Storia Dell'Architettura Contemporanea II

December 18, 2016 | Author: Gianluca Buzzi | Category: N/A
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Capitolo primo

L’irresistibile mito del Movimento Moderno Nel 1936 Nikolaus Pevsner pubblica il libro Pioneers of the Modern Movement from William Morris to Walter Gropius. Nel tentativo di prefigurare in un’entità unica l’intero Movimento Moderno, egli affianca in modo forzato le figure Di Morris e Gropius, ottenendo in tal modo un testo dai contenuti piuttosto confusi, tenuti insieme da l’unica costante dell’elemento industriale. Sarà piuttosto Reyner Banham, il suo allievo migliore, a dimostrare analiticamente come la vicenda architettonica moderna sia il frutto di una pluralità di personaggi ed eventi. Un contributo ulteriore alla creazione del mito del Movimento Moderno è fornito dall’ opera di Sigfried Giedion, Space, Tima and Architecture, e l’istituzione dei CIAM (Congrès Internationaux d’Architeture Moderne), identificato in un ristretto gruppo di protagonisti dell’architettura mondiale. Fin dal primo Congresso, fa la sua comparsa il valore del terreno, arrivando al punto di chiedere l’abolizione della rendita del suolo, per permettere all’urbanistica di riuscire nella sua impresa riformatrice. E non è certo un caso che in questa loro “missione” i CIAM assumano il volto di Le Corbusier. Di particolare importanza risulta il tema dell’ VIII Congresso: accordare funzionalità moderne con la dimensione storica della città. Rogers, all’interno di questo ambito, assume il ruolo più eccellente tra gli architetti europei di quei tempi, risultando però di una banalità sconcertante; ciò sta ad indicare il “vuoto intellettuale” ormai dominante nei CIAM del dopoguerra. La loro fine non tarda a venire, tra dissidi e incomprensioni interne che tempo prima invece ne costituivano l’animo vero e proprio. È tuttavia che, a partire dagli anni sessanta, ha inizio la minuziosa opera di demolizione del mito del Movimento Moderno. Nel caso di Banham ciò si traduce nel fondamentale Theory and Design in the First Machine Age, mentre in quello di Manfredo Tafuri invece, con Progetto e Utopia, nell’operazione di demistificazione dell’intera vicenda architettonica da metà Ottocento al 1931 (anno di crisi verificabile in tutti i settori).

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Capitolo secondo

Il gioco dell’identità 1959: Frank Lloyd Wright. 1965: Le Corbusier. 1969: Walter Gropius e Ludwig Mies van der Rohe. Nell’arco di un decennio scompaiono le quattro figure più importanti della fase moderna dell’architettura. L’analisi dei loro “atti” chiarirà effetti e sviluppi assai diversi, nonostante il comune denominatore del Movimento Moderno.

Wright

può apparire a prima vista il meno problematico e il più lineare, invece la sua

opera è caratterizzata da una continua e instancabile ricerca architettonica . Con la Unity Church (1945-51), la sede della First Unitarian Society in Winsconsin, fornisce una radicale versione di come un edificio dovrebbe apparire, se sorgesse spontaneamente dal terreno (grezzi muraglioni di pietra calcarea).

Proseguendo per la sua strada, Wright inizia a sperimentare l’uso di forme curvilinee , nell’intenzione di riuscire a superare la tradizionale configurazione scatolare. Allo stesso momento vi è in questa scelta, un tentativo si smaterializzare e di far levitare gli edifici: tali capacità vengono alla luce con straordinaria efficacia nel Country Club

ad Hollywood. Tali forme tondeggianti confluiranno più tardi in una valenza simbolica, ad identificare la dinamica, il dinamismo, delle profonde mutazioni avvenute nella società

americana di quegli anni. Da ciò discendono le tavole di The Living City (1958), dove avanguardia e retroguardia si mescolano in un tutt’uno nel costruire una società tecnologica a servizio di una comunità bucolica. L’economia pensata da Wright si fonda su un sistema misto agricolo-industriale e sulla dispersione degli edifici pubblici, contro ogni loro normale accentramento, mentre le dimensioni delle case sono misurate in funzione del numero di automobili possedute. Ciò a cui egli tende dunque è l’oltrepassamento della normale contrapposizione città -campagna o più specificatamente tra campagna e tecnologia, nel tentativo ultimo di far “scomparire” la città, trasformandola in nazione. Ma su un ben più arduo terreno di scontro dovrà misurarsi l’architettura wrightiana al culmine della sua evoluzione: Manhattan e le ferree leggi della sua griglia. È nella metropoli che Wright fa atterrare l’”astronave” del Guggenheim Museum (1943-59). Il progetto muta numerose volte, perfino il verso, concepito dapprima come un Ziggurat, successivamente si trasforma in “Taruggiz”. Con tale apparecchiatura a spirale, illuminata zenitalmente da un grande lucernario, Wright offre una concezione del museo radicalmente nuova : uno spazio dinamico, dove la visione delle opere avviene a scorrimento. La rigidità che però ne 2

consegue, e quindi le difficoltà ad essere accettato, insieme all’innovazione che porta con sé, formano il suo essere “alieno” (astronave) rispetto a tutto ciò che lo circonda. L’”attitudine rivoluzionaria” rivendicata da

Le Corbusier

è alle radici della sua

straordinaria capacità d’innovarsi , dimostrata nel progressivo abbandono di un vocabolario moderno divenuto patrimonio largamente diffuso. Il cemento armato intonacato di bianco viene sostituito con pietre lasciate a vista, mentre i solai rettilinei lasciano il posto a volte a botte ribassate: la rusticità dei materiali risulta in perfetta sintonia ad un’estetica moderna. Le Corbusier fa propri i linguaggi spontanei legati soprat tutto alla

cultura mediterranea , e ciò che ne deriva sono esterni dall’aspetto brutale , abissalmente distanti dal periodo purista. Ma la grande lezione plastica e brutalista del nudo cemento mostrato così come esce dalle casseforme era stata anticipata nell’Unité d’habitation di Marsiglia (194652). Un edificio comunitario e autosufficiente, progettato per la prima volta sul modello del Modulor (un sistema proporzionale basato sulle misure del corpo umano), si sintetizza in un imponente superblocco, fatto galleggiare su pilotis , a immagine di enorme

piroscafo . Il suo fine ultimo non è, come può sembrare, la modifica dei rapporti sociali (grande comunità), ma bensì migliorare gli “stili di vita” dei suoi abitanti. Di natura politica è invece la complessa vicenda che coinvolge il progetto per il

Palazzo delle Nazioni Unite a New York (1947). Qui Le Corbusier fissa i caratteri essenziali che rimarranno impressi nei suoi elaborati seguenti: un frammento di Ville Radieuse che però finisce per passare nelle mani di W. Harrison, il quale finirà col “manhattanizzarlo”.

Dall’incontro di seduzioni mediterranee e di istinti bruta listi scaturisce la Cappella di Notre-Dame-du-Haut a Ronchamp (1950-55), la quale ha fatto spesso parlare di abiura dei principi affermati da Le Corbusier. In realtà, tale apparente conversione sottolinea soprattutto la relatività di quei principi: i muri pieni, inclinati e ripiegati e la possente ed espressiva copertura in béton brut rappresentano la saldatura di costruzione e architettura, di “tener su” e di “commuovere”. E non è certo un caso che ciò avvenga in una chiesa, dove razionalizzazione e standardizzazione non hanno motivo di esistere. La figura esteriore, quasi fosse una scultura, e l’illuminazione interna, che le conferisce l’immagine di chiesa rupestre, non hanno nulla a che vedere con una concezione architettonica storicistica o rustica: la Chapelle de Ronchamp è il prodotto di tutta

l’esperienza lecorbuseriana finora accumulata. All’unicum di Ronchamp risponde il tipo potenzialmente replicabile del Convento domenicano di Sainte -Marie-de-la-Tourette presso Lione 3

(1952-60) derivante dall’incancellabile impressione suscitata dalla vista della Certosa di Ema (di Firenze). L’elemento caratterizzante è la complessità della macchina conventuale,

che si manifesta nel trattamento delle facciate : pan de verre orizzontali (facciate continue in vetro), modulati da montanti ritmicamente irregolari, compatte distese di béton brut e griglie regolari di brise-soleil. L’organicità della vita monastica è così espressa senza simulare presunte “armonie prestabilite”, bensì mostrando l’intreccio

dei suoi ambienti . La medesima capacità “selettiva”, applicata a una scala diversa, guida Le Corbusier nell’incarico di realizzare la nuova capitale del Punjab, Chandigarh (1951). In particolare egli si concentra sul settore del “Campidoglio”: qui gli edifici del Segretariato, del Parlamento, dell’Alta Corte di Giustizia e il Palazzo del Governatore spiccano come figure isolate, unite soltanto da relazioni virtuali come bacini d’acqua e altri “congegni” (la Torre delle Ombre, il Monumento dei Martiri, il Monumento della Mano Aperta, la fossa della Considerazione). Più che di natura politica, la rappresentazione allestita da Le Corbusier a Chandigarh è di ordine cosmico ; in questa prospettiva, il Palazzo del Governatore ha la parvenza di “montagna sacra” e l’immagine del Parlamento” mira a richiamare antichi osservatori astronomici indiani. A Chandigarh si chiude un ciclo apertosi cinquant’anni prima: un’avventura intellettuale che sarebbe limitato classificare sotto categorie di purismo o di razionalismo, dato che in lui risiede lo spirito del rifondatore di civiltà, illimitatamente fiducioso nei poteri del

logos (parola). Ben diverso il caso di Gropius . Dopo la caduta in lui di ogni tensione ideologica (Bauhaus), emergono con piena evidenza i limiti delle sue capacità progettistiche. La sua chiamata alla Harvard Graduate School of Design , in qualità di direttore del Dipartimento di Architettura, conferma tuttavia la sua abilità di insegnamento e organizzazione didattica. Dopo la rottura con Breuer (1941), Gropius ricorre a una nuova partnership con un’équipe di giovani architetti, componendo la TAC (The Architects Collaborative); i risultati di questa collaborazione sono tuttavia deludenti. Ma la “pietra dello scandalo” legata al nome di Gropius è il grattacielo della Pan

Am a New York: oltre alla somiglianza quasi da plagio col Pirellone di Giò Ponti, è la sua infelice posizione che rompe la griglia di Manhattan, a destare le critiche più feroci. Il Nordamerica è per Mies la terra delle “occasioni”, il luogo in cui la sua architettura può servire il reale. L’intervento al Campus dell’IIT a Chicago è completato agli inizi degli anni cinquanta con i due edifici più delicati dal punto di vista simbolico: la Cappella e la Crown

Hall (sede di architettura e design). 4

Nel primo caso Mies utilizza estetica e materiali impiegati negli altri edifici

a destinazione profana : l’acciaio, il mattone e il vetro: la forma è quella di un semplice parallelepipedo. In questa cappella non c’è nulla di spettacolare; nella sua semplicità non è rozza ma nel suo piccolo risulta monumentale. Nel caso della Crown Hall , invece, ogni parvenza modesta è abbandonata; sontuosità e nobiltà sono ottenute facendo ricorso a materiali che ben si adatterebbero alla realizzazione di un capannone industriale. Simmetria ed elevazione da terra (larga rampa di scale) sono gli intramontabili dispositivi di cui Mies si avvale per conferire un’aura cerimoniale allo spoglio volume. Ben diversa però è la sua realtà costruttiva: un unico grande ambiente completamente sgombro da ostacoli. Per ricorro Mies si avvale di un esoscheletro in acciaio, costituito da quattro travature disposte a ponte che hanno la funzione di tenere sospeso il tetto piano. Tutto ciò non riuscirebbe comunque a innalzarsi al livello del monumentale in assenza di una ricercata cura dei particolari , tipica di Mies (lo sfiorarsi dei pilastri d’angolo, l’opacizzazione dei vetri a livello dei tavoli). Trionfo del particolare è la Farsnworth House a Plano (1945-51). Nella

riduzione all’essenziale , infatti, si rivela in tutto il suo senso il noto “less is more”. In essa la condizione dell’abitare è fissata senza nostalgie e illusioni: capanna primitiva vitruviana cha ha incontrato la Maison Dom-ino di Le Corbusier. Di una pedana rettangolare , sollevata da terra, circa un terzo è occupato da un portico coperto, mentre il restante è occupato dal volume interamente vetrato della casa. Relazioni proporzionali connettono tra loro i pochi elementi della casa, emancipandoli da qualsiasi rigidità meccanica. Inoltre egli rende l’edificio permeabile

alla natura con l’impiego di materiali assoluti quali appunto il vetro e l’acciaio. All’inizio degli anni cinquanta Mies si dedica al tema metropolitano degli edifici residenziali sviluppati in altezza . Con i Lake Shore Drive Apartments a Chicago (1948-51) sperimenta una struttura a scheletro in acciaio, su due parallelepipedi perpendicolari di 26 piani. Il curtain wall regolare delle facciate (non più come i primi grattacieli berlinesi) rende l’edificio perfettamente uniforme e neutrale, divenendo la nuova unità di

misura dell’universo metropolitano. Tra tutti i grattacieli realizzati, il più famoso è senza alcun dubbio il Seagram Building di New York (1954-58). Animato dalla ricerca di alcun “carattere individuale”, il suo intento è quello di ottenere chiarezza strutturale e costruttiva. Ciò implica l’accettazione di un’inevitabile ripetitività, senza però perdere identità architettonica nel suo gioco di specchi. Tre precisi motivi distinguono il Seagram Building dagli altri grattacieli newyorkesi: la

preziosità dei materiali, l’accuratezza nella sua esecuzione e il modo in cui l’edificio è disposto sul sito . Dettagli in apparenza secondari, come il soffitto sospeso impostato su un modulo quadrato, capace di determinare una 5

perfetta uniformità dell’illuminazione, contribuiscono al senso di compostezza che domina il tutto. Ma è soprattutto l’arretramento dal fronte della Park Avenue che dà al Seagram una leggibilità straordinaria: Mies dispone l’edificio su un podio rialzato di pochi gradini e completamente vuoto per un terzo. Due vasche rettangolari lo delimitano lateralmente, rivelandone così la natura di palco teatrale: Mies van der Rohe invita a

“riflettere”. Il tema di un vasto spazio coperto si presenta nella Nationalgalerie di Berlino (1962-68). Il progetto è impostato su una pianta quadrata e sulla suddivisione dello spazio espositivo su due livelli: quello superiore, destinato a ospitare le esposizioni temporanee, e quello inferiore, le collezioni di arti figurative del XIX e XX secolo. Un massiccio zoccolo rivestito di pietra fa da basamento al padiglione delle esposizioni: otto pilastri cruciformi alti più di 8 metri ne sorreggono lo spesso tetto piano aggettante, rifinito all’interno da una griglia metallica che rievoca un classico soffitto cassettonato. L’intera struttura in acciaio è verniciata di nero.

Pur concepita tecnicamente, l’architettura di Mies mantiene invece intatta la sua aura ; ed è anzi proprio la presenza dell’aura che in essa fa la differenza rispetto all’edilizia corrente, spesso basata sui suoi stessi principi. Ciò che sorprende, semmai, è che la replica quasi identica della Nationalgalerie verrà impiegata da Mies per la sede degli Uffici Bacardi: dimostrazione che l’architettura

abbia poco o nulla a che fare con la ricerca di forme inte ressanti o con le inclinazioni personali.

Capitolo terzo

Professione eclettismo Il grattacielo è un’entità in sé eclettica : dalla pura accumulazione di capitali e di volumetrie, alla loro sublimazione in simboli di potenza, il grattacielo comprende tutto, assumendo identità costantemente differenti. Ciò lo rende suscettibile a libere sperimentazioni e rappresentazioni di qualsiasi genere che ne definiscano il carattere. Così è per il Chrysler Building (1928-30) di William Van Alen e per l’Empire

State Building (1929-31) di Shreve, Lamb&Harmon. È significativo però che proprio il Chrysler e l’Empire concentrino il loro carattere esclusivamente nella zona sommitale. Dietro la creazione di una silhouette riconoscibile e dal contenuto simbolico, risulta ormai

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chiaro che ciò che conta davvero è la realtà economica e la materialità del

grattacielo . La medesima complessità , questa volta sul piano organizzativo e gestionale, si ritrova nel Rockfeller Center , operazione finanziaria ed edilizia di gigantesche proporzioni che vede impegnati una serie di uomini sotto il nome di Associated Architects (tra cui Raymond Hood, Harvey Corbett e Wallace Harrison). Il Rockfeller Center comprenderà un gran numero di edifici di altezze e destinazioni differenti, unite solamente dal medesimo trattamento delle facciate. Quanto ne deriva è un eclettismo, non tanto dal punto di vista stilistico,

quanto piuttosto come atteggiamento di aperta disponibilità nei confronti di una molteplicità di fattori , tutti possibili. Da qui alle posizioni espresse da Philip

Johnson (1906-2005) il passo è breve.

Nell’introdurre i suoi scritti, Peter Eisenman sottolinea come l’inclinazione di questi per l’eclettismo sia di natura essenzialmente anti -ideologica ; e come l’espressione “eclettismo funzionale” sia un tentativo di privare il funzionalismo del carico di responsabilità etica e sociale che esso porta con sé dall’Europa. Il campo che così si dischiude è quello di una libertà fatta di infinite possibilità da esplorare. Uno sguardo più ravvicinato alle sue opere, tuttavia, lascia scorgere non soltanto i limiti

del suo modus operandi, ma anche il voler a tutti i costi mantenersi al tempo con le “punte” più avanzate dell’architettura. Nel corso dei viaggi in Europa compiuti dal 1930, Johnson entra in contatto con Oud, ma soprattutto con Mies van der Rohe. Quest’ultimo segna profondamente la sua vita professionale: le sue prime architetture sono tutte nel segno della lezione miesiana . La più famosa e riuscita tra le case di Johnson è la Glass House a New Canaan , Connecticut (1946-49). Nonostante prenda a modello il progetto per Casa Farnsworth ne fornisce però una versione più cauta e tradizionale (pilastri negli angoli, attacco diretto a terra). Ma se da un punto di vista qualitativo Johnson rimane distante da Mies, il linguaggio semplificato che utilizza risulta più comprensibile alla società

americana . L’aggiunta di ulteriori edifici e folies, nell’arco di trent’anni, fa della proprietà di New Canaan una sorta di trailer della sua carriera. Salvo la partecipazione per la realizzazione del Seagram Building, l’incontro con il

grattacielo si rivela fatale : nel suo spirito eclettico, infatti, l’eclettismo associato al grattacielo trova il compimento supremo. Nelle sue mani, in tal modo, il grattacielo può assumere qualsiasi figura. Nella versione sempre più scatenata degli anni ottanta, “l’eclettismo funzionale ” di Johnson diviene via via scenografico , addirittura pornografico: come il PPG PLace di Pittsburgh, sei edifici di vetro specchiante in stile neogotico, o ancora il Lipstick Building, un piccolo grattacielo travestito da rossetto. Né la furia kitsch si ferma al cospetto del sacro. 7

La deregulation diventa la regola e tuttavia risulta illuminante che Johnson continui a tessere la fitta trama delle sue conoscenze, al punto di essere insignito, nel 1979, del Pritzker Price. Promotore di numerose iniziative nel campo della cultura architettonica, e ormai elevato al rango di “grande vecchio” dell’architettura mondiale, esercita un’influenza e un potere sempre più vasti. Ed è così quasi logico che le sue ultime opere facciano proprie le scomposizioni di Eisenman e le deformazioni di Gehry, i suoi due kids prediletti. È proprio nel quadro, tendenzialmente povero di sorprese, del professionismo architettonico statunitense degli anni trenta e cinquanta che si staglia la figura di

Richard Neutra . Pur collocandosi pienamente nell’International Style, ne approfondisce aspetti in modo del tutto inatteso. Egli sviluppa sin dai primi anni un complesso progetto urbano all’interno della città capitalista, attraverso il controllo qualitativo della standardizzazione della produzione edilizia, integrato con un’efficiente sistema dei trasporti e del traffico. Rimanendo il suo progetto praticamente lettera morta , Neutra si concentra sulla

messa a punto di soluzioni per la costruzione di edifici residenziali. Fortemente sperimentali nell’uso di tecniche e materiali innovativi ma al tempo stesso poco costosi, molto controllate nella forma e nell’organizzazione spaziale, risultano così i suoi corpi scatolari allungati, spesso incrociati perpendicolarmente da altri corpi minori. Il punto d’incontro tra le due direzioni di sviluppo genera spazi interni ed esterni allo stesso tempo. Proprio per il grande successo che ottiene, però, la sua architettura finirà

per trasformarsi in “maniera” , dove la jet-society angelena trova e celebra la propria “fiera delle vanità” .

Capitolo quarto

Il colloquio con la tradizione I L’architettura del secondo dopoguerra in Italia merita una trattazione corale. Tra molteplici contraddizioni vi è tuttavia una tendenziale unitarietà nell’impegno per la ricostruzione del paese e successivamente partecipare alla sua vorticosa crescita economica. Si tratta in sostanza di costruire una società . Nelle circostanze imposte dalla ricostruzione, la cultura architettonica italiana per un verso si trova concorde nel dare la propria adesione a criteri costruttivi moderni , per l’altro non manca di rivolgere lo sguardo all’indietro . Strumenti impiegati

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appunto nell’inserimento di edifici nuovi in tessuti storici oppure nel costruire quartieri di edilizia economica popolare ai margini dei grandi centri abitati. Il nesso modernità-tradizione si fonda su una comune aspirazione

all’essenzialità , sia linguistica che materica. Già prima della guerra, Giuseppe

Pagano aveva individuato nell’architettura

rurale italiana una possibile fonte di ispirazione. Nella versione del dopoguerra, la dialettica Roma-Milano presenta caratteri

differenti , e tuttavia comparabili: se la scuola romana ricerca un linguaggio popolare, la scuola milanese si mantiene su una linea aristocratica e intellettuale che tratta la “tradizione in architettura” . E infatti, a fondamento dell’architettura di personaggi come

Ignazio Gardella ,

Mario Asnago e Claudio Vender, Luigi Caccia Dominioni e Vico Magistretti , oltre alla presenza di sobri richiami alla tradizione, vi sono una razionalità intesa come volontà di chiarezza, di intelligibilità delle forme e il tentativo di istituire un rapporto col luogo. Gli esiti si possono riscontrare negli edifici del Quartiere “Mangiagalli” di Milano (1950-52), progettati a Albini e Gardella , che pur mantenendo una serialità tipologica dell’alloggio, rompono la consueta regolarità inflettendo obliquamente le pareti; ma anche nella Casa per impiegati Borsalino di Alessandria (1948-52), dove il moto ondulatorio conferisce all’edificio l’aspetto di enorme paravento in laterizio. Da un razionalismo schematico si discosta anche la Casa al Parco Sempione a

Milano : due sistemi costruttivi diversi per i due ambienti differenti (giorno e notte) su cui è concepito l’edificio. Il problema dell’inserimento del nuovo nelle preesistenze trova nella veneziana Casa alle Zattere (1953-58) sempre di Gardella una delle manifestazioni più emblematiche. Situata di fronte alla Chiesa del Redentore di Palladio nella versione definitiva assume una composizione ponderatamente asimmetrica che compie un lavoro di “assimilazione” dei caratteri di Venezia. Attraverso l’impiego di balconi all’italiana e motivi decorativi nella muratura si compie una piccola “rivoluzione”: liberare l’architettura

moderna dalle sue troppo ferree catene . Interessante è il confronto tra due quartieri costruiti ai margini delle città, pressoché contemporanei: il QT8 a Milano (1946-50) e il Tiburtino a Roma (1949 54). Il primo, originato dal contributo della Triennale e di

Piero Bottoni

vede il proprio

tema fondante nella sperimentazione di nuove tipologie basate su una

tecnologia di prefabbricazione ; il secondo, che vede la partecipazione del piano Ina-Casa e di personaggi come Ludovico

Quaroni e Mario Ridolfi

in

primis, si propone invece come sagra di “motivi strapaesani , dai balconi in ferro battuto, alle coperture tradizionali”. 9

Se dunque il QT8 risulta “irreprensibile” da un punto di vista grammaticale e sintattico ma

scarsamente comunicativo , il Tiburtino si esprime in modo volutamente sgraziato, ma riesce a entrare in colloquio con i ceti popolari che lo abitano. In una profonda “venezianità” si radica il lavoro di Carlo

Scarpa : non soltanto per

il suo carattere artigianale, ma anche per il particolare rapporto che instaura con l’elemento dell’acqua e con il lavoro dell’intarsio; le opere di Scarpa si presentano

intimamente composite ma non per questo incoerenti. Nella Gipsoteca Canoviana a Possagno , come nel Museo di Castelvecchio a Verona il trait-d’union è lo sforzo di comporre un’infinità di frammenti di natura, epoche e materiali diversi. L’opera di liberazione delle opere, che lascia prosperare le contraddizioni anziché soffocarle, ha come propri riferimenti figurali soprattutto l’architettura di Wright e la cultura tradizionale del Giappone. Villa Veritti, Villa Ottolenghi o la monumentale Tomba Brion , parlano un linguaggio singolare, ricco di dettagli e sfumature difficilmente sintetizzabili in una sola definizione. In particolare proprio la Tomba Brion più che una semplice sepoltura, rappresenta un cammino iniziatico che congiunge vita e morte. Tuttavia, è all’inizio degli anni sessanta, che l’architettura italiana conosce un’involuzione rilevante. L’attenzione degli architetti italiani si sposta verso quella

“nuova dimensione” della “città territorio” , favorendo in tal modo la nascita di un nuovo utopismo. È il generale orientamento a favore di un megastrutturalismo di marca internazionale, che fa delle dimensioni imponenti e dell’uso indiscriminato della tecnologia, gli strumenti prediletti. L’ultimo tentativo di controllo della grande dimensione risulta quello formulato da Quaroni per il Quartiere Cep si San Giuliano a Mestre. Nei quattro edifici a forma di cerchi aperti in direzione della laguna è leggibile la volontà di identificare lo spazio collettivo, attraverso una forma archetipa. Se nostalgico, e utopico, può apparire questo tentativo, va riconosciuto però l’atteggiamento politico di quest’atto. In quest’ottica, esauritosi il “contagio” megastrutturale , non stupisce che tale

spirito politico permanga , come accade nel complesso residenziale “Monte Amiata” al Quartiere Gallaretese di Milano ; qui un teatro semicircolare all’aperto e un sistema di piazze interne con relative passerelle, ne costituiscono il fulcro . Ciò che più di ogni altra cosa il Gallaratese evoca è la complessità della città (comunità urbana regolata dalle medesime leggi della città) e nella ricerca di tale raggiungimento di scopo Aymonino si adopera chiamando Aldo Rossi, il quale aggiunge all’opera un frammento di teatralità.

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Una comunità possibile è al centro anche dell’”utopia realizzata” di

Adriano

Olivetti . Nel creare ex novo la sede dei suoi stabilimenti, economisti, sociologi, scrittori, urbanisti, architetti (tra i quali Figini e Pollini ), designers, poeti si trovano così a interagire tra loro, con l’obiettivo della qualità e il mito della interdisciplinarità . La realizzazione della Fabbrica Olivetti a Pozzuoli da parte di Luigi

Cosenza , ha in più l’obiettivo di riscattare una zona economicamente depressa . Ma con gli anni sessanta diversi nodi per l’Olivetti vengono al pettine: la crisi economica che colpisce l’Italia; il fallimento nel campo dell’elettronica; la morte dello stesso Adriano nel 1960. Pressoché nulla si salva dell’ambizioso programma di connettere sviluppo economico-industriale e benessere umano.

Capitolo quinto

Il recupero della memoria In uno dei numerosi commenti apparsi all’indomani del completamento della Torre Velasca (1950-58) del gruppo BBPR , si legge: “Al contrario di gran parte dell’architettura moderna, la torre milanese dimostra di rispondere alle forme e alle suggestioni dell’ambiente circostante”. L’episodio della Torre Velasca costituisce un caso di estremo interesse: un insieme di scelte progettuali razionali e logiche , come risposte “tecniche” a problemi concreti, come ad esempio ampliare la parte più alta per dare più luce agli appartamenti. A questo punto, la somiglianza formale con una torre medievale sembra quasi frutto di una semplice casualità.

Rogers tuttavia non nasconde la

volontà di accordare la Torre Velasca

con l’ambiente urbano in cui sorge; gli interlocutori privilegiati risultano quindi la Torre del Filarete del Castello Sforzesco, il Duomo e la Ca’ Granda. Il desiderio è quello di comprendere ciò che è successo prima di noi (memoria), rivelando la sottile

differenza tra l’”imitare” formalmente e il “desumere” . Da non confondere però , la vicenda della Torre Velasca, con quella breve ma significativa della stagione “neoliberty ”. Quest’ultima in realtà è il tentativo di rintracciare vie alternative a un repertorio moderno ormai sempre più congelato in forme

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ripetitive e scontate, in particolare attraverso di alcuni giovani architetti italiani: Roberto

Gabetti e Aimaro Isola, Vittorio Gregotti e Gae Aulenti . I riferimenti delle architetture neoliberty sembrano essere i raffinati conglomerati di mattone, legno, ferro e vetro degli edifici di Mackintosh, Berlage, De Klerk e Wright. La Bottega d’Erasmo a Torino (1953-56) di Gabetti e Isola, è costituita da una facciata ritmata attraverso l’inserimento di bow-windows spigoluti e incrostati di materiali diversi. Il dibattito sul neoliberty, tuttavia, finirà col spostarsi sul terreno della “sociologia generale”, cercando di interpretare la “nostalgia delle forme del passato borghese”; a giudizio di Banham quest’atteggiamento risulta un indizio allarmante della ritirata dell’architettura italiana dallo spirito del moderno. Ma la parola decisiva spetta a Tafuri: il neoliberty non si muove in polemica con il Movimento Moderno; la sua piuttosto è una contestazione di tradizione , con

lo scopo ultimo, attraverso un disinvolto uso di storia e memoria, di far tornare a parlare l’architettura. Intorno agli stessi problemi ruota anche l’opera di Louis

Kahn .

Il colloquio che egli instaura con la storia ha risvolti particolari: i suoi edifici arrivano a volte a evocare fonti precise, riconoscibili, senza tuttavia che queste intrattengano con essi rapporti spiegabili. Kahn frequenta la scuola di architettura delle University of Pennsylvania, ancora impostata su rigorosi principi Beaux-Arts; in seguito apre uno studio dove comincia a sviluppare una spiccata coscienza sociale nell’esercizio della sua professione. Il suo pensiero comincia così a prefigurarsi intorno ad un’architettura

simbolica , dotata di forme significanti. La Forma caratterizza un’armonia di spazi adatti ad una certa attività dell’uomo . Sotto questa luce si intuiscono i motivi che lo spingono ad operare attraverso una certa monumentalità, ma allo stesso tempo si comprende la relazione con il passato, inteso come Forma della memoria. Quest’ultima relazione, tuttavia, non si giustificherebbe al di fuori del compito che tali forme rivestono: incarnare insitutions . Le istituzioni per Kahn sono quelle “funzioni” che connotano la comunità umana in quanto tale. Non è certo un caso che egli desuma il tale concetto dal mondo romano , e che la stessa architettura romana gli fornisca svariati tipi di Forme. Non minore influenza esercita su Kahn l’”architettura delle ombre” dei grandi visionari francesi della fine del Settecento (Boullée, Ledoux). Il primo edificio “istituzionale” realizzato nella fase matura della sua carriera è la Yale

University Art Gallery a New Heaven (1951-53). La sua immagine esterna oscilla ancora tra la trasparenza del curtain wall International Style della facciata verso il giardino, e la matericità dei muri ciechi di mattoni della facciata verso la strada. 12

La suddivisione degli spazi in “servant” e “served” introduce nel corpo dell’edificio una differenziazione basata sui loro diversi utilizzi. Il cilindro di calcestruzzo posto al centro, contiene le scale e separa le sale espositive. Diverso è il trattamento di tali spazi nel Richards Medical Researh Building della University of Pennsylvania a Philadelphia (1957-65). Qui tale distinzione

entra direttamente nella composizione dell’immagine dell’edificio . L’idea generatrice è quella della “cittadella della ricerca scientifica” , organizzata come una molteplicità di corpi edilizi, differenziati dai materiali e dalle altezze. In particolare, essendo centri di ricerche mediche, l’attenzione di Kahn si concentra sulla separazione tra aria da respirare e aria da smaltire. La sua speranza è infine, quella di dar vita a un luogo di lavoro moderno , ma al tempo stesso capace di assumere anche un valore comunitario . Il Salk Biological Research Institute a La Jolla, California, secondo le intenzioni del suo committente, doveva costituire non soltanto un centro di studi e sperimentazione, ma anche il luogo di conciliazione tra cultura scientifica e cultura umanistica. Gli edifici realizzati esprimono a prima vista una concezione rigida, e mettono in luce una predilezione per l’assialità che rischia di sconfinare nel formalismo. È tuttavia proprio nello spazio tra i due corpi di fabbrica che si concentra il senso del Salk Institute: si tratta di un luogo fatto per tenere insieme, mette in prospettiva lo spazio, ossia ne raccoglie le pluralità intorno a un’unica idea. Le torri degli studi prospicienti i laboratori, con le facciate rivolte verso l’oceano, hanno altrettanto ruolo di quinte sceniche, nel raggiungimento del massimo di artificialità. A questo riguardo Tafuri e Dal Co , negli anno settanta, hanno sottoposto a critica la disinvolta ubiquità con cui Kahn impiega il suo linguaggio delle Forme ; esse risultano come “beni di conforto” elargiti dalla civiltà americana ai paesi in cui si protende la sua espansione. A distanza di tempo questa critica appare viziata da un pregiudizio fin troppo ideologico e risulta applicabile a una ridotta parte dell’”operato estero” kanhiano. In progetti come l’Istituto indiano di amministrazione ad Ahmedabad,

India, l’Assemblea nazional e del Bangladesh, a Dacca, e il progetto per il Centro governativo a Islamabad, Pakistan, l’imputazione di “colonialismo culturale” non risulta appropriata . È tuttavia innegabile il tentativo di Kahn di sintetizzare un linguaggio apertamente celebrativo che risulta “indifferente” nei confronti delle specificità locali. Strumento prediletto in questi progetti è l’immagine della rovina romana , resa attraverso giochi di archi, che diventano quasi cerchi, e giochi di ombre che ne accentuano l’effetto. Ciò che mettono in evidenza gli edifici kanhiani però, è l’assoluta mancanza di

radicamento nel luogo , di particolare evidenza nell’Assemblea nazionale,

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pericolosamente fuori misura rispetto al tessuto urbano e sociale del Bangladesh, uno dei paesi più poveri del pianeta.

Simulazioni e travestimenti, al contrario, non appartengono agli edifici di Kahn . Spazio e luce, piuttosto, sono le “materie” di cui sono fatti; così come nel Kimbell Art Museum a Fort Worth, Texas (1966-72), la luce si fa spazio. Da un fonte luminosa zenitale sono invasi i lunghi e stretti corpi, affiancati gli uni agli altri come navate di un antico mercato e coperti da volte a botte. Riverberata sulle grigie colte in cemento, la luce naturale modifica lo spazio in ogni momento, assumendo tonalità e intensità continuamente variabili. Insieme alla luce, l’acqua riveste un ruolo fondamentale nelle opere

kanhiane . Essa, oltre a significati psicologici , rende virtuali le forme, instillando in esse la potenzialità dell’assenza di forma.

Capitolo sesto

La nostalgia della rivoluzione Nell’opera di Louis

Barragan

lo scenario è il Messico , all’indomani del

periodo rivoluzionario che porta il paese a una costituzione (1917) basata sui principi del capitalismo. Una breve fase razionalista, conseguenza diretta del viaggio compiuto in Europa nel 1931-32, costituisce la prima parte della sua carriera, a cui farà

seguito l’uso di un linguaggio vernacolare ispanico -messicano. A seguito di esigenze economiche e professionali, il corpo edilizio, nelle sue mani, si riduce all’essenzialità di pochi elementi e all’apertura in esso di abbondanti finestrature. Determinante però risulta il ruolo rivestito dalla natura , che lo porta a realizzare i famosi Jardines del Pedregal (1945-50); in un ambiente vulcanico, Barragan aggiunge pochi controllatissimi segni: muri di pietra appena sbozzata, gradini, sentieri, elementi sculturei, specchi d’acqua e fontane. L’intervento umano cerca così di

completare l’opera della natura. Ed è in questa prospettiva d’integrazione tra paesaggio e architettura che prende vita la casa-studio per se stesso a Città del Messico (1947-48). La semplice linearità della volumetria esterna si sposa perfettamente con la spoglia intimità degli ambienti interni, costruita attraverso un prosciugamento linguistico e decorativo che, tuttavia, non arriva mai a identificarsi con il puro funzionalismo; lo dimostra

il gioco perfettamente “fine a se stesso” di muri protesi verso il cielo, colorati con tinte imprevedibili (lilla, rosso, ocra), che traduce in esperienza spaziale i quadri di Giorgio De 14

Chirico o di Salvador Dalì. Barragan vi aggiunge però ulteriori componenti come l’acqua, la roccia vulcanica e le mexcaleras, i recipienti in terracotta. Nella sistemazione del Convento delle Madri Cappuccine , a Tlalpan (1952-55), la principale materia impiegata è la luce , fatta filtrare attraverso griglie vetrate, oppure fatta vibrare a contatto con corpi diversamente irradianti. Nella Casa Folke Egestrom (1967-68), e nella Casa Francisco Gilardi a Città del Messico (1976), un ruolo determinante è rivestito dall’acqua : nel primo essa si ritrova nell’ampia vasca per i cavalli che fronteggia la scuderia , intorno a cui ruota un labirinto di muri e portici coloratissimo; nel secondo caso, l’effetto di intenso spaesamento prodotto dall’acqua, è determinato dal digradare, nel cuore della casa, del pavimento in una piscina animata da accostamenti cromatici illuminati da una suggestiva apertura zenitale. Ancora sospesi in una dimensione al tempo medesimo metafisica e

terrena sono gli interventi di “urbanizzazione” che Barragan compie nelle aree naturali di Las Arbodelas e di Los Clubes : ancora una volta egli impiega segni di delimitazione o connessione come il Muro Rosso, la Fontata del Campanile, la Fontana dell’Abbeveratoio e la Fontana degli Amanti. L’obiettivo è quello di offrire un “commento” al cielo e agli alberi che li circondano, ma anche un “apparecchio di misura del tempo” che, soprattutto attraverso i riflessi d’acqua, scandisce il lento scorrere delle ore e delle stagioni. Esattamente la stessa connotazione di meridiana possiede la Piazza delle

Torri che fa da ingresso alla Ciudad Satélite, e da isola spartitraffico di una autostrada alla periferia di Città del Messico; la Piazza è composta da cinque torri piene in cemento a sezione triangolare, di altezze variabili, che si fanno portatrici della celebrazione del

silenzio . L’architettura di Barragan aspira all’assoluto, combinandosi però nella relatività delle cose umane, la loro fragilità . Precisamente, in questa prospettiva, la nostalgia, come forma di attesa, è coscienza del passato elevata però a potenza poetica.

Capitolo settimo

La generazione degli eredi Il trasferimento di Mies van der Rohe negli Stati Uniti , nel 1938, e gli edifici da lui realizzati nel nuovo continente negli anni successivi esercitano un’influenza sulla cultura architettonica americana di dimensioni difficilmente calcolabili. Tali opere, insieme alle numerose case californiane di Neutra , sono alla base del programma di edificazione residenziale promosso nel 1945 da John 15

Entenza .

L’obiettivo, denominato Case Study Houses (CSH), sta nell’auspicio di ottenere un “good housing” rimodellando in positivo parte dei modi di vivere e pensare dell’uomo americano. I mezzi impiegati sono materiali innovativi e tecniche di prefabbricazione che consentono di mettere in opera rapidamente e a costi contenuti spazi flessibili e

confortevoli . Il programma di Entenza permette la realizzazione di una ventina di case , tutte in California, attraverso la collaborazione di Richard Neutra, Charles

Eames, Eero Saarinen, Raphael Soriano, Craig Ellwood e Pierre Koenig. In particolare la CSH n. 22 , di quest’ultimo, dotata di terrazza con piscina affacciata sulla piana di Los Angeles, rende la perfetta immagine della moderna residenza californiana. Nel caso di Craig

Ellwood , questa esperienza segna l’avvio di un’intensa attività

progettuale che culmina con l’elaborazione della tipologia dell’edificio

“a ponte” , concretizzata nell’Art Center College of Design di Pasadena (1970-76). Sulla scia della Farnsworth House, si muovono infatti palesemente tutte la case unifamiliari di Ellwood degli anni sessanta, così come l’Art College sarà successivamente debitore della Crown Hall. Tra i dettami del CSH e il rigore assoluto con cui Mies interpreta schemi analoghi, sono alla base della case n.8 e n.9 di

Charles Eames e Eero

Saarinen , entrambi allievi del grande architetto finlandese Eliel Saarinen. L’improvviso “cambio di rotta” nella configurazione del suo progetto, porta

Eames a optare per una struttura portante denunciata in facciata, alternata a file di vetri basculanti e a pannelli di cartongesso di diverse misure e svariati colori, che danno luogo a un patchwork paragonabile a una “capanna rustica” dell’età della

macchina . Nela Entenza House, al contrario, Saarinen costruisce un tempo stesso

cartesiano e fluente. Due personalità a questo punto si contraddistinguono: la propensione per Eames a trasformare ogni cosa in disegno industriale, compresa l’architettura, e la propensione di Saarinen a trasformare ogni cosa in architettura, compreso il disegno. Quest’ultimo, alla morte del padre Eliel, eredita alcuni tra i maggiori

committenti del mondo, tra i quali la General Motors . A una prima ipotesi di master plan che rivela ancora qualche incertezza, fa seguito una versione più rigorosa: gli edifici, disposti intorno ad un lago artificiale, sono trattati con la medesima combinazione di travi d’acciaio a vista e tamponature di mattoni (Mies). Uniche eccezioni sono la torre dell’acqua e l’auditorium, formati da corpi curvilinei rivesti di un materiale metallico lucente.

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Nel Massachusetts Institute of Technology , a Cambridge, realizza il

Kresge Auditorium (1950-55), interessante ibridazione tra un anonimo contenitore curtain wall e una forma plastica , coperta da una vela triangolare in cemento. La contigua Cappella del MIT si presenta invece come uno spoglio cilindro di mattoni, rischiarato da un unico oculo aperto verso il cielo , in prossimità dell’altare, sopra il quale galleggia un’opera di Bertoia, fatta di schegge di luce corporizzata. Reciso ormai ogni legame con radici acquisite, parte il progetto per il Terminal TWA , dove uno spazio fluido , multidirezionale, è delimitato da un guscio continuo di materia cementizia, le cui pareti sono sottoposte a curvature e torsioni, e le cui aperture hanno l’aspetto di cavità naturali. Un’architettura zoomorfa , primo esemplare di una specie che al principio del XIX secolo, conoscerà una proliferazione incontrollata. Nel difficile tentativo di “semplificazione” architettonica a gesto sintetico , consiste probabilmente l’aspetto più significativo dell’opera di Saarinen, nel tentativo inoltre di riscattare l’architettura da un destino esclusivamente

commerciale . Anche il Sud America subisce l’influenza dell’architettura moderna europea. In particolar modo le attività di Le Corbusier, lo portano a diffondere i principi della Ville

Radieuse attraverso i piani per San Paolo, Rio de Janeiro, Montevideo e Buenos Aires. Proprio in tale occasione entra in contatto con Lucio collaboratore Oscar

Costa , e con il suo

Niemeyer . I due infatti, dopo aver ricevuto l’incarico di

progettare la sede del Ministero dell’Educazione e della Sanità a Rio de Janeiro (1936-43), decidono di rivolgersi a Le Corbusier per una consulenza. Nasce così la prima

architettura moderna brasiliana , issata su alti pilotis, scandita in facciata da un fitto brise-soleil e conclusa, al di sopra della copertura piana, da volumi puri curvilinei. Sempre Le Corbusier però, indirizza i due architetti sull’utilizzo di elementi tradizionali, come i rivestimenti di ceramica decorata e colorata di blu, chiamati gli azulejo , fornendo ad essi, in tal modo, la possibilità di caratterizzare le loro opere dotandole di “senso

nazionale” . Su questi presupposti Niemeyer intraprende la sua carriera, che vede, tra l’altro, la realizzazione della nuova capitale, Brasilia , e innumerevoli edifici. In particolare l’elemento della pensilina , congiunzione di scheletrica verticalità dei pilotis con la flessuosità delle tettoia, incarna la sensuale architettura di Niemeyer, perfettamente in sintonia col clima e l’indole brasiliana . Nella Cappella di San Francesco la sensualità delle forme diviene l’elemento dominante: scomparsa l’ossatura verticale, cinque volte paraboliche autoportanti generano una fusione di volumi che sembrano riprodurre i paesaggi naturali del

Brasile . 17

Calotte, tende, coppe, iperboloidi, tronchi di cono, archi parabolici, tutti rigorosamente bianchi, costituiscono gli esemplari di un ricco campionario di soluzioni

escogitate da Niemeyer, il cui obiettivo rimane comunque quello del giungere ad una sintesi formale , che cerchi di rappresentare l’essenza dell’edificio . L’architetto brasiliano dunque individua proprio nella bellezza una “funzione” tra le più importanti in architettura. Il manifesto della prima parte del suo lavoro è rappresentato dalla Casa Canoas a Rio

de Janeiro (1953-54), costruita per se stesso. Disposta su due livelli, la casa utilizza elementi rigorosamente appartenenti al vocabolario moderno , ma trattati e fatti interagire in modi inusuali . I pilotis in metallo distribuiti senza ordine apparente, la copertura piana dal contorno curvilineo e le pareti vetrate, anch’esse morbidamente incurvate: una nuova totalità derivante dalla totale fusione con la natura , che vi penetra sotto forma di luce, acqua, piante e rocce. La ricerca di forme libere conosce un’applicazione a grande scala a Brasilia , pianificata sulla base del Piano Pilota (1956-57) di Lucio Costa: un uccello (o un aereo) ad ali spiegate. Nella progettazione di numerosi edifici ministeriali e residenziali NIemeyer adotta una soluzione standard ripetuta serialmente , secondo uno schema fedele ai dettami della Ville Radieuse. Tuttavia alcuni palazzi del potere e architetture di rappresentanza di Brasilia stabiliscono tra loro un rapporto comparabile con quello istituito dagli edifici di Le Corbusier a Chandigarh . La differenza sta nel fatto che Niemeyer stringe tra queste architetture un legame di parentela, attraverso l’impiego di pilastri simili, in modo da realizzare una composizione di variazioni

sul tema , piuttosto che una serie di eccezioni lecorbuseriane. Nelle sedi del Ministero della Giustizia e degli e Esteri , cui si va ad aggiungere qualche anno più tardi l’edificio per uffici della Mondadori a Segrate , il leitmotiv è una possente cornice di cemento armato lasciato a vista, retta da un ordine giganti di pilastri e scandita da archi. Questi ultimi, pur evocando palesemente l’architettura romana , non sono riconducibili ad un semplice citazione storica. Nel Ministero degli Esteri paiono finalizzati a un effetto estetico , in relazione al fatto che i due elementi che compongono l’edificio (scatola di vetro e cornice di archi) sono strutturalmente indipendenti. Nel Palazzo Mondadori , infine, la sospensione del blocco vetrato degli uffici all’intelaiatura cementizia mediante cavi travi d’acciaio segna il raggiungimento della perfetta coincidenza di forma e struttura . Ma Brasilia è fatta anche di irripetibili singolarità: la sede del Congresso

Nazionale (1958-60): due forme immacolate, geometricamente opposte, dove la calotta contiene l’aula del Senato, mentre la coppa la Camera dei Deputati. Alle loro spalle due lastre verticali affiancate accolgono gli uffici amministrativi; ciò che ispirano è un

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senso di profondo straniamento , al pari di una base di atterraggio per dischi volanti, o della stazione sacrificale di un’antichissima civiltà del passato. Prorompente e area “eruzione” è l’immagine della Cattedrale Metropolitana (1959-70), un vastissimo spazio a pianta circolare avvolto da un “tessuto” vetrato sorretto da un fascio di pilastri ricurvi che verso la sommità si riuniscono evocando la corona

della passione di Cristo . L’accesso alla Cattedrale avviene attraverso un cunicolo sotterrane che consente di non infrangere la sottile cortina vetrata e di penetrare nell’immenso tendone invaso di luce . Qui Niemeyer da corpo a un gesto

spirituale e allegorico , che si connota ala tempo stesso in senso moderno e barocco. I progetti e le opere da lui realizzati negli ultimi dieci anni, costituiscono semplicemente in una riflessione ad alta voce del significato di un’architettura che è chiamata a dimostrare nient’altro che se stessa.

Capitolo ottavo

L’utopia del futuro La seria utopia della tecnica è riconvertita in utopia ludica , senza registrare perdite di contenuti. Chi raccoglie queste sollecitazioni è un gruppo di giovani inglese riuniti sotto la denominazione di “Archigram ”, dal titolo del loro magazine (1961); l’incontro con il suffisso “gramma” pone l’accento sull’urgenza comunicativa

dell’architettura . Le influenze della cultura beat e dei modi e linguaggi dell’angry generation anglossassone sono evidenti nella rivista. I richiami al funzionalismo non implica una passiva accettazione dell’International Style: quest’ultimo risulta anzi abissalmente distante in Archigram, in cui invece convergono in modo disordinato ma preciso risonanze futuriste, espressioniste, fantascientifiche, fumettistiche, psichedeliche, pop art e altro ancora, che costituiscono la saldatura tra

concezioni a scala urbana e industrial design . Molti di questi temi compaiono nella mostra “Living City” del 1963: progetti come City

Interchange o Plug-in City , non soltanto sono concepiti a una scala superiore e sono privi di localizzazione, ma con grande evidenza sono il prodotto di un’esaltazione tecnologica che tende a risolversi in una serie di immagini suggestive . Nel primo caso si tratta di una rete di trasporti interconnessi e multimodale; nel secondo di un reticolato infrastrutturale entro il quale sono inseriti unità abitative, edifici pubblici, uffici, 19

garage-silos, piazze sospese, ciascuno dei quali possiede tempi di “deterioramento” programmato.

Architettura come “evento”, da consumare e da “gettare” dopo l’uso; ciò che è più importante è l’allacciarsi e il connettersi (plug in) di tutte le parti tra loro (network). Non a caso suo immediato sviluppo è Computer City (1964), dove il tessuto metropolitano si riduce a un ingigantito circuito stampato fatto di edifici-transistor.

Sulla trasformabilità e sulla mobilità permanente della città si basa Walking City , costituita da enormi astronavi poggianti su gambe telescopiche; la “città che cammina” è adattabile a ogni possibile environment. A partire dal 1968 Archigram sviluppa Instant City , la cui “esperienza” è potenzialmente estesa a ogni luogo mediante il trasporto su camion o con dirigibili, sotto forma di scenografico “circo totale”. Ciò che ne deriva è una sorta di “accampamento” temporaneo , un Fun Place portatile; Instant City si configura così come un kit pronto all’uso per una fruizione intensiva di una “cultura dello

spettacolo” (immensa accumulazione di spettacoli). Il superamento del funzionalismo , anche quando si manifesta in modo equivoco sotto forma di sua irrisione o trasgressione (esempio di Archigram), non si libera mai davvero dalle leggi dell’economia politica del segno : questi progetti presuppongono, in realtà, l’avvento della funzionalità come legge morale universale dell’oggetto, e l’avvento di questo stesso oggetto come separato, autonomo, costretto alla trasparenza della funzione (tutto ciò che vuole presentarsi come marginale, anti-design, ubbidisce comunque alla stessa economia del segno, tutto è design). I rapporti di Koolhaas con i componenti di Archigram sono problematici, mentre è chiara l’influenza ispiratrice dell’architettura radicale italiana, che pure deve molto al gruppo britannico. Il luogo in cui questo movimento radicale si manifesta per la prima volta è la mostra “Superarchitettura” del 1966, dove si vedono esposte realizzazioni dei gruppi

Archizoom e Superstudio . I linguaggi della pubblicità, della mercificazione, del consumismo sono riutilizzati in modo caricaturale , per farne la critica. Visti con occhi italiani, i presupposti neoavanguardistici anglosassoni, assumono una connotazione politica , e l’aspetto distruttivo domina su quello costruttivo. Superstudio e Archizoom negli anni seguenti giungono a focalizzare una strategia di intensificazione e accelerazione dei processi in atto .

In Monumento Continuo (1969) attraverso uno straniamento visivo compiuto con l’inserimento di elementi “alieni”, l’intento è quello di fare una critica all’ideologia del Movimento Moderno.

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Superstudio prende le mosse per un paradossale tentativo di rifondazione dell’architettura con gli Istogrammi di architettura (1969-71), basati su una fitta griglia quadrata , risolve ogni problema formale dissolvendolo. Archizoom aspira invece a liberarsi dell’architettura. In No -Stop City (1970-72) lo spazio continuo, ripetitivo, modulare, genera una città senza architettura. Agli anni della contestazione politica e della “controcultura” fa seguito un generalizzato riflusso segnato dal ripiegamento su obiettivi più concreti e calcolati.

La fine dell’utopia del futuro è l’ini zio della mercificazione del presente .

Capitolo nono

L’architettura interrotta Alla mostra internazionale intitolata “Roma interrotta” (1978), gli organizzatori sollecitano i dodici architetti invitati a rimeditare ciascuno un settore dalla famosa pianta di Roma del 1748 di Nolli. Tra le altre proposte, quella di

Stirling

suggerisce di disporre

un considerevole numero di edifici da lui stesso realizzati. A differenza dei suoi predecessori (che definisce MAF Megalomane Architetto Frustrato), però egli inserisce i

suoi progetti nel tessuto urbano facendoli interagire con esso ; qualcosa di più prossimo alla Città analoga (1976) di Aldo Rossi. Proprio la tecnica del collage costituisce il trait-d’union tra i vari edifici che egli realizza durante la sua professione.

Il collage è un metodo che trae la propria virtù dalla propria ironia e permette di affrontare l’utopia come immagine, di accettarla in frammenti anziché in toto. La questione del contesto risulta, in tale ottica, un nodo problematico: l’architettura di Stirling esprime la propria autonomia rispetto a esso. Anziché ignorarlo o limitarsi a “rifletterlo”, esse cerca piuttosto di porsi come punto di riferimento per il

contesto . La molteplicità, come atto di mettere insieme i pezzi senza necessariamente ricostruire un intero, si rivela un tema determinante per la comprensione delle opere stirlinghiane. Stirling si cimenta così nel recupero di spezzoni di linguaggio moderno,

liberati però dalle loro implicazioni originarie ; i frammenti linguistici così accostati producono un paradossale collage fatto di dissonanze che trovano modo e ragione per comporsi per la prima volta in questa maniera.

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Soprattutto con i Laboratori della Facoltà di ingegneria dell’Università

di Leicester (1959-63), con la Facoltà di storia, a Cambridge (1964-67), e con il Florey Building del Queen’s College a Oxford (1966-71), Stirling assembla complesse “macchine edilizie” per destinazioni universitarie che giustappongono soluzioni e materiali di provenienze culturali e temporali diverse (mattoni rossi a vista e ampie pareti vetrate). A Leicester a tutto ciò si addizionano le gru poste in cima alle torri, adibite alla pulizia delle vetrate, e la scala a chiocciola racchiusa in un cilindro di vetro trasparente, ingresso rapido alla sala grande delle conferenze, oltre a vari dettagli navali. L’operazione compiuta da Stirling cura, inoltre, l’aspetto sostanziale degli edifici; lo sforzo dell’architetto di Glasgow è quello di far corrispondere i frammenti ai

molteplici usi cui essi possono essere destinati , definiti quest’ultimi dalle modalità secondo le quali ogni funzione si articola (organizzazione e distribuzione interna). Nella facoltà di storia di Cambridge , il grande lucernario che riveste la sala di lettura della biblioteca, può essere letto come la scenografica e drammatica evocazione del frantumarsi di una superficie vetrata, Tafuri la definisce come

“cristallizzata nel momento del suo crollo”. “Il funzionalismo non è abbastanza. L’edificio deve essere anche espressivo. Bisogna guardarlo e riconoscere le varie parti che lo compongono, diversi luoghi dove le persone fanno cose differenti. Nel Florey Building di Oxford l’idea di partenza coincide con un topos modernista: una stecca vetrata, che però Stirling spezza mediante una quadruplice piegatura longitudinale, attorno al centro dove si trova la mensa degli studenti; la medesima piegatura è impressa anche verticalmente. Ciò che ne deriva è un edificio ad anfiteatro pluriangolato , la cui ragion d’essere si ritrova nel dare senso alla comunità studentesca . Inoltre, come già a Leicester e a Cambridge, volti qualitativamente opposti vengono fatti convivere: quello “aperto”, interamente vetrato, verso l’interno, e quello “chiuso”, rivestito di mattoni rossi, verso l’esterno. Il progetto per la sede del Centro di calcolo Siemens a Monaco di Baviera (1969) segna un significativo punto di svolta. L’ingresso nel suo studio del giovane

Leon Krier in qualità di disegnatore sembra avervi un ruolo determinante: ne risente infatti non soltanto il tratto grafico, ma anche l’inedito “senso dell’ordine” che comincia a circolare nei progetti di Stirling . Nella sua proposta, cinque coppie di volumi cilindrici (uffici) sono allineate lungo un asse fiancheggiato su entrambi i lati da portici. Un vero e proprio dialogo con le preesistenze si apre con il progetto per il Centro

civico di Derby (1970). Esplicito infatti è il riferimento alla tradizione dei passages e delle arcades, che culmina nella citazione della copertura a botte delle gallerie commerciali. La forma canonica tuttavia è alterata facendola incurvare a ferro di cavallo. In corrispondenza del centro Stirling progetta di collocare, inclinata di 45 gradi, la facciata dell’Assembly Hall, unica parte scampata a un incendio di uno storico edificio di Derby 22

risalente al XVIII secolo. La tecnica è nuovamente quella del collage o del montaggio: dove però i frammenti prodotti ex novo sono mescolati ai frammenti

storici originali . Ma non è la loro provenienza che conta: piuttosto la loro disponibilità a partecipare al medesimo gioco . Non è un caso che negli anni seguenti Stirling progetti e realizzi in prevalenza musei. L’idea di centro vuoto è quella intorno a cui ruota l’intero progetto per l’ampliamento della Staatsgalerie di Stoccarda (1977-84). Elevato su un poderoso basamento disposto parallelamente a una grande via di scorrimento, il museo si offre alla vista come un susseguirsi di rampe e terrazze su cui sono poggiati alcuni volumi di disparate forme geometriche, unificati da un identico rivestimento di pietra. Ascendendo le rampe si accede subito alla galleria oppure, seguendo una promenade

esterna , ci si addentra in volumi e terrazze a differenti altezze, sottolineando in tal modo la sua spiccata connotazione urbana nell’offrire un tale eterogeneo paesaggio ironico (recupero di volumi “nobili” e impiego della pietra per conferirli antichità). Ancora una volta, l’architettura di Stirling si risolve come un montaggio di pezzi . Risultano altresì presenti grossi blocchi di pietra sparpagliati alla rinfu sa sul terreno ; l’ipotesi di incuria è da escludersi, piuttosto alla condizione di rovina che l’architetto allude. Il fatto che tali blocchi (riferimento all’architettura classica), possano cadere senza che la struttura ne risenti, dimostra come inesorabilmente la pietra sia diventata un

materiale unicamente di rivestimento.

Capitolo dodicesimo

L’autonomia dell’architettura Presentato nel 1969 al MoMA di New York , il lavoro dei Five

Architects

suscita immediate reazioni; scartata l’ipotesi che costituiscano un gruppo, visti i differenti risultati, rimane la ripresa dei linguaggi puristi europei d’anteguerra a fare da

denominatore comune. Tale operazione si svolge però nell’artificioso tentativo di svuotare la sintassi modernista, da tutte le sue componenti ideologiche. Per Michael

Graves, Charles Gwathmey e Richard

Meier , tale riesumazione va letta in chiave strettamente professionale, come brillante soluzione da offrire alla committenza.

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Nel caso del primo , una più spiccata vena sperimentale lo porta a elaborare complesse variazioni sul tema del purismo lecorbuseriano : il gioco compositivo consiste nell’articolare intricate volumetrie in cui pilotis, fenetres en longueur, promenades architecturales sono infatti oggetto di rivisitazioni estetizzanti . Tuttavia, dietro questo apparente rigore delle forme puriste, manca del tutto una “volontà di

sistema”. Ancora più scoperta la vena professionalistica di Charles Gwathmey , che mette in mostra un utilizzo corretto e sin troppo “gradevole” del vocabolario

geometrico moderno . La medesima padronanza della forma, associata però a un maggior rigore e coerenza, caratterizza l’opera di Meier . Una serie di case sono le prime prove di un’ambizione a un nuovo classicismo, partendo sempre dall’eredità di Le Corbusier . L’effetto di dejà tuttavia, ne costituisce il limite ma anche il punto di forza; sulla stessa linea si colloca la rinuncia di Meier a ogni altro colore che non sia il bianco . Ben diversi problemi pone l’opera dei due restanti Five . Ciò che per entrambi assume una primaria importanza è il concetto di autonomia dell’architettura . Ma ancora una volta, nettamente distinti appaiono le finalità e i mezzi con cui i due la perseguono. Per John

Hejduk il lavoro dell’architetto consiste nel mantenere quanto più alto

possibile alto il livello di astrazione verso la realtà . Nella House 10 (1966), dall’operazione di scomposizione e assemblaggio cui sottopone lo spazio, quest’ultimo esce costretto da vincoli che rendono l’abitare paradossale o impossibile (percorso lunghissimo collega e divide le stanze poste alle estremità). Victory Boogie-Woogie di Piet Mondrian è il punto di partenza per la Diamond House (1967-68), impostata sulla relazione tra il rombo e la sua diagonale: il quadro si fa architettura. Pablo Picasso e il Le Corbusier pittore sono invece le fonti d’ispirazione per la Wall

House (1971-72) e la Bye House (1973): qui le tenui tinte che connotano ogni parte dell’edificio forniscono la conferma della direzione intrapresa da Hejduk. Rompendo i limiti dell’oggettività e fissità tradizionali, gli edifici diventano così personaggi . La separazione della forma architettonica dalla dimensione esperienziale umana è invece centrale per Peter

Eisenman ; egli affronta una rilettura

dell’intera architettura moderna sulla base di un’analisi formale . In particolare , grande importanza assume per Eisenman l’analisi dell’architettura di Terragni. Ed è appunto attraverso l’analisi della Casa del Fascio di Como e di Casa Giuliani-Frigerio che egli giunge alla nozione di “testo critico” come centro focale del discorso formale. In parallelo al riconoscimento dell’autonomia del linguaggio compositivo in Terragni, Eisenman si misura con l’ideazione di un’architettura come “gioco di segni”

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perfettamente tautologico , interamente astraibile dalle consuete nozioni di tempo, contesto, funzione. Il ciclo eisemaniano delle Houses I-X , tra il 1967 e il 1976, è frutto di un’ars combinatoria di elementi semplici e lineari, che arriva a toccare livelli di grande complessità. Si tratta di un’architettura che parla di se stessa, concettuale, che

non rinuncia a priori alla sua realizzazione . Nella House II, un cubo è suddiviso in 9 cubi, a loro volta frazionati, generando un’intenzionale ridondanza di pilastri e cornici, la cui funzione è quella di significare la propria mancanza di funzione. Nella House IV , il tentativo perseguito è quello di concatenare tra loro le progressive variazioni in modo tale che la casa arrivi ad “autoprogettarsi” . Nella House X la struttura è concepita come accostamento di quattro cubi , di diversi materiali e colori, che negano l’esistenza di un centro e danno luogo allo stesso momento a una decomposizione dell’edificio. Un oggetto praticamente

impossibile , sottolineato dal fatto che si tratta di un’illusione ottica, percepibile corretta da un solo punto di vista prospettico. Quello di Eisenman è un processo di corrosione, di esaurimento, non di purificazione. Il rapporto con l’Italia risulterà decisivo nel successivo orientamento della sua ricerca. Sotto l’influsso di Rossi e Tafuri , Eisenman comincia ad ampliare gli “orizzonti” della sua architettura, facendola interagire con il luogo in cui sorge e con l’ambito storico in cui è situato. E tuttavia non certo per far emergere presunte continuità, piuttosto per inserirvi dei vuoti , come i progetti futuri testimonieranno.

Capitolo tredicesimo

Le ragioni della forma A partire dal concetto di “architettura autonoma”,

Aldo Rossi elabora l’idea di

autonomia dell’architettura . Essa riguarda specificatamente la sfera disciplinare , e il suo contributo nella costruzione della città. Autonomia non come libertà dell’architettura da ogni vincolo, ma “liberazione della città dall’architettura” (egli vede nei rapporti urbani tra i diversi edifici un fondamento del significato di architettura).

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Nel radicare la propria opera all’interno di una tradizione storica , la

memoria del classico , e quindi il suo recupero, nelle forme primarie, nei volumi puri, nel ritmo di pieni e vuoti, sarà il presupposto per l’architettura di Rossi. L’elementarità appartiene dunque tanto a ciò che precede ogni esperienza, quanto a ciò ch’è stato lentamente conformato, “levigato” dall’uso .

Il luogo è il terreno di sedimentazione della memoria collettiva, là dove agiscono le permanenze e dove si materializzano i monumenti. Questi elementi compongono la “teoria dei fatti urbani” che è al centro de libro L’architettura della città. In base a tale teoria, il fatto urbano è quel manufatto

concreto sul quale la città si struttura , il punto d’incontro di vita individuale e collettiva ; la forma, e non la funzione, ne costituisce l’elemento reale di continuità e importanza. Nelle sue prime opere il ricorso alla geometria elementare è palesemente teso a dimostrare l’importanza della memoria al processo di formazione di un’architettura

intesa come monumento . Proprio le fonti a cui Rossi si riferisce rivelano però l’assoluta soggettività di tale memoria ( a volte sono immagini autobiografiche ). Alla Biennale di Venezia del 1976 Rossi presenta un grande collage dal titolo La città analoga ; essa non finge un’impossibile “città ideale”, quanto piuttosto cerca di tracciare una fra le possibili stratigrafie della memoria . L’effetto di sospensione che generano gli interventi in tre scuole, si ritrova anche nel silenzio e nella fermezza che contraddistinguono l’Unità abitativa al Quartiere Gallaratese di Carlo Aymonino. Se il Cimitero di Modena esprime per lui “la liquidazione della giovinezza e dell’interesse per la morte”, il progetto per la Casa dello studente di Chieti (1976) si fonda ancora una volta sulla memoria : le case-capanne per studenti, dipinte a tinte sgargianti, sono disposte in lunghe file orizzontali attorno a una corte come fossero cabine da spiaggia (archetipo del progetto) su un litorale marino. È attraverso il disegno però, inteso come realtà parallela, che l’architettura di Rossi mostra lo scarto rispetto ai presupposti della scuola da cui pure deriva, e manifesta la sua poetica fatta di nostalgia, malinconia e senso di perdita . È così che in L’architecture assassinée (1974), polemicamente dedicato a Manfredo Tafuri, agli immutabili oggetti delle periferie milanesi, fissati per la prima volta dai quadri di Sironi, Rossi sovrappone i propri edifici ridotti in frantumi , letteralmente crepati: destino comune delle cose del mondo , e loro destino tragico. Non deve sfuggire però il carattere essenzialmente teatrale di questo come di altri disegni rossiani. Il teatro per Rossi è il mondo della finzione, e solo la finzione

teatrale consente di comprendere la realtà . L’architettura diventa

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così una macchina scenografica , il luogo di innumerevoli ripetizioni della stessa azione, ma ogni volta leggermente variato. Un elementare parallelepipedo di legno sormontato da un tamburo ottagonale con la palla e la bandierina in cima costituisce il Teatro del Mondo (1979), una costruzione provvisoria flottante sull’acqua realizzata per la Biennale di Venezia del 1980. Rossi qui dà vita a un’architettura intrisa di memoria storica che entra in perfetta risonanza con la città di Venezia.

Il vasto riconoscimento internazionale e l’apertura di nuovi orizzonti , all’inizio degli anni ottanta, offrono alle architetture di Rossi nuove prospettive che ne arricchiscono il lessico. Negli edifici residenziali sulla Friedrichstrasse a Berlino (1981-88) egli dà vita a edifici a una prima apparenza spaesati, incapaci di comunicare le proprie regioni. Tuttavia, allo stesso modo dell’albergo e ristorante “Il Palazzo” a Fukuoka ed altre realizzazioni estere, il “demone dell’analogia” è in azione, dove sottili relazioni legano l’opera all’artista, e al mondo fisico che la circonda. Analogia e autobiografia, dunque, ancora una volta. Di certo, la sua aspirazione ora è assai meno quella di creare dei “fatti urbani” che non quella di realizzare set cinematografici di cui e gli stesso è il regista . Nonostante la trasognata “proiezione” filmica, tuttavia, l’architettura rossiana dell’ultimo periodo perde inesorabilmente d’intensità, volgendosi verso un “tardoclassicismo” che è tuttavia rivendicato come punto d’arrivo necessario.

Capitolo quattordicesimo

La narrazione postmoderna Nel 1980 , nell’ambito della I Mostra Internazionale di Architettura alla

Biennale di Venezia , diretta da Paolo Portoghesi , si è inaugurata la Strada Novissima , episodio clou della sezione intitolata La presenza del passato. Venti architetti sono invitati a disegnare ciascuno la facciata di un ipotetico edificio posto lungo un altrettanto ipotetica via. Tra essi, Frank O. Gehry, Charles Moore, e Robert Venturi. Quello che ne scaturisce è la perfetta immagine dell’architettura del decennio che in quel momento si stava inaugurando: il gioco sull’esile filo della maschera e

della provvisorietà . Nei rarissimi casi in cui assurge alla scala urbana, l’architettura post-modern si dimostra fallimentare. In realtà è già a partire dagli anni Cinquanta che ha luogo l’”abbandono dell’ortodossia modernista” e il “riciclaggio di forme e sistemi compositivi tradizionali”.

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Il postmoderno, in altre parole, è un’opposizione frontale al moderno , quest’ultimo definito sulla base del mito della ragione; tuttavia all’interno dello stesso movimento moderno, la condizione che si presenta è quella tragica e lacerante di un’impossibilità a superare i propri momenti di crisi. A fronte di tutto ciò, il postmoderno si propone come pluralista e difensore

delle diversità, della frammentarietà, dell’ambiguità e della dispersione . Due mentalità contrapposte ma nello stesso tempo conviventi; difatti si può parlare di condizione postmoderna e non un vero e proprio periodo. A fronte dell’enorme moltiplicazione e specializzazione dei saperi, non si può che ricorrere a giochi linguistici dove regole e soluzioni diverse si alternano e

coesistono liberamente. È su tali basi che nasce Complexity and Contradiction in Architecture (1966) di Robert

Venturi . Da diversi esempi architettonici, sia storici che

moderni, ma anche da contesti urbani “spontanei”, egli intende dimostrare l’inerenza della complessità e della contraddizione, ovvero la presenza in essi di uno schema

inclusivo “e-e ”, piuttosto che uno esclusivo “o-o”. Le basi per il superamento delle parole d’ordine moderne (purezza, semplicità, funzionalità) sono gettate, pur quanto soggettive poi saranno le sue interpretazioni. Ma è soprattutto con Learning from Las Vegas (1972) che Venturi coglie

l’essenza post-modern come manifestazione diretta e reale della cultura contemporanea americana: Las Vegas, la città sorta dal nulla nel deserto del Nevada, la città dei casinò e dei divertimenti, della minima consistenza dell’architettura e

della massima consistenza dei segni , diviene il “testo” su cui misurare ed esercitare una serissima analisi e da cui far discendere una prassi progettuale. Imparare da Las Vegas significa accettare di collocare l’architettura sul piano

su cui si dispongono linguaggi massmediatici contemporanei : vuol dire dunque ricercare la sua ragione d’essere attraverso il consenso più ampio possibile, dipendere quindi dai meccanismi dell’audience. L’ironia , come codice di manifestazione, è quello che trova maggior spazio nell’architettura di Venturi: a partire dalla Guild House a Philadelphia (1960-66), dove l’edificio è reso riconoscibile dalla main street mediante l’apposizione di una scritta

vistosa che ne declina le “generalità”, e segnato dalla colonna sovradimensionata situata proprio davanti all’ingresso e dall’arco-finestra termale che ne chiude la sommità (metafore, per il loro autore, di un palazzo rinascimentale). Il segno con cui Venturi corona la sommità della Guild House è una sorta di antenna

televisiva simbolica : ironico emblema di un edificio destinato a fare da “casa” per anziani . Nella casa per la madre Vanna a Chesnut Hill , Philadelphia (1959-64) i richiami alla tradizione valgono come superamento del moderno: il tetto a falde sezionato nel punto di 28

colmo, il camino che diviene il principale protagonista, le finestre tutte differenti, l’esile architetto di legno sopra la funzione d’ingresso. In tal modo la storia diviene

null’altro che un tra le tante “icone del consumo” di un’epoca che con le proprie leggi regolative impone un costante consumo di icone. E come icona consumata viene offerte la colonna ionica nell’ampliamento dell’Allen Memorial Art Museum a Oberlin, Ohio (1973-77): per Venturi le volute ioniche valgono quanto le orecchie di Mickey Mouse, entrambe star del firmamento nel business d’immagini. Ma è ancora una volta dalla “lezione” di Las Vegas che discende una delle più brillanti intuizioni progettuali di Venturi: la pratica del decorated shed (capannone decorato) che egli contrappone a quella del cosiddetto edificio duck (anatra). Nel primo caso si tratta di applicare simboli ad un edificio di per sé convenzionale: un indifferente parallelepipedo è sovrastato da un enorme cartello che recita “I AM A MONUMENT” (il monumento è il messaggio ). Nel valutare tali progetti va ricordato che il profondo senso di straniamento che a prima vista li caratterizza si accompagna a un altrettanto profonda americanità , e che essi negli Stati Uniti d’America sono collocati nel loro contesto. Il Team Disney Building a Burbank , California (1985-90) di Michael

Graves fa meditare sulla messa in crisi

dei consueti parametri di valutazione dei linguaggi progettuali : se per un verso l’impiego dei sette nani a sostegno di un classico frontone parrebbe una soluzione “volgare”, per un altro, la “correzione” da ordine gigante a ordine nano , visto il contesto , finisce col risultare pertinente se non addirittura brillante . Questi sono gli attributi di un’architettura preoccupata più di “colpire” che non di servire. Il caso del Portland Public Services Building (1979-82) risulta emblematico al riguardo: qui Graves fa tesoro dell’insegnamento raccolto da Venturi a Las Vegas sull’edificio concepito come decorated shed. Il grande cubo massiccio è infatti

tutto risolto nel rivestimento dell e facciate , prive di connessioni apparenti con l’interno: superficiali contrasti, così vanno interpretate le pseudo-lesene giganti scanalate, sormontate da capitelli aggettanti e un frammento di architrave, o le enormi coccarde di due prospetti. Ma che cosa muove allora l’architettura di Graves Forse la furbesca intenzione di

“fare molto rumore per nulla” , e in questo modo di lasciare tutto come prima. Di tutta questa vicenda, Philip

Johnson rappresenta senz’ombra di dubbio la

figura centrale. Postmoderno è il suo attraversare le epoche, le mode,

gli stili, mutando ogni volta per rimanere se stesso. Con lui l’incoerenza si trasforma in una qualità positiva, a partire dalla costruzione della sede dell’ AT&T a 29

New York (1979-84). Con questo edificio il grattacielo torna ad avere una sua identità grazie all’immagine di cui è portatore. Ma per avere efficacia è costretto ad affondare le proprie radici negli archetipi dell’immaginario collettivo americano . Con la sua affettata eleganza, con il suo prezioso rivestimento di granito, l’AT&T si candida al ruolo di taste maker (creatore di gusto) . La “rimessa in scena” della storia se trova una collocazione nelle eternamente “new” towns americane, non hanno però possibilità di risultare credibili allorchè vengano inseriti all’interno di tessuti urbani antichi o storicizzati. L’architettura

postmoderna europea si dedica piuttosto all’esercizio della memoria. Fra gli architetti italiani, Paolo

Portoghesi ha saputo rileggere produttivamente

la grande lezione del Barocco ricavandone suggestioni spaziali , e non solo decorative o formali. A partire da Casa Baldi (1959-61), per arrivare alla Moschea di Roma (1974-95) dove i riferimenti al linguaggio islamico si mescolano a intrecci e annodamenti dei pilastri e degli archi nelle cupole; un effetto che ha la sua origine in Guarino Guarini , ma che finisce col generare un inedito spazio fluttuante . Negli anni seguenti, la sua architettura evolve in direzione di un’esuberanza

formale che nel Teatro Nuovo Politeama a Catanzaro (1988-2002) trova uno dei suoi esiti più felici. Come un novello Borromini, Portoghesi attinge ora dal libro della natura non meno che da quello della storia. Difficile ascrivere tutto questo a un’effimera moda post-modern; piuttosto a una più

complessa teoria che affonda le proprie radici in una cultura composita .

Capitolo quindicesimo

L’architettura della seconda età della macchina Il Centre Georges Pompidou (1971-77) di Richard

Rogers e

Renzo Piano , centro d’arte e cultura, museo, biblioteca, fa della polivalenza la propria arma strategia. Rispetto alla machine à habiter di Le Corbusier, ancora prigioniera del mito della razionalità, la machine à exposer del Pompidou mette in mostra e spettacolarizza

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innanzitutto se stessa. L’intrico di elementi tecnologici si giustifica con le esigenze di un contenitore adeguato ai tempi e alla polivalenza. La “macchina Beaubourg” produce in tal modo un “effetto” derivante dalle

contraddizioni da cui è generata, contraddizioni che essa rimette in circolazione a sua volta. Un interno contratto sui vecchi valori, simulacro di valori culturali, viene fortunatamente demolito in anticipo dall’architettura esterna. Essa infatti, proclama apertamente

che il nostro tempo non sarà mai più quello della durata , che la nostra temporalità e quella del circuito e del transito di fluidi. Questo, il Beaubourg-Museo (interni) vuole nasconderlo, ma il Beaubourg-carcassa (esterno) lo proclama. Ed è ciò che produce, in effetti, la bellezza della carcassa e il fallimento degli spazi

interni. “Ipermercato della cultura”, attraverso di esso si fornisce alla massa “un oggetto da consumare, una cultura da divorare, un edificio da manipolare”: il massimo del suo

successo coincide infatti con la massima trasformazione dei suoi contenuti . La metafora della macchina non cessa di valere con questo; semplicemente si adegua a una nuova logica produttiva: dall’idea di creazione ex novo, di “fabbrica”, si passa a quella di riconversione.

Capitolo sedicesimo

La cerimonia dell’architettura Una sempre più consistente tensione tra spirito della tradizione e modernizzazione agisce in Giappone allorchè, a partire dalla seconda metà dell’Ottocento , esso si apre

ai contatti con l’Occidente . A fronte di una formidabile spinta verso l’industrializzazione , l’architettura del paese inevitabilmente ne risente, rivelando contraddizioni che appaiono ineliminabili . E tuttavia, per converso, proprio la “scoperta” dell’architettura tradizionale giapponese condiziona fortemente la nascita e lo sviluppo dell’architettura moderna occidentale nei primi decenni del XX secolo (Wright). La tendenza all’orizzontalità della costruzione, la ricorrente e cosciente asimmetria dell’impianto, la semplicità lineare delle strutture a telaio, la sottigliezza di travi e pilastri, la continuità tra esterno ed interno, la modularità e la standardizzazione della costruzione. L’arrivo nel 1933 di Bruno Taut in Giappone , porta a una progressiva riscoperta dell’architettura tradizionale da parte degli stessi architetti giapponesi. 31

L’interpretazione che Tange darà di Katsura (Villa imperiale presso Kyoto ) dimostra come in essa convivano due principi contrapposti: quello di ordine spaziale

“yayoi” e quello di spontaneo senso volumetrico “jomon”. La combinazione di questi due principi determina secondo Tange una dialettica fra tradizione e creazione. Nella definizione della sua architettura, un ruolo fondamentale è rivestito dall’opera di Le

Corbusier , in particolare il progetto per il Palazzo dei Soviet (libertà dagli schemi precostituiti ). Con il passare del tempo, tuttavia, l’architettura di Tange si evolve (da un’impostazione yayoi) sempre più in direzione di un’energica espressività, materica e volumetrica, corrispondente al principio jomon . I suoi edifici subiscono inarcamenti o torsioni che in taluni casi producono un violento contrasto con la robustezza delle membrature e dei cornicioni (Tange stringe rapporti con Saarinen ). Rispetto alle opere degli anni cinquanta, quelle del decennio successivo rinunciano dunque ai riferimenti espliciti agli aspetti più colti della tradizione giapponese, senza con ciò eliminarli.

A partire dalla fine degli anni sessanta, l’architettura di Tange perde la sua autonomia per immergersi nella corrente anonima dell’architettura internazionale (spettacolarizzazione del capitalismo mondiale). Uno dei frutti più interessanti del suo lavoro, specialmente in campo teorico, è il tentativo di fusione di architettura e urbanistica . Il progetto del gruppo Tange per l’ampliamento della città di Tokyo , sia basa, per quanto riguarda la parte residenziale, sull’impiego di megastrutture

galleggianti sull’acqua a forma di diga; perpendicolarmente a questo sciame di blocchi abitativi, è collocato l’asse civico. La grande dimensione, coadiuvata dalle nuove tecn ologie , s’impone agli occhi di Tange come una risposta obbligata alle necessità del futuro. Tale orientamento si fonda, non su l’onnipotenza della “ragione calcolante”, bensì su un

processo organico , biologico: l’immagine della quale si serve è quella del ciclo vitale che lega il tronco di un albero alle sue foglie . Il gruppo Metabolism , alimentato dalle intuizioni di Tange, tuttavia prosegue su una strada differente: nessun “organicismo” in senso biomorfico trova comunque spazio nelle visioni metaboliste. I loro progetti adottano nella gran parte dei casi il modello della torre in cemento

alla quale sono agganciate cellule abitative cui viene data la denominazione di “capsule” . La capsula è un’architettura cyborg. L’uomo, la macchina e lo spazio costruiscono un nuovo corpo organico che trascende ogni confronto.

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L’architettura d’ora in avanti assumerà in maniera crescente il carattere di

apparecchiatura .

Isozaki

pone a contatto culture e tempi diversi, in apparenza non conciliabili:

ipertecnologiche strutture “a giunto centrale”, sovrapposte e compenetrate alle rovine monumentali di un tempio greco. Che ciò abbia parecchio a che fare con le distruzioni di Hiroshima e Nagasaki risulta palese; meno prevedibile è la presenza di una vena ironica . È proprio l’ironia, infatti, in quanto forma di disincantato distacco , il medium che rende possibile

ritornare a costruire . La duplice idea di autonomia delle forme e di autonomia dal contesto rappresenta la

“maniera” di Isozaki: nel rimandare esclusivamente a se stessa e nel rifiutare ogni legame col luogo, la sua architettura si propone come possibilità alternativa . Un’onnivora accumulazione di fonti diverse, secondo una modalità di appropriazione e di contaminazione tipica della cultura giapponese contemporanea. Come moltissime altre merci, anche l’architettura in Giappone va soggetta a imitazioni e riproduzioni, come si può verificare in una città come Tokyo, dove esistono repliche più o meno fedeli della Tour Eiffel, della Statua della Libertà. In tutto ciò si nasconde la volontà di dare

consistenza a un vuoto . Vuoto che Isozaki cerca di riempire attraverso i successivi progetti. La “distrazione” dal puramente funzionale e l’introduzione in una dimensione

cerimoniale di forme e materiali originariamente finalizzati ad altri scopi riguarda anche le architetture di Tadao

Ando . Il tema continuamente ripetuto è quello del

volume in cemento armato quasi ermeticamente chiuso . Nessuna “dimora” offrono queste case, nessun ricovero che non somigli spaventosamente a un rifugio atomico . Diverso discorso meritano gli edifici collettivi : in essi la relazione con

l’ambiente si fa determinante; indicatore formale ne sono la frequente commistione della curva e della retta e l’intersezione di promenades architecturales. Nella Chiesa di Ibraki la luce penetra all’interno dalla buia boîte cementizia attraverso una croce incisa nel muro sul retro dell’altare. Per Ando non si tratta di fare “dialogare” architettura e natura, quanto piuttosto di comporre le loro differenze . “ Non credo che l’architettura debba comunicare in maniera eccessiva”.

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La stessa nuda elementarità degli interni , rischiarati esclusivamente da rari tagli di luce, cui si abbina un’espressiva volumetria esterna, caratterizza la White U

House di Tokyo (1975-76), uno dei primi e più significativi lavori di Toyo Ito . La sua ricerca si muove tra sfruttamento delle più avanzate risorse tecnologiche e la loro applicazione ad antichi miti di aggregazione comunitaria: Crystal Ballpark di Seoul (1997). La cupola dell’edificio garantisce il controllo elettronico della luce naturale mediante brise-soleil regolati da computer e aspira a divenire “il Crystal Palace del nuovo secolo”. Nell’opera più riuscita di Ito, la Mediateca di Sendai (1995-2000), la pressochè completa eliminazione dei muri, sostituiti dalla trasparenza del vetro, mette in evidenza la connessione tra tutti i livelli (piani), mediante ritorti pilastri tubolari di diverse dimensioni, ma anche il necessario mantenimento del “vincolo” dei pavimenti, che determina una sconnessione dei piani (diverse illuminazione e arredo).

Capitolo diciassettesimo

L’arte della sottrazione Nel proliferare sempre più copioso di –ismi che caratterizza il panorama della critica d’arte e d’architettura almeno fino agli anni novanta, uno di quelli più fastidiosi è quello di “minimalismo” nella sua versione più superficiale e commerciale.

Nella sua versione più seria , tale è uno specifico movimento artistico nato intorno alla metà degli anni sessanta e sviluppatosi negli anni settanta negli Stati Uniti, le cui opere sono caratterizzate dal massimo prosciugamento delle componenti espressive, al limite del mutismo. Alla minimal art corrispondono una tendenziale riduzione semantica, un impoverimento dei materiali, la ricerca di un’essenzialità da intendersi

anche come aspirazione etica , se non addirittura “ascetica”. È proprio a partire dalla minimal art che il termine “minimalismo” conosce la sua diffusione in ambiti a esso estranei in origine: l’architettura e il design , ma anche la grafica, la musica e il cinema. Non vi è dubbio infatti che quello della “spogliazione” del corpo architettonico sia una pratica che attraversa una parte consistente dell’architettura contemporanea. Forse, piuttosto che classificarne gli effetti, bisognerebbe provare a ricercarne le cause. È nel superamento dell’ideologia dell’abitare ottocentesca che esse vanno cercate; il XIX secolo è stato come nessuno morbosamente legato alla casa. Il XX secolo, di contro, con la sua porosità, la sua trasparenza e la sua inclinazione alla luce e all’aria la fa finita con l’abitare nel vecchio senso della parola. “Costruire a partire dal Poco” in tal 34

modo la “regola” per coloro che, nelle condizioni specifiche dettate dall’epoca, accettano di fare “piazza pulita” Ed è su questa via di pensiero che si farà strada la tendenza all’astrazione , come sembrano evidenziare le prime opere degli svizzeri Jacques

Herzog e

Pierre de Meuron : un processo attrattivo che si combina però con una grande attenzione per la materia . Laddove per l’architettura moderna ortodossa la facciata costituisce un elemento di mediazione, per Herzog e de Meuron tale elemento acquisisce una nuova importanza, connotandosi come “pelle” dell’edificio . Oltre a proteggerne il contenuto, sua peculiarità è di occultare le “ossa” dello scheletro strutturale , ma anche di esporsi come superficie dotata di un’estetica autonoma, indirizzata verso una propria spazialità e non un semplice rivestimento. Con il Deposito Ricola a Laufen , in Svizzera (1986-87), i due architetti rendono la

“pelle” un fatto espressivo dal sapore al tempo stesso odierno e atavico , la cui qualità è tattile . Se da un lato l’accostamento di lastre orizzontali di eternit produce un effetto “vibrante” e compatto nello stesso momento, dall’atro la facciata che guarda la retrostante cava di pietra calcarea la fronteggia in maniera muta, come se fosse una formazione geologica di differente natura. La ricerca quasi ossessiva della “monolicità” espressiva del corpo edilizio sembra interrompersi in due delle opere più felici di Herzog e de Meuron: la Galleria Goetz

a Monaco di Baviera (1989-92) e la Tate Modern di Londra (1995 2000). La prima consiste in un sandwich di piccole dimensioni composto da due strati di vetro traslucido con una “fetta” di cemento nel mezzo: involucro che fa dell’opacità concettuale (l’ostentato rifiuto a farsi attraversare da qualsiasi contenuto) una qualità estetica fondamentale . La seconda consiste invece nella trasformazione in museo d’arte contemporanea nella Bankside Power Station, ormai in disuso. In questo caso il lavoro dei due architetti consiste piuttosto in un “togliere” . In particolare, l’immensa sala delle turbine, destinata alle esposizioni temporanee, viene svuotata e reinterpretata come uno

spazio di libera circolazione ; gli unici elementi architettonici aggiunti sono grandi ed eteree scatole luminose di vetro opalescente. Nel Museo Kolumba a Colonia (1997-2002), nella Cappella di Bruder Klaus a Merchenich (1998-2007), per fare degli esempi, la filosofia progettuale di

Peter Zumthor , pur

nella varietà di forme, è rimasta sempre la stessa. Costante la sua fedeltà alla

concretezza del fatto costruttivo e all’adeguatezza della costruzione al luogo ; costante il suo rifiuto di ogni irrigidimento stilistico. Non è un caso, in tal senso, che negli edifici di Zumthor risuonino echi lontani di lavorazioni locali , benché a ben guardare non vi sia nulla in essi di direttamente 35

riutilizzato o citato. È sempre la materia , comunque, a risultare determinante per le sue architetture: come la Cappella di Sogn Benedetg (1988-89), o le terme di

Vals (1986-96). “Atmosfera” è una parola che spesso ricorre negli scritti di Zumthor: “La magia del reale è per me quell’alchimia che trasforma le sostanze materiali in sensazioni umane”. Per cercare di renderne conto si dovrebbe ricorrere all’enunciazione di

procedure . Illuminante in tal senso è quella adottata per realizzate la già citata Cappella di Bruder Klaus : attraverso una porta triangolare si accede allo scuro spazio interno. Per ottenere la sua forma inflessa sono stati impiegati tronchi d’albero scortecciati e appuntiti, disposti in circolo (come un teepee ) aperto alla sommità. Intorno a questa cassaforma è stato gettato il calcestruzzo, infine l’eliminazione dei tronchi è avvenuta facendoli ardere. Le tracce della combustione sono rimaste impresse sulla superficie, lasciando così una memoria visiva della sua genesi . Come un alchimista del mondo contemporaneo, Zumthor non crea ma

trasforma . Agli antipodi geografici e culturali di Peter Zumthor, la giapponese Kazuyo

Sejima realizza i suoi “piccoli artifici” con pari intensità. Dalle sue opere si evince una tendenza alla leggerezza , che ha luogo nella “smaterializzazione” del corpo

degli edifici : intorno alle strutture portanti, prive di qualsiasi enfasi, Sejima colloca lastre a tutta altezza di vetro, metallo e policarbonato corrugato. Ne sortiscono scatole elementari per la gran parte senza finestre ma avviluppate entro traslucidi involucri . Nonostante l’adozione di materiali tecnologicamente evoluti come i vetri “intelligenti” (variazione trasparenza), o i panneggi di schermatura in pannelli acrilici, l’estetica dell’architettura di Sejima nella sostanza non muta: ed è anzi in direzione di

un’ulteriore elementarizzazione geometrica, ma non per questo regolare e simmetrica , che si muovono le sue ultime opere.

Capitolo diciottesimo

Il disordine del discorso Nel 1988 il MoMA di New York organizza la mostra Deconstructivist

Architecture , curata da Philip Johnson e Mark Wigley. 36

Per quest’ultimo l’architettura decostruttivista non rappresenta soltanto una distorsione formale, quanto piuttosto “un’interrogazione” della forma , compiuta disponendo i volumi puri della tradizione architettonica moderna sul lettino dello

psicoanalista . Lo strumento impiegato per fare ciò deriva dalle modalità del costruttivismo

russo , proseguendo, di quest’ultimo, la ferita aperta decenni prima. Peter Eisenman, Frank O. Gehry, Zaha Hadid, Coop Himmelblau, Rem Koolhaas, Daniel Libeskind e Bernard Tschumi : il senso della decostruzione si impone a partire dalla constatazione dell’impossibilità di interpretare in modo univoco un testo . Nel medesimo testo possono emergere strati di significato molteplici, anche in contraddizione tra loro. Le tradizionali contrapposizioni logiche del discorso (vero/falso) sono

superate a favore dell’investigazione dello spazio intermedio tra le diverse categorie, alla ricerca delle singolarità . I primi contatti espliciti tra decostruzione, e architettura sono stabiliti da Bernard Tschumi e da Peter Eisenman; decostruzione e decostruttivismo, nonostante la differenza di significato, hanno il proprio comun denominatore nel ricorso a una geometria

frastagliata, irregolare, che mette in crisi la coesione e la congruenza dell’edificio . A partire dagli anni ottanta le speculazioni concettuali condotte da

Eisenman nel corso dei vent’anni precedenti sui linguaggi del primo modernismo vengono fatte interagire con altre “griglie” teoriche e materiali. Nel Wexner Center for the Visual Arts , all’interno del campus dell’università di Columbus, Ohio (1983-89), il tridimensionale reticolo metallico connette i vari volumi costruiti, formando una sorta di galleria coperta/aperta, mettendo in luce la sua particolare differenza dalle griglie moderniste . La sconnessione profonda che Eisenman impone alle forme viene ulteriormente evidenziato dalla frammentazione dell’elemento storico del bastione della vecchia armeria. L’evoluzione di questa linea di ricerca , grazie anche ai media digitali, porta Eisenman ad adottare il procedimento del folding : processo di ripiegatura

delle superfici architettoniche . Nella piegatura l’uno diventa molteplice. Il molteplice non è soltanto ciò che ha molte parti, ma ciò che è piegato in molti modi. Ciò che Eisenman propone in sostituzione delle “simulazioni” del classico, la realizzazione di un’architettura come discorso indipendente, libero da valori esterni: un’architettura

non-classica . Un’architettura autogenerata a partire da elementi rintracciati direttamente sul sito . Ma è appunto quest’arbitrarietà ad assurgere a nuovo fondamento: la realtà del disordine si fa così specchio visibile di un ordine soltanto possibile. 37

Il tema dell’assenza riscontrabile nei progetti della fine degli anni settanta, si salda così con il passaggio dal segnico al tattile e al sensibile degli ultimi progetti. È qui che la

decostruzione esplosiva della fase precedente lascia il posto a una decostruzione implosiva , intesa come scavo, come sistema di faglie e di rilievi che cercano di costruire la spontaneità d ella natura. Dal problema dell’irappresentabilità dell’evento storico della Shoah e dalla necessità di tradurlo in esperienza vissuta attraverso lo spazio, nasce anche il Museo Ebraico di

Berlino (1989-99) di Daniel Libeskind . L’interazione tra una linea frastagliata , saettante, e una linea diritta, frammentata in diversi spezzoni, genera una sequenza di spazi destinati all’esposizione, mentre l’illuminazione proviene da feritoie che tagliano in diagonale i muri perimetrali. All’esterno il rivestiment o in lamiere zincate conferisce all’edificio l’aspetto di un lager . Tale approccio risulta ben intonato al carattere intellettualistico con cui è affrontato il soggetto dell’edificio: materializzazione dell’orrore che la coscienza dello sterminio di 6 milioni di ebrei inevitabilmente porta con sé. Ciò che tuttavia pone in una luce sospetta il lavoro di Libeskind è il fatto che nelle opere successive lo

stesso linguaggio possa venire indifferentemente utilizzato per edifici dalle destinazioni tanto disparate . Il dubbio è che tale linguaggio abbia finito col diventare un abile passe-partout capace di fruttare la vittoria di numerosi concorsi. Anche per Bernard

Tschumi , architetto svizzero-francese, l’architettura

ha una spiccata matrice concettuale e letteraria ; egli ipotizza una fondamentale disgiunzione tra forma, spazio, uso, evento e significato . Tra essi non vi è un rapporto di causa-effetto, bensì soltanto una programmatica incertezza, una positiva instabilità. Il suo sforzo diventa così quello di accogliere

nell’ambito dell’architettura il disordine, le collisioni e l’imprevedibile. La traduzione in azione di questi concetti avviene con l’affermazione del progetto di Tschumi nel concorso internazionale per un “parco del XX secolo” alla

Villette, Parigi (1982-97). Il suo programma prevede la sovrapposizione di tre sistemi indipendenti tra loro: i “punti” (padiglioni di forma cubica); le “linee” (sistema di percorsi); le “superfici” (zone di differente utilizzo). Il Parc de la Villette si configura così come un “teatro di eventi”. “Se il mondo attuale impone la dissociazione e distrugge l’unità, l’architettura, inevitabilmente, non può che riflettere questi fenomeni”. Se per Tschumi ha senso parlare di decostruttivismo architettonico è soltanto perché l’architettura intesa come

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evento la comprende dall’interno, e può contribuire a spezzare la presunta saldezza su cui le istituzioni sociali, politiche, economiche e culturali si reggono. Unica donna architetto presente alla mostra del MoMA,

Zaha Hadid , irachena di

nascita ma formatasi all’Architectural Association School di Londra, manifesta il proprio precoce interesse per la lezione delle avanguardie artistiche . Dalla combinazione di prospettive forzate fin oltre i limiti di una percezione corretta, e di proiezioni in cui le linee orizzontali e verticali subiscono un inverosimile

inarcamento , scaturisce la modalità progettuale caratteristica di Hadid: modalità che sembra piuttosto derivare da una rappresentazione artistica bidimensionale, che non essere frutto di una ricerca spaziale pienamente consapevole. La Vitra Fire Station a Weil am Rhein (1990-94) è un tour de force della

diagonale . Zaha Hadid a proposito della stazione dei vigili del fuoco parla di “movimento congelato” . Ed è proprio in direzione di un più marcato dinamismo che si spinge infatti il lavoro dagli anni novanta a oggi. L’immagine dei “flussi” e dei “fluidi” fa ingresso nella sua pratica progettuale e nel suo vocabolario. Lo spazio liscio trova così la sua concreta edificazione nelle gettate di cemento che Hadid utilizza: materia liquida, prima ancora che solida, e dunque materia “liscia” per eccellenza, perfettamente disponibile a lasciarsi colare in qualsiasi forma . La finalità è quella di fornire spazi pubblici potenzialmente in grado di dare piacere, attraverso un aspetto “naturalistico” che privilegi gli effetti di superficie, sacrificando

però l’aspetto concettuale della loro architettura . Nell’architettura di Steven

Holl si ritrovano consistenti frammenti dell’esperienza

delle avanguardie storiche del Novecento, deprivata tuttavia dell’originario rigore e reinterpretata invece in chiave sensoriale . Secondo uno schema ricorrente, egli esordisce con alcuni progetti “concettuali”. Il principio a cui essi si attengono è quello dell’assunzione di tipologie intese però come modelli universali destoricizzati. Emerge tuttavia fin da subito anche il forte radicamento del lavoro di Holl nell’uso di

fattori corporei dell’architettura , quali luce, materia, e colore , il cui risultato porta a promanare sensazioni di freddezza , di mancanza di vita. E in effetti, negli anni novanta Holl sembra avvertire il vuoto culturale che rischia di avvolgere l’opera architettonica allorchè questa sia concepita in senso esclusivamente estetico. A differenza di Eisenman, però, i dispositivi concettuali risultano inesorabilmente più deboli e meno essenziali della stessa architettura.

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Nella Residenza universitaria Simmons Hal al MIT di Cambridge , Massachusetts (1999-2002), i principi evocato sono quelli della porosità e della permeabilità ; la metafora è quella della spugna . Detto altrimenti: soltanto allorchè si fa architettura, la spugna può aspirare a divenirne anche metafora . E ciò non può accadere che a posteriori.

Capitolo diciannovesimo

Il dominio della distorsione Una stagione straordinariamente feconda per quanto riguarda l’espressività delle

strutture caratterizza l’Italia tra gli anni cinquanta e sessanta . Va rilevato a tal proposito che le condizioni generali per la realizzazione di complesse strutture in cemento armato si presentano paradossalmente più favorevoli in paesi come l’Italia appunto, ma anche la Spagna e l’America Latina; ciò è semplicemente spiegato dal fatto che la manodopera di quegli anni risulta a costi decisamente

contenuti. Il più noto e significativo caso italiano d’interazione tra ingegneri strutturali e architetti rimane comunque il Grattacielo Pirelli (1955-59), realizzato da Gio

Ponti e

Pier Luigi Nervi . L’impresa di risultare snello e “leggero”, e addirittura affilato come una

lama , è determinata dalla doppia coppia di pilastri cavi a sezione triangolare posta alle due estremità. Le opere di Pier Luigi Nervi negli anni seguenti coniugano una grande capacità inventiva a una chiarezza espressiva , manifestata dall’utilizzo delle nervature irradiate secondo le linee isostatiche . Allo sviluppo di spettacolari coperture a conchiglia costituite da sottili gusci di calcestruzzo è legata la fame dei maggiori rappresentanti della scuola di ingegneria strutturale spagnola, Eduardo Torroja , in particolare con la tettoia a sbalzo dell’Ippodromo Zarzuela di Madrid (1935).

Santiago Calatrava si propone come erede della tradizione ingegneristica spagnola. In lui, a partire dalla Stazione Stadelhofen di Zurigo (1983-90), l’accento viene posto sulle nervature a comporre uno “scheletro”: immagine da intendere in senso

strettamente biologico. 40

L’evoluzione che ne consegue porta i suoi edifici a rivelare l’aspirazione a divenire sculture . In quanto sculture, possono essere concepiti come oggetti del tutto emancipati da qualsiasi discorso storico (Palau de les Arts, Valencia). Soltanto in poche circostanze la ricerca di Calatrava incrocia un linguaggio

architettonico codificato , e non è certo casuale che si tratti del gotico : le archeggia ture ogivali e le copiose ramificazioni sono da lui impiegate come strumento per un’identificazione collettiva, popolare . Tuttavia quello che le sue architetture affermano attraverso l’espediente retorico del biomorfismo è la mancanza di contraddizioni . Ragioni statiche ed estetiche: il ponte così concepito, come una perfetta unità strutturale e semantica, diviene un macro-oggetto di design , pronto per essere “immerso sul mercato” ed esportato indifferentemente in qualsiasi parte del mondo. Il rapporto con la scultura, la propensione per le forme organiche e dinamiche, l’impiego di curve complesse, sono tutti elementi che rendono potenzialmente assimilabili i lavori di Calatrava e di Frank

Gehry . Al di là di ciò, tuttavia, vi è una sostanziale

incomparabilità. Le prime prove significative di Gehry sono ancora oscillanti tra l’esplorazione

della moderna tradizione losangelina (Neutra, Wright) e il recupero del cosiddetto Spanish Colonial , caratterizzato da muri bianchi coperti di stucco, depurato da ogni elemento decorativo. L’opportunità di utilizzare un’estetica più informale, e l’impiego di materiali poveri, viene offerta a Gehry da committenti appartenenti al mondo dell’arte (anticonformisti). Tra i primi esiti ci è la Casa-studio per l’artista Ron Davis a Malibu (1968-72), caratterizzata da un marcato senso dell’instabilità . Dall’operazione compiuta da Gehry sulla propria casa a Santa Monica tra il

1977 e il ’78, e poi ancora tra il 1991 e il ’94 , traspare una radicale destrutturazione della sua regolarità : pareti di lamiera ondulata e legno compensato, squarciate da finestre disassate; al suo interno aperture di bucature irregolari e pareti letteralmente scorticate; in cucina l’impianto consueto è sostituito da una straniante pavimentazione d’asfalto. Ciò che si verifica in tal modo è un paradossale rovesciamento del dentro fuori , come l’impiego di barriere di rete

metallica rivela uno “sfruttamento dei ruvidi ambienti urbani”: linguaggio da guerriglia. Recuperi di marca più po p sono presenti nella Norton House a Venice (198284), dove, in cima a un pilastro isolato, di fronte al corso principale della casa, si erge uno studiolo di legno che richiama esplicitamente le torrette d’avvistamento dei

guardiaspiaggia (tema del rustico). A Casa Schnabel a Brentwood (1986-89), la frammentazione dell’unità è compiuta operando disassamenti e slittamenti dei volumi , come se una scossa tellurica avesse fatto tremare l’edificio. L’evento di un tale “terremoto architettonico” si 41

addiziona in tal modo alle pratiche già sperimentate da Gehry in precedenza:

l’architettura come scultura, l’architettura come gioco. Opera limite di questa fase dell’architettura gehryiana è la sede amministrativa del Team

Disneyland ad Anaheim (1987-96) con i suoi due volti assolutamente differenti e inconciliabili: quello rivolto verso la cittadella dei divertimenti , caratterizzato da pareti sghembe, dalla consistenza fluida, gommosa, come si conviene a una costruzione appartenente al mondo dei cartoons ; e quello rivolto verso l’esterno, prospiciente una highway a scorrimento veloce, costituito da una

rigida stecca ricoperta di scaglie metalliche, completamente uniforme e regolare, non fosse per l’oggetto posato ai suoi piedi: un pettine . Per quanto in apparente contraddizione tra loro, questi due volti rispondono a tono alle aspettative della ricezione potenziale cui sono destinati : ai visitatori di Disneyland, in architettura di fantasia; ai viaggiatori sull’autostrada, in architettura che cerca di catturare la loro attenzione distratta. A partire dalla seconda metà degli anni ottanta Frank Gehry ha sempre più occasioni per costruire all’estero . Forme quali quelle del pesce e del serpente diventano protagoniste assolute nel Fishdance Restaurant di Kobe, in Giappone: provocazione

incondizionata, completamente priva di motiv azioni e di relazioni . Nel Vitra Museum a Weil-am-Rhein, in Germania, questa si offre sotto forma di meditazione ultima sul purismo modernista , in cui tuttavia solo il candore delle superfici rimane della purezza dei volumi, costretti a inclinazioni, deformazioni, avvitamenti. Un complesso intreccio di serietà e gioco , di finanza e spettacolo , è alla base di due opere che rappresentano il Gehry maturo : la Walt Disney Concert

Hall di Los Angeles (1989-2003) e il Guggenheim Museum di Bilbao (199197). In quest’ultimo si parla di “effetto Bilbao” , un tentativo di catturare il commercio globale, in un ambiente in cui si chiama l’architettura a svolgere un ruolo-chiave nella difficile sfida di riqualificare e rilanciare l’economia della città. Ciò che ne scaturisce è un

museo che mostra se stesso , piuttosto che le opere esposte al suo interno. Nella Walt Disney Concert Hall di Los Angeles è all’opera invece un innaturale processo di scollamento tra carne e pelle ; infatti la grande sala per concerti richiede, per ragioni di acustica, una struttura rigorosamente simmetrica, in totale antitesi con la sua immagine esterna. Ed è proprio sulla palese contraddizione tra condizioni interne e

aspetto esteriore che Gehry sviluppa d’ora in avanti la sua architettura . Ciò è riscontrabile nella Sede degli uffici della NationaleNederlanden a Praga (1992-96), dove un edificio dall’univoca destinazione è artatamente separato in due entità, l’una dal carattere maschile e l’altra femminile (Ginger e Fred) danzanti sul lungofiume. 42

Come nell’Experience Music Project di Seattle (1996-2000) (ispirato a Jimi Hendrix), dall’informale si fa largo la forma, nello spremere la carta si cerca la

figura dell’edificio : mescolanza tra struttura e involucro . Gli edifici conclusi assumono le sembianze di “schizzi”. Nel gesto con cui egli accartoccia la facciata del plastico di un edificio fino a farle assumere l’aspetto desiderato è sintetizzato tutto il percorso compiuto da Gehry:

assimilare l’architettura alla scultura, anche dal punto di vista procedurale . A questo esito estremo egli giunge grazie all’eccezionale organizzazione produttiva del suo studio e all’uso altamente sofisticato del computer da parte del suo staff. Lo “stile” di Gehry si espone d'altronde a molteplici equivoci, ama anche a critiche indebiti, che non tengono conto delle ramificate radici di cui esso è il prodotto, e delle profonde trasformazioni che, piaccia o meno, esso produce.

Capitolo ventesimo

Le strategie della realtà “Inutile piangere su un dato di fatto: l’ideologia si è mutata in realtà, anche se il sogno romantico di intellettuali che si proponevano di guidare il destino dell’universo produttivo è rimasto, logicamente, nella sfera sovrastrutturale dell’utopia”. Così Manfredo Tafuri

diagnostica la fine di ogni illus ione : “il dramma dell’architettura, oggi, obbligata a tornare pura architettura, istanza di forma priva di utopia, nei casi migliori, sublime inutilità”. È piuttosto a partire da un deciso oltrepassamento di una concezione moderna ponendo a proprio fondamento tale crisi, ovvero agendo non “contro” bensì

all’interno di essa , con essa, che si muove quello che può essere considerato all’odierno il massimo interprete in ambito architettonico: l’olandese

Rem

Koolhaas . Una prima considerazione a suo riguardo è che, se mai è possibile individuare un’eredità spirituale tafuriana, proprio Koolhaas sembra averla raccolta: il rifiuto di qualsiasi atteggiamento “nostalgico” nei confronti dei processi di trasformazione in atto, e la capacità di affrontare l’aporeticità del reale , e anzi di operare in seno a esso

mediante lo strumento della contraddizione ; ma con un’importante avvertenza: nell’effettuare le sue analisi, Koolhaas prende le mosse là dove Tafuri si arresta. Il che introduce a una seconda notazione: il punto di vista di Tafuri è

inequivocabilmente moderno, quello di Koolhaas si connota invece come

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inevitabilmente postmoderno, senza però alcuna caratterizzazione

stilistica . In occasione di un’esercitazione scolastica consistente nell’analizzare, ridisegnare e presentare un edificio storico esistente, egli sceglie il muro di Berlino : questo viene preso in esame fotograficamente e interpretato come un “macroggetto” capace di creare un’ampia serie di situazioni sociali e psicologiche , e un’altrettanto variegata gamma di “opportunità” architettoniche e urbane . Agli occhi di Koolhaas questo suggeriva che la bellezza dell’architettura era direttamente proporzionale al suo orrore. L’impiego in positivo delle istanze rinvenute a Berlino trovano compimento nel suo primo progetto, Exodus, or the Voluntary Prisoners of Architecture (1972). Questa volta è il centro di Londra a essere attraversato da un muro , spogliato però della drammatica valenza di delimitazione politico-militare: si tratta invece di una mégastructure trouvée o di un monumento continuo (Superstudio) . Due lunghissimi muri paralleli racchiudono una fascia di territorio urbano suddivisa in dieci

settori quadrati , corrispondenti ad altrettanti “scenari”. Edonismo, lusso e benessere sono i criteri che guidano la loro scelta: un “flusso inarrestabile” (esodo) di cittadini verso l’enclave separata da resto della città da checkpoints trasformati in receptions (prigionieri volontari). Il tentativo di risvegliare interesse nei confronti della città e

dell’architettura . È precisamente in questa chiave che va letta la sua riabilitazione del “fenomeno” grattacielo , e Manhattan quale luogo di sua massima proliferazione. Pubblicato nel 1978, Delirious New York , ambisce a essere “manifesto retroattivo” di una teoria architettonica mai esplicitamente formulata dai costruttori dei grattacieli degli anni venti e trenta, teoria che Koolhaas battezza con il nome di Manhattanismo . Il grattacielo per lui è un “universo autosufficiente” , la cui onnivora tendenza alla totalità è alimentata da un’ampia dotazione di Tecnologia del Fantastico (impiantistica) e ha come vincoli la separazione tra involucro esterno e volumi interni (Lobotomia architettonica ) e la sconnessione tra i diversi piani (Scisma

Verticale ): paradigmi di un’architettura frutto di ben precisi “programmi” . Proprio dalla lezione “programmatica” dei grattacieli newyorkesi, Koolhaas ricava l’importante concetto della “Cultura della congestione”, e lo impiega nei progetti del suo studio, appena aperto: OMA (Office for Metropolitan Architecture).

L’accumulo e la densità che ne deriva costituiscono la condizione metropolitana per eccellenza. Koolhaas, anziché dissolverla (come fa Le Corbusier con la Ville Radieuse), elabora possibili strategie per una sua intensificazione e utilizzazione . Già nell’ironico progetto The City of Captive Globe (1972) aveva trasformato i blocchi regolari della griglia di Manhattan in altrettanti basamenti 44

marmorei predisposti per ospitare alla sommità la paradossale parade rievocativa

dei momenti più o meno noti dell’esperienza moderna . Ma si tratta soltanto di un’anticipazione teorica delle potenzialità della griglia. Il progetto per il Parc de la Villette a Parigi (1982-83) prevede una complessa articolazione di attività da distribuire sulla superficie del parco. La sovrapposizione e l’intreccio dei diversi livelli determina zone estremamente assortite, e al tempo stesso una sorta di svolgimento sul piano dello Scisma Verticale caratteristico del grattacielo. L’idea del catalogo (ovvero di un certo numero di elementi dati, interagenti con la realtà in modo tale da apportarvi modifiche che risultano tanto più felici quanto più sono imprevedibili) costituisce una componente importante della cultura di Koolhaas. “puro

programma e quasi nulla forma” . In una sempre più marcata forma di “cannibalismo architettonico” e teorico in cui arriva a

impossessarsi si temi, tecniche e immagini altrui riadattandoli ai propri fini , Koolhaas elabora il progetto di concorso per la Ville Nouvelle a Melun-Sénart (1987): qui il rapporto figura-sfondo genera la figura astratta di un “ideogramma cinese” , dove la necessaria densità dei pieni si contrappone la conservazione di fasce intrecciate di vuoti . La richiesta del bando d’integrare cinque biblioteche in un unico complesso, e di riservare più di metà dello spazio totale ai depositi , porta Koolhaas a ragionare nuovamente sul tema della sconnessione , estesa però all’intero volume. L’edificio viene così concepito come un cubo per la gran parte occupato dal

pieno dei magazzini, entro i quali si aprono alcuni vuoti isolati occupati dalle sale lettura . Ulteriore livello al quale Koolhaas concepisce la congestione e la bigness è il libro che pubblica nel 1995 con OMA: S, M, L, XL . In senso stretto si tratta di un catalogo delle sue opere, cui si addizionano alcuni testi teorici scritti ne corso del tempo, il tutto ordinato per “taglia” , anziché per data. S, M, L, XL si candida a divenire il punto di riferimento di una modalità completamente nuova e diversa d’intendere la monografia di una architetto. Nella sezione Small compare Villa Dall’Ava a St. Cloud , vicino Parigi (198591). “I clienti volevano un capolavoro”. ”Lui voleva una casa di vetro. Lei voleva

una piscina sul tetto”. La relazione che la casa intrattiene con la Ville Savoye di Le Corbusier attesta infatti l’effettiva aspirazione a prendere le mosse da un capolavoro per produrre un

capolavoro , nella volontà di rappresentare una “seconda chance” per l’architettura moderna : la cui logica interna è ridotta in frantumi , sostituita da giunzioni impreviste, da un’estetica apparentemente “precaria”. Il linguaggio moderno può sopravvivere esclusivamente nella contraddizione , pena la perdita 45

dalla propria coerenza. Si spiega così la pratica surrealista del cadavre exquis (montaggio di parti completamente diverse) su cui è costruita la casa . La stessa sensazione di squilibrio, con i piani inclinati e precorsi

disassati , promana dalla Kunsthal di Rotterdam (1987-92). Impostato su una regolare pianta quadrata, l’edificio risolve la coesistenza di tre sale espositive, un auditorium e un ristorante mediante un intelligente montaggio intorno a una rampa elicoidale pedonale che attraversa l’edificio: ne deriva un’apparecchiatura

spaziale complessa , che pur partendo dalla Nationalgalerie di Berlino di Mies , sembra volersi affrancare dal rigore modernista senza sfociare tuttavia in una “libertà” priva di vincoli. Ancora una volta, la forma pare definirsi in base al programma. Il Koolhaas degli anni novanta con sempre maggior frequenza affronta problemi costruttivi e questioni spaziali , abbandonando progressivamente un approccio concettuale-metaforico all’architettura. Egli la spoglia su una scala più ampia, come predizione di fenomeni di trasformazione urbana o come un’interpretazione sociologica di mutazioni antropologiche (Junkspace). In Villa Lemoîne a Floriac , Bordeaux (1994-98), la struttura staccata dal terreno della miesiana Farnsworth House e il plan libre lecorbuseriano sono i

topoi con cui essa di confronta. Ciò sortisce il doppio tour de prestidigitation della sospensione di un blocco cavo di cemento armato al di sopra di una scatola di vetro , e della trasformazione in uno spazio continuo in senso verticale , grazie alla piattaforma mossa da un pistone idraulico che connette i tre livelli della casa, resa necessaria dall’impossibilità di deambulazione del padrone di casa . La libertà della pianta si tramuta così in un vero e proprio spazio vitale. Nella Seattle Public Library (1999-2004) programma e materia trovano un felice momento di sintesi : il programma (diagramma) consiste nell’impilare l’una sull’altra le diverse funzioni, secondo la familiare immagine di una “torre di libri” . Parcheggio, spazio pubblico, locali riservati allo staff, sale riunioni, sale computer, deposito dei libri, sale di lettura, amministrazione sono i “volumi” che compongono l’edificio reale: la forma segue un processo. ”È possibile progettare un

edificio serio nell’epoca dell’immagine?” Alla domanda che egli stesso si pone, Koolhaas cerca di dare una risposta con la Casa da Musica a Porto . Un bianco e irregolare masso erratico, palesemente estraneo al contesto, si propone però come un gigantesco “visore” : l’interno comunica con la città circostante.

Gli studi avviati sull’evoluzione degli spazi commerciali e sui suoi meccanismi regolativi (scala mobile, aria condizionata) lo porta a tale affermazione: “Non soltanto lo shopping è mescolato a ogni cosa, ma ogni cosa è mescolata allo shopping” . Il suo controllo è nei nostri spazi, nei nostri edifici, nelle nostre città, nelle nostre attività e nelle nostre vite. 46

Ben lungi dall’essere un sostenitore della commercializzazione di ogni settore della vita sociale, inclusa l’architettura, Koolhaas l’analizza con lucidità .

Analizzarla, criticarla, comporta partire dall’accettazi one della sua realtà . Per Koolhaas, la realtà è ciò che esiste. La metropoli contemporanea esiste. Nelle metropoli contemporanee contraddizione e crisi agiscono. Ed è appunto dentro tale realtà e su di essa che egli opera. Questa singolare capacità d’introiettare e di metabolizzare il reale fa di lui un architetti assolutamente sui generis, un architetto di genere mutante.

Capitolo ventiduesimo

Lo schermo del mondo La realtà ormai si conforma intorno alla logica del videogame . Nel mondo virtuale è l’immagine a dominare : essa rappresenta qualcosa che la realtà non può essere. Come ha reagito a tal proposito la cultura architettonica? Va innanzitutto notato come le modalità di rappresentazione hanno partecipato e partecipano tuttora alla rivoluzione informatica dell’architettura . Tuttavia, al di là di una certa fascinazione esercitata da disegno digitale e dall’estetica che ne deriva, vi sono comunque in tali tecniche aspetti e risultati davvero innovativi, come le ispezioni interne multi prospettiche e l’interattività con spazi tridimensionali virtuali.

Ma vi sono ulteriori livelli a cui il fondamento tra finzione e realtà si manifesta nell’architettura recente . Loro scopo non è quello di creare mondi alternativi a quello vigente; piuttosto, l’effetto è quello di una momentanea interruzione della “programmazione” consueta , l’inserimento in essa di un’altra realtà con modalità e regole proprie: inventare situazioni. Il percorso seguito da Jean

Nouvel

risulta in questo senso esemplare.

L’Institut du Monde Arabe a Parigi (1981-87) segna al contempo il suo debutto sulla scena: un centro culturale, la cui progettazione Nouvel affronta avendo ben chiari gli

obiettivi della funzionalità, della razionalità distributiva e dell’inserimento nel contesto, ma a cui riferisc e tuttavia un ulteriore programma . La divisione degli spazi in due corpi affiancati intorno a una corte quadrata, diventa occasione per un raffronto percettivo, sensoriale, tra mondo arabo e mondo occidentale . Alla variegata trasparenza del secondo volume, fa da contrappunto, sulla superficie del primo, l’uso di cellule fotoelettriche che, come veri e propri diaframmi fotografici, si aprono e si chiudono a 47

seconda dell’intensità luminosa: patterns geometrici che richiamano le

decorazioni islamiche . Nulla qui corrisponde esattamente a quanto ci si potrebbe aspettare: la qualità spaziale è il risultato della proiezione di elementi superficiali; mentre l’ornamentale discende direttamente dal funzionale (regolazione intensità luminosa). Nella Fondation Cartier d i Parigi (1991-95) il vetro diviene protagonista assoluto della scena, giungendo a cancellare percettivamente quella struttura in acciaio su cui si regge. Le pareti di vetro non si limitano a definire i contorni esterni della scatola edilizia, ma la eccedono addirittura, prolungandosi come schermi tesi nel vuoto; inoltre le diverse “densità” di tali pannelli permettono a seconda dei casi una totale trasparenza o una totale rifrazione della luce. Già da queste prime visioni si rende palese la stretta relazione che Nouvel istituisce tra project e projection, tra architettura e cinema : entrambi “macchine” per raccontare storie, ma anche entrambi complessi congegni per incantare l’occhio: caleidoscopi d’immagini sottoposte a un sapiente “montaggio”. Il “film” di Nouvel si dipana così in una serie di episodi -

Soho Hotel , NY “L’edificio cambia con le ore: da oggetto massiccio giunge alla smaterializzazione:

-

Polo Tecnologico di Brembo , Bergamo. Velocità, corse automobilistiche,

inseguimenti, rosso Ferrari. The Red Mile; Ciò che accomuna questi e altri episodi è di essere realizzati nella “magia del

rendering”. Nella sua dimensione, l’immagine supera la realtà, se non arriva

addirittura a sostituirla . A ulteriore conferma è l’assenza completa dell’indicazione di spazi precisi, di attività svolte, di funzioni risolte; e ancora di più, l’assenza completa di piante (ma non gli alberi!): il tutto finalizzato alla seduzione immediata. Ma vi è ancora un aspetto nell’opera di Nuovel: per lui il prospetto è già scomparso per fare posto alla trasmissione di un’immagine animata l a cui funzione d’interfaccia non è più quella degli ordini architettonici, bensì quella del disordine semantico del messaggio computerizzato. Jean Nouvel ha anticipato di quasi vent’anni il Media Buildin g , edifici alti la cui funzione consiste soprattutto nella messa a disposizione delle informazioni economiche o politiche, la cui vendibilità è rapidamente assicurata. Accanto all’opera di Nouvel, vi è tuttavia un altro modo d’intendere e di praticare il rapporto tra architettura e fiction. La migliore esemplificazione è fornita dal lavoro di

Massimiliano Fuksas . In esso la gerarchia

tra realtà virtuale e

realtà reale è del tutto sovvertita . In Fuksas il virtuale sconfina direttamente nell’impossibile dive nendo un’irrealtà delirante . 48

Tale distacco tra virtuale e possibile si sconta nella differenza spesso abissale che corre tra progetto ed edificio costruito. Ma in senso ancora più radicale, è nella pura dimensione della fiction che si verifica il gap sopra indicato: così, nel Centro Congressi Italia all’Eur , come

nell’Agenzia Spaziale Italiana (2000), entrambi a Roma, il fulcro dell’intervento proposto coincide con un risultato paradossale , surreale, improbabilmente attuabile nella forma del rendering. L’interesse di Fuksas per culture lontane , che non hanno nulla a che fare con l’architettura, e l’utilizzo di materiali inaspettati, immaginati, come la

materia “acquosa” , traslucida, portano all’ottenimento del massimo di astrazione rispetto non soltanto al reale ma a suo stesso superamento. L’immagine prospettata è semplicemente irrealizzabile, ma non per questo irrappresentabile . La rappresentabilità diviene il solo criterio che l’architettura è chiamata a rispettare , benché ciò spesso comporti trascurare le più elementari leggi della statica; in ciò si può leggere il significato ultimo dell’architettura di Fuksas: indecifrabile blob . Il polo dell’Ente Fiera di Milano a Rho-Pero (2002-2005) è la sintesi di tutte le immagini, di tutte le forme, di tutti i messaggi. L’obiettivo, palesemente sempre al di là del reale, rimane infatti in che modo trasformare un’esperienza concreta come la visita a una Fiera in una grande

avventura : “messa in scena” di una vita compiutamente felice. Di tale metafisica “felicità” la sua architettura non vuol essere né la promessa né il compimento; semmai la semplice illusione ottica . Ciò nondimeno, vi è qualcosa di apocalittico in queste visioni. La fine del mondo oggi equivale alla sua completa falsificazione. Le architetture, le città intere sempre più si lasciano osservare dalla “finestra” dei rendering.

Capitolo ventitreesimo

Nuovi miti, nuovi riti A mio parere, da leggere.

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