   quanto   al   desiderio   di riprendere   un   dialogo   col   loro   passato,   con   la   loro   storia,   per sviluppare   nuove   tematiche   linguistiche.   Così   Le   Corbusier   con   il

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convento de La Tourette, costruito a Eveux sur l'Arbresle presso Lione nel   1957,   rivede   la   sua   metodologia   progettuale   nel   senso   della «storia».   L'edificio   infatti   risulta   planimetricamente   più   unitario   e bloccato delle sue opere pre­belliche, nasce da un più intimo legame con   l'ambiente   naturale   circostante   e   riprende   persino   il   modello distributivo   di   un   altro   convento   domenicano.   Ciononostante,   anzi forse per alcune di queste valenze ­ l'unità della pianta quale revisione della pianta libera ­ la fabbrica de La Tourette diventa il paradigma di molte   opere   successive,   dalla   Boston   City   Hall   di   Kallmann, Mckinnell   e   Knowles   all'Università   Gakushuin   di   Maekawa,   dal famoso   Art   and   Architecture   Building   dell'Università   di   Yale, costruito da Paul Rudolph nel '63 all'edificio per la Ford Foundation a New York, progettato da Kevin Roche. Ed è proprio, ripetiamo, per questo ripensamento di precedenti schemi (oltre ai valori di pianta, un rinnovato   interesse   per   i   motivi   delle   facciate)   che   il   convento corbusiano   è   diventato   modello   di   queste   ed   altre   costruzioni   più recenti. Un'altra forma di storicismo è quella degli architetti che si rifanno ad un passato architettonico più remoto. Qui evidentemente l'intenzione è di revocare in dubbio gli stessi esiti del Movimento Moderno, mai tuttavia   negandone   il   codice   e   la   continuità   con   esso.   Così   Eero Saarinen   nei   Dormitori   della   Yale   University   del   '60   ripensa all'ambiente di un borgo medievale, al neoromanico nella Cappella dell'MIT,   al   neo­georgiano   nell'ambasciata   USA   a   Londra;   così   il gruppo   BBPR   con   la   Torre   Velasca   a   Milano,   costruita   nel   1958, ripropone lo schema del palazzo di città medievale e realizza il primo edificio italiano contemporaneo con intenti storicistici. Louis Kahn, il caposcuola dello storicismo contemporaneo in ogni sua forma, ripensa alle torri di San Gimignano nei Richards Laboratories del '57­'61, a Carcassonne per il progetto del centro di Philadelphia, alle piante del Castello di Coomlogan nel Dumphriesshire per i dormitori del Bryn Mawr   College   in   Pennsylvania,   alla   Roma   di   Adriano   nell'istituto Jonas Salk del '59, negli studi per la ristruttrazione della Market Street

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East del '62 e negli edifici di Dacca nel Pakistan. Per altre opere, quali il progetto per la sinagoga Adath Jeshurum, la Trenton Bath­House, la chiesa unitanana di Rochester, le sale dei ricercatori dell'istituto Salk, l'edificio   per   la   Tribune   Review   a   Greensburg,   ecc.   Kahn   sembra esplicitamente   rifarsi   agli   architetti   dell'Illuminismo,   Boullée   e Ledoux  (21)Cfr.   M.   Angrisani,   Louis   Kahn   e   la   storia,   «   Edilizia moderna », ottobre 1965, n. 86. Ancora   una   forma   di   storicismo   dell'architettura   contemporanea   è quella che, in vari modi, riprende il latente filone classicistico, peraltro costantemente   associato   alla   componente   razionale   dell'architettura, salvo che nelle fasi in cui in essa ha avuto un maggior peso l'influsso dell'avanguardia.   Classicistico   è   Asplund   già   nel   Crematorio   del cimitero sud a Stoccolma del lontano 1935; è Mies van der Rohe nella Crown   Hall   dell'I.T.T.   del   1956,   nella   Galleria   d'arte   sulla Potsdamerstrasse di Berlino del '68, nel progetto per la Convention Hall a Chicago e forse nello stesso Seagram Building di New York; Walter Gropius in una delle sue ultime opere più felici, l'Ambasciata USA ad Atene del 1961; Arne Jacobsen nel grattacielo della Sas a Copenaghen del '61; Philip Johnson in quasi tutte le sue opere; Kevin Roche nei Knights of Columbus Hall a New Haven; Louis Kahn in molte delle sue fabbriche, ma con un accento tutto particolare; come pure   sui     è   il   classicismo   citato   di     Aldo   Rossi   e   Giorgio   Grassi. Nell'ambito   stesso   del   classicismo,   più   per   ragioni   statico­ morfologiche   e   di   assemblaggio   modulare   che   per   intenzione architettonica, vanno altresì annoverate le opere dei grandi strutturisti da Nervi a Torroja e, con altre implicazioni, da Wachsmann a Fuller. Ma   al   di   là   dei   tipi   di   storicismo   sopra   considerati,   la   ricerca progettuale   contemporanea   non   tende   al   recupero   di   intere «espressioni» da alcuni stili del passato, bensì a riprendere dal codice della   storia   isolati   principi   compositivi,   motivi   morfologici   ed   usi sintattici   a   suo   tempo   trascurati   dal   Movimento   Moderno.   In   altre parole, non sono i messaggi espressi da quelle remote fabbriche che oggi   interessano,   quanto   gli   strumenti,   le   regole,   le   strutture   che

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consentirono   la   loro   realizzazione.   Ritorna   così   l'uso   delle   piante bloccate, aventi già al livello di disegno una loro figurazione, delle unità monolitiche, di una articolazione tutta interna ai sistemi e non più   necessariamente   evidenziata,   della   simmetria,   che   variando   di significazione   da   un   contesto   ad   un   altro,   potrebbe,   al   pari   della prospettiva, annoverarsi tra le «forme simboliche» ecc.  È in quest'ambito che viene  rivalutata ­ essendo sempre Louis Kahn il maggiore esponente – la didattica architettonica derivata dall 'Ecole des Beaux­Arts. A tal proposito Scully scrive:«In un senso formale, simbolico e sociologico il Beaux­Arts certamente fu un fallimento fin dai   primi   anni   del   XX   secolo,   e   fino   agli   anni   '20   dell'America. Tuttavia le ricerche del Banham, e quelle, più recenti, dello Stern, ci costringono   a   riconoscere   che   la   tenace   solidità   di   molte   teorie accademiche che vi facevano capo, distillate dai messaggi di Viollet­ le­Duc e d'altri ad opera dello Choisy, del Guadet e del Moore, “tiene” ancora. Questo impianto teorico insisteva su di un'architettura muraria fatta   di  masse   corporee  e   pesanti,  ove  spazi  chiaramente  definiti  e ordinati prendono forma e caratterizzazione attraverso la solidità degli stessi elementi strutturali [...] Kahn apprese pure, alla maniera Beaux­ Arts, a considerare gli edifici del passato come amici, piuttosto che nemici; amici da cui ci si aspettava, e forse più per intima comunione che   per   vera   comprensione,   di   ricevere   generosamente   dei   prestiti (22).V. Scully, Louis I. Kahn, Il Saggiatore, Milano 1963, p. 12. È stato anche osservato che tutto il movimento derivante dalla lezione di Kahn consiste nel « recupero metastorico degli elementi linguistici e sintattici che la tradizione del classicismo ha consacrato lungo l'arco di sviluppo della cultura mercantile e borghese in Occidente, come materiali   assoluti,   dati   preformati   dotati   di   esistenza   propria   o comunque   antecedenti   alla   loro   organizzazione   in   sistema architettonico»  (23   C.15   Dardi,   op.   cit.,   p.   24.  Cosicché,   come dicevamo,   non   si   cercano   nella   storia   tipi   di   messaggi,   di conformazioni già realizzate da ripetere ecletticamente, bensì appunto materiali  preformati  come  elementi d'un sistema  riutilizzabili in un

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altro,   quello   della   lingua   architettonica   oggi   in   atto.   Donde   la legittimità di definire «citazioni» questi fattori che tolti dall'originario contesto acquistano un significato affatto nuovo in quello delle nuove conformazioni   architettoniche;   certo,   non   sempre,   ma   assai   spesso. Tuttavia più che queste antiche forme disponibili al «trasferimento» si ammira   nella   storia   e   segnatamente   nella   sua   metastorica   vena classicistica   l'esistenza   di   un   codice   e   con   essa   la   possibilità   di ordinare,   classificare   e   trasmettere   fattori,   norme   e   deroghe   di   tale codice;   una   logica   vita   interna   del   linguaggio   architettonico   che sembrava   letteralmente   smentita   dal   Movimento   Moderno,   il   quale non ha voluto o saputo intendere i termini dei codici passati. Insomma si vuole , accanto alla ragione che regola la prassi architettonica, una ragione che ne sostenga la teoria e la sua autonoma struttura. Nel caso migliore queste due istanze si fondono per tradursi in una critica fatta d'azione: « Lo storicismo della scuola kahniana è un richiamo al mito europeo della Ragione: a tale stregua è un fenomeno di opposizione alla   tradizione   pragmatistica   americana,   ormai   in   bilico   fra un'irrazionalità   fieristica   e   un   colpevole   cinismo»   (24    M.   Tafuri, Razionalismo   critico   e   nuovo   utopismo,  «Casabella­continuità   », novembre 1964, n. 293. In definitiva ciò che riscatta, al di là dei risultati, tutta l'operazione storicistica contemporanea che tende a tenere in vita, talvolta al limite appunto dell'utopia, presente e passato, è l'intenzione di risemantizzare la   produzione   architettonica   nuova   rifacendosi   ai   due   principali parametri del Movimento Moderno e della storia, rispettivamente le ragioni funzionali in senso lato e la dimensione della memoria. La poetica della grande dimensione. Assunte la storia e l'utopia come le componenti d'un codice virtuale per l'architettura dei nostri giorni, ci occuperemo ora della seconda di tali  componenti.  In  particolare,  poiché  il termine «utopia»  presenta molteplici   valenze   semantiche,   investendo   significati   che   talvolta esulano dal campo architettonico­urbanistico, volendo subito indicare

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di quale utopia intendiamo occuparci, abbiamo preferito identificarla con una tendenza storicamente riconosciuta e riguardante una ricerca in atto, cioè la cosiddetta poetica della grande dimensione. Sorta tra gli anni '50 e '60 questa propone una progettazione a livello intermedio   fra   architettura   e   urbanistica,   per   cui   si   parla   di macrostruttura, di  grande scala, di  town­design, ecc. Essa coincide sociologicamente   con   l'avvenuta   ricostruzione   bellica,   con   l'inizio della   grande   produzione   di   massa   e,   legandosi   allo   sviluppo   delle attività terziarie, che hanno ingigantito le moderne metropoli, è frutto della cultura di massa. Come questa ha revocato in dubbio l'ideologia del   Movimento   Moderno   e   molte   delle   stesse   ideologie   politiche, rifiuta   la   metodologia   razionalista   dello  zoning,   trascura   l'elemento architettonico   a   scala   tradizionale   mentre   privilegia   il   dato tecnologico,   i   problemi   del   grande   numero,   il   richiamo   a   nuovi simboli e miti, per cui in un nostro precedente studio parlammo di architettura come massmedium. Pioniere   della   poetica   macrostrutturale   è   ancora   una   volta   Le Corbusier con tutte le sue proposte che stanno appunto ad un livello dimensionale   intermedio   fra   architettura   e   urbanistica,   si   pensi aIl'Immeuble­Villa,   alla   stessa   unità   di   abitazione   di   Marsiglia,   ad alcuni aspetti dei suoi progetti urbanistici come il viadotto «abitato» del   Piano   di   Algeri   e   agli   stessi   elementi   morfologici   della   sua architettura   pensati   anche   in   funzione   urbanistica:   ci   riferiamo   in particolare all'uso dei pilotis. Non a caso le proposte più significative della   tendenza   in   esame   ci   vengono   dal   più   dotato   architetto   di derivazione corbusiana, il giapponese Kenzo Tange.  Altri   due   precursori   di   tale   tendenza,   appartenenti   anch'essi   alla generazione dei maestri, sono Konrad Wachsmann e R. Buckminster Fuller. Il primo, che in collaborazione con Gropius ha legato il suo nome   a   studi   e   ricerche   sulla   normalizzazione   e   composizione   di elementi prefabbricati, successivamente si è totalmente impegnato nel campo delle grandi strutture, basate su due elementi principali: l'asta ed   il   giunto.   Come   si   ricava   dalle   stesse   dichiarazioni   di   questo

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architetto­tecnologo,   «lo   studio   di   tali   giunti   [...]   costituisce   oggi l'essenza   stessa   del   segreto   dell'arte   edilizia   [...]   un   ordinamento continuo, partendo dagli elementi basilari che origineranno i giunti, che origineranno superfici e strutture, che origineranno gli edifici, che origineranno strade e piazze o parchi, che origineranno i complessi urbani, che origineranno il panorama futuro del mondo civile» [25 K. Wachsmann, Concetti di architettura, conferenza tenuta il aprile 1956 al Circolo Artistico di Roma, cit. in Benevolo, Storia dell'archietttura moderna,   p.   714].   Come   si   vede   qui   il   problema   della   grande dimensione e la concomitante intenzione utopica non nascono da una visione globale ed architettonica delle macrostrutture, che troveremo nelle pagine seguenti, bensì da un processo puramente addizionale, del tutto simile a quello dei razionalisti fra le due guerre, ma di esso assai più povero perché meramente tecnologico. Più radicale e complesso risulta il contributo di R. B. Fuller. Questi giudica formalistiche tutte le ricerche dei razionalisti degli anni Venti, in quanto egli nello stesso periodo si occupava di tradurre fedelmente i processi di lavorazione industriale in edilizia nulla concedendo alla componente estetica. Nel '27 realizzò una « macchina per abitare » denominata Dymaxion house (dinamismo+massimo di efficienza) che costituisce nella concezione e persino nella forma il prototipo a scala edilizia   di   molte   recenti   macrostrutture.   Dopo   aver   studiato   alcune parti prefabbricate dell'alloggio, il blocco bagno, il blocco cucina e numerose altre innovazioni tecnologiche, e realizzato nel '46 la Casa Wichita, utilizzando le linee di montaggio dell'industria aereonautica, Fuller   elabora   nel   dopoguerra   le   cupole   geodesiche.   Studiando   la rappresentazione   cartografica   della   terra,   la   struttura   dei   metalli costituita da tetraedri e osservando che la cupola è una conformazione che   racchiude   il   massimo   spazio   con   il   minimo   di   superficie d'involucro, egli conforma tali cupole con un reticolo involucrante a maglia   tetraedrica.   Questo   prototipo   sarà   realizzato   in   plastica,   in metallo e addirittura in cartone, mostrando sempre un elevato grado di resistenza. Gli impieghi delle cupole geodesiche sono stati molteplici,

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dalla   copertura   di   qualche   locale   pubblico   al   Padiglione   USA   alla Expo   di   Montreal,   dalle   centrali   per   la   basi   artiche   della   marina militare al progetto di ricoprire tutta Manhattan, assicurandole peraltro una   costante   condizione   climatica.   Con   tale   progetto   R.   B.   Fuller rientra a tutti gli effetti nel novero dei progettisti operanti nel campo macrostrutturale, sebbene tutta la sua lunga ricerca lo rende il maggior precursore   della   contemporanea   utopia   tecnologica.   A   questi architetti­tecnologi   va   accostato   l’ingegnere   Frei   Otto,   autore   delle coperture a vela in tensione (le più famose sono quelle apparse alla Esposizione   di   Montreal   e   al   villaggio   olimpico   di   Monaco)   e ricercatore   tra   i   più   promettenti   sul   piano   internazionale   in   questo settore. Quanto   alla   influenza   di   R.   B.   Fuller   sulla   poetica   della   nuova dimensione, essa si manifesta nell'opera di Louis Kahn, anzi  è alla base   della   componente   utopica   di   questo   singolare   architetto   che sembra   incarnare   entrambi   gli   aspetti   del   nostro   codice   virtuale.   È assai probabile che a rendere Kahn l’architetto più significativo del periodo in esame sia stata proprio la sintesi da lui operata fra storia e utopia. L'influsso di Fuller su Kahn si manifesta nei solai della Art Gallery  dell'Università  di   Yale  che   appaiono  come  una  intelaiatura tridimensionale in calcestruzzo costituita da elementi cavi tetraedrici. Alla stessa linea morfologica s'ispira in ogni sua parte la torre per il nuovo centro di Philadelphia, un edificio che con il relativo contesto si colloca a suo modo tra i primi esempi della poetica macrostrutturale. Queste  invece sono  le caratteristiche  esponenti  dell'opera  di Kenzo Tange   Dopo   una   serie   di   fabbriche   nella   linea   linguistica   di   Le Corbusier, Tange approda alla poetica della grande dimensione con un progetto redatto in collaborazione con un gruppo di studenti del MIT nel   1959,   che   prevedeva   l'espansione   di   Boston   sulla   baia   con   un nucleo   residenziale   per   25.000   abitanti.   Esso   consiste   in   due macrostrutture   che   si   articolano   fra   loro   formando   un   vasto   spazio centrale   variamente   organizzato;   ciascuna   di   queste   presenta   in sezione dei grandi cavalletti triangolari di cemento armato sostenenti

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sul loro lato interno le piattaforme per le strade che scorrono a vari livelli e sul lato esterno altre piattaforme che sostengono le case, la cui dimensione e consistenza architettonica è del tutto trascurabile rispetto alla   grande   struttura   portante,   donde   la   loro   trasformazione, asportazione, ecc. senza mutare l'equilibrio del sistema. Alla base dei portali triangolari è disposta la rete di circolazione principale che, a tre livelli, prevede la metropolitana, un'autostrada e una monorotaia. Nel '60,   anticipato   dalle   proposte   del   gruppo  Metabolism,   anch'esso operante nell'ambito della poetica della grande dimensione e mirante a prefigurare   strutture   tanto   mobili   quanto   le   trasformazioni   socio­ economiche e affidate alle più avanzate possibilità della tecnologia, un gruppo guidato da Kenzo Tange redige il piano di Tokio. Nell'intero organismo, che in prima approssimazione può assimilarsi ad un immenso ponte sospeso sulla baia, le macrostrutture a funzione architettonica sono concepite secondo un sistema che Tange definisce «midollare».  I   midolli   sono   dei  pilotis  ingigantiti   che,   oltre   ad assolvere alla funzione statica, contengono ascensori, condutture ed impianti. Disposti secondo un reticolo planimetrico di quadrati aventi per   lato   circa   200   metri,   detti   midolli   costituiscono   un   sistema sostenente in direzioni fra loro ortogonali edifici da dieci a venti piani. A loro volta questi, per superare le ampie luci da un sostegno all'altro, sono costituiti  da ampie pareti che traducono le facciate in enormi travi reticolari antisismiche. Oltre   all'evidente   carica   utopica   di   questi   grandi   organismi,   non possiamo ignorarne un'altra, per così dire storica; il sistema midollare infatti con tutte le sue possibilità tecnologiche in fondo non esce dalla logica  del   sistema   trilitico.  Per   questo   ed  altro  il   disegno   di  Arata Isozaki, uno dei collaboratori di Tange per il Piano di Tokio, che con un fotomontaggio sostituisce della macrostruttura sopra descritta parte dei midolli con colonne doriche, è il più emblematico del proposto codice virtuale composto di storia e utopia. Tra   gli   altri   progettisti   impegnati   nella   poetica   della   grande dimensione   emerge   la   figura   del   polacco   Jan   Lubicz­Nycz,   che

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s'impose   all'interesse   internazionale   con   il   progetto   per   il   concorso della sistemazione dell'area fra Tel­Aviv e Giaffa del 1963. Già i suoi precedenti progetti, quello del Golden Gateway per San Francisco del 1960, quello del Diamond Heights per la stessa città del '61 e quello per   il   concorso   Ruberoid   del   '62,   preannunciano   l'intenzione   di conformare dei grandi «contenitori», macrostrutture polifunzionali che intendono incidere con la loro forma architettonica particolare sulla scena   urbana,   rappresentando   di   questa   alcuni   punti   fissi   di riferimento. Per il concorso israeliano Lubicz­Nycz, in collaborazione con Donald P. Reay, propone dei monumentali grattacieli a forma di cucchiaio; nella concavità di questi supporti trovano posto, digradando ed   espandendosi   fino   alla   base   volumi   architettonici   di   scala tradizionale   destinati   a   funzioni   commerciali,   rappresentative   e residenziali. L'idea programmatica è così esposta nella relazione che accompagna il progetto: «Le città dovranno diventare raggruppamenti di   vasti   contenitori   piuttosto   che   agglomerati   di   singoli   edifici.   I contenitori dovranno essere assai ampi dando vita a forme aventi fini multipli, che abbracciano tutte le attività. Tali contenitori andranno sviluppandosi secondo linee strutturali stabilite schematicamente fino a   quando   si   raggiungerà   la   maturità»   [29   Cit.   in   M.   Tafuri, Razionalismo   critico   e  nuovo   utopismo,  in   «Casabella­continuità  », novembre 1964, n. 293. Alla proposta dei contenitori­cucchiaio segue quella che Lubicz­Nvcz presenta al concorso per il Kursaal di San Sebastian in Spagna. Qui i contenitori  assumono  la   forma  di  due  enormi  corna  dentate   con  le punte rivolte verso l'alto che nella loro volumetria, nonché nei più regolari volumi a pianterreno, contengono appartamenti, un albergo, un auditorium, servizi sportivi e ricreativi, un grande parcheggio, ecc. In   sostanza   i   contenitori   polifunzionali   di   Lubicz­Nycz,   oltre   a focalizzare   l'interesse   del   town­design   in   pochi   punti   fortemente contrassegnati, tendono anche a distruggere tutta una tipologia edilizia tradizionale   con   case,   scuole,   ecc.   inglobandola   nella   prevista macrostruttura che richiede, inclusiva com'è, il massimo dell'impegno

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figurativo. Ma nonostante la chiarezza del programma ­ riduzione di agglomerati edilizi a strutture più efficienti di quelli e contrassegnanti meglio la scena urbana ­ le proposte dell'architetto polacco rimangono sempre   ad   un   livello   architettonico,   non   raggiungono   mai   quella dimensione intermedia, in quanto il problema urbanistico è chiamato in causa soprattutto come sfondo, come scena visiva. Di opposto orientamento, quasi del tutto indifferente al problema della forma è la proposta avanzata da Yona Friedman. Questi muove da considerazioni generali quali il crescente aumento demografico della popolazione   mondiale;   la   necessità   di   urbanizzare   le   attuali   aree disabitate,   modificandone   l'habitat   con   opportune   tecniche   di climatizzazione;   le   altre   difficoltà   relative   all'assegnazione   ad   ogni uomo di  un alloggio, ecc. Rispetto a questo quadro di riferimento, Friedman scrive: « Lo scienziato di domani troverà una soluzione che semplificherà [...] la vita dell'uomo di domani, ma qualsiasi sia questa soluzione è chiaro che l'architetto sarà eliminato e che nell'urbanistica dell'avvenire egli  non avrà più posto. Il solo compito che gli resta attualmente è di sviluppare le tecniche interinali di costruzione, che serviranno da ponte fra le costruzioni classiche (che sono immobili, e che   “lasciano   delle   tracce”)   ed   i   sistemi   del   futuro,   tendenti   alle scienze astratte. Il ruolo di questi tecnici interinali sarà di moltiplicare la  superficie  utilizzabile  per   l'abitazione  e  l'architettura  in  funzione della crescita demografica. Questa è la ragion d'essere dell'architettura mobile» [30 Y. Friedman. Teoria generale della mobilità, «Casabella», giugno   1966,   n.   306].  E   tale   è   il   nome   che   Friedman   dà   alla   sua proposta, dove l'aggettivo «mobile» denota la duttilità dell'architettura nel seguire le trasformazioni strutturali della società. In pratica, La città   spaziale   o   l'insediamento   tridimensionale   di   Friedman   si compone di una struttura uniforme e continua, ovvero di una griglia tridimensionale a vari piani sospesa dal suolo almeno di 15 metri e sostenuta da una maglia di pilastri distanziati da 40 a 60 metri. Lo spazio al di sotto della griglia è riservato al verde della campagna o alla conservazione della città preesistente, quello interno alla griglia è

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previsto   per   gli   elementi,   liberamente   disposti   della   città   spaziale, unità  iesidenziali,   uffici,  edifici  pubblici,   ecc.,   mentre   il  tetto   della griglia è adibito per le strade e per gli impianti speciali. La continuità della struttura a griglia consentirebbe anche di risolvere il problema della climatizzazione della nuova città spaziale. Se nella proposta di Friedman prevale la dimensione orizzontale, in quella di Paul Maymont prevale quella opposta, tanto che questi parla di città verticale; entrambe aventi in comune la possibilità di sorgere sollevate   dal   suolo   e   di   sovrastare   preesistenti   nuclei   urbani.   Il progetto di Maymont (1963), fortemente influenzato dalla Dymaxion house di Fuller, è puramente tecnologico: un immenso pilone centrale si   leva   dal   suolo   portando   in   cima   un   certo   numero   di   cavi   che vengono   fissati   ad   una   base,   ciascuno   formando   una   linea   curva dipendente dal proprio peso; l'insieme di questi cavi ad andamento ascensionale   viene   preteso   per   mezzo   di   un'altra   serie   di   cavi concentrici. In una tale struttura vengono poi ad organizzarsi elementi e   volumi   architettonici   fino   a   formare   intere   città   grazie   anche   al collegamento di ciascuno di questi iperboloidi con altri simili. Potremmo continuare a lungo nell'elenco di tali proposte, dall'organica Mesa City di Paolo Soleri alle Torri elicoidali di Kurokawa, dalla città verticale   di   St.   Florian   alla  Ville  cóne  di   W.   Jonas,   dalla   città cibernetica   di   N   Schöffer   alle   macrostrutture   di   L.   Ricci   fino   agli assemblaggi di case in plastica, ovvero ad elementi gonfiabili come quelle del gruppo Utopie, ecc., ma, oltre che ripeterci, ci troveremmo talvolta   fuori   dalla   poetica   della   grande   dimensione.   Mette   conto piuttosto esaminare più a lungo due fenomeni che la svilppano e in pari tempo ne segnano la crisi. Ci riferiamo all'habitat dell'Expo di Montreal   del   '67   e   alle   manifestazioni   del   gruppo   inglese Archigram di cui diremo più avamti È stato osservato che uno dei fattori invarianti della poetica in esame è l'indifferenza   per   la   dimensione   architettonica   al   costituirsi   di immagini urbane date appunto dalle macrostrutture o dai contenitori.

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Infatti,   spostando   l'interesse   progettuale   dalla   tradizionale   scala architettonica   a   quella   del  town­design,   l'elemento   architettonico singolo, che rimane necessariamente invariato nella sua scala umana, perde di valore. Emblematico in tal senso è il disegno di Le Corbusier, che nella grande struttura del viadotto del Piano di Algeri presenta un alloggio addirittura in stile moresco. LE OPERE DEL CODICE VIRTUALE  L'Unité d'babitation  Che la fabbrica di Marsiglia sia emblematica di tutta l'opera di Le Corbusier e con essa di quasi tutta la problematica del Movimento Moderno è indubitabile. Come pure, per il suo carattere eccezionale e per il suo porsi come modello di successive realizzazioni, essa  è al tempo   stesso   indubbiamente   paradigmatica.   Ed   ancora   ricco   di significato è il fatto che l'Unité d'babitation, frutto di tutta una serie di decennali   esperienze   progettuali,   fu   concepita   prima   della   guerra   e realizzata quasi  subito dopo, aprendo così  la fase più recente della contemporanea storia dell'architettura. Volendo  fornire   un'analitica   raccolta  di   dati,  sia   pure   più  rilevanti, dell'edificio, dovremmo descrivere la sua struttura portante principale in   cemento   armato   che   si   eleva   su   una   vasta   piattaforma,   definita dall'autore  sol   artificiel,   tanto   alta   da   contenere   gli   impianti ispezionabili   e   poggiante   su   diciassette   coppie   di  pilotis  sagomati plasticamente   e   cavi   per   alloggiare   le   canalizzazioni;   dovremmo inoltre distinguere e raggruppare i 23 differenti tipi di alloggi formanti il totale di 337 appartamenti; esaminare il settimo ed ottavo piano, occupati per oltre la metà della superficie dai servizi collettivi, dalla galerie   marchande  coi   negozi   di   prima   necessità   e,   per   l'area rimanente, da un albergo per ospiti ed altri alloggi aperti sulla testata a sud; parlare delle attrezzature disposte sul tetto­giardino (l'asilo­nido, la palestra, il bar col solarium, la piscina dei piccoli, il loro angolo dei giochi,   i   volumi   «puristi»   degli   impianti   tecnici,   ecc.);   dovremmo infine ricordare che i collegamenti verticali sono affidati a tre gruppi

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di scale aventi ognuno una serie di ascensori, mentre quelli orizzontali sono affidati a rues intérieures disposte al 2°, 7°, 8°, 13° e 16° piano. Ma più che contabilizzare parti e funzioni, che in questo edificio sono peraltro eterogenee e complesse, preferiamo occuparci di alcuni suoi settori che meglio lo rappresentano. Diciamo intanto che l'Unité d'babitation  è una grande fabbrica con parti altamente specializzate al fine di realizzare quell'ideale di casa collettiva   ed   autosufficiente,   risalente   a   tutta   la   tradizione   dei riformatori   utopistici.   Le   tre   parti   dell'edificio   che   prenderemo   in esame,   tutte   rientranti   nel   settore   degli   alloggi,   sono:   la   struttura portante principale, la conformazione ed articolazione delle cellule e la griglia tridimensionale esterna delle loggias brise­soleil. Quanto al primo fattore, la grande ossatura di cemento armato, essa incarna una delle due famiglie morfologiche adottate da Le Corbusier, cui   abbiamo   accennato   nel   capitolo   sul   razionalismo,   ossia   quella d'impianto ortogonale, d'ispirazione classica, cartesiana, configurata in base   ai  tracés   régulateurs.   All'altra   famiglia,   quella   contrassegnata dalle forme libere o derivate dall'esperienza della pittura e scultura puriste, appartengono le plastiche forme dei pilotis, del sol artificiel e delle   attrezzature   disposte   sul   piano   di   copertura.   Pertanto,   se consideriamo   unitariamente   queste   parti   della   struttura   portante, osserviamo   che   in   essa   coesistono   entrambe   le   suddette   famiglie morfologiche.  Tale  coesistenza,  anzi  il brusco  passaggio  dai fattori discontinui, ridotti o riducibili in unità discrete (la griglia ortogonale) a quelli continui e non scomponibili (le forme libere), costituisce forse l'aspetto più tipico dello stile di Le Corbusier. Parlando della struttura, va ricordato che l'evoluzione del rapporto fra le   parti   portanti   e   quelle   portate   contrassegna   l'intera   vicenda   del Movimento Moderno. La struttura a scheletro viene esibita non senza perplessità nell'Ottocento; «piegata» ad un gusto figurativo con l' Art Nouveau;   francamente   accusata   dal   protorazionalismo,   finché  viene assorbita dal razionalismo nel suo programma di spazi dinamici dove talvolta essa serve a realizzare immagini leggere e incorporee, affidate

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alla   pura   stereometria   dei   volumi   e   alla   netta   bidimensionaità   dei piani, si pensi agli angoli trasparenti di Gropius e alle facciate libere di Le Corbusier. E ciò sembra indicare che il razionalismo abbia fatta propria una tecnologia, la quale non ha più ragione d'essere esibita. E puntualmente   troviamo   che   nell'Unité   d'habitation,   dove   pure   la struttura   portante   ha   un   suo   preciso   significato   e   un   suo   carattere espressivo, essa risulta, ad eccezione dei  pilotis  e del  sol artificiel, nascosta   ovvero   una   trama   conformatrice   e   ordinatrice,   ma soggiacente, occultata da una sovrastruttura ad essa sospesa, quella delle loggias brise­soleil. Cosicché la gabbia portante della fabbrica di Marsiglia,   nella   cui   trama   s'inseriscono   le   cellule   e   ai   cui   lati   si sostengono le teorie dei terrazzini e dei frangisole, assume il doppio significato del termine struttura: quello architettonico costruttivo, di parte portante di un edificio, e quello più ampiamente strutturalistico, cioè   di   sistema   soggiacente,   di   organizzazione   nascosta,   ma indispensabile alla significazione e alla vita stessa di un organismo. Quanto al secondo fattore della nostra analisi, le cellule abitative e la loro articolazione,  è opportuno dare una breve descrizione del tipo d'alloggio più ricorrente. Questo si sviluppa su due piani di diversa grandezza;   quello   minore   è   destinato   alla   zona   diurna   e   quello maggiore,   che   occupa   l'intera   profondità   del   corpo   di   fabbrica, realizzando   la   doppia   esposizione   con   aperture   ad   est   e   ad   ovest, contiene le camere da letto. Data la diversa profondità dei due piani, ogni cellula s'incastra con un'altra complementare, impegnando in tal modo l'altezza di tre piani; in quello intermedio, al centro del corpo di fabbrica, corre longitudinalmente una «strada interna» che dà l'accesso ai   due   alloggi.   In   quello   posto   da   un   lato,   per   via   dell'incastro suddetto, dalla zona del pranzo si sale al piano delle camere da letto; in quello del lato opposto dal piano del pranzo si scende nella zona delle camere da letto. All'interno di ciascuna cellula il solaio del piano superiore è arretrato rispetto alla parete esterna, cosicché da esso ci si affaccia sulla zona inferiore che risulta alta quanto due piani.

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Com'è stato osservato, alla base del programma dell'edificio in esame c'è un assunto sociologico: « libertà individuale in una organizzazione collettiva [...]. La nostra civiltà è basata su questo principio, l'Unité cl'habitation   anche».   E   questo   assunto   si   riscontra   già   al   livello costruttivo;   infatti,   come   alloggi   unitari   completamente   distinti,   le cellule, che hanno un'autonoma struttura metallica, s'inseriscono nella maglia   principale   in   cemento   armato   quasi   con   una   semplice operazione d'incastro, senza toccarsi l'una con l'altra e, con speciali accorgimenti tecnici, realizzano il loro più completo isolamento. Ma   il   rapporto   fra   le   cellule   ed   il   tutto,   questa   relazione   fra l'individuale ed il collettivo, acquista nella fabbrica di Marsiglia una conformazione ed un significato del tutto inediti e particolari. Di solito una   cellula   d'abitazione   della   stessa   tendenza   razionalista   può considerarsi   un  sistema,   il   cui   fattore   unitario   e  basilare   è   dato  da ciascuna   camera   o   ambiente;   ed   anche   all'esterno   ogni   camera contrassegna   con   la   sua   apertura   la   presenza   di   questa   unità   del sistema.   Viceversa,   nell'Unité   d'babitation,   che   pure   presenta distributivamente   una   separazione   dei   suoi   ambienti   interni,   questi tuttavia sono concepiti con una tale fluidità spaziale (separazione del pranzo dalla cucina con bassi elementi d'arredo, spazi a doppia altezza fra la camera dei genitori ed il soggiorno, divisorio mobile tra le due camere   dei   figli)   da   presentare   una   complementarità   di   ciascun ambiente   con   gli   altri;   al   limite   da   superare   la   nozione   stessa   di camera.   Insomma,   distributivamente   la   cellula   non   è   più   concepita come   un   sistema   di   camere,   ma   come   un   unitario   ambiente diversamente articolato. Ed anche all'esterno, su ciascuna delle due fronti un'unica, grande apertura corrisponde a tale ambiente.  E   veniamo   al   terzo   fattore   della   nostra   «lettura»,   le  loggias   brise­ soleil. A parte le zone speciali dell'edificio ­ pieni corrispondenti agli alloggi aperti a sud, il settore con gli altri alloggi particolari e i servizi sulla facciata ad est, la fascia dei due piani contenenti i negozi e le altre attrezzature collettive, ecc. per l'intera organizzazione delle tre fronti libere (quella a nord è cieca con la famosa scala che si arresta al

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piano dei negozi), Le Corbusier concepisce una grande sovrastruttura tridimensionale a griglia, la cui profondità è quella dei terrazzini; il suo   ritmo   verticale   è   dato   dal   proseguimento   in   facciata   dei   muri laterali   della   cellula,   quello   orizzontale   dalle   balaustre   in   cemento vibrato   delle  loggias  che,   oltre   a   costituire   un  brise­soleil  per   gli ambienti   sottostanti,   con   la   loro   diversa   disposizione   in   altezza indicano l'articolazione degli spazi interni. Infatti, poiché uno dei due solai della cellula è arretrato rispetto al filo della facciata ­ donde la necessità di inserire al suo livello, nell'invaso delle singole loggias, un piano orizzontale funzionante da vero e proprio brise­soleil ­ si ha che ogni cellula presenta un solo terrazzo per lato, il cui vano è di altezza semplice quando da quel lato prospetta la zona delle camere da letto e di   altezza   doppia   quando   sullo   stesso   lato   prospetta   la   zona   del pranzo­soggiorno; ed essendo gli alloggi ad incastro, in facciata, ad ogni vano doppio succede verticalmente un vano semplice; cosicché la teoria   delle  balaustre,  che  conferisce   una  accentuazione   orizzontale all'intero organismo, si presenta con un ritmo alternato: ad ogni due file di balaustre piene corrisponde una fila di spazi vuoti perfettamente quadrati. Il vano quadrato indica nel prospetto la presenza all'interno di una cellula avente da quel lato altezza doppia, mentre il più basso vano  rettangolare,   che  divide   una   balaustra  dall'altra,   indica   che  la corrispondente cellula interna presenta dallo stesso lato un solo piano. Ad accentuare poi la varietà di questa struttura alveolare contribuisce la colorazione «disordinata», ma affidata a poche tinte basilari, delle pareti interne di ciascun terrazzo. La presenza del colore, unitamente a quella degli altri motivi plastici, le scultoree forme del tetto­giardino, la scala esterna alla facciata a nord, il bassorilievo col simbolo del modulor ricavato nel cemento, ecc., confermano un altro caposaldo della poetica corbusiana, la famosa synthèse des arts majeurs. Oltre   la   suddetta   descrizione,   la   griglia   delle  loggias   brise­soleil assume un significato che contribuisce a quel salto di scala, cui sopra abbiamo accennato parlando delle cellule e che costituisce il carattere esponente   della   fabbrica   di   Marsiglia.   Notando   infatti   che   ciascun

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alveolo   delle  loggias  rappresenta   un   vero   e   proprio   invaso tridimensionale,   che   esso   denuncia   la   presenza   d'una   cellula   e addirittura ci dice con la sua doppia o semplice altezza in che modo all'interno è articolato l'alloggio, possiamo constatare che, a differenza dei tradizionali muri di facciata, l'intero involucro dell'Unité d'habit ation   è   a   sua   volta   un   organismo   tridimensionale,   una   struttura spaziale che involucra a sua volta gli spazi interni. Cosicché,   concludendo,   se   la   struttura   statica   non   si   limita   solo   a portare elementi, bensì intere cellule abitative; se lo spazio interno di queste   non   va   considerato   come   una   somma   di   unità   ambientali   o «segni », ma inteso come un unico grande ambiente o « macrosegno»; se l'involucro esterno non è l'insieme di tante facce bidimensionali, ma un organismo spaziale contenente altri invasi tridimensionali, abbiamo che ogni parte della fabbrica in esame si articola nella scala di una più grande dimensione. In base a tali considerazioni si possono spiegare l'ipertrofia, il salto di scala, la nuova dimensione, lo sfalsamento in avanti   dell'intera   gamma   dei   fattori   costitutivi   dell'edificio   e   tale sfalsamento   denota   l'obiettivo   ricercato   per   anni   da   Le   Corbusier, ovvero l'idea di una architettura mirante a farsi (proposta, unità, brano, conformazione)   urbanistica.   Da   questa   visuale,   l'Unite   d'abitation conclude   il   ciclo   della   tendenza   razionalista   ed   apre   quello   della poetica   della   grande   dimensione,   dell'architettura   più   idonea   alla odierna cultura di massa. Il piano di Tokio. L'adesione all'idea (e alla realtà) della grande metropoli con oltre dieci milioni di abitanti contro l'urbanistica del decentramento; lo sviluppo delle tesi urbanistiche corbusiane; le proposte del gruppo Metabolism; il progetto per una comunità di 250.000 abitanti, concepito per la baia di Boston e redatto al  M.I.T. nel 1959, costituiscono, come s'è già accennato, le premesse per il piano di Tokio che Kenzo Tange elabora con il suo gruppo nel 1960.

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Riconosciuto   che   la   grande   città   contemporanea   è   il   luogo dell'industria terziaria, quella dell'organizzazione, delle vendite e dei servizi,   il   suo   principale   requisito   deve   essere   il   più   efficiente, dinamico e aperto sistema di comunicazioni e «dal momento che i trasporti sono essenziali per le comunicazioni dirette ­ scrive Tange ­ il   sistema   dei   trasporti   diviene   la   base   fisica   fondamentale   per   lo svolgersi funzionale dell'esistenza della metropoli»[36 K.  Tange, Un piano   per   Tokio,   «Casabella­continuità»,   dicembre   1961].   Tale enunciato che potrebbe trovarsi in tanti piani ottocenteschi assume nel progetto di Tokio un significato particolare e contribuisce a generare una proposta di conformazione urbanistica generale tanto inedita da toccare la dimensione dell'utopia. In   particolare,   rifiutando   l’espansione   radiale   centripeta   della metropoli  e il  suo sviluppo per  nuclei satelliti, Tange propone una struttura lineare da realizzarsi nella baia di Tokio, che partendo dal vecchio  centro  della  città  raggiunge  in  linea  retta  il  punto  opposto della costa. I caposaldi programmatici del piano sono: «1) Passaggio da un sistema centripeto radiale a un sistema di sviluppo lineare; 2) Reperimento dei mezzi per conglobare in una sola unità organica sia la struttura della metropoli che il sistema di trasporti e l'architettura urbana;   3)   Attuare   un   nuovo   ordine   spaziale   urbano   capace   di rispecchiare   l'organizzazione   aperta   e   la   spontanea   mobilità   della società attuale » 38 Ibid. Questi   punti   programmatici   trovano   la   loro   attuazione   progettuale, sebbene non in una corrispondenza di termine  a termine, in tre parti distinguibili pur nell'unitaria struttura del piano: a) l'asse civico; b) gli impianti direzionali e terziari previsti entro tale asse; c) le nuove zone residenziali previste all'esterno di esso. L'asse   civico   è   il   cardine   dell'espansione   di   Tokio   sul   mare. Attraversato da una ferrovia monorotaia e da una sotterranea, esso si compone di anelli o «cicli» stradali, paragonabili alle vertebre della spina dorsale. Ciascuno di essi contiene tre autostrade sovrapposte con tratti lunghi rispettivamente 9 Km. (colleganti tre cicli), 3 Km., ossia

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la lunghezza del vero e proprio ciclo, che si suddivide a sua volta in unità   modulari   interne   lunghe   1   Km.   La   quota   dell'autostrada   più esterna   e   più   alta   è   di   40­50   metri.   Ogni   tratto   dei   cicli   è unidirezionale:   un   percorso   normale   per   conservare   il   senso   unico deve procedere, per così dire, con un andamento a greca; per passare da   un   livello   all'altro   dei   tratti   del   ciclo,   ovvero,   per   cambiare   di velocità, o ancora per invertire la direzione di marcia sono predisposte della rampe nei tratti brevi di ogni ciclo. Tali rampe segmentano l'asse civico,   ne   delimitano   cioè   i   cicli   e   fungono   da   elemento   di interscambio, sia fra un ciclo e quello successivo, sia per le strade normali   all'asse   che,   sempre   sulla   baia,   conducono   alle   zone residenziali poste lateralmente all'asse civico stesso. I   cicli   sono   concepiti   come   entità   autonome   rispetto   alle   strutture edilizie interne ed esterne ad essi e, in prima istanza, condizionati alla velocità dei tre livelli di traffico: fino a 60 Km/ora, con rampe ogni chilometro per passare ad altri livelli o per uscire dal ciclo; fino a 90 Km., con rampe ogni 3 Km.; fino a 120 Km. con rampe ogni 9 Km. Ma   in   realtà   la   loro   concezione   va   oltre   queste   caratteristiche funzionali. La loro autonomia consente di realizzarli uno dopo l'altro in un arco di vent'anni. In particolare, poiché il primo ciclo dell'asse civico   è   previsto   a1   di   sopra   dell'attuale   centro   di   Tokio,   tale «sovrapposizione»   dovrebbe   garantire   la   ristrutturazione   della   città antica   unitamente   alla   conformazione   del   primo   nucleo   della   sua espansione assiale. «Inoltre ­ scrive Tange ­, costruendo sulla baia, il Giappone riscoprirebbe il mare, poiché Tokio ­ la quale ha perso gran parte delle sue zone costiere ora occupate dalle industrie ­ potrebbe ridiventare una città di mare. In questo modo l'oceano diventerebbe non   soltanto   il   simbolo   del   nostro   sviluppo   economico,   ma costituirebbe anche un piacevole completamento dell'ambiente in cui si svolge la nostra vita di ogni giorno... Il nostro progetto, in pratica, darebbe luogo a un'architettura consona alla velocità e alle dimensioni dei nostri tempi, e tuttavia tale da consentire la prosecuzione della nostra vita urbana storica» 39 Ibid

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Nella parte centrale della serie dei cicli, su una piattaforma continua, si elevano le fabbriche del centro direzionale. Queste, come le stesse piattaforme   sono   sorrette   da   un   sistema   definito   «midollare». Distribuiti in reticoli quadrati di circa 200 metri per lato i «midolli», come s'è già detto in precedenza, sono delle strutture verticali, ovvero dei giganteschi pilotis, alti dai 150 ai 250 metri contenenti ascensori, condutture,   impianti   e   tutto  ciò   che   serve   ai  percorsi   e  ai   raccordi verticali.   Oltre   a   questa   funzione,   i   midolli   sostengono   a   diverse altezze delle macrostrutture edilizie, ossia delle fabbriche con pareti antisismiche   composte   di   travature   reticolari   per   l'irrigidimento   di facciate   e   solai   i   cui   punti   di   appoggio   sono   tanto   distanti   l'uno dall'altro. Così come sono disposti, i «midolli» possono sostenere a diverse quote non solo questi enormi edifici dalle pareti reticolari, ma anche altri orientati in direzioni fra loro angolate a 90°. Cosicché il vecchio sistema dei pilotis, che vale a reggere soltanto edifici disposti in una unica direzione, ingigantendosi alla dimensione dei «midolli» previsti dai giapponesi, diventa sostegno di più fabbricati e per giunta orientati in più direzioni. La   terza   parte   del   piano   riguarda   le   nuove   zone   residenziali. Prevedendo   che   fra   vent'anni   circa   cinque   milioni   di   persone risiederanno   sulla   baia,   il   piano   di   Tokio   prefigura   alcune   aree residenziali   che   sorgeranno   o   su   terreni   sottratti   dal   mare   o   su piattaforme  artificiali  sostenute  da   grandi  piloni  immersi  nel  fondo marino. Ognuna delle aree residenziali è concepita almeno alla scala di   un   quartiere,   provvisto   delle   relative   attrezzature,   scuole,   asili, centri   sociali,   impianti   sportivi,   ecc.,   nonché   di   tutti   i   servizi   di comunicazione   diretta,   autostradale,   metropolitana,   ecc.   Nel descrivere   le   macrostrutture   architettoniche   delle   aree   residenziali, Tange accenna brevemente ad esse, dicendo che avranno sezioni «più o   meno   triangolari»,   che   queste   porteranno   delle   piattaforme   sulle quali   sorgeranno   abitazioni   individuali   secondo   la   gamma   dei materiali prefabbricati disponibili e secondo il gusto particolare degli abitanti. In realtà, questa parte del piano di Tokio e quella che risente

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maggiormente   delle   precedenti   esperienze   e   segnatamente   quella dell'insediamento   sulla   baia   di   Boston,   progettato   da   Tange   in collaborazione   con   gli   studenti   del   M.I.T.  Nella   relazione   che accompagnava il progetto redatto in America, Tange scriveva: «Un'organizzazione spaziale di questo tipo esprime la gerarchia delle diverse «scale»; la scala della natura, la scala super­human, quella che più visibilmente introduce le possibilità della moderna tecnologia, la scala della collettività, legata alle funzioni sociali e, da ultimo, la scala umana,   quella   cioè   della   vita   individuale.   Nella   grande   struttura triangolare di sostegno sono compresi gli spazi per la vita collettiva, scuole, chiese, shopping­centers, ecc. aperti all'aria e alla luce, mentre ogni tre livelli si sviluppano le strade pedonali lungo le quali sono disposte   le   abitazioni   [...].   Le   case   insieme   formano   delle   piccole strutture all'interno delle quali può anche essere cambiata la forma di esse.   A   questo   «microscopico»   livello   i   dettagli   e   la   disposizione stessa della casa possono combinarsi secondo il gusto di ciascuno, Ciò significa   che   esiste   la   possibilità   di   distinguersi   individualmente nell'ambito del sistema»[40 Ibid Come si vede, in questo brano è contenuta quasi per intero la «poetica della   grande   dimensione»   e   sono   quasi   puntualmente   anticipate   le macrostrutture residenziali del piano di Tokio. Ma qui esse assumono un   accento   particolare.   Infatti,   al   di   là   della   tendenza macrodimensionale, delle grandi strutture a scala urbanistica «aperte» all'inserimento   delle   variazioni   individuali   a   scala   architettonica,   la forma   delle   aree   residenziali   di   Tokio   implica   anche   un   intento simbolico,   semantico   e   di   suggestione   ambientale.   Le   sezioni   a cavalletto che Tange definisce «più o meno triangolari» richiamano delle immagini proprie alla cultura dell'estremo oriente e sono assai dissimili da quelle adottate per il progetto di Boston. Là esse ricordano figurativamente la forma dello squadro e del compasso, qui, nel piano di Tokio esse richiamano enormi tetti spioventi e più ancora fiancate di navi, parti di giunche, coperture di alcune tradizionali imbarcazioni, insomma   una   serie   di   conformazioni   tutte   aventi   in   un   modo   o

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nell'altro attinenza con le navi ed il mare. Ed è questo un altro aspetto di quella coesistenza di utopia e tradizione, ovvero i fattori del codice virtuale, nonché di quella riconquista del mare da parte dell'urbanistica e dell'architettura giapponesi di cui parla Tange. Yamanashi Broadcasting Building, Per   questo   centro   di   servizi   delle   comunicazioni   visive   di   massa, realizzato nel '66 a Kofu, Tange adotta lo stesso sistema midollare usato nelle grandi strutture del Piano di Tokio; più esattamente adotta un sistema di grandi cilindri cavi (come nel citato disegno di Arata Isozaki)   collegato   nello   spazio   da   ponti   sostenenti   a   loro   volta   gli ambienti dell'edificio. Tale sistema, qui applicato ad un fabbricato di dimensioni normali, consente tanto una espansione orizzontale, quanto una verticale, realizzando così  la principale  caratteristica  invariante della   poetica   macrostrutturale,   ovvero   la   massima   flessibilità   e mobilità  nello spazio e nel  tempo delle grandi fabbriche al mutare delle   istanze   che   generarono   il   loro   primo   nucleo   conformativo. Riferendosi   alla   poetica   dell'«opera   aperta»   teorizzata   in   Italia   da Umberto   Eco,   riguardante   sia   quelle   manifestazioni   artistiche   che trovano un loro completamento da parte dell'osservatore, sia quelle opere   che   sono   strutturalmente   suscettibili   di   ampliamenti   e trasformazioni,   alcuni   autori   italiani   hanno   visto   appunto   quale invariante   della   tendenza   macrostrutturale   questo   carattere   di «apertura»,   di   mobilità,   di   trasformabilità.   Le   altre   invarianti   della poetica in esame sono, per altri critici, l'indifferenza per l'architettura al costituirsi delle forme a scala urbana; lo spostamento del rapporto forma­funzione   ad   un   limite   tale   da   ritrovarsi   solo   ad   un   livello infrastrutturale; l'integrazione fra organismi polifunzionali ed impianti di   comunicazione;   l'esaltazione   delle   strutture   tecnologiche;   la tendenza ad individuare gli organismi suddetti come oggetti assoluti nella   loro   unicità;   l'isolamento   del   problema   figurativo   in   una dimensione totalizzante rispetto all'intero corpo urbano; il rifiuto dello

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zoning,   ecc.[27  Cfr.   M.   Tafuri,  La   nuova   dimensione   urbana   e   la funzione  dell'utopia,  in  «L'architettura,  cronache   e  storia»,  febbraio 1966, n. 124.  Peraltro non manca nello Yamanashi Building, un caso cioè di «utopia realizzata»,   un   rapporto   con   la   componente   storica.   Proponendo questo edificio «come alternativa focale ai resti del castello del XVII secolo che domina la scena urbana di Kofu, Kenzo Tange ha voluto assai esplicitamente sottolineare l'esigenza che la nuova attrezzatura per   attività   editoriali,   per   l'industria   dell'informazione   e   per   la comunicazione   di   massa   rappresenti   un   fuoco   civico   di   nuove relazioni, un'occasione di radicamento della socialità e della cultura contemporanea:   in   questo   senso   il   monumentalismo   che   percorre l'opera ha, oltre ad un particolare taglio linguistico, anche un obiettivo riscontro programmatico » [20 C. Dardi, op. cit., p.24] I laboratori Richards dell'Università di Pennsylvania. Il codice­stile che abbiamo definito virtuale non si manifesta soltanto in opere e progetti dalla dimensione insolita, quali l'Unite d'babitation o il piano di Tokio. Quella contestazione del presente (dell'International Style e dei suoi sottoprodotti) e l'intento di associare passato e futuro, storia e utopia, s'incontrano anche in fabbriche di normali dimensioni. Ci riferiamo ai Richards Laboratories di ricerca medica, costruiti da Louis Kahn a Philadelphia tra il 1957 ed il '61; un articolato edificio di soli sette piani che rievoca le torri di San Gimignano e prefigura con la sua conformazione,   ispirata   all'idea   della   differenziazione   di   spazi «serviti» e «che servono» (served­servant), un'architettura tutta rivolta al futuro, come già dimostra il carattere di paradigma che subito ha assunto   quest'opera.   Essa   consta   di   quattro   blocchi   (cui   sono   stati aggiunti altri tre del Biology Building), rispondenti all'idea suddetta e all'intenzione di scandire al massimo ogni elemento della costruzione, che risulta un aggregato di distinti «segni» spaziali e volumetrici.

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Riferendoci   ai   quattro   blocchi   dei  laboratori   di  ricerca   medica,  cui limitiamo   la   nostra   lettura,   quello   centrale   in   pianta   è   un   nucleo contenente scale, ascensori, servizi e due locali per l'allevamento delle cavie; a tale nucleo si collegano tre laboratori di forma quadrata col lato di m. 14,32. Ciascun laboratorio s'innesta al nucleo centrale non direttamente,   ma   attraverso   un   andito   che   serve   figurativamente   a tener distinti i quattro volumi, che risultano autonomi avendo ciascuno una propria scala di servizio (stair sub tower). Queste sono contenute in   chiuse   torri   di   cemento   rivestito   da   una   cortina   di   mattoni;   in analoghe   torri   (exhaust   sub   tower)   sono   sistemati   gli   impianti   per l'espulsione dell'aria contenente isotopi, l'aria infetta da germi e i gas nocivi; lo stesso tipo di torre contiene gli impianti per l'immissione di aria pura e quattro di esse sono disposte all'esterno del nucleo centrale dell'edificio. Al di là della loro funzione, queste torri giocano uno dei principali ruoli conformatori. Ciascuna di esse, svettando per ben otto metri oltre il solaio di copertura,  è sistemata al centro di ogni lato libero dei laboratori e completamente in aggetto rispetto ad essi. In fase progettuale le torri dovevano servire anche da elementi portanti dei solai, ma successivamente forse per accentuare quella scansione di ogni elemento o per rendere autonoma ogni parte della fabbrica, in questo caso ciascun blocco­laboratorio dalla torre che vi si affianca, Kahn dispone pilastri di cemento a doppio T sui due terzi medi di ciascun lato. Cosicché, mentre nessuna struttura verticale ingombra lo spazio interno dei laboratori, i solai di questi fuoriescono a sbalzo di un terzo per ogni lato, tal che gli spigoli risultano anch'essi svuotati da ogni sostegno verticale. La struttura dei solai è costituita da sei travi prefabbricate   che   s'incastrano   ai   montanti,   da   quattro   travi   di collegamento perimetrali e da sedici travetti che s'incrociano due a due negli   otto   riquadri   formati   dall'orditura   principale.   Questa   struttura, costituita da elementi reticolari e svuotati per il miglior alloggio degli impianti orizzontali, come nota Scully « esercitò un benefico influsso sulle   ricerche   tecniche   connesse   all'intero   campo   dell'industria   dei prefabbricati in calcestruzzo, e costituì un precedente esemplare per

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tutti i passaggi che intercorrono tra la produzione e il montaggio in opera   »   Di   particolare   interesse   anche   figurativo   è   il   fatto   che nell'angolo  svuotato,   in  corrispondenza   del  riquadro  più   esterno,  la trave di collegamento del solaio riduce di metà la sua altezza come consente il diagramma degli sforzi; e questo gioco di riquadri e di assottigliamenti è tutto visibile dal basso, essendo l'intradosso d'ogni solaio lasciato liberamente in vista. Nella volumetria generale della fabbrica si passa pertanto dal massimo pieno   del   blocco   centrale   con   le   quattro   torri   addossate,   anch'esse piene, al massimo vuoto degli angoli dei blocchi­laboratori, che oltre a mostrare   la   loro   vitrea   trasparenza   sul   piano   delle   facciate   dello spigolo, mettono in evidenza il sistema costruttivo, ovvero il disegno dei lacunari e dei  travetti. Tutta la gamma quindi della morfologia architettonica,   dal   volume   alla   superficie,   piena   e   svuotata,   dalla sagoma bidimensionale del ritaglio che sormonta le torri con le scale fino alla dimensione lineare dei travetti, è presente in questa fabbrica dalla concezione apparentemente tanto semplice, ma ricca di soluzioni impreviste e di sottili elaborazioni. La Facoltà di Storia a Cambridge. I laboratori Richards di Kahn e la Facoltà di Storia, costruita da James Stirling dal '64 al '68, pur nelle loro diversità, sono due costruzioni che appartengono   allo   stesso   codice­stile,   anzi   che   hanno   contribuito fortemente   a   determinare   il   gusto   architettonico   contemporaneo. Nonché espressioni di quella sintesi fra storia ed utopia, che abbiamo individuato come caratteristica esponente delle più significative opere del nostro tempo, entrambe manifestano l'intento di contrassegnare gli spazi ed i volumi come un aggregato di entità autonome. La History Faculty per la Cambridge University si propone anch'essa [come l'Engineering Building di Leicesteril di essere considerata come un   raggruppamento   di   elementi   identificabili,   cioè   le   colonne   di ascensori e scale e il grande tetto a forma di tenda che indica la sala di lettura della biblioteca, lo spazio interno di maggiore capacità [...]. Di

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solito noi cerchiamo di conservare la forma specifica di una stanza e evitiamo di distorcerla per adattarla a un modulo strutturale o a una forma generale precostituita. Nella History Faculty queste forme di stanze ideali sono raggruppate a costituire la forma dell'intero edificio ed è possibile vedere che le stanze più piccole sono agli ultimi piani, mentre ai livelli inferiori e stanze diventano più grandi e grandissime [J. Stirling, Architettura (intervento al Simposio tenuto all’Università di Bologna nel novembre 1966), un «Zodiac», novembre 1968, n. 18) Così parla Stirling nel descrivere la sua opera, la quale, se conveniamo di   definire   «   segno   »   ogni   stanza,   ogni   invaso,   per   l'evidenza conformativa tanto all'esterno quanto all'interno di tali invasi,  è uno degli esempi più tipici di una « architettura segnica ». La differenza tra l'edificio di Kahn prima esaminato e la facoltà di Storia progettata da Stirling, per quanto concerne il loro carattere di aggregazione   di   autonome   entità   segniche,   sta   in   ciò   che   mentre nell'edificio americano questo gioco assume la massima evidenza, in quello inglese esso si coglie solo al livello di disegni e di modelli, la visione della fabbrica recuperando una ambiguità ed una complessità che rendono meno ovvia l'intenzione di contrassegnare e distinguere ciascuna parte dell'insieme. Ciò si deve non solo al differente assetto distributivo e funzionale, ma anche all'intenzione di « rifondere », per così   dire,   gli   ambienti­segno   una   volta   individuati,   nonché   al programma   di   farli   tutti   convergere   e   gravitare   intorno   ad   un   « macrosegno », la sala di lettura della biblioteca. Da  quanto  precede  possiamo  dire  che  se  nella  volumetria  generale l'edificio   è   contrassegnato   da   un   blocco   a   forma   di   L,   dal   prisma vetrato della copertura della biblioteca, dal corpo di fabbrica basso che per tre lati circonda la sala di lettura, dalle due torri per i collegamenti verticali, ecc., all'interno alcuni di questi segni­ambienti si fondono l'uno con l'altro, creando appunto quell'ambiguità fra l'esplicito e il celato, che contribuisce ad arricchire il significato spaziale dell'opera. In   particolare,   la   fusione   suddetta   si   verifica   maggiormente   al pianterreno   che,   come   quello   seminterrato,   ha   complessivamente

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un'area più vasta degli altri piani, formando all'esterno una sorta di basamento sui quale, seguendo una ideale ascesa piramidale, poggiano il blocco ad L ed il prisma di copertura della biblioteca. All'interno questo   piano   più   ampio   è   articolato   in   modo   che   la   sala   di consultazione,   gli   annessi   depositi   e   gli   uffici   sono   fra   loro intimamente fusi e tali che l'area triangolare della copertura sovrasta solo   una  parte   di   esso.   Possiamo   dire  che   a   questo   livello  Stirling associ   il   procedimento   della   pianta   libera   ereditata   dal   Movimento Moderno   all'idea   di   un   invaso   geometricamente   definito.   Il   primo piano già presenta una maggiore distinzione fra gli ambienti: al corpo di   fabbrica   ad   L   risulta   ancora   aggregato   un   locale   destinato   alle ricerche;   all'area   triangolare   sovrastante   la   sala   di   lettura,   il   corpo poligonale adibito, come nei piani sottostanti a deposito di libri. Dal terzo   piano   in   poi   v'è   solo   il   prisma   della   copertura   e   la   pianta dell'edificio ad L. Questo, a sua volta digrada verso l'alto contenendo al terzo e quarto piano locali per seminari, mentre al quinto e sesto piano sono ubicati gli uffici, ossia i locali meno profondi dell'intera costruzione. Poiché la copertura della sala di lettura della biblioteca occupa tutta l'altezza dei sei piani dell'edificio, all'interno di essa si aprono   i   corridoi   del   corpo   di   fabbrica   ad   L,   che   in   vari   punti penetrano nell'invaso della biblioteca con una sorta di spazi poligonali simili a bow­windows. « I corridoi ­ scrive Stirling sono concepiti come gallerie che corrono intorno agli spazi superiori della sala di lettura; sono rivestiti con materiali afonici e costituiscono il principale sistema di circolazione. Gli studenti che si muovono nell'edificio sono visualmente a contatto con la biblioteca, il più importante elemento di lavoro   della   Facoltà.   Questa   interrelazione   deriva   dalle   esigenze espresse dalla Facoltà ». Abbiamo così un'altra conferma del fatto che, mentre   all'esterno   i   volumi   vetrati   del   fabbricato   ad   L,   il   prisma anch'esso vetrato della copertura, il corpo di fabbrica poligonale, dove i   pieni   in   mattoni   prevalgono   sui   vuoti,   e   costituente   il   basamento dell'intero organismo, sono nettamente distinti, all'interno, come s'è detto, gli invasi contenuti in tali volumi, pur distinguibili come parti,

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tendono funzionalmente o anche come puro effetto visivo a fondersi tra loro. La   copertura   inclinata,   indubbiamente   la   parte   più   caratterizzante dell'opera, che plasticamente produce una sorta di pressione bilanciata dall'effetto di sostegno e di fermo prodotto dal blocco ad L, è notevole anche   dal   punto   di   vista   tecnico.   La   sua   struttura   principale   è   in capriate d'acciaio che la segmentano in senso longitudinale, mentre il collegamento   trasversale   è   affidato   ad   una   orditura   secondaria   che porta anche i telai delle vetrate. All'interno di questo volume formato da   lineari   elementi   metallici   sono   sistemati   gli   impianti   di riscaldamento,   gli   areatori,   le   luci,   ecc.,   che   si   adattano automaticamente   al   clima   esterno   producendo   all'interno   una temperatura costante. Abbiamo già accennato al fatto che l'opera in esame è un paradigma di quella   fusione   fra   passato   e   futuro,   è   un   modello   di   quello   che abbiamo chiamato l'odierno codice virtuale; abbiamo altresì osservato che, ponendosi come un aggregato di volumi o d'ambienti­segno, essa può anche esemplificare nel migliore dei modi quella che può definirsi un'architettura segnica. Tenteremo ora, come conclusione dell'intero nostro discorso, di verificare se fra queste due caratteristiche salienti si possa stabilire una relazione, onde meglio individuare il più recente codicestile. Quanto al binomio passato­futuro, a proposito della Facoltà di Storia di Cambridge è stato osservato: « Il disegno che avevamo visto, prima della   costruzione,   era   un'assonometria   che   mostrava   l'edificio   dalla parte   del   Ironie  [...]  e  in  questa   assonometria  l'edificio   sembrava  ­ forse   per   omissione,   nel   disegno,   delle   vetrate   orizzontali   lungo   le facciate e delle vetrate verticali lungo la superficie obliqua del cono ­ come chiuso da una membrana continua, uniformemente tesa, frutto di una tecnologia avanzatissima, viceversa il trattamento di tali superfici vetrate, quale appare ad edificio finito, fa pensare ad un'enorme serra vittoriana »(J.Rikwert, in «Domus»,n.18, novembre 1968) Altri critici, come riassume Dardi`, appaiono divisi nel ricordare per l'opera di cui

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ci   occupiamo   alcuni   precedenti   della   tradizione   architettonica   ed ingegneresca dell'800 inglese: i capannoni ferroviari, i ponti, i depositi e più specificamente il Crystal Palace di Paxton, la Paddington Station di   Brunel,   la   serra   di   Burton   a   Kew,   l'edificio   in   Cook   Street   a Liverpool   di   Peter   Ellis,   ecc.,   oppure   nel   considerare   l'edificio   di Stirling   come   precorritore   di   un'avanzata   civiltà   tecnologica   con immagini   desunte   dall'ingegneria   aereo­spaziale   o   dalle   «   grandi tralicciature   innalzate   per   consentire,   nel   mondo   delle telecomunicazioni, di moltiplicare il rumore della terra o di distillare i silenzi delle stelle »(C.Dardi, op. cit. p.77) Per parte nostra, come abbiamo già notato, la Facoltà di Storia si rifà all'uno e all'altro universo di immagini. Che ci sia la presenza della storia   è   indubbio;   che   ci   sia   una   tensione   verso   la   più   flagrante attualità, se non la prefigurazione di conformazioni architettoniche del futuro,   appare   altrettanto   certo:   «   l'estetica   visiva   all'interno   ­   dice Stirling parlando della biblioteca è semmai più simile a quella di uno studio televisivo »; vale a dire l'architettura appartenente al mezzo di comunicazione di massa più attuale ed « aperto » ad un immaginabile futuro. Quanto al  fatto che le caratteristiche suddette siano associabili alla valenza   segnica   dell'edificio,   va   considerato   che   tutta   l'architettura contemporanea ha mirato, rompendo gli schemi classici delle assialità e delle simmetrie, a proporre conformazioni quali aggregati di volumi­ ambienti, di segni cioè espressivi all'esterno di una funzione interna. Più   di   recente,   con   la   crisi   del   razionalismo,   la   significazione meramente funzionale degli ambienti­segno è apparsa insufficiente; è nata l'esigenza di risemantizzare l'architettura ben oltre la sua funzione e quindi  di recuperare dalla storia o prefigurando una realtà futura molti altri significati. In altri termini, una volta acquisite grammatica e sintassi   del   razionalismo,   ovvero   il   suo   codice   di   segni,   si   vuole attualmente rivederli sia in una loro più completa struttura, sia in una loro  più  significativa  strutturazione.  La  storia  oggi,  oltre  ad   offrire esempi  di  più  ricchi  codici, vale anche come indispensabile mezzo

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dell'operazione   architettonico­comunicativa.   Infatti,   quando   si vogliono « dire » più cose, proporre più ricchi ed articolati messaggi, poiché (come abbiamo ricordato altre volte nel presente volume) il grado di novità di questi per essere decodificato e compreso necessita di un grado di informazione già noto, di un parametro familiare ed acquisito, è la storia ad offrire un tale ausilio; cosicché l'architettura dei nostri giorni, nella sua intenzionalità semantica, propone immagini totalmente nuove utilizzando i più vari aspetti della tradizione storica. La nuova architettura è pertanto segnica nella linea del Movimento Moderno   e   storico­utopica   in   ciò   che   i   suoi   segni   strutturano   ed intendono comunicare. Il suo impegno non è più solo nel senso della funzione, ma anche in quello della significazione. L’Habitat di Montrial È stato osservato – ed anche riportato nel nostro testo ­  che uno dei fattori invarianti della tendenza macrostrutturale sia  l'indifferenza per la   dimensione   architettonica   al   costituirsi   di   immagini   urbane   date appunto   dalle   macrostrutture   o   dai   contenitori.   Infatti,   spostando l'interesse progettuale dalla tradizionale scala architettonica a quella del  town­design,   l'elemento   architettonico   singolo,   che   rimane necessariamente   invariato   nella   sua   scala   umana,   perde   di   valore. L'habitat che Moshe Safdie, canadese ma di origine israele, costruisce nel   1967   a   Montreal   nell’ambito   dell’Esposizione   universale,   pur esendo una macrostruttura, smetisce la suddetta idea delle tenenza in esame. Prima di affrontare questa singolare caratteristica, ricordiamo come dovesse essere originariamente quest’opera e come fosse stata poi effettivamente realizzata. Inizialmente Habitat venne concepito come un notevole brano di città capace di contenere in un  organismo unico, dotato di pensato i servizi residenziali, commerciali e istituzionali. La stessa disposizione delle parti forma e si fonda su piani inclinati, simili ai pendii delle colline dove, specie le zone residenziali si dispongono per godere di una vista sgombra da ostruzioni ed esposte alla luce. L’insieme delle abitazioni,

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composto   da   involucri   scatolari   in   cemento   di   forma   regolare   era disposto in modo da creare una formazione a spirale, che permetteva di avere giardini sul tetto in ogni modulo abitativo. Alla base della struttura   erano   fissate   funi   di   tensione   sotterranee   che controbnilanciavano le spinte orizzontali di scivolameto. Quanto alle consistenze   quantitatve,   nell’originario   progetto,   erano   previsti   un settore di dodici piani e uno da ventidue, per un totale i 1200 unità abitative, un hotel di 350 camere, due scuole e unarea commerciale. In   questo   primo   progetto,   i   residenti   potevano   uscire   da   casa   e utilizzare le strade pedonali, gli ascensori inclinati e le aree pubbliche restando   all’interno   del   complesso.   Ridimensionata   dalla   presenta all’Expo di opere quali la cupola geodetica di Fuller e le tensostruttore di   Frei   Otto,   per   citarnee   solo   alcune,   l’opera   di   Moshe   Safdie   fu presentata al governo canadese che decise di costruire solo una piccola parte del progetto: 158 unità abitative all’interno di un settore da 12 piani. Così fu riprogettato e denominato Habitat 67. Nonostante il ridimensionamento, l’opera – un rara utopia realizzata – presenta numerose valenze: il suo modulo costruttivo è adattabile ad aree  altamente   popolate,   riducendo   i   costi   di  edificzione;  consente, grazie alla sua conformazione, di avere abitazioni che, dal secondo come al dodicesiono piano vanno dai 57 mq a 160 mq con quattro camere da letto, tutte ugualmente di facile accesso e di libere visuali; si avvale su ogni livello di pedonali esterne che portano ad aree di gioco   per   i   bambini   in   numerosi   luoghi   disposti   attraverso   tutto l’edificio. Inoltre Habitat è una struttura spaziale tridimensionale nella quale tutte le parti dell’edificio, unità abitative, vie pedonali e le tre trombe dell’ascensore fungono da elementi portanti. Per creare 158 abitazioni, sono stati assemblati 365 moduli prefabbricati attraverso tiranti  cavi  e saldature, in modo da formare un sistema continuo a sospensione.   Gli   elementi   interni   di   ogni   unità   abitativa   venivano prodotti, montati e installati in fabbrica.  Le casette vengono costruite a terra, una per una; sollevate poi da una gru e depositate nel punto segnato, sono legate all'insieme tirando cavi metallici nascosti nelle

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pareti; sporgono quindi nei modi più spericolati, animando l'ossessivo groviglio»[23 B. Zevi, L'Expo '67 vale per l'habitat di Saftdie, in Cro­ nache di architettura, Laterza, Bari 1970, VI, p. 419]. In tal modo questo articolarsi di unità monocellulari, servite nella pn retrostante da ballatoi coperti, inseriti un po' « brutalisticamente » tra le sfalsate volumetric delle cellule abitative, ribalta letteralmente la nozione di contenitore; era questo a dar forma all'intera struttura, qui sono elementi contenuti ad assolvere tale compito vanificando ogni altro tipo di macrostruttura. Ritornando alla caratteristica primaria dell’habitat, cui accennavamo all’inizio,   va   ricordato   il   commento   di   Zevi:«   rispetto   alle   celebri Unità   di   abitazione   ideate   da   Le   Corbusier   e   ad   altre   successive proposte   di   macrostrutture,   il   progetto   dell'habitat   presenta   una singolare caratteristica: rifiuta di assimilare l'abitazione monofamiliare nell'ambito   di   un   gigantesco   complesso   fabbricato,   ne   difende l'identità garantendone la privacy e l'isolamento» Ibid.  Inoltre quest'opera presenta anche riferimento alla dimensione storica. La «tradizione del nuovo » è rappresentata con l'evidente richiamo a h plasticismo, mentre l'ispirazione ai villaggi algerini e medio­orientali ha un indubbio ruolo, come nota ancora  Zevi, in questa architettura a processo aperto e continuo Il piano per il centro di Philadelphia In tale progetto, sviluppato nel 1956, Kahn muovendo dall'analogia delle strade coi fiumi e dall'idea che quelle come questi hanno bisogno di «porti», concepisce il centro della città come un luogo servito e circondato da una serie di torri circolari destinati ad uffici e alberghi, soprattutto al parcheggio delle auto. Questi colossali contenitori hanno un esplicito riferimento all'urbanistica del passato. «L'architettura delle zone di stazionamento del traffico ­ egli afferma ­ ha   la   stessa   importanza   delle   grandi   mura   che   cintavano   le   città medioevali. Carcassonne fu disegnata per un ordinamento difensivo. Una città moderna si rinnoverà partendo da un ordinato concetto del

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movimento,   che   è   anche   la   difesa   contro   la   distruzione   della   città stessa da parte dell'automobile. Il centro della città è un luogo in cui ci si   reca   espressamente,   non   per   attraversarlo.   Grandi   “porti”   per   i veicoli ­ o torri d'ingresso al centro civico circonderanno il cuore più interno della città. Essi saranno i cancelli, i limiti, ed anche le prime immagini che si imprimeranno al visitatore»[26   Cit. in F. Tentori, Ordine   e   forma   nell'opera   di   Louis   Kahn,   Casabella­continuità   », luglio 1960, n. 241.18. Se   i   «porti»   s'ispirano   al   passato,   la   colossale   torre   a   struttura tetraedrica,   destinata   agli   uffici   comunali,   è   la   più   esplicita concessione di Kahn alla dimensione dell'utopia. Egli la definisce una esercitazione   sperimentale   sulla   triangolazione   di   membrature strutturali  che si innalzano e si congiungono regolarmente in fasci, particolarmente   resistenti   alle   sollecitazioni   del   vento.   Le   altre caratteristiche   di   questa   grande   fabbrica   sono   il   superamento   della struttura trilitica; la negazione dell'idea di facciata; un doppio ordine di   ripiani   orizzontali:   il   primo   composto   di   nove   elementi   con un'altezza   fra   loro   di   circa   20   metri,   per   complessivi   187,75   metri (altezza della torre) e il secondo, compenetrato all'altro, costituito da solai che, traslando orizzontalmente, ora determinano locali di altezza normale, ora più alte sale ed ambienti di rappresentanza; entrambi gli ordini di ripiani hanno una struttura tetraedrica come i solai della Yale Art   Gallery.   Il   rivestimento   delle   parti   piene   di   questa   poliedrica struttura era previsto in alluminio. Nel suo complesso il progetto (non realizzato) di Kahn per il centro di Philadelphia, nonostante le fabbriche descritte, appartiene alla poetica della grande dimensione più per la sua concezione urbanistica che per quella   architettonica.   Gli   manca   infatti   proprio   quella   dimensione intermedia tra queste due esperienze, il concetto di polivalenza e di plurifunzionalità di altre più utopiche ipotesi, nonché la dimensione stessa della macrostruttura.

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Archigram

L'attività   del   gruppo   inglese   Archigram,   formato   dagli   architetti Warren   Chalk,   Ron   Herron,   Dennis   Crompton,   Peter   Cook,   David Greene,   Michael   Webb,  non   produce   un’opera   realizzata   come alcune   di   quelle   descritte   sopra,   ma   presenta   l’utopia architettonica più famosa del XX secolo. Se   ingloba   i   postulati   della   poetica   della   grande   dimensione,   ne fornisce una versione assai più avanzata. Se collusione con l'utopia dev'esserci   che   questa   sia   all'insegna   della   più   flagrante   attualità   e storicità. Infatti, oltre a rispecchiare alcune istanze proprie alla cultura architettonico­urbanistica   britannica,   per   cui   rientra   anch'essa   nel capitolo della  Englishness, oltre ad ispirarsi con una buona dose di humor alla contemporanea macchinolatria, segnatamente ai calcolatori elettronici e agli ordigni spaziali, l'opera degli Archigram trasferisce nel nostro campo il gusto figurativo più recente, dalla Pop Art all'arte programmata,   dagli  happenings  di   tante   manifestazioni   della neoavanguardia a quel clima tipicamente inglese che ha rivoluzionato il   costume,   la   moda,   la   musica   dei   giovani.   Ed   è   proprio   questo rapporto con le arti visive e col particolare gusto Pop sviluppatosi in Inghilterra a determinare, secondo noi, buona parte del successo di questo   gruppo   inglese.   Peraltro,   non   va   dimenticato   che   l'aspetto ludico   e   l'ironia   dei   loro   progetti   sono   ampiamente   giustificati   e consentiti dal fatto che l'Inghilterra, come sappiamo, è il paese dove meglio   si   svolge   ad   ogni   livello   l'attività   architettonico­urbanistica, ben   più   drammatica   o   velleitaria   o   squallida,   a   seconda   delle condizioni, si manifesta la neoavanguardia architettonica in altri paesi. Tra gli enunciati programmatici del gruppo è che i suoi membri sono «alla ricerca di un'idea, di un nuovo linguaggio, di qualche cosa da allineate   con   le   capsule   spaziali,   le   calcolatrici   elettroniche,   gli imballaggi a perdere dell'età elettro­atomica»; tale assunto, unitamente a quello della « equivalenza tra i mezzi tecnici per l'architettura e per la conquista del cosmo » pongono i progetti di Archigram su una linea

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fantascientifica   ed   essi   parlano   infatti   di   Gordon,   di   Dan   Dare,   di Superman, ma si tratta di uno scherzo; all'occorrenza questi architetti sono in grado di elaborare in modo assai preciso e fattivo alcune loro proposte. Ci riferiamo alle cellule abitative come capsule spaziali di Warren Chalk e alla Gaskeit capsule progettata da Ron Herron e dallo stesso Chalk. Altri enunciati .programmatici del gruppo si rifanno al futurismo. Infatti la necessità d'introdurre la nozione di effimero in architettura   e   urbanistica,   che   nella   loro   opera   più   impegnativa,   il progetto   della   Plug­in   City   del   '64,   dovuto   a   Peter   Cook,   dove   si prevede la durata di tre anni per i bagni, di 15 per le unità abitative, di 20 per i silos automobilistici e di 40 per l'intera struttura della città, rientra senz'altro nell'effimero e nel consumabile propri al Manifesto di Sant'Elia, ma anche ovviamente in quella della moderna produzione industriale   di   beni   di   consumo.   Ancora   di   marca   futurista   è   la concezione del movimento, non inteso nel senso della trasformabilità ed   intercambiabilità   delle   cellule   abitative   o   degli   elementi architettonici all'interno della macrostruttura, come propongono altri autori operanti nell'ambito della grande dimensione, ma letteralmente concepito. Cosicché se le parti di Plug­in City sono mobili soprattutto nel senso che sono smontabili e ricomponibili, nella Walking City di Ron Herron le megastrutture sono concepite come spostabili su gambe a telescopio o scivolanti su un cuscino d'aria. Così, relativamente ad un altro progetto, Living­pod, un enorme robot semovente, dotato di utensili programmati elettronicamente per le esigenze degli abitanti, l'autore, David Greene scrive: «Principio fondamentale dell'abitare è sempre stato la necessità della casa per l'essere umano, principio che dev'essere rivisto alla luce della possibilità di aumentare la mobilità personale e del progresso tecnologico. Tutto è probabile. Emerge il rifiuto della permanenza e della sicurezza nella casa mentre cresce la curiosità ed il desiderio di conoscere: potrebbe uscire un mondo in movimento come le prime società nomadi»[32 D. Greene, Living­pod, in «Architectural Design», 1966. n. 11.  Ma accanto a questi aspetti, per   così   dire,   più   tecnici,   gli   architetti   di   Archigram,   almeno   nei

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cinque   anni   che   operarono   uniti,   programmarono   anche   la   «ricerca estetica   fine   a   se   stessa»;   il   che   vale   a   dire,   a   nostro   avviso, l'elaborazione di un particolare gusto grafico e rappresentativo nato dalla   fusione   della   moderna   scuola   di   disegnatori   britannici   ­ pensiamo a Gordon Cullen e al Townscape ­ con gli spunti tratti dalla Pop Art. Ma da tale connubio e dal già citato avvertito senso della moderna   figurazione   deriva   il   superamento   dello   stesso   enunciato estetizzante e la spinta a ridurre quell'«estetica» in azione largamente comunicativa.   In   tal   senso   Archigram   costituisce   il   tentativo   più vistoso di introdurre in campo architettonico­urbanistico la   cultura dei mass­media, anzi le loro opere possono considerarsi una mimesi di questi.   Com'è   stato   osservato   i   loro   disegni   hanno   un   «carattere evocativo   piuttosto   che   descrittivo   [...]   la   città   è   vista   come agglutinazione di forme, episodi e modi d'essere del contemporaneo mondo   della   tecnica.   Trasporti   e   comunicazioni,   specializzazione funzionale degli apparati, la casa come oggetto di consumo ­ come automobile,   frigorifero,   televisione   ­,   il   movimento   come composizione   fondamentale   dell'organizzazione   e   l'instabilità   del quadro  urbano  come   principio  del  paesaggio  si  compongono   in  un colossale collage della nuova civiltà urbana. Archigram [...] accetta la totale compromissione con l'ambiente della produzione, dei consumi, dei   mass­media,   ma   si   manifesta   più   a   livello   dell'immagine   che organizzativo   e   sistematico»[33M.   Porta,  Le   nuove   tecnologie: ragioni   e   suggestioni   fra   tecnica   e   architettura,  «L'arte   moderna», Fabbri. 1967, vol. XI, n. 92] E   questo   puntare   sull'immaginario,   questo   tradurre   l'architettura   e l'urbanistica   in   massa   media   o   viceversa   non   è   un'invenzione   o un'interpretazione della critica, ma sostanzia le stesse intenzioni degli Archigram,   come   dimostra   ampiamente   una   delle   loro   più   recenti proposte progettuali, la Instant City del 1969 di Peter Cook. II punto di partenza è la critica alla cultura delle Garden­Cities e del provincialismo   ch'essa   determina   sugli   abitanti,   disancorati dall'attivismo e dai beni di consumo che offre la grande metropoli. Per

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ovviare a ciò Archigram propone una città­scenario, un circo mobile che   offre   alla   popolazione   extra­urbana   tutte   le   informazioni   e   gli «effetti » possibili della vita della grande città. «Bastano venti veicoli, sui   quali   trasportare   tende,   involucri   pneumatici,   schermi, amplificatori,   antenne,   macchine   elettroniche,   piattaforme   per improvvisare rappresentazioni, e tutto quel materiale che può servire a spettacoli informali. Si arriva, si coinvolge il pubblico eccitandone la fantasia, chiamandolo a collaborare come autore, promotore e attore di eventi   imprevisti.   In   poche   ore   l'ambiente   muta:   nasce   una   città elettrizzante   e,   specie   di   notte,   travolgente   [...].  L'Instant   City  può essere   un   fattore   importante   nel   processo   di   pianificazione.   In   un paese   come   l'Inghilterra,   grandi   rivoluzioni   sono   improbabili. Dovremo sfruttare le istituzioni e le possibilità esistenti piuttosto che continuare a lamentarci della loro inefficienza. Nel prossimo mezzo secolo,  l'Inghilterra dovrà  vivere  del  proprio brio, oppure perire. Il nostro   tentativo   consiste   nell'immaginare   un   circo   ambulante   che abbia   l'intensità   di   una   città,   ma   non   la   sua   dimensione   e   la   sua stabilità. Lo scopo è quello di scuotere dal sonno la provincia almeno per una settimana, inducendo la gente a fare, a guardare, ad entrare in comunicazione con quanto avviene a Londra o in altre metropoli» [34 Cit. in B. Zevi, Cronache di architettura, cit., VII, pp. 318­9. A conclusione dei nostri cenni sull'attività degli Archigram vogliamo svolgere due considerazioni che sembrano puntualmente confermare due   nostre   precedenti   tesi.   La   prima   riguarda   assai   da   vicino   il binomio storia­utopia che è presente persino in una esperienza così «spensierata » e vitalistica come quella descritta. «Una casa di plastica ­ scrive Peter Cook ­ rimane una casa, la Plug­in City rimane una città, la   strada   in   tubo   rimane   una   strada.   Ma   accanto   a   questa   via   di sviluppo verso qualcosa più casuale e meno finita, c'è il risorgere della caratteristica inglese di assorbire il nuovo nel tradizionale. Possiamo vedere   nel   nostro   stesso   lavoro   la   tendenza   a   porre   in   relazione   il progetto con la realtà di ciò che già conosciamo. È interessante vedere Plug­in City applicata ad una preesistente parte di Londra e un intero

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plug­in   concept  sviluppato   in   un   dialogo   tra   conservazione   e invenzione   di   zone   che   possono   continuare   ad   essere   conservate mentre   appaiono   drammaticamente   nuove   [...].   Questo   senso   di compatibilità   del   nuovo   (persino   dello   sperimentalmente   «nuovo») con l'antico è un carattere essenzialmente inglese. Comunque esso non sembra   impedire   il   radicalismo   della   ricerca»[35  P.   Cook, Experimental Architecture, Studio Vista, London 1970, pp. 90­1]. La seconda considerazione riguarda il già menzionato carattere visivo e   comunicativo   dei   progetti   Archigram.   Evidentemente   la   loro esperienza,   pur   paradigmatica   sotto   molti   aspetti,   non   risolve   i problemi   più   pressanti   della   contemporanea   vicenda   architettonico­ urbanistica, non  segna un punto d'arrivo della sua storia che rimane un processo  in atto problematico ed  aperto. Tuttavia, realizzabili o meno   che   siano,   le   loro   proposte   risultano,   a   nostro   avviso,   la manifestazione che meglio ingloba nell'architettura e nell'urbanistica la   cultura   contemporanea   intesa   sia   in   senso   antropologico,   sia   in senso   tradizionale.   Quanto   alla   prima   questi   architetti   tendono soprattutto a comunicare il rispecchiamento della ideologia moderna più   diffusa   e   condivisa,   della   tecnologia   attuale,   del   consumo,   del tempo   libero   in   uno   scenario   urbano,   ovvero   a   risemantizzare architettura e urbanistica attraverso i mass­media e quindi a livello della cultura  di  massa;   quanto all'altro  modo d'intendere  il  termine cultura cioè come istituzione storico scientifico­artistica ecc., la loro opera resta la più recente incarnazione dell'idea di architettura come arte figurativa. Ci sembra così di aver ritrovato, per via storica, quanto in   un   nostro   precedente   saggio,  Architettura   come   mass   medium, avevamo proposto in linea teorica. Concludiamo il nostro excursus con un commento di Peter Blake, riferito al gruppo Archigram, ma applicabile a molte altre opere e teorie   dell’architettura   del   ‘900:«conosciamo   tutti   i   progetti cosiddetti “visionari” proposti, in varie occasioni, da gente come Cedric Proce e altri Archigrammisti. Ora tutti  sanno  che le loro

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idee sono completamente assurde. Come può un individuo sensato proporre edifici mobili o città mobili? Tutti  sanno  che proposte simili rasentano la  follia; ma qualcuno ha dimenticato di dirlo a quei  pazzi  patentati  di capo Kennedy, e così  quelli sono andati diritti   per   la   loro   strada   e   hanno   costruito   enormi   strutture mobili, senza sapere che quello che facevano non si poteva fare»

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