Steven Runciman - Storia Delle Crociate

April 19, 2017 | Author: Juhász Bálint | Category: N/A
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Pubblicato per la prima volta nel 1951 (nel 1966 in Italia) la Storia delle Crociate di Steven Runciman è una delle opere fondamentali della storiografia del Novecento e rimane ancora oggi il testo di base per comprendere il complesso periodo storico che vide, dal 1089 a oltre la metà del 1400, la corsa all’Outremer da parte dei cristiani guidati e ispirati da personaggi come Goffredo di Buglione, Federico Barbarossa, Riccardo Cuor di Leone, opposti a condottieri entrati nella leggenda come il Saladino. Superando (e, anzi, quasi ribaltando) la visione eurocentrica per cui la guerra tra cristiani e musulmani costituì uno scontro tra civiltà e barbarie, e basandosi per la prima volta anche sui documenti delle fonti islamiche, Runciman ricostruisce il contesto storico degli eventi nella sua globalità, abbracciando nella trattazione un orizzonte che spazia dall’Atlantico alla Mongolia, convinto che narrare la storia da un solo punto di vista significhi fraintenderne fondamentalmente il significato.

STEVEN RUNCIMAN (1903-2000) ha studiato a Eton e Cambridge, ed è stato Lecturer a Cambridge dal 1931 al 1938. Dopo una parentesi diplomatica come addetto stampa della Legazione inglese a Sofia (1940-1945), ha insegnato Arte e Storia bizantina all’Università di Istanbul (19421945). Ha scritto numerosi saggi, tradotti anche in italiano, sulla civiltà bizantina.

STEVEN RUNCIMAN

Storia delle Crociate

Proprietà letteraria riservata © 1951, 1952, 1954 by Steven Runciman © 2002 RCS Libri S.p.A., Milano Edizione su licenza di Giulio Einaudi editore s.p.a. ISBN 978-88-58-66672-2 Titolo originale dell’opera: A History of the Crusades Prima edizione digitale 2014

Per conoscere il mondo BUR visita il sito www.bur.eu Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore. È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.

Presentazione dell’autore all’edizione italiana

Le crociate costituiscono il fatto saliente della storia europea nel cuore del medioevo. Tranne gli slavi del nord-est e i loro vicini, non vi fu un solo popolo in Europa che non ne risentisse gli effetti, effetti molto diversi nei singoli casi. Per gli italiani tale varietà fu particolarmente notevole per le diverse condizioni politiche, culturali ed economiche esistenti nella penisola. A causa della sua posizione geografica, l’Italia era destinata a trovarsi profondamente coinvolta in qualsiasi movimento avvenisse in Europa; ma ciò si verificò in forme molto diverse. Le crociate si basavano sul concetto di guerra santa, una guerra contro gli infedeli, per cui ai cristiani che vi partecipavano erano promesse ricompense spirituali; si può affermare che tale concetto fu sviluppato a Roma da due papi, Alessandro II e Gregorio VII, entrambi italiani, per valersene contro i musulmani di Spagna. Ma il merito dell’idea va attribuito, piuttosto, ai francesi, ai monaci di Cluny e delle abbazie affiliate, il cui influsso su Roma era allora enorme; e fu un papa di origine francese, Urbano II, che lanciò la grande guerra santa contro i musulmani d’Oriente. I papi italiani del secolo XIII, Innocenzo III, Gregorio IX e Innocenzo IV, che svilupparono tale idea, lo fecero secondo le direttive di una politica realistica, e la usarono contro gli eretici catari, i greci scismatici e infine contro i propri nemici personali in Italia e in Germania, travisandone in tal modo il valore spirituale: tuttavia in ciò furono sopraffatti dai francesi: Clemente IV e Martino IV. Il papato medievale, comunque, era più un’istituzione internazionale che italiana, soprattutto per quello che riguarda le idee e il modo di reagire agli avvenimenti. Sarebbe altrettanto errato considerare italiana un’altra forza politica situata in Italia, che contribuì grandemente al successo delle prime crociate: il regno normanno di Sicilia e dell’Italia meridionale era governato, ancora dopo due generazioni, da uomini che si ritenevano più normanni che italiani e parlavano tra loro il franconormanno. Ma la situazione del loro regno, proprio al centro della zona mediterranea, era assai adatta a metterli in grado di assumere una parte di primo piano in un movimento che offriva molte possibilità alle loro irrequiete ambizioni imperialistiche. Mentre i normanni stabiliti in Francia dedicavano le loro maggiori energie alla conquista e sottomissione dell’Inghilterra, e quelli che si recarono alla crociata sotto il duca Roberto di Normandia erano in complesso privi di iniziativa e di efficienza, i normanni dell’Italia meridionale fornirono alla prima crociata le truppe più intraprendenti e il capo militare più brillante, Boemondo di Taranto. Questi normanni del sud avevano già cercato di espandersi in Oriente, ma erano stati contrastati da Bisanzio, alleato con Venezia. La crociata offrì loro una seconda occasione, della quale usufruirono in pieno. Dopo una generazione o due le loro attività nell’Oriente cristiano erano diminuite. Furono nuovamente sconfitti dai bizantini, e il loro principato di Antiochia passò per eredità a una dinastia originaria della Francia meridionale. Ma nei re normanni di Sicilia e i loro successori delle case di Hohenstaufen e d’Angiò non vennero mai meno gli interessi per la Siria e la Palestina. Guglielmo II ebbe una parte assai importante nel salvataggio dei resti del regno di Gerusalemme da Saladino; e tanto Federico II di Hohenstaufen quanto Carlo d’Angiò intervennero direttamente e attivamente nelle vicende di quel regno. La politica delle corti di Palermo e di Napoli risentì a fondo degli avvenimenti degli Stati crociati.

Il ruolo dei normanni nelle crociate fu caratterizzato da cinismo e ambizione, ma si avrebbe torto se si negasse loro anche il movente religioso. Pur sperando di ottenere qualche vantaggio personale dal movimento, ogni crociato normanno credeva in buona fede di compiere un’opera voluta da Dio. La stessa combinazione di spirito religioso e di ambizione mondana si può ritrovare nei Monferrato, una eminente famiglia dell’Italia settentrionale che assunse grande importanza nella politica crociata del secolo XII e degli inizi del XIII. Vi furono tuttavia molti italiani, specialmente del nord, il cui impulso religioso fu più spontaneo, come i crociati lombardi del 1101, mal guidati e mal destinati, o i volonterosi ma indisciplinati lombardi e toscani, i cui eccessi affrettarono la conquista finale di Acri da parte dei musulmani nel 1291. Il movente religioso era più debole in quegli italiani che, con l’andar del tempo, si trovarono implicati molto a fondo nelle crociate, vale a dire gli abitanti delle repubbliche marinare mercantili e soprattutto i genovesi e i veneziani. Questi ultimi non desideravano e non videro di buon occhio le crociate; e passarono parecchi anni prima che facessero un tentativo qualsiasi per unirsi al movimento. Essi avevano già iniziato attive relazioni commerciali con i musulmani d’Oriente, e temevano che il movimento le avrebbe danneggiate. Avevano sfruttato le guerre dei normanni con Bisanzio come mezzo per ottenere un trattamento preferenziale nei porti bizantini, quindi diffidavano di un movimento in cui i normanni rappresentavano una parte di primo piano. Solamente quando si resero conto che, se non avessero partecipato alle crociate, avrebbero perso l’opportunità di ottenere un punto di appoggio nei porti della Siria conquistati dai cavalieri cristiani e il commercio con quella nazione sarebbe passato ai loro rivali, mandarono una spedizione per collaborare alla conquista di quei porti. Ma furono sempre molto attenti nell’evitare di interrompere a lungo le relazioni con i musulmani. In questa politica riuscirono in larga misura a ottenere successi, perché il commercio avvantaggiava anche i principi musulmani, specialmente quelli d’Egitto. I documenti dimostrano che nel corso dei secoli XII e XIII si ebbero più scambi tra Alessandria e Venezia che tra Venezia e tutti i porti cristiani della Siria messi insieme: mentre invece il commercio con Costantinopoli era cosi importante per i veneziani che si affrettarono a trasformare la quarta crociata dal suo intento iniziale di spedizione in Palestina in un attacco a Costantinopoli. Fu una mossa poco lungimirante: la distruzione di Bisanzio del 1204 provocò, come risultato finale, il trionfo dei turchi ottomani e il crollo definitivo del commercio veneziano nel Levante. Ma sul momento Venezia ne trasse grandi vantaggi. Genova e Pisa furono meno riluttanti a partecipare alle crociate, sebbene abbiano aspettato che il movimento ottenesse qualche successo prima di unirvisi. Entrambe queste città si erano affermate nel commercio con il Mediterraneo occidentale; ben presto si accorsero che, appoggiando i crociati, avrebbero potuto affermarsi anche nel commercio con il Mediterraneo orientale. Pisa non fu in grado di mantenere a lungo quello sforzo, a causa delle sue difficoltà politiche in Italia. Ma Genova raggiunse una posizione di predominio tra gli Stati crociati in Siria, e l’incapacità dei veneziani di distruggere il prestigio di Genova in quel settore spiega in gran parte la determinazione di Venezia di dominare Costantinopoli. Le crociate furono pertanto della massima importanza per la storia di Venezia e di Genova. È possibile peraltro argomentare che entrambe, Venezia in particolare, avrebbero goduto di maggiore prosperità, se le crociate non fossero mai state intraprese. Il loro commercio con i musulmani avrebbe potuto essere proseguito con minori intralci e difficoltà, e si sarebbero evitate quelle guerre costose e deplorevoli che le due repubbliche condussero fra loro nel Levante, soprattutto nel corso del secolo XIII. E la civiltà europea non ne avrebbe sofferto, giacché la scienza e il pensiero arabi giunsero in Europa per il tramite della Sicilia e della Spagna, piuttosto che direttamente dal Levante,

mentre quelle raffinatezze materiali che i mercanti italiani introdussero nella vita europea provenivano dai grandi porti musulmani, come Alessandria, non dai porti cristiani della Siria. È difficile per uno storico spregiudicato non deplorare le crociate. Nonostante lo spirito cavalleresco e romanzesco che le accompagnò, non lasciarono alcun beneficio duraturo e aumentarono l’animosità fra le grandi religioni della cristianità e dell’Islam. Ma l’insuccesso finale non ne diminuisce in alcun modo l’importanza storica: per questo il loro studio è tanto importante per chi voglia capire la complessa e varia storia d’Italia. STEVEN RUNCIMAN

Ottobre 1966.

Prefazioni1

Questo libro vuol essere il primo di tre volumi destinati ad analizzare la storia del movimento che noi chiamiamo «le crociate», dal suo sorgere nel secolo XI fino alla sua decadenza nel XIV, e degli stati che esso originò in Terra Santa e nei paesi vicini. Spero di offrire in un secondo volume una storia e descrizione del regno di Gerusalemme e delle sue relazioni con i popoli del Medio Oriente, e delle crociate del secolo XII, quindi in un terzo volume una storia del regno di Acri e delle ultime crociate. Sia che si considerino come la più straordinaria e la più romantica delle avventure cristiane o come l’ultima delle invasioni barbariche, le crociate costituiscono un fatto centrale della storia medievale. Prima del loro inizio il centro della nostra civiltà si trovava a Bisanzio e nei territori del califfato arabo, ma prima della loro fine l’egemonia della civiltà era passata all’Europa occidentale. Da questo trapasso è nata la storia moderna, ma per comprenderlo noi dobbiamo capire non soltanto le situazioni esistenti nell’Europa occidentale che condussero al movimento crociato, ma ancor più, forse, quelle esistenti in Oriente che offrirono l’occasione per le crociate e ne determinarono il progresso e la fine. Il nostro sguardo deve spaziare dall’Atlantico alla Mongolia: narrare quella storia soltanto dal punto di vista dei franchi o degli arabi o anche da quello delle loro principali vittime, i cristiani d’Oriente, significa fraintenderne il significato; poiché, come ben vide Gibbon, è la storia dell’antagonismo di due mondi. Poche volte tale storia è stata narrata in inglese nella sua totalità né vi è mai stata in questo paese un’attiva scuola di storiografia delle crociate. I capitoli di Gibbon in Decline and Fall meritano ancora di venire studiati, nonostante i suoi pregiudizi e l’epoca in cui scrisse. Più recente è il brillante compendio del movimento crociato ad opera di Sir Ernest Barker, pubblicato per la prima volta nell’Encyclopaedia Britannica, e la breve ma mirabile storia dei regni crociati di W. B. Stevenson. Ma il contributo britannico consiste soprattutto di dotti articoli, delle edizioni di fonti orientali e di alcune storie divulgative. La Francia e la Germania hanno una più vasta ed antica tradizione. Le grandi storie tedesche delle crociate cominciano con quella di Wilken, pubblicata al principio del secolo xix; la storia di Von Sybel, pubblicata per la prima volta nel 1841, è ancora di primaria importanza, mentre più tardi due eminenti studiosi, Röhricht e Hagenmeyer, non solo fecero un inestimabile lavoro con la collezione critica delle fonti, ma scrissero anche delle storie complete. In anni recenti la tradizione tedesca è stata continuata dall’Erdmann nel suo esauriente studio dei movimenti religiosi occidentali che condussero alle crociate. In Francia, il paese da cui proveniva il maggior numero di crociati, l’interesse degli studiosi è dimostrato dalla pubblicazione avvenuta alla metà del secolo XIX delle principali fonti occidentali, greche ed orientali nel grosso Recueil des Historiens des Croisades. L’ampia storia di Michaud era già apparsa negli anni successivi al 1817; più tardi Riant ed i suoi collaboratori della Société de l’Orient Latin condussero studi d’importanza notevolissima. In questo secolo due eminenti bizantinisti francesi, Chalandon e Bréhier, si occuparono delle crociate, mentre poco prima della guerra del 1939 M. Grousset pubblicò la sua storia delle crociate in tre volumi, la quale, secondo la tradizione francese, unisce una vasta cultura con una buona esposizione ed un pizzico di patriottismo gallico. Oggi tuttavia è negli Stati Uniti che si può trovare la più attiva scuola di storici delle crociate, creata da D. C. Munro, la cui produzione

letteraria, purtroppo scarsa, non dà un’idea esatta della sua importanza come maestro. Gli storici americani si sono finora concentrati su aspetti particolari e nessuno di loro ha ancora tentato una storia generale completa; ma hanno annunziato un volume composito, a cui collaboreranno anche alcuni studiosi stranieri, che dovrebbe coprire l’intero ambito della storia crociata. Mi spiace che questo volume non sia apparso in tempo perché io potessi approfittarne nella stesura del presente lavoro. Può sembrare poco savio che una isolata penna britannica competa con tutto un gruppo di studiosi americani, ma in realtà non c’è nessuna competizione. Un singolo autore non può esprimersi con l’alta autorità di un consesso di esperti, ma può riuscire a dare alla sua opera una coerenza e persino un carattere epico che nessun volume composito potrà mai avere. Sia Omero che Erodoto furono padri della storia, come ben sapeva Gibbon, il maggiore dei nostri storici, ed è difficile credere, malgrado certi critici, che Omero sia stato un mosaico di autori diversi. Lo scrivere la storia è entrato oggi in un’epoca alessandrina in cui la critica ha soggiogato la creazione. Posto di fronte a montagne di minuzie erudite e timoroso dell’attenta severità dei suoi colleghi, lo storico moderno si rifugia troppo spesso in dotti articoli o dissertazioni strettamente specializzate, piccole fortezze che si possono difendere facilmente dagli attacchi. La sua opera può essere di altissimo valore, ma non è fine a se stessa. Io credo che il dovere supremo dello storico sia quello di scrivere storia, cioè di cercare di registrare in una rapida sequenza i principali eventi e movimenti che hanno dominato i destini degli uomini. Lo scrittore abbastanza audace per compiere questo tentativo non dovrebbe essere criticato per la sua ambizione, per quanto possa meritare riprovazione l’inadeguatezza della sua preparazione o la futilità dei risultati. Nelle note sono indicati i riferimenti per quanto viene affermato nel testo e nella mia bibliografia do un elenco delle opere che ho consultato. Verso molte di esse il mio debito è enorme, anche se non le cito specificatamente nelle mie note. Gli amici che mi hanno offerto critiche e consigli utili sono troppo numerosi perché li ricordi per nome. È necessaria una nota sulla trascrizione dei nomi. Dove compaiono nomi propri che hanno una forma inglese accettata, come Giovanni, Goffredo o Raimondo, sarebbe stato pedante usare altre forme; ho sempre cercato di adoperare la forma più familiare e perciò più accettabile per il lettore medio inglese. Per le parole greche ho usato la tradizionale trascrizione latina, che sola permette l’uniformità. I nomi arabi presentano una maggior difficoltà: gli accenti e gli spiriti aspri prescritti dagli specialisti della lingua araba rendono difficile la lettura ed io li ho tralasciati, ma spero che il mio sistema sia nondimeno chiaro. In armeno, dove k e g ,b e p sono di volta in volta esatti secondo il periodo o la località dove è usata la parola, li ho conservati secondo l’equivalente più antico. Il francese de presenta un continuo problema: io l’ho tradotto, salvo quando può essere considerato parte di un preciso cognome. Concludendo, vorrei ringraziare i sindaci e il segretario della Cambridge University Press per la cortesia e l’aiuto costanti. STEVEN RUNCIMAN

Londra 1950.

In questo volume mi sono studiato di raccontare la storia degli stati franchi di «Outremer» dall’ascesa al trono di re Baldovino I fino alla riconquista di Gerusalemme da parte di Saladino. Questa storia è già stata narrata in precedenza da scrittori europei: particolarmente da Röhricht con germanica accuratezza, da René Grousset con eleganza ed abilità tutte francesi e in inglese, troppo brevemente, da W. B. Stevenson. Ho trattato lo stesso argomento e usato le medesime fonti principali di questi scrittori, ma mi sono azzardato a proporre un’interpretazione che occasionalmente differisce da quella dei miei predecessori. La narrazione non può essere sempre semplice. Specialmente la politica del mondo musulmano nella prima parte del secolo XII non si presta ad un’analisi piana e lineare; però deve essere compresa se si vuole intendere il formarsi degli stati crociati e le cause ultime della riconquista dell’Islam. Il secolo XII non ha conosciuto nessuna delle grandi migrazioni di popoli che caratterizzarono l’XI e che si sarebbero ripetute nel XIII a complicare la storia delle ultime crociate, del declino e della caduta di «Outremer». Per il momento possiamo concentrare la nostra attenzione su «Outremer» stessa, ma non dobbiamo perdere di vista il più vasto panorama che include la politica dell’Europa occidentale, le guerre religiose dei governanti spagnoli e siciliani, le preoccupazioni di Bisanzio e del califfato orientale. La predicazione di san Bernardo, l’arrivo della flotta inglese a Lisbona, gli intrighi di palazzo a Costantinopoli e a Bagdad sono tutti episodi che formano parte del dramma, anche se l’evento culminante avviene su una nuda collina in Galilea. Il tema centrale di questo volume è la guerra; e nel soffermarsi sulle diverse campagne e spedizioni ho seguito l’esempio degli antichi cronisti che sapevano il fatto loro; la guerra infatti faceva da sfondo a tutta la vita di «Outremer» e la sorte delle armi ne determinava spesso il destino. Ma in questo volume ho incluso un capitolo sulla vita e l’organizzazione dell’Oriente franco. Spero di dare qualche informazione sui suoi sviluppi artistici ed economici nel prossimo volume. Ambedue questi aspetti del movimento crociato raggiunsero il loro più alto livello nel secolo XIII. Nella prefazione al primo volume ho menzionato alcuni dei grandi storici le cui opere mi sono state di aiuto. Qui devo rendere un tributo speciale agli studi di John La Monte la cui prematura morte è stata una gravissima perdita per la storiografia delle crociate. A lui in particolare dobbiamo la nostra dettagliata conoscenza dell’organizzazione del governo nell’Oriente franco. Desidero riconoscere il mio debito verso il professor Claude Cahen di Strasburgo la cui notevole monografia sulla Siria del nord ed i cui articoli sono della massima importanza per il nostro argomento. Ho un debito di gratitudine verso molti amici che mi hanno aiutato nei miei viaggi in Oriente ed in modo speciale verso i Dipartimenti di Antichità di Giordania e del Libano e verso la Iraq Petroleum Company. Debbo ringraziare ancora una volta i sindaci della Cambridge University Press per la loro cortesia e pazienza. STEVEN RUNCIMAN

Londra 1952.

Questo volume si propone di narrare la storia di «Outremer» e delle guerre sante dalla rinascita del regno franco al tempo della terza crociata, fino al suo crollo un secolo più tardi, con un epilogo sulle ultime manifestazioni dello spirito crociato. È una narrazione in cui si intrecciano temi diversi. Il declino di «Outremer», con le sue piccole ma complesse tragedie, venne periodicamente interrotto da grandi crociate che, dopo la terza, si conclusero tutte o su un falso obiettivo o in modo disastroso. Sebbene a parole tutti i principi europei solessero ancora proclamarsi sostenitori del movimento crociato, di fatto neppure il fervore religioso di san Luigi poté arrestarne la decadenza, mentre la crescente inimicizia tra la cristianità d’Oriente e quella d’Occidente giungeva al suo punto culminante in quella che è stata la più grande tragedia del medioevo: la distruzione della civiltà bizantina nel nome di Cristo. Nel mondo musulmano lo stimolo costante della guerra santa produsse come risultato la sparizione dei cordiali e colti ayubiti che vennero sostituiti dai mamelucchi, più efficienti ma meno sensibili, i cui sultani in seguito distrussero gli stati franchi di Siria. Vi fu infine l’imprevedibile irruzione dei mongoli, la cui venuta sembrò dapprima suscettibile di salvare la cristianità orientale, ma che poi, a causa dei cattivi trattamenti e delle incomprensioni di cui essi furono oggetto da parte dei loro alleati potenziali, ebbe un’influenza apportatrice soltanto di effetti distruttivi. È una storia di fede e di follia, di coraggio e di cupidigia, di speranza e di delusione. Ho incluso alcuni brevi capitoli sul commercio e le arti di «Outremer»; sono necessariamente superficiali, poiché né la storia del commercio né quella artistica di uno stato coloniale di quel tipo può essere isolata dalla storia generale degli scambi e della civiltà medievale. Ho cercato perciò di limitarmi a quanto fosse strettamente necessario per la comprensione di «Outremer». La storia delle crociate è un tema molto vasto dai limiti mal definiti: il modo in cui ho trattato l’argomento corrisponde al mio punto di vista personale. Se qualche lettore ritiene che il rilievo che ho dato ai vari aspetti di questa storia è errato, posso rispondere soltanto dicendo che ogni autore deve scrivere il proprio libro a modo suo: non tocca ai critici deplorare che egli non l’abbia scritto come essi avrebbero fatto se avessero intrapreso la trattazione di quell’argomento. Ma spero di non aver trascurato interamente nessuno degli elementi essenziali per la comprensione di quella storia. Quanto grande sia il mio debito verso molti studiosi, defunti e viventi, appare chiaramente, ritengo, nelle note a pie di pagina. La grande storia di Cipro di Sir George Hill e la meticolosa storia delle ultime crociate del professor Atiya sono due opere fondamentali per lo studio di questo periodo; gli studiosi hanno inoltre un permanente debito di gratitudine verso il professor Claude Cahen per le dotte notizie contenute nelle sue opere. Devo menzionare con rimpianto la morte di M. Grousset, la cui ampiezza di visione e vivacità di stile tanto fecero per chiarire la politica di «Outremer» ed il quadro generale della situazione dell’Asia. Mi sono ancora una volta basato in larga misura sulle opere di studiosi americani come il defunto professor La Monte e P. A. Throop. Devo nuovamente ringraziare i miei amici del Vicino Oriente che mi sono stati di aiuto durante i miei viaggi colà, specialmente la Iraq Petroleum Company; e ringrazio per la loro cortesia i sindaci della Cambridge University Press. STEVEN RUNCIMAN

Londra 1954.

LIBRO PRIMO La prima crociata e la fondazione del regno di Gerusalemme

Traduzione di Emilio Bianchi ed Aldo e Fernanda Comba

Parte prima I luoghi santi della cristianità

Capitolo primo L’abominazione della desolazione

Quando dunque avrete veduta l’abominazione della desolazione, della quale ha parlato il profeta Daniele, posta in luogo santo... Matteo, XXIV, II

In un giorno di febbraio dell’anno 638 d. C. il califfo Omar entrava in Gerusalemme cavalcando un cammello bianco. Indossava vesti logore e sporche e l’esercito che lo seguiva era rozzo e incolto, ma perfettamente disciplinato. Al suo fianco si teneva il patriarca Sofronio in qualità di magistrato più importante della città che si era arresa. Omar cavalcò direttamente verso l’area del Tempio di Salomone da cui il suo amico Maometto era salito in cielo. Osservandolo in quel luogo, il patriarca si ricordò delle parole di Cristo e mormorò tra le lacrime: «Ecco l’abominazione della desolazione di cui ha parlato il profeta Daniele». Poi il califfo chiese di visitare i santuari dei cristiani e il patriarca lo condusse alla chiesa del Santo Sepolcro dove gli mostrò tutto quello che c’era. Mentre si trovavano nel tempio si avvicinò l’ora della preghiera per i musulmani e il califfo domandò dove avrebbe potuto stendere la sua stuoia per la preghiera. Sofronio lo pregò di rimanere dov’era, ma Omar uscì nel portico del Martyrion, per timore - disse - che i suoi fanatici seguaci potessero rivendicare per l’Islam il luogo dove egli aveva pregato. Cosi infatti avvenne: il portico fu preso dai musulmani, ma la chiesa rimase, come per il passato, il santuario più venerato della cristianità1. Questo era consentito dalle condizioni di resa della città. Il profeta in persona aveva’ ordinato che, mentre ai pagani doveva venir offerta la scelta fra la conversione e la morte, al Popolo della Bibbia, cioè ai cristiani e agli ebrei (fra i quali includeva anche, come favore, i seguaci di Zoroastro) venisse concesso di conservare i loro luoghi di culto e di usarli senza restrizioni; ma essi non potevano aumentarne il numero, né potevano portare armi o andare a cavallo, e dovevano pagare una speciale tassa personale, chiamata la jizya2. Sofronio non aveva certamente sperato in migliori condizioni di resa quando era andato, cavalcando il suo asino e con un salvacondotto, a incontrare il califfo sul Monte degli Ulivi, dopo aver rifiutato di consegnare la città a un subalterno. Gerusalemme era stata assediata per oltre un anno, ma gli arabi, inesperti nella guerra d’assedio e male attrezzati per condurla, si erano dimostrati impotenti contro le fortificazioni restaurate di recente. Nella città però le scorte di viveri si stavano esaurendo e non c’era più nessuna speranza di soccorso: la regione era nelle mani degli arabi e ad una ad una le città della Siria e della Palestina erano cadute in loro potere; l’esercito cristiano più vicino si trovava in Egitto, con l’unica eccezione della guarnigione che resisteva a Cesarea, sulla costa, protetta dalla flotta imperiale. Tutto quello che Sofronio poté ottenere dai conquistatori, oltre alle normali condizioni di resa, fu l’autorizzazione per i funzionari imperiali di mettersi in salvo con le loro famiglie e con i beni mobili sulla costa, a Cesarea. Questo fu l’ultimo atto pubblico del patriarca, il culmine tragico di una lunga vita spesa in fatiche per l’ortodossia e per l’unità della cristianità. Dai tempi della sua giovinezza, quando aveva visitato con il suo amico Giovanni Mosco i monasteri dell’Oriente per raccogliere detti e storie di santi per

la loro opera Pascoli spirituali, fino ai suoi ultimi anni quando, dopo essersi opposto alla politica dell’imperatore era stato da lui designato alla importante sede di Gerusalemme, egli aveva lottato fermamente contro le eresie e il nazionalismo nascente, che, prevedeva, avrebbero smembrato l’impero. Ma «il difensore della fede dalla parlata dolce come il miele», come veniva chiamato, aveva predicato e lavorato invano: la conquista araba era la dimostrazione del suo fallimento e poche settimane dopo moriva di crepacuore3. In realtà nessuna forza umana avrebbe potuto arrestare i movimenti disgregatori nelle province orientali romane. Durante tutta la storia dell’Impero romano c’era stata una lotta latente fra Oriente ed Occidente: l’Occidente aveva vinto ad Azio, ma l’Oriente si era imposto ai suoi vincitori. L’Egitto e la Siria erano le province più ricche e più popolose dell’Impero, sede dei suoi più importanti centri industriali; le loro navi e le loro carovane controllavano il commercio con l’Oriente, la loro cultura e il loro tenore di vita erano di gran lunga superiori a quelli dell’Occidente, non soltanto a causa delle loro lunghe tradizioni ma anche per lo stimolo dato dalla vicinanza dell’unico stato che rivaleggiasse con Roma per civiltà, il regno sassanide di Persia. Inevitabilmente l’influenza dell’Oriente si accrebbe sempre di più, finché l’imperatore Costantino il Grande adottò una religione orientale e trasportò la sua capitale verso levante, a Bisanzio sul Bosforo. Nel secolo seguente quando l’Impero, indebolito dalla decadenza interna, dovette fronteggiare l’avanzata impetuosa dei barbari l’Occidente fu travolto, ma l’Oriente sopravvisse, soprattutto grazie alla politica di Costantino. Mentre venivano fondati regni barbarici in Gallia, in Spagna, in Africa, nella lontana Britannia e infine in Italia, l’imperatore romano governava le province orientali da Costantinopoli. Raramente il governo di Roma era stato popolare in Siria e in Egitto, ma quello di Costantinopoli fu ben presto ancor più odiato. Questo era dovuto in larga misura a circostanze esterne. L’impoverimento dell’Occidente significò la perdita di mercati per il commerciante siriano e il fabbricante egiziano; le continue guerre con la Persia interruppero il traffico commerciale che attraverso il deserto si dirigeva ad Antiochia e alle città del Libano e, poco dopo, la caduta dell’Impero abissino e la caotica situazione araba bloccarono le vie del Mar Rosso controllate dai marinai egiziani e dai carovanieri di Petra, della Transgiordania e della Palestina meridionale. Costantinopoli stava diventando il più importante mercato dell’Impero, e il commercio proveniente dall’Estremo Oriente, incoraggiato dalla diplomazia dell’imperatore, cercò una via che vi giungesse direttamente, passando più a nord attraverso le steppe dell’Asia centrale. Ciò inaspri i cittadini di Alessandria e di Antiochia, già gelosi della città diventata improvvisamente importante e che minacciava di eclissarli; ma siriani ed egiziani furono ancor più amareggiati dal fatto che il nuovo sistema di governo era basato sulla centralizzazione. Diritti ed autonomie locali vennero costantemente limitati, mentre gli agenti delle tasse si dimostrarono più rigorosi ed esigenti che ai tempi dei romani. E il malcontento diede nuovo vigore al sempre rinascente nazionalismo orientale. La lotta scoppiò apertamente su questioni religiose. Gli imperatori pagani erano stati tolleranti verso i culti locali, i cui dèi potevano cosi facilmente venir collocati nel pantheon romano. Soltanto dei monoteisti intransigenti come i cristiani e gli ebrei subirono occasionalmente periodi di persecuzione. Ma gli imperatori cristiani non potevano essere cosi tolleranti: il cristianesimo è una religione esclusiva ed essi desideravano adoperarlo come forza di coesione per vincolare tutti i loro sudditi al governo. Costantino, che non aveva idee molto chiare in questioni teologiche, aveva tentato di unificare la Chiesa, lacerata allora dalla controversia ariana. Mezzo secolo dopo Teodosio il Grande considerò il raggiungimento dell’uniformità religiosa come uno dei punti del programma imperiale di governo, ma non era un obiettivo facile da conseguire. L’Oriente aveva aderito con fervore al cristianesimo; i greci avevano applicato ai suoi problemi il loro gusto per la discussione

sottile, mentre gli orientali ellenizzati vi aggiunsero un’intensità fiera ed appassionata che generò ben presto intolleranza e odio. L’oggetto più importante delle loro dispute era la natura di Cristo, la questione centrale e più difficile di tutta la teologia cristiana. Il problema era teologico, ma a quei tempi perfino l’uomo della strada s’interessava a discussioni teologiche, che gli sembravano un divertimento inferiore soltanto ai giochi del circo. Vi erano però anche altri aspetti: il siriano e l’egiziano medio desideravano un cerimoniale più semplice di quello della Chiesa ortodossa con tutta la sua pompa; il suo lusso li offendeva nella loro crescente povertà ed inoltre consideravano i suoi prelati e preti come agenti del governo di Costantinopoli. L’alto clero si lasciava invece trascinare facilmente dalla gelosia in una posizione ugualmente ostile. I patriarchi delle antiche sedi di Alessandria e di Antiochia divennero furibondi quando si accorsero che il loro collega di Costantinopoli, l’ultimo venuto, aveva precedenza su di loro. Era inevitabile che l’eresia assumesse la forma di un movimento nazionalistico e disgregatore. L’arianesimo scomparve presto in Oriente, tranne che in Abissinia, ma le eresie del secolo v durarono più a lungo. Nei primi anni del secolo Nestorio, patriarca di Costantinopoli ma nativo di Siria, elaborò una dottrina che accentuava eccessivamente l’umanità di Cristo. I teologi della scuola antiochena erano sempre stati propensi a inclinare in quella direzione, per cui Nestorio trovò molti seguaci nella Siria settentrionale. La sua dottrina venne condannata come eretica al concilio ecumenico di Efeso del 431 e di conseguenza molte comunità siriane si separarono. I nestoriani, proscritti nell’Impero, stabilirono il loro quartier generale nel territorio del re di Persia, in Mesopotamia, e ben presto dedicarono la maggior parte della loro attenzione all’opera missionaria nell’Estremo Oriente, in India, nel Turkestan e persino in Cina; ma nel vi e nel vii secolo conservavano ancora delle chiese in Siria e in Egitto, specialmente fra i mercanti dediti al commercio con il lontano Oriente. La controversia nestoriana diede origine a un’altra contesa ancor più acerba. I teologi di Alessandria, compiaciuti per la doppia vittoria su un’eresia antiochena e su un patriarca di Costantinopoli, oltrepassarono anch’essi i confini dell’ortodossia, ma nella direzione opposta, ed enunciarono una dottrina che sembrava implicare ima negazione dell’umanità di Cristo. Questa eresia è talvolta chiamata eutichianesimo dal nome di un oscuro prete, Eutiche, che la formulò per primo, ma è più comunemente nota come monofisismo. Nel 451 venne condannata dal quarto concilio ecumenico che si riunì a Calcedonia, e i monofisiti indignati si staccarono dal corpo principale della cristianità trascinando con sé la maggioranza dei cristiani dell’Egitto e un certo numero di comunità della Siria. La Chiesa armena, i cui delegati erano giunti a Calcedonia troppo tardi per partecipare alle discussioni, non volle accettare le deliberazioni del concilio e si schierò con i monofisiti. Gli imperatori di epoche posteriori cercarono continuamente una formula conciliativa che permettesse di superare la scissione e che, sanzionata da un concilio ecumenico, potesse venire accettata come un’ulteriore precisazione della vera fede. Ma due fattori si opponevano ai loro sforzi: gli eretici non avevano nessun particolare desiderio di tornare all’ovile, salvo alle loro inaccettabili condizioni, mentre d’altra parte l’atteggiamento di Roma e della Chiesa occidentale era decisamente contrario al compromesso. Papa Leone I, fondandosi sull’idea che toccasse al successore di san Pietro e non a un concilio ecumenico definire la dottrina, e insofferente di sottigliezze dialettiche che non capiva, rilasciò una dichiarazione definitiva che precisava quale doveva essere la retta opinione sull’argomento. Questa dichiarazione, conosciuta dalla storia come il Tomo di papa Leone, sebbene ignorasse le finezze della discussione, venne accettata dalle autorità del concilio di Calcedonia come base per i loro dibattiti e la sua formula fu incorporata nelle loro deliberazioni. La formulazione di papa Leone era precisa e rigida e non ammetteva precisazioni o modifiche: qualunque compromesso

suscettibile di placare gli eretici avrebbe implicato il suo abbandono e di conseguenza uno scisma con Roma. Ma nessun imperatore che avesse interessi e ambizioni in Italia e in Occidente poteva permettersi di giungere a tanto. Preso in questo dilemma il governo imperiale non riuscì mai a svolgere una politica coerente, oscillando fra un atteggiamento persecutorio e uno cruciante verso gli eretici, mentre questi, sostenuti dal risorgente nazionalismo degli orientali, aumentavano di numero nelle province del Levante4. Oltre ai monofisiti e ai nestoriani, nelle province orientali un’altra comunità si trovava in costante opposizione al governo imperiale: gli ebrei. Questi si erano stabiliti in numero considerevole in tutte le grandi città dell’Oriente e dovevano subire alcune limitazioni dei diritti civili; inoltre, di tanto in tanto, essi e i loro beni erano esposti a soffrire perdite in occasione di qualche tumulto. In cambio coglievano ogni occasione per danneggiare i cristiani. Le loro risorse finanziarie e le loro vaste relazioni li rendevano un pericolo potenziale per il governo5. Nel secolo VI la situazione peggiorò. Le guerre di Giustiniano in Occidente furono lunghe e costose, ne intralciarono la politica religiosa e per i suoi sudditi orientali significarono soltanto maggiori tasse e nessun vantaggio. La Siria soffri più di tutti: in aggiunta ai suoi carichi fiscali subì una serie di crudeli incursioni degli eserciti persiani e disastrosi terremoti. Soltanto gli eretici prosperarono. I monofisiti di Siria vennero organizzati in una potente associazione da Giacobbe Barudeo di Edessa, sostenuto dal favore dell’imperatrice Teodora, e da allora in poi la loro Chiesa è stata di solito conosciuta con il nome di giacobita. I monofisiti d’Egitto, ora chiamati copti, comprendevano quasi tutta la popolazione indigena. I nestoriani, al sicuro oltre la frontiera persiana e in rapida espansione verso Oriente, consolidarono la loro posizione nell’Impero. Ad eccezione delle città della Palestina, gli ortodossi si trovarono in minoranza e vennero con disprezzo chiamati melchiti, gli uomini dell’imperatore; e a buon diritto, poiché la loro esistenza dipendeva dal potere e dal prestigio dell’amministrazione imperiale6. Nell’anno 602 il centurione Foca s’impadronì del trono imperiale. Egli governò con brutalità ed incompetenza, e mentre Costantinopoli subiva un regno di terrore, le province furono preda di tumulti e di guerre civili fra le opposte fazioni che si formavano nel circo delle città e fra le sette religiose rivali. Ad Antiochia il patriarca giacobita e quello nestoriano tennero apertamente un concilio unito per discutere l’azione comune contro gli ortodossi. Foca li punì inviando un esercito che massacrò un gran numero di eretici, mentre gli ebrei prestavano la loro collaborazione. Due anni più tardi gli ebrei stessi si sollevarono e torturarono e trucidarono il patriarca ortodosso della città7. Nel 610 Foca fu spodestato da un giovane nobile di discendenza armena, Eraclio, figlio del governatore dell’Africa. In quello stesso anno il re di Persia, Cosroe II, ultimò i suoi preparativi per l’invasione e lo smembramento dell’Impero. La guerra con i persiani durò diciannove anni e per dodici l’Impero fu costretto alla difensiva mentre un esercito nemico occupava l’Anatolia e un altro conquistava la Siria: Antiochia cadde nel 611, Damasco nel 613. Nella primavera del 614 il generale persiano Shahrbaraz penetrò in Palestina, saccheggiando la regione ed incendiando le chiese ovunque passasse. Soltanto la chiesa della Natività a Betlemme venne risparmiata, a causa del mosaico sulla porta che rappresentava i Magi d’Oriente in costumi persiani. Il 15 aprile egli investi Gerusalemme. Il patriarca Zaccaria era disposto a consegnare la città per evitare spargimenti di sangue, ma gli abitanti cristiani rifiutarono di arrendersi senza opporre resistenza. Il 5 maggio, con l’aiuto degli ebrei che si trovavano all’interno della città, i persiani vi penetrarono a forza: ne seguirono scene di indescrivibile orrore. Mentre intorno le loro chiese e case erano in fiamme, i cristiani vennero massacrati indiscriminatamente, alcuni dai soldati persiani, molti dagli ebrei. Si disse che

sessantamila perissero mentre altri trentacinquemila vennero venduti schiavi. Le sacre reliquie della città, la Santa Croce e gli Strumenti della Passione, erano state nascoste, ma furono scoperte ed inviate, insieme con il patriarca, verso Oriente, come dono per la cristiana regina di Persia, la nestoriana Meryem. Le devastazioni nella città e nei dintorni furono cosi grandi che la regione non riuscì più completamente a riprendersi8. Tre anni dopo i persiani penetrarono in Egitto e in un anno se ne impadronirono. Frattanto, a nord, i loro eserciti erano giunti al Bosforo9. La caduta di Gerusalemme era stata un colpo terribile per la cristianità. La parte sostenuta dagli ebrei non venne mai dimenticata né perdonata, e la guerra contro i persiani assunse l’aspetto di una guerra santa. Quando infine Eraclio si trovò in condizioni, nel 622, di prendere l’offensiva contro il nemico, consacrò solennemente a Dio se stesso ed il suo esercito e si presentò come un guerriero cristiano in lotta contro le potenze delle tenebre. Egli venne raffigurato dalle generazioni seguenti come il primo dei crociati. Guglielmo di Tiro, scrivendo cinque secoli dopo la sua storia delle crociate, vi include la narrazione della guerra persiana, e l’antica traduzione francese del suo libro era conosciuta come il Livre d’Eracles10. La crociata ebbe successo: dopo molte vicissitudini, molti momenti di ansietà e di disperazione, Eraclio sconfisse finalmente i persiani a Ninive, nel dicembre del 627. All’inizio del 628 re Cosroe venne assassinato e il suo successore chiese la pace, ma soltanto nel 629 questa fu conclusa e le province occupate furono restituite all’Impero. In agosto Eraclio celebrò il trionfo a Costantinopoli. Nella primavera seguente tornò di nuovo a sud per ricevere in restituzione la Santa Croce e riportarla in gran pompa a Gerusalemme. Fu una scena commovente; eppure i cristiani d’Oriente non si erano trovati male sotto il dominio persiano; Cosroe aveva invece ritirato ben presto il suo favore agli ebrei e li aveva perfino espulsi da Gerusalemme. Mentre la sua corte favoriva i nestoriani, egli era ufficialmente benevolo allo stesso modo verso i monofisiti e verso gli ortodossi, le cui chiese vennero restituite e ricostruite; sotto il suo patrocinio venne tenuto a Ctesifonte, la sua capitale, un concilio per discutere della riunificazione delle sette. Una volta svanito il primo entusiasmo, si vide che soltanto gli ortodossi traevano beneficio dal ritorno dell’amministrazione imperiale. Eraclio aveva trovato un tesoro esausto ed aveva potuto finanziare le sue guerre soltanto grazie a un grosso prestito concessogli dalla Chiesa, che non era riuscito a ripagare con il bottino strappato alla Persia. I siriani e gli egiziani si trovarono di nuovo costretti a pagare forti tasse e a vedere il loro denaro riempire i forzieri del clero ortodosso11. La politica religiosa di Eraclio non contribuì a migliorare la situazione. Innanzitutto se la prese con gli ebrei; non aveva mai provato animosità nei loro confronti, ma, mentre si trovava presso un ospitale ebreo di Tiberiade, durante il viaggio verso Gerusalemme, apprese tutti i particolari della loro collaborazione con i persiani. Forse spinto anche da una vaga profezia, secondo cui una nazione circoncisa avrebbe causato la rovina dell’Impero, egli ordinò il battesimo obbligatorio di tutti gli ebrei che si trovavano entro le sue frontiere e scrisse ai re dell’Occidente per esortarli a fare altrettanto. Era un ordine impossibile da eseguire, ma offrì ai cristiani zelanti una magnifica occasione per massacrare quel popolo odiato. L’unico risultato definitivo fu di rendere gli ebrei ancor più ostili verso il governo imperiale12. In seguito l’imperatore s’immerse nelle pericolose acque della teologia cristiana. Il patriarca Sergio di Costantinopoli, un siriano monofisita, aveva a poco a poco elaborato una dottrina che, secondo lui, avrebbe riconciliato monofisiti ed ortodossi. Eraclio diede la sua approvazione alla nuova dottrina ed essa, passata alla storia con il nome di

monoergismo, venne promulgata in tutto l’Impero non appena ebbero termine le guerre persiane. Tuttavia, nonostante l’appoggio dell’imperatore e del patriarca e la cauta approvazione del pontefice romano Onorio, fu dappertutto impopolare. Il clero monofisita la respinse subito e la maggioranza degli ortodossi, guidata a Costantinopoli dal grande mistico Massimo il Confessore e da Sofronio in Oriente, la ritenne ugualmente inaccettabile. Eraclio, con più entusiasmo che tatto, cercò in tutti i modi di imporla ai suoi sudditi, ma non trovò aderenti, ad eccezione dei suoi cortigiani e di alcuni armeni e libanesi, chiamati più tardi maroniti. L’imperatore modificò allora la dottrina e nella sua Ekthesis, pubblicata nel 638, sostenne con altrettanto scarsi risultati il monotelismo. L’intero episodio, che fu chiarito definitivamente soltanto dopo il sesto concilio ecumenico nel 680, contribuì ad aumentare i rancori e la confusione che stavano conducendo alla rovina i cristiani d’Oriente13. Si narra che mentre Eraclio si trovava a Costantinopoli nel 629 per ricevere le ambascerie venute a congratularsi con lui da paesi lontani come la Francia e l’India, ricevesse una lettera da un capo arabo che si proclamava Profeta di Dio e ingiungeva all’imperatore di aderire alla sua fede. Lettere simili sarebbero state inviate anche ai re di Persia e di Abissinia e al governatore d’Egitto. L’aneddoto è probabilmente apocrifo. È poco probabile che Eraclio avesse già a quel momento qualche idea dei grandi avvenimenti che stavano sconvolgendo la penisola araba. Al principio del secolo VII l’Arabia era abitata da numerose tribù indisciplinate e indipendenti, alcune nomadi, altre dedite all’agricoltura e poche altre stabilite nelle città commerciali sorte lungo le strade carovaniere. Era un paese idolatra: ogni regione aveva i propri idoli particolari, ma il più sacro di tutti era la kaaba alla Mecca, la più importante città mercantile. L’idolatria era però in declino poiché missionari ebrei, cristiani e zoroastriani erano stati a lungo all’opera nel paese. I seguaci di Zoroastro avevano raccolto successi soltanto nei distretti che si trovavano sotto l’influenza politica persiana, a nord-est e più tardi nel sud. Gli ebrei avevano le loro colonie in molte città arabe, soprattutto a Medina, ed avevano convertito un certo numero di arabi. I cristiani avevano ottenuto i risultati più consistenti: gli ortodossi avevano i loro seguaci nel Sinai e nella Petrea; i nestoriani si trovavano, come gli zoroastriani, nelle zone sotto protezione persiana; ma i monofisiti avevano comunità lungo le grandi strade carovaniere fino nello Yemen e nello Hadramaut, mentre molte importanti tribù al margine del deserto, come i Banu Ghassan e i Banu Taghlib, erano completamente monofisite. I mercanti arabi, che si recavano frequentemente nelle città della Siria, della Palestina e dell’Iraq, avevano molte altre occasioni di conoscere le religioni del mondo civilizzato, mentre nell’Arabia stessa esisteva un’antica tradizione monoteistica, quella del hanif. Al medesimo tempo si presentava per gli arabi la necessità dell’espansione: le scarse risorse della penisola, diventate ancora più scarse dopo la distruzione delle opere di irrigazione degli himyariti, erano insufficienti per la popolazione crescente. Durante tutta la storia conosciuta le popolazioni del deserto si sono continuamente riversate sulle circostanti terre coltivate, e in quel momento la pressione fu particolarmente forte14. Il genio singolare e straordinario di Maometto conveniva perfettamente a quelle circostanze. Egli era originario della Mecca, la città santa, parente povero della grande famiglia dei Qoraishiti; aveva viaggiato e visto il mondo e ne aveva studiato le religioni; era stato attratto in modo particolare dal cristianesimo monofisita, ma la dottrina della Trinità gli sembrava incompatibile con il puro monoteismo che egli ammirava nella tradizione hanif. La dottrina che egli stesso elaborò, anche se non respingeva completamente il cristianesimo, ne era una forma corretta e semplificata che il suo popolo poteva accettare molto più facilmente. Il suo successo come capo religioso fu dovuto soprattutto alla sua perfetta conoscenza degli arabi; sebbene fosse di gran lunga il più capace di tutti

loro, egli ne condivideva sinceramente i sentimenti e i pregiudizi ed era dotato inoltre di una straordinaria abilità politica. L’insieme di queste qualità lo mise in grado di costruire dal nulla, in dieci anni, un impero pronto a conquistare il mondo: nel 622, l’anno dell’Egira, i suoi seguaci consistevano soltanto dei suoi familiari e di un gruppetto di amici; nel 632, alla sua morte, egli era signore dell’Arabia e i suoi eserciti ne stavano varcando le frontiere. L’improvviso affermarsi di avventurieri è cosa abbastanza frequente in Oriente, ma la loro caduta è di solito altrettanto rapida; Maometto, invece, lasciò un’organizzazione duratura la cui stabilità era garantita dal Corano. Quest’opera, compilata con i detti e le sentenze del Profeta, contiene non soltanto massime e racconti edificanti, ma anche norme di vita e regole per il governo di un impero, oltre a un completo codice di leggi. Era abbastanza semplice da essere accettato dagli arabi suoi contemporanei e abbastanza universale da adattarsi alle necessità dell’immenso impero che i suoi successori stavano per costruire. Infatti la forza dell’Islam risiede nella sua semplicità: c’è un Dio in cielo, un capo dei fedeli per governare sulla terra e una legge, il Corano, che gli prescrive come governare. A differenza del cristianesimo, che predicava una pace che non realizzò mai, l’Islam si presentò senza vergogna con la spada15. La spada colpi le province dell’Impero romano già durante la vita del profeta con alcune piccole e non molto fortunate scorrerie in Palestina. Con Abu Bakr, successore di Maometto, la politica di espansione divenne manifesta. La conquista dell’Arabia fu completata con l’espulsione dei persiani dalla loro colonia di Bahrein, mentre un esercito arabo attraversava la Petrea lungo la strada commerciale verso la costa meridionale della Palestina, sconfiggeva il governatore locale Sergio nelle vicinanze del Mar Morto ed avanzava su Gaza, conquistandola dopo un breve assedio. I cittadini furono risparmiati, ma i soldati della guarnigione furono i primi martiri cristiani per la spada dell’Islam16. Ad Abu Bakr successe nel 634 Omar, che ereditò parimenti la sua determinazione di estendere la potenza musulmana. Nel frattempo l’imperatore Eraclio, che si trovava ancora nella Siria settentrionale, si rese conto della necessità di affrontare seriamente le invasioni arabe. Egli era a corto di uomini, poiché le perdite subite durante la guerra persiana erano state gravi e dalla fine del conflitto aveva smobilitato parte delle truppe per ragioni di economia; d’altronde mancava ogni entusiasmo verso l’arruolamento nell’esercito. Su tutto il suo impero era discesa quell’atmosfera di stanchezza e pessimismo che cosi spesso assale i vincitori non meno che i vinti dopo una lunga, dolorosa guerra. Nondimeno egli inviò suo fratello Teodoro alla testa delle truppe della provincia siriana perché ristabilisse l’ordine in Palestina. Teodoro si scontrò con i due principali eserciti arabi congiunti a Gabatha o Ajnadein, a sud-ovest di Gerusalemme, e subì una decisiva sconfitta. Gli arabi, sicuri nella Palestina meridionale, risalirono allora la strada commerciale che, ad oriente del Giordano, porta a Damasco e alla valle dell’Oronte: Tiberiade, Baalbek e Homs caddero nelle loro mani senza opporre resistenza e Damasco capitolò dopo un breve assedio nell’agosto del 635. Eraclio era ormai seriamente allarmato, e con qualche difficoltà riuscì ad inviare verso sud altri due eserciti: uno era formato da armeni agli ordini del principe armeno Vahan, e da un gran numero di arabi cristiani, guidati da uno sceicco dei Banu Ghassan; l’altro era comandato da Teodoro Trithyrio e comprendeva truppe miste. Alla notizia del loro avvicinarsi, i musulmani evacuarono la valle dell’Oronte e Damasco, ritirandosi verso il Giordano. Trithyrio li raggiunse a Jabbia, nello Hauran, ma fu sconfitto; riuscì comunque a tenere una posizione sul fiume Yarmuk finché l’esercito di Vahan poté riunirsi con lui. Quivi, il 20 agosto 636, in un’accecante tempesta di sabbia venne combattuta la battaglia decisiva. I cristiani avevano l’esercito più numeroso, ma vennero superati sul piano tattico;

inoltre nel mezzo della battaglia il principe ghassanida e dodicimila arabi cristiani passarono al nemico: erano monofisiti che odiavano Eraclio e dovevano ancora ricevere il soldo di molti mesi. Era stato facile spingerli a tradire e decidere così l’esito del combattimento. La vittoria musulmana fu completa: Trithyrio e Vahan perirono con quasi tutti i loro uomini, la Palestina e la Siria erano aperte ai conquistatori17. Eraclio si trovava ad Antiochia quando gli giunse la notizia della battaglia. Ne fu completamente abbattuto e vi scorse la mano di Dio che lo puniva per il suo incestuoso matrimonio con sua nipote Martina. Non aveva né gli uomini né il denaro per continuare a difendere la provincia e, dopo una solenne cerimonia d’intercessione nella cattedrale di Antiochia, scese al mare e s’imbarcò per Costantinopoli, esclamando amaramente mentre si staccava dalla riva: «Addio, addio per molto tempo, Siria»18. Gli arabi invasero rapidamente il paese, i cristiani eretici si sottomisero senza esitazione e gli ebrei collaborarono attivamente. La resistenza venne organizzata soltanto nelle due grandi città della Palestina, Cesarea e Gerusalemme, e nelle fortezze di Pella e Darà sulla frontiera persiana. A Gerusalemme, alla notizia della battaglia dello Yarmuk, Sofronio aveva fatto restaurare le difese della città; poi, quando udì che il nemico era giunto a Gerico, raccolse le sacre reliquie di Cristo e le mandò di notte sulla costa perché venissero trasportate a Costantinopoli: esse non dovevano cadere di nuovo nelle mani degli infedeli. Gerusalemme resistette all’assedio per più di un anno, Cesarea e Darà non caddero fino al 639, ma a quel tempo erano ormai avamposti isolati. La metropoli dell’Oriente, Antiochia, era caduta l’anno prima e l’intero paese, dall’istmo di Suez ai monti dell’Anatolia, si trovava nelle mani dei musulmani19. Questi, frattanto, avevano distrutto l’antica rivale di Roma, la Persia. La vittoria a Kadesiah, nel 637, diede loro l’Iraq e una seconda vittoria, l’anno seguente, a Nekhavend consegnò loro l’altopiano iranico. Re Yazdegerd III, l’ultimo dei Sassanidi, resistette ancora a Khorassan fino al 651, ma in quell’anno gli arabi avevano già raggiunto le frontiere orientali sull’Oxo e sulle colline afgane20. Nel dicembre del 639 il generale musulmano Amr invase l’Egitto con quattromila uomini. L’amministrazione della provincia era stata caotica sin dalla fine dell’occupazione persiana e il governatore, il patriarca Ciro di Alessandria, era corrotto e non molto sagace. Si era convertito dal nestorianesimo ed era il principale sostenitore dell’imperatore nelle sue dottrine monotelite, che era deciso a imporre ai copti riluttanti. Il suo governo era talmente odiato che Amr non ebbe nessuna difficoltà a trovare alleati fra i suoi sudditi. All’inizio del 640 Amr s’impadronì, dopo due mesi d’assedio, della grande fortezza di frontiera di Pelusio, dove ricevette rinforzi dal califfo. Poi avanzò su Babylon (l’antica Cairo), dove si era concentrata la guarnigione imperiale. Una battaglia a Eliopoli nell’agosto del 640, costrinse l’esercito imperiale a ritirarsi nella cittadella di Babylon, che resistette sino all’aprile del 641. Frattanto gli arabi occupavano l’Egitto superiore. Alla caduta di Babylon, Amr marciò su Alessandria attraverso il Fayyum, abbandonato dal governatore e dalla guarnigione in fuga. Ciro era già stato richiamato a Costantinopoli per il giustificato sospetto di avere stretto un patto proditorio con Amr. Ma Eraclio morì in febbraio e la sua vedova, l’imperatricereggente Martina, era personalmente troppo malsicura a Costantinopoli per difendere l’Egitto. Ciro venne rinviato in Egitto per trattare sulle possibili condizioni di pace; in novembre si recò da Amr, a Babylon, e firmò la capitolazione di Alessandria, ma nel frattempo Martina era caduta ed il nuovo governo non riconobbe né Ciro né il suo trattato; Amr da parte sua lo aveva già violato invadendo la Pentapoli e la Tripolitania. Tuttavia sembrava impossibile conservare Alessandria quando tutto il resto dell’Egitto era ormai in mano araba e la città capitolò nel novembre del 642. Ma non tutte le

speranze erano perdute: nel 644 giunse la notizia che Amr era caduto in disgrazia ed era stato richiamato a Medina. Un nuovo esercito venne inviato da Costantinopoli via mare, e al principio del 645 rioccupò facilmente Alessandria e marciò poi su Fostat, la capitale che Amr aveva fondato vicino a Babylon. Amr tornò in Egitto e sbaragliò le forze imperiali vicino a Fostat. Il loro generale, l’armeno Manuele, si ritirò su Alessandria, ma, impressionato per il totale disinteresse della popolazione cristiana verso il. suo tentativo di riconquistare il paese per la cristianità, non fece nessuno sforzo per difendere la città e s’imbarcò di nuovo alla volta di Costantinopoli. Il patriarca copto Beniamino restituì Alessandria a Amr21. L’Egitto era perduto per sempre; nell’anno 700 l’Africa romana era nelle mani degli arabi e undici anni dopo essi occupavano la Spagna. Nel 717 il loro impero si estendeva dai Pirenei all’In dia centrale e i loro guerrieri premevano contro le mura di Costantinopoli.

Capitolo secondo Il regno dell’anticristo

Dai nostri posti di vedetta scrutavamo la venuta di una nazione che non poteva salvarci. Lamentazioni, IV, 17

I cristiani d’Oriente accettarono di buon grado il dominio degli infedeli, né potevano fare altrimenti. C’erano poche probabilità ormai che Bisanzio si levasse di nuovo, come ai tempi dei persiani, per liberare i Luoghi Santi; d’altra parte gli arabi, più saggi dei persiani, costruirono ben presto una flotta con base ad Alessandria, che strappò ai bizantini il loro bene più prezioso, il dominio dei mari; sulla terraferma rimasero all’offensiva per quasi tre secoli. Sembrava assurdo sperare in un aiuto da parte dei principi cristiani. Questo soccorso, poi, non sarebbe stato ben accolto dalle sette eretiche, alle quali il mutamento di governo aveva arrecato sollievo e gioia. Il patriarca giacobita di Antiochia, Michele il Siriano, scrivendo cinque secoli più tardi, al tempo dei regni latini, rifletteva l’antica tradizione del suo popolo quando affermava che «il Dio della Vendetta, che è unico Onnipotente... trasse dal sud i Figliuoli di Ismaele per liberarci per mezzo loro dalle mani dei romani». Questa liberazione, aggiungeva, «fu non piccolo vantaggio per noi»1. I nestoriani facevano eco a questi sentimenti. «I cuori dei cristiani - scrisse un anonimo cronista nestoriano - esultarono per la dominazione degli arabi - possa Iddio renderla forte e prospera!»2.I copti dell’Egitto erano un po’ più severi, ma la loro animosità era rivolta più contro il crudele conquistatore Amr, la sua slealtà e le sue esazioni, che contro il suo popolo e la sua religione3. Perfino gli ortodossi, risparmiati dalla persecuzione che avevano temuto e pagando tasse assai inferiori, nonostante la jizya richiesta ai cristiani, a quelle imposte dai bizantini, si mostrarono poco propensi a preoccuparsi per la propria sorte. Soltanto poche tribù montanare, i mardaiti del Libano e del Tauro, continuarono la lotta, ma essi combattevano da fuorilegge e per orgoglio piuttosto che per religione4. La conquista araba ebbe come conseguenza di cristallizzare la situazione delle Chiese d’Oriente in quel momento. Mentre l’Impero cristiano tentava di imporre a tutti i suoi sudditi un’uniformità religiosa - un ideale non mai raggiunto perché gli ebrei non potevano essere né convertiti, né espulsi - gli arabi al contrario, come i persiani prima di loro, erano disposti a tollerare minoranze religiose, purché appartenessero al Popolo della Bibbia. I cristiani, insieme con i seguaci di Zoroastro e con gli ebrei, diventarono dhimmis, ossia popoli protetti, la cui libertà di culto era garantita dal pagamento della jizya, inizialmente una tassa personale, trasformata ben presto in un’imposta per l’esenzione dal servizio militare, a cui si aggiunse una nuova tassa sui terreni, la kharaj. Ogni setta era considerata un milet, una comunità all’interno dello Stato, semiautonoma e con un proprio capo religioso responsabile di fronte al governo del califfo della buona condotta dei suoi membri. Ognuna poteva conservare i luoghi di culto esistenti al tempo della conquista, disposizione, questa, che favoriva gli ortodossi più che i cristiani eretici, poiché Eraclio aveva recentemente restituito loro parecchie chiese. Quest’ultima norma non fu strettamente osservata: i musulmani s’impossessarono di

certe chiese cristiane, come la grande cattedrale di San Giovanni a Damasco, e periodicamente ne distrussero altre; d’altra parte un numero considerevole di chiese e di sinagoghe vennero continuamente costruite. In realtà, più tardi i giuristi musulmani riconobbero ai dhimmis il diritto di costruire, purché i loro edifici non fossero più alti di quelli musulmani ed il suono delle loro campane e dei loro culti non giungesse a orecchie musulmane. Non venne attenuata invece la norma che imponeva ai dhimmis di indossare vesti che li distinguesse dai fedeli e di non andare a cavallo; essi non dovevano offendere pubblicamente le pratiche religiose dei musulmani, né cercare di convertirli o sposare le loro donne, né parlare con irriverenza dell’Islam; inoltre dovevano essere fedeli allo Stato5. Il sistema dei milet determinò una concezione alquanto diversa di ciò che si intendeva per nazionalità. Per molti secoli in Oriente il nazionalismo si era basato su tradizioni culturali, su posizioni geografiche e su interessi economici, più che su principi razziali, eccettuati forse gli ebrei, dato il loro esclusivismo religioso. Ora la fedeltà a una religione si sostituì al sentimento nazionale. Un egiziano, per esempio, non si considerava un cittadino dell’Egitto, ma un musulmano, un copto o un ortodosso, secondo il caso: era la sua religione o il suo milet a determinare la sua obbedienza. Ciò diede agli ortodossi un vantaggio sulle sette eretiche; essi erano ancora conosciuti come melchiti, gli uomini dell’imperatore, e tali si consideravano. Una crudele necessità poteva averli posti sotto il dominio degli infedeli, alle cui leggi erano costretti ad obbedire, ma l’imperatore era il vicario di Dio sulla terra e il loro vero sovrano. San Giovanni Damasceno, benché funzionario civile alla corte del califfo, si rivolse sempre all’imperatore come al proprio signore e padrone, anche se sul piano teologico era in aspro disaccordo con lui, mentre si riferiva a quello che potremmo chiamare il suo datore di lavoro chiamandolo semplicemente l’emiro. I patriarchi orientali, scrivendo nel secolo IX all’imperatore Teofilo per protestare contro la sua politica religiosa, usarono termini simili. Gli imperatori accettarono questa responsabilità e in tutte le loro guerre e trattative diplomatiche con i califfi si preoccuparono del benessere degli ortodossi che vivevano fuori dalle loro frontiere. Non si trattava di questioni di governo: essi non potevano interferire con l’ordinaria amministrazione dei territori musulmani e il patriarca di Costantinopoli non aveva nessuna giurisdizione sui suoi colleghi orientali. Era piuttosto una espressione sentimentale, ma assai potente, della continuità dell’idea che la cristianità era una e indivisibile e che l’imperatore era il simbolo della sua unità6. Le Chiese eretiche, che non godevano della protezione di una simile autorità secolare, erano interamente alla mercè del califfo; di conseguenza ne soffrirono sia la loro influenza, sia il loro prestigio. Inoltre, in origine, le loro eresie erano state determinate in larga misura dal desiderio degli orientali di semplificare le dottrine e le pratiche cristiane; perciò l’islamismo, che era abbastanza vicino al cristianesimo per essere considerato da molti semplicemente come una sua forma avanzata, e che presentava ora il grande vantaggio sociale di essere la religione della nuova classe dirigente, poteva facilmente venire accettato da molti di loro. Non ci sono documenti sul numero dei convertiti dal cristianesimo all’islamismo, ma è certo che la grande maggioranza di costoro proveniva dalle Chiese eretiche più che da quella ortodossa. Un secolo dopo la conquista, la Siria, la cui popolazione era stata prevalentemente composta da cristiani eretici, era un paese in massima parte musulmano, mentre di pochissimo era diminuito il numero degli ortodossi. In Egitto i copti persero terreno meno rapidamente a causa delle loro ricchezze, ma la loro era una resistenza destinata alla sconfitta. D’altra parte il sistema dei milet costringeva gli eretici a continuare ad esistere in quanto tali, poiché rendeva impossibile ogni riunificazione delle Chiese, cristallizzate sulle posizioni che avevano al tempo della conquista. Il progresso dell’islamismo in Siria e in Palestina non fu dovuto a un improvviso afflusso di arabi

dal deserto. Gli eserciti conquistatori non erano molto numerosi e non avevano fornito molto più che una casta militare sovrappostasi alla popolazione esistente, di modo che la composizione razziale degli abitanti del paese rimase praticamente immutata. I cittadini e i borghigiani, sia che accettassero l’Islam sia che rimanessero cristiani, adottarono ben presto la lingua araba per tutti gli usi; oggi noi chiamiamo impropriamente arabi i loro discendenti, che si formarono da un miscuglio di molte razze, dalla fusione delle tribù che avevano abitato il paese prima ancora dell’uscita degli ebrei dall’Egitto, come gli amalechiti, i gebusei, i moabiti, i fenici, o i filistei, che avevano vissuto nel paese quasi altrettanto a lungo, o gli aramei che si erano lentamente e quasi impercettibilmente infiltrati nelle zone coltivate, ed infine quegli ebrei che, come i primi apostoli, avevano aderito alla Chiesa di Cristo. Soltanto gli ebrei praticanti rimasero etnologicamente distinti, ma anch’essi solo relativamente. In Egitto il gruppo camitico offriva un grado di mescolanza minore, che però si era accresciuto a causa di matrimoni con immigrati dalla Siria, dai deserti, dal Nilo superiore e dalle coste dell’intero bacino mediterraneo. L’immigrazione araba fu inevitabilmente molto più forte nelle regioni confinanti con il deserto e nelle città poste sulle strade carovaniere che si snodavano ai suoi margini, La decadenza del commercio marittimo del Mediterraneo, che seguì alla conquista, diede a queste città prevalentemente musulmane un’importanza maggiore di quella delle città ellenistiche più vicine alla costa. Alessandria fu il solo grande porto mantenuto dagli arabi sul Mediterraneo e li e nelle città ellenistiche della Siria i cristiani erano in gran numero, probabilmente più numerosi dei musulmani. Vi era circa la stessa differenza nella regione rurale siriana: nelle pianure e nelle valli dell’interno aumentarono sempre più i musulmani, ma nella zona fra il Libano e il mare prevalsero i cristiani di varie sette. In Egitto la differenza fra città e campagna era maggiore: i fellahin furono in gran parte convertiti all’islamismo, ma le città rimasero largamente cristiane. In Palestina la divisione fu più arbitraria: mentre buona parte del paese divenne musulmana, molti villaggi restarono attaccati all’antica fede e città di particolare importanza per la cristianità, come Nazaret o Betlemme, erano quasi esclusivamente cristiane; nella stessa Gerusalemme, nonostante le misure prese dai musulmani, i cristiani rimasero in maggioranza. Quelli della Palestina appartenevano quasi tutti al milet ortodosso. Vi erano inoltre importanti colonie ebraiche a Gerusalemme e in parecchie città minori, come Safed e Tiberiade. La principale città musulmana era Ramleh, la nuova capitale amministrativa. Le popolazioni di Siria, Palestina ed Egitto restarono approssimativamente suddivise in questo modo per i successivi quattro secoli7. Il quinto califfo, l’omeiade Moawiya, era stato governatore di Siria e dopo la sua ascesa nel 660 d. C. stabilì la sua capitale a Damasco, dove i suoi discendenti regnarono per quasi un secolo. Fu questo un periodo di prosperità per la Siria e la Palestina: i califfi omeiadi furono, quasi tutti, uomini di eccezionale abilità e di aperta tolleranza. La presenza della loro corte nella provincia assicurava il suo buon governo ed un’intensa attività commerciale; essi poi favorirono la cultura locale ellenistico-cristiana, influenzata da gusti ed idee che noi associamo al nome di Bisanzio. Cristiani di lingua greca furono impiegati nell’amministrazione civile e per molti decenni gli atti ufficiali dello Stato furono tenuti in greco. Artisti e artigiani cristiani lavorarono per i califfi: la Cupola della Roccia a Gerusalemme, compiuta per il califfo Abdul-Malik nel 691, è il più alto esempio di costruzioni in stile rotondo dell’architettura bizantina. I mosaici che vi si trovano, e quelli ancora più belli posti nel cortile della grande moschea di Damasco per conto di suo figlio Walid I, sono fra i prodotti più squisiti dell’arte bizantina. Si discute ancora per stabilire in che misura essi fossero opera di artigiani locali e in che misura questi fossero aiutati dai tecnici e dal materiale che Walid importò certamente da Bisanzio. Questi mosaici rispettavano accuratamente la proibizione del Profeta di

raffigurare creature viventi, ma nei loro palazzi di campagna, prudentemente distanti dagli sguardi di disapprovazione dei mullahs - per esempio nel padiglione di caccia di Kasr al-Amra, nelle steppe oltre il Giordano - gli Omeiadi fecero liberamente dipingere affreschi rappresentanti forme umane e perfino dei nudi. In realtà il loro governo non interruppe lo sviluppo della cultura ellenistica del Medio Oriente, che raggiunse a quel tempo la sua più bella e la sua ultima fioritura8. I cristiani non avevano perciò alcun motivo di deplorare il trionfo dell’Islam poiché, nonostante uno sporadico e breve tentativo di persecuzione e alcune norme umilianti, essi vivevano in migliori condizioni di quando si trovavano sotto il dominio degli imperatori cristiani. L’ordine era meglio tenuto, il commercio era fiorente e le tasse erano di gran lunga inferiori. Inoltre per la maggior parte dell’VIII secolo l’imperatore cristiano fu un eretico, un iconoclasta, un oppressore di tutti gli ortodossi che veneravano le sacre immagini; i buoni cristiani erano più felici sotto il governo degli infedeli. Ma questo periodo di felicità non durò a lungo. Il declino degli Omeiadi e le guerre civili che portarono i califfi abassidi a Bagdad nel 750 produssero il caos in Siria e in Palestina. Governatori locali senza scrupoli e senza controllo si arricchirono confiscando le chiese cristiane che i fedeli dovevano poi riscattare, e non mancarono ondate di fanatismo, con persecuzioni e conversioni forzate9. La vittoria degli Abassidi riportò l’ordine, ma con una differenza: Bagdad era lontana e vi fu minor controllo sull’amministrazione provinciale, il commercio era ancora attivo lungo le strade carovaniere, ma non esisteva nessun grande mercato locale che lo stimolasse. Gli Abassidi erano musulmani di più stretta osservanza degli Omeiadi, perciò meno tolleranti verso i cristiani. Sebbene anch’essi si richiamassero a una cultura più antica, questa non era ellenistica, ma persiana. Bagdad si trova in quello che era stato il territorio del regno sassanide. Funzionari persiani occuparono le cariche più importanti nel governo; nell’arte vennero adottati ideali persiani e nella vita quotidiana usi e costumi persiani; come al tempo degli Omeiadi furono impiegati funzionari cristiani, ma questi, tranne poche eccezioni, erano nestoriani che traevano la loro ispirazione dall’Oriente e non dall’Occidente. Nel complesso la corte abasside dimostrò un maggior interesse per problemi intellettuali che quella degli Omeiadi: si servi liberamente dei nestoriani per la traduzione di opere filosofiche e tecniche dall’antico greco ed incoraggiò scienziati e matematici ad abbandonare Bisanzio, per recarsi ad insegnare nelle scuole di Bagdad. Il loro interesse, però, era superficiale e la civiltà abasside non subì molto profondamente l’influsso del pensiero greco, ma seguì piuttosto le tradizioni tramandate dai regni di Mesopotamia e dell’Iran. L’influenza ellenistica nel mondo musulmano si protrasse soltanto in Spagna, dove si erano rifugiati gli Omeiadi. Tuttavia la massa dei cristiani non si trovava in condizioni troppo infelici sotto gli Abassidi; scrittori arabi, come al-Jahiz nel secolo IX, potevano lanciare violenti attacchi contro di loro, ma questo succedeva perché essi erano troppo ricchi e cominciavano a diventare arroganti ed incuranti delle norme stabilite contro di loro10. Il patriarca di Gerusalemme, scrivendo circa nello stesso tempo al suo collega di Costantinopoli, dice delle autorità musulmane che «sono eque, non ci fanno torto e non ci usano alcuna violenza»11. La loro giustizia e moderazione furono spesso notevoli: quando nel secolo X le cose andavano male per gli arabi nelle guerre contro Bisanzio e la plebaglia araba attaccò i cristiani odiati per le loro simpatie per il nemico, il califfo risarcì sempre i danni arrecati. Può darsi che lo facesse per il timore del rinascente potere dell’imperatore che aveva ormai nei suoi domini musulmani che avrebbe potuto perseguitare per rappresaglia12. Le Chiese ortodosse, appoggiate da potenze straniere, avevano sempre conservato una posizione privilegiata. Al principio del secolo X il Catholicus nestoriano Abramo III, durante una disputa con il patriarca ortodosso di

Antiochia, disse al gran visir: «Noi nestoriani siamo gli amici degli arabi e preghiamo per le loro vittorie», aggiungendo: «Lontano sia da voi il considerare i nestoriani, che non hanno un re diverso da quello degli arabi, allo stesso modo dei greci i cui re non cessano mai di far guerra agli arabi»13. Certamente, il dono di duemila monete d’oro, più che la sua argomentazione, contribuì a fargli vincere la causa. L’unico gruppo di cristiani contro cui si spiegava un’animosità continua furono quelli di schietta discendenza araba, come i Banu Ghassan o i Banu Tanukh: i membri di queste tribù che rifiutarono di lasciarsi convertire con la forza all’islamismo furono costretti a varcare la frontiera e a rifugiarsi a Bisanzio14. L’emigrazione di cristiani verso il territorio imperiale era continua e i musulmani non presero nessuna misura per arginarla. Non sembra che ci sia mai stato un serio tentativo per impedire ai cristiani abitanti dentro e oltre le frontiere del califfato di mantenere fra loro strette relazioni, perfino in tempo di guerra. Durante la maggior parte del periodo abasside l’imperatore bizantino non era abbastanza forte per intervenire a favore dei suoi correligionari. L’insuccesso arabo dinanzi a Costantinopoli nel 718 aveva garantito la continuità dell’Impero, ma trascorsero due secoli prima che Bisanzio potesse seriamente prendere l’offensiva contro gli invasori e nel frattempo gli ortodossi d’Oriente avevano scoperto un nuovo protettore straniero. L’affermarsi dell’Impero carolingio nel secolo VIII non passò inosservato nel Levante e quando alla fine del secolo Carlo Magno, che doveva ben presto essere incoronato imperatore a Roma, mostrò un particolare interesse per i Luoghi Santi, le sue attenzioni vennero accolte con molto favore. Il califfo Harun al-Raschid, soddisfatto di trovare un alleato contro Bisanzio, lo incoraggiò in tutti i modi a stabilire fondazioni a Gerusalemme e ad inviare elemosine alla sua chiesa. Per un certo periodo Carlo sostituì l’imperatore bizantino nella sua qualità di monarca protettore degli ortodossi di Palestina, e questi ripagarono il suo favore inviandogli segni onorifici della loro considerazione. Ma la decadenza del suo impero sotto i suoi successori e la rinascita di Bisanzio resero breve la durata di questo intervento franco, che fu presto ricordato soltanto per gli ostelli che Carlo aveva costruito, per i servizi religiosi di rito latino tenuti nella chiesa di Santa Maria dei Latini e per le monache latine di servizio al Santo Sepolcro. Ma in Occidente questo episodio non fu mai dimenticato e venne anzi esagerato dalla leggenda e dalla tradizione: ben presto sii credette che Carlo avesse stabilito un legittimo protettorato sui Luoghi Santi e perfino, col tempo, che egli stesso vi si fosse recato in pellegrinaggio. I franchi delle generazioni posteriori si convinsero che il loro diritto a regnare su Gerusalemme fosse stato riconosciuto e sanzionato15. I cristiani orientali erano più direttamente interessati dal risorgere della potenza bizantina. Al principio del secolo IX l’Impero era ancora sulla difensiva, la Sicilia e Creta erano in mano ai musulmani, e quasi ogni anno alcune grandi incursioni arabe si spingevano fin nel cuore dell’Asia Minore. Alla metà del secolo, soprattutto per la saggia economia dell’imperatrice reggente Teodora, la flotta bizantina era riorganizzata e nuovamente equipaggiata e, grazie alla sua potenza, il dominio bizantino venne presto ristabilito sull’Italia meridionale e sulla Dalmazia. Al principio del secolo X cominciò il rapido declino del califfato abasside: sorsero dinastie locali, fra cui le più importanti furono quelle degli Hamdanidi di Mosul ed Aleppo e degli Ikshidi dell’Egitto. I primi erano valorosi guerrieri e ferventi musulmani e per un certo tempi;) costituirono un baluardo contro l’aggressione bizantina, senza peraltro riuscire ad arrestare la decadenza musulmana, e anzi contribuendovi con le guerre civili da loro provocate. Nel corso di queste lotte gli Ikshidi riuscirono a imporre il loro controllo sulla Palestina e la Siria meridionale. I bizantini furono pronti ad approfittare della situazione: la loro offensiva fu dapprima cauta, ma verso il 945, nonostante il valore del principe

hamdanida Saif ad-Daula, il loro capo Giovanni Curcuas aveva conquistato all’Impero città e province della Mesopotamia superiore che da tre secoli non avevano visto un esercito cristiano16. Dopo il 960, quando il grande generale Niceforo Foca assunse il comando dell’esercito imperiale, le cose si mossero più rapidamente: nel 961 egli riconquistò Creta; nel 962 condusse una campagna sulla frontiera di Cilicia ed occupò Anazarbo e Marash (Germanicia), isolando cosi la Cilicia musulmana; nel 963 si trovò impegnato in patria nella preparazione di un colpo di Stato che, con l’aiuto dell’esercito e dell’imperatrice reggente, lo portò sul trono; nel 964 tornò in Oriente e nel 965 completò la conquista della Cilicia, mentre una spedizione inviata a Cipro ristabiliva l’assoluto controllo bizantino sull’isola; nel 966 condusse una campagna sul medio Eufrate per tagliare le comunicazioni fra Aleppo e Mosul 17. L’intero Oriente cristiano si scosse e parve vicino il momento della sua liberazione. Il patriarca Giovanni di Gerusalemme gli scrisse per incitarlo ad affrettarsi a scendere in Palestina, ma per una volta tanto il tradimento si dimostrò troppo grave per la pazienza dei musulmani e Giovanni venne arrestato e bruciato sul rogo dalla popolazione infuriata18. Le speranze di Giovanni erano premature: nel 967 e 968 Niceforo fu impegnato sulla frontiera settentrionale, ma nel 969 condusse di nuovo il suo esercito verso sud, proprio nel cuore della Siria, e risali la valle dell’Oronte conquistando e saccheggiando una dopo l’altra le grandi città di Shaizar, Hama e Homs, e tagliando verso la costa fino ai sobborghi di Tripoli. Mosse poi verso nord, lasciando in fiamme dietro di sé Tortosa, Biblo e Lattakieh, mentre i suoi luogotenenti assediavano Antiochia e Aleppo. L’antica metropoli di Antiochia fu presa in ottobre, Aleppo si arrese alla fine dell’anno. Antiochia, dove probabilmente i cristiani erano più numerosi dei musulmani, fu incorporata all’Impero, e sembra che i musulmani fossero costretti ad abbandonare il suo territorio. Aleppo, che era una città quasi interamente maomettana, diventò uno Stato vassallo e il trattato stipulato con il suo governante delimitava accuratamente la frontiera fra la nuova provincia imperiale e le città tributarie. Il governatore di Aleppo doveva essere designato dall’imperatore; lo Stato vassallo doveva pagare direttamente al tesoro imperiale gravi tasse, da cui i cristiani dovevano essere esentati; privilegi e protezione speciali dovevano essere accordati ai mercanti e alle carovane imperiali. Queste condizioni umilianti sembravano presagire la fine del potere musulmano in Siria19. Ma prima della caduta di Aleppo l’imperatore era stato assassinato a Costantinopoli dall’imperatrice e dal suo amante, il di lui cugino Giovanni Zimisce. Niceforo era un uomo bieco e antipatico, e nonostante le sue vittorie era odiato a Costantinopoli per le sue esazioni fiscali e la sua corruzione e per l’aspra contesa con la Chiesa. Giovanni, già noto come un brillante generale, gli succedette senza difficoltà e si rappacificò con la Chiesa abbandonando la sua amante imperiale. Ma una guerra con la Bulgaria lo trattenne in Europa per i successivi quattro anni: nel frattempo l’Islam si risvegliava sotto la dinastia fatimita, stabilitasi in Egitto e nella Siria meridionale, e nel 971 tentò persino la riconquista di Antiochia. Nel 974 Giovanni poté rivolgere la sua attenzione all’Oriente: nell’autunno discese nella Mesopotamia orientale, conquistò Nisibin, ridusse Mosul a vassallaggio e progettò perfino un’improvvisa marcia su Bagdad, ma si rese conto che i Fatimiti erano nemici più pericolosi dei loro rivali Abassidi, e la primavera seguente avanzò in Siria. Seguendo l’itinerario percorso da Niceforo sei anni prima, risalì rapidamente la valle dell’Oronte, superò Homs, che si sottomise senza opporre resistenza, e Baalbek, che conquistò con la forza, e si precipitò su Damasco che gli promise tributo e un’umile alleanza. Poi proseguì in Galilea, a Tiberiade e a Nazaret, quindi fino alla costa, a Cesarea. Inviati di Gerusalemme giunsero per supplicarlo di risparmiare gli orrori di un saccheggio alla Città Santa, ma egli non si sentì di avanzare in quella direzione, finché tutte le

città della costa fenicia alle sue spalle non fossero state occupate. Si ritirò verso nord conquistandole una dopo l’altra, ad eccezione del porto fortificato di Tripoli. L’inverno era vicino e l’imperatore fu costretto a differire i suoi sforzi; tornando verso Antiochia si impadronì dei due grandi castelli del Libano settentrionale, Barzuya e Sahyun, e vi lasciò una guarnigione, poi fece ritorno a Costantinopoli. Ma non poté più riprendere la campagna: morì improvvisamente, nel gennaio del 97620. L’Impero cristiano era tornato ad essere ancora una volta la grande potenza dell’Oriente per mezzo di questa serie di guerre che, per la prospettiva della liberazione dei cristiani orientali, avevano assunto il carattere di guerre di religione. Fino allora le guerre contro i musulmani erano state regolarmente intraprese per la difesa dell’Impero ed erano state considerate questioni di ordinaria amministrazione. Anche se di tanto in tanto qualche fanatico vincitore musulmano offriva ai prigionieri cristiani l’alternativa fra l’apostasia e la morte e il loro martirio era debitamente ricordato e onorato, tali casi erano rari. L’opinione pubblica di Bisanzio non attribuiva maggior merito alla morte in battaglia per la difesa dell’Impero contro gli arabi infedeli che contro i bulgari cristiani, e neppure la Chiesa faceva delle distinzioni. Ma sia Niceforo, sia Giovanni proclamarono che la loro lotta si combatteva per la gloria della cristianità, per la liberazione dei Luoghi Santi e per la distruzione dell’Islam. Quando un imperatore celebrava un trionfo sui musulmani, già i cori cantavano: «Gloria a Dio che ha vinto i saraceni!»21. Come imperatore, Niceforo affermò vigorosamente il carattere sacro delle sue guerre, forse anche per controbilanciare le sue cattive relazioni con la Chiesa; tuttavia non poté mai forzare il patriarca ad approvare un decreto che annunciasse che i soldati caduti sul fronte orientale sarebbero stati considerati martiri, poiché per la Chiesa orientale neppure le esigenze di guerra giustificavano pienamente l’assassinio22. Ma nell’insultante proclama che egli inviò al califfo prima di iniziare la sua campagna del 964, si presentò come il campione cristiano e minacciò perfino di marciare sulla Mecca per stabilirvi il trono di Cristo23. Giovanni Zimisce usò lo stesso linguaggio. In una sua lettera al re d’Armenia a proposito della campagna del 974 egli afferma: «Era nostro desiderio liberare il Santo Sepolcro dalle offese dei musulmani». Racconta poi come abbia risparmiato le città della Galilea dal saccheggio a causa della loro importanza nella storia del cristianesimo e, ricordando il suo scacco a Tripoli, aggiunge che se non fosse stato per questo, egli sarebbe andato alla Città Santa e avrebbe pregato sui Luoghi Sacri24. Gli arabi erano sempre stati più inclini a considerare la guerra come una questione religiosa, ma anch’essi si erano infiacchiti. Ora, intimoriti dai cristiani, tentarono di ravvivare il loro fervore e nel 974 a Bagdad scoppiarono tumulti che costrinsero il califfo, a cui personalmente non era dispiaciuto assistere alla sconfitta dei Fatimiti, a proclamare una guerra santa, una jihad25. Era parso che la Terra Santa sarebbe finalmente tornata ad avere un governo cristiano, ma l’attesa degli ortodossi di Palestina fu vana. Il successore di Giovanni, il legittimo imperatore Basilio II, sebbene si dimostrasse un grande guerriero, non ebbe mai l’opportunità di proseguire l’avanzata verso il meridione, poiché si trovò completamente impegnato in lotte civili seguite da una lunga guerra contro i bulgari. Poté recarsi in Siria soltanto due volte: per ristabilire la sovranità bizantina su Aleppo nel 995 e per scendere lungo la costa fino a Tripoli nel 999. Nel 1001 decise che sarebbe stato inutile compiere altre conquiste e stipulò una tregua decennale con il califfo fatimita. Questa pace non venne seriamente interrotta per più di mezzo secolo. Fu stabilito che la frontiera tra gli imperi si estendesse dalla costa fra Banyas e Tortosa all’Oronte, proprio a sud di Cesarea-

Shaizar; Aleppo rimase ufficialmente nella sfera d’influenza bizantina, ma la dinastia mirdasita, stabilitavisi nel 1023, ottenne ben presto l’indipendenza di fatto. Nel 1030 il suo emiro sconfisse duramente un esercito bizantino, ma la perdita di Aleppo venne controbilanciata l’anno dopo con l’annessione di Edessa all’Impero cristiano26. La pace conveniva sia all’Impero che ai Fatimiti poiché entrambi erano preoccupati per la rinascita del califfato di Bagdad sotto la guida di avventurieri turchi venuti dall’Asia centrale. Il monarca fatimita, accettato dai musulmani shia come vero califfo, non poteva tollerare nessun consolidamento delle pretese abassidi, mentre Bisanzio considerava la sua frontiera orientale più vulnerabile di quella meridionale. Il timore dei turchi indusse Basilio II ad annettere dapprima le province armene più vicine all’Impero, poi ad impadronirsi del distretto che si trovava all’estremo sud-est del paese, il principato di Vaspurakan. I suoi successori continuarono la sua politica: nel 1045 il re di Ani, il più importante sovrano dell’Armenia, cedeva le sue terre all’imperatore e nel 1064 l’ultimo Stato armeno indipendente, il principato di Kars, veniva assorbito nel territorio imperiale27. L’annessione dell’Armenia fu dettata da considerazioni di carattere militare. L’esperienza aveva insegnato che non ci si poteva fidare dei principi armeni: sebbene fossero cristiani e non avessero nulla da guadagnare da una conquista musulmana, erano eretici e come tali odiavano gli ortodossi più appassionatamente di qualsiasi oppressore musulmano. Nonostante il commercio e le relazioni culturali continue e nonostante il fatto che molti armeni emigrassero nell’Impero e vi raggiungessero le più alte cariche, l’ostilità non cessò mai. Dalle valli dell’Armenia era però facile penetrare nel cuore dell’Asia Minore, come già era stato dimostrato in passato da altre guerre di frontiera, e le autorità militari non potevano permettere che una zona cosi pericolosa rimanesse fuori dal loro controllo. Politicamente, però, l’annessione si rivelò un atto assai poco saggio, perché gli armeni si sentirono offesi dal governo bizantino e se le guarnigioni imperiali poterono stabilirsi sulle frontiere del paese, all’interno vi era una popolazione numerosa e malcontenta, la cui slealtà si dimostrò pericolosa, tanto più che, sciolta dall’obbedienza al principe locale, prese a emigrare e a spargere il disordine nell’Impero. Uomini di Stato più prudenti e meno ossessionati degli imperatori soldati di Bisanzio da considerazioni militari, avrebbero esitato a creare una questione armena che distruggeva l’uniformità dell’Impero ed aggiungeva ai suoi sudditi una minoranza discorde. La Siria settentrionale era passata sotto il dominio bizantino, ma i cristiani della Siria meridionale e della Palestina trovarono che il governo fatimita era facilmente tollerabile. Essi subirono un breve periodo di persecuzione soltanto quando il califfo Hakim, la cui madre era cristiana e i cui educatori erano stati cristiani, reagì improvvisamente contro gli influssi della sua formazione giovanile e per dieci anni, dal 1004 al 1014, nonostante le proteste dell’imperatore, approvò disposizioni anticristiane, cominciando con il confiscare proprietà della Chiesa, dando alle fiamme croci, facendo costruire piccole moschee sui tetti delle chiese, e infine incendiando le chiese stesse. Nel 1009 ordinò la distruzione della chiesa del Santo Sepolcro, con il pretesto che il miracolo annuo del Fuoco Santo, che vi si celebrava alla vigilia del Venerdì Santo, era certamente un empio trucco. Verso il 1014 circa trentamila chiese erano state bruciate o saccheggiate, e molti cristiani avevano aderito all’Islam per aver salva la vita. Misure simili furono prese anche contro gli ebrei e sarebbe il caso di aggiungere che i musulmani stessi erano ugualmente esposti a persecuzioni arbitrarie da parte di questo capo della loro fede, che per tutto questo tempo continuò a servirsi di ministri cristiani. Nel 1013, come concessione all’imperatore, venne consentito ai cristiani di emigrare in territorio bizantino. La persecuzione ebbe fine soltanto quando Hakim si convinse di

essere divino; questa divinità venne pubblicamente proclamata nel 1016 dal suo amico Darazi e poiché i musulmani si dimostrarono più profondamente scandalizzati degli altri da questa dichiarazione, Hakim prese a favorire i cristiani e gli ebrei e a colpire i musulmani, proibendo il digiuno del Ramadan e il pellegrinaggio alla Mecca. Nel 1017 venne concessa ai cristiani e agli ebrei piena libertà di culto e quasi subito circa seimila persone che avevano abiurato tornarono all’ovile cristiano; nel 1020 furono restituite alle chiese le proprietà confiscate, compresi i materiali asportati dai loro edifici distrutti e venne abrogata nello stesso tempo la regolamentazione che imponeva vesti distintive. Ma ormai l’ira dei musulmani si era accesa contro il califfo che aveva sostituito il suo nome a quello di Allah nei servizi religiosi nelle moschee. Darazi si rifugiò nel Libano e vi fondò una setta chiamata, dal suo nome, dei drusi; Hakim stesso scomparve nel 1021, probabilmente assassinato dalla sua ambiziosa sorella, Sitt al-Mulk; la sua sorte però rimase, ed è ancora, un mistero e i drusi credono che egli debba fare miracolosamente ritorno28. Dopo la sua morte la Palestina fu governata per un certo tempo dall’emiro di Aleppo, Salih ibn Mirdas, ma nel 1029 il dominio fatimita era completamente restaurato. Nel 1027 era già stato firmato un trattato che concedeva all’imperatore Costantino VIII di intraprendere i lavori di restauro della chiesa del Santo Sepolcro e consentiva ai rimanenti apostati di ridiventare impunemente cristiani. Il trattato venne rinnovato nel 1036, ma l’effettiva ricostruzione della chiesa fu eseguita soltanto circa dieci anni dopo dall’imperatore Costantino IX. Funzionari imperiali poterono recarsi liberamente a Gerusalemme per sovraintendere ai lavori, cosi che ai cittadini e viaggiatori musulmani sembrò, con gran disgusto, che la città fosse completamente nelle mani dei cristiani29. Erano talmente numerosi i bizantini che si vedevano nelle sue vie, da far sorgere la voce fra i musulmani che lo stesso imperatore si fosse recato a Gerusalemme30. Vi si trovava una prospera colonia di mercanti amalfitani i quali, pur godendo della protezione del califfo, facevano ugualmente valere il vassallaggio della loro madrepatria italiana verso l’imperatore, allo scopo di condividere i privilegi concessi ai suoi sudditi31. Il timore della potenza bizantina consentiva ai cristiani di vivere in sicurezza. Il viaggiatore persiano, Nasir-i-Khosrau, che visitò Tripoli nel 1047, descrive il gran numero di navi mercantili greche alla fonda nel porto e il timore degli abitanti per un attacco della flotta bizantina32. Raramente i cristiani di Palestina avevano goduto di un periodo cosi felice come gli anni della metà del secolo XI: le autorità musulmane erano tolleranti, l’imperatore si preoccupava dei loro interessi, il commercio con i paesi cristiani d’oltremare era prospero e in continuo aumento, né mai, prima di allora, Gerusalemme aveva goduto cosi abbondantemente della simpatia e delle ricchezze che i pellegrini occidentali le recavano.

Capitolo terzo I pellegrini di Cristo

I nostri passi si sono fermati entro le tue mura, o Gerusalemme. Salmi, CXXII, 2

Il desiderio di compiere pellegrinaggi è profondamente radicato nella natura umana. Trovarsi là dove vissero coloro che onoriamo, vedere i luoghi stessi dove nacquero, operarono e morirono, ci dà un senso di mistico contatto con loro ed è un modo concreto per esprimere la nostra venerazione. Se poi le folle accorrono da lontano per ammirare i cimeli dei grandi uomini, con molto maggior fervore si recano sui luoghi dove ritengono che la divinità abbia santificato la terra. Agli albori del cristianesimo i pellegrinaggi erano rari poiché il primitivo pensiero cristiano tendeva ad accentuare la divinità e l’universalità di Cristo, piuttosto che la sua umanità; d’altra parte le autorità romane non incoraggiavano i viaggi in Palestina. Gerusalemme stessa, distrutta da Tito, rimase in rovina finché Adriano la ricostruì come città romana con il nome di Ælia. Ma i cristiani la ricordavano come scenario del dramma della vita di Cristo ed avevano per il luogo del Calvario un tale rispetto che Adriano deliberatamente vi eresse un tempio a Venere Capitolina. Verso il secolo ni i cristiani conoscevano bene la grotta di Betlemme dove era nato Cristo ed erano soliti recarvisi in pellegrinaggio, e cosi pure al Monte degli Ulivi, all’orto del Getsemani e nel punto dov’era avvenuta l’Ascensione. Una visita a quei luoghi santi, fatta con il proposito di pregare e di acquistare meriti spirituali faceva parte già a quel tempo delle pratiche religiose cristiane1. Con il trionfo del cristianesimo questa abitudine si diffuse e l’imperatore Costantino se ne servi per rafforzare la religione da lui adottata. Sua madre, l’imperatrice Elena, la più illustre e fortunata archeologa di tutti i tempi, parti per la Palestina alla ricerca del Calvario e di tutte le reliquie della passione di Cristo. L’imperatore avallò la sua scoperta costruendo sul luogo una chiesa che attraverso tutte le sue vicissitudini è rimasta il massimo santuario della cristianità: la chiesa del Santo Sepolcro2. Una folla di pellegrini cominciò subito ad affluire sui luoghi delle attività di Elena. Non possiamo sapere quanti fossero poiché la maggior parte non lasciò nessuna testimonianza del proprio viaggio. Però già nel 333, prima ancora che gli scavi fossero finiti, un pellegrino descrisse il suo viaggio da Bordeaux alla Palestina3. Di poco posteriore è la descrizione di un viaggio compiuto da un’instancabile gentildonna conosciuta talvolta come Aetheria e altre volte come santa Silvia di Aquitania4. Verso la fine del secolo uno dei maggiori padri della cristianità latina, san Gerolamo, si stabilì in Palestina trascinando con sé il circolo di donne ricche ed eleganti che si riuniva attorno a lui in Italia. Nella sua cella di Betlemme riceveva una processione ininterrotta di viaggiatori che venivano a rendergli omaggio dopo avere visitato i luoghi santi5. Sant’Agostino, il più spirituale dei padri della Chiesa occidentale, considerava poco importanti e perfino dannosi i pellegrinaggi, e i padri greci tendevano a condividere la sua opinione6, ma san Gerolamo, pur non sostenendo che il risiedere a Gerusalemme avesse un valore spirituale, affermava tuttavia che era atto di fede pregare

sui luoghi dove si erano posati i piedi di Cristo. Il suo punto di vista era più popolare di quello di sant’Agostino. I pellegrinaggi si moltiplicarono con la protezione delle autorità, e al principio del secolo seguente pare che vi fossero già duecento monasteri ed ospizi a Gerusalemme e nei dintorni, costruiti per accogliere i pellegrini; quasi tutti erano sotto il patronato dell’imperatore7. Verso la metà del secolo v questo primo interesse per Gerusalemme raggiunse il colmo. L’imperatrice Eudossia, figlia di un filosofo pagano di Atene, vi si stabilì dopo un’infelice vita a corte e molti pii membri dell’aristocrazia bizantina la seguirono. Quando non era occupata a scrivere inni, essa favoriva la nascente voga di raccogliere reliquie, ponendo le basi della grande collezione di Costantinopoli con l’invio del ritratto della Vergine dipinto da san Luca8. Il suo esempio fu seguito dai pellegrini provenienti sia dall’Occidente sia da Costantinopoli. Da tempo immemorabile gli oggetti del lusso mondano venivano dall’Oriente, ed ora anche quelli del lusso religioso prendevano la via dell’Occidente. Il cristianesimo era stato ai suoi inizi una religione orientale, ed orientale la maggior parte dei primi santi e martiri cristiani. Si diffuse la tendenza a venerare i santi, e autorevoli personaggi come Prudenzio ed Ennodio insegnavano che presso le loro tombe si poteva ottenere il favore divino e che i loro corpi avevano la facoltà di operare miracoli9. Uomini e donne erano disposti a compiere lunghi viaggi per vedere una santa reliquia ed ancor più per cercare di acquistarne una da portare in patria e collocare nel santuario locale. Le reliquie più importanti rimasero in Oriente: quelle di Cristo a Gerusalemme, finché vennero trasportate a Costantinopoli, e quelle dei santi per lo più nei loro luoghi d’origine; ma reliquie di secondaria importanza cominciarono a giungere in Occidente portatevi da qualche fortunato pellegrino o da qualche intraprendente mercante, ovvero mandate in dono a qualche sovrano. Presto furono seguite da piccole parti delle reliquie maggiori e poi da intere reliquie tra le più importanti. Tutto ciò contribuì a richiamare l’attenzione dell’Occidente verso l’Oriente. Era inevitabile che gli abitanti di Langres, orgogliosi di possedere un dito di san Mamette, sentissero il desiderio di visitare Cesarea di Cappadocia dove era vissuto il santo10. Le monache di Chamalières, che custodivano nella loro cappella le ossa di santa Tecla, erano personalmente interessate al suo luogo di nascita, Seleucia Isaurica11. Quando una dama della Moriana tornò da un pellegrinaggio con il pollice di san Giovanni Battista, tutti i suoi amici furono indotti a mettersi in viaggio per vedere il corpo del santo a Samaria e la sua testa a Damasco12. Si mandavano vere e proprie ambascerie nella speranza di entrare in possesso di qualcuno di quei tesori, forse persino una fiala del sangue di Cristo o un frammento della Vera Croce. In Occidente si costruirono chiese dedicate a santi orientali o al Santo Sepolcro e spesso una parte dei loro redditi veniva accantonata per essere mandata ai luoghi sacri da cui aveva preso il nome. Queste reciproche relazioni erano favorite dal commercio che si svolgeva lungo le coste del Mediterraneo, ma allora in lento declino a causa del crescente impoverimento dell’Occidente. Non mancarono, anzi, le interruzioni, ad esempio quando i pirati vandali, verso la metà del secolo v, resero i mari malsicuri per i commercianti disarmati; il malcontento e l’eresia dell’Oriente accrebbero ancora queste difficoltà. Esistono tuttavia parecchi diari di viaggio scritti nel secolo VI da pellegrini occidentali che avevano fatto il viaggio verso l’Oriente su navi mercantili greche o siriane; ed i mercanti stessi trasportavano non solo passeggeri e merci, ma anche notizie e pettegolezzi religiosi. Grazie a questi viaggiatori e mercanti lo storico Gregorio di Tours era bene informato sulle cose d’Oriente. Si ricorda anche la conversazione tra san Simeone lo Stilita e un mercante siriano che lo vide sulla sua colonna vicino ad Aleppo, nella quale il santo chiedeva notizie

di santa Genoveffa di Parigi e le inviava un messaggio personale13. Nonostante le dispute religiose e politiche che avvenivano tra le più alte gerarchie, i cristiani d’Oriente e d’Occidente continuavano a mantenere rapporti molto stretti e cordiali. Le conquiste arabe posero fine a questa situazione: i mercanti siriani non giungevano più alle coste di Francia e d’Italia portando merci e notizie; i pirati infestavano di nuovo il Mediterraneo. I governanti musulmani della Palestina guardavano con sospetto i viaggiatori cristiani provenienti dall’estero. Il viaggio era difficile e costoso e ormai rimanevano poche ricchezze nella cristianità occidentale. Tuttavia i contatti non furono del tutto tagliati: i cristiani europei guardavano ancora con amore e nostalgia ai luoghi santi dell’Oriente. Quando nel 682 papa Martino I venne accusato di mantenere relazioni amichevoli con i musulmani, si giustificò dicendo che il suo scopo era quello di ottenere il permesso di mandare elemosine a Gerusalemme14. Nel 670 il vescovo franco Arcolfo parti per l’Oriente e riuscì a fare il giro completo dell’Egitto, Siria e Palestina, tornando per Costantinopoli, ma il viaggio durò diversi anni e fu pieno di difficoltà15. Conosciamo i nomi di altri pellegrini di quel tempo, come Vulphy di Rue in Piccardia, di Bercario di Montier-en-Der in Borgogna ed il suo amico Waimer 16. Ma i loro racconti mostravano che soltanto uomini duri e intraprendenti potevano sperare di giungere a Gerusalemme; non sembra che nessuna donna si sia arrischiata a compiere il pellegrinaggio. Il numero dei pellegrini aumentò durante il secolo VIII. Alcuni muovevano addirittura dall’Inghilterra; il più famoso fra loro fu Villibaldo che morì nel 781, vescovo di Eichstadt in Baviera. In gioventù era andato in Palestina partendo da Roma nel 722 e ritornandovi soltanto nel 729, dopo molte sgradevoli avventure17. Sembra che verso la fine del secolo vi sia stato un tentativo di organizzare pellegrinaggi sotto il patronato di Carlo Magno. Questi aveva ristabilito l’ordine e una certa prosperità in Occidente ed era in buoni rapporti col califfo Harun al-Raschid. Gli ospizi costruiti col suo aiuto in Terra Santa dimostrano che in quel tempo molti pellegrini, tra cui varie donne, devono essere giunti a Gerusalemme. Dalla Spagna cristiana furono mandate alcune monache a prestare servizio al Santo Sepolcro18. Ma questa attività fu di breve durata: l’Impero carolingio declinava; i pirati musulmani riapparvero nel Mediterraneo orientale e pirati scandinavi vi giunsero dall’Occidente. Quando Bernardo il Savio dalla Bretagna andò in Palestina nell’870 trovò gli stabilimenti di Carlo Magno ancora efficienti, ma vuoti e con i segni dell’incipiente decadenza. Bernardo aveva potuto compiere il viaggio soltanto dopo avere ottenuto un salvacondotto dalle autorità musulmane, che allora governavano Bari, nell’Italia meridionale; ma neppure cosi gli fu concesso di sbarcare ad Alessandria19. L’epoca d’oro dei pellegrinaggi comincia con il secolo X. Gli arabi persero i loro ultimi covi di pirati in Italia e nella Francia meridionale durante quel secolo, e l’isola di Creta fu tolta loro nel 961. In quel tempo la flotta bizantina aveva già ripreso il predominio sui mari, facendo rifiorire il commercio marittimo nel Mediterraneo. Navi mercantili greche e italiane navigavano liberamente tra i porti dell’Italia e dell’Impero e cominciavano a stabilire rapporti commerciali con la Siria e l’Egitto, col favore delle autorità musulmane. Per un pellegrino non era difficile fare la traversata diretta da Venezia o da Bari a Tripoli o ad Alessandria; tuttavia la maggior parte dei viaggiatori preferiva sostare a Costantinopoli per vedere le sue grandi collezioni di reliquie e poi proseguire per mare o per la strada di terraferma resa ormai sicura dai recenti successi militari bizantini. Nella Palestina stessa le autorità musulmane, abassidi, ikshide o fatimite, facevano di rado difficoltà; anzi, accoglievano di buon grado i viaggiatori a causa del denaro che portavano nel paese.

Il miglioramento delle condizioni di viaggio influì sul pensiero religioso occidentale. Non si conosce esattamente l’epoca in cui si prescrissero per la prima volta pellegrinaggi come pene canoniche. Tutti i Poenitentialia dell’alto medioevo raccomandano di compiere un pellegrinaggio, ma generalmente senza fissare una meta precisa. Ma si sviluppava la credenza che determinati luoghi santi possedessero speciali poteri spirituali capaci di agire sui visitatori e perfino di concedere indulgenze per i peccati. In questo modo il pellegrino aveva non soltanto la certezza di poter venerare i resti terreni e i luoghi dell’azione di Dio e dei suoi santi, entrando cosi in mistico contatto con loro, ma poteva anche ottenere il perdono divino per le proprie colpe. Dal secolo X in poi si attribuirono questi poteri in modo speciale a quattro santuari: quello di San Giacomo di Compostella in Spagna e di San Michele sul Monte Gargano in Italia, i vari luoghi santi di Roma e, soprattutto, quelli della Palestina. L’accesso ne era diventato molto più facile per la ritirata o la tolleranza dei musulmani, tuttavia il viaggio era ancora abbastanza lungo e difficile tanto da esercitare un influsso sulla mente e sui sentimenti religiosi dell’uomo medievale: era saggio allontanare per un anno o più un criminale dalla scena del suo delitto poiché i disagi e le spese del viaggio sarebbero stati un castigo per lui, mentre il compimento del dovere assegnatogli e l’atmosfera emotiva della meta gli avrebbero dato un senso di purificazione spirituale e di forza. Ne tornava migliorato20. Occasionali notizie di cronisti ci parlano di frequenti pellegrinaggi, sebbene i nomi di pellegrini che noi conosciamo siano inevitabilmente soltanto quelli dei personaggi più importanti. Tra i grandi signori e dame dell’Occidente vi furono Hilda, contessa di Svevia, che morì durante il viaggio nel 969, e Giuditta, duchessa di Baviera, cognata dell’imperatore Ottone I, che compì il pellegrinaggio nel 970. Anche i conti di Ardèche, di Vienne, di Verdun, d’Arcy, di Anhalt e di Gorizia furono tra i pellegrini. Le autorità ecclesiastiche furono ancor più zelanti: san Corrado, vescovo di Costanza, fece tre viaggi a Gerusalemme, e san Giovanni, vescovo di Parma, non meno di sei; il vescovo d’Olivola vi si recò nel 920; tra gli abati si ricordano quelli di Saint-Cybar, di Flavigny, d’Aurillac, di Saint-Aubin d’Angers e di Montier-en-Der. Tutti questi eminenti viaggiatori condussero con sé gruppi di umili uomini e donne i cui nomi non avevano nessun interesse per gli scrittori del tempo21. Quest’attività fu principalmente il risultato di iniziative private, ma nella politica europea stava affermandosi una nuova forza che includeva tra le proprie attività anche l’organizzazione dei viaggi dei pellegrini. Nel 910 il conte Guglielmo I d’Aquitania fondò l’abbazia di Cluny. Verso la fine del secolo Cluny, governata da una serie di abati eccezionali, era il centro di una vasta organizzazione ecclesiastica, ben ordinata, fittamente articolata ed intimamente unita al papato. I cluniacensi si consideravano i custodi della coscienza della cristianità occidentale. La loro dottrina approvava i pellegrinaggi a cui essi desideravano dare un’assistenza pratica. Al principio del secolo seguente essi controllavano quasi interamente i pellegrinaggi verso i grandi santuari spagnoli ed al tempo stesso cominciarono ad organizzare e a rendere popolari i viaggi a Gerusalemme. Per la loro opera di persuasione l’abate di Stavelot parti per la Terra Santa nel 990 ed il conte di Verdun nel 997. La loro influenza è dimostrata dal grande incremento che nel secolo xi ebbero i pellegrinaggi dalla Francia e dalla Lorena, dalle regioni vicine a Cluny e alle case che ne dipendevano. Per quanto in quel secolo vi fossero ancora molti pellegrini tedeschi, tra cui l’arcivescovo di Treviri e Magonza ed il vescovo di Bamberga, e molti dall’Inghilterra, tuttavia il numero di quelli francesi e lorenesi era di gran lunga superiore. Le due grandi dinastie della Francia settentrionale, i conti d’Angiò ed i duchi di Normandia, nonostante la loro rivalità reciproca furono in ottimi rapporti con Cluny ed ambedue favorirono i viaggi in Oriente. Il terribile Folco Nerra d’Angiò andò a Gerusalemme nel 1002 e vi tornò altre due volte, il duca Riccardo III di Normandia vi inviò elemosine ed il duca Roberto vi

condusse un gruppo molto numeroso nel 1035. Tutti questi pellegrinaggi furono fedelmente annotati dal monaco Rodolfo il Glabro, lo storico cluniacense22. I normanni seguirono l’esempio dei loro duchi. Avevano una particolare venerazione per san Michele e si recavano in gran numero al Monte Gargano; di li i più intraprendenti proseguivano per la Palestina. Verso la metà del secolo essi erano cosi numerosi e ferventi tra i pellegrini diretti in Palestina che il governo di Costantinopoli, irritato per le incursioni normanne nell’Italia bizantina, cominciò a manifestare una certa insofferenza per il traffico dei pellegrini23. I loro cugini scandinavi si mostravano quasi altrettanto entusiasti; essi avevano preso da lungo tempo l’abitudine di recarsi a, Costantinopoli, le cui ricchezze e meraviglie facevano loro grande impressione. Nei loro paesi nordici narravano di Micklegarth, come chiamavano la grande città, che talvolta identificavano persino con Asgard, la dimora degli dèi. Fin dal 930 vi erano scandinavi nelle file dell’esercito imperiale, e al principio del secolo XI erano cosi numerosi che venne formato uno speciale corpo scandinavo: la famosa Guardia varega. Questi presero ben presto l’abitudine di fare un viaggio a Gerusalemme durante una licenza. Il primo di cui si abbia memoria fu un certo Kolskeggr, che andò in Palestina nel 992; uno dei vareghi più famosi, Aroldo Hardrada, vi si recò nel 1034. In quello stesso periodo molti norvegesi, islandesi e danesi, che avevano servito per cinque anni o più nelle truppe imperiali, si recarono in pellegrinaggio prima di tornare in patria, nel nord, ricchi dei loro risparmi. I racconti che essi facevano invogliavano i loro amici a partire per il sud all’unico scopo di compiere il pellegrinaggio. L’apostolo dell’Islanda, Thorvald Kodransson Vidtförli.. andò a Gerusalemme verso il 990, dove molti pellegrini scandinavi affermavano di aver visto il primo re cristiano di Norvegia, Olaf Tryggvason, dopo la sua misteriosa scomparsa nell’anno 1000. Olaf II intendeva seguirne l’esempio, ma il suo viaggio non avvenne se non nella leggenda. Questi principi nordici erano uomini violenti, macchiatisi spesso di assassini e quindi portati o spinti a compiere atti di espiazione. Swein Godwinsson, per metà di sangue danese, si mise in viaggio con un gruppo di inglesi nel 1051 per espiare un assassinio, ma l’autunno seguente morì nelle montagne dell’Anatolia per il freddo preso camminando scalzo per fare penitenza dei propri peccati. Lagman Gudrödsson, re scandinavo di Man, che aveva ucciso suo fratello, cercò nello stesso modo di ottenere il perdono di Dio. La maggior parte dei pellegrini scandinavi preferivano fare un viaggio circolare, passando all’andata per lo stretto di Gibilterra e tornando via terra attraverso la Russia24. Nel secolo X i pellegrini provenienti dall’Occidente erano stati obbligati a viaggiare per mare attraverso il Mediterraneo fino a Costantinopoli o alla Siria, ma il costo del viaggio era elevato e non era facile ottenere un posto. Nel 975 i sovrani d’Ungheria si convertirono al cristianesimo e cosi divenne praticabile la via di terra che scendeva lungo il Danubio e attraversava i Balcani fino a Costantinopoli. Tuttavia era una strada pericolosa, fino al 1019 quando Bisanzio riuscì finalmente a controllare l’intera penisola balcanica; ma da allora un pellegrino poteva viaggiare con pochissimo rischio attraverso l’Ungheria passando la frontiera bizantina a Belgrado e continuando per Sofia e Adrianopoli fino alla capitale. Oppure poteva percorrere l’Italia bizantina, compiere la breve traversata tra Bari e Durazzo e quindi seguire l’antica via Egnatia dei romani per Tessalonica e il Bosforo, dove tre buone vie maestre potevano condurlo attraverso l’Asia Minore fino ad Antiochia. Di qui scendeva verso la costa a Lattakieh e passava in territorio fatimita nei pressi di Tortosa. Questa era l’unica frontiera che dovesse attraversare dopo il suo arrivo a Belgrado o a Termoli in Italia e poteva proseguire senza ulteriori ostacoli fino a Gerusalemme. Il viaggio per via di terra, benché lento, era molto meno costoso e più facile del viaggio per mare e molto più indicato per gruppi numerosi.

Finché osservavano una buona condotta, i pellegrini potevano contare su una accoglienza ospitale da parte dei contadini dell’Impero; per la prima parte del tragitto i cluniacensi stavano costruendo ospizi lungo la strada: in Italia ve n’erano diversi, alcuni riservati agli scandinavi. C’era un grande ospizio a Melk in Austria 25. A Costantinopoli l’Ospizio di Sansone era riservato ai pellegrini occidentali; i cluniacensi mantenevano una fondazione a Rodosto, nei sobborghi della città26. In Gerusalemme stessa i pellegrini potevano fermarsi all’Ospedale di San Giovanni fondato da mercanti amalfitani27. Nessuno si opponeva a che i grandi signori occidentali conducessero con sé una scorta armata, purché fosse tenuta a freno: la maggior parte dei pellegrini cercava di unirsi a un gruppo di questo genere, ma non era raro e neppure particolarmente rischioso che alcuni viaggiassero soli o a gruppetti di due o tre. Potevano esserci talvolta alcune difficoltà: durante la persecuzione di Hakim non era piacevole rimanere a lungo in Palestina, benché il flusso dei pellegrini non si sia mai interrotto del tutto. Nel 1055 si considerava pericoloso addentrarsi in territorio musulmano, cosi Lietbert, vescovo di Cambrai, non ottenne un permesso di uscita dal governatore di Lattakieh e fu obbligato ad andare a Cipro28. Nel 1056 i musulmani, forse inconnivenza con l’imperatore, proibirono agli occidentali l’accesso al Santo Sepolcro e ne cacciarono circa trecento da Gerusalemme29. Basilio II e sua nipote, l’imperatrice Teodora provocarono malcontento ordinando ai loro esattori di tassare sia i pellegrini sia i loro cavalli. Nel dicembre 1056 papa Vittore II scrisse all’imperatrice pregandola di revocare quelle disposizioni e la sua lettera lascia intendere che gli esattori imperiali si trovassero persino a Gerusalemme30. Ma tali inconvenienti erano rari. Per i primi ottant’anni del secolo XI un flusso ininterrotto di viaggiatori si riversò in Oriente, talvolta in gruppi di migliaia di uomini e donne di ogni età e di ogni classe sociale che, in quell’epoca non conoscevano la fretta, erano disposti a dedicare al viaggio un anno o più. Si trattenevano a Costantinopoli per ammirare l’immensa città, dieci volte più grande di tutte quelle che essi avevano visto in Occidente, e per venerare le reliquie custodite. Potevano vedere la corona di spine, la veste inconsutile e tutte le reliquie più importanti della passione di Cristo. C’era anche il panno di Edessa su cui Cristo aveva lasciato l’impronta del suo volto, il ritratto della Vergine dipinto da san Luca, i capelli di Giovanni Battista, il mantello di Elia, i corpi di innumerevoli santi, profeti e martiri, un’interminabile esposizione degli oggetti più sacri della cristianità31. Proseguivano quindi per la Palestina visitando Nazaret e il Monte Tabor, il Giordano, Betlemme e tutti i santuari di Gerusalemme. Li contemplavano tutti e pregavano in ciascuno di essi; quindi riprendevano il lungo viaggio verso casa, dove tornavano edificati e purificati e dove i compatrioti li accoglievano come pellegrini di Cristo che avevano compiuto il più sacro dei viaggi. Ma il successo del pellegrinaggio dipendeva da due condizioni: in primo luogo che la situazione in Palestina fosse abbastanza tranquilla da permettere a viaggiatori disarmati di spostarsi e di attendere alle loro devozioni in tutta sicurezza; in secondo luogo che la strada fosse aperta e il viaggio non troppo costoso. La prima condizione richiedeva che nel mondo musulmano regnasse la pace e il buon governo, la seconda esigeva la prosperità e la benevolenza di Bisanzio.

Capitolo quarto Verso il disastro

... e in piena pace gli piomba addosso il distruttore. Giobbe, XV, 21

Alla metà del secolo XI sembrava che la tranquillità del Mediterraneo orientale fosse assicurata ancora per molti anni. Le due grandi potenze, l’Egitto fatimita e Bisanzio, erano in buoni rapporti, non svolgevano una politica aggressiva e ambedue desideravano tenere a freno gli altri stati musulmani più a Oriente, dove qualche avventuriero turco stava provocando disordini, senza tuttavia allarmare seriamente i governi di Costantinopoli e del Cairo. I Fatimiti erano ben disposti verso i cristiani: dalla morte di Hakim non v’erano più state persecuzioni e i porti erano aperti ai mercanti bizantini e italiani. Commercianti e pellegrini godevano ugualmente del loro favore. La potenza di Bisanzio garantiva questa benevolenza. L’Impero, grazie a una serie di sovrani guerrieri, si estendeva dal Libano al Danubio e da Napoli al Mar Caspio. Benché si verificassero di tanto in tanto casi di corruzione e sporadici tumulti, era lo stato meglio amministrato del suo tempo. Costantinopoli non aveva mai conosciuto tanta ricchezza ed era l’incontrastata capitale finanziaria e commerciale del mondo, verso la quale accorrevano in folla mercanti d’ogni paese, dall’Italia e dalla Germania, dalla Russia, dall’Egitto e dall’Oriente, per comprare gli articoli di lusso prodotti dalle sue manifatture e per scambiare le loro merci, molto più scadenti. L’immensa città, più estesa e più popolosa della stessa Bagdad o del Cairo, non mancava di stupire il viaggiatore con la sua vita intensa ed agitata, con il suo porto affollato, i suoi bazar pieni d’ogni mercanzia, i vasti sobborghi, le chiese e i palazzi meravigliosi ed immensi; la corte imperiale, benché dominata in quel tempo da due anziane principesse eccentriche e stravaganti, sembrava il centro dell’universo. Se l’arte è lo specchio della civiltà, quella bizantina era di un grado molto elevato; infatti gli artisti del secolo XI possedevano tutti l’equilibrio e la misura dei loro antenati dell’epoca classica e avevano inoltre due qualità derivate dalla tradizione orientale, il ricco formalismo decorativo iranico e l’intensità mistica dell’antico Oriente. Le superstiti opere d’arte di quel tempo, dai piccoli oggetti d’avorio ai grandi mosaici o alle chiese di provincia, come quelle di Dafne o di San Luca in Grecia, mostrano tutte la stessa trionfante potenza di sintesi che fonde in un’unità perfetta tradizioni diverse. La letteratura, benché maggiormente ostacolata dal ricordo soverchiante delle grandi opere classiche, mostra tuttavia una produzione varia e di ottimo livello. Abbiamo l’elegante opera storica di Giovanni Diacono, le delicate liriche di Cristoforo di Mitilene, l’impetuosa epica popolare di Digenis Akritis, gli aforismi ruvidi e pieni di buon senso del soldato Cecumeno e le spiritose, ciniche memorie di corte di Michele Psello. Vi si respira quasi l’atmosfera serena del Settecento europeo, se non fosse per le preoccupazioni ultraterrene e il pessimismo di cui Bisanzio non si liberò mai. I greci hanno un carattere sottile e difficile, che non è riconoscibile nella descrizione che sogliono farne gli scrittori popolari quando parlano del secolo v a. C, e che i bizantini resero ancor più complesso con l’apporto di sangue orientale: il risultato fu pieno di paradossi. Erano uomini molto pratici, con talento per gli affari e amore per gli onori mondani, eppure sempre pronti a

rinunciare al mondo per una vita di contemplazione monastica. Credevano con fervore alla divina missione dell’Impero e all’autorità divina dell’imperatore, ma erano individualisti, pronti a ribellarsi contro un governo non gradito. Aborrivano l’eresia, tuttavia la loro religiosità, che era la più mistica fra le varie tradizioni cristiane, concedeva sia ai preti sia ai laici una grande libertà in campo filosofico. Disprezzavano tutti i popoli vicini come barbari, eppure ne adottavano facilmente le abitudini e le idee; e nonostante la loro raffinatezza ed il loro orgoglio erano incostanti e deboli di carattere. Bisanzio era stata cosi spesso quasi distrutta dai disastri che la loro fiducia negli eventi ne era rimasta scossa: in una crisi improvvisa si abbandonavano al panico e a una brutalità che poi schernivano nei momenti più tranquilli. Per quanto il presente potesse essere un tempo di pace e di splendore, innumerevoli profezie accettate per vere preannunziavano la distruzione della loro città. Felicità e tranquillità non si potevano raggiungere in questo oscuro mondo transitorio, ma solo nel regno dei Cieli. I loro timori erano giustificati: le fondamenta della potenza bizantina non erano molto salde. Il vasto Impero era stato organizzato su una base difensiva: le province erano governate da funzionari militari controllati a loro volta dall’amministrazione civile di Costantinopoli. Questo sistema forniva un’efficiente milizia locale che poteva difendere il proprio distretto in caso d’invasione e che poteva unirsi all’esercito imperiale nelle sue grandi campagne; ma, passato il pericolo, attribuiva un potere troppo grande al governatore provinciale, specialmente se questi era abbastanza ricco da non dipendere dall’ufficiale pagatore della capitale. Inoltre, la prosperità distruggeva l’organizzazione agraria dell’Asia Minore: le comunità di liberi contadini che ricevevano la terra direttamente dallo Stato, spesso in cambio del servizio militare, costituivano la base della potenza di Bisanzio, ma nel medioevo, qui come altrove, la terra era l’unico investimento sicuro della ricchezza: tutti i ricchi cercavano di acquistare terre; la Chiesa esortava i fedeli a lasciarle in eredità le loro proprietà e la ricompensa abituale per i generali vittoriosi e per i ministri meritevoli era costituita da proprietà terriere. Finché l’Impero continuò a riconquistare terre al nemico e a ripopolare regioni devastate dalle incursioni tutto andò bene, ma i suoi stessi successi suscitarono una grande richiesta di terre. Magnati e monasteri potevano estendere le loro proprietà soltanto comperando dai contadini che avevano bisogno di denaro liquido o appropriandosi di interi villaggi, sia ricevendoli in dono dallo Stato, sia assumendosi la responsabilità di pagare le tasse della comunità. Gli imperatori più saggi cercarono di ostacolarli, in parte perché i nuovi padroni raramente resistevano alla tentazione di trasformare le terre in pascoli per l’allevamento di pecore, e ancor più perché la cessione delle proprietà dei contadini-soldati permetteva al signore di formare un esercito privato, mentre indeboliva l’esercito imperiale. Ma le leggi non raggiunsero lo scopo. Nel corso del secolo X, infatti, sorse a Bisanzio un’aristocrazia terriera ereditaria abbastanza ricca e potente da sfidare il governo centrale. L’imperatore Basilio II, il più grande sovrano della dinastia macedone, aveva domato con difficoltà, agli inizi del suo regno, una rivolta di membri di questa aristocrazia. Ne era uscito vincitore e il suo prestigio durò sino alla fine della sua dinastia avvenuta nel 1056 con la morte della nipote Teodora. Se la casa macedone avesse avuto discendenti maschi, il principio ereditario avrebbe potuto stabilirsi per la successione al trono imperiale e Bisanzio avrebbe avuto una forza capace di imporsi alla nobiltà ereditaria. Ma, sebbene la fedeltà alla dinastia avesse permesso all’imperatrice Zoe e ai suoi successivi mariti di regnare con spensierata dissolutezza per quasi trent’anni e alla vecchia imperatrice Teodora di governare da sola, tuttavia nel frattempo si accrescevano le forze disgregatrici. Alla morte di Teodora, Bisanzio vide due partiti affrontarsi in aspra contesa: i circoli di corte che dominavano l’amministrazione centrale e l’aristocrazia che controllava l’esercito; mentre la Chiesa, cori un piede in ognuno dei due campi, cercava di mantenere

l’equilibrio1. L’imperatrice settantenne, che sino alla fine aveva creduto in una profezia che le prometteva un regno di molti anni, era appena caduta in coma e già la corte spingeva sul trono un vecchio funzionario statale, Michele Stratiotico. L’esercito si rifiutò di riconoscere il nuovo imperatore, e marciò su Costantinopoli deciso a imporre come successore il proprio comandante. Michele si ritirò senza combattere e il generale Isacco Comneno divenne imperatore: l’aristocrazia militare aveva vinto il primo round. Isacco Comneno, come molti altri nobili bizantini, apparteneva all’aristocrazia solo da una generazione: suo padre era un soldato tracio, probabilmente un valacco, che entrato nelle grazie di Basilio II aveva ricevuto in dono da lui terre in Paflagonia, dove si costruì una grande fortezza nota come Castra Comneni, ancora oggi chiamata Kastamonu. Isacco e suo fratello Giovanni ereditarono dal padre le proprietà terriere ed il valore militare e sposarono dame dell’aristocrazia bizantina. La moglie di Isacco era una principessa della famiglia che aveva regnato in Bulgaria, quella di Giovanni un’erede della grande famiglia dei Dalasseni. Ma nonostante la sua ricchezza, la sua alta carica e l’appoggio dell’esercito, Isacco si trovò continuamente contrastato nella sua azione di governo dal malvolere dell’amministrazione civile. Dopo due anni rinunciò alla lotta e si ritirò in un monastero. Non aveva figli e perciò nominò successore Costantino Ducas; Anna Dalassena, sua cognata, non glielo perdonò mai. Costantino Ducas era il capo della famiglia forse più antica e più ricca dell’aristocrazia bizantina, ma aveva fatto carriera a corte; perciò Isacco sperava che sarebbe stato bene accetto ai due partiti. Ben presto però egli mostrò che non intendeva favorire la propria casta; il tesoro era vuoto e l’esercito pericolosamente potente: egli scelse la soluzione di ridurre le forze armate. Questa misura si sarebbe potuta giustificare sul piano della politica interna, ma in nessun momento della storia bizantina sarebbe stato possibile indebolire senza rischio le capacità difensive dell’Impero, e in quel preciso momento una decisione del genere era addirittura funesta. Nubi tempestose sorgevano ad Oriente, mentre in Occidente era già scoppiata la bufera2. Negli ultimi decenni la situazione nell’Italia meridionale era stata agitata e confusa. La frontiera dell’Impero bizantino ufficialmente andava da Terracina, sulla costa tirrenica, a Termoli sull’Adriatico; ma all’interno di questi confini soltanto le province di Puglia e di Calabria, abitate in prevalenza da greci, erano sotto il governo diretto di Bisanzio. Sulla costa occidentale c’erano le tre città-stato mercantili di Gaeta, Napoli ed Amalfi, nominalmente vassalle dell’imperatore. Gli amalfitani, che allora commerciavano intensamente con l’Oriente musulmano, ritenevano utile ai propri negoziati con le autorità fatimite il favore dell’imperatore e perciò tenevano in permanenza un console a Costantinopoli. Napoli e Gaeta, benché ugualmente disposte a commerciare con gli infedeli, erano meno riguardose verso l’imperatore. L’interno del paese era in mano ai principi longobardi di Benevento e di Salerno, che riconoscevano alternativamente la sovranità dell’imperatore d’Oriente o di quello d’Occidente e disprezzavano egualmente entrambi. I musulmani dominavano ancora la Sicilia nonostante i molti tentativi dei bizantini per riconquistarla; e le incursioni che partivano dall’isola e dall’Africa contro le coste italiane aumentavano il caos nel paese. In queste regioni erano arrivati in gran numero avventurieri normanni dalla Francia settentrionale, in viaggio come pellegrini per Gerusalemme o per visitare il famoso santuario di San Michele sul Monte Gargano; molti di loro erano soldati di ventura che rimanevano al servizio dei principi longobardi. V’era scarsità di terra in Normandia, le cui campagne densamente popolate non offrivano grandi possibilità ai cadetti ambiziosi ed irrequieti e ai cavalieri sprovvisti di beni. Questa spinta

espansionistica, che presto li avrebbe indotti a intraprendere la conquista dell’Inghilterra, diresse i loro sguardi sull’Oriente e sulle sue ricchezze, ed essi videro nell’Italia meridionale la chiave d’un impero mediterraneo. Il disordine del paese offrì loro un’occasione favorevole. Nel 1040 sei fratelli, figli di un piccolo cavaliere normanno, Tancredi di Altavilla, s’impadronirono della città di Melfi sulle colline pugliesi e vi fondarono un principato. Le autorità bizantine locali non li presero sul serio, ma l’imperatore d’Occidente, Enrico III, diede il suo appoggio ai normanni, con l’intenzione di controllare una regione a lungo contesa fra i due imperi; lo stesso fece il papa tedesco da lui nominato, sdegnato per il fatto che il patriarca di Costantinopoli avesse giurisdizione su una diocesi italiana. In non più di dodici anni i figli di Tancredi avevano imposto il loro predominio sui principati longobardi e ricacciato i bizantini verso l’estremità della Calabria e verso le coste pugliesi, stavano minacciando le città della costa occidentale e con le loro scorrerie si spingevano a nord, attraverso la Campania, fin nelle vicinanze di Roma. Il governo bizantino era allarmato: il governatore della Puglia, Mariano Argiro, venne richiamato in patria per riferire e tornò poi con maggiori poteri per porre riparo alla situazione. Militarmente non concluse nulla e i normanni respinsero facilmente il suo piccolo esercito, ma fu più fortunato sul piano diplomatico poiché anche il papa, il lorenese Leone IX, era inquieto. I successi normanni erano più importanti di quanto egli o Enrico III avessero immaginato. Enrico si trovava impegnato in quel momento in una campagna ungherese, ma inviò aiuti al papa che nell’estate del 1035 si diresse verso sud con un esercito di tedeschi e italiani, proclamando la guerra santa. Un contingente bizantino avrebbe dovuto unirsi a lui, ma mentre egli lo aspettava nei dintorni della piccola città pugliese di Civitate, venne attaccato dai normanni che sbaragliarono il suo esercito e lo fecero prigioniero; per ottenere la liberazione egli sconfessò tutta la propria politica. Fu questo l’ultimo serio tentativo di sottomettere i figli di Tancredi. Enrico III morì nel 1056 e suo successore fu il figlio Enrico IV, un bambino di sei anni; la reggente, Agnese di Poitou, era troppo impegnata in Germania per interessarsi del meridione. Il pontefice decise di mostrarsi realista e nel 1059, al concilio di Melfi, papa Niccolò II riconobbe Roberto il Guiscardo, «Roberto l’Astuto», il maggiore dei figli superstiti di Tancredi, quale «duca di Puglia e Calabria per grazia di Dio e di san Pietro e, con il loro aiuto, di Sicilia». Questo riconoscimento che per Roma (ma non per Roberto) implicava il vassallaggio verso il successore di Pietro, mise i normanni in grado di portare a termine facilmente la loro conquista. Le città marinare si sottomisero ben presto e nel 1060 ai bizantini rimaneva in Italia soltanto la loro capitale, la fortezza costiera di Bari. Nel frattempo il fratello minore di Roberto, Ruggero, cominciava la lenta ma fortunata conquista della Sicilia contro gli arabi3. Fino a quando Bari resisteva, i bizantini potevano in qualche modo ostacolare l’ulteriore espansione normanna verso est. Ma le difficoltà politiche in Italia avevano inevitabilmente condotto a disordini religiosi. L’arrivo di conquistatori latini nell’Italia meridionale sollevò la questione della Chiesa greca in quella provincia e rinnovò l’antico contrasto fra Costantinopoli e Roma a proposito della sua dipendenza ecclesiastica. Le riforme avvenute a Roma avevano dato come risultato la ferma determinazione del papato di non tollerare compromessi su nessuna delle proprie prerogative; in quello stesso momento la sede patriarcale di Costantinopoli era occupata da uno dei più aggressivi e ambiziosi statisti della Chiesa greca, Michele Cerulario. La penosa storia della visita dei legati di papa Leone IX a Bisanzio nel 1054 dovrebbe essere narrata nel contesto di tutto lo sviluppo dei rapporti tra la Chiesa d’Oriente e quella d’Occidente. Terminò con una reciproca scomunica, nonostante il tentativo dell’imperatore di giungere a un compromesso, e rese impossibile ogni sincera collaborazione fra Roma e Costantinopoli per quel che riguardava gli immediati interessi dell’Italia.

Non causò tuttavia lo scisma finale, come è stato affermato da storici posteriori; le relazioni politiche fra le corti imperiali erano tese, ma non vennero interrotte. Cerulario perse ben presto la sua influenza: umiliato dall’imperatrice Teodora, che egli aveva tentato di escludere dalla successione, e deposto dall’imperatore Isacco, morì in esilio, senza più alcun potere. Ebbe però un trionfo postumo perché le successive generazioni bizantine lo considerarono un campione della loro indipendenza, e l’imperatrice Eudossia Macrembolitissa, sua nipote e moglie di Costantino Ducas, ne ottenne la canonizzazione addirittura in un momento in cui l’imperatore e il papa avevano ripreso i rapporti con rinnovata cordialità4. A giudicare dalle reazioni degli storici bizantini del tempo la disputa ebbe scarsa rilevanza per le autorità dell’Impero, poiché le difficoltà in Occidente erano offuscate ai loro occhi da problemi che stavano sorgendo in Oriente. La decadenza del califfato abasside non era stata del tutto vantaggiosa per Bisanzio. Il crescente impoverimento dell’Iraq cominciava a produrre cambiamenti nelle vie del commercio mondiale: i mercanti dell’Estremo Oriente non portavano più le loro merci ai mercati di Bagdad, dai quali poi buona parte era fatta proseguire nell’Impero per essere caricata sulle navi nei porti dell’Asia Minore o nella stessa Costantinopoli e trasportata in Occidente; essi preferivano da qualche tempo l’Egitto, dove giungevano attraverso il Mar Rosso, e di qui le loro mercanzie venivano portate in Europa da navi mercantili italiane. Bisanzio non si trovava più sulla strada dei traffici. Inoltre, i disordini nelle estreme province dell’impero abasside provocarono l’interruzione dell’antica strada carovaniera che dalla Cina, attraverso il Turkestan e la Persia settentrionale, raggiungeva l’Armenia e poi il mare a Trebisonda. L’altra strada, che passava a nord del Caspio, non fu mai a lungo sicura. La potenza abasside era stata di grande beneficio, sia sul piano politico sia su quello commerciale, per tutto il mondo mediterraneo poiché aveva rappresentato una difesa esterna contro i barbari dell’Asia centrale. Ora le difese erano cadute e le popolazioni dell’Asia centrale erano ancora una volta in grado di fare irruzione sulle terre di antica civiltà. I turchi avevano avuto a lungo una parte importante nella storia. L’Impero turco del secolo vi, durante la sua breve esistenza, era stato un fattore di civiltà e di stabilità in Asia. Popolazioni turche di frontiera, come i khazari del Volga, di religione ebraica, o gli ouigours, cristiani nestoriani, stabilitisi più tardi sui confini della Cina, si rivelarono capaci di adattarsi e di progredire culturalmente. Nel Turkestan, invece, non c’era più stato alcun progresso dopo il secolo vii: poche città erano sorte lungo le strade carovaniere, ma la popolazione turcomanna restò in gran parte allo stato pastorale e seminomade e la sua massa crescente la spinse continuamente a migrazioni oltre i confini. Nel secolo X il Turkestan era governato dalla dinastia persiana dei Samanidi, la cui funzione principale nella storia fu di aver convertito all’Islam i turchi dell’Asia centrale. Da quel momento l’attenzione di costoro si rivolse verso le terre dell’Asia sudoccidentale e del Mediterraneo orientale. I Samanidi vennero spodestati dal primo grande turco musulmano, Mahmud il Ghaznavida, che nei primi decenni del secolo XI formò un immenso impero da Ispahan a Buchara e Lahore. Frattanto soldati di ventura turchi si introducevano in tutto il mondo musulmano, così come i normanni penetravano nell’Europa cristiana; il califfo di Bagdad e molti altri sovrani musulmani mantenevano truppe turche. Fra i sudditi dei Ghaznavidi c’era un clan di turchi ghuzz, originari delle steppe dell’Arai, chiamati Selgiuchidi dal nome di un loro quasi mitico antenato. Questi principi costituivano un gruppo di avventurieri invidiosi gli uni degli altri, ma uniti nell’assicurare il progresso della famiglia, non diversamente dai figli di Tancredi di Altavilla. Più fortunati dei normanni, che potevano contare su uno scarso numero di compatrioti, essi potevano sollecitare

l’appoggio delle vaste, irrequiete orde di turcomanni. Dopo la morte di Mahmud nel 1030, essi insorsero contro i Ghaznavidi e nel 1040 li costrinsero a rifugiarsi nei loro domini indiani; nel 1050 Tughril Bey, il principe più anziano della casata, entrò in Ispahan e ne fece la capitale di uno stato che comprendeva la Persia e il Khorasan, mentre i suoi fratelli e cugini si stabilivano lungo le frontiere settentrionali, formando una libera confederazione che riconosceva la sovranità di Tughril, e razziando impunemente le regioni circostanti. Nel 1055, dietro invito del califfo abasside spaventato per gli intrighi del suo ministro turco Basasiri con i Fatimiti, Tughril entrò in Bagdad come campione dell’Islam sunnita e fu proclamato re dell’Oriente e dell’Occidente, con supremo potere temporale su tutti i territori che dovevano obbedienza spirituale al califfo5. In Armenia c’erano state scorrerie turche fin dai tempi di Basilio II, quando i Selgiuchidi si trovavano ancora sotto il governo dei Ghaznavidi, e appunto per difendere il suo impero contro i turchi Basilio aveva iniziato la politica di graduale annessione dell’Armenia. Dopo la conquista selgiuchida della Persia le incursioni diventarono più frequenti; Tughril Bey vi partecipò di persona soltanto una volta, nel 1054, quando devastò la regione intorno al lago Van, ma non riuscì a impadronirsi della fortezza di Manzikert. Gli eserciti predatori erano di solito condotti dai suoi cugini Asan e Ibrahim Inal, che nel 1047 erano stati sconfitti dai bizantini davanti a Erzerum e che durante gli anni seguenti concentrarono gli attacchi contro gli alleati georgiani dell’Impero. Nel 1052 essi devastarono Kars, nel 1056 e nel 1057 tornarono di nuovo in Armenia, nel 1057 Melitene fu saccheggiata e nel 1059 le truppe turche avanzarono per la prima volta nel cuore del territorio imperiale, giungendo fino alla città di Sebastea6. Tughril Bey morì nel 1063. Egli stesso non aveva mostrato grande interesse per la sua frontiera nord-occidentale, ma il suo nipote e successore, Alp Arslan, temendo una possibile alleanza fra i bizantini e i Fati-miti, prima di perseguire il suo principale obiettivo contro questi ultimi, cercò di proteggersi contro l’Impero conquistando l’Armenia. Le incursioni in territorio imperiale vennero intensificate; nel 1064 l’antica capitale armena di Ani veline distrutta, e il principe di Kars, l’ultimo sovrano armeno indipendente, fu lieto di consegnare le sue terre all’imperatore in cambio di possedimenti nelle montagne del Tauro; gran numero di armeni lo accompagnarono nella sua nuova patria. Dal 1065 la grande fortezza di frontiera di Edessa fu attaccata ogni anno, ma i turchi erano ancora inesperti nella guerra d’assedio. Nel 1066 occuparono i passi dei monti Amano e nella primavera seguente saccheggiarono Cesarea, la metropoli della Cappadocia. L’inverno successivo eserciti bizantini furono sconfitti a Melitene e a Sebastea e con queste vittorie i turchi ottennero il completo controllo dell’Armenia. Durante gli anni seguenti con le loro incursioni si spinsero sempre più profondamente nell’Impero, fino a Neocesarea e Amorio nel 1068, a Iconio nel 1069, e nel 1070 a Khonae, vicino alla costa egea7. Il governo imperiale fu costretto ad agire. Costantino X, largamente responsabile della gravità della situazione a causa della sua politica di riduzione delle forze armate, era morto nel 1067 lasciando un giovane figlio, Michele VII, sotto la reggenza dell’imperatrice-madre Eudossia. L’anno seguente ella sposò il comandante in capo, Romano Diogene, e lo innalzò al trono. Romano era un brillante soldato e un sincero patriota, ma il compito che lo attendeva richiedeva un uomo di genio. Egli si rese conto che per la salvezza dell’Impero era essenziale riconquistare l’Armenia, ma l’esercito bizantino non era più la poderosa macchina militare di cinquant’anni prima. Le truppe provinciali, inadeguate per proteggere i loro propri distretti dalle incursioni dei predatori, non potevano privarsi di soldati per la campagna dell’imperatore. Le famiglie nobili,, che avrebbero potuto arruolare uomini nei loro possedimenti, erano diffidenti e si tenevano in disparte. I reggimenti di cavalleria, forti di sessantamila unità, che fino alla metà del secolo avevano perlustrato in servizio

di pattuglia la frontiera siriana, erano in quel momento congedati. Le guardie imperiali, uomini d’Anatolia sceltissimi e perfettamente addestrati, erano di gran lunga inferiori alla loro antica consistenza numerica. Il grosso dell’esercito era allora costituito da mercenari stranieri: scandinavi della Guardia varega, normanni e franchi dell’Europa occidentale, slavi del nord e turchi delle steppe della Russia meridionale, peceneghi, cumani e ghuzz. Oltre a questi elementi, Romano raccolse una forza di quasi centomila uomini, dei quali forse la metà erano bizantini di nascita, ma soltanto pochissimi erano soldati di professione e nessuno era bene equipaggiato. Fra i mercenari, il contingente più numeroso era quello dei turchi cumani, sotto la guida di Giuseppe Tarchaniotes, d’origine turca. Il corpo scelto era la cavalleria pesante franca e normanna, agli ordini del normanno Roussel di Bailleul. I precedenti comandanti franchi di questo corpo, Hervé e Crispin, erano stati deposti entrambi per aperto tradimento, ma gli uomini obbedivano soltanto al comando di un compatriota. Il più importante comandante bizantino, dopo l’imperatore, era Andronico Ducas, nipote del defunto imperatore e, come tutta la sua famiglia, nemico dichiarato di Romano che non osava lasciarlo a Costantinopoli in sua assenza. Con questo esercito numeroso, ma di cui non poteva fidarsi, Romano parti nella primavera del 1071 per riconquistare l’Armenia. Mentre lasciava la capitale giunse dall’Italia la notizia che Bari, l’ultimo possesso bizantino nella penisola, era caduta nelle mani dei normanni. I cronisti narrano con molti particolari la tragica marcia dell’imperatore verso Oriente lungo la grande strada militare bizantina. Era sua intenzione conquistare le fortezze armene e lasciarvi guarnigioni prima che l’esercito turco giungesse dal sud. Alp Arslan si trovava in Siria, vicino ad Aleppo, quando venne informato dell’avanzata bizantina; resosi conto dell’importanza vitale della sfida, si affrettò verso nord per affrontare l’imperatore. Romano penetrò in Armenia lungo il corso meridionale dell’Eufrate superiore e presso Manzikert divise le sue forze: egli stesso marciò sulla stessa Manzikert e inviò i franchi e i cumani a impadronirsi della fortezza di Akhlat, sulle sponde del lago Van. A Manzikert ricevette la notizia che Alp Arslan si stava avvicinando e allora deviò verso sud-ovest per riunire l’esercito prima che i turchi gli fossero addosso. Dimentico, però, della prima regola della tattica bizantina, trascurò di farsi precedere da esploratori. Il venerdì 19 agosto, mentre si trovava in una valle sulla strada di Akhlat in attesa dei suoi mercenari, Alp Arslan lo attaccò. I mercenari non giunsero mai in suo soccorso: i cumani, ricordandosi di essere turchi e di essere in arretrato con la paga, erano tutti passati al nemico nella notte precedente, e Roussel e i suoi franchi decisero di non partecipare alla battaglia. L’esito del combattimento non rimase a lungo incerto. Romano combatté eroicamente, ma Andronico Ducas, vedendo che la causa era perduta e pensando che il successivo atto del dramma si sarebbe svolto a Costantinopoli, allontanò dal campo di battaglia le truppe di riserva che erano ai suoi ordini e le condusse verso Occidente, abbandonando l’imperatore al suo destino. A sera l’esercito bizantino era distrutto e Romano ferito e prigioniero8.

Capitolo quinto Confusione in Oriente

Benché spandano i loro doni fra le nazioni, ora io li radunerò, e cominceranno a decrescere sotto il peso del re dei principi. Osea, VIII, I0

La battaglia di Manzikert fu il disastro più carico di conseguenze di tutta la storia bizantina: gli stessi bizantini non si fecero nessuna illusione al riguardo e ripetutamente i loro storici fanno riferimento a quella spaventosa giornata. Successivamente i crociati giudicarono che i bizantini avevano perduto sul campo di battaglia il diritto a fregiarsi del titolo di difensori della cristianità e che Manzikert giustificava l’intervento dell’Occidente1. I turchi non sfruttarono immediatamente la vittoria. Alp Arslan ave va ottenuto il suo scopo: il suo fianco era ormai protetto ed egli aveva eliminato il pericolo di un’alleanza bizantino-fatimita. All’imperatore prigioniero richiese soltanto l’evacuazione dell’Armenia ed un forte riscatto per la sua liberazione. Poi si allontanò per guidare una campagna in Transoxiana, dove morì nel 1072. Neppure suo figlio e successore, Malikshah, che doveva estendere il suo impero dal Mediterraneo sino ai confini della Cina, si spinse mai in Asia Minore. Ma i suoi sudditi turcomanni stavano migrando ed egli non desiderava che si stabilissero nelle antiche terre del califfato, mentre le pianure centrali dell’Anatolia, spopolate e trasformate in allevamenti di pecore dagli stessi signori bizantini, convenivano loro perfettamente. Affidò perciò a suo cugino, Suleiman ibn Kutulmish, il compito di conquistare la regione per il popolo turco2. La conquista venne facilitata dai bizantini stessi che trascorsero i successivi vent’anni della loro storia in un garbuglio di rivolte e di intrighi. Quando giunse a Costantinopoli la notizia del disastro e della prigionia dell’imperatore, il suo figliastro Michele Ducas si dichiarò maggiorenne ed assunse il governo; l’arrivo di suo cugino Andronico con i resti dell’esercito ne rafforzò la posizione. Michele VII era un giovane intelligente, colto, che in tempi più facili sarebbe stato un sovrano di valore, ma i problemi che doveva fronteggiare richiedevano un uomo di tutt’altra levatura. Romano Diogene, di ritorno dalla prigionia, si trovò deposto, tentò di lottare per riconquistare la posizione perduta, ma venne facilmente sconfitto e condotto prigioniero a Costantinopoli; qui fu accecato in modo cosi brutale che morì pochi giorni dopo. Michele non poteva permettersi di lasciarlo in vita, ma i potenti parenti di Romano e gli amici che si era guadagnato con il suo valore furono irritati per la brutalità della sua morte e il loro risentimento si espresse ben presto nel tradimento. Le invasioni turche dell’Asia Minore cominciarono seriamente nel 1073 e non furono né predisposte né uniformi. Suleiman desiderava stabilirvi un regolare sultanato, che egli potesse governare sotto l’alta sovranità di Malikshah; vi erano però signorotti turchi, uomini come Danishmend, Chaka o Menguchek, il cui scopo era di impadronirsi di qualche città o fortezza da cui governare come capi briganti su qualsiasi popolazione vi si trovasse. Dietro di loro, dando all’invasione tutta la sua forza, venivano i nomadi turcomanni, che si spostavano con armi leggere e con i loro cavalli, le loro tende, le loro famiglie, dirigendosi verso le praterie degli altipiani. I

cristiani fuggivano davanti a loro abbandonando agli invasori i villaggi, che venivano incendiati, e le loro greggi e mandrie. I turcomanni evitavano le città, ma la loro presenza e le distruzioni che avevano arrecato interruppero le comunicazioni in tutta la regione e ridussero i governatori delle province all’isolamento, rendendo possibile ai capi turchi di realizzare i loro desideri. Essi formarono l’elemento che avrebbe reso impossibile ogni tentativo bizantino di riconquista3. L’imperatore Michele aveva tentato di opporsi all’avanzata turca. Il prudente tradimento di Roussel di Bailleul aveva permesso al suo reggimento franco-normanno di sopravvivere al disastro di Manzikert e, sebbene si fosse mostrato infido, Michele fu costretto a servirsi di lui. Aggiunse al suo, un piccolo esercito di gente del luogo, agli ordini del giovane Isacco Comneno, nipote del precedente imperatore. La sua scelta fu saggia: Isacco e suo fratello Alessio, che lo accompagnava, appartenevano alla famiglia che odiava più aspramente i Ducas, ma, nonostante le pressioni della loro madre, rimasero fedeli a Michele per tutto il suo regno e si dimostrarono valenti generali. La lealtà di Isacco venne però annullata dalla perfidia di Roussel: prima ancora che l’esercito bizantino avesse affrontato i turchi, Roussel e le sue truppe tradirono e Isacco, attaccato sia dai turchi che dai franchi e largamente sopraffatto dal numero, venne preso prigioniero dai Selgiuchidi. Roussel manifestò allora chiaramente le sue intenzioni: entusiasmato dall’esempio dei suoi compatrioti dell’Italia meridionale progettava di fondare uno stato normanno in Anatolia. Aveva con sé soltanto tremila uomini, ma essi gli erano devoti ed erano bene equipaggiati e addestrati: in un corpo a corpo avrebbero vinto qualsiasi soldato bizantino o turco. All’imperatore, Roussel sembrava ora un nemico più pericoloso dei turchi e, mettendo insieme tutte le truppe che poté raccogliere, le inviò contro di lui, agli ordini di suo zio, il cesare Giovanni Ducas. Roussel le affrontò vicino ad Amorio e le sbaragliò facilmente, catturando il cesare Giovanni. Per darsi una parvenza di legalità, proclamò imperatore il suo prigioniero riluttante e marciò su Costantinopoli. Dopo avere raggiunto senza ostacoli la sponda asiatica del Bosforo, incendiò il sobborgo di Chrisopolis (Scutari) e s’accampò fra le rovine. Disperato, Michele si rivolse all’unica potenza che poteva salvarlo e inviò un’ambasceria al sultano selgiuchida Suleiman, il quale, con l’approvazione del suo sovrano Malikshah, promise aiuto in cambio della cessione delle province dell’Anatolia orientale che già occupava. Roussel mosse contro di lui, ma le sue truppe vennero accerchiate dai turchi sul Monte Sofon in Cappadocia: egli riuscì a fuggire con pochi uomini e si stabilì ad Amasea, più lontano, verso nord-est. Michele inviò allora Alessio Comneno a occuparsi di lui; questi riuscì a comprare l’appoggio del più importante capo turco dei dintorni e costrinse Roussel ad arrendersi. Il suo governo era stato però cosi efficiente e popolare che i cittadini di Amasea abbandonarono i loro tentativi di liberarlo soltanto alla notizia che era stato acciecato. In realtà Alessio non poté indursi a mutilarlo poiché il suo fascino era tale che perfino l’imperatore si rallegrò nel’ apprendere che non aveva subito quell’oltraggio4. Roussel scompare dalla storia, ma l’episodio lasciò un’impronta sui bizantini: insegnò loro che non ci si poteva fidare dei normanni e che l’ambizione di costoro non si limitava alle coste dell’Italia meridionale, ma che essi desideravano fondare principati in Oriente. È un importante precedente per spiegare la politica bizantina di vent’anni dopo. Frattanto i normanni venivano dissuasi dall’entrare al servizio imperiale e perfino i loro cugini scandinavi diventarono sospetti; perciò da allora la Guardia varega venne reclutata fra una popolazione che aveva sofferto a causa dei normanni, gli anglosassoni d’Inghilterra5. La paura dei normanni e il costante bisogno di mercenari stranieri spinsero Michele ad adottare una politica di pacificazione verso l’Occidente. La perdita dell’Italia meridionale era irreparabile ed egli non poteva permettersi di continuarvi la guerra. L’ambasciatore da lui inviato a trattare la pace

con i normanni, Giovanni Italo, un filosofo nato in Italia, venne considerato da molti bizantini un traditore degli interessi imperiali, Michele però ne fu soddisfatto, e conoscendo il desiderio della casa di Altavilla, sorta dal nulla, di stringere importanti alleanze matrimoniali, suggerì che la figlia del Guiscardo, Elena, venisse data in sposa al suo proprio figlioletto Costantino. Nello stesso tempo ricercò ed ottenne la cordiale amicizia di papa Gregorio VII. La sua politica garantiva la pace sulla sua frontiera occidentale6. Ma in Anatolia la confusione si accrebbe; il governo imperiale non riuscì a controllare la regione, e sebbene pochi generali fedeli, come Isacco Comneno che ora si trovava al comando di Antiochia, continuassero a far valere l’autorità dell’imperatore, le comunicazioni vennero interrotte e fu impossibile svolgere una politica coordinata. Infine, nel 1078, Niceforo Boteniate, governatore della grande theme anatolica dell’Asia Minore centro-occidentale, si ribellò, in parte per ambizione personale, in parte perché esasperato per la debolezza del governo di Michele. Ma Niceforo era un generale senza esercito e per assicurarsi le forze necessarie arruolò sotto le sue bandiere un gran numero di turchi, che Utilizzò come guarnigione nelle città occupate durante la sua marcia verso la capitale: Cizico, Nicea, Nicomedia, Calcedonia e Chrisopolis. Per la prima volta le orde turche si trovarono entro le mura delle grandi città dell’Anatolia occidentale: anche se erano i mercenari del nuovo imperatore, egli non sarebbe riuscito facilmente in seguito ad allontanarli. Michele non oppose resistenza e quando Niceforo entrò nella capitale si ritirò in un monastero dove scoprì la sua vera vocazione: più fortunato della maggior parte degli imperatori detronizzati, giunse in pochi anni, e soltanto per i suoi meriti, a diventare arcivescovo. La moglie abbandonata, la caucasica Maria di Alania, la più bella principessa del suo tempo, offrì saggiamente la propria mano all’usurpatore. Niceforo si accorse che la vita di un ribelle è più facile di quella di un sovrano. Altri generali seguirono il suo esempio: nei Balcani occidentali Niceforo Briennio, governatore di Durazzo, si proclamò imperatore e attirò sotto il suo stendardo i soldati delle province europee. Alessio Comneno venne inviato contro di lui con un piccolo esercito di soldati greci non addestrati e alcuni franchi che, come al solito, disertarono, e solo il tempestivo arrivo di alcuni mercenari turchi gli permise di sconfiggere Briennio. Non appena terminata questa campagna, Alessio dovette recarsi in Tessaglia per lottare contro un altro usurpatore, Basilacio; nel frattempo si era ribellata la guarnigione turca di Nicea e papa Gregorio, alla notizia della caduta del suo alleato Michele, aveva scomunicato il nuovo imperatore, mentre Roberto il Guiscardo, incoraggiato dal papa e furibondo per la rottura del fidanzamento di sua figlia, progettava di attraversare l’Adriatico. In maggio sbarcò con tutte le sue truppe a Valona e marciò su Durazzo. Al principio di quella stessa primavera il più importante generale in Asia, Niceforo Melisseno, si ribellò e strinse un’alleanza con il sultano turco Suleiman che poté cosi marciare senza incontrare resistenza sulla Bitinia, dove venne accolto festosamente dalle guarnigioni turche lasciate da Boteniate. Quando Melisseno fallì nell’intento di impadronirsi di Costantinopoli, Suleiman rifiutò di restituire le città che occupava, anzi si stabilì in Nicea, una delle più venerate città della cristianità, distante appena un centinaio di miglia dalla stessa Costantinopoli, e ne fece la capitale del sultanato turco. Intanto in Costantinopoli l’imperatore Niceforo sprecava la sua unica possibilità di salvezza litigando con la famiglia dei Comneni. Isacco ed Alessio lo avevano servito fedelmente ed avevano sperato di conservare il suo favore grazie alla loro amicizia con l’imperatrice, una cui cugina aveva sposato Isacco; si supponeva inoltre che Alessio fosse il suo amante. Ma essa non riuscì a sventare gli intrighi di corte che volsero Niceforo contro di loro; per salvarsi, i due fratelli furono costretti a ribellarsi: Alessio, riconosciuto dalla sua famiglia come il più abile dei due, si proclamò imperatore. Niceforo cadde facilmente come l’imperatore da lui deposto e, su consiglio del patriarca, si ritirò,

stanco e umiliato, in un monastero7. Alessio Comneno doveva regnare per trentasette anni e dimostrarsi il più grande statista del suo tempo, ma nel 1081 sembrava che né lui né il suo impero riuscissero a sopravvivere. Era giovane, probabilmente non aveva ancora trent’anni, ma aveva dietro di sé una lunga esperienza di generale, e di un generale di solito a capo di truppe inadeguate, i cui successi dipendevano perciò dall’astuzia e dalla diplomazia. Il suo aspetto era solenne: non era alto ma ben fatto, con un’aria austera; i suoi modi erano cortesi e semplici e aveva un autocontrollo notevole, ma univa a una genuina gentilezza una cinica prontezza a servirsi dell’inganno e del terrore se lo richiedevano gli interessi del suo paese. Aveva poche altre risorse al suo attivo, oltre alle sue qualità personali e all’affetto dei suoi soldati. La sua famiglia, con le sue relazioni nell’aristocrazia bizantina, lo aveva senza dubbio aiutato a conquistare il potere ed egli aveva rafforzato la sua posizione sposando una donna della casa Ducas, ma gli intrighi e le gelosie dei suoi parenti, specialmente l’odio che la sua autoritaria madre nutriva per sua moglie e per tutta la famiglia di lei, non fecero che accrescere le sue difficoltà. La corte era piena di membri delle precedenti famiglie imperiali o delle famiglie di possibili usurpatori che Alessio tentava di legare a sé per mezzo di vincoli matrimoniali. C’era l’imperatrice Maria, disperatamente gelosa della nuova imperatrice Irene, ed il figlio di Maria, Costantino Ducas, che egli fece suo collega minore nel governo e fidanzò ben presto con la propria figlia maggiore Anna; c’erano i figli di Romano Diogene, uno dei quali sposò sua sorella Teodora; c’era il figlio di Niceforo Briennio, che sposò Anna Comnena dopo la prematura morte di Costantino Ducas; c’era Niceforo Melisseno, già sposato con sua sorella Eudossia, che cedette al cognato i propri diritti all’impero in cambio del titolo di cesare. Alessio doveva sorvegliarli tutti attentamente, comporre le loro liti e prevenire i loro tradimenti; venne creato un complesso sistema di titoli per soddisfare le loro pretese. La nobiltà e i più alti funzionari dell’amministrazione civile erano ugualmente infidi ed Alessio scopriva continuamente nuove congiure contro il suo governo e fu in costante pericolo di venire assassinato. Per calcolo politico e per temperamento fu mite nelle sue punizioni, e questa clemenza e la calma sagacia di tutte le sue azioni sono tanto più notevoli se si considera la mancanza di sicurezza personale in cui trascorse tutta la sua vita8. La situazione dell’Impero nel 1081 era tale che soltanto un uomo di grande coraggio o di grande stupidità ne poteva assumere il governo. Non c’era denaro nel tesoro: i recenti imperatori erano stati dei dissipatori, la perdita dell’Anatolia e le ribellioni in Europa avevano drammaticamente diminuito le entrate, l’antico sistema di esazione delle tasse era crollato. Alessio non era un esperto di finanze; i suoi metodi avrebbero sbigottito un economista moderno; eppure, in qualche modo, tassando i suoi sudditi al massimo delle loro possibilità, imponendo prestiti forzosi e confiscando proprietà nobiliari ed ecclesiastiche, punendo con ammende piuttosto che con la prigione, vendendo privilegi e sviluppando le industrie di Stato, riuscì a pagare una vasta organizzazione amministrativa, a ricostituire l’esercito e la flotta, a mantenere al tempo stesso una corte sontuosa e a fare magnifici regali ai suoi sudditi fedeli, agli ambasciatori e ai principi in visita. Si rendeva conto che in Oriente il prestigio dipende interamente dallo splendore e dalla magnificenza e che l’avarizia è l’unica colpa imperdonabile. Ma Alessio commise due gravi errori: in cambio di aiuto immediato concesse vantaggi commerciali a mercanti stranieri a danno dei suoi propri sudditi, e in un momento cruciale alterò il titolo della moneta imperiale, quella moneta che per sette secoli aveva fornito l’unico mezzo di pagamento stabile in un mondo caotico. In politica estera la situazione era anche più disperata, se possiamo usare il termine di «estera» mentre da ogni parte i nemici erano penetrati profondamente nell’Impero. In Europa, l’imperatore conservava un precario controllo sulla penisola balcanica, ma gli slavi della Serbia e della Dalmazia

erano in rivolta e la tribù turca dei peceneghi, che errava oltre il Danubio, attraversava in continuazione il fiume per compiere delle scorrerie. In Occidente, Roberto il Guiscardo e i normanni avevano conquistato Valona e assediavano Durazzo. In Asia, rimaneva pochissimo ai bizantini, eccetto le sponde del Mar Nero, alcune città isolate sulla costa meridionale e la grande metropoli fortificata di Antiochia; per di più le comunicazioni con queste lontane città erano incerte e scarse, e se anche parecchie città dell’interno erano sempre in mano ai cristiani, i loro governanti erano completamente tagliati fuori da ogni contatto con il governo centrale. La maggior parte della regione era nelle mani del sultano selgiuchida Suleiman che da Nicea governava su territori che si estendevano dal Bosforo alla frontiera siriana. Il suo Stato, però, non aveva nessuna organizzazione amministrativa e nessuna frontiera ben delineata. Altre città erano in potere di signorotti turchi, alcuni dei quali riconoscevano la sovranità di Suleiman, mentre la maggior parte non ammetteva altro padrone che Malikshah. Tra questi, i più importanti erano i Danishmend, che possedevano ora Cesarea, Sebastea ed Amasea; Menguchek, signore di Erzinjan e Colonea, e, più pericoloso di tutti, l’avventuriero Chaka che aveva conquistato Smirne e il litorale egeo. I capi turchi avevano stabilito una specie di ordine nei dintorni delle loro principali città, ma la campagna era ancora percorsa da orde di nomadi turcomanni, mentre gruppi di profughi greci ed armeni aumentavano la confusione. Gran numero di cristiani si convertirono all’Islam e vennero a poco a poco assorbiti dai turchi; solo poche comunità greche continuarono a sussistere nelle zone montane, mentre i turchi cristiani, stabilitisi alcuni secoli prima intorno a Cesarea di Cappadocia, conservarono la loro identità e la loro religione fino ai tempi moderni. Invece la maggior parte della popolazione greca si trasferì come meglio poté sulle sponde del Mar Nero e dell’Egeo9. La migrazione degli armeni fu più misurata e ordinata. I vari principi armeni spodestati dai bizantini avevano ricevuto possedimenti in Cappadocia, specialmente nel sud, verso le montagne del Tauro; molti dei loro sudditi li avevano seguiti e quando le invasioni selgiuchide divennero una seria minaccia, un continuo flusso di armeni lasciò le proprie case per raggiungere le nuove colonie, finché quasi la metà della popolazione dell’Armenia si trovò in cammino verso sud-ovest. La penetrazione turca in Cappadocia li ricacciò ancor più lontano nei monti del Tauro e dell’Antitauro ed essi si sparsero nella valle del medio Eufrate dove i turchi non erano ancora arrivati. Le regioni che essi avevano abbandonato vennero ben presto occupate non da turchi, ma da curdi musulmani delle colline dell’Assiria e dell’Iran nord-occidentale. L’ultimo principe armeno dell’antica dinastia Bagratide, una dinastia che proclamava orgogliosamente di discendere da Davide e da Betsabea, venne ucciso per ordine dei bizantini nel 1079, dopo che aveva assassinato in modo particolarmente atroce l’arcivescovo di Cesarea; in conseguenza di ciò vino dei suoi parenti, di nome Rupen, si ribellò all’Impero e si stabilì nelle colline della Cilicia nord-occidentale. Quasi nello stesso tempo un altro capo armeno, Oshin figlio di Hethum, fondava un principato simile un po’ più lontano verso Occidente. Entrambe queste dinastie avrebbero avuto una parte notevole nella storia successiva, ma in quel momento Rupen ed Oshin erano messi in ombra dall’armeno Vahram, che i greci chiamavano Filarete. Filarete aveva servito i bizantini ed era stato designato da Romano Diogene come governatore di Germanicia (Marash); quando Romano cadde egli non volle riconoscere Michele Ducas e si proclamò indipendente. Approfittando del caos esistente nel regno di Michele, s’impadronì delle principali città della Cilicia, Tarso, Mopsuestia ed Anazarbo e nel 1077 uno dei suoi luogotenenti tolse Edessa ai bizantini, dopo un assedio di sei mesi. Nel 1078 i cittadini di Antiochia, il cui governatore, successore di Isacco Comneno, era stato da poco assassinato, pregarono Filarete di occupare la città per salvarla dai turchi. Il suo dominio si estendeva cosi da Tarso fino alle terre

oltre l’Eufrate e sia Rupen sia Oshin diventarono suoi vassalli. Ma egli non si sentiva sicuro. A differenza di molti suoi contemporanei egli era ortodosso e non desiderava separarsi interamente dall’Impero; quando Michele abdicò, proclamò la propria obbedienza a Niceforo Boteniate, che gli concesse di rimanere governatore delle terre che aveva conquistato. Apparentemente egli riconobbe anche Alessio, ma prese la precauzione supplementare di rendere in qualche misura omaggio ai signori arabi di Aleppo10. Alla sua ascesa al trono Alessio dovette decidere contro quale dei suoi nemici fosse necessario lanciare la prima campagna: calcolando che i turchi potevano essere respinti solo con uno sforzo prolungato per il quale non era ancora pronto, e che nel frattempo si sarebbero probabilmente scontrati fra loro, giudicò più urgente sventare l’attacco normanno. Gli occorse però più tempo di quanto avesse pensato. Nell’estate del 1081 Roberto il Guiscardo, accompagnato dalla moglie amazzone Sigelgaita di Salerno e dal figlio maggiore Boemondo, cinse d’assedio Durazzo; in ottobre Alessio marciò per liberare la fortezza con un esercito il cui nerbo era formato dalla Guardia varega anglosassone, ma come già era successo a Hastings quindici anni prima, gli anglosassoni erano troppo inferiori ai normanni: Alessio subì una sconfitta decisiva. Durazzo resistette per tutto l’inverno, ma cadde nel febbraio del 1082, ponendo cosi Roberto in condizione di avanzare in primavera sulla grande via principale, la via Egnazia, verso Costantinopoli. Le questioni italiane lo costrinsero ben presto a tornare in patria, ma egli lasciò il suo esercito agli ordini di Boemondo perché s’impadronisse della Macedonia e della Grecia. Questi sconfisse due volte Alessio che fu costretto a rivolgersi per aiuto di soldati ai turchi e di navi ai veneziani. Mentre questi ultimi interrompevano le comunicazioni normanne, gli altri permettevano all’imperatore di liberare la Tessaglia. Boemondo si ritirò in Italia nel 1085, ma tornò l’anno dopo con suo padre e distrusse la flotta veneziana al largo di Corfù. La guerra terminò soltanto quando Roberto morì a Cefalonia nel 1085 ed i suoi figli cominciarono a litigare per l’eredità11. L’autorità dell’imperatore venne infine ristabilita sulle province europee, ma durante quei quattro anni andarono perdute le province orientali. Filarete si trovò fatalmente coinvolto negli intrighi turchi. Al principio del 1085 Antiochia, insieme con le città cilice, venne consegnata da suo figlio al sultano Suleiman. Nel 1087 Edessa cadde nelle mani di un capobanda turco, Buzan, ma venne riconquistata più tardi, nel 1094, da un armeno, Thoros, che la ottenne in feudo da Malikshah e la governò, tenuto per qualche tempo sotto sorveglianza da una guarnigione turca nella cittadella. Melitene frattanto veniva occupata da suo suocero, Gabriele, anch’egli armeno e come Thoros di rito ortodosso. Litigi fra le chiese ortodossa, giacobita e armena aumentarono il disordine in tutta la Siria settentrionale; queste chiese si rallegrarono per il declino della potenza bizantina, poiché preferivano il governo turco12. La Siria meridionale era ormai completamente sotto la dominazione selgiuchida. I possedimenti dei Fatimiti in Siria erano stati minacciati fin da quando Tughril Bey era entrato in Bagdad nel 1055, mentre il crescente allarme e l’incertezza vi avevano provocato disordini e ribellioni di poco conto. Quando nel 1056 i funzionari bizantini di frontiera a Lattakieh rifiutarono al vescovo di Cambrai il permesso di continuare il suo pellegrinaggio verso sud, non agirono cosi per essere scortesi verso un latino, come sospettarono gli occidentali (sebbene esistesse probabilmente un bando per i pellegrini normanni), ma perché erano informati che la Siria non era sicura per i viaggiatori cristiani. Quello che accadde otto anni dopo ai vescovi tedeschi che insistettero per attraversare la frontiera, nonostante il parere contrario della gente del luogo, dimostra che i funzionari bizantini avevano ragione13.

Nel 1071, l’anno di Manzikert e della caduta di Bari, un avventuriero turco, Atsiz ibn-Abaq, nominalmente vassallo di Alp Arslan, conquistò Gerusalemme senza colpo ferire e occupò ben presto tutta la Palestina sino alla fortezza di frontiera di Ascalona. Nel 1075 s’impadronì di Damasco e della sua regione. Nel 1076 i Fatimiti riconquistarono Gerusalemme, ma Atsiz li ricacciò di nuovo dopo un assedio di parecchi mesi, conclusosi con il massacro degli abitanti musulmani; vennero risparmiati soltanto i cristiani, al sicuro nel loro quartiere fortificato. Ciò nonostante i Fatimiti furono ben presto in condizione di attaccare Atsiz a Damasco ed egli fu costretto a rivolgersi per aiuto al principe selgiuchida Tutush, fratello di Malikshah, che con l’approvazione di questo, stava tentando di formarsi un sultanato in Siria. Nel 1079 Tutush fece assassinare Atsiz e diventò il solo sovrano di uno Stato che si estendeva da Aleppo, ancora sotto la sua dinastia araba, sino ai confini dell’Egitto. Sembra che Tutush e il suo luogotenente Ortoq, governatore di Gerusalemme, stabilissero un governo ordinato; non si notò nessuna speciale ostilità contro i cristiani anche se il patriarca ortodosso di Gerusalemme trascorreva buona parte del suo tempo a Costantinopoli, dove già il suo collega di Antiochia aveva fissato la propria residenza14. Nel 1085 l’imperatore Alessio, libero ormai del pericolo normanno, rivolse la propria attenzione al problema dei turchi. Fino a quel momento era riuscito a tenerli a freno soltanto per mezzo di continui intrighi, aizzando un principe turco contro l’altro, ma ora, combinando la diplomazia con una dimostrazione di forza, ottenne un trattato che restituiva all’Impero Nicomedia e le sponde anatoliche del Mar di Mannara. L’anno successivo la sua pazienza fu ancor meglio ricompensata: Suleiman ibnKutulmish, dopo aver preso Antiochia, marciò su Aleppo, il cui sovrano arabo si rivolse per aiuto a Tutush; in una battaglia combattuta nelle vicinanze della città, Tutush risultò vincitore e Suleiman venne trucidato. La sua morte portò il caos fra i turchi dell’Anatolia ed Alessio si ritrovò nel suo elemento, complottando con un capo contro l’altro, giocando sulle loro reciproche gelosie e corrompendo ognuno di loro a turno con doni e promesse di alleanze matrimoniali. Antiochia fu occupata per sei anni da un ribelle turco, Abul Kasim, ma nel 1092 Malikshah fu in grado di sostituirlo con il figlio di Suleiman, Kilij Arslan I. Nel frattempo Alessio era riuscito a consolidare la sua posizione, sia pure con difficoltà: infatti, l’unico possesso che poté riconquistare fu la città di Cizico, e non riuscì a impedire ai Danishmend di estendere il loro dominio verso Occidente e di impadronirsi dello stesso luogo d’origine della sua famiglia, Castra Comneni in Paflagonia. Ostacolato da congiure di palazzo, fu anche costretto ad affrontare nel 1087 una grave invasione proveniente dal Danubio, condotta dai peceneghi con l’aiuto degli ungheresi, e solo nel 1091 la sua diplomazia, aiutata da una splendida vittoria, lo liberò definitivamente dalla minaccia di incursioni barbariche dal nord. Il più pericoloso era ancora Chaka, l’emiro turco di Smirne, che, più ambizioso della maggior parte dei suoi compatrioti, aspirava a subentrare nell’Impero. Egli si servì di greci anziché di turchi, perché si rendeva conto dell’importanza di avere il dominio sul mare; allo stesso tempo, però, tentò di organizzare un’alleanza fra i principi turchi e diede in moglie sua figlia al giovane Kilij Arslan. Fra il 1080 e il 1090 si impadronì della costa egea e delle isole di Lesbo, Chio, Samo e Rodi, ma Alessio, che tra le sue prime preoccupazioni aveva avuto quella di ricostruire la flotta bizantina, riuscì finalmente a sconfiggerlo sul mare all’ingresso del Mar di Marmara; la minaccia continuò però a sussistere finché nel 1092 Chaka venne assassinato da suo genero, Kilij Arslan, durante un banchetto a Nicea. Il delitto fu il risultato di un consiglio dato dall’imperatore al sultano, che temeva che un altro turco diventasse più potente di lui15. Morti Suleiman e Chaka, Alessio poté prendere in considerazione una politica più aggressiva:

egli stesso si sentiva ormai sicuro a Costantinopoli, le province europee erano tranquille, la sua flotta efficiente e il tesoro temporaneamente ben fornito. Ma il suo esercito era molto piccolo, formato da poche truppe indigene su cui contare da quando era stata persa l’Anatolia; aveva quindi bisogno di mercenari stranieri addestrati. Intorno al 1095 sembrava certo che la potenza dei Selgiuchidi stesse finalmente declinando. Malikshah, che aveva avuto un certo controllo su tutto l’Impero turco, era morto nel 1092 e la sua morte era stata seguita da una guerra civile fra i suoi giovani figli; per i successivi dieci anni, finché non riuscirono ad accordarsi per una divisione dell’eredità, quasi tutta l’attenzione dei turchi si concentrò su quella lotta. Frattanto capi arabi e curdi insorgevano nell’Iran; in Siria, dove Tutush era morto nel 1095, i suoi figli Ridwan di Aleppo e Duqaq di Damasco si dimostrarono incapaci di mantenere l’ordine; Gerusalemme passò ai figli di Ortoq, ma il loro governo fu inefficace e tirannico; il patriarca ortodosso Simeone e il suo clero di grado superiore si ritirarono a Cipro; a Tripoli un emiro shilita, Ibn Ammar, fondò un principato; i Fatimiti iniziarono la riconquista della Palestina meridionale, mentre nel nord un generale turco, Kerbogha, atabeg di Mosul sotto il califfo abasside, si infiltrava poco a poco nei territori di Ridwan di Aleppo. Ai viaggiatori del tempo sembrava che ogni città avesse un padrone diverso16. È peraltro degno di nota che ci fossero ancora viaggiatori, non soltanto musulmani, ma anche cristiani venuti dall’Occidente; il loro afflusso non era mai completamente cessato, ma in quel periodo il viaggio era molto penoso. Sembra che a Gerusalemme, fino alla morte di Ortoq, la vita dei cristiani sia stata assai poco disturbata; la Palestina era di solito tranquilla, salvo quando turchi ed egiziani vi si trovavano impegnati in combattimenti. Ma l’Anatolia poteva essere attraversata soltanto con una scorta armata e anche in tal caso il viaggio era pieno di pericoli: guerre o autorità ostili spesso fermavano i viaggiatori. In Siria la situazione era di poco migliore: ovunque sulle strade c’erano dei briganti e in ogni piccola città il signore locale cercava di far pagare un pedaggio a coloro che vi transitavano. I pellegrini che riuscivano a superare tutte le difficoltà tornavano in Occidente esausti e impoveriti, con una storia spaventosa da raccontare.

Parte seconda La predicazione della crociata

Capitolo primo Pace santa e guerra santa

Noi aspettavamo la pace, ma nessun bene giunse. Geremia, VIII, 15

Il cristiano, come cittadino, ha un problema fondamentale da affrontare: è autorizzato a combattere per il suo paese? La sua è una religione di pace, mentre guerra significa carneficina e distruzione. I primi padri della Chiesa non avevano dubbi e consideravano la guerra come un assassinio in grande, ma dopo il trionfo della croce, dopo che l’Impero si fu identificato con la cristianità, non dovevano i cittadini essere pronti a prendere le armi per la sua prosperità? La Chiesa orientale pensava di no. Il suo grande canonista san Basilio, pur rendendosi conto che un soldato deve obbedire agli ordini, sosteneva tuttavia che chiunque si fosse reso colpevole di uccisioni in guerra doveva astenersi per tre anni, in segno di pentimento, dal fare la comunione1. Questa opinione era troppo severa e infatti il soldato bizantino non venne mai considerato un assassino, ma la sua professione non gli attirava simpatie. La morte in battaglia non era considerata gloriosa, né il cadere combattendo contro gli infedeli era ritenuto un martirio: il martire moriva armato soltanto della sua fede. Combattere contro gli infedeli era cosa deplorevole, sebbene talvolta inevitabile, ma combattere contro correligionari cristiani era doppiamente male. È degno di nota il fatto che nella storia bizantina vi siano state pochissime guerre di aggressione: le campagne di Giustiniano erano state intraprese per liberare i romani da governatori eretici e barbari, quelle di Basilio II contro i bulgari per riconquistare province imperiali e per eliminare un pericolo che minacciava Costantinopoli. Venivano sempre preferiti i metodi pacifici anche se comportavano una tortuosa diplomazia o un esborso in denaro. Agli storici occidentali, abituati ad ammirare il valore marziale, gli atti di molti statisti bizantini sembrano codardi o scaltri, ma essi agirono di solito con il sincero desiderio di evitare spargimenti di sangue. La principessa Anna Comnena, una delle più tipiche rappresentanti della mentalità bizantina, manifesta chiaramente nella sua storia che, sebbene avesse un profondo interesse per le questioni militari ed apprezzasse i successi in battaglia di suo padre, ella considerava la guerra una cosa vergognosa, un’estrema risorsa quando tutte le altre erano venute meno, in realtà una confessione di fallimento2. Il punto di vista occidentale era meno illuminato. Sant’Agostino stesso aveva ammesso che si potevano intraprendere guerre per ordine di Dio3; e la società militare che si era affermata in Occidente a causa delle invasioni barbariche cercò inevitabilmente di giustificare il suo abituale passatempo. Il codice cavalleresco che si stava sviluppando, con l’apporto dei poemi epici popolari, diede prestigio all’eroe militare, mentre il pacifista cadeva in un discredito dal quale non si è mai ripreso. Contro questi sentimenti la Chiesa poteva fare poco; tentò piuttosto di indirizzare le energie bellicose per vie che sarebbero tornate a suo vantaggio: la guerra santa, cioè la guerra condotta nell’interesse della Chiesa, diventò lecita anzi perfino desiderabile. Verso la metà del secolo IX papa Leone IV dichiarò che chiunque fosse morto in battaglia per la difesa della Chiesa avrebbe ricevuto un premio in cielo4. Alcuni anni più tardi papa Giovanni VIII definì martiri i caduti in una

guerra santa; se essi morivano con le armi in pugno i loro peccati sarebbero stati perdonati; ma era necessario che fossero puri di cuore5. Niccolò I stabilì che gli uomini condannati dalla Chiesa per i loro peccati non dovevano portare le armi, tranne che per combattere contro gli infedeli6. Ma sebbene in questo modo le massime autorità ecclesiastiche evitassero di condannare la guerra, c’erano però dei pensatori in Occidente che ne erano scandalizzati. Il tedesco Bruno di Querfurt, martirizzato dai pagani prussiani nel 1009, si era sentito oltraggiato dalle guerre intraprese dagli imperatori del suo tempo contro altri cristiani: da Ottone II contro il re di Francia, e da Enrico II contro i polacchi7. Un movimento per la pace era già stato iniziato in Francia, e nel 989 il concilio di Charroux, in cui si erano riuniti i vescovi dell’Aquitania per salvaguardare l’immunità del clero, propose che la Chiesa garantisse ai poveri la possibilità di vivere in pace8. Al concilio di Le Puy dell’anno dopo, la proposta venne rinnovata con maggior vigore e Guido d’Angiò, vescovo di Le Puy, dichiarò che senza pace nessuno avrebbe potuto vedere il Signore e perciò incitò tutti a diventare i figliuoli della pace9. Pochi anni più tardi Guglielmo il Grande, duca di Guienne, spinse l’idea ancor più lontano e nel concilio di Poitiers, da lui convocato nel 1000, venne affermato che le dispute non si dovevano più risolvere con il ricorso alle armi, ma con l’aiuto della giustizia e che tutti quelli che rifiutavano di conformarsi a questa norma dovevano essere scomunicati. Il duca e i suoi nobili si impegnarono solennemente e Roberto il Pio, re di Francia, seguì il loro esempio promulgando un ordine simile per i suoi possedimenti10. La Chiesa era ancora interessata a quel movimento, soprattutto per salvaguardare le sue proprietà dalle distruzioni ed esazioni di guerra e a questo scopo vennero tenuti parecchi concili. A Verdun-sur-le-Doubs, nel 1016, fu elaborata una formula secondo la quale i nobili giuravano di non arruolare con la violenza nelle loro truppe né ecclesiastici né contadini, di non predarne le messi e di non confiscarne gli animali. Il giuramento venne prestato liberamente in tutta la Francia mentre i preti e le comunità riunite gridavano: «Pace, pace, pace»11. Questo successo incitò alcuni vescovi entusiasti ad andare oltre. Nel 1038 Aimone, arcivescovo di Bourges, ordinò a ogni cristiano che avesse più di quindici anni di dichiararsi nemico di chiunque violasse la pace e pronto a prendere le armi contro di lui se fosse stato necessario. Vennero organizzate delle Leghe di Pace che ebbero dapprima una certa efficacia, ma poi la seconda parte dell’ordine dell’arcivescovo si dimostrò più attraente della prima e castelli appartenenti a nobili recalcitranti vennero distrutti da frotte di contadini armati guidati dal clero; questa milizia improvvisata diventò ben presto cosi irresponsabile e causò tante rovine che le autorità furono costrette a sopprimerla. Dopo che una grande Lega di Pace ebbe incendiato il villaggio di Bénécy, il conte Oddone di Déols la sbaragliò sulle rive del Cher e si narra che almeno settecento ecclesiastici perissero nella battaglia12. Nel frattempo veniva fatto un altro tentativo, più pratico, di limitare la guerra. Nel 1027 Oliba, vescovo di Vich, tenne un sinodo a Toulouges, nel Rossiglione, il quale proibì ogni azione bellica di domenica13. Questa idea di una tregua durante i giorni festivi venne ampliata quando i vescovi di Provenza, sotto l’influenza del grande abate di Cluny, Odilone, e affermando di parlare a nome di tutta la Chiesa di Gallia, nel 1041 inviarono una lettera alla Chiesa d’Italia chiedendo che la Tregua di Dio venisse estesa in modo da includere anche il Venerdì Santo, il Sabato Santo e il giorno dell’Ascensione14. La Chiesa di Aquitania aveva già seguito l’esempio dei provenzali, ma il ducato di Borgogna andò ancora oltre riservando per la Tregua l’intera settimana fra il mercoledì sera e il lunedì mattina, ed aggiungendo il periodo fra l’Avvento e la prima domenica dopo l’Epifania, la

Quaresima e la Settimana Santa fino a otto giorni dopo Pasqua15. Nel 1042 Guglielmo il Conquistatore, nella legislazione per la Normandia, includeva anche il periodo fra le Rogazioni e otto giorni dopo la Pentecoste16. Nel 1050 un concilio riunito a Toulouges raccomandava l’ulteriore inclusione dei tre giorni festivi dedicati alla Vergine e di quelli dedicati ai santi più importanti 17. Verso la metà del secolo l’idea della Tregua di Dio sembrava dunque ben consolidata e il grande concilio di Narbona nel 1054 tentò di coordinarla con l’idea della Pace di Dio, a protezione dei beni della Chiesa e dei poveri dalle conseguenze della guerra. Bisognava osservarle entrambe sotto pena di scomunica; fu inoltre stabilito che nessun cristiano doveva uccidere un correligionario «poiché chi ammazza un cristiano versa il sangue di Cristo»18. I movimenti pacifisti raramente sono efficaci in realtà come in teoria, e quelli del secolo XI non fecero eccezione alla regola. I principi che ave vano sostenuto con maggior energia la Tregua di Dio non si attennero alle sue disposizioni: in un giorno di sabato Guglielmo il Conquistatore combatté a Hastings contro il suo correligionario Aroldo; e Anna Comnena doveva annotare con orrore che, mentre la sua Chiesa cercava onestamente di evitare ostilità in giorni festivi, i cavalieri occidentali attaccarono Costantinopoli durante la Settimana Santa e nei loro eserciti era no numerosi i preti armati e combattenti19. E neppure le proprietà della Chiesa, come i papi stessi sapevano per esperienza, erano immuni da attacchi di laici. La bellicosità degli occidentali e il loro gusto per la gloria militare non potevano essere soffocati cosi facilmente. Era più saggio tornare all’antica politica di adoperare questa energia indirizzandola ver so una guerra contro i pagani. La minaccia musulmana sembrava molto più terribile ai paesi occidentali che ai bizantini, fino alle invasioni dei turchi; e costoro allarmarono i bizantini più come barbari che come infedeli. Dopo l’insuccesso arabo davanti a Costantinopoli al principio del secolo VIII, la guerra sulla frontiera orientale della cristianità era diventata endemica, ma mai abbastanza grave da minacciare l’integrità dell’Impero, o da interrompere a lungo gli scambi commerciali e culturali. Gli arabi erano eredi della civiltà greco-romana quasi quanto i bizantini e il loro modo di vivere non era molto diverso. Un bizantino si sentiva molto più a casa propria al Cairo o a Bagdad che a Parigi, a Goslar e perfino a Roma. Tranne rari momenti di crisi e rappresaglie, le autorità dell’Impero e del califfato erano concordi nel non imporre conversioni da nessuna parte e nel permettere il libero culto dell’altra religione. Califfi vanagloriosi potevano parlare con disprezzo degli imperatori cristiani e talvolta esigere un tributo da loro ma, come aveva dimostrato il trascorso secolo X, i bizantini erano un avversario formidabile e ben organizzato. I cristiani d’Occidente non potevano condividere la tolleranza dei bizantini e il loro senso di sicurezza. Si sentivano orgogliosi di essere cristiani e si consideravano eredi di Roma, eppure si rendevano conto con inquietudine che sotto moltissimi punti di vista la civiltà musulmana era superiore alla loro. La potenza musulmana dominava il Mediterraneo occidentale dalla Catalogna a Tunisi, pirati musulmani depredavano le loro navi mercantili, Roma era stata saccheggiata dai musulmani. Questi avevano costruito a scopo di rapina dei castelli in Italia e in Provenza e sembrava che potessero di nuovo uscire dalle loro fortezze di Spagna per attraversare le frontiere e riversarsi oltre i Pirenei in Francia, La cristianità occidentale non aveva nessuna organizzazione che potesse far fronte a un simile attacco: soltanto singoli eroi, dal tempo di Carlo Martello in poi, avevano sconfitto le incursioni saracene, e per un certo periodo l’Impero carolingio aveva costituito il necessario baluardo. Nel 915 papa Giovanni X aveva collaborato con la corte di Costantinopoli nell’organizzazione di una lega di principi cristiani al fine di cacciare i musulmani dal loro castello

sul Garigliano20. Nel 941 i bizantini si unirono a Ugo di Provenza in un attacco contro il loro castello di Fréjus, attacco che però non ebbe successo a causa delle incertezze di Ugo all’ultimo momento; nel 972 una lega di principi provenzali e italiani riuscì a compiere l’impresa21. Ma tali leghe erano locali, sporadiche ed effimere, era quindi necessaria una maggior collaborazione e una maggior concentrazione di sforzi. E in nessun luogo ci si rendeva conto di questa necessità meglio che a Roma, dove non era stato dimenticato il saccheggio della chiesa di San Pietro dell’846. Nel secolo X i musulmani di Spagna rappresentavano veramente una grande minaccia per la cristianità che aveva perduto il terreno precedentemente guadagnato. Alla metà del secolo il grande califfo Abdar-Rahman III era l’incontestato padrone della penisola. La sua morte avvenuta nel 961 concesse un certo respiro ai cristiani poiché il suo successore, Hakam II, era pacifico ed era inoltre occupato in guerre con i Fatimiti e con gli Idrisidi del Marocco. Ma dopo la morte di Hakam nel 976, la scena venne dominata da un visir bellicoso, Mahomet ibn Abi Amir, soprannominato al-Mansur, il Vittorioso, e noto agli spagnoli come Almanzor. Il più importante Stato cristiano in Spagna era il regno di Leon che dovette sostenere l’urto degli attacchi di Almanzor. Nel 981 questi s’impadronì di Zamora, nella parte meridionale del regno, nel 996 saccheggiò la stessa Leon e l’anno seguente incendiò la città di San Giacomo di Compostela (che veniva subito dopo Gerusalemme e Roma come meta di pellegrinaggi), tuttavia si preoccupò di risparmiare il santuario. Nel 986 aveva già conquistato Barcellona. Sembrava che ben presto avrebbe varcato i Pirenei quando mori, nel 100222. Con la sua morte cominciò il declino della potenza musulmana. Pirati provenienti dall’Africa riuscirono a saccheggiare Antibes nel 1003, Pisa nel 1005 e poi di nuovo nel 1016, e Narbona nel 1020, ma le aggressioni organizzate erano cessate per il momento: era tempo di passare al contrattacco23. Questo venne progettato da Sancho III, detto il Grande, re di Navarca, che nel io 14 tentò di organizzare una lega di principi cristiani per combattere contro gli infedeli. I suoi colleghi di Leon e di Castiglia erano pronti a collaborare ed egli trovò un alleato entusiasta in Sancho-Guglielmo, duca di Guascogna, ma il re Roberto di Francia non rispose al suo appello. Non si concluse nulla, frattanto però Sancho si era assicurato l’interessamento di un alleato molto più prezioso: la formidabile organizzazione di Cluny, infatti, sotto i due grandi abati che la diressero per 115 anni (Odilone dal 994 fino alla sua morte nel 1048, e Ugo che gli succedette e visse fino al 1109), cominciò a prestare un’attenzione particolare alle questioni spagnole. Cluny si era sempre interessata al benessere dei pellegrini e fu lieta di aver voce in capitolo nella direzione di questi verso Compostella e di collaborare insomma alla salvaguardia della cristianità spagnola. Fu probabilmente l’influenza cluniacense, unita alla sua natura di normanno avventuroso, che fece accorrere Ruggero di Tosni dalla Normandia in aiuto della contessa Erselinde di Barcellona quando nel io 18 essa si trovò minacciata dai musulmani. Sotto Sancho e i suoi successori il controllo di Cluny sulla Chiesa spagnola si rafforzò, portandola all’avanguardia del movimento riformatore. Il papato non poteva perciò mancare di considerare con speciale approvazione ogni tentativo fatto per ampliare i confini della cristianità in Spagna. La benedizione di Cluny e quella del papa accompagnarono SanchoGuglielmo di Guascogna allorché si uni a Sancho di Navarra per attaccare l’emiro di Saragozza, e infusero coraggio a Raimondo-Berengario I di Barcellona mentre respingeva i musulmani verso sud24. Cosi la guerra contro gli infedeli di Spagna sali al rango di guerra santa e presto i papi stessi intervennero a dirigerla. Nel 1063, all’inizio di una grande offensiva contro i musulmani, il re

d’Aragona, Ramiro I, venne assassinato a Grados da uno di costoro. La sua morte accese l’immaginazione dell’Europa: papa Alessandro II promise immediatamente un’indulgenza per tutti coloro che avrebbero combattuto per la croce in Spagna e si accinse a raccogliere un esercito per proseguire l’opera di Ramiro; un soldato normanno al suo servizio, Guglielmo di Montreuil, reclutò delle truppe nell’Italia settentrionale; nella Francia del nord il conte Ebles di Roucy, fratello della regina aragonese Felicia, radunò un esercito; il contingente più numeroso fu condotto da GuidoGoffredo, conte d’Aquitania, cui fu conferito il comando della spedizione. Si concluse assai poco: fu conquistata la città di Barbastro, con vasto bottino, ma venne persa di nuovo molto presto25. Da quel momento però dei cavalieri francesi affluirono al di là dei Pirenei per continuare l’impresa. Nel 1073 una nuova spedizione fu organizzata da Ebles di Roucy mentre papa Gregorio VII invitava i principi della cristianità a prendervi parte e, pur ricordando al mondo intero che il regno spagnolo apparteneva alla sede di san Pietro, dichiarò che i cavalieri cristiani avrebbero potuto godere il possesso delle terre che avessero conquistato agli infedeli26. Nel 1078 Ugo I, duca di Borgogna, condusse un esercito in aiuto di suo cognato Alfonso VI di Castiglia 27. Nel 1080 Gregorio VII diede il suo personale incoraggiamento a una spedizione guidata da Guido-Goffredo. Negli anni seguenti tutto andò bene; nel 1085 i castigliani conquistarono la stessa Toledo 28. Poi vi fu una riscossa dei musulmani guidati dai fanatici Almoravidi e dal 1087 in poi i cavalieri cristiani furono chiamati con urgenza in Spagna per combatterli. Papa Urbano II diede il suo trepidante appoggio e disse perfino a dei pellegrini in procinto di andare in Palestina che avrebbero potuto spendere il loro denaro più utilmente nella ricostruzione delle città spagnole liberate devastate dai musulmani29. Fino alla fine del secolo le lotte in Spagna continuarono ad attirare avventurosi cavalieri cristiani provenienti dal nord, finché la conquista di Huesca nel 1096 e quella di Barbastro nel 1101 posero termine a questa serie di campagne. Alla fine del secolo XI l’idea della guerra santa era stata cosi messa in pratica. Cavalieri e soldati cristiani venivano incoraggiati dalle autorità ecclesiastiche a lasciar da parte le loro meschine dispute per andare a combattere sulle frontiere della cristianità contro gli infedeli. Come ricompensa per il loro servizio potevano prender possesso delle terre riconquistate, e ricevevano inoltre dei benefici spirituali. Non è chiaro in che cosa consistessero esattamente questi benefici: sembra che Alessandro II avesse promesso un’indulgenza a tutti coloro che avevano preso parte alla campagna del 106430; ma Gregorio VII diede l’assoluzione soltanto a quelli che morirono in battaglia per la croce31 e concesse un’assoluzione simile ai soldati di Rodolfo di Svevia che combattevano contro lo scomunicato Enrico di Germania32. Il papato prendeva la guida delle guerre sante, spesso le indiceva e spesso ne designava i comandanti, mentre le terre conquistate dovevano essere governate sotto la suprema sovranità papale. Sebbene i grandi principi fossero proclivi a rimanersene in disparte, i cavalieri occidentali risposero prontamente all’appello per la guerra santa. I loro motivi erano in parte genuinamente religiosi, si vergognavano di essere continuamente in lotta fra di loro e volevano combattere per la croce, ma li spingeva anche la fame di terre, soprattutto nella Francia settentrionale dove si stava diffondendo la pratica del maggiorasco. Poiché i signori erano sempre più contrari a dividere proprietà e le cariche, che cominciavano ora a essere concentrate intorno a un castello costruito in pietra, i loro figli cadetti dovevano cercare fortuna altrove. Nella classe dei cavalieri in Francia c’era una generale irrequietezza e un gusto per l’avventura, pili accentuato fra i normanni che soltanto da poche generazioni avevano abbandonato la vita di pirati nomadi. L’occasione di combinare il

dovere cristiano con l’acquisto di terre in un clima meridionale era molto attraente e la Chiesa aveva ragione di compiacersi per i progressi del movimento. Non si sarebbe potuto valersene anche alla frontiera orientale della cristianità?

Capitolo secondo La rocca di san Pietro

Per mio mezzo regnano i re, e i principi decretano ciò ch’è giusto. Proverbi, VIII, 15

Quando la marea dell’Islam retrocesse in Spagna, il papa incontrò poche difficoltà ad affermare la sua autorità sulla Chiesa delle zone riconquistate. La donazione di Costantino, largamente seppur erroneamente accettata come autentica dalla cristianità occidentale, gli concedeva sovranità temporale su molti territori e passò inosservato il fatto che ad essi venisse aggiunta la penisola iberica; d’altra parte in Spagna non c’era nessun potere ecclesiastico in grado di opporglisi. Ma la cristianità orientale era organizzata in modo diverso. I patriarcati di Alessandria, fondato da san Marco, e di Antiochia, fondato da san Pietro, erano antichi quanto la sede romana; il patriarcato di Gerusalemme, la chiesa di san Giacomo, sebbene più recente godeva del prestigio dovuto alla più sacra città del mondo. Il patriarcato di Costantinopoli era poi il più temibile rivale; per quanto asserisse di essere stato fondato da sant’Andrea non poteva far valere l’autorità di un’uguale antichità, però Costantinopoli era la Nuova Roma e aveva soppiantato l’antica capitale, era la sede di un’ininterrotta linea di imperatori cristiani ed era di gran lunga la maggiore città della cristianità. Il suo patriarca poteva con ragione chiamarsi ecumenico, la più importante autorità ecclesiastica del mondo civile. Qualche volta l’opposizione religiosa di Bisanzio poteva tentare di sfruttare l’autorità della Roma antica come una pedina contro il crescente dominio dell’imperatore, ma nessuno in Oriente pensava seriamente che il vescovo della decaduta città occidentale, cosi spesso in balia dei suoi turbolenti signorotti o di sovrani barbari venuti dal nord, dovesse esercitare una qualsiasi giurisdizione sulle Chiese orientali, con le loro antiche e durature tradizioni. Eppure Roma poteva ancora incutere uno speciale rispetto e, malgrado le sue pretese di supremazia fossero ignorate, quasi tutti le riconoscevano un primato fra le grandi sedi della cristianità, perfino il patriarca ecumenico. E nessuno era disposto a mettere in dubbio l’opinione che la cristianità era e doveva essere unica. Dopo la conquista araba i patriarcati del sud-est avevano perso molto del loro potere e Costantinopoli s’affermò come il campione delle Chiese orientali. C’erano state molte controversie e dispute fra Roma e Costantinopoli su questioni ecclesiastiche, sebbene nessuna sia stata cosi grave e prolungata come giunsero a credere polemisti di epoche posteriori1. L’unità della cristianità era ancora generalmente accettata. Ma nel secolo XI l’organizzazione della Chiesa romana venne riesaminata; le riforme erano state in larga misura suggerite da influenze monastiche di Cluny e della Lorena e agli inizi erano state realizzate dalle autorità laiche che dominavano Roma a quel tempo. Particolarmente attivo era stato l’imperatore Enrico III, il quale aveva dato loro un tale impulso che dopo la sua morte la Chiesa poté continuarle e svilupparle indipendentemente dal governo civile e talvolta in opposizione a questo. Dal movimento emersero teorie che insistevano sul dominio spirituale universale di Roma e sulla sua assoluta superiorità sui principi secolari; queste a loro volta provocarono nuove controversie con l’Oriente.

La questione principale stava nella riaffermazione delle pretese di Roma alla supremazia. Ma cominciarono delle dispute su dettagli di dottrina e di usanze poiché il papato, nel suo desiderio di consolidare la propria autorità, tentava di rendere uniformi le consuetudini della Chiesa: non soltanto desiderava abolire, per ragioni sia politiche sia spirituali, il matrimonio del clero secolare ma tentò anche di unificare la liturgia e il rituale. Queste riforme erano possibili in Occidente, ma le consuetudini delle chiese orientali erano differenti. Vi erano chiese greche nella sfera di Roma come vi erano chiese latine nella sfera di Costantinopoli, e nell’Italia meridionale la frontiera fra le due zone era stata a lungo in discussione. Allo stesso tempo l’influenza tedesca a Roma aveva condotto all’inserimento della parola filioque nel Credo in relazione alla emanazione dello Spirito Santo. I papi riformatori erano meno disposti dei loro predecessori a cercare il compromesso o a tacere accortamente su tali questioni e i conflitti divennero inevitabili. Il papa Sergio IV, nella sua Lettera Sistatica, cioè nella dichiarazione di fede inviata da ogni papa o patriarca ai suoi colleghi al momento della nomina, incluse la parola filioque, perciò il patriarca Sergio II di Costantinopoli rifiutò di ricordare il suo nome nei dittici delle chiese patriarcali della città. Per i bizantini questo significava che il papa, come persona, veniva considerato non ortodosso su un punto della dottrina, ma non metteva in discussione l’ortodossia di tutta la Chiesa occidentale, mentre l’offesa sembrava più generale e di maggior portata al papa e alle Chiese dell’Occidente, abituate a considerarlo la fonte della dottrina ortodossa. Il patriarca si rese conto allora che poteva ottenere qualche contropartita importante con un’offerta di ripristinare il nome2. Nel 1024 giunse a papa Giovanni XIX una proposta da Costantinopoli che i punti controversi fra le due Chiese venissero risolti con l’accettazione di una formula ingegnosamente redatta per garantire a Roma la supremazia nominale e lasciare a Costantinopoli la piena indipendenza effettiva; dichiarava che «con il consenso del pontefice romano la Chiesa di Costantinopoli fosse considerata universale nella sua sfera come quella di Roma lo era nel mondo». Giovanni era disposto ad accettare, ma l’abate cluniacense di San Benigno a Digione scrisse con grande fretta e severità per ricordargli che il potere di legare e di sciogliere in cielo e sulla terra apparteneva solamente all’ufficio di san Pietro e dei suoi successori, e per esortarlo a mostrare maggior vigore nel governo della chiesa universale. Bisanzio dovette imparare che il papato riformato non avrebbe tollerato un simile compromesso3. Alla metà del secolo le invasioni normanne nell’Italia meridionale resero desiderabile un’alleanza politica fra il papa e l’imperatore d’Oriente, ma ormai il papato riformato si era impegnato in una politica che tendeva a uniformare il culto e desiderava abolire usi correnti nelle chiese greche dell’Italia meridionale, copiati anche da molte chiese settentrionali come Milano. Nel 1043 un uomo orgoglioso e ambizioso, Michele Cerulario, era diventato patriarca di Costantinopoli ed era altrettanto impaziente di uniformare le usanze nei limiti della sua sfera. Il suo scopo iniziale era quello di assorbire più facilmente le chiese delle province armene recentemente occupate, dove vigevano consuetudini differenti, come per esempio l’uso del pane senza lievito. Ma la sua politica colpì anche le chiese latine nell’Italia bizantina e quelle che esistevano nella stessa Costantinopoli per i mercanti, pellegrini e soldati della Guardia varega: quando queste chiese rifiutarono di obbedire vennero chiuse per ordine del patriarca, la cui corte cominciò a mettere in circolazione degli opuscoli contro le usanze dei latini. A quanto pare, Cerulario non aveva molto interesse nella questione teologica ed era pronto a ripristinare il nome del papa nei dittici, se in cambio gli si riservava un trattamento simile a Roma. La disputa verteva sulle consuetudini e fu perciò sollevato il problema della frontiera ecclesiastica in

Italia, un problema reso più acuto dall’invasione dei normanni che appartenevano alla chiesa latina. Vennero intavolati dei negoziati dal governatore dell’Italia bizantina, il lombardo Argiro, suddito bizantino di rito latino, nel quale l’imperatore aveva piena fiducia; era inevitabile però che Cerulario fosse diffidente, ma le circostanze si volsero a suo vantaggio. Nel 1053, prima di aver designato i legati che dovevano andare da Roma a Costantinopoli, il papa Leone IX venne fatto prigioniero dai normanni. Quando i suoi legati, guidati dal cardinale Umberto di Silva Candida, giunsero a Costantinopoli nel gennaio del 1054 vennero accolti con tutti gli onori dall’imperatore, ma Cerulario dubitò che essi fossero stati veramente nominati dal papa e che questi, essendo prigioniero, potesse mantenere quello che essi promettevano. In aprile, prima che le trattative avessero progredito molto, Leone morì improvvisamente e i legati persero qualsiasi appoggio ufficiale su cui avrebbero potuto contare. Trascorse un anno prima che fosse eletto il nuovo papa e nessuno sapeva quale sarebbe stata la sua politica. Cerulario rifiutò di continuare i negoziati e, malgrado il desiderio dell’imperatore che si giungesse a un accordo, le passioni si inasprirono finché i legati se ne andarono furibondi lasciando sull’altare di Santa Sofia una bolla che scomunicava il patriarca e i suoi consiglieri, pur riconoscendo espressamente l’ortodossia della Chiesa bizantina. In risposta il patriarca tenne un sinodo che condannò la bolla come opera di tre irresponsabili, e deplorò l’aggiunta di filioque al Credo e la persecuzione dei preti sposati, ma non menzionò affatto la Chiesa romana nel suo insieme, né alcun’altra delle usanze in discussione. Di fatto non ci fu assolutamente nessun mutamento nella situazione, tranne che si erano creati dei rancori. Le chiese di Alessandria e di Gerusalemme non erano intervenute affatto nella questione e il patriarca di Antiochia, Pietro III, pensava decisamente che Cerulario si era dimostrato duro senza necessità. La Chiesa antiochena aveva continuato a ricordare il nome del papa nei suoi dittici e il patriarca non vedeva alcun motivo per cui questa pratica dovesse cessare; forse temeva che Cerulario, di cui sospettava le ambizioni, avesse dei piani contro l’indipendenza della sua sede, e probabilmente era favorevole alla politica dell’imperatore; inoltre non poteva appoggiare il progetto di uniformare i rituali e le consuetudini poiché la sua diocesi contava chiese dove era in uso una liturgia siriana e molte di esse si trovavano fuori dalle frontiere politiche dell’Impero, dove non avrebbe potuto imporre l’uniformità neppure se l’avesse desiderato. Perciò si mantenne estraneo alla contesa4. Nella decade seguente le relazioni migliorarono lievemente. Michele Cerulario venne deposto nel 1059 e poco dopo la sua scomparsa furono riaperte le chiese latine di Costantinopoli. Nell’Italia meridionale il crescente successo dei normanni, fedeli alleati del papato fin dal 1059, rese impossibile a Bisanzio di farvi valere i propri diritti ecclesiastici. Nel 1061 Ruggero il Normanno si lanciò alla conquista della Sicilia per toglierla agli arabi: una guerra santa incoraggiata dal papa; anche là Bisanzio dovette subire la perdita del controllo sulle comunità cristiane. Verso il 1073 l’imperatore Michele VII decise che era necessario giungere a un’intesa amichevole con Roma: dopo che i normanni ebbero conquistato Bari nel 1071 egli temeva altre aggressioni, che l’influenza del papa poteva forse impedire; in Asia Minore era iniziata l’invasione dei turcomanni e Michele aveva un disperato bisogno di soldati: il reclutamento in Occidente sarebbe stato più facile se il papato era ben disposto. Nel 1073 il cardinale Ildebrando, già noto per il suo vigore e la sua integrità, venne eletto papa con il nome di Gregorio VII. Egli era convinto della supremazia della sua sede, e perciò trascurò di inviare una Lettera Sistatica a ognuno dei patriarchi d’Oriente, ma Michele giudicò prudente compiere un gesto amichevole e inviò al nuovo papa una lettera di congratulazioni, accennando al suo desiderio di più stretti rapporti. Compiaciuto, Gregorio inviò Domenico, patriarca di Venezia, come legato a Costantinopoli perché riferisse sulla situazione5. Ricevute le informazioni da Domenico, Gregorio si convinse della sincerità di Michele e apprese

pure qual era la situazione in Asia Minore e quali gravi conseguenze avesse sul traffico dei pellegrini. La Palestina vera e propria non era ancora chiusa per i pellegrini, ma il viaggio attraverso l’Anatolia sarebbe stato ben presto impossibile se non si facevano cessare le invasioni turcomanne. In un accesso di immaginazione politica Gregorio ideò una nuova linea d’azione: la guerra santa, che era condotta con tanto successo in Spagna, doveva essere estesa all’Asia. I suoi amici di Bisanzio avevano bisogno di aiuti militari, egli avrebbe inviato loro un esercito di cavalieri cristiani agli ordini della Chiesa; e in questa occasione, poiché c’erano dei problemi ecclesiastici da risolvere, li avrebbe guidati il papa in persona. Le sue truppe avrebbero respinto gli infedeli dall’Asia Minore, ed egli avrebbe allora tenuto a Costantinopoli un concilio in cui i cristiani d’Oriente avrebbero risolto le loro contese in uno spirito di grata umiltà e avrebbero riconosciuto la supremazia di Roma6. Non possiamo dire se l’imperatore Michele fosse a conoscenza delle intenzioni del papa e se le avrebbe accolte con piacere, poiché Gregorio non si trovò mai in condizioni di realizzare il suo progetto. L’inflessibile rigore della sua politica gli suscitò sempre nuove difficoltà in Occidente ed egli dovette abbandonare le sue ambizioni verso l’Oriente, ma non le dimenticò mai né vi perse interesse. Nel 1078 Michele VII fu deposto e, a questa notizia, Gregorio scomunicò subito l’usurpatore Niceforo Boteniate. Poco tempo dopo fece la sua comparsa in Italia un avventuriero che dichiarava di essere l’imperatore deposto e per un certo tempo i normanni finsero di credergli, e Gregorio gli prestò il suo appoggio. Quando Niceforo venne a sua volta sostituito, nell’aprile del 1081, da Alessio Gomneno, la scomunica fu estesa al nuovo imperatore. In giugno Alessio scrisse al papa cercando di riguadagnarne il favore e di assicurarsi il suo aiuto per contenere l’aggressione di Roberto il Guiscardo, ma non ottenne alcuna risposta. L’imperatore trovò un più promettente alleato in Enrico IV di Germania. Frattanto egli chiuse le chiese latine di Costantinopoli; ai bizantini sembrava evidente che il papa era in lega con gli sleali ed empi normanni e si raccontavano l’un l’altro fantastiche storie sul suo orgoglio e sulla sua mancanza di carità; e quand’egli mori, preso nella rete di disastri ordita dalla sua politica, essi accolsero con gioia la notizia come un giudizio divino7. Le relazioni fra la cristianità orientale e quella occidentale non erano mai state cosi fredde come nel 1087, anno della morte di Gregorio. L’imperatore d’Oriente era stato scomunicato dal papa che stava apertamente incoraggiando avventurieri senza scrupoli ad attaccare i loro correligionari cristiani, mentre il principale nemico del papa, il re di Germania, riceveva pubblicamente sovvenzioni dai bizantini. Rancore e risentimento crescevano da ambedue le parti, ma per il momento non c’era un vero e proprio scisma, e degli abili statisti avrebbero ancora potuto salvare l’unità della cristianità. L’Oriente aveva nell’imperatore Alessio un uomo politico abbastanza duttile e saggio, e uno statista di uguale levatura stava per sorgere in Occidente. Oddone di Lagery era nato da nobile famiglia a Châtillon-sur-Marne verso il 1042 ed era stato educato alla scuola della cattedrale di Reims, dove ebbe come direttore san Brunone, più tardi fondatore dell’Ordine certosino. Egli rimase a Reims per diventare canonico, e poi arcidiacono della cattedrale, ma non ne era soddisfatto ed improvvisamente decise . di ritirarsi nella comunità di Cluny. Nel 1070 prese i voti sotto l’abate Ugo, che riconosceva le sue capacità. Dopo essere stato per un certo tempo priore venne trasferito a Roma e vi si distinse subito; nel 1078 Gregorio VII lo nominò cardinale-vescovo di Ostia, dal 1082 al 1085 fu legato in Francia e in Germania da dove tornò per restare con Gregorio durante gli ultimi infelici anni del suo pontificato. Alla morte di Gregorio, avvenuta in esilio, i cardinali fedeli elessero al suo posto, il debole e riluttante abate di

Monte Cassino, che prese il nome di Vittore III mentre a Roma regnava l’antipapa Guiberto. Il cardinale di Ostia disapprovò apertamente l’elezione, ma Vittore non gli serbò rancore e sul suo letto di morte, nel settembre del 1087, lo raccomandò ai cardinali come suo successore. Si sapeva che anche Gregorio VII aveva desiderato la sua successione, ma soltanto nel marzo del 1088 poté riunirsi un conclave a Terracina che lo elesse papa con il nome di Urbano II8. Urbano era molto adatto al suo compito: era un uomo d’aspetto solenne, con un bel volto ornato di barba, aveva modi cortesi ed era persuasivo nel parlare; se mancava dell’ardore e della sincerità di propositi di Gregorio VII, lo superava per ampiezza di vedute e per conoscenza degli uomini, inoltre non era cosi orgoglioso o ostinato come Gregorio; ma non era neppure un debole. In Germania era stato imprigionato da Enrico IV, a causa della sua fedeltà al papa e alle sue idee. Egli poteva essere severo e inflessibile, ma preferiva essere gentile ed evitare le controversie che potessero suscitare amarezza e discordia. Egli riceveva una difficile eredità: poteva abitare senza pericolo soltanto nel territorio dei normanni, ma questi erano alleati egoisti e infidi; Roma era nelle mani dell’antipapa Guiberto e Urbano poteva spingersi fin nei sobborghi ma non andare oltre senza spargimento di sangue; ed egli si rifiutava di provocarlo. Più a nord Matilde di Canossa lo appoggiava lealmente in tutti i suoi vasti possedimenti, e nel 1089 ella rafforzò la propria posizione mediante un cinico matrimonio con un principe tedesco, Guelfo di Baviera, un ragazzo che aveva meno della metà dei suoi anni; ma nel 1091 le sue truppe vennero sbaragliate da Enrico di Germania alla battaglia di Trisontai. Enrico era all’apice della sua potenza: incoronato imperatore dall’antipapa nel 1084, era ora signore della Germania e vincitore nell’Italia settentrionale. Un papa che era in una posizione cosi poco sicura non poteva sperare di imporre l’obbedienza molto lontano. Ma Urbano continuò ad agire con tenacia e con tatto finché nel 1093 tutta la situazione fu mutata. Facendo uso del denaro piuttosto che delle armi, egli poté trascorrere il Natale di quell’anno a Roma e la primavera seguente fissò la propria residenza al Laterano. L’imperatore Enrico era indebolito dalla rivolta di suo figlio Corrado, il cui malcontento Urbano aveva tacitamente incoraggiato. Con le sue capacità organizzative il papa riuscì a porre l’intera struttura ecclesiastica della Francia, suo paese natale, sotto il proprio controllo; in Spagna la sua influenza era grandissima e poco per volta i più lontani paesi dell’Occidente ne riconobbero l’autorità spirituale. Egli tralasciò di avanzare delle pretese di sovranità politica, come aveva fatto Gregorio VII, e con tutti i principi laici, ad eccezione dei suoi nemici dichiarati, mostrò una tolleranza spinta fino ai limiti estremi. Già nel 1095 egli era l’indiscusso capo spirituale della cristianità d’Occidente9. Nel frattempo aveva rivolto la sua attenzione anche ai cristiani di Oriente. Alla morte di Roberto il Guiscardo, suo fratello Ruggero di Sicilia si era affermato come il principale capo normanno e non aveva ormai nessun desiderio di offendere Bisanzio. Con il favore di questi Urbano intavolò delle trattative con la corte bizantina e al concilio di Melfi, nel settembre del 1089, alla presenza degli ambasciatori dell’imperatore, tolse ad Alessio la scomunica. Alessio rispose a questo gesto tenendo nello stesso mese un sinodo a Costantinopoli, in cui venne dichiarato che il nome del papa era stato omesso dai dittici «non per decisioni canoniche ma, per cosi dire, per negligenza» e fu proposto che venisse ripristinato non appena ricevuta una Lettera Sistatica dal papa. Il sinodo considerò che non c’era un vero motivo per una controversia tra le chiese e raccomandò che si consultassero i patriarchi di Alessandria e di Gerusalemme; quello di Antiochia era personalmente presente. Il patriarca Nicola III di Costantinopoli scrisse a Urbano per informarlo di queste decisioni e per chiedergli di inviare la sua Lettera Sistatica entro diciotto mesi e gli assicurò che le chiese latine di Bisanzio erano libere di seguire le loro usanze; non venne fatta alcuna menzione di contestazioni

teologiche. Ciò non piacque agli ambasciatori dell’imperatore in Italia, Basilio, metropolita di Trani, e Romano, arcivescovo di Rossano, due ecclesiastici greci allarmati per le usurpazioni papali nel loro territorio e scandalizzati quando il papa affermò, con qualche giustificazione storica, che la sua diocesi avrebbe dovuto includere anche Tessalonica; essi avrebbero preferito che Alessio sostenesse l’antipapa. Ma Alessio aveva deciso qual era l’uomo migliore ed era abbastanza realista da accettare la perdita dell’Italia bizantina; da parte sua Guiberto offese ben presto i suoi amici greci tenendo a Roma un concilio che condannò il matrimonio del clero10. In realtà Urbano non inviò mai una Lettera Sistatica, probabilmente perché non desiderava provocare discussioni teologiche, e il suo nome non fu mai inserito nei dittici di Costantinopoli, ma vennero ristabiliti buoni rapporti. Un’ambasceria di Alessio visitò Urbano nel 1090, recandogli un messaggio di cordiale amicizia. Il punto di vista ufficiale bizantino venne esposto in un trattato scritto da Teofilatto, arcivescovo di Bulgaria: egli pregava i suoi lettori di non esagerare l’importanza dell’uniformità nelle usanze, deprecava l’aggiunta della parola filioque al Credo, ma spiegava che la povertà della lingua latina in termini teologici poteva causare dei malintesi, e non prendeva sul serio la pretesa papale di esercitare autorità sulle Chiese orientali11. Non c’era veramente nessun motivo per cui dovesse mai svilupparsi uno scisma. Altri teologi orientali continuarono a discutere sulle differenze di usi, ma il tono delle loro polemiche era conciliante. Fra questi scrittori vi fu anche il patriarca di Gerusalemme, Simeone II, che condannò l’uso latino del pane senza lievito nella Comunione, ma con espressioni per nulla acrimoniose12. Al principio del 1095 papa Urbano II parti da Roma diretto verso nord e invitò i rappresentanti di tutta la Chiesa occidentale a raggiungerlo al primo grande concilio del suo pontificato, da tenersi a Piacenza in marzo. Quivi il clero riunito approvò decreti contro la simonia, il matrimonio degli ecclesiastici e contro lo scisma nella Chiesa. Venne discusso anche l’adulterio del re Filippo di Francia, ma fu deciso di non prendere provvedimenti finché Urbano in persona non potesse andare in Francia. Giunsero messaggeri da parte del figlio dell’imperatore Enrico, Corrado, per prendere accordi in merito al suo incontro con il papa a Cremona. La consorte di Enrico, Prassede di Russia, della casa scandinava regnante a Kiev, venne personalmente per riferire sul trattamento indegno che doveva subire da parte del marito. Il concilio funse da suprema corte della cristianità occidentale, con il papa che presiedeva come giudice. Fra gli osservatori al concilio vi erano gli inviati dell’imperatore Alessio. Le sue guerre contro i turchi proseguivano bene, la potenza selgiuchida era in evidente declino e poche tempestive campagne avrebbero potuto liquidarla per sempre. Ma il suo impero era ancora a corto di soldati, poiché le zone dell’Anatolia dove venivano prima reclutati erano disorganizzate e in gran parte perdute; egli dipendeva largamente da mercenari stranieri, da reggimenti formati di peceneghi e altre tribù delle steppe, che venivano adoperati soprattutto per servizio di confine e come polizia militare, dalla Guardia varega composta ancora in gran parte da anglosassoni esuli dall’Inghilterra normanna, e da compagnie di avventurieri occidentali che prestavano servizio nel suo esercito per un certo tempo. Fra questi, il più importante era stato il conte Roberto I di Fiandra che aveva combattuto per lui nell’anno 1090. Ma nemmeno aggiungendovi le truppe indigene che riusciva ancora a reclutare poteva soddisfare le proprie necessità: doveva infatti proteggere la lunga frontiera del Danubio dagli attacchi dei barbari nordici, a nord-ovest i serbi erano recalcitranti, e i suoi sudditi bulgari rimanevano raramente tranquilli a lungo; c’era sempre il pericolo di un’aggressione normanna dall’Italia; la difesa dei confini mal definiti e dei suoi avamposti in Asia Minore e il mantenimento dell’ordine e delle comunicazioni in genere esauriva completamente le sue rimanenti risorse. Se egli

doveva passare all’offensiva gli occorrevano più soldati: e la sua politica verso il papato avrebbe dato dei frutti se egli avesse potuto servirsi dell’influenza del papa per trovare questi soldati. Urbano si mostrò favorevole: faceva parte del programma papale indurre i litigiosi cavalieri occidentali ad adoperare le loro armi in una causa lontana e santa. Gli ambasciatori bizantini vennero perciò invitati a rivolgere la parola all’assemblea. I loro discorsi non ci sono stati tramandati, ma sembra che, per convincere i loro uditori che era cosa meritoria servire agli ordini dell’imperatore, essi sottolinearono con particolare enfasi le sofferenze che i cristiani d’Oriente dovevano sopportare finché gli infedeli non fossero stati ricacciati. Se il reclutamento doveva essere incoraggiato dalla Chiesa, non era sufficiente l’allettamento di ima buona paga: l’appello al dovere cristiano forniva un argomento più valido. Non era il momento di fare un’esatta valutazione dei successi e delle intenzioni dei bizantini, occorreva che i vescovi tornassero alle loro sedi credendo che la sicurezza della cristianità fosse tuttora in pericolo, cosi che sarebbero stati impazienti di inviare le loro pecorelle verso Oriente a combattere nell’esercito cristiano. I vescovi furono impressionati, e anche il papa. Mentre si recava a Cremona, per ricevervi l’omaggio del giovane Corrado, e poi, attraverso i passi alpini, in Francia, Urbano cominciò a pensare a un progetto più grande e più glorioso, considerando la possibilità di una guerra santa13.

Capitolo terzo Il bando

Ascoltatemi, o gente dal cuore ostinato, che siete lontani dalla giustizia! Isaia, XLVI, 12

Papa Urbano arrivò in Francia nella tarda estate del 1095: il 5 agosto si trovava a Valenza e l’ 11 raggiunse Le Puy, da dove inviò delle lettere ai vescovi della Francia e delle terre vicine per invitarli a incontrarlo a Clermont in novembre. Frattanto si diresse a sud per trascorrere il mese di settembre in Provenza, ad Avignone e a Saint-Gilles; ai primi di ottobre si trovava a Lione da dove proseguì per la Borgogna. Il 25 ottobre consacrò a Cluny l’altar maggiore della grande basilica che l’abate Ugo aveva cominciato a costruire. Da Cluny andò a Souvigny, nei pressi di Moulins, per rendere omaggio alla tomba del più santo degli abati cluniacensi, san Maiolo. Quivi il vescovo di Clermont lo raggiunse per scortarlo alla sua città episcopale, pronta per il concilio1. Mentre viaggiava Urbano si era occupato degli affari della Chiesa di Francia, organizzando e correggendo, elogiando e biasimando quando era necessario. Ma i suoi viaggi gli permisero anche di perfezionare il suo più vasto progetto. Non sappiamo se mentre si trovava nel sud si sia personalmente incontrato con Raimondo di Saint-Gilles, conte di Tolosa e marchese di Provenza, già celebre per aver guidato le guerre sante in Spagna, ma ebbe dei rapporti con lui e doveva aver sentito parlare delle sue imprese. A Cluny poté conversare con uomini interessati al movimento dei pellegrini sia verso Santiago sia verso Gerusalemme ed essi poterono informarlo delle insormontabili difficoltà che i pellegrini diretti in Palestina dovevano affrontare in quel momento a causa della disgregazione dell’autorità turca. Egli apprese che non soltanto le strade attraverso l’Asia Minore erano bloccate, ma che la Terra Santa vera e propria era praticamente chiusa per i pellegrini. Il concilio di Clermont durò dal 18 al 28 novembre 1095. Erano presenti circa trecento ecclesiastici e i loro lavori coprirono un campo molto vasto. In generale, furono ripetuti i decreti contro l’investitura laica, la simonia e il matrimonio del clero, e fu sostenuta la tesi della Tregua di Dio. In particolare, vennero scomunicati re Filippo per adulterio e il vescovo di Cambrai per simonia, e fu stabilita la supremazia della sede di Lione su quelle di Sens e di Reims2. Ma il papa desiderava approfittare dell’occasione per uno scopo di maggiore importanza, per cui venne dichiarato che il martedì 27 novembre egli avrebbe tenuto una seduta pubblica per fare un grande annunzio. Le folle di ecclesiastici e di laici che si radunarono erano troppo numerose per essere contenute nella cattedrale, dove il concilio si era riunito fino a quel momento: il trono papale fu posto su una piattaforma in un campo aperto fuori della porta orientale della città e li, quando le moltitudini si furono raccolte, Urbano si alzò per rivolger loro la parola. Quattro cronisti contemporanei ci hanno tramandato le parole del papa. Due di loro, Roberto il Monaco e Baudri di Dol, asseriscono di essere stati presenti alla riunione; un terzo, Fulcherio di Chartres, scrive come se fosse stato presente, mentre il quarto, Guiberto di Nogent, ottenne

probabilmente la sua versione di seconda mano. Nessuno di loro pretende però di dare un accurato resoconto verbale e ciascuno scrisse la sua cronaca alcuni anni più tardi e colorò la propria relazione alla luce degli avvenimenti posteriori. Noi possiamo sapere soltanto approssimativamente che cosa Urbano disse in realtà. Sembra che abbia cominciato il discorso descrivendo ai suoi ascoltatori la necessità di aiutare i loro fratelli d’Oriente: la cristianità orientale aveva invocato aiuto perché i turchi stavano avanzando nel cuore delle terre cristiane, maltrattando gli abitanti e profanandone i santuari. Però egli non parlò soltanto della Romania, cioè di Bisanzio, ma mise anche in rilievo il particolare carattere sacro di Gerusalemme e descrisse le sofferenze dei pellegrini che vi si recavano. Terminato il fosco quadro, lanciò il suo grande appello: la cristianità occidentale si metta in marcia per soccorrere l’Oriente; ricchi e poveri dovrebbero ugualmente partire, dovrebbero smetterla di trucidarsi a vicenda e combattere invece una guerra giusta, compiendo l’opera di Dio; e Dio li avrebbe guidati. Chi fosse morto in battaglia avrebbe ricevuto l’assoluzione e la remissione dei peccati. Qui la vita era miserabile e malvagia, con uomini che si logoravano fino a rovinare i propri corpi e le proprie anime; qui essi erano poveri e infelici, là sarebbero stati felici e ricchi e veri amici di Dio. Non doveva esservi indugio: si preparassero a partire quando fosse giunta Testate, con Dio per loro guida3. Urbano parlò con fervore e con tutta l’arte di un grande oratore e la risposta fu immediata e straordinaria. Grida di «Deus le volt» - «Dio lo vuole» - interruppero il discorso. Il papa aveva a malapena finito di parlare quando il vescovo di Le Puy si alzò dal suo seggio e, inginocchiatosi davanti al trono, chiese che gli fosse permesso di unirsi alla santa spedizione; a centinaia si accalcarono per seguire il suo esempio. Poi il cardinale Gregorio cadde in ginocchio e ripete ad alta voce il Confiteor e tutto l’immenso uditorio gli fece eco. Terminata la preghiera, Urbano si alzò ancora una volta, pronunciò l’assoluzione e invitò i suoi ascoltatori a tornarsene a casa4. L’entusiasmo era stato maggiore di quanto Urbano si fosse aspettato; i suoi piani per la condotta della spedizione non erano ancora del tutto completi. Nessun gran signore laico era stato presente a Clermont e le reclute erano tutte di umile condizione, per cui sarebbe stato necessario assicurarsi un più solido appoggio secolare. Nel frattempo Urbano radunò di nuovo i suoi vescovi per ulteriori consultazioni. È probabile che il concilio avesse già approvato, dietro sua richiesta, un decreto generale che concedeva la remissione dalle pene temporali per i peccati di tutti coloro che avrebbero partecipato alla guerra santa con pie intenzioni. In quel momento venne aggiunto che i beni terreni dei partecipanti sarebbero posti sotto la protezione della Chiesa durante la loro assenza per cause di guerra: il vescovo locale sarebbe stato responsabile per la loro custodia e li avrebbe restituiti intatti al ritorno in patria del guerriero. Ogni membro della spedizione doveva portare il segno della Croce come simbolo della sua consacrazione; una croce di stoffa rossa sarebbe stata cucita sulla spalla della sua sopravveste. Chiunque prendesse la croce doveva far voto di andare a Gerusalemme, e se tornava indietro troppo presto o non partiva affatto sarebbe stato scomunicato. Ecclesiastici e monaci non dovevano prendere la croce senza il permesso del loro vescovo o abate, i vecchi e i malati sarebbero stati dissuasi dall’intraprendere la spedizione e nessuno era autorizzato a partire senza aver consultato il suo direttore spirituale. Non doveva essere una guerra di pura conquista; in ogni città tolta agli infedeli dovevano essere restituiti alle Chiese d’Oriente tutti i loro diritti e tutti i loro beni. Ciascuno doveva essere pronto a lasciare la sua casa per la festa dell’Assunzione (15 agosto) dell’anno successivo, dopo che le messi fossero state raccolte; gli eserciti si sarebbero riuniti a Costantinopoli5. Bisognava, poi, nominare un comandante. Urbano desiderava mettere bene in chiaro che la spedizione era sotto il controllo della Chiesa e perciò il capo doveva essere un ecclesiastico, suo

legato. Con il consenso unanime del concilio egli designò il vescovo di Le Puy. Ademaro di Monteil, vescovo di Le Puy, apparteneva alla famiglia dei conti di Valentinois, era un uomo di mezza età e si era già recato in pellegrinaggio a Gerusalemme nove anni prima. Egli si era meritato il comando essendosi fatto avanti per primo in risposta all’appello di Urbano ma, siccome egli aveva già ospitato il papa a Le Puy in agosto e in quell’occasione doveva avergli parlato delle questioni orientali, è possibile che il suo gesto entusiasta non fosse del tutto spontaneo. Fu una nomina saggia: l’esperienza successiva provò che egli era un buon predicatore e un diplomatico pieno di tatto, di larghe vedute, calmo e gentile, un uomo che sarebbe stato rispettato da tutti, ma che cercava di persuadere piuttosto che di comandare. Usò costantemente la sua influenza per frenare le passioni e diffondere buoni sentimenti, ma non fu sempre abbastanza forte da dominare i signori che in teoria dovevano essere ai suoi ordini6. Il primo dei grandi signori che chiese di partecipare alla spedizione fu il conte Raimondo di Tolosa. Il 1° dicembre, mentre Urbano si trovava ancora a Clermont, giunsero dei messaggeri per annunziare che il conte e molti dei suoi nobili erano ansiosi di farsi crociati. È impossibile che Raimondo, che era a Tolosa, avesse ricevuto notizie del grande discorso di Clermont, per cui deve esserne stato informato in precedenza. Poiché era il primo a essere a conoscenza del progetto e il primo a fare il voto, egli pensava che il comando secolare sugli altri grandi signori doveva essere affidato a lui, desiderava cioè essere il Mosè dell’Aronne Ademaro. Urbano non volle accettare questa pretesa, ma Raimondo non l’abbandonò mai del tutto, anche se nel frattempo decise di collaborare lealmente con Ademaro7. Urbano lasciò Clermont il 2 dicembre. Dopo aver visitato varie case cluniacensi trascorse il Natale a Limoges, dove predicò la crociata nella cattedrale, poi si diresse a nord, attraverso Poitiers, verso la valle della Loira. In marzo era a Tours dove tenne un concilio; una domenica convocò un’assemblea in un prato vicino alle sponde del fiume e, ritto su una piattaforma improvvisata, predicò un lungo e solenne sermone esortando i suoi ascoltatori a pentirsi e ad aderire alla crociata. Da Tours si volse di nuovo verso sud, attraverso l’Aquitania, oltrepassò Saintes e Bordeaux e giunse a Tolosa, che fu il suo quartier generale in maggio e giugno; ebbe perciò molte occasioni di discutere della crociata con il suo ospite, il conte Raimondo. Alla fine di giugno passò in Provenza e Raimondo l’accompagnò fino a Nìmes. In agosto il papa riattraversò le Alpi diretto in Lombardia. Il suo viaggio non era stato una vacanza: per tutto il tempo si era incontrato con uomini di chiesa e aveva scritto lettere, cercando di completare la riorganizzazione della Chiesa di Francia e, soprattutto, perfezionando i piani per la crociata. Lettere sinodali contenenti le decisioni prese a Clermont vennero inviate ai vescovi dell’Occidente; in alcuni casi si tennero concili provinciali per riceverle e discutere l’azione da svolgere localmente. È probabile che anche le principali autorità laiche venissero ufficialmente informate dei desideri del papa8. Alla fine del 1095 Urbano scrisse da Limoges a tutti i fedeli delle Fiandre riferendosi agli atti del concilio di Clermont e chiedendo il loro appoggio9 ed ebbe validi motivi per essere soddisfatto della risposta che giunse dalle Fiandre e dalle regioni vicine. Nel luglio del 1096, mentre si trovava a Nimes, ricevette un messaggio del re Filippo che gli annunziava la sua totale sottomissione nella questione del suo adulterio e probabilmente lo informava al medesimo tempo dell’adesione alla crociata di suo fratello Ugo di Vermandois 10. Durante quello stesso mese Raimondo di Tolosa diede prova della serietà delle sue intenzioni consegnando molti dei suoi possedimenti al monastero di Saint-Gilles11. Forse per consiglio di Raimondo Urbano decise che sarebbe stato necessario l’aiuto di una potenza marinara per poter rifornire la spedizione. Due

legati partirono muniti di lettere indirizzate alla repubblica di Genova per richiederne la collaborazione; Genova acconsentì a fornire dodici galee e una nave da trasporto, ma prudentemente ne rimandò la consegna fino a quando potesse rendersi conto se la crociata era un movimento serio; questa flotta salpò da Genova soltanto nel luglio del 1097, ma nel frattempo molti genovesi si erano fatti crociati12. Quando tornò in Italia Urbano era ormai sicuro del successo del suo progetto: ai suoi appelli si obbediva con ardore e perfino in luoghi lontani come la Scozia, la Danimarca e la Spagna gli uomini si affrettavano a fare il voto. Alcuni si procuravano il denaro per il viaggio dando in pegno i propri beni e terre; altri, pensando di non tornare mai più, lasciavano ogni cosa alla Chiesa. I grandi nobili avevano aderito alla crociata in numero sufficiente da darle un formidabile appoggio militare: oltre a Raimondo di Tolosa e Ugo di Vermandois, stavano facendo i preparativi per la partenza Roberto II di Fiandra, Roberto, duca di Normandia, e suo cognato Stefano, conte di Blois. Più straordinaria era l’adesione di uomini devoti all’imperatore Enrico IV; fra questi il più importante era Goffredo di Buglione, duca della Bassa Lorena, che prese la croce insieme con i suoi fratelli Eustachio, conte di Boulogne, e Baldovino. Radunati intorno a questi capi c’erano molti appartenenti alla piccola nobiltà e alcuni eminenti ecclesiastici come il vescovo di Bayeux13. In Italia Urbano trovò un entusiasmo non minore. Nel settembre del 1096 scrisse alla città di Bologna per ringraziare i cittadini del loro zelo e per ammonirli a non partire per l’Oriente senza il permesso dei loro sacerdoti. Inoltre i giovani sposatisi di recente non dovevano partire senza il consenso delle mogli. Frattanto notizie del progetto papale erano giunte nell’Italia meridionale, accolte calorosamente da molti normanni che erano sempre pronti a partire per una nuova avventura. Dapprima i principi si tirarono indietro, ma il figlio del Guiscardo, Boemondo, in quel momento principe di Taranto, ostacolato nelle sue ambizioni in Italia da suo fratello Ruggero Borsa e da suo zio Ruggero di Sicilia, si rese conto ben presto delle possibilità che la crociata gli avrebbe offerto e si fece crociato insieme con molti suoi parenti e amici. La loro partecipazione recò al movimento molti dei più esperti e intraprendenti soldati d’Europa. Quando Urbano tornò a Roma in tempo per celebrarvi il Natale del 1096 poté sentirsi sicuro che la crociata era veramente lanciata14. Egli aveva in realtà iniziato un movimento più grande di quanto immaginasse. Sarebbe stato meglio se un minor numero di grandi signori avesse risposto al suo appello poiché, anche se per tutti, ad eccezione di Boemondo, il sincero fervore religioso era il motivo dominante, ben presto i loro progetti e le loro rivalità terrestri avrebbero creato dei disordini molto superiori alle possibilità di controllo del legato papale. Ancora più irrefrenabile fu la risposta della gente più umile in tutta la Francia, le Fiandre e la Renania. Il papa aveva chiesto ai vescovi di predicare la crociata, ma la predicazione più efficace fu fatta da uomini umili, da evangelici come Roberto di Arbrissel, fondatore dell’Ordine di Fontevrault, e ancor più da un monaco itinerante di nome Pietro. Questi era un uomo piuttosto anziano, nato nei dintorni di Amiens, che aveva probabilmente tentato alcuni anni prima di recarsi in pellegrinaggio a Gerusalemme, ma era stato maltrattato dai turchi e costretto a tornare indietro. I suoi contemporanei lo conoscevano come Piccolo Pietro - chtou o kiokio nel dialetto picardo - ma il mantello da eremita che egli indossava abitualmente gli guadagnò più tardi il soprannome di «l’Eremita», con il quale è meglio conosciuto nella storia. Era un uomo di bassa statura, di carnagione scura, con una faccia lunga e magra, terribilmente simile all’asino che cavalcava sempre ed era venerato quasi quanto lui. Andava a piedi nudi e i suoi vestiti erano sporchi, non mangiava né pane né carne, ma pesce e beveva vino, e malgrado il suo umile aspetto aveva il potere di commuovere gli uomini e da lui emanava una

strana autorità. «Qualsiasi cosa dicesse o facesse, - narra Guiberto di Nogent che lo conosceva personalmente, -sembrava qualcosa di semidivino»15. Probabilmente Pietro non aveva assistito al concilio di Clermont, ma prima che l’anno 1095 fosse finito stava già predicando la crociata: cominciò il suo giro nel Berry, poi durante febbraio e marzo passò attraverso l’Orleanese e la Champagne, in Lorena e di là proseguì oltre le città della Mosa e Aquisgrana verso Colonia, dove trascorse la Pasqua. Raccolse dei discepoli e li inviò nelle province che non poteva visitare di persona. Fra questi c’erano i francesi Gualtiero Sans-Avoir, Rinaldo di Breis, Goffredo Burel e Gualtiero di Breteuil e i tedeschi Orel e Gottschalk. Ovunque lui o i suoi discepoli andarono, uomini e donne abbandonarono le loro case per seguirlo e quando giunse a Colonia si calcolò che il suo seguito ammontava a circa quindicimila persone, e molte altre si unirono a lui in Germania16. Lo straordinario successo della sua predicazione era dovuto a molti fattori. La vita di un contadino dell’Europa nord-occidentale era misera e incerta: molte terre coltivate erano state abbandonate durante le invasioni barbariche e le scorrerie degli scandinavi, le dighe erano state rotte e il mare e i fiumi avevano invaso i campi; i signori spesso si opponevano a che si trasformassero in terreni agricoli le foreste in cui essi cacciavano per passatempo; un villaggio non protetto dal castello di un signore era esposto ai saccheggi o agli incendi dei fuorilegge o dei soldati che combattevano piccole guerre civili. La Chiesa cercava di proteggere i contadini poveri e di fondare dei borghi nelle zone deserte, ma il suo aiuto era saltuario e spesso inefficace. Signori più importanti potevano incoraggiare lo sviluppo di città, ma i nobili minori vi si opponevano. L’organizzazione tradizionale della proprietà terriera stava sfasciandosi, ma nessun altro regolato sistema ne prendeva il posto e, sebbene l’effettivo servaggio fosse sparito, gli uomini erano legati alla terra da obblighi a cui non potevano facilmente sottrarsi. Nel frattempo la popolazione era in aumento e le proprietà di un villaggio non potevano essere suddivise oltre un certo limite. «In questo paese, - disse Urbano a Clermont, secondo Roberto il Monaco, - voi potete a malapena nutrire gli abitanti e questo è il motivo per cui esaurite completamente le riserve e promuovete delle guerre interminabili fra di voi». Gli ultimi anni erano stati particolarmente difficili: le inondazioni e la pestilenza del 1094 erano state seguite nel 1095 dalla siccità e da una carestia; era un momento in cui l’emigrazione offriva molte attrattive e già nell’aprile del 1095 una pioggia di meteoriti aveva presagito un grande movimento di popoli17. L’insegnamento apocalittico si aggiungeva agli allettamenti di carattere economico. Era un tempo di visioni e Pietro era considerato un visionario. L’uomo medievale era convinto dell’imminenza della seconda venuta di Cristo: doveva pentirsi finché era ancora in tempo e mettersi a fare il bene. La Chiesa predicava che i peccati potevano essere espiati con un pellegrinaggio e le profezie affermavano che la Terra Santa doveva essere restituita alla fede prima che Cristo potesse tornare di nuovo. Inoltre per le menti ignoranti non era molto chiara la distinzione fra Gerusalemme e la Nuova Gerusalemme e molti degli ascoltatori di Pietro credevano che egli promettesse loro di condurli fuori dalla loro presente miseria nel paese dove scorre il latte e il miele, di cui parlano le Scritture. Il viaggio sarebbe stato difficile perché c’erano ancora le legioni dell’anticristo da vincere, ma la meta era la Gerusalemme tutta d’oro18. Non si sa cosa papa Urbano pensasse di Pietro e del successo della sua predicazione. La sua lettera ai bolognesi fa pensare che egli si sentisse un po’ inquieto al pensiero di un entusiasmo incontrollabile, ma non impedì, e forse non poté impedire, che si diffondesse in Italia. Per tutta l’estate del 1096 un flusso occasionale ma costante di pellegrini senza guida e senza una forma qualsiasi di organizzazione cominciò a dirigersi verso Oriente. Senza dubbio il papa sperava che

questi e i seguaci di Pietro avrebbero raggiunto incolumi Costantinopoli e che là avrebbero aspettato l’arrivo del suo legato e dei capi militari che li avrebbero incorporati nei ranghi ordinati del grande esercito cristiano. L’insistenza di Urbano perché la spedizione si raccogliesse a Costantinopoli mostra quanto egli fosse fiducioso che l’imperatore Alessio l’avrebbe accolta con piacere. Bisanzio aveva chiesto dei soldati all’Occidente e alla chiamata rispondevano non già pochi singoli mercenari, bensì interi potenti eserciti. La sua fiducia era ingenua: nessun sovrano è contrario a stringere delle alleanze, ma quando questi alleati inviano eserciti numerosi, su cui egli non ha alcuna autorità, a invadere il suo territorio e si aspettano invece di essere nutriti, alloggiati e forniti di ogni comodità, allora si domanda se ne vale la pena. Quando la notizia del movimento crociato giunse a Costantinopoli suscitò un senso di inquietudine e di allarme. Nel 1096 l’Impero bizantino aveva goduto per alcuni mesi di un raro periodo di pace. L’imperatore aveva di recente respinto in modo così decisivo un’invasione poloviciana nei Balcani che per il momento nessuna delle tribù barbare delle steppe avrebbe tentato di attraversare la frontiera. Nell’Asia Minore, grazie alle guerre civili incoraggiate dalla diplomazia bizantina, l’Impero selgiuchida stava cominciando a disintegrarsi ed Alessio sperava di prender presto l’offensiva contro di esso, ma desiderava scegliere il momento più opportuno e aveva ancora bisogno di un periodo di respiro per restaurare le sue risorse stremate. Il problema della mancanza di uomini lo preoccupava; desiderava mercenari occidentali e senza dubbio sperava che i suoi ambasciatori in Italia riuscissero a reclutarne. Ora veniva informato che invece di singoli cavalieri o di piccoli gruppi che certo si sarebbero uniti alle sue truppe, stavano per mettersi in marcia interi eserciti franchi, e non ne fu affatto contento, poiché sapeva per esperienza che i franchi erano gente instabile, avida di denaro e niente scrupolosa di tener fede agli accordi. Essi erano formidabili nell’attacco ma, date le circostanze, questo era un vantaggio dubbio. Non senza una certa apprensione la corte imperiale apprese, secondo le parole della principessa Anna Comnena, che «tutto l’Occidente e tutte le tribù barbare che si trovavano oltre l’Adriatico e fino alle colonne d’Ercole stavano muovendo tutti insieme attraverso l’Europa verso l’Asia, portando con sé intere famiglie». Non soltanto l’imperatore, ma anche i suoi sudditi erano inquieti. Come un presagio ammonitore, grandi sciami di cavallette passarono sull’Impero lasciando intatto il grano, ma divorando le viti. Ispirati, forse, da qualche suggerimento delle autorità preoccupate di evitare che si diffondesse lo scoraggiamento, indovini popolari interpretarono questo fatto nel senso che i franchi non avrebbero recato danno ai buoni cristiani, il cui simbolo era il grano, la fonte del pane di vita, ma avrebbero annientato i saraceni, un popolo la cui sensualità poteva ben essere simboleggiata dalla vite. La principessa Anna era un po’ scettica nei riguardi di questa interpretazione, ma la somiglianza tra i franchi e le locuste era certamente evidente19. L’imperatore Alessio si accinse con calma a fare i suoi preparativi. Gli eserciti franchi avrebbero dovuto essere riforniti durante il loro viaggio attraverso l’Impero e bisognava prendere delle misure precauzionali per impedir loro di devastare le campagne e derubare gli abitanti. Riserve di provviste vennero accumulate in ogni grande centro per cui dovevano passare e truppe di polizia furono distaccate per andare incontro a ogni gruppo al momento del suo ingresso nei confini dell’Impero e accompagnarlo a Costantinopoli. C’erano due grandi strade tracciate attraverso la penisola balcanica, quella settentrionale che passava la frontiera a Belgrado e si dirigeva poi verso sud-est per Niš, Sofia, Filippopoli e Adrianopoli, e la via Egnatia che da Durazzo attraverso Ocrida ed Edessa (Vodena) portava a Tessalonica e poi per Mosynopolis e Selymbria fino alla capitale. Dopo il grande pellegrinaggio tedesco del 1064 la prima strada era stata usata raramente da

viaggiatori provenienti dall’Occidente. Il numero complessivo dei pellegrini era diminuito e quelli che avevano tentato il viaggio avevano preferito l’altra strada. Inoltre, Alessio ricevette informazioni sulla crociata dall’Italia, perciò immaginò che gli eserciti franchi avrebbero attraversato l’Adriatico e percorso la via Egnatia. Rifornimenti vennero inviati a Durazzo e alle città lungo la strada e il governatore di Durazzo, Giovanni Comneno, nipote dell’imperatore, ricevette istruzioni di accogliere cordialmente i capi franchi, ma di badare che essi e i loro eserciti fossero per tutto il tempo sotto la sorveglianza della polizia militare. Inviati di alto rango sarebbero giunti da Costantinopoli per dare il benvenuto ai capi, di volta in volta, al momento del loro sbarco; nel frattempo l’ammiraglio Nicola Mavrocatacalon condusse una flottiglia nelle acque dell’Adriatico per sorvegliare le coste e avvisare quando si avvicinavano dei trasporti franchi. L’imperatore restò a Costantinopoli in attesa di altre notizie. Sapendo che il papa aveva fissato il 15 agosto come data di partenza della spedizione non affrettò i preparativi, quando all’improvviso, alla fine di maggio del 1096, un messaggero giunse in tutta fretta dal nord per annunciare che il primo esercito franco era sceso attraverso l’Ungheria ed era entrato nel territorio imperiale a Belgrado.

Parte terza In cammino verso la guerra

Capitolo primo La crociata popolare

... L’Eterno non era capace di introdurli nella terra che aveva loro promessa... Deuteronomio, IX, 28

Pietro l’Eremita giunse con i suoi seguaci a Colonia il Sabato Santo, 12 aprile 10961. Qui egli cominciò a rendersi conto delle difficoltà che è costretto ad affrontare il capo di una spedizione popolare. La grande, eterogenea folla di entusiasti da lui raccolta comprendeva uomini di molte regioni e di molti tipi: alcuni portavano con sé le mogli, altri persino i bambini; per la maggior parte erano contadini, ma vi erano fra di loro anche cittadini, cadetti di famiglie della classe dei cavalieri, ex briganti e criminali. Il loro unico legame era il fervore della fede; tutti quanti avevano abbandonato ogni cosa per seguire Pietro ed erano impazienti di continuare per la loro strada. Era inoltre essenziale farli proseguire, se si voleva dar loro da mangiare, poiché poche regioni dell’Europa medievale avevano un’eccedenza di viveri sufficiente a soddisfare le necessità di tanta gente. Ma Colonia era situata in una zona rurale ricca e con buone comunicazioni fluviali e Pietro desiderava approfittare di queste condizioni favorevoli per fermarsi un certo tempo e predicare ai tedeschi. Egli sperava probabilmente di attirare alla sua crociata qualche membro della nobiltà locale; in Francia e nelle Fiandre i cavalieri preferivano unirsi alla compagnia di qualche grande signore, ma nessun grande signore tedesco partiva per la guerra santa. La sua predicazione ebbe successo: fra i molti tedeschi che risposero alla sua chiamata, parecchi appartenevano alla piccola nobiltà, guidati dal conte Ugo di Tubinga, dal conte Enrico di Schwarzenberg, da Gualtiero di Teck e dai tre figli del conte di Zimmern2. Ma i francesi erano impazienti: Gualtiero Sans-Avoir decise di non aspettare a Colonia, e con alcune migliaia di compatrioti lasciò la città subito dopo le feste pasquali, probabilmente il martedì di Pasqua, mettendosi in marcia diretto in Ungheria; risaliti il Reno e il Neckar, scese lungo il Danubio e raggiunse la frontiera ungherese l’8 maggio. Mandò allora a chiedere a re Coloman il permesso di attraversare il regno e assistenza per ottenere rifornimenti per i suoi uomini. Coloman si mostrò animato da sentimenti amichevoli e l’esercito attraversò l’Ungheria senza incidenti. Verso la fine del mese arrivò a Zemun, sulla frontiera meridionale, e attraversò il fiume Sava, penetrando in territorio bizantino a Belgrado. Il comandante militare di Belgrado fu colto di sorpresa: non aveva ricevuto nessuna istruzione sul modo di comportarsi di fronte a una simile invasione e inviò in tutta fretta un corriere a Niš, residenza del governatore della provincia bulgara, per informarlo dell’arrivo di Gualtiero. Neppure il governatore, un funzionario coscienzioso ma non certo brillante, di nome Nicetas, aveva istruzioni, e spedi a sua volta un messaggero per informare al più presto possibile Costantinopoli. Nel frattempo, a Belgrado, Gualtiero esigeva cibo per i suoi seguaci. Le messi non erano ancora state raccolte e la guarnigione non aveva nulla da spartire, perciò Gualtiero e i suoi uomini cominciarono a saccheggiare la campagna. Era esasperato da un disgraziato incidente occorso a Zemun, dove sedici

dei suoi uomini, che non avevano attraversato il fiume con i loro compagni, avevano tentato di svaligiare un bazar: gli ungheresi li avevano presi, spogliati delle armi e delle vesti, che appesero come ammonimento sulle mura della città, e li avevano mandati nudi a Belgrado. Quando Gualtiero cominciò il saccheggio intorno a Belgrado, il comandante ricorse alle armi e nel combattimento parecchi crociati vennero uccisi e altri bruciati vivi in una chiesa. Gualtiero poté finalmente mettersi in marcia verso Niš dove Niceta lo accolse cortesemente e lo rifornì di viveri, trattenendolo fino all’arrivo di una risposta da Costantinopoli. L’imperatore, fino allora sicuro che la crociata non avrebbe lasciato l’Occidente prima della festa dell’Assunzione (15 agosto), fu costretto ad accelerare i preparativi. Niceta venne esortato a far proseguire Gualtiero sotto scorta e in questo modo egli e il suo esercito continuarono il viaggio senza incidenti. Ai primi di luglio giunsero a Filippopoli, dove morì Gualtiero di Poissy, zio di Gualtiero, e verso la metà del mese si trovavano a Costantinopoli3. È probabile che Nicetas venisse informato da Gualtiero che Pietro si trovava in cammino a non grande distanza dietro di lui, con un gruppo molto più numeroso, perciò egli si recò a Belgrado per incontrarlo e per prendere contatto con il governatore ungherese di Zemun. Pietro lasciò Colonia verso il 20 aprile. I tedeschi dapprima si erano fatti beffe della sua predicazione, ma poi molte migliaia si erano uniti a lui, cosicché i suoi seguaci raggiungevano la cifra di circa ventimila, fra uomini e donne. Altri tedeschi, infiammati dal suo entusiasmo, avevano in programma di seguirlo più tardi, agli ordini di Gottschalk e del conte Emich di Leisingen. Da Colonia Pietro si incamminò per la solita strada lungo il Reno e il Neckar fino al Danubio, ma qui giunti alcuni del suo gruppo decisero di ridiscendere il fiume su imbarcazioni. Pietro, però, con il grosso proseguì per la strada che corre a sud del lago Fertö ed entrò in Ungheria a Sopron. Pietro cavalcava il suo asino e i cavalieri tedeschi i loro cavalli, mentre pesanti carri trasportavano tutte le provviste che aveva e la cassa del denaro raccolto per il viaggio. Ma la maggior parte dei pellegrini andava a piedi, e quando le strade erano buone, riusciva a coprire fino a venticinque miglia al giorno. Re Coloman ricevette gli inviati di Pietro con la stessa benevolenza che aveva mostrato verso Gualtiero, ammonendoli soltanto che ogni tentativo di saccheggio sarebbe stato punito. L’esercito proseguì pacificamente attraverso l’Ungheria durante gli ultimi giorni di maggio e i primi di giugno e a un certo punto, probabilmente vicino a Karlovci, fu raggiunto dai distaccamenti che avevano viaggiato sul fiume. Il 20 giugno arrivarono a Zemun4. Qui cominciarono i guai. Non è chiaro che cosa realmente sia accaduto; sembra che il governatore, turco ghuzz d’origine, allarmato per l’entità dell’esercito, tentasse con il suo collega d’oltre frontiera di rendere più severe le misure di polizia. L’armata di Pietro era diffidente: aveva avuto sentore delle disavventure capitate agli uomini di Gualtiero, temeva che i due governatori stessero complottando a suo danno ed era rimasta scandalizzata alla vista delle armi dei sedici malandrini di Gualtiero, ancora appese sulle mura della città. Ma tutto sarebbe andato bene se non fosse scoppiata una lite per la vendita di un paio di scarpe; questa provocò un tumulto che si mutò in una vera e propria battaglia. Probabilmente contro il desiderio di Pietro, i suoi uomini, condotti da Goffredo Burel, attaccarono la città e riuscirono ad occupare la cittadella. Uccisero quattromila ungheresi e s’impadronirono di una gran quantità di provviste, poi, terrorizzati al pensiero della vendetta del re d’Ungheria, si affrettarono ad attraversare il fiume Sava. Presero tutto il legname che poterono raccogliere nelle case per costruirsi delle zattere. Nicetas, che stava osservando con ansia da Belgrado, cercò di controllare l’attraversamento del fiume e di obbligarli a servirsi di un solo guado. Le sue truppe erano composte in maggior parte da mercenari

peceneghi, uomini fidati che obbedivano ciecamente ai suoi ordini: essi vennero inviati con chiatte per impedire il passaggio in posti diversi da quello stabilito. Per parte sua Nicetas, rendendosi conto di non avere sufficienti truppe per affrontare un’orda simile, si ritirò a Niš, dove si trovava il quartier generale militare della provincia; alla sua partenza gli abitanti di Belgrado abbandonarono la città e si rifugiarono sui monti5. Il 26 giugno l’esercito di Pietro si aprì con la forza un passaggio attraverso la Sava: quando i peceneghi tentarono di costringerli a servirsi di un solo guado, vennero attaccati, molte barche furono affondate e i soldati che si trovavano a bordo catturati e uccisi. L’esercito entrò in Belgrado e appiccò il fuoco alla città dopo un saccheggio generale, poi marciò per sette giorni attraverso le foreste e giunse a Niš il 3 luglio. Pietro inviò subito messi a Nicetas per chiedere rifornimenti di viveri6. Nicetas aveva informato Costantinopoli dell’avvicinarsi di Pietro e stava aspettando gli ufficiali e la scorta militare che erano in cammino per accompagnare gli occidentali alla capitale. Niš contava una numerosa guarnigione ed egli l’aveva ancora rafforzata reclutando localmente altri mercenari peceneghi ed ungheresi7, ma probabilmente non poteva privarsi di uomini per dare a Pietro una scorta fino al momento in cui avessero incontrato le truppe provenienti da Costantinopoli. D’altra parte era inattuabile e pericoloso permettere a una folla d’armati cosi numerosa di indugiare a lungo a Niš; perciò Pietro venne sollecitato a dare ostaggi, mentre si raccoglievano le vettovaglie per i suoi uomini, e a proseguire poi il più presto possibile. Dapprima tutto andò bene: Goffredo Burel e Gualtiero di Breteuil vennero consegnati come ostaggi e gli abitanti del luogo non soltanto permisero che i crociati acquistassero le provviste di cui avevano bisogno, ma molti di loro diedero elemosine ai pellegrini più poveri; alcuni chiesero perfino di unirsi al pellegrinaggio. La mattina dopo i crociati si misero in marcia lungo la strada per Sofia, ma mentre stavano abbandonando la città alcuni tedeschi, che avevano litigato con un abitante del luogo la notte precedente, appiccarono sconsideratamente il fuoco a un gruppo di mulini che si trovavano sulla riva del fiume. Alla notizia Nicetas inviò le sue truppe per attaccare la retroguardia e per prendere alcuni prigionieri da tenere come ostaggi. Pietro cavalcava il suo asino circa un miglio più avanti e non seppe nulla di tutto ciò, finché un uomo di nome Lamberto giunse di corsa dalla retroguardia per informarlo. Egli si affrettò a tornare per incontrarsi con Nicetas e prendere accordi per il riscatto dei prigionieri, ma mentre stavano conversando si diffusero nell’esercito voci di presunte battaglie e di tradimento, e di conseguenza un gruppo di sconsiderati tornarono indietro e assalirono le fortificazioni della città. La guarnigione li respinse e contrattaccò; poi, mentre Pietro, accorso a frenare i suoi uomini, cercava di riprendere contatto con Nicetas, un altro gruppo ritornò all’attacco. Nicetas, allora, lanciò tutte le sue truppe contro i crociati, che vennero completamente sbaragliati e dispersi: molti vennero trucidati, e molti altri, uomini, donne e bambini furono catturati e trascorsero il resto della loro vita in prigionia nei dintorni. Pietro perse il suo forziere, ma con Rinaldo di Breis e Gualtiero di Breteuil e circa cinquecento uomini fuggirono su per il fianco di una montagna, credendo di essere gli unici superstiti; la mattina dopo, però, furono raggiunti da altri settemila, e proseguirono il loro viaggio. Giunti alla città abbandonata di Bela Palanka, si fermarono per mietere il raccolto perché erano rimasti del tutto privi di cibo, e qui molti altri sbandati li raggiunsero. Quando si rimisero in marcia, si avvidero che circa un quarto della loro compagnia era perduto8. Arrivarono a Sofia il 12 luglio e vi incontrarono gli inviati e la scorta venuti da Costantinopoli con l’ordine di rifornirli di tutto il necessario e di vegliare a che non si fermassero in nessun luogo per più di tre giorni. Da quel momento il loro viaggio proseguì tranquillamente: la popolazione

locale si mostrò ben disposta e a Filippopoli i greci furono cosi profondamente commossi dal racconto delle loro traversie che liberamente diedero loro denaro, cavalli e muli. A due giornate di cammino da Adrianopoli altri inviati accolsero Pietro con un messaggio di clemenza dell’imperatore: era stato deciso che la spedizione fosse perdonata per i suoi crimini, poiché era già stata sufficientemente punita. Pietro pianse di gioia per il favore mostratogli da un cosi eccelso sovrano9. Il benevolo interessamento dell’imperatore non cessò quando i crociati arrivarono a Costantinopoli il 1° agosto. Egli era curioso di vedere il loro capo e Pietro fu invitato a un’udienza a corte, dove gli vennero dati denaro e buoni consigli. Alessio, con la sua esperienza, giudicò assai poco efficiente la spedizione e temeva che, se fosse passata in Asia, sarebbe stata ben presto distrutta dai turchi. D’altra parte l’indisciplina dei pellegrini lo costrinse ad allontanarli il più presto possibile dai dintorni di Costantinopoli. Gli occidentali commettevano furti senza fine, facevano irruzione nei palazzi e nelle ville dei sobborghi, rubavano perfino il piombo dai tetti delle chiese. Sebbene il loro ingresso in Costantinopoli fosse strettamente controllato e soltanto piccoli gruppi di visitatori fossero ammessi entro le porte, era impossibile sorvegliare tutti i dintorni. Gualtiero Sans-Avoir ed i suoi uomini si trovavano già a Costantinopoli e diversi gruppi di pellegrini italiani vi arrivarono quasi nello stesso tempo. Essi si unirono alla spedizione di Pietro; l’8 agosto tutte le sue forze furono trasportate al di là del Bosforo. Dalla sponda asiatica essi proseguirono in disordine, saccheggiando case e chiese, lungo la costa del Mar di Marmara fino a Nicomedia, che era abbandonata fin dal tempo del saccheggio compiuto dai turchi quindici anni prima. Qui scoppiò una lite fra tedeschi e italiani da una parte e francesi dall’altra, e i primi si resero indipendenti dal comando di Pietro e scelsero come loro capo un signore italiano di nome Rainaldo. A Nicomedia le due parti dell’esercito si diressero verso occidente lungo la costa meridionale del golfo di Nicomedia fino a un campo fortificato chiamato Kibotos dai greci e Civetot dai crociati, che Alessio aveva allestito nelle vicinanze di Helenopolis per i suoi mercenari inglesi. Era un terreno adatto per accamparvisi, poiché la regione era fertile ed altri rifornimenti potevano essere portati facilmente per mare da Costantinopoli10. Alessio aveva esortato Pietro ad aspettare l’arrivo dei principali eserciti crociati prima di tentare qualsiasi attacco contro gli infedeli, e Pietro era rimasto impressionato dai suoi consigli. Ma la sua autorità svaniva rapidamente e sia i tedeschi, sia gli italiani al comando di Rainaldo, sia gli stessi francesi (sui quali sembra che esercitasse la maggior influenza Goffredo Burel), invece di rimettersi tranquillamente in forze, gareggiavano gli uni con gli altri nel saccheggiare la campagna. Dapprima depredarono le immediate vicinanze, poi avanzarono cautamente nel territorio controllato dai turchi, compiendo scorrerie e derubando gli abitanti dei villaggi, tutti greci cristiani. A metà settembre parecchie migliaia di francesi si avventurarono fino alle porte di Nicea, capitale del sultano selgiuchida Kilij Arslan ibn Suleiman: saccheggiarono i villaggi nei sobborghi, raccogliendo le greggi e gli armenti che trovarono, e torturando e massacrando gli abitanti cristiani con spaventosa crudeltà; si disse perfino che arrostissero dei bimbetti sugli spiedi. Un distaccamento turco uscito dalla città venne respinto dopo un duro combattimento, poi essi tornarono a Civetot, dove vendettero il bottino ai loro compagni e ai marinai greci che si trovavano nei pressi del campo. Questa fruttuosa incursione francese suscitò l’invidia dei tedeschi e verso la fine di settembre Rainaldo parti con una spedizione germanica di circa seimila uomini, fra cui c’erano dei preti e perfino dei vescovi. Essi oltrepassarono Nicea, saccheggiando ogni cosa sul loro cammino, ma, più riguardosi dei francesi, risparmiarono i cristiani, finché giunsero a un castello chiamato Xerigordon, che riuscirono a conquistare. Avendolo trovato ben fornito di provviste di ogni genere, decisero di farne un centro da cui partire per predare il paese, ma alla notizia dell’impresa crociata il sultano

inviò un comandante militare di grado superiore, con molti soldati, per riprendere il castello. Xerigordon si trovava su una collina e i rifornimenti d’acqua vi giungevano da un pozzo che era appena fuori le mura e da una sorgente nella valle sottostante. L’esercito turco, giunto davanti al castello il 29 settembre, giorno di san Michele, respinse un’imboscata tesa da Rainaldo e, dopo essersi impossessato della fonte e del pozzo, accerchiò strettamente i tedeschi entro la fortezza. Ben presto gli assediati soffrirono atrocemente la sete: tentarono di ricavare umidità dalla terra, tagliarono le vene dei loro cavalli ed asini per berne il sangue, e bevvero perfino l’urina gli uni degli altri. I loro sacerdoti cercarono invano di confortarli ed incoraggiarli; dopo otto giorni d’agonia Rainaldo decise di arrendersi ed aprì le porte al nemico, dopo avere ricevuto la promessa di aver salva la vita se avesse rinunciato al cristianesimo. Coloro che rimasero fedeli alla loro religione vennero trucidati, Rainaldo e quelli che abiurarono con lui vennero inviati in prigionia ad Antiochia, Aleppo e fin nel lontano Khorasan. La notizia che i tedeschi avevano preso Xerigordon era giunta al campo di Civetot ai primi di ottobre, subito seguita da una voce, diffusa da due spie turche, che essi si erano impadroniti della stessa Nicea e stavano spartendosi il bottino a loro proprio beneficio. Come i turchi si aspettavano, questo provocò una tumultuosa eccitazione nell’accampamento: i soldati chiedevano con grande clamore di poter correre a Nicea, lungo strade su cui il sultano aveva preparato accuratamente agguati e imboscate. I loro capi faticarono a trattenerli, finché all’improvviso si scoprì la verità sulla sorte toccata alla spedizione di Rainaldo: l’eccitazione si mutò in panico e i comandanti dell’esercito si riunirono per discutere sul da farsi. Pietro era andato a Costantinopoli: la sua autorità sulle truppe era svanita ed egli sperava di ravvivarla ottenendo importanti aiuti materiali dall’imperatore. Ci fu nell’esercito un certo desiderio di uscire a vendicare Xerigordon, ma Gualtiero Sans-Avoir persuase i suoi colleghi ad aspettare il ritorno di Pietro, che doveva avvenire entro una settimana. Pietro, tuttavia, non tornò e nel frattempo si venne a sapere che i turchi stavano avvicinandosi con molte truppe a Civetot. Il consiglio dell’esercito si riunì nuovamente: i capi più responsabili, Gualtiero Sans-Avoir, Rinaldo di Breis, Gualtiero di Breteuil e Folco di Orléans, e i tedeschi Ugo di Tubinga e Gualtiero di Teck, esortavano ancora a non prendere iniziative fino all’arriva di Pietro; ma Goffredo Burel, sostenuto dal favore dell’esercito, insistette che sarebbe stato codardo e sciocco non avanzare contro il nemico. Egli impose la sua volontà e il 21 ottobre, all’alba, l’intero esercito crociato, forte di oltre ventimila uomini, uscì da Civetot lasciando dietro di sé soltanto vecchi, donne, bambini e ammalati.

I. Le adiacenze di Costantinopoli e Nicea al tempo della prima crociata. Le linee nere indicano le strade principali.

A sole tre miglia dal campo, presso un villaggio chiamato Dracon, dove la strada per Nicea si inoltrava in una stretta valle boscosa, i turchi avevano teso un agguato. I crociati marciavano rumorosamente e senza precauzioni, i cavalieri in testa con le loro cavalcature: all’improvviso una grandinata di frecce dai boschi uccise o feri i cavalli e, mentre questi s’imbizzarrivano sbalzando di sella i loro cavalieri, i turchi attaccarono. La cavalleria, incalzata dai turchi, fu rigettata indietro sulla fanteria; molti cavalieri combatterono eroicamente, ma non poterono arrestare il panico che s’impadroniva dell’esercito; in pochi minuti tutti i soldati si trovarono in fuga disordinata verso Civetot. Nell’accampamento stava appena cominciando la normale vita giornaliera: alcuni dei più anziani dormivano ancora nei loro letti e qua e là un prete stava celebrando la messa mattutina, quando in mezzo a loro si precipitò un’orda di fuggiaschi terrorizzati con il nemico alle calcagna. Non vi fu una vera resistenza: soldati, donne e preti vennero massacrati prima che avessero il tempo

di muoversi; alcuni scapparono nelle foreste circostanti, altri in mare, ma pochi di loro sfuggirono a lungo alla cattura; altri si difesero per un certo tempo accendendo grandi fuochi che il vento spingeva in faccia ai turchi. Soltanto giovani e fanciulle d’aspetto attraente vennero risparmiati, insieme con i pochi prigionieri fatti quando ormai era svanito il primo ardore della battaglia, e vennero tutti portati via come schiavi. Circa tremila, più fortunati degli altri, riuscirono a raggiungere un vecchio castello che si trovava vicino al mare. Era stato per molto tempo fuori uso e le sue porte e finestre erano smantellate, ma i rifugiati, con l’energia della disperazione, improvvisarono delle fortificazioni con il legname che trovarono intorno, le rafforzarono con cadaveri e poterono cosi respingere gli attacchi del nemico. Il castello resistette, ma sul campo di battaglia a mezzogiorno tutto era finito e i morti coprivano il terreno dal passo di Dracon fino al mare. Fra i caduti c’erano Gualtiero Sans-Avoir, Rinaldo di Breis, Folco d’Orléans, Ugo di Tubinga, Gualtiero di Teck, Corrado e Alberto di Zimmern e molti altri cavalieri tedeschi. Gli unici capi sopravvissuti furono Goffredo Burel, che aveva provocato il disastro con la sua avventatezza, Gualtiero di Breteuil e Guglielmo di Poissy, Enrico di Schwarzenberg, Federico di Zimmern e Rodolfo di Brandis, quasi tutti gravemente feriti. Quando cadde l’oscurità un greco, che si trovava con l’esercito, riuscì a trovare un’imbarcazione e parti per Costantinopoli per informare Pietro e l’imperatore sulla battaglia. Non sappiamo nulla dei sentimenti che provò Pietro, ma Alessio ordinò subito ad alcune navi da guerra, con molti uomini a bordo, di salpare per Civetot. All’arrivo della squadra militare bizantina i turchi levarono l’assedio al castello e si ritirarono verso l’interno; i superstiti vennero condotti sulle navi e tornarono a Costantinopoli, dove furono loro assegnati dei quartieri nei sobborghi; vennero però tolte loro le armi11. La crociata popolare era finita: era costata molte migliaia di vite umane, aveva messo a dura prova la pazienza dell’imperatore e dei suoi sudditi ed aveva insegnato che la sola fede, senza buon senso e disciplina, non avrebbe aperto la strada per Gerusalemme.

II. La penisola balcanica e l’Asia Minore al tempo della prima crociata.

Capitolo secondo La crociata tedesca

Ahimè, Signore, Eterno, distruggerai tu tutto ciò che rimane d’Israele...? Ezechiele, IX, 8

La partenza di Pietro l’Eremita per l’Oriente non aveva posto termine all’entusiasmo dei tedeschi per la crociata. Egli aveva lasciato dietro di sé il suo discepolo Gottschalk perché raccogliesse un altro esercito, mentre molti altri predicatori e capi si preparavano a seguire il suo esempio. Ma, sebbene i tedeschi rispondessero a migliaia all’appello, erano molto meno impazienti dei francesi di partire per la Terra Santa: c’era un altro lavoro da fare prima, più vicino a casa. Da secoli si erano stabilite lungo le strade commerciali dell’Europa occidentale colonie ebraiche, composte per lo più da ebrei sefarditi, i cui antenati si erano disseminati lontano dal bacino del Mediterraneo durante i secoli bui. Essi mantenevano rapporti con i loro correligionari di Bisanzio e delle regioni arabe e si trovavano cosi in grado di avere una parte importante nel commercio internazionale, specialmente nel commercio fra paesi musulmani e cristiani. La proibizione dell’usura negli Stati occidentali cristiani e il suo rigoroso controllo a Bisanzio avevano lasciato loro un campo aperto per l’istituzione di case di credito in tutta la cristianità. La loro abilità tecnica e la lunga tradizione li resero eminenti anche nella pratica della medicina. Essi non avevano mai subito gravi persecuzioni in Occidente, eccettuata la Spagna dei visigoti, molti anni prima; non avevano diritti civili, ma sia le autorità secolari sia quelle ecclesiastiche si compiacevano di concedere speciale protezione a membri cosi utili della società; i re di Francia e di Germania li avevano sempre trattati amichevolmente, mentre gli arcivescovi delle grandi città renane mostravano loro un particolare favore. Ma i contadini e i cittadini più poveri, che avevano sempre maggior bisogno di denaro poiché un’economia monetaria sostituiva quella più antica dei servizi, s’indebitarono sempre più e di conseguenza provarono contro di loro un risentimento sempre più profondo, mentre gli ebrei, che mancavano di ogni garanzia legale, facevano pagare alti interessi e traevano esorbitanti profitti ovunque godessero del favore dell’amministrazione locale. La loro impopolarità aumentò nel secolo XI, quando altre classi sociali cominciarono a prendere in prestito denaro da loro; anche gli inizi del movimento crociato vi contribuirono. Per un cavaliere era costoso equipaggiarsi per una crociata e, se non aveva terre o possedimenti da impegnare, doveva farsi prestare denaro dagli ebrei. Ma era forse giusto che per andare a combattere per la cristianità egli dovesse cadere nelle grinfie di membri della razza che aveva crocifisso Cristo? Il crociato più povero era già spesso indebitato con gli ebrei: era giusto che venisse ostacolato nell’adempimento del suo dovere di cristiano da obblighi verso qualcuno appartenente a quella razza empia? Le predicazione evangelica della crociata dava particolare risalto a Gerusalemme, scena della crocifissione, e inevitabilmente attirava l’attenzione verso il popolo che aveva fatto soffrire Cristo. I musulmani erano i nemici del momento e perseguitavano i seguaci di Cristo, ma gli ebrei erano certamente peggiori, poiché avevano perseguitato Cristo stesso1.

Già al tempo delle guerre spagnole c’era stata una certa inclinazione da parte degli eserciti cristiani a maltrattare gli ebrei. Al momento della spedizione su Barbastro, papa Alessandro II scrisse ai vescovi di Spagna per ricordare loro che vi era un’enorme differenza fra i musulmani e gli ebrei: i primi erano irriducibili nemici dei cristiani, ma i secondi erano pronti a collaborare con loro. In Spagna, però, gli ebrei avevano goduto di tale favore da parte dei musulmani, che i conquistatori cristiani non si persuasero a fidarsi di loro2. Nel dicembre del 1095 le comunità ebraiche della Francia settentrionale scrissero ai loro correligionari in Germania per avvertirli che il movimento crociato avrebbe con molta probabilità recato loro gravi danni3. Ci furono voci di un massacro di ebrei a Rouen e, sebbene sia poco verosimile che fosse realmente avvenuto, gli ebrei ne furono sufficientemente allarmati da permettere a Pietro l’Eremita di trarne un notevole profitto. Insinuando, senza dubbio, che altrimenti gli sarebbe stato difficile trattenere i suoi seguaci, egli ottenne dagli ebrei francesi lettere di presentazione per le comunità ebraiche di tutta Europa, in cui queste venivano invitate ad accoglierlo cordialmente e a rifornire lui ed il suo esercito di tutte le provviste che avrebbe richiesto4. Circa nello stesso tempo Goffredo di Buglione, duca della Bassa Lorena, cominciò i suoi preparativi in vista della partenza per la crociata e nella provincia si sparse la voce che egli aveva fatto voto di vendicare, prima di partire, la morte di Cristo con il sangue degli ebrei. Terrorizzati, gli ebrei della Renania indussero Calonymos, rabbino capo di Magonza, a scrivere al sovrano di Goffredo, l’imperatore Enrico IV, mostratosi sempre benevolo verso di loro, per esortarlo a proibire la persecuzione. Allo stesso tempo, per maggior sicurezza, le comunità ebraiche di Ma-gonza e di Colonia offrirono al duca la somma di cinquecento monete d’argento ciascuna. Enrico scrisse ai suoi principali vassalli laici ed ecclesiastici per intimare loro di garantire la salvezza a tutti gli ebrei che si trovavano nelle loro terre; avendo portato a termine con successo il suo piano di estorsione, Goffredo rispose che nulla era più lontano dai suoi pensieri che la persecuzione, e diede di buon grado la garanzia richiesta5. Se gli ebrei speravano di sottrarsi cosi a buon mercato alla minaccia dello zelo cristiano, furono ben presto disillusi. Alla fine di aprile del 1096 un certo Volkmar, delle cui origini nulla sappiamo, parti dalla Renania con oltre diecimila uomini per raggiungere Pietro in Oriente, dirigendosi verso l’Ungheria attraverso la Boemia6. Pochi giorni dopo il vecchio discepolo di Pietro, Gottschalk, partì con un gruppo un po’ più numeroso seguendo la strada principale che anche Pietro aveva fatto, lungo il Reno e attraverso la Baviera7. Nel frattempo un terzo esercito era stato raccolto da un signorotto della Renania, il conte Emich di Leisingen, che si era già acquistato una certa fama per i suoi atti di violenza e di brigantaggio; in quel momento, però, egli pretendeva di avere sulle carni una miracolosa stigmate a forma di croce. Al tempo stesso, come soldato di provata esperienza, attrasse sotto le sue bandiere una varietà maggiore e più formidabile di reclute di quella capeggiata dai predicatori Volkmar e Gottschalk. Una moltitudine di semplici pellegrini entusiasti si uni a lui, alcuni di loro seguendo un’oca che si affermava fosse ispirata da Dio. Però il suo esercito comprendeva anche membri della nobiltà francese e tedesca, come i signori di Zweibrücken, Salm e Viernenberger, Hartmann di Dillingen, Drogo di Nesle, Clarambaldo di Vendeuil, Tommaso di La Fere e Guglielmo, visconte di Melun, soprannominato il Carpentiere a causa della sua enorme forza fisica8. Forse l’esempio di Pietro e del duca Goffredo fece comprendere a Emich come il fervore religioso potesse facilmente venir usato a vantaggio personale, suo e dei suoi compagni. Ignorando gli ordini speciali dell’imperatore Enrico, persuase i suoi seguaci a dare inizio alla crociata il 3

maggio con un attacco contro la comunità ebraica di Spira, non lontana dalla sua dimora. L’attacco in sé non fu molto grave: il vescovo di Spira, le cui simpatie erano state ottenute con un magnifico dono, pose gli ebrei sotto la propria protezione; soltanto dodici furono presi dai crociati e trucidati per aver rifiutato di abbracciare il cristianesimo, e una donna si suicidò per salvare la propria virtù. Il vescovo salvò gli altri e riuscì perfino a catturare alcuni assassini, ai quali vennero tagliate le mani per punizione9. Per quanto piccolo, il massacro di Spira eccitò gli appetiti. Il 18 maggio Emich e le sue truppe giunsero a Worms e poco dopo si sparse la voce che gli ebrei avevano preso un cristiano, lo avevano annegato e usato l’acqua in cui avevano tenuto il cadavere per avvelenare i pozzi della città. Gli ebrei non erano popolari a Worms e nelle campagne circostanti e la diceria attrasse cittadini e contadini che si unirono agli uomini di Emich negli attacchi contro il quartiere ebraico. Ogni ebreo catturato fu messo a morte; come a Spira, il vescovo intervenne e aprì il suo palazzo ai fuggiaschi, ma Emich e le folle infuriate forzarono le porte e irruppero nel santuario; qui, nonostante le proteste del vescovo, massacrarono tutti i suoi ospiti, in numero di circa cinquecento10. Il massacro a Worms ebbe luogo il 20 maggio e il 25 Emich giunse davanti alla grande città di Magonza, dove trovò che le porte erano state chiuse contro di lui per ordine dell’arcivescovo Rothard. Ma la notizia del suo arrivo provocò tumulti antiebraici all’interno della città, nel corso dei quali venne ucciso un cristiano. Cosi il 26 maggio amici di Emich, che si trovavano entro le mura, gli aprirono le porte. Gli ebrei, raccoltisi nella sinagoga, inviarono doni di duecento marchi d’argento all’arcivescovo e al più importante signore laico della città, chiedendo di essere accolti nei loro rispettivi palazzi. Allo stesso tempo un loro emissario si presentò a Emich e per sette libbre d’oro comprò da lui la promessa che avrebbe risparmiato la comunità. Fu denaro sprecato. Il giorno dopo Emich attaccò il palazzo arcivescovile. Rothard, allarmato per il furore degli assalitori, si affrettò a fuggire con tutti i suoi collaboratori, e alla sua partenza gli uomini di Emich fecero irruzione nell’edificio. Gli ebrei tentarono di resistere, ma furono ben presto sopraffatti e trucidati. Il loro protettore laico, il cui nome non ci è stato tramandato, sarebbe forse stato più coraggioso, ma Emich riuscì ad appiccare il fuoco al suo palazzo e costrinse tutti gli occupanti ad evacuarlo. Parecchi ebrei ebbero salva la vita a prezzo dell’abiura, tutti gli altri furono uccisi. Il massacro durò per altri due giorni, mentre venivano rastrellati i fuggiaschi. Alcuni apostati si pentirono della loro debolezza e si suicidarono; uno di loro, prima di uccidere se stesso e la sua famiglia, incendiò la sinagoga per preservarla da un’ulteriore profanazione. Il rabbino capo, Calonymos, era fuggito dalla città a Rudesheim con una cinquantina di compagni e aveva chiesto asilo all’arcivescovo che si trovava nella sua villa di campagna. Questi, quando vide il terrore dei suoi visitatori, credette che fosse giunto il momento opportuno per tentare la loro conversione; ma era più di quanto Calonymos potesse sopportare: afferrò un coltello e si lanciò sul suo ospite. Venne respinto, ma l’oltraggio costò la vita a lui e ai suoi compagni. Durante il massacro di Magonza erano periti circa un migliaio di ebrei11. Emich si diresse successivamente verso Colonia, dove si erano già verificati in aprile tumulti antiebraici; questa volta gli ebrei, colti dal panico, per le notizie di Magonza, si dispersero nei villaggi dei dintorni e nelle case di loro conoscenti cristiani che li tennero nascosti durante la domenica di Pentecoste, 1° giugno, e il giorno seguente, mentre Emich si trovava nelle vicinanze. La sinagoga fu incendiata e un uomo e una donna ebrei, che rifiutarono di abiurare, vennero trucidati, ma l’intervento dell’arcivescovo impedì ulteriori eccessi12. A Colonia, Emich decise che la sua opera in Renania era compiuta e ai primi di giugno parti con il grosso delle sue truppe, risalendo il Meno verso l’Ungheria. Ma un numeroso gruppo di suoi

seguaci pensava che bisognava purgare dagli ebrei anche la valle della Mosella, perciò a Magonza si separò dal suo esercito e il 1° giugno giunse a Treviri. La maggior parte della comunità ebraica si era messa in salvo nel palazzo arcivescovile, ma, all’avvicinarsi dei crociati, alcuni ebrei presi dal panico cominciarono a lottare fra di loro, mentre altri si lanciarono nella Mosella e vi annegarono. I loro persecutori proseguirono allora su Metz dove perirono ventidue ebrei. Verso la metà di giugno tornarono a Colonia nella speranza di raggiungere Emich ma, poiché questi era già partito, discesero il Reno e trascorsero le giornate fra il 24 e il 27 giugno massacrando gli ebrei di Neuss, Wevelinghofen, Eller e Xanten. Poi si dispersero: alcuni tornarono a casa, altri si unirono probabilmente all’esercito di Goffredo di Buglione13. Notizie delle imprese di Emich raggiunsero i gruppi già partiti dalla Germania per l’Oriente. Volkmar ed i suoi seguaci arrivarono a Praga alla fine di maggio e il 30 giugno cominciarono a massacrare gli ebrei della città; le autorità civili non poterono frenarli, mentre le veementi proteste del vescovo Cosma vennero ignorate. Da Praga Volkmar proseguì per l’Ungheria, e a Nitra, la prima grande città al di là della frontiera, tentò probabilmente di compiere un gesto simile; gli ungheresi, però, non erano disposti a tollerare la sua condotta. Trovando che i crociati erano incorreggibilmente indisciplinati, li attaccarono e li dispersero: molti furono trucidati ed altri catturati, ma non sappiamo che fine abbiano fatto i superstiti, né Volkmar stesso14. Gottschalk ed i suoi uomini, che avevano preso la strada attraverso la Baviera, si erano fermati a Ratisbona per massacrarvi gli ebrei. Pochi giorni dopo penetrarono in Ungheria a Wiesselburg (Moson); re Colo-man ordinò che fossero loro concesse facilitazioni per i rifornimenti finché si comportavano disciplinatamente, ma fin dall’inizio essi si diedero a saccheggiare la campagna rubando vino, grano, pecore e buoi. I contadini ungheresi si opposero a queste esazioni, si verificarono quindi scontri armati con parecchi morti e un giovinetto ungherese venne impalato dai crociati. Coloman giunse con le sue truppe per controllarli e li circondò nel villaggio di Stuhlweissenburg, un po’ più a est: i crociati furono costretti a consegnare tutte le loro armi e tutti i beni rubati. Ma i disordini continuarono; forse essi opposero qualche tentativo di resistenza, forse Coloman era stato nel frattempo informato degli incidenti avvenuti a Nitra e non si fidava di loro, nemmeno disarmati. Mentre i crociati si trovavano completamente alla sua mercè, l’esercito ungherese piombò su di loro: Gottschalk fu il primo a fuggire, ma venne ripreso ben presto e tutti i suoi uomini perirono nel massacro15. Alcune settimane dopo l’esercito di Emich si avvicinò alla frontiera ungherese; era più numeroso e più formidabile di quello di Gottschalk e re Coloman, dopo le sue recenti esperienze, ne fu seriamente allarmato. Quando Emich mandò a chiedere il permesso di attraversare il suo regno, Coloman rifiutò ed inviò truppe a difendere il ponte che portava a Wiesselburg, attraverso un braccio del Danubio. Ma Emich non si lasciò deviare dalla sua strada e per sei settimane i suoi uomini combatterono con gli ungheresi in una serie di piccole scaramucce in capo al ponte, mentre si accingevano a costruirne un altro per sé. Frattanto saccheggiavano la regione di qua del fiume. Alla fine i crociati riuscirono ad aprirsi un varco attraverso il ponte che avevano costruito e cinsero d’assedio la stessa fortezza di Wiesselburg. Il loro esercito era ben equipaggiato e possedeva macchine d’assedio di tale potenza che la caduta della città sembrava imminente. All’improvviso, però, probabilmente alla notizia che il re stava accorrendo con tutte le sue forze, il panico gettò i crociati nel più completo disordine. La guarnigione fece perciò una sortita e attaccò l’accampamento crociato; Emich non riuscì a raccogliere di nuovo i suoi uomini e dopo una breve battaglia essi vennero totalmente sbaragliati. La maggioranza cadde sul campo, ma Emich e pochi altri cavalieri

riuscirono a fuggire grazie alla velocità dei loro cavalli. Emich ed i suoi compagni tedeschi tornarono infine alle loro case, mentre i cavalieri francesi Clarambaldo di Vendeuil, Tommaso di La Fere e Guglielmo il Carpentiere si unirono ad altre spedizioni dirette in Palestina16. Lo sfacelo della crociata di Emich, che seguiva a cosi breve distanza di tempo il crollo delle spedizioni di Volkmar e di Gottschalk, impressionò profondamente la cristianità occidentale. A molti buoni cristiani ciò apparve come un castigo inflitto dall’alto agli assassini degli ebrei; altri, che avevano giudicato insensato e iniquo tutto il movimento crociato, videro in questi disastri l’aperta disapprovazione di Dio. Nulla era finora accaduto per giustificare il grido echeggiato a Clermont: «Deus le volt»17.

Capitolo terzo I principi e l’imperatore

Ti rivolgerà egli molte supplicazioni? Ti dirà egli delle parole dolci? Farà egli teco un patto?... Giobbe, XL, 27,28

I principi occidentali che avevano preso la croce erano meno impazienti di Pietro e dei suoi amici ed erano disposti a rispettare il programma stabilito dal papa. Bisognava radunare ed equipaggiare le truppe, raccogliere il denaro necessario, prendere disposizioni per l’amministrazione delle terre durante un’assenza che poteva durare vari anni. Nessuno di loro fu pronto a partire prima della fine di agosto. II primo a lasciare la sua dimora fu Ugo, conte di Vermandois, conosciuto come Le Maisné, ossia il minore, un soprannome tradotto molto impropriamente dai cronisti latini, perfino da quelli del suo tempo, co me Magno. Era il figlio cadetto di re Enrico I di Francia e di una principessa di origine scandinava, Anna di Kiev; un uomo di circa quarant’anni, di rango elevato ma piuttosto povero, che aveva acquistato la sua piccola contea sposandone l’erede e non aveva mai avuto una parte preminente nella politica francese; era orgoglioso del suo lignaggio, ma in concludente nell’azione. Non possiamo dire per quali motivi avesse aderito alla crociata: senza dubbio aveva ereditato l’irrequietezza dei suoi antenati scandinavi, forse sperava che in Oriente avrebbe potuto pro curarsi la potenza e le ricchezze che convenivano alla sua alta nascita e probabilmente suo fratello, Filippo I di Francia, incoraggiò la sua decisione per attirare la benevolenza del papato sulla sua famiglia. Dopo avere affidato le sue terre alle cure della contessa, egli parti per l’Italia alla fine di agosto, con un piccolo esercito formato dai suoi vassalli e da alcuni cavalieri dei domini di suo fratello. Prima della partenza, mandò innanzi, a Costantinopoli, uno speciale messaggero per pregare l’imperatore di predisporre un’accoglienza con tutti gli onori dovuti a un principe di sangue reale. Mentre era in viaggio verso il sud venne raggiunto da Drogo di Nesle, da Clarambaldo di Vendeuil, da Guglielmo il Carpentiere e da altri cavalieri francesi che tornavano dalla disastrosa spedizione di Emich1. Ugo e i suoi compagni passarono da Roma ed arrivarono a Bari ai primi di ottobre. Nell’Italia meridionale anche i principi normanni si stavano preparando per la crociata e il nipote di Boemondo, Guglielmo, decise di non aspettare i suoi congiunti, ma di attraversare il mare con Ugo. Da Bari questi inviò a Durazzo un’ambasceria di ventiquattro cavalieri, guidata da Guglielmo il Carpentiere, per informare il governatore del suo imminente arrivo e per ripetere la richiesta di una degna accoglienza. Il governatore Giovanni Comneno poté cosi avvisare l’imperatore della sua venuta e prepararsi ad accoglierlo cortesemente, ma l’arrivo di Ugo non fu in realtà cosi solenne com’egli aveva sperato. Una burrasca distrusse la piccola flottiglia da lui noleggiata per la traversata, alcune delle navi affondarono con tutti i passeggeri e Ugo stesso fu gettato sulla costa a Capo Palli, poche miglia a nord di Durazzo, dove gli inviati di Giovanni lo trovarono sperduto e infangato; lo scortarono dal loro signore che lo riequipaggiò subito, lo festeggiò e gli usò mille attenzioni, ma lo tenne sotto stretta sorveglianza, Ugo era compiaciuto del lusinghiero riguardo dimostratogli, ma ad

alcuni dei suoi seguaci sembrò che fosse tenuto prigioniero. Rimase a Durazzo finché un alto ufficiale, l’ammiraglio Manuele Butumites, giunse da parte dell’imperatore per scortarlo a Costantinopoli. Il viaggio venne compiuto comodamente, anche se egli fu costretto a seguire una strada che faceva un lungo giro attraverso Filippopoli, poiché l’imperatore non voleva che Ugo prendesse contatto con i pellegrini italiani che affollavano la via Egnatia. A Costantinopoli Alessio lo accolse con calore e lo copri di doni, ma continuò a limitare la sua libertà2. L’arrivo di Ugo obbligò Alessio a rivelare la sua politica nei confronti dei principi occidentali. Le informazioni che aveva acquisito ed il ricordo della carriera di Roussel di Bailleul lo convinsero che, quali che fossero le ragioni ufficiali della crociata, il vero scopo dei franchi era di procurarsi principati in Oriente. Per parte sua non era affatto contrario a questo; anzi, purché l’Impero recuperasse tutte le terre possedute prima delle invasioni turche, molte ragioni favorivano la creazione di Stati cuscinetto cristiani alle sue frontiere. In quell’epoca era inconcepibile che piccoli Stati potessero essere indipendenti, ma Alessio voleva essere sicuro che egli sarebbe stato esplicitamente considerato come il sovrano di tutti quelli che si fossero costituiti. Sapendo che in Occidente il rapporto di vassallaggio era sanzionato da un solenne giuramento, decise di esigere un giuramento simile da tutti i capi occidentali nei riguardi delle loro future conquiste. Per guadagnarsi il loro buon volere era pronto a riversare su di loro doni e sussidi e a mettere in risalto le sue ricchezze e la sua gloria affinché non si sentissero diminuiti nella loro dignità accettando di diventare suoi vassalli. Ugo, stordito dalla magnificenza e dalla generosità dell’imperatore, accettò di buon grado i suoi progetti, ma il principe che arrivò dopo di lui dall’Occidente non si lasciò persuadere cosi facilmente. Goffredo di Buglione, duca della Bassa Lorena, appare nella leggenda posteriore come il perfetto cavaliere cristiano, l’eroe incomparabile di tutta l’epopea crociata. Uno scrupoloso studio storico deve modificare questo giudizio. Nato verso l’anno 1060, secondogenito del conte Eustachio II di Boulogne e di Ida, figlia di Goffredo II duca della Bassa Lorena, discendente in linea femminile da Carlo Magno, Goffredo era stato designato erede dei beni della famiglia di sua madre, ma alla morte del padre di lei l’imperatore Enrico IV confiscò il ducato, lasciando a Goffredo soltanto la contea di Anversa e il feudo di Bouillon nelle Ardenne. Tuttavia Goffredo servì Enrico così lealmente nelle sue campagne di Germania e d’Italia che nel 1082 ricevette l’investitura del ducato ma soltanto a titolo personale, non come possesso ereditario. In Lorena dominavano gli influssi cluniacensi e, anche se Goffredo rimase fedele all’imperatore, è possibile che l’insegnamento di Cluny cosi fortemente favorevole al papato, cominciasse a turbare la sua coscienza. La sua amministrazione in Lorena non fu molto efficiente e sembra che si dubitasse della possibilità che Enrico continuasse a servirsi di lui. Egli rispose perciò all’appello per la crociata in parte perché incerto circa il proprio futuro in Lorena, in parte per inquietudine religiosa, in parte per sincero entusiasmo. Fece i suoi preparativi con cura estrema. Dopo avere raccolto denaro ricattando gli ebrei, vendette le sue proprietà di Rosay e Stenay sulla Mosa, diede in pegno il suo castello di Bouillon al vescovo di Liegi e poté cosi equipaggiare un esercito molto numeroso. La consistenza delle sue truppe ed il suo precedente alto incarico diedero a Goffredo un prestigio reso anche più grande dai suoi modi cortesi e dal suo bell’aspetto; era infatti alto, bello, ben fatto, con la barba e i capelli biondi, il ritratto ideale di un cavaliere nordico. Come soldato, però, era mediocre, e la sua personalità veniva oscurata dalla presenza del fratello minore, Baldovino. Anche i due fratelli di Goffredo avevano preso la croce. Il maggiore, Eustachio III, conte di Boulogne, era un crociato senza entusiasmo, sempre ansioso di tornare alle sue ricche terre che si estendevano sulle due sponde della Manica. Il suo contributo di soldati fu molto inferiore a quello di

Goffredo, che egli era ben lieto di considerare perciò come capo; probabilmente viaggiò per conto suo attraverso l’Italia. Il fratello minore, Baldovino, che accompagnava Goffredo, era un tipo molto diverso. Era stato destinato alla carriera ecclesiastica e perciò non gli era stata assegnata nessuna delle proprietà della famiglia, ma, sebbene la sua educazione alla grande scuola di Reims gli avesse lasciato un durevole gusto per la cultura, il suo temperamento non era quello di un uomo di chiesa. Tornò alla vita laica e prestò servizio agli ordini di suo fratello Goffredo in Lorena. I due fratelli formavano uno stridente contrasto: Baldovino era ancora più alto di Goffredo, i suoi capelli erano scuri quanto quelli dell’altro erano chiari, ma la sua pelle era bianchissima; mentre Goffredo era di modi cortesi, Baldovino era altero e freddo; Ì gusti di Goffredo erano semplici, ma Baldovino, sebbene potesse sopportare grandi privazioni, amava il fasto e il lusso; la vita privata dell’uno era morigerata, quella dell’altro licenziosa. Baldovino accolse con gioia la crociata: la sua terra natale non gli offriva prospettive per il futuro, ma in Oriente poteva forse procurarsi un regno e quando parti prese con sé la moglie normanna, Godvere di Tosni, e i propri figli: non intendeva tornare. A Goffredo e ai suoi fratelli si unirono molti importanti cavalieri della regione vallone e della Lotaringia: il loro cugino Baldovino di Rethel, signore di Le Bourg, Baldovino II, conte di Hainault, Rainaldo, conte di Toul, Garnier di Grez, Dudo di Konz-Saarburg, Baldovino di Stavelot, Pietro di Stenay e i fratelli Enrico e Goffredo di Esch3. Forse proprio per l’imbarazzo che, come sostenitore dell’Impero, provava verso il papato, Goffredo decise di non passare attraverso l’Italia, per la strada che gli altri capi crociati pensavano di prendere, ma di attraversare l’Ungheria, seguendo non soltanto l’esempio delle crociate popolari ma - secondo la leggenda che a quel tempo si stava diffondendo in occidente - anche quello del suo antenato Carlo Magno nel suo pellegrinaggio a Gerusalemme. Lasciò la Lorena alla fine di agosto e dopo una marcia di poche settimane lungo il Reno ed il Danubio, ai primi di ottobre giunse alla frontiera ungherese sul fiume Leitha. Da lì inviò una ambasceria guidata da Goffredo di Esch, che aveva già avuto rapporti con la corte ungherese, a re Coloman per chiedergli il permesso di attraversare il suo territorio. Coloman aveva di recente subito troppo gravi danni ad opera dei crociati per accogliere con piacere una nuova invasione. Trattenne l’ambasceria per otto giorni, poi annunciò che si sarebbe incontrato con Goffredo a Sopron per un colloquio. Goffredo giunse con alcuni dei suoi cavalieri e venne invitato a trascorrere alcuni giorni alla corte ungherese. Le impressioni che Coloman ricevette durante questa visita lo decisero a permettere il passaggio dell’esercito lorenese attraverso l’Ungheria, a condizione che Baldovino, giudicato il più pericoloso di tutti, venisse lasciato in ostaggio, con la moglie e i figli. Quando Goffredo tornò al suo esercito, Baldovino in un primo momento rifiutò di consegnarsi, poi acconsentì e le truppe occidentali penetrarono nel regno a Sopron. Coloman promise di approvvigionarli a prezzi ragionevoli e Goffredo inviò araldi in giro fra l’esercito per annunziare che qualunque atto di violenza sarebbe stato punito con la morte. Dopo aver preso queste precauzioni i crociati attraversarono in pace l’Ungheria, mentre il re ed il suo esercito li mantenevano sotto rigorosa sorveglianza per tutta la durata del viaggio. Trascorsi tre giorni a Mangjeloz, vicino alla frontiera bizantina, per raccogliere di nuovo vettovaglie, Goffredo raggiunse Zemun verso la fine di novembre e trasportò ordinatamente le sue truppe oltre la Sava, a Belgrado. Non appena si trovarono tutti oltre il fiume, gli ostaggi vennero rilasciati. Le autorità bizantine, probabilmente preavvisate dagli ungheresi, erano pronte ad accoglierlo. Belgrado stessa era ancora deserta in seguito al saccheggio effettuato da Pietro cinque mesi prima, ma una guardia di frontiera si precipitò a Niš, dove risiedeva il governatore Nicetas e dove era in attesa una scorta per Goffredo. La scorta partì subito e lo incontrò nella foresta serba, a metà strada

fra Niš e Belgrado; le misure per l’approvvigionamento dell’esercito erano già state prese ed esso avanzò senza disordini attraverso la penisola balcanica. A Filippopoli lo raggiunse la notizia dell’arrivo di Ugo di Vermandois a Costantinopoli e dei magnifici doni che egli ed i suoi compagni avevano ricevuto. Baldovino di Hainault ed Enrico di Esch ne furono cosi colpiti che decisero di affrettarsi verso la capitale precedendo l’esercito per assicurarsi la loro parte di regali prima dell’arrivo degli altri. Ma le voci riferivano anche, non del tutto senza fondamento, che Ugo era tenuto prigioniero; Goffredo ne fu piuttosto turbato4. Verso il 12 dicembre l’esercito di Goffredo si fermò a Selymbria, sul Mar di Marinara e all’improvviso la disciplina, che fino a quel momento era stata eccellente, venne rotta bruscamente e per otto giorni i crociati devastarono la campagna. La causa di questi disordini non è nota, ma Goffredo cercò di giustificarli come rappresaglia per l’imprigionamento di Ugo. L’imperatore Alessio inviò prontamente due francesi al suo servizio, Radolfo Peeldelau e Ruggero, figlio di Dagoberto, per protestare presso Goffredo e persuaderlo a continuare pacificamente il suo cammino. Essi riuscirono nel loro intento e il 23 dicembre l’esercito di Goffredo giunse a Costantinopoli e si accampò, su richiesta dell’imperatore, fuori della città, lungo le sponde all’estremità del Corno d’Oro. L’arrivo di Goffredo con un esercito numeroso e ben equipaggiato creava al governo imperiale un problema difficile. Proseguendo nella sua politica Alessio desiderava assicurarsi l’obbedienza di Goffredo e poi allontanarlo il più presto possibile dai pericolosi dintorni della capitale; è dubbio che egli sospettasse veramente, come insinua sua figlia Anna, che Goffredo nutrisse mire su Costantinopoli, ma i sobborghi della città avevano già subito i gravissimi danni provocati dai seguaci di Pietro l’Eremita ed era pericoloso esporli all’attenzione di un esercito che si era dimostrato altrettanto indisciplinato e molto meglio armato. Ma l’imperatore doveva prima assicurarsi il giuramento di omaggio di Goffredo e perciò, non appena questi si fu sistemato nel suo accampamento, inviò Ugo di Vermandois a visitarlo e a cercare di persuaderlo a un incontro. Ugo, lungi dall’essere risentito per il modo in cui veniva trattato dall’imperatore, accettò di buon grado l’incarico. Goffredo rifiutò l’invito dell’imperatore: si sentiva a disagio e l’atteggiamento di Ugo lo lasciava perplesso. Le sue truppe erano già entrate in contatto con i resti delle forze di Pietro, che per lo più giustificavano il loro recente disastro attribuendolo al tradimento dell’imperatore, e Goffredo subiva l’influsso della loro propaganda. Come duca della Bassa Lorena, aveva già prestato un giuramento personale di obbedienza all’imperatore Enrico IV e forse pensava che questo gli precludesse un giuramento all’imperatore rivale d’Oriente; inoltre non desiderava compiere nessun passo importante senza prima essersi consultato con gli altri capi crociati che, come sapeva, sarebbero arrivati ben presto. Ugo tornò al palazzo senza alcuna risposta per Alessio. L’imperatore s’adirò e imprudentemente pensò di ridurre Goffredo alla ragione tagliandogli i rifornimenti promessi per le sue truppe. Mentre Goffredo esitava, Baldovino cominciò subito a predare i sobborghi, finché Alessio non promise di togliere il blocco. Al tempo stesso Goffredo acconsentì a trasportare il suo accampamento lungo il Corno d’Oro a Pera, dove sarebbe stato meglio riparato contro i venti invernali e dove la polizia imperiale avrebbe potuto sorvegliarlo più strettamente. Per qualche tempo nessuno dei due contendenti prese altre iniziative: l’imperatore riforniva a sufficienza le truppe occidentali e da parte sua Goffredo provvedeva a mantenere la disciplina. Alla fine di gennaio Alessio invitò nuovamente Goffredo a rendergli visita, ma questi era ancora riluttante a compromettersi prima che lo avessero raggiunto gli altri capi crociati. Inviò a palazzo suo cugino Baldovino di Le Bourg, Conon di Montaigu e Goffredo di Esch per sentire le

proposte dell’imperatore, ma al loro ritorno non diede alcuna risposta. Alessio non voleva provocare Goffredo per timore che questi devastasse di nuovo i sobborghi e, dopo essersi assicurato che i lorenesi non avevano nessuna comunicazione con il mondo esterno, attese che Goffredo s’impazientisse e scendesse a patti. Alla fine di marzo Alessio apprese che altri eserciti crociati sarebbero giunti presto a Costantinopoli; si vide quindi costretto a concludere la faccenda e cominciò a ridurre i rifornimenti inviati all’accampamento crociato. Dapprima rifiutò di consegnare il foraggio per i cavalli, poi, all’avvicinarsi della Settimana Santa, il pesce e infine il pane; i crociati risposero con razzie quotidiane nei villaggi vicini e vennero perciò a conflitto con le truppe peceneghe che avevano funzioni di polizia in quel distretto. Per vendetta Baldovino tese un’imboscata alla polizia: sessanta uomini vennero catturati e molti di loro furono messi a morte. Incoraggiato da questo piccolo successo e sentendosi ormai impegnato a combattere, Goffredo decise di muovere il campo e di attaccare la città stessa. Dopo avere accuratamente saccheggiato e incendiato le case di Pera, dove i suoi uomini erano stati alloggiati, fece attraversare loro un ponte all’estremità del Corno d’Oro, li schierò fuori delle mura e cominciò ad attaccare la porta del quartiere del palazzo di Blachernae. Non è chiaro se volesse fare qualcosa di più che esercitare una certa pressione sull’imperatore, ma i greci sospettarono che egli mirasse ad impadronirsi dell’Impero. Era il giovedì della Settimana Santa, il 2 aprile, e Costantinopoli era del tutto impreparata a un’aggressione simile; vi furono segni di panico nella città, che si calmò soltanto per la presenza e il sangue freddo dell’imperatore. Alessio era profondamente scandalizzato dalla necessità di combattere in un giorno cosi santo e ordinò alle sue truppe di fare una semplice dimostrazione fuori delle porte senza giungere a scontri con il nemico, mentre gli arceri sulle mura furono avvertiti di tirare sopra le teste. I crociati non insistettero nel loro attacco e si ritirarono ben presto, dopo avere ucciso sette bizantini. Il giorno seguente Ugo di Vermandois andò di nuovo a protestare con Goffredo, che replicò accusandolo di servilismo per avere accettato cosi prontamente il vassallaggio. Quando più tardi nella giornata giunsero gli inviati di Alessio per suggerire che le truppe di Goffredo passassero in Asia anche prima che questi prestasse giuramento, i crociati si avanzarono per attaccarli senza aspettare di udire che cosa avevano da dire. Alessio decise di farla finita e inviò altri uomini per fronteggiare l’assalto, ma i crociati erano troppo inferiori agli agguerriti soldati imperiali e dopo un breve combattimento volsero le spalle e fuggirono. La sconfitta indusse finalmente Goffredo a riconoscere la sua debolezza ed egli acconsentì sia a prestare il giuramento di fedeltà, sia a trasferire il suo esercito oltre il Bosforo. La cerimonia del giuramento ebbe luogo probabilmente due giorni dopo, la domenica di Pasqua. Goffredo, Baldovino e i più importanti signori del loro seguito giurarono di riconoscere l’imperatore come sovrano di tutte le conquiste che avrebbero fatto e di consegnare ai funzionari imperiali tutte le terre riconquistate, già appartenute all’Impero. Essi ricevettero allora enormi doni in denaro e vennero trattenuti a un banchetto dall’imperatore; non appena concluse le cerimonie, Goffredo e le sue truppe vennero trasportate via mare a Calcedonia e proseguirono verso un accampamento a Pelecanum, sulla strada per Nicomedia5. Alessio ebbe pochissimo tempo a propria disposizione, perché un esercito formato - sembra - da diversi vassalli di Goffredo, che avevano preferito compiere il viaggio attraverso l’Italia, con ogni probabilità sotto la guida del conte di Toul, era arrivato nei sobborghi della città e rimaneva in attesa sulle sponde del Mar di Marmara, vicino a Sosthenium. Le nuove schiere crociate si mostravano non meno prepotenti di quelle di Goffredo e desideravano vivamente attendere l’arrivo di Boemondo e dei normanni, che sapevano a poca distanza dietro di loro, mentre l’imperatore era deciso ad

impedire che si ricongiungessero con Goffredo; ma fu soltanto dopo qualche combattimento che riuscì a controllare i loro movimenti. Non appena Goffredo fu sicuramente al di là del Bosforo, egli li trasportò per mare alla capitale, dove si unirono ad altri piccoli gruppi di crociati sbandatisi nell’attraversare i Balcani. Occorse tutto il tatto dell’imperatore e molti doni per persuadere i loro capi a prestare il giuramento di vassallaggio. Quando infine acconsentirono, Alessio diede risalto alla solennità del momento, inducendo Goffredo e Baldovino ad assistere alla cerimonia. I signori occidentali erano riluttanti e turbolenti; uno di loro si sedette sul trono dell’imperatore, e Baldovino lo rimproverò aspramente, ricordandogli che ne era appena diventato vassallo. Lo invitò, quindi, a rispettare gli usi del paese, ma l’occidentale borbottò iratamente che era villano da parte dell’imperatore sedere mentre tanti prodi capitani rimanevano in piedi. Alessio, che aveva udito per caso l’osservazione e se l’era fatta tradurre, chiese di parlare con il cavaliere e quando questi cominciò a vantarsi del suo insuperato valore in singolar tenzone, lo consigliò gentilmente a tentare altre tattiche quando avrebbe combattuto contro i turchi6. L’incidente caratterizza le relazioni fra l’imperatore e i franchi. I rozzi cavalieri venuti dall’Occidente erano inevitabilmente impressionati dallo splendore del palazzo, dal suo forbito, accurato cerimoniale, dai modi tranquilli e raffinati dei cortigiani, ma se ne sentivano offesi, e il loro orgoglio ferito li rendeva indisciplinati e sgarbati come bambini capricciosi. Dopo aver prestato giuramento, i cavalieri e i loro uomini vennero trasportati oltre lo stretto affinché si ricongiungessero con l’esercito di Goffredo sulla costa asiatica. L’imperatore aveva fatto appena in tempo: il 9 aprile Boemondo di Taranto arrivò a Costantinopoli. In un primo tempo i normanni dell’Italia meridionale non avevano prestato molta attenzione alla predicazione della crociata fatta da Urbano, a causa di un’intermittente guerra civile che si trascinava fin dalla morte di Roberto il Guiscardo. Questi aveva divorziato dalla sua prima moglie, la madre di Boemondo, e aveva lasciato il suo ducato di Puglia al figlio avuto da Sigelgaita, Ruggero Borsa. Boemondo si ribellò contro il fratello e riuscì a impadronirsi di Taranto e della Terra d’Otranto, prima che il loro zio, Ruggero di Sicilia, potesse stabilire alla meno peggio una precaria tregua fra di loro. Boemondo non accettò mai la tregua come definitiva e continuò nascostamente a creare fastidi a Ruggero Borsa; ma nell’estate del 1096 l’intera famiglia era andata insieme a punire la città ribelle di Amalfi. I decreti papali sulla crociata erano già stati pubblicati e piccoli gruppi di italiani meridionali avevano varcato il mare diretti in Oriente, ma soltanto l’arrivo in Italia degli entusiastici eserciti di crociati francesi fece capire a Boemondo l’importanza del movimento. Egli si rese conto allora che poteva sfruttarlo a proprio vantaggio: suo zio, Ruggero di Sicilia, non gli avrebbe mai permesso di annettersi l’intero ducato di Puglia e perciò avrebbe fatto meglio a cercarsi un regno nel Levante. Il fervore dei crociati francesi contagiò le truppe che combattevano davanti a Amalfi e Boemondo le incoraggiò: annunciò che anch’egli si sarebbe fatto crociato e invitò tutti i buoni cristiani a unirsi a lui. Davanti al suo esercito riunito si tolse il suo prezioso mantello scarlatto e lo strappò in pezzi per farne croci per i suoi capitani; i suoi vassalli si affrettarono a seguire il suo esempio e con loro molti vassalli di suo fratello e di suo zio di Sicilia, che fu lasciato a lamentarsi del fatto che il movimento crociato lo aveva privato del suo esercito7. Il nipote di Boemondo, Guglielmo, parti subito con i crociati francesi, ma lo zio aveva bisogno di un certo tempo per preparare le sue forze. Affidò i suoi possedimenti, con garanzie, alle cure di suo fratello e raccolse abbastanza denaro per pagare le spese di tutti quelli che partivano con lui. La spedizione salpò da Bari in ottobre: con Boemondo c’erano suo nipote Tancredi, fratello maggiore di Guglielmo, figlio di sua sorella Emma e del marchese Oddone; i suoi cugini Riccardo8 e Rainolfo di Salerno ed il figlio di quest’ultimo, Riccardo; Goffredo, conte di Rossignuolo e i suoi fratelli;

Roberto di Ansa, Ermanno di Canne, Honfroi di Monte Scabioso, Alberedo di Cagnano e il vescovo Gerardo di Ariano, dei normanni di Sicilia, mentre fra i normanni francesi che si unirono a Boemondo vi furono Roberto di Sourdeval e Boel di Chartres. Il suo esercito era più piccolo di quello di Goffredo, ma era ben equipaggiato e ben addestrato9. La spedizione sbarcò in Epiro in vari punti della costa fra Durazzo e Valona e si radunò in un villaggio chiamato Dropoli, nella valle del fiume Viusa. Le disposizioni per lo sbarco erano senza dubbio state prese dopo consultazioni con le autorità bizantine di Durazzo, che desideravano probabilmente evitare ulteriori consumi delle risorse delle città lungo la via Egnatia, ma la scelta della strada che il suo esercito doveva percorrere fu probabilmente fatta da Boemondo. Le sue campagne di quindici anni prima gli avevano dato una certa conoscenza della regione a sud della strada principale e può darsi che egli sperasse di evitare la sorveglianza dei bizantini prendendo una strada piuttosto insolita. Giovanni Comneno non poteva privarsi delle truppe di cui disponeva e Boemondo poté cosi iniziare la sua marcia senza una scorta della polizia imperiale. Non sembra però che ci fossero sentimenti ostili, poiché i normanni vennero riforniti con grandi quantità di provviste, mentre Boemondo fece chiaramente intendere ai suoi uomini che sarebbero passati attraverso un paese cristiano e che dovevano trattenersi dai saccheggi e dai disordini. Avanzando in linea retta sui passi del Pindo, l’esercito giunse a Castoria, nella Macedonia occidentale, poco prima di Natale. È impossibile tracciare la strada che Boemondo percorse, ma non può essere stata facile e deve averlo portato in zone a più di milleduecento metri sul livello del mare. A Castoria cercò di procurarsi delle provviste, ma gli abitanti non vollero cedere nulla delle loro magre scorte a questi visitatori inattesi che essi ricordavano come gli spietati nemici di pochi anni prima. Perciò l’esercito s’impadronì del bestiame di cui aveva bisogno, insieme con cavalli ed asini poiché molti dei loro animali da carico erano probabilmente morti sui passi del Pindo. Trascorsero il Natale a Castoria, poi Boemondo condusse i suoi uomini a oriente, verso il fiume Vardar; si fermarono per attaccare un villaggio di eretici pauliciani che si trovava vicino alla loro strada, bruciando le case con i loro abitanti, e finalmente verso la metà di febbraio raggiunsero il fiume, dopo aver impiegato circa sette settimane per coprire una distanza di poco più di un centinaio di miglia10. La strada di Boemondo lo portò probabilmente a Vodena (Edessa), dove raggiunse la via Egnatia e da lì in poi fu accompagnato da una scorta di soldati peceneghi, che avevano ricevuto dall’imperatore i soliti ordini, di impedire cioè incursioni e sbandamenti e di non permettere che i crociati si fermassero per più di tre giorni nello stesso posto. Il grosso dell’esercito attraversò il Vardar senza indugio, ma il conte di Rossignuolo ed i suoi fratelli si trattennero sulla sponda occidentale con un piccolo gruppo, e perciò i peceneghi li attaccarono per sollecitarne la marcia. Alla notizia della battaglia, Tancredi riattraversò immediatamente il fiume per soccorrerli, respinse i peceneghi e fece alcuni prigionieri che condusse davanti a Boemondo. Questi li interrogò e quando seppe che eseguivano ordini imperiali li lasciò subito andare: la sua politica era di comportarsi in modo rigorosamente corretto verso l’imperatore11. Per il desiderio di agire correttamente egli aveva già mandato innanzi alcuni ambasciatori all’imperatore, probabilmente subito dopo il suo sbarco in Epiro. Questi inviati, di ritorno da Costantinopoli, lo incontrarono dopo che l’esercito ebbe oltrepassato le mura di Tessalonica e si trovò sulla strada per Serres; era con loro un alto funzionario imperiale che entrò ben presto in cordiali rapporti con Boemondo. L’esercito venne rifornito di viveri con abbondanza e in cambio Boemondo non soltanto promise di non cercare di penetrare in nessuna delle città che si trovavano

sul suo cammino, ma acconsentì anche a restituire tutte le bestie che i suoi uomini avevano preso durante il viaggio. I suoi seguaci avrebbero voluto più di una volta predare la campagna, ma Boemondo lo proibì severamente. L’esercito giunse a Roussa (la moderna Keshan), in Tracia, il 1° aprile e Boemondo decise allora di proseguire in fretta per Costantinopoli per scoprire quali accordi venissero stipulati fra l’imperatore e i capi occidentali già arrivati. Lasciò i suoi uomini al comando di Tancredi che li condusse in una fertile vallata lontana dalla strada principale, dove essi trascorsero le feste pasquali. Beomondo giunse a Costantinopoli il 9 aprile; venne alloggiato fuori dalle mura, nel monastero dei Santi Cosma e Damiano, ed il giorno seguente fu ammesso alla presenza dell’imperatore12. Ad Alessio, Boemondo sembrava di gran lunga il più pericoloso dei crociati. Alcune esperienze avevano insegnato ai bizantini che i normanni erano nemici formidabili, ambiziosi, astuti e senza scrupoli, e Boemondo aveva mostrato in altre campagne di esserne un degno capo. Le sue truppe erano ben organizzate, ben equipaggiate e ben disciplinate ed egli godeva della loro completa fiducia. Come stratega era forse troppo sicuro di sé e non sempre prudente, ma come diplomatico era sottile e persuasivo ed era un lungimirante uomo politico. Il suo aspetto fisico era imponente: Anna Comnena, che lo conobbe e lo odiò appassionatamente, non poté non ammettere il suo fascino e scrisse con entusiasmo della sua prestanza. Era estremamente alto e sebbene avesse ormai più di quarant’anni, aveva il fisico e la carnagione di un giovane, con le spalle ampie e i fianchi stretti, la pelle chiara e le guance rubiconde; portava i suoi capelli biondi più corti di quella che era la moda fra i cavalieri occidentali ed era sbarbato. Lievemente curvo fin dall’infanzia, mostrava tuttavia di possedere grande forza e salute. Anna afferma che c’era qualcosa di duro nella sua espressione e di sinistro nel suo sorriso, ma poiché ella era sensibile alla bellezza umana, come i greci di tutti i tempi, non poteva trattenere la sua ammirazione13. Alessio stabilì dapprima di vedere Boemondo da solo, per cercare di scoprire quale fosse il suo atteggiamento, ma avendolo trovato assolutamente ben disposto e pronto a collaborare, ammise alle discussioni anche Goffredo e Baldovino che erano ancora nel palazzo. La correttezza del comportamento di Boemondo era deliberata: egli sapeva, molto meglio degli altri crociati, che Bisanzio era ancora molto potente e che senza il suo aiuto non si sarebbe concluso nulla. Mettersi in lite con il governo avrebbe portato soltanto al disastro, mentre un saggio uso della sua alleanza poteva volgersi a suo proprio vantaggio. Egli desiderava assumere la direzione della campagna, ma non aveva ricevuto nessuna autorità dal papa per farlo ed avrebbe dovuto lottare contro la rivalità degli altri capi crociati. Se avesse potuto ottenere un incarico ufficiale dall’imperatore, si sarebbe trovato in una posizione da cui avrebbe potuto dirigere le operazioni; avrebbe controllato le trattative dei crociati con l’imperatore, sarebbe stato il funzionario a cui costoro avrebbero consegnato le terre riconquistate per l’Impero, insomma sarebbe stato il perno di tutta l’alleanza cristiana. Senza esitazione prestò il giuramento di fedeltà all’imperatore e poi suggerì che avrebbe potuto essere designato alla carica di gran domestico dell’Oriente, cioè di comandante in capo di tutte le forze imperiali in Asia. La richiesta imbarazzò Alessio: egli temeva e diffidava di Boemondo, ma desiderava conservarne il favore e gli aveva già riservato una generosità ed onori particolari. Continuò quindi a largirgli grandi quantità di denaro; ma tergiversò sulla richiesta. Non era ancora venuto il momento, disse, per fare una simile nomina, che Boemondo avrebbe senza dubbio guadagnato con la sua energia e la sua lealtà. Boemondo dovette accontentarsi di questa vaga promessa, che lo incoraggiò tuttavia ad attenersi alla sua politica di collaborazione. Frattanto Alessio promise di inviare proprie

truppe per accompagnare gli eserciti crociati, di rimborsare loro le spese e di assicurare il vettovagliamento e le comunicazioni14. L’esercito di Boemondo venne allora convocato a Costantinopoli ed il 26 aprile fu trasportato al di là del Bosforo, unendosi a quello di Goffredo a Pelecanum. Tancredi, che avversava e non comprendeva la politica dello zio, attraversò la città di notte con suo cugino Riccardo di Salerno per evitare di dover prestare giuramento15. Lo stesso giorno il conte Raimondo di Tolosa giunse a Costantinopoli e fu ricevuto dall’imperatore. Raimondo IV, conte di Tolosa, normalmente conosciuto come conte di Saint-Gilles dal nome della sua proprietà preferita, era già un uomo d’età avanzata, probabilmente vicino alla sessantina. La sua contea avita era una delle più ricche di Francia ed egli aveva ereditato di recente il marchesato di Provenza, altrettanto ricco. Per il suo matrimonio con la principessa Elvira d’Aragona era imparentato con le case reali di Spagna ed aveva partecipato a parecchie guerre sante contro i musulmani spagnoli. Era l’unico grande nobile con il quale papa Urbano aveva personalmente discusso il suo progetto di crociata ed era stato il primo ad annunciare la sua adesione. Egli considerava perciò, con qualche ragione, di avere diritto al comando militare della spedizione, ma il papa, desideroso di tenere il movimento sotto il proprio controllo spirituale, non aveva mai riconosciuto le sue pretese. Raimondo sperava probabilmente che sarebbe apparsa evidente la necessità di un capo laico e nel frattempo progettò di partire per l’Oriente in compagnia del capo spirituale della spedizione, il vescovo di Le Puy. Raimondo si era fatto crociato al tempo di Clermont, nel novembre del 1095, ma soltanto nell’ottobre successivo fu in grado di lasciare le sue terre. Fece voto di trascorrere il resto dei suoi giorni in Terra Santa, ma può darsi che il voto fosse fatto con riserva poiché, mentre affidò le sue terre di Francia al figlio naturale Bertrando perché le amministrasse, non rinunciò prudentemente ai propri diritti. Sua moglie ed il suo erede legittimo, Alfonso, dovevano accompagnarlo. Egli vendette o impegnò alcune delle sue terre per raccogliere il denaro per la spedizione, ma sembra che abbia mostrato un certo spirito di economia nel provvedere al proprio equipaggiamento. È difficile valutare la sua personalità: le sue azioni lo rivelano vano e ostinato e talvolta avido, ma i suoi modi cortesi colpirono i bizantini che lo trovarono assai più educato dei suoi colleghi; inoltre sembrò loro maggiormente degno di fiducia e più onesto. Anna Comnena, prevenuta in suo favore da avvenimenti successivi, avrebbe lodata la superiorità della sua natura e la purezza della sua vita. Ademaro di Le Puy, che era sicuramente un uomo di alta levatura, lo considerava chiaramente come un degno amico. Parecchi nobili della Francia meridionale si unirono alla crociata di Raimondo, fra loro Rambaldo, conte di Orange, Gastone di Beanti, Gerardo di Rossiglione, Guglielmo di Montpellier, Raimondo di Le Forez e Isoardo di Gap. Ademaro di Le Puy portò con sé i suoi fratelli FrancescoLamberto di Monteil, signore di Peyrins, e Guglielmo-Ugo di Monteil, e tutti i suoi uomini16. La spedizione varcò le Alpi al Monginevro e attraversò tutta l’Italia settentrionale fino all’estremità dell’Adriatico: forse per economia, Raimondo aveva deciso di non compiere la traversata dell’Adriatico, ma di seguirne le sponde orientali attraverso l’Istria e la Dalmazia. Non fu una decisione saggia poiché le strade dalmate erano in pessime condizioni e le popolazioni rozze e ostili. L’Istria venne attraversata senza incidenti, poi per quaranta giorni, d’inverno, l’esercito avanzò faticosamente lungo i rocciosi sentieri dalmati, tormentato di continuo da selvagge tribù slave che si attaccavano alla sua retroguardia. Raimondo stesso rimase con la retroguardia per difenderla e in un’occasione riuscì a salvare i suoi uomini soltanto disponendo attraverso la strada uno sbarramento di prigionieri slavi che aveva catturato e crudelmente mutilati. Era partito ben provvisto

di viveri e nessuno dei suoi uomini peri in viaggio per fame o in battaglia, ma quando infine giunsero a Skodra le scorte erano quasi finite. Raimondo ottenne un colloquio con il principe serbo del luogo, Bodin, che in cambio di preziosi doni concesse ai crociati il permesso di comprare liberamente sui mercati della città. Ma non c’era cibo disponibile e l’esercito dovette proseguire il cammino, mentre aumentavano la fame e la sofferenza, finché ai primi di febbraio raggiunse la frontiera imperiale a nord di Durazzo. Raimondo e Ademaro sperarono allora che le loro difficoltà fossero terminate. Giovanni Comneno accolse i crociati a Durazzo, dove erano in attesa inviati imperiali e una scorta di peceneghi che dovevano condurli lungo la via Egnatia. Raimondo inviò innanzi un’ambasceria a Costantinopoli per annunciare il proprio arrivo e dopo una sosta di pochi giorni a Durazzo l’esercito si rimise in marcia. Il fratello di Ademaro, il signore di Peyrins, venne lasciato indietro perché si rimettesse da una malattia causata dalle privazioni del viaggio. Gli uomini di Raimondo erano turbolenti e indisciplinati e si sentivano offesi per la presenza della milizia pecenega che li sorvegliava da ogni lato, mentre il loro incorreggibile desiderio di saccheggio li portava a frequenti conflitti con la loro scorta. Erano trascorsi soltanto pochi giorni quando, in una di queste scaramucce, furono uccisi due baroni provenzali, e poco dopo lo stesso vescovo di Le Puy, che si allontanò dalla strada, venne ferito e catturato dai peceneghi prima che si rendessero conto di chi egli fosse. Egli venne prontamente riconsegnato all’esercito e sembra che non abbia provato risentimento alcuno per l’incidente, ma i soldati ne furono profondamente scandalizzati e il loro malumore si accrebbe quando anche Raimondo venne attaccato, in circostanze simili, nei pressi di Vodena. A Tessalonica il vescovo di Le Puy lasciò l’esercito, per poter curare adeguatamente le proprie ferite, e vi si trattenne finché suo fratello poté raggiungerlo da Durazzo. Senza la sua influenza moderatrice la disciplina dell’esercito peggiorò, ma non ci furono incidenti seri fino a Roussa, in Tracia. Gli uomini di Boemondo erano stati molto soddisfatti delle accoglienze ricevute in questa città una quindicina di giorni prima, ma, forse perché i cittadini non avevano più provviste da vendere, i soldati di Raimondo si offesero per qualche motivo e al grido di «Tolosa, Tolosa» attaccarono le mura, si aprirono un varco con la forza e saccheggiarono tutte le case. Pochi giorni dopo incontrarono a Rodosto gli ambasciatori di Raimondo di ritorno da Costantinopoli con un inviato dell’imperatore e cordiali messaggi che esortavano Raimondo ad affrettarsi verso la capitale, aggiungendo che anche Boemondo e Goffredo desideravano la sua presenza. Fu probabilmente l’ultima parte del messaggio e il timore di essere assente mentre si prendevano importanti decisioni che indussero Raimondo ad accettare l’invito: lasciò l’esercito e lo precedette in tutta fretta verso Costantinopoli, dove giunse il 21 aprile. Con la sua partenza non rimase nessuno a mantenere la disciplina nell’esercito e questo cominciò subito a predare la campagna. Ma ormai, ad opporglisi non c’era più soltanto una piccola scorta di peceneghi: reggimenti dell’esercito bizantino di stanza nelle vicinanze mossero all’attacco dei razziatori e nella battaglia che seguì gli uomini di Raimondo vennero completamente sconfitti e fuggirono, lasciando le loro armi e il loro bagaglio nelle mani dei bizantini. La notizia del disastro giunse a Raimondo proprio mentre stava per muovere incontro all’imperatore17. Raimondo era stato degnamente accolto a Costantinopoli; era alloggiato in un palazzo appena fuori delle mura, ma venne pregato di andare il più presto possibile a corte, dove gli fu suggerito di prestare il giuramento di vassallaggio. Però le esperienze del suo viaggio e le notizie che aveva appena ricevuto lo avevano messo di cattivo umore ed era perplesso e scontento della situazione che trovò a palazzo. Era suo costante proposito essere riconosciuto capo militare di tutta la spedizione crociata, ma la sua autorità, cosi com’era, veniva dal papa e dai suoi rapporti con il rappresentante

papale, il vescovo di Le Puy. Questi era assente e a Raimondo mancarono sia l’appoggio sia i consigli che questi gli poteva dare. Era riluttante a impegnarsi senza di lui, tanto più che prestare giuramento di obbedienza come avevano fatto gli altri crociati, avrebbe significato la rinunzia al suo speciale rapporto con il papato: si sarebbe ridotto allo stesso livello degli altri. C’era inoltre un altro pericolo: era abbastanza intelligente da accorgersi subito che Boemondo era il suo rivale più pericoloso; questi sembrava godere dei favori particolari dell’imperatore e si mormorava che stesse per essere nominato a un’alta carica imperiale. Prestare giuramento poteva significare per Raimondo non soltanto perdere la priorità, ma anche trovarsi sotto la giurisdizione di Boemondo quale rappresentante dell’imperatore. Dichiarò, quindi, di essere venuto in Oriente per compiere l’opera di Dio e che Dio era il suo solo sovrano, intendendo con ciò che egli era il delegato laico del papa; aggiunse però che, se l’imperatore in persona avesse condotto le truppe cristiane riunite, egli avrebbe servito ai suoi ordini. La concessione mostra che egli non aveva risentimenti contro l’imperatore, ma contro Boemondo. L’imperatore poté rispondere soltanto che sfortunatamente la situazione dell’Impero non gli avrebbe permesso di abbandonare la capitale. Invano gli altri capi occidentali, temendo che il successo di tutta la campagna fosse in pericolo, pregarono Raimondo di cambiare idea. Boemondo, che sperava ancora di ottenere il comando imperiale ed era ansioso di compiacere Alessio, si spinse fino a dire che avrebbe appoggiato l’imperatore, se Raimondo fosse entrato apertamente in conflitto con lui, mentre persino Goffredo metteva in evidenza il danno che questo suo atteggiamento procurava alla causa cristiana. Alessio si mantenne estraneo alle discussioni, sebbene non offrisse a Raimondo doni simili a quelli che aveva dato agli altri principi. Infine, il 26 aprile, Raimondo acconsentì a prestare un giuramento modificato, con il quale prometteva di rispettare la vita e l’onore dell’imperatore e di vegliare a che nulla fosse fatto, da lui personalmente o dai propri uomini, che potesse risultare a suo danno. Questo tipo di giuramento non era insolito per i vassalli della Francia meridionale e Alessio ne fu soddisfatto. Appena concluse queste trattative Boemondo e il suo esercito passarono in Asia; nel frattempo l’esercito di Raimondo si era radunato, piuttosto umiliato, a Rodosto, dove attese l’arrivo del vescovo di Le Puy che doveva condurlo a Costantinopoli. Dell’attività di Ademaro nella capitale non sappiamo nulla: presumibilmente si incontrò con i più importanti ecclesiastici greci ed ebbe certamente un’udienza dall’imperatore. Questi incontri furono molto amichevoli; può darsi che sia intervenuto anche per riconciliare Raimondo e Alessio, poiché i loro rapporti migliorarono rapidamente. È probabile però che la partenza di Boemondo sia stata di maggior giovamento: l’imperatore poté allora incontrarsi con Raimondo in privato e spiegargli che anch’egli non aveva simpatia per i normanni e che Boemondo non avrebbe mai ricevuto di fatto un incarico imperiale. Raimondo trasportò il suo esercito al di là del Bosforo due giorni dopo aver prestato giuramento, ma tornò per trascorrere a corte un paio di settimane. Quando parti era in cordiali rapporti con Alessio, in cui egli sapeva ora di avere un potente alleato contro Boemondo. Il suo atteggiamento verso l’Impero era cambiato18. Il quarto grande esercito occidentale che doveva prendere parte alla crociata parti dalla Francia settentrionale nell’ottobre del 1096, poco dopo che Raimondo ebbe lasciato la sua casa. Era sotto il comando congiunto di Roberto II, duca di Normandia, di suo cognato Stefano, conte di Blois, e di suo cugino Roberto II, conte delle Fiandre. Roberto di Normandia era il figlio maggiore di Guglielmo il Conquistatore, un uomo sulla quarantina, di modi cortesi, piuttosto inefficiente, ma non privo di coraggio e di fascino personali. Fin dalla morte di suo padre aveva trascinato una guerra saltuaria contro suo fratello Guglielmo II il Rosso, re d’Inghilterra, che aveva invaso parecchie volte il suo ducato. La predicazione della crociata fatta da Urbano lo aveva profondamente commosso e vi aveva

aderito quasi subito. In compenso il papa, mentre si trovava ancora nella Francia settentrionale, aveva potuto riconciliarlo con suo fratello. Ma Roberto impiegò parecchi mesi nei preparativi della partenza e infine poté raccogliere il denaro di cui aveva bisogno soltanto dando in pegno il proprio ducato a Guglielmo per diecimila marchi d’argento. Il documento di conferma del pegno fu firmato nel settembre del 1096, e pochi giorni dopo Roberto parti con il suo esercito per Pontarlier, dove venne raggiunto da Stefano di Blois e da Roberto di Fiandra. Con lui c’erano Oddone, vescovo di Bayeux, Gualtiero, conte di Saint-Valéry, gli eredi dei conti di Montgomery e Mortagne, Gerardo di Gournay, Ugo di Saint-Poi e i figli di Ugo di Grant-Mesnil, e numerosi cavalieri e fanti non soltanto della Normandia, ma anche d’Inghilterra, di Scozia e di Bretagna, sebbene il solo nobile inglese che si sia unito alla crociata, Ralph Guader, conte di Norfolk, si trovasse a quel tempo in esilio e vivesse nei possedimenti di sua madre in Bretagna19. Stefano di Blois non aveva alcun desiderio di partecipare alla crociata, ma aveva sposato Adele, figlia di Guglielmo il Conquistatore, e nella loro famiglia era la moglie che prendeva le decisioni: desiderava che egli andasse ed egli parti. Erano con lui i suoi più importanti vassalli, Everardo di Le Puits, Guerin Gueronat, Caro Asini, Goffredo Guerin ed il suo cappellano Alessandro; nel gruppo si trovava anche l’ecclesiastico Fulcherio di Chartres, il futuro storico. Stefano, uno degli uomini più ricchi di Francia, raccolse il denaro per il viaggio senza grande difficoltà, e affidò le sue terre all’amministrazione competente della moglie20. Il conte delle Fiandre era un po’ più giovane, ma aveva una personalità più forte. Suo padre, Roberto I, era andato in pellegrinaggio a Gerusalemme e durante il viaggio di ritorno aveva per un certo tempo prestato servizio agli ordini dell’imperatore, con il quale era poi rimasto in rapporto fino alla sua morte avvenuta nel 1093. Era perciò naturale che Roberto II desiderasse continuare l’opera del padre contro gli infedeli. Il suo esercito era un po’ meno numeroso di quello di Raimondo o di Goffredo, ma era di alta qualità. Egli era accompagnato da truppe del Brabante, al comando di Baldovino di Alost, conte di Gand. Durante la sua assenza le sue terre dovevano essere amministrate dalla moglie, la contessa Clemenza di Borgogna21. Da Pontarlier gli eserciti riuniti si diressero a sud, verso l’Italia, attraverso le Alpi. Passando per Lucca in novembre vi incontrarono papa Urbano, che vi si tratteneva alcuni giorni nel suo viaggio da Cremona a Roma. Urbano ricevette in udienza i capi e diede loro la sua speciale benedizione. L’esercito proseguì poi per Roma, dove visitò la tomba di san Pietro, ma rifiutò di intervenire nella lotta fra i seguaci di Urbano e quelli dell’antipapa Guiberto che stavano mettendo in subbuglio la città. Da Roma si diresse, attraverso Monte Cassino, nel ducato normanno del sud, dove venne ben accolto dal duca di Puglia, Ruggero Borsa, la cui moglie Adele, vedova del re di Danimarca, era sorella del conte di Fiandra e riconosceva il duca di Normandia come capo della propria famiglia. Ruggero offrì a suo cognato molti preziosi regali, ma questi volle accettare soltanto un dono di sacre reliquie, i capelli della Vergine e le ossa di san Matteo e di san Niccolò, che inviò a sua moglie perché le collocasse nella abbazia di Watten22. Roberto di Normandia e Stefano di Blois decisero di trascorrere comodamente l’inverno in Calabria, ma Roberto di Fiandra proseguì quasi subito per Bari con i suoi uomini e ai primi di dicembre compì la traversata verso l’Epiro; giunse a Costantinopoli senza incidenti spiacevoli quasi nello stesso tempo di Boemondo. Invece il conte di Alost, che aveva tentato di sbarcare nei pressi di Chimarra, più a sud dei porti consentiti per lo sbarco, trovò la via sbarrata da una squadra bizantina: il breve combattimento navale che si svolse allora fu narrato per esteso nella storia di Anna Comnena, poiché il suo protagonista, Mariano Mavrocatalon, figlio dell’ammiraglio, era suo amico.

Nonostante il valore di un prete latino, la cui bellicosa indifferenza per il proprio abito scandalizzò i bizantini, la nave brabantina fu abbordata e catturata, e il conte e i suoi uomini vennero sbarcati a Durazzo23. Il gruppo fiammingo non fece apparentemente alcuna difficoltà a proposito del giuramento di obbedienza ad Alessio; il conte Roberto si trovava fra i principi che esortavano Raimondo ad acconsentire24. Roberto di Normandia e Stefano di Blois si attardarono nell’Italia meridionale fino a primavera; la loro mancanza di entusiasmo influì anche sui loro seguaci, molti dei quali cominciarono a tornare vagabondando verso casa loro. Finalmente, in marzo, l’esercito si diresse a Brindisi ed il 5 aprile si preparò ad imbarcarsi. Sfortunatamente la prima nave che salpò si capovolse ed affondò, provocando la morte di circa quattrocento passeggeri con i loro cavalli e muli, e molte casse di denaro. Se la scoperta che i cadaveri gettati sulla spiaggia erano miracolosamente segnati da croci impresse sulle scapole, era motivo di edificazione per i fedeli, non impedì a molta gente più timorosa di abbandonare la spedizione. Ma il grosso dell’esercito s’imbarcò senza incidenti e dopo un viaggio tempestoso di quattro giorni sbarcò a Durazzo. Le autorità bizantine li accolsero bene e diedero loro una scorta che li conducesse a Costantinopoli lungo la via Egnatia. Il viaggio trascorse piacevolmente, con l’unica eccezione di una disgrazia avvenuta mentre stavano attraversando un corso d’acqua nel Pindo, quando un’improvvisa inondazione travolse parecchi pellegrini. Dopo una sosta di quattro giorni davanti alle mura di Tessalonica, giunsero a Costantinopoli ai primi di maggio. Un accampamento venne allestito per l’esercito appena fuori delle mura; a gruppi di cinque o sei per volta i crociati vennero ammessi tutti i giorni nella città per visitarne le bellezze e adorare nei suoi santuari. I primi eserciti crociati erano stati ormai tutti trasferiti di là dal Bosforo e questi ritardatari non incontrarono nessun malcontento che turbasse i loro rapporti con i bizantini: essi furono presi d’ammirazione per la bellezza e la magnificenza della città e godettero il riposo e le comodità che essa offriva loro; erano grati per la distribuzione ordinata dall’imperatore di monete e di abiti di seta e per il cibo ed i cavalli che egli forniva loro. I loro capi prestarono subito il giuramento di obbedienza all’imperatore e furono ricompensati con magnifici doni. Stefano di Blois, scrivendo il mese successivo alla moglie con la quale manteneva una doverosa corrispondenza, andava in estasi per l’accoglienza ricevuta dall’imperatore. Egli rimase a palazzo per dieci giorni ed Alessio lo trattò come un figlio, dandogli molti buoni consigli, molti meravigliosi regali ed offrendosi di educare il suo figliolo minore. Stefano fu colpito soprattutto dalla generosità dell’imperatore verso tutti i crociati, quale che fosse il loro rango, e dalla larghissima ed efficiente organizzazione di rifornimenti per le truppe che si trovavano già al campo. «Vostro padre, amore mio, - egli scrisse, alludendo a Guglielmo il Conquistatore, - faceva molti grandi regali; ma era quasi nulla paragonato a quest’uomo». L’esercito trascorse un paio di settimane a Costantinopoli prima di venire trasportato in Asia. Perfino la traversata del Bosforo piacque a Stefano, che aveva sentito parlare dei pericoli dello stretto, che non trovò invece più rischioso della Marna o della Senna. Essi avanzarono lungo il golfo di Nicomedia, oltrepassando la città, per unirsi con i principali eserciti crociati che già avevano iniziato l’assedio di Nicea25. Alessio poteva respirare di nuovo. Egli aveva desiderato mercenari occidentali, e invece gli erano stati inviati numerosi eserciti, ciascuno con i propri capi. Nessun governo desidera veramente che una moltitudine di forze alleate indipendenti invada il suo territorio, specialmente se esse si trovano a un livello di civiltà più basso. Bisognava rifornirle di cibo ed impedire scorrerie e saccheggi. Sulla effettiva consistenza degli eserciti crociati si possono soltanto fare delle congetture,

poiché le valutazioni medievali sono sempre esagerate. Ma la plebaglia di Pietro l’Eremita, inclusi i non combattenti, s’avvicinava probabilmente alle ventimila unità, mentre ognuno dei principali eserciti crociati, quello di Raimondo, quello di Goffredo e quello della Francia settentrionale, contava molto più di diecimila persone, inclusi i non combattenti. Quello di Boe-mondo era un po’ più piccolo e vi erano inoltre dei gruppi minori. Ma in tutto da sessanta a centomila persone devono essere entrate nell’Impero, provenienti dall’Occidente, fra l’estate del 1096 e la primavera del 109726. Nel complesso, le disposizioni prese dall’imperatore nei loro riguardi ebbero successo, nessun crociato dovette soffrire per mancanza di viveri durante la marcia attraverso i Balcani. Le uniche incursioni fatte per procurarsi cibo furono quelle di Gualtiero Sans-Avoir a Belgrado e di Pietro a Bela Palanka, entrambe in circostanze eccezionali, e quella di Boemondo a Castoria, quando viaggiava in pieno inverno lungo una strada malagevole. Era stato impossibile impedire piccole scorrerie e uno o due attacchi irresponsabili contro le città, poiché Alessio aveva truppe insufficienti allo scopo, ma i suoi squadroni peceneghi, con la loro cieca, inflessibile obbedienza agli ordini, si dimostrarono un’efficace forza d’ordine, anche se erano causa d’irritazione per i crociati. Per parte loro, i suoi inviati speciali trattarono di solito con molto tatto i principi occidentali. Il crescente successo dei metodi dell’imperatore è mostrato dal pacifico passaggio dell’ultimo esercito, composto da francesi del nord, una schiera indisciplinata, guidata da capi deboli e incompetenti. A Costantinopoli Alessio aveva ottenuto un giuramento di obbedienza da tutti i principi, ad eccezione di Raimondo, con il quale aveva raggiunto un accordo personale. Egli non si faceva nessuna illusione a proposito del reale valore del giuramento e della sua osservanza da parte di coloro che l’avevano prestato; tuttavia questo atto gli dava almeno un vantaggio giuridico, che avrebbe potuto dimostrarsi importante. Non era stato facile ottenere questo risultato, poiché, sebbene i capi più saggi, come Boemondo, e osservatori intelligenti come Fulcherio di Chartres, capissero la necessità della collaborazione con Bisanzio, ai cavalieri minori ed ai soldati semplici il giuramento sembrava un’umiliazione e persino un tradimento27. Essi erano stati prevenuti contro i bizantini dalla fredda accoglienza ricevuta dalle popolazioni delle campagne, che essi pensavano di venire a salvare. Costantinopoli, l’enorme, splendida metropoli, con tutte le sue ricchezze, la sua industriosa popolazione di mercanti e fabbricanti, i suoi nobili raffinati nei loro abiti civili, e le grandi dame riccamente vestite e imbellettate, con i loro seguiti di eunuchi e di schiavi, suscitava in loro disprezzo misto a uno sgradevole sentimento’ di inferiorità. Essi non potevano comprendere né la lingua né gli usi del paese e persino i servizi religiosi erano loro estranei. I bizantini ricambiavano la loro avversione. Per i cittadini della capitale questi rozzi e indisciplinati briganti, accampati per tanto tempo nei loro sobborghi, erano un irritante fastidio, mentre l’atteggiamento delle popolazioni delle campagne appare chiaramente da una lettera scritta da Teofilatto, arcivescovo di Bulgaria, dalla sua sede di Ocrida, sulla via Egnatia. Sebbene fosse notoriamente di larghe vedute verso l’Occidente, egli parla dei disordini provocati dal passaggio dei crociati attraverso la sua diocesi, pur aggiungendo che egli e la sua gente stavano ormai imparando a portarne il peso con pazienza28. L’inizio della crociata non era di buon auspicio per le buone relazioni fra l’Oriente e l’Occidente. Nondimeno Alessio era probabilmente abbastanza soddisfatto: il pericolo per Costantinopoli era passato e il grande esercito crociato si era messo in marcia per combattere contro i turchi. Egli intendeva sinceramente collaborare con la crociata, ma con una restrizione: non intendeva sacrificare gli interessi dell’Impero agli interessi dei cavalieri occidentali. Il suo dovere era prima di tutto verso il suo popolo, e inoltre, come tutti i bizantini, egli credeva che la prosperità della cristianità

dipendesse dalla prosperità dello storico Impero cristiano. La sua intuizione era esatta.

Parte quarta La guerra contro i turchi

Capitolo primo La campagna in Asia Minore

... e verrai dal luogo dove stai, dall’estremità del settentrione, tu con dei popoli numerosi teco, tutti quanti a cavallo, una grande moltitudine, un potente esercito... Ezechiele, XXXVIII, 15

Anche se fra l’imperatore e i principi crociati potevano sorgere contrasti a proposito dei loro diritti fondamentali e della spartizione delle future conquiste, non potevano esservi dissensi per quello che si riferiva alle fasi iniziali della campagna contro gli infedeli. Perché fosse possibile ai crociati raggiungere Gerusalemme, era necessario che le strade attraverso l’Asia Minore venissero rese sicure e d’altra parte lo scopo principale della politica bizantina era appunto quello di ricacciare i turchi da quella regione. Vi fu perciò un completo accordo sulla strategia da seguire; per il momento i crociati, avendo al loro fianco un esercito bizantino, si mostrarono disposti ad accettare il parere dei suoi generali, esperti di problemi tattici. Il primo obiettivo era la capitale selgiuchida, Nicea, posta sulle sponde del lago Ascanio, non lontano dal Mar di Marmara, e attraversata dall’antica strada militare bizantina. Esisteva anche un’altra strada un po’ più a oriente, ma tutte le comunicazioni attraverso la regione sarebbero state precarie e pericolose se la grande fortezza fosse stata lasciata nelle mani del nemico. Alessio era ansioso di far proseguire i crociati il più presto possibile poiché s’avvicinava l’estate, e gli stessi crociati erano impazienti: negli ultimi giorni di aprile, prima che giungesse a Costantinopoli l’esercito proveniente dalla Francia settentrionale, vennero dati gli ordini di prepararsi a levare il campo a Pelecanum per avanzare su Nicea1. Il momento era scelto bene poiché il sultano selgiuchida, Kilij Arslan I, si trovava lontano, sulla sua frontiera orientale, a causa di una contesa con i principi danishmend per il dominio di Melitene, il cui governatore armeno, Gabriele, si dedicava attivamente a fomentare discordie fra i signorotti vicini. Kilij Arslan non prese sul serio questa nuova minaccia proveniente da occidente: la facile vittoria ottenuta sulla plebaglia di Pietro l’Eremita gli aveva insegnato a disprezzare i crociati e può anche darsi che le spie che aveva a Costantinopoli, nel desiderio di compiacere il loro padrone, gli avessero fatto rapporti esagerati sui dissensi fra l’imperatore e i principi occidentali. Persuaso che la crociata non sarebbe mai giunta fino a Nicea, egli aveva lasciato entro le mura sua moglie, i suoi bambini e tutti i suoi tesori, e solo quando ricevette la notizia che il nemico si stava concentrando a Pelecanum, rimandò indietro una parte del suo esercito, perché si dirigesse in tutta fretta verso occidente, e la seguì non appena poté sistemare le sue questioni sul confine orientale. Le sue truppe arrivarono troppo tardi per ostacolare la marcia dei crociati su Nicea2. L’esercito di Goffredo di Lorena lasciò Pelecanum verso il 26 aprile e marciò su Nicomedia, dove rimase in attesa per tre giorni e dove venne raggiunto dall’esercito di Boemondo, agli ordini di Tancredi, e da Pietro l’Eremita e ciò che restava della sua gente. Boemondo si trattenne ancora alcuni giorni a Costantinopoli per prendere accordi con l’imperatore a proposito dei rifornimenti per

l’esercito. Un piccolo distaccamento bizantino di genieri con macchine d’assedio, al comando di Manuele Butumites, accompagnava le truppe. Goffredo condusse l’esercito da Nicomedia a Civetot, poi si diresse verso sud attraverso la gola in cui erano periti gli uomini di Pietro; le loro ossa coprivano ancora l’accesso al passo, perciò, ammonito dal loro fato e dai consigli dell’imperatore, Goffredo avanzò cautamente mandando innanzi esploratori e genieri per ripulire ed allargare la pista; questa venne poi segnata con una serie di croci di legno che dovevano servire da guida per i futuri pellegrini. Il 6 maggio Goffredo giunse sotto Nicea. La città era stata potentemente fortificata fin dal secolo iv e le sue mura, lunghe circa quattro miglia, con le loro duecentoquaranta torri erano state mantenute in costante efficienza dai bizantini. Essa si trovava sull’estremità orientale del lago Ascanio, e le sue mura occidentali si innalzavano direttamente dall’acqua poco profonda; aveva la forma di un pentagono irregolare. Goffredo si accampò sul lato settentrionale delle mura e Tancredi su quello orientale; le mura meridionali vennero lasciate all’esercito di Raimondo. La guarnigione turca era numerosa, ma aveva bisogno di rinforzi: vennero inviati messaggeri, uno dei quali fu intercettato dai crociati, per sollecitare il sultano a far affluire truppe nella città attraverso le porte meridionali, prima che fosse completamente cinta d’assedio. Ma l’esercito turco si trovava ancora troppo lontano e prima che la sua avanguardia potesse avvicinarsi giunse Raimondo, il 16 maggio, e spiegò il suo esercito davanti alle mura meridionali. Boemondo aveva raggiunto i suoi uomini due o tre giorni prima. Fino al suo arrivo provviste insufficienti avevano indebolito i crociati, ma da quel momento, grazie ai suoi accordi con Alessio, i rifornimenti arrivarono con abbondanza agli assediami, trasportati sia per terra sia per mare. Quando Roberto di Normandia e Stefano di Blois giunsero con le loro truppe il 3 giugno, l’intero esercito crociato si trovò riunito; esso operò come una sola unità, sebbene non vi fosse un unico comandante supremo: le decisioni venivano prese dai principi radunati in consiglio, ma non c’erano ancora gravi disaccordi fra di loro. Nel frattempo l’imperatore si era trasferito a Pelecanum, da dove poteva mantenersi in contatto sia con la sua capitale, sia con Nicea3. Le prime forze turche di soccorso raggiunsero Nicea immediatamente dopo Raimondo, ma ormai la città era completamente bloccata dalla parte di terra e dopo un breve e sfortunato scontro con le truppe di Raimondo, esse si ritirarono per attendere il grosso dell’esercito turco che stava avvicinandosi al comando del sultano. Alessio aveva dato istruzioni a Butumites affinché stabilisse contatti con la guarnigione assediata. Quando videro che. i soccorsi battevano in ritirata, i suoi comandanti invitarono Butumites a entrare in città con un salvacondotto per discutere le condizioni di resa. Egli accettò, ma quasi subito giunse la notizia che il sultano non era molto lontano e le trattative vennero interrotte. Verso il 21 maggio il sultano e il suo esercito arrivarono dal sud e attaccarono subito i crociati nel tentativo di aprirsi un varco per entrare nella città. Raimondo e il vescovo di Le Puy, che comandava l’ala destra, sostennero l’urto dell’attacco, poiché né Goffredo né Boemondo potevano correre il rischio di lasciare sguarnita la loro sezione delle mura; Roberto di Fiandra e le sue truppe vennero in aiuto a Raimondo: la battaglia infuriò accanita per tutta la giornata, ma i turchi non riuscirono a compiere nessun passo avanti, e al cader delle tenebre il sultano decise di ritirarsi. L’esercito crociato era più forte di quanto avesse pensato e, a parità di numero, sul terreno scoperto di fronte alla città, i suoi turchi non erano in condizione di competere con gli armatissimi occidentali. Era migliore strategia ritirarsi sulle montagne e abbandonare la città al suo destino4. Le perdite dei crociati erano state pesanti: molti erano i caduti, e fra questi Baldovino conte di Gand; quasi tutti i superstiti della battaglia erano feriti, ma la vittoria li colmò di esultanza. Con sommo piacere trovarono tra i cadaveri dei turchi le corde portate per legare i prigionieri che il

sultano aveva sperato di catturare. Per indebolire il morale della guarnigione assediata essi tagliarono le teste di molti cadaveri nemici e le lanciarono al di là delle mura o le fissarono su picche per mostrarle con ostentazione davanti alle porte5. Poi, non dovendo più temere nessun pericolo dall’esterno, si concentrarono nell’assedio. Le fortificazioni però erano formidabili e invano Raimondo e Ademaro tentarono di minare una delle torri meridionali, inviando zappatori a fare uno scavo sotto di essa e ad accendervi un enorme fuoco: il limitato danno che ne risultò venne riparato dalla guarnigione durante la notte. Si scoprì inoltre che il blocco era incompleto poiché alla città giungevano ancora rifornimenti attraverso il lago6. I crociati furono costretti a sollecitare l’intervento dell’imperatore e a chiedergli di fornire imbarcazioni per intercettare queste comunicazioni per la via d’acqua. Alessio si rendeva probabilmente conto della situazione, ma desiderava che i principi occidentali scoprissero quanto fosse loro necessaria la sua collaborazione. In seguito alla loro richiesta forni una piccola flottiglia per il lago, al comando di Butumites7. Al momento di ritirarsi, il sultano aveva ordinato alla guarnigione di agire nel modo che le sembrasse migliore, poiché egli non poteva più recarle nessun aiuto. Quando i difensori videro le navi bizantine sul lago e capirono che l’imperatore dava piena assistenza ai crociati, decisero di arrendersi. Era quanto Alessio aveva sperato: egli non desiderava affatto aggiungere ai suoi domini una città semidistrutta e neppure far subire ai suoi futuri sudditi gli orrori di un saccheggio, tanto più che la maggioranza dei cittadini era cristiana. Soltanto i soldati e una esigua nobiltà di corte erano infatti turchi. Vennero ristabiliti i contatti con Butumites e si discussero le condizioni di resa; i turchi però esitavano ancora, sperando che il sultano tornasse, e cedettero soltanto alla notizia che i crociati stavano preparando un attacco generale. L’assalto era fissato per il 19 giugno, ma quando spuntò l’alba i crociati videro il vessillo imperiale sventolare sulle torri della città: i turchi si erano arresi durante la notte e truppe imperiali, in gran parte peceneghi, erano penetrate in città attraverso le porte dalla parte del lago. È poco probabile che i capi crociati non fossero stati informati delle trattative, anzi non le disapprovarono perché si rendevano conto che non aveva senso sprecare tempo e uomini per dare l’assalto a una città che non avrebbero potuto conservare, ma essi furono deliberatamente tenuti all’oscuro delle fasi finali; dal canto loro i soldati semplici si considerarono frodati del loro bottino, poiché avevano sperato di saccheggiare le ricchezze di Nicea; vennero invece ammessi in città soltanto in piccoli gruppi, strettamente sorvegliati dalla milizia imperiale; avevano sperato di trattenere prigionieri i nobili turchi per ottenerne un riscatto, invece li videro trasportati sotto scorta, con i loro beni, a Costantinopoli o presso l’imperatore a Pelecanum. Il loro risentimento contro Alessio si accrebbe8. Il loro disappunto venne in certa misura mitigato dalla generosità dell’imperatore; Alessio infatti ordinò prontamente che donativi in viveri venissero distribuiti a ogni soldato crociato, mentre i capi erano invitati a Pelecanum per ricevere in dono oro e gioielli tratti dal tesoro del sultano. Stefano di Blois, che vi si recò insieme con Raimondo di Tolosa, rimase esterrefatto dinnanzi alla montagna d’oro che gli toccava in sorte. Egli non condivideva l’opinione sostenuta da alcuni dei suoi compagni, secondo i quali l’imperatore avrebbe dovuto recarsi personalmente a Nicea, poiché capiva che le dimostrazioni che la città liberata avrebbe tributato nell’accogliere il suo sovrano, poteva riuscirgli imbarazzante. In cambio dei regali, Alessio chiese ai cavalieri che non l’avevano ancora fatto di prestare in quel momento il giuramento di obbedienza. Molti signori minori, di cui non si era preoccupato quando erano transitati per Costantinopoli, lo fecero subito, e sembra che non sia stato chiesto a Raimondo di impegnarsi più di quanto non avesse già fatto, mentre invece venne preso molto più seriamente il caso di Tancredi. Questi in un primo momento fece il gradasso e dichiarò

che, a meno che non gli fosse stata data la grande tenda dell’imperatore completamente piena d’oro, oltre a una quantità d’oro pari a quella donata complessivamente a tutti gli altri principi, egli non avrebbe affatto giurato; e quando il cognato dell’imperatore, Giorgio Paleologo, protestò per la sua insolenza, egli si scagliò violentemente contro di lui e cominciò a malmenarlo. L’imperatore si alzò per intervenire e Boemondo rimproverò aspramente suo nipote, che alla fine rese omaggio con riluttanza9. I crociati furono scandalizzati per il trattamento riservato dall’imperatore ai prigionieri turchi: ai funzionari di corte e ai comandanti fu concesso di riscattare la loro libertà, mentre la sultana, figlia dell’emiro Chaka, venne ricevuta a Costantinopoli con onori regali; doveva trattenersi nella capitale finché non giungesse un messaggio da parte di suo marito che specificasse in che luogo desiderava che lei lo raggiungesse. Essa e i suoi figli dovevano allora essergli restituiti senza riscatto. Alessio era un uomo gentile e conosceva bene il valore della cortesia verso un nemico sconfitto, ma ai principi occidentali il suo atteggiamento sembrò ipocrita e sleale10. Tuttavia, nonostante un certo disappunto per non aver conquistato essi stessi la città ed essersi impadroniti delle sue ricchezze, la liberazione di Nicea riempì i crociati di gioia e di speranza per il futuro. Vennero inviate in Occidente numerose lettere per annunciare che quel luogo venerabile era di nuovo cristiano e la notizia fu accolta con entusiasmo. La crociata si dimostrava un successo: si fecero avanti nuove reclute e le città italiane, fino allora piuttosto caute anche in quello che riguardava gli aiuti promessi, cominciarono a considerare più seriamente il movimento. Nel campo crociato i cavalieri erano impazienti di proseguire il viaggio. Stefano di Blois era colmo di entusiasmo: «In cinque settimane saremo a Gerusalemme, - scrisse a sua moglie, - a meno che non siamo trattenuti ad Antiochia», aggiunse, senza sapere d’essere cosi buon profeta11. Da Nicea i crociati si misero in cammino lungo l’antica strada principale bizantina attraverso l’Asia Minore. La strada proveniente da Calcedonia e da Nicomedia si congiungeva con quella di Helenopolis e Nicea sulle sponde del fiume Sangario, ma ben presto lasciava il fiume per salire lungo la valle di un affluente, dirigendosi verso sud, oltre la moderna Biledjik; poi, serpeggiava lungo un passo verso Dorileo, vicino alla moderna Eskishehir. Qui si divideva in tre diramazioni: la grande strada militare bizantina correva direttamente verso est, deviando probabilmente ad Ancyra verso sud, e dividendosi di nuovo, dopo aver attraversato l’Halys, in un ramo che continuava direttamente oltre Sebastea (Sivas) nell’Armenia, e in un altro che si dirigeva verso CesareaMazacha. Da qui parecchie strade conducevano attraverso i passi della catena dell’Antitauro nella valle dell’Eufrate, mentre un’altra strada si dirigeva verso sud-ovest, attraverso Tyana alle Porte cilice. La seconda strada da Dorileo portava direttamente nel centro dell’Asia Minore, attraverso il grande deserto salato, poco a sud del lago Tatta, da Amorio alle Porte cilice: questa strada poteva essere usata soltanto da compagnie che avanzassero rapidamente, poiché passava per una zona desolata, completamente priva d’acqua. La terza strada costeggiava il limite meridionale del deserto salato, da Filomelio, la moderna Akshehir, a Iconio, Eraclea e le Porte cilice. Un tronco stradale conduceva dalle vicinanze di Filomelio al Mediterraneo, ad Attalia, un altro da poco oltre Iconio a Seleucia, pure sul Mediterraneo12. Le forze crociate dovevano prima di tutto giungere a Dorileo, qualunque fosse la strada che decidevano di seguire. Il 26 giugno, una settimana dopo la caduta di Nicea, l’avanguardia cominciò a muoversi, seguita nei due giorni seguenti dalle diverse divisioni dell’esercito, per radunarsi al ponte che attraversa il Fiume Azzurro, dove la strada abbandona la valle del Sangario per arrampicarsi sull’altopiano. Un piccolo distaccamento bizantino, al comando dell’esperto generale Taticio,

accompagnava i crociati. Un certo numero di costoro, probabilmente per la maggior parte quelli che erano stati feriti a Nicea, rimase indietro e prestò servizio presso l’imperatore, agli ordini di Butumites che li impiegò per riparare e presidiare Nicea13. I principi si riunirono a consiglio in un villaggio di nome Leuce, vicino al ponte, e decisero di dividere l’esercito in due parti per facilitare il problema dei rifornimenti; una parte avrebbe preceduto l’altra a circa una giornata di intervallo. Il primo gruppo era formato dai normanni dell’Italia meridionale e della Francia settentrionale, insieme con le truppe dei conti di Fiandra e di Blois, ed i bizantini che dovevano fornire le guide. Il secondo esercito comprendeva i francesi del sud e i lorenesi, con le truppe del conte di Vermandois. Boemondo era considerato il capo del primo gruppo e Raimondo di Tolosa quello del secondo; appena fatta questa divisione l’esercito di Boemondo si mise in marcia sulla strada per Dorileo14. Dopo lo scacco subito nel tentativo di liberare Nicea, il sultano Kilij Arslan si era ritirato verso oriente, per raccogliere le proprie forze e concludere la pace e un’alleanza con l’emiro danishmend contro questa nuova minaccia. La perdita di Nicea lo aveva allarmato, mentre la perdita del suo tesoro era stata un grave colpo; ma i turchi erano ancora nomadi per istinto e la vera capitale del sultano era la sua tenda. Alla fine di giugno egli ritornò verso occidente con tutte le sue truppe, con il suo vassallo Hasan, emiro dei turchi di Cappadocia, e con l’esercito danishmend, agli ordini del suo stesso emiro. Il 30 giugno era in attesa in una vallata nei pressi di Dorileo, pronto ad attaccare i crociati quand’essi fossero ridiscesi al di là del passo. Quella sera il primo esercito crociato si accampò nella pianura non lontano da Dorileo; all’alba i turchi piombarono loro addosso dal fianco della collina, lanciando il loro grido di guerra. Boemondo non si lasciò cogliere alla sprovvista: i pellegrini non combattenti vennero rapidamente radunati nel centro dell’accampamento, dove si trovavano le fonti dell’acqua, e le donne ebbero il compito di portare l’acqua sulla linea del fronte. Vennero montate rapidamente delle tende e ai cavalieri fu dato l’ordine di smontare dai loro cavalli; nel frattempo un messaggero veniva inviato al gran galoppo al secondo esercito, per sollecitarlo ad affrettarsi, mentre Boemondo si rivolgeva ai suoi capitani, esortandoli a prepararsi per una difficile battaglia e a restare dapprima sulla difensiva. Soltanto uno di loro disobbedì ai suoi ordini, quello stesso cavaliere che si era sfrontatamente seduto sul trono dell’imperatore a Costantinopoli: con quaranta dei suoi uomini caricò il nemico, ma ne fu ignominiosamente respinto, coperto di ferite. L’accampamento fu ben presto circondato dai turchi, che sembravano una moltitudine infinita ai cristiani, e che seguivano la loro tattica favorita di mandare avanti sulla prima linea arcieri che lanciavano le loro frecce e si ritiravano immediatamente per lasciare il posto ad altri. Nel drammatico svolgimento di quella calda mattinata di luglio, i crociati cominciarono a dubitare di poter resistere contro l’incessante pioggia di dardi; ma, circondati com’erano, la fuga era impossibile e la resa avrebbe significato prigionia e schiavitù; decisero quindi di soffrire insieme il martirio, se fosse stato necessario. Finalmente, verso mezzogiorno, videro giungere i loro compagni del secondo esercito, con Goffredo e Ugo e i loro uomini in testa e Raimondo con i suoi subito dopo. I turchi non si erano resi conto di non aver preso in trappola l’intera spedizione crociata e alla vista dei nuovi venuti esitarono e non riuscirono ad impedire che i due eserciti si ricongiungessero. I crociati si sentirono rincuorati e, formando un lungo fronte con Boemondo, Roberto di Normandia e Stefano di Blois sulla sinistra, Raimondo e Roberto di Fiandra al centro, Goffredo e Ugo sulla destra, cominciarono l’offensiva, ricordandosi l’un l’altro le ricchezze che avrebbero guadagnato se avessero vinto. I turchi non erano preparati a sostenere un attacco e probabilmente cominciavano a

essere a corto di munizioni: la loro esitazione si tramutò in panico per l’improvvisa apparizione del vescovo di Le Puy e di un contingente di francesi meridionali sulle colline alle loro spalle. Ademaro aveva ideato da solo questo diversivo e si era procurato alcune guide per essere condotto lungo i sentieri montani. Il suo intervento assicurò il trionfo ai crociati: i turchi ruppero le linee e furono ben presto in piena rotta verso oriente. Nella fretta abbandonarono intatto il loro accampamento e le tende del sultano e degli emiri caddero con tutti i loro tesori nelle mani dei cristiani15. Fu una grande vittoria. Molti crociati erano caduti in battaglia, e fra loro anche il fratello di Tancredi, Guglielmo, Honfroi di Monte Scabioso e Roberto di Parigi; i franchi avevano imparato a considerare con il dovuto rispetto i turchi in quanto soldati. Forse per aumentare il valore della loro impresa, essi mostravano volentieri verso i turchi un’ammirazione che si rifiutavano di concedere ai bizantini, poiché consideravano decadenti i loro metodi di guerra più scientifici; e non riconobbero neppure la parte sostenuta dai bizantini nella battaglia. L’anonimo autore normanno delle Gesta pensava che i turchi sarebbero stati la più splendida delle razze, se soltanto fossero stati cristiani e ricordava la leggenda che faceva consanguinei i franchi e i turchi, in quanto discendenti entrambi dai troiani: una leggenda basata più su una comune rivalità contro i greci, che su qualsiasi fondamento etnologico16. Ma, per quanto i soldati turchi potessero essere ammirevoli, la loro disfatta garanti il passaggio dei crociati attraverso l’Asia Minore in tutta sicurezza. Il sultano, privato prima della sua capitale, ora della tenda reale e della maggior parte del suo tesoro, decise che era inutile tentare di fermarli. Incontrata nella sua fuga una compagnia di turchi siriani, accorsi troppo tardi per partecipare alla battaglia, spiegò che la moltitudine e la forza dei franchi erano superiori a quello che si fosse aspettato e che non poteva opporsi loro. Si rifugiò con il suo popolo sulle colline, dopo aver saccheggiato e abbandonato le città da lui occupate, e dopo aver devastato la campagna, perché fosse impossibile ai crociati trovare cibo durante la loro avanzata17. L’esercito crociato si riposò per due giorni a Dorileo, per rimettersi dalla battaglia e preparare le successive tappe della marcia. La scelta della strada da seguire non fu difficile: la strada militare per l’Oriente s’inoltrava troppo all’interno del paese controllato dai Danishmend e dagli emiri, la cui potenza non era stata infranta; l’esercito era troppo numeroso ed avanzava troppo lentamente per attraversare direttamente il deserto salato; perciò dovette seguire la strada più lenta, ai piedi delle montagne a sud del deserto. Questo fu senza dubbio il consiglio dato da Taticio e dalle guide che egli aveva fornito. Ma anche cosi la strada presentava varie incognite. In seguito alle invasioni turcomanne e ai venti anni di guerra, molti villaggi erano stati distrutti e i campi erano stati abbandonati, molti pozzi si erano inquinati o cominciavano a seccarsi, non pochi ponti erano crollati o erano stati distrutti; non sempre si potevano ottenere informazioni dalla popolazione disseminata e terrorizzata. Eppure, se le cose andavano male, i franchi sospettavano subito le guide greche di tradimento, mentre i greci erano risentiti per l’indisciplina e l’ingratitudine dei franchi. Taticio trovò il suo compito sempre più spiacevole e sempre più difficile18. L’esercito si mise in marcia il 3 luglio, in un’unica colonna, per evitare il ripetersi del rischio corso a Dorileo, e avanzò faticosamente verso sudest attraverso l’altopiano anatolico. Tuttavia non poté seguire l’antica strada principale, e dopo essere passato attraverso Polybotus, deviò verso Antiochia di Pisidia, probabilmente sfuggita alle devastazioni turche, dove poterono ottenere rifornimenti. Poi i crociati varcarono i nudi passi del Sultan Dagh per raggiungere la strada principale a Filomelio; di là proseguirono attraverso una regione desolata fra le montagne e il deserto. Nell’implacabile canicola della piena estate sia i cavalieri pesantemente armati sia i loro cavalli e i fanti soffrirono terribilmente. Non si scorgeva acqua tranne che negli acquitrini salati del

deserto e non c’era vegetazione ad eccezione di cespugli spinosi, di cui masticavano i ramoscelli nel vano tentativo di trovare un po’ di umidità. Ai lati della strada potevano vedere le antiche cisterne bizantine, rovinate dai turchi. I cavalli furono i primi a perire e molti cavalieri furono costretti a proseguire a piedi, mentre altri furono visti cavalcare dei buoi; vennero raccolti pecore, capre e cani per trascinare i carri dei bagagli. Ma il morale dell’esercito restò elevato: a Fulcherio di Chartres il cameratismo dei soldati provenienti da tante regioni di lingue tanto diverse sembrava ispirato da Dio19. Verso la metà d’agosto i crociati giunsero a Iconio. Questa città, oggi chiamata Konya, era stata nelle mani dei turchi per tredici anni e sarebbe stata presto scelta da Kilij Arslan per nuova capitale. In quel momento era però deserta, perché i turchi erano fuggiti nelle montagne con tutti i loro beni. Non avevano però potuto distruggere i ruscelli e i frutteti della deliziosa valle di Meram, dietro la città, che con la sua fertilità estasiò gli stanchi cristiani. Essi vi si trattennero per parecchi giorni per riprendere forze. Avevano tutti bisogno di riposo, e anche i comandanti erano stremati: Goffredo era stato ferito pochi giorni prima da un orso che stava cacciando; Raimondo di Tolosa era gravemente ammalato e sembrava in punto di morte, tanto che il vescovo di Orange gli somministrò l’estrema unzione; ma il soggiorno ad Iconio lo rimise in forza ed egli poté riprendere la marcia con l’esercito quando questi riparti. Seguendo il consiglio dei pochi armeni che vivevano nei dintorni di Iconio, i soldati presero con sé acqua in quantità sufficiente per giungere sino alla fertile valle di Eraclea20. A Eraclea trovarono un esercito turco agli ordini dell’emiro Hasan e dell’emiro danishmend, i quali, preoccupati per i loro possedimenti in Cappadocia, speravano probabilmente con la loro presenza di costringere i crociati a tentare la traversata delle montagne del Tauro in direzione della costa. Ma alla vista dei turchi i crociati si lanciarono immediatamente all’attacco, guidati da Boemondo, che cercò di impegnare personalmente l’emiro danishmend; gli avversari però non desideravano affrontare una battaglia campale e si ritirarono rapidamente verso nord, abbandonando le città ai cristiani. Una cometa che sfolgorò nel cielo illuminò la vittoria21. A quel punto era di nuovo necessario discutere sulla strada da seguire. Un poco a est di Eraclea la strada principale conduceva in Cilicia attraverso le montagne del Tauro, per il tremendo passo delle Porte cilice. Era la strada diretta per Antiochia, ma presentava alcuni svantaggi: le Porte cilice non sono facili da superare e in certi punti la strada è cosi ripida e stretta che un piccolo distaccamento nemico che controlli le alture può rapidamente fare strage di un esercito che avanza lentamente. La Cilicia si trovava nelle mani dei turchi e in settembre il suo clima, come potevano riferire le guide bizantine, è assolutamente insopportabile; inoltre, un esercito che si dirigesse dalla Cilicia ad Antiochia doveva superare la catena dell’Amano, attraverso il difficile passo delle Porte siriane. D’altra parte la recente sconfitta dei turchi apriva la strada verso Cesarea-Mazacha, da dove un prolungamento della grande strada militare bizantina conduceva attraverso l’Antitauro a Marash (Germanicia); di qui, per l’ampio e non molto alto passo delle Porte di Amane nella pianura di Antiochia. Questa era la strada che aveva seguito di preferenza il traffico da Antiochia a Costantinopoli negli anni precedenti le invasioni turche, e in quel momento presentava il vantaggio di passare attraverso una regione governata da alcuni deboli principi armeni cristiani, in massima parte vassalli nominali dell’imperatore e verosimilmente ben disposti verso i crociati. È probabile che questa fosse la strada raccomandata da Taticio e dai bizantini, ma i loro suggerimenti incontrarono l’opposizione dei principi ostili all’imperatore, capitanati da Tancredi. La maggioranza decise di prendere la strada per Cesarea, ma Tancredi, con un gruppo di normanni dell’Italia meridionale, il fratello di Goffredo, Baldovino, ed alcuni fiamminghi e lorenesi decisero di separarsi dal grosso

dell’esercito e di passare in Cilicia. Intorno al 10 settembre Tancredi e Baldovino si misero in cammino su due strade diverse per i passi del Tauro e il grosso dell’esercito si diresse a nord-est verso Cesarea. Al villaggio di Augustopoli raggiunsero le truppe di Hasan e inflissero loro un’altra sconfitta ma, desiderando evitare indugi, non tentarono di conquistare un castello dell’emiro posto non lontano dalla strada; vennero tuttavia occupati parecchi piccoli villaggi che vennero dati, dietro sua richiesta, a un signore armeno del luogo, di nome Simeone, affinché li governasse sotto la sovranità dell’imperatore. Alla fine del mese i crociati giunsero a Cesarea, che era stata abbandonata dai turchi, ma non vi si fermarono e proseguirono su Comana (Placentia), una ricca città abitata da armeni, che i turchi danishmend stavano in quel momento assediando. All’avvicinarsi dei crociati i turchi sparirono e sebbene Boemondo si lanciasse al loro inseguimento, non riuscì a raggiungerli. I cittadini accolsero con gioia i loro liberatori, e questi invitarono Taticio a nominare un governatore che amministrasse la città in nome dell’imperatore. Taticio assegnò la carica a Pietro di Aulps, un cavaliere provenzale, venuto in un primo tempo in Oriente con il Guiscardo ed entrato poi al servizio imperiale. Fu una scelta saggia e l’episodio mostrò che i franchi e i bizantini potevano ancora collaborare e realizzare insieme l’accordo stipulato tra i principi e l’imperatore22. Da Comana l’esercito avanzò verso sud-est su Coxon, la moderna Guksun, una prospera città piena di armeni, posta in una fertile valle ai piedi della catena dell’Antitauro, e vi si trattenne per tre giorni. Gli abitanti si mostrarono animati da sentimenti amichevoli e i crociati poterono largamente rifornirsi di provviste per le prossime tappe della loro marcia attraverso le montagne. In quel momento la voce che i turchi avevano abbandonato Antiochia arrivò all’esercito: Boemondo era ancora assente, impegnato nell’inseguimento dei Danishmend, e Raimondo di Tolosa, senza consultare nessuno, inviò immediatamente cinquecento cavalieri, agli ordini di Pietro di Castillon, perché proseguissero speditamente e occupassero la città. I cavalieri viaggiarono a tutta velocità, ma quando giunsero a un castello occupato da eretici pauliciani, non lontano dall’Orante, appresero che era una falsa notizia e che, al contrario, i turchi stavano inviando rinforzi. Pare che Pietro di Castillon sia tornato indietro per riunirsi con l’esercito, ma uno dei suoi cavalieri, Pietro di Roaix, fuggì con pochi compagni e dopo una scaramuccia con i turchi del luogo si impadronì di alcuni forti e di alcuni villaggi nella valle di Rusia, verso Aleppo, aiutato con gioia dagli armeni della zona. Può darsi che con la sua manovra Raimondo non intendesse assicurarsi il dominio di Antiochia, ma soltanto la gloria e il bottino che sarebbero toccati a chi fosse giunto per primo; tuttavia Boemondo, quando tornò all’esercito, accolse la notizia con sospetto; il fatto mostrava l’aggravarsi dell’incrinatura fra i principi23. Il viaggio da Coxon in poi fu il più difficile che i crociati abbiano dovuto affrontare. Erano ormai i primi di ottobre ed erano iniziate le piogge autunnali; la strada attraverso l’Antitauro si trovava in uno stato d’abbandono spaventoso e per miglia e miglia era ridotta a un fangoso sentiero che s’inerpicava su ripide chine costeggiando baratri; moltissimi cavalli scivolavano e precipitavano nel vuoto, intere file di animali da soma, legati insieme, si trascinavano l’un l’altro nell’abisso. Nessuno osava cavalcare; i cavalieri, avanzando faticosamente a piedi sotto il loro pesante equipaggiamento, cercavano ansiosamente di vendere le loro armi a soldati con un carico più leggero, oppure, disperati, le gettavano via. Le montagne sembravano maledette: fecero più vittime che gli stessi turchi. Finalmente, con gioia, l’esercito arrivò nella valle che circondava Marash. In quella zona, dove trovarono di nuovo una popolazione armena amica, i crociati si fermarono per alcuni giorni. Governava la città un principe armeno di nome Thatoul, che era stato

precedentemente un funzionario bizantino e che venne riconfermato nella sua carica. Boemorido raggiunse li i crociati, dopo il suo vano inseguimento dei turchi, e Baldovino vi accorse dalla Cilicia per vedere sua moglie Godvere in punto di morte; poi riparti, dirigendosi verso oriente24. Lasciando Marash intorno al 15 ottobre, il grosso dell’esercito, rinvigorito e rianimato, scese nella piana di Antiochia e il 20 giunse al Ponte di Ferro, a tre ore di marcia dalla città25. Erano passati quattro mesi da quando la crociata era partita per Nicea, ed era stata un’impresa notevole quella marcia per un grande esercito, con un numeroso seguito di non combattenti, che avanzava nel calore estivo attraverso un paese generalmente arido, sempre esposto agli attacchi di un nemico temibile e veloce. I crociati vennero sorretti dalla loro fede e dal loro ardente desiderio di giungere in Terra Santa; ma anche la speranza di trovare un ricco bottino e forse un principato, serviva di stimolo. Un certo merito tuttavia deve essere attribuito ai bizantini che accompagnavano la spedizione e che, esperti nella guerra contro i turchi, furono in grado di dare buoni consigli; senza la loro guida non sarebbe stato possibile seguire la strada attraverso l’Asia Minore. È possibile che le guide abbiano commesso alcuni errori, come nella scelta dell’itinerario da Coxon a Marash, ma dopo vent’anni di abbandono e, talvolta, di deliberata distruzione, era impossibile sapere in quali condizioni sarebbe stata la strada. Taticio ebbe un difficile compito da svolgere, ma fino a quando l’esercito giunse ad Antiochia, le sue relazioni con i principi occidentali rimasero amichevoli. I soldati più umili potevano diffidare dei greci, ma per quello che si riferiva alla direzione del movimento crociato, tutto procedeva ancora senza intoppi. Frattanto l’imperatore Alessio, che doveva essere responsabile del mantenimento delle comunicazioni attraverso l’Asia Minore, stava consolidando le posizioni cristiane alle spalle dei crociati. Il successo dei franchi aveva riconciliato i Selgiuchidi con i Danishmend creando cosi, non appena superato la sorpresa della prima sconfitta, una grande forza potenziale turca nel centro e nell’est della penisola. La politica dell’imperatore mirava perciò a riconquistare la parte occidentale dell’Anatolia dove, con l’aiuto della sua crescente potenza navale, avrebbe potuto rendere transitabile una strada verso la costa meridionale che gli sarebbe stato possibile tenere sotto costante controllo. Dopo aver rafforzato Nicea ed aver rese sicure le fortezze che dominavano la strada per Dorileo, egli inviò suo cognato, il cesare Giovanni Ducas, appoggiato da una squadra al comando dell’ammiraglio Caspax, a riconquistare la Ionia e la Frigia. L’obiettivo principale era Smirne, dove il figlio di Chaka regnava ancora su un emirato comprendente la maggior parte della costa ionica e le isole di Lesbo, Chio e Samo, mentre emiri suoi vassalli governavano Efeso e altre città vicine alla costa. La Frigia si trovava sotto signorotti selgiuchidi, tagliati ormai fuori dal contatto con il sultano. Per impressionare i turchi, Giovanni prese con sé la sultana, figlia di Chaka, dato che non erano ancora stati presi gli accordi che dovevano concederle di raggiungere il marito. L’attacco congiunto dal mare e dalla terra ferma soverchiò l’emiro di Smirne, che consegnò immediatamente i suoi possedimenti in cambio del permesso di ritirarsi liberamente verso oriente; sembra che abbia accompagnato la sorella alla corte del sultano, dopo di che egli scompare dalla storia. Subito dopo cadde Efeso, quasi senza lotta; e mentre Caspax e la sua flotta rioccupavano la costa e le isole, Giovanni Ducas proseguì nell’interno conquistando una dopo l’altra le principali città della Lidia, Sardi, Filadelfia e Laodicea. Alla fine dell’autunno del 1097 tutta la provincia si trovava nelle sue mani, ed egli era pronto, non appena fosse terminato l’inverno, ad avanzare in Frigia, fino a raggiungere la strada principale che i crociati avevano seguito. La sua mira era probabilmente quella di ristabilire il controllo bizantino sulla strada che conduceva da Polybotus e Filomelio direttamente a sud verso Attalia, e poi lungo la costa verso est, dove le forze navali avrebbero offerto protezione e

si sarebbe potuto operare il ricongiungimento con i principi armeni che a quel tempo si erano stabiliti nelle montagne del Tauro. Sarebbe stata cosi assicurata una strada per mezzo della quale i rifornimenti potevano giungere ai cristiani che combattevano in Siria, e lo sforzo congiunto della cristianità avrebbe potuto continuare26.

Capitolo secondo Interludio armeno

... non riponete fiducia nell’... amico... Michea,VII,5

L’emigrazione armena verso sud-ovest cominciò quando le invasioni selgiuchide resero malsicura la vita nella valle dell’Arasse e nei dintorni del lago Van e continuò per tutta l’ultima parte del secolo XI. All’arrivo dei crociati, esisteva nell’Asia Minore orientale una serie di piccoli principati armeni che si estendevano dalla regione al di là del medio Eufrate fin nel cuore delle montagne del Tauro. L’effimero Stato che l’armeno Filarete aveva fondato, era crollato ancor prima della sua morte avvenuta nel 1090, ma Thoros occupava ancora Edessa, dove era riuscito poco tempo prima a cacciare la guarnigione turca dalla cittadella, e suo suocero Gabriele governava ancora Melitene1. A Marash il più importante cittadino cristiano, Thatoul, venne riconosciuto come governatore dalle autorità bizantine a cui i crociati restituirono la città. Tra Marash e l’Eufrate, un armeno chiamato Kogh Vasil, Vasil il brigante, si era costituito un piccolo principato a Raban e Kaisun2. Thoros e Gabriele, e probabilmente anche Thatoul, erano stati luogotenenti di Filarete e come lui avevano cominciato la loro carriera pubblica nell’amministrazione bizantina; non soltanto appartenevano alla Chiesa ortodossa e non alla Chiesa armena separata, ma continuavano ad usare i titoli che avevano ricevuto molto tempo prima dall’imperatore e appena possibile ristabilivano le relazioni con la corte di Costantinopoli, riaffermando la loro fedeltà. Thoros aveva infatti ricevuto da Alessio l’alto titolo di curopalates. Questi legami con l’imperatore conferivano ai loro governi una certa legittimità, ma una base più solida era data dalla loro prontezza ad accettare la sovranità dei signorotti turchi dei dintorni. Thoros riusciva, con sorprendente abilità, ad opporre gli uni contro gli altri questi potenziali sovrani, mentre Gabriele aveva inviato sua moglie in missione a Bagdad per ottenere il riconoscimento da parte delle più alte autorità musulmane. Ma tutti questi principi si trovavano in una situazione precaria: ad eccezione di Kogh Vasil, erano separati, a causa della loro religione, dalla maggioranza dei loro compatriotti ed odiato dai cristiani siriani che erano ancora molto numerosi nella regione; inoltre tutti quanti erano sospetti ai turchi, e soltanto per le discordie interne di costoro riuscivano a sopravvivere. Gli armeni del Tauro erano meno esposti al pericolo poiché il territorio che abitavano era di difficile accesso, ma facile a difendersi. Oshin, figlio di Hethum, controllava allora le montagne a occidente delle Porte cilice ed aveva fissato il suo quartier generale nell’inespugnabile castello di Lampron, posto su un alto sperone che dominava Tarso e la pianura cilicia, manteneva rapporti saltuari con Costantinopoli ed aveva ricevuto dall’imperatore il titolo di «stratopedarca di Cilicia». Sebbene, apparentemente, non fosse membro della Chiesa ortodossa, nel passato aveva servito agli ordini di Alessio e probabilmente aveva avuto l’approvazione dell’imperatore per occupare Lampron, togliendolo all’invitta guarnigione bizantina. Faceva frequenti incursioni nella pianura cilicia e nel 1097 approfittò delle preoccupazioni dei turchi motivate dall’avanzata dei crociati per impadronirsi di una parte della città di Adana 3. A oriente delle Porte cilice le montagne erano

occupate da Costantino, figlio di Rupen, che aveva il suo quartier generale nel castello di Partzerpert, a nord-ovest di Sis. Dopo la morte di suo padre, egli aveva esteso il suo potere a oriente, verso l’Antitauro, e aveva tolto il grande castello di Vahka, sul fiume Göksü alla sua isolata guarnigione bizantina. Egli era un fervente seguace della Chiesa armena separata e, al pari di suo padre, in qualità di erede della dinastia bagratide, manteneva vivo un odio di famiglia contro Bisanzio. Anch’egli sperava di sfruttare le difficoltà dei turchi per stabilirsi nella ricca pianura cilicia, dove la popolazione era già in gran parte armena4. Baldovino di Boulogne si era interessato per un certo tempo della questione armena, e a Nicea aveva stretto un’intima amicizia con un armeno, Bagrat, fratello di Kogh Vasil, che era stato precedentemente al servizio dell’imperatore; Bagrat si era unito al suo seguito ed è probabile che desiderasse assicurarsi l’aiuto di Baldovino a favore dei principati armeni che si trovavano vicino all’Eufrate, dove aveva delle relazioni di parentela5. Ma quando ad Eraclea, Tancredi annunciò la sua intenzione di abbandonare il grosso dell’esercito per tentare la fortuna in Cilicia, Baldovino considerò che sarebbe stato poco saggio lasciare che un altro principe occidentale si lanciasse per primo in un’avventura armena, quando egli stesso voleva assicurarsi il vantaggio di essere l’amico più importante di quella gente. È poco probabile che egli e Tancredi fossero giunti a un accordo: entrambi erano cadetti di famiglie principesche, senza prospettive per il futuro in patria, ed entrambi desideravano manifestamente di fondare dei principati in Oriente. Ma mentre Baldovino aveva già deciso per uno Stato armeno, Tancredi era disposto a stabilirsi in un posto qualsiasi che gli sembrasse conveniente e si opponeva alla deviazione verso Cesarea perché era un suggerimento dei bizantini, dal quale essi soltanto avrebbero tratto vantaggio, mentre la presenza di una popolazione cristiana amica a portata di mano gli offriva un’occasione favorevole. Verso il 15 settembre Tancredi lasciò l’accampamento crociato di Eraclea con un piccolo gruppo di un centinaio di cavalieri e duecento fanti e si diresse direttamente alle Porte cilice; subito dopo parti Baldovino, con suo cugina Baldovino di Le Bourg, Rainaldo di Toul e Pietro di Stenay, cinquecento cavalieri e duemila fanti. Nessuna di queste spedizioni si appesanti con non-combattenti, e la moglie di Baldovino, Godvere, e i suoi bambini rimasero con il grosso dell’esercito. Sembra che Tancredi abbia preso la via diretta per il passo, seguendo lo stesso percorso della ferrovia dei nostri giorni oltre Ulukishla; ma Baldovino, con il suo esercito pili pesante, preferì l’antica strada principale che scendeva su Podandus, all’estremità del passo che, provenendo da Tyana si trova più ad oriente. Egli perciò valicò il passo tre giorni dopo Tancredi. Disceso nella pianura, Tancredi marciò su Tarso che era ancora la più importante città della Cilicia, e nel frattempo mandò a chiedere rinforzi al grosso dell’esercito. Tarso era occupata da una guarnigione turca, che effettuò subito una sortita per respingere gli invasori, ma venne duramente sconfitta. Gli abitanti cristiani (armeni e greci) presero allora contatto con Tancredi e lo pregarono di impadronirsi della città; ma i turchi resistettero finché, tre giorni dopo, fecero la loro comparsa Baldovino e il suo esercito; allora, trovandosi inferiori di numero, aspettarono fino al cader delle tenebre e fuggirono, protetti dall’oscurità. La mattina seguente i cristiani aprirono le porte a Tancredi, e quando Baldovino giunse, scorse il vessillo di Tancredi che sventolava sulle torri. Questi non era accompagnato da alcun funzionario bizantino e non aveva certamente l’intenzione di consegnare all’imperatore le conquiste che avrebbe fatto, ma scoprì in Baldovino un rivale più pericoloso e altrettanto incurante del trattato stipulato a Costantinopoli. Baldovino esigette che Tarso passasse sotto la propria autorità e Tancredi, furibondo ma impotente di fronte alla maggior forza del suo rivale, fu costretto a cedere. Egli ritirò le sue truppe e si diresse a oriente verso Adana. Baldovino aveva appena preso possesso di Tarso quando giunsero davanti alla città trecento

normanni, che erano stati distaccati dal grosso dell’esercito per venire di rinforzo a Tancredi. Malgrado le loro suppliche, egli rifiutò loro il permesso di ritirarsi entro le mura; mentre erano accampati fuori vennero attaccati durante la notte dall’ex guarnigione turca, che ora vagava per la campagna, e massacrati fino all’ultimo uomo. L’episodio scandalizzò i crociati e Baldovino venne biasimato per la loro disgrazia perfino dal suo stesso esercito; la sua posizione avrebbe potuto esserne gravemente danneggiata, se non fosse giunta la notizia dell’inaspettata comparsa di una flotta cristiana nella baia di Mersin, alla foce del fiume Cidno, poco a valle della città, al comando di Guynemer da Boulogne. Questi era un pirata di professione, che era stato abbastanza astuto da rendersi conto che la crociata avrebbe avuto bisogno di un aiuto navale. Raccolto un gruppo di altri pirati, danesi, frisoni e fiamminghi, era salpato dall’Olanda alla fine della primavera e, raggiunte le acque levantine, stava cercando di prendere contatto con i crociati. Egli conservava sentimenti di fedeltà per la sua città natale e fu perciò molto lieto di trovare nelle vicinanze un esercito il cui comandante era il fratello del suo conte. Risali il fiume fino a Tarso e rese omaggio a Baldovino, il quale, in cambio, si fece dare trecento dei suoi uomini perché presidiassero la città e probabilmente vi nominò Guynemer suo luogotenente, mentre egli stesso si preparava a proseguire verso l’oriente. Frattanto Tancredi aveva trovato Adana in preda al disordine: Oshin di Lampron aveva recentemente compiuto un’incursione nella città e vi aveva lasciato delle truppe che stavano disputandosela con i turchi, mentre anche un cavaliere borgognone, di nome Guelfo (che era probabilmente partito con l’esercito di Baldovino, ma se n’era poi staccato per cercare fortuna per conto suo) vi si era introdotto e occupava ora la cittadella. All’arrivo di Tancredi i turchi si ritirarono, mentre Guelfo, che accolse le sue truppe nella cittadella, venne confermato quale dominatore della città. Probabilmente Oshin si preoccupò soltanto di sganciare i suoi uomini da una pericolosa avventura. Era grato a Tancredi per il suo intervento, ma lo esortò a proseguire per Mamistra, l’antica Mopsuestia, dove una popolazione interamente armena stava aspettando ansiosamente la liberazione dai turchi; egli desiderava infatti vedere i franchi penetrare nella zona di influenza ambita dal suo rivale, Costantino il Rupeniano. Tancredi giunse a Mamistra ai primi di ottobre e, come ad Adana, i turchi al suo apparire fuggirono e i cristiani lo accolsero con gioia nella città. Mentre egli si trovava ancora là, si avvicinarono Baldovino e il suo esercito; sembra che Baldovino avesse già deciso che il suo futuro principato non sarebbe stato in Cilicia: forse lo aveva scoraggiato il clima, umido e malarico in settembre, o forse egli sentiva che era troppo vicino alla crescente potenza dell’imperatore. Il suo consigliere Bagrat lo spingeva verso oriente, dove gli armeni invocavano il suo aiuto. In ogni caso egli aveva rovinato le possibilità per Tancredi di fondare un forte Stato in Cilicia e ora ritornava al grosso dell’esercito per consultarsi con suo fratello e i suoi amici prima di intraprendere una nuova campagna. Tancredi era però sospettoso, e con ragione, e non volle permettere a Baldovino di entrare in Mamistra, ma lo costrinse ad accamparsi sull’altra sponda del fiume Jihan; era tuttavia disposto a concedere che dalla città venissero inviate vettovaglie all’accampamento. Ma molti normanni, guidati da suo cognato Riccardo del Principato, non potevano tollerare che Baldovino rimanesse impunito per il suo delitto di Tarso e persuasero Tancredi ad unirsi a loro in un attacco di sorpresa contro il campo. Fu una mossa stolta: le truppe di Baldovino erano troppo numerose e troppo forti per loro e ben presto li respinsero in disordine oltre il fiume. Il poco edificante conflitto provocò una reazione e Baldovino e Tancredi convennero di riconciliarsi. Ma il danno era fatto: era diventato ormai dolorosamente evidente che i principi crociati non erano disposti a collaborare per il bene della cristianità quando sorgesse per loro una possibilità di conquistare dei possedimenti

personali; in pari tempo i cristiani indigeni si resero conto ben presto che i loro salvatori franchi erano mossi soltanto superficialmente da sentimenti altruistici e capirono che era molto più vantaggioso per loro il facile gioco di aizzare i franchi l’uno contro l’altro6. Dopo la riconciliazione di Mamistra, Baldovino proseguì rapidamente per raggiungere il grosso dell’esercito a Marash: gli era giunta la notizia che Godvere stava morendo; anche i loro bambini, sembrava, erano ammalati e non sopravvissero a lungo. Baldovino restò soltanto pochi giorni con i suoi fratelli e gli altri comandanti dell’esercito; poi, quando il grosso delle truppe parti verso il sud per Antiochia, egli si diresse a oriente, per cercare fortuna nella valle dell’Eufrate e nelle regioni al di là di questa. Aveva con sé un gruppo di soldati molto più piccolo di quello che aveva condotto nella spedizione di Cilicia: forse la sua popolarità come comandante non si era ripresa dopo gli avvenimenti di Tarso, forse i suoi fratelli, preoccupati di conquistare Antiochia, non potevano a quel momento privarsi di truppe per lui. Aveva soltanto un centinaio di cavalleggeri, ma il suo consigliere armeno, Bagrat, si trovava ancora con lui, ed egli aggiunse un nuovo cappellano al suo seguito, lo storico Fulcherio di Chartres7. Tancredi non rimase a lungo a Mamistra dopo la partenza di Baldovino; lasciatavi una piccola guarnigione, si diresse a sud, costeggiando l’estremità del golfo di Isso, verso Alessandretta. Durante il viaggio inviò dei messi a Guynemer, il cui quartier generale era ancora probabilmente a Tarso, per sollecitarne la collaborazione. Questi acconsentì di buon grado e con la sua flotta venne a unirsi a Tancredi davanti ad Alessandretta. Un assalto congiunto diede loro la città; Tancredi vi lasciò una guarnigione, poi oltrepassò la catena dell’Amano attraverso le Porte siriane per riunirsi con l’esercito cristiano davanti ad Antiochia8. L’avventura cilicia non era stata molto vantaggiosa né per Baldovino né per Tancredi: nessuno dei due aveva trovato che valesse la pena di fondarvi uno Stato. Le piccole guarnigioni franche lasciate nelle tre città cilice, quella di Guynemer a Tarso, quella di Guelfo ad Adana e quella di Tancredi a Mamistra, non sarebbero state in condizione di resistere a un serio attacco; tuttavia la dispersione delle guarnigioni turche aveva rappresentato un certo vantaggio per la crociata nel suo insieme, poiché aveva impedito che la Cilicia venisse usata dai turchi come base da cui lanciare attacchi contro il fianco dei franchi durante le operazioni ad Antiochia; mentre la conquista di Alessandretta diede ai crociati un utile porto da cui potevano affluire i rifornimenti. Ma chi trasse i maggiori benefici da tutta la faccenda furono i principi armeni delle colline: il crollo della potenza turca nella pianura permise loro di penetrare lentamente nei villaggi e nelle città e di porre le basi del regno cilicio della Piccola Armenia. Quando Baldovino lasciò il grosso dell’esercito a Marash, questo stava per iniziare la sua marcia verso sud, su Antiochia, e dapprima Baldovino seguì una strada parallela, poche miglia più a est, cosi da proteggerne il fianco sinistro. Fu forse con la promessa di assumersi questo compito che egli ottenne il permesso di separarsi di nuovo dall’esercito; e infatti poteva giustificare tutta la sua spedizione con la protezione che essa avrebbe arrecato alla crociata, poiché la strada più comoda da cui potevano giungere ai turchi di Antiochia dei rinforzi dal Khorasan passava attraverso la regione che egli intendeva invadere. Inoltre le sue fertili terre avrebbero potuto rifornire i crociati dei viveri necessari. A Aintab Baldovino fece una brusca conversione verso oriente. È incerto se avesse una precisa linea d’azione oltre a un generico proposito di fondare un principato sull’Eufrate, che potesse essere utile per sé e per l’intero movimento crociato. Le circostanze erano favorevoli: egli non aveva bisogno di conquistare il paese agli infedeli, poiché si trovava già nelle mani amiche degli armeni. Era in contatto con i principi armeni ed è probabile che per mezzo di Bagrat avesse stabilito dei

rapporti con il fratello di costui, Kogh Vasil, il cui dominio si estendeva direttamente a est di Marash. Gabriele di Melitene, continuamente minacciato dai turchi della dinastia danishmendyya, stava probabilmente invocando l’aiuto dei franchi, mentre Thoros di Edessa era certamente in relazione con i crociati. Infatti si disse che la decisione di Baldovino di lasciare la Cilicia fosse dovuta a un messaggio che egli, o Bagrat, ricevette da Thoros, con l’invito urgente di recarsi a Edessa. Per molto tempo gli armeni avevano sperato di ricevere degli aiuti dall’Occidente; già vent’anni prima, quando si seppe che papa Gregorio VII stava progettando una spedizione per liberare la cristianità orientale, un vescovo armeno era andato a Roma per ottenere il suo interessamento9. L’aiuto di alleati occidentali era sempre sembrato, anche ai principi provvisti di titoli bizantini, preferibile a qualsiasi cosa che potesse aumentare la loro dipendenza dall’odiato impero. La presenza di un esercito franco che combatteva vittoriosamente per la cristianità sulle loro stesse frontiere, offriva loro l’opportunità, che avevano invocato, di stabilire una volta per tutte la loro indipendenza dalla dominazione sia turca che bizantina. Accolsero con entusiasmo Baldovino e i suoi uomini come liberatori. Noi sappiamo oggi che non si può aver fiducia nella parola «liberazione», fonte di tante speranze, ma gli armeni impararono la lezione prima di noi. Mentre Baldovino si dirigeva verso l’Eufrate, la popolazione armena si sollevò per festeggiarlo, e intanto le guarnigioni turche che erano rimaste nella zona fuggivano o venivano massacrate dai cristiani. L’unico signore turco di una certa importanza nelle vicinanze, l’emiro Balduk di Samosata, che controllava la strada da Edessa a Melitene, tentò di organizzare la resistenza ma non riuscì a prendere nessuna misura offensiva. Due nobili armeni del luogo, chiamati dai latini Fer e Nicusus, si unirono a Baldovino con i loro piccoli eserciti. Al principio dell’inverno 1097, questi completò la conquista del paese fino all’Eufrate, impadronendosi delle due fortezze più importanti, Ravendel e Turbessel - cosi i latini adattarono i nomi arabi Ruwandan e Tel-Basheir. Ravendel, che dominava le comunicazioni con Antiochia, venne posta sotto la signoria del consigliere armeno di Baldovino, Bagrat, mentre il dominio di Turbessel, importante per la sua vicinanza allo storico guado sull’Eufrate a Carchemish, venne dato all’armeno Fer10. Mentre Baldovino si trovava ancora a Turbessel, probabilmente intorno a Capodanno, gli giunse un’ambasceria da Edessa: Thoros attendeva con impazienza l’arrivo dei franchi, che vedeva invece indugiare sulla riva occidentale dell’Eufrate. La sua posizione era sempre precaria, ed egli era allarmato dalla notizia che Kerbogha, il terribile emiro turco di Mosul, stava raccogliendo un enorme esercito destinato a soccorrere Antiochia, ma che sul suo passaggio avrebbe potuto facilmente spazzare via Edessa e gli Stati armeni. Baldovino però non intendeva andare a Edessa se non alle condizioni che gli convenivano; Thoros aveva contato di servirsene come di un mercenario pagandolo con denaro e ricchi doni, ma era ormai evidente che Baldovino voleva più di questo. L’ambasceria di Edessa a Turbessel era ora autorizzata ad offrire di più: Thoros lo avrebbe adottato come figlio ed erede e lo avrebbe associato subito nel governo dei suoi territori. Questa sembrava a Thoros, che non aveva figli ed era già anziano, l’unica soluzione; non era quella che avrebbe preferito, ma, impopolare in patria e minacciato dai suoi nemici, non poteva permettersi di scegliere11. I più accorti fra gli armeni erano però inquieti: non era questo lo scopo per cui Bagrat aveva istruito Baldovino sulle questioni armene. Lo stesso Bagrat fu il primo a manifestare il suo malcontento. Mentre i franchi si trovavano ancora a Turbessel, Fer, che senza dubbio desiderava succedere a Bagrat nella fiducia di Baldovino, riferì che colui stava intrigando con i turchi. È probabile che i suoi intrighi fossero solo con suo fratello Kogh Vasil, con il quale si consultava a proposito della nuova minaccia contro la libertà armena, e forse sperava anche di diventare il

signore di Ravendel, ma Baldovino non voleva correre rischi. Vennero inviate in tutta fretta delle truppe a Ravendel per arrestare Bagrat, che fu portato davanti a Baldovino e torturato perché confessasse che cosa aveva fatto. Egli aveva poco da confessare e ben presto fuggì e si rifugiò sulle montagne, protetto da suo fratello Kogh Vasil, finché anche questi fu costretto a raggiungerlo alla macchia12. Al principio di febbraio del 1098, Baldovino lasciò Turbessel per Edessa; aveva con sé soltanto ottanta cavalieri. I turchi di Samosata gli tesero un’imboscata dove si aspettavano che egli attraversasse l’Eufrate, probabilmente a Birejik, ma egli sfuggì loro, guadando il fiume più a nord. Giunse ad Edessa il 6 febbraio e venne accolto con il più grande entusiasmo da tutta la popolazione cristiana e da Thoros che quasi immediatamente lo adottò formalmente come figlio. La cerimonia, che seguiva il consueto rituale degli armeni del tempo, era più adatta per l’adozione di un bambino che di un adulto, poiché Baldovino venne denudato fino alla cintola, mentre Thoros indossava una camicia grande il doppio del normale passandola sopra la testa di Baldovino; cosi uniti i novelli padre e figlio sfregarono l’uno contro l’altro i loro petti nudi; quindi Baldovino ripeté la cerimonia con la principessa, moglie di Thoros13. Una volta confermato come erede e co-reggente di Edessa, Baldovino si rese conto che il suo primo compito doveva consistere nel distruggere l’emirato turco di Samosata, il quale troppo facilmente poteva interrompere le sue comunicazioni con l’Occidente. Gli edesseni appoggiarono con soddisfazione il suo progetto di spedizione poiché l’emiro Balduk era il più vicino e il più tenace dei loro nemici, e razziava continuamente le loro greggi e i loro campi e di tanto in tanto imponeva dei tributi persino alla città. I soldati di Edessa accompagnarono Baldovino e i suoi cavalieri contro Samosata, insieme con un principotto armeno, Costantino di Gargar, che era Vassallo di Thoros. La spedizione, che ebbe luogo fra il 14 e il 20 febbraio, non ebbe successo: gli edesseni non erano buoni soldati, furono sorpresi dai turchi e un migliaio di loro vennero uccisi; dopo di che l’esercito si ritirò, ma Baldovino conquistò e fortificò un villaggio, chiamato San Giovanni, vicino alla capitale dell’emiro e vi installò la maggior parte dei suoi cavalieri per controllare i movimenti dei turchi; di conseguenza vi fu una diminuzione nel numero delle scorrerie turche e gli armeni ne attribuirono giustamente il merito a Baldovino14. Poco dopo il ritorno di Baldovino a Edessa, nella città si cominciò a tramare una cospirazione contro Thoros, con l’appoggio di Costantino di Gargar. Non si potrà mai sapere fino a che punto Baldovino vi fosse coinvolto: i suoi amici lo negarono, ma secondo la testimonianza dello scrittore armeno Matteo, egli venne informato dai cospiratori della loro intenzione di detronizzare Thoros in suo favore. La popolazione di Edessa non aveva per Thoros né affetto né gratitudine per l’abilità con cui egli aveva salvaguardato l’indipendenza della loro città. Lo detestavano perché apparteneva alla Chiesa ortodossa, era un funzionario titolare dell’Impero, non era riuscito a proteggere i loro raccolti e le loro merci dai predatori e aveva estorto loro pesanti tasse; ma, fino a quando comparve Baldovino, non avevano potuto permettersi di fare a meno di lui. Ora, essi avevano trovato un protettore più efficiente, perciò non era necessaria nessuna istigazione da parte dei franchi per provocare una cospirazione, ma è difficile credere che i cospiratori si sarebbero spinti a tali estremi senza assicurarsi l’approvazione dei franchi. La domenica 7 marzo i cospiratori agirono: incitarono la plebaglia ad assaltare le case in cui vivevano gli ufficiali di Thoros, poi marciarono sul palazzo del principe nella cittadella. Thoros venne abbandonato dalle sue truppe e il suo figliuolo adottivo non accorse in suo aiuto, ma gli consigliò semplicemente di arrendersi. Il principe acconsentì e chiese soltanto che a lui e a sua moglie fosse concesso di ritirarsi presso il padre di lei a Melitene.

Sebbene apparentemente Baldovino garantisse per la sua vita, a Thoros non fu permesso di andarsene e, trovandosi prigioniero nel suo palazzo, il martedì cercò di fuggire da una finestra, ma venne catturato e fatto a pezzi dalla folla. Non si conosce la sorte della principessa, madre adottiva di Baldovino. Il mercoledì, io marzo, Baldovino venne invitato dal popolo di Edessa ad assumere il governo. Baldovino aveva realizzato il suo sogno ambizioso di ottenere un principato. In realtà, Edessa non era in Terra Santa, ma uno Stato franco sul medio Eufrate poteva essere un notevole elemento di difesa per qualsiasi Stato che fosse per sorgere in Palestina. Baldovino poteva giustificarsi dal punto di vista di una impostazione generale della politica crociata, ma non poteva giustificarsi legalmente davanti a tutta la cristianità: Edessa, come città che era appartenuta all’imperatore prima delle invasioni turche, era coperta dal giuramento che egli aveva prestato a Costantinopoli; inoltre egli l’aveva acquistata spodestando e rendendosi complice dell’assassinio di un governatore che era, almeno ufficialmente, un funzionario riconosciuto dell’Impero. Ma Baldovino aveva già dimostrato in Cilicia che il giuramento non significava nulla per lui, mentre a Edessa Thoros stesso era disposto a cedere i propri diritti senza consultarsi con il suo lontano sovrano. L’episodio però non passò inosservato per Alessio, che si riservò i suoi diritti finché si trovasse in una posizione tale da imporli con la forza. Gli storici armeni posteriori, che scrivevano quando era ormai evidente che la dominazione franca aveva causato la completa rovina degli armeni dell’Eufrate, furono severi nel condannare Baldovino, ma ingiusti. Non vi sono scuse morali per il trattamento riservato da Baldovino a Thoros, come ben dimostra l’imbarazzato atteggiamento dei cronisti latini. Thoros si era comportato allo stesso modo verso il turco Alphilag, che aveva invitato tre o quattro anni prima per salvarlo dai Danishmend, mentre ne aveva invece provocato la morte; ma egli aveva agito allora per salvare la sua città e il suo popolo dalla tirannia di un infedele, e d’altra parte Alphilag non lo aveva adottato come figlio. È vero che l’adozione era una cosa meno seria nel costume armeno che nella legislazione occidentale, ma questo non può attenuare la colpa morale di Baldovino. Ma gli armeni non dovrebbero biasimarlo, poiché fu per mano di armeni che Thoros venne effettivamente assassinato, e Baldovino fu invitato a prenderne il posto con l’approvazione quasi unanime del loro popolo. I principi armeni che i crociati stavano per spodestare erano i soli che diffidavano dell’utilità del loro aiuto, ma si trattava di uomini che in passato avevano servito l’Impero e che erano detestati dai loro compatrioti per la loro fedeltà all’imperatore e, più ancora, per essere diventati membri della Chiesa ortodossa. Soltanto degli ex funzionari bizantini, come Thoros e Gabriele, possedevano una sufficiente esperienza di governo per salvaguardare l’indipendenza degli armeni nelle regioni dell’Eufrate, ma i loro ingrati sudditi, con la loro avversione per Bisanzio, e prontezza a perdonare in un latino quegli stessi errori di eresia che ai loro occhi dannavano un greco per l’eternità, avrebbero dovuto biasimare soltanto se stessi se i loro amici franchi li avessero trascinati alla rovina15. Per il momento tutto era idilliaco. Baldovino assunse il titolo di conte di Edessa e manifestò chiaramente la sua intenzione di governare da solo; ma le sue truppe franche erano poco numerose ed egli fu costretto a fare affidamento sulla collaborazione degli armeni. Ne trovò parecchi in cui poteva aver fiducia, ed il suo compito venne reso più facile dalla scoperta di un enorme tesoro nella cittadella, buona parte del quale risaliva ai tempi dei bizantini e che Thoros aveva grandemente accresciuto con le sue esazioni. La nuova ricchezza lo mise in condizione non soltanto di comprare degli appoggi, ma di compiere un magistrale atto di diplomazia. L’emiro Balduk di Samosata era rimasto spaventato alla notizia dell’ascesa di Baldovino e quando vide che si stavano facendo dei

preparativi per un nuovo attacco contro la sua capitale inviò rapidamente dei messi a Edessa per offrire in vendita il suo emirato per la somma di diecimila bisanti. Baldovino accettò ed entrò trionfalmente in Samosata. Nella cittadella trovò molti ostaggi che Balduk aveva preso a Edessa e che egli restituì prontamente alle loro famiglie. Questo gesto, insieme con l’eliminazione della minaccia turca rappresentata da Samosata, accrebbe enormemente la sua popolarità. Balduk venne invitato a fissare la sua residenza a Edessa, con la propria guardia del corpo, come mercenario del conte16. Quando si sparse la notizia dei successi ottenuti da Baldovino, parecchi cavalieri occidentali che stavano dirigendosi verso Antiochia per rafforzare l’esercito crociato, cambiarono direzione per condividere la sua fortuna, mentre altri abbandonarono il triste assedio di Antiochia per raggiungerlo. Fra questi c’erano Drogo di Nesle, Rainaldo di Toul e il vassallo di Raimondo, Gastone di Béarn. Baldovino li ricompensò con magnifici doni tratti dal suo tesoro e, per sistemarli, li incoraggiò a sposare delle ereditiere armene. Egli stesso, ormai vedovo e senza figli, diede l’esempio; la nuova contessa era la figlia di un signorotto noto ai cronisti latini come Taphnuz o Tafroc. Questi era un ricco principe che possedeva un territorio nelle vicinanze ed era, a quanto pare, imparentato con Costantino di Gargar; aveva anche delle relazioni con Costantinopoli dove alla fine si ritirò. Può darsi che lo si debba identificare con Thatoul, sovrano di Marash, la cui alleanza sarebbe stata certamente di grande importanza per Baldovino. Assegnò a sua figlia una dote di sessantamila bisanti con una vaga promessa di lasciarle in eredità le sue terre; ma il matrimonio non le diede la felicità, e non ne nacquero figli17. Baldovino pose cosi i principi della politica che doveva più tardi stabilire per il regno di Gerusalemme: il controllo del governo doveva essere tenuto dal principe franco e dai suoi vassalli franchi, ma gli orientali, sia cristiani sia musulmani, venivano invitati a prendere parte alla vita dello Stato, che per la generale fusione delle razze si sarebbe alla fine amalgamato in un tutto unico. Era la politica di uno statista chiaroveggente, ma ai cavalieri appena giunti dall’Occidente, e che si erano impegnati a dedicarsi alla croce e a distruggere gli infedeli, sembrava quasi un tradimento dei voti di un crociato. Insediare Baldovino e i suoi simili in monarchie semiorientali non era certo lo scopo per cui Urbano, a Clermont, aveva rivolto un appello ai fedeli. Sulle prime non fu neppure una politica facile da seguire. I musulmani consideravano Baldovino un avventuriero di passaggio e di cui avrebbero potuto valersi. Fra Edessa e l’Eufrate, a sud-ovest della città, si trovava la cittadina musulmana di Saruj, vassalla del principe ortoqida Balak ibn Bahram, la quale si era di recente ribellata. Balak scrisse allora a Baldovino chiedendogli di prestarsi, dietro compenso, a domarla e questi, soddisfatto per l’occasione che gli si offriva, accettò di adempiere l’incarico. Di conseguenza, i cittadini di Saruj si rivolsero segretamente a Balduk perché accorresse a liberarli; costui e le sue truppe uscirono nascostamente da Edessa e vennero ammessi in Saruj, ma Baldovino tenne loro dietro immediatamente portando con sé un gran numero di macchine d’assedio. Balduk e gli uomini di Saruj persero coraggio e questi ultimi offrirono subito di consegnargli la loro città e di pagargli un tributo, mentre il primo gli uscì incontro dichiarando che si era affrettato a precederlo soltanto per occupare la città per lui. Baldovino non si lasciò ingannare: accettò la giustificazione di Balduk e apparentemente gli restituì il suo favore, ma pochi giorni più tardi chiese che la moglie e i figli dell’emiro gli venissero consegnati come ostaggi. Quando Balduk esitò, egli lo arrestò e gli tagliò la testa. Nel frattempo venne stabilita a Saruj una guarnigione franca, agli ordini di Folco di Chartres, che non deve essere confuso con lo storico Fulcherio. L’episodio insegnò a Baldovino che non ci si poteva fidare dei musulmani e d’allora in poi badò a che quelli che

abitavano nel suo territorio non avessero un capo; ma concesse loro libertà di culto. Se voleva continuare a governare una città come Saruj, dove la popolazione era quasi interamente araba e musulmana, non poteva fare altrimenti, ma la sua tolleranza scandalizzò l’opinione pubblica occidentale18. La conquista di Saruj, seguita pochi mesi più tardi da quella di Birejik, con il suo guado sull’Eufrate, rendendo sicure le strade fra Edessa e le fortezze di Turbessel e di Ravendel, rafforzò la contea di Baldovino e gli assicurò le comunicazioni con il grosso della crociata. Al tempo stesso insegnò ai musulmani che il conte di Edessa era una potenza che doveva essere presa sul serio e perciò essi concentrarono le proprie forze per distruggerla. La loro decisione e l’importanza che Edessa franca assumeva per le crociate vennero dimostrate in maggio, quando Kerbogha, durante la sua marcia per liberare Antiochia, si fermò per eliminare Baldovino. Per tre settimane egli lottò invano contro le mura di Edessa, prima di desistere dall’attacco: il suo scacco innalzò il prestigio di Baldovino, e il tempo che l’atabeg aveva perduto salvò la crociata19. Neppure gli armeni avevano preso Baldovino abbastanza sul serio. Essi si risentivano per l’affluenza di cavalieri franchi nel loro territorio e per i favori che Baldovino concedeva loro; e i cavalieri franchi non si conciliavano gli armeni, anzi li trattavano con disprezzo e spesso con violenza. I notabili di Edessa si trovarono esclusi dal consiglio del conte, dove solo i franchi erano rappresentati, ma le tasse che pagavano non erano più basse che ai tempi di Thoros. Inoltre molte proprietà armene nella campagna erano cedute ai nuovi venuti e i contadini erano vincolati a loro dal più stretto costume feudale dell’Occidente. Verso la fine del 1098 un armeno rivelò a Baldovino un complotto contro la sua vita: si disse che dodici dei più importanti cittadini di Edessa avevano stabilito dei contatti con gli emiri turchi del distretto di Diarbekir. Il suocero di Baldovino, Taphnuz, si trovava a quel momento in città, poiché le nozze di sua figlia erano state celebrate soltanto poco tempo prima, e si disse che i cospiratori desideravano collocarlo al posto di Baldovino, o almeno costringere quest’ultimo a dividere il potere con lui. Udita la delazione, Baldovino colpi immediatamente: i due capi della cospirazione vennero arrestati e accecati, i loro compagni più importanti ebbero il naso o i piedi tagliati, un gran numero di armeni sospettati di complicità furono gettati in prigione e i loro beni confiscati. Ma, comportandosi da orientali prudenti, essi avevano nascosto il loro denaro abbastanza bene da eludere gli ispettori di Baldovino, cosi che questi concesse loro graziosamente di comprarsi la libertà a prezzi varianti fra i venti e i sessantamila bisanti a testa. Taphnuz, la cui partecipazione al complotto non poté essere provata, ritenne tuttavia saggio tornare in tutta fretta nelle sue montagne, lontano dal suo terribile genero; portò con sé la maggior parte della dote della contessa, di cui aveva consegnato soltanto settecento bisanti20. La crudele repressione della cospirazione operata da Baldovino pose fine al pericolo di disordini da parte dei suoi sudditi armeni. Egli continuò ad impiegare alcuni di loro in cariche importanti, come Abelgharib che fece governatore di Birejik, ma poiché altri franchi lo raggiungevano, attratti dalla sua fama, egli poté permettersi di ignorare gli orientali. La sua rinomanza era già a quel momento, a meno di un anno dal suo arrivo a Edessa, straordinaria. Mentre il grosso dell’esercito crociato stava ancora avanzando faticosamente sulla via verso Gerusalemme, egli aveva fondato un ricco e potente Stato nell’interno dell’Asia ed era temuto e rispettato in tutto il mondo orientale. Era partito per la crociata come un cadetto spiantato e dipendente dalla carità dei fratelli, era stato completamente messo in ombra da grandi nobili come Raimondo di Tolosa o Ugo di Vermandois, o da esperti avventurieri come Boemondo, ed ora era un sovrano più grande di chiunque di loro. In lui la crociata poteva riconoscere il più abile ed il più astuto dei suoi uomini di governo.

Capitolo terzo Davanti alle mura di Antiochia

Potrai però distruggere e abbattere gli alberi che saprai non essere alberi da frutto, e ne costruirai delle opere d’assedio contro la città che fa guerra teco, Anch’essa cada. Deuteronomio, XX, 20

La città di Antiochia è posta sul fiume Oronte, a circa dodici miglia dal mare: fondata nell’anno 300 a. C. da Seleuco I di Siria, fu chiamata cosi dal nome di suo padre. Ben presto diventò la più importante città dell’Asia e sotto l’Impero romano fu la terza città del mondo. Per i cristiani era particolarmente santa, perché là per la prima volta era stato dato loro il nome di cristiani e perché san Pietro vi aveva fondato la sua prima diocesi. Nel secolo VI d. C. alcuni terremoti e un saccheggio da parte dei persiani ne avevano diminuito lo splendore, e dopo la conquista araba era decaduta, a vantaggio della sua rivale nell’interno, Aleppo. Riconquistata da Bisanzio nel secolo X, ritrovò una parte della sua grandezza e diventò il principale luogo d’incontro del commercio greco e di quello musulmano e la più formidabile fortezza sulla frontiera siriana. Suleiman ibn Kutulmish la conquistò nel 1085; alla sua morte passò al sultano Malikshah, che vi pose come governatore il turcomanno Yaghi-Siyan; questi aveva ormai retto la città per dieci anni. Dopo la morte di Malikshah, il suo sovrano nominale era stato l’emiro Ridwan di Aleppo; ma il governatore era un vassallo disobbediente e aveva conservato una indipendenza di fatto opponendo a Ridwan i suoi rivali Duqaq di Damasco e Kerbogha di Mosul. Nel 1096 Yaghi-Siyan aveva persino tradito Ridwan nel corso di una guerra contro Duqaq che egli considerava ora come suo sovrano; ma il suo aiuto non aveva messo Duqaq in grado di impadronirsi di Aleppo, il cui emiro non lo perdonò mai. La notizia dell’avanzata dei cristiani allarmò Yaghi-Siyan: Antiochia era il riconosciuto obiettivo dei crociati e infatti essi non potevano sperare di marciare a sud verso la Palestina se la grande fortezza non si trovava nelle loro mani. I sudditi di Yaghi-Siyan erano in gran maggioranza cristiani: greci, armeni e siriani. I cristiani siriani, che odiavano allo stesso modo greci ed armeni, sarebbero forse rimasti fedeli, ma egli non poteva fidarsi degli altri. Sembra che fino a quel momento egli si fosse dimostrato tollerante verso i cristiani: aveva permesso al patriarca ortodosso, Giovanni l’Oxite, di risiedere nella città, le cui grandi chiese non erano state trasformate in moschee, ma all’avvicinarsi della crociata egli adottò delle misure restrittive. Il patriarca, capo della più importante comunità di Antiochia, venne gettato in prigione e molti eminenti cristiani furono cacciati dalla città; altri fuggirono. La cattedrale di San Pietro venne sconsacrata e diventò una scuderia per i cavalli dell’emiro. Furono compiute alcune persecuzioni nei villaggi fuori della città, il che diede come risultato il pronto massacro delle guarnigioni turche da parte degli abitanti non appena i crociati furono abbastanza vicini1.

III. Pianta di Antiochia nel 1098.

Quindi Yaghi-Siyan cercò degli alleati. Ridwan di Aleppo non volle muovere un dito per aiutarlo, per uno sciocco ripicco a causa del tradimento dell’anno precedente, ma Duqaq di Damasco, da cui era andato a chiedere aiuto il figlio di Yaghi-Siyan, Shams ad-Daulah in persona, preparò una spedizione di soccorso; anche il suo atabeg, il turcomanno Toghtekin, e l’emiro Janah ed-Daula di Homs offrirono il loro appoggio. Un altro inviato andò alla corte di Kerbogha, atabeg di Mosul, che era a quel momento il principe più importante della Mesopotamia superiore e dello Jezireh. Egli era abbastanza saggio da rendersi conto della minaccia che la crociata rappresentava per l’intero mondo musulmano e da lungo tempo aveva messo gli occhi su Aleppo. Se egli avesse potuto prendere Antiochia, Ridwan si sarebbe trovato circondato e ridotto in suo potere; anch’egli quindi preparò un esercito per soccorrere la città e, dopo di lui, i sultani di Bagdad e di Persia promisero il loro aiuto. Nel frattempo Yaghi-Siyan radunò le sue considerevoli forze nella fortezza e cominciò ad accumularvi dei rifornimenti in previsione di un lungo assedio2. I crociati entrarono nel territorio di Yaghi-Siyan presso la piccola città di Marata, da cui la guarnigione turca era fuggita al loro avvicinarsi. Da Marata, un distaccamento agli ordini di Roberto di Fiandra proseguì verso sud-ovest per liberare la città di Artah, la cui popolazione cristiana aveva massacrato la guarnigione. Frattanto, il 20 ottobre, il grosso dell’esercito giunse all’Oronte, al Ponte di Ferro, dove le strade provenienti da Marash e da Aleppo si univano per attraversare il fiume. Il ponte era potentemente fortificato, con due torri che ne fiancheggiavano l’accesso, ma i crociati l’attaccarono subito, con il vescovo di Le Puy al comando delle operazioni, e dopo un’aspra lotta si aprirono il passaggio. La vittoria permise loro di catturare un enorme convoglio di bovini, ovini e

grano, destinato ad approvvigionare l’esercito di Yaghi-Siyan. Ormai era aperta la strada per Antiochia, di cui si poteva scorgere in lontananza la cittadella: il giorno dopo Boemondo, alla testa dell’avanguardia, giunse davanti alle mura della città, mentre l’intero esercito lo seguiva a poca distanza3. I crociati furono pieni di meraviglia e timore alla vista della grande città: le case ed i bazar di Antiochia coprivano una pianura lunga quasi tre miglia e larga un miglio tra l’Oronte e il Monte Silpio, mentre le ville e i palazzi dei ricchi punteggiavano il fianco della collina; intorno a tutto questo si innalzavano le enormi fortificazioni costruite da Giustiniano e riparate soltanto un secolo prima dai bizantini con gli ultimi ritrovati della loro abilità tecnica. A nord le mura si elevavano sul terreno basso e paludoso lungo il fiume, ma a est e a ovest si arrampicavano a picco sui fianchi della montagna, e a sud correvano lungo la sommità della cresta, superavano audacemente l’abisso attraverso cui il torrente Onopnicles si apriva la via verso la pianura, e lo stretto passaggio chiamato la Porta di Ferro, infine culminavano nella superba cittadella a trecento metri sopra la città. Quattrocento torri si alzavano dalle mura, distanziate in modo da tenerne ogni metro sotto il tiro degli archi. Nell’angolo di nord-est, attraverso la porta di San Paolo, entrava la strada proveniente dal Ponte di Ferro e da Aleppo, e in quello di nord-ovest, attraverso la porta di San Giorgio, la strada da Lattakieh e dalla costa libanese. Le strade per Alessandretta e per il porto di San Simeone, la moderna Suadiye, lasciavano la città attraverso una grande porta sulla sponda del fiume e un ponte fortificato; porte più piccole, quella del Duca e quella del Cane, conducevano verso il fiume più ad oriente. Entro la cinta l’acqua era abbondante, e c’erano orti e pascoli naturali per le greggi. Un intero esercito poteva esservi alloggiato e approvvigionato in vista di un lungo assedio, ed era impossibile circondare interamente la città, poiché le truppe non potevano accamparsi sul selvaggio e scosceso terreno a sud4. I turchi erano riusciti a prendere Antiochia nel 1085 soltanto mediante un tradimento, e il tradimento era l’unico pericolo che Yaghi-Siyan dovesse fronteggiare. Ma egli era preoccupato: se i crociati non erano in condizione di circondare la città, egli da parte sua non aveva abbastanza soldati per guarnire tutte le mura, e finché non fossero giunti i rinforzi non poteva rischiare di perdere uno solo dei suoi uomini, perciò non fece alcun tentativo di attaccare i crociati mentre essi prendevano posizione, e per un paio di settimane non li molestò. Al loro arrivo i crociati si sistemarono di fronte all’angolo nord-occidentale delle mura: Boemondo occupò il settore dirimpetto alla porta di San Paolo, Raimondo quello davanti alla porta del Cane, con Goffredo sulla sua destra di fronte alla porta del Duca; gli altri eserciti attesero dietro Boemondo, pronti a spostarsi dove fosse necessario. La porta sul Ponte e quella di San Giorgio vennero lasciate per il momento incustodite, ma si iniziò subito il lavoro per costruire un ponte di barche attraverso il fiume, dall’accampamento di Goffredo al villaggio di Talenki, dove si trovava il cimitero musulmano. Questo ponte mise l’esercito in grado di raggiungere le strade per Alessandretta e per San Simeone, inoltre venne presto impiantato un accampamento sulla sponda settentrionale del fiume5. Yaghi-Siyan si era aspettato un immediato attacco contro la città, ma fra i capi crociati soltanto Raimondo era del parere che si dovesse tentare di prendere le mura d’assalto: Dio, egli diceva, che li aveva protetti fino a quel momento, avrebbe certamente dato loro la vittoria6. La sua fiducia non era però condivisa dagli altri, le fortificazioni li spaventavano, le loro truppe erano stanche ed essi non potevano sopportare gravi perdite; inoltre, se indugiavano, dei rinforzi li avrebbero raggiunti: Tancredi doveva arrivare da Alessandretta, forse l’imperatore sarebbe presto giunto con le sue

straordinarie macchine d’assedio e la flotta di Guynemer avrebbe potuto cedere loro degli uomini, e si parlava di una flotta genovese che incrociava al largo. Boemondo, la cui opinione era tra loro la più ascoltata, aveva le sue ragioni personali per opporsi al suggerimento di Raimondo. Le sue ambizioni miravano al possesso di Antiochia per sé, perciò non soltanto avrebbe preferito non vederla saccheggiata da un esercito rapace e impaziente per il piacere di mettere a sacco una ricca città, ma, più seriamente, temeva che se fosse stata conquistata per lo sforzo congiunto della crociata, egli non avrebbe mai potuto stabilire un diritto esclusivo su di essa. Aveva imparato la lezione insegnata da Alessio a Nicea: se avesse potuto predisporre le cose in modo che la città s’arrendesse a lui, sarebbe stato molto più difficile contestare i suoi diritti. In breve tempo poteva essere in condizione di combinare una simile intesa, poiché aveva una certa conoscenza dei metodi orientali di tradimento. Sotto la sua influenza, venne ignorato il consiglio di Raimondo, che da quel momento sentì aumentare il suo odio per Boemondo; e l’unica probabilità di conquistare rapidamente Antiochia andò perduta. Poiché, se il primo attacco avesse avuto un qualche successo, Yaghi-Siyan, che era impressionato ed innervosito, avrebbe opposto una debole resistenza. L’indugio gli ridiede fiducia. Boemondo e i suoi amici non ebbero difficoltà a trovare degli intermediari per mezzo dei quali stabilire rapporti con il nemico. I cristiani, profughi ed esuli dalla città, mantenevano stretti rapporti con i loro parenti rimasti entro le mura, grazie alle brecce che esistevano sia nel blocco come nella difesa; e i crociati erano ben informati di tutto ciò che avveniva in Antiochia. Ma il sistema agiva nei due sensi perché molti dei cristiani indigeni, soprattutto i siriani, erano incerti se il governo bizantino o franco fosse da preferire a quello turco ed erano pronti a ingraziarsi Yaghi-Siyan tenendolo altrettanto bene informato di tutto ciò che avveniva nell’accampamento crociato. Da loro egli apprese della riluttanza dei crociati ad attaccare e cominciò a organizzare delle sortite. I suoi uomini uscivano surrettiziamente dalla porta occidentale e accerchiavano tutte le piccole bande di franchi in cerca di foraggiamento che trovavano separate dall’esercito. Si mise in comunicazione con la sua guarnigione a Harenc, oltre il Ponte di Ferro sulla strada per Aleppo, e la incoraggiò a tormentare i franchi della retroguardia. Frattanto ebbe notizia che la missione di suo figlio a Damasco aveva avuto successo e che un esercito stava venendo in suo soccorso7. Verso la fine dell’autunno, i crociati, che si erano eccessivamente rallegrati per l’iniziale inattività di Yaghi-Siyan, cominciarono a perdere coraggio malgrado alcuni successi secondari. Alla metà di novembre una spedizione guidata da Boemondo riuscì ad attirare la guarnigione di Harenc fuori dalla fortezza e a sterminarla completamente8. Quasi nello stesso giorno una squadra genovese di tredici vascelli apparve nel porto di San Simeone, che i crociati poterono cosi occupare; essa recava rinforzi di uomini e di armi, tardiva risposta all’appello rivolto da papa Urbano quasi due anni prima alla città di Genova. Il loro arrivo diede ai crociati la confortante certezza che ora avrebbero potuto comunicare per mare con le rispettive patrie. Ma questi successi erano oscurati dal problema di nutrire l’esercito; quando i crociati erano arrivati nella pianura di Antiochia l’avevano trovata colma di vettovaglie: ovini e bovini erano abbondanti e i granai dei villaggi contenevano ancora la maggior parte del raccolto dell’annata, ed essi si erano nutriti bene e avevano trascurato di metter da parte delle scorte per i mesi invernali. Le truppe erano ora costrette ad andare a cercare dei viveri in un raggio sempre più ampio ed erano molto più esposte a venire distrutte dai turchi che scendevano dalle montagne. Si scoprì ben presto che dei razziatori di Antiochia sgusciavano attraverso la gola dell’Onopnicles e attendevano sulla collina sopra l’accampamento di Boemondo per attaccare gli sbandati che tornavano tardi ai loro quartieri. Come contromisura, i capi decisero di costruire una torre fortificata sulla collina e ciascuno di loro s’impegnò di presidiarla a turno. La

torre venne costruita quasi subito e fu chiamata Malregard9. Intorno al Natale del 1097 le riserve di cibo dell’esercito erano quasi esaurite e non c’era più nulla da prendere nelle campagne circostanti. I principi si riunirono a consiglio e decisero di inviare una parte dell’esercito, agli ordini di Boemondo e di Roberto di Fiandra, lungo la valle dell’Oronte verso Hama, per far razzia nei villaggi e portar via tutte le provviste su cui avessero potuto mettere le mani; la condotta dell’assedio sarebbe stata nel frattempo affidata a Raimondo e al vescovo di Le Puy. Goffredo era a quel momento gravemente ammalato. Boemondo e Roberto partirono il 28 dicembre, prendendo con sé circa ventimila uomini. Yaghi-Siyan venne immediatamente informato della loro partenza: egli attese finché fossero ben lontani poi, nella notte del 29, fece una sortita in forze attraverso il ponte e si gettò sui crociati accampati a nord del fiume. Questi erano probabilmente soldati di Raimondo, che si erano spostati dal loro primo campo quando le piogge invernali avevano reso impraticabile il basso terreno fra il fiume e le mura. L’attacco era inaspettato, ma la vigilanza di Raimondo salvò la situazione; egli raccolse in fretta un gruppo di cavalieri e caricò i turchi nell’oscurità, questi volsero le spalle e fuggirono di nuovo attraverso il ponte. Raimondo li inseguì con tanto ardore che per un momento i suoi uomini riuscirono a metter piede al di là del ponte, prima che le porte potessero venir chiuse. Sembrava che Raimondo fosse sul punto di dimostrare l’esattezza della sua opinione che la città poteva essere presa d’assalto, quando un cavallo che aveva sbalzato di sella il cavaliere scattò indietro improvvisamente, gettando lo scompiglio fra i cavalieri che si affollavano sul ponte. Era troppo buio per vedere che cosa stava succedendo e il panico s’impadronì dei crociati che fuggirono a loro volta, inseguiti dai turchi, finché si raccolsero di nuovo nel loro accampamento vicino al ponte di barche, mentre i turchi tornavano in città. Vi furono molte perdite dalle due parti, ma specialmente fra i cavalieri franchi, di cui ormai la crociata ben difficilmente poteva fare a meno; fra di loro cadde anche il portabandiera di Ademaro10. Frattanto Boemondo stava cavalcando verso sud con Roberto di Fiandra, totalmente ignaro di quanto poco fosse mancato perché Antiochia cadesse nelle mani del suo rivale Raimondo, e ignorando pure che un grande esercito musulmano di soccorso stava avanzando verso di lui. Duqaq di Damasco aveva lasciato la sua capitale, insieme con il suo atabeg Toghtekin e il figlio di YaghiSiyan, Shams, e un considerevole esercito, verso la metà del mese; a Hama l’emiro li aveva raggiunti con le proprie truppe. Il 30 dicembre si trovavano a Shaizar, dove appresero che un esercito crociato era vicinissimo; proseguirono subito e la mattina dopo si scontrarono con il nemico al villaggio di Albara. I crociati furono colti di sorpresa e l’esercito di Roberto, che si trovava un po’ più avanti rispetto a quello di Boemondo, venne quasi circondato. Ma Boemondo, accortosi di quanto stava accadendo, trattenne in riserva il grosso delle sue truppe, per caricare i musulmani al momento in cui essi pensavano di aver vinto la battaglia. Il suo intervento salvò Roberto e inflisse tali perdite all’esercito damasceno che esso ripiegò su Hama. Ma i crociati, anche se gridavano vittoria e avevano in realtà impedito la liberazione di Antiochia, erano anch’essi troppo seriamente indeboliti per continuare la loro spedizione a scopo di vettovagliamento e, dopo aver saccheggiato uno o due villaggi e incendiata una moschea, ritornarono quasi a mani vuote all’accampamento davanti ad Antiochia11. Trovarono i loro compagni profondamente abbattuti: la disastrosa battaglia della notte del 29 era stata seguita il giorno dopo da un grave terremoto, che era stato avvertito fino a Edessa, e quella sera l’aurora boreale sfolgorò nel cielo. Durante le successive settimane cadde incessantemente una pioggia torrenziale e la temperatura diventava sempre più fredda. Stefano di Blois non riusciva a

capire perché tutti si lamentavano dell’eccessivo sole di Siria. Era evidente che Dio era scontento dei suoi guerrieri a causa del loro orgoglio, della loro lussuria e dei loro atti di brigantaggio; Ademaro di Le Puy ordinò un solenne digiuno di tre giorni, ma con la carestia già vicina il digiuno faceva poca differenza, mentre il fallimento della spedizione di vettovagliamento significava ormai l’inedia per molti. Ben presto un uomo su sette stava morendo di fame; inviati in cerca di cibo si spinsero fino nelle montagne del Tauro, dove i principi rupenidi acconsentirono a rifornirli con quello che potevano; alcune provviste giunsero dai monaci armeni stabiliti sui Monti Amano, mentre i cristiani del luogo, armeni e siriani, raccolsero tutto quello che poterono trovare di commestibile e lo portarono all’accampamento. Il loro movente non era però la filantropia ma il guadagno: per il carico di provviste recate da un asino venivano richiesti otto bisanti e soltanto i soldati più ricchi potevano permettersi questi prezzi. I cavalli soffrirono ancor più degli uomini, finché ne rimasero all’esercito soltanto circa settecento12. Un benefattore più generoso venne scoperto nell’isola di Cipro. Il vescovo di Le Puy, seguendo senza dubbio le istruzioni di papa Urbano, si era assiduamente adoperato per stabilire buone relazioni con i dignitari orientali della Chiesa ortodossa e li trattava con un rispetto che smentisce la teoria secondo cui il papa considerava la crociata come un mezzo per portarli sotto il suo controllo. Per il patriarca di Antiochia, imprigionato entro la città, questa amicizia era per il momento di scarso valore, perché i turchi di tanto in tanto lo mettevano in una gabbia e lo facevano penzolare al di sopra delle mura; ma il patriarca Simeone di Gerusalemme, che si era allontanato dalla sua sede quando la morte di Ortoq aveva reso troppo malsicura la vita li, si trovava a Cipro. Non appena furono stabilite le comunicazioni, Ademaro si mise in contatto con lui; Simeone non approvava le usanze latine, contro le quali aveva pubblicato un trattato severo, anche se moderato nei termini, ma era lieto di collaborare con la Chiesa occidentale per il bene della cristianità. Già in ottobre si era unito ad Ademaro nell’inviare un rapporto sulla crociata ai cristiani dell’Occidente ed ora, informato della situazione dell’esercito, spedi regolarmente tutto il cibo e il vino di cui l’isola poteva disporre13. Gli invii di cibo del patriarca, per quanto abbondanti, potevano fare poco per alleviare la miseria generale. Spinti dalla fame gli uomini cominciarono a disertare dall’accampamento per cercare rifugio in regioni più prospere o per tentare la lunga strada del ritorno in patria. Dapprima i disertori furono oscuri soldati semplici, ma una mattina di gennaio si scoprì che Pietro l’Eremita in persona era fuggito, accompagnato da Guglielmo il Carpentiere. Questi era un avventuriero, che non aveva alcun desiderio di sprecare il tempo in una crociata senza speranze e aveva già disertato durante una spedizione in Spagna, ma è difficile capire come mai Pietro fosse a tal punto scoraggiato. I fuggiaschi furono inseguiti da Tancredi e ignominiosamente ricondotti indietro: Pietro, di cui era opportuno salvare la riputazione, venne perdonato in silenzio, ma Guglielmo fu tenuto in piedi tutta la notte nella tenda di Boemondo e la mattina si ebbe da lui un’aspra e minacciosa lezione. Egli giurò che non avrebbe mai più lasciato l’esercito finché non fosse giunto a Gerusalemme, ma più tardi venne meno al suo giuramento. Il prestigio di Pietro inevitabilmente ne soffrì, ma presto gli si sarebbe offerta un’occasione per riscattarlo14. Poiché l’esercito diminuiva di giorno in giorno a causa della carestia e delle diserzioni, Ademaro pensò che bisognava rivolgere all’Occidente un energico appello per ottenere rinforzi e, al fine di imprimergli la massima autorità, egli lo redasse in nome del patriarca di Gerusalemme, di cui aveva presumibilmente ottenuto il consenso. Il linguaggio usato nell’appello è importante per la luce che getta sulla politica ecclesiastica di Ademaro. Il patriarca si rivolge a tutti i fedeli dell’Occidente quale capo dei vescovi che si trovano in quel momento in Oriente, sia greci che latini, si attribuisce il

titolo di «Apostolico», si arroga il diritto di scomunicare qualsiasi cristiano che venga meno ai voti di crociato. È il linguaggio di un pontefice indipendente e Ademaro non lo avrebbe mai messo sulle labbra di una persona che si aveva l’intenzione di assoggettare al vescovo di Roma. Quali che fossero i piani definitivi di Urbano per il governo delle Chiese orientali, il suo legato non predicava la supremazia papale. Non sappiamo quale risposta la lettera del patriarca abbia provocato in Occidente15. Mentre i crociati mostravano un giusto rispetto per le gerarchie della Chiesa ortodossa d’Oriente, i loro rapporti con il suo sovrano laico peggioravano. Al principio di febbraio il rappresentante dell’imperatore, Taticio, abbandonò improvvisamente l’esercito: egli aveva accompagnato la crociata da Nicea con un piccolo stato maggiore e un distaccamento composto soprattutto di guide e di genieri e apparentemente era stato in buone relazioni con i suoi capi. A Comana e a Coxon essi gli avevano correttamente consegnato le conquiste fatte, e nei suoi rapporti egli rendeva un generoso tributo alle loro qualità di combattenti. Vennero date allora parecchie spiegazioni per la sua partenza, ma non v’è alcuna necessità di rifiutare il racconto che egli fece al suo ritorno a Costantinopoli. Secondo lui, Boemondo lo mandò a chiamare un giorno, quando già si sapeva che i turchi stavano per compiere un altro tentativo per liberare Antiochia, e gli disse in stretta confidenza che gli altri capi credevano che fosse l’imperatore a incoraggiare i turchi e che stavano complottando di vendicarsi facendolo uccidere. Taticio si lasciò convincere; e in realtà in quel momento l’umore dell’esercito era tale che ben poteva desiderare un capro espiatorio. Inoltre, egli era persuaso che i crociati, indeboliti e demoralizzati dalla fame, non avevano ormai più nessuna speranza di impadronirsi della grande fortezza; il suo consiglio, che bisognasse costringerla ad arrendersi per fame occupando i castelli che controllavano le sue vie d’accesso più lontane, era stato ignorato; egli annunziò perciò che doveva tornare in territorio imperiale per organizzare un sistema di vettovagliamento più soddisfacente e s’imbarcò per Cipro dal porto di San Simeone. Per dimostrare che intendeva tornare, lasciò con l’esercito la maggior parte degli uomini del suo stato maggiore. Ma non appena fu partito, i propagandisti di Boemondo insinuarono che egli era fuggito per paura del prossimo attacco turco, se non per vero e proprio tradimento. Quando il rappresentante dell’imperatore agiva in modo cosi disonorevole, la crociata veniva certamente esonerata da qualsiasi obbligo verso l’Impero: ossia, Antiochia non doveva essergli restituita16. Poi, Boemondo fece circolare la voce che anch’egli stava prendendo in considerazione la necessità di abbandonare l’esercito perché non poteva trascurare più a lungo i suoi obblighi in patria. Sino a quel momento egli aveva avuto una parte importante in tutte le operazioni militari della crociata e, come aveva calcolato, la prospettiva di perdere il suo aiuto in quella critica congiuntura spaventò l’esercito. Egli lasciò perciò capire che se gli fosse stata data la signoria su Antiochia, ciò lo avrebbe ricompensato dei danni che poteva subire a causa della sua assenza dall’Italia. I principi suoi colleghi non si lasciarono trarre in inganno da queste manovre, ma fra le truppe egli si acquistò molte simpatie17. Frattanto i turchi si stavano di nuovo radunando per accorrere in soccorso di Antiochia. Poiché Duqaq non era riuscito a recare l’aiuto promesso, Yaghi-Siyan tornò a rivolgersi al suo precedente sovrano, Ridwan di Aleppo, il quale rimpiangeva ormai la propria inattività che aveva permesso ai franchi di giungere fino ad Antiochia. Quando Yaghi-Siyan ne riconobbe di nuovo la sovranità, egli si preparò a venire in suo aiuto, con la collaborazione di suo cugino Soqman l’Ortoqida, da Diarbekir, e di suo suocero, l’emiro di Hama. Ai primi di febbraio gli alleati rioccuparono Harenc, dove si radunarono per il loro attacco contro l’accampamento crociato. All’udire la notizia i principi crociati

tennero consiglio nella tenda di Ademaro, e Boemondo propose che la fanteria rimanesse nell’accampamento per contenere eventuali sortite dalla città, mentre i cavalieri, di cui soltanto settecento erano allora in condizione di combattere, lanciavano un attacco di sorpresa contro l’esercito invasore. Il suo consiglio venne seguito e l’8 febbraio, al calar delle tenebre, la cavalleria franca attraversò inosservata il ponte di barche e prese posizione fra il fiume e il lago di Antiochia, da dove poteva gettarsi sui turchi mentre essi avanzavano per attraversare il Ponte di Ferro. All’alba l’esercito turco giunse in vista e subito la prima linea dei crociati andò alla carica, prima che gli arcieri turchi avessero il tempo di schierarsi. La carica non riuscì a spezzare la massa dei turchi e i cavalieri si ritirarono, attirando il nemico sul terreno che avevano scelto per la battaglia, dove il lago sulla sinistra e il fiume sulla destra impedivano alle grandi moltitudini di turchi di aggirarli. Su questo stretto terreno i cavalieri caricarono di nuovo, questa volta con tutte le loro forze: sotto la loro pressione i turchi armati più leggermente ruppero le file e fuggirono, spargendo confusione nelle linee serrate dietro di loro. Presto l’intero esercito di Ridwan si trovò in rotta disordinata, verso Aleppo; quando i fuggiaschi passarono per Harenc, la guarnigione si uni a loro, abbandonando la città ai cristiani del luogo che la riconsegnarono ai crociati. Mentre la cavalleria otteneva questa spettacolare vittoria, la fanteria stava combattendo una battaglia assai dura. Yaghi-Siyan aveva fatto una sortita in forze contro il campo e i suoi difensori cominciavano a perdere terreno quando, nel pomeriggio, si videro giungere i cavalieri trionfanti. Come essi si avvicinarono Yaghi-Siyan capi che l’esercito di soccorso era stato battuto e richiamò i suoi uomini dentro le mura18. La sconfitta del secondo esercito di soccorso, anche se rialzò il morale dei crociati, non migliorò per nulla la loro situazione immediata. Il cibo era sempre molto scarso, anche se dei rifornimenti cominciavano a giungere al porto di San Simeone, provenienti in massima parte da Cipro, dove il patriarca Simeone e probabilmente anche il disprezzato Taticio, raccoglievano tutto quello che era disponibile. Ma la strada verso il mare era continuamente minacciata da gruppi di predatori che uscivano di nascosto dalla città e tendevano imboscate ai trasporti più piccoli; mentre la città stessa riceveva delle provviste attraverso la porta di San Giorgio, ancora incustodita, e il ponte fortificato. Per controllare il ponte e per rendere sicura la strada verso San Simeone, Raimondo propose di costruire una torre sulla vicina sponda settentrionale, ma il progetto venne rimandato a causa della mancanza di materiali e di muratori. Il 4 marzo approdò a San Simeone una flotta con equipaggi inglesi, comandata dal pretendente al trono in esilio Edgardo Aetheling. Recava pellegrini dall’Italia, ma durante il viaggio era passata da Costantinopoli, dove Edgardo l’aveva raggiunta, ponendosi agli ordini dell’imperatore. Là le navi erano state caricate con materiali e macchinari da assedio, il cui arrivo era molto opportuno: il fatto che fossero stati forniti dall’imperatore venne accuratamente trascurato dai crociati. Alla notizia dell’arrivo della flotta, Raimondo e Boemondo si misero in cammino insieme, poiché l’uno non si fidava di lasciar solo l’altro, per reclutare il maggior numero possibile di combattenti fra i passeggeri e per scortare i macchinari e il materiale fino all’accampamento. Il 6 marzo, mentre stavano tornando carichi lungo la strada di San Simeone, caddero in un’imboscata tesa loro da un distaccamento della guarnigione della città; le loro truppe furono colte di sorpresa e fuggirono in preda al panico, abbandonando i loro carichi nelle mani del nemico. Alcuni sbandati si precipitarono nell’accampamento e sparsero la voce che sia Raimondo che Boemondo erano stati uccisi; a questa notizia Goffredo si preparava ad accorrere in soccorso dell’esercito sconfitto, quando i turchi compirono un’improvvisa sortita dalla città contro il campo per permettere a coloro che avevano teso l’imboscata e che ora erano carichi di bottino di raggiungere le porte. Gli uomini di

Goffredo, già armati per mettersi in marcia sulla strada verso il mare, riuscirono a sostenere l’assalto finché Raimondo e Boemondo apparvero inaspettatamente con il resto delle loro forze. Per quanto fossero indeboliti, il loro arrivo mise Goffredo in grado di respingere i turchi dentro la città, poi i principi si unirono per intercettare i predatori sulla via del ritorno e la loro tattica ebbe un successo completo: i razziatori, ostacolati dal carico, furono sorpresi dalla manovra e massacrati mentre avanzavano faticosamente per raggiungere il ponte, e i preziosi materiali da costruzione vennero ricuperati. Si disse che rimanessero uccisi millecinquecento turchi, e molti di loro annegarono nel tentativo di attraversare il fiume; fra i morti si trovavano nove emiri. Quella sera dei soldati della guarnigione uscirono segretamente dalla città per seppellire i morti nel cimitero musulmano sulla sponda settentrionale del fiume. I crociati li videro e li lasciarono in pace, ma la mattina dopo dissotterrarono i cadaveri per impossessarsi degli ornamenti d’oro e d’argento che portavano19. La vittoria dei crociati ebbe come risultato di completare il blocco di Antiochia. Con gli operai e i materiali ora disponibili fu costruita la fortezza progettata per controllare l’accesso al ponte fortificato; venne eretta presso una moschea nelle vicinanze del cimitero musulmano e chiamata ufficialmente il Castello di La Mahomerie, dall’antico nome francese per «moschea». Ma quando i capi discussero a chi dovesse toccare il castello, Raimondo, che aveva avuto l’idea della costruzione, ne reclamò il dominio per sé; veniva perciò di solito designato come il Castello di Raimondo. L’edificio fu terminato per il 19 marzo e presto dimostrò la sua importanza nell’impedire ogni accesso alla porta del Ponte. Ma la porta di San Giorgio rimaneva ancora aperta e per porre anch’essa sotto controllo fu deciso subito dopo di costruire un castello sul luogo di un antico convento, sulla collina che la fronteggiava. La costruzione fu terminata in aprile e il castello affidato a Tancredi, a cui venne assegnata la somma di trecento marchi per le sue spese. Da quel momento nessun trasporto di viveri poté raggiungere la città e gli abitanti non poterono più inviare le loro greggi a pascolare fuori delle mura, come era stata loro abitudine fino allora. Predatori isolati potevano ancora arrampicarsi oltre le mura sul Monte Silpio o attraverso la stretta Porta di Ferro, ma non si potevano più tentare delle sortite organizzate. Mentre la guarnigione cominciava a soffrire la fame, il problema del vettovagliamento dei crociati diventò più facile. Le migliori condizioni del tempo con il sopraggiungere della primavera, la possibilità di andare a cercare viveri senza il rischio di improvvisi attacchi turchi, e la prontezza dei mercanti a commerciare ora con l’accampamento, mentre fino a quel momento avevano venduto le loro merci ad alti prezzi alla guarnigione, resero disponibile una maggiore quantità di rifornimenti e sollevarono il morale dei franchi. Poco dopo la costruzione del suo castello, Tancredi si era impadronito di un’enorme partita di cibo destinata a Yaghi-Siyan e trasportata da mercanti cristiani, siriani e armeni. Questi successi indussero i crociati a sperare che Antiochia potesse ora venir costretta alla resa per fame, ma ciò doveva avvenire rapidamente, perché il terribile Kerbogha di Mosul stava radunando le sue forze20. Mentre i crociati si trovavano ancora a Costantinopoli, l’imperatore Alessio li aveva consigliati di giungere a una intesa di qualsiasi genere con i Fatimiti d’Egitto. Questi erano nemici irriducibili dei turchi, si mostravano tolleranti verso i loro sudditi cristiani ed erano sempre stati disposti a trattare con le potenze cristiane. I crociati probabilmente non avevano seguito questo consiglio, ma al principio della primavera arrivò all’accampamento davanti ad Antiochia un’ambasceria egiziana, inviata da al-Afdal, l’onnipotente visir del piccolo califfo al-Mustali. Sembra che la sua proposta fosse quella di addivenire a una divisione dell’impero selgiuchida: i franchi si sarebbero presa la Siria settentrionale mentre l’Egitto avrebbe occupato la Palestina. Senza dubbio al-Afdal considerava i crociati soltanto come mercenari dell’imperatore e presumeva perciò che una divisione

simile, basata sullo statu quo esistente prima delle invasioni turche, sarebbe stata perfettamente accettabile. I principi occidentali ricevettero gli ambasciatori con cordialità, anche se non si impegnarono in alcun accordo specifico; gli egiziani si trattennero per alcune settimane nell’accampamento, poi tornarono in patria accompagnati da una piccola ambasceria franca e carichi di doni, provenienti in gran parte dal bottino conquistato nella battaglia del 6 marzo. I negoziati ammaestrarono i crociati sui vantaggi che si potevano ricavare da intrighi con le potenze musulmane, perciò poco dopo, alla notizia dei preparativi di Kerbogha, essi misero da parte i loro pregiudizi religiosi e inviarono dei messi a Duqaq di Damasco, per chiedere la sua neutralità dichiarando di non avere nessuna mira sul suo territorio. Duqaq, che considerava suo fratello Ridwan di Aleppo come il suo principale nemico e che sapeva che questi era tornato alla sua precedente neutralità, non accondiscese ai loro desideri21. Ai primi di maggio si seppe che Kerbogha era in marcia: oltre alle sue proprie truppe, gli erano stati forniti degli uomini dai sultani di Bagdad e di Persia e dai principi Ortoqidi della Mesopotamia settentrionale; Duqaq aspettava di unirsi a lui e ad Antiochia Yaghi-Siyan, per quanto sottoposto a una dura pressione, resisteva ancora. Fra i crociati crebbe la tensione, essi sapevano che, se non si fossero impadroniti prima della città, sarebbero stati schiacciati tra la guarnigione e l’enorme esercito di liberazione. L’imperatore Alessio stava conducendo in quel tempo una campagna in Asia Minore; gli venne inviato un disperato appello perché accorresse in loro aiuto. Boemondo, deciso a conquistare Antiochia per sé, aveva un particolare motivo di preoccupazione: se l’imperatore fosse arrivato prima della caduta di Antiochia o se Kerbogha fosse stato sconfitto soltanto grazie all’aiuto imperiale, sarebbe diventato impossibile non restituire la città all’Impero. La maggior parte dei principi erano pronti a cedere ai suoi desideri, ma Raimondo di Tolosa, sostenuto probabilmente dal vescovo di Le Puy, non era d’accordo. I motivi di Raimondo sono stati spesso discussi; egli, unico fra i principi, non era vincolato da un esplicito giuramento all’imperatore, ma aveva lasciato Costantinopoli in buoni rapporti con Alessio, odiava e diffidava di Boemondo come suo principale rivale nella guida militare della crociata, e può darsi che sia lui sia il legato pensassero che, qualora il giuramento non avesse valore, soltanto alla Chiesa, di cui Ademaro era il rappresentante, spettasse il diritto di assegnare dei territori. Dopo qualche discussione e qualche intrigo si giunse a un compromesso: se Boemondo fosse stato il principe le cui truppe penetravano per prime nella città e se l’imperatore non fosse mai venuto, egli avrebbe potuto tenerla per sé. Anche cosi, Raimondo avanzava obiezioni, ma Boemondo aveva già motivo di essere soddisfatto22. Un calcolo errato dello stesso Kerbogha diede alla crociata un certo respiro. Egli non desiderava avanzare su Antiochia lasciando un esercito franco a Edessa in posizione da minacciare il suo fianco destro e non si rese conto che Baldovino era troppo debole per un’azione offensiva, ma troppo forte nella sua grande fortezza per esserne facilmente sloggiato. Durante le ultime tre settimane di maggio egli si fermò davanti a Edessa, attaccandone invano le mura, prima di decidere che non valeva la pena di compiere quello sforzo e di perdere tanto tempo23. Durante queste tre preziose settimane Boemondo si era dato da fare. A un certo momento aveva stabilito dei rapporti con un capitano che si trovava entro la città di Antiochia, di nome Firuz. Questi era apparentemente un armeno convertito all’islamismo, che aveva raggiunto un’alta posizione nel governo di Yaghi-Siyan. Sebbene fedele in apparenza, egli era invidioso del suo padrone che recentemente lo aveva multato per aver fatto incetta di grano, e si teneva in contatto con i suoi ex correligionari. Per mezzo di costoro giunse a un’intesa con Boemondo e acconsentì a vendere la città. Il segreto sull’accordo venne mantenuto strettamente; Boemondo non si confidò con nessuno, anzi

sottolineò pubblicamente i pericoli che li attendevano per accrescere il valore del suo prossimo trionfo24. La sua propaganda ebbe un successo perfino troppo grande. Alla fine di maggio Kerbogha abbandonò l’inutile assedio di Edessa e continuò la sua avanzata; com’egli si avvicinava il panico cominciò a diffondersi nell’accampamento crociato e i disertori se la svignavano in tal numero che era inutile cercare di fermarli. Alla fine, il 2 giugno, un grosso distaccamento di francesi settentrionali prese la strada per Alessandretta, guidato da Stefano di Blois. Soltanto due mesi prima Stefano aveva scritto allegramente a sua moglie dal campo, per narrarle delle difficoltà dell’assedio, ma anche per descriverle la trionfale battaglia del 6 marzo e per mettere in rilievo la propria importanza nell’esercito. Ma ora, mentre la città resisteva ancora e le armate di Kerbogha si avvicinavano, gli parve pura follia aspettare un massacro che non poteva mancare: non era mai stato un grande combattente, ma almeno voleva vivere abbastanza per combattere in un’altra occasione. Di tutti i principi Stefano era stato il più entusiasta nella sua ammirazione per l’imperatore e Boemondo deve aver sorriso nel vederlo partire, anche se non poteva presagire quanto sarebbe stata utile per la sua causa questa fuga25. Se Stefano avesse ritardato la sua partenza soltanto di poche ore avrebbe cambiato idea: proprio quel giorno Firuz inviò suo figlio da Boemondo per dirgli che era pronto al tradimento. Si mormorò più tardi che egli aveva esitato fino alla sera prima, quando aveva scoperto che sua moglie si era compromessa con uno dei suoi colleghi turchi. Egli aveva allora il comando della torre delle Due Sorelle e dell’adiacente tratto delle mura della città verso l’esterno, di fronte al castello di Tancredi ed esortava perciò Boemondo a riunire quel pomeriggio l’esercito crociato e a condurlo verso oriente, come se si dirigesse a intercettare Kerbogha; poi, dopo il calar delle tenebre, le truppe dovevano tornare furtivamente verso il muro occidentale, portando le scale per arrampicarsi sulla torre, dove egli sarebbe stato in vigile attesa. Se Boemondo approvava questo piano, quella sera egli avrebbe rimandato suo figlio in ostaggio come segno che era pronto. Boemondo accettò il suo consiglio; tardi nella giornata inviò uno dei suoi fanti, che si chiamava Male Couronne, in giro per l’accampamento come un araldo per ordinare all’esercito di tenersi pronto a partire al tramonto per un’incursione in territorio nemico. Poi invitò a colloquio i principi più eminenti, Ademaro, Raimondo, Goffredo e Roberto di Fiandra e per la prima volta parlò loro del complotto. «Stanotte, - disse, - se Dio ci aiuta, Antiochia sarà nelle nostre mani». Per quanta invidia abbia provato Raimondo non ne traspari nulla ed egli e i suoi colleghi diedero il loro leale appoggio al progetto. Al tramonto l’esercito crociato parti verso oriente, la cavalleria risali la valle di fronte alla città e la fanteria avanzò faticosamente su per i sentieri in salita dietro di essa. I turchi della città li videro partire e si rilassarono, con la prospettiva di una notte tranquilla. Ma nel cuore della notte vennero dati ordini a tutto l’esercito di tornare indietro alle mura occidentali e nord-occidentali e poco prima dell’alba le truppe di Boemondo giunsero davanti alla torre delle Due Sorelle. Una scala venne appoggiata contro la torre e uno dopo l’altro sessanta cavalieri vi si arrampicarono, guidati da Folco di Chartres, e attraverso una finestra alta sulle mura penetrarono in una stanza dove Firuz attendeva nervosamente. Appena essi entrarono egli ritenne il loro numero insufficiente: «Abbiamo cosi pochi franchi, - esclamò in greco, - dov’è Boemondo?» Non aveva bisogno di preoccuparsi: dalle Due Sorelle i cavalieri si impadronirono delle altre due torri che erano sotto il suo controllo, permettendo cosi ai loro amici di appoggiare le scale contro i tratti del muro che si trovavano fra l’una e l’altra, mentre un fante italiano andava a dire a Boemondo che era ormai tempo per lui di scalare il muro ed

entrare nella città. La scala si ruppe dopo di lui, ma intanto alcuni dei soldati correvano lungo il muro sorprendendo le guarnigioni nelle loro torri, altri scendevano nella città e svegliavano gli abitanti cristiani e con il loro aiuto spalancavano la porta di San Giorgio e la grande porta del Ponte, oltre la quale era in attesa il grosso dell’esercito. I crociati si riversarono allora attraverso le porte, incontrando scarsa opposizione; greci e armeni si unirono a loro nel massacrare tutti i turchi che incontravano, donne e uomini, incluso lo stesso fratello di Firuz. Anche molti cristiani perirono nella confusione. Yaghi-Siyan, svegliato dal clamore, concluse subito che tutto era perduto e con la sua guardia del corpo fuggì a cavallo su per la gola che conduceva al Ponte di Ferro e, fuori, verso la collina. Ma suo figlio Shams ed-Daulah conservò il proprio sangue freddo e, raccolti tutti gli uomini che poté trovare, si aprì un varco verso la cittadella prima che i franchi potessero raggiungerlo. Boemondo lo seguì ma non riuscì ad aprirsi un passaggio, perciò piantò il suo vessillo purpureo sul punto più alto che poté raggiungere. La vista della bandiera che sventolava nella luce del sole nascente, rallegrò i crociati che si trovavano molto più in basso mentr’essi entravano in città. Dopo aver raccolto un numero sufficiente di uomini, Boemondo tentò un attacco serio contro la cittadella, ma venne respinto e ferito, e i suoi uomini preferirono tornare alla più piacevole occupazione di saccheggiare e depredare le vie della città; anch’egli fu ben presto consolato nel ricevere da un contadino armeno la testa di Yaghi-Siyan. Questi era stato sbalzato dal cavallo su un sentiero di montagna mentre fuggiva; la sua scorta lo aveva abbandonato e, mentre giaceva esausto e semistordito, alcuni armeni lo avevano trovato e riconosciuto. Lo uccisero subito, e mentre uno si guadagnava una bella ricompensa portando la sua testa a Boemondo, gli altri vendettero il suo budriere e il fodero della sua scimitarra per sessanta bisanti l’uno. Alla sera del 3 giugno non rimaneva un solo turco vivo in Antiochia e perfino dai villaggi dei dintorni, dove i franchi non erano mai giunti, la popolazione turca era fuggita per rifugiarsi presso Kerbogha. Le case dei cittadini di Antiochia, sia dei cristiani che dei musulmani, furono saccheggiate, i tesori e le armi che vi si trovarono, vennero dispersi o stoltamente distrutti; non si poteva camminare nelle vie senza calpestare dei cadaveri, che tutti quanti rapidamente imputridivano nel calore estivo. Ma Antiochia era di nuovo cristiana26.

Capitolo quarto Il possesso di Antiochia

... ha steso la mano contro quelli ch’erano in pace con lui, ha violato il patto concluso. Salmi, LV, 20

La conquista di Antiochia fu un’impresa che rallegrò il cuore dei cristiani. Ma quando la loro trionfante esaltazione si placò e i crociati esaminarono la propria situazione, scoprirono di trovarsi in condizioni poco migliori di prima. Avevano ottenuto dei grandi vantaggi: avevano le fortificazioni della città, non danneggiate dalla battaglia, per proteggerli contro gli eserciti di Kerbogha; i civili che li seguivano, ancora numerosi malgrado malattie e diserzioni, erano protetti e non costituivano più quella preoccupazione che avevano rappresentato nell’accampamento; l’esercito turco che si trovava nella città era stato quasi del tutto annientato e non costituiva più una minaccia continua. Ma per la difesa della lunga linea delle mura occorrevano più uomini di quanti potevano disporre; la cittadella non era stata presa e doveva essere tenuta sotto controllo, inoltre, sebbene la sua guarnigione fosse troppo debole per prendere l’offensiva, da quella altezza poteva osservare ogni movimento in città ed era impossibile impedirle di stabilire dei contatti con Kerbogha. Nella città i crociati non trovarono magazzini di viveri come avevano sperato, anzi, nella loro ebbrezza avevano essi stessi distrutto la maggior parte delle sue ricchezze. E sebbene i musulmani fossero stati trucidati, non ci si poteva fidare della popolazione cristiana indigena, specialmente dei siriani, che si erano mostrati infidi nel passato e che avevano scarsa simpatia per i latini. Il loro tradimento rappresentava un rischio molto maggiore per un esercito che difendeva la città che per uno accampato fuori delle mura. Inoltre, a seguito della vittoria, giunse a un punto critico un problema che aveva già minacciato di dividere la crociata: a chi doveva essere consegnata Antiochia? Dapprima non ci fu tempo da dedicare alle discussioni sul futuro della città, poiché Kerbogha stava avanzando e bisognava difenderla contro questo attacco imminente. Quali che fossero i progetti di Boemondo, egli non aveva truppe sufficienti per guarnire le mura senza l’aiuto dei suoi colleghi. Tutti dovevano partecipare alla difesa e ciascuno dei principi si assunse la responsabilità di una sezione delle fortificazioni. Compito immediato dell’esercito era quello di ripulire la città e di seppellire rapidamente i morti, prima che i corpi in decomposizione provocassero qualche epidemia. Mentre i soldati erano impegnati in questo modo, il vescovo di Le Puy provvide affinché la cattedrale di San Pietro e le altre chiese che i turchi avevano sconsacrato venissero pulite e restituite al culto cristiano. Il patriarca Giovanni fu liberato dalla prigione e ristabilito sul trono patriarcale; egli era un greco che detestava il rito latino, ma era il legittimo patriarca di una sede ancora in completa comunione con Roma, e Ademaro non avrebbe certamente offeso la legittimità ed i sentimenti della gente del luogo ignorando i suoi diritti. E nessuno dei crociati, che sapevano quello che Giovanni aveva sofferto per la fede, si risentì per la sua reintegrazione; tranne, forse, Boemondo che può aver previsto quali inconvenienti gliene sarebbero derivati1. I crociati ebbero a mala pena il tempo di insediarsi nella città prima che arrivasse Kerbogha. Il 5

giugno egli raggiunse l’Oronte al Ponte di Ferro e due giorni più tardi si accampò davanti alle mura, sulle stesse posizioni occupate poco tempo prima dai franchi. Shams ed-Daula inviò subito dei messi dalla cittadella per chiedere il suo aiuto, ma Kerbogha insistette perché la fortezza fosse consegnata alle sue truppe. Shams chiese che gli fosse concesso di mantenere il comando finché la città venisse ripresa, ma invano: fu costretto a consegnare la fortezza e tutte le sue scorte al fidato luogotenente di Kerbogha, Ahmed ibn Merwan2. II primo progetto di Kerbogha era stato di penetrare nella città dalla cittadella. Prevedendo il pericolo, Boemondo e Raimondo avevano costruito un rozzo muro per tagliarla fuori dalle fortificazioni della città; poiché era il settore più vulnerabile della difesa, sembra che i principi facessero dei turni per provvedere gli uomini necessari. Dopo una breve ricognizione Ahmed ibn Merwan lanciò un attacco contro questo settore, probabilmente nelle prime ore del 9 giugno. Ugo di Vermandois e i conti di Fiandra e di Normandia erano incaricati della difesa e vennero quasi sopraffatti, ma alla fine lo respinsero con gravi perdite; dopo di che Kerbogha decise che sarebbe costato di meno bloccare i franchi più stretta mente ed attaccarli più tardi, quando fossero stati indeboliti dalla fame. Il 10 egli si mosse per circondare completamente la città; i crociati tentarono di ostacolarlo e lanciarono una violenta sortita, ma vennero ben presto costretti a ritirarsi di nuovo al riparo delle mura3. Il fallimento del loro sforzo precipitò i crociati nella tristezza: il loro morale, sollevato per un certo tempo la settimana prima dalla conquista della città, toccò ora i livelli più bassi. Il cibo era di nuovo scarso: una pagnottella costava un bisante, un uovo due e una gallina quindici; molti vivevano soltanto di foglie d’alberi o di cuoio secco. Ademaro di Le Puy cercò invano di organizzare dei soccorsi per i pellegrini più poveri. Fra i cavalieri, molti pensavano che Stefano di Blois avesse scelto la via più saggia; durante la notte del io un gruppo guidato da Guglielmo ed Aubrey di GrantMesnil e da Lamberto, conte di Clermont, riuscì a passare attraverso le linee nemiche e si diresse in tutta fretta verso il mare, a San Simeone. Nel porto vi erano delle navi franche, probabilmente alcune genovesi e altre della flotta di Guynemer; quando giunsero i fuggiaschi e annunziarono che l’esercito crociato era inevitabilmente condannato, levarono in fretta le ancore e salparono per un porto più sicuro. I fuggitivi partirono con loro per Tarso e colà unirono le loro forze a quelle di Stefano di Blois, il quale alla notizia della conquista di Antiochia aveva progettato di farvi ritorno ma se ne era astenuto spaventato avendo visto da lontano l’esercito di Kerbogha. Guglielmo di Grant-Mesnil aveva sposato la sorella di Boemondo, Mabilla, e la defezione di uno che era cosi strettamente imparentato con il capo normanno non poteva mancare di impressionare l’esercito4. Agli uomini che si trovavano entro le mura di Antiochia sembrava ora che la loro unica possibilità di salvezza risiedesse nell’arrivo dell’imperatore e delle sue truppe; già si sapeva che Alessio era partito da Costantinopoli. Durante la primavera Giovanni Ducas era avanzato dalla Lidia in Frigia fino alla strada principale che i crociati avevano seguito, e a un certo momento aveva riaperto la strada per Attalia, perciò Alessio ritenne di poter condurre in tutta sicurezza il grosso del suo esercito nel cuore dell’Asia Minore per recare aiuto alla crociata, anche se molti dei suoi consiglieri disapprovavano una spedizione che lo avrebbe condotto cosi lontano dalla sua capitale, attraverso una regione che non era ancora del tutto ripulita dal nemico. Verso la metà di giugno egli era a Filomelio e mentre stava per proseguire la marcia, comparvero all’accampamento Stefano e Guglielmo. Essi erano salpati insieme da Tarso e durante il viaggio, probabilmente ad Attalia, erano stati informati del luogo dove si trovava l’imperatore. Lasciando che i loro uomini continuassero il viaggio per mare, essi si affrettarono verso nord, a Filomelio, per avvertirlo che i turchi erano ormai certamente ad Antiochia e l’esercito crociato annientato. Circa nello stesso tempo giunse Pietro di

Aulps, che aveva disertato dal suo posto a Comana, ad est di Cesarea, per riferire che un esercito turco stava avanzando per attaccare Alessio prima che potesse raggiungere Antiochia. L’imperatore non aveva motivi per dubitare dei loro racconti: Stefano era stato per il passato un amico leale e fidato, e un simile disastro non era affatto improbabile. Le notizie lo costrinsero a riesaminare i suoi piani; se Antiochia era stata presa e i franchi erano periti, i turchi avrebbero certamente continuato la loro offensiva. I Selgiuchidi avrebbero senza dubbio tentato di riconquistare ciò che avevano perduto e avrebbero avuto dietro di sé l’intero mondo turco vittorioso. In tali circostanze sarebbe stato una pazzia continuare la spedizione. Già in quel momento, il suo fianco sinistro era pericolosamente esposto agli attacchi turchi ed era inconcepibile, in tale situazione allontanarsi ulteriormente dalle basi per una causa che era già perduta. Anche se fosse stato un avventuriero come i principi della crociata, difficilmente il rischio sarebbe valso la posta, ma egli era responsabile del benessere di un Impero grande e vulnerabile e U suo primo dovere era verso i suoi sudditi. Convocò il suo consiglio e comunicò loro che era necessario ritirarsi; fra i membri del suo stato maggiore c’era anche un principe normanno, Guido, fratellastro di Boemondo, che era stato per molti anni al suo servizio e che, commosso al pensiero della situazione dei crociati, implorò l’imperatore di continuare la marcia nell’eventualità che essi potessero ancora essere salvati. Ma nessuno appoggiò la sua richiesta. Il grande esercito bizantino si ritirò verso nord, lasciando una fascia di terra bruciata per proteggere il territorio appena conquistato ai turchi5. Sarebbe stato meglio per l’Impero e per la pace della cristianità orientale se Alessio avesse ascoltato le suppliche di Guido, anche se non gli era possibile arrivare ad Antiochia prima della battaglia decisiva. Ma quando giunse ai crociati la notizia che l’esercito imperiale era tornato indietro, il loro risentimento fu intenso: essi si consideravano guerrieri di Cristo in lotta contro gli infedeli, perciò il rifiuto di accorrere in loro aiuto per quanto disperata sembrasse l’impresa, era un atto di tradimento verso la Fede. Essi non potevano tenere in giusto conto gli altri doveri dell’imperatore, mentre invece la sua indifferenza sembrava giustificare tutti i sospetti e l’avversione che essi già provavano per i greci. Bisanzio non venne mai perdonata e Boemondo ne trasse ampio vantaggio per le sue ambizioni6. I crociati si resero conto che anche Stefano di Blois era da biasimare; i loro cronisti parlarono con ira della sua viltà e la notizia giunse ben presto in Europa. Egli stesso tornò a casa a piccole tappe, presso una moglie che si vergognava tremendamente di lui e che non ebbe più pace finché non riuscì a mandarlo di nuovo in Oriente a riparare la sua colpa7. Nel frattempo Kerbogha continuava a premere su Antiochia. Il 12 giugno un improvviso attacco gli permise quasi di impadronirsi di una delle torri sul muro sud-occidentale, la quale venne salvata soltanto per il valore di tre cavalieri di Malines. Per evitare il ripetersi di questi rischi, Boemondo fece incendiare interi isolati della città vicino alle mura, dando cosi alle truppe la possibilità di manovrare più facilmente8. A questo punto il morale dei cristiani venne sollevato da una serie di avvenimenti che sembravano mostrar loro il favore speciale di Dio. I soldati erano affamati e preoccupati, la fede che li aveva sostenuti fino a quel momento vacillava ma non si era infranta: era un’atmosfera in cui fiorivano sogni e visioni. Gli uomini del medioevo non considera vano il soprannaturale impossibile e neppure molto raro. Le moderne teorie sul potere del subcosciente erano loro ignote: sogni e visioni pro venivano da Dio oppure, in alcuni casi, dal diavolo; e lo scetticismo si limitava a una netta incredulità alle parole del sognatore. Questo atteggiamento deve essere tenuto presente nel considerare l’episodio che segue.

Il 10 giugno 1098 un contadino poveramente vestito si presentò alla tenda del conte Raimondo e chiese di vedere lui e il vescovo di Le Puy. Il suo nome era Pietro Bartolomeo ed era venuto con la crociata in qualità di servo di un pellegrino provenzale chiamato Guglielmo-Pietro. Mal grado la sua umile origine non era del tutto incolto, ma era noto fra i suoi compagni come un individuo di cattiva reputazione, interessato sol tanto ai più grossolani piaceri della vita. Narrò che durante gli ultimi mesi era stato tormentato da visioni in cui sant’Andrea gli aveva rivelato il luogo dove si poteva trovare una delle più sacre reliquie della cristianità, la Lancia che aveva trafitto il costato di Cristo. La prima visione era avvenuta durante il terremoto del 30 dicembre. Egli stava pregando pieno di terrore quando improvvisamente gli era apparso un vecchio dai capelli d’argento, accompagnato da un giovane alto e meravigliosamente bello. Il vecchio, affermando di essere sant’Andrea, gli ordinò di andare subito a presentarsi al vescovo di Le Puy e al conte Raimondo: il vescovo doveva essere rimproverato per aver trascurato i suoi doveri di predicatore, mentre al conte doveva essere rivelato il nascondiglio della Lancia, che il santo intendeva mostrare subito a Pietro Bartolomeo. Pietro si trovò quindi trasportato, vestito com’era con la sola camicia, nell’interno della città alla cattedrale di San Pietro, che i turchi usavano come moschea, e sant’Andrea lo condusse attraverso l’ingresso sud verso la cappella meridionale; là disparve nel terreno per ricomparire con la Lancia. Pietro desiderava prenderla subito, ma gli venne detto di tornare con dodici compagni dopo la conquista della città e di cercarla nello stesso posto. Quindi venne riportato in volo nell’accampamento. Pietro trascurò gli ordini del santo, perché temeva che nessuno prestasse ascolto a un uomo cosi da poco e parti invece per Edessa con una spedizione di vettovagliamento. All’alba del 10 febbraio, mentre si trovava in un castello vicino a Edessa, sant’Andrea e il suo compagno gli apparvero di nuovo e lo rimproverarono per la sua disobbedienza, per la quale fu punito con una temporanea malattia agli occhi. Sant’Andrea gli parlò anche della speciale protezione accordata da Dio ai crociati, aggiungendo che tutti i santi desideravano ardentemente riprendere i propri corpi per combattere al loro fianco. Pietro Bartolomeo riconobbe la sua colpa e tornò ad Antiochia, ma di nuovo il coraggio gli venne meno e non osò avvicinare i grandi principi e si sentì sollevato quando, in marzo, il suo padrone Guglielmo-Pietro lo condusse in un viaggio a comprare viveri a Cipro. La vigilia della domenica delle Palme, 20 marzo, egli dormiva solo con Guglielmo-Pietro in una tenda a San Simeone, quando la visione si ripeté ancora una volta. Pietro rinnovò le sue scuse e sant’Andrea, dopo avergli detto di non avere paura, gli diede delle istruzioni che il conte Raimondo avrebbe dovuto seguire quando fosse giunto al fiume Giordano. Guglielmo-Pietro udì la conversazione, ma non vide nulla. Pietro Bartolomeo tornò allora al campo ad Antiochia ma non riuscì a ottenere un’udienza dal conte, e se ne andò perciò a Mamistra per continuare il viaggio fino a Cipro. Sant’Andrea gli apparve di nuovo e, adirato, gli ordinò di tornare indietro; Pietro desiderava obbedire, ma il suo padrone lo costrinse a imbarcarsi per compiere la traversata. Per tre volte l’imbarcazione venne ributtata indietro ed infine si arenò su un’isola vicino a San Simeone, dove il viaggio fu abbandonato. Pietro si ammalò per un certo tempo e quando guari Antiochia era stata conquistata; egli entrò in città e partecipò alla battaglia del io giugno, evitando di stretta misura di morire schiacciato fra due cavalli, e di conseguenza sant’Andrea fece un’altra apparizione e gli parlò cosi severamente che egli non poté più disobbedire. Raccontò dapprima gli avvenimenti ai suoi compagni e, malgrado lo scetticismo con cui era stata accolta la sua narrazione, veniva ora a ripeterla al conte Raimondo e al vescovo di Le Puy9. Ademaro non si lasciò impressionare, giudicava Pietro Bartolomeo un tipo poco raccomandabile e poco attendibile; forse era seccato per la critica rivolta al suo zelo di predicatore e forse ricordava

di aver visto a Costantinopoli una Sacra Lancia i cui titoli di autenticità erano stabiliti da più tempo, inoltre, quale esperto ecclesiastico, diffidava delle visioni degli ignoranti. Ma Raimondo, la cui devozione era più ingenua e più entusiasta, era pronto a lasciarsi convincere e stabilì di essere presente a una solenne ricerca della Lancia, cinque giorni più tardi. Nel frattempo affidò Pietro Bartolomeo alle cure del suo cappellano10. Le visioni si moltiplicavano rapidamente. Quella sera tutti i principi erano raccolti nella parte alta della città, vicino al muro che fronteggiava la cittadella, quando un prete di Valenza, di nome Stefano, chiese di parlar loro. Egli raccontò che la sera prima, credendo che i turchi avessero occupato la città, era andato con un gruppo di ecclesiastici nella chiesa di Nostra Signora per celebrare un servizio di intercessione. Alla fine del rito, gli altri si erano addormentati, ma mentre egli era ancora sveglio aveva scorto davanti a sé una figura di meravigliosa bellezza la quale gli chiese chi fossero quegli uomini e sembrò lieta di apprendere che erano buoni cristiani e non eretici. Il visitatore domandò poi a Stefano se lo riconosceva e questi cominciò col dire di no, ma notò un’aureola a forma di croce intorno al suo capo, come nei ritratti di Cristo. Il visitatore ammise di essere Cristo e chiese chi fosse il comandante dell’esercito. Stefano rispose che non c’era nessun comandante, ma che la massima autorità era affidata a un vescovo. Cristo disse allora a Stefano di informare il vescovo che il suo popolo aveva peccato con le sue concupiscenze e fornicazioni, ma che se fossero tornati a vivere una vita cristiana egli avrebbe inviato loro la sua protezione fra cinque giorni. Apparve allora una signora dall’aspetto radioso che disse a Cristo che questa era la gente per la quale aveva così spesso interceduto; e anche san Pietro li raggiunse. Stefano cercò di svegliare uno dei suoi compagni perché fosse testimone della visione, ma le apparizioni svanirono prima che egli riuscisse nell’intento11. Ademaro era pronto ad accettare come vera questa visione: Stefano era un ecclesiastico degno di stima e inoltre giurava sul Vangelo di aver detto la verità. Vedendo che i principi erano rimasti colpiti dal racconto, il vescovo li indusse subito a giurare sul Santo Sacramento che nessuno di loro avrebbe in futuro abbandonato Antiochia senza il consenso di tutti gli altri. Boemondo giurò per primo, poi Raimondo, poi Roberto di Normandia, Goffredo e Roberto di Fiandra, seguiti dai principi minori. La notizia del giuramento risollevò il morale dell’esercito. Inoltre, l’accenno di Stefano a un segno del favore divino che si sarebbe manifestato cinque giorni dopo, confermava l’asserzione di Pietro Bartolomeo. L’attesa era vivissima in tutto l’accampamento. Il 14 giugno si vide una meteora che parve cadere sul campo turco. La mattina dopo Pietro Bartolomeo venne condotto nella cattedrale di San Pietro da un gruppo di dodici persone, fra le quali il conte Raimondo, il vescovo di Orange e Io storico Raimondo di Aguilers. Per tutto il giorno degli operai scavarono nel pavimento ma non trovarono nulla e il conte se ne andò deluso. Alla fine Pietro stesso, vestito solo di una camicia, saltò nella buca e ordinando a tutti i presenti di pregare, mostrò trionfalmente un pezzo di ferro. Raimondo di Aguilers narrò che egli stesso lo aveva afferrato mentre era ancora incastrato nel terreno. Il racconto della sua scoperta si diffuse ben presto nell’esercito e venne accolto con eccitazione e con gioia12. È inutile tentare ora di giudicare quello che realmente accadde. La cattedrale era stata di recente ripulita per la sua riconsacrazione e Pietro Bartolomeo può aver preso parte ai lavori dopo il suo ritorno ad Antiochia, ritorno di cui non rivelò mai la data; avrebbe cosi avuto la possibilità di seppellire un pezzo di ferro sotto il pavimento, oppure può aver avuto quelle doti di rabdomante che permettono di avvertire la presenza di metalli. È degno di nota il fatto che, persino in quell’epoca in cui i miracoli erano considerati possibili da tutti quanti, Ademaro sostenesse apertamente l’opinione

che Pietro era un ciarlatano, e che, come gli eventi successivi dovevano dimostrare, questa sfiducia fosse condivisa da molti altri, anche se non veniva ancora espressa. La scoperta della reliquia aveva talmente rincuorato i cristiani, compresi persino i greci e gli armeni, che nessuno desiderava di guastarne l’effetto. Pietro Bartolomeo stesso, tuttavia, sconcertò un poco i suoi sostenitori due giorni dopo quando annunciò un’altra visita di sant’Andrea. Forse invidioso della diretta conversazione di Stefano con Cristo, egli si compiacque di udire il santo affermare che il silenzioso compagno delle sue visioni era in realtà Cristo. Sant’Andrea gli diede quindi delle accurate istruzioni sui servizi religiosi che dovevano essere tenuti per celebrare la scoperta e gli anniversari di questa. Il vescovo di Orange, insospettito per tutti quei dettagli liturgici, chiese a Pietro se sapesse leggere e questi giudicò più saggio dichiarare di essere analfabeta. Si scoprì che era una bugia, ma i suoi amici vennero rassicurati poiché da quel momento egli non fu più capace di leggere. Sant’Andrea riapparve presto per annunciare imminente una battaglia con i turchi, che non doveva essere rimandata troppo a lungo perché sui crociati incombeva la minaccia dell’inedia. Il santo raccomandava cinque giorni di digiuno, quale penitenza per i peccati del popolo, poi l’esercito doveva attaccare i turchi e avrebbe ottenuto la vittoria; non doveva esserci saccheggio delle tende del nemico13. Boemondo, che aveva allora il comando supremo perché Raimondo era ammalato, aveva già deciso che l’unica condotta possibile era quella di lanciare un attacco in forze contro l’accampamento di Kerbogha e può darsi che sant’Andrea, nei suoi ultimi consigli, fosse stato ispirato da fonti terrene. Mentre il morale dei crociati stava migliorando, Kerbogha incontrava crescenti difficoltà nel conservare unita la sua coalizione. Ridwan di Aleppo si teneva ancora a parte dalla spedizione, ma Kerbogha aveva ora bisogno del suo aiuto e cominciò a trattare con lui, offendendo in tal modo Duqaq di Damasco. Questi era preoccupato perché temeva un’aggressione egiziana contro la Palestina ed era ansioso di tornare a sud. L’emiro di Homs aveva un odio ereditario per l’emiro di Menbij e non avrebbe collaborato con lui. Persino tra le truppe di Kerbogha c’era attrito fra i turchi e gli arabi. Egli tentò di mantenere l’ordine instaurando un potere autocratico e provocando cosi il risentimento di tutti gli emiri che sapevano che era un semplice atabeg. Avvicinandosi la fine del mese, aumentavano sempre di più le diserzioni dal suo accampamento e gran numero sia di turchi sia di arabi ritornarono alle loro case14. Le difficoltà di Kerbogha erano senza dubbio note ai capi crociati che fecero un tentativo per persuaderlo ad abbandonare l’assedio. Il 27 giugno inviarono al suo accampamento un’ambasceria composta da Pietro l’Eremita e da un franco di nome Herluin, il quale parlava sia l’arabo che il persiano. La scelta di Pietro indica che si era riabilitato dal discredito in cui era caduto per il suo tentativo di fuga di cinque mesi prima. Probabilmente temevano che l’immunità degli inviati non venisse rispettata e perciò nessuno dei capi poteva correre il rischio di partecipare alla missione, e Pietro fu scelto nella sua qualità di personaggio più famoso fra i non combattenti che si trovavano con l’esercito. L’aver accettato l’incarico dimostrava coraggio e contribuì molto a ripristinare il suo prestigio. Non sappiamo quali condizioni Pietro fosse autorizzato a proporre, poiché i discorsi posti sulle sue labbra e su quelle di Kerbogha dai cronisti posteriori sono chiaramente inventati. Forse, come afferma qualcuno dei cronisti, venne proposto che una serie di combattimenti singoli decidesse dell’esito della battaglia, ma Kerbogha, nonostante la sua crescente debolezza, esigeva ancora la resa incondizionata; l’ambasceria tornò perciò a mani vuote. Può darsi però che nel corso di essa Herluin abbia ottenuto alcune utili informazioni sulla situazione nell’accampamento turco. Dopo il fallimento dell’ambasceria non poteva esservi altra alternativa che la battaglia e il lunedì 28 giugno, la mattina presto, Boemondo dispose le truppe crociate per l’azione. Vennero divise in sei

eserciti: il primo era composto dai francesi e dai fiamminghi guidati da Ugo di Vermandois e da Roberto di Fiandra; il secondo dai lotaringi guidati da Goffredo; il terzo dai normanni di Normandia agli ordini del duca Roberto; il quarto dai tolosani e dai provenzali al comando del vescovo di Le Puy, poiché Raimondo era gravemente ammalato; il quinto e il sesto dai normanni d’Italia agli ordini di Boemondo e di Tancredi. Per mantenere sotto sorveglianza la cittadella, vennero lasciati nella città duecento uomini che Raimondo avrebbe comandato stando a letto. Mentre alcuni dei preti e dei cappellani dell’esercito celebravano un atto di intercessione sulle mura, altri marciarono con le truppe. Allo storico Raimondo di Aguilers venne riservato l’onore di portare nella battaglia la Sacra Lancia. Ogni principe poteva essere riconosciuto per il suo vessillo, ma le armature dei cavalieri erano un po’ offuscate, molti avevano perduto i loro cavalli e dovevano andare a piedi o cavalcare spregevoli animali da soma. Ma, rafforzato dai recenti segni del favore divino, il coraggio dei soldati era grande, allorché uscirono uno dopo l’altro attraverso il ponte fortificato. Quand’essi emersero fuori dalla porta, il comandante arabo di Kerbogha, Watthab ibn Mahmud, lo esortò ad attaccare subito, ma Kerbogha temeva che, attaccando troppo presto, avrebbe annientato soltanto l’avanguardia crociata, mentre, se aspettava, avrebbe potuto liberarsi di tutte le loro forze in un colpo solo. In considerazione dell’umore delle sue truppe non poteva permettersi di prolungare il gravoso assedio. Ma quando vide l’intero schieramento dei franchi esitò e inviò un araldo ad annunciare, troppo tardi, che ora avrebbe discusso le condizioni per una tregua15. Ignorando il suo messaggio i franchi avanzarono e Kerbogha adottò la solita tattica turca, di ritirarsi e attirarli su un terreno più accidentato, dove all’improvviso i suoi arcieri riversarono nuvoli di frecce sulle loro file, e nello stesso tempo inviò un distaccamento ad aggirarli sul fianco sinistro, che non era protetto dal fiume. Ma Boemondo era preparato a questa manovra e formò un settimo esercito, agli ordini di Rainaldo di Toul, per sostenere l’attacco. Sul fronte principale la battaglia era aspra; fra i caduti vi fu anche il portastendardo di Ademaro. Ma gli arcieri turchi non riuscirono a fermare l’avanzata dei crociati e le linee turche cominciarono a vacillare. I cristiani continuarono ad incalzare, incoraggiati dall’apparizione di una visione, sul fianco della collina, di un gruppo di cavalieri su cavalli bianchi, sventolanti bianchi vessilli, e i cui capi furono riconosciuti come san Giorgio, san Mercurio e san Demetrio. Un aiuto più efficace venne dato loro da molti degli emiri di Kerbogha che decisero di abbandonare la sua causa, poiché temevano che una vittoria lo avrebbe reso troppo potente ed essi sarebbero stati i primi a subirne le conseguenze. Con Duqaq di Damasco alla testa cominciarono ad allontanarsi dal campo e la loro partenza diffuse il panico. Kerbogha appiccò il fuoco all’erba secca davanti alle sue linee in un vano tentativo di arrestare i franchi mentre ristabiliva l’ordine; Soqman l’Ortoqida e l’emiro di Homs furono gli ultimi a rimanergli fedeli e quando anch’essi fuggirono, egli si rese conto che la partita era perduta e abbandonò la battaglia: l’intero esercito turco si sfasciò in preda al panico. I crociati, seguendo il consiglio di sant’Andrea di non indugiare a saccheggiare l’accampamento nemico, inseguirono i fuggitivi fino al Ponte di Ferro, uccidendone gran numero. Altri che cercarono di rifugiarsi nel castello di Tancredi vennero circondati e annientati e molti dei superstiti della battaglia vennero massacrati durante la fuga dai siriani e dagli armeni delle campagne. Kerbogha raggiunse Mosul con il resto delle sue forze, ma la sua potenza e il suo prestigio erano tramontati per sempre. Ahmed ibn Merwan, il comandante della cittadella, aveva osservato la battaglia dalla sommità della montagna e, quando vide che era perduta, inviò un araldo alla città per annunciare la sua resa. L’araldo fu condotto nella tenda di Raimondo che mandò subito uno dei suoi vessilli perché venisse innalzato sulla torre della cittadella. Ma quando Ahmed seppe che la bandiera non era quella di Boemondo, si rifiutò di esporla: sembra che avesse già concluso un accordo segreto con Boemondo,

accordo che doveva diventare operante in caso di una vittoria cristiana. Egli non aprì le porte finché non apparve Boemondo in persona e non venne concesso alla guarnigione di ritirarsi sana e salva. Alcuni dei turchi, e fra questi lo stesso Ahmed, si convertirono al cristianesimo e si unirono all’esercito di Boemondo16. La vittoria dei crociati fu inattesa ma completa e decise che Antiochia sarebbe rimasta nelle mani dei cristiani. Non decise però a quale dei cristiani sarebbe toccato il suo possesso. Il giuramento che tutti i principi, tranne Raimondo, avevano prestato all’imperatore, esigeva chiaramente che la città gli venisse consegnata, ma Boemondo aveva già mostrato la sua intenzione di tenerla per sé e i suoi colleghi, ad eccezione di Raimondo, erano disposti ad acconsentire poiché era lui che aveva organizzato la presa della città ed era a lui che la cittadella si era arresa. Si sentivano un po’ a disagio nel venir meno al loro giuramento, ma l’imperatore era molto lontano e non era accorso in loro aiuto; perfino il suo rappresentante li aveva abbandonati ed essi avevano conquistato la città e sconfitto Kerbogha senza la sua collaborazione. Sembrava loro impossibile di mantenervi una guarnigione fino a che Alessio si degnasse di venire in persona o di inviare un luogotenente, e sembrava politicamente poco saggio sprecare tempo e correre il rischio di provocare l’inimicizia, e forse la diserzione, del loro più eminente guerriero per difendere i diritti di un assente. Goffredo di Lorena era chiaramente dell’opinione che era stupido opporsi alle ambizioni di Boemondo. Raimondo, tuttavia, era sempre aspramente invidioso di Boemondo, ma sarebbe ingiusto considerare la sua gelosia come unico motivo per l’appoggio da lui dato alle pretese di Alessio. Egli aveva stretto amicizia con l’imperatore prima di lasciare Costantinopoli ed era abbastanza accorto da rendersi conto che, non restituendo Antiochia all’Impero, i crociati avrebbero perso il favore dell’imperatore, che era loro necessario per mantenere aperte in modo adeguato le loro vie di comunicazione e per respingere l’inevitabile contrattacco musulmano. La crociata non avrebbe più rappresentato uno sforzo collettivo di tutta la cristianità. Ademaro di Le Puy condivideva il parere di Raimondo: egli era deciso a collaborare con i cristiani d’Oriente come, senza dubbio, desiderava il suo signore, papa Urbano, e scorgeva il pericolo che si correva offendendo Bisanzio17. Si deve probabilmente all’influenza di Ademaro se Ugo di Vermandois venne inviato a spiegare la situazione ad Alessio. Ora che Antiochia era sicura, Ugo desiderava tornare in patria e compiere il viaggio passando da Costantinopoli. I crociati credevano tuttora che Alessio fosse in marcia attraverso l’Asia Minore poiché non erano ancora giunte loro le notizie della sua ritirata dopo l’incontro con Stefano di Blois; Ademaro e Raimondo speravano che la missione di Ugo lo avrebbe spinto ad accorrere verso di loro. Allo stesso tempo venne deciso che la crociata si sarebbe trattenuta ad Antiochia fino al 1° novembre, prima di intraprendere la marcia verso Gerusalemme. Fu una decisione naturale perché l’esercito era stanco e sarebbe stata una follia avanzare nel pieno calore dell’estate siriana lungo strade poco note, dove l’acqua poteva essere scarsa. Inoltre bisognava prima risolvere la questione di Antiochia e Ademaro sperava senza dubbio che l’imperatore sarebbe ormai arrivato per quell’epoca. Ugo parti ai primi di luglio, accompagnato da Baldovino di Hainault; durante il viaggio attraverso l’Asia Minore il suo gruppo venne attaccato e duramente malmenato dai turchi. Il conte di Hainault scomparve e nulla mai si seppe del suo destino. Era già autunno prima che Ugo giungesse a Costantinopoli e potesse incontrare l’imperatore per narrargli tutta la storia di Antiochia, e ormai la stagione era troppo inoltrata per una campagna attraverso le montagne dell’Anatolia. Ad Alessio non era possibile giungere ad Antiochia prima della primavera successiva18. Frattanto ad Antiochia si aggravavano i malumori. Dapprima la cittadella era stata occupata

congiuntamente da Boemondo, Raimondo, Goffredo e Roberto di Fiandra, ma Boemondo aveva il controllo delle torri pili importanti. Poi riuscì a espellere le truppe dei suoi colleghi, probabilmente con il consenso di Goffredo e di Roberto, per cui le proteste di Raimondo vennero ignorate. Questi era furibondo e per ripicca mantenne da solo il controllo sul ponte fortificato e sul palazzo di YaghiSiyan, ma era ancora troppo ammalato per agire energicamente; a quel punto si ammalò anche Ademaro. Privati dei loro due capi, i francesi meridionali si trovarono maltrattati dalle altre truppe, specialmente dai normanni, e molti di loro desideravano vivamente che Raimondo si riconciliasse con Boemondo, che si comportava come se fosse già il padrone della città. Non appena conosciuta la sconfitta di Kerbogha, molti genovesi erano accorsi ad Antiochia, con il desiderio di essere i primi ad accaparrarsene il commercio; il 14 luglio Boemondo diede loro una patente con la concessione di un mercato, una chiesa e trenta case. Da quel momento i genovesi divennero fautori delle sue pretese ed egli poteva contare sul loro aiuto per mantenere aperte le sue comunicazioni con l’Italia. Essi acconsentirono ad appoggiarlo in Antiochia contro chiunque, con la sola eccezione del conte di Tolosa: nell’eventualità di un conflitto del genere sarebbero rimasti neutrali19. Mentre Raimondo e Boemondo si sorvegliavano cautamente l’un l’altro, i nobili minori se ne andavano a raggiungere Baldovino a Edessa o compivano delle spedizioni per impadronirsi di bottino o perfino per stabilire dei feudi nella regione circostante. La più ambiziosa di queste incursioni venne condotta da un limosino dell’esercito di Raimondo, di nome Raimondo Pilet, che il 17 luglio attraversò l’Oronte diretto verso est e tre giorni più tardi occupò la città di Tel-Mannas, la cui popolazione siriana lo accolse festosamente. Dopo aver conquistato un castello turco nelle vicinanze, egli proseguì per attaccare una città più grande, Maarat an-Numan, con un esercito composto in massima parte da cristiani indigeni, i quali però non erano abituati a portare le armi e, quando si scontrarono con le truppe inviate da Ridwan di Aleppo per salvare la città, voltarono le spalle e fuggirono. Ma Ridwan non riuscì a espellere Raimondo Pilet da Tel-Mannas20. Durante il mese di luglio scoppiò ad Antiochia una grave epidemia. Non possiamo precisarne la natura, ma era probabilmente tifo, provocato dalle conseguenze degli assedi e delle battaglie dell’ultimo mese, e dall’ignoranza dei crociati sulle precauzioni sanitarie necessarie in Oriente. Ademaro di Le Puy, la cui salute era andata declinando da qualche tempo, ne fu la prima vittima illustre. Egli morì il 1° agosto21. La morte di Ademaro fu una delle più grandi sventure della crociata. Nelle pagine dei cronisti egli è una figura piuttosto scialba, ma essi mostrano anche come egli godesse di un ascendente personale superiore a quello di qualsiasi altro crociato. Egli incuteva rispetto come rappresentante del papa e il suo carattere gli guadagnò l’affetto di tutto l’esercito: era caritatevole e provvedeva ai poveri e ai malati; era modesto e mai aggressivo, ma era sempre pronto a dare saggi consigli, perfino in questioni militari, e come generale era coraggioso e sagace. La vittoria di Dorileo era stata frutto in larga misura della sua strategia ed egli presiedette molti consigli militari durante l’assedio di Antiochia. Da un punto di vista politico, operava in vista di una buona intesa con i cristiani dell’Oriente, sia con Bisanzio che con le chiese ortodosse di Siria; aveva goduto della fiducia di papa Urbano e conosceva le sue intenzioni. Finché egli visse, poté essere tenuta a freno l’intolleranza razziale e religiosa dei franchi, e le ambizioni egoistiche e i litigi dei principi contenuti in modo da non recare danni irreparabili alla crociata. Sebbene fosse stato attento a non cercare mai di dominare il movimento, egli era considerato, come riferì a Cristo il prete Stefano nella sua visione, il capo della crociata: dopo la sua morte non ci fu nessuno che possedesse un’autorità suprema. Il conte di Tolosa, che pure aveva molto tempo prima discusso sulla politica crociata con papa Urbano, ereditò

i suoi punti di vista, ma non era cosi abile e poteva discutere con Boemondo solo da pari a pari, e non in qualità di portavoce della Chiesa. Nessun principe, in sua assenza, aveva sufficiente ampiezza di vedute per preoccuparsi di salvaguardare l’unità della cristianità. La carità, la saggezza e l’onestà di Ademaro non vennero mai poste in discussione dai suoi compagni, neppure da coloro che egli aveva ostacolato nelle loro ambizioni. I seguaci di Boemondo piansero la sua perdita altrettanto sinceramente dei suoi propri uomini venuti dalla Francia e Boemondo stesso giurò di portare il suo corpo a Gerusalemme. L’intero esercito fu commosso e turbato per la sua morte. Ci fu, tuttavia, un uomo che non provò dolore: Pietro Bartolomeo non aveva mai perdonato al legato lo scetticismo dimostrato verso le sue visioni e due giorni più tardi si prese la rivincita. Annunziò che era stato di nuovo visitato da sant’Andrea, che in quest’occasione era accompagnato da Ademaro; questi dichiarò che, per castigo a causa della sua incredulità, aveva trascorso le ore dopo la sua morte nell’inferno, da cui era stato liberato soltanto per le preghiere dei suoi colleghi, specialmente di Boemondo, e per un suo dono di alcune monete per la conservazione della Lancia. Egli era perdonato ora, e chiedeva che il suo corpo rimanesse nella cattedrale di San Pietro ad Antiochia. Poi sant’Andrea offrì un consiglio al conte Raimondo: Antiochia, egli disse, doveva essere data al suo attuale pretendente, se questi si fosse dimostrato un uomo giusto, inoltre bisognava eleggere un patriarca di rito latino che decidesse della sua rettitudine; i crociati dovevano pentirsi dei loro peccati e marciare su Gerusalemme, che si trovava a soli dieci giorni di distanza; il viaggio sarebbe però durato dieci anni se essi non tornavano ad abitudini più religiose. In altre parole, Pietro Bartolomeo e gli amici che aveva fra i provenzali pensavano che si doveva permettere a Boemondo di conservare Antiochia, se egli si fosse impegnato ad aiutare ulteriormente la crociata, che l’esercito doveva partire subito per Gerusalemme e che non dovevano esserci transazioni di compromesso con i bizantini e le locali chiese ortodosse. Queste rivelazioni erano imbarazzanti per Raimondo: egli credeva sinceramente nella Sacra Lancia e il possesso di questa da parte delle sue truppe gli dava prestigio perché, sebbene molti affermassero che la battaglia contro Kerbogha era stata vinta per la strategia di Boemondo, molti altri attribuivano il merito della vittoria alla reliquia e quindi, indirettamente, a Raimondo. Ma l’altra principale fonte dell’autorità del conte di Tolosa era stata la sua lunga amicizia con Ademaro. Se ora il messaggero divino che aveva rivelato l’ubicazione della Lancia metteva in dubbio il giudizio di Ademaro e ripudiava la politica che Raimondo aveva ereditato da lui e che corrispondeva ai suoi propri punti di vista, era necessario scartare l’uno o l’altro dei due sostegni di Raimondo. Egli temporeggiò e, pur rimanendo attaccato alla sua fede nella Lancia, mostrò di dubitare che le visioni di Pietro Bartolomeo continuassero a essere genuine; perché, malgrado le parole di sant’Andrea, egli, e altri con lui, sostenevano ancora che Antiochia dovesse essere data all’imperatore. Di conseguenza si trovò in contrasto con la maggior parte delle proprie truppe. Nell’esercito, in generale, l’attacco postumo contro Ademaro fece una cattiva impressione. Rendendo pubblica a quel modo l’incredulità del legato nei confronti della reliquia, si riaccesero i dubbi che molti avevano provato al principio; in modo particolare i normanni e i francesi del nord, che avevano sempre detestato i provenzali, cominciarono a denigrare la reliquia e a servirsi dello scandalo della falsificazione per screditare il conte Raimondo e i suoi progetti. Pur difendendo la reputazione di Ademaro essi potevano in tal modo operare contro la politica che egli aveva sostenuto. Possiamo supporre che Boemondo godesse di questa situazione22. Quando l’epidemia si diffuse per tutta Antiochia, i pili eminenti crociati cercarono rifugio nella campagna. Boemondo varcò le montagne dell’Amano e passò in Cilicia, dove rafforzò le guarnigioni lasciatevi da Tancredi l’autunno precedente e ricevette il loro omaggio: aveva infatti l’intenzione di

includere nel suo principato di Antiochia anche la provincia cilicia. Goffredo si diresse a nord, alle città di Turbessel e Ravendel che suo fratello Baldovino gli aveva ceduto. Goffredo era invidioso del successo del fratello e, poiché tutti i principi si cercavano un territorio vicino ad Antiochia, desiderava anch’egli avere la sua parte; probabilmente si impegnò a restituire le città a Baldovino se l’esercito avesse proseguito la marcia verso la Palestina. Non sono ben noti i movimenti di Raimondo, mentre Roberto di Normandia andò a Lattakieh23. Prima delle invasioni turche, Lattakieh era stato il porto più meridionale dell’Impero bizantino. Era stato occupato dai turchi intorno al 1084, ma più tardi era passato sotto la sovranità dell’emiro arabo di Shaizar. Nell’autunno del 1097 Guynemer di Boulogne attaccò repentinamente il porto e lo conquistò; la sua guarnigione ne rimase in possesso per tutto l’inverno, ma in marzo la flotta comandata da Edgardo Aetheling, dopo aver scaricato rifornimenti per i crociati a San Simeone, si diresse su Lattakieh. Gli uomini di Guynemer vennero cacciati e la città occupata nel nome dell’imperatore, ma Edgardo poteva lasciare soltanto un piccolo distaccamento per proteggere la città perciò venne rivolto un appello all’esercito crociato perché ne rafforzasse la difesa. Poco dopo la vittoria su Kerbogha Roberto di Normandia giunse in risposta all’appello e Lattakieh gli venne affidata per conto dell’imperatore. Ma l’unica idea di governo che Roberto avesse era quella di ricavare più denaro possibile dai sudditi, la sua amministrazione era quindi cosi impopolare che dopo poche settimane fu costretto ad andarsene dalla città, alla quale venne allora data ima guarnigione dal governatore bizantino di Cipro, Eustazio Filocale24. In settembre l’epidemia terminò e i principi tornarono ad Antiochia. L’11 si riunirono per redigere una lettera indirizzata a papa Urbano, per informarlo sui particolari della conquista di Antiochia e per annunciargli la morte del suo legato. Sentendo la necessità di un’autorità suprema che si elevasse sopra le fazioni in lotta, essi lo sollecitavano a venire personalmente in Oriente. Sottolineavano il fatto che Antiochia era una sede episcopale fondata da san Pietro e che in qualità di suo successore egli doveva esservi intronizzato, e recarsi poi nella Città Santa. Essi erano disposti ad attendere il suo arrivo prima di proseguire la marcia in Palestina25. Il nome di Boemondo era in testa alla lista dei principi e la lettera venne probabilmente scritta nel suo segretariato. L’effetto del decesso di Ademaro si manifestò nell’implicito rifiuto di riconoscere i diritti del patriarca Giovanni e in una nota di ostilità verso le sette cristiane locali, che venivano denunciate come eretiche. È difficile che i crociati si aspettassero che il papa fosse in grado di compiere il viaggio in Oriente, ma l’appello permise loro di rimandare ancora una volta la necessità di decidere sul destino di Antiochia, mentre il papa avrebbe senza dubbio inviato un legato a cui si sarebbe potuto affidare la responsabilità della decisione. Era evidente ormai che l’imperatore non sarebbe giunto in Siria per quella stagione, e forse era già nota la sua ritirata da Filomelio. Le condizioni dei soldati e dei pellegrini dell’esercito erano molto cattive: a causa dei combattimenti i raccolti non erano stati mietuti nella piana di Antiochia e il cibo era ancora scarso. Raimondo cominciò a organizzare un’incursione in territorio musulmano soprattutto allo scopo di assicurarsi dei rifornimenti, ma prima che avesse deciso la scelta del suo obiettivo, venne invitato da Goffredo a partecipare a una campagna congiunta contro la città di Azaz, sulla strada principale da Edessa e Turbessel, ad Antiochia. L’emiro di Azaz, Omar, si era ribellato al suo sovrano, Ridwan di Aleppo, che si era messo in marcia per andare a punirlo. Uno dei generali di Omar aveva preso prigioniera una dama franca, vedova di un cavaliere lorenese, e se n’era innamorato; fu lei a suggerire che Omar si rivolgesse per aiuto a Goffredo, che accettò con piacere poiché non gli conveniva che Azaz rimanesse nelle mani di Ridwan. Raimondo accolse l’invito di Goffredo,

sebbene insistesse che il figlio di Omar doveva venir consegnato come ostaggio, e Baldovino inviò delle truppe da Edessa. All’avvicinarsi dell’esercito cristiano Ridwan si ritirò da Azaz e Omar venne confermato da Goffredo nei suoi possedimenti e gli rese omaggio. Raimondo riuscì a raccogliere delle provviste nei dintorni, ma subì gravi perdite nel viaggio di ritorno a causa di imboscate turche. L’episodio rivelò che non soltanto i principi musulmani erano ora pronti a ricorrere all’aiuto franco nei loro litigi interni, ma che i franchi, modificando la loro fede militante, erano disposti ad accettare dei vassalli musulmani26. In ottobre, sebbene Pietro Bartolomeo avesse riferito che sant’Andrea aveva chiesto di nuovo un’immediata partenza per Gerusalemme, Raimondo parti per un’altra scorreria in cerca di rifornimenti. Aveva già occupato Rugia, sull’Oronte, a circa trenta miglia da Antiochia e di là attaccò la città di Albara, un po’ più a sud-est. Gli abitanti, che erano tutti musulmani, capitolarono, ma furono tutti massacrati o venduti come schiavi ad Antiochia e la città venne ripopolata da cristiani. La moschea fu trasformata in chiesa e, con grande soddisfazione del suo esercito, Raimondo vi nominò allora vescovo uno dei suoi preti, Pietro di Narbona. La designazione venne fatta soltanto perché non c’era una sede episcopale ortodossa già stabilita nella città; nessuno concepiva ancora uno scisma fra la Chiesa greca e quella latina che avrebbe significato uno sdoppiamento delle sedi episcopali. Il nuovo vescovo, sebbene fosse latino, venne consacrato dal patriarca greco, Giovanni di Antiochia. Ma la nomina di Pietro di Narbona aprì l’era di una Chiesa latina stabilita in Oriente e incoraggiò quei crociati che, come Pietro Bartolomeo, erano impazienti di vedere gli ecclesiastici greci del luogo sostituiti da latini27. Nel corso delle discussioni seguite alla sconfitta di Kerbogha, i principi avevano giurato di partire per Gerusalemme in novembre. Il 1° cominciarono a radunarsi ad Antiochia per discutere i loro piani: Raimondo giunse da Albara, dove aveva lasciato la maggior parte delle sue truppe; Goffredo venne da Turbessel, portando con sé le teste di tutti i prigionieri turchi che aveva preso durante una serie di piccole scorrerie nella regione; il conte di Fiandra e il duca di Normandia si trovavano già ad Antiochia e Boemondo, che era stato ammalato in Cilicia, arrivò due giorni più tardi. Il 5 i principi e i loro consiglieri si riunirono nella cattedrale di San Pietro e fu subito evidente che non c’era accordo fra di loro. Gli amici di Boemondo diedero l’avvio reclamando Antiochia per lui: l’imperatore non sarebbe venuto e Boemondo era un uomo abile nonché il crociato maggiormente temuto dal nemico. Raimondo replicò ricordando aspramente all’assemblea il giuramento che tutti, tranne lui, avevano prestato all’imperatore. Era noto che Goffredo e Roberto di Fiandra appoggiavano le pretese di Boemondo, ma non osarono esprimersi liberamente per timore di attirarsi un’accusa di spergiuro. La discussione continuò per parecchi giorni e nel frattempo i soldati e i pellegrini che, fuori, aspettavano una dichiarazione, diventavano sempre più impazienti: il loro unico desiderio era di adempiere i loro voti e dì raggiungere Gerusalemme e non vedevano l’ora di lasciare Antiochia dove si erano trattenuti cosi a lungo e avevano tanto sofferto. Spronati da Pietro Bartolomeo e dalle sue visioni, presentarono un ultimatum ai loro capi. Con identico disprezzo per le ambizioni di Boemondo e per quelle di Raimondo, essi proclamavano che chi desiderava godere le rendite di Antiochia vi rimanesse pure, e chi era ansioso di ricevere i doni dell’imperatore aspettasse il suo arrivo, ma che in quanto a loro intendevano proseguire la marcia verso Gerusalemme; e se i loro capi continuavano a litigare per il possesso di Antiochia essi ne avrebbero raso al suolo le mura prima di partire. Di fronte a questa presa di posizione e temendo che Raimondo e Boemondo facessero presto ricorso alle armi, i capi più moderati proposero una discussione più ristretta, alla quale avrebbero preso parte soltanto i maggiori principi. Qui, dopo altre furibonde scenate, venne raggiunto un accordo temporaneo: Raimondo

accettava le decisioni che il consiglio avrebbe finalmente preso riguardo ad Antiochia, a condizione che Boemondo giurasse di accompagnare la crociata fino a Gerusalemme, mentre Boemondo prestò giuramento davanti ai vescovi e s’impegnò a non ritardare e a non danneggiare la crociata per soddisfare le sue ambizioni personali. La questione di Antiochia non era risolta, ma Boemondo fu confermato nel possesso della cittadella e di tre quarti della città, mentre Raimondo mantenne il controllo sul ponte fortificato e sul palazzo di Yaghi-Siyan, che affidò a Guglielmo Ermingar. Non era ancora stata fissata la data della partenza per Gerusalemme ma, per tenere nel frattempo occupate le truppe, venne deciso di attaccare la fortezza di Maarat an-Numan, la cui conquista era utile per proteggere il fianco sinistro dell’esercito quando avesse proseguito l’avanzata verso sud diretto in Palestina28. Il 23 novembre Raimondo e il conte di Fiandra partirono per Rugia e Albata e il 27 giunsero alle mura di Maarat an-Numan. L’assalto che tentarono contro la città il mattino seguente falli; e quando Boemondo arrivò nel pomeriggio con le sue truppe e anche un secondo attacco non ebbe successo, venne deciso di condurre un assedio regolare. Ma per una quindicina di giorni non si fece nessun progresso, sebbene la città fosse completamente circondata. Si dovette perlustrare la campagna in cerca di legname per costruire macchine d’assedio; il cibo era scarso e distaccamenti dell’esercito abbandonavano i loro posti per andare in cerca di grano e di ortaggi. Finalmente, l’11 dicembre, dopo l’annuncio di Pietro Bartolomeo che il successo era imminente, un enorme castello di legno su ruote, costruito dagli uomini di Raimondo e comandato da Guglielmo di Montpellier, venne spinto contro una delle torri della città. Un tentativo di scalare la torre dal castello fu respinto, ma la protezione che questo offriva permise di minare il muro su uno dei lati della torre. A sera il muro crollò e una folla di umili soldati si aprì con la forza un varco nella città e cominciò a saccheggiarla. Nel frattempo Boemondo, invidioso del successo di Raimondo e desiderando ripetere il colpo di Antiochia, fece annunciare da un araldo che, se la città si fosse arresa a lui, avrebbe protetto tutti i difensori che si fossero rifugiati in una grande sala vicino alla porta principale. Durante la notte i combattimenti cessarono. Molti cittadini, vedendo che le difese erano state superate, fortificarono le loro case e cisterne, pur offrendosi di pagare una tassa se veniva loro concessa salva la vita; altri si rifugiarono nella grande sala che Boemondo aveva indicato. Ma quando si riaccese la battaglia la mattina seguente nessuno venne risparmiato: i crociati si riversarono nella città, massacrando tutti quelli che incontravano e forzando l’entrata nelle case, che saccheggiavano e incendiavano. In quanto ai rifugiati che ebbero fiducia nella protezione di Boemondo, gli uomini vennero trucidati e le donne e i bambini venduti come schiavi29. Durante l’assedio le truppe di Boemondo e di Raimondo avevano collaborato con difficoltà e ora che Boemondo, con la sua slealtà, si era assicurato la maggior parte del bottino sebbene fosse stato l’esercito di Raimondo a conquistare la città, l’ostilità fra i francesi meridionali e i normanni si inasprì di nuovo. Raimondo pretendeva la città e desiderava porla sotto il governo del vescovo di Albara, ma Boemondo non volle evacuare le sue truppe a meno che Raimondo non abbandonasse l’area che occupava ad Antiochia e, passando al contrattacco, cominciò apertamente a mettere in dubbio l’autenticità delle visioni di Pietro Bartolomeo.. Intanto il malcontento aumentava in tutto l’esercito. In particolare le truppe di Raimondo esigevano che si riprendesse la marcia su Gerusalemme. Verso Natale i rappresentanti dei soldati proposero a Raimondo che, se egli ne avesse organizzato la partenza, l’esercito lo avrebbe riconosciuto come capo dell’intera crociata. Egli sentì che non poteva rifiutare e pochi giorni dopo lasciò Maarat an-Numan per Rugia, annunciando che la spedizione stava per partire per la Palestina.

Boemondo tornò perciò ad Antiochia e Maarat an-Numan venne affidata al vescovo di Albara. Ma persino dopo questo annuncio Raimondo indugiò: non riusciva a decidersi a partire per il sud lasciando Antiochia nelle mani di Boemondo e questi, rendendosi forse conto che quanto più Raimondo esitava tanto più indocili diventavano le sue truppe, e sapendo che l’imperatore non avrebbe attraversato l’Asia Minore durante i mesi invernali, suggerì di rinviare la spedizione fino a Pasqua. Per cercare di risolvere la questione, Raimondo convocò a Rugia tutti i principi e qui tentò di corromperli perché accettassero il suo comando. Le somme che offrì corrispondevano verosimilmente alle forze di cui ciascuno disponeva a quel momento: propose di dare a Goffredo diecimila soldi francesi e la stessa somma a Roberto di Normandia, a Roberto di Fiandra seimila, a Tancredi cinquemila e somme minori ai capi meno importanti. A Boemondo non venne offerto nulla. Raimondo aveva sperato che in questo modo sarebbe stato confermato come capo indiscusso della crociata e avrebbe potuto tenere Boemondo sotto controllo. Ma le sue proposte vennero accolte con molta freddezza30. Mentre i principi discutevano a Rugia, l’esercito a Maarat an-Numan prese direttamente l’iniziativa. Soffriva a causa della carestia, tutte le riserve dei dintorni erano esaurite e il cannibalismo sembrava l’unica soluzione. Perfino i turchi rimasero impressionati dalla sua tenacia in simili condizioni sebbene, come nota tristemente il cronista Raimondo di Aguilers: «Noi lo sapemmo troppo tardi per trarne profitto». Il vescovo di Orange, che aveva una certa influenza sui provenzali, morì a causa di queste privazioni; infine, malgrado le proteste del vescovo di Albara, gli uomini decisero di costringere Raimondo a muoversi, distruggendo le mura di Maarat an-Numan. A questa notizia Raimondo si affrettò a tornare nella città, ma si rese conto che ulteriori rinvii erano ormai impossibili31. Il 13 gennaio 1099 Raimondo e le sue truppe uscirono da Maarat an-Numan per proseguire la crociata. Il conte camminava scalzo, come si conveniva al capo di un pellegrinaggio, e per mostrare che non ci sarebbe stata la possibilità di tornare indietro, la città venne abbandonata in fiamme. Con Raimondo c’erano tutti i suoi vassalli; il vescovo di Albara e Raimondo Pilet, signore di TelMannas, lasciarono le loro città per compiere il viaggio con lui. La guarnigione che egli aveva tenuto ad Antiochia agli ordini di Guglielmo Ermingar non poté resistere contro Boemondo e si affrettò a seguirlo. Degli altri principi suoi colleghi, Roberto di Normandia parti subito per unirsi a lui, accompagnato da Tancredi, che aveva senza dubbio ricevuto l’incarico da Boemondo di vegliare sugli interessi italo-normanni nella crociata. Goffredo di Lorena e Roberto di Fiandra esitarono per quasi un mese prima che l’opinione pubblica li costringesse a seguirlo. Ma Baldovino e Boemondo rimasero nelle terre che avevano conquistato32. Sembrò cosi che la disputa fra i due grandi principi avesse trovato una soluzione: Raimondo era ora il capo incontrastato della crociata, ma Boemondo aveva ottenuto Antiochia.

Parte quinta La terra promessa

Capitolo primo Verso Gerusalemme

Or va’, conduci il mio popolo dove t’ho detto. Esodo, XXXII, 34

Quando Stefano di Blois, scrivendo a sua moglie da Nicea, aveva espresso il timore che la crociata potesse essere trattenuta ad Antiochia non immaginava certo quanto a lungo sarebbe durato quell’indugio. Quindici mesi erano trascorsi da quando l’esercito aveva raggiunto le mura della città e durante quel periodo erano avvenuti importanti mutamenti nel mondo musulmano. I Fatimiti d’Egitto, come pure i bizantini, ancor prima dell’inizio della crociata si erano ripresi dallo smarrimento causato dall’aggressione turca e, come i bizantini, speravano di servirsi della crociata per consolidare tale ripresa. Il vero sovrano dell’Egitto era Shah-an-Shah al-Afdal, che era succeduto a suo padre, il rinnegato armeno Badr al-Jamali, quale visir del califfo bambino, alMustali. L’ambasceria inviata da al-Afdal all’accampamento crociato ad Antiochia non aveva dato nessun risultato; alcuni ambasciatori franchi erano ritornati al Cairo assieme con i suoi inviati, ma divenne ben presto evidente che essi non erano autorizzati a negoziare un’alleanza e che i crociati, lungi dal desiderare di aiutare gli egiziani a riconquistare la Palestina, avevano la ferma intenzione di marciare essi stessi su Gerusalemme. Al-Afdal decise perciò di trarre profitto dalla guerra nella Siria settentrionale e non appena venne informato della sconfitta subita da Kerbogha ad Antiochia e si rese conto che i turchi in tutta l’Asia non erano in condizione di resistere a un nuovo attacco, invase la Palestina. La provincia si trovava ancora nelle mani dei figli di Ortoq, Soqman e Ilghazi, che riconoscevano la sovranità di Duqaq di Damasco. Quando al-Afdal avanzò, si ritirarono entro le mura di Gerusalemme; sapevano che Duqaq non avrebbe potuto accorrere subito in loro aiuto, ma speravano che le grandi fortificazioni di Gerusalemme e le qualità militari delle loro truppe turcomanne li ponesse in condizione di resistere fino all’arrivo dei soccorsi. L’esercito di al-Afdal era equipaggiato con le più moderne macchine da assedio, compresi quaranta mangani, ma gli Ortoqidi resistettero per quaranta giorni, finché alla fine le mura erano talmente danneggiate che furono costretti a capitolare. Venne loro concesso di ritirarsi con i propri uomini a Damasco, da dove proseguirono per recarsi dai loro cugini nella regione intorno a Diarbekir. Gli egiziani occuparono allora tutta la Palestina e in autunno avevano fissato la loro frontiera alla foce del fiume del Cane, sulla costa poco a nord di Beirut. Nel frattempo riparavano le fortificazioni di Gerusalemme1. Nella Siria settentrionale le dinastie arabe locali erano altrettanto soddisfatte per il crollo della potenza turca ed erano pronte a trattare con i franchi. Perfino l’emiro di Hama, suocero di Ridwan, e l’emiro di Homs, che pure avevano combattuto per Kerbogha, abbandonarono ogni idea di opporre loro resistenza. Per i crociati era più importante l’atteggiamento delle due principali famiglie arabe, i Munqiditi di Shaizar e i Banu Ammar di Tripoli. I primi controllavano il paese che si stendeva immediatamente dinnanzi ai crociati, dall’Oronte alla costa, e gli altri la linea costiera dal medio Libano alla frontiera fatimita. La loro amicizia, o almeno la loro neutralità, era essenziale per permettere alla crociata di avanzare2.

Da Maarat an-Numan Raimondo marciò fino a Kafartab, circa dodici miglia verso sud, e vi si fermò fino al 16 gennaio, ammassando rifornimenti per approvvigionare le sue truppe, e là lo raggiunsero Tancredi e Roberto di Normandia. Vi arrivarono anche degli ambasciatori dell’emiro di Shaizar, che si offriva di fornire delle guide e dei viveri a basso prezzo ai crociati se avessero attraversato pacificamente il suo territorio. Raimondo accettò l’offerta e il 17 le guide dell’emiro condussero l’esercito al di là dell’Oronte, fra Shaizar e Hama, e gli fecero risalire la valle del Sarout. Tutte le greggi e le mandrie della regione erano state spinte per sicurezza in una valle laterale, nella quale una delle guide accompagnò, per sbaglio, i franchi. I mandriani e i villici del luogo non erano abbastanza forti per impedire ai crociati di impadronirsi sistematicamente del bestiame, e il comandante del castello che dominava la valle pensò che era meglio comprare la propria immunità. Il bottino fu talmente abbondante che parecchi cavalieri andarono a vendere il soprappiù a Shaizar e a Hama, in cambio di cavalli da soma, acquistandone circa un migliaio. Le autorità arabe concessero loro liberamente di entrare nelle città e di fare i loro acquisti3.

IV: La Siria al tempo della prima crociata. La linea continua indica l’itinerario della prima crociata sotto il conte Raimondo da Antiochia a Gerusalemme, quella tratteggiata l’itinerario di Goffredo e Roberto di Fiandra da Antiochia per raggiungere la crociata ad Arqa, quella punteggiata l’itinerario di Boemondo e Baldovino al ritorno dal pellegrinaggio a Gerusalemme.

Mentre si raccoglievano questi rifornimenti, Raimondo e i suoi ufficiali si riunirono per discutere

sulla strada da seguire. Personalmente, Raimondo era del parere che l’esercito dovesse dirigersi direttamente verso occidente attraverso la catena del Nosairi per raggiungere la costa il più presto possibile: Lattakieh era già in mano ai cristiani, e fintanto che egli si fosse mantenuto vicino alla costa sarebbe rimasto in contatto con Antiochia e avrebbe potuto ottenere dei rifornimenti dalle autorità bizantine di Cipro, con cui era in buoni rapporti. Ma Tancredi fece rilevare che, per rendere sicura la strada costiera, sarebbe stato necessario conquistare tutte le grandi fortezze che si trovavano sul percorso. I combattenti erano ora ridotti a un migliaio di cavalieri e cinquemila fanti: come poteva un esercito simile dedicarsi alla guerra d’assedio? Essi dovevano marciare direttamente su Gerusalemme, egli argomentò, evitando la necessità di conquistare le fortezze della costa. Se essi potevano impadronirsi di Gerusalemme, non soltanto la notizia avrebbe fatto affluire altri soldati dall’Europa, ma città come Tripoli, Tiro e Acri non avrebbero più tentato di resistere loro. L’argomento che veniva portato contro questo suo parere era il fatto che tutta la regione fra il Libano e il deserto era governata da Duqaq di Damasco il quale, a differenza dei principotti arabi, avrebbe certamente ostacolato l’avanzata dei crociati. Venne infine deciso di raggiungere la costa più a sud, attraverso la Buqaia (ossia la pianura fra la catena del Nosairi ed il Libano, la quale offre l’unico facile accesso al mare dall’interno della Siria) e di sprecare il minor tempo possibile nei tentativi di occupare le fortezze nemiche4. Il 22 gennaio i crociati giunsero alla città di Masyaf, il cui signore si affrettò a concludere con loro un trattato; da lì si volsero verso sud-sudest, per evitare il massiccio del Jebel Helou. Il giorno dopo arrivarono alla città di Rafaniye, che trovarono abbandonata dagli abitanti, ma colma di provviste di ogni genere; vi si trattennero per tre giorni, poi discesero nella Buqaia, che era dominata dall’enorme fortezza di Hosn al-Akrad, il Castello dei kurdi, costruito sull’altura dove si trovano ora le rovine di Krak des Chevaliers. Gli abitanti del luogo avevano condotto tutte le loro greggi a ripararsi entro le mura; perciò, più con lo scopo di rifornirsi che per motivi strategici, i crociati decisero che dovevano impadronirsene. Il 28 gennaio attaccarono le fortificazioni, ma i difensori, consapevoli delle loro abitudini, aprirono una porta e lasciarono uscire alcuni degli animali. I franchi erano cosi intenti ad accerchiare questa preda che si dispersero, e una sortita dal castello non soltanto impedì loro di riunirsi, ma riuscì quasi a catturare il conte Raimondo in persona, che era stato abbandonato dalla sua guardia del corpo. Il giorno dopo i franchi, pieni di vergogna per essere stati giocati, idearono un serio attacco, ma quando giunsero alle mura scoprirono che il castello era stato abbandonato durante la notte. Vi era stato lasciato un bottino ancora considerevole e l’esercito vi si stabilì per tre settimane, mentre si tenevano altre discussioni sulla strategia. La festa della Purificazione venne celebrata nel castello5. Mentre Raimondo si trovava a Hosn al-Akrad, giunsero degli inviati dell’emiro di Hama, che gli offrirono dei doni e la promessa di non attaccare i suoi uomini. Essi furono seguiti da rappresentanti dell’emiro di Tripoli. Questo emiro, Jalal al-Mulk Abul Hasan della dinastia dei Banu Ammar, una famiglia nota più per la sua cultura che per le sue qualità marziali, era riuscito a mantenere l’indipendenza del suo emirato aizzando i Selgiuchidi contro i Fatimiti e, visto il declino della potenza turca, era pronto a incoraggiare i franchi contro il rinascente Egitto. Raimondo fu invitato a mandare dei rappresentanti a Tripoli per discutere i provvedimenti da prendere per il passaggio della crociata e per recare i vessilli di Tolosa che l’emiro avrebbe spiegato sulla città. La prosperità di Tripoli e della campagna circostante impressionò grandemente gli ambasciatori franchi i quali, al loro ritorno all’accampamento, suggerirono a Raimondo che, se avesse fatto una dimostrazione di forza contro una delle fortezze dell’emirato, l’emiro avrebbe certamente pagato una grossa somma per comprare l’immunità per il resto dei suoi possedimenti. Raimondo, che aveva bisogno di denaro,

accettò il loro suggerimento ed ordinò all’esercito di attaccare la città di Arqa, situata a circa quindici miglia da Tripoli, dove la Buqaia si apre verso la costa. Arrivò davanti alle sue mura il 14 febbraio6. Nel frattempo, ansioso com’era di stabilire delle comunicazioni con la guarnigione di Lattakieh e il mare, egli incitò Raimondo Pilet e Raimondo, visconte di Turenne, a tentare un attacco di sorpresa contro Tor-tosa, l’unico buon porto che si trovava sulla costa fra Lattakieh e Tripoli. I due Raimondo si affrettarono verso occidente con un piccolo distaccamento e giunsero davanti alla città il 16 febbraio, quando era ormai buio. Accesero una serie di fuochi da campo tutt’intorno alle mura, per suggerire la presenza di un esercito molto più numeroso di quello che avevano; lo stratagemma ebbe successo: il governatore di Tortosa, che era vassallo dell’emiro di Tripoli, ne fu cosi seriamente allarmato che durante la notte si ritirò insieme con la sua guarnigione, per la via del mare. La mattina dopo le porte della città vennero aperte ai franchi. Alla notizia della loro conquista, il governatore di Marqiye, dieci miglia più a nord, si affrettò a riconoscere la sovranità di Raimondo. La presa di Tortosa rafforzò grandemente la crociata, poiché apriva facili comunicazioni via mare con Antiochia e Cipro e con l’Europa7. Questi successi suscitarono la gelosia dei crociati che si trovavano ancora ad Antiochia e li indussero a seguire Raimondo verso sud. Negli ultimi giorni di febbraio Goffredo di Lorena, Boemondo e Roberto di Fiandra partirono da Antiochia per Lattakieh. Quivi Boemondo tornò indietro; pensava che dopo tutto sarebbe stato più saggio consolidarsi in Antiochia, per timore che l’imperatore potesse marciare verso la Siria in primavera. Goffredo e Roberto proseguirono per assediare il piccolo porto marittimo di Jabaia e là vennero raggiunti dal vescovo di Albara, che era venuto in nome di Raimondo per pregarli di unirsi a lui ad Arqa8. L’assedio di Arqa non proseguiva in modo soddisfacente: la città era ben fortificata e coraggiosamente difesa e l’esercito di Raimondo non era abbastanza numeroso per investirla completamente. L’ammonimento di Tancredi che l’esercito non era in condizioni di tentare l’assalto a delle fortezze era pienamente giustificato ma, una volta cominciato l’assedio, Raimondo non poteva abbandonarlo per timore che l’emiro di Tripoli, rendendosi conto della sua debolezza, non diventasse apertamente ostile. È possibile che i soldati non si impegnassero molto: la vita nell’accampamento era comoda, la campagna era fertile e nuovi rifornimenti cominciavano a giungere attraverso Tortosa e dopo tutto quello che avevano patito, gli uomini erano contenti di riposarsi per un po’ di tempo. Al principio di marzo si diffuse la notizia che un esercito musulmano, comandato dal califfo di Bagdad in persona, stava radunandosi per accorrere in soccorso di Arqa. La notizia era falsa, ma allarmò Raimondo e lo spinse a chiamare a sé Goffredo e Roberto di Fiandra. Non appena ricevuto il messaggio, i due capi crociati stipularono una tregua con l’emiro di Jabaia, che riconobbe la loro sovranità, e si diressero in fretta verso sud ad Arqa. Festeggiarono il loro arrivo con un attacco contro i sobborghi di Tripoli e con parecchie fortunate incursioni nella Buqaia, per impadronirsi di animali di ogni specie, compresi i cammelli9. Raimondo si penti ben presto di essersi rivolto ai suoi colleghi. Era stato per due mesi il capo riconosciuto della crociata e perfino Tancredi aveva accettato la sua autorità, in cambio di cinquemila soldi francesi. Ma ora era stato costretto a ricorrere all’aiuto dei suoi rivali e Tancredi, i cui consigli aveva ignorato, si era trasferito nell’accampamento di Goffredo, dicendo che Raimondo non lo aveva pagato abbastanza. I due Roberto mostravano scarsa inclinazione ad accettare l’egemonia di Raimondo; nei tentativi di far valere i suoi diritti, questi provocò dei risentimenti e cominciarono i litigi. Gli uomini dei due eserciti, vedendo i loro comandanti in contrasto fra di loro,

si comportarono nello stesso modo e non vollero collaborare gli uni con gli altri. La controversia si aggravò con l’arrivo, ai primi di aprile, di lettere dell’imperatore: Alessio informava i crociati che egli era ormai pronto a partire per la Siria e che, se lo avessero atteso fino alla fine di giugno, sarebbe stato con loro per il giorno di san Giovanni e li avrebbe guidati in Palestina. Raimondo desiderava accettare la proposta; quale fedele alleato dell’imperatore egli poteva contare sull’appoggio imperiale per tentare di riaffermare la propria supremazia sull’esercito franco. Fra i suoi uomini ve n’erano molti, come Raimondo di Aguilers, che, per quanto detestassero i bizantini, si rendevano conto tuttavia che l’arrivo dell’imperatore avrebbe per lo meno dato alla crociata un capo che tutti i principi avrebbero riconosciuto. Ma il grosso dell’esercito era impaziente di proseguire per Gerusalemme e nessuno degli altri principi desiderava trovarsi sotto la sovranità imperiale. La politica di Raimondo non riuscì a prevalere contro un’opinione pubblica cosi compatta. È probabile che Alessio non si aspettasse affatto che i crociati si fermassero fino al suo arrivo; disgustato dalla loro condotta ad Antiochia, aveva già deciso di assumere un atteggiamento neutrale. Per un diplomatico bizantino questo non era una presa di posizione passiva, ma significava stabilire relazioni con entrambe le parti in modo da ricavare benefici, chiunque fosse stato il vincitore. Aveva dei rapporti con gli egiziani, che gli avevano probabilmente scritto quando la crociata avanzava verso il loro territorio, per chiedergli se stava operando per conto suo. Nella sua risposta, Alessio ripudiò il movimento e aveva ragione di farlo. Il modo di agire di Boemondo gli insegnava che non poteva contare sulla lealtà dei franchi ed egli non aveva un particolare interesse nella Palestina, che si trovava fuori dalle regioni che aveva sperato di riconquistare per l’Impero. I suoi unici obblighi riguardavano i cristiani ortodossi di cui era protettore, ma può darsi che pensasse che si sarebbero trovati meglio sotto il governo tollerante dei Fatimiti che sotto i franchi che avevano già mostrato ad Antiochia una marcata ostilità contro i cristiani indigeni. Al tempo stesso non desiderava recidere i suoi collegamenti con la crociata che poteva ancora dimostrarsi utile per l’Impero. La sua corrispondenza con l’Egitto cadde più tardi nelle mani dei crociati, che furono sinceramente scandalizzati dall’evidenza del suo tradimento verso di loro, anche se il loro tradimento verso di lui sembrava loro perfettamente ragionevole e giusto. Lo considerarono responsabile del fatto che gli ambasciatori che essi avevano inviato al Cairo da Antiochia vi fossero stati trattenuti per tanto tempo10. Questi ambasciatori tornarono all’esercito, ad Arqa, pochi giorni più tardi recando l’offerta finale dei Fa timi ti per un accordo: se la crociata avesse abbandonato ogni tentativo di penetrare con la forza in territorio fatimita, ai suoi pellegrini sarebbe stato concesso libero accesso ai luoghi santi e si sarebbe cercato in tutti i modi di facilitare il pellegrinaggio. La proposta venne immediatamente respinta11. Malgrado il desiderio degli altri principi di riprendere la marcia, Raimondo si rifiutò di lasciare Arqa senza averla conquistata. Per arrivare a una decisione, Pietro Bartolomeo annunciò che il 5 aprile Cristo, san Pietro e sant’Andrea gli erano apparsi per proclamare che bisognava lanciare un attacco immediato contro Arqa. Il grosso dell’esercito cominciava ad essere stanco delle rivelazioni di Pietro, che consideravano un espediente politico del conte Raimondo. Una parte dei francesi del nord, capeggiati dal cappellano di Roberto di Normandia, Arnolfo di Rohes, dichiararono allora apertamente la loro incredulità e misero persino in dubbio l’autenticità della Sacra Lancia, facendo osservare che Ademaro di Le Puy non ne era mai stato convinto. I provenzali si unirono per sostenere Pietro: Stefano di Valenza ricordò all’esercito la visione che egli stesso aveva avuto ad Antiochia; Raimondo di Aguilers narrò come aveva baciato la Lancia mentre era ancora infissa nel terreno; un

altro prete, Pietro Desiderio, riferì che Ademaro gli era apparso dopo la sua morte ed aveva descritto il fuoco dell’inferno a cui lo avevano portato i suoi dubbi; un altro ancora, Everardo, affermò che, mentre stava visitando Tripoli per affari durante l’assedio turco di Antiochia, un siriano gli aveva narrato una visione in cui san Marco aveva parlato della Lancia; il vescovo di Apt, che era stato uno scettico, menzionò una visione che gli aveva fatto cambiare opinione; un membro del seguito dello stesso Ademaro, Bertrando di Le Puy, annunciò che il vescovo e il suo porta-bandiera gli erano apparsi entrambi in una visione per ammettere che la Lancia era autentica. Messo di fronte a questa impressionante serie di prove, Arnolfo confessò pubblicamente di essere convinto, ma i suoi amici continuavano a insinuare dubbi su tutta la questione, finché alla fine Pietro Bartolomeo, in un accesso d’ira, chiese che gli venisse concesso di difendersi per mezzo della prova del fuoco. Quale che fosse la verità, era evidente che egli credeva ormai fermamente nella propria ispirazione divina. L’ordalia ebbe luogo il Venerdì Santo, 8 aprile. In uno stretto passaggio vennero eretti ed incendiati due mucchi di ceppi, benedetti dai vescovi, e Pietro Bartolomeo, con indosso soltanto una tunica e con la Lancia in mano, saltò rapidamente attraverso le fiamme: ne uscì orribilmente ustionato e sarebbe crollato di nuovo nel fuoco se Raimondo Pilet non lo avesse afferrato; per dodici giorni languì in agonia, poi morì per le ustioni riportate. A conseguenza dell’ordalia la Lancia fu completamente screditata, con l’unica eccezione dei provenzali che sostenevano che Pietro era passato sano e salvo attraverso le fiamme, ma era stato ricacciato indietro dalla folla entusiasta nel suo desiderio di toccare la sua tunica sacra. Il conte Raimondo continuò a tenere la Lancia nella sua cappella con la massima venerazione12. L’esercito indugiò ancora per un mese intorno ad Arqa prima che Raimondo si lasciasse indurre ad abbandonare l’assedio. Quei combattimenti erano costati molte vite, compresa quella di Anselmo di Ribemont, le cui lettere al suo signore feudale, l’arcivescovo di Reims, avevano dato un vivido resoconto della crociata13. Il 13 maggio Raimondo cedette all’opera di persuasione dei suoi colleghi e, con le lacrime agli occhi, ordinò di levare il campo; e l’intero esercito si mosse verso Tripoli. Vi erano state altre discussioni a proposito della strada da seguire: i siriani informarono Raimondo che esisteva una strada facile che passava attraverso Damasco ma, sebbene il cibo vi fosse abbondante, l’acqua era scarsa; la strada sopra il Libano era ricca d’acqua, ma era difficile per le bestie da soma; la terza alternativa era la strada costiera, ma c’erano molti punti dove poteva venir bloccata da un pugno di nemici. Tuttavia certe profezie locali dichiaravano che i liberatori di Gerusalemme sarebbero giunti marciando lungo la costa, e questa fu la strada che venne scelta, non tanto per la sua profetica reputazione, quanto per le possibilità di contatto che offriva con le flotte inglese e genovese che incrociavano allora nelle acque levantine14. All’avvicinarsi dei crociati, l’emiro di Tripoli si affrettò a comprare l’immunità per la capitale e i suoi sobborghi, rilasciando circa trecento prigionieri cristiani che si trovavano nella città; li ricompensò con quindicimila bisanti e quindici bei cavalli e forni animali da trasporto e foraggio per l’intero esercito. Si disse inoltre che egli si offrì di diventare cristiano se i franchi avessero sconfitto i Fatimiti15. Il lunedì 16 maggio i crociati lasciarono Tripoli, accompagnati dalle guide procurate dall’emiro, che li condussero senza incidenti lungo la pericolosa strada che girava intorno al capo di Ras Shaqqa. Passando pacificamente attraverso le città di Batrum e Jebail, appartenenti all’emiro, essi giunsero alla frontiera fatimita sul fiume del Cane il 19 maggio. I Fatimiti non tenevano truppe nel loro territorio settentrionale, tranne piccole guarnigioni nelle città della costa, ma possedevano una notevole flotta che poteva provvedere una difesa supplementare per queste città e perciò, anche se i

crociati non incontrarono nessuna opposizione sulla strada, non potevano sperare di conquistare alcuno dei porti che oltrepassavano; e la flotta cristiana non poteva più mantenersi in contatto con loro. Il timore di rimanere a corto di provviste li costrinse da allora in poi ad affrettarsi il più possibile verso la loro meta finale. Come si avvicinavano a Beirut, gli abitanti del luogo, temendo la distruzione dei fertili giardini e frutteti che circondavano la città, si affrettarono ad offrire loro doni e un libero passaggio attraverso le loro terre a condizione che gli alberi da frutto, le vigne e i raccolti venissero risparmiati. I principi accettarono le condizioni e condussero velocemente l’esercito fino a Sidone, dove giunsero il 20 maggio. La guarnigione di Sidone era di una tempra più dura e fece una sortita contro i crociati, mentre essi erano accampati sulle sponde del Nahr-el-Awali. La sortita fu respinta e i cristiani, per rappresaglia, devastarono i giardini dei sobborghi, ma proseguirono il più presto possibile per i dintorni di Tiro, dove sostarono durante due giorni per permettere a Baldovino di Le Bourg e a un gruppo di cavalieri provenienti da Antiochia e da Edessa di raggiungerli. I corsi d’acqua e la verzura delle vicinanze ne facevano un delizioso luogo di sosta; la guarnigione di Tiro restò dietro le mura e non li molestò. L’esercito riparti il 23 e valicò senza difficoltà il passo chiamato la Scala di Tiro e le alture di Noqoura, e giunse davanti ad Acri il 24. Il governatore, seguendo l’esempio di Beirut, si assicurò l’immunità per le ricche fattorie che circondavano la città, con il dono di abbondanti provviste. Da Acri l’esercito marciò su Haifa poi, lungo la costa ai piedi del Monte Carmelo, verso Cesarea, dove trascorse quattro giorni, dal 26 al 30, per poter celebrare degnamente la Pentecoste. Mentre si trovavano colà accampati, un piccione venne ucciso da un falco sulle loro teste e cadde presso la tenda del vescovo di Apt: si scoprì che era un piccione viaggiatore con un messaggio del governatore di Acri che incitava i musulmani della Palestina a sollevarsi contro gli invasori16. Quando l’esercito riprese la marcia, seguì la costa soltanto fino ad Arsuf, dove deviò verso l’interno, giungendo davanti a Ramleh il 3 giugno. Questa, a differenza delle altre città della Palestina, era una città musulmana e prima delle invasioni turche era stata la capitale amministrativa della provincia; era decaduta però negli ultimi anni. L’avvicinarsi dei crociati allarmò gli abitanti: la guarnigione era poco numerosa ed essi si trovavano troppo distanti dal mare perché la flotta egiziana potesse aiutarli, perciò fuggirono tutti insieme dalle loro case, lontano verso sud-ovest, dopo avere distrutto, in gesto di sfida, la grande chiesa di San Giorgio che si trovava nel villaggio in rovine di Lydda, a un miglio da Ramleh. Quando Roberto di Fiandra e Gastone di Béarn giunsero a cavallo con l’avanguardia dell’esercito crociato trovarono le strade deserte e le case vuote. L’occupazione di una città musulmana nel cuore della Terra Santa esaltò i crociati che fecero subito voto di ricostruire il santuario di San Giorgio e di dargli come patrimonio il territorio di Ramleh e Lydda, e di creare una nuova diocesi il cui vescovo sarebbe stato il signore del feudo cosi costituito. A questa sede venne designato un prete normanno, Roberto di Rouen. Come ad Albata, questo non significava la destituzione di un vescovo greco a favore di uno latino, ma la fondazione di una sede episcopale in paese musulmano conquistato. La nomina mostrò che fra i crociati l’opinione pubblica stimava che i territori conquistati dovevano essere consegnati alla Chiesa. Roberto fu lasciato al comando di Ramleh con una piccola guarnigione a sua protezione17. Nel frattempo i principi discutevano su quello che conveniva fare in seguito; alcuni infatti pensavano che sarebbe stato insensato attaccare Gerusalemme nel culmine dell’estate e che sarebbe stato meglio, cosi sostenevano, avanzare contro il vero nemico, l’Egitto. Dopo alcune discussioni, la loro proposta venne respinta e il 6 giugno fu ripresa la marcia verso Gerusalemme18. Da Ramleh l’esercito seguì l’antica strada che serpeggia su per le colline della Giudea a nord

dell’odierna strada diretta. Mentre passavano attraverso il villaggio di Emmaus, si presentarono ai principi degli inviati della città di Betlemme, la cui popolazione interamente cristiana implorava di essere liberata dal giogo dei musulmani. Tancredi e Baldovino di Le Bourg partirono subito con un piccolo distaccamento di cavalieri, dirigendosi verso Betlemme attraverso le colline. Giunsero nel cuore della notte e i cittadini, terrorizzati, credettero dapprima che essi facessero parte di un esercito egiziano venuto a rafforzare la difesa di Gerusalemme. All’alba, quando i cavalieri furono riconosciuti come cristiani, l’intera città uscì in processione con tutte le reliquie e le croci della chiesa della Natività, per accogliere i suoi liberatori e baciar loro le mani19. Mentre il luogo della nascita di Cristo veniva restituito all’amministrazione cristiana, il grosso dell’esercito crociato si affrettava per tutto quel giorno e per tutta la notte verso Gerusalemme, rianimato da un’eclissi di luna che preannunciava l’eclisse della Mezzaluna. La mattina seguente un centinaio di cavalieri di Tancredi, provenienti da Betlemme, raggiunsero i loro compagni e più tardi nella mattinata, i crociati pervennero al punto più alto della strada, alla Moschea del profeta Samuele, sulla cima della collina che i pellegrini chiamarono Montjoie: e Gerusalemme, con le sue mura e le sue torri, apparve dinanzi a loro in lontananza. Quella sera, martedì 7 giugno 1099, l’esercito cristiano era accampato davanti alla Città Santa20.

Capitolo secondo Il trionfo della croce

... acclamate Iddio con grida d’allegrezza! Poiché l’Eterno, l’Altissimo, è tremendo... Salmi, XLVII, I, 2

La città di Gerusalemme era una delle più grandi fortezze del mondo medievale; fin dal tempo dei gebusei era stata famosa per la sua fortissima posizione, che l’ingegno degli uomini, con il trascorso dei secoli, aveva reso ancor più formidabile. I crociati si trovavano ai piedi di mura che seguivano lo stesso tracciato di quelle costruite in epoca posteriore dal sultano ottomano Solimano il Magnifico, e che circondano ancora oggi la città vecchia. Erano state costruite quando Adriano aveva riedificato la città ed a loro volta i bizantini, gli Ommaiadi e i Fatimiti le avevano ingrandite e riparate. A oriente il muro era protetto dai ripidi pendii del burrone del Kedron, a sud-est il terreno precipitava nella valle della Geenna; una terza valle, che era soltanto leggermente meno profonda, costeggiava il muro occidentale. Solo a sud-ovest, dove le mura attraversavano il Monte Sion, nonché per tutta la lunghezza del lato settentrionale, il terreno si prestava a un attacco contro le fortificazioni. La cittadella, la torre di Davide, era collocata a metà del muro occidentale e dominava la strada che si arrampicava sul fianco della collina fino alla porta di Giaffa. Sebbene all’interno della città non vi fossero sorgenti, le sue spaziose cisterne assicuravano il rifornimento idrico, mentre il sistema di fognature romano, ancora in uso nel secolo XX, la preservava dalle malattie. La difesa della città era affidata al governatore fatimita Iftikhar ad-Dawla. Le mura erano in buone condizioni ed egli poteva contare su una forte guarnigione di truppe arabe e sudanesi. Alla notizia dell’avvicinarsi dei franchi prese la precauzione di ostruire o avvelenare i pozzi che si trovavano fuori della città e di evacuare le greggi e gli armenti dai pascoli dei dintorni in luoghi sicuri. Poi ordinò a tutta la popolazione cristiana della città, sia ortodossi che eretici, di andarsene fuori dalle mura; agli ebrei, tuttavia, fu permesso di rimanere. Fu una decisione saggia: nel secolo X i cristiani erano a Gerusalemme più numerosi dei musulmani e, sebbene le persecuzioni del califfo Hakim avessero ridotto il loro numero, e molti altri compresa la maggior parte del clero ortodosso fossero partiti con il patriarca durante i difficili tempi che seguirono alla morte di Ortoq, ne erano rimasti ancora alcune migliaia, inutili come combattenti perché era loro proibito portare le armi e infidi in una battaglia contro correligionari cristiani. Inoltre il loro esilio significava che vi sarebbero state meno bocche da sfamare nella città assediata. Allo stesso tempo Iftikhar mandò in tutta fretta a chiedere un aiuto militare all’Egitto1. Anche se la posizione del terreno lo avesse permesso, i crociati non avevano forze sufficienti per investire l’intera città, perciò le concentrarono in quei settori dove potevano avvicinarsi alle mura. Roberto di Normandia si accampò lungo il muro settentrionale, dirimpetto alla porta dei Fiori (porta di Erode), con Roberto di Fiandra sulla sua destra, di fronte alla porta della Colonna (porta di Santo Stefano o di Damasco). Goffredo di Lorena occupò la zona comprendente l’angolo nord-occidentale della città, fino alla porta di Giaffa. Qui fu raggiunto da Tancredi che arrivò quando l’esercito aveva

già preso posizione, conducendo con sé le greggi di cui si era impadronito durante il viaggio di ritorno da Betlemme. Verso sud c’era Raimondo di Tolosa il quale, trovando che la valle lo costringeva a rimanere troppo lontano dalle mura, dopo due o tre giorni si trasferì sul Monte Sion. I settori orientale e sud-orientale vennero lasciati incustoditi2. L’assedio cominciò il 7 giugno, ossia il giorno stesso in cui la crociata giunse davanti alle mura, ma fu ben presto evidente che il tempo lavorava per gli assediati. Iftikhar era ben rifornito di viveri e d’acqua, aveva un armamento migliore di quello dei franchi e poté rafforzare le sue torri con sacchi pieni di cotone e di fieno, che le mettevano in grado di resistere al bombardamento dei mangani franchi. Se avesse potuto tener duro fino all’arrivo dell’esercito di soccorso dall’Egitto, per la crociata sarebbe stata la fine. Ma, sebbene la guarnigione fosse numerosa, era appena sufficiente per guarnire tutte le mura. I crociati da parte loro si trovarono ben presto in difficoltà per i loro rifornimenti d’acqua. Le misure di Iftikhar erano state efficaci: l’unica fonte d’acqua pura di cui potevano servirsi gli assediami veniva dallo stagno di Siloam, sotto le mura meridionali, ed era pericolosamente esposta ai proiettili lanciati dalla città. Per aumentare le loro scorte d’acqua dovevano percorrere sei o più miglia e, sapendo ciò, la guarnigione inviava fuori dalle mura dei piccoli distaccamenti per tendere imboscate sui sentieri che portavano alle sorgenti ; molti soldati e molti pellegrini perirono per questi attacchi di sorpresa. Anche il cibo cominciò a scarseggiare poiché se ne poteva ottenere poco nei dintorni della città. Il caldo, la polvere e la mancanza d’ombra accrebbero i disagi dei crociati che provenivano da climi più freschi e che portavano, almeno molti di loro, delle armature non adatte all’estate della Giudea. Era evidente per tutti loro che non avrebbero potuto sopportare un lungo assedio ma che dovevano rapidamente prendere la città d’assalto3. Il 12 giugno i principi si recarono in pellegrinaggio al Monte degli Ulivi, dove un anziano eremita rivolse loro la parola comandando di attaccare le mura l’indomani. Essi protestarono che non avevano le macchine necessarie per lanciare un assalto vittorioso, ma l’eremita non ci sentiva da quella parte: se essi avevano fede - egli disse - Dio avrebbe dato loro la vittoria. Imbaldanziti dalle sue parole, ordinarono un attacco generale per la mattina seguente, ma l’eremita si era sbagliato, oppure la loro fede era troppo debole. I crociati andarono all’attacco con gran fervore e ben presto superarono le difese esterne del muro settentrionale, ma avevano mezzi insufficienti per poter scalare le mura simultaneamente e in pili luoghi adeguati e dopo parecchie ore di combattimento disperato videro che i loro tentativi erano inutili e si ritirarono4. Il fallimento dell’assalto provocò un’amara delusione, ma dimostrò chiaramente ai principi la necessità di costruire altre macchine d’assedio. Questi, durante un consiglio riunitosi il 15 giugno, decisero di rimandare ogni altro attacco finché non fossero meglio riforniti di mangani e di scale; mancavano però del materiale con cui costruirli. Come già ad Antiochia, anche questa volta vennero salvati dal tempestivo arrivo di aiuti dal mare: il 17 giugno sei vascelli cristiani penetrarono nel porto di Giaffa, che trovarono abbandonato dai musulmani. La squadra era formata da due galee genovesi, al comando dei fratelli Embriaco, e da quattro navi, probabilmente della flotta inglese, e trasportava rifornimenti di viveri e di armamenti, compresi le funi, i chiodi e i bulloni necessari per costruire le macchine d’assedio. Non appena informati del loro arrivo i crociati inviarono subito un piccolo distaccamento a prendere contatto con loro; vicino a Ramleh queste truppe caddero in un’imboscata tesa da una compagnia di musulmani, che aveva la sua base operativa ad Ascalona, e furono salvate soltanto dall’arrivo di Raimondo Pilet e dei suoi uomini che le seguivano da vicino. Nel frattempo una flotta egiziana fece la sua comparsa a poca distanza dalla costa e bloccò Giaffa. Una delle navi inglesi forzò il blocco e tornò a Lattakieh, le altre vennero abbandonate dal loro

equipaggio non appena sbarcato il carico, e i marinai, sotto la scorta di Raimondo Pilet, si diressero verso l’accampamento davanti a Gerusalemme, dove vennero accolti con soddisfazione, insieme con le merci che portavano. Ma era ancora necessario trovare del legname con cui costruire le macchine. Sulle nude colline intorno a Gerusalemme se ne poteva trovare ben poco e i crociati si videro costretti a inviare delle spedizioni a molte miglia di distanza per raccogliere il materiale necessario. Si poté iniziare il lavoro di costruzione delle macchine soltanto dopo che Tancredi e Roberto di Fiandra si furono spinti con i loro uomini fino alle foreste nei dintorni di Samaria tornandone carichi di tronchi e di assi, trasportati a dorso di cammello o da prigionieri musulmani. Furono costruite scale d’assalto, e Raimondo e Goffredo iniziarono ciascuno la costruzione di un castello di legno, fornito di catapulte e montato su ruote. Gastone di Béarn era responsabile della costruzione del castello di Goffredo e Guglielmo Ricou di quello di Raimondo5. Ma i lavori procedevano lentamente e frattanto i franchi soffrivano terribilmente per il caldo; per tre giorni soffiò lo scirocco, con il suo micidiale effetto sui nervi degli uomini che non vi erano abituati. Il rifornimento idrico diventò sempre più difficile e molti degli animali da soma e delle greggi che l’esercito aveva radunato morivano ogni giorno per la sete. Dei distaccamenti si spingevano fino al Giordano per trovare acqua; i cristiani del luogo erano ben disposti e si prestavano come guide alle sorgenti e nelle foreste dei dintorni, ma era impossibile impedire scorrerie ed imboscate da parte dei soldati musulmani, tanto della guarnigione quanto di compagnie che scorazzavano liberamente per la regione. Scoppiarono di nuovo delle liti fra i principi, liti che riguardavano dapprima il possesso di Betlemme. Tancredi aveva liberato la città e vi aveva lasciato il suo vessillo che sventolava sulla chiesa della Natività, ma il clero e i principi suoi rivali consideravano che non era giusto che un edificio tanto sacro rimanesse nelle mani di un signore laico. Tancredi difendeva i suoi diritti su Betlemme e, sebbene la pubblica opinione gli fosse avversa, la decisione venne differita. In seguito, si iniziarono le discussioni sul futuro assetto di Gerusalemme. Alcuni cavalieri proposero che si nominasse un re, ma il clero vi si oppose all’unanimità, affermando che nessun cristiano poteva assumere il titolo di re nella città in cui Cristo era stato incoronato e aveva sofferto. Anche su questo punto l’opinione pubblica si schierò dalla parte del clero e ulteriori discussioni furono rimandate. Le sofferenze fisiche, insieme con la delusione per il fallimento del tentato assalto e per le rinnovate liti dei principi, indussero molti crociati a disertare perfino a quel momento la crociata. Un gruppo di costoro discese al Giordano per sottoporsi a un nuovo battesimo nel fiume sacro, poi, dopo aver raccolto rami di palma dalle sponde del fiume, se ne andarono direttamente a Giaffa, sperando di trovare delle imbarcazioni che li riportassero in Europa6. Ai primi di luglio circolò nell’accampamento la notizia che un grande esercito era partito dall’Egitto per liberare Gerusalemme. I principi si resero conto che non c’era tempo da perdere. Ma il morale dei loro uomini era basso e ancora una volta una visione venne in loro aiuto. La mattina del 6 luglio un prete, Pietro Desiderio, che aveva già testimoniato di aver visto il vescovo Ademaro dopo la sua morte, andò dal fratello di Ademaro, Guglielmo-Ugo di Monteil, e dal suo proprio signore, Isoardo di Gap, per affermare che il vescovo gli era di nuovo apparso. Dopo aver ordinato ai crociati di abbandonare i loro progetti egoistici, Ademaro comandava loro di osservare un digiuno e di camminare in processione a piedi nudi intorno alle mura di Gerusalemme: se si comportavano cosi con cuori pentiti, entro nove giorni avrebbero conquistato Gerusalemme. Quando Pietro Desiderio aveva preteso di aver visto Ademaro soffrire il fuoco dell’inferno a causa dei suoi dubbi a proposito della Sacra Lancia, le sue rivelazioni erano state accolte con scetticismo da molti; ma ora, forse perché l’amatissimo vescovo appariva in una luce più nobile e perché la famiglia di Monteil dava il suo appoggio, la visione venne immediatamente accettata come autentica da tutto l’esercito.

Le istruzioni di Ademaro furono seguite con estremo ardore: venne ordinato un digiuno e rigorosamente osservato per i tre giorni successivi; il venerdì 8 luglio, una solenne processione si mosse serpeggiando lungo il sentiero che circondava la città. I vescovi e i sacerdoti della crociata venivano per primi, portando croci e sacre reliquie, seguivano i principi e i cavalieri, poi i fanti e i pellegrini; tutti erano a piedi nudi. I musulmani si radunarono sulle mura per deriderli, ma essi si gloriavano di quegli scherni e, avendo compiuto il giro, si recarono sul Monte degli Ulivi. Qui Pietro l’Eremita tenne loro una predica e, dopo di lui, il cappellano di Raimondo, Raimondo di Aguilers, e il cappellano di Roberto di Normandia, Arnolfo di Rohes, che era considerato allora come il miglior predicatore dell’esercito. La loro eloquenza commosse ed eccitò i soldati, e perfino Raimondo e Tancredi dimenticarono le loro dispute e giurarono di combattere insieme per la croce7. L’entusiasmo perdurò. Nei due giorni successivi, malgrado le sofferenze provocate dalla sete, gli uomini dell’esercito lavorarono duramente per completare le grandi torri da assedio. Fu di grande aiuto l’abilità dei genovesi diretti da Guglielmo Embriaco, e anche i vecchi e le donne fecero la loro parte cucendo pelli di bue e pelli di cammello e inchiodandole sulle parti esposte delle costruzioni di legno, come protezione contro il fuoco greco usato dai saraceni. Il 10 queste costruzioni erano pronte e furono spinte ai loro posti, una contro il muro settentrionale e l’altra sul Monte Sion, e una terza, un po’ più piccola, venne costruita per essere usata contro l’angolo nord-occidentale delle difese. L’opera di costruzione era stata accuratamente compiuta fuori dalla vista dei soldati della guarnigione, che rimasero meravigliati e allarmati nel trovarsi di fronte simili castelli. Il governatore Iftikhar si affrettò a rafforzare le sezioni più deboli delle difese e le torri da assedio vennero costantemente bombardate con pietre e liquido incendiario per impedir loro di accostarsi alle mura8. Fu deciso che l’assalto sarebbe cominciato nella notte fra il 13 e il 14 luglio: l’attacco principale doveva essere lanciato simultaneamente dal Monte Sion e contro il settore orientale del muro settentrionale, con un finto attacco contro l’angolo di nord-ovest. Secondo Raimondo di Aguilers, e non c’è motivo di mettere in dubbio le sue cifre, l’effettiva forza combattente dell’esercito era allora di dodicimila fanti e milleduecento o milletrecento cavalieri. Vi erano inoltre molti pellegrini, di cui non cerca di stabilire il numero, uomini troppo vecchi o troppo malati per combattere, donne e bambini. Per prima cosa gli assalitori dovevano spingere i loro castelli di legno vicino alle mura, e questo significava riempire il fossato che correva ai loro piedi. Per tutta la notte e per tutto il giorno 14 i crociati si concentrarono nella loro impresa, soffrendo gravemente per le pietre e il fuoco liquido della difesa e rispondendo con un pesante bombardamento dei loro mangani, ma la sera del 14 gli uomini di Raimondo erano riusciti a trasportare la loro torre oltre il fossato, contro il muro. La difesa fu però accanita perché sembra che lo stesso Iftikhar avesse il comando in quel settore e Raimondo non poté stabilire un punto d’appoggio sul muro stesso. La mattina seguente la torre di Goffredo fu accostata alle mura settentrionali, nei pressi dell’attuale Porta dei Fiori. Goffredo e suo fratello, Eustachio di Boulogne, davano gli ordini dal piano superiore e verso mezzogiorno riuscirono a lanciare un ponte dalla torre alla sommità del muro; due cavalieri fiamminghi, Litoldo e Gilberto di Tournai, vi guidarono il meglio dell’esercito lotaringio, seguiti presto dallo stesso Goffredo. Una volta conquistato un settore delle mura, le scale permisero ad altri assalitori di arrampicarsi ed entrare in città. Mentre Goffredo rimaneva sul muro per incoraggiare i nuovi venuti e inviare uomini ad aprire la Porta della Colonna al grosso delle forze della crociata, Tancredi e i suoi uomini, che avevano seguito da presso i lorenesi, si spinsero molto avanti nelle strade della città. I musulmani, vedendo infrante le loro difese, fuggirono verso la Haram as-Sherif, l’area del Tempio, dove si trovavano la Cupola della Roccia e la moschea di el-Aqsa, con l’intenzione di adoperare questa come loro ultima fortezza, ma non ebbero il tempo di porla in stato di difesa. Mentre vi si

affollavano nell’interno e sul tetto, Tancredi si lanciò su di loro. Essi gli si arresero immediatamente, promettendo un forte riscatto, e presero il suo vessillo per spiegarlo sopra la moschea. Tancredi aveva già sconsacrato e saccheggiato la Cupola della Roccia. Nel frattempo gli abitanti della città fuggivano in disordine verso i quartieri meridionali, dove Iftikhar resisteva ancora contro Raimondo. Al principio del pomeriggio egli si rese conto che tutto era perduto e si ritirò nella torre di Davide, che offrì di consegnare a Raimondo in cambio della propria vita, di quella dei soldati della sua guardia del corpo e di una gran somma di denaro. Raimondo accettò le condizioni e occupò la torre: Iftikhar e i suoi uomini vennero scortati sani e salvi fuori della città e fu loro concesso di raggiungere la guarnigione musulmana di Ascalona9. Essi furono gli unici musulmani di Gerusalemme che ebbero salva la vita. I crociati, resi come pazzi da una vittoria cosi esaltante dopo tante sofferenze, si precipitarono per le strade, nelle case e nelle moschee uccidendo tutti quelli che incontravano, uomini, donne e bambini senza distinzioni. Il massacro continuò per tutto il pomeriggio e per tutta la notte. Il vessillo di Tancredi non servi a proteggere quelli che si erano rifugiati nella moschea di el-Aqsa: nelle prime ore della mattina seguente, una banda di crociati fece irruzione nella moschea e trucidò tutti quanti. Quando Raimondo di Aguilers, più tardi nella mattinata, andò a visitare l’area del Tempio, dovette aprirsi la strada fra i cadaveri e il sangue che gli arrivava fino alle ginocchia10. Gli ebrei di Gerusalemme si rifugiarono tutti insieme nella loro principale sinagoga, ma furono incolpati di aver aiutato i musulmani e non trovarono misericordia alcuna: l’edificio venne incendiato e vi bruciarono tutti dentro.11 Il massacro di Gerusalemme impressionò profondamente tutto il mondo. Nessuno può dire quante siano state le vittime, ma la città venne svuotata dei suoi abitanti musulmani ed ebrei. Anche molti cristiani rimasero inorriditi per ciò che era stato fatto; e fra i musulmani, che erano stati disposti fino a quel momento ad accettare i franchi come un nuovo fattore della ingarbugliata situazione politica dell’epoca, ci fu da allora in poi la netta determinazione che gli occidentali dovevano essere cacciati. Quella sanguinosa dimostrazione di fanatismo cristiano risuscitò il fanatismo dell’Islam. Quando, in seguito, i più saggi latini d’Oriente si sforzarono di trovare una base qualsiasi sulla quale cristiani e musulmani potessero collaborare, il ricordo del massacro si levò sempre sul loro cammino. Quando non vi furono più musulmani da trucidare, i principi della crociata andarono in pompa magna attraverso il desolato quartiere cristiano, abbandonato fin da quando Iftikhar ne aveva esiliato gli abitanti, a render grazie a Dio nella chiesa del Santo Sepolcro. Poi, il 17 luglio, si riunirono per designare un governatore per la città conquistata12. Il sovrano che la maggior parte di loro avrebbe accettato volentieri, era morto: l’intero esercito era addolorato per il fatto che il vescovo Ademaro di Le Puy non fosse in vita per vedere il trionfo della causa che aveva servito. Non si poteva credere che egli non l’avesse veramente visto, e molti soldati, gli uni dopo gli altri, dichiararono che c’era stato un guerriero che combatteva sulla prima linea dell’assalto, in cui avevano riconosciuto i lineamenti del vescovo13. Altri ancora, che si sarebbero rallegrati della vittoria, non vissero abbastanza per esserne informati: Simeone, patriarca di Gerusalemme, era morto pochi giorni prima in esilio a Cipro14; laggiù lontano, in Italia, il promotore della crociata giaceva ammalato: il 19 luglio 1099, circa due settimane dopo che i suoi soldati erano penetrati nella Città Santa, ma prima che potesse giungergli qualsiasi notizia dell’avvenimento, papa Urbano II moriva in Roma15.

Capitolo terzo «Advocatus Sancti Sepulchri»

In quel tempo, non v’era re in Israele. Giudici, XVIII, I

La meta era stata raggiunta, Gerusalemme era stata restituita alla cristianità; ma come sarebbe stata conservata? quale doveva essere il suo governo? Non si poteva ormai più differire la soluzione di questo problema, su cui ogni crociato aveva certamente meditato in privato. Sembra che l’opinione pubblica, ricordando che la crociata era stata progettata dalla Chiesa per la gloria di Cristo, pensava che la Chiesa dovesse avere l’autorità suprema. Non v’è dubbio che se Ademaro di Le Puy fosse stato ancora in vita tutti si sarebbero aspettati che egli stesso redigesse la costituzione dello Stato e ne designasse i funzionari. Egli era amato e rispettato e conosceva i desideri di papa Urbano; progettava probabilmente uno Stato teocratico sotto il patriarca Simeone, con se stesso in veste di consigliere nella sua qualità di legato papale, e con Raimondo di Tolosa quale protettore laico e comandante dell’esercito. Ma non possiamo pretendere di descrivere le sue intenzioni poiché esse erano scomparse con lui. Sebbene i crociati non ne fossero ancora informati, papa Urbano aveva già nominato un legato, Daimberto di Pisa, quale suo successore1. Questi però mostrò di avere tali ambizioni personali e di essere allo stesso tempo cosi facilmente influenzabile che non può essere considerato un fedele interprete della politica papale. Non vi era più nessuno nella crociata, i cui consigli sarebbero stati obbediti senza discussioni. Il 17 luglio i capi si riunirono per affrontare urgenti questioni amministrative: le strade e le case dovevano essere ripulite dai cadaveri e bisognava decidere come eliminarli; bisognava assegnare ai soldati e ai pellegrini dei quartieri entro la città e fare dei preparativi per sostenere l’imminente contrattacco egiziano. Venne pure discusso se si dovesse concedere a Tancredi di tenere per sé tutto il tesoro, comprendente otto e-normi lampade d’argento, che egli aveva asportato dalla Cupola della Roccia2. Poi qualcuno sollevò la questione dell’elezione di un re. Il clero protestò immediatamente: le necessità spirituali dovevano avere la precedenza e prima di eleggere un re bisognava designare un patriarca che presiedesse l’elezione. Guglielmo di Tiro, scrivendo quasi un secolo piò tardi quando ormai la monarchia era pienamente accettata, e sebbene fosse arcivescovo, considerava questo fatto come uno scandaloso tentativo della Chiesa di oltrepassare il limite dei propri diritti. Ma a quell’epoca suscitò risentimento soltanto perché i promotori erano ecclesiastici indegni. Un patriarca era necessario, e se Simeone fosse stato ancora in vita i suoi diritti sarebbero stati rispettati, perché aveva goduto della stima di Ademaro e i crociati ricordavano con gratitudine i doni che aveva inviato loro ad Antiochia; ma nessun altro ecclesiastico greco o siriano sarebbe stato bene accetto e in realtà non ce n’era nessuno che potesse avanzare una candidatura dato che il più alto clero ortodosso di Gerusalemme aveva seguito il patriarca in esilio. Un latino doveva essere elevato alla dignità del patriarcato, ma fra il clero latino non vi era in quel momento nessuno che si distinguesse. Dopo la morte di Ademaro, Guglielmo di Orange era stato il vescovo più rispettato, ma era deceduto a Maarat an-Numan. L’ecclesiastico più attivo era ora un normanno italiano, Arnolfo,

vescovo di Martorana. Questi propose che il suo amico Arnolfo Malecorne di Rohes, cappellano di Roberto di Normandia, diventasse patriarca e che egli stesso venisse ricompensato con l’arcivescovato di Betlemme. Arnolfo di Rohes non era uno sconosciuto: era stato tutore della figlia di Guglielmo il Conquistatore, la monaca Cecilia, ed essa aveva indotto suo fratello Roberto a prenderlo con sé e a promettergli una diocesi. Era un predicatore eccellente e un letterato, ma era considerato molto mondano e veniva ricordato come il nemico di Pietro Bartolomeo. Inoltre l’intera transazione sembrava un complotto normanno perciò il clero della Francia meridionale, appoggiato senza dubbio da Raimondo di Tolosa, non volle collaborare; venne cosi abbandonata la proposta di eleggere il patriarca prima del re. L’episodio non fu cosi importante come credeva Guglielmo di Tiro. Come dimostrò il seguito dei fatti, l’opinione pubblica appoggiava ancora la Chiesa contro il potere secolare3. I giorni successivi trascorsero in intrighi in vista della designazione al trono. Dei grandi principi che erano partiti da Costantinopoli, soltanto quattro rimanevano ancora con la crociata: Raimondo di Tolosa, Goffredo di Lorena, Roberto di Fiandra e Roberto di Normandia. Eustachio di Boulogne aveva sempre avuto una parte secondaria al seguito di suo fratello Goffredo, e Tancredi, nonostante il suo valore militare, aveva pochi seguaci ed era considerato poco più che il parente povero di Boemondo. Fra costoro, Raimondo era il candidato più potente: la sua età, le sue ricchezze, la sua esperienza e la sua lunga amicizia con Ademaro erano titoli che nessun altro poteva vantare. Ma non era popolare fra i suoi colleghi perché aveva mostrato troppo spesso e troppo arrogantemente che si considerava come il capo laico della crociata. La sua politica di amicizia verso l’imperatore era profondamente avversata, persino da molti del suo stesso seguito. I pochi mesi in cui era stato comandante supremo, non erano stati fortunati e l’insuccesso di Arqa e il disconoscimento della Sacra Lancia avevano leso il suo prestigio; infine, sebbene il suo coraggio personale e la sua energia non venissero posti in dubbio, come soldato non aveva riportato nessuna grande vittoria. Diventando re sarebbe stato altezzoso ed autocratico, ma non avrebbe ispirato fiducia né come comandante militare né come uomo politico. Fra i rimanenti, il più abile era Roberto di Fiandra, ma si sapeva che desiderava tornare in patria non appena Gerusalemme fosse stata assicurata. Roberto di Normandia era ben voluto e aveva grande prestigio come capo della stirpe normanna, ma non aveva una personalità straordinaria e anch’egli era propenso a tornare in Europa. Restava Goffredo: come duca della Bassa Lorena aveva occupato nel passato una carica più elevata di quella di qualsiasi dei suoi colleghi. Non era stato un duca molto efficiente e la sua condotta a Costantinopoli aveva mostrato che egli aveva la sospettosa ostinazione di un uomo debole e poco intelligente, ma i crociati non ne conoscevano i difetti di statista e di amministratore e vedevano in lui un uomo prode e religioso e un devoto servitore della loro causa. Corse voce che quando gli elettori fecero delle indagini sulla vita privata di ciascuno dei capi, il seguito di Goffredo non trovò nessuna colpa da addebitargli tranne un’eccessiva passione per le pratiche religiose4. Non si sa chi componesse il corpo elettorale; probabilmente il clero più elevato e i cavalieri che erano grandi vassalli dei principi della crociata. La corona venne dapprima offerta a Raimondo, ma egli la rifiutò; il suo rifiuto ha sorpreso gli storici, tanto era nota la sua ambizione di guidare il movimento crociato. Ma egli si rese conto che l’offerta non aveva il sincero appoggio della maggioranza dei crociati e che, in pratica, i suoi colleghi non si sarebbero mai assoggettati alla sua autorità. Perfino i suoi stessi soldati, ansiosi di tornare in Europa, si dichiararono contrari alla sua accettazione. Egli dichiarò perciò che non desiderava essere re nella città santa di Cristo, sperando cosi di rendere impossibile a chiunque altro di diventare re. Gli elettori si rivolsero allora con sollievo a Goffredo, che era notoriamente il candidato di Roberto di Fiandra e di Roberto di

Normandia. Goffredo, dopo aver fatto mostra di una certa riluttanza, accettò il potere, ma chiese di venir esonerato dal portare il titolo di re: si sarebbe chiamato «Advocatus Sancti Sepulchri», devoto difensore del Santo Sepolcro5. Raimondo pensò di essere stato giocato, ma Goffredo era certamente in buona fede nel rifiutare di portare una corona nella città in cui Cristo aveva portato la corona di spine. La sua dote principale consisteva nel fatto che la sua devozione corrispondeva a quella del crociato medio, e che egli non si liberò mai dalla convinzione che la Chiesa di Cristo doveva essere in definitiva l’autorità che governava la Terra Santa. Soltanto dopo la sua morte e dopo che la maggioranza dei pellegrini era tornata in patria lasciando dietro di sé una colonia composta soprattutto di avventurieri e di uomini d’affari pratici un re poté essere incoronato a Gerusalemme6. Raimondo prese molto male la vittoria di Goffredo. Egli occupava la torre di Davide e rifiutò di consegnarla al nuovo sovrano, dicendo che intendeva rimanere a Gerusalemme per celebrarvi la Pasqua successiva e che nel frattempo la torre sarebbe stata la sua residenza. Dopo che Roberto di Fiandra e Roberto di Normandia ebbero protestato con lui, acconsentì ad affidarla al vescovo di Albara fino a quando un consiglio generale della crociata risolvesse la questione; ma non appena egli ne uscì il vescovo la consegnò a Goffredo, senza aspettare una decisione imparziale, e si scusò con Raimondo affermando che non aveva possibilità di difendersi ed era stato costretto a cedere. Ma lo stesso Raimondo di Aguilers vide le grandi quantità di armi che lo sleale prelato portò con sé quando si trasferì in una casa vicino al Santo Sepolcro; può darsi che venisse incoraggiato in questa azione da coloro che, fra gli uomini di Raimondo, erano impazienti di indurre il loro signore a tornare in Francia. Nella sua collera Raimondo annunziò dapprima che sarebbe immediatamente tornato in patria. Abbandonò Gerusalemme, ma discese con tutte le sue truppe nella valle del Giordano e, obbedendo alle istruzioni dategli da Pietro Bartolomeo ad Antiochia, condusse i suoi uomini, che recavano ciascuno un ramo di palma, da Gerico al fiume. Quando egli ne uscì, l’intera compagnia, recitando preghiere e salmi, si bagnò nel fiume sacro e indossò vesti pulite; «tuttavia noi non sappiamo ancora, - osservava Raimondo di Aguilers, - perché il santo uomo ci abbia detto di fare tutto questo». Non desiderando tornare sul luogo della sua umiliazione, a Gerusalemme, Raimondo stabilì il suo accampamento a Gerico7. L’insuccesso di Raimondo nell’ottenere la corona indebolì la posizione dei suoi seguaci e quando il clero si riunì il 1° agosto per eleggere un patriarca l’opposizione dei provenzali ad Arnolfo di Rohes risultò inefficace. Sicuro dell’appoggio dei lorenesi e dei normanni di Francia e d’Italia, il vescovo di Martorana riuscì a persuadere la maggioranza dell’assemblea a designare Arnolfo. Invano Raimondo di Aguilers e i suoi amici fecero notare che l’elezione non era canonica, poiché Arnolfo non era neppure un suddiacono, e i suoi costumi erano tali che nell’esercito erano state composte delle strofette in proposito. In generale, il suo insediamento venne accolto favorevolmente8. In politica Arnolfo si mostrò moderato e se il clero si era aspettato che egli si imponesse a Goffredo, rimase deluso. Consapevole, forse, di non portare la responsabilità di sovrano di Gerusalemme, egli limitò le sue attività alle questioni ecclesiastiche perseguendo lo scopo di latinizzare la sua diocesi. Con l’approvazione di Goffredo, insediò venti canonici per tenere servizi religiosi quotidiani al Santo Sepolcro e provvide la chiesa di campane per chiamare il popolo alla preghiera - i musulmani non avevano mai permesso ai cristiani di adoperarle. Poi bandi i preti dei riti orientali che avevano officiato in quella chiesa che, allora come oggi, conteneva altari appartenenti a tutte le sette della cristianità orientale, non soltanto ai greci ortodossi e ai georgiani, ma anche agli armeni, ai giacobiti e ai copti. La popolazione cristiana locale si era affrettata a

tornare con gran premura a Gerusalemme all’indomani della conquista latina, ma ora cominciava a rimpiangere il mutamento di padroni. Quando erano stati cacciati dalla città da Iftikhar, alcuni preti ortodossi avevano portato con sé la più sacra reliquia della chiesa di Gerusalemme, la parte più grande della Vera Croce, ed erano riluttanti a consegnarla a un prelato che disconosceva i loro diritti. Soltanto con l’uso della tortura Arnolfo ottenne che i custodi rivelassero il luogo in cui l’avevano nascosta. Ma, sebbene il loro risentimento crescesse, i cristiani ortodossi indigeni non avevano altra scelta che quella di accettare la gerarchia latina; il proprio clero di grado più elevato era disperso e non venne mai loro in mente di designare dei vescovi e un patriarca in opposizione a quelli latini. Non esisteva ancora uno scisma fra l’ortodossia orientale e quella occidentale in Palestina, sebbene Arnolfo avesse compiuto i primi passi per renderlo inevitabile. Le Chiese eretiche, che avevano goduto tolleranza sotto i musulmani, scoprirono che con la conquista latina si iniziava per esse un periodo di decadenza9. I rapporti di Goffredo con i colleghi che lo avevano appoggiato fino a quel momento peggiorarono dopo la sua elezione. Per qualche motivo offese ben presto Roberto di Normandia, e Roberto di Fiandra si mostrò più freddo verso di lui. Tancredi si era recato nel frattempo a Nablus, i cui abitanti avevano informato Gerusalemme di volersi arrendere ai crociati. Egli era accompagnato dal fratello di Goffredo, Eustachio di Boulogne, forse per impedire che mettesse in pratica la sua solita abitudine di prendere per sé tutto il bottino. Essi vi furono accolti bene, ma sembra che non ottenessero nessun vantaggio10. Poco dopo la loro partenza giunse a Gerusalemme un’ambasceria egiziana per rimproverare ai franchi di non avere tenuto fede alla parola data e per ordinare loro di abbandonare la Palestina. Fu seguita dalla notizia che l’esercito egiziano, al comando del visir al-Afdal in persona, era penetrato in Palestina e stava avanzando verso Ascalona. Goffredo inviò perciò a dire a Tancredi e ad Eustachio di scendere nella pianura vicino al mare e di riferire sui movimenti del nemico. Essi si diressero in fretta verso Cesarea, poi volsero a sud su Ramleh; cammin facendo catturarono parecchi esploratori mandati avanti dagli egiziani e strapparono loro informazioni sul numero e la disposizione delle forze del visir. Sapendo che al-Afdal era in attesa della sua flotta con altri rifornimenti e che non si aspettava un attacco da parte dei franchi, essi inviarono dei messi a Goffredo per sollecitare i crociati a coglierlo di sorpresa. Goffredo radunò immediatamente il suo esercito e invitò i suoi colleghi a unirsi a lui: Roberto di Fiandra rispose alla chiamata, ma Roberto di Normandia e Raimondo, che si trovava ancora nella valle del Giordano, fecero sapere che avrebbero atteso fino a quando la notizia venisse confermata e acconsentirono a muoversi soltanto dopo aver mandato i propri esploratori a rendersi conto di quello che stava succedendo11. Il 9 agosto Goffredo parti da Gerusalemme con Roberto di Fiandra e tutti i loro uomini. Il patriarca Arnolfo li accompagnava. Quando giunsero a Ramleh e si incontrarono con Tancredi e con Eustachio, il vescovo di Martorana venne rimandato a Gerusalemme in tutta fretta per comunicare quanto fosse pericolosa la situazione e per esortare ogni uomo atto a combattere a unirsi all’esercito. Roberto di Normandia e Raimondo erano ormai convinti e lasciarono Gerusalemme il io; nella città rimase soltanto una esigua guarnigione, mentre Pietro l’Eremita ricevette istruzioni di tenere funzioni religiose e processioni propiziatorie, durante le quali sia greci che latini dovevano pregare per la vittoria della cristianità. Nelle prime ore del giorno 11 l’intero esercito crociato si raccolse a Ibelin, poche miglia oltre Ramieh, ed avanzò subito nella pianura di Ashdod, dove all’imbrunire i soldati scoprirono e accerchiarono le greggi che gli egiziani avevano portato per rifornire le loro truppe. Dopo un breve riposo notturno, essi uscirono nella verde e fertile pianura di al-Majdal, poco a nord

di Ascalona, dove era accampato l’esercito del visir, e si schierarono in ordine di battaglia nel debole chiarore dell’alba, con Raimondo sulla destra, vicino al mare, i due Roberto e Tancredi al centro e Goffredo sulla sinistra, e non appena i ranghi furono a posto, attaccarono l’esercito egiziano. Al-Afdal fu colto completamente di sorpresa: i suoi esploratori non avevano fatto buona prova ed egli non si aspettava che i franchi fossero cosi vicini. I suoi uomini non opposero quasi resistenza e dopo pochi minuti erano in fuga in preda al panico; un gruppo numeroso cercò rifugio in un boschetto di sicomori, dove tutti perirono bruciati; sul loro fianco sinistro Raimondo ne ricacciò in mare un gran numero e al centro Roberto di Normandia e Tancredi si spinsero nel cuore stesso dell’accampamento dove la guardia del corpo di Roberto s’impadronì del vessillo del visir e di molti suoi oggetti personali. Lo stesso visir riuscì a rifugiarsi ad Ascalona con un pugno di ufficiali e là prese una nave per tornarsene in Egitto. In poche ore la vittoria fu completa ed il possesso di Gerusalemme assicurato ai crociati12. Il bottino dei vincitori fu immenso. Roberto di Normandia comprò il vessillo del visir per venti marchi d’argento dal normanno che lo aveva preso e lo regalò al patriarca Arnolfo. La spada del visir venne venduta a un altro principe per sessanta bisanti. Fra il bagaglio degli egiziani si trovarono in grandi quantità lingotti d’oro e d’argento e pietre preziose, inoltre un gran numero di armi e di animali caddero nelle mani dei crociati. Il sabato 13 agosto una processione trionfale tornò a Gerusalemme carica di bottino; tutto quello che non poté essere trasportato venne bruciato13. Il significato della vittoria fu pienamente compreso, ma mentre essa garantiva che gli egiziani non avrebbero riconquistato il territorio che avevano perduto, non significava che tutta la Palestina sarebbe stata occupata immediatamente dai franchi. La flotta egiziana controllava ancora le coste e offriva protezione ai porti di mare. Goffredo aveva sperato di trarre profitto dalla battaglia per conquistare Ascalona, la cui guarnigione sapeva di non poter resistere contro le forze riunite della crociata. Ma il massacro di Gerusalemme non era stato dimenticato e i musulmani di Ascalona non desideravano affatto subire analoga sorte. Essi sapevano che gli unici superstiti di Gerusalemme erano quelli che si erano arresi a Raimondo di Tolosa, la cui reputazione di cavalleresca lealtà era perciò tenuta in gran conto. Essi inviarono allora dei messi all’accampamento crociato per dire che avrebbero consegnato la città a lui soltanto. Goffredo, profondamente sospettoso di Raimondo dopo la faccenda della torre di Davide, rifiutò di riconoscere delle condizioni di resa che non affidassero a lui la città. Raimondo ne fu adirato e umiliato e cominciò subito a spostarsi verso nord con tutti i suoi uomini, mentre Roberto di Normandia e Roberto di Fiandra furono cosi scandalizzati per la piccineria di Goffredo che anch’essi lo abbandonarono. Senza il loro aiuto questi non poteva avventurarsi ad attaccare Ascalona, che fu cosi perduta per i franchi per più di mezzo secolo14. Subito dopo, la piccola città di Arsuf offrì di arrendersi a Raimondo, ma di nuovo Goffredo rifiutò di riconoscere un simile accordo e di nuovo Raimondo se ne andò in collera. Gli amici di Goffredo dichiararono che Raimondo incoraggiò perfino la guarnigione di Arsuf a opporre resistenza a Goffredo, del quale mise accuratamente in rilievo la debolezza15. Alla fine di agosto Raimondo e i due Roberto avevano deciso di lasciare la Palestina. Tanto il duca di Normandia quanto il conte di Fiandra erano ormai impazienti di tornare in patria, avevano fatto il loro dovere di cristiani e potevano considerare che i loro voti si erano adempiuti. Malgrado le loro recenti liti Goffredo si sentì profondamente abbattuto nel vederli partire. Durante la loro visita di commiato egli li supplicò di fare il possibile, una volta raggiunta l’Europa, per sollecitare dei soldati a venire in Oriente a combattere per la croce, ricordando loro quanto fosse precaria la posizione di coloro che restavano in Terra Santa. Ai primi di settembre essi cominciarono il loro

viaggio verso nord, risalendo la costa16. Raimondo li accompagnò, ma nel suo caso non si trattava di una partenza decisiva, poiché aveva fatto voto di restare in Oriente. Aveva perduto Gerusalemme, ma non c’era nessun motivo per cui non potesse ora seguire l’esempio di Boemondo e di Baldovino e fondare un principato suo. Il territorio che poteva offrirgli maggiore libertà d’azione era la Siria centrale, abbastanza lontana sia dai turchi sia dagli egiziani per essere sicura, e per la massima parte nelle mani dei pacifici Banu Ammar. Egli poteva inoltre sperare di avere l’appoggio di Bisanzio17. Con Raimondo e i due Roberto parti anche la maggior parte dei loro uomini. Di ogni esercito ne rimasero indietro alcuni per stabilirsi in Palestina, ma a controbilanciarli, un gruppo di uomini di Goffredo, fra cui Baldovino di Le Bourg, ritornò verso il nord sotto le bandiere del conte di Fiandra. Tancredi e il suo piccolo seguito restarono in Palestina18. Il viaggio verso nord fu compiuto senza difficoltà. I governatori musulmani delle città costiere si affrettavano a rifornire di vettovaglie l’esercito quando passava nelle vicinanze. A metà settembre giunsero a Tortosa, che era ancora occupata da una guarnigione di uomini di Raimondo, e proseguirono verso Jabala, dove i capi udirono delle notizie che li scandalizzarono e li turbarono profondamente19. Poco prima della sua morte papa Urbano aveva nominato un legato per sostituire Ademaro in Palestina, e la sua scelta era caduta su Daimberto, arcivescovo di Pisa. Urbano conosceva bene i suoi compatriotti francesi, ma con gli italiani commise degli errori. Daimberto era stato un energico arcivescovo e si sapeva che si interessava della guerra santa, perciò il papa lo aveva mandato nel 1098 come suo legato alla corte del re Alfonso VI di Castiglia, dove si era mostrato pieno di zelo e di competenza nei suoi sforzi di organizzare la Chiesa nelle terre conquistate ai mori. Ma circolarono anche delle dicerie secondo cui la sua amministrazione non era stata esente da corruzione e, in particolare, egli aveva tenuto per sé una gran parte del tesoro inviato da re Alfonso al papa. Malgrado la sua energia, era evidente che era un uomo vano, ambizioso e disonesto, e nel nominarlo legato in Oriente Urbano compì un grande passo avanti nel rovinare la propria politica20. Daimberto parti dall’Italia nell’estate del 1099, accompagnato da una flotta pisana, allestita dalla municipalità di Pisa. Senza dubbio sperava, a causa della sua influenza sui pisani, di servirsi di loro per consolidare la propria posizione, mentre essi da parte loro si rendevano conto di quanto utile sarebbe stato il suo aiuto per ottenere concessioni. Essi formavano una compagnia piratesca e nel loro viaggio verso oriente si dedicarono a vantaggiose razzie sulle isole ionie, Corfù, Leucade, Cefalonia e Zante. Le notizie dei loro eccessi giunsero ben presto a Costantinopoli e l’imperatore inviò contro di loro una flotta agli ordini di Taticio, che era tornato da non molti mesi da Antiochia, e di Landolfo, un uomo di mare di origine italiana. I bizantini cercarono di intercettare i pisani mentre questi oltrepassavano Samo, ma giunsero troppo tardi e non riuscirono neppure a sorprenderli al largo di Coo. Finalmente le flotte si avvistarono l’una l’altra al largo di Rodi: i bizantini tentarono di dare battaglia e catturarono una nave pisana, che aveva a bordo un parente di Boemondo, ma si levò un’improvvisa tempesta che consentì ai pisani di fuggire. Costoro cercarono poi di compiere uno sbarco sulla costa di Cipro, ma vennero respinti con alcune perdite dal governatore bizantino Filocale; si diressero allora verso la costa siriana, mentre la flotta bizantina gettava l’ancora a Cipro21. Dopo la partenza dei suoi colleghi per Gerusalemme, Boemondo si era dedicato a consolidare la propria posizione ad Antiochia. Per il momento aveva poco da temere dai turchi ed era occupato soprattutto con i bizantini. Sapeva che l’imperatore non l’avrebbe mai perdonato e quindi, fintanto

che l’imperatore aveva il controllo sulla migliore flotta delle acque orientali e sul porto di Lattakieh appena a sud del suo territorio, egli non poteva sentirsi sicuro. Verso la fine di agosto decise di risolvere la questione e si mise in marcia per attaccare Lattakieh. Ma senza forze navali non poté far nulla, poiché le fortificazioni erano robuste e la guarnigione poteva essere rifornita e rafforzata da Cipro. L’arrivo al largo della costa di una flotta pisana che non aveva motivi per amare i bizantini, era perciò molto opportuno; egli si affrettò a venire a patti con Daimberto e con i capitani pisani che gli promisero una totale assistenza22. L’imperatore aveva ordinato al suo ammiraglio di punire gli atti di pirateria commessi dai latini, ma desiderava evitare un’aperta rottura. Taticio non sapeva bene come comportarsi di fronte a questi nuovi sviluppi e, dopo essersi consultato con il governatore di Cipro, chiese al generale bizantino Butumites - che si trovava a Cipro probabilmente nelle funzioni di ambasciatore straordinario in Oriente - di recarsi ad Antiochia e di incontrarsi con Boemondo. Ma questi si mostrò intransigente e l’ambasceria non giunse a nulla. Butumites tornò a Cipro e salpò con Taticio e il grosso della flotta per Costantinopoli, per riferire sulla situazione e ricevere ulteriori istruzioni. Al largo di Syce, sulla costa occidentale della Cilicia, molte navi bizantine naufragarono durante una terribile burrasca, ma la squadra dell’ammiraglio fu in grado di proseguire il viaggio. Le navi pisane si portarono allora in posizione per bloccare Lattakieh dal mare23. A questo punto Raimondo e i due Roberto arrivarono a Jabala. Era naturale che Raimondo rimanesse scandalizzato per i fatti di Lattakieh: egli detestava tutto ciò che Boemondo faceva, inoltre la sua politica era di allearsi a Bisanzio; ma anche i suoi colleghi erano ugualmente addolorati. Per quanto avessero deplorato alcune delle azioni dell’imperatore, comprendevano la necessità di una collaborazione qualsiasi fra i cristiani orientali e quelli occidentali; inoltre dovevano affrontare il problema di ricondurre i loro eserciti in Europa, un’impresa questa che sarebbe stata quasi impossibile senza l’aiuto bizantino. Era anche particolarmente sconveniente che il nuovo legato papale in Oriente cominciasse la propria opera con un’azione che avrebbe gravemente offeso la maggior parte dei cristiani orientali. Daimberto venne convocato all’accampamento di Jabala e, posto di fronte agli adirati rimproveri dei capi, vide il suo errore e sciolse dall’impegno la flotta pisana. Senza il suo aiuto e con i suoi colleghi in collera contro di lui, Boemondo fu costretto ad abbandonare l’assedio. Raimondo entrò allora in Lattakieh, accompagnato dai due Roberto, con il pieno consenso degli abitanti ed innalzò il suo vessillo sulla cittadella, accanto a quello dell’imperatore. Il governatore di Cipro, informato di questi sviluppi, comunicò la sua approvazione e si offrì di trasportare gratuitamente Roberto di Fiandra e Roberto di Normandia a Costantinopoli, nella prima tappa del loro viaggio di ritorno in patria. L’offerta fu accettata con gratitudine e i due Roberto salparono felicemente per Bisanzio, dove furono ben accolti dall’imperatore. Rifiutarono la sua proposta di restare in Oriente al suo servizio e dopo una breve visita continuarono il loro viaggio per l’Occidente. Non sappiamo quanti dei loro uomini partirono con loro, può darsi che alcuni si siano imbarcati su navi genovesi dirette in Italia. Raimondo restò a Lattakieh24. Frattanto Daimberto aveva raggiunto Boemondo ad Antiochia. Questi conosceva il suo uomo e riguadagnò molto presto la sua influenza su di lui. Il legato era impaziente di proseguire per Gerusalemme e Boemondo decise di accompagnarlo poiché, come gli altri crociati, aveva anch’egli pronunciato il voto di andare a pregare sul Santo Sepolcro, e il fatto che non l’avesse ancora adempiuto stava recando danno al suo prestigio. L’occasione di compiere il pellegrinaggio con Daimberto e di assicurarsi cosi la sua alleanza era troppo favorevole per venire sprecata. Inoltre, c’era anche da prendere in considerazione il futuro di Gerusalemme: Goffredo non aveva un erede

naturale ed era malfermo in salute. Il legato papale avrebbe potuto controllare la successione e, ad ogni modo, sarebbe stato saggio conoscere personalmente la situazione colà. Venne annunciato che Daimberto e Boemondo avrebbero lasciato Antiochia nel tardo autunno, al fine di essere nella Città Santa per Natale25. Nell’apprendere questa notizia, Baldovino mandò a dire da Edessa che avrebbe accompagnato il pellegrinaggio. Anch’egli doveva adempiere il suo voto e sentiva che poteva lasciare Edessa per un c’erto tempo, inoltre era ovviamente nell’interesse generale che il gruppo fosse il pivi forte possibile. Ma anch’egli era interessato alla successione: era fratello di Goffredo ed il suo più stretto parente in Oriente - poiché Eustachio di Boulogne aveva probabilmente lasciato la Palestina sulla scia di Roberto di Fiandra - ed era altrettanto ambizioso di Boemondo. Può darsi che questi ne abbia in seguito rammaricato la compagnia. Con Boemondo e Baldovino vennero tutti i loro uomini che potevano essere sottratti alla difesa dei rispettivi territori e un gran numero di donne: secondo Fulcherio di Chartres ammontavano a venticinquemila26. I pellegrini partirono ai primi di novembre. Boemondo e Daimberto seguirono la strada costiera, con la flotta pisana che proteggeva il loro fianco. Quando passarono presso Lattakieh, Raimondo rifiutò di cedere loro delle provviste. A Buluniyas, un po’ più a sud, essi si fermarono per permettere a Baldovino di raggiungerli; egli era arrivato ad Antiochia soltanto dopo la partenza di Boemondo, ma era stato meglio accolto da Raimondo a Lattakieh. Gli abitanti di Buluniyas, cristiani greci che apparentemente riconoscevano l’autorità dell’imperatore, non accolsero di buon grado i pellegrini e, a quel che sembra, furono assolutamente negativi quanto a viveri. Quando i pellegrini ripartirono, cominciarono ben presto a soffrire la fame. Tortosa, che essi oltrepassarono alla fine del mese, era tornata nelle mani dei musulmani e la guarnigione attaccò e massacrò i pellegrini sbandati della retroguardia. Non fu possibile ottenere colà del cibo, che era scarso anche a Tripoli, dove il pane si vendeva a cosi caro prezzo che soltanto i ricchi potevano comprarne. Un certo nutrimento venne ricavato dalle canne da zucchero che crescevano nei dintorni di Tripoli, ma sebbene interessasse i pellegrini come novità, era insufficiente per il loro fabbisogno. Dicembre fu inaspettatamente freddo e la pioggia cadde senza interruzione; la mortalità era elevata fra le persone anziane e quelle più delicate, e anche la maggior parte delle bestie da soma perirono. Ma essi continuarono ad avanzare con fatica, non fermandosi mai più a lungo del necessario. A metà dicembre giunsero a Cesarea, dove poterono comprare del cibo, e il 21 dicembre arrivarono a Gerusalemme27. Goffredo fu contento di vederli giungere: aveva urgente bisogno di uomini e sperava di convincere molti di loro a rimanere in Palestina e a occupare le proprietà che egli era in grado di offrire loro. In questo ebbe un certo successo: quando Boemondo e Baldovino tornarono al nord, parecchi cavalieri, insieme con i loro uomini, si fermarono con lui. La sconfitta subita dagli egiziani ad Ascalona aveva avuto come conseguenza che, sebbene le città costiere, con l’unica eccezione di Giaffa, fossero ancora occupate dai governatori fatimiti e protette dalla flotta egiziana, gli altipiani della Giudea e della Samaria erano stati sottratti al loro controllo. I villaggi erano abitati in massima parte da cristiani, una popolazione passiva di piccoli coltivatori, ai quali era stato proibito per generazioni di portare le armi e che erano sfruttati dai loro signori musulmani ogni qual volta il governo centrale era debole. Accolsero dapprima con gioia il cambio di padroni cosicché alla fine dell’estate l’autorità di Goffredo si estendeva fino alla pianura di Jezreel a nord e oltre Hebron, nel Negeb, a sud; tuttavia qui, nella Giudea meridionale, il suo controllo era meno totale poiché gli indigeni erano principalmente musulmani e c’era una continua infiltrazione di beduini dal deserto. Hebron, che i crociati chiamarono Sant’Abramo, venne solidamente fortificata per dominare il

distretto28. Nel frattempo Tancredi era penetrato in Galilea con una piccola compagnia di ventiquattro cavalieri e i loro uomini. Questa regione era stata poco tempo prima oggetto di contesa tra i Fatimiti e Duqaq di Damasco, ma Duqaq non ebbe il tempo di occuparla dopo la sconfitta egiziana ad Ascalona. I musulmani del luogo non opposero perciò nessuna resistenza a Tancredi e quando il suo piccolo esercito si avvicinò a Tiberiade, loro capitale, fuggirono in territorio damasceno. I cristiani, che si erano trovati in minoranza nella città, lo accolsero con gioia, mentre gli ebrei, che vi avevano una numerosa colonia, erano piuttosto ostili, ricordandola sorte dei loro fratelli di Gerusalemme. Tancredi fortificò Tiberiade, poi proseguì verso la città cristiana di Nazaret e il Monte Tabor, e completò le sue conquiste occupando e fortificando Beisan (Scythopolis), che domina il passo tra la pianura di Jezreel e il Giordano. I musulmani di Galilea si affrettarono ad abbandonare la provincia e Tancredi approfittò della loro partenza per sferrare una serie di brillanti e veloci incursioni, nello stile degli arabi, sulle terre musulmane dei dintorni. Queste non soltanto procurarono a lui ed ai suoi seguaci un cospicuo bottino, ma gli assicurarono il possesso della Galilea. In tal modo lo Stato cristiano veniva ingrandito fino a formare una compatta unità territoriale che separava completamente le città fatimite della costa dal retroterra della Transgiordania e dell’Hauran. Essendo gli egiziani ancora impreparati a prendersi la rivincita di Ascalona e Duqaq di Damasco troppo profondamente impegnato in litigi di famiglia per avventurarsi in una guerra d’aggressione, Goffredo non doveva temere imminenti pericoli. E fu una fortuna, perché, con un esercito che Guglielmo di Tiro, valendosi delle testimonianze dell’epoca, calcolava di trecento cavalieri e duemila fanti, non sarebbe stato in grado di sostenere un contrattacco serio. La disunione degli arabi, più d’ogni altra cosa, permise al piccolo Stato intruso di consolidarsi nelle loro terre29. Daimberto e Boemondo, mentre viaggiavano insieme verso sud, progettarono la loro futura politica. Goffredo aveva bisogno del loro aiuto, aveva bisogno della potenza navale fornita dalle navi pisane, che erano fedeli a Daimberto, e aveva bisogno di tutti i cavalieri che Boemondo poteva cedergli. I pellegrini trascorsero il Natale a Betlemme. Appena passate le festività, i nuovi venuti scoprirono il loro giuoco: il patriarca Arnolfo, che aveva molti nemici e il cui protettore, il duca di Normandia, era assente, venne deposto con la motivazione che la sua elezione non era stata canonica e, per istigazione di Boemondo, Daimberto venne eletto patriarca di Gerusalemme al suo posto. Circolavano dicerie secondo le quali i doni fatti sia a Boemondo che a Goffredo avrebbero favorito questa transazione. Immediatamente dopo l’insediamento, Goffredo e Boemondo si inginocchiarono davanti al nuovo patriarca e ricevettero da lui l’investitura dei territori di Gerusalemme e di Antiochia30. La cerimonia fu significativa e la sua intenzione evidente. Era opinione pubblica fra i pellegrini che la Terra Santa doveva essere patrimonio della Chiesa, ma Arnolfo non aveva avuto né l’autorità né la personalità per imporre una propria supremazia sui poteri laici. Daimberto giungeva invece come legato papale, con un prestigio che gli derivava dalla nomina fatta da papa Urbano, e disponeva della concreta potenza di una squadra navale e del vigoroso appoggio di Boemondo. Il crociato medio non avrebbe mai disconosciuto i diritti di Daimberto e Goffredo - che malgrado i suoi accessi di ostinazione era un debole e si sentiva malsicuro -condivideva questo sincero rispetto per la Chiesa e sperava che, riconoscendone la sovranità, avrebbe dato alla propria posizione personale una corretta base morale e ne avrebbe ottenuto il completo sostegno nell’amministrazione del territorio. Ma non conosceva ancora Daimberto. I motivi di Boemondo erano più sottili: il riconoscimento della sovranità di Daimberto non gli costava nulla perché il patriarca sarebbe stato troppo lontano per

interferire negli affari di Antiochia; in pari tempo era contento di ignorare i diritti del patriarca di Antiochia, un greco, che egli sospettava essere un agente di Bisanzio. Inoltre, fondando formalmente la sua autorità sul massimo dignitario ecclesiastico latino in Oriente, egli dava - alle pretese avanzate dall’imperatore - una risposta che tutti i latini avrebbero accolto con soddisfazione, e poteva quindi sperare nel loro generoso aiuto se l’imperatore avesse tentato di attaccarlo. In questa occasione probabilmente prese il titolo di principe di Antiochia. Il titolo di principe (princeps), annesso a un territorio, era poco conosciuto in Occidente, tranne nell’Italia meridionale, dove veniva usato da alcuni signori normanni che avevano occupato terre longobarde e che non riconoscevano nessun sovrano laico all’infuori della sede di san Pietro. Si adattava perciò perfettamente a Boemondo. Allo stesso tempo suo nipote Tancredi assunse il titolo di principe di Galilea, probabilmente per dimostrare che il suo sovrano non era Goffredo bensì il patriarca. Daimberto era felice dell’omaggio che gli veniva reso31. Urbano II aveva probabilmente avuto l’intenzione di trasformare la Terra Santa in patrimonio della Chiesa, anche se non desiderava sconvolgere gli esistenti accordi ecclesiastici. Avrebbe senza dubbio accolto con piacere la successione di un latino in ogni patriarcato orientale, se ciò fosse stato compiuto legalmente e pacificamente, ma possiamo dubitare che avrebbe approvato un’azione con la quale il patriarcato di Gerusalemme si arrogava autorità sopra il più antico e storicamente superiore patriarcato di Antiochia. Daimberto in pratica chiedeva per il patriarcato i diritti a una sovranità religiosa e secolare in Oriente non meno elevata di quella che papa Gregorio VII in persona aveva preteso per il papato in Occidente. Il momento era scelto bene, perché Urbano II era morto; la notizia della successione di Pasquale II, che venne eletto al pontificato il 13 agosto, deve essere giunta a Gerusalemme in inverno. Daimberto conosceva probabilmente Pasquale, che era stato suo predecessore quale legato papale in Spagna, e sapeva che era un uomo di mediocre abilità e di carattere debole. Era improbabile che creasse delle difficoltà, fintanto che veniva riconosciuta la sua supremazia nominale32. Baldovino di Edessa non rese omaggio al patriarca: non si sa se gli venne chiesto di farlo ed abbia rifiutato oppure se la questione non venne sollevata; ma sembra che i suoi rapporti con Daimberto non fossero cordiali33. Terminata la cerimonia, Boemondo e Baldovino partirono insieme per i loro territori il primo giorno dell’anno 1100. La maggior parte dei loro uomini tornarono con loro, ma parecchi si fermarono ed ottennero in dono da Goffredo dei feudi in Palestina. Goffredo e Daimberto accompagnarono i pellegrini fino a Gerico e al Giordano dove trascorsero il giorno dell’Epifania, per celebrare la Benedizione delle Acque. Poi Boemondo e Baldovino si diressero verso nord risalendo la valle verso Bei-san e Tiberiade; quivi decisero di non seguire per il ritorno la strada costiera, ma di proseguire direttamente, oltre Baniyas e la valle Litani, nella Celesiria. Essi non incontrarono alcuna opposizione fino a quando non furono nell’interno di questa regione, vicino alle rovine di Baalbek. Il distretto era legato da un patto di fedeltà a Duqaq di Damasco, che decise di intercettarli colà. La colonna avanzava con Boemondo in testa e Baldovino alla retroguardia quando le forze damascene attaccarono; ma quello che importava maggiormente a Duqaq era di spingerli in fretta fuori dal suo territorio e il suo assalto non fu molto vigoroso e venne facilmente respinto. I franchi proseguirono il loro cammino, scendendo al mare attraverso la Buqaia e seguendo poi la strada costiera oltre Tortosa e Lattakieh per Antiochia. Prima della fine di febbraio Baldovino era di ritorno a Edessa34. Col rafforzamento delle sue truppe Goffredo fu in condizione di estendere il suo dominio sulle pianure costiere della Palestina. Il suo territorio non aveva avuto fin’ allora sbocchi al mare, a

eccezione di un corridoio che conduceva a Giaffa. Durante l’autunno egli aveva tentato di allargare questo corridoio con la conquista del piccolo porto di Arsuf a nord di Giaffa. Gli abitanti della cittadina, dopo che la loro offerta di arrendersi a Raimondo di Tolosa era stata respinta per l’interferenza di Goffredo, credettero saggio, allorché Raimondo lasciò la Palestina, di scendere a patti con Goffredo, al quale inviarono degli ostaggi. In cambio accettarono in Arsuf, in parte come residente e in parte come ostaggio, un cavaliere dell’Hainault, Gerardo di Avesnes; ma Goffredo desiderava un controllo più diretto e nel tardo autunno avanzò con un piccolo drappello per attaccare la città. La sua prima vittima fu il suo amico Gerardo di Avesnes, che i cittadini di Arsuf prontamente legarono ed appesero sulle mura, interamente esposto alle frecce degli assalitori. Invano Gerardo si rivolse a Goffredo implorandolo di risparmiarlo, questi replicò che, anche se là appeso ci fosse stato suo fratello Eustachio, egli avrebbe sferrato ugualmente l’assalto. Gerardo fu ben presto ritirato dentro la città, trafitto da dodici frecce del suo compatriota, ma il suo martirio fu inutile: gli uomini di Goffredo non riuscirono a concludere nulla contro le mura della città e le due torri su ruote che aveva costruito vennero distrutte, una dopo l’altra, dal fuoco greco della guarnigione. Il 15 dicembre Goffredo levò l’assedio, ma lasciò la metà del suo esercito a Ramleh, con l’ordine di devastare la campagna intorno ad Arsuf e di rendere impossibile ai cittadini di coltivare i loro campi35. Con l’arrivo dei rinforzi Goffredo continuò su più larga scala questa politica. I suoi uomini cominciarono a compiere incursioni nel retroterra di tutte le città fatimite della costa, Ascalona, Cesarea ed Acri, come pure Arsuf, finché nessuna di esse poté più ottenere rifornimenti dalla campagna; nello stesso tempo, con l’aiuto dei marinai pisani, fortificò di nuovo Giaffa e ne migliorò il porto. Da tutti i porti italiani e provenzali giungevano delle navi, attratte dalle prospettive di commercio con il nuovo Stato, e si unirono ai pisani per partecipare alle occasioni favorevoli che si offrivano. Con il loro aiuto Goffredo si trovò in grado di bloccare la costa palestinese, perciò diventò sempre più difficile per le navi fatimite portare rifornimenti per mare ai porti musulmani. Vi furono atti di pirateria da ambo le parti, ma nel complesso furono gli abitanti di questi porti a soffrire di più36. Alla metà di marzo gli egiziani, in risposta a un appello urgente, inviarono per mare un piccolo distaccamento a rafforzare la guarnigione di Arsuf. Resi baldanzosi da questo fatto, gli uomini di Arsuf organizzarono un contrattacco contro i franchi con l’unico risultato di cadere in un’imboscata, nella quale peri la maggior parte del loro esercito. Presa dalla disperazione la città inviò allora a Goffredo un’ambasceria, che arrivò a Gerusalemme il 25 marzo, recandogli il dono simbolico delle chiavi delle torri e offrendosi di pagare un tributo annuo. Goffredo accettò la sottomissione e concesse il diritto di ricevere il tributo a uno dei suoi più eminenti cavalieri, Roberto di Puglia. Pochi giorni più tardi Goffredo ebbe la sorpresa e la gioia di vedere comparire improvvisamente a Gerusalemme Gerardo di Avesnes: era guarito dalle ferite ed era stato rimandato dalle autorità di Arsuf come pegno della loro buona volontà. Il duca, che non aveva la coscienza tranquilla nei suoi riguardi, gli fece dono del feudo di Sant’Abramo, vale a dire di Hebron37. Ascalona, Cesarea ed Acri non impiegarono molto tempo per seguire l’esempio di Arsuf: ai primi di aprile i loro emiri si riunirono ed inviarono dei messi a Goffredo, con abbondanti doni di grano, frutta e olio, e di cavalli arabi, e gli offrirono un tributo mensile di cinquemila bisanti se fosse stato loro concesso di coltivare in pace le loro terre. Goffredo accettò le proposte e ben presto si stabilirono cordiali relazioni fra le città musulmane e il loro sovrano cristiano. Parecchi piccoli sceicchi maomettani della regione collinare ai piedi delle montagne avevano già fatto atto di sottomissione. Mentre Goffredo era accampato davanti ad Arsuf, una loro delegazione gli aveva fatto

visita con doni in viveri ed era stata commossa e compiaciuta per la semplicità in cui egli viveva, una semplicità imposta tanto dalla povertà quanto dai suoi gusti. Questa si adattava al loro concetto di un guerriero grande ma modesto, e rese più facile ottenere la loro amicizia38. In seguito anche gli sceicchi della Transgiordania cercarono un accordo con lui. Avevano avuto la consuetudine di inviare l’eccedenza dei loro prodotti alle città della costa, ma lo Stato franco ora tagliava loro la strada e perciò chiesero di poter di nuovo far passare le carovane attraverso la Giudea. Goffredo accordò tale permesso, ma cercò di deviare il commercio il più possibile verso il porto cristiano di Giaffa. Allo stesso tempo gli italiani vennero incoraggiati a intercettare, tutte le volte che potevano, qualsiasi traffico fra le città costiere musulmane e l’Egitto, per far si che dipendessero sempre più dal commercio con i cristiani. Cosi l’intera Palestina cominciò a venire integrata in un’unità economica che aveva collegamenti oltremare con l’Europa. La politica franca portò rapidamente i suoi frutti di ricchezza e di prosperità per lo Stato crociato39. La crescente influenza di cui godeva fra i suoi vicini musulmani incoraggiò Goffredo a tentare di estendere il suo governo sulle terre al di là del Giordano. Nel territorio di Suwat, ad oriente del Mar di Galilea, viveva un emiro che i crociati chiamavano il Contadino Grasso. Tancredi aveva compiuto delle incursioni nella sua regione e lo aveva indotto a riconoscere la sovranità franca, ma appena Tancredi era partito il Contadino Grasso si era liberato dal vassallaggio e aveva chiesto aiuto al proprio signore, Duqaq di Damasco. Tancredi perciò si rivolse a Goffredo: una base in quella regione avrebbe permesso ai franchi di deviare il ricco commercio del Jaulan e dell’Hauran verso i porti della Palestina, mentre il distretto di Suwat era famoso per la sua fertilità. Goffredo era ansioso di partecipare alla sua conquista, perciò al principio di maggio venne con le sue truppe per sferrare, insieme con quelle di Tancredi, una incursione che li condusse attraverso il territorio del Contadino Grasso proprio nel cuore del Jaulan. Mentre stavano tornando, carichi di bottino, Duqaq si gettò sulla retroguardia comandata da Tancredi. Goffredo, all’avanguardia, continuò la marcia, ignaro di ciò che stava accadendo, e Tancredi riuscì a districarsi solo dopo aver perduto molti uomini e tutta la sua parte di bottino. Ma Duqaq non si sentiva abbastanza forte per inseguire i franchi e, assicuratosi che avevano lasciato le sue terre, tornò a Damasco. Goffredo proseguì con il suo bottino fino a Gerusalemme, ma Tancredi ardeva per il desiderio di vendetta e non appena ebbe fatto riposare l’esercito a Tiberiade ed ebbe radunato dei rinforzi, condusse in territorio damasceno un’altra scorreria, cosi violenta che Duqaq mandò a proporre una tregua. In risposta Tancredi inviò a Damasco sei cavalieri con un messaggio: o Duqaq diventava cristiano oppure doveva abbandonare Damasco. Furibondo per l’insulto, quello replicò agli inviati che essi dovevano diventare musulmani o morire; uno soltanto abiurò, gli altri cinque vennero trucidati. Tancredi chiese subito a Goffredo di aiutarlo a vendicare il loro martirio e questi parti di nuovo per unirsi a lui in un’incursione più terribile della prima: per circa due settimane devastarono il Jaulan, mentre i musulmani si nascondevano atterriti entro le mura delle loro città. Duqaq, timoroso come sempre di impegnarsi in una campagna, non fece nessun tentativo per opporsi; il Contadino Grasso si vide abbandonato dal suo sovrano e spogliato dai franchi e ancora una volta acconsentì ad accettare Tancredi come suo signore e a pagargli un tributo regolare40. Mentre Goffredo si affermava sempre più fra i suoi vicini musulmani, nei suoi territori la sua autorità era invece in declino. Le sue relazioni con Tancredi, il più importante dei suoi vassalli, erano cordiali, ma sembra che costui, per quanto gli si rivolgesse sempre per aiuto, conformasse la sua politica secondo i propri desideri personali. Però, mentre il principe di Galilea si conduceva come un monarca indipendente, Goffredo vedeva la propria indipendenza sempre più limitata da quel

sovrano che egli stesso aveva avventatamente accettato, ossia il patriarca Daimberto. Questi non era soddisfatto che la sua signoria fosse nominale e teorica, desiderava fondarla su un potere effettivo. A Goffredo, sempre timido di fronte alla Chiesa e timoroso di perdere l’aiuto dei pisani, non piaceva respingere le sue richieste: alle Candelora, 2 febbraio 1100, cedette al patriarcato di Gerusalemme un quartiere della città di Giaffa; in seguito Daimberto chiese che gli venisse dato il controllo non soltanto su tutta la città di Giaffa, ma anche sulla stessa Gerusalemme e sulla sua cittadella, la torre di Davide. Goffredo cedette di nuovo ma, spinto forse dai suoi cavalieri risentiti, insistette per un rinvio. Durante una solenne cerimonia, il giorno di Pasqua, 1° aprile, egli assegnò al patriarcato le due città, ma annunziò che ne avrebbe conservato il possesso fino alla propria morte o fino a quando avesse conquistato agli infedeli due grandi città. Non fu una soluzione soddisfacente perché non era facile costruire un regno organizzandolo intorno a una capitale provvisoria. Sembra che Goffredo, all’infuori dei componenti della sua propria casa, non avesse dei funzionari amministrativi, e in quelle condizioni non poteva sperare di trovarne in Gerusalemme. Se Daimberto fosse stato un grande amministratore o, come Ademaro, un saggio statista è possibile che il governo della gerarchia a cui egli pensava avrebbe potuto durare, ma il suo malaccorto tentativo di allontanare dalla capitale i difensori laici, dai quali dipendeva necessariamente la sicurezza dello Stato cristiano, doveva rivelarsi disastroso. Perfino la dilazione ottenuta da Goffredo servi soltanto ad aumentare l’incertezza per il futuro. Ma la Provvidenza si mostrò misericordiosa verso Gerusalemme41. Quando, circa il 18 giugno, Goffredo tornò in Galilea dalla sua scorreria nel Jaulan, apprese che una forte squadra navale veneziana era approdata a Giaffa. Sapendo quanto sarebbe stata utile per il controllo delle coste, andò in tutta fretta a dar loro il benvenuto. Da Tiberiade si diresse, oltre Acri e Haifa, a Cesarea. L’emiro, ansioso di mostrare rispetto verso il suo sovrano, lo invitò a un banchetto dove venne trattato con i più alti onori, dopo di che Goffredo andò direttamente a Giaffa. Si sentiva male quando arrivò ed ebbe un collasso appena giunse all’ostello che egli stesso aveva costruito per i visitatori di riguardo. I suoi amici ricordarono tutta la frutta che aveva mangiato alla tavola dell’emiro e si bisbigliò di veleno. In verità la sua malattia fu probabilmente tifo. Il giorno dopo egli si era ripreso abbastanza per ricevere il comandante della flotta veneziana e un vescovo che lo accompagnava, e per discutere le condizioni alle quali essi avrebbero collaborato con i crociati. Ma lo sforzo fu troppo gravoso per lui ed egli chiese al suo seguito di trasportarlo a Gerusalemme. Nell’aria più fresca della capitale egli riprese un certo vigore, ma era troppo debole per guidare gli affari42. Intorno al suo letto i politici litigavano. Daimberto aspettava con impazienza il momento in cui avrebbe potuto assumere il comando della città. I veneziani erano ansiosi di precisare i loro accordi; vennero a Gerusalemme in due gruppi per pregare sui luoghi santi, il primo il 21 giugno e il secondo il 24, ma è probabile che il loro comandante ed il loro vescovo vi si trattennero più a lungo per concludere i negoziati. Avuta notizia del loro arrivo e della malattia di Goffredo, Tancredi accorse dalla Galilea verso sud. Dalla sua camera di ammalato Goffredo delegò suo cugino, il conte borgognone Warner di Gray, ad agire in vece sua e diede la sua approvazione alle condizioni esposte dai veneziani. Doveva essere loro accordato di commerciare liberamente in tutto lo Stato franco; dovevano avere in concessione una chiesa e un mercato in ogni città dello Stato; doveva essere loro assegnato un terzo di ogni città alla cui conquista avessero collaborato, e l’intera città di Tripoli per la quale avrebbero pagato a Goffredo un tributo: in cambio si impegnavano a prestare il loro aiuto ai crociati fino al 15 agosto43. Vi furono in seguito delle discussioni per decidere quali città sarebbero state attaccate quell’estate. Malgrado il trattato dell’emiro con Goffredo, venne infine concordato che

Acri sarebbe stata l’obiettivo principale e anche Haifa sarebbe stata presa. Tancredi sperava di assicurarsi Acri per il suo principato, ma Goffredo promise personalmente Haifa al suo amico Geldemaro Carpenel44. Durante le prime due settimane di luglio sembrò che Goffredo fosse un po’ migliorato e si sperò che potesse guarire. I piani per la spedizione contro Acri vennero mandati avanti, le truppe di Tancredi lo raggiunsero nella capitale e Warner di Gray ebbe il comando degli uomini di Goffredo. Il patriarca Daimberto decise allora di accompagnare la spedizione, per dimostrare di essere la principale autorità nella regione e per avere voce in capitolo in ogni distribuzione di territorio. Egli diffidava di Warner e pensò di non aver nulla da temere a lasciare Gerusalemme mentre Goffredo era troppo ammalato per prendere delle iniziative e tutti i suoi uomini erano lontani, impegnati nella campagna militare. Non fece mai un calcolo più errato. Il patriarca, Tancredi e Warner e tutti i loro uomini partirono da Gerusalemme il 13 luglio e si diressero verso Giaffa per stabilire il collegamento con i veneziani. Quando furono vicini al porto Warner cadde improvvisamente ammalato; era evidente che non era in condizioni di continuare la campagna, perciò rimase quattro giorni a Giaffa e poi venne ritrasportato a Gerusalemme in lettiga. Nel frattempo l’esercito marciava velocemente verso nord lungo la costa e le navi veneziane si preparavano a risalirla al suo fianco, ma il vento del nord le tratteneva ed esse avanzarono pochissimo45. Warner era appena arrivato a Gerusalemme quando lo stanco cuore di Goffredo cedette: il mercoledì 18 luglio, confortato dagli estremi riti religiosi, Goffredo, duca di Lorena e «Advocatus Sancti Sepulchri», passò all’eterno riposo. Era stato un sovrano debole e poco saggio, ma uomini di ogni nazione lo avevano rispettato per il suo coraggio, la sua modestia e la sua fede. A Gerusalemme la notizia della sua morte fu accolta con dolore; per cinque giorni egli rimase esposto al pubblico, poi lo seppellirono nella chiesa del Santo Sepolcro46.

Capitolo quarto Il regno di Gerusalemme

No! ci sarà un re su di noi. J Samuele, VIII, 19

Durante la malattia Goffredo di Lorena aveva fatto un testamento nel quale, fedele alla promessa pronunciata a Pasqua, lasciava la città di Gerusalemme al patriarca. Quando morì non v’era nessuno a Gerusalemme che avesse qualche autorità, eccetto Warner di Gray: il patriarca e i più eminenti cavalieri erano tutti lontano, impegnati nella campagna contro Acri. Warner, lui, era moribondo, ma si rese conto di ciò che bisognava fare e, alzandosi dal letto, occupò immediatamente la torre di Davide e vi mise come guarnigione la guardia personale di Goffredo. Poi, dopo essersi consultato con i funzionari della casa del duca, Matteo il Siniscalco e Goffredo il Ciambellano, e con Roberto, vescovo di Ramleh, e con l’ex patriarca Arnolfo, mandò in tutta fretta e Edessa il vescovo di Ramleh, insieme con due cavalieri, per annunciare a Baldovino la morte di suo fratello e per invitarlo a succedergli: essi infatti avrebbero obbedito soltanto a un membro della sua famiglia. La mossa era stata progettata in anticipo, perché l’invito a Baldovino comprendeva anche i nomi di cavalieri che in quel momento si trovavano con l’esercito, come Geldemaro Carpenel e Wicher l’Alemanno. Il gruppo era formato da lorenesi e francesi del nord, che erano venuti alla crociata con Goffredo o che si erano messi al suo seguito, ed erano fieramente avversi ai normanni e agli italiani sotto la cui influenza egli era caduto. Ma il loro segreto era stato ben custodito ed essi pensarono che fosse cosa saggia mantenerlo ancora: la notizia della morte del duca non fu inviata all’esercito1. Ma mentre le navi veneziane si trovavano ancora vicino a Giaffa in attesa che cadesse il vento del nord, giunse fino a loro un messaggero proveniente da Gerusalemme ad annunciare la morte di Goffredo. Il loro comandante, domandandosi quanto questo fatto avrebbe influito sulla campagna, inviò immediatamente tre delle sue più veloci galee lungo la costa per raggiungere Tancredi e il patriarca e per chieder loro quali fossero ora i loro piani. La notizia fu un duro colpo per l’esercito, tra cui Goffredo era molto benvoluto. Sembra che Daimberto abbia esitato: era preoccupato per la sua eredità, ma aveva fiducia nel testamento di Goffredo e credeva che i lorenesi non avessero un capo. Quando Tancredi, che era deciso a non sprecare l’opportunità offerta dall’aiuto veneziano, suggerì che si poteva rimandare l’attacco contro Acri ma che almeno Haifa avrebbe dovuto essere presa, il patriarca fu d’accordo, però mandò un inviato a Gerusalemme ad occupare in suo nome la torre di Davide2. L’esercito proseguì per Haifa e si accampò sulle pendici del Monte Carmelo e subito dopo giunse nella baia la squadra veneziana. La città era abitata in gran parte da ebrei, con una piccola guarnigione egiziana. Gli ebrei, ricordando la sorte delle loro colonie di Gerusalemme e di Galilea, erano pronti a difendersi fino alla morte; i musulmani li rifornirono di armi ed essi combatterono con tutta la tenacia della loro razza. I veneziani, dopo aver perduto una nave in una battaglia nel porto, uscirono scoraggiati nella baia, mentre Tancredi, furibondo per aver appreso all’improvviso che Goffredo aveva promesso Haifa a Geldemaro Carpenel, richiamava i suoi uomini e si ritirava di

cattivo umore nella propria tenda. Daimberto dovette far uso di tutto il suo tatto per persuaderlo a riprendere l’attacco: gli fece osservare che i veneziani stavano già preparandosi ad andarsene e gli promise di fare in modo che Haifa venisse data all’uomo migliore. Quando Tancredi acconsentì a prestare di nuovo la sua collaborazione, venne sferrato un nuovo attacco: dopo una lotta disperata, la torre più importante della difesa fu presa d’assalto e fu aperta una breccia. I musulmani e gli ebrei che riuscirono a fuggire dalla città si rifugiarono ad Acri o a Cesarea, ma la maggior parte venne massacrata3. Haifa cadde verso il 25 luglio. Subito dopo i capi dell’esercito tennero una conferenza per decidere a chi dovesse essere assegnata. Tancredi aveva le truppe più numerose e l’appoggio di Daimberto: Geldemaro Carpenel non poté far nulla contro di lui e venne cacciato dalla città. Egli si ritirò, accompagnato dai lorenesi che si trovavano nell’esercito, e si diresse verso la Palestina meridionale, dove si stabilì a Hebron, il cui precedente signore, Gerardo di Avesnes, era probabilmente ancora a Haifa con Tancredi 4. In seguito Daimberto e Tancredi si incontrarono per discutere la questione più importante, ossia il futuro governo di Gerusalemme. Il patriarca aveva ormai ricevuto notizie dalla città: il suo inviato aveva trovato Warner di Gray in possesso della torre di Davide, che egli rifiutava di consegnare ai rappresentanti di Daimberto, ed aveva appreso che Baldovino era stato chiamato a sud. Warner stesso morì il 23 luglio, logorato dai suoi ultimi sforzi; ma sebbene gli amici del patriarca vedessero nella sua morte la mano di Dio che lo puniva per la sua empietà, ciò non arrecò loro alcun vantaggio, perché la torre restava saldamente in possesso dei lorenesi5. A questo punto Daimberto non poteva più sperare di far valere i propri diritti senza qualche aiuto, perciò l’alleanza di Tancredi gli era indispensabile, poiché il principato di lui si estendeva ora dalla zona orientale del Mar di Galilea fino al Mediterraneo, separando Gerusalemme dal nord. Da parte sua, Tancredi aveva odiato Baldovino fin dal tempo dei loro litigi in Cilicia, tre anni prima, e diede la sua completa approvazione alla decisione di Daimberto di offrire a Boemondo il governo della Palestina. Il segretario personale del patriarca, Morello, ricevette l’ordine di partire immediatamente per Antiochia con una lettera per il principe. Daimberto non intendeva che Boemondo conservasse delle illusioni sulla natura della sua futura sovranità. Iniziava la lettera ricordando l’aiuto che Boemondo stesso gli aveva dato per farlo eleggere patriarca della sede che, con supremo spregio delle pretese di Roma, egli definiva Madre di tutte le Chiese e Signora delle Nazioni. Parlava poi delle concessioni che aveva strappato a Goffredo e si lamentava dei tentativi intrapresi dalla corte del duca per ostacolarle. Ripeteva i termini della dotazione fatta il giorno di Pasqua e metteva in rilievo che, in virtù di essa, alla morte di Goffredo Gerusalemme avrebbe dovuto passare a lui; ma Warner di Gray si era iniquamente impadronito della torre di Davide e aveva offerto l’eredità a Baldovino. Daimberto perciò invitava Boemondo ad accorrere in suo aiuto, allo stesso modo in cui il padre di Boemondo era accorso in aiuto del papa Gregorio VII quando gli imperatori tedeschi lo opprimevano, un ricordo che non era tanto di buon auspicio per la Chiesa quanto sembrava credere Daimberto. Boemondo doveva scrivere a Baldovino per proibirgli di recarsi in Palestina senza il permesso del patriarca; se Baldovino avesse disobbedito, allora Boemondo avrebbe fatto uso della forza per impedirglielo. In altre parole, affinché il patriarca potesse governare sulla Palestina contro la volontà dei cavalieri sui quali si fondava la difesa del paese, il principe cristiano di Antiochia doveva dichiarare guerra al conte cristiano di Edessa6. Non si può sapere quale risposta Boemondo avrebbe dato a questa lettera, ma è poco verosimile che sarebbe stato cosi avventato da rischiare un conflitto con Baldovino o che, se fosse venuto in

Palestina, sarebbe rimasto a lungo ossequiente verso il patriarca. Ma l’invito non gli giunse mai: la fortuna di Daimberto era tramontata. Negli ultimi mesi vi erano stati dei mutamenti nella situazione della Siria settentrionale. Raimondo di Tolosa aveva trascorso i mesi invernali a Lattakieh, governandola in collaborazione con i rappresentanti dell’imperatore. Egli era in eccellenti rapporti con il governatore di Cipro, dal quale riceveva dei rifornimenti. A un certo momento della primavera ricevette una lettera di Alessio che lo ringraziava per il suo aiuto e gli chiedeva di consegnare Lattakieh alle autorità bizantine, inoltre lo invitava a recarsi in visita alla corte imperiale. È probabile che la lettera venisse mandata da Costantinopoli per mezzo dell’eunuco Eustazio, nominato di recente ammiraglio della flotta imperiale, il quale giunse con una forte squadra navale e intraprese subito la riconquista dei porti della Cilicia occidentale, Seleucia e Corico, poi estese il suo dominio più a oriente, sul territorio cilicio appartenente a Boemondo, occupando Tarso, Adana e Mamistra. Raimondo accettò l’invito e salpò per Costantinopoli ai primi di giugno; a Cipro incontrò la squadra veneziana diretta a Giaffa e giunse nella capitale imperiale verso la fine del mese. La contessa Elvira di Aragona, la consorte che gli era stata al fianco durante tutti i suoi viaggi, rimase a Lattakieh sotto la protezione delle autorità bizantine, insieme con ciò che restava degli eserciti di Tolosa e di Provenza7. Morello, il segretario di Daimberto diretto ad Antiochia, arrivò a Lattakieh verso la fine di luglio. Le autorità lo trattennero per esaminare i suoi documenti e scoprirono la lettera per Boemondo. Gli uomini di Raimondo, ai quali era stata inviata perché la traducessero, ne furono cosi scandalizzati che la distrussero ed arrestarono Morello8. Se Boemondo avesse ricevuto la lettera, tutto il suo futuro sarebbe stato molto più felice. Ai primi di agosto, ignorando ancora gli avvenimenti della Palestina, egli parti da Antiochia per risalire l’Eufrate, in risposta a un appello degli armeni di Melitene. Al principio dell’estate era riuscito a consolidare la sua frontiera sud-orientale al di là dell’Oronte, respingendo un contrattacco di Ridwan di Aleppo che fu costretto a chiedere aiuto all’emiro di Homs 9. Le relazioni tra Homs e Aleppo, però, erano troppo incerte per provocare allarme in Boemondo, anche se i musulmani erano stati in grado di riconquistare Tel-Mannas, che era stata lasciata senza un’adeguata guarnigione quando Raimondo Pilet era partito per recarsi a sud con il conte di Tolosa. Boemondo si riteneva in grado di estendere i suoi domini verso il nord. A causa della mancanza di forze navali, non aveva potuto impedire la riconquista bizantina della Cilicia, ma era ansioso di controllare i passi dell’Antitauro attraverso i quali sarebbe probabilmente transitata qualsiasi spedizione bizantina contro Antiochia stessa; di conseguenza, quando Gabriele di Melitene, che si aspettava un attacco da parte del malik danishmend Ghazi Gümüshtekin, emiro di Sebastea, implorò il suo aiuto, Boemondo rispose volentieri. Per tre estati l’emiro danishmend aveva compiuto incursioni sul territorio di Gabriele e si temeva ora che sarebbe marciato sulla città stessa. Dopo l’esperienza di suo genero Thoros di Edessa, Gabriele non voleva rivolgersi a Baldovino, sebbene questi fosse più a portata di mano. Boemondo invece mostrava considerazione per gli armeni e fra i suoi amici vi erano il vescovo armeno di Antiochia, Cipriano, e Gregorio, vescovo di Marash. Valendosi della loro mediazione, Gabriele offrì di cedere la sua città a Boemondo, se solo fosse stato possibile porre fine alla minaccia turca10. Prima di lasciare Antiochia per rispondere all’appello, Boemondo compì un gesto che segnò, una volta per sempre, la sua rottura con i greci e che, per le sue conseguenze, provocò il primo irreparabile scisma fra la Chiesa greca e quella latina. Giovanni IV, che era stato reinsediato quale patriarca di Antiochia da Ademaro, aveva fino ad allora continuato ad esercitare la sua carica; ma

egli era un greco e Boemondo lo sospettava di simpatizzare per i bizantini e di incoraggiare gli ortodossi del suo patriarcato a sperare di venire liberati dall’imperatore. In quel momento Boemondo lo cacciò dalla città e nominò al suo posto un latino, Bernardo di Valenza, che era stato un cappellano di Ademaro e che Boemondo aveva di recente creato vescovo di Artah, conducendolo con sé a Gerusalemme per esservi consacrato. I latini di tempi posteriori, come Guglielmo di Tiro, preoccupati di stabilire la legittimità della linea latina dei patriarchi di Antiochia, dichiararono che Giovanni aveva già rinunciato alla sua carica, ma in realtà questi diede le dimissioni solo dopo aver raggiunto Costantinopoli, per lasciare il posto a un successore greco. Si ritirò in un monastero a Oxia, dove scrisse un trattato contro le usanze latine, nel quale parlava con amarezza dell’oppressione latina; i suoi diritti passarono al patriarca eletto dal suo clero in esilio. Vennero cosi istituite due linee rivali di patriarchi, una greca e una latina, e nessuna delle due volle cedere all’altra. In Antiochia, grazie a Boemondo, lo scisma fra le Chiese era ormai diventato definitivo, e l’imperatore aggiunse alla propria ambizione di restituire la città all’Impero anche l’impegno di ricollocare sul trono patriarcale la linea legittima11. Dopo aver cosi eliminato la principale possibile fonte di tradimento in Antiochia, Boemondo parti per Melitene, ma non volendo lasciare la sua capitale con una guarnigione insufficiente, prese con sé soltanto suo cugino, Riccardo di Salerno, trecento cavalieri e un distaccamento di fanteria. I vescovi armeni di Antiochia e di Marash lo accompagnarono e può darsi che fossero armeni anche alcuni dei suoi cavalieri. Sicuro di poter vincere i turchi anche con truppe cosi scarse, egli penetrò imprudentemente tra le colline che separavano Melitene dalla valle dell’Aksu. Quivi l’emiro danishmend attendeva in agguato e all’improvviso gli piombò addosso: i franchi vennero colti di sorpresa e circondati, e dopo una breve ed aspra lotta il loro esercito fu annientato. I vescovi armeni vennero trucidati e Boemondo, che era stato per tanto tempo il terrore degli infedeli, fu trascinato insieme con Riccardo di Salerno in una ignominiosa prigionia12. Fu Baldovino che salvò la Siria settentrionale alla cristianità. Quando comprese di essere prigioniero, Boemondo si tagliò una ciocca dei suoi capelli biondi e l’affidò a un soldato che riuscì a passare attraverso le linee dei turchi che li accerchiavano e si diresse in tutta fretta a Edessa. Qui, mostrando i capelli per provare la propria veridicità, riferì a Baldovino il messaggio di Boemondo. Questi implorava di venire liberato prima che i turchi avessero il tempo di portarlo nell’interno dell’Anatolia. Ma Baldovino era più preoccupato della salvezza degli Stati franchi che della persona del suo vecchio amico e rivale: parti subito con un piccolo gruppo che contava solo centoquaranta cavalieri, ma il suo servizio di esplorazione era eccellente e lo precedeva una fama che aumentava enormemente le dimensioni del suo esercito. All’indomani della sua vittoria, malik Ghazi Gümüshtekin si era spinto fino alle mura di Melitene per ostentare di fronte alla guarnigione le teste delle sue vittime franche ed armene, ma quando venne informato dell’avvicinarsi di Baldovino pensò che era meglio ritirarsi nel proprio territorio con il bottino ed i prigionieri. Baldovino lo inseguì nelle montagne, ma temette di spingersi troppo avanti nella regione in cui avrebbe potuto cadere facilmente in un’imboscata, inoltre non si fidava degli abitanti del luogo, perciò dopo tre giorni tornò a Melitene. Boemondo e Riccardo di Salerno proseguirono il viaggio carichi di catene, verso una lunga prigionia nello squallido castello di Niksar (Neocesarea) lontano nelle montagne del Ponto13. Gabriele di Melitene accolse Baldovino come un liberatore e si affrettò a porsi sotto la sua sovranità; in cambio il conte gli lasciò cinquanta cavalieri per provvedere alla difesa della città e grazie a costoro Gabriele fu in grado di respingere un attacco dei Danishmend effettuato pochi mesi più tardi, quando era giunta ai turchi la notizia che Balde ino aveva abbandonato la regione

settentrionale14. Soltanto al suo ritorno a Edessa dopo questa campagna, verso la fine di agosto, Baldovino ricevette gli inviati giunti da Gerusalemme per annunciargli la morte del fratello. Trascorse il mese di settembre prendendo disposizioni per il viaggio e per il governo di Edessa. Suo cugino Baldovino di Le Bourg si trovava ad Antiochia, dove sembra agisse in qualità di delegato di Boemondo e serviva forse da collegamento fra i due grandi capi; venne convocato a Edessa e qui Baldovino gli conferì la contea, sotto la sua sovranità. Il 2 ottobre il conte parti per Gerusalemme con il suo seguito e con una guardia del corpo di duecento cavalieri e settecento fanti, addolorandosi un poco, cosi ci dice il suo cappellano Fulcherio, per la morte del fratello, ma rallegrandosi maggiormente per la sua eredità15. Le speranze di Daimberto che Boemondo potesse fermarlo risultarono vane: il principe era lontano in prigionia e i franchi di Antiochia furono lieti di accogliere l’uomo che, con il suo intervento, li aveva salvati dalle conseguenze del disastro. Da Antiochia, dove si trattenne per tre giorni, Baldovino inviò la moglie con le sue dame a Giaffa per mare, poiché temeva di incontrare delle difficoltà durante il viaggio. A Lattakieh, dove fu ben accolto dalle autorità e trascorse due notti, molti altri soldati vennero a unirsi a lui, ma il loro entusiasmo fu di breve durata, perché si seppe presto che i turchi di Damasco erano decisi ad annientarlo mentre discendeva lungo la costa. Prima che giungesse a Jabala il suo esercito si era ridotto a centosessanta cavalieri e cinquecento fanti. Marce forzate lo condussero sano e salvo a Tripoli, il cui emiro, Abu Ali ibn Ammar, si trovava nei peggiori rapporti possibili con Duqaq di Damasco, il quale stava tentante di occupare illegalmente il litorale libanese. Perciò egli diede con piacere a Baldovino non soltanto tutti i viveri di cui aveva bisogno, ma anche informazioni sui movimenti e i piani di Duqaq. Là dove la strada costiera proveniente da Tripoli si avvicina a Beirut, al passaggio del Nahr elKelb, il fiume del Cane, essa corre lungo una stretta fascia di terra fra le montagne e il mare. Il passo era famoso fin dall’antichità e ogni conquistatore che lo aveva forzato, dal faraone Ramsete in poi, aveva celebrato la sua vittoria con un’iscrizione sulla parete della rupe. Quivi i damasceni erano in attesa di Baldovino che, messo sull’avviso dall’emiro di Tripoli, avanzò molto cautamente finché si trovò di fronte l’intero esercito di Duqaq, insieme con quello dell’emiro di Homs, mentre una squadra navale araba partita da Beirut si trovava vicino alla spiaggia, pronta a tagliargli la ritirata. Il suo tentativo di attraversare il fiume contro tali forze superiori falli ed egli fu lieto quando cadde la notte che gli permise di ritirarsi. L’emiro di Homs incitò i damasceni ad attaccarlo nelle tenebre, ma i generali di Duqaq preferirono aspettare l’alba, quando la flotta musulmana avrebbe potuto collaborare con loro. Durante la notte si accontentarono di lanciare frecce nelle file dei franchi. «Come desideravo di essere di ritorno a casa a Chartres o a Orléans, - annotava Fulcherio descrivendo la battaglia, - ed altri provavano gli stessi sentimenti». Ma Baldovino non si era perso d’animo e nelle prime ore della mattina seguente simulò un’ulteriore ritirata, preoccupandosi però di mettere nella retroguardia tutti i suoi uomini meglio armati. I damasceni si gettarono impazienti all’inseguimento, ma là dove la strada si restringe di nuovo, oltre Juniye, a circa cinque miglia a nord, Baldovino fece un improvviso dietro-front e lanciò tutto il peso del suo esercito contro gli inseguitori. Questi vennero colti di sorpresa e respinti addosso alle truppe che si ammassavano alle loro spalle. Ben presto vi fu la più completa confusione sulla stretta strada, mentre Baldovino incalzava con gli attacchi. Le navi arabe non poterono avvicinarsi alla spiaggia abbastanza per portare aiuto ai loro alleati, fra i quali si era ormai diffuso il panico: al cader delle tenebre l’intero esercito musulmano era fuggito nelle montagne o al riparo delle mura di Beirut. Baldovino si

accampò per la notte a Juniye e la mattina seguente il suo esercito, carico di bottino, attraversò il fiume del Cane senza incontrare opposizione. Da quel momento il suo viaggio non fu più interrotto dai musulmani: passò tranquillamente vicino a Beirut e a Sidone; a Tiro il governatore egiziano gli inviò volentieri dei rifornimenti. L’ultimo giorno di ottobre giunse al porto cristiano di Haifa, che apparteneva a Tancredi; ma questi si trovava a Gerusalemme, impegnato ad aiutare Daimberto in un vano tentativo di impadronirsi della torre di Davide, togliendola ai lorenesi prima che potesse arrivare Baldovino. In sua assenza i franchi di Haifa si offrirono di aprire le porte a Baldovino, ma questi, diffidente, preferì accamparsi fuori delle mura. Dopo che le sue truppe ebbero riposato per parecchi giorni, proseguì lungo la costa fino a Giaffa dove, alla notizia del suo avvicinarsi, era accorso Tancredi per tentare di difendere la città contro di lui; ma gli abitanti lo cacciarono e Baldovino entrò in Giaffa fra l’entusiasmo del popolino. Però non vi si trattenne e il 9 novembre risali le colline ed entrò in Gerusalemme16. Mentre si avvicinava alla città, gli abitanti ne uscirono per accoglierlo con grandissime manifestazioni di gioia: non soltanto tutti i franchi, ma anche greci, siriani e armeni si trovavano nella folla che gli andò incontro fuori delle mura e lo accompagnò con tutti gli onori al Santo Sepolcro. I suoi nemici si erano dispersi: Daimberto si ritirò dal palazzo patriarcale a un monastero sul Monte Sion, dove trascorse il tempo in preghiera ed esercizi spirituali; Tancredi si trasferì a nord, nelle sue terre di Galilea. L’anarchia che aveva regnato in Palestina fin dal tempo della morte di Goffredo era terminata. Il giorno di san Martino, domenica 11 novembre, fra il giubilo e l’approvazione generali, Baldovino assunse il titolo di re di Gerusalemme17. Egli era troppo saggio per essere vendicativo. I nemici di Daimberto, come l’ex patriarca Arnolfo, avevano sperato di vederlo immediatamente cadere in disgrazia. Ma Baldovino non intraprese nessuna azione contro di lui, anzi, quando parti per una campagna contro gli arabi, lo lasciò nel pieno possesso dei suoi diritti e perciò Daimberto giunse alla conclusione che avrebbe fatto bene ad accettare la sconfitta e a ricavarne il maggior vantaggio possibile. Quando Baldovino ritornò a Gerusalemme a metà dicembre, Daimberto era pronto a fare la pace con lui. Le sue speranze di stabilire un’efficiente teocrazia erano svanite, ma egli poteva ancora conservare la sua sovranità nominale ed esercitare una grande influenza sul regno. Baldovino, che non aveva perso di vista l’autorità che il patriarca esercitava ancora sugli alleati pisani, lo perdonò volentieri e lo confermò nella carica18. Tancredi si mostrò più riottoso. Baldovino lo convocò a Gerusalemme perché rendesse conto della sua disobbedienza ai ben noti desideri di Goffredo riguardo all’assegnazione di Haifa. Per due volte egli non rispose alle convocazioni, prima di acconsentire finalmente ad incontrarsi con Baldovino sulle sponde del piccolo fiume Auja, fra Giaffa ed Arsuf; nel giorno stabilito però non si fece vedere, ma chiese che il colloquio avvenisse invece a Haifa. Fu trovata infine una soluzione più facile. I franchi di Antiochia non avevano sovrano da quando Boemondo era prigioniero e Baldovino di Le Bourg era partito per governare Edessa; proposero quindi che Tancredi andasse da loro come reggente al posto di suo zio. L’invito offriva a Tancredi un campo nuovo e più vasto, dove Baldovino non lo avrebbe messo in ombra, mentre questi era felice di sbarazzarsi con cosi poche noie di un vassallo di cui diffidava e che detestava. L’incontro a Haifa ebbe luogo ai primi di marzo del 1101, in un’atmosfera di cordialità. Tancredi restituì a Baldovino il suo feudo di Galilea e parti per Antiochia accompagnato dai migliori auguri19. Già il giorno di Natale del 1100, nella chiesa della Natività a Betlemme, Baldovino aveva reso omaggio al patriarca Daimberto ed era stato da lui incoronato re20.

Cosi, più di quattro anni dopo che i principi dell’Europa occidentale avevano lasciato le loro case per partire in crociata, veniva fondato il regno di Gerusalemme. Di tutti i grandi capi era Baldovino, lo spiantato figlio cadetto del conte di Boulogne, che aveva trionfato. Uno dopo l’altro i suoi rivali erano stati eliminati: molti di loro erano tornati in Occidente, Roberto di Normandia, Roberto di Fiandra, Ugo di Vermandois e Stefano di Blois; suo fratello, Eustachio di Boulogne, che avrebbe potuto sperare di ottenere l’eredità di Goffredo, aveva preferito le sue terre sulle sponde della Manica; dei suoi più importanti concorrenti in Oriente, Boemondo giaceva impotente in una prigione turca e Raimondo, ancora senza terre, si trovava lontano a Costantinopoli in qualità di cliente dell’imperatore. Ma Baldovino aveva aspettato con pazienza la sua ora e aveva afferrato senza indugio le occasioni favorevoli. Di tutti si era dimostrato il più capace, il più paziente e il più lungimirante; aveva guadagnato la sua ricompensa e il futuro avrebbe provato che la meritava. La sua incoronazione fu splendida e segnò una conclusione piena di speranza per la storia della prima crociata.

LIBRO SECONDO Il regno di Gerusalemme e l’Oriente franco (1100-1187)

Traduzione di Aldo e Fernanda Comba

Parte prima La fondazione del regno

Capitolo primo «Outremer» e i suoi vicini

Tu, o paese, hai divorato gli uomini, hai privato la tua nazione dei suoi figliuoli. Ezechiele, XXXVI, 13

Con l’entrata degli eserciti franchi in Gerusalemme la prima crociata aveva raggiunto il suo scopo. Se però si voleva che la Città Santa rimanesse in mani cristiane e fosse di facile accesso ai pellegrini, era necessario istituirvi un governo stabile che disponesse di adeguati mezzi di difesa e di vie di comunicazione sicure con l’Europa. I crociati che avevano deciso di stabilirsi in Oriente si rendevano esattamente conto di queste necessità. Il breve regno del duca Goffredo aveva visto gli inizi di uno Stato cristiano; ma egli, pur con tutte le sue qualità, era un uomo debole e di poco senno che per gelosia aveva litigato con i suoi colleghi e per sincero spirito religioso aveva concesso alla Chiesa poteri di gran lunga troppo estesi. La sua morte e la successione assunta dal fratello Baldovino furono la salvezza del giovane regno. Questi possedeva infatti la saggezza, la preveggenza e la tenacia di uno statista. Tuttavia il compito che gli stava dinanzi era formidabile, e pochi invece i sostenitori di cui potesse fidarsi. I migliori guerrieri della prima crociata si erano tutti diretti verso il nord o erano tornati a casa: di tutti i maggiori protagonisti dell’impresa rimaneva ormai in Palestina soltanto il più inefficiente, Pietro l’Eremita, della cui oscura vita laggiù non si sa nulla, e che tornò in Europa nel noi1. Baldovino, che era un cadetto senza feudi propri, non aveva condotto con sé in Oriente vassalli suoi, ma aveva preso in prestito soldati da suo fratello. La sua sorte era affidata ad un piccolo gruppo di uomini formato in parte da guerrieri pii che, prima di partire dall’Europa, avevano fatto voto di rimanere in Terra Santa, e in parte da avventurieri, molti dei quali erano come lui dei cadetti che speravano di ottenere delle terre e di arricchirsi. Al momento in cui Baldovino aveva assunto il potere i franchi occupavano, in modo precario, la maggior parte della Palestina. Il loro dominio era più solido lungo la dorsale montagnosa della provincia, da Betlemme verso il nord fino alla pianura di Jezreel. Molti villaggi di quella regione erano sempre stati cristiani e d’altro lato la maggior parte degli abitanti musulmani della zona erano fuggiti all’apparire degli eserciti franchi, abbandonando perfino la loro prediletta città di Nablus, che chiamavano Piccola Damasco. Questa regione era facilmente difendibile; verso oriente era protetta dalla valle del Giordano: tra Gerico e Bei-san non c’era nessun guado attraverso il fiume ed una sola pista conduceva dalla valle verso le montagne. L’accesso dall’occidente era quasi altrettanto difficile. Più a nord si estendeva il principato di Galilea che Tancredi aveva conquistato alla cristianità e che comprendeva la pianura di Esdraelon e le colline tra Nazareth ed il lago Huleh. Le sue frontiere erano più esposte agli attacchi essendo facilmente accessibili sia dalla costa mediterranea attraverso Acri, che dal lato orientale per le vie che passavano a settentrione e a mezzogiorno del Mar di Galilea. Ma anche da questa regione era emigrata buona parte della popolazione musulmana e vi erano rimasti soltanto i cristiani, senza contare le piccole colonie ebraiche delle città e specialmente quella di Safed, che per lungo tempo era stata il centro principale

della tradizione talmudica. Ma la maggior parte degli ebrei, dopo il massacro dei loro correligionari a Gerusalemme e Tiberiade e la loro resistenza ai cristiani a Haifa, avevano preferito seguire i musulmani nell’esilio2. La catena montuosa centrale e la Galilea formavano il nucleo del regno che però estendeva dei tentacoli nei distretti circostanti, più decisamente musulmani. Il principato di Galilea aveva da poco ottenuto uno sbocco sul mare a Haifa; nella zona meridionale, il Negeb era dominato dalla guarnigione franca di Hebron; ma il Castello di Sant’Abramo, come lo chiamavano i franchi, era poco più di un’isola in un oceano musulmano3. I franchi non avevano alcun controllo sulle piste che dall’Arabia, aggirando l’estremità meridionale del Mar Morto, conducevano lungo l’itinerario dell’antica via delle Spezie bizantina: di qui i beduini potevano infiltrarsi nel Negeb e ricongiungersi con le guarnigioni egiziane delle città costiere di Gaza ed Ascalona. Gerusalemme stessa aveva accesso al mare attraverso un corridoio che scendeva per Ramleh e Lydda fino a Giaffa; ma era una via malsicura salvo per i convogli scortati militarmente. Bande di predoni provenienti dalle città egiziane, rifugiati musulmani scesi dalle montagne e beduini venuti dal deserto vagavano per il paese e tendevano agguati agli incauti viaggiatori. Un pellegrino normanno, Saewulf, che si spinse fino a Gerusalemme nel 1102, quando già Baldovino aveva rafforzato le difese del regno, fu atterrito dai pericoli del viaggio4. Tra Giaffa e Haifa si trovavano le città musulmane di Arsuf e Cesarea i cui emiri si erano dichiarati vassalli di Goffredo e nondimeno, per via marittima, avevano mantenuto contatti costanti con l’Egitto. Tutta la costa a settentrione di Haifa, per circa duecento miglia, era in mano ai musulmani fino alla periferia di Lattakieh, dove risiedeva la contessa di Tolosa con la corte del marito, sotto la protezione del governatore bizantino5. La Palestina era un paese povero. La prosperità dell’epoca romana non era sopravvissuta alle invasioni persiane; e le guerre continue che avevano seguito la venuta dei turchi avevano interrotto la parziale ripresa che si era verificata sotto i califfi. Il paese era allora più boscoso che in tempi moderni: nonostante le devastazioni dei persiani e la lenta opera distruttrice dei contadini e delle capre, v’erano ancora grandi foreste in Galilea, sulla dorsale del Carmelo ed in Samaria, e una pineta lungo la costa a sud di Cesarea. Questi boschi davano umidità ad una campagna che per natura era poco provvista d’acqua; nella pianura di Esdraelon prosperavano campi di grano; la valle tropicale del Giordano produceva banane ed altri frutti esotici. Senza le guerre di quegli ultimi anni la pianura costiera sarebbe stata prospera per le sue messi ed i suoi orti dove si coltivavano legumi ed arance amare; e molti villaggi montani erano circondati da uliveti e frutteti. Ma nel complesso il paese era arido ed il suolo coltivabile poco profondo e povero, specialmente intorno a Gerusalemme. Nessuna città aveva grandi industrie. Anche quando il regno fu al suo apogeo i re non raggiunsero mai la ricchezza dei conti di Tripoli o dei principi di Antiochia 6. La fonte maggiore di entrate era data dai pedaggi; infatti i fertili paesi situati oltre il Giordano, Moab ed il Jaulan trovavano il loro sbocco naturale nei porti della costa palestinese. Le merci in transito dalla Siria verso l’Egitto passavano per le strade della Palestina e da secoli le carovane provenienti dall’Arabia meridionale cariche di spezie attraversavano il Negeb per giungere al Mediterraneo. Ma per assicurarsi questi proventi era necessario bloccare tutti gli altri sbocchi: i franchi, cioè, avrebbero dovuto controllare tutto il confine dal golfo di Akaba fino al Monte Hermon e perfino dal Libano all’Eufrate. La Palestina, inoltre, era un paese insalubre. Gerusalemme per la sua aria di montagna e le sue fognature romane era abbastanza sana, eccetto quando il chamsin soffiava dal sud, umido e polveroso. Ma le pianure più calde, che attraevano gli invasori per la loro fertilità, erano sede di molte malattie a causa delle acque stagnanti, delle mosche e delle zanzare: vi imperversavano la

malaria, il tifo e la dissenteria; epidemie come il colera o la peste si diffondevano rapidamente negli insalubri ed affollati villaggi; i lebbrosi abbondavano. Cavalieri e soldati occidentali, con i loro vestiti inadatti, con il loro robusto appetito e l’ignoranza dell’igiene personale soccombevano facilmente a queste malattie. Il tasso di mortalità era ancora più elevato tra i loro figli nati là, specialmente tra i ragazzi. La crudele ironia della natura che fa si che le bambine siano più resistenti alle malattie che i loro fratelli doveva presentare nelle generazioni seguenti un problema politico costante per il regno franco. Più tardi, quando i coloni ebbero imparato a seguire le abitudini indigene, aumentarono le loro probabilità di una lunga vita; ma l’indice di mortalità infantile rimase altissimo. Divenne presto evidente che per conservare alla popolazione franca una forza sufficiente a dominare il paese era necessario che vi fosse una continua ed abbondante immigrazione dall’Europa. Il primo compito di re Baldovino doveva essere quello di assicurare la difesa del suo regno; il che implicava delle azioni offensive. Bisognava impadronirsi di Arsuf e di Cesarea ed assorbire i loro territori. Se si voleva rendere sicuro il tragitto da Gerusalemme alla costa bisognava annettere Ascalona, che i cristiani avevano perduto nel 1099 a causa della gelosia di Goffredo per il conte Raimondo7, e respingere più a sud la frontiera egiziana. Era necessario stabilire degli avamposti in Transgiordania e a sud del Mar Morto. Baldovino doveva cercare di collegare il suo regno con gli altri Stati cristiani a settentrione per aprire la via ai pellegrini e ad un maggior numero di immigranti; doveva avanzare egli stesso quanto più possibile lungo la costa e favorire la creazione di altri Stati cristiani in Siria. Doveva inoltre provvedere il suo regno di un porto migliore di quelli di Haifa e Giaffa. Quest’ultimo era una rada aperta, troppo poco profonda per permettere alle navi di maggior tonnellaggio di avvicinarsi alla riva. Vi si sbarcava per mezzo di piccoli traghetti, ma l’operazione diventava pericolosa appena soffiava un po’ di vento; se poi questo era forte, le navi stesse erano in pericolo. Il giorno dopo il suo sbarco nel 1102 Saewulf vi fu testimone del naufragio di più di venti navi della flotta con cui egli stesso aveva fatto il viaggio, e vide morire annegati più di mille pellegrini8. La rada di Haifa era più profonda ed il bastione del Monte Carmelo la proteggeva contro i venti meridionali ed occidentali, ma rimaneva pericolosamente esposta a quelli del nord. L’unico porto palestinese sicuro con qualsiasi tempo era quello di Acri: per ragioni commerciali, non meno che per motivi strategici, si imponeva la sua conquista. Riguardo alla politica interna, quello di cui Baldovino aveva maggior bisogno erano uomini e denaro. Non poteva sperare di rafforzare il suo regno a meno di essere sufficientemente ricco e potente da poter controllare i propri vassalli. Uomini poteva ottenerne soltanto favorendo l’immigrazione ed inducendo i cristiani indigeni a cooperare con lui. Denaro ne poteva ricavare incoraggiando il commercio con i paesi vicini e profittando pienamente delle pie intenzioni dei credenti d’Europa di sovvenzionare e dotare istituzioni in Terra Santa. Ma tali sovvenzioni sarebbero andate a favore della Chiesa e per ottenere che fossero usate per il bene di tutto il regno era necessario dominarla. Il vantaggio maggiore dei franchi consisteva nella disunione del mondo musulmano. La prima crociata aveva raggiunto il suo scopo grazie appunto alle invidie dei dirigenti musulmani ed al loro rifiuto di agire uniti. I musulmani shia, capeggiati dal califfo fatimita, d’Egitto detestavano i turchi sunniti e il califfo di Bagdad tanto quanto detestavano i cristiani. In campo turco c’erano perpetue rivalità tra i Selgiuchidi ed i Danishmend, tra gli Ortoqidi e la famiglia di Tutush e tra i due figli stessi di Tutush. Singoli atabeg, come Kerbogha, aumentavano la confusione con le loro ambizioni personali, mentre dinastie arabe di secondaria importanza, come i Banu Ammar di Tripoli e i Munqiditi di Shaizar approfittavano del disordine per mantenersi precariamente indipendenti. Il successo della crociata non fece che accrescere questa caotica inefficienza mentre lo scoraggiamento

e le reciproche accuse rendevano ancora più difficile la collaborazione tra i principi musulmani9. I cristiani avevano approfittato della sconfitta dell’Islam. A nord, Bisanzio, diretta dal duttile genio dell’imperatore Alessio, aveva sfruttato la crociata per riprendere il controllo dell’Asia Minore occidentale, men tre la flotta bizantina aveva da poco riportato tutte le coste della penisola sotto il potere dell’imperatore. Perfino il porto di Lattakieh in Siria era tornato ad essere un possedimento imperiale, per l’aiuto dato da Rai mondo di Tolosa 10. I principati armeni delle montagne del Tauro e dell’Antitauro, che i turchi avevano minacciato di distruzione, potevano di nuovo alimentare la speranza di sopravvivere. E, infine, la crociata aveva dato origine a due principati franchi che introducevano una frattura nel mondo musulmano. Il più ricco e sicuro dei due era quello di Antiochia, fondato dal normanno Boemondo malgrado l’opposizione di Raimondo di Tolosa, suo collega nella direzione della crociata, e in contrasto con gli obblighi assunti con giuramento verso l’imperatore Alessio. Non era molto esteso: comprendeva la vallata inferiore dell’Oronte, la pianura di Antiochia e la catena dell’Amano, nonché i due porti di mare di Alessandretta e di San Simeone. Ma Antiochia, nonostante le peripezie degli anni precedenti, era una città ricchissima: le sue fabbriche producevano tessuti di seta e tappeti, vetro, ceramica e sapone; le carovane che provenivano da Aleppo e dalla Mesopotamia incuranti delle guerre tra musulmani e cristiani, dovevano attraversarla per raggiungere il mare. La popolazione del principato era quasi interamente cristiana: greci e siriani ortodossi, giacobiti siri e alcuni nestoriani ed armeni, cosi gelosi gli uni degli altri che i normanni potevano facilmente controllarli11. Il pericolo esterno più grave proveniva non tanto dai musulmani quanto da Bisanzio. L’imperatore riteneva di essere stato defraudato del possesso di Antiochia, ma poiché in quel momento controllava i porti della Cilicia e Lattakieh ed aveva le basi della sua flotta a Cipro, aspettava soltanto l’occasione favorevole per riaffermare i suoi diritti. La popolazione ortodossa del principato desiderava veder ristabilito il governo bizantino, ma i normanni potevano opporre loro gli armeni ed i giacobiti. Antiochia aveva avuto un grave colpo nell’estate del 1100 allorché Boemondo aveva condotto sull’Eufrate superiore quella spedizione in cui il suo esercito era stato distrutto dall’emiro danishmend ed egli stesso preso prigioniero. Il principato tuttavia non aveva sofferto danni permanenti per questo disastro, salvo la perdita di uomini. Il rapido intervento di re Baldovino, che allora era ancora conte di Edessa, aveva impedito ai turchi di sfruttare il successo. Pochi mesi più tardi Tancredi veniva dalla Palestina per assumere la reggenza durante la prigionia dello zio: in lui i normanni ebbero un capo non meno energico e senza scrupoli di Boemondo12. L’altro Stato franco, la contea di Edessa, serviva da cuscinetto per proteggere Antiochia dai musulmani. Governata in quel momento da un cugino di Baldovino e suo omonimo, Baldovino di Le Bourg, la contea era pili vasta del principato estendendosi ai due lati dell’Eufrate da Rivendei e Aintab fino ad una mal definita frontiera nello Jezireh, ad oriente della città di Edessa. Non aveva confini naturali né una popolazione omogenea perché, sebbene abitata principalmente da cristiani, giacobiti siri ed armeni, includeva pure delle città musulmane come Saruj. I franchi non potevano pensare di stabilire un governo centralizzato, ma reggevano il paese dislocando delle guarnigioni in alcune solide fortezze dove potevano prelevare tasse e tributi dai villaggi circonvicini, nonché effettuare redditizie scorrerie oltre la frontiera. L’intero distretto era sempre stato una zona di confine soggetta a continue azioni di guerra, tuttavia comprendeva delle terre fertili e parecchie fiorenti città. Tra tasse e scorrerie il conte di Edessa poteva disporre di entrate sufficienti. Baldovino era proporzionalmente molto più ricco come conte di Edessa che come re di Gerusalemme13. Ai due Stati mancavano soprattutto uomini, ma anche in questo il bisogno era meno pressante che

a Gerusalemme. In Palestina fin dalla prima invasione dei musulmani era stato proibito ai cristiani di portare le armi: non v’erano dunque soldati indigeni su cui i nuovi governanti potessero contare. Ma Antiochia ed Edessa erano situate entro gli antichi confini dell’Impero bizantino quindi vi si trovavano dei cristiani, specialmente gli armeni, che avevano una lunga tradizione militare. Se costoro avessero voluto collaborare con il principe franco, questi avrebbe avuto un esercito già pronto. Sia Boemondo e Tancredi ad Antiochia, che Baldovino I e Baldovino II ad Edessa avevano cercato dapprima di conciliarsi gli armeni, ma questi si dimostrarono infidi e sleali; non si potevano affidar loro posti di responsabilità. I principi di Antiochia ed Edessa avevano dunque bisogno di cavalieri occidentali per condurre i loro reggimenti e comandare le loro fortezze, e di funzionari occidentali per la loro amministrazione statale. Ma, mentre Antiochia offriva agli immigranti la prospettiva di una vita abbastanza sicura, Edessa poteva attrarre solo degli avventurieri pronti a condurre la vita di capi-briganti. Una fascia di territorio governata da un buon numero di gelosi principotti musulmani separava Gerusalemme dai due Stati franchi del settentrione. Appena a nord del regno la costa era controllata da quattro ricche città marinare: Acri, Tiro, Sidone e Beirut, ciascuna delle quali si trovava in un rapporto di sudditanza verso l’Egitto che era più o meno stretto secondo la distanza a cui si trovava la flotta egiziana14. A settentrione di Beirut c’era l’emirato dei Banu Ammar che avevano la loro capitale a Tripoli. L’emiro di questa città, poco tempo prima, aveva approfittato della partenza dei crociati verso il sud per estendere il suo dominio fino a Tortosa 15. Jabala, tra Tortosa e Lattakieh, era in potere di un magnate locale il cadì Ibn Sulaiha, che nell’estate del noi l’aveva lasciata a Toghtekin, l’atabeg di Duqaq di Damasco, dal quale infine era passata ai Banu Ammar 16. Nei Monti Nosairi, dietro Tortosa e Jabala, c’erano i piccoli emirati dei Banu Muhris di Marqab e Qadmus e dei Banu Amrun di Kahf17. La valle superiore dell’Oronte era divisa tra l’ avventuriero Khalaf ibn Mulaib di Apamea (uno shita che perciò riconosceva la sovranità dei Fatimiti), i Munqiditi di Shaizar che erano la più importante di queste piccole dinastie e Janah ed-Daula di Homs, un ex atabeg di Ridwan di Aleppo che aveva litigato con il suo padrone e si era reso praticamente indipendente18. Aleppo era ancora in mano a Ridwan il quale, come membro della famiglia sovrana dei Selgiuchidi, aveva il titolo di «malik» ossia re. Verso oriente lo Jezireh era occupato principalmente da membri della dinastia ortoqida che vi si erano ritirati dopo la riconquista di Gerusalemme da parte dei Fatimiti e che venivano considerati vassalli di Duqaq di Damasco. Questi, che era «malik» come suo fratello Ridwan, governava appunto in Damasco19. Queste divisioni politiche erano rese particolarmente instabili dalla diversità degli elementi che componevano la popolazione della Siria. I turchi costituivano un’aristocrazia feudale piuttosto rada, mentre gli emiri minori erano quasi tutti arabi. Nella Siria settentrionale e nel territorio damasceno la popolazione urbana era in gran parte cristiana: siri della Chiesa giacobita a cui si aggiungevano dei nestoriani nei distretti orientali e degli armeni che si infiltravano dal nord. Il territorio dei Banu Ammar era popolato in buona parte dalla setta monotelita dei maroniti. Nei Monti Nosairi c’era la tribù dello stesso nome che era una setta shita a cui Khalaf ibn Mulaib doveva la sua forza. Sulle pendici del Libano meridionale c’erano i drusi, degli shiti che accettavano la divinità del califfo Hakim e che odiavano tutti i loro vicini musulmani, ma ancor più i cristiani. La situazione era resa ancor più complicata dalla costante immigrazione nelle terre coltivate di arabi provenienti dal deserto e di curdi scesi dalle montagne settentrionali e dalla presenza di compagnie di turcomanni pronte a mettersi al servizio di qualunque capobanda che li pagasse20.

Tra i vicini musulmani della Siria i più potenti erano i principi fati-miti dell’Egitto. La valle del Nilo ed il Delta erano la regione più densamente popolata di tutto il mondo medievale. Il Cairo ed Alessandria erano grandi città industriali le cui fabbriche producevano vetreria, ceramiche ed oggetti metallici, come pure telerie e broccati. Le zone agricole davano grandi quantità di grano e c’erano enormi piantagioni di canna da zucchero nel Delta. L’Egitto controllava il commercio del Sudan: oro, gomma arabica, penne di struzzo e avorio. Il commercio con l’Estremo Oriente avveniva con navi che transitavano per il Mar Rosso e quindi giungeva al bacino del Mediterraneo attraverso i porti egiziani. Il governo poteva mettere in campo eserciti enormi e, sebbene gli egiziani stessi non godessero di buona fama come soldati, le autorità potevano permettersi di pagare quanti mercenari volessero. Era inoltre l’unica potenza musulmana che avesse una flotta importante. Il califfo fatimita era shia ed era perciò il protettore naturale degli shia di Siria. Ma era tradizionalmente tollerante e quindi molti arabi sunni che temevano il dominio turco erano disposti a riconoscere la sua sovranità. L’invasione turca aveva ridotto l’impero dei Fatimiti in Siria; e la conquista di Gerusalemme da parte dei franchi e la loro vittoria ad Ascalona sull’esercito egiziano di soccorso avevano intaccato il loro prestigio. Ma l’Egitto poteva permettersi di perdere un esercito. Era evidente che il visir alAfdal, che governava il paese in nome del giovane califfo al-Amir e che era egli stesso un armeno nato ad Acri, avrebbe cercato di vendicare al più presto la disfatta e di riconquistare la Palestina. Nel frattempo la flotta egiziana si manteneva in contatto con le città musulmane della costa21. Il califfo rivale, l’abasside al-Mustazhir, era uno scialbo giovinetto che regnava a Bagdad per grazia del sultano selgiuchida. Questi, di nome Barkiyarok, era il figlio maggiore del grande Malikshah, ma non aveva il potere né le capacità del padre. I suoi fratelli si ribellavano continuamente contro di lui: era stato obbligato a dare Khorasan in feudo al più giovane, Sanjar, e dal 1099 in poi era stato in guerra con un altro’ fratello, Mohammed, che in seguito aveva ottenuto la provincia dell’Iraq. Queste sue difficoltà lo rendevano inutile come alleato nel conflitto con i cristiani. Il capo del ramo più giovane della dinastia selgiuchida, il malik anatolico Kilij Arslan, autonominatosi sultano, si trovava in quel momento in una posizione poco migliore di quella del cugino. La prima crociata lo aveva privato della sua capitale Nicea e della maggior parte del suo tesoro, perso sul campo di battaglia di Dorileo. Buona parte delle terre che aveva posseduto erano tornate in potere di Bisanzio. Era in cattivi rapporti con i Selgiuchidi d’Oriente di cui rifiutava di riconoscere la supremazia, ma l’immigrazione di turcomanni in Anatolia gli diede la possibilità di ricostituire il suo esercito e gli forni una popolazione che doveva in seguito superare numericamente i cristiani22. L’emirato danishmend che era saldamente stabilito a Sivas e dominava la parte nord orientale della penisola era più efficiente; l’emiro, Gumushtekin, si era da poco reso famoso per la sua cattura di Boemondo. Era il primo condottiero musulmano che avesse ottenuto una vittoria contro un esercito di cavalieri franchi. Anche egli veniva rafforzato continuamente dall’immigrazione di turcomanni23. Un gruppo di principati armeni erano situati tra i turchi dell’Anatolia e gli Stati franchi di Siria; c’era Oshin il quale controllava la zona centrale dei monti del Tauro e, più ad oriente, i principi della casa di Rupen; v’erano inoltre Kogh Vasil nell’Antitauro, Thatoul a Marash e Gabriele a Melitene. Questi due ultimi principi appartenevano alla Chiesa ortodossa ed erano perciò disposti a collaborare con Bisanzio. Essi stessi ed Oshin si fondavano giuridicamente su titoli concessi loro dall’imperatore; ma i principi rupeniani che riuscirono, unici tra tutti questi armeni a fondare uno Stato durevole, erano per tradizione ostili sia a Bisanzio che alla Chiesa ortodossa24.

Tra le potenze cristiane esterne alla Siria, Bisanzio era la più interessata a quanto vi avveniva. L’imperatore Alessio occupava il trono bizantino da quasi vent’anni: aveva trovato l’Impero nelle peggiori condizioni ma con la sua abilità diplomatica, la sua tendenza al risparmio, il suo buon senso nel trattare con i sudditi e con i rivali sia interni che esterni, lo aveva ristabilito su basi solide. Egli aveva approfittato del movimento crociato per riconquistare l’Asia Minore ai turchi e la sua flotta riorganizzata gli dava il controllo delle coste. Perfino nei suoi momenti peggiori Bisanzio godeva per tradizione di un grande prestigio in Oriente: era l’Impero romano, erede di una storia millenaria, ed il suo imperatore era il capo riconosciuto della cristianità, per quanto grande potesse essere l’avversione dei cristiani contro la sua politica o anche contro la sua rapacità. Costantinopoli, con i suoi innumerevoli abitanti sempre affaccendati, le sue enormi ricchezze, le sue formidabili fortificazioni era la città più imponente del mondo. Le forze armate dell’Impero erano le meglio equipaggiate dell’epoca. La moneta imperiale era l’unica sicura; gli scambi internazionali si calcolavano sulla base del «hyperpyron», spesso chiamato bisante, il «solidus» d’oro il cui valore era stato fissato da Costantino il Grande. Bisanzio doveva avere un peso preponderante nella vita politica dell’Oriente ancora per quasi un secolo, ma di fatto il suo successo dipendeva più dalle brillanti doti dei suoi statisti e dal prestigio del nome romano che dalla sua forza reale. L’invasione turca aveva distrutto l’organizzazione economica e sociale dell’Anatolia da cui l’Impero ricavava da tempo la maggior parte dei suoi soldati e dei suoi rifornimenti alimentari e, sebbene fosse possibile riconquistare il territorio, era quasi impossibile ristabilire l’organizzazione precedente. L’esercito, composto ormai quasi unicamente di mercenari, era diventato costoso e dava poco affidamento: si potevano adoperare senza preoccupazione dei mercenari turchi come i peceneghi contro i franchi o gli slavi ma non si poteva fare assegnamento su di loro per lottare contro i turchi in Asia e similmente dei mercenari franchi non avrebbero combattuto contro altri franchi. Al principio del suo regno Alessio era stato obbligato a comperare l’aiuto dei veneziani mediante la concessione di vantaggi commerciali che andavano a detrimento dei suoi propri sudditi; vennero in seguito altre concessioni a favore delle città marinare di Genova e Pisa; cosi il commercio dell’Impero cominciò a passare in mani straniere. Poco tempo dopo, spinto dal bisogno di denaro liquido, Alessio alterò la moneta facendone battere di quelle il cui contenuto di oro era minore di quanto avrebbe dovuto essere. Cosi cominciò a diminuire la fiducia nel bisante e ben presto i fornitori dell’Impero pretesero di essere pagati in «micheli», le monete coniate sotto l’imperatore Michele VII, l’ultimo riconosciuto degno di fiducia. La preoccupazione principale dell’imperatore era il benessere dell’Impero. Aveva accolto con favore la prima crociata ed era stato pronto a collaborare con i suoi capi, ma era rimasto offeso ed adirato dall’ambizione e dal tradimento di Boemondo ad Antiochia. Il suo più vivo desiderio era di riconquistare la città e di controllare le vie che vi conducevano attraverso l’Asia Minore. Allorché i crociati si erano spinti verso il sud entrando in Palestina la sua collaborazione attiva era cessata. La tradizionale politica di Bisanzio nel secolo precedente era consistita nell’alleanza con i Fatimiti d’Egitto contro gli Abassidi sunni ed i turchi. I Fatimiti, salvo sotto il folle califfo Hakim, avevano trattato i cristiani orientali con generosa tolleranza ed Alessio non aveva nessun motivo di supporre che il governo franco sarebbe stato più conveniente per loro. Egli perciò si era dissociato dalla marcia dei franchi su Gerusalemme ma, al tempo stesso, come protettore degli ortodossi, non poteva disinteressarsi del destino della Città Santa. Se il regno franco avesse avuto delle probabilità di durare egli avrebbe dovuto fare dei passi per ottenere il riconoscimento dei suoi diritti. Era disposto a dare segno della sua buona volontà ai franchi di Palestina, ma il suo aiuto attivo si sarebbe limitato a mantenere aperte le vie di comunicazione attraverso l’Asia Minore. Verso i normanni di Antiochia

non nutriva altri sentimenti che l’ostilità e doveva dimostrare più tardi di essere un nemico pericoloso. Pare che non aspirasse a riconquistare Edessa: probabilmente aveva riconosciuto l’importanza di quella contea franca come avamposto di fronte al mondo musulmano25. L’intervento delle città marinare italiane aveva introdotto un elemento nuovo nella politica dell’Oriente. In un primo tempo non avevano osato partecipare alla crociata, finché non l’ebbero vista avviarsi al successo. Allora sia Pisa che Venezia e Genova inviarono flotte nel Levante con promesse di aiuti in cambio di basi commerciali in ogni città di cui avessero partecipato alla conquista. I crociati li accolsero volentieri poiché offrivano le forze navali senza cui sarebbe stato impossibile sottomettere le città musulmane della costa, e perché le loro navi offrivano un mezzo di comunicazione con l’Europa occidentale più rapido e sicuro che il lungo viaggio per terra. Ma le concessioni che esse chiesero ed ottennero significavano una cospicua perdita di possibili guadagni per i governi franchi del Levante26. La complessità della situazione internazionale da cui era circondato non offriva a re Baldovino molte ragioni di ottimismo: i suoi alleati erano tiepidi o avidi di guadagno e preoccupati dei propri interessi egoistici. La disunione dei suoi nemici gli era di grande aiuto, ma se il mondo musulmano avesse trovato un condottiero capace di riunirlo, gli Stati franchi dell’Oriente avrebbero avuto poche speranze di sopravvivere. Ma intanto egli si trovava con troppo pochi sostenitori in un paese dal clima micidiale che da secoli era stato il campo di battaglia delle nazioni. Grandi furono quindi le sue speranze nell’apprendere che una nuova spedizione crociata stava per partire dall’Occidente.

Capitolo secondo Le crociate del noi

Ma quelli rispondono: «Non staremo attenti!» Geremia, VI, 17

La notizia della riconquista di Gerusalemme da parte dei cristiani arrivò in Europa occidentale verso la fine dell’estate del 1099 e venne accolta con gioia ed entusiasmo. Dappertutto i cronisti interrompevano il racconto degli avvenimenti locali per menzionare la grande manifestazione della divina misericordia. Papa Urbano era morto prima di poter ricevere la notizia, ma i suoi amici e collaboratori in tutta la Chiesa lodavano Iddio per il successo della sua politica. Nell’inverno seguente molti capi della crociata tornarono in patria con i propri soldati. Secondo l’abitudine di tutti i reduci, anche i crociati esagerarono senza dubbio sia le difficoltà della spedizione sia le meraviglie del paese in cui erano penetrati, dando grande rilievo ai miracoli con cui il Cielo li aveva incoraggiati. Ma tutti erano d’accordo nel dichiarare che in Oriente c’era bisogno di guerrieri e di coloni per continuare l’opera di Dio e che vi si trovavano ricchezze e grandi proprietà a disposizione di chi avesse spirito d’avventura. Essi chiedevano una nuova crociata a cui i predicatori della Chiesa accordarono la loro benedizione1. Ma questa spedizione non poté mettersi in movimento che al principio dell’autunno del 1100: nei mesi invernali non era conveniente viaggiare, poi bisognava provvedere al raccolto. Ma nel settembre del 1100 una crociata di lombardi partiva dall’Italia per l’Oriente: alla sua testa si trovava la personalità più importante della Lombardia, l’arcivescovo di Milano Anselmo di Buis, e con lui c’erano Alberto conte di Biandrate, il conte Ghiberto di Parma ed Ugo di Montebello. I lombardi avevano avuto una parte molto secondaria durante la prima crociata; molti erano andati in Oriente durante i primi mesi arruolandosi con Pietro l’Eremita ma poi, complottando con i suoi seguaci tedeschi contro i francesi, avevano contribuito al disastroso risultato della spedizione. I sopravvissuti si erano in seguito messi agli ordini di Boemondo che era, per conseguenza, il condottiero crociato che godeva di maggior prestigio in Lombardia. L’attuale spedizione non era molto meglio organizzata : comprendeva pochissimi soldati bene addestrati ed era formata principalmente dalla marmaglia raccolta nei bassifondi delle città lombarde, uomini la cui vita era stata sconvolta dalla crescente industrializzazione della regione; con loro c’era un gran numero di ecclesiastici, di donne e di bambini. Era una massa cospicua, per quanto la cifra valutata da Alberto d’Aix in duecentomila anime debba essere divisa almeno per dieci. Né l’arcivescovo, né il conte di Biandrate che veniva considerato come il capo militare, erano in condizioni di farsi obbedire da tutta quella gente2. Durante l’autunno del 1100 i lombardi passarono tranquillamente e senza fretta per la Carnia, scesero la valle della Sava attraversando il territorio del re d’Ungheria ed a Belgrado varcarono i confini dell’Impero bizantino. Alessio era pronto a riceverli: vennero scortati dalle sue truppe attraverso la penisola balcanica e poi, essendo troppo numerosi per essere riforniti e sorvegliati in un solo accampamento, furono divisi in tre gruppi. Uno doveva svernare accampato nelle vicinanze

di Filippopoli, il secondo nei dintorni di Adrianopoli ed il terzo vicino a Rodosto. Ma anche cosi essi erano troppo indisciplinati per essere tenuti a freno. Ogni compagnia cominciò a razziare il territorio intorno al proprio attendamento, saccheggiando i villaggi, depredando i granai e rubando perfino nelle chiese. Finalmente, in marzo, l’imperatore li trasportò tutti in un campo fuori delle mura di Costantinopoli, contando di spedirli in Asia al più presto possibile. Ma essi avevano ormai sentito dire che altri crociati erano partiti per raggiungerli, perciò si rifiutarono di attraversare il Bosforo finché non fossero arrivati quei rinforzi. Per obbligarli a partire le autorità imperiali tagliarono loro i vettovagliamenti, ma essi risposero immediatamente attaccando le mura della città che superarono aprendosi la via fino al cortile del palazzo imperiale di Blachernae dove uccisero uno dei leoni favoriti dell’imperatore e cercarono di aprire le porte del palazzo. L’arcivescovo di Milano ed il conte di Biandrate, che erano stati ricevuti amabilmente dall’imperatore ne furono sconvolti; si precipitarono in mezzo alla moltitudine in tumulto e riuscirono finalmente a convincerli a tornare all’accampamento. Poi dovettero affrontare l’impresa di rabbonire il sovrano3. La pace venne ristabilita dal conte Raimondo di Tolosa che aveva trascorso l’inverno come ospite di Alessio di cui godeva ormai la completa fiducia. Nella sua qualità di decano dei principi crociati, di amico di papa Urbano e del vescovo Ademaro egli aveva ancora un grande ascendente. I lombardi gli diedero ascolto e per suo consiglio accettarono di trasferirsi in Asia; alla fine di aprile si erano stabiliti in un accampamento nei pressi di Nicomedia, dove attesero l’arrivo di nuovi crociati dall’Occidente4. A Stefano, conte di Blois, non era stato concesso di dimenticare la sua fuga da Antiochia: egli non aveva sciolto il suo voto di crociato e si era mostrato codardo in presenza del nemico. Sua moglie, la contessa Adele, figlia di Guglielmo il Conquistatore, si vergognava profondamente di lui e perfino nell’intimità dell’alcova lo rimproverava insistendo perché andasse a riscattare il suo onore. Egli non poteva scusarsi dicendo che c’era bisogno di lui in patria, perché il governo della contea era sempre stato nelle mani di sua moglie, e cosi, contro voglia e con cattivi presentimenti, si mise nuovamente in cammino per la Terra Santa nella primavera del noi5. Alla notizia della sua partenza molti altri cavalieri francesi si prepararono ad accompagnarlo sotto la guida di Stefano, conte di Borgogna, di Ugo di Broyes, di Baldovino di Grandpré e del vescovo di Soissons, Ugo di Pierrefonds. Scesero in Italia, traversarono l’Adriatico e giunsero a Costantinopoli verso il principio di maggio. Durante il viaggio vennero raggiunti da un piccolo contingente tedesco al comando di Corrado, conestabile dell’imperatore Enrico IV6. I crociati francesi furono lietissimi di trovare Raimondo a Costantinopoli e molto soddisfatti dell’accoglienza ricevuta dall’imperatore. Decisero, probabilmente per suggerimento di Alessio, che Raimondo avrebbe avuto il comando di tutta la spedizione; i lombardi accettarono. Durante gli ultimi giorni di maggio tutto l’esercito si mise in marcia partendo da Nicomedia per la via che conduce a Dorileo: era composto di francesi, tedeschi, lombardi ed alcuni bizantini comandati dal generale Tsitas sotto il quale si trovavano anche cinquecento mercenari turchi, probabilmente peceneghi. La crociata aveva come meta la Terra Santa e cammin facendo doveva riaprire le comunicazioni attraverso l’Asia Minore; questo scopo secondario stava molto a cuore all’imperatore. Stefano di Blois raccomandò perciò che l’esercito seguisse la via percorsa dalla prima crociata per Dorileo e Konya e Raimondo, obbedendo alle istruzioni dategli da Alessio, si trovò d’accordo con lui. Ma i lombardi, che costituivano il grosso dell’esercito, avevano altre intenzioni. Boemondo era il loro eroe, l’unico guerriero in cui avessero fiducia nella certezza che li avrebbe condotti alla vittoria. Ma questi era prigioniero dell’emiro danishmend nel castello di Niksar nella lontana regione nord-

orientale dell’Anatolia, ed essi affermarono con insistenza che il loro primo dovere era quello di liberare Boemondo. Le proteste di Raimondo e di Stefano furono vane. La gelosia di Raimondo contro il principe prigioniero era troppo nota e d’altra parte, pur con tutte le sue qualità, egli non si era mai dimostrato un capo molto energico; Stefano poi vedeva la propria autorità troppo screditata dal ricordo della codardia che aveva manifestato in passato. Il conte di Biandrate e l’arcivescovo di Milano sostennero il punto di vista dei lombardi il quale fini per prevalere7. Nel lasciare Nicomedia l’esercito si volse ad oriente prendendo la via di Ankara. Il paese era in gran parte controllato dai bizantini cosicché i crociati poterono rifornirsi di vettovaglie durante la marcia. Ankara stessa apparteneva allora al sultano selgiuchida Kilij Arslan, ma quando l’esercito vi giunse, il 23 giugno, la trovò scarsamente difesa e la conquistò d’assalto. Con gran correttezza i crociati la consegnarono ai rappresentanti dell’imperatore. Lasciando Ankara, i crociati presero una pista che conduceva in direzione nord-est a Gangra, nella Paflagonia meridionale, per arrivare alla strada principale per Amasea e Niksar. Mentre erano in cammino per Gangra cominciarono le loro difficoltà: Kilij Arslan si ritirava facendo la terra bruciata davanti a loro, cosicché trovarono ben poco da mangiare. Intanto il malik danishmend Ghazi si era seriamente allarmato e si era affrettato a rinnovare la sua alleanza con Kilij Arslan, inducendo Ridwan di Aleppo a mandare rinforzi dal sud. Al principio di luglio i crociati giunsero a Gangra, ma i Selgiuchidi vi si trovavano in forze. La fortezza si dimostrò inespugnabile; dopo aver devastato la campagna circostante ed aver preso tutto il cibo che poterono trovare, i crociati si videro costretti a continuare la marcia. Erano stanchi ed affamati e sull’altopiano dell’Anatolia la calura di luglio era opprimente. Scoraggiati, prestarono ascolto ai consigli del conte Raimondo che suggeriva di continuare la marcia verso il settentrione fino a Kastamonu e di li verso qualche città bizantina sulla costa del Mar Nero. In questo modo, secondo lui, l’esercito si sarebbe salvato da sicura distruzione. Egli pensava senza dubbio che l’imperatore gli avrebbe perdonato le sue disubbidienze se fosse tornato avendo riconquistato all’impero le due grandi fortezze, Ankara e Kastamonu; quest’ultima, Castra Comneni, era il luogo d’origine della dinastia imperiale. Il viaggio per Kastamonu fu lento e faticoso: l’acqua era scarsa ed i raccolti erano stati distrutti dai turchi i quali si spostavano rapidamente lungo piste parallele molestando ora la testa ora la retroguardia della colonna. La marcia era appena cominciata, quando l’avanguardia, composta di settecento lombardi, venne attaccata improvvisamente. I cavalieri lombardi fuggirono in preda al panico, abbandonando la fanteria al massacro. Non senza difficoltà Stefano di Borgogna riuscì a riordinare l’avanguardia e a respingere il nemico. Nei giorni seguenti Raimondo, che comandava la retroguardia, fu costantemente impegnato in combattimenti con i turchi. Ben presto l’esercito fu obbligato a procedere in una massa compatta da cui non si potevano distaccare pattuglie di foraggiatori o di esploratori. Giungendo nelle vicinanze di Kastamonu, i comandanti si resero conto chiaramente che la sola possibilità di salvezza stava nello spingersi il più rapidamente possibile verso la costa, ma ancora una volta i lombardi non vollero ascoltare la voce della ragione. Forse attribuivano le loro attuali difficoltà all’idea di Raimondo di prendere la strada di Kastamonu; forse pensavano che le cose sarebbero migliorate quando avessero lasciato il territorio dei Selgiuchidi per passare in quello dei Danishmend; nella loro insensata ostinazione insistettero per volgersi ancora una volta verso oriente. I principi furono costretti ad accettare questa decisione perché i loro contingenti erano troppo piccoli per poter sperare di sopravvivere se si fossero separati dal grosso dell’esercito. I crociati attraversarono il fiume Halys penetrando cosi nel territorio dell’emiro danishmend. Dopo l’assurdo saccheggio di un villaggio cristiano raggiunsero la città di Mersivan, a mezza strada tra il fiume ed Amasea. Quivi il conestabile Corrado venne attratto in un’imboscata in

cui perse alcune centinaia dei suoi soldati tedeschi. Era chiaro ormai che i Danishmend ed i loro alleati si stavano concentrando per un attacco in forze; Raimondo quindi dispose l’esercito cristiano in ordine di battaglia8. Appena cominciato il combattimento i turchi misero in atto la loro tattica favorita: i loro arcieri si avventavano scagliando frecce, poi si ritiravano rapidamente, mentre altri apparivano da un altro lato. I crociati non ebbero mai l’occasione di un combattimento corpo a corpo nel quale la loro maggior forza fisica ed il loro migliore armamento li avrebbero avvantaggiati. Ben presto i lombardi persero la testa e con il loro comandante, conte di Biandrate, in testa fuggirono inpreda al panico abbandonando le loro donne ed i preti. Poco dopo anche i mercenari peceneghi ne seguivano l’esempio, non vedendo per qual motivo avrebbero dovuto andare incontro a morte sicura. Raimondo, che combatteva con loro, si trovò abbandonato; riuscì tuttavia a ritirarsi con la sua guardia del corpo su una collinetta rocciosa dove resistette finché Stefano di Blois e Stefano di Borgogna poterono venire in suo soccorso. Per tutto il pomeriggio i cavalieri francesi e Corrado il tedesco combatterono con valore appoggiandosi tatticamente all’accampamento; ma al cader della notte Raimondo si sentì stanco e con il favore delle tenebre fuggì verso la costa accompagnato dalla sua guardia del corpo provenzale e dalla sua scorta di soldati bizantini. Quando i suoi colleghi seppero che era scappato cessarono anch’essi di combattere. Prima dello spuntar del giorno i resti dell’esercito erano in rotta ed abbandonavano nelle mani dei turchi tutto l’accampamento ed i noncombattenti. I vincitori sostarono nell’accampamento per trucidare gli uomini e le donne anziane che vi si trovavano, poi si gettarono all’inseguimento dei fuggiaschi. Soltanto gli uomini a cavallo trovarono scampo, mentre la fanteria fu raggiunta e massacrata quasi fino all’ultimo uomo. I lombardi, la cui ostinazione era stata la causa del disastro, furono annientati ad eccezione dei capi. Le perdite furono stimate a quattro quinti dell’intero esercito; grandi quantità di oggetti di valore e di armi caddero nelle mani dei turchi e gli harem ed i mercati di schiavi dell’Oriente si riempirono di donne giovani e di bambini catturati quel giorno9. Raimondo e la sua scorta riuscirono a raggiungere il piccolo porto bizantino di Bafra, alla foce del fiume Halys, dove trovarono una nave che li condusse a Costantinopoli. Gli altri cavalieri si aprirono con le armi la via del ritorno, attraversarono il fiume e raggiunsero la costa a Sinope. Di qui viaggiarono lentamente lungo la strada costiera, attraverso territorio bizantino, fino al Bosforo, ritrovandosi a Costantinopoli al principio dell’autunno10. L’opinione pubblica crociata, in cerca di un capro espiatorio, fece ricadere la responsabilità del disastro sui bizantini. Il conte Raimondo, dicevano, aveva obbedito alle istruzioni dell’imperatore nel condurre l’esercito fuori strada per farlo perire in una preordinata imboscata dei turchi. In realtà, però, Alessio era furibondo contro Raimondo ed i suoi colleghi; li ricevette con cortesia ma molto freddamente e non nascose affatto la propria irritazione11. Se la crociata avesse conquistato per lui Kastamonu e l’interno della Paflagonia avrebbe potuto perdonarli, ma gli importava molto di più di assicurarsi una strada diretta per la Siria che gli avrebbe permesso di difendere i territori riconquistati nella parte sud-occidentale dell’Asia Minore e gli avrebbe consentito di intervenire negli affari siriani. Inoltre non aveva affatto avuto l’intenzione di farsi coinvolgere in una guerra contro l’emiro danishmend, con cui invece aveva iniziato delle trattative per il riscatto di Boemondo. La stoltezza dei lombardi aveva rovinato i suoi progetti; ma il disastro portava con sé delle conseguenze ancora più gravi: le vittorie dei cristiani durante la prima crociata avevano intaccato la fama e la baldanza dei turchi, ma ora l’una e l’altra venivano brillantemente reintegrate. Il sultano

selgiuchida poté ristabilire il suo dominio sull’Anatolia centrale e presto avrebbe fissato la sua capitale a Konya, proprio sulla principale via di comunicazione tra Costantinopoli e la Siria; intanto malik danishmend Ghazi, continuava la sua conquista della valle dell’Eufrate fino alle frontiere della contea di Edessa12. Le comunicazioni terrestri tra l’Europa e la Siria erano nuovamente bloccate, sia per i crociati che per i bizantini. Ciononostante i rapporti tra costoro erano peggiorati: i crociati insistevano nel considerare l’imperatore come il responsabile dei loro guai, mentre i bizantini erano scandalizzati ed adirati per la stupidità, l’ingratitudine e la slealtà degli occidentali. Gli effetti della sconfitta non tardarono a manifestarsi. Pochi giorni dopo la partenza dei crociati da Nicomedia un esercito francese arrivava a Costantinopoli al comando di Guglielmo II conte di Nevers. Questi era partito in febbraio e, dopo aver percorso tutta l’Italia, aveva attraversato l’Adriatico da Brindisi a Valona. Il suo esercito fece un’eccellente impressione durante il suo passaggio per la Macedonia, a causa della rigorosissima disciplina. Il conte venne ricevuto cordialmente da Alessio, ma decise di non soffermarsi a Costantinopoli. Egli aveva probabilmente pensato di unire le sue forze con quelle del duca di Borgogna che era suo vicino in patria, e perciò continuò ad avanzare il più rapidamente possibile nella speranza di raggiungerlo. Quando arrivò a Nicomedia seppe che la crociata si era diretta ad Ankara, dove egli stesso giunse alla fine di luglio, ma qui nessuno sapeva dove si trovasse l’esercito franco-lombardo. Guglielmo perciò tornò indietro per prendere la via di Konya. Il suo esercito avanzava in perfetto ordine nonostante le difficoltà derivanti dal fatto che stava attraversando una regione ancora impoverita dalle devastazioni causate dalla prima crociata. Konya era occupata in quel momento da una forte guarnigione selgiuchida ed il tentativo di Guglielmo di prenderla d’assalto non ebbe successo. Egli si rese conto che non era conveniente perdere tempo e continuò la sua strada; ma intanto Kilij Arslan e malik Ghazi erano venuti a sapere della presenza di questo nuovo nemico e, imbaldanziti dal loro trionfo sui lombardi, corsero verso il sud, probabilmente attraverso Cesarea-Mazacha e Nigde, giungendo ad Eraclea prima di lui. Le truppe nivernesi avanzavano lentamente da Konya verso oriente: il cibo scarseggiava ed i pozzi presso la strada erano stati ostruiti dai turchi. Mentre si avvicinavano ad Eraclea, stanchi ed indeboliti, caddero in un’imboscata e vennero circondati dall’intero esercito turco, di gran lunga superiore di numero. Dopo una breve battaglia la loro resistenza fu spezzata: tutto il corpo di spedizione francese cadde sul campo, ad eccezione del conte Guglielmo stesso e di alcuni nobili a cavallo i quali attraversarono le linee turche e dopo avere errato per diversi giorni nelle montagne del Tauro arrivarono alla fortezza bizantina di Germanicopoli, a nord-ovest di Seleucia Isaurica. Pare che il governatore bizantino offrisse loro una scorta di dodici mercenari peceneghi per accompagnarli fino alla frontiera della Siria. Poche settimane dopo il conte Guglielmo ed i suoi compagni entravano in Antiochia seminudi e disarmati, dicendo che i peceneghi li avevano svaligiati ed abbandonati nel deserto che stavano attraversando; ma nessuno sa che cosa realmente fosse accaduto13. Il conte di Nevers aveva appena attraversato il Bosforo quando un altro esercito più numeroso, composto di francesi e tedeschi, arrivava a Costantinopoli. Il contingente francese era comandato da Guglielmo IX duca di Aquitania, che era il più famoso trovatore del suo tempo ed era, politicamente, il più diretto avversario di Raimondo di Tolosa; sua moglie, infatti, la duchessa Filippa, era figlia del fratello maggiore di Raimondo ed avrebbe dovuto ereditare la sua contea. Con lui veniva anche Ugo di Vermandois che aveva abbandonato la prima crociata dopo la conquista di Antiochia e desiderava ardentemente di adempiere il suo voto di andare a Gerusalemme. L’esercito di Aquitania lasciò la Francia in marzo e viaggiò per via di terra attraverso la Germania meridionale e l’Ungheria.

Per strada si aggiunse a loro il duca Guelfo di Baviera il quale, al termine di una lunga e brillante carriera in Germania, aveva deciso di dedicare i suoi ultimi anni a combattere per la croce in Palestina. Portava con sé un esercito di cavalieri e fanti tedeschi bene equipaggiati, ed era accompagnato da Thiemo, arcivescovo di Salisburgo e dalla vedova margravia Ida d’Austria, una delle più famose bellezze del suo tempo che, passati ormai gli anni della gioventù, voleva godere la pia avventura di una crociata. I loro eserciti uniti scesero insieme il Danubio fino a Belgrado proseguendo per la strada principale attraverso la penisola balcanica. Erano in realtà un’orda turbolenta: quando giunsero ad Adrianopoli si comportarono cosi male che le autorità bizantine mandarono delle truppe peceneghe e polovziane per impedir loro di avanzare ulteriormente. Cominciò una vera e propria battaglia e fu concesso loro di continuare il viaggio soltanto dopo l’intervento personale del duca Guglielmo e di Guelfo che garantirono che le loro truppe si sarebbero condotte correttamente in futuro. Una forte scorta le accompagnò a Costantinopoli. Guglielmo, Guelfo e la margravia vi furono ricevuti cordialmente da Alessio che mise a disposizione gli uomini necessari per trasportare appena possibile i loro soldati al di là del Bosforo. Alcuni pellegrini civili, fra cui lo storico Ekkehard di Aura, presero delle navi dirette in Palestina dove giunsero dopo un viaggio di sei settimane. I due duchi avrebbero potuto raggiungere il conte di Nevers e rafforzare il loro esercito con l’includervi le sue truppe. Ma questi desiderava ricongiungersi con il conte di Borgogna e non ci si poteva aspettare che il duca Guglielmo collaborasse con un esercito condotto dal suo vecchio nemico il conte di Tolosa, mentre Guelfo di Baviera, antico avversario dell’imperatore Enrico IV, aveva probabilmente poca simpatia per il di lui conestabile, Corrado. Il conte di Nevers proseguì in fretta verso Ankara, mentre l’esercito aquitano-bavarese aspettò per cinque settimane vicino al Bosforo, poi avanzò lentamente lungo la strada principale per Dorileo e Konya. Quando essi giunsero a Dorileo, l’esercito nivernese era già passato per quella città nel suo viaggio di ritorno ed era già molto avanti sulla via di Konya. II fatto che un altro esercito avesse percorso lo stesso itinerario pochi giorni prima non rese le cose più facili per gli aquitani ed i bavaresi: le piccole scorte di cibo disponibili erano già state consumate, cosa di cui i crociati - come al solito! - diedero la colpa ai bizantini. Come già i nivernesi, anch’essi trovarono i pozzi asciutti od ostruiti. Filomelio era abbandonata ed essi la saccheggiarono. La guarnigione di Konya, che aveva resistito ai soldati di Nevers, evacuò la città all’arrivo di questo esercito più numeroso; ma prima di partire i turchi raccolsero e portarono via tutti i generi alimentari che vi si trovavano e spogliarono completamente i frutteti e gli orti dei sobborghi. I crociati trovarono ben poco di utile per ristorarsi. Circa in quel momento, un centinaio di miglia più avanti, Kilij Arslan e il malik Ghazi stavano massacrando gli uomini di Nevers. I crociati, affamati ed assetati, avanzarono faticosamente da Konya, attraverso il deserto, verso Eraclea. Dei cavalleggeri turchi facevano ora la loro apparizione sui fianchi dell’esercito, scagliando frecce in mezzo alle sue file ed intercettando le squadre di approvvigionamento e gli sbandati. Ai primi di settembre gli occidentali penetrarono in Eraclea che trovarono abbandonata come lo era stata Konya. Appena fuori della città scorreva il fiume, uno dei pochi corsi d’acqua dell’Anatolia che non inaridiscano per tutta l’estate. I guerrieri cristiani, quasi impazziti per la sete, ruppero le loro file per precipitarsi verso l’acqua cosi invitante. Ma l’esercito turco stava nascosto nei cespugli sulle sponde del fiume e mentre i crociati avanzavano in disordine, i turchi si gettarono su di loro e li circondarono. Non c’era tempo per ricostituire i ranghi, il panico si diffuse nell’esercito cristiano: cavalleggeri e fanteria erano mescolati in una spaventosa e precipitosa fuga e chi inciampava nel tentativo di porsi in salvo veniva trucidato dal nemico. Il duca di Aquitania,

seguito da uno dei suoi palafrenieri, si aprì una via di scampo e fuggì a cavallo verso le montagne. Dopo molti giorni di vagabondaggio attraverso i passi trovò la strada per Tarso. Ugo di Vermandois fu malamente ferito nella battaglia, ma alcuni dei suoi uomini lo salvarono ed egli pure raggiunse Tarso, però era ormai moribondo; morì il 18 ottobre e venne sepolto nella cattedrale di San Paolo: non riuscì mai ad adempiere il suo voto di andare a Gerusalemme. Guelfo di Baviera trovò scampo soltanto buttando via tutta la sua armatura e dopo parecchie settimane giunse ad Antiochia con due o tre scudieri. L’arcivescovo Thiemo fu fatto prigioniero e martirizzato per la sua fede. La sorte della margravia d’Austria è ignota. Tardive leggende raccontarono che aveva terminato i suoi giorni come prigioniera in un lontano harem dove avrebbe dato alla luce l’eroe musulmano Zengi. Molto più probabilmente, nel panico, ella venne gettata fuori dalla sua lettiga e calpestata a morte14. Le crociate dell’anno noi erano terminate tutte e tre con una catastrofe; e questi disastri influirono su tutta la storia del movimento crociato. I turchi si erano vendicati della loro sconfitta a Dorileo e, tutto sommato, non sarebbero stati espulsi dall’Anatolia. La strada attraverso la penisola continuava ad essere pericolosa per gli eserciti cristiani, franchi o bizantini. Quando più tardi questi ultimi vollero intervenire in Siria, dovettero condurre le operazioni all’estremità di linee di comunicazione lunghe e molto vulnerabili; mentre gli immigranti franchi provenienti dall’Occidente avevano paura a viaggiare via terra attraverso Costantinopoli, tranne che in eserciti numerosi. Essi potevano andare soltanto per mare, ma molti non erano in condizioni di pagarsi il passaggio. Ed invece delle migliaia di utili coloni che durante quell’anno sarebbero giunti in Siria ed in Palestina, soltanto un piccolo numero di capi litigiosi che avevano perso per via i loro eserciti e la loro riputazione arrivò negli Stati franchi, dove già erano ben abbastanza numerosi i capi attaccabrighe. Tuttavia non tutti i cristiani avevano motivo di rammaricarsi per i disastri dell’anno noi. Per le città marinare italiane il fatto che non si fosse potuto rendere sicura la via terrestre attraverso l’Asia Minore significava un aumento di potere e di ricchezza, poiché possedevano le navi che fornivano un altro mezzo di comunicazione con gli Stati franchi del Levante. La loro collaborazione era più che mai necessaria ed esse insistevano per essere pagate mediante concessioni commerciali. Gli armeni nelle montagne del Tauro, specialmente i principi rupeniani, accolsero con soddisfazione gli eventi che rendevano difficile a Bisanzio il ristabilimento della sua autorità imperiale sulle regioni dove essi vivevano, sebbene gli armeni delle zone più ad oriente avessero meno ragioni di rallegrarsi: il loro avversario principale era l’emiro danishmend ed il suo trionfo lo spinse ben presto ad attaccarli. Anche ai normanni di Antiochia che, come i rupeniani, temevano più i bizantini che i turchi, fu concessa una tregua assai utile. Boemondo languiva ancora in prigionia ma il suo reggente, Tancredi, approfittò pienamente della situazione per consolidare il principato a spese dell’imperatore. Ben presto il destino gli diede in mano una buona carta. Il duca d’Aquitania, il conte di Baviera ed il conte di Nevers, con i loro pochi compagni superstiti erano arrivati ad Antiochia fin dall’autunno del noi; ma i capi della crociata francolombarda si trovavano ancora a Costantinopoli. Alessio trovò duro perdonare le loro stupidaggini. Perfino Raimondo, in cui aveva posto grandi speranze, lo aveva deluso. Alla fine dell’anno i principi occidentali decisero di continuare il loro pellegrinaggio e Raimondo prese congedo per andare a raggiungere sua moglie ed il suo esercito a Lattakieh. L’imperatore li lasciò andare volentieri e forni loro delle navi per trasportali in Siria. Verso capodanno Stefano di Blois, Stefano di Borgogna, il conestabile Corrado ed Alberto di Biandrate sbarcarono a San Simeone e vennero rapidamente ad Antiochia, dove Tancredi riservò loro una calorosa accoglienza. Ma la nave del conte Raimondo venne separata dalle altre ed entrò nel porto di Tarso. Com’egli sbarcava, un cavaliere di nome Bernardo lo Straniero si avvicinò e lo arrestò per aver tradito la cristianità con la sua fuga dal campo

di Mersivan. La piccola guardia del corpo di Raimondo fu impotente a liberarlo: egli fu portato via sotto scorta e consegnato a Tancredi15.

Capitolo terzo I principi normanni di Antiochia

... essi tutti fanno cose contrarie agli statuti di Cesare... Atti, XVII, 7

La sconfitta di Boemondo e la sua cattura da parte del malik danishmend Ghazi, per quanto pericolose fossero sembrate sul momento, non erano rimaste senza qualche contropartita a favore dei principi franchi. Antiochia aveva bisogno di un reggente e Tancredi era il candidato naturale per occupare il posto di suo zio. Cosi re Baldovino poté liberarsi del vassallo più pericoloso che avesse in Palestina mentre Tancredi, dal canto suo, era felicissimo di togliersi da una posizione imbarazzante ed incerta trasferendosi in una sede che gli offriva maggiore libertà di azione. Egli lasciò la Palestina nel marzo noi ponendo un’unica condizione: che, nel caso in cui suo zio fosse liberato dalla prigionia entro tre anni ed egli stesso non dovesse più rimanere ad Antiochia, gli verrebbe restituito il suo feudo di Galilea. Sia Baldovino che Tancredi avevano dunque interesse a che Boemondo non fosse liberato dalla prigione troppo presto; non si tentò quindi neppure di aprire delle trattative di riscatto1. Tancredi si comportò correttamente come reggente: non assunse il titolo di principe di Antiochia e, per quanto battesse moneta, le diciture che vi apparivano, scritte in un greco scorretto, gli attribuivano soltanto il titolo di «servo di Dio»; a volte si fece chiamare «grande emiro». L’opinione pubblica di Antiochia lo avrebbe probabilmente tenuto a freno nel caso che egli si fosse lasciato trasportare da maggiori ambizioni: i normanni consideravano ancora Boemondo come il loro capo e questi aveva un amico fedele nella persona di Bernardo di Valenza, il patriarca latino che egli stesso aveva nominato poco prima della sua cattura cacciando, per fargli posto, il greco Giovanni l’Oxite. Tancredi seguì la stessa politica di Boemondo cercando, all’interno, di consolidare l’amministrazione del principato e di latinizzare la Chiesa, e all’esterno di arricchirsi a spese dei bizantini e dei principi musulmani circonvicini. Ma le sue mire erano più limitate al mondo locale e non avevano un orizzonte mondiale come quelle di suo zio2. Egli si preoccupò prima di tutto di proteggersi da un eventuale attacco dei bizantini, ed in questo fu molto aiutato dalla disastrosa crociata del noi poiché la risorta potenza dei turchi d’Anatolia significava che per un certo tempo l’imperatore non avrebbe potuto correre il rischio di mandare un esercito attraverso la penisola fino al lontano sud-est. Tancredi riteneva che la miglior difesa fosse l’attacco; perciò nell’estate del noi, probabilmente appena ricevute le notizie della battaglia di Mersivan, inviò le sue truppe in Cilicia per riconquistare Mamistra, Adana e Tarso che erano state rioccupate dai bizantini tre anni prima. Le milizie imperiali della regione non erano abbastanza forti per opporglisi e quando Guglielmo d’Aquitania e Ugo di Vermandois arrivarono fuggiaschi a Tarso alla fine di settembre trovarono la città in possesso di Bernardo lo Straniero, luogotenente di Tancredi3. Quindi Tancredi volse la sua attenzione a Lattakieh, il porto bizantino che i normanni avevano

lungamente desiderato di possedere. Era una fortezza molto più temibile poiché la sua guarnigione bizantina era rafforzata dalle truppe provenzali di Raimondo e protetta da una squadra della flotta bizantina; Tancredi non osò assalirla senza aver prima trattato con i genovesi per assicurarsi l’appoggio delle loro navi4. Intanto occupava l’entroterra tentando anche di conquistare Jabala a sud. Già Boemondo nell’estate del 1100 aveva lanciato senza successo contro Jabala una piccola spedizione durante la quale il suo conestabile era stato preso prigioniero. La spedizione di Tancredi nell’estate del noi non ebbe maggior fortuna, ma indusse il cadì di Jabala, Ibn Sulaiha, a cedere la città all’atabeg di Damasco, mentre egli stesso si ritirava in quest’ultima città per trascorrervi in pace la vecchiaia. L’atabeg Toghtekin mandò come governatore suo figlio Buri il quale però non godeva di molta popolarità tanto che dopo pochi mesi venne cacciato dai cittadini di Jabala i quali si posero sotto la protezione dei Banu Ammar di Tripoli. A quel momento Tancredi ritirò le sue truppe dalla zona5. Il fatto di aver catturato Raimondo permise a Tancredi di riprendere il suo progetto contro Lattakieh. Egli lo teneva chiuso in prigione ad Antiochia, ma questa sua condotta scandalizzò il patriarca Bernardo ed i compagni di crociata di Raimondo. Su loro richiesta Tancredi lo rimise in libertà non senza avergli prima fatto giurare che non sarebbe mai più intervenuto negli affari della Siria settentrionale6. Dopo la sua liberazione Raimondo si diresse verso il sud per attaccare Tortosa; al passare nelle vicinanze di Lattakieh, ed in conformità del giuramento prestato, ordinò alle sue truppe ed alla contessa sua moglie di evacuare la città e di raggiungerlo. La guarnigione bizantina rimase cosi senza l’aiuto dei provenzali. Quindi, all’inizio della primavera del 1102, Tancredi avanzò su Lattakieh; ma le mura della città erano solide e la guarnigione combatteva valorosamente mentre le unità della marina imperiale assicuravano i rifornimenti. L’assedio durò quasi un anno, poi nelle prime settimane del 1103 Tancredi (che nel frattempo aveva affittato dai genovesi delle navi con cui tagliare le comunicazioni tra Lattakieh e Cipro) attrasse gli uomini della guarnigione fuori delle mura con uno stratagemma, li assali e li fece prigionieri. La città allora si arrese7. Queste azioni dispiacquero all’imperatore Alessio che già era stato offeso dall’esilio inflitto al patriarca greco di Antiochia Giovanni l’Oxite e dalle notizie della progressiva sostituzione dei dignitari ecclesiastici greci con altri latini. All’inizio del 1102 l’imperatore aveva ricevuto una lettera di re Baldovino il quale, avendo raccolto voci secondo cui la mancata cooperazione di Bisanzio avrebbe facilitato il disastroso risultato della crociata del noi, scriveva per pregare l’imperatore di dare tutto il suo appoggio alle eventuali crociate seguenti. La lettera venne recata da un vescovo chiamato Manasse che era andato in Palestina con Ekkehard nel noi e si trovava sulla via del ritorno. Il tono cortese dello scritto e i doni che l’accompagnavano indussero Alessio a ritenere di poter parlare con franchezza al vescovo ed esporgli tutti i suoi motivi di scontento. Ma egli non seppe valutare il suo interlocutore, uomo più latino che cristiano, che non aveva alcuna simpatia per i greci. Questi proseguì il suo viaggio verso l’Italia su richiesta dell’imperatore e riferì al papa tutto quello che gli era stato detto, ma lo fece in modo tale da accendere il furore del papa contro Bisanzio. Se papa Urbano II fosse ancora stato in vita il male non sarebbe stato grande poiché egli era un uomo di larghe vedute, per nulla incline ad entrare in controversia con la cristianità orientale. Ma il suo successore, Pasquale II, era un uomo di capacità più limitate, poco lungimirante e molto influenzabile: si lasciò facilmente trascinare a condividere l’opinione popolare dei franchi che consideravano l’imperatore come un nemico. Alessio non riuscì a fargli cambiare idea8. Subito dopo Tancredi cercò di intervenire negli affari interni del regno di Gerusalemme. Re Baldovino aveva esiliato nel noi il patriarca Daimberto e Tancredi si affrettò a riceverlo ad

Antiochia ponendo a sua disposizione la chiesa di San Giorgio. Alcuni mesi più tardi Baldovino fu sconfitto dai saraceni a Ramleh e chiese aiuto ai principi delle regioni settentrionali, ma Tancredi rifiutò di accorrere se prima Daimberto non fosse stato reintegrato nella sua carica a Gerusalemme. Baldovino accettò ed il prestigio di Tancredi crebbe, per diminuire nuovamente quando Daimberto venne processato da un concilio e cacciato una seconda volta in esilio; Tancredi gli offrì di nuovo ospitalità ma non continuò a sostenere la sua causa9. Le iniziative di Tancredi non erano particolarmente gradite al suo vicino di Edessa, Baldovino di Le Bourg, il cui padre, il conte Ugo I di Rethel, era figlio di una principessa di Boulogne, zia di Goffredo di Lorena e del re Baldovino; Baldovino di Le Bourg, che era un cadetto, era venuto in Oriente assieme ai suoi cugini. Allorché Baldovino I si era stabilito a Edessa egli era rimasto in secondo piano assieme a Boemondo, servendo da intermediario tra i due principi. Quando Boemondo fu fatto prigioniero egli assunse il governo di Antiochia finché Baldovino di Edessa fu chiamato a Gerusalemme. Baldovino di Le Bourg ricevette allora da suo cugino l’investitura del feudo di Edessa per governarvi in maniera autonoma, pur rimanendo vassallo di Gerusalemme. La posizione che gli era toccata non era facile, poiché il suo territorio non avendo frontiere naturali era sempre esposto alle invasioni, e poteva essere governato soltanto ponendo delle guarnigioni nelle città e nelle fortezze principali; ma per questo gli occorrevano dei compagni e dei vassalli di cui potesse fidarsi. Disponendo di pochi uomini della sua stessa razza si fece un dovere di mantenere i rapporti più cordiali con i cristiani indigeni. Uno dei suoi primi atti come conte di Edessa fu il suo matrimonio con una principessa locale, Morphia, figlia minore del vecchio Gabriele, signore di Melitene, armeno di razza ma aderente alla Chiesa ortodossa. Al tempo stesso ricercò ed ottenne l’appoggio degli armeni della Chiesa gregoriana, il cui grande storico, Matteo di Edessa, era pieno d’ammirazione per il suo carattere cordiale e per la moralità della sua vita privata, per quanto si rammaricasse per la sua ambizione ed avarizia. Baldovino riservava favori speciali agli armeni perché poteva servirsene come soldati, ma usava benevolenza anche verso i suoi sudditi giacobiti di Siria, riuscendo perfino a comporre uno scisma nella loro chiesa. Le sole lagnanze contro di lui riguardano la sua rapacità: aveva costantemente bisogno di denaro e lo prendeva con tutti i mezzi possibili, ma i suoi metodi erano meno arbitrari e più umani di quelli di Baldovino I. I suoi cavalieri furono particolarmente soddisfatti quando gli riuscì di estorcere trentamila bisanti a suo suocero dichiarandogli che doveva quella somma ai suoi uomini e che aveva giurato di tagliarsi la barba se non avesse potuto pagarli. Gli armeni, al pari dei greci, consideravano la barba come un attributo necessario della dignità virile ed erano scandalizzati dalle facce rasate di tanti crociati. Gabriele pensò che avere un genero senza barba avrebbe danneggiato il suo prestigio, e quando gli uomini di Baldovino, prestandosi al giuoco, lo assicurarono che il loro signore aveva veramente pronunciato quel giuramento, egli si affrettò a fornire il denaro indispensabile per evitare una cosi cocente umiliazione ma obbligò Baldovino a prendere l’impegno di non giurare mai più sulla sua barba10. Nei primi tempi del suo regno Baldovino II dovette fronteggiare un attacco degli Ortoqidi di Mardin: l’emiro Soqman condusse un esercito contro Saruj, città musulmana che Baldovino I aveva conquistato e posto sotto il comando di Fulcherio di Chartres. Baldovino II accorse in suo aiuto, ma nella battaglia che ne seguì fu sconfitto e Fulcherio venne ucciso. La città fu presa dai musulmani ma la cittadella, al comando di Benedetto, arcivescovo latino di Edessa, resistette mentre Baldovino correva ad Antiochia a ingaggiare delle truppe con cui rimettere in sesto il suo esercito. Al suo ritorno fu più fortunato: Soqman venne cacciato dalla città con gravi perdite, gli abitanti che avevano collaborato con gli Ortoqidi furono massacrati e vennero presi molti prigionieri il cui riscatto

rimpinguò le casse di Baldovino11. Poco tempo dopo Baldovino acquistò un prezioso luogotenente nella persona del cugino Jocelin di Courtenay, la cui madre era sua zia; era un cadetto squattrinato, figlio del signore di Courtenay ed era probabilmente venuto in Oriente assieme al suo vicino, il conte di Nevers. Al suo arrivo Baldovino lo investi del feudo che comprendeva tutto il territorio della contea sito ad occidente dell’Eufrate, con quartier generale a Turbessel. Jocelin si dimostrò un amico valoroso, sebbene più tardi la sua lealtà sia stata messa in dubbio12. Col passare del tempo Baldovino, che cominciava a diffidare delle ambizioni di Tancredi, venne a desiderare il ritorno di Boemondo ad Antiochia. Assieme al patriarca Bernardo intavolò trattative con l’emiro danishmend per ottenerne la liberazione. Tancredi non prese parte ai negoziati. L’emiro aveva già ricevuto dall’imperatore la cospicua offerta di duecentosessantamila bisanti in cambio della persona di Boemondo ed avrebbe senz’altro accettato se il sultano selgiuchida, Kilij Arslan, non avesse avuto sentore della cosa. Questi, nella sua qualità di capo riconosciuto dei turchi d’Anatolia, chiese per sé la metà di qualsiasi somma che il danishmend avesse ricevuto a titolo di riscatto. La disputa che ne seguì tra i due principi turchi impedì che l’offerta dell’imperatore venisse immediatamente accettata, ma ebbe il fortunato risultato di rompere la loro alleanza. Boemondo nella sua prigionia non ignorava questi negoziati. Egli era ancora un bell’uomo, non privo di galanteria, e le donne della famiglia dell’emiro presero ad interessarsi di lui. Forse con il loro aiuto riuscì a persuadere l’emiro che era preferibile giungere ad un accordo in via privata con i franchi di Siria ottenendone una promessa di alleanza, piuttosto che aprire con l’imperatore dei negoziati in cui i Selgiuchidi avevano intenzione di intervenire. L’emiro accettò di liberare Boemondo per la somma di centomila bisanti13. Mentre le trattative erano ancora in corso l’esercito danishmend attaccò Melitene, il cui signore, Gabriele, chiese certamente aiuto al proprio genero Baldovino; ma Baldovino non si mosse, probabilmente perché in quel momento non aveva intenzione di offendere l’emiro. I sudditi di Gabriele non lo gradivano a causa della sua fede ortodossa, ed in particolare i siri non gli avevano mai perdonato il fatto di aver condannato a morte per tradimento uno dei loro vescovi. Gabriele stesso e la sua capitale furono catturati, ma una delle fortezze riuscì a resistere; i nemici gli imposero di comandare alla guarnigione di arrendersi, ma quando questa disobbedì lo giustiziarono davanti alle mura14. Appunto a Melitene qualche mese più tardi, ossia nella primavera del 1103, Boemondo venne consegnato ai franchi. Il denaro necessario al riscatto era stato raccolto da Baldovino e dal patriarca Bernardo con l’aiuto di un signorotto armeno, Kogh Vasil, e dei parenti che Boemondo aveva in Italia; Tancredi non aveva dato alcun contributo. Boemondo tornò subito ad Antiochia dove riprese il potere; ringraziò pubblicamente Tancredi per aver governato il principato durante la sua assenza, ma in privato vi fu qualche attrito fra zio e nipote poiché Tancredi non vedeva perché avrebbe dovuto cedere a Boemondo i territori che egli stesso aveva conquistato durante la reggenza. L’opinione pubblica lo costrinse a cedere ed egli ricevette come ricompensa un piccolo feudo situato entro i confini del principato. Dal punto di vista legale avrebbe avuto il diritto di chiedere a Baldovino I la restituzione della Galilea, ma non ritenne che ne valesse la pena15. I franchi celebrarono il ritorno di Boemondo con un’offensiva generale contro i loro vicini: nell’estate del 1103 Boemondo stesso e Jocelin di Courtenay, razziarono il territorio di Aleppo, si impadronirono della città di Muslimiye, a nord di Aleppo, e riscossero dai musulmani della zona un

pesante tributo che venne usato per restituire ai franchi il denaro che avevano prestato a Baldovino ed al patriarca per il riscatto di Boemondo16. Quindi si volsero contro i bizantini. Alessio, dopo aver scritto a Boemondo per esigere la restituzione delle città della Cilicia, mandò il suo generale Butumites a riconquistarle. Ma l’esercito di Butumites era infido, e questi, entrato in Cilicia nell’autunno del 1103, giunse ben presto alla conclusione che il compito affidatogli era superiore alle sue forze; venne inoltre a sapere che i franchi progettavano di allargare le loro conquiste verso il nord marciando contro Marash occupata dall’armeno Thatoul per conto dell’imperatore. Butumites accorse in suo aiuto e probabilmente questo bastò a salvare Thatoul, almeno per il momento; ma poco dopo il generale era richiamato a Costantinopoli. All’inizio della primavera seguente Boemondo e Jocelin marciarono su Marash. Thatoul non era in condizioni di difendersi, l’esercito bizantino era lontano e i turchi danishmend erano in quel momento in buoni rapporti con i franchi: si arrese quindi, consegnando la città a Jocelin che gli concesse di ritirarsi a Costantinopoli, mentre Boemondo conquistava la città di Albistan, a nord di Marash17. Con ciò i franchi si sentirono al riparo da eventuali attacchi provenienti dall’Anatolia e poterono volgersi contro i musulmani delle regioni orientali. Nel marzo 1104 Boemondo invase nuovamente i territori di Ridwan di Aleppo occupando la città di Basarfut, sulla strada tra Aleppo ed Antiochia; ma la sua spedizione contro Kafarlata, verso il sud, falli per la resistenza della tribù locale dei Banu Ulaim. Nel frattempo Jocelin tagliava le comunicazioni tra Aleppo e l’Eufrate 18. Ma per separare realmente i musulmani di Siria da quelli dell’Iraq e della Persia i cristiani avrebbero dovuto occupare la grande fortezza di Harran nello Jezireh settentrionale, tra Edessa e l’Eufrate. Occupando Harran i franchi avrebbero perfino potuto prendere in considerazione l’idea di una spedizione contro Mosul e verso l’interno della Mesopotamia. La situazione nella primavera del 1104 si presentava sotto una luce favorevole. Infatti durante il 1103 l’intero mondo musulmano orientale era stato lacerato da una guerra civile tra il sultano selgiuchida Barkiyarok e suo fratello Mohammed. Essi si rappacificarono nel gennaio 1104 ed il sultano conservò il possesso di Bagdad e dell’altopiano iranico occidentale. L’altro fratello del sultano, Sanjar, aveva già ottenuto Khorassan e l’Iran orientale mentre Mohammed riceveva la parte settentrionale del paese con lo Jezireh e i diritti di sovranità feudale su Diarbekir e su tutta la Siria. Era una sistemazione molto precaria che ciascuno dei tre fratelli sperava di modificare ben presto: intanto ordivano intrighi tra i principi turchi ed arabi per farsi degli alleati. Perfino nello Jezireh era scoppiata una guerra civile nel 1102 alla morte dell’atabeg di Mosul, Kerbogha, che i franchi avevano sconfitto ad Antiochia. Soqman, principe ortoqida di Mardin, non era riuscito a imporre il proprio candidato alla successione ed era perciò in guerra con Jekermish, il nuovo atabeg nominato dal selgiuchida Mohammed. La città stessa di Harran era stata governata da un generale turco, Qaraja, che era stato un mamelucco al servizio di Malikshah; ma per la sua condotta brutale gli abitanti si erano sollevati contro di lui ed avevano chiamato al potere un certo Mohammed di Isfahan. Questi a sua volta era stato assassinato da un tale Jawali che era stato paggio di Qaraja e con cui aveva sventatamente fatto amicizia. Ma anche il potere di Jawali era molto precario; intanto Harran stessa cominciava a risentire le gravi conseguenze delle scorrerie dei franchi di Edessa che ne devastavano i campi ed interrompevano il commercio. Era evidente che avevano l’intenzione di intraprendere delle azioni ancora più impegnative19. Soqman a Mardin e Jekermish a Mosul erano ambedue assai preoccupati: il pericolo comune li indusse a dimenticare le proprie contese e ad unirsi in una spedizione contro Edessa, per attaccare prima di essere attaccati. Nel 1104, al principio di maggio, marciarono assieme contro la città:

Soqman con un importante corpo di cavalleria leggera turco-manna e Jekermish con un esercito di poco inferiore composto di turchi selgiuchidi, di curdi e di arabi. Baldovino II venne a sapere che stavano concentrando le loro truppe a Ras al-Ain a circa settanta miglia dalla sua capitale e chiese aiuto a Jocelin e a Boemondo suggerendo loro di agire indipendentemente e far deviare le forze attaccanti mediante un tentativo di investire Harran. Egli stesso, dopo aver lasciato una piccola guarnigione a Edessa, si spinse verso Harran con un modesto contingente di cavalieri e di reclute armene di fanteria. Benedetto, arcivescovo di Edessa lo accompagnava. In prossimità di Harran Jocelin lo raggiunse con le truppe tratte dai propri territori e con l’esercito antiocheno capeggiato da Boemondo, da Tancredi, dal patriarca Bernardo e da Daimberto, ex patriarca di Gerusalemme. L’esercito dei franchi contava nel suo insieme quasi tremila cavalieri e probabilmente un numero tre volte maggiore di fanti e rappresentava tutte le forze armate di cui essi disponevano nella Siria settentrionale, salvo le truppe di guarnigione alle fortezze. L’esercito si ammassò davanti a Harran mentre i principi musulmani si trovavano ancora a una certa distanza verso nord-est, in marcia su Edessa. Se i franchi avessero tentato di prendere d’assalto la fortezza, forse Harran sarebbe caduta nelle loro mani, ma essi non volevano danneggiarne le fortificazioni che speravano di usare in seguito a proprio vantaggio. Pensavano di incutere abbastanza timore alla guarnigione da indurla alla resa, e tale speranza non era infondata poiché i musulmani che occupavano la città erano deboli ed aprirono quasi subito delle trattative. In quel momento Baldovino e Boemondo cominciarono a questionare per sapere quale dei due avrebbe dovuto innalzare per primo il proprio stendardo sulle mura della città. Il ritardo che ne derivò fu la causa della loro sconfitta poiché prima che avessero raggiunto un accordo l’esercito turco aveva fatto una conversione verso sud ed era loro addosso. Il combattimento si accese sulle rive del fiume Balikh, vicino all’antico campo di battaglia di Carré dove, alcuni secoli prima, i parti avevano annientato Crasso e le legioni romane. Le disposizioni strategiche dei franchi prevedevano che, sull’ala sinistra, le truppe di Edessa avrebbero dovuto impegnare il grosso dell’esercito nemico, mentre sulla destra gli antiocheni sarebbero rimasti nascosti dietro una collinetta ad un miglio di distanza, pronti ad intervenire al momento decisivo. Ma anche i musulmani avevano fatto un piano analogo, ed una parte del loro esercito, dopo aver attaccato i franchi sulla sinistra, si era volta in fuga. Le truppe di Edessa, credendo di aver ottenuto una facile vittoria, si lanciarono all’inseguimento e, perso il contatto con i loro compagni che si trovavano sulla destra, traversarono il fiume cadendo immediatamente nell’imboscata che il grosso dell’esercito musulmano aveva teso. Molti furono uccisi sul posto; gli altri si volsero in fuga. Quando Boemondo, dopo aver respinto il piccolo distaccamento che gli si era fatto incontro, si apprestava ad entrare nella battaglia non trovò altro che un fiume di fuggiaschi che da lontano si riversavano verso le posizioni di partenza traversando in disordine il corso d’acqua, dove nuove bande di turchi si gettavano loro addosso. Comprendendo che tutto era perduto si ritirò rapidamente riuscendo a salvare soltanto pochi edesseni. Quando i combattenti passarono sotto le mura di Harran la guarnigione li assali uccidendo allegramente nella confusione tanto inseguitori musulmani quanto turchi. L’esercito di Antiochia si disimpegnò senza gravi perdite, ma le truppe di Edessa erano quasi tutte prigioniere o uccise. Il patriarca Bernardo era cosi terrorizzato che nella fuga tagliò la coda del suo cavallo per paura che qualche turco vi si aggrappasse per assalirlo, sebbene in quel momento nessun nemico fosse in vista. L’arcivescovo Benedetto fu uno dei primi prigionieri catturati, ma sia per la condiscendenza del suo carceriere che era un cristiano rinnegato, sia a causa di un contrattacco degli antiocheni fu ben presto liberato. Baldovino e Jocelin fuggirono assieme a cavallo, ma vennero sopraffatti nel letto del

fiume e portati prigionieri alla tenda di Soqman20. Temendo con ragione che i turchi sarebbero subito passati ad attaccare Edessa, Boemondo e Tancredi vi accorsero in gran fretta per organizzarvi la difesa. Una volta ancora la disgrazia di un collega si risolse in un vantaggio per Tancredi. I cavalieri rimasti ad Edessa, con a capo l’arcivescovo, lo implorarono ad assumere la reggenza finché Baldovino non fosse stato rilasciato dalla prigionia; egli accettò con piacere l’offerta e Boemondo, come già Baldovino I quattro anni prima, lo vide partire con sollievo. Tancredi rimase ad Edessa con i resti dell’esercito della contea e con quelle poche truppe di cui Boemondo poté privarsi mentre questi tornava ad Antiochia dove i suoi vicini si stavano preparando ad approfittare della sconfitta dei franchi21. La battaglia di Harran si aggiunse alle crociate del noi: sommandosi esse distrussero il mito dell’invincibilità dei franchi. Le sconfitte del noi avevano significato per la Siria settentrionale l’essere privata di quei rinforzi di provenienza occidentale, cosi necessari per stabilire saldamente il dominio dei franchi nel paese; Harran significò che, col tempo, la contea di Edessa sarebbe scomparsa e che Aleppo non sarebbe mai passata nelle mani dei cristiani. Il cuneo che costoro avevano voluto mantenere tra i tre centri musulmani dell’Anatolia, dell’Iraq e della Siria era conficcato in modo malsicuro. E non soltanto i maomettani ne avrebbero tratto vantaggio, ma l’imperatore, che adirato stava vigilando da Bisanzio, non si dispiacque alle notizie della sconfitta franca. Le conseguenze immediate non furono cosi funeste come si sarebbe potuto temere. L’alleanza tra Soqman e Jekermish non durò a lungo dopo la vittoria. Le truppe turcomanne del primo si erano impadronite della maggior parte dei prigionieri e del bottino e l’alleato ne divenne invidioso. Il suo reggimento selgiuchida attaccò la tenda di Soqman e rapi Baldovino. I turcomanni erano furibondi, ma il loro capo si dimostrò abbastanza padrone di sé per impedir loro di contrattaccare. Si rassegnò alla perdita del suo prezioso prigioniero, ma, dopo aver occupato alcuni piccoli caposaldi cristiani di frontiera con il semplice stratagemma di travestire i suoi soldati con gli abiti delle loro vittime franche, egli si ritirò a Mardin e non partecipò più alla guerra22. Jekermish continuò a combattere: dapprima, per garantirsi contro Soqman, assoggettò i castelli franchi nello Shahbaqtan, ad oriente di Edessa, poi marciò sulla capitale. L’indugio dei franchi aveva salvato Harran per l’Islam; ora l’indugio dei musulmani conservò Edessa alla cristianità. Tancredi ebbe tempo di riparare le opere di difesa della città e si trovò in condizioni di resistere al primo attacco di Jekermish, grazie soprattutto alla fedeltà ed al valore degli indigeni armeni. Ma la sua situazione era cosi difficile da obbligarlo a chiedere con urgenza aiuto a Boemondo. Questi aveva i suoi propri problemi, ma bisognava dare la precedenza alla minaccia contro Edessa. Accorse subito in aiuto del nipote, ma il pessimo stato delle strade ne rallentò la marcia. Preso dalla disperazione Tancredi ordinò alla sua guarnigione di effettuare una sortita prima dell’alba. Nell’oscurità i suoi uomini si gettarono sui turchi addormentati e fiduciosi e la loro vittoria venne completata dall’arrivo di Boemondo. Jekermish, colto dal panico, fuggì abbandonando i tesori del suo accampamento. Harran era vendicata ed Edessa salvata23. Tra i prigionieri caduti nelle mani di Tancredi c’era una principessa selgiuchida di alto lignaggio, appartenente alla famiglia dell’emiro. Jekermish teneva in tal considerazione questa dama che offrì subito di pagare quindicimila bisanti per riscattarla oppure di scambiarla con il conte Baldovino. A Gerusalemme si seppe di quest’offerta e re Baldovino si affrettò a scrivere a Boemondo per implorarlo di non perdere l’occasione per ottenere il rilascio del conte. Ma Boemondo e Tancredi avevano bisogno di denaro, mentre il ritorno di Baldovino avrebbe tolto a

Tancredi il suo posto attuale ricacciandolo nelle mani di suo zio. Essi risposero che non sarebbe stato diplomatico dar l’impressione di esser troppo ansiosi di accettare la proposta; Jekermish avrebbe forse aumentato l’offerta se essi esitavano. Ma nel frattempo si misero d’accordo con l’emiro per il pagamento in denaro; e Baldovino rimase prigioniero24. Essendosi cosi arricchiti a scapito del loro compagno, Boemondo e Tancredi si volsero ad affrontare i nemici che li premevano da ogni parte. Jekermish non tentò più di attaccare Edessa e Tancredi poté riparare le difese della città. Ma Boemondo dovette fronteggiare subito nei distretti orientali del suo principato un’invasione di Ridwan di Aleppo. In giugno gli abitanti armeni di Artah consegnarono la loro città ai musulmani, contenti di sottrarsi alla tirannia antiochena. Le città di frontiera Maarrat, Misrin e Sarman ne seguirono l’esempio; e le piccole guarnigioni franche di Maarrat an-Numan, Albara e Kafartab, che in tal modo rimanevano isolate, si ritirarono ad Antiochia. Nel frattempo Ridwan devastava il principato giungendo fino al Ponte di Ferro. Nel lontano nord, la guarnigione di Boemondo ad Albistan conservò il potere soltanto con l’imprigionare i notabili armeni del luogo, che stavano complottando con i turchi. L’intero principato sarebbe stato messo in pericolo-se Duqaq di Damasco non fosse morto verso la fine di giugno del 1104, in conseguenza di che l’attenzione di Ridwan venne attratta dalla lotta per la successione tra i due figli di Duqaq, Buri e Iltash25. L’insuccesso di Boemondo nel fronteggiare l’attacco di Ridwan era dovuto alle sue preoccupazioni per gli affari bizantini. L’imperatore Alessio si trovava in quel momento in buoni rapporti con gli Stati franchi piò meridionali. Raimondo di Tolosa era ancora suo amico intimo; inoltre egli si era acquistato il favore di re Baldovino pagando di tasca propria il riscatto per molti nobili franchi che erano tenuti prigionieri in Egitto. La sua generosità era stata saggiamente calcolata ed era in stridente contrasto con il comportamento di Boemondo e Tancredi verso Baldovino di Edessa; e ricordava ai franchi che egli godeva di un’influenza e di un prestigio che i Fatimiti stessi riconoscevano. Perciò quando egli intraprese un’azione contro Antiochia, il principe della città non ricevette nessun aiuto dai suoi colleghi. Alessio aveva già fortificato Corico e Seleucia sulla costa della Cilicia, per prevenire un’aggressione antiochena contro la parte occidentale della regione. Nell’estate del 1104 un esercito bizantino agli ordini del generale Monastras riconquistò senza difficoltà le città della Cilicia orientale, Tarso, Adana e Mamistra, mentre una squadra navale imperiale, al comando dell’ammiraglio Cantacuzeno, giunta nelle acque cipriote all’inseguimento di una flotta corsara genovese, approfittava della situazione di Boemondo per procedere verso Lattakieh, dove i suoi uomini conquistarono il porto e la città bassa. Boemondo venne in tutta fretta con le truppe franche che poté racimolare per rinforzare la guarnigione della cittadella e per sostituire il suo comandante di cui non si fidava. Ma, non disponendo di forze navali, non tentò neppure di ricacciare i bizantini dalle loro posizioni26. In autunno Boemondo sentì che la situazione era disperata. In settembre tenne ad Antiochia un consiglio dei suoi vassalli a cui convocò Tancredi. Quivi egli parlò loro francamente dei pericoli che circondavano il suo principato: l’unica soluzione, disse, consisteva nell’ottenere dei rinforzi dall’Europa. Egli stesso si sarebbe recato in Francia e, usando il suo prestigio personale, avrebbe reclutato gli uomini necessari. Tancredi, con rispetto e senso del dovere, si offrì di assumersi quest’incarico, ma suo zio replicò che egli non possedeva sufficiente autorità in Occidente; doveva rimanere come reggente di Antiochia. Furono prese rapidamente le misure per la partenza di Boemondo. Tardi nell’autunno egli fece vela da San Simeone portando con sé tutto l’oro e l’argento, i gioielli e gli oggetti preziosi disponibili, nonché delle copie delle Gesta Francorum, l’anonima

storia della prima crociata, raccontata secondo il punto di vista normanno. In queste copie Boemondo inserì un passaggio in cui insinuava che l’imperatore gli avesse promesso la signoria di Antiochia27. Allora Tancredi assunse la responsabilità del governo del principato, giurando allo stesso tempo di restituire senza ritardo Edessa a Baldovino non appena questi fosse stato liberato dalla prigionia. Ma nel frattempo, non potendo governare Edessa in modo soddisfacente dalla residenza di Antiochia, Tancredi designò suo cugino e cognato, Riccardo da Salerno, come suo rappresentante al di là dell’Eufrate28. Boemondo arrivò nelle sue proprie terre di Puglia al principio del nuovo anno e vi rimase fino al settembre successivo, occupandosi dei suoi affari personali che avevano bisogno di controllo dopo i nove anni della sua assenza, ed organizzando dei gruppi di normanni che dovevano raggiungere i loro compatriotti in Oriente. Poi andò a Roma dove venne ricevuto da papa Pasquale. Boemondo mise in rilievo dinanzi a lui il fatto che il grande nemico dei latini d’Oriente era l’imperatore Alessio. Il vescovo Manasse aveva già ispirato a Pasquale dei pregiudizi contro Alessio e perciò il papa si trovò senz’altro d’accordo con il punto di vista di Boemondo. Quando questi proseguì per la Francia l’accompagnava il legato papale Bruno a cui erano state date istruzioni di predicare una guerra santa contro Bisanzio. Fu un momento decisivo nella storia delle crociate: la politica normanna, che mirava a spezzare il potere dell’Impero d’Oriente, diventava la politica ufficiale del movimento crociato. Gli interessi della cristianità nel suo insieme stavano per venire sacrificati a quelli di avventurieri franchi. Il papa doveva rimpiangere più tardi la propria imprudenza, ma ormai il male era fatto. Il risentimento dei cavalieri e del popolino occidentali contro l’arroganza dell’imperatore, la loro invidia per la sua ricchezza e la loro diffidenza verso dei cristiani che usavano una liturgia che essi non potevano capire vennero ufficialmente sanzionati dalla Chiesa d’Occidente. Da allora in poi, anche se il papa modificava il suo atteggiamento, essi si sentivano giustificati per qualsiasi atto di ostilità contro Bisanzio. E da parte loro i bizantini trovarono che i loro peggiori sospetti acquistavano consistenza. La crociata, con a capo il papa, non era un movimento per soccorrere la cristianità, ma lo strumento di un imperialismo occidentale senza scrupoli. Questo disgraziato accordo tra Boemondo e papa Pasquale, molto più che tutta la controversia tra il cardinale Umberto e Michele Cerulario, ebbe effetti determinanti per la separazione tra la Chiesa orientale e quella occidentale. Boemondo ricevette buona accoglienza in Francia. Trascorse un certo tempo alla corte di re Filippo che gli concesse il permesso di reclutare degli uomini in tutto il regno e poté inoltre giovarsi dell’attiva collaborazione di quell’impaziente «crociato per procura» che era la contessa Adele di Blois. Costei lo presentò al proprio fratello Enrico I d’Inghilterra con cui egli si incontrò in Normandia a Pasqua del 1106, ricevendone promesse d’aiuto per la sua opera; essa inoltre gli combinò un solenne matrimonio-alleanza con Costanza, la divorziata contessa di Champagne, figlia di re Filippo. Le nozze ebbero luogo nella tarda primavera del 1106; ed allo stesso tempo re Filippo acconsentì di offrire a Tancredi la mano della sua figliuola minore Cecilia, nata dalla sua unione adulterina con Bertrada di Montfort. Costanza non andò mai in Oriente: trascorse in Italia la sua vita coniugale e la sua vedovanza. Ma Cecilia salpò per Antiochia verso la fine dell’anno. Questi rapporti di parentela con la casa reale aumentarono il prestigio dei principi normanni29. Boemondo rimase in Francia fin quasi alla fine del 1106, poi tornò nelle Puglie. Quivi progettò la sua nuova crociata che doveva aver inizio con un deliberato attacco contro l’Impero bizantino. Rallegrato dalla notizia che sotto il governo di Tancredi Antiochia non si trovava in imminente pericolo, egli non si affrettò. Il 9 ottobre 1107 il suo esercito sbarcava nell’Impero a Valona, sulla

costa dell’Epiro e quattro giorni più tardi egli faceva la sua comparsa davanti alla grande fortezza di Durazzo, chiave della penisola balcanica, di cui i normanni avevano a lungo bramato il possesso e che avevano occupato per qualche tempo un quarto di secolo prima. Ma anche Alessio aveva avuto il tempo di fare i suoi preparativi: per salvare Durazzo era disposto a sacrificare la sua frontiera sudorientale, perciò fece la pace con il sultano selgiuchida Kilij Arslan, da cui noleggiò dei mercenari. Trovando che la fortezza era troppo solida e troppo energicamente difesa dalla sua guarnigione per poterla prendere d’assalto, Boemondo si organizzò per assediarla; ma, come nelle sue precedenti guerre contro Bisanzio, anche questa volta la mancanza di forze navali causò la sua rovina. Quasi subito la marina imperiale interruppe le sue comunicazioni con l’Italia e bloccò la costa, poi, al principio della primavera seguente, il grosso dell’esercito bizantino lo circondò. Al sopraggiungere dell’estate la dissenteria, la malaria e la carestia indebolirono i normanni, mentre Alessio ne deprimeva il morale facendo circolare delle dicerie ed inviando ai loro capi delle lettere contraffatte: astuzie che sua figlia Anna descrive con affettuosa ammirazione. Già in settembre Boemondo sapeva di essere battuto e si arrese all’imperatore. Fu un trionfo straordinario per Bisanzio poiché Boemondo era in quel momento il più famoso guerriero della cristianità. La vista di questo eroe formidabile che torreggiava fisicamente sull’imperatore, ma che tuttavia davanti a lui aveva un atteggiamento supplichevole ed era obbediente al suo comando, offrì la prova dell’invincibile grandezza dell’Impero in un modo che nessuno poté dimenticare. Alessio ricevette Boemondo al suo accampamento, all’ingresso delle gole del fiume Devol. Con lui fu cortese, ma freddo, e senza indugi gli mise davanti il trattato di pace che doveva firmare. Boemondo dapprima esitò, ma Niceforo Briennio, marito di Anna Comnena, che era al servizio del suocero, lo persuase che non v’era altra scelta. Il testo del trattato è conservato al completo nelle pagine di Anna Comnena. In esso Boemondo doveva prima di tutto dichiararsi pentito per aver violato il suo precedente giuramento di fedeltà all’imperatore, poi giurava con la massima solennità di diventare suddito e vassallo sia dell’imperatore sia del suo erede Giovanni Porfirogenito, impegnandosi a costringere tutti i suoi uomini a fare altrettanto. Per evitare qualsiasi dubbio si adoperava la parola latina per vassallo e ne venivano elencati tutti i doveri. Boemondo sarebbe rimasto principe di Antiochia e l’avrebbe governata sotto la sovranità dell’imperatore. Il suo territorio doveva includere la città stessa ed il suo porto di San Simeone nonché i distretti nord-orientali, fino a Marash, insieme con le terre che egli stesso eventualmente conquistasse ai principi musulmani di Aleppo e ad altri Stati siriani dell’interno, ma le città della Cilicia e la costa nelle vicinanze di Lattakieh dovevano essere restituite al governo diretto dell’imperatore ed il territorio dei principi rupeniani non doveva essere toccato. Al trattato venne aggiunta un’appendice che elencava con esattezza le città che dovevano costituire il dominio di Boemondo. Nei suoi Stati egli doveva esercitare l’autorità civile, ma il patriarca latino doveva essere deposto e sostituito con uno greco. C’erano poi delle clausole speciali secondo le quali se Tancredi o qualunque altro dei vassalli di Boemondo si fossero rifiutati di eseguire quanto stabilito nel trattato, il principe dovesse costringerli ad obbedire30. Il trattato di Devol è interessante perché rivela quale soluzione Alessio intendesse dare in quel momento al problema crociato. Egli era disposto a permettere che dei distretti di frontiera e persino la stessa Antiochia passassero sotto il dominio autonomo di un principe latino, finché quel principe fosse legato a lui dai vincoli del vassallaggio secondo l’uso occidentale e purché Bisanzio conservasse un controllo indiretto per mezzo della Chiesa. Alessio, inoltre, si sentiva responsabile per il benessere dei cristiani orientali e desiderava persino di salvaguardare i diritti dei suoi recalcitranti vassalli armeni, i rupeniani. Il trattato non venne mai messo in pratica, ma rovinò la

carriera di Boemondo che non osò mai più farsi vedere in Oriente. Si ritirò umile e screditato nelle sue terre pugliesi e vi morì nel 1111, oscuro principotto italiano, lasciando due figlioletti nati dal suo matrimonio francese, che ereditarono i suoi diritti su Antiochia. Era stato un soldato coraggioso, un generale ardito ed astuto e per i suoi seguaci era un eroe; aveva avuto più personalità che tutti i suoi colleghi della prima crociata, ma l’enormità della sua ambizione priva di scrupoli ne causò la rovina. Per i crociati non era ancora venuto il tempo di distruggere il baluardo della cristianità orientale31. Alessio si era reso conto chiaramente che il trattato di Devol richiedeva la collaborazione di Tancredi, ma questi, che non era affatto spiacente di vedere suo zio estromesso dagli affari dell’Oriente, non aveva nessuna intenzione di diventare il vassallo dell’imperatore. Le sue ambizioni erano meno estese di quelle di Boemondo, ma si indirizzavano verso la creazione di un forte principato indipendente. Le prospettive non erano buone: Boemondo lo aveva lasciato con pochissimi uomini e quasi del tutto privo di denaro in contanti, tuttavia egli decise di passare all’offensiva. Un prestito forzoso imposto ai ricchi mercanti di Antiochia lo rifornì di denaro e gli permise di contrattare i servizi dei mercenari locali, poi convocò tutti i cavalieri e tutte le truppe montate di cui potevano privarsi Edessa e Turbessel e lo stesso territorio antiocheno. Nella primavera del 1105 parti alla riconquista di Artah. Ridwan di Aleppo si era preparato ad accorrere in aiuto dei Banu Ammar nella loro lotta contro i franchi in un settore più meridionale, ma alla notizia dell’avanzata di Tancredi si precipitò a difendere Artah. I due eserciti si incontrarono il 20 aprile al villaggio di Tizin, nei pressi di quella località, in una desolata pianura cosparsa di sassi. Allarmato per la mole dell’esercito turco, Tancredi chiese di parlamentare con Ridwan, il quale avrebbe acconsentito se il comandante della sua cavalleria, Sabawa, non lo avesse persuaso ad attaccare senza indugio. Le condizioni del terreno impedirono ai turchi di usare la tattica abituale. Quando il primo assalto della loro cavalleria venne respinto dai franchi essi si ritirarono per attirare il nemico, ma non riuscirono a ricomporre i ranghi per una seconda carica e nel frattempo la loro fanteria fu ricacciata dai cavalieri franchi. Vedendo fallire i loro piani, si lasciarono cogliere dal panico: Ridwan e la sua guardia del corpo fuggirono al galoppo verso Aleppo, seguiti dalla maggior parte della cavalleria. Le restanti truppe a cavallo ed i fanti vennero massacrati sul campo di battaglia. La vittoria permise a Tancredi di rioccupare tutto il territorio perduto Tanno precedente; la guarnigione selgiuchida gli abbandonò Artah, mentre le sue truppe inseguivano i fuggiaschi fino alle porte di Aleppo e depredavano molti degli abitanti che, terrorizzati, stavano scappando dalla città. Ridwan cercò di fare la pace: acconsentì a rinunciare a tutti i suoi possessi nella valle dell’Oronte ed a pagare un tributo regolare. Alla fine del 1105 ancora una volta il dominio di Tancredi si estendeva verso sud fino ad Albara e Maarat an-Numan32. Nel febbraio del 1106 fu assassinato da fanatici di Aleppo l’emiro di Apamea, Khalaf ibn Mulaib, che non si era dimostrato ostile ai franchi. Poi gli uccisori litigarono con il loro principale alleato nella città, Abul Fath, che ne aveva assunto il governo e chiesero allora l’aiuto di Ridwan. Tancredi, invitato dagli armeni del luogo, giudicò opportuno intervenire: marciò verso sud e cominciò l’assedio della città. Ma Abul Fath ristabilì l’ordine e gli emiri di Shaizar e di Hama gli promisero degli aiuti. Tancredi venne costretto a ritirarsi dopo tre settimane e si giustificò con il dire che doveva soccorrere la guarnigione di Lattakieh la quale, dopo un blocco dei bizantini di diciotto mesi, era minacciata dalla fame; la rifornì di viveri e tornò ad Antiochia. Pochi mesi più tardi uno dei figli di Khalaf, Musbih ibn Mulaib, che era sfuggito al destino di suo padre, comparve ad Antiochia con un centinaio di seguaci e persuase Tancredi ad attaccare di nuovo Apamea. Con l’aiuto di Musbih questi lanciò un nuovo attacco contro la città, e scavò un fossato tutto intorno per impedire

a chiunque di entrare o di uscire. Nessuno degli emiri vicini accorse in aiuto di Abul Fath e dopo poche settimane, il 14 settembre 1106, i musulmani capitolarono a condizione di aver salva la vita. Tancredi acconsentì ed entrò nella città; tuttavia, per compiacere Musbih mise a morte Abul Fath e tre dei suoi compagni. Gli altri notabili di Apamea vennero condotti ad Antiochia e vi rimasero finché Ridwan intavolò trattative per il loro riscatto. Nella città fu insediato un governatore franco, mentre a Musbih era data in feudo una proprietà vicina33. Poco dopo i franchi occupavano di nuovo Kafartab affidandone il comando ad un cavaliere di nome Teofilo, che diventò ben presto il terrore dei musulmani di Shaizar34. Rafforzato cosi sulla sua frontiera orientale e su quella meridionale, Tancredi poté volgersi contro l’avversario che odiava di più: Bisanzio. Nell’estate del 1107, quando l’attacco di Boemondo contro le province europee era imminente, Alessio era stato costretto a ritirare delle truppe dalla frontiera siriana per fronteggiare quella minaccia più grave. Cantacuzeno venne richiamato da Lattakieh con molti dei suoi uomini, e Monastras dalla Cilicia che venne posta sotto il controllo del principe armeno di Lampron, lo sbarabied Oshin. Nell’inverno del 1108, o al principio del 1109, poco dopo l’umiliazione di Boemondo nell’Epiro, Tancredi invase la Cilicia. La capacità dell’imperatore di vagliare i suoi collaboratori gli era venuta meno in questo caso: Oshin discendeva da una nobile famiglia ed in gioventù era stato famoso per il suo coraggio, ma era diventato amante del lusso e indolente. La chiave della Cilicia era la fortezza di Mamistra, sul fiume Jihan. Quando le truppe di Tancredi avanzarono sia sulla terraferma attraverso la catena dell’Amano sia per la via fluviale risalendo lo Jihan per assediare la città, Oshin non fece nulla per fermarle. Mamistra cadde dopo un breve assedio e sembra che durante i mesi seguenti Tancredi ristabilisse la propria autorità su Adana e su Tarso, sebbene la Cilicia occidentale rimanesse nelle mani dell’imperatore. Oshin stesso si ritirò nelle sue terre nel Tauro35. Lattakieh era già stata riconquistata. Fino ad allora i normanni erano stati ostacolati dalla mancanza di forze navali, ma in quel momento la flotta bizantina si era concentrata lontano, nell’Adriatico, e Tancredi riuscì ad ottenere l’aiuto di una squadra pisana, in cambio della concessione di una via ad Antiochia e di un quartiere a Lattakieh, con chiesa e magazzino. Petzeas che era succeduto a Cantacuzeno quale comandante bizantino, non poté opporre nessuna resistenza. Lattakieh fu finalmente aggiunta al principato antiocheno nella primavera del 1108. L’anno successivo Tancredi estese i suoi possessi più a sud impadronendosi di Jabala, Buluniyas e del castello di Marqab che appartenevano al dominio dei Banu Ammar in via di dissoluzione36. Cosi, quando Boemondo si arrese all’imperatore rinunziando alla propria indipendenza, Tancredi stava giungendo all’apogeo della sua potenza e non era assolutamente disposto ad obbedire al decreto imperiale. Dal Tauro fino allo Jezireh ed alla Siria centrale egli era il potentato più importante. Era sovrano di Antiochia ed Edessa, soltanto come reggente, è vero, ma il principe Boemondo viveva ormai screditato in Italia e non sarebbe mai più tornato in Oriente ed il conte Baldovino languiva nella prigionia turca; e Tancredi non intendeva fare nessuno sforzo per liberarlo. Il principe di Aleppo era suo vassallo virtuale, nessuno degli altri emiri suoi vicini avrebbe osato attaccarlo, inoltre egli aveva sfidato con successo l’erede dei Cesari di Costantinopoli. Quando gli ambasciatori dell’imperatore vennero ad Antiochia per ricordargli gli impegni assunti da suo zio li congedò con arroganza: egli era, disse, Nino il grande Assiro, un gigante a cui nessun uomo poteva resistere37. Ma l’arroganza ha i suoi limiti: malgrado tutto il suo splendore Tancredi era detestato e nessuno

si fidava di lui. I suoi stessi colleghi crociati sfidarono la sua potenza e vi posero un freno.

Capitolo quarto Tolosa e Tripoli

La gloria del Libano verrà a te... Isaia, LX, 13

Fra tutti i principi che nel 1096 partivano per la prima crociata, Raimondo conte di Tolosa era il più considerevole per ricchezza e rango, l’uomo che molti si aspettavano venisse designato come capo del movimento; cinque anni più tardi si trovava fra i crociati tenuti in minor considerazione. I suoi guai se li era creati da solo. Sebbene non fosse né più avido né più ambizioso della maggior parte dei suoi colleghi, la sua vanità ne rendeva troppo chiaramente visibili i difetti. Il suo atteggiamento di fedeltà all’imperatore Alessio era basato su un autentico senso dell’onore e su una concezione politica lungimirante, ma ai suoi compatrioti franchi sembrò un atto di astuto tradimento e gli procurò scarsi vantaggi poiché l’imperatore scoprì ben presto che egli era un amico incompetente. I suoi seguaci rispettavano la sua devozione religiosa, ma egli non aveva nessuna autorità su di loro; essi gli si erano imposti durante la prima crociata obbligandolo a marciare su Gerusalemme, e i disastri del noi mostrarono quanto poco egli fosse adatto a dirigere una spedizione. La sua peggiore umiliazione ebbe luogo quando fu fatto prigioniero dal suo giovane collega Tancredi. Sebbene questo gesto, che violava le regole dell’ospitalità e dell’onore, offendesse l’opinione pubblica, Raimondo fu rilasciato soltanto dopo aver firmato una rinuncia ai propri diritti sulla Siria settentrionale con la quale, tra l’altro, distruggeva le basi del suo accordo con l’imperatore1. Ma egli possedeva la virtù della tenacia: aveva fatto voto di rimanere in Oriente e mantenne il suo voto e riuscì ancora a costruirsi un principato. Esisteva una zona che i cristiani dovevano ancora conquistare se volevano che i loro Stati in Oriente potessero sopravvivere: infatti una fascia di territorio occupata da diversi emirati musulmani separava i franchi di Antiochia e di Edessa dai loro fratelli di Gerusalemme. Il più importante di tali emirati era quello dei Banu Ammar di Tripoli. Il capo della famiglia, il cadì Fakhr al-Mulk Abu Ali, era un uomo pacifico. Sebbene il suo esercito fosse piccolo egli governava un ricco distretto, e con un abile seppur contraddittorio atteggiamento di pacificazione verso tutti i suoi vicini, conservava un’indipendenza precaria facendo affidamento, come ultima risorsa, sulla solidità della sua fortezzacapitale, costruita sulla penisola di ai-Mina. Si era mostrato molto amico dei franchi ovunque si fossero avvicinati ai suoi territori; aveva rifornito di viveri la prima crociata e non si era opposto ai capi cristiani quando costoro avevano assediato la sua città di Arqa. Aveva aiutato utilmente Baldovino di Boulogne durante il suo pericoloso viaggio per andare a cingere la corona di Gerusalemme; ma, allontanatisi i crociati, egli si era tranquillamente impadronito delle città di Tortosa e di Maraclea che essi avevano occupato. Cosi dominava tutta la strada costiera da Lattakieh e Jabala fino al possesso fatimita di Beirut2. L’altra strada che dalla Siria del nord conduceva in Palestina risaliva la valle dell’Oronte, spingendosi oltre la città munqidita di Shaizar, oltre Hama che doveva obbedienza a Ridwan e oltre Homs dove regnava il patrigno di Ridwan, Janah ed-Daula. Quivi si divideva: un ramo, quello

percorso da Raimondo durante la prima crociata, piegava attraverso la Buqaia verso Tripoli e la costa; l’altro continuava diritto, oltre il possesso damasceno di Baalbek, fino alle sorgenti del Giordano. Raimondo, le cui ambizioni non erano mai modeste, progettava di fondare un principato che controllasse sia la strada costiera che quella dell’Oronte, e che avesse come capitale Homs, la città che i franchi chiamavano La Chamelle. Ma il suo primo obiettivo, scelto forse per la presenza di navi genovesi che potevano aiutarlo, era costituito dalle città della costa. Appena fu liberato da Tancredi, alla fine del 1101, egli parti da Antiochia insieme con quei principi che non erano periti nelle crociate di quell’anno, Stefano di Blois, Guglielmo di Aquitania, Guelfo di Baviera ed i loro compagni i quali erano ansiosi di condurre a termine il loro pellegrinaggio a Gerusalemme. A Lattakieh egli ritrovò sua moglie e le sue truppe e con loro proseguì per Tortosa. La flotta genovese che doveva aiutarlo gettò le ancore vicino alla costa mentre egli si spingeva fino alle mura della città. Minacciato da due parti il governatore non oppose una grande resistenza: verso la metà di febbraio Raimondo entrò in Tortosa con i suoi compagni di viaggio i quali acconsentirono senza discussione a lasciarla in suo possesso. Essi supponevano che egli li avrebbe poi accompagnati fino a Gerusalemme ed al suo rifiuto si adirarono e, secondo Fulcherio di Chartres, proferirono contro di lui empie parole. Ma Raimondo aveva deciso che Tortosa sarebbe stata il nucleo centrale del suo territorio, perciò essi si congedarono da lui e proseguirono il loro viaggio verso sud3. Raimondo non aveva tenuto segreti i suoi progetti e tutto il mondo musulmano se ne era allarmato: Fakhr al-Mulk mise in guardia gli emiri di Homs e Duqaq di Damasco. Ma quando Raimondo fece la sua apparizione davanti alle mura di Tripoli, ci si rese conto che il suo esercito contava poco più di trecento uomini. I musulmani pensarono che era giunto il momento di annientarlo. Duqaq forni in tutta fretta duemila cavalleggeri e Janah ed-Daula altrettanti; si raccolsero inoltre tutte le truppe dei Banu Ammar. In totale l’esercito musulmano superava quello di Raimondo di venti ad uno, mentre convergeva verso di lui nella pianura fuori della città. Le gesta di Raimondo sono narrate molto sommariamente dagli storici crociati ed è l’arabo Ibn al-Athir che ci informa della straordinaria battaglia che seguì. Raimondo dispose un centinaio dei suoi uomini per affrontare i damasceni, un centinaio per fronteggiare i Banu Ammar, cinquanta per opporsi ai soldati di Homs e gli altri cinquanta per essere la sua propria guardia del corpo. Gli uomini di Homs iniziarono l’attacco, ma quando questo falli si lasciarono improvvisamente cogliere dal panico, che si diffuse pure tra le truppe di Damasco. I tripolini avevano maggior fortuna quando Raimondo, vedendo in fuga gli altri suoi avversari, lanciò contro di loro tutto il suo esercito. L’urto improvviso fu troppo forte per loro: voltarono le spalle e fuggirono. La cavalleria franca si precipitò allora sul campo di battaglia trucidando tutti i musulmani che non poterono scappare. Lo storico arabo ritiene che siano periti settemila dei suoi correligionari. Non soltanto la vittoria riabilitò Raimondo, ma assicurò la sopravvivenza del suo dominio libanese. I musulmani non osarono mai più prendere l’offensiva contro di lui, ma d’altra parte le sue truppe erano troppo scarse per permettergli di conquistare la città stessa di Tripoli, con le sue grandi fortificazioni sulla penisola di ai-Mina. Avendo estorto un gravoso tributo in denaro e in cavalli, tornò a Tortosa per progettare la successiva campagna4. Dopo aver trascorso i mesi seguenti per sistemarsi nelle vicinanze di Tortosa, egli parti nella primavera del 1103 per conquistare la Buqaia, una mossa necessaria se voleva isolare Tripoli ed estendersi verso l’Oronte. Il suo tentativo di cogliere di sorpresa la fortezza di Tuban, all’ingresso nord-orientale della valle, falli, ma egli, intrepido, si accampò per assediare Qalat al Hosn, il

formidabile castello che dominava tutta la pianura e che le sue truppe avevano occupato per una settimana nel 1099. Questi castelli appartenevano a Janah ed-Daula di Homs che non poteva permettersi di perderli e perciò preparò un esercito per correre a liberarli; ma, mentre usciva dalla gran moschea di Homs dopo aver pregato per la vittoria, fu trucidato da tre assassini. La sua morte provocò dei disordini in città e Raimondo levò subito l’assedio a Qalat al Hosn e marciò verso est per approfittarne. L’opinione pubblica attribuì l’assassinio agli agenti di Ridwan, che non aveva mai perdonato a Janah di averlo attaccato tre anni prima mentre egli era impegnato contro i franchi di Antiochia. Ma la vedova di Janah, che era la madre di Ridwan, terrorizzata per l’avvicinarsi di Raimondo, inviò dei messaggeri ad Aleppo per offrire la città a suo figlio. I consiglieri di Janah non l’appoggiarono, ma invocarono in loro soccorso Duqaq di Damasco. Questi in persona si affrettò ad accorrere dal sud con il suo atabeg Toghtekin, a cui affidò il governo. Raimondo non era in condizione di combattere contro di lui e si ritirò verso la costa5. Quando tornò a Tortosa apprese che una squadra genovese di quaranta vascelli era appena arrivata a Lattakieh e si affrettò a procurarsi il loro aiuto per attaccare Tripoli. Fallito l’attacco, gli alleati si diressero verso sud e conquistarono il porto di Jebail o Gibelletto, la Biblo degli antichi. I genovesi furono ricompensati con il possesso di un terzo della città6. Ma Raimondo era deciso a conquistare Tripoli. Durante gli ultimi mesi del 1103 stabilì un accampamento nei sobborghi della città e cominciò a costruire un enorme castello su una cresta, a circa tre miglia dalla costa. Poco prima aveva tentato di allontanare Tancredi da Lattakieh per compiacere i bizantini che, in cambio, lo rifornirono da Cipro di materiali e di abili muratori. Nella primavera del 1104 il castello era terminato e Raimondo vi stabilì la sua residenza. Egli lo chiamò Monte Pellegrino, ma gli arabi lo conoscevano come Qalat Sanjil, il Castello di Sant’Egidio7. Tripoli si trovava ora in uno stato d’assedio permanente, ma rimase inviolata. Raimondo infatti controllava gli accessi terrestri, ma mancava di un ininterrotto dominio del mare. Con le grandi ricchezze che avevano ammassato i Banu Ammar potevano ancora mantenere una numerosa flotta mercantile e portare in città delle provviste dai porti egiziani. Ma il castello di Raimondo minacciava la loro libertà; alla fine dell’estate fecero una sortita ed incendiarono i sobborghi fino alle sue mura e Raimondo stesso fu ferito da un tetto in fiamme che gli cadde addosso. Al principio della primavera seguente Fakhr al-Mulk fu indotto a negoziare una tregua con i cristiani, in base alla quale lasciò loro i sobborghi. Le trattative erano appena concluse quando Raimondo, che non si era mai ripreso dalle ustioni riportate sei mesi prima, cadde mortalmente ammalato. Morì a Monte Pellegrino il 28 febbraio 1105. Le eroiche avventure dei suoi ultimi anni ne avevano ristabilito quasi del tutto la fama. Fu rimpianto come un grande cavaliere cristiano che aveva preferito le asprezze della guerra santa a tutti gli agi del suo paese natio8. Questo omaggio era ben meritato perché, a differenza dei suoi compagni di crociata stabiliti ormai in Oriente e che in patria erano stati gente di poco conto, Raimondo aveva posseduto una ricca eredità in Europa. Sebbene avesse giurato di non ritornarci mai più, aveva mantenuto un certo controllo sulla sua amministrazione. La sua morte creava un problema di successione sia a Tolosa che nel Libano. Aveva affidato Tolosa al governo del suo figliolo maggiore Bertrando, ma il diritto di questi ad ereditare la contea era discusso, probabilmente perché egli era un bastardo. I figli di Raimondo nati dalla contessa Elvira erano morti tutti, eccetto un maschietto, Alfonso-Giordano, nato pochi mesi prima a Monte Pellegrino. Era evidente che un neonato non poteva occuparsi del governo di un principato militare instabile nel Libano, mentre la sua stessa nascita era probabilmente ancora ignorata a Tolosa. Bertrando continuò ad amministrare le terre europee di suo padre, ed in Oriente i

soldati di Raimondo scelsero come suo successore, probabilmente secondo gli ultimi desideri del morente, suo cugino Guglielmo-Giordano, conte di Cerdagne. Costui, la cui nonna materna era stata zia materna di Raimondo, era da poco giunto in Oriente. Egli si considerava come reggente a nome del cuginetto neonato e si astenne dall’assumere qualsiasi titolo dal suo territorio orientale. Ma né Guglielmo-Giordano né Bertrando potevano essere sicuri della propria posizione finché AlfonsoGiordano era in vita9. Guglielmo-Giordano continuò la politica del suo predecessore, mantenendo più serrato il blocco e conservando l’alleanza con Bisanzio. A richiesta dell’imperatore il governatore di Cipro, Eustazio Filocale, gli inviò un ambasciatore per ricevere il suo omaggio e per inviargli in cambio dei ricchi doni. Come conseguenza della condiscendenza di Guglielmo-Giordano, da Cipro venivano inviati regolarmente dei rifornimenti ai franchi che assediavano Tripoli e le truppe bizantine parteciparono occasionalmente al blocco della città. Mentre le vettovaglie affluivano all’accampamento franco, Tripoli era minacciata dalla fame. Nessuna provvista vi poteva giungere per via terra; dai porti fatimiti e persino dal territorio di Tancredi delle navi violavano il blocco, ma non potevano portare cibo sufficiente per la sua numerosa popolazione. I prezzi dei viveri salivano alle stelle : una libbra di datteri costava una moneta d’oro. Tutti coloro che potevano fuggire dalla città emigravano. Entro la cerchia delle mura c’erano miseria e malattie che Fakhr al-Mulk cercava di alleviare facendo distribuire del cibo ai soldati e agli ammalati e pagandolo con delle tasse speciali. Alcuni notabili tripolini fuggirono al campo cristiano e due di loro rivelarono agli assediami i sentieri da cui entravano ancora di contrabbando delle merci in città. Fakhr al-Mulk offrì a Guglielmo-Giordano delle grosse somme per riavere questi traditori; dopo che il conte ebbe rifiutato di consegnarli, essi vennero trovati assassinati nell’accampamento cristiano10. Fakhr al-Mulk non sapeva a chi chiedere aiuto: se si fosse rivolto ai Fatimiti essi avrebbero insistito per annettersi il suo Stato; per certi motivi si trovava in cattivi rapporti con Toghtekin di Homs, suo alleato più naturale, che alla morte di Duqaq nel 1104 ne aveva preso la successione al governo di Damasco e che si trovava in costante stato di guerra con Guglielmo-Giordano. Gli alleati più lontani sembravano i meno pericolosi, perciò nel 1105 egli inviò un appello urgente all’ortoqida Soqman, a Mardin. Questi, che era abbastanza contento di poter comparire di nuovo nell’arena della costa siriana, partì per attraversare il deserto con un numeroso esercito. Ma appena giunto a Palmira morì improvvisamente ed i suoi generali si affrettarono a tornare nello Jezireh per disputarsi la successione11. Grazie alla sua ricchezza ed alla sua diplomazia Fakhr riuscì a mantenersi in Tripoli, in mezzo a una crescente miseria, ancora per tutto il 1106 ed il 1107.1 suoi rapporti con Toghtekin migliorarono e gli furono di aiuto le azioni di disturbo che costui intraprese contro i franchi, come quando, nel 1105, riconquistò loro Rafaniya 12. Ma i franchi si erano ora stabiliti saldamente sulla costa libanese e nessuna potenza musulmana dei dintorni sembrava disposta o in condizione di cacciarli. Nella primavera del 1108 Fakhr al-Mulk, disperato, decise di implorare aiuto personalmente dal capo della sua religione, il califfo di Bagdad, e dal suo più importante sovrano, il sultano selgiuchida Mohammed. Dopo aver affidato il governo di Tripoli a suo cugino, Abul Manaqib ibn Ammar, e dopo aver dato a tutti i suoi soldati sei mesi di paga anticipata, Fakhr parti dalla città in marzo. Aveva già informato Toghtekin delle proprie intenzioni e sembra che avesse ottenuto da Guglielmo-Giordano il permesso di attraversare il territorio occupato dai franchi; prese con sé una guardia del corpo di cinquecento uomini e molti ricchi doni per il sultano. Al suo arrivo a Damasco Toghtekin lo ricevette con molti segni di rispetto ed i principali emiri damasceni lo coprirono di doni, sebbene egli, per

precauzione, preferisse prendere alloggio fuori delle mura della città. Quando proseguì il suo viaggio il figlio stesso di Toghtekin, Taj al-Mulk Buri si uni alla sua scorta. Al suo avvicinarsi a Bagdad gli furono resi grandi onori con ogni specie di lusinghiere dimostrazioni di rispetto: il sultano gli inviò la sua barca da cerimonie personale per fargli attraversare l’Eufrate ed egli giacque sul cuscino che di solito aveva l’onore di accogliere il corpo del sultano, e sebbene non avesse mai assunto un titolo più alto di quello di cadì entrò in Bagdad con il cerimoniale che si usava per un principe sovrano. Sia il califfo che il sultano gli dimostrarono un affetto fraterno e lo lodarono per i servizi resi alla Fede, ma quando si venne a discutere di affari apparve tutta l’inconsistenza di questi complimenti. Il sultano gli promise che un grande esercito selgiuchida sarebbe venuto a liberare Tripoli, ma prima bisognava completare alcune piccole imprese più vicino a Bagdad, per esempio bisognava costringere l’emiro di Mosul, Jawali, a dimostrarsi un po’ più obbediente. Fakhr capi che in realtà Mohammed non aveva nessun desiderio di intervenire. Dopo aver trascorso nel lusso quattro inutili mesi alla corte del sultano egli intraprese il viaggio di ritorno verso casa, ma soltanto per scoprire che ormai non aveva più patria13. Abul Manaqib ed i notabili di Tripoli erano realisti e si rendevano conto che una sola potenza musulmana si trovava in condizione di aiutarli: i Fatimiti, che erano abbastanza forti sul mare. Essi chiesero al visir egiziano al-Afdal di inviare un governatore per assumere il comando della città. In risposta al-Afdal designò Sharaf ad-Daulah che giunse a Tripoli nella primavera del 1108 carico di rifornimenti di grano per il popolino. Non ebbe nessuna difficoltà a prendere il potere: tutti i partigiani Ai Fakhr al-Mulk furono arrestati e spediti in Egitto. Fakhr era giunto a Damasco prima di essere informato della rivoluzione. Egli possedeva ancora Jabala, a nord di Tortosa, e vi si diresse, ma il suo governo vi fu di breve durata: nel maggio del 1109 Tancredi di Antiochia apparve con tutte le sue forze davanti alla città. Fakhr capitolò subito a condizione di ottenere che la città gli venisse concessa come feudo da Tancredi, ma questi violò la parola data e Fakhr fu costretto a partire e si ritirò a Damasco senza essere molestato. Trascorse il resto della sua vita come pensionato di Toghtekin14. Sebbene Fakhr al-Mulk avesse perso Tripoli, gli egiziani non poterono tenerla, né GuglielmoGiordano poté conquistarla. Alla morte di Raimondo, i nobili di Tolosa avevano accettato come suo successore Bertrando, perché egli li aveva già governati per quasi dieci anni e perché non erano ancora informati che Raimondo avesse lasciato un figlio legittimo. Ma quando appresero l’esistenza del piccolo Alfonso-Giordano, inviarono dei messi in Oriente per chiedergli di venire a prendere possesso della sua legittima eredità. Non si può biasimare la contessa Elvira per aver preferito per suo figlio le ricche contrade della Francia meridionale ad una precaria signoria in Oriente: ella giunse a Tolosa con lui nel corso dell’anno 1108. Il loro arrivo obbligò Bertrando a riflettere sul proprio avvenire. Probabilmente venne trovato un accordo familiare per cui Bertrando rinunciava a tutte le proprie eventuali pretese sulle terre europee di suo padre mentre in cambio Alfonso-Giordano gli cedeva la sua eredità nel Libano, affinché se ne andasse da Tolosa. Bertrando parti per l’Oriente nel 1108, deciso a completare il suo futuro principato con la conquista di Tripoli; probabilmente si rendeva conto che avrebbe avuto delle difficoltà con Guglielmo-Giordano. Per realizzare i suoi propositi condusse con sé un esercito di quattromila tra cavalleggeri e fanti ed una flotta di quaranta galee, fornitagli dai porti della Provenza. Viaggiò con lui il suo giovane figlio Pons. La sua prima visita fu per Genova, da cui sperava di ottenere l’aiuto navale necessario per la conquista di Tripoli. Anche Guglielmo-Giordano aveva tentato di combinare un’alleanza con i genovesi, ma la sua ambasceria trovò che Bertrando era già

stato accettato come alleato della repubblica. Genova aveva promesso di aiutarlo a prendere possesso delle conquiste di suo padre in Oriente ed a completarle con l’occupazione di Tripoli, chiedendo che in cambio le venisse data nella città la più favorevole posizione commerciale. Quando nell’autunno Bertrando salpò verso l’Oriente, una squadra navale genovese parti con lui15. In seguito Bertrando progettò di andare a Costantinopoli per ottenere l’appoggio dell’amico di suo padre, l’imperatore, ma le burrasche costrinsero la sua flotta a rifugiarsi nel golfo di Volo, nel porto di Almyro, dove i suoi uomini fecero un’ottima impressione astenendosi dalla solita consuetudine occidentale di saccheggiare la campagna. Di conseguenza, quando egli giunse a Costantinopoli, Alessio era ben disposto in suo favore e lo accolse come un figlio, coprendolo di ricchi doni e promettendogli futuri privilegi imperiali. In cambio Bertrando giurò fedeltà all’imperatore16. Bertrando ed i suoi alleati salparono da Costantinopoli per San Simeone, il porto di Antiochia, ed inviarono un messo a Tancredi per chiedergli di incontrarsi con loro. Egli venne immediatamente, ma la loro conversazione fu un po’ burrascosa: Bertrando chiese con arroganza che Tancredi gli consegnasse quelle parti della città di Antiochia che suo padre aveva posseduto, e Tancredi rispose che avrebbe preso in considerazione la richiesta se Bertrando lo avesse aiutato nella campagna che stava per intraprendere contro Mamistra e le città bizantine della Cilicia. Per Bertrando, che aveva appena prestato un giuramento di fedeltà ad Alessio e che contava sulle sovvenzioni bizantine, la proposta era inaccettabile, per cui egli si offrì di conquistare invece per Tancredi la città di Jabala, in cui si era rifugiato Fakhr al-Mulk. Tancredi insistette per la collaborazione nella spedizione in Cilicia e, quando Bertrando rifiutò categoricamente a causa del giuramento prestato all’imperatore, gli ordinò di lasciare il suo principato e proibì ai suoi sudditi di vendergli dei rifornimenti. Bertrando fu costretto a ridiscendere la costa e fece vela per il porto di Tortosa17. Tortosa era tenuta da uno dei luogotenenti di Guglielmo-Giordano che lasciò entrare senza difficoltà Bertrando nella città e gli forni tutte le provviste di cui aveva bisogno. Il giorno dopo questi inviò un messaggero al quartier generale di Guglielmo-Giordano a Monte Pellegrino, per chiedergli la restituzione di tutta l’eredità di suo padre nei territori di La Chamelle, ossia il principato di Homs che Raimondo aveva sperato di fondare. Ma Guglielmo-Giordano aveva ottenuto di recente un notevole successo. Quando gli egiziani avevano occupato Tripoli, la città di Arqa, governata da uno dei paggi prediletti di Fakhr, si era posta sotto la protezione di Toghtekin di Damasco. Questi era partito personalmente per ispezionare la sua nuova dipendenza, ma le piogge invernali lo avevano fatto ritardare nell’attraversare la Buqaia. Mentre stava aspettando che il tempo migliorasse, egli attaccò alcuni forti che i cristiani avevano costruito vicino alla frontiera. Guglielmo-Giordano si spinse di nascosto sulla cresta del Libano, con trecento cavalleggeri e duecento fanti indigeni e si gettò su di lui all’improvviso, nelle vicinanze del villaggio di Akun. L’esercito damasceno, con Toghtekin in testa, fuggì terrorizzato fino a Homs, inseguito dai franchi che non osarono attaccare la città, ma che poi si volsero verso nord per depredare il territorio di Shaizar. Gli emiri di questa, i fratelli munqiditi Murshid e Sultan, informati che l’esercito franco era piccolo, gli uscirono incontro, fiduciosi di poterlo catturare facilmente. Ma i franchi attaccarono subito cosi accanitamente che gli uomini di Shaizar ruppero le file e fuggirono. Guglielmo-Giordano ritornò allora ad Arqa che capitolò davanti a lui dopo un assedio di tre settimane soltanto18. Incoraggiato da queste vittorie, Guglielmo-Giordano non era per niente disposto ad abdicare a favore di Bertrando. Replicò che teneva le terre di Raimondo per diritto d’eredità e che, inoltre, le aveva difese ed ingrandite. Ma la mole della flotta di Bertrando lo allarmò e perciò inviò dei messi

ad Antiochia per chiedere a Tancredi di intervenire in suo favore; in cambio promise di diventare suo vassallo. La sua mossa costrinse Bertrando ad intraprendere un’azione analoga: egli inviò un messaggero a Gerusalemme, per esporre il suo caso al re Baldovino, a cui s’appellava come al supremo arbitro dei franchi d’Oriente e che, di conseguenza, riconosceva come proprio sovrano19. Baldovino, con la sua intelligenza politica, comprendeva che i franchi d’Oriente dovevano collaborare insieme e la sua ambizione lo induceva a ritenersi il loro capo, per cui rispose subito all’appello. Era già adirato con Tancredi per il trattamento che questi aveva inflitto a Baldovino di Edessa e a Jocelin di Courtenay. Bertrando intanto si era spinto verso sud in direzione di Tripoli, dove il suo esercito stava compiendo la duplice impresa di bloccare la città musulmana e di assediare sul Monte Pellegrino i sostenitori di Guglielmo-Giordano. Nel frattempo costui aveva abbandonato il Monte Pellegrino ed aveva rioccupato Tortosa, dove attese Tancredi. Questi lo aveva appena raggiunto quando ricevettero la visita degli inviati del re, Eustachio Garnier e Pagano di Haifa, che ordinarono ad ambedue di presentarsi davanti alla corte reale nelle vicinanze di Tripoli, per sistemare sia la questione dell’eredità di Raimondo, sia la restituzione di Edessa e di Turbessel ai loro legittimi proprietari. Guglielmo-Giordano desiderava respingere la convocazione, ma Tancredi si rese conto che era impossibile tenerla in non cale. Nel giugno del 1109 tutti i principi dell’Oriente franco si riunirono fuori delle mura di Tripoli. Bertrando vi si trovava con il suo esercito, re Baldovino giunse dal sud con cinquecento cavalieri ed altrettanti fanti, Tancredi portò settecento dei suoi migliori cavalieri e Baldovino di Edessa e Jocelin vennero con le loro guardie del corpo. In una solenne riunione nel castello del Monte Pellegrino Tancredi venne formalmente riconciliato con Baldovino di Edessa e con Jocelin, mentre l’eredità di Raimondo veniva divisa: Guglielmo-Giordano avrebbe conservato Tortosa e la città che egli stesso aveva conquistato, Arqa; Bertrando avrebbe avuto Jebail e Tripoli, non appena fosse stata occupata. Il primo giurò fedeltà a Tancredi e l’altro a re Baldovino; e fu concordato che alla morte di uno dei due candidati l’altro avrebbe ereditato le sue terre20. Dopo aver messo pace tra i suoi capi, l’esercito franco cominciò a dedicarsi seriamente alla conquista di Tripoli. Il governatore egiziano, Sharaf ad-Daulah, aveva disperatamente chiesto aiuto alle autorità d’Egitto che equipaggiarono una flotta enorme, con navi sufficienti al trasporto di un intero esercito e battelli carichi di provviste, ma i litigi e gli intrighi tra i comandanti egiziani ne avevano fatto rimandare la partenza dai porti del Delta. Trascorsero dei mesi, mentre il visir cercava senza eccessivo zelo, di comporre le dispute; finalmente era stato dato l’ordine di salpare. Ma soffiava costantemente il vento del nord e le navi non poterono lasciare il porto. Quando infine riuscirono a partire in numero ridotto, era ormai troppo tardi21. La guarnigione di Tripoli, a cui le flotte di Genova e di Provenza avevano tagliato la via dei rifornimenti da oltremare e con le mura di terra ferma bombardate da tutte le macchine da assedio che l’esercito franco aveva potuto radunare, abbandonò ben presto ogni pensiero di resistenza. Sharaf adDaulah inviò dei messi ad offrire a re Baldovino la resa a certe condizioni : egli chiedeva che a tutti i cittadini che desideravano emigrare dalla città fosse concesso di andarsene sani e salvi, con i loro beni mobili, e che coloro che intendevano rimanere potessero diventare sudditi franchi e conservare tutti i loro beni, pagando soltanto una speciale tassa annua; a lui stesso si doveva concedere di partire da Damasco con le sue truppe. Baldovino acconsentì ed il 12 luglio 1109 i cristiani entrarono in Tripoli. Baldovino stesso tenne fede all’accordo stipulato e nei distretti che egli occupò non vi furono né saccheggi né distruzioni, ma i marinai genovesi, trovando indifesa la città, vi si precipitarono e

cominciarono a saccheggiare, ad incendiare case e a trucidare tutti i musulmani che incontrarono, e ci volle parecchio tempo prima che le autorità potessero fermarli. Nel tumulto venne incendiata e distrutta fino alle fondamenta la grande biblioteca dei Banu Ammar, la più bella del mondo musulmano, e tutto il suo contenuto andò perduto22. Quando la città fu interamente occupata e l’ordine ristabilito, Bertrando vi fu insediato come reggitore. Egli assunse il titolo di conte di Tripoli e riaffermò il proprio vassallaggio verso il regno di Gerusalemme; i suoi obblighi verso l’imperatore Alessio vennero ignorati. I genovesi furono ricompensati con il possesso di un quartiere in Tripoli, di una fortezza conosciuta come il Castello del Conestabile a dieci miglia a sud della città, e con i restanti due terzi della cittadina di Jebail. Essi la consegnarono all’ammiraglio Ugo Embriaco, i cui discendenti la trasformarono in un feudo ereditario23. Bertrando non dovette aspettare a lungo prima di ottenere l’intera eredità orientale di suo padre. Mentre l’esercito franco si trovava ancora in Tripoli Guglielmo-Giordano venne colpito da una freccia. I particolari rimasero un mistero: sembra che egli fosse intervenuto inconsideratamente in una baruffa che era scoppiata tra due palafrenieri e che, mentre tentava di separare i due uomini, qualcuno gli tirasse addosso. I sospetti caddero inevitabilmente su Bertrando, ma non si poté provare nulla. Egli prese immediatamente la successione di tutte le terre di Guglielmo-Giordano che passarono così sotto la sovranità di re Baldovino. Tancredi aveva puntato sul cavallo perdente24. Fu cosi che il figlio di Raimondo portò a compimento l’ambizione di suo padre di fondare uno Stato in Oriente. Era un principato più piccolo di quello sognato da Raimondo: le terre di La Chamelle non dovevano mai farne parte ed invece di riconoscere la sovranità del lontano imperatore di Costantinopoli aveva un sovrano a Gerusalemme, molto più vicino. Ma era un’eredità ricca e prospera; con la sua ricchezza e la sua posizione, che univa i franchi della Siria settentrionale con quelli della Palestina, doveva avere una parte di vitale importanza nella storia delle crociate.

Capitolo quinto Re Baldovino I

Il suo cuore è duro come il sasso, duro come la macina di sotto. Giobbe, XLI, 16

L’intervento di re Baldovino a Tripoli nel 1109 dimostrò che egli era veramente il maggiore tra i principi dell’Oriente franco. Si era guadagnata tale posizione mediante un’attività strenua e paziente e con ardite imprese. Giungendo a Gerusalemme malgrado l’opposizione congiunta del patriarca Daimberto e del principe di Antiochia, egli ereditava una tesoreria vuota ed un territorio smembrato, composto dalla catena delle montagne centrali della Palestina, dalla pianura di Esdraelon e da alcune remote fortezze situate in una campagna ostile, ed un minuscolo esercito di cavalieri arroganti e senza legge e di mercenari indigeni infidi. Nel regno l’unica istituzione organizzata era la Chiesa, divisa però in due partiti, quello di Daimberto e quello di Arnolfo. I servizi amministrativi centrali sotto Goffredo erano stati diretti dai suoi familiari che erano pochi ed inadatti a governare un intero paese. I baroni a cui erano state affidate delle fortezze di frontiera potevano amministrare i loro territori a proprio talento. Baldovino si rese conto che il pericolo più imminente era rappresentato da un attacco musulmano prima che nel suo Stato fosse ristabilita l’organizzazione e l’ordine. Convinto che la miglior difesa consiste nel prendere l’offensiva, egli iniziò una campagna per incutere timore agli infedeli ancor prima di aver sistemato l’urgente problema dei suoi rapporti con Daimberto o di aver cinto la corona. Le sue eroiche imprese ad Edessa e la sua vittoria al fiume del Cane gli avevano dato una fama straordinaria da cui tentava di ricavare dei vantaggi. Una settimana appena dopo il suo arrivo a Gerusalemme, discese verso Ascalona per compiere un’azione dimostrativa davanti alle sue mura, ma la fortezza era troppo solida perché il suo piccolo esercito potesse attaccarla, perciò marciò verso oriente su Hebron e poi discese il Negeb verso Segor, nella regione salata all’estremità meridionale del Mar Morto, incendiando villaggi sul suo cammino, quindi proseguì attraverso il deserto di Edom fino al Monte Hor ed al suo antico monastero di Sant’Aronne, vicino a Petra. Sebbene non stabilisse delle guarnigioni permanenti nella regione, la sua avanzata intimorì gli arabi che in seguito, per alcuni anni, si astennero dall’infiltrarsi nel suo territorio1. Ritornò a Gerusalemme pochi giorni prima di Natale. Intanto il patriarca Daimberto aveva avuto tempo di riflettere sulla situazione creatasi e di rassegnarsi all’inevitabile, perciò il giorno di Natale del 1100 egli incoronò Baldovino re di Gerusalemme. In cambio venne confermato nella carica di patriarca2. Al principio della primavera del noi Baldovino venne informato che una ricca tribù araba stava attraversando la Transgiordania. Condusse immediatamente un distaccamento al di là del fiume e di notte si gettò sul loro accampamento. Soltanto pochi degli arabi trovarono scampo: la maggior parte degli uomini vennero trucidati nelle loro tende e le donne ed i bambini furono portati via come schiavi, insieme con una gran quantità di denaro e di oggetti preziosi. Tra le prigioniere si trovava la

moglie di uno degli sceicchi della tribù. Ella stava per partorire; quando Baldovino fu informato delle sue condizioni ordinò che fosse rilasciata con la sua fantesca, due cammelle e buone provviste di cibo e bevanda. Ella diede alla luce felicemente un figlio ai margini della strada, dove ben presto suo marito la ritrovò. Profondamente commosso dalla cortesia di Baldovino, egli gli corse dietro per ringraziarlo e per promettergli che un giorno gli avrebbe ricambiato la sua gentilezza3. Le notizie della scorreria accrebbero la fama di Baldovino. In marzo vennero a Gerusalemme, portando ricchi doni, le ambascerie delle città costiere, Arsuf, Cesarea, Acri e Tiro; mentre Duqaq di Damasco si offrì di pagare la somma di cinquantamila bisanti d’oro per il riscatto dei prigionieri che Baldovino aveva fatto nella battaglia del fiume del Cane. Veniva cosi risolto il più urgente problema finanziario del re4. I vantaggi che Arsuf e Cesarea trassero dal tributo che avevano pagato non furono di lunga durata: in marzo venne avvistata davanti a Haifa una squadra navale genovese che entrò nel porto di Giaffa il 15 aprile. Tra i passeggeri si trovava Maurizio, cardinale-vescovo di Porto, inviato da papa Pasquale come suo legato. Fino ad allora per le operazioni marittime Baldovino aveva dovuto dipendere dalla piccola flotta pisana che aveva accompagnato in Oriente il suo avversario Daimberto, arcivescovo di Pisa, ma gli conveniva di più un’alleanza con i genovesi, grandissimi rivali dei pisani. Perciò si affrettò a scendere a Haifa per accoglierli e per dare il benvenuto al legato pontificio, e condusse i loro capi a trascorrere la Pasqua a Gerusalemme, insieme con Maurizio ed il proprio seguito. I genovesi acconsentirono a rimanere al suo servizio per una stagione in cambio di un terzo di tutto il bottino che fosse stato catturato, sia merci che denaro, e di una via nel quartiere del mercato in ogni città conquistata. Appena firmato il patto, gli alleati marciarono contro Arsuf, Baldovino per la via terrestre ed i genovesi per mare. La resistenza cessò ben presto: le autorità della città offrirono di capitolare a condizione che gli abitanti potessero emigrare in territorio musulmano sani e salvi, con le famiglie ed i loro beni. Baldovino accettò queste condizioni e li fece scortare dalle proprie truppe fino ad Ascalona, poi fornì la città di una guarnigione, dopo aver assegnato ai genovesi la loro parte5. Da Arsuf gli alleati proseguirono per Cesarea il cui assedio ebbe inizio il 2 maggio. La guarnigione che aveva fiducia nelle antiche mura bizantine non volle arrendersi, ma il 17 maggio la città fu conquistata con un assalto. Ai soldati vittoriosi venne dato il permesso di depredarla a loro piacimento e gli orrori del saccheggio furono tali che scandalizzarono persino i loro comandanti. Il massacro più crudele ebbe luogo nella Gran Moschea che era stata anticamente la sinagoga di Erode Agrippa. Molti cittadini vi si erano rifugiati ed imploravano misericordia, ma vennero ammazzati, uomini e donne senza distinzione, finché il pavimento si trasformò in un lago di sangue. In tutta la città vennero risparmiati soltanto poche ragazze e piccoli bambini, nonché il supremo magistrato ed il comandante della guarnigione che Baldovino stesso pose in salvo per ottenerne un buon riscatto. La ferocia era stata deliberatamente voluta: Baldovino desiderava mostrare che egli sapeva mantenere la sua parola con tutti quelli che scendevano a patti con lui, ma che in caso contrario era spietato6. Baldovino aveva appena avuto il tempo di dividere il bottino secondo i patti e di insediare una guarnigione franca quando gli giunse la notizia che un esercito egiziano era penetrato in Palestina. Il visir fatimita al-Afdal era desideroso di vendicare la sconfitta subita ad Ascalona due anni prima ed aveva equipaggiato una spedizione sotto il comando del mamelucco Saad ed-Daulah alQawasi. Essa arrivò ad Ascalona verso la metà di maggio ed avanzò fino a Ramleh sperando, forse, di entrare in Gerusalemme mentre Baldovino si trovava ancora occupato a Cesarea. Il re si precipitò con i suoi soldati verso Ramleh mentre Saad tornava ad Ascalona per attendervi dei rinforzi. Dopo

aver fortificato Ramleh, Baldovino stabilì il suo quartier generale a Giaffa, per poter osservare i movimenti degli egiziani ed allo stesso tempo mantenersi in contatto con le sue vie di comunicazione marittime. Eccetto un breve soggiorno a Gerusalemme in luglio, per ragioni amministrative, egli vi si trattenne per tutta l’estate. Alla fine di agosto una lettera intercettata gli recò la notizia che distaccamenti freschi si erano uniti agli egiziani e che questi si stavano preparando a marciare sulla sua capitale. Il 4 settembre Saad fece avanzare lentamente le sue forze verso i sobborghi di Ramleh. Due giorni più tardi Baldovino tenne un consiglio di guerra e decise di attaccare all’alba, senza aspettare di essere attaccato. Aveva soltanto duecentosessanta cavalleggeri e novecento fanti, ma essi erano bene armati ed esperti, mentre l’enorme esercito degli egiziani, che egli stimava di undicimila cavalleggeri e ventunmila fanti, era armato leggermente e poco allenato. Egli divise le sue truppe in cinque compagnie, la prima agli ordini di un cavaliere di nome Bervoldo, la seconda sotto Geldemaro Carpenel, signore di Haifa, la terza sotto Ugo di Saint-Omer, che era succeduto a Tancredi come principe di Galilea, la quarta e la quinta al suo comando personale. Ispirati dalla Vera Croce, da un fervido sermone pronunciato da Arnolfo di Rohes e da un’assoluzione speciale data dal cardinale-legato, i franchi uscirono da Ramleh ed al levar del sole piombarono sugli egiziani, vicino ad Ibelin, a sud-ovest della città. Bervoldo condusse l’attacco, ma i suoi uomini vennero falciati dagli egiziani ed egli stesso trucidato; Geldemaro Carpenel si affrettò in suo soccorso, ma anch’egli peri con tutti i suoi uomini; seguì la compagnia dei galilei, ma non ebbe nessun effetto sulle masse egiziane. Dopo aver subito gravi perdite Ugo di Saint-Omer ritirò i suoi uomini e fuggì verso Giaffa, inseguito dall’ala sinistra nemica. Sembrava che tutto fosse perduto. Ma re Baldovino, dopo aver confessato pubblicamente i suoi peccati davanti alla Vera Croce e dopo aver arringato la sua compagnia, saltò sul suo animoso destriero arabo, Gazzella, e galoppò alla testa dei suoi cavalieri dritto al cuore dello schieramento nemico. Gli egiziani, che erano ormai sicuri della vittoria, vennero colti di sorpresa: dopo una breve lotta, il loro centro fece dietro-front e si diede alla fuga mentre il panico si estendeva all’ala destra. Baldovino, avendo proibito ai suoi uomini di fermarsi per spogliare i cadaveri o per saccheggiare l’accampamento egizio, inseguì il nemico fino alle mura di Ascalona. Quivi raggruppò i suoi soldati e si ritirò per spartire il bottino guadagnato sul campo di battaglia7. Nel frattempo Ugo di Saint-Omer, arrivato a Giaffa dove la regina e la corte erano in attesa, aveva annunziato che la battaglia era perduta. Informati del disastro e credendo che il re fosse morto, essi inviarono subito un messaggero all’unico uomo che ritenevano potesse aiutarli in quel frangente, Tancredi di Antiochia. La mattina seguente venne avvistato un esercito ed essi credettero che fossero gli egiziani, ma fu grande la loro gioia quando distinsero i vessilli franchi e riconobbero il re. Un secondo messaggero venne spedito ad Antiochia con la notizia che tutto andava bene; e Tancredi, che si era preparato con un certo piacere a partire per il sud, si sentì dire che poteva rimanersene a casa8. Il pericolo era allontanato per il momento. Gli egiziani avevano subito delle gravi perdite e non erano disposti a ripetere la campagna per quella stagione. Ma le risorse dell’Egitto erano immense ed al-Afdal non ebbe nessuna difficoltà ad equipaggiare un secondo esercito per continuare la lotta l’anno successivo. Nel frattempo Baldovino ricevette la visita dei principi che erano scampati alle crociate anatoliche del noi: guidati da Guglielmo d’Aquitania, da Stefano di Blois e da Stefano di Borgogna e dal conestabile Corrado, erano accompagnati da diversi baroni dei Paesi Bassi, da Ekkehard di Aura e dal vescovo Manasse ed erano venuti quasi tutti ad Antiochia per mare; giunsero nelle vicinanze di Beirut al principio della primavera del 1102. Per permettere loro di attraversare in sicurezza la regione nemica Baldovino inviò una scorta che li incontrò colà e li accompagnò a

Gerusalemme. Dopo aver celebrato la Pasqua sui Luoghi Santi i capi si prepararono a tornare in patria: Guglielmo d’Aquitania alla fine d’aprile s’imbarcò senza incidenti per San Simeone, ma la nave su cui avevano preso un passaggio Stefano di Blois, Stefano di Borgogna e parecchi altri venne gettata sulla spiaggia, vicino a Giaffa, da una burrasca. Prima che si trovasse un’altra nave che potesse prenderli a bordo, giunse la notizia che un nuovo esercito musulmano stava salendo dall’Egitto. A causa di questo decisivo incidente, essi decisero di rimanere per prendere parte alla lotta imminente9. Verso la metà di maggio del 1102 l’esercito egiziano, forte di circa ventimila arabi e sudanesi, al comando di Sharaf al-Maali figlio del visir, si riunì ad Ascalona e marciò su Ramleh. Baldovino aveva fatto i suoi preparativi: un esercito di parecchie migliaia di cristiani aspettava a Giaffa, mentre le guarnigioni della Galilea si tenevano pronte a mandare dei distaccamenti quando fosse stato necessario, ma purtroppo i suoi informatori gli diedero delle informazioni errate. Credendo che gli egiziani fossero un piccolo distaccamento di razziatori, il re decise di distruggerli egli stesso senza ricorrere alle sue riserve. Aveva con sé a Gerusalemme i suoi amici venuti dall’Occidente, Stefano di Blois, Stefano di Borgogna, il conestabile Corrado, Ugo conte di Lusignano e parecchi cavalieri belgi e propose loro di uscire con la sua cavalleria per liquidare quella faccenda. Stefano di Blois osò insinuare che era un’impresa avventata e che sarebbe stato meglio procedere ad una ricognizione più accurata, ma gli altri, ricordando la sua codardia ad Antiochia, non lo ascoltarono nemmeno. Stefano si unì ai suoi compagni senza fare altre riserve. Re Baldovino parti da Gerusalemme il 17 maggio, con circa cinquecento cavalleggeri che procedevano allegramente e piuttosto in disordine. Baldovino si rese conto del suo errore quando uscirono nella pianura e videro improvvisamente davanti a sé l’enorme esercito egiziano, ma non potevano ormai più tornare indietro. Erano già stati scorti e la cavalleria leggera nemica avanzava al galoppo per tagliar loro la ritirata. Non avevano altra scelta che di gettarsi alla carica impetuosamente contro il nemico. Gli egiziani, credendo dapprima che si trattasse dell’avanguardia di un esercito più numeroso, quasi quasi si ritirarono prima dello scontro, ma quando si avvidero che non giungevano altri distaccamenti serrarono di nuovo le file e fecero impeto contro i franchi. I ranghi del re si spezzarono: pochi cavalieri, condotti da Ruggero di Rozoy e dal cugino di Baldovino, Ugo di Le Bourg, si aprirono un varco attraverso l’esercito egiziano e si misero in salvo a Giaffa; molti, fra i quali Gerardo di Avesnes e l’ex ciambellano di Goffredo, Stabelon, vennero uccisi sul campo; ma re Baldovino ed i suoi compagni più altolocati riuscirono a rifugiarsi nella piccola fortezza di Ramleh, dove vennero circondati dall’esercito nemico. Il cader delle tenebre li salvò da un attacco immediato, ma le difese di Ramleh si trovavano in condizioni pietose: soltanto una torre, costruita da Baldovino l’anno prima, avrebbe forse potuto resistere ed essi vi si ammassarono. Nel mezzo della notte giunse alla porta un arabo e chiese di vedere il re; fu fatto entrare e si scoprì che era il marito della dama verso la quale Baldovino si era dimostrato generoso durante la sua scorreria in Transgiordania. Per gratitudine avverti il re che l’assalto egiziano sarebbe cominciato all’alba e che egli doveva fuggire subito. Per quanto potesse spiacergli di abbandonare i suoi compagni - e non era un uomo con un senso dell’onore molto sviluppato - il re si rese conto che dalla sua propria salvezza dipendeva la conservazione del regno. Scivolò via a cavallo, attraverso le linee nemiche, con un palafreniere e tre altri compagni, fiducioso che la sua Gazzella l’avrebbe portato in salvo. Durante quella stessa notte riuscirono a fuggire, ciascuno per conto suo, Lithard di Cambrai, visconte di Giaffa, e Gothman di Bruxelles. Questi, benché gravemente ferito, riuscì a raggiungere Gerusalemme dove recò notizie del disastro, ma consigliò di resistere poiché credeva che Baldovino fosse ancora in vita.

La mattina seguente, di buon’ora, gli egiziani presero d’assalto le mura di Ramleh ed ammucchiarono delle fascine intorno alla torre in cui si erano rifugiati i cavalieri, ma piuttosto di perire tra le fiamme la cavalleria franca caricò contro il nemico, guidata dal conestabile Corrado. Non c’era possibilità di scampo: tutti quanti vennero abbattuti sul posto o catturati. Il valore di Corrado impressionò talmente gli egiziani che gli risparmiarono la vita e lo inviarono prigioniero in Egitto insieme con più di un centinaio di suoi compagni. Tra gli altri capi, Stefano di Borgogna, Ugo di Lusignano e Goffredo di Vendôme furono uccisi nella battaglia e con loro cadde anche Stefano di Blois che riscattò cosi, con la sua morte gloriosa, la propria riputazione. La contessa Adele poteva ormai dormire contenta10. La regina e la corte si trovavano di nuovo a Giaffa dove Ruggero di Rozoy ed i suoi compagni di fuga li informarono della terribile sconfitta: temevano che il re fosse caduto con tutti i suoi cavalieri e fecero dei progetti di fuggire per mare finché fossero ancora in tempo. Ma il 20 maggio l’esercito egiziano giunse sotto le mura della città mentre la flotta compariva all’orizzonte meridionale. I peggiori timori dei cristiani parvero realizzarsi quando un soldato egiziano agitò davanti a loro una testa che venne riconosciuta come quella del re, ma che in realtà era quella di Gerbod di Winthinc, che gli rassomigliava assai. In quello stesso momento, come per miracolo, si vide una piccola nave avvicinarsi dal nord con il vessillo personale del re spiegato sull’albero maestro. Fuggendo da Ramleh, Baldovino si era diretto verso la costa per tentare di raggiungere l’esercito a Giaffa, ma le truppe egiziane perlustravano la campagna. Per due notti e due giorni egli vagò ai piedi delle colline a nord di Ramleh, poi attraversò in tutta fretta la pianura di Sharon verso Arsuf, dove arrivò la sera del 19, con gran gioia e sorpresa del suo governatore, Ruggero di Haifa. Quella stessa sera lo raggiunsero colà le truppe della Galilea, ottanta cavalieri scelti al comando di Ugo di Saint-Omer, che accorrevano verso sud alla notizia dell’avanzata egiziana. La mattina seguente Ugo si diresse con i suoi uomini verso il meridione, per tentare di aprirsi un varco fino a Giaffa, mentre Baldovino persuadeva un avventuriero inglese di nome Goderico a trasportarlo sulla sua nave attraverso il blocco egiziano. Per dar coraggio alla sua corte Baldovino aveva innalzato il proprio stendardo, i musulmani però se ne accorsero e mandarono subito delle navi per intercettarlo. Ma soffiava un forte vento da nord, il che impedì agli egiziani di levar le ancore, mentre d’altra parte spingeva velocemente Baldovino nel porto. Egli cominciò subito a riorganizzare le sue truppe: prima che gli egiziani avessero interamente circondato la città si aprì un varco per andare incontro alla compagnia di Ugo di Galilea e condurla entro le mura, poi mandò un messo a Gerusalemme per convocare sia di là che da Hebron tutti gli uomini la cui presenza sul posto non fosse indispensabile. Venne trovato un monaco indigeno disposto a portare il messaggio attraverso le linee nemiche; lasciò Giaffa nella notte, ma gli ci vollero tre giorni per giungere a Gerusalemme. Quando recò la conferma che il re era vivo ci furono delle grandi manifestazioni di gioia. Si riunì un distaccamento di circa novanta cavalieri con un gruppo leggermente più numeroso di sottufficiali a cavallo, incoraggiati dalla presenza di un frammento della Vera Croce. Corsero a Giaffa: i cavalieri, meglio armati e con cavalli migliori, si aprirono un varco ed entrarono in città, ma i sergenti furono gettati a mare; abbandonate le loro cavalcature entrarono a nuoto nel porto. Nel frattempo il re scriveva a Tancredi e a Baldovino di Edessa per riferire sulle gravi perdite subite e per chiedere dei rinforzi. Prima che i principi del nord potessero partire giunse un aiuto inatteso: negli ultimi giorni di maggio arrivò nella rada di Giaffa, violando il blocco egiziano con l’aiuto del vento, una flotta di duecento navi in maggioranza inglesi, cariche di soldati e pellegrini provenienti dall’Inghilterra, dalla Francia e dalla Germania, che fornirono a Baldovino gli uomini supplementari di cui aveva

bisogno. Il 27 maggio egli condusse il suo esercito fuori delle mura, contro il nemico. Non si conoscono esattamente i particolari della battaglia; gli egiziani a quanto pare tentarono invano di attirarlo più lontano per poi circondarlo, ed alla fine una carica della cavalleria pesante franca disorganizzò le loro file facendoli fuggire in preda al panico. Dopo poche ore l’intero esercito egiziano era in fuga precipitosa verso Ascalona ed il suo accampamento, con tutto il bottino, si trovava in mani cristiane11. Baldovino ed il suo regno erano stati salvati da una serie di eventi in cui i cristiani, naturalmente, videro la mano di Dio. L’incompetenza strategica degli egiziani non era stato certamente il minore di questi eventi: un piccolo distaccamento del loro esercito avrebbe potuto conquistare Gerusalemme immediatamente dopo la battaglia di Ramleh, senza con ciò indebolire sensibilmente le forze che stavano assediando Giaffa. Ma il visir al-Afdal stava perdendo il controllo della situazione e suo figlio Sharaf era debole e scarsamente obbedito; le rivalità tra i suoi diversi luogotenenti paralizzavano i suoi movimenti. L’estate seguente suo padre inviò una nuova spedizione, per mare e per terra, ma mentre la flotta si dirigeva su Giaffa le truppe di terra rifiutarono di avanzare oltre Ascalona, poiché il mamelucco Taj al-Ajam loro comandante, era invidioso dell’ammiraglio, il cadì Ibn Qadus. Il generale mamelucco venne in seguito gettato in prigione per il suo tradimento, ma il danno era fatto e si era perduta l’occasione più propizia per riconquistare la Palestina12. Quando furono informati della situazione di Gerusalemme, Tancredi e Baldovino di Le Bourg fecero i loro preparativi per partire al più presto verso il sud. Venne con loro Guglielmo d’Aquitania che si trovava ad Antiochia quando era giunta la lettera di re Baldovino. Risalirono tutti insieme la valle dell’Orante, oltrepassarono Homs e ridiscesero il corso superiore del Giordano, talmente numerosi che le locali autorità musulmane non fecero nessun tentativo di ostacolare il loro passaggio; arrivarono in Giudea verso la fine di settembre. In quel momento Baldovino non aveva più un urgente bisogno del loro aiuto, ma la loro presenza gli permise di attaccare l’esercito egiziano ad Ascalona. Le scaramucce furono favorevoli ai cristiani, ma essi non osarono dar l’assalto alla fortezza13. La riunione dei principi franchi fu utile a Baldovino anche per altri motivi. Tancredi aveva avuto l’intenzione di dare il suo aiuto al re fissando egli stesso le condizioni, ma di fatto rese possibile a Baldovino di risolvere il suo più difficile problema di politica interna. Il patriarca lo aveva incoronato il giorno di Natale del 1100, ma lo aveva fatto malvolentieri ed il re lo sapeva. Egli aveva bisogno di controllare la Chiesa perché essa era bene organizzata e perché appunto alla Chiesa, e non alle autorità secolari, venivano offerti donazioni e lasciti dai pii sostenitori d’Occidente. La designazione di Daimberto al patriarcato aveva lasciato molto a desiderare dal punto di vista della legalità e delle proteste in questo senso erano state inviate a Roma. Alla fine papa Pasquale aveva mandato un legato, Maurizio cardinale-vescovo di Porto, per esaminare la situazione. Questi giunse in tempo per la Pasqua del noi e subito Baldovino accusò, davanti a lui, Daimberto di tradimento mostrando la lettera che costui, alla morte di Goffredo, aveva scritto a Boemondo e in cui gli chiedeva di opporsi alla successione di Baldovino anche con la forza se fosse stato necessario; dichiarò inoltre che Daimberto aveva tentato di assassinarlo durante il suo viaggio verso il sud. Anche se quest’ultima accusa era falsa, la lettera invece era indiscutibile. Maurizio proibì a Daimberto di prender parte alle cerimonie pasquali che egli adempì da solo. Il patriarca, temendo per il proprio avvenire, cercò Baldovino e si inginocchiò piangendo davanti a lui implorandone il perdono. Ma il re rimase impassibile finché Daimberto mormorò che possedeva trecento bisanti a cui poteva rinunziare. Baldovino aveva sempre bisogno di denaro in contanti, perciò accettò in gran segreto il dono, poi andò dal legato ad annunziargli magnanimamente che

avrebbe perdonato il patriarca. Maurizio, uomo amante della pace, fu molto soddisfatto di effettuare la riconciliazione14. Pochi mesi più tardi Baldovino ebbe di nuovo bisogno di denaro e si rivolse a Daimberto che gli consegnò duecento marchi, affermando che era tutto ciò che si trovava nelle casseforti del patriarcato. Ma certi ecclesiastici che appartenevano al partito di Arnolfo dissero al re che in realtà Daimberto nascondeva grosse quantità di denaro. Accadde poi che il patriarca offrì un sontuoso banchetto in onore del legato di cui coltivava assiduamente il favore. Baldovino si precipitò tra di loro e pronunciò un’arringa contro il loro modo di vivere nel lusso mentre i soldati della cristianità morivano di fame. Daimberto incollerito rispose che la Chiesa poteva adoperare il proprio denaro a suo piacimento e che il re non aveva nessuna autorità su di essa, mentre Maurizio tentava ansiosamente di calmarli tutti e due. Ma Baldovino non si lasciò ridurre al silenzio: gli studi da prete che aveva fatto in passato gli permettevano di citare il diritto canonico e la sua eloquenza era tale che il cardinale ne rimase impressionato. Convinse Daimberto a promettere di fornire il denaro necessario al mantenimento di un reggimento di cavalleggeri; tuttavia le somme non vennero mai pagate, malgrado le incessanti richieste del re. Nell’autunno del noi giunse un plenipotenziario del principe Ruggero di Puglia con un dono di mille bisanti per il patriarca: un terzo doveva essere devoluto al Santo Sepolcro, un terzo all’Ospedale ed un terzo al re per il suo esercito. Imprudentemente Daimberto tenne tutto per sé. Ma le condizioni del dono erano note e quando il re avanzò una protesta il legato non poté più sostenere il patriarca che venne dichiarato decaduto dalla sua carica. Egli si ritirò a Giaffa dove trascorse l’inverno, poi in marzo proseguì per Antiochia. Il suo vecchio amico Tancredi lo ricevette con piacere e gli affidò la cura della chiesa di San Giorgio, una delle più ricche della città. Nel frattempo Baldovino lasciò che il patriarcato rimanesse vacante, con la scusa di dovere informare Roma; i suoi funzionari spogliarono il tesoro patriarcale e scoprirono che Daimberto aveva nascosto ventimila bisanti. Maurizio fungeva da sostituto, ma la sua salute era stata scossa da questi scandali ed egli morì nella primavera del 110215. Quando nell’autunno Tancredi era venuto nella Palestina meridionale per soccorrere Baldovino, aveva fatto sapere che poneva come condizione la reintegrazione di Daimberto, il quale lo accompagnava. Il re si dimostrò estremamente accomodante, ma essendo giunto in quel momento Roberto, cardinale di Parigi, che era il nuovo legato papale, egli insistette perché la questione venisse regolata da un sinodo, riunito sotto la presidenza di Roberto. Tancredi e Daimberto non poterono rifiutarsi. Un concilio ristabilì temporaneamente quest’ultimo nella sua carica finché si fosse potuto compiere un’investigazione completa. Tancredi quindi uni le sue truppe a quelle del re per la campagna contro Ascalona. Poco dopo si tenne il sinodo nella chiesa del Santo Sepolcro; presiedeva il legato, assistito dai vescovi di Laon e di Piacenza che erano di passaggio, mentre erano presenti tutti i vescovi e gli abati della Palestina, come pure il vescovo di Mamistra, nel territorio di Tancredi. Le accuse contro Daimberto furono sostenute dai prelati di Cesarea, Betlemme e Ramleh, ispirati da Arnolfo di Rohes. Essi dichiararono che, nel suo viaggio verso la Palestina nel 1099, a capo dei suoi pisani, egli aveva attaccato dei correligionari cristiani nelle isole ioniche, aveva cercato di provocare una guerra civile tra re Baldovino ed il principe Boemondo ed aveva tenuto per sé del denaro che gli era stato affidato per il sostentamento dei pellegrini che si trovassero nell’Ospedale e per i soldati di Cristo. Le accuse erano innegabilmente fondate. Il cardinale-legato non ebbe altra scelta che quella di dichiarare Daimberto immeritevole della sua carica e di deporlo. Tancredi non poté sollevare obiezioni contro una procedura cosi conforme alle regole canoniche e dovette accettare la sconfitta. Daimberto lo riaccompagnò ad Antiochia e fu insediato di nuovo nella

chiesa di San Giorgio finché poté trovare un’occasione propizia per tornare a Roma. Si era dimostrato un vecchio corrotto ed avaro e nessuno rimpianse la sua partenza dalla Palestina. La sua designazione a legato era stato l’unico grande errore commesso dal papa Urbano II16. Arnolfo di Rohes, che era stato l’attivo collaboratore di Baldovino in tutta la faccenda, era troppo astuto per cercare di prendere il posto di Daimberto; perciò, quando il legato chiese chi potesse essere candidato al patriarcato, i vescovi palestinesi proposero un vecchio prete di Therouannes, di nome Evremar, che era venuto in Oriente con la prima crociata ed era noto per la sua devozione e la sua carità. Sebbene fosse un compatriota di Arnolfo non aveva partecipato ai suoi intrighi ed era rispettato da tutti. Il legato fu molto contento di consacrare un ecclesiastico cosi irreprensibile e Baldovino ne fu soddisfatto, poiché sapeva che Evremar era un innocuo vecchietto che non avrebbe mai osato prender parte alla vita politica. Nel frattempo Arnolfo poteva continuare ad eseguire i suoi progetti senza impedimenti. Daimberto non si lasciò prendere dalla disperazione ma, quando nel 1105 il suo protettore Boemondo andò in Italia, egli lo accompagnò proseguendo per Roma allo scopo di presentare le sue lagnanze al papa. Pasquale si dimostrò dapprima cauto, ma dopo qualche tentennamento decise di sostenerlo, probabilmente per la nefasta influenza di Boemondo. Baldovino venne richiesto di inviare un suo rappresentante a Roma per rispondere alle accuse di Daimberto, ma il re, senza dubbio perché sapeva che Boemondo era ascoltato dal papa, non prese in considerazione la cosa. Perciò Pasquale annullò la deposizione del patriarca perché, disse, era dovuta all’interferenza dell’autorità civile. Ma, per fortuna, la stoltezza del papa venne corretta dalla mano di Dio: mentre si preparava a partire trionfante per rioccupare il suo trono patriarcale, Daimberto cadde gravemente ammalato. Morì a Messina il 15 giugno 110717. Le difficoltà con il patriarcato non erano ancora terminate: Baldovino non era più soddisfatto di Evremar probabilmente perché si rendeva conto che la Chiesa era un’organizzazione troppo importante per permettere che rimanesse nelle mani di una nullità; egli aveva bisogno che fosse un suo alleato efficiente a dirigerla. Quando Evremar venne informato della nuova designazione ufficiale di Daimberto, parti egli stesso per Roma, ma allorché vi giunse con le sue proprie proteste contro l’autorità civile, scoprì che il suo rivale era morto. Quando le notizie del decesso di Daimberto arrivarono in Palestina, Arnolfo si precipitò a Roma per assumervi il ruolo di rappresentante del re. Pasquale era allora favorevole a Evremar, ma comprese che la questione era più complicata di quanto avesse pensato; l’affidò perciò all’arcivescovo di Arles, Gibelin di Sabran, un ecclesiastico di veneranda età e di grande esperienza. Nella primavera del 1108 costui giunse in Palestina, dove era stato preceduto sia da Arnolfo che da Evremar e si accorse che quest’ultimo non era adatto alla carica e che nessuno desiderava che gli venisse restituita: dichiarò perciò la sede vacante ed indisse un sinodo per designare un successore. Con sua gradita sorpresa, Baldovino propose che egli stesso fosse candidato. Accettò, ed Evremar venne consolato con l’arcivescovato di Cesarea che si era fortunatamente reso vacante. I pettegoli dicevano che Arnolfo avesse persuaso il re a scegliere Gibelin a causa della sua età per cui ben presto il patriarcato sarebbe stato di nuovo vacante. Infatti Gibelin visse soltanto altri quattro anni e, finalmente, alla sua morte Arnolfo fu eletto senza opposizione ad occuparne la cattedra18. Dal punto di vista di Baldovino, Arnolfo era un patriarca ideale che conservò il suo posto malgrado i contrasti avuti più tardi a proposito delle nuove nozze del re e malgrado l’odio di molti dei suoi subordinati. Era senza dubbio corrotto, infatti quando sua nipote Emma contrasse un

vantaggioso matrimonio con Eustachio Garnier, egli le diede in dote una ricca proprietà nei dintorni di Gerico, che apparteneva al Santo Sepolcro; però era attivo, efficiente e devoto al re. Grazie a lui venne definitivamente e completamente abbandonato l’assurdo progetto immaginato dalla maggior parte dei partecipanti alla prima crociata, secondo cui Gerusalemme doveva essere una teocrazia, con un monarca che fungesse semplicemente da ministro della difesa. Egli fece in modo che tutta la Chiesa di Palestina condividesse i suoi punti di vista, deponendo persino i canonici del Santo Sepolcro che Goffredo di Lorena aveva designato perché non si fidava della loro fedeltà. Quando il regno si allargò per le nuove conquiste egli lottò strenuamente per ottenere che la giurisdizione civile e quella ecclesiastica coincidessero, sfidando l’opposizione di papa Pasquale il quale, nella sua disastrosa predilezione per i principi normanni di Antiochia, difendeva i diritti storicamente indiscutibili, ma praticamente irrealizzabili, della sede episcopale antiochena. Arnolfo non era una persona meritevole di grande stima, però era un servitore prezioso per il regno di Gerusalemme. Il grande storico Guglielmo di Tiro esecrava la sua memoria e Io denigrava, ma ingiustamente, perché egli si era molto adoperato per consolidare l’opera della prima crociata19. Ad Arnolfo ed al suo padrone re Baldovino, dev’essere attribuito il merito dei buoni rapporti che si stabilirono tra la gerarchia latina ed i cristiani indigeni. Durante la sua prima elezione al patriarcato nel 1099, Arnolfo aveva cacciato le sette orientali dalla chiesa del Santo Sepolcro e le aveva spogliate dei loro beni, ma Daimberto si era mostrato per loro un nemico ancora peggiore: la sua politica era quella di espellere non soltanto da quella chiesa, ma anche dai loro monasteri e possessi in Gerusalemme, tutti i cristiani indigeni, fossero essi ortodossi, come i greci ed i georgiani, o eretici come gli armeni, i giacobiti ed i nestoriani. Aveva violato inoltre le regole locali di correttezza facendo entrare delle donne per servire nei Luoghi Santi. Per tutte queste enormità, alla vigilia di Pasqua del 1101 si spensero tutte le lampade nella chiesa del Santo Sepolcro ed il Sacro Fuoco non discese dal cielo per riaccenderle finché le cinque comunità spodestate non si furono riunite per pregare insieme che i franchi venissero perdonati. Baldovino imparò la lezione ed insistette perché i torti fatti agli indigeni fossero riparati; le chiavi del Sepolcro furono restituite ai greci. Sembra che da quel momento egli godesse dell’appoggio di tutti i cristiani di Palestina. Il clero più elevato era composto interamente di prelati franchi, sebbene ci fossero dei canonici greci al Santo Sepolcro. Gli indigeni ortodossi accettavano questo stato di cose poiché il loro proprio clero di grado più alto aveva abbandonato il paese negli agitati anni immediatamente precedenti alla crociata. I prelati latini non furono mai amati, ma i monasteri ortodossi locali continuarono ad esistere senza essere ostacolati ed i pellegrini ortodossi che visitavano la Palestina al tempo del regno franco non trovarono nessun motivo per lagnarsi contro le autorità secolari, né per sé, né per conto dei loro fratelli indigeni. Sembra che anche le Chiese eretiche fossero ugualmente soddisfatte. La situazione era molto diversa invece negli Stati franchi della Siria settentrionale, dove sia gli ortodossi che gli eretici consideravano i latini come oppressori20. La sconfitta egiziana a Giaffa nel 1102 ed il fiasco della spedizione della primavera del 1103 non avevano posto fine del tutto agli sforzi di al-Afdal, ma gli ci volle più tempo per raccogliere un nuovo esercito. Baldovino fece uso di questa tregua per rinsaldare il proprio dominio sul litorale marittimo della Palestina. Sebbene egli possedesse le città costiere da Giaffa fino ad Haifa, dei predoni musulmani minacciavano continuamente le strade che le univano l’una all’altra, soprattutto nelle vicinanze delle pendici del Monte Carmelo; persino la via tra Giaffa e Gerusalemme era malsicura, come aveva osservato il pellegrino Saewulf21. Dai porti di Tiro e di Acri, tenuti dagli egiziani, uscivano furtivamente dei pirati per intercettare le navi mercantili cristiane. Nel tardo

autunno del 1102 le imbarcazioni che trasportavano in patria i pellegrini che, nel maggio, con il loro arrivo avevano salvato Baldovino a Giaffa, vennero ricacciate a riva dalle burrasche in diversi punti della costa, alcune vicino ad Ascalona, ed altre tra Tiro e Sidone. Tutti i passeggeri vennero trucidati oppure venduti sui mercati di schiavi in Egitto22. Nella primavera del 1103 Baldovino iniziò l’assedio di Acri, poiché aveva ancora alcune delle navi inglesi per aiutarlo. La guarnigione stava per arrendersi quando arrivarono nel porto dodici galee fatimite ed una grossa nave da trasporto provenienti da Tiro e da Sidone, cariche di uomini e di macchinari per lanciare il fuoco greco. Baldovino fu costretto a levare l’assedio23. Più tardi, nell’estate, il re tentò di ripulire il Monte Carmelo dei briganti, ma ottenne solo un parziale successo poiché in una scaramuccia venne gravemente ferito ai reni e per un certo tempo la sua vita fu in pericolo. Mentre si trovava ammalato a Gerusalemme giunse la notizia della spedizione congiunta di Taj al-Ajam e di Ibn Qadus. Ma il rifiuto del primo di avanzare oltre Ascalona obbligò Ibn Qadus a tentare da solo l’assedio di Giaffa. I suoi sforzi furono inutili e non appena Baldovino si fu abbastanza ristabilito da poter condurre un esercito lungo la costa, la squadra navale egiziana si ritirò24. Nel maggio seguente la flotta genovese di settanta galee che aveva aiutato Raimondo di Tolosa a conquistare Jebail fece vela verso Haifa. Baldovino vi si incontrò con i suoi capi ed ottenne la loro alleanza per sottomettere Acri, in cambio della solita ricompensa di un terzo del bottino, di privilegi commerciali e di un quartiere nel bazar. Gli alleati iniziarono l’assedio il 6 maggio; il comandante fatimita, il mamelucco Bena Zahr ad-Daulah al-Juyushi, oppose un’ostinata resistenza, ma non ricevette nessun aiuto dall’Egitto. Dopo venti giorni offrì di capitolare, a condizioni simili a quelle concesse ad Arsuf : quei cittadini che lo desideravano avrebbero potuto andarsene sani e salvi con i loro beni mobili, gli altri sarebbero diventati sudditi del re franco. Baldovino da parte sua accettò e tenne fede a queste condizioni, permettendo persino che una moschea fosse riservata ai suoi sudditi musulmani, ma i marinai italiani non poterono sopportare la vista di tutte quelle ricchezze che sfuggivano loro. Si gettarono sugli emigranti, trucidandone molti e derubandoli tutti quanti. Baldovino era furibondo: avrebbe attaccato i genovesi per castigarli, se non fosse giunto il patriarca Evremar che riuscì a riconciliarli alla meglio25. Il possesso di Acri diede a Baldovino ciò di cui aveva sentito più acutamente la mancanza: un porto sicuro con qualsiasi tempo. Sebbene si trovasse a più di cento miglia dalla capitale, diventò subito il più importante porto del regno, sostituendo Giaffa e la sua rada aperta. Inoltre era lo scalo principale da cui venivano imbarcate per l’Occidente le mercanzie provenienti da Damasco; la conquista da parte dei franchi non interruppe questo traffico che anche i musulmani ancora residenti in Acri incoraggiavano26. Nella primavera del 1105 il visir al-Afdal fece un ultimo tentativo per riconquistare la Palestina. Al principio di agosto si riunì ad Ascalona un esercito bene equipaggiato di cinquemila cavalleggeri arabi e fanti sudanesi, al comando di suo figlio Sena al-Mulk Husein. Traendo profitto dalle lezioni dei loro precedenti insuccessi, gli egiziani decisero di chiedere la collaborazione dei reggitori turchi di Damasco. Nel 1102 o nel 1103 l’aiuto damasceno avrebbe avuto un valore incalcolabile, ma Duqaq di Damasco era morto nel giugno 1104 e la sua famiglia si disputava l’eredità con il suo atabeg Toghtekin, mentre Ridwan di Aleppo si spingeva verso sud per cercare di ottenerne una parte. Toghtekin collocò dapprima sul trono il figlioletto di Duqaq, Tutush, di un anno, poi lo sostituì con il dodicenne fratello del defunto, Irtash. Questi sospettò ben presto le intenzioni del suo tutore e fuggì nell’Hauran il cui più importante emiro, Aytekin di Bosra, gli concesse asilo. Da Bosra si rivolse a

re Baldovino che lo invitò a Gerusalemme. In queste circostanze Toghtekin era ben contento di aiutare gli egiziani, ma non poteva correre il rischio di privarsi di un grosso distaccamento per mandarlo a raggiungerli. Inviò verso sud il suo generale Sabawa con milletrecento arcieri a cavallo27. In agosto l’esercito egiziano avanzò in Palestina, dove venne raggiunto dalle truppe damascene che erano discese per la Transgiordania e attraverso il Negeb. Baldovino stava aspettando a Giaffa e quando la flotta egiziana apparve all’orizzonte egli prese posizione sull’inevitabile campo di battaglia di Ramleh affidando la città al comando di Lithard di Cambrai, con trecento uomini. Con Baldovino erano presenti il giovane pretendente damasceno, Irtash, e tutte le truppe franche di Palestina, le guarnigioni di Galilea, Haifa ed Hebron come pure l’esercito principale, cinquecento cavalleggeri e duemila fanti. A richiesta di Baldovino, giunse da Gerusalemme il patriarca Evremar con centocinquanta uomini che vi aveva reclutato e con la Vera Croce. La battaglia ebbe luogo la domenica 27 agosto. All’alba il patriarca cavalcò avanti e indietro lungo le linee franche, con i suoi paramenti solenni e la croce in mano, per dare la sua benedizione e l’assoluzione. Poi i franchi attaccarono. Un contrattacco dei turchi di Damasco riuscì quasi a sconvolgere le loro file, ma Baldovino, afferrando egli stesso in mano il proprio stendardo, guidò una carica che li disperse. Gli egiziani combatterono più valorosamente del solito, ma la loro ala sinistra si era allontanata nel vano tentativo di cogliere di sorpresa Haifa e tornò troppo tardi. Verso sera i musulmani erano sconfitti: Sabawa ed i suoi turchi fuggirono verso il proprio territorio e gli egiziani si ritirarono ad Ascalona, da dove il loro comandante, Sena al-Mulk, si affrettò a tornare al Cairo. Le loro perdite erano state gravi, il governatore di Ascalona era stato ucciso e gli ex comandanti di Acri e di Arsuf catturati e riscattati più tardi ad alto prezzo. Fulcherio di Chartres non poté fare a meno di rimpiangere che Sena al-Mulk fosse riuscito a fuggire a causa del ricco riscatto che sarebbe stato possibile ottenere. Ma anche le perdite franche erano gravi e dopo aver saccheggiato l’accampamento nemico Baldovino non inseguì oltre gli egiziani. E non continuò neppure ad appoggiare il giovane principe Irtash che si ritirò sconsolato ad ar-Rahba sull’Eufrate. La flotta egiziana fece vela per tornare in Egitto, senza aver concluso nulla, eccetto la perdita di alcune navi per una tempesta28. La terza battaglia di Ramleh pose fine all’ultimo tentativo compiuto su larga scala dai Fatimiti per riconquistare la Palestina. Ma essi erano ancora pericolosi per i franchi ed un’incursione minore condotta nell’autunno del 1106 riuscì quasi ad ottenere quel successo che era mancato ai loro eserciti più grossi. In quell’ottobre, mentre Baldovino era impegnato sulla frontiera della Galilea, alcune migliaia di cavalleggeri egiziani attaccarono improvvisamente un accampamento di pellegrini tra Giaffa ed Arsuf e massacrarono i suoi occupanti. Poi galopparono su Ramleh che era difesa soltanto da otto cavalieri che vennero sopraffatti facilmente. Il governatore di Giaffa Ruggero di Rozoy uscì per affrontarli, ma cadde in un’imboscata e riuscì a liberarsi soltanto tornando a precipizio nella sua città, inseguito cosi da vicino che quaranta dei suoi fanti vennero chiusi fuori delle porte e trucidati. In seguito gli egiziani si diressero verso Gerusalemme ed attaccarono un piccolo fortilizio, Chastel Arnaud, che Baldovino costruiva per proteggere la strada ma che non era ancora del tutto terminato. Gli operai si arresero, ma vennero uccisi ad eccezione del loro comandante Goffredo, castellano della torre di Davide, che fu portato via per ottenerne in cambio un riscatto. Ma ormai Baldovino era stato informato della scorreria e marciava in forze verso il sud; gli egiziani si ritirarono ad Ascalona29. L’anno seguente un’altra spedizione egiziana riuscì quasi a conquistare Hebron, ma venne

respinta da Baldovino in persona; nel ino essi giunsero fino alle mura di Gerusalemme, ma si ritirarono subito30. Simili scorrerie, su scala minore, ebbero luogo di tanto in tanto nei dieci anni successivi, rendendo la vita malsicura per i coloni e per i pellegrini cristiani nella pianura costiera e nel Negeb, ma diventarono poco più che rappresaglie per le incursioni che Baldovino stesso conduceva in territorio musulmano. Perciò il re si sentì libero di continuare nel suo tentativo di estendere i confini del proprio regno: i suoi obiettivi principali erano le città costiere, Ascalona nel sud e Tiro, Sidone e Beirut nel nord. Sia Ascalona che Tiro erano delle robuste fortezze con una numerosa guarnigione permanente, la cui conquista richiedeva perciò un’accurata preparazione. Nella primavera del 1106 la presenza in Terra Santa di un grosso convoglio di pellegrini inglesi, fiamminghi e danesi indusse Baldovino a progettare una spedizione contro Sidone. Il governatore di questa città, informato del progetto, si affrettò ad inviare al re un’enorme somma di denaro. Baldovino, sempre a corto di soldi, accettò il dono e per due anni Sidone venne lasciata in pace31. Nell’agosto del 1108 Baldovino marciò di nuovo contro Sidone, con l’appoggio di una squadra navale di marinai avventurieri provenienti da diverse città italiane. Il governatore si assicurò immediatamente, per trentamila bisanti, l’aiuto dei turchi di Damasco mentre una poderosa squadra egiziana salpava dall’Africa e sconfiggeva gli italiani in una battaglia navale davanti al porto. Baldovino fu costretto a levare l’assedio ma gli abitanti di Sidone non permisero ai turchi di penetrare in città temendo, non senza ragione, che Toghtekin avesse delle mire su di essa. Il governatore rifiutò persino di pagare i bisanti promessi. I turchi allora minacciarono di richiamare indietro Baldovino, ma quando egli fece l’atto di tornare, essi acconsentirono a ritirarsi dopo aver ricevuto come compenso novemila bisanti32. L’estate seguente Baldovino aiutò Bertrando di Tolosa a conquistare Tripoli ed in cambio, al principio del ino, questi inviò degli uomini a collaborare con il re per attaccare Beirut. C’erano a portata di mano delle navi genovesi e pisane per bloccare la città e Tripoli forniva loro una base adatta. Navi fatimite provenienti da Tiro e da Sidone tentarono invano di violare il blocco. L’assedio durò da febbraio fino a metà maggio, quando il governatore, non avendo più speranza di ottenere altri aiuti, fuggì di notte sgusciando tra le navi italiane ed arrivò a Cipro dove si costituì al governatore bizantino. La città che egli aveva abbandonato venne presa d’assalto il 13 maggio. Gli italiani perpetrarono un massacro generale degli abitanti prima che Baldovino potesse ristabilire l’ordine33. Durante quell’estate giunsero al re altri rinforzi navali provenienti dall’Occidente. Nel 1107 una flotta salpò da Bergen, in Norvegia, agli ordini di Sigurd, che condivideva con i suoi due fratelli il trono norvegese. Dopo aver navigato attraverso il Mare del Nord e doppiato Gibilterra, fermandosi durante il viaggio in Inghilterra, Castiglia, Portogallo, nelle Baleari e in Sicilia, essa giunse ad Acri proprio quando Baldovino stava tornando dall’aver conquistato Beirut. Sigurd era la prima testa coronata che visitava il regno ed il sovrano lo ricevette con grandi onori, accompagnandolo personalmente fino a Gerusalemme. Il re norvegese acconsentì ad aiutare i franchi ad attaccare Sidone e gli alleati iniziarono l’assedio in ottobre. La città si difese vigorosamente; le navi norvegesi furono quasi disperse da una potente flotta fatimita giunta da Tiro, ma vennero salvate dall’arrivo di una squadra veneziana comandata dal doge in persona, Ordelafo Falier. Nel frattempo il governatore di Sidone escogitò un piano per l’assassinio di Baldovino: un musulmano rinnegato, addetto al servizio personale del re, accettò di commettere il delitto per una grossa somma di denaro. Ma i cristiani indigeni di Sidone vennero a sapere del complotto e lanciarono nell’accampamento franco una freccia con un messaggio per mettere in guardia il sovrano. Sidone capitolò finalmente il 4

dicembre alle stesse condizioni che erano state concesse ad Acri; i notabili della città partirono per Damasco con tutti i loro beni, ma la popolazione più povera rimase; essi diventarono sudditi del re franco che subito impose loro una tassa di ventimila bisanti d’oro. I veneziani vennero ricompensati con il dono di una chiesa e di alcune proprietà in Acri. Sidone fu data in feudo ad Eustachio Garnier, che era già governatore di Cesarea e che poco dopo consolidò la propria posizione mediante il suo matrimonio politico con la nipote del patriarca Arnolfo, Emma34. I franchi controllavano cosi l’intera costa siriana, ad eccezione di Ascalona al limite meridionale e di Tiro al centro. Il governatore di quest’ultima città cominciava ad essere inquieto. Nell’autunno del un mandò a chiedere a Toghtekin di Damasco di cedergli in affitto un corpo di cinquecento arcieri per la somma di ventimila bisanti ed allo stesso tempo domandò per sé e per i suoi notabili il permesso di inviare a Damasco i loro beni più preziosi perché vi fossero custoditi. Toghtekin acconsentì; ed una ricca carovana, carica di denari e di oggetti di valore, parti dalla costa. Poiché doveva attraversare il paese occupato dai franchi il governatore di Tiro corruppe un cavaliere franco di nome Rainfredo perché la guidasse e ne garantisse la sicurezza. Questi accettò l’offerta ma ne informò subito Baldovino che si gettò sui tirii che non sospettavano di nulla e li derubò di tutte le loro ricchezze. Incoraggiato da questa fortuna inaspettata, alla fine di novembre Baldovino condusse tutto il suo esercito ad attaccare le mura della città. Ma non aveva nessuna flotta che lo aiutasse, eccetto dodici vascelli di Bisanzio al comando dell’ambasciatore di quel governo, Butumites, però i bizantini non erano disposti ad intraprendere un’azione ostile contro i Fatimiti, con i quali erano in buoni rapporti, a meno di ricevere una cospicua ricompensa. Essi chiesero che il re, a sua volta, li aiutasse a riconquistare le città che avevano perduto ad opera dei principi di Antiochia. Poiché Baldovino esitava ad impegnarsi, i bizantini non fecero nulla più che rifornire di provviste l’esercito franco. L’assedio di Tiro durò fino all’aprile seguente. I suoi abitanti si difesero bene, riuscendo ad incendiare le enormi torri da assedio di legno che Baldovino aveva costruito, ma infine furono costretti a chiedere aiuto a Toghtekin. Prima di intraprendere questo passo, Izz al-Mulk scrisse alla corte egiziana per giustificare la sua azione. Il primo tentativo di Toghtekin di stabilire un contatto fallì poiché un colombo viaggiatore era stato intercettato da un arabo al servizio dei franchi. I suoi compagni cristiani volevano lasciar libero l’uccello ma egli lo portò a Baldovino. Dei soldati travestiti vennero inviati incontro agli ambasciatori damasceni che furono catturati e messi a morte. Nondimeno Toghtekin avanzò su Tiro, dove sorprese un gruppo di foraggiatoli cristiani ed assediò i franchi nel loro accampamento, occupandosi in pari tempo di razziare la campagna. Baldovino fu costretto a levare l’assedio e ad aprirsi un varco verso Acri combattendo35. Non ebbe maggior fortuna ad Ascalona: egli aveva investito la fortezza subito dopo la conquista di Sidone. Il governatore della città, Shams al-Khilafa, preoccupato per il commercio era stanco di tutte quelle battaglie ed ottenne un armistizio a cambio di una somma di denaro che tentò poi di raccogliere imponendo tasse alla popolazione di Tiro che si trovava sotto la sua giurisdizione. Queste manovre vennero risapute in Egitto e al-Afdal inviò delle truppe fedeli con ordine di deporlo. Shams al-Khilafa, subodorando quali fossero i loro propositi, non volle lasciarle entrare in città ed anzi licenziò persino certi suoi soldati che sospettava di simpatie per i Fatimiti, sostituendoli con dei mercenari armeni; poi andò a Gerusalemme per porre la propria persona e la sua città sotto la protezione di Baldovino. Tornò con trecento soldati franchi che insediò nella cittadella, ma questo tradimento scandalizzò gli abitanti di Ascalona i quali, nel luglio del 1111, aiutati da emissari egiziani, organizzarono un colpo di Stato, assassinando Shams e massacrando i franchi. Baldovino si affrettò a venire in soccorso dei suoi uomini, ma giunse troppo tardi. Ascalona doveva rimanere una

spina nel cuore dei franchi per altri quarant’anni36. Nella primavera del 11 io era fallito un analogo tentativo di stabilire un protettorato su Baalbek, con l’aiuto del governatore, l’eunuco al-Taj Gumushtekin. Toghtekin, informato del complotto, sostituì Gumushtekin con il proprio figlio Taj al-Mulk Buri37. La principale preoccupazione di Baldovino era stata quella di assicurare al suo regno un’adeguata linea costiera, ma egli era anche interessato a dargli delle frontiere terrestri convenienti e ad approfittare in pari tempo di tutti i vantaggi offertigli dalla sua vicinanza alle grandi strade commerciali arabe che si dirigevano dall’Iraq e dall’Arabia al Mediterraneo ed all’Egitto. Quando Tancredi aveva lasciato la Palestina per Antiochia, Baldovino aveva affidato il principato di Galilea (che conservava il magniloquente nome datogli da Tancredi) a colui che era stato suo vicino in Francia, Ugo di Saint-Omer, incoraggiandolo a condurre una politica aggressiva contro i musulmani. Come primo atto di governo Ugo costruì nelle montagne, sulla strada che unisce Tiro e Banyas con Damasco, un castello chiamato Toron, il Tibnin di oggi; costruì poi un altro castello, chiamato dagli arabi al-Al, sulle colline a sud-ovest del lago, per poter meglio condurre delle incursioni nelle ricche terre ad oriente del Mar di Galilea. Queste due fortezze furono terminate nell’autunno del 1105, ma la seconda non rimase a lungo nelle mani dei cristiani: Toghtekin di Damasco non poteva tollerare una tale minaccia contro il suo territorio. Alla fine dell’anno, mentre Ugo carico di bottino per una fortunata scorreria stava tornando ad al-Al, l’esercito damasceno si gettò su di lui. Nella battaglia egli fu ferito a morte ed i suoi uomini vennero dispersi e Toghtekin fu cosi in grado di occupare il castello senza difficoltà. Il fratello di Ugo, Gerardo di Saint-Omer, che a quel tempo era gravemente ammalato, non gli sopravvisse a lungo; perciò Baldovino diede il feudo di Galilea ad un cavaliere francese, Gervasio di Basoches38. La guerriglia continuava; nel 1106 i tirii fecero un’incursione contro Toron, in concomitanza con una scorreria damascena contro Tiberiade, ma nessuna delle due ebbe successo; anzi, all’avvicinarsi di Baldovino, gli uomini di Damasco inviarono dei messi al suo accampamento per negoziare un breve armistizio. La munificenza e la cortesia con cui egli ricevette i loro inviati contribuirono molto ad accrescere la sua fama tra i musulmani. Ma la tregua fu di breve durata39. Nella primavera del 1108 Toghtekin predò nuovamente la Galilea ed in una battaglia avvenuta nei dintorni di Tiberiade riuscì a catturare Gervasio di Basoches, insieme con la maggior parte del suo stato maggiore. Poi mandò a dire a Baldovino che il prezzo per la loro liberazione consisteva nelle tre città di Tiberiade, Acri e Haifa. Quando il re rifiutò l’offerta, Gervasio venne messo a morte ed il suo cranio, con i bianchi capelli ondeggianti fu portato su un palo alla testa del vittorioso esercito musulmano40. Allora Baldovino restituì il titolo di principe di Galilea a Tancredi, ma è probabile che amministrasse il principato da Gerusalemme. Dopo la morte di Tancredi, quando nel 1113 Baldovino di Edessa bandi Jocelin di Courtenay dalla sua contea, l’esule venne compensato dal re con la Galilea41. Baldovino e Toghtekin avevano entrambi i loro interessi principali in altre zone perciò, alla fine del 1108, si accordarono per una tregua di dieci anni, spartendosi le rendite dei distretti di Sawad e di Ajlun, cioè della Transgiordania settentrionale. Un terzo doveva andare a Baldovino, un terzo a Toghtekin ed il resto rimanere per le autorità locali 42. I motivi della tregua furono probabilmente di natura commerciale: le scorrerie stavano rovinando il traffico che transitava per la regione e tutti quanti avrebbero tratto vantaggio dalla sua ripresa. La tregua era solamente locale, infatti non trattenne Toghtekin dall’accorrere in aiuto delle città costiere musulmane, né impedì a Baldovino di

tentare di trasformare Baalbek in una città vassalla. Ma gli storici arabi sottolineano con gratitudine come, grazie ad essa, Baldovino non invase il territorio damasceno quando la sconfitta di Toghtekin ad Arqa, per mano di Guglielmo-Giordano, gliene avrebbe offerto una vantaggiosa occasione 43. Il desiderio di tregua può essere sorto in Baldovino a motivo della sconfitta di Gervasio e del conseguente pericolo di scorrerie nemiche in Galilea provenienti dalla Transgiordania; nei musulmani quel desiderio fece seguito a due recenti incursioni, una condotta da un pellegrino appena giunto in Palestina, Guglielmo Cliton, figlio di Roberto di Normandia, contro una ricca principessa araba che stava viaggiando dall’Arabia a Damasco con tutti i suoi beni, e l’altra contro una carovana mercantile diretta da Damasco all’Egitto. La prima volta i franchi si impadronirono di quattromila cammelli e la seconda di tutte le mercanzie della carovana, i cui superstiti vennero trucidati più tardi dai beduini44. Il trattato venne rotto nel 1113 quando Baldovino invase il territorio damasceno 45. Dal 1111, ossia dopo il suo scacco davanti a Tiro, Baldovino dovette occuparsi per un certo tempo dei problemi della Siria settentrionale. A Tripoli, nel 1109, aveva già fatto capire chiaramente la propria intenzione di essere il supremo signore di tutto l’Oriente franco e gli avvenimenti di Antiochia e di Edessa gli rendevano possibile di riaffermare le sue pretese46. Poté pure volgere, ancora una volta, l’attenzione all’ingrandimento del suo proprio territorio. Egli si era sempre reso conto che, attraverso il Negeb, la Palestina era aperta alle invasioni ed infiltrazioni provenienti da sud-est e che era necessario controllare la regione tra il Mar Morto ed il golfo di Akaba per tagliare le comunicazioni tra l’Egitto ed il mondo musulmano orientale. Nel 1107, per invito dei beduini del luogo, Toghtekin aveva inviato un esercito damasceno fino ad Edom, per stabilire una base da cui poter predare la Giudea. Il deserto dell’Idumea conteneva parecchi monasteri greci ed uno dei monaci, un certo Teodoro, esortò Baldovino ad intervenire. Questi avanzò fino all’accampamento turco nel uadi Musa, vicino a Petra, ma desiderava evitare una battaglia. Perciò Teodoro si offrì di fingersi un fuggiasco e di andare dal generale di Toghtekin per avvertirlo che un enorme esercito franco si trovava nelle vicinanze. I turchi si allarmarono e si ritirarono in gran fretta a Damasco. Allora Baldovino punì i beduini affumicando le caverne in cui vivevano per obbligarli ad uscire e portandosi via le loro greggi. Quando tornò verso nord condusse con sé molti dei cristiani indigeni che temevano rappresaglie da parte dei nomadi47. Baldovino tornò nella regione dell’Idumea e decise di occuparla in modo permanente. Scendendo da Hebron intorno all’estremità del Mar Morto ed attraverso l’arida valle del uadi ai-Araba che da quel lago si dirige verso il golfo di Akaba, egli giunse ad uno dei pochi luoghi fertili di quella squallida regione, Shobak, su una catena boscosa tra la depressione ed il deserto arabo. Quivi, a circa cento miglia dal più vicino stabilimento franco, egli costruì un grande castello in cui lasciò una guarnigione, ben fornita di armi, ed a cui diede il nome di La Montagna Reale, le Krak de Montreal. L’anno seguente, alla testa del suo esercito e con un lungo seguito di muli che trasportavano provviste, egli si spinse ancor più avanti nell’Arabia sconosciuta. Visitò di nuovo Montreal e proseguì verso sud, finché alla fine i suoi stanchi soldati raggiunsero le sponde del Mar Rosso, ad Akaba. Quivi fecero fare il bagno nel mare ai loro cavalli e pescarono i pesci che rendono famose quelle acque. Gli abitanti del luogo, terrorizzati, presero le loro imbarcazioni e fuggirono: Baldovino occupò la città, chiamata dai franchi Aila o Elyn, e la fortificò con una cittadella. Poi compì la traversata fino alla piccola isola, la Jesirat Farun, che i latini chiamavano Le Graye, dove costruì un secondo castello; nelle due piazzeforti vennero lasciate delle guarnigioni. Grazie a queste fortezze i franchi potevano ormai dominare le strade che conducevano da Damasco in Arabia ed in Egitto. Potevano predare a loro agio le carovane e rendere difficile a qualunque esercito musulmano

proveniente dall’Oriente di raggiungere l’Egitto48. Di ritorno dalle spiagge del Mar Rosso, Baldovino marciò di nuovo contro Tiro, ma si accontentò di stabilire un rigido blocco della città isolandola dalla terraferma. A questo scopo costruì un castello a Scandelion, nel punto dove la strada costiera comincia ad arrampicarsi su per il fianco della rupe verso il passo noto come la Scala di Tiro 49. Sidone controllava già l’accesso alla città dal nord ed il castello di Toron da est: Scandelion ne completava l’accerchiamento. Incoraggiato dai suoi successi, nel 1118 Baldovino intraprese una spedizione più audace. Negli ultimi tempi gli eserciti fatimiti avevano condotto per due volte delle fortunate scorrerie nel suo territorio partendo da Ascalona: nel 1113, mentre egli era impegnato contro i turchi nel nord, essi si erano spinti fino alle mura di Gerusalemme, saccheggiando ogni cosa sul loro cammino; e nel 1115 erano quasi riusciti a cogliere di sorpresa Giaffa. Baldovino rispondeva ora invadendo l’Egitto stesso. Al principio di marzo, dopo accurate trattative con gli sceicchi delle tribù del deserto, egli condusse un piccolo esercito di duecentosedici cavalleggeri e quattrocento fanti, ben riforniti di provviste, da Hebron, attraverso la penisola del Sinai, fino a Farama sulla costa mediterranea, parecchio all’interno dei confini egiziani, vicino alla foce del ramo pelusiano del Nilo. Egli si preparò all’assalto della città, ma la guarnigione, colta dal panico, era fuggita; proseguì fino al Nilo ed i suoi uomini rimasero a bocca aperta a guardare il famosissimo fiume. Ma quivi una gravissima malattia lo colpi ed egli si ritirò moribondo verso la Palestina50. Con le sue instancabili campagne e l’uso oculato di ogni occasione favorevole re Baldovino aveva trasformato i territori ereditati in un forte Stato che comprendeva l’intera provincia storica della Palestina. Soltanto Tiro ed Ascalona rimanevano ancora fuori del suo possesso, ma egli dominava il paese da Beirut, nel nord, a Beersheba nel sud, con il Giordano come frontiera orientale e con avamposti nel lontano sud-est per controllare l’accesso dall’Arabia. I suoi correligionari cristiani dell’Oriente franco riconoscevano la sua egemonia ed egli si era guadagnato il rispetto dei suoi vicini musulmani. La sua opera garantiva che non sarebbe stato facile distruggere il regno di Gerusalemme. Dell’amministrazione interna del suo regno abbiamo pochissime testimonianze: era grosso modo di tipo feudale, ma Baldovino tenne la maggior parte del paese direttamente alle proprie dipendenze, nominando dei visconti come suoi rappresentanti. Perfino il più grande dei feudi, il principato di Galilea, rimase per alcuni anni senza un feudatario. I feudi non erano ancora considerati ereditari. Quando Ugo di Saint-Omer venne ucciso, si pensò che suo fratello Gerardo avrebbe assunto la successione del principato se la sua salute glielo avesse concesso, ma il suo diritto non era assoluto. Baldovino stesso sviluppò una rozza costituzione per il suo regno: egli governava per mezzo di un’amministrazione che stava aumentando di mole, ed i suoi feudatari avevano ciascuno la propria. Si devono a Baldovino gli accordi con gli italiani residenti nei porti di mare; questi non erano costretti a partecipare a campagne militari, ma dovevano prendere parte alla difesa navale delle loro località51. Baldovino aveva fatto capire chiaramente che intendeva controllare la Chiesa, ma una volta sicuro del suo appoggio egli la trattò generosamente regalandole con liberalità terre conquistate agli infedeli. In una certa misura la sua generosità era erronea, poiché la Chiesa era dispensata dall’obbligo di fornire dei soldati; d’altro canto egli si aspettava che essa gli procurasse del denaro. Parecchi fatti mostrano che Baldovino era popolare presso i cristiani indigeni. Fin dall’episodio successo a Pasqua del noi, egli era stato attento a non offenderne le suscettibilità. Nei suoi tribunali essi avevano il permesso di adoperare la loro lingua e di seguire le loro proprie consuetudini e la

Chiesa non aveva diritto di interferire nelle loro pratiche religiose. Negli ultimi anni del suo regno egli incoraggiò l’immigrazione di cristiani, sia eretici che ortodossi, dai paesi vicini governati dai musulmani: aveva bisogno di una laboriosa popolazione contadina che occupasse le campagne della Giudea rimaste abbandonate dopo la partenza dei maomettani. Favori i matrimoni tra i franchi e gli indigeni, di cui egli stesso aveva dato l’esempio. Pochissimi nobili scelsero delle spose del luogo, ma la consuetudine diventò generale tra i soldati ed i coloni franchi più poveri. I loro figli di sangue misto dovevano più tardi fornire al regno la maggior parte dei suoi soldati52. Baldovino si mostrava ugualmente affabile verso i musulmani e gli ebrei che acconsentivano a diventare suoi sudditi: erano permesse alcune moschee ed alcune sinagoghe; nei tribunali i maomettani potevano giurare sul Corano e gli ebrei sulla Torah e le parti in causa infedeli potevano essere certe di ottenere giustizia53; erano permessi i matrimoni misti con i musulmani. Nel 1114 il patriarca Arnolfo venne severamente rimproverato da papa Pasquale per aver celebrato una cerimonia nuziale tra un cristiano ed una nobildonna maomettana54. In ciò papa Pasquale mostrava una volta ancora la sua incapacità di comprendere l’Oriente; infatti, se i franchi dovevano riuscire a sopravvivere in quei paesi, non bisognava che rimanessero una minoranza estranea, ma che diventassero parte integrante del mondo locale. Il cappellano di Baldovino, Fulcherio di Chartres, in un lirico capitolo della sua storia sottolinea l’opera miracolosa di Dio che trasforma degli occidentali in orientali: gli sembrava straordinario che quelle due razze si mescolassero, poiché vi vedeva un passo verso l’unione di tutte le nazioni. Durante tutta l’esistenza degli Stati crociati si ripete sempre la stessa storia: tra i franchi d’Oriente gli uomini di Stato più saggi seguivano la tradizione di Baldovino, adottando gli usi indigeni e stabilendo delle amicizie e delle alleanze locali, mentre i nuovi arrivati dall’Occidente recavano con sé le loro idee scioviniste che erano disastrose per il paese. Il re aveva già offeso il papa quando le conquiste fatte lungo le coste siriane l’avevano reso padrone di certe città, specialmente Sidone e Beirut, le cui chiese appartenevano storicamente al patriarca di Antiochia. Una retta amministrazione del regno richiedeva che esse fossero trasferite sotto la giurisdizione del patriarca di Gerusalemme ciò che Baldovino fece. Il patriarca di Antiochia, Bernardo, protestò con il papa contro un atto cosi poco conforme ai canoni. Nel ino Pasquale aveva informato Gerusalemme che, essendo mutate le circostanze, si potevano considerare superati i rapporti tradizionali tra le diocesi: nel 1112, però, con la sua abituale mancanza di fermezza, cambiò parere ed appoggiò le pretese di Antiochia. Baldovino tranquillamente ignorò la nuova decisione del papa e malgrado un petulante rimbrotto di Pasquale i vescovati rimasero sotto il patriarcato di Gerusalemme55. Baldovino però commise una grave scorrettezza nella questione del proprio matrimonio. Egli non si era mai curato molto della sua sposa armena dal giorno in cui il padre di lei, terrorizzato dal suo spietato genero, se ne era andato improvvisamente con la dote che le aveva promesso. Baldovino si dedicava volentieri alle avventure amorose, ma era discreto e la presenza di una regina a corte gli impediva di indulgere ai suoi piaceri. Anche la regina aveva una reputazione di leggerezza e si diceva che, quando era stata in viaggio da Antiochia per andare ad occupare il trono a Gerusalemme, avesse concesso i suoi favori persino a dei pirati musulmani. Non c’erano bambini che potessero tenere unita la coppia reale. Dopo pochi anni, quando ormai quel matrimonio non offriva più il ben che minimo vantaggio politico, Baldovino mandò via la consorte dalla corte accusandola di adulterio e la costrinse ad entrare nel convento di Sant’Anna di Gerusalemme, a cui diede ricchi doni per tacitare la propria coscienza. Ma la regina non aveva nessuna vocazione per la vita monastica: ben

presto chiese ed ottenne il permesso di ritirarsi a Costantinopoli dove vivevano i suoi genitori da quando i franchi li avevano cacciati da Marash. Quivi abbandonò il suo abito monastico e si dedicò al godimento di tutti i piaceri che la grande città poteva offrirle56. Nel frattempo Baldovino si rallegrava di poter di nuovo condurre una vita da scapolo. Ma aveva sempre bisogno di denaro; e nell’inverno del 1112 apprese che la più desiderabile vedova d’Europa stava cercando un marito. Adelaide di Salona, contessa-madre di Sicilia, si era appena ritirata dalla reggenza della sua contea poiché il suo giovane figlio Ruggero II era diventato maggiorenne. Ella era immensamente ricca e si sentiva attratta da un titolo regale. Era conveniente per Baldovino non soltanto per la sua dote, ma anche per la sua influenza sui normanni di Sicilia, la cui alleanza avrebbe contribuito a dargli il potere marittimo ed avrebbe agito come contrappeso nei riguardi dei normanni di Antiochia. Egli fece chiedere la sua mano e la contessa accettò dopo aver imposto le proprie condizioni. Baldovino non aveva figli, infatti i bambini della sua prima moglie erano morti in Anatolia durante la prima crociata e la sua consorte armena non gliene aveva dato alcuno. Adelaide insistette che, se nessun bambino fosse nato dal suo matrimonio con Baldovino (e l’età degli sposi lasciava poche speranze), la corona di Gerusalemme passasse al di lei figlio, il conte Ruggero. Si fece il contratto e nell’estate del 1113 la contessa parti dalla Sicilia con un fasto ed una pompa quali non si erano più visti sul Mediterraneo dal tempo in cui Cleopatra era salpata per il Cidno per incontrarvi Marc’ Antonio. Ella giaceva su un tappeto di filo d’oro, nella sua galea che aveva la prua placcata d’oro e d’argento. L’accompagnavano due altre triremi con le prore adornate allo stesso modo, su cui si trovava la sua scorta militare nella quale si distinguevano i soldati arabi della guardia del corpo di suo figlio, con le loro facce scure che risaltavano contro il bianco immacolato dei loro abiti. Altre sette navi seguivano nella sua scia, con le stive cariche di tutto il suo tesoro personale. Ella sbarcò in agosto ad Acri dove re Baldovino le venne incontro con tutto il lusso che il suo regno poteva fornire. Egli e tutta la sua corte erano vestiti di preziose sete ed i loro cavalli ed i loro muli erano bardati di porpora e d’oro. Nelle vie vennero collocati costosi tappeti e dalle finestre e dai balconi svolazzavano stendardi purpurei. Le città ed i villaggi lungo la strada fino a Gerusalemme offrivano analogo spettacolo di eleganza. Tutto il paese si rallegrò, non tanto per l’arrivo della sua nuova matura sovrana, quanto per la ricchezza che essa portava al proprio seguito57. Malgrado un inizio cosi splendido il matrimonio non fu felice. Baldovino si fece consegnare immediatamente la dote della regina e la spese per pagare il soldo arretrato che da tempo doveva alle sue truppe e per costruire opere di fortificazione; ed il denaro che entrò cosi in circolazione arricchì il commercio del paese. Ma l’effetto svani ben presto e diventarono più visibili gli svantaggi di quel matrimonio. La gente pia si ricordò che Baldovino non aveva mai divorziato legalmente dalla sua moglie precedente e venne scandalizzata dal fatto che il patriarca Arnolfo avesse celebrato cosi di buon grado un rito che in realtà sanzionava un atto di bigamia; ed i molti nemici di Arnolfo approfittarono subito di questa irregolarità. Il loro attacco sarebbe stato meno efficace se i sudditi di Baldovino non fossero stati tutti adirati quando scoprirono che egli si proponeva di disporre della successione del regno senza consultare il suo Consiglio. Si rovesciò su Roma una pioggia di proteste contro Arnolfo. Un anno dopo il matrimonio reale, giunse a Gerusalemme un legato papale, Berengario, vescovo di Orange. Quando questi scoprì che, oltre alle accuse di simonia contro il patriarca, v’era la certezza che egli avesse permesso e benedetto un’unione adulterina, convocò in un sinodo i vescovi e gli abati del patriarcato e dichiarò Arnolfo deposto. Ma non ci si poteva liberare di lui cosi facilmente: egli fece in modo che non venisse designato nessun successore e nell’inverno

del 1115 parti per Roma. Quivi fece uso di tutto il suo persuasivo fascino sul papa e sui cardinali, le cui simpatie vennero rafforzate dai doni molto opportuni che egli fece loro. Pasquale si lasciò influenzare dal deposto patriarca ed annullò la decisione del proprio legato. Arnolfo, tuttavia, fece una concessione: promise di ordinare al re di ripudiare la sua consorte siciliana. A queste condizioni, non soltanto il papa dichiarò che la deposizione di Arnolfo era nulla, ma gli donò egli stesso il pallio, ponendolo cosi in una situazione che non lasciava adito a dubbi. Nell’estate del 1116 Arnolfo tornò trionfante a Gerusalemme58. La concessione era stata fatta volentieri, poiché Arnolfo sapeva che Baldovino era ormai abbastanza spiacente del suo matrimonio, dato che la dote di Adelaide era stata spesa; e lei, dal canto suo, abituata ai lussi del palazzo di Palermo, non trovava di suo gradimento le scomodità del Tempio di Salomone a Gerusalemme. Ma il re esitava poiché non desiderava rinunciare ai vantaggi dell’alleanza con i siciliani. Resistette alle richieste di Arnolfo finché nel marzo del 1117 cadde gravemente ammalato. Di fronte alla morte prestò ascolto ai suoi confessori che gli dicevano che stava morendo in stato di peccato: doveva congedare Adelaide e richiamare al suo fianco la sua precedente moglie. Egli non poté adempiere a tutti i loro desideri poiché la sua ex consorte non era disposta ad abbandonare Costantinopoli di cui godeva cosi largamente i piaceri galanti, ma quando egli ebbe riacquistato la salute, annunziò l’annullamento del matrimonio con Adelaide. Costei riparti adiratissima, spogliata delle sue ricchezze e quasi senza scorta, per la Sicilia. Era un insulto che la corte siciliana non perdonò mai: ci volle molto tempo prima che il regno di Gerusalemme ricevesse qualche aiuto o qualche simpatia dalla Sicilia59. Il 16 giugno 1117 ci fu un’eclisse di luna ed un’altra ebbe luogo l’u dicembre; cinque notti più tardi brillò nel cielo della Palestina il raro fenomeno dell’aurora boreale: era un terribile portento che presagiva la morte di importanti personaggi60. E non mentiva. Il 21 gennaio 1118 moriva a Roma papa Pasquale61. Il 16 aprile l’ex regina Adelaide terminava in Sicilia la sua esistenza nell’umiliazione62. Il suo falso amico, il patriarca Arnolfo, le sopravvisse soltanto di dodici giorni63. Il 5 aprile vide la morte del sultano Mohammed, avvenuta in Iran64. Il 6 agosto moriva a Bagdad il califfo Mustazhir65. Il 15 agosto moriva a Costantinopoli, dopo una lunga e dolorosa malattia, il più grande dei sovrani orientali, l’imperatore Alessio 66. All’inizio della primavera re Baldovino tornò dall’Egitto colpito da febbri; il suo corpo logorato, sottoposto a sforzi eccessivi, non aveva più nessuna resistenza. I suoi soldati lo riportarono indietro, ormai morente, fino al piccolo forte di frontiera di el-Arish. Quivi, appena oltrepassati i confini del regno che gli doveva la sua esistenza, egli moriva il 2 aprile nelle braccia del vescovo di Ramleh. Il suo cadavere venne trasportato a Gerusalemme e la Domenica delle Palme, 7 aprile, fu sepolto a fianco di suo fratello Goffredo, nella chiesa del Santo Sepolcro67. Sia i franchi che i cristiani indigeni accompagnarono con grandi lamenti il corteo funebre e perfino i saraceni di passaggio erano commossi. Era stato un grande re, duro e senza scrupoli, non amato ma profondamente rispettato per la sua energia, per la sua preveggenza, per l’ordine e la giustizia del suo governo. Aveva ereditato un reame fragile e malsicuro, ma con il suo vigore marziale, la sua abilità diplomatica e la sua saggia tolleranza gli aveva dato un posto rispettato in mezzo ai regni dell’Oriente.

Capitolo sesto Equilibrio nel nord

... combatteranno il fratello contro il fratello, il vicino contro il vicino... Isaia, XIX, 2

Alcuni anni prima di morire re Baldovino I aveva raggiunto la posizione di capo indiscusso dei franchi d’Oriente. Non era stata un’impresa facile ed egli ci era riuscito sfruttando con astuzia le circostanze. La cattura ad Harran di Baldovino di Le Bourg e di Jocelin di Courtenay e la partenza di Boemondo per l’Occidente avevano lasciato Tancredi senza rivali tra i franchi della Siria settentrionale, mentre i dissensi tra i musulmani gli avevano permesso di approfittare largamente delle occasioni favorevoli. L’Impero selgiuchida stava disgregandosi, non tanto per pressioni esterne quanto per i litigi dei suoi principi. La vittoria ottenuta a Harran aveva dato a Jekermish, atabeg di Mosul, la preminenza tra i magnati turchi della Siria del nord e dello Jezireh; il disastroso fallimento del suo tentativo di continuare l’offensiva contro i franchi non ne aveva indebolito la posizione tra i suoi correligionari musulmani. Il suo ex alleato e rivale, l’ortoqida Soqman di Mardin, era morto al principio del 1105, mentre si trovava in viaggio per andare ad aiutare Tripoli assediata, lasciando suo fratello Ilghazi ed il proprio figlio Ibrahim a contendersi l’eredità1. Ridwan di Aleppo aveva sperato che la vittoria di Ilghazi, che era stato prima al suo servizio, gli avrebbe dato influenza sullo Jezireh; ma costui dimenticò l’antica sudditanza e Ridwan stesso era troppo profondamente impegnato contro i franchi di Antiochia per rivendicare la sua antica sovranità 2. Il grande emiro danishmend, malik Ghazi Gumushtekin, moriva nel 1106 lasciando divisi i suoi territori: Sivas e le sue terre anatoliche erano destinate al figlio maggiore Ghazi, e Melitene e le terre siriane al minore, Sangur. La giovinezza e l’inesperienza di quest’ultimo indussero in tentazione Kilij Arslan, che aveva di recente fatto pace con Bisanzio: egli si volse verso oriente ed attaccò Melitene conquistandola nell’autunno del 1106 3. Tentò poi di far riconoscere in tutto il mondo turco il titolo di sultano che si era arrogato, ed era disposto a fare amicizia con chiunque lo avesse compiaciuto in questo4. Jekermish non godette a lungo della propria preminenza, ma si trovò coinvolto inevitabilmente in dispute con il sultanato selgiuchida d’Oriente. Quando il sultano Barkiyarok fu costretto nel 1104 a spartire il territorio con suo fratello Mohammed, questi ebbe Mosul. Jekermish tentò di rendersi del tutto indipendente dichiarando che la sua obbedienze era dovuta soltanto a Barkiyarok e sfidando le truppe di Mohammed; ma il sultano morì nel gennaio del 1105 e la sua eredità passò interamente al fratello. Jekermish non ebbe più giustificazioni e si affrettò a fare atto di sottomissione verso Mohammed; questi per il momento si finse amico e si ritirò verso est senza osare di fare un ingresso trionfale in Mosul5. Probabilmente su richiesta di Mohammed, Jekermish cominciò allora ad organizzare una nuova campagna contro i franchi. Costituì una coalizione con Ridwan di Aleppo ed il suo luogotenente, l’aspahbad Sabawa, con l’ortoqida Ilghazi, e con il suo proprio genero, Albu ibn Arslantash di Sinjar. Gli alleati suggerirono a Ridwan e ad Albu che sarebbe stata cosa politicamente

più astuta e più redditizia il rendersi graditi al sultano con un attacco contro Jekermish. Essi dunque marciarono insieme contro la seconda delle sue città, Nisibin; ma quivi i suoi agenti riuscirono a creare disaccordi tra Ilghazi e Ridwan; questi rapi l’alleato durante un banchetto che venne tenuto davanti alle mura di Nisibin e lo caricò di catene. Allora le truppe ortoqide attaccarono Ridwan e lo costrinsero a ritirarsi ad Aleppo 6. Cosi Jekermish fu salvo e a sua volta attaccò Edessa, ma, dopo aver respinto con successo una sortita delle truppe di Riccardo del Principato, dovette tornare in patria per affrontarvi nuove complicazioni7. Nel frattempo Kilij Arslan, che aveva appena occupato Melitene, fece a sua volta un tentativo contro Edessa, ma, scoprendo che era difesa troppo fortemente, proseguì per Harran, dove la guarnigione di Jekermish gli si arrese. Era evidente che i Selgiuchidi di Rum tentavano di espandere il loro potere nel mondo musulmano a spese dei loro cugini persiani8. Il sultano Mohammed, che non aveva mai perdonato a Jekermish le sue velleità d’indipendenza, sospettò una certa intesa segreta tra di lui e Kilij Arslan. Nell’inverno del 1106 lo privò ufficialmente di Mosul che diede, insieme con la signoria dello Jezireh e Diarbekir, ad un avventuriero turco di nome Jawali Saqawa. Questi condusse un esercito contro Jekermish il quale avanzò per fronteggiarlo ma fu sconfitto nelle vicinanze della città e fatto prigioniero. Gli abitanti di Mosul, per i quali egli era stato un governatore popolare, proclamarono subito come atabeg il suo figlioletto Zenki, mentre certi suoi amici che si trovavano fuori della città si rivolgevano per aiuto a Kilij Arslan. Jawali giudicò prudente ritirarsi, specialmente perché Jekermish, che egli aveva sperato di usare come vantaggiosa pedina, gli morì improvvisamente tra le mani. Mosul aprì le sue porte a Kilij Arslan che promise di rispettarne le libertà9. Jawali si stabilì nella valle dell’Eufrate e cominciò ad intavolare trattative con Ridwan di Aleppo: essi si accordarono per spodestare in primo luogo Kilij Arslan e poi attaccare insieme Antiochia. Nel giugno del 1107 condussero quattromila uomini contro Mosul. Kilij Arslan, che stava compiendo delle operazioni lontano dalla sua patria, aveva un esercito ancora più piccolo, ma uscì per affrontare gli alleati sulle sponde del fiume Khabur. Malgrado il suo coraggio personale fu totalmente sconfitto ed egli stesso peri mentre stava fuggendo oltre il fiume10. La scomparsa di Kilij Arslan ebbe ripercussioni in tutto il mondo musulmano orientale: eliminava per Bisanzio un pericolo potenziale nel critico momento in cui Boemondo stava per attaccare i Balcani; rendeva possibile al sultanato selgiuchida della Persia di durare ancora per quasi un secolo; e fu il primo serio passo nel processo di separazione dei turchi dell’Anatolia dai loro fratelli che si trovavano più ad oriente. Per il momento privava la Siria musulmana dell’unica forza capace di darle unità. Jawali poté cosi entrare in Mosul, dove si rese ben presto odioso a causa della crudeltà del suo governo, ma non mostrò maggior deferenza di Jekermish verso il suo sovrano, il sultano Mohammed. Dopo un anno questi progettò di sostituirlo e mandò contro di lui un esercito condotto dal mamelucco Mawdud che per alcuni anni diventò il personaggio principale dell’Islam11. Durante tutto questo agitato periodo Baldovino di Le Bourg aveva vissuto a Mosul come prigioniero, mentre suo cugino Jocelin di Courtenay, alla morte di Soqman, era passato nelle mani di Ilghazi che stava meditando di cacciare da Mardin il proprio nipote Ibrahim; per questo motivo aveva bisogno di denaro e di alleati, perciò acconsentì a rilasciare Jocelin in cambio della somma di ventimila dinari e della promessa di aiuti militari. I sudditi di Jocelin nella zona di Turbessel promisero volentieri di raccogliere il denaro per il riscatto ed egli venne rilasciato nel corso del 110712. Grazie a questo accordo Ilghazi si trovò in condizione di conquistare Mardin. Jocelin tentò

poi di assicurarsi il rilascio di Baldovino che si trovava nelle mani di Jawali, con tutto ciò che era appartenuto a Jekermish. Il momento era scelto bene perché Jawali aveva bisogno di aiuto contro il prossimo attacco di Mawdud. Richiese sessantamila dinari, la liberazione dei prigionieri musulmani trattenuti ad Edessa ed un’alleanza militare. Mentre le trattative si trovavano a buon punto, Jawali venne cacciato da Mosul dove non aveva trovato nessun appoggio da parte degli abitanti che spalancarono le porte davanti a Mawdud. Egli si stabilì nello Jezireh, portando con sé Baldovino13. Jocelin riuscì a trovare senza troppe difficoltà trentamila dinari. Portò egli stesso il denaro al castello di Qalat Jabar, sull’Eufrate, dove Jawali viveva in quel momento, e si offrì di rimanere come ostaggio se Baldovino fosse stato rilasciato per andare a raccogliere il resto del riscatto. Jawali fu commosso dal gesto e colpito dal coraggio del principe franco: lo accettò al posto di Baldovino poi, pochi mesi più tardi, in parte per spirito cavalleresco e in parte per interesse personale - poiché desiderava ardentemente questa alleanza con i franchi - lo lasciò libero, fidandosi sulla sua parola che il denaro sarebbe stato pagato. La sua fiducia era giustificata14. Tancredi era stato ormai per quattro anni padrone di Edessa, dove suo cugino Riccardo del Principato governava in suo nome. Non aveva nessun desiderio di cederla a Baldovino: quando questi fece la sua comparsa a Edessa, egli acconsentì a raccogliere i trentamila dinari necessari, ma rifiutò di restituire la città a meno che Baldovino gli giurasse fedeltà. Ma questi, come vassallo del re di Gerusalemme, non poteva accettare e se ne andò adirato a Turbessel, dove fu raggiunto da Jocelin; insieme mandarono a chiedere aiuto a Jawali. Tancredi marciò su Turbessel dove ebbe luogo una piccola scaramuccia, dopo di che i combattenti sedettero insieme, pieni di imbarazzo, ad un banchetto per discutere una volta ancora la questione. Non si giunse a nessun accordo; e Baldovino, dopo aver inviato come dono a Jawali centosessanta prigionieri musulmani che aveva liberato ed equipaggiato, si spostò verso nord per cercare altri alleati. Il governo di Riccardo a Edessa era duro ed oppressivo ed era particolarmente inviso agli armeni. Perciò Baldovino andò a visitare il più importante principe armeno dei dintorni, Kogh Vasil di Kaisun, il quale aveva aumentato di recente il proprio prestigio inducendo il catholicus armeno a porsi sotto la sua protezione. Kogh Vasil ricevette Baldovino a Raban e gli promise il suo aiuto, mentre l’armeno Oshin, governatore della Cilicia sotto controllo bizantino, felice di intraprendere un’azione qualsiasi contro Tancredi, inviò a Baldovino trecento mercenari peceneghi. Forte di queste alleanze, egli tornò a Turbessel. Tancredi non era disposto a mettersi contro tutto il mondo armeno ed anche il patriarca di Antiochia, Bernardo, usò di tutta la propria influenza a favore di Baldovino. Di mala grazia Tancredi fece ritirare da Edessa Riccardo del Principato e Baldovino vi fece il suo ingresso, accolto con gioia15. Si trattò soltanto di una tregua temporanea. Baldovino rimase fedele alla sua amicizia con Jawali: gli restituì molti prigionieri musulmani, permise che fossero ricostruite le moschee nella città di Saruj, la cui popolazione era in massima parte maomettana, e fece cadere in disgrazia e giustiziare il più importante magistrato di Saruj, che era molto impopolare perché aveva rinnegato l’Islam. Questa alleanza pose in allarme Ridwan di Aleppo: Jawali infatti minacciava i suoi possedimenti sull’Eufrate. Egli rispose depredando un convoglio di mercanzie, che comprendeva una parte del denaro del riscatto di Baldovino, inviato da Turbessel alla corte di Jawali. Nel settembre del 1108 questi attaccò e conquistò la città di Balis, sull’Eufrate, a sole cinquanta miglia da Aleppo, e vi fece crocifiggere i principali sostenitori di Ridwan. Costui cercò subito l’aiuto di Tancredi. Al principio di ottobre Baldovino e Jocelin condussero i loro propri cavalieri, poche centinaia, a raggiungere l’esercito di Jawali che si trovava a Menbij, tra Aleppo e l’Eufrate. Questi aveva con sé circa cinquecento turchi ed un numero alquanto superiore di beduini, che erano al comando del figlio

dell’emiro Sadaqa dei Banu Mazyad. L’esercito unito aveva in totale circa duemila uomini. Ridwan ne aveva circa seicento da opporre loro, ma Tancredi giunse con un distaccamento di millecinquecento soldati. La battaglia, che vide cristiani e musulmani contro cristiani e musulmani, fu aspramente combattuta. Le truppe di Jawali stavano respingendo poco a poco e con gravi perdite i franchi di Antiochia quando i beduini si accorsero dei cavalli che gli uomini di Baldovino tenevano di riserva e non poterono resistere alla tentazione che veniva loro offerta: disertarono il campo per rubarli e galopparsene via con essi. Vedendoli andar via, i turchi di Jawali fecero dietro-front e si diedero alla fuga; Baldovino e Jocelin vennero lasciati quasi soli. Essi pure furono costretti a fuggire con il resto delle loro truppe, evitando per miracolo, sia l’uno che l’altro, la cattura. Si disse che le perdite cristiane sul campo di battaglia fossero di quasi duemila uomini16. Jocelin si ritirò a Turbessel e Baldovino a Duluk, a nord di Ravendel, dove Tancredi fece un ingeneroso tentativo di assediarlo, dal quale però desistette alla notizia dell’avvicinarsi di Jawali. Infine Baldovino e Jocelin tornarono a Edessa. Trovarono la città in preda al panico: i cittadini, temendo che il loro sovrano fosse morto e di dover di nuovo assoggettarsi all’odiato governo di Riccardo del Principato, avevano convocato un’assemblea nella chiesa di San Giovanni; il vescovo latino era stato invitato dagli armeni della città a partecipare alla formazione di un governo interino, finché la situazione si definisse più chiaramente. Quando Baldovino giunse, due giorni più tardi, sospettò il tradimento e credette che gli armeni avessero progettato di ricuperare la loro indipendenza. Colpi rapidamente e duramente: molti armeni vennero arrestati ed alcuni furono accecati. Il vescovo armeno salvò i suoi occhi soltanto con il pagamento di una grossa multa sottoscritta dai suoi fedeli. Si verificò un massiccio esodo di armeni dalla città. Non si sa che cosa sia realmente accaduto, ma è evidente che Baldovino doveva essere estremamente allarmato per rovesciare in modo cosi drastico la sua politica verso gli armeni17. Malgrado la propria vittoria, e sebbene Jawali riconciliatosi pochi mesi dopo con il suo sovrano il sultano fosse da lui mandato in un feudo molto lontano in Persia, Tancredi non tentò più nessuna mossa per espellere Baldovino da Edessa. Condusse invece, nell’autunno del 1108 una spedizione contro Shaizar dove, dopo aver trucidato una piccola compagnia nemica scoperta per caso in una caverna, egli si concesse il lusso di permettere che gli avversari ottenessero da lui la pace mediante il dono di un magnifico cavallo18. La primavera seguente si trovò coinvolto nella disputa tra Guglielmo-Giordano e Bertrando di Tolosa per il possesso delle terre franche nel Libano. La sua accettazione di Guglielmo-Giordano come proprio vassallo provocò in risposta il rapido intervento di re Baldovino nella sua qualità di sovrano di tutti i franchi d’Oriente. Quando il re convocò al proprio accampamento davanti a Tripoli Tancredi e gli altri capi franchi perché accettassero il suo arbitrato, egli non osò disobbedire. Davanti ai principi riuniti il re non soltanto sparti l’eredità di Raimondo di Tolosa, ma costrinse Tancredi, Baldovino di Edessa e Jocelin a riconciliarsi e a collaborare insieme contro gli infedeli. Tancredi, ammettendo il diritto del re di fare da arbitro, ne riconosceva la sovranità. In cambio, gli veniva concesso di conservare Guglielmo-Giordano come suo vassallo, gli era restituito il titolo di principe di Galilea e la proprietà del Tempio di Gerusalemme con la promessa che avrebbe potuto riavere l’amministrazione del feudo se Boemondo fosse tornato ad Antiochia. Questi vantaggi diminuirono quando Guglielmo-Giordano venne assassinato e le sue terre passarono a Bertrando che riconosceva soltanto re Baldovino come sovrano. Tuttavia, Tancredi fu incoraggiato ad attaccare Jabala, l’ultimo possedimento dei Banu Ammar, che egli conquistò nel 1109, portando cosi la sua frontiera a raggiungere quella di Bertrando19.

Era tempo ormai che i principi franchi si riconciliassero sotto la guida di re Baldovino, poiché al principio del ino l’atabeg Mawdud di Mosul organizzava una spedizione contro i franchi, in obbedienza alle istruzioni del sultano suo signore. Egli marciò su Edessa in aprile, con l’aiuto dell’ortoqida Ilghazi e delle sue truppe turcomanne, nonché dell’emiro di Mayyafaraqin, Soqman elQutbi, conosciuto generalmente come lo scià dell’Armenia. Alla notizia che si stavano ammassando le truppe musulmane Baldovino di Le Bourg inviò a Gerusalemme Jocelin per implorare urgente aiuto dal re Baldovino e per esprimere il suo sospetto che Tancredi stesse incoraggiando il nemico. Gli amici di costui, da parte loro, sollevarono contro Baldovino un’accusa analoga, ma meno convincente. Il re era impegnato nell’assedio di Beirut e non intendeva muoversi finché non l’avesse conquistata; dopo di che si affrettò verso nord evitando Antiochia, in parte per risparmiare tempo ed in parte perché non si fidava di Tancredi, giungendo davanti a Edessa alla fine di giugno. Mentre si avvicinava alla città fu raggiunto da distaccamenti armeni inviati da Kogh Vasil e dal signore di Birejik, Abul Gharib, capo dei Pahlavuni. Mawdud aveva assediato Edessa durante due mesi, ma non era riuscito a penetrare nelle sue fortificazioni; quando furono avvistati i cavalieri di Gerusalemme, con le loro bandiere sventolanti e le loro armature che scintillavano al sole, egli si ritirò ad Harran, nella speranza di attirarli a compiere un’offensiva avventata20. Baldovino di Le Bourg uscì felicemente dalla sua fortezza per incontrare il suo cugino e signore e subito cominciò a lamentarsi di Tancredi, perciò il re mandò un messo ad Antiochia per chiedere a Tancredi di venire con il suo esercito a raggiungere la coalizione cristiana e a difendersi da queste accuse. Tancredi esitò, ma il suo Gran Consiglio insistette perché egli obbedisse alla convocazione. Al suo arrivo presentò immediatamente un reclamo opposto contro Baldovino di Le Bourg: disse che la provincia di Osrhoene, in cui si trovava Edessa, durante tutta la sua storia aveva sempre appartenuto ad Antiochia e che perciò egli ne era il legittimo sovrano. Re Baldovino rispose severamente che, quale re eletto, egli era il capo della cristianità orientale, in nome della quale esigeva che Tancredi si riconciliasse con Baldovino di Le Bourg. Se avesse rifiutato e avesse preferito continuare i suoi intrighi con i turchi, non sarebbe più stato considerato un principe cristiano, ma sarebbe stato combattuto senza pietà come un nemico. L’assemblea dei cavalieri approvò le parole del re e Tancredi fu costretto a fare la pace21. L’esercito franco unito si lanciò poi all’inseguimento di Mawdud, che si ritirò più lontano per attirarlo in territorio ostile, con l’intenzione di aggirarlo con un’improvvisa deviazione verso il nord, ma re Baldovino ne fu avvertito in tempo e abbandonò l’assedio del castello di Shinav, a nord-ovest di Harran. Quivi però la coalizione si dissolse: Tancredi udì delle voci secondo cui Ridwan di Aleppo stava preparandosi ad attaccare Antiochia e dalla Palestina giunsero dei messaggeri per dare notizia al re di una minacciosa mossa egiziana contro Gerusalemme. Perciò la campagna nello Jezireh venne abbandonata: Tancredi si ritirò a Samosata e Baldovino di Le Bourg, seguendo il consiglio del re, convenne che era inutile cercare di difendere la regione ad oriente dell’Eufrate. Aveva pianto nel vedere in che modo era stata devastata da Mawdud mentre egli si trovava assediato in Edessa. Decise di mantenere delle guarnigioni soltanto nelle due grandi fortezze di Edessa e di Saruj ed in pochi castelli minori, ma di non fare nessun tentativo di difendere le frontiere. Alla popolazione cristiana venne consigliato di abbandonare il paese per trasferirsi in un territorio più sicuro sulla sponda destra del grande fiume. I cristiani della campagna, in maggioranza armeni, seguirono il consiglio, raccolsero i loro beni e si mossero lentamente verso occidente. Ma delle spie avevano informato Mawdud di ciò che si stava progettando ed egli si gettò velocemente sulle loro orme. Quando raggiunse l’Eufrate scoprì che i capi franchi si trovavano già al di là del fiume, ma che

i loro due grandi traghetti erano stati caricati eccessivamente di soldati ed erano affondati prima che i civili potessero compiere la traversata. Egli li aggredì, malgrado fossero disarmati, e praticamente nessuno si salvò, né uomini, né donne, né bambini. La feroce eliminazione di questi contadini armeni, di cui da un punto di vista politico non ci si poteva fidare, ma che erano prosperi e tenaci lavoratori stabilitisi nell’Osrhoene ancor prima dell’inizio dell’era cristiana, inferse un colpo tale a quella provincia che non si riprese mai completamente. Sebbene i conti franchi continuassero a governare la città stessa di Edessa ancora per alcuni anni, era stato dimostrato che il dominio franco al di là dell’Eufrate era condannato a un fallimento inevitabile, e questo fallimento portava alla rovina i miseri cristiani indigeni che si erano sottomessi a quel governo22. Nella sua furibonda collera, Baldovino di Le Bourg condusse di nuovo un contingente al di là del fiume per vendicarsi di Mawdud, ma i suoi uomini erano troppo inferiori di numero e sarebbero stati annientati se il re Baldovino non si fosse affrettato ad accorrere in loro soccorso, insieme con Tancredi che lo seguiva piuttosto di malavoglia23. Re Baldovino tornò a sud e Tancredi si volse a punire Ridwan, poiché considerava un tradimento l’attacco lanciato contro il suo territorio. Prese d’assalto il castello di Naqira, appena oltre la frontiera, poi marciò su Athareb, situata a circa venti miglia soltanto da Aleppo. Ridwan non ottenne nessun aiuto dai suoi correligionari musulmani e tentò di allontanare Tancredi offrendogli del denaro, ma le pretese di lui erano troppo elevate; le trattative furono lasciate cadere quando lo stesso tesoriere di Ridwan fuggì al campo di Tancredi con parte del tesoro del suo padrone. Infine, dopo che le macchine degli assediami ebbero ridotto in polvere le mura di Athareb, la città si arrese nel dicembre del ino. Ridwan comprò la pace pagandola con la perdita di Athareb e di Zerdana, un po’ più a sud, la somma di ventimila dinari e dieci dei suoi migliori cavalli arabi24. Successivamente Tancredi mosse contro Shaizar e Hama. L’emiro munqidita della prima comperò pochi mesi di tregua per quattromila dinari e un altro cavallo, ma alla fine di quel periodo, nella primavera del 1111, Tancredi avanzò di nuovo e costruì a Ibn Mashar su una collina nelle vicinanze della città un solido castello da cui poteva osservare ogni movimento di chi vi entrava o usciva. Poco dopo occupò il forte di Bisikrail, sulla strada da Shaizar a Lattakieh. L’emiro di Homs pagò duemila dinari e venne lasciato in pace25. I successi di Tancredi furono aiutati da due fattori: in primo luogo, i bizantini non erano ancora disposti a passare al contrattacco. La morte di Kilij Arslan nel 1107 aveva lasciato fluida la situazione dell’Anatolia. Il suo figliolo maggiore, Malikshah, era stato catturato nella battaglia del Khabur e si trovava ora nelle mani del sultano Mohammed; la vedova si impadronì di Melitene e delle province orientali per il proprio figlio minore, Toghrul; un altro figlio, Masud, stava vivendo alla corte danishmend, mentre sembra che un quarto, Arab, tenesse Konya. Il sultano Mohammed, temendo che sia Masud che Toghrul potessero ottenere la successione di tutta l’eredità, aumentò la confusione rilasciando Malikshah, che si stabilì a Konya ed assunse, con molta ingratitudine, il titolo di sultano26. Il crollo del governo centralizzato selgiuchida in Anatolia recò ai bizantini non soltanto dei vantaggi, poiché indusse i Selgiuchidi a effettuare molte scorrerie irresponsabili in territorio bizantino, ma permise all’imperatore Alessio di occupare parecchie fortezze sulla frontiera. Tuttavia questi non desiderava affrontare i rischi di una campagna in Cilicia o in Siria27. Della sua forzata inazione trasse vantaggio non soltanto Tancredi, ma anche l’armeno Kogh Vasil, il quale riuscì, probabilmente con l’approvazione dell’imperatore, a rafforzare il suo principato nell’Antitauro ed a respingere gli attacchi turchi. Per i principi rupeniani del Tauro, più esposti all’aggressione

selgiuchida e trattenuti dalle truppe di Tancredi dall’espandersi in Cilicia, fu impossibile aumentare il proprio potere e cosi Kogh Vasil si trovò senza rivali nel mondo armeno28. Di maggior aiuto per Tancredi e più efficace per impedire qualsiasi controcrociata musulmana, fu la comparsa nel mondo islamico di una nuova setta che causò violente scissioni. Negli ultimi decenni del secolo xi il persiano Hasan as-Sabah fondò ed organizzò il gruppo religioso conosciuto più tardi come gli Hashishiyun o gli assassini. Hasan si era convertito alla dottrina ismaelita, i cui protettori erano i califfi fatimiti, ed era diventato un adepto del batanya, che ne era l’aspetto esoterico. Non è chiaro in che cosa esattamente il suo insegnamento perfezionasse la teologia mistica e allegorica ismaelita. La sua impresa preminente ebbe carattere più pratico: si trattò di organizzare un Ordine unito a lui, quale gran maestro, da una stretta obbedienza, e che egli usava per scopi politici diretti non solo contro i califfi abassidi di Bagdad di cui poneva in dubbio la legittimità, ma specialmente contro i loro padroni selgiuchidi, il cui potere permetteva al califfato di durare. La sua principale arma politica era quella che doveva fornire il nome ai suoi seguaci, l’assassinio. Il delitto era stato usato spesso nell’interesse di fedi religiose da sette eterodosse dell’Islam, ma nelle mani di Hasan raggiunse un’efficienza straordinaria; l’indiscussa devozione dei suoi discepoli e la loro prontezza a recarsi lontano ed a mettere in pericolo la loro stessa vita ai suoi ordini, gli permise di colpire qualsiasi avversario in qualunque punto del mondo musulmano. Nel 1090 Hasan stabilì il suo quartier generale a Khorasan, nell’inespugnabile cittadella di Alamut, il Nido d’Aquila. Nel 1092 ebbe luogo il primo dei suoi assassini, quello del grande visir Nizam al-Mulk la cui abilità era stata il principale sostegno della dinastia selgiuchida nell’Iran. Leggende posteriori aumentarono la nefandezza del gesto affermando che Nizam ed Hasan erano stati, insieme con il poeta Omar Khayyam, discepoli del dotto Muwaffaq di Nishapur e che ciascuno aveva giurato di aiutare gli altri per tutta la vita. I sultani selgiuchidi erano ben consapevoli del pericolo rappresentato dagli assassini, ma tutti i loro tentativi di sottomettere Alamut risultarono inutili. Al principio del secolo seguente si stabilirono in Siria delle logge degli assassini e Ridwan di Aleppo, che si trovava continuamente in cattivi rapporti con i suoi cugini selgiuchidi e che, forse, era sinceramente convinto delle dottrine dei settari, concesse loro la sua protezione; il loro capo era un orefice persiano, Abu Tahir, che aveva una grande influenza su Ridwan. Per gli assassini i cristiani non erano più odiosi dei musulmani sunni, per cui può darsi che la prontezza di Ridwan a collaborare con Tancredi fosse dovuta in larga misura alla sua simpatia per le loro dottrine. La loro prima impresa in Siria fu l’assassinio dell’emiro di Homs, Janah ed-Daula, nel 1103. Tre anni più tardi trucidarono l’emiro di Apamea, Khalaf ibn Mulaib, ma soltanto i franchi d’Antiochia trassero profitto dalla sua morte. Sebbene fino a quel momento gli assassini avessero rivelato la loro politica soltanto con delitti isolati, essi costituivano un elemento della politica islamica che perfino i cristiani si videro obbligati a prendere sul serio29. Nel 1111 Mawdud di Mosul, a richiesta del sultano suo signore, si preparò una volta ancora a condurre un esercito contro i franchi. Al principio di quell’anno giunse alla corte del califfo di Bagdad una delegazione dei cittadini di Aleppo che, adirati per l’eterodossia del loro sovrano e per la sua subordinazione a Tancredi, venivano a chiedere con urgenza una guerra santa che li liberasse dalla minaccia franca. Essendo stati congedati con vuote promesse, essi sollevarono il popolo di Bagdad provocando un tumulto davanti alla moschea del palazzo. Allo stesso tempo il califfo ricevette un’ambasceria dell’imperatore di Costantinopoli. Non c’era nulla di insolito in ciò: Bisanzio e Bagdad avevano un interesse comune nella loro ostilità verso la dinastia selgiuchida di Rum, ma sembra che Alessio avesse dato istruzioni ai suoi inviati di discutere con le autorità

musulmane la possibilità di un’azione congiunta contro Tancredi 30. Queste trattative permisero ai rivoltosi di denunciare il califfo come un musulmano peggiore dell’imperatore cristiano. AlMustazhir si allarmò per tutto questo entusiasmo, specialmente perché i disordini gli impedirono di ricevere in modo conveniente sua moglie quando ella tornò da una visita fatta a suo padre, il sultano Mohammed, a Ispahan31. Inviò dei messi a suo suocero e questi ordinò immediatamente a Mawdud di costituire una nuova coalizione, il cui capo nominale doveva essere il suo stesso giovane figlio Masud. Mawdud ottenne l’aiuto di Soqman di Mayyafaraqin, del figlio di Ilghazi, Ayaz, dei principi curdi Ahmed-Il di Maragha e Abul Haija di Arbil e di alcuni signori persiani guidati da Bursuq ibn Bursuq di Hamadan. In luglio gli alleati erano pronti ed attraversarono rapidamente lo Jezireh per assediare la fortezza di Turbessel appartenente a Jocelin. A queste notizie il sultano emiro di Shaizar inviò a chieder loro di affrettarsi in suo soccorso ed anche Ridwan pensò che fosse buona politica dir loro di accorrere perché non poteva più resistere a lungo contro Tancredi. Mawdud fu colpito dal voltafaccia di Ridwan e, seguendo il suggerimento di Ahmed-Il con il quale Jocelin aveva intavolato dei rapporti segreti, levò l’assedio a Turbessel e condusse l’esercito ad Aleppo. Ma il messaggio di Ridwan non era stato sincero: all’avvicinarsi degli alleati musulmani egli chiuse loro le porte in faccia e prese la precauzione di imprigionare molti dei principali cittadini come ostaggi per prevenire dei tumulti. Mawdud fu contrariato, perciò dopo aver devastato la campagna intorno ad Aleppo, si diresse verso sud, a Shaizar. Quivi fu raggiunto da Toghtekin di Damasco che veniva a cercare il suo aiuto per riconquistare Tripoli32. Tancredi, che era rimasto accampato davanti a Shaizar, si ritirò ad Apamea e mandò a chiedere aiuto a re Baldovino. Questi rispose all’appello e convocò tutta la cavalleria dell’Oriente franco perché si unisse a lui. Vennero con lui il patriarca Gibelin ed i più importanti vassalli del regno, Eustachio Garnier di Sidone e Gualtiero di Hebron. Bertrando di Tripoli lo raggiunse durante il viaggio. Dal nord si mosse Baldovino di Edessa con i suoi due grandi vassalli, Jocelin di Turbessel e Pagano di Saruj. Tancredi condusse i suoi vassalli da tutta l’area del principato di Antiochia: Guido, soprannominato la Capra, da Tarso e Mamistra, Riccardo di Marash, Guido, soprannominato il Faggio, di Harenc, Roberto di Suadieh, Pons di Tel-Mannas, Martino di Lattakieh, Bonaplo di Sarmeda, Ruggero di Hab e Enguerrando di Apamea. Kogh Vasil ed i rupeniani inviarono un distaccamento armeno e persino Oshin di Lampron forni alcuni, pochi, uomini il cui compito era probabilmente quello di fare la spia per conto dell’imperatore. Il nord rimase privo di truppe; ne trasse vantaggio Toghrul Arslan di Melitene che prese subito Albistan ed i suoi dintorni alla piccola guarnigione franca che la difendeva, e condusse una scorreria nella Cilicia33. Di fronte alla coalizione franca, che totalizzava circa sedicimila uomini, Mawdud si ritirò prudentemente dietro le mura di Shaizar e rifiutò di uscirne per una battaglia campale. Le cose non andavano bene nel suo esercito: Toghtekin non voleva fornire nessun aiuto se non a condizione che Mawdud decidesse di condurre una campagna più a sud, una mossa che era strategicamente troppo rischiosa; il curdo Bursuq era ammalato e desiderava tornare a casa sua; Soqman morì all’improvviso e le sue truppe si ritirarono verso nord con il suo cadavere mentre Ahmed-Il disertava prontamente per cercare di impadronirsi di una parte dell’eredità; l’ortoqida Ayaz rimase, ma suo padre Ilghazi attaccò il corteo che trasportava la bara di Soqman, sperando, invano, di impadronirsi del suo tesoro. Mawdud non poteva prendere l’offensiva a causa del suo esercito che diminuiva di giorno in giorno e d’altra parte non desiderava trascorrere l’inverno cosi lontano dalla

sua base. Nell’autunno si ritirò a Mosul34. Il suo insuccesso dimostrò che i musulmani non erano in condizione di contrattaccare i franchi fintantoché questi rimanevano uniti; e re Baldovino era riuscito nell’impresa di costringerli con la forza ad essere uniti. Per il momento gli Stati franchi erano salvi. L’estate seguente Mawdud condusse una scorreria redditizia, ma inconcludente, nel territorio di Edessa, mentre Toghtekin combinò un’alleanza con Ridwan, mostrandosi molto magnanimo, poiché costui aveva cercato di persuadere i suoi amici assassini ad ucciderlo35. Ma per il momento la minaccia musulmana era diminuita ed i cristiani puntualmente ricominciarono a litigare. Dapprima i franchi decisero di attaccare Kogh Vasil, del cui crescente potere erano invidiosi sia Baldovino di Edessa che Tancredi. Questi invase i suoi territori, conquistò Raban e si stava disponendo ad assediare Kaisun quando fu fatta la pace36. In seguito Baldovino di Edessa si volse improvvisamente contro suo cugino Jocelin. Quando nell’estate del 1112 Mawdud aveva attaccato Edessa, Jocelin aveva scoperto che gli armeni complottavano di consegnare la città ai musulmani ed aveva salvato Baldovino avvertendolo ed unendosi a lui in una rapida azione contro i traditori. Ma nell’inverno seguente Baldovino udì delle voci secondo cui Jocelin parlava di soppiantarlo. Il feudo di Turbessel era ricco mentre il territorio di Edessa aveva sofferto terribilmente per le incursioni e l’emigrazione forzata, inoltre gli armeni amavano Jocelin, ma ora odiavano Baldovino. Nella condotta di Jocelin non c’era nulla che giustificasse i sospetti di suo cugino che erano, forse, basati sull’invidia. Alla fine dell’anno il signore di Turbessel fu convocato a Edessa: Baldovino disse di essere ammalato e che bisognava discutere sulla successione. Quando egli giunse, assolutamente senza sospetti, fu accusato di non aver fornito Edessa di sufficienti quantità di cibo dal suo territorio e venne gettato in prigione. Fu rilasciato soltanto quando promise di rinunciare al suo feudo. All’inizio del nuovo anno si ritirò verso sud, a Gerusalemme, dove re Baldovino gli diede in feudo il principato di Galilea37.

V. La Siria settentrionale e meridionale nel secolo XII, con le frontiere approssimative degli Stati cristiani.

L’anno 1112 vide molti altri cambiamenti nella Siria settentrionale. Kogh Vasil morì il 12 ottobre e la sua vedova si affrettò ad inviare dei doni a Tancredi, fra cui il suo diadema personale per la principessa Cecilia, perché egli l’aiutasse ad assicurare la successione al suo figliolo adottivo, Vasil Dgha, ma Tancredi desiderava ardentemente egli stesso l’eredità. Fra i franchi erano morti, Riccardo del Principato nel corso della primavera38 e Bertrando di Tripoli in gennaio o febbraio 39. Il giovane figlio e successore di costui, Pons, non condivideva la simpatia di suo padre per i bizantini e neppure il suo odio per Tancredi; anche il suo Consiglio pensò probabilmente che era necessaria la benevolenza di Tancredi se il giovane conte doveva mantenere la sua posizione. Ci fu una riconciliazione tra la corte di Tripoli e quella di Antiochia, e ciò accrebbe l’influenza di Tancredi 40: la sua supremazia sembrava sicura, essendo Jocelin caduto in disgrazia, il conte di Tripoli suo amico, ed il grande principe degli armeni morto. Egli stava progettando una spedizione per conquistare il territorio di Kogh Vasil quando cadde improvvisamente ammalato. Si sussurrò, inevitabilmente, che si trattasse di veleno, ma era invece, probabilmente, tifo. Quando fu sicuro che non sarebbe guarito egli nominò erede suo nipote Ruggero di Salerno, figlio di Riccardo del Principato, ma lo obbligò a giurare che avrebbe restituito il potere al giovane figlio di Boemondo se il ragazzo fosse venuto in Oriente. Allo stesso tempo chiese a Pons di sposare la sua vedova ancora bambina, Cecilia di Francia. Morì il 12 dicembre 1112, all’età di soli trentasei anni41. La personalità di Tancredi non si distingue nettamente attraverso le nebbie della storia. Era straordinariamente attivo e capace, astuto diplomatico e magnifico soldato; e col passar degli anni diventava più saggio, ma non acquistò mai il fascino che circondava suo zio Boemondo; e non sembra nemmeno che fosse popolare con i suoi uomini, ad eccezione del suo adulatorio biografo, Radulfo di Caen. Era duro, egoista e senza scrupoli, corretto eppure sleale verso Boemondo ed infido collega verso Baldovino di Edessa. Senza l’intervento di re Baldovino, pari a lui per l’inflessibilità ma superiore per ampiezza di vedute, il suo particolarismo avrebbe potuto spingersi cosi lontano da portare alla rovina l’Oriente franco. La sua ambizione era quella di stabilire saldamente e di ingrandire il principato di Antiochia ed in ciò ebbe un magnifico successo: senza la sua opera lo Stato fondato da Boemondo sarebbe crollato. La lunga storia dei principi di Antiochia fu frutto della sua energia. Di tutti i principi della prima crociata soltanto re Baldovino, un avventuriero spiantato come lui, percorse una carriera più brillante. Eppure i cronisti non furono testimoni di nessuna scena di dolore quando egli venne portato nel portico della cattedrale di San Pietro per il funerale. Soltanto l’armeno Matteo di Edessa scrisse di lui con affetto e ne pianse la morte42. L’ascesa di Ruggero alla carica di principe di Antiochia - poiché, sebbene avesse riconosciuto i diritti del figlio di Boemondo, egli assunse il titolo principesco - recò armonia ai franchi: egli era sposato con la sorella di Baldovino di Edessa, Cecilia43 e, benché fosse notoriamente un marito infedele, fu sempre in affettuosi rapporti con suo cognato; sua sorella Maria diventò la seconda moglie di Jocelin di Courtenay44. Pons di Tripoli che, secondo i desideri di Tancredi ne aveva sposato subito la vedova, Cecilia di Francia, rimase suo amico fedele45. E tutti e tre i principi consideravano re Baldovino come loro sovrano. Questa rara solidarietà, insieme con nuove dispute tra i musulmani, portò all’apogeo il dominio franco nella Siria settentrionale. Nel 1113 re Baldovino iniziò una campagna contro Toghtekin di Damasco che riuscì finalmente ad ottenere l’aiuto di Mawdud e dell’ortoqida Ayaz. Gli alleati musulmani attirarono il re in territorio damasceno, a Sennabra, sul corso superiore del Giordano, dove, avendo dimenticato per una volta la sua abituale prudenza, egli venne attaccato e duramente sconfitto46. Egli aveva

convocato in suo aiuto Pons e Ruggero, ed il loro arrivo con tutta la loro cavalleria gli permise di liberarsi; il nemico avanzò fino ai dintorni di Tiberiade, ma non osò affrontare l’intero esercito franco. Dopo poche settimane di esitazione, Mawdud si ritirò in Damasco con Toghtekin. Quivi fu ucciso a pugnalate da un assassino l’ultimo venerdì di settembre, mentre stava entrando nella Grande Moschea con il suo ospite. Toghtekin mise prontamente a morte l’uccisore per dimostrare di essere estraneo al delitto, ma la pubblica opinione lo considerò colpevole, pur giustificandolo per il fatto che Mawdud aveva delle mire su Damasco47. La morte di Mawdud liberò i franchi da un temibile avversario; due mesi più tardi, il io dicembre 1113, le fece seguito la morte di Ridwan di Aleppo 48. I suoi rapporti piuttosto freddi con i propri correligionari musulmani avevano aiutato molto il consolidamento del dominio franco in Siria, ma la sua scomparsa non arrecò grandi benefici all’Islam. Suo successore fu suo figlio Alp Arslan, un ragazzo di sedici anni, debole, vizioso e crudele, completamente succube del suo eunuco favorito, Lulu. Gli assassini, che erano stati protetti da Ridwan, vennero trattati con freddezza dalla nuova amministrazione, dietro espliciti ordini del sultano Mohammed. Il suo inviato, il persiano Ibn Badi, costrinse Alp Arslan ad emettere un mandato per l’esecuzione di Abu Tahir e degli altri capi della setta, ed il popolino di Aleppo, che aveva detestato per lungo tempo gli assassini, cominciò a massacrare tutti quelli che poté afferrare. Per difendersi, l’Ordine aveva tentato invano di conquistare la cittadella mentre Ridwan giaceva moribondo49. Poco dopo i settari cercarono di prendere di sorpresa la cittadella di Shaizar mentre la famiglia dell’emiro era uscita ad osservare la celebrazione della Pasqua cristiana, ma gli abitanti della città si unirono all’emiro, contro di loro. L’unico successo della setta fu la conquista della fortezza di Qolaia, vicino a Balis, dove la strada da Aleppo a Bagdad si avvicina all’Eufrate. Altrove essi passarono alla clandestinità oppure fuggirono sotto la protezione dei franchi; ma erano ancora potenti e cominciarono a volgere la loro attenzione al Libano50. Il regno di Alp Arslan fu di breve durata. Egli si recò in visita amichevole a Damasco, dove Toghtekin lo ricevette con onori regali; ma nel settembre del 1114 la sua condotta sfrenata indusse l’eunuco Lulu, preoccupatissimo per la propria sorte, a farlo assassinare nel suo letto ed a porre sul trono suo fratello Sultanshah, di sei anni. Per i successivi pochi anni Lulu ed il suo generale Shams as-Shawas, ex emiro di Rafaniya, tennero la cittadella e controllarono l’esercito di Aleppo, ma il potere effettivo era nelle mani dei notabili della città e Lulu non osava tenere in non cale i loro desideri. La mancanza di un principe forte e la piccola mole del suo esercito impediva ad Aleppo di fare qualcosa di più che difendere le proprie mura; inoltre, sebbene gli assassini fossero stati esiliati, gli staterelli vicini sospettavano le nuove autorità di pericolose tendenze shia, dovute all’influenza dei persiani sulla città. Di conseguenza Lulu era disposto a continuare la politica di Ridwan, di servile amicizia verso i franchi di Antiochia51. Alla morte di Mawdud, il sultano diede Mosul al suo rappresentante presso la corte del califfo, Aqsonqor Il-Bursuqi, un soldato di ventura turco come il suo predecessore. Egli considerò suo dovere di condurre delle operazioni contro i franchi: nel maggio del 1114 guidò un esercito di millecinquecento uomini contro Edessa. Con lui c’erano il figlio del sultano, Masud, l’emiro di Sinjar, Temirek, ed un giovane turco di nome Imad ed-Din Zengi, figlio di un altro Aqsonqor più anziano, che era stato governatore di Aleppo e di Hama negli anni precedenti la crociata. Ilghazi di Mardin era stato invitato ad unirsi alla spedizione, ma aveva rifiutato. L’esercito marciò dunque in primo luogo contro Mardin, e di conseguenza Ilghazi acconsentì ad inviare suo figlio Ayaz con un distaccamento di truppe turcomanne. Per due mesi i musulmani rimasero accampati davanti ad

Edessa, ma la città aveva una buona guarnigione e molte provviste, mentre la campagna devastata non poteva fornire cibo sufficiente alle forze assediami. Il-Bursuqi fu costretto a levare l’assedio e si accontentò di devastare il contado, finché gli armeni gli offrirono una nuova prospettiva per l’azione52. Il complotto armeno del 1112 per consegnare Edessa a Mawdud era stato seguito l’anno seguente da uno analogo, organizzatosi quando Mawdud stava per invadere il territorio franco e Baldovino si trovava a Turbessel per occupare il feudo di Jocelin. Fu scoperto in tempo e Baldovino inflessibile trasferì a Samosata l’intera popolazione armena della sua capitale. Dopo aver dato loro cosi una lezione, egli permise agli armeni di tornare al principio del 1114, ma alcuni intanto avevano proseguito il viaggio per il territorio di Vasil Dgha, l’erede di Kogh Vasil, che comunque era già allarmato per i tentativi operati dai franchi contro i suoi possessi. A questo punto egli e la sua madre adottiva invitarono Il-Bursuqi a liberarli dai franchi. Costui inviò a Kaisun uno dei suoi generali, Sonqor il Lungo, perché trattasse con Vasil Dgha. I franchi vennero informati di questo fatto ed attaccarono invano Sonqor e gli armeni. Ma prima che i musulmani potessero trarre vantaggio dalla nuova alleanza Il-Bursuqi litigò con l’ortoqida Ayaz e Io fece imprigionare. Perciò il padre di Ayaz, Ilghazi, convocò il suo clan ed i suoi turcomanni e marciò contro Il-Bursuqi, che venne duramente sconfitto e costretto a tornare a Mosul. Una volta ancora la contro-crociata musulmana si concluse con un fiasco53. Gli armeni ne pagarono lo scotto: i franchi infatti avanzarono per punire Vasil Dgha; non riuscirono a conquistare la sua capitale-fortezza di Raban, ma egli pensò che fosse cosa saggia ricercare l’alleanza del principe rupeniano Thoros, il quale però, dopo averlo invitato a venire a discutere un’alleanza matrimoniale, lo imprigionò e lo vendette a Baldovino di Edessa. Vasil fu rilasciato soltanto dopo aver promesso di cedere tutte le proprie terre a Baldovino; gli fu concesso di ritirarsi a Costantinopoli. Essendosi cosi annesse Raban e Kaisun nel 1116, Baldovino decise di eliminare gli altri principati armeni della valle dell’Eufrate. Nel 1117 egli sostituì dapprima Abul Gharib, signore di Birejik, che vi si era stabilito con il suo stesso aiuto durante la prima crociata. Diede Birejik a suo cugino Valeriano di Le Puiset, che sposò la figlia di Abul Gharib. In seguito attaccò il vecchio amico, e più tardi nemico, di Baldovino I, Bagrat, fratello di Kogh Vasil, che possedeva ora una piccola signoria a Khoros, ad occidente dell’Eufrate. Infine invase il territorio di un altro alleato di Baldovino, il principe Costantino di Gargar, che catturò ed imprigionò a Samosata, dove l’infelice vittima peri ben presto in un terremoto. Il principe rupeniano si ritrovò cosi, con sua grande soddisfazione, ad essere l’unico monarca armeno ancora indipendente. Ma, ad eccezione dei rupeniani, la popolazione armena perse la fiducia nei franchi54. Le conquiste armene di Baldovino di Edessa erano state rese più facili dalla diminuzione delle minacce provenienti da oriente. Gli anni precedenti erano stati pieni di ansietà: nel novembre del 1114 un tremendo terremoto aveva devastato il territorio franco da Antiochia e Mamistra fino a Marash ed Edessa e Ruggero di Antiochia aveva fatto in tutta fretta un giro d’ispezione alle proprie fortezze più importanti per ripararne le mura poiché, secondo certe dicerie, il sultano Mohammed stava preparando una nuova spedizione55. Mohammed fu l’ultimo dei grandi sultani selgiuchidi: aveva ereditato da suo fratello Barkiyarok uno Stato in decadenza ed era riuscito a ristabilire l’ordine nell’Iraq e nell’Iran, eliminando nel 1108 gli arabi ribelli del deserto orientale e tenendo a freno gli assassini. Il califfo al-Mustazhir, che trascorreva indolentemente il suo tempo nel palazzo di Bagdad a scrivere poemi d’amore, ne riconosceva l’autorità. Eppure i suoi tentativi di organizzare una campagna che riuscisse a cacciare i

franchi dalla Siria erano falliti gli uni dopo gli altri. Infine egli si rese conto che per aver successo doveva stabilire la propria autorità sui principi musulmani siriani, le cui invidie e la cui insubordinazione avevano regolarmente fatto naufragare la sua causa. Nel febbraio del 1115, dopo aver inviato suo figlio Masud a prender in consegna il governo di Mosul per assicurarsi la fedeltà di questa, egli spedi verso occidente un grosso esercito al comando del governatore di Hamadan, Bursuq ibn Bursuq, che aveva come aiutanti Juyush-beg, ex governatore di Mosul, e Temirek, emiro di Sinjar. I principi musulmani della Siria erano altrettanto allarmati dei franchi. Gli unici vassalli del sultano degni di fiducia erano i munqiditi di Shaizar e l’emiro di Homs, Ibn Qaraja. Alla notizia della spedizione, l’ortoqida Ilghazi accorse a Damasco per riconfermare la propria alleanza con Toghtekin, ma gli venne teso un agguato sulla via del ritorno ed egli fu catturato dall’emiro di Homs il quale, tuttavia, minacciato da Toghtekin, lo lasciò andare a condizione che inviasse al suo posto suo figlio Ayaz. Ilghazi poté cosi tornare a Mardin e riunire le sue truppe, poi si ritirò di nuovo verso occidente per raggiungere Toghtekin. L’eunuco Lulu, reggente di Aleppo, dopo aver promesso di appoggiare le due parti, decise che la vittoria del sultano non gli sarebbe convenuta e si uni a Toghtekin ed Ilghazi. Nel frattempo Ruggero di Antiochia aveva radunato i suoi uomini e si era appostato vicino al Ponte di Ferro che attraversava l’Oronte. Quivi, non si sa per iniziativa di chi, egli strinse un patto con Toghtekin ed i suoi alleati ed invitò il loro esercito a raggiungere il suo proprio davanti alle mura di Apamea, un buon punto d’osservazione per sorvegliare i movimenti di Bursuq quando avesse attraversato l’Eufrate e avesse proseguito per raggiungere i suoi amici a Shaizar. I franchi fornirono circa duemila cavalieri e fanti e i loro alleati musulmani circa cinquemila. Bursuq non incontrò nessuna opposizione mentre guidava il suo grosso esercito attraverso lo Jezireh. Aveva sperato di stabilire il proprio quartier generale ad Aleppo, ma, informato che Lulu si era unito ai suoi nemici e che Toghtekin si trovava alla loro testa, si volse verso sud contro quest’ultimo. Con l’aiuto dell’emiro di Homs effettuò un attacco di sorpresa contro Hama, che apparteneva a Toghtekin e che conteneva buona parte del suo bagaglio. La città fu conquistata e saccheggiata, con gran rabbia dei musulmani locali; poi egli marciò contro il forte franco di Kafartab. Ruggero avrebbe voluto compiere una diversione, ma Toghtekin lo persuase che sarebbe stato troppo pericoloso. Invece gli alleati si rivolsero per aiuto a Baldovino di Gerusalemme e a Pons di Tripoli che si affrettarono verso nord, il primo con cinquecento cavalieri ed un migliaio di fanti, l’altro con duecento cavalieri e duemila fanti: essi entrarono nel campo di Apamea al suono delle trombe. Bursuq, che a quel momento aveva stabilito la sua base a Shaizar, pensò che fosse più prudente ritirarsi verso lo Jezireh. Il suo stratagemma ebbe effetto: Baldovino e Pons credettero che fosse cessato il pericolo e tornarono a casa, mentre l’esercito alleato si divideva. Allora Bursuq tornò indietro improvvisamente e si precipitò di nuovo su Kafartab. Dopo una breve lotta egli occupò il castello e lo consegnò ai munqiditi. Lulu di Aleppo gli scrisse subito, non si sa se per tradimento oppure per codardia, per chiedere scusa per i suoi vecchi peccati e per pregarlo di inviare un distaccamento ad occupare Aleppo; e Bursuq indebolì le proprie forze spedendo colà Juyush-beg ed il suo corpo di truppe. Ruggero non aveva sbandato il suo esercito, ma non poteva aspettare che giungessero aiuti da re Baldovino o da Pons e neppure da Toghtekin. Dopo aver chiamato in suo soccorso Baldovino di Édessa ed aver chiesto al patriarca Bernardo di benedire le truppe e di inviare con loro un frammento della Vera Croce, il 12 settembre egli lasciò Antiochia e si diresse verso sud risalendo l’Oronte fino a Chastel Rouge, mentre Bursuq marciava verso nord lungo una linea parallela, ma più nell’interno. Nessuno dei due eserciti conosceva la posizione dell’altro finché

un cavaliere di nome Teodoro Berneville giunse al gran galoppo all’accampamento di Chastel Rouge, reduce da una spedizione esplorativa, per dire che aveva visto l’esercito del sultano che marciava attraverso la foresta verso la collina di Tel-Danith, vicino alla città di Sirmin. La mattina del 14 l’esercito franco si arrampicò inosservato sulla cresta che si trovava in mezzo e si gettò su Bursuq mentre le sue truppe stavano avanzando senza precauzioni. Gli animali da soma per i trasporti si trovavano all’avanguardia, ed alcuni distaccamenti si erano già fermati per rizzare le tende per la sosta di mezzogiorno. Alcuni degli emiri avevano portato dei gruppi a cercar foraggio nelle fattorie vicine, altri avevano proseguito per occupare Bizaa. Quando ebbe inizio la battaglia Bursuq non aveva con sé i suoi migliori luogotenenti. L’attacco dei franchi era del tutto inaspettato. Essi balzarono fuori all’improvviso da dietro gli alberi e assalirono rapidamente l’accampamento ancora disorganizzato. Ben presto l’intero esercito musulmano cadde nel disordine e Bursuq non poté riunire i suoi uomini. Egli stesso evitò a mala pena di essere catturato e si ritirò con poche centinaia di cavalleggeri verso uno sperone della collina di Tel-Danith. Da qui respinse il nemico per un certo tempo e cercò la morte nel combattimento piuttosto che affrontare la vergogna di una simile sconfitta. Infine la sua guardia del corpo lo persuase che nulla più si poteva fare ed egli fuggì a cavallo verso oriente. L’emiro di Sinjar, Temirek, era stato dapprima più fortunato ed aveva respinto l’ala destra dei franchi, ma Guido Fresnel, signore di Harenc, vi condusse delle truppe fresche e ben presto gli uomini di Sinjar si trovarono circondati e soltanto i più veloci cavalleggeri riuscirono a fuggire sani e salvi. A sera i resti dell’esercito musulmano si ritiravano affrettatamente ed in disordine verso lo Jezireh56. La vittoria franca di Tel-Danith pose fine all’ultimo tentativo dei sultani selgiuchidi dell’Iran di riconquistare la Siria. Bursuq morì pochi mesi più tardi, umiliato e pieno di vergogna, ed il sultano Mohammed non era ormai più disposto ad affrontare i rischi di un’altra spedizione. Da oriente, l’unico pericolo per i franchi veniva ora dai semindipendenti emiri, che per il momento erano disuniti e scoraggiati. Il prestigio di Ruggero, principe di Antiochia, era giunto all’apogeo. I suoi uomini rioccuparono rapidamente Kafartab, che Bursuq aveva dato ai munqiditi57. I signori di Aleppo e di Damasco erano seriamente allarmati. Quest’ultimo, Toghtekin, si affrettò a fare la pace con il sultano Mohammed, che lo perdonò, ma che non gli diede nessun aiuto materiale58. Ad Aleppo l’eunuco Lulu osservava impotente i franchi che consolidavano le loro posizioni intorno a lui. Egli ricercò un’alleanza più stretta con Toghtekin, ma era ormai screditato agli occhi di tutti e nel maggio del 1117 venne assassinato dai turchi della sua stessa guarnigione. Il suo successore fu un altro eunuco, il rinnegato armeno Yaruqtash, che cercò subito l’appoggio dei franchi cedendo a Ruggero la fortezza di al-Qubba, che si trovava sulla strada da Aleppo a Damasco e veniva adoperata dai pellegrini diretti alla Mecca, e riconoscendogli anche il diritto di imporre tributi ai pellegrini59. La concessione non portò nessun vantaggio a Yaruqtash. Gli assassini di Lulu avevano agito in nome del figlio minore di Ridwan, Sultanshah, che non volle riconoscere l’eunuco. Costui si rivolse per aiuto all’ortoqida Ilghazi, ma quando le truppe di questi giunsero ad Aleppo trovarono che Yaruqtash era caduto e che il governo era diretto dal ministro di Sultanshah, il damasceno Ibn al-Milhi. Perciò Ilghazi si ritirò, lasciando in Aleppo come suo rappresentante suo figlio Kizil ed occupando la fortezza di Balis sull’Eufrate che gli fu concessa in cambio dell’aiuto che egli avrebbe dato se IlBursuqi avesse voluto far valere i suoi diritti. Quest’ultimo infatti si era stabilito a quel momento ad ar-Rahba e pretendeva che il sultano gli aveva assegnato Aleppo. Poi Ibn al-Milhi decise che Ilghazi era un alleato troppo infido e consegnò Aleppo e Kizil a Khirkan, emiro di Homs, e si preparò a riconquistare Balis con l’aiuto dei franchi. Ma l’alleanza di Ilghazi con Toghtekin rimase salda:

mentre quest’ultimo marciava su Homs e costringeva Khirkan a ritirarsi, Ilghazi liberava Balis ed entrava in Aleppo nell’estate del 1118. Ibn al-Milhi era già stato spodestato da un eunuco negro, Qaraja, che venne imprigionato dall’ortoqida, insieme con il suo predecessore ed il principe Sultanshah60. Durante tutti questi movimenti ed intrighi l’intervento franco era stato ricercato di volta in volta da tutti i partiti; e sebbene Ruggero non divenisse mai padrone della stessa Aleppo, egli si trovò in condizione di occupare il territorio a nord della città e di tagliare fuori Aleppo dall’Eufrate e dall’Oriente, impadronendosi di Azaz nel 1118 e di Bizaa al principio del 111961. Circa allo stesso tempo Ruggero migliorò la sua frontiera meridionale conquistando il castello di Marqab, sulla sua elevata collina che sorveglia il mare oltre Buluniyas62. Cosi, verso la fine del 1118, c’era un certo equilibrio nella Siria settentrionale. I franchi erano diventati un elemento riconosciuto nel quadro generale del paese. Erano ancora pochissimi, ma erano bene armati e stavano costruendo delle fortezze ed imparando ad adattarsi al sistema di vita locale; inoltre, per il momento, erano uniti. Ruggero di Antiochia era di gran lunga il più grande dei principi cristiani nel nord, ma né Baldovino di Edessa né Pons di Tripoli si risentivano per la sua egemonia poiché egli non fece nessun tentativo per diventare loro signore, ma, al pari di loro, riconosceva la sovranità del re di Gerusalemme. I principi musulmani erano molto più numerosi, ma disuniti ed invidiosi: soltanto l’alleanza tra Toghtekin di Damasco e gli Ortoqidi li salvò dal caos. La bilancia era perciò leggermente inclinata a favore dei franchi. Nessuna potenza esterna si trovava in condizione di rovesciare questo equilibrio: re Baldovino di Gerusalemme, con la minaccia fatimita alle sue spalle, non poteva intervenire spesso nel nord, mentre il sultano selgiuchida dell’Iran si astenne, dopo il disastro di Tel-Danith, da altri tentativi pratici di rivendicare la sua autorità in Siria. Le due potenze più importanti dell’Anatolia, Bisanzio ed i Selgiuchidi di Rum, per il momento si controbilanciavano l’un l’altro. Perfino i cristiani indigeni mantenevano un certo equilibrio. I sudditi armeni di Edessa e di Antiochia erano delusi e sleali, e soltanto il principato rupeniano del Tauro, unico Stato armeno ancora indipendente, era disposto a collaborare con i franchi. Il suo principe Leone, aveva condotto un contingente ad aiutare Ruggero di Antiochia nell’assedio di Azaz 63. Uno scisma divideva la Chiesa giacobita: intorno al 1118 il suo capo, il patriarca Atanasio che risiedeva ad Antiochia, aveva litigato con il suo metropolita di Edessa, Bar-Sabuni, a proposito del possesso di alcuni libri sacri e lo aveva posto sotto interdetto. Costui, allora, per complicare le cose, si era rivolto per aiuto al patriarca latino di Antiochia, Bernardo, che convocò Atanasio a discutere la questione in un sinodo tenuto nella cattedrale latina. L’incompetenza di un interprete indusse Bernardo a. credere che la disputa vertesse su un debito privato fra i due prelati ed egli sentenziò che era un atto di simonia da parte di Atanasio il non perdonare il debitore. Atanasio si infuriò per una decisione di cui non riconosceva la validità e non capiva il senso, e protestò violentemente; in conseguenza di che Bernardo ordinò che venisse flagellato. Su consiglio di un amico ortodosso, il filosofo AbdalMassih, Atanasio si appellò a Ruggero, che era stato assente in quel tempo. Questi, adirato, rimproverò Bernardo per essersi immischiato in una questione che non lo riguardava e permise ad Atanasio di lasciare Antiochia per la sua antica residenza, il monastero di Mar Barsauma. Quivi egli si trovava nel territorio degli Ortoqidi che gli concessero la loro protezione; scomunicò Bar-Sabuni e pose sotto interdetto la Chiesa giacobita di Edessa. Molti dei giacobiti della città,-privati cosi dei servizi della loro Chiesa, passarono al rito latino; altri obbedirono al patriarca. Per molti anni, fin dopo la morte di Atanasio, non venne ristabilita la pace64.

Le comunità ortodosse di Antiochia e di Edessa detestavano il governo latino, ma non furono mai tentate di complottare con i musulmani, a differenza degli armeni e dei giacobiti. Si accontentavano di sospirare per il ritorno di Bisanzio, ma l’odio e il disprezzo che sia gli armeni che i giacobiti portavano loro, limitava il loro potere. Nondimeno, Bisanzio rimaneva il nemico principale per i franchi di Antiochia, anche se quelli di Edessa potevano temere con ragione che qualche nuovo pericolo sarebbe sorto in Oriente. L’imperatore Alessio non aveva mai dimenticato i propri diritti su Antiochia. Era disposto a riconoscere il regno latino di Gerusalemme ed aveva dimostrato la sua buona volontà con il generoso riscatto dei prigionieri franchi presi dai Fatimiti a Ramleh nel 1102 e con la presenza delle sue navi all’inutile assedio di Acri nel 1111. Da parte sua Baldovino agi sempre verso l’imperatore con cortesia e con correttezza, ma si rifiutò di far pressioni su Tancredi affinché osservasse le condizioni del trattato di Devol65. Fin dalla crociata del noi i rapporti franco-bizantini erano stati oscurati dal sospetto, mentre Costantinopoli non aveva mai perdonato l’intervento di papa Pasquale a favore di Boemondo nel 1106. Alessio era uno statista troppo consumato per permettere che il risentimento influisse sulla sua politica; durante gli anni 1111 e 1112 egli proseguì una serie di trattative con il papa, usando come intermediario l’abate di Monte Cassino e, con la promessa di sistemare le principali differenze tra la Chiesa romana e quella greca, indusse le autorità romane ad offrire a lui o a suo figlio la corona imperiale dell’Occidente e lasciò capire che sarebbe stato disposto persino a recarsi in visita a Roma. Pasquale era ben disposto a pagare un prezzo elevato per l’appoggio bizantino, poiché in quel momento si trovava in grandi difficoltà con l’imperatore Enrico V, ma le guerre turche e la cattiva salute impedirono ad Alessio di portare a compimento il suo progetto 66. I negoziati non conclusero nulla; nel 1113 l’arcivescovo di Milano, Pietro Crisolano, venne a Costantinopoli per trattare questioni ecclesiastiche, ma la sua discussione teologica con Eustrazio, vescovo di Nicea, non ristabilì certo migliori sentimenti tra le due Chiese67. È probabile che Alessio stesso non abbia mai preso molto sul serio il suo ambizioso progetto italiano: l’amicizia del papa era preziosa per lui soprattutto come mezzo per porre un freno alle ambizioni normanne e per accrescere la propria autorità sui latini d’Oriente. Nel frattempo i bizantini potevano fare ben poco per riconquistare Antiochia. Il trattato dell’imperatore con Boemondo rimase lettera morta: non soltanto Tancredi non ne tenne conto, ma ingrandì il suo territorio a spese dei bizantini. Ruggero aveva continuato la politica del suo predecessore. Alessio aveva sperato che i conti di Tripoli sarebbero stati i suoi agenti in Siria ed aveva fornito del denaro che doveva essere conservato a Tripoli e poi adoperato per comuni imprese, bizantine e tripoline, ma alla morte di Bertrando suo figlio Pons operò in collaborazione con gli antiocheni. L’ambasciatore bizantino presso i vari Stati latini, Butumites, chiese perciò la restituzione del denaro, ma soltanto quando minacciò di impedire che le provviste che Tripoli otteneva da Cipro giungessero in porto gli venne consegnata la somma. Egli poi giudicò prudente di restituire a Pons l’oro e gli oggetti preziosi che erano stati promessi personalmente a Bertrando. In cambio il conte pronunciò un giuramento di fedeltà all’imperatore, probabilmente giurò di non recargli torto, come già suo nonno Raimondo aveva fatto. Il denaro restituito a Butumites venne speso per comprare dei cavalli per l’esercito bizantino a Damasco, Edessa e in Arabia68. Era evidente che Pons non si sarebbe lasciato tentare di agire contro Antiochia, e d’altra parte l’aggressività dei turchi impediva all’imperatore di intervenire direttamente in Siria. Dopo la morte del malik danishmend Ghazi Gumushtekin nel 1106, e dopo quella del selgiuchida Kilij Arslan nel 1107, non c’era stato in Anatolia nessun grande principe ed Alessio si trovava in condizione, finché

non era disturbato dai normanni, di ristabilire lentamente la propria autorità nei distretti occidentali e lungo le coste meridionali. Il più importante emiro musulmano era a quel momento Hasan, della Cappadocia, che nel 1110 tentò di predare il territorio bizantino, spingendosi verso Filadelfia, ma avendo come meta Smirne. Da poco era stato affidato il comando delle forze di terra nella regione dell’Anatolia sud-occidentale ad Eustazio Filocale, con ordine di rastrellare la provincia dai turchi. Con le piccole forze di cui disponeva, egli riuscì a sorprendere l’esercito di Hasan mentre era diviso in molti gruppi di razziatori ed a sconfiggerli gli uni dopo gli altri. Hasan si ritirò velocemente e vennero risparmiate altre incursioni alle coste dell’Egeo. Ma in quello stesso anno fu rilasciato dalla sua prigionia persiana il figlio maggiore di Kilij Arslan, Malikshah. Egli fece di Konya la sua capitale e ben presto governò la maggior parte della sua eredità legittima, dopo aver sconfitto Hasan ed essersi annesso i suoi territori. Traendo insegnamento dal destino che era toccato a suo padre egli evitò complicazioni in Oriente, ma appena si sentì abbastanza forte, cominciò a riconquistare la regione persa da Kilij Arslan al tempo della prima crociata. Nei primi mesi del 1112 iniziò delle incursioni nell’Impero, marciando su Filadelfia dove fu fermato dal generale bizantino Gabras. Implorò allora una tregua, ma nel 1113 attaccò nuovamente inviando un’affrettata spedizione attraverso la Bitinia fino alle stesse mura di Nicea, mentre il suo luogotenente Mohammed si spingeva più ad occidente, a Pemameno, dove sconfiggeva e catturava un generale bizantino, e al tempo stesso un altro ufficiale, Manalugh, predava Abido sull’Ellesponto, con le sue ricche dogane. Malikshah stesso attaccò e conquistò Pergamo. L’imperatore parti per affrontare gli invasori, ma attese di sorprenderli sulla via del ritorno, pesantemente carichi di bottino. Dirigendosi a sud attraverso Dorileo egli si gettò su di loro vicino a Cotyaeum; ottenne una vittoria completa e ricuperò tutto il bottino ed i prigionieri che essi avevano fatto. Nel 1115 ci furono delle voci secondo cui Malikshah stava preparandosi a rinnovare l’attacco ed Alessio trascorse buona parte dell’anno a pattugliare le colline della Bitinia. L’anno seguente, sebbene fosse ormai gravemente ammalato, decise di prendere egli stesso l’offensiva: marciò verso sud, su Konya, ed incontrò l’esercito turco vicino a Filomelio. Una volta ancora riuscì vincitore e Malikshah fu costretto a firmare un trattato di pace in cui prometteva di rispettare le frontiere dell’Impero, il quale controllava ora tutta la costa da Trebisonda a Seleucia di Cilicia e l’interno ad occidente di Ankara, il Deserto Salato e Filomelio. I tentativi di riconquista di Malikshah erano falliti e pochi mesi più tardi egli venne spodestato ed ucciso da suo fratello Masud, che aveva stretto alleanza con i Danishmend. Ma i turchi rimasero saldamente stabiliti nel centro dell’Anatolia e Bisanzio non era ancora in condizione di intraprendere un’azione effettiva in Siria. I principali beneficiari di queste guerre furono gli armeti del Tauro ed i principi franchi di Antiochia69.

Parte seconda L’apogeo

Capitolo primo Re Baldovino II

Non ti mancherà mai qualcuno che segga sul trono d’Israele. I Re, IX, 5

Baldovino I aveva trascurato il suo ultimo dovere di re e non aveva preso nessuna decisione per la successione al trono. Il consiglio del regno si riunì in tutta fretta. Ad alcuni nobili sembrava impensabile che la corona passasse a principi estranei alla casa di Boulogne. Baldovino era succeduto a suo fratello Goffredo, ma c’era ancora un terzo fratello, il maggiore, Stefano conte di Boulogne. Vennero rapidamente inviati messaggeri di là dal mare per informare il conte della morte di suo fratello e per implorarlo di raccoglierne l’eredità. Stefano non desiderava affatto lasciare la sua comoda contea per i rischi dell’Oriente, ma i messi affermarono che tale era il suo dovere. Parti dunque per Gerusalemme, ma arrivato nelle Puglie incontrò altri messaggeri recanti la notizia che ormai era troppo tardi: la successione era passata ad altri. Egli respinse il suggerimento di continuare il viaggio e di sostenere i propri diritti e, per nulla dispiaciuto, ripercorse il cammino verso Boulogne1. In realtà, pochi membri del consiglio avevano favorito la sua candidatura alla successione. Stefano abitava in un paese lontano, il che significava un interregno di molti mesi. Il più influente membro di quel consesso, il principe di Galilea, Jocelin di Courtenay, chiese che il trono fosse dato a Baldovino di Le Bourg, conte di Edessa: egli stesso non aveva motivo di amare il conte, come ebbe cura di far notare al consiglio, perché questi lo aveva accusato falsamente di tradimento e lo aveva esiliato dalle sue terre nel nord, ma Baldovino era un uomo di provata capacità e coraggio, era cugino del defunto re ed era l’unico sopravvissuto dei grandi cavalieri della prima crociata. Inoltre Jocelin calcolava che, se Baldovino lasciava Edessa per Gerusalemme, il meno che potesse fare per ricompensare il cugino, che aveva ricambiato cosi generosamente il suo sgarbo, era di dargli Edessa. Il patriarca Arnolfo appoggiava Jocelin; assieme essi convinsero il consiglio. Quasi a dar maggior forza alle loro argomentazioni, Baldovino di Le Bourg apparve inatteso a Gerusalemme proprio il giorno del funerale del re. Forse era stato informato della malattia di cui il sovrano aveva sofferto l’anno prima e aveva perciò pensato che fosse opportuno compiere un pellegrinaggio pasquale sui Luoghi Santi. Il consiglio lo accolse con gioia e lo elesse re all’unanimità. La domenica di Pasqua, 14 aprile 1118, il patriarca Arnolfo pose la corona sul suo capo2. Come uomo, Baldovino II era molto diverso dal suo predecessore. Sebbene abbastanza bello, con una lunga barba bionda, non possedeva l’imponente aspetto di Baldovino I. Era più accessibile, più allegro ed amante di uno scherzo alla buona, ma allo stesso tempo era astuto ed abile, meno aperto, meno impetuoso, più dotato di autocontrollo. Era capace di grandi gesti, ma in generale era un po’ meschino e non molto generoso. Nonostante i suoi arbitrii in questioni ecclesiastiche, era sinceramente pio: le sue ginocchia erano incallite per le continue preghiere. A differenza di Baldovino I, la sua vita privata era irreprensibile: con sua moglie, l’armena Morphia, egli offriva lo

spettacolo, raro nell’Oriente franco, di una perfetta felicità coniugale3. Jocelin fu debitamente ricompensato con la contea di Edessa, che doveva governare in qualità di vassallo del re Baldovino, esattamente come questi aveva fatto sotto Baldovino I. Il nuovo re fu riconosciuto come sovrano anche da Ruggero di Antiochia, suo cognato, e da Pons di Tripoli: il regno franco sarebbe rimasto unito in futuro sotto la corona di Gerusalemme4. Due settimane dopo l’incoronazione di Baldovino moriva il patriarca Arnolfo. Era stato un fedele ed efficiente servitore dello Stato, ma, nonostante le sue doti di predicatore, si era trovato coinvolto in troppi scandali per essere rispettato come uomo di chiesa. Si può dubitare che Baldovino ne abbia pianto molto la morte. Egli ottenne che al suo posto venisse eletto un prete piccardo, Gormond di Picquigny, della cui vita precedente non si sa nulla. Fu una scelta felice perché Gormond univa alle qualità pratiche di Arnolfo una vita santa ed era venerato da tutti. Questa designazione, che seguiva di poco la morte di papa Pasquale, ristabilì buoni rapporti tra Gerusalemme e Roma5. Re Baldovino aveva appena avuto il tempo di insediarsi sul trono quando ricevette l’infausta notizia di un’alleanza tra l’Egitto e Damasco. Il visir fatimita al-Afdal era ansioso di vendicare l’insolente invasione del suo territorio da parte di Baldovino I, mentre Toghtekin di Damasco era allarmato per la crescente potenza dei franchi. Baldovino gli mandò in tutta fretta un’ambasceria, ma, fiducioso nell’aiuto egiziano, Toghtekin chiese la cessione di tutti i territori franchi di là dal Giordano. Nel corso dell’estate un grosso esercito egiziano si raccolse sulla frontiera e prese posizione nelle vicinanze di Ashdod; Toghtekin fu invitato ad assumerne il comando. Per rinforzare le truppe di Gerusalemme, Baldovino convocò le milizie di Antiochia e Tripoli ed avanzò per affrontare il nemico. Per tre mesi gli eserciti si fronteggiarono senza che nessuno dei due osasse prendere l’iniziativa, perché ciascuno, secondo le parole di Fulcherio di Chartres, preferiva vivere piuttosto che morire. Alla fine i soldati delle due parti si dispersero tornandosene alle loro case6. Nel frattempo la partenza di Jocelin per Edessa veniva rinviata: la sua presenza era molto più necessaria in Galilea che nella contea settentrionale dove, a quanto sembra, rimaneva la regina Morphia e dove Valeriano, signore di Birejik, reggeva il governo 7. Jocelin, quale principe di Galilea, doveva difendere la regione contro gli attacchi provenienti da Damasco. Nell’autunno Baldovino si uni a lui in una scorreria su Deraa nell’Hauran, il granaio di Damasco. Buri, figlio di Toghtekin, mosse per affrontarli, ma per sua avventatezza venne duramente sconfitto. Dopo questo scacco suo padre volse di nuovo la sua attenzione al nord8. Nella primavera del 1119 Jocelin fu informato che una ricca tribù di beduini stava pascolando le sue greggi in Transgiordania, vicino allo Yarmuk. Egli parti per razziarli, insieme con due dei più importanti nobili della Galilea, i fratelli Goffredo e Guglielmo di Bures, e circa centoventi cavalleggeri. Il gruppo si divise per accerchiare gli uomini della tribù, ma le cose si misero male per loro: il capo beduino era stato avvertito e Jocelin smarrì la strada tra le colline; Goffredo e Guglielmo caddero in un’imboscata mentre si precipitavano ad attaccare l’accampamento, Goffredo venne ucciso e la maggior parte dei suoi seguaci venne fatta prigioniera. Jocelin tornò tristemente a Tiberiade e fece avvertire re Baldovino, il quale giunse con grandi forze che spaventarono i beduini e li persuasero a restituire i prigionieri pagando anche un’indennità. Poi fu loro concesso di trascorrere in pace l’estate9. Mentre Baldovino, di ritorno dalla sua breve campagna, si tratteneva a Tiberiade, venne raggiunto da messaggeri provenienti da Antiochia che lo imploravano di accorrere a marce forzate verso nord con il suo esercito. Fin dai tempi della vittoria di Ruggero di Antiochia a Tel-Danith, la sfortunata città di Aleppo

era stata impotente a impedire aggressioni franche. Si era posta con riluttanza sotto la protezione dell’ortoqida IIghazi, ma la conquista di Bizaa, compiuta da Ruggero nel 1119, l’aveva lasciata circondata da tre Iati. La perdita di Bizaa era più di quanto II-ghazi potesse tollerare. Finora né lui, né il suo fedele alleato Toghtekin di Damasco erano stati disposti a rischiare tutte le loro forze in una battaglia contro i franchi, perché temevano e detestavano ancora di più i sultani selgiuchidi dell’Oriente. Ma nell’aprile del 1118 il sultano Mohammed era deceduto e in tutto il suo Impero la sua morte aveva lasciato via libera all’ambizione di qualunque governatore e signorotto. Il suo giovane figlio e successore, Mahmud, tentò pateticamente di riaffermare la propria autorità, ma infine, nell’agosto del 1119, fu costretto a trasmettere il potere supremo a suo zio Sanjar, re del Khorasan, e trascorse il resto della sua breve vita dedicandosi ai piaceri della caccia. Sanjar, che fu l’ultimo della propria famiglia a governare sopra l’intero territorio selgiuchida orientale, era abbastanza energico, ma i suoi interessi si trovavano in Oriente: non si occupò mai della Siria. Nemmeno i suoi cugini del sultanato di Rum erano in migliori condizioni per intervenire negli affari siriani, poiché erano occupati in dispute che li opponevano gli uni agli altri e ai Danishmend, nonché in guerre con Bisanzio10. A Ilghazi, il più tenace dei principi indigeni, si presentò finalmente l’occasione propizia: egli non desiderava tanto distruggere gli Stati franchi, quanto assicurarsi il possesso di Aleppo; quest’ultima azione, però, implicava ormai anche la prima. Durante la primavera del 1119 Ilghazi viaggiò a lungo nei propri territori allo scopo di radunare le sue truppe turcomanne, e condusse trattative ottenendo che i curdi inviassero al nord dei contingenti ed altrettanto facessero gli arabi delle tribù del deserto. Per motivi puramente formali si rivolse al sultano Mahmud chiedendo aiuto, ma non ricevette alcuna risposta; invece il suo alleato Toghtekin acconsentì a salire da Damasco e i Munqiditi di Shaizar promisero di compiere un’azione di diversione a sud del territorio di Ruggero11. Alla fine di maggio l’esercito ortoqida, forte, a quanto pare, di quarantamila uomini, si mise in movimento. Ruggero accolse la notizia con molta calma, ma il patriarca Bernardo lo esortò a chiamare in soccorso re Baldovino e Pons di Tripoli. Da Tiberiade, Baldovino mandò a dire che sarebbe accorso al più presto e che avrebbe portato con sé le truppe di Tripoli; nel frattempo Ruggero aspettasse tenendosi sulla difensiva. Poi il re riunì l’esercito di Gerusalemme e ne rese più saldo il morale recando un pezzo della Vera Croce, che venne affidato alle cure di Evremar, arcivescovo di Cesarea12. Mentre i Munqiditi compivano una scorreria su Apamea, Ilghazi inviò verso sud-ovest alcuni distaccamenti turcomanni, che dovevano ricongiungersi con loro e con le truppe che stavano arrivando da Damasco. Egli stesso, con il grosso del proprio esercito, predò il territorio di Edessa, ma non fece nessun tentativo contro la sua capitale fortificata. A metà giugno attraversò l’Eufrate a Balis e proseguì, accampandosi poi a Qinnasrin, circa quindici miglia a sud di Aleppo, per attendervi Toghtekin. Ruggero fu meno paziente: nonostante il messaggio di re Baldovino, nonostante il solenne avvertimento del patriarca Bernardo e nonostante tutte le precedenti esperienze dei principi franchi, decise di affrontare subito il nemico. Il 20 giugno condusse oltre il Ponte di Ferro l’intero esercito di Antiochia, settecento cavalieri e quattromila fanti, e si accampò di fronte al piccolo forte di Tel-Aqibrin, al limite orientale della pianura di Sarmeda, dove la configurazione accidentata del terreno offriva buone difese naturali. Sebbene le sue forze fossero di gran lunga inferiori a quelle del nemico, egli sperava di potersi fermare in quei luoghi fino all’arrivo di Baldovino. A Qinnasrin, Ilghazi era perfettamente informato dei movimenti di Ruggero: spie travestite da mercanti avevano ispezionato l’accampamento franco e dato notizia dell’inferiorità numerica del suo

esercito. Benché Ilghazi desiderasse attendere l’arrivo di Toghtekin, i suoi emiri turcomanni gli fecero pressioni perché prendesse l’iniziativa. Il 27 giugno una parte del suo esercito avanzò per attaccare il castello franco di Athareb. Ruggero ebbe appena il tempo di inviarvi in tutta fretta una parte dei suoi uomini, al comando di Roberto di Vieux-Ponts, poi, inquieto di trovarsi il nemico cosi vicino, quando caddero le tenebre mandò tutto il tesoro dell’esercito al castello di Artah, sulla strada di Antiochia. Per tutta la notte Ruggero attese con ansia notizie dei movimenti musulmani, mentre il riposo dei suoi soldati era disturbato da un sonnambulo che si aggirava per l’accampamento gridando che stava per abbattersi su di loro una catastrofe. All’alba del sabato 28 giugno gli esploratori avvertirono il principe che il campo era circondato. Un secco, snervante chamsin soffiava da sud e nell’accampamento scarseggiavano il cibo e l’acqua. Ruggero si rese conto che doveva riuscire ad aprirsi un varco attraverso le file nemiche o morire. Con l’esercito si trovava anche Pietro, arcivescovo di Apamea, precedentemente primo vescovo franco d’Oriente ad Albara. Egli riunì tutti i soldati, rivolse loro un sermone e li confessò; confessò anche Ruggero nella sua tenda e gli diede l’assoluzione per i suoi numerosi peccati carnali. Poi il principe annunciò arditamente che sarebbe andato a caccia, ma prima mandò fuori un altro drappello di esploratori, che cadde in un’imboscata. I pochi scampati si affrettarono a tornare per annunziare che non c’era possibilità di fuga attraverso l’accerchiamento. Ruggero divise il suo esercito in quattro sezioni, più una di riserva, dopo di che l’arcivescovo li benedisse ancora una volta ed essi caricarono in perfetto ordine contro il nemico. Era una carica disperata fin dall’inizio: non c’era nessuna possibilità di mettersi in salvo attraverso le orde di cavalieri ed arcieri turcomanni. I fanti, reclutati sul luogo, siriani ed armeni, furono i primi a lasciarsi cogliere dal panico, ma non potevano fuggire in nessun luogo: si ammassarono in mezzo alla cavalleria, ostacolando i cavalli. Il vento cambiò improvvisamente, soffiando da nord con crescente intensità e lanciando nugoli di polvere sulla faccia dei franchi. Nelle fasi iniziali della battaglia meno di un centinaio di cavalieri riuscì a passare le linee nemiche e a congiungersi con Roberto di Vieux-Ponts, tornato da Athareb troppo tardi per partecipare al combattimento: essi fuggirono ad Antiochia. Poco dopo trovarono scampo Rinaldo Mazoir ed alcuni cavalieri, che raggiunsero la piccola città di Sarmeda, nella pianura. Nessun altro sopravvisse dell’esercito antiocheno. Ruggero stesso cadde combattendo ai piedi della sua grande croce adorna di gioielli. Intorno a lui caddero i suoi cavalieri, eccetto pochi, meno fortunati, che vennero fatti prigionieri. A mezzogiorno tutto era terminato. I franchi ricordarono il luogo della battaglia con il nome di Ager sanguinis, il campo di sangue13. Ad Aleppo, lontana quindici miglia, i fedeli aspettavano ansiosamente notizie. Verso mezzogiorno si sparse la voce che una grande vittoria era stata riservata all’Islam e all’ora della preghiera pomeridiana furono visti avvicinarsi i primi soldati esultanti. Ilghazi si trattenne sul campo di battaglia soltanto il tempo necessario per permettere ai suoi uomini di raccogliere il bottino, poi marciò su Sarmeda, dove Rinaldo Mazoir gli si arrese. Il fiero comportamento di Rinaldo impressionò Ilghazi che gli risparmiò la vita; i suoi compagni vennero invece trucidati. I prigionieri franchi furono trascinati in catene attraverso la pianura, dietro ai vincitori. Mentre Ilghazi parlamentava con Rinaldo, essi furono torturati e trucidati tra i vigneti dai turcomanni, finché il loro capo non pose fine al massacro per non privare la plebaglia di Aleppo di tutto il divertimento. I superstiti furono condotti nella città, dove Ilghazi fece il suo ingresso trionfale al tramonto; qui, nelle vie, i prigionieri vennero torturati a morte14. Mentre ad Aleppo il vincitore stava banchettando per festeggiare la sua vittoria, le terribili

notizie della battaglia giungevano ad Antiochia. Tutti si aspettavano che i turcomanni sarebbero apparsi subito per attaccare la città: e non c’erano soldati per difenderla. In quel momento critico il patriarca Bernardo assunse il comando. Il suo maggior timore era il tradimento dei cristiani indigeni, che egli stesso, con le proprie azioni, aveva tanto contribuito ad indisporre. Li fece subito disarmare ed impose loro il coprifuoco; poi distribuì le armi che poté raccogliere agli ecclesiastici ed ai mercanti franchi e li pose di guardia alle mura. Essi vigilarono notte e giorno, mentre veniva inviato un messaggero per incitare re Baldovino ad affrettarsi15. Ma Ilghazi non raccolse i frutti della sua vittoria. Scrisse ai vari monarchi del mondo musulmano per raccontare loro il proprio trionfo; il califfo gli inviò in ricompensa una veste d’oro e il titolo di Stella della religione16. Nel frattempo marciò su Artah. Il vescovo che aveva il comando di una delle torri, la consegnò in cambio di un salvacondotto per Antiochia, ma un certo Giuseppe, probabilmente armeno, che comandava la cittadella dove era custodito il tesoro di Ruggero, persuase Ilghazi di essere un simpatizzante dei musulmani, ma vincolato dal fatto che suo figlio era trattenuto come ostaggio ad Antiochia. Ilghazi rimase colpito da questo racconto e lasciò Artah nelle mani di Giuseppe, accontentandosi di inviare uno dei suoi emiri a risiedere nella città come suo rappresentante17. Da Artesia tornò ad Aleppo dove si dedicò a una tal serie di allegri festeggiamenti da mettere in crisi la sua salute. Truppe turcomanne vennero inviate a predare i sobborghi di Antiochia ed a saccheggiare il porto di San Simeone, ma riferirono che la città aveva una buona guarnigione. Cosi i musulmani sprecarono i frutti del campo di sangue18. Nondimeno la situazione era seria per i franchi. Baldovino era già arrivato a Lattakieh, con Pons che lo seguiva da vicino, prima di aver ricevuto le notizie. Proseguì in tutta fretta, senza fermarsi nemmeno per attaccare un accampamento turcomanno indifeso ai margini della strada, e giunse ad Antiochia senza incidenti nei primi giorni di agosto. Ilghazi inviò parte delle sue truppe per intercettare l’esercito di soccorso e Pons, che seguiva ad un giorno di marcia, dovette respingere i loro assalti, ma non ne fu trattenuto a lungo. Il re fu accolto con gioia da sua sorella, la principessavedova Cecilia, dal patriarca e da tutto il popolo: un Te Deum venne celebrato nella cattedrale di San Pietro. Per prima cosa rastrellò i sobborghi dai predoni, poi si incontrò con i notabili della città per discutere del suo futuro governo. Il principe legittimo, Boemondo II, di cui Ruggero aveva sempre riconosciuto i diritti, era un ragazzo di dieci anni che viveva in Italia con sua madre. In Oriente non c’era più nessun membro della casa normanna e tutti i cavalieri normanni erano periti sul campo di sangue. Fu deciso che Baldovino, in qualità di sovrano dell’Oriente franco, avrebbe assunto egli stesso il governo di Antiochia, finché Boemondo non fosse diventato maggiorenne; questi avrebbe poi sposato una delle figlie del re. Quindi Baldovino ridistribuì i feudi del principato rimasti vacanti per il disastro. Dovunque era possibile, le vedove dei feudatari caduti vennero fatte risposare subito con cavalieri dell’esercito reale di rango e condizione adatta o con nuovi venuti dall’Occidente. Analogamente le due principesse, la vedova di Tancredi, ora contessa di Tripoli, e la vedova di Ruggero si occuparono di insediare nuovi vassalli nelle loro terre doarie. Allo stesso tempo, probabilmente, Baldovino risistemò i feudi della contea di Edessa e Jocelin, che aveva seguito il re dalla Palestina, vi venne insediato ufficialmente come suo conte. Dopo aver cosi assicurato l’amministrazione della regione e dopo aver guidato una processione a piedi nudi alla cattedrale, Baldovino condusse contro i musulmani il suo esercito di circa settecento cavalieri ed un migliaio di fanti19. Nel frattempo Ilghazi era stato raggiunto da Toghtekin ed i due capi musulmani partirono Fu

agosto per conquistare le fortezze franche a oriente dell’Oronte, cominciando da Athareb, la cui piccola guarnigione si arrese subito in cambio di un salvacondotto per Antiochia. Il giorno seguente gli emiri proseguirono su Zerdana, il cui signore, Roberto il Lebbroso, si era recato nella capitale antiochena. Anche qui la guarnigione si arrese per aver salva la vita; ma i difensori vennero massacrati dai turcomanni a misura che uscivano dalle porte. Baldovino aveva sperato di salvare Athareb, ma aveva appena attraversato il Ponte di Ferro quando ne incontrò la guarnigione fuggitiva. Proseguii verso sud e venne informato dell’assedio di Zerdana; sospettando che i musulmani intendessero spingersi ancor più a meridione per assalire i castelli intorno a Maarat an-Numan e ad Apamea, si affrettò ad avanzare e il 13 si accampò a Tel-Danith, sui luoghi che avevano visto la vittoria di Ruggero nel 1115. La mattina seguente per tempo ebbe la notizia della caduta di Zerdana e giudicò più prudente ritirarsi un poco verso Antiochia. Nel frattempo Ilghazi era risalito con la speranza di sorprendere nel sonno i franchi, vicino al villaggio di Hab. Ma Baldovino era pronto: si era già confessato, l’arcivescovo di Cesarea aveva rivolto una predica alle truppe ed innalzato la Vera Croce per benedirle: l’esercito era pronto all’azione. La battaglia che seguì fu confusa ed ambedue le parti si attribuirono la vittoria; in realtà i franchi se la cavarono meglio. Toghtekin respinse Pons di Tripoli, che si trovava all’ala destra franca, ma i tripolini non ruppero le file. Vicino a lui Roberto il Lebbroso caricò il reggimento di Homs, sconvolgendolo e subito pensò di riconquistare Zerdana, ma cadde in un’imboscata e venne fatto prigioniero. Il centro e la sinistra dei franchi tennero duro e, nel momento cruciale, Baldovino poté caricare il nemico con truppe ancora fresche. Numerosi turcomanni volsero le spalle e si diedero alla fuga, ma il grosso dell’esercito di Ilghazi abbandonò in buon ordine il campo di battaglia. Ilghazi e Toghtekin si ritirarono verso Aleppo con un lungo seguito di prigionieri e poterono annunziare al mondo musulmano che la vittoria era loro. Ancora una volta agli abitanti della città fu data la soddisfazione di assistere a un massacro in massa di cristiani, finché Ilghazi, dopo aver interrotto la carneficina per provare un nuovo cavallo, si inquietò per la perdita di tanto potenziale denaro esigibile per il riscatto. Fu chiesto a Roberto il Lebbroso il suo prezzo ed egli replicò che era di diecimila monete d’oro. Ilghazi sperò di far alzare il prezzo inviando Roberto da Toghtekin, ma questi non aveva ancora soddisfatto la sua sete di sangue: sebbene Roberto fosse un suo vecchio amico, fin dal 1115, egli stesso gli tagliò la testa con costernazione di Ilghazi, che aveva bisogno di denaro per la paga dei suoi uomini20. I soldati che fuggivano dall’esercito di Pons avevano portato ad Antiochia la notizia di una sconfitta, ma ben presto giunse un messaggero per la principessa Cecilia recando l’anello del re come pegno del suo successo. Baldovino non cercò di inseguire l’esercito musulmano, ma avanzò verso sud in direzione di Maarat an-Numan e di Rusa, occupata dai Munqiditi di Shaizar. Li ricacciò, ma poi venne a patti con loro, esonerandoli dall’obbligo di pagare i tributi annui che Ruggero aveva richiesto. Vennero pure riconquistati gli altri fortilizi occupati dai musulmani, ad eccezione di Birejik, Athareb e Zerdana. Poi Baldovino tornò ad Antiochia in trionfo ed inviò a sud la Santa Croce perché giungesse a Gerusalemme in tempo per la festa dell’Esaltazione, il 14 settembre. Egli stesso trascorse l’autunno nel principato per completare le disposizioni che aveva cominciato a prendere prima della recente battaglia. In dicembre fece il viaggio di ritorno a Gerusalemme, dopo aver lasciato il patriarca Bernardo ad amministrare Antiochia in suo nome ed aver insediato Jocelin a Edessa21. Da quest’ultima città condusse con sé sua moglie e le loro figliolette nel viaggio verso sud; durante le celebrazioni del Natale a Betlemme Morphia venne incoronata regina22. Ilghazi non aveva osato attaccare di nuovo i franchi, e il suo esercito si stava squagliando; le

truppe turcomanne erano venute soprattutto per brama di saccheggio, ma dopo la battaglia di TelDanith vennero lasciate in ozio ad annoiarsi, mentre la loro paga era in arretrato. Cominciarono a tornarsene a casa, e cosi pure fecero i capi-tribù arabi dello Jezireh. Ilghazi non poté impedirlo, perché si era ammalato ancora una volta, rimanendo per due settimane tra la vita e la morte; quando si riprese era troppo tardi per riprendere in mano l’esercito. Da Aleppo tornò nella sua capitale orientale, a Mardin, e Toghtekin fece ritorno a Damasco23. Cosi la grande campagna ortoqida fini in coda di pesce, senza aver ottenuto nessun risultato concreto per i musulmani, eccetto la conquista di alcuni fortilizi di frontiera e l’alleggerimento della pressione franca su Aleppo. Ma era stato un grande trionfo morale per l’Islam: la battuta d’arresto a Tel-Danith non aveva controbilanciato la grande vittoria del campo di sangue. Se Ilghazi fosse stato più abile e più vigilante, Antiochia avrebbe potuto essere sua. Cosi come stavano le cose il massacro della cavalleria normanna, con il suo principe in testa, incoraggiò gli emiri dello Jezireh e della Mesopotamia settentrionale a rinnovare l’attacco, dal momento che erano liberi dalla tutela del loro nominale sovrano selgiuchida della Persia. Presto sarebbe sorto un uomo più grande di Ilghazi. Per i franchi la conseguenza più disastrosa della campagna era stata la spaventosa perdita di uomini: non si potevano sostituire facilmente i cavalieri, ed ancor meno i fanti, caduti sul campo di sangue. Ma finalmente la lezione che indicava ai franchi d’Oriente la necessità di collaborare sempre e di operare come un tutto unico, era stata capita a fondo. Il rapido intervento di re Baldovino aveva salvato Antiochia; quali fossero le necessità del momento lo si poté vedere dalla prontezza con cui tutti i franchi lo accettarono quale effettivo sovrano. Il disastro saldò assieme gli Stati cristiani della Siria. Al suo ritorno a Gerusalemme Baldovino si occupò dell’amministrazione del regno. La successione del principato di Galilea fu data a Guglielmo di Bures e rimase in seguito alla sua famiglia. Nel gennaio del 1120 il re convocò in concilio a Nablus gli ecclesiastici e i principali vassalli del regno, per discutere sulla vita morale dei suoi sudditi, probabilmente in un tentativo di frenare la tendenza dei coloni latini in Oriente ad adottare i facili e indolenti costumi che trovavano nel paese. Allo stesso tempo si preoccupava per la loro prosperità materiale. Sotto Baldovino I un numero crescente di latini era stato incoraggiato a stabilirsi a Gerusalemme dove, accanto ai guerrieri e agli ecclesiastici del regno, si stava sviluppando una classe borghese latina. A costoro era stata concessa una completa libertà di commercio, da e per la città, mentre, per assicurare un ampio rifornimento di viveri, si permetteva ai cristiani indigeni e persino a certi mercanti arabi di portare verdura e grano in città, senza pagare dazio24. L’avvenimento di politica interna più importante di quegli anni fu la fondazione degli ordini militari. Nel 1070 alcuni pii cittadini di Amalfi avevano fondato a Gerusalemme un ospizio ad uso dei pellegrini poveri. Il governatore egiziano che amministrava allora la città aveva concesso al console amalfitano di scegliere un luogo adatto e l’edificio era stato dedicato a san Giovanni l’Elemosiniere, il caritatevole patriarca di Alessandria del secolo VII. Il personale dell’ospizio era costituito principalmente da amalfitani, che pronunciavano i consueti voti monastici e si trovavano sotto la direzione di un maestro, a sua volta controllato dalle autorità benedettine di Palestina. Al tempo della conquista di Gerusalemme da parte dei crociati, il maestro era un certo Gerardo, probabilmente un amalfitano, che il governatore musulmano aveva espulso dalla città assieme ai suoi correligionari prima che l’assedio avesse inizio; la sua conoscenza della situazione locale era stata preziosa per i crociati. Egli persuase il nuovo governo franco a dotare l’ospedale di beni propri. Molti pellegrini vennero ad aumentare il suo personale, che fu ben presto esonerato dall’obbedienza

benedettina e si costituì come ordine indipendente, sotto il nome di ospitalieri, con obbligo di obbedienza diretta al papa. Gli vennero concesse altre terre e la maggior parte dei grandi dignitari ecclesiastici del reame gli offrirono una decima dalle proprie rendite. Gerardo morì verso il 1118; il suo successore, il francese Raimondo di Le Puy, aveva idee assai più ampie: decise che non era sufficiente che il suo ordine guidasse ed accogliesse pellegrini, ma che doveva essere pronto a combattere per mantenere aperte le strade dei pellegrinaggi. L’ordine aveva ancora un certo numero di fratelli i cui doveri erano puramente pacifici, ma la sua funzione principale divenne quella di provvedere al mantenimento di un corpo di cavalieri vincolati dai voti religiosi di povertà personale, castità ed obbedienza, e consacrati alla lotta contro gli infedeli. Circa nello stesso tempo, quasi per sottolineare il più alto livello sociale dell’ospedale, Giovanni l’Elemosiniere venne a poco a poco sostituito, come santo patrono, da Giovanni l’Evangelista. L’emblema distintivo dei cavalieri ospitalieri era la croce bianca che portavano sulle loro tuniche sopra l’armatura. Questa trasformazione venne favorita dalla contemporanea fondazione dei cavalieri templari. In realtà, l’idea di un ordine che fosse allo stesso tempo religioso e militare nacque probabilmente nel cervello di un cavaliere della Champagne, Ugo di Payens, che nel 1118 convinse re Baldovino I a concedergli di sistemarsi con alcuni compagni in un’ala del palazzo reale, l’antica moschea di alAqsa, nell’area del Tempio. Come gli ospitalieri, anche i templari seguirono dapprima la regola benedettina, ma si costituirono quasi subito come ordine indipendente, diviso in tre classi: i cavalieri, tutti di nobile nascita; i sergenti, provenienti dalla borghesia, che erano gli inservienti e i dispensieri della comunità, e gli ecclesiastici, che erano cappellani e incaricati di compiti non militari. La loro insegna era la croce rossa, portata su una tunica bianca dai cavalieri e su una nera dai sergenti. Il primo esplicito dovere dell’ordine era di mantenere libera dai predoni la strada dalla costa a Gerusalemme, ma ben presto essi presero parte ad ogni campagna in cui venisse coinvolto il regno. Ugo stesso trascorse buona parte del suo tempo nell’Europa occidentale, reclutando nuovi membri per il suo ordine. Re Baldovino diede il suo completo appoggio agli ordini militari, anche se essi erano indipendenti dalla sua autorità e dovevano obbedienza soltanto al papa. Perfino le grandi proprietà di cui egli stesso ed i suoi vassalli cominciavano a dotarli non comportavano nessun obbligo di combattere nell’esercito del re; ma dovette passare una generazione prima che essi fossero abbastanza ricchi da poter sfidare l’autorità reale. Nel frattempo fornivano al regno ciò di cui aveva maggiormente bisogno, cioè un esercito regolare di esperti soldati, di cui era sicura la presenza permanente. Nei feudi secolari la morte improvvisa del signore e il passaggio dell’eredità a una donna o a un bambino poteva compromettere l’organizzazione militare di quel territorio e coinvolgere continuamente il sovrano in problemi urgenti e faticosi; egli inoltre non poteva nemmeno fare affidamento sulla possibilità di sostituire, dove ne avesse bisogno, i feudatari che perdeva con nuovi nobili venuti da Occidente. Ma gli ordini militari, con la loro efficiente organizzazione e il fascino e prestigio che si stavano diffondendo per tutta la cristianità occidentale, potevano garantire un regolare afflusso di combattenti devoti, che non si sarebbero lasciati distrarre da sogni ambiziosi e prospettive di guadagno personale25, Baldovino tornò ad Antiochia nel 1120. Il governatore di Ilghazi ad Athareb, Bulaq, aveva cominciato a razziare il territorio antiocheno, mentre Ilghazi stesso avanzava su Edessa: le due incursioni vennero arrestate, ma l’emiro si spostò nelle vicinanze di Antiochia; il patriarca Bernardo, inquieto, mandò a chiamare il re da Gerusalemme. In giugno Baldovino parti verso il nord, recando con sé ancora una volta la Vera Croce, con gran dolore della chiesa di Gerusalemme che deplorava vedere la sua preziosa reliquia esposta ai pericoli della guerra. Il patriarca Gormond in persona

accompagnò l’esercito per prendersi cura della reliquia. Quando Baldovino giunse nel nord trovò che Ilghazi si era già ritirato, poiché indebolito dalle diserzioni delle sue truppe turcomanne, e che i musulmani erano cosi allarmati che avevano convocato Toghtekin ad Aleppo. Durante la campagna che seguì, ambedue le parti marciarono avanti ed indietro, sinché alla fine i maomettani si stancarono: Toghtekin si ritirò a Damasco ed Ilghazi fece una tregua con Baldovino. Per delimitare le rispettive zone di influenza venne tracciata una frontiera ben definita che in un posto tagliava a metà un mulino e in un altro un castello, perciò per mutuo consenso gli edifici furono distrutti. Zerdana, che rimaneva come un’isola musulmana in territorio cristiano, venne smantellata26. Al principio della primavera seguente Baldovino tornò a Gerusalemme, dopo aver ottenuto una vittoria morale senza spargimento di sangue. La sua presenza era necessaria nel sud, poiché Toghtekin, credendolo completamente impegnato nel nord, aveva compiuto un’estesa scorreria in Galilea. Nel luglio del 1121 per rappresaglia, Baldovino attraversò il Giordano e devastò lo Jaulan, occupando e distruggendo un forte che Toghtekin aveva costruito a Jerash27. Nel frattempo Jocelin condusse nello Jezireh una vantaggiosa razzia attraverso le terre di Ilghazi28. Durante l’estate del 1121 un nuovo fattore fece sentire la propria influenza nella politica dell’Oriente. Nel lontano settentrione, nella zona collinosa ai piedi del Caucaso, i re bagratidi di Georgia avevano affermato la loro egemonia sui popoli cristiani rimasti indipendenti dalla dominazione musulmana; re Davide II aveva esteso il proprio dominio al sud della valle dell’Arasse, dove entrò in conflitto con il principe selgiuchida Toghrul, governatore di Harran. Dopo aver subito una sconfitta ad opera delle truppe di Davide, quegli invitò Ilghazi ad unirsi a lui in una guerra santa contro l’impudente cristiano. La campagna che seguì fu disastrosa per i musulmani: nell’agosto del 1121 l’esercito congiunto di Toghrul e di Ilghazi venne quasi annientato dai georgiani ed Ilghazi riuscì a malapena a salvare la vita e a tornare fuggiasco a Mardin. Re Davide poté cosi insediarsi nell’antica capitale georgiana, Tiflis, e nel 1124 aveva ormai conquistato anche l’Armenia settentrionale e la metropoli di Ani, antico luogo d’origine della sua famiglia. Da quel momento in poi l’intero mondo turco divenne angosciosamente consapevole del pericolo che la Georgia, con la sua formidabile posizione strategica, rappresentava per tutti. La morte di Davide II, avvenuta nel 112529 non fece diminuire il pericolo poiché i suoi successori ne ereditarono l’energia. Il loro valore militare, che manteneva i musulmani in uno stato di costante preoccupazione per la loro frontiera settentrionale, era molto prezioso per i franchi, sebbene non pare che vi fosse alcun contatto diretto tra le due potenze cristiane. I georgiani, uniti a Bisanzio da vincoli religiosi e culturali tradizionali, non avevano nessuna simpatia per i latini e la sufficienza con cui venivano trattate le loro istituzioni religiose a Gerusalemme non poteva certo riuscire gradita ad un popolo orgoglioso30. Nondimeno, la sorte subita da Ilghazi per opera loro offrì a Baldovino un’occasione che egli non si lasciò sfuggire. Suleiman, figlio dell’emiro sconfitto, da poco nominato governatore di Aleppo, approfittò avventatamente della sconfitta del padre per proclamare la propria indipendenza e, non potendo fronteggiare l’attacco che Baldovino lanciò immediatamente contro di lui, fece la pace con i franchi cedendo loro Zerdana ed Athareb, frutti della vittoria di Ilghazi. Questi si affrettò a castigare il figlio ribelle, ma giudicò prudente ratificare il trattato con Baldovino, il quale tornò a Gerusalemme molto soddisfatto delle imprese di quell’anno31. Al principio del 1122 Pons, conte di Tripoli, rifiutò improvvisamente di rendere obbedienza al re. Il motivo della sua insubordinazione non è noto ed è difficile vedere di quali appoggi egli sperasse di giovarsi per poter perseverare in questo atteggiamento. Baldovino, furibondo, convocò

subito i suoi vassalli per muovere contro il ribelle. L’esercito reale risalì da Acri e al suo avvicinarsi Pons si sottomise e venne perdonato32. La sua sottomissione avveniva al momento opportuno poiché Ilghazi, sospinto da suo nipote Balak, ex principe di Saruj ed ora signore di Khanzit, stava ancora una volta per muovere guerra ai franchi. A tale notizia Baldovino si mostrò incredulo: egli aveva stipulato un trattato con Ilghazi e riteneva che un gentiluomo (il cronista arabo adopera la parola «sceicco») mantenesse la sua parola. Ma Ilghazi non era un uomo d’onore e aveva ricevuto una promessa d’aiuto da Toghtekin. Cinse d’assedio Zerdana, che i franchi avevano ricostruito, e già ne aveva conquistato una parte delle fortificazioni quando Baldovino giunse nelle vicinanze. Seguì un’altra campagna senza una battaglia, poiché il re non si lasciò ingannare dal solito stratagemma turco di una finta fuga. Ancora una volta i musulmani furono i primi a stancarsi di marciare avanti e indietro, e tornarono alle loro case. Baldovino, contento, rimandò la Croce a Gerusalemme e andò ad Antiochia33. Prima che la reliquia fosse arrivata a destinazione, giunsero da Edessa cattive notizie: il 13 settembre 1122 il conte Jocelin e Valeriano di Birejik transitavano a cavallo, con un piccolo gruppo di cavalleggeri, nelle vicinanze di Saruj, quando improvvisamente si imbatterono nell’esercito di Balak. Caricarono il nemico, ma un violento acquazzone trasformò la pianura in un pantano. I cavalli scivolavano ed incespicavano e i turcomanni, armati più leggermente, non ebbero nessuna difficoltà a circondare i franchi: vennero catturati Jocelin, Valeriano e sessanta dei loro compagni. Balak offrì loro subito la libertà in cambio della cessione di Edessa, ma quando Jocelin rifiutò di prendere in considerazione tali condizioni, trasferì i prigionieri nel suo castello di Kharpurt34. La cattura di Jocelin non diminuiva di molto gli effettivi degli Stati crociati, infatti nel mese successivo troviamo i cavalieri di Edessa intenti a compiere fortunate incursioni in territorio musulmano; tuttavia rappresentava un colpo per il prestigio dei franchi e costrinse Baldovino ad occuparsi ancora una volta dell’amministrazione di Edessa. Per fortuna Ilghazi morì in novembre a Mayyafaraqin e i suoi figli e nipoti si divisero l’eredità ortoqida. Il figlio maggiore Suleiman ebbe Mayyafaraqin e il minore, Timurtash, Mardin. Aleppo toccò ad un nipote, Badr ad-Daulah Suleiman, mentre Balak ingrandiva i suoi possedimenti nel nord e prendeva Harran a sud35. I musulmani avevano rioccupato di recente Athareb; nell’aprile dell’anno seguente Baldovino approfittò della confusione di quel momento per costringere il debole nuovo principe di Aleppo a restituire la città. Dopo aver riconquistato Birejik, il re proseguì per Edessa per prendere disposizioni sul suo governo. Pose a capo dell’amministrazione Goffredo il Monaco, signore di Marash, poi marciò verso nord-est con un piccolo distaccamento per effettuare una perlustrazione sulla scena della prigionia di Jocelin. Il 18 aprile si accampò non lontano da Gargar, sull’Eufrate; mentre si preparava a godere una mattinata di caccia con il suo falcone, Balak, della cui vicinanza egli non sapeva assolutamente nulla, si gettò sull’accampamento. La maggior parte dell’esercito venne massacrata ed il re stesso cadde prigioniero; trattato con rispetto, venne inviato sotto scorta a raggiungere Jocelin nella fortezza di Kharpurt36. Ancora una volta Baldovino e Jocelin si ritrovarono assieme in prigionia. Ma il fatto era più grave che nel 1104, poiché ora Baldovino era re di Gerusalemme, l’elemento centrale dell’intera struttura franca, la cui stessa esistenza costituiva una dimostrazione della sua abilità amministrativa. Goffredo il Monaco continuò a governare Edessa; quando la notizia giunse ad Antiochia il patriarca Bernardo assunse nuovamente il potere, mentre a Gerusalemme si disse dapprima che il re era stato ucciso e il patriarca Gormond convocò ad Acri il consiglio del regno; quando però esso si riunì, era

ormai nota la verità sulla sua prigionia. Il consiglio elesse Eustachio Garnier, signore di Cesarea e di Sidone, perché agisse quale rappresentante del re e conestabile del regno fino alla liberazione di Baldovino. Nei tre territori la vita amministrativa continuò normalmente37. L’emiro Balak aveva acquistato un grande prestigio, ma non ne fece uso per lanciare un colpo mortale contro i franchi, bensì per stabilirsi in Aleppo; fu un’impresa più ardua di quanto egli si aspettasse perché era impopolare nella città. In giugno ne era ormai diventato padrone ed attaccò allora il territorio franco situato più a sud, conquistando in agosto Albara, ma venne subito di nuovo richiamato a nord da notizie straordinarie giuntegli da Kharpurt38. Jocelin era sempre riuscito gradito agli armeni. Poco dopo il suo arrivo in Oriente, seguendo l’esempio di Baldovino I e di Baldovino II, aveva sposato un’armena, sorella del rupeniano Thoros, la quale, a differenza delle due regine di Gerusalemme, non era ortodossa bensì seguace della Chiesa armena dissidente, quindi in rapporti di maggiore affinità con la maggior parte dei suoi compatrioti. Ella era ormai morta e Jocelin si era risposato, ma le sue buone relazioni con gli armeni erano continuate ed egli non aveva mai mostrato contro di loro il rigore di cui aveva dato prova il suo predecessore Baldovino II. Il castello di Kharpurt si trovava in una zona armena ed un contadino del luogo acconsentì a recare un messaggio agli amici armeni di Jocelin. Cinquanta di loro si recarono a Kharpurt travestiti in diversi modi e furono lasciati entrare come monaci e mercanti del distretto, desiderosi di presentare al governatore una protesta; una volta dentro la fortezza, estrassero le armi di sotto le vesti e sopraffecero la guarnigione. Baldovino e Jocelin si ritrovarono improvvisamente padroni della propria prigione. Dopo un breve consiglio si decise che il conte avrebbe lasciato la fortezza prima che giungesse l’esercito ortoqida e sarebbe andato a cercare aiuti, mentre Baldovino avrebbe tentato di difendere il castello. Jocelin sgusciò fuori con tre compagni armeni e dopo essere riuscito a passare attraverso le forze turche che si stavano radunando, rimandò indietro uno dei suoi uomini per rassicurare il re. Egli stesso proseguì attraverso la pericolosa contrada nemica, nascondendosi di giorno e viaggiando faticosamente a piedi di notte. Infine i fuggitivi raggiunsero l’Eufrate: Jocelin non sapeva nuotare, ma aveva con sé due otri da vino in cui aveva trasportato dell’acqua. Dopo averli gonfiati, li adoperò come galleggianti, mentre i suoi compagni, ambedue forti nuotatori, riuscivano a sospingerlo nell’oscurità verso l’altra riva. Il giorno seguente furono trovati da un contadino che riconobbe il conte e lo accolse con gioia, poiché Jocelin in passato gli aveva fatto delle elemosine. Con l’aiuto di quest’uomo e della sua famiglia, Jocelin continuò cautamente il viaggio verso Turbessel, dove si presentò a sua moglie e alla corte. Non volle trattenersi, e corse ad Antiochia per radunare le truppe per la liberazione del re; ma l’esercito antiocheno era poco numeroso ed il patriarca Bernardo era preoccupato. Per suo consiglio Jocelin galoppò in tutta fretta a Gerusalemme: il suo primo atto fu di offrire le sue catene all’altare del Calvario, poi convocò il consiglio del regno e raccontò come si erano svolti i fatti. Mediante l’aiuto premuroso del patriarca Gormond e del conestabile Eustachio si raccolsero delle truppe che, con la Vera Croce alla loro testa, partirono a marce forzate verso Turbessel, sotto la guida del conte; ma quando vi giunsero vennero informate che era troppo tardi. Quando le notizie del colpo di mano avvenuto a Kharpurt erano giunte a Balak, questi aveva fatto risalire immediatamente da sud il suo esercito ad una velocità tale che stupì i contemporanei. Al suo arrivo offrì a Baldovino un salvacondotto per tornare nel suo regno dietro consegna del castello, ma il re rifiutò, sia perché diffidava dell’emiro, sia perché non voleva abbandonare i suoi compagni. Il castello, però, non era cosi inespugnabile come egli aveva immaginato. I genieri di Balak minarono ben presto un muro e l’esercito ortoqida fece irruzione. Questa volta Balak non mostrò nessuna pietà:

nel castello si trovava il suo harem la cui inviolabilità era stata profanata. Tutti i difensori della fortezza, franchi o armeni che fossero, ed ogni donna che li avesse aiutati - c’erano, probabilmente, delle schiave armene nell’harem - vennero gettati giù dalle mura merlate e uccisi. Furono risparmiati soltanto il re, un suo nipote e Valeriano i quali, per maggior sicurezza, vennero trasferiti al castello di Harran39. Jocelin non poteva affrontare i rischi di una campagna contro Harran, perciò, dopo aver impiegato il suo esercito per una fortunata scorreria nelle vicinanze di Aleppo, lo licenziò e se ne tornò a Turbessel. Ma anche Balak non era in condizione di approfittare della situazione. L’unica rappresaglia con cui il suo luogotenente di Aleppo poté rispondere ai franchi fu la trasformazione delle chiese della città in moschee, che offendeva i cristiani indigeni e non danneggiava affatto i latini. Balak stesso venne ad Aleppo per organizzare una nuova campagna, ma al principio del 1124 il governatore di Menbij si ribellò alla sua autorità. Fu arrestato dall’ortoqida Timurtash a cui Balak aveva chiesto di schiacciare la rivolta, ma il fratello del ribelle, Isa, tenne la cittadella e chiese aiuto a Jocelin. Balak affrontò l’esercito cristiano e lo sconfisse, uccidendo Goffredo il Monaco; poi proseguì su Menbij, impaziente di ristabilirvi l’ordine, poiché aveva appena ricevuto da Tiro un urgente appello, ma il 6 maggio una freccia errante lanciata dalla cittadella pose termine alla sua vita. Morì sussurrando che la sua fine era un colpo mortale per l’Islam. Aveva ragione, poiché si era dimostrato più energico e più saggio di tutti gli altri capi turchi con cui i crociati si erano scontrati. La potenza degli Ortoqidi non gli sopravvisse a lungo40. All’interno del regno di Gerusalemme l’assenza di Baldovino prigioniero non aveva avuto nessuna conseguenza dannosa. Aveva indotto ancora una volta gli egiziani a invadere il paese, ed infatti nel maggio del 1123 un grosso esercito avanzò da Ascalona verso Giaffa. Eustachio Garnier condusse immediatamente le forze di Gerusalemme ad affrontarlo; egli aveva con sé la Vera Croce e intanto i civili cristiani della Città Santa andavano scalzi in processione alle chiese. Queste pie precauzioni non erano quasi necessarie, poiché, quando il 29 maggio i franchi si scontrarono con gli egiziani ad Ibelin, questi, nonostante la loro enorme superiorità numerica, fuggirono abbandonando l’accampamento al saccheggio dei cristiani41. Fu l’ultima impresa di Eustachio; egli moriva infatti il 15 maggio. Secondo l’uso del regno la sua vedova, Emma, la ricca nipote del patriarca Arnolfo, prese immediatamente un altro marito, Ugo di Le Puiset, conte di Giaffa, affinché le sue terre non rimanessero prive di un efficiente amministratore. La carica di conestabile del regno venne affidata dal consiglio a Guglielmo di Bures, principe di Galilea42. Nel 1119, subito dopo la battaglia del campo di sangue, re Baldovino aveva scritto alla repubblica di Venezia per invocarne l’aiuto. Gli egkziani, forse, non erano temibili sulla terraferma, ma la loro flotta dominava ancora le acque palestinesi. In cambio il re offriva a Venezia privilegi commerciali. Il papa appoggiò il suo appello e il doge, Domenico Michiel, decise di rispondere favorevolmente. Trascorsero quasi tre anni prima che la spedizione veneziana fosse pronta, ma finalmente l’8 agosto 1122 una flotta che contava molto più di un centinaio di grosse navi da guerra alzò le vele da Venezia, trasportando grande quantità di uomini, cavalli e materiali da assedio. Non salpò direttamente per la Palestina: la repubblica aveva avuto di recente una lite con Bisanzio a causa di un tentativo dell’imperatore Giovanni Comneno di ridurre i suoi privilegi commerciali, perciò i veneziani sostarono per attaccare l’isola bizantina di Corfù. Per quasi sei mesi, ossia per tutto l’inverno del 1122-23, il doge assediò inutilmente la città di Corfù, sinché, alla fine di aprile, una nave venuta velocemente dalla Palestina avverti i veneziani del disastro successo al re. Il doge levò l’assedio con riluttanza e condusse la sua flotta verso oriente, fermandosi soltanto per attaccare

tutte le navi bizantine che trovava sulla sua rotta. Giunse ad Acri alla fine di maggio e venne informato che la flotta egiziana stava incrociando nelle vicinanze di Ascalona. Salpò contro di essa allo scopo di attirarla in una battaglia, e mandò avanti le sue navi armate più leggermente. Gli egiziani caddero nella trappola: pensando di poter cogliere una facile vittoria, si spinsero in mare aperto, ma si trovarono presi tra due squadre navali veneziane superiori di numero. Una sola nave egiziana sfuggi, non senza difficoltà, al disastro; alcune vennero affondate, altre catturate e i veneziani aumentarono ancora il loro trionfo quando, tornando verso Acri, si imbatterono in una flotta mercantile di dieci vascelli stracarichi di merci di valore e se ne impadronirono43. La presenza dei veneziani era troppo preziosa per non approfittarne. Si discusse per decidere se la loro flotta dovesse essere usata per conquistare Ascalona o Tiro, i due superstiti capisaldi musulmani sulla costa: naturalmente i nobili della Giudea erano favorevoli all’attacco contro Ascalona e i loro colleghi della Galilea a quello contro Tiro. I veneziani infine decisero per quest’ultima. Era il miglior porto di tutta la costa e in quel momento serviva le ricche terre di Damasco; era perciò un centro commerciale molto più importante di Ascalona, con la sua rada aperta e il suo povero retroterra. Ma essi insistettero per definire esattamente la ricompensa che sarebbe loro toccata e le trattative al riguardo si trascinarono per tutto l’autunno. A Natale del 1123 i comandanti veneziani furono accolti splendidamente a Gerusalemme e presero parte alle funzioni religiose a Betlemme. All’inizio del nuovo anno venne firmato ad Acri un trattato fra i rappresentanti della repubblica da una parte e il patriarca Gormond, il conestabile Guglielmo e il cancelliere Pagano dall’altra, in nome del re prigioniero. I veneziani dovevano ricevere in ogni città del regno una via, con chiesa, bagni e forno; essere esenti da tutti gli obblighi consueti e liberi di adoperare i loro propri pesi e misure in tutte le transazioni e non soltanto fra di loro; dovevano essere esonerati da tutte le gabelle e tasse doganali in tutto il regno; dovevano inoltre ricevere altre case in Acri ed un terzo delle città di Tiro e di Ascalona, se avessero collaborato alla loro conquista, ed una somma annua di trenta bisanti saraceni, che potevano essere addebitati alle rendite reali ad Acri. In cambio essi acconsentirono a continuare l’abituale versamento al tesoro reale di un terzo del prezzo chiesto ai pellegrini per il viaggio. Poi i veneziani pretesero che il regno non diminuisse le tasse doganali imposte alle altre nazioni senza il consenso di Venezia. Il patriarca Gormond giurò sul Vangelo che re Baldovino avrebbe confermato il trattato, quando fosse stato liberato; questo infatti avvenne due anni più tardi, ma Baldovino rifiutò di accettare l’ultima clausola che avrebbe subordinato completamente il commercio del regno agli interessi veneziani44. Dopo la firma del trattato, l’esercito franco risali lungo la costa verso Tiro e la flotta veneziana navigò seguendo una rotta parallela: l’assedio della città cominciò il 15 febbraio 112445. Tiro apparteneva ancora al califfato fatimita. Nel 1112 i suoi abitanti, offesi per lo scarso aiuto ricevuto dall’Egitto durante l’assedio della città nel 1111, avevano permesso a Toghtekin di insediarvi un governatore; egli aveva inviato uno dei più abili capitani, l’emiro Masud, che prese in consegna la città. Al tempo stesso si continuò a riconoscere la sovranità dell’Egitto e nelle moschee si facevano preghiere per il califfo fatimita, a cui veniva chiesto periodicamente di inviare aiuti navali alla città46. La diarchia funzionò senza inconvenienti per dieci anni, specialmente perché il visir al-Afdal si preoccupava di mantenere buoni rapporti con Toghtekin, la cui amicizia gli era necessaria contro i franchi. Ma nel dicembre del 1121 al-Afdal venne trucidato nelle vie del Cairo da un membro della setta degli assassini, e il califfo al-Amir, divenuto finalmente padrone delle proprie decisioni, desiderava riportare Tiro sotto il proprio controllo. Nel 1122 vi inviò una flotta come se volesse rafforzarne le difese; l’ammiraglio invitò Masud ad ispezionare le navi, ma quando

questi venne lo rapi e lo portò al Cairo; quivi fu accolto bene e rimandato con tutti gli onori a Toghtekin, che acconsentì a non ostacolare la restaurazione fatimita. Ma quando i franchi si avvicinarono alla città al-Amir, dichiarando che in seguito alla distruzione della flotta, non era in grado di salvare Tiro, ne affidò ufficialmente la difesa a Toghtekin. Questi mandò allora in tutta fretta settecento soldati turchi e rifornimenti in vista dell’assedio47. La città di Tiro era unita alla terraferma soltanto dallo stretto istmo costruito da Alessandro Magno, e le sue fortificazioni si trovavano in buone condizioni. Aveva però un punto debole: l’acqua potabile giungeva dal continente per mezzo di un acquedotto, poiché non c’erano sorgenti nella penisola; il giorno dopo il loro arrivo i franchi interruppero questa conduttura, ma le piogge invernali avevano riempito le cisterne della città e ci volle qualche tempo prima che si facesse sentire la scarsità d’acqua. I franchi si accamparono negli orti e nei frutteti, dove l’istmo si congiungeva con la terraferma. I veneziani tirarono a riva i loro vascelli vicino all’accampamento, ma tenevano sempre almeno una galea in mare per intercettare ogni imbarcazione che tentasse di dirigersi verso il porto. Il comandante supremo dell’esercito era il patriarca Gormond, che aveva maggiore autorità del conestabile; quando sopraggiunse il conte di Tripoli con le proprie truppe per unirsi alle forze assediami, si mostrò disposto ad obbedire al patriarca; una concessione che probabilmente non avrebbe fatto a Guglielmo di Bures48. L’assedio durò per tutta la primavera e il principio dell’estate. Attraverso l’istmo i franchi effettuarono un costante bombardamento delle mura con macchine il cui materiale era stato portato dai veneziani; da parte loro i difensori erano ben forniti di ordigni per scagliare pietre e fuoco greco sugli assalitori: combattevano con grande valore, ma non erano abbastanza numerosi per tentare delle sortite. Temendo che la fame, la sete e l’insufficienza numerica della guarnigione li obbligassero a capitolare, inviarono di nascosto messaggeri fuori della città per esortare Toghtekin e l’Egitto ad affrettarsi in loro soccorso. Un esercito egiziano tentò una diversione contro Gerusalemme, giungendo nei sobborghi della città santa, ma i civili, mercanti, chierici e preti si affrettarono a guarnirne le imponenti mura ed il comandante nemico non osò attaccarle. Poco dopo un secondo esercito egiziano saccheggiava la piccola città di Belin, o La Mahomerie, poche miglia a nord, e ne massacrava gli abitanti: ma non erano queste scorrerie isolate che avrebbero salvato Tiro. Toghtekin si dimostrò ancora meno intraprendente: all’inizio dell’assedio si mosse con il suo esercito verso Banyas, vicino alle sorgenti del Giordano, dove attese notizie dell’arrivo di una squadra navale con cui potesse mettersi d’accordo per l’attacco contro l’accampamento franco, ma nessuna nave egiziana risali la costa; il califfo non aveva potuto mettere insieme una flotta. I franchi avevano avuto paura che quest’alleanza si concretasse e per alcune settimane le navi veneziane rimasero al largo dello scalo di Tiro per intercettare gli egiziani, mentre il patriarca distaccava Pons di Tripoli e Guglielmo di Bures perché andassero con un considerevole esercito ad affrontare Toghtekin. Questi decise di non correre il rischio di una battaglia e mentre i franchi si avvicinavano a Banyas si ritirò a Damasco. L’unica speranza della città assediata risiedeva ora in Balak l’ortoqida, famoso per avere catturato il re. Egli progettava di accorrere in aiuto, ma in maggio veniva ucciso a Menbij. Verso la fine di giugno la situazione in Tiro era disperata. Il cibo e l’acqua stavano esaurendosi e molti soldati della guarnigione erano caduti. Toghtekin fu avvertito che la piazzaforte doveva arrendersi. Mandò messi all’accampamento franco per offrire la capitolazione alle solite condizioni: quegli abitanti che desideravano lasciare la città avrebbero potuto farlo tranquillamente con tutti i loro beni mobili, mentre quelli che desideravano rimanere avrebbero conservato i loro diritti di cittadini. I capi franchi e quelli veneziani accettarono l’offerta, sebbene i soldati semplici e i marinai

fossero furibondi all’udire che non ci sarebbe stato bottino e minacciassero di ammutinarsi. Il 7 luglio 1124 vennero spalancate le porte e l’esercito cristiano occupò la città; lo stendardo del re fu issato sulla porta principale e quelli del conte di Tripoli e del doge su due torri ai lati. I capi mantennero la parola data: non ci fu saccheggio, e un lungo corteo di musulmani attraversò in tutta sicurezza l’accampamento crociato. L’ultima città maomettana sulla costa, a nord di Ascalona, passò cosi ai cristiani e il loro esercito rientrò trionfante a Gerusalemme, mentre i veneziani facevano vela per tornare in patria, dopo aver tratto dalla spedizione tutto il vantaggio possibile49. La buona notizia giunse a re Baldovino a Shaizar. Alla morte di Balak era passato in custodia al figlio di Ilghazi, Timurtash, che detestava questa responsabilità e preferiva l’idea di un ricco riscatto; perciò chiese all’emiro di Shaizar di intavolare trattative con i franchi. La regina Morphia si era recata nel nord per essere quanto più vicina possibile a suo marito, e insieme con il conte Jocelin discusse le condizioni con l’emiro. Il prezzo richiesto era alto: il re doveva pagare ottantamila dinari a Timurtash e doveva cedere ad Aleppo, dove questi era succeduto a Baiale, le città di Athareb, Zerdana, Azaz, Kafartab e lo Jasr; egli inoltre doveva aiutare Timurtash ad eliminare il capo beduino Dubais ibn Sadaqa che si era stabilito nello Jezireh. Si dovevano pagare in anticipo ventimila dinari e, finché il resto non fosse stato versato, dovevano essere lasciati a Shaizar degli ostaggi; appena questi fossero stati consegnati ai musulmani Baldovino sarebbe stato liberato. Timurtash chiese come ostaggi la figlia minore del re, la principessa Joveta di quattro anni, il figlio ed erede di Jocelin, un ragazzo di undici anni, e dieci rampolli della nobiltà. L’emiro sultano di Shaizar inviò vari membri della propria famiglia ad Aleppo per mostrare la sua buona fede. Alla fine di giugno del 1124 Baldovino lasciò Harran sul suo proprio destriero, restituitogli da Timurtash insieme con molti ricchi doni. Si recò a Shaizar dove l’emiro, che lo ricordava per la cortesia con cui cinque anni prima aveva condonato il pagamento di denaro dovuto ad Antiochia, gli offrì un ricchissimo trattenimento. Quivi si incontrò con sua figlia e con gli altri ostaggi e, al loro arrivo, gli venne concesso di proseguire per Antiochia dove giunse negli ultimi giorni di agosto50. Essendo ormai libero Baldovino non mantenne le condizioni che aveva accettato. Il patriarca Bernardo gli fece notare che egli era soltanto sovrano e reggente, ma non signore effettivo di Antiochia, e che non aveva nessun diritto di rinunciare a parte del territorio della città che apparteneva al giovane Boemondo II. Baldovino si lasciò convincere facilmente da quel ragionamento e mandò a dire con molte scuse a Timurtash che disgraziatamente non gli era possibile disobbedire al patriarca. Il capo musulmano, che era più interessato a ricevere denaro che territorio, perdonò l’offesa per timore di perdere il resto del riscatto. Avendo scoperto che Timurtash era cosi accomodante, Baldovino in seguito violò anche la clausola con cui aveva promesso di prestargli aiuto contro l’emiro beduino Dubais. Ricevette invece un’ambasceria di costui per progettare un’azione comune contro Aleppo. Venne stretta un’alleanza ed in ottobre gli eserciti di Antiochia e di Edessa si unirono agli arabi di Dubais davanti alle mura della città. La loro coalizione fu ben presto rinforzata dall’arrivo al loro accampamento del pretendente selgiuchida al trono di Aleppo, Sultanshah. Questi, fuggito da poco da una prigione ortoqida, insieme con suo cugino Toghrul Arslan, fratello del sultano di Rum, che era stato espulso di recente da Melitene dai Danishmend, stava cercando alleati. Timurtash non fece nessun tentativo per difendere Aleppo: suo fratello, Suleiman di Mayyafaraqin, stava morendo ed egli desiderava assicurarsi l’eredità. Rimase a Mardin, lasciando che i notabili della città resistessero come meglio potevano. Per tre mesi essi tennero duro, mentre i loro emissari, accolti con mala grazia da Timurtash che non aveva nessun desiderio di avere altri

fastidi per causa loro, proseguivano per Mosul e suscitavano l’interesse del suo atabeg, Aqsonqor ilBursuqi, che nel 1114 aveva condotto gli eserciti del sultano contro i franchi. Il-Bursuqi, che odiava gli Ortoqidi, inviò funzionari a prendere in consegna la cittadella di Aleppo ed egli stesso, sebbene ammalato, parti con un esercito e con la benedizione del sultano. Avvicinandosi alla città, ordinò all’emiro di Homs, Khirkan, e a Toghtekin di Damasco di unirsi a lui ed ambedue gli inviarono dei contingenti. Di fronte a questo spiegamento di forze l’alleanza franco-beduina si spezzò: Dubais si spostò verso oriente con la sua tribù, mentre Baldovino si ritirava nella fortezza di Athareb. IlBursuqi entrò in Aleppo alla fine di gennaio, ma non fece nessun tentativo di inseguire i franchi. Vedendo questo, il re tornò ad Antiochia e proseguì per Gerusalemme, dove giunse nell’aprile del 1125, dopo due anni d’assenza51. Non vi rimase a lungo, poiché il-Bursuqi era più temibile che gli Ortoqidi. Padrone di Mosul e di Aleppo e sostenuto dall’autorità del sultano si trovò in condizione di riunire sotto la propria autorità i musulmani della Siria settentrionale; Toghtekin e l’emiro di Homs si sottomisero alla sua egemonia. In marzo egli visitò Shaizar il cui emiro, sempre ansioso di essere amico di tutti i potenti, gli consegnò gli ostaggi franchi, la principessa Joveta, il giovane Jocelin ed i loro compagni. In maggio, a capo di una nuova alleanza musulmana, il-Bursuqi attaccò e conquistò il forte franco di Kafartab e cinse d’assedio Zerdana. Baldovino si precipitò al nord conducendo gli eserciti di Antiochia, di Tripoli e di Edessa, millecento cavalleggeri e duemila fanti, per liberare Zerdana. I maomettani mossero verso Azaz, dove ebbe luogo, alla fine di maggio, una delle più sanguinose battaglie della storia delle crociate. I musulmani, facendo affidamento sulla loro superiorità numerica, tentarono una lotta corpo a corpo, ma le armature e la prestanza fisica superiori dei franchi ebbero ragione dei loro sforzi ed essi vennero decisamente sconfitti. Dal ricco bottino conquistato Baldovino poté raccogliere gli ottantamila dinari che doveva per il riscatto degli ostaggi, poiché ogni cavaliere franco rinunciò ad una porzione della propria quota per liberare la figlia del re. Sebbene in realtà il denaro fosse dovuto a Timurtash, il-Bursuqi lo accettò e restituì gli ostaggi, mentre un’altra somma, inviata a Shaizar, riscattava i prigionieri e gli ostaggi che vi erano ancora detenuti. Dopo essere stati rilasciati essi vennero attaccati dall’emiro di Homs, ma i Munqiditi si affrettarono ad accorrere in loro soccorso e li fecero proseguire per la loro strada. Dopo là battaglia venne stipulata una tregua: i musulmani si tennero Kafartab, che fu data all’emiro di Homs, ma non avvennero altri scambi territoriali, e dopo aver lasciato una guarnigione ad Aleppo il-Bursuqi se ne tornò a Mosul. Per diciotto mesi il nord venne lasciato in pace52. Baldovino tornò in Palestina, dove nell’autunno del 1125 condusse una razzia in territorio damasceno e un’azione dimostrativa contro Ascalona. Nel gennaio del 1126 decise di capeggiare una seria spedizione contro Damasco ed invase lo Hauran. Toghtekin uscì per affrontarlo e gli eserciti vennero a conflitto a Tel es-Saqhab, a circa venti miglia a sud-ovest della città. Dapprima i musulmani ebbero la meglio e il reggimento turcomanno di Toghtekin riuscì a penetrare nell’accampamento reale, ma alla fine Baldovino ottenne la vittoria. Egli inseguì il nemico fino a metà cammino verso Damasco, ma a causa delle gravi perdite subite stimò prudente abbandonare la campagna e si ritirò a Gerusalemme, carico di bottino53. Nel marzo del 1126 Pons di Tripoli attaccò la fortezza musulmana di Rafaniya, che dominava l’accesso alla Buqaia dalla valle dell’Oronte; era stata da molto tempo uno degli obiettivi dei cristiani, fin da quando Toghtekin l’aveva riconquistata nel 1105. Mentre il governatore del forte faceva appello a quest’ultimo e a il-Bursuqi, Pons si rivolse per aiuto a re Baldovino. I due principi cristiani marciarono rapidamente contro la fortezza, molto prima che i musulmani fossero pronti ad

accorrere, ed essa si arrese loro dopo un assedio di diciotto giorni. Questa conquista era preziosa per i franchi poiché proteggeva non soltanto la contea di Tripoli, ma anche le vie di comunicazione tra Gerusalemme ed Antiochia54. Nel frattempo gli egiziani avevano ricostruito la loro flotta, che nell’autunno del 1126 fece vela da Alessandria per devastare la costa cristiana. Informato di questo, il-Bursuqi progettò un attacco simultaneo nel nord e cinse d’assedio Athareb. Baldovino giudicò, con ragione, che quest’ultimo fosse il pericolo maggiore e si precipitò ad Antiochia. Infatti, gli egiziani, dopo aver tentato nei sobborghi di Beirut un’incursione che costò loro assai caro, trovarono che le città costiere avevano guarnigioni troppo numerose e se ne tornarono ben presto verso il Nilo55. Nel nord Baldovino, che era stato raggiunto da Jocelin, costrinse i musulmani a ritirarsi da Athareb. Nessuno dei due contendenti volle correre il rischio di una battaglia e la tregua venne presto rifatta. Il-Bursuqi, dopo aver insediato suo figlio Izz ed-Din Masud come governatore di Aleppo, tornò in patria a Mosul dove, il giorno stesso del suo arrivo, il 26 novembre, venne pugnalato a morte da un assassino56. La morte di il-Bursuqi produsse il caos tra i musulmani e la situazione peggiorò quando suo figlio Masud, con cui Toghtekin aveva già litigato, morì pochi mesi dopo, probabilmente avvelenato. Aleppo passò dall’uno all’altro dei vari contendenti: Tuman, designato da Masud, un mamelucco di nome Kutluh, inviato dal sultano, l’ortoqida Badr ad-Daulah Suleiman ed un figlio di Ridwan, Ibrahim il Selgiuchida57. Circa allo stesso tempo Baldovino si trovò, con piacere, sollevato dalla reggenza di Antiochia. Il giovane Boemondo II aveva ormai diciotto anni e venne a prendere in consegna la sua eredità. Lasciando le sue terre in Italia al cugino Ruggero II di Sicilia, egli salpò nel settembre del 1126 da Otranto con una squadra di ventiquattro navi che trasportavano gran numero di soldati e di cavalli. Sbarcò a San Simeone al principio di ottobre e si recò direttamente ad Antiochia, dove re Baldovino gli diede il benvenuto con grandi onori. Fece un’ottima impressione: aveva il magnifico aspetto di suo padre; alto, biondo e bello e mostrava un’aria di aristocratica educazione che gli veniva da sua madre Costanza, figlia di re Filippo I di Francia. Con il massimo scrupolo re Baldovino consegnò subito nelle sue mani il principato con tutti i suoi possedimenti. L’ambasciatore di Shaizar fu profondamente colpito nel vedere che il re, da quel momento in poi, pagava il principe in contanti per il grano consumato dai cavalli dell’esercito di Gerusalemme. Il re aveva con sé la sua secondogenita, la principessa Alice e, secondo il piano che era stato fatto, la giovane coppia venne sposata. Boemondo iniziò il suo regno brillantemente, attaccando Kafartab che riconquistò all’emiro di Homs; e si hanno notizie del valore dimostrato poco dopo nelle scaramucce contro l’esercito di Shaizar58. Re Baldovino poté infine tornare a sud, pensando che la morte di il-Bursuqi e la venuta di Boemondo lo avrebbero lasciato libero di occuparsi del proprio regno. Trascorse l’anno 1127 cosi pacificamente che non sappiamo nulla dei suoi movimenti, salvo una breve campagna condotta in agosto a oriente del Mar Morto59. Al principio del 1128 moriva il suo fedele amico, il patriarca Gormond. Suo successore fu un altro prete francese, Stefano di La Ferté, abate di Saint-Jean-enVallée a Chartres, un uomo di nobile nascita, imparentato con re Baldovino. Se questi aveva sperato che i legami di parentela tra cugini rendessero possibile una cordiale collaborazione, fu presto deluso. Il nuovo patriarca riesumò immediatamente la questione dell’accordo che Goffredo aveva stipulato con il patriarca Daimberto. Pretese Giaffa come possedimento autonomo del patriarcato e ricordò al re che non appena Ascalona fosse stata conquistata Gerusalemme stessa doveva essergli ceduta. Baldovino non volle prestare ascolto a queste richieste, ma non sapeva come comportarsi di

fronte ad esse. Le relazioni tra la corte reale e il patriarcato peggiorarono durante il 1129, ma un’aperta rottura venne evitata dalla morte di Stefano, avvenuta al principio del 1130, dopo una breve malattia. I suoi amici sospettarono che si trattasse di veleno. Quando il re andò a visitare il patriarca morente per chiedergli notizie del suo stato, questi rispose amaramente: «Sire, mi sento come voi desiderate». In effetti la sua morte era desiderabile. Baldovino si assicurò che fosse eletto come suo successore il priore del Santo Sepolcro, Guglielmo di Messines, un uomo di grande devozione e bontà, sebbene un po’ ingenuo e di scarsa educazione. Non aveva nessuna ambizione politica ed era contento di fare tutto ciò che il re desiderava; fu perciò amatissimo da tutti60. Il successivo, importante, compito di Baldovino era di provvedere alla successione al trono. La regina Morphia non gli aveva dato figli, ma c’erano quattro figlie: Melisenda, Alice, Hodierna e Joveta. Alice era ormai principessa di Antiochia, Hodierna e Joveta erano ancora bambine; Melisenda doveva assumere la successione, insieme con un marito adatto. Nel 1128, dopo aver consultato il suo Consiglio, egli inviò in Francia Guglielmo di Bures, insieme con il signore di Beirut, Guido Brisebarre, per chiedere al re di Francia, Luigi VI, di scegliere fra la nobiltà francese un uomo adatto per questa elevata posizione. Luigi raccomandò il conte di Angiò, Folco V, che aveva circa quarant’anni ed era figlio di Folco IV, le Rechin (il Rissoso), e di Bertrada di Montfort, nota per il suo adulterio con re Filippo I di Francia. Folco era il capo di un grande casato che durante gli ultimi due secoli aveva costruito uno dei più ricchi e potenti feudi di Francia; egli stesso, per mezzo di guerre, matrimoni e intrighi, aveva contribuito notevolmente alla sua estensione. Quello stesso anno aveva ottenuto un trionfo di famiglia facendo sposare il suo giovane figlio ed erede, Goffredo, con l’imperatrice-vedova Matilde, l’unica figlia superstite di Enrico I d’Inghilterra ed erede d’Inghilterra e di Normandia. Vedovo ormai egli stesso, aveva deciso di lasciare le terre a vite a suo figlio e di dedicarsi al servizio della croce. Era già stato in pellegrinaggio a Gerusalemme nel 1120 ed era perciò conosciuto personalmente da Baldovino. Un candidato cosi autorevole, appoggiato dal re di Francia ed approvato da papa Onorio II, fu prontamente accettato da re Baldovino, desideroso che gli accordi per la successione fossero di gradimento dei baroni del suo regno. Sarebbe stato impossibile per chiunque di loro mettere in discussione i diritti di un principe guerriero di tale importanza, sposato con la figlia maggiore del loro re. Folco, accompagnato da Guglielmo di Bures e da Guido Brisebarre, lasciò la Francia al principio della primavera del 1129. Essi sbarcarono ad Acri in maggio e proseguirono per Gerusalemme, dove, alla fine del mese, Folco e Melisenda vennero uniti in matrimonio in mezzo a grandi festeggiamenti ed allegria. Le nozze ebbero l’approvazione di tutto il paese, tranne, forse, un’unica eccezione: la principessa Melisenda, che non provava nessun sentimento per l’uomo tarchiato, muscoloso, rosso di capelli e di mezza età che la ragione di stato l’aveva costretta a sposare61. Con l’aiuto di Folco, nel 1129 Baldovino si lanciò nel più ambizioso progetto del suo regno, la conquista di Damasco. Toghtekin morì il 12 febbraio 1128: era stato per molti anni l’assoluto padrone della città e la più rispettata personalità musulmana nella Siria occidentale62. Alcuni anni prima un capo degli assassini, Bahram di Asterabad, era fuggito dalla Persia ad Aleppo e vi si era stabilito come capo del movimento ismaelita clandestino della Siria settentrionale. Ma sebbene egli godesse dell’appoggio di Ilghazi, il popolo di Aleppo odiava quella setta e Bahram fu costretto a trasferirsi. Provvisto di una raccomandazione di Ilghazi, giunse a Damasco, dove Toghtekin lo accolse benevolmente. Bahram vi prese dimora, raccolse a poco a poco intorno a sé numerosi simpatizzanti e riuscì a guadagnare il favore del visir di Toghtekin, al-Mazdaghani. La setta accrebbe

cosi il proprio potere, suscitando la disapprovazione della popolazione sunnita di Damasco. Bahram perciò chiese protezione ad al-Mazdaghani, e su richiesta del visir, nel novembre del 1126, Toghtekin, sperando di sfruttare utilmente le forze della setta, le consegnò la fortezza di frontiera di Banyas, minacciata dai franchi. Bahram restaurò le fortificazioni del castello e raccolse intorno a sé tutti i propri seguaci, ma ben presto essi cominciarono a terrorizzare le popolazioni vicine e Toghtekin, sebbene ufficialmente li proteggesse ancora, cominciò a preparare piani per la loro eliminazione; morì però prima di aver trovato un’occasione favorevole. Pochi mesi più tardi Bahram fu ucciso vicino a Baalbek nel corso di una scaramuccia con una tribù araba, di cui aveva assassinato lo sceicco. La sua carica fu occupata da un altro persiano di nome Ismail63. Il successore di Toghtekin come atabeg di Damasco fu suo figlio Taj al-Mulk Buri, che decise di sbarazzarsi degli assassini. Come primo passo, nel settembre del 1129, fece uccidere il loro protettore, il visir al-Mazdaghani, mentre sedeva a consiglio nel Padiglione Rosa a Damasco. Immediatamente scoppiarono nella città dei tumulti, organizzati da Buri, e tutti gli assassini che furono trovati vennero trucidati. A Banyas, Ismail si allarmò e, per salvare i suoi seguaci, intavolò trattative con i franchi. Questa era l’occasione che re Baldovino stava aspettando. Informato della morte di Toghtekin, inviò in Europa Ugo di Payens, gran maestro dei templari, per reclutarvi dei soldati, affermando che il suo obiettivo era Damasco. Poi, all’arrivo degli emissari di Ismail, mandò truppe franche per prendere in consegna Banyas dagli assassini e per sistemare Ismail e la sua setta in territorio franco. Questi però ammalatosi di dissenteria morì pochi mesi dopo, e i suoi seguaci si dispersero64. Baldovino in persona giunse a Banyas al principio di novembre con l’intero esercito di Gerusalemme ingrossato da soldati appena giunti dall’Occidente. Proseguì senza incontrare seria resistenza e si accampò al Ponte di Legno a circa sei miglia a sud-ovest di Damasco. Buri condusse il suo esercito di fronte a loro, avendo la città alle sue spalle. Per alcuni giorni nessuno dei due contendenti si mosse. Nel frattempo Baldovino inviò alcuni distaccamenti, composti in gran parte da nuovi venuti, al comando di Guglielmo di Bures, a raccogliere viveri e materiali prima di arrischiarsi a stringere d’assedio la città. Ma Guglielmo fu incapace di tenere a freno i suoi uomini, più interessati ad arraffare bottino per sé, a raccogliere sistematicamente rifornimenti. Buri venne informato di questi fatti e una mattina all’alba, alla fine di novembre, la sua cavalleria turcomanna si gettò su Guglielmo a venti miglia a sud dell’accampamento cristiano. I franchi si batterono eroicamente, ma furono sopraffatti: soltanto Guglielmo e quarantacinque dei suoi compagni scamparono per recare la notizia al re65. Baldovino decise di marciare immediatamente contro il nemico mentre questi stava festeggiando la vittoria ed impartì l’ordine di avanzata. Ma in quel momento cominciò a cadere una pioggia torrenziale: la pianura si trasformò in un mare di fango, veri e propri torrenti attraversavano le strade. In tali condizioni l’attacco diventava impossibile e il re, profondamente deluso, abbandonò qualsiasi idea di continuare l’assedio. L’esercito franco si ritirò lentamente e in perfetto ordine a Banyas e poi in Palestina, dove si disperse66. Quello che intanto accadeva nel nord rese la delusione ancor più amara. Baldovino aveva sperato che Boemondo II e Jocelin approfittassero del caos regnante in Aleppo per impadronirsi finalmente della grande città musulmana. Ma sebbene ciascuno di loro, a turno, conducesse fortunate incursioni in quella zona durante l’autunno del 1127, rifiutarono di collaborare, invidiosi l’uno dell’altro. Jocelin aveva ottenuto per mezzo di un trattato con il-Bursuqi alcuni distretti governati per un certo tempo da Antiochia. Peggio ancora, alla seconda moglie di Jocelin, Maria, sorella di Ruggero

d’Antiochia, era stata promessa in dote la città di Azaz. Ma Boemondo giudicava Ruggero semplice reggente e come tale privo del diritto di regalare parte del territorio antiocheno; cosi denunciò l’accordo. Perciò Jocelin condusse le proprie truppe, coadiuvate da mercenari turchi, a predare i villaggi appartenenti ad Antiochia e vicini alle sue frontiere e non si lasciò fermare nemmeno da un interdetto che il patriarca lanciò contro l’intera contea di Edessa. La notizia del litigio giunse a re Baldovino che se ne adirò moltissimo e al principio del 1128 mosse in fretta verso il nord, costringendo i due principi a fare la pace. Fortunatamente Jocelin, che era il più furibondo dei due, s’ammalò all’improvviso e vide nella propria malattia un castigo del cielo: acconsentì a restituire a Boemondo il bottino di cui si era impadronito e apparentemente lasciò cadere i suoi diritti su Azaz. Ma era ormai troppo tardi, infatti anche questa volta, come poi a Damasco l’anno dopo, si era persa un’occasione che non si presentò mai più, poiché l’Islam aveva intanto trovato un nuovo e più poderoso campione67. Negli ultimi mesi del 1126 il califfo abasside al-Mustarshid, succeduto nel 1118 all’amabile poeta al-Mustazhir, pensò di trarre profitto dalle dispute familiari dei sultani selgiuchidi per liberarsi dal loro controllo. Il sultano Mahmud, che regnava a Bagdad, fu costretto a interrompere la caccia per inviarvi un esercito, agli ordini del suo capitano Imad ed-Din Zengi, il cui padre, Aqsonqor, era stato governatore di Aleppo prima dell’epoca delle crociate; Zengi si era già fatto un nome nelle guerre contro i franchi. Dopo una breve campagna sbaragliò le forze del califfo a Wasit e lo ridusse all’obbedienza. La sua condotta moderata dopo la vittoria piacque ad al-Mustarshid e quando, alla morte di il-Bursuqi, fu necessario designare un nuovo atabeg per Mosul, Mahmud, che aveva pensato dapprima di nominare il capo beduino Dubais, convenne con il califfo che Zengi era un candidato migliore. Il giovane figlio del sultano, Alp Arslan, venne insediato come governatore di Mosul e Zengi fu nominato atabeg. Questi trascorse l’inverno del 1127 nella città per organizzarvi il governo e nella primavera del 1128 marciò su Aleppo, reclamandola come parte dei possedimenti di ilBursuqi. Gli abitanti, stanchi dell’anarchia che avevano dovuto subire, lo accolsero con piacere ed egli vi fece il suo ingresso solenne il 28 giugno68. Zengi si considerava come il campione dell’Islam nella lotta contro i franchi, ma non desiderava colpire finché non fosse pronto. Stipulò con Jocelin una tregua di due anni, e consolidò il suo potere in Siria. Gli emiri di Shaizar e di Homs si affrettarono a riconoscere la sua sovranità. Egli non aveva nessun timore del primo, mentre il secondo si lasciò indurre a prestargli aiuto in una campagna contro il possedimento damasceno di Hama, dietro la promessa che gli sarebbe stato restituito. Ma appena Hama venne conquistata, Zengi la prese per sé e imprigionò Khirkan di Homs, senza più riuscire a impadronirsi di Homs stessa. Buri di Damasco, che aveva promesso di unirsi a lui in una guerra santa contro i cristiani, era troppo impegnato nella sua guerra contro Gerusalemme per protestare efficacemente. Verso la fine del 1130 Zengi era il padrone indiscusso della Siria fino al limite meridionale di Homs69. In quello stesso anno i franchi subirono un grande disastro. Boemondo II aveva l’ambizione di restituire al suo principato tutte le terre già appartenutegli. In Cilicia la potenza di Antiochia era in declino; Tarso e Adana si trovavano ancora in mani franche e sembra che costituissero il doario della vedova di Ruggero, Cecilia, sorella di re Baldovino; una guarnigione franca rimaneva anche a Mamistra, ma più all’interno Anazarbus era caduta in possesso del principe armeno rupeniano Thoros, che aveva stabilito la sua capitale a Sis, poco distante. Thoros morì nel 1129 e suo figlio Costantino fu ucciso pochi mesi dopo, nel corso di un complotto di palazzo; la successione toccava quindi al fratello di Thoros, Leone I70. Boemondo pensò giunto il momento di riprendersi Anazarbus

e nel febbraio del 1130 si diresse a quella volta, risalendo con un piccolo corpo di spedizione il fiume Jihan. Leone si allarmò e si rivolse per aiuto all’emiro danishmend Ghazi, i cui territori si spingevano in quel momento fino alle montagne del Tauro. Boemondo non sapeva nulla di questa alleanza e mentre avanzava senza precauzioni lungo il fiume, incontrando soltanto una leggera resistenza da parte degli armeni, i turchi danishmend si gettarono su di lui e massacrarono l’intero esercito. Si disse che se avessero riconosciuto il principe, gli avrebbero salvata la vita per il riscatto che avrebbero potuto ottenerne; ma cosi come andarono le cose, la sua testa fu portata all’emiro danishmend che la fece imbalsamare e la inviò in dono al califfo71. Grazie all’intervento bizantino i turchi non sfruttarono fino in fondo la loro vittoria e Anazarbo rimase in mani armene72. Ma la morte di Boemondo fu un disastro per Antiochia: egli aveva avuto la signoria della città per diritto ereditario e l’opinione comune esigeva che questi diritti fossero trasmessi al suo erede. Dal suo matrimonio con Alice era nata soltanto una figlia, una bimba di due anni di nome Costanza. La vedova, senza attendere che il re suo padre designasse un reggente secondo il suo diritto di sovrano, assunse subito la reggenza. Ma la sua nota ambizione fece ben presto circolare la voce in Antiochia che desiderasse governare non come reggente, ma come sovrana regnante: appena possibile, Costanza avrebbe dovuto essere rinchiusa in qualche convento, oppure sposata a un marito indegno. La madre snaturata perse popolarità nel principato, dove già molti uomini si rendevano conto che in quei frangenti era necessario avere come reggente un guerriero. Quando udì che il re era già in viaggio da Gerusalemme, Alice si accorse che il potere le sfuggiva dalle mani e compì un gesto disperato. Un messaggero che conduceva uno splendido cavallo magnificamente bardato fu inviato ad Aleppo, all’atabeg Zengi, a cui ella annunziava di essere disposta a rendergli omaggio se le garantiva il possesso di Antiochia. Alla notizia della morte di Boemondo, Baldovino si era affrettato verso il nord con suo genero Folco per assumere la tutela dell’erede e per designare un reggente. Nell’avvicinarsi alla città, i suoi uomini catturarono l’inviato di Alice a Zengi: il re lo fece impiccare immediatamente. Quando apparve davanti ad Antiochia, scoprì che sua figlia gli aveva chiuso le porte in faccia. Convocò allora in suo aiuto Jocelin e si accampò intorno alla città all’interno della quale Alice aveva guadagnato un appoggio temporaneo facendo distribuire con larghezza ai soldati e al popolo il denaro appartenente al tesoro principesco. Può darsi che a causa del suo sangue armeno fosse popolare tra i cristiani indigeni, ma la nobiltà franca non avrebbe appoggiato una donna contro il proprio sovrano. Dopo pochi giorni un cavaliere normanno, Guglielmo di Aversa, e un monaco, Pietro il Latino, aprirono la porta del Duca a Jocelin e la porta di San Paolo a Folco. Il giorno seguente il re fece il suo ingresso; Alice si barricò in una torre e ne uscì soltanto quando i notabili della città le garantirono salva la vita. Ci fu un penoso incontro tra Baldovino e sua figlia che gli si inginocchiò dinanzi terrorizzata e vergognosa. Il re desiderava evitare uno scandalo e senza dubbio il suo cuore di padre fu commosso: le perdonò, ma la destituì dalla reggenza e la esiliò a Lattakieh e Jabala, le terre destinatele da Boemondo II come doario. Egli stesso assunse la reggenza e richiese a tutti i signori di Antiochia il giuramento congiuntamente per sé e la propria nipote. Poi, dopo aver affidato a Jocelin la tutela di Antiochia e della sua principessa bambina, nell’estate del 1130 tornò a Gerusalemme73. Fu il suo ultimo viaggio. Una lunga vita di continua attività, interrotta da due tristi periodi di prigionia, lo aveva logorato: nel 1131 la sua salute cominciò a declinare e in agosto fu chiaro ormai che era prossimo alla fine. Per suo desiderio fu trasportato dal palazzo di Gerusalemme alla residenza del patriarca, annessa agli edifici del Santo Sepolcro, affinché potesse morire il più vicino

possibile al luogo del Calvario. All’avvicinarsi della morte, convocò nella sua camera i nobili del reame, e con loro sua figlia Melisenda col marito Folco e il loro figlioletto di un anno, chiamato Baldovino come lui. Diede la sua benedizione a Folco e a Melisenda e ordinò a tutti i presenti di accettarli come sovrani; poi indossò l’abito monacale e fu accettato come canonico del Santo Sepolcro. La cerimonia era appena terminata quando mori, il venerdì 21 agosto 1131 ; venne sepolto nella chiesa del Santo Sepolcro, accompagnato da un lutto degno di un grande re74. Il suo cugino e vecchio compagno Jocelin di Edessa, non gli sopravvisse a lungo. Circa al tempo della morte di Baldovino egli andò ad assediare un piccolo castello a nord-est di Aleppo, ma, mentre stava ispezionando le sue linee, una mina che i suoi uomini avevano preparato crollò sotto di lui. Venne orribilmente ferito senza speranza di guarigione. Mentre giaceva morente, giunse la notizia che l’emiro danishmend Ghazi aveva intrapreso la marcia contro la città di Kaisun, la grande fortezza dove Jocelin aveva insediato di recente il patriarca giacobita di Antiochia. Kaisun subiva una dura pressione da parte dei turchi e Jocelin ordinò a suo figlio di andare a liberarla, ma Jocelin il giovane rispose che l’esercito di Edessa era troppo piccolo per essere di qualche utilità. Perciò il vecchio conte si alzò dal suo letto e venne trasportato in una lettiga alla testa del suo esercito per combattere contro i turchi. La notizia del suo arrivo allarmò Ghazi che lo aveva già creduto morto; inquieto, levò l’assedio di Kaisun. Un messaggero si precipitò in tutta fretta a cavallo per annunziarlo a Jocelin che fece deporre in terra la sua lettiga per poter render grazie a Dio. Lo sforzo e l’emozione erano stati troppo violenti per lui ed egli morì sul margine della strada75. Con la morte di Baldovino e di Jocelin scompariva la vecchia generazione dei primi crociati. Negli anni seguenti un nuovo tipo di conflitto vedrà da un lato i crociati della seconda generazione, uomini e donne come Jocelin II, come la principessa Alice o come i principi della casa di Tripoli, pronti ad adattarsi alle abitudini orientali e preoccupati soltanto di conservare ciò che possedevano, e dall’altro lato i nuovi venuti dall’Occidente, aggressivi, privi di senso di adattamento e di comprensione, come Folco, come Raimondo di Poitiers o come il funesto Rinaldo di Châtillon76.

Capitolo secondo La seconda generazione

... han generato dei figliuoli bastardi. Osea, V, 7

Il 14 settembre 1131, tre settimane dopo che re Baldovino II giaceva nell’eterno riposo della chiesa del Santo Sepolcro, la stessa chiesa fu testimone dell’incoronazione di re Folco e della regina Melisenda. L’accesso al trono dei nuovi sovrani venne celebrato con allegri festeggiamenti1. Mentre però i nobili del regno di Gerusalemme accettarono senza esitazione re Folco, i principi franchi del nord erano meno ben disposti a riconoscerlo come sovrano. Baldovino I e Baldovino II avevano esercitato la sovranità su tutti gli Stati franchi, perché avevano il potere e la personalità per farlo, ma la situazione giuridica non era affatto chiara. Nel caso di Edessa, Jocelin I aveva reso omaggio al suo predecessore quando questi, diventato re di Gerusalemme, gli aveva trasmesso personalmente il feudo, e lo stesso aveva fatto in precedenza Baldovino II. Questo accordo faceva degli eredi di Jocelin i vassalli di quelli di Baldovino II? A Tripoli, il conte Bertrando si era sottomesso alla sovranità di Baldovino I per difendersi dall’aggressione di Tancredi, ma suo figlio Pons aveva già tentato di disconoscere i diritti di Baldovino II e gli si era sottoposto soltanto perché non era abbastanza forte per opporsi alle truppe del re. Ad Antiochia, Boemondo I si era considerato principe sovrano e Tancredi, sebbene fosse stato soltanto reggente e non principe, rifiutò di considerarsi vassallo del re, eccetto per il suo principato di Galilea. Benché Ruggero e Boemondo II avessero riconosciuto Baldovino II come sovrano, si poteva discutere se non avessero sbagliato nel farlo. La situazione era complicata dai diritti che l’imperatore bizantino avanzava legittimamente su Antiochia e su Edessa per il trattato stipulato fra i principi e l’imperatore a Costantinopoli durante la prima crociata, e su Tripoli a causa dell’omaggio resogli dal conte Bertrando.

VI Il regno di Gerusalemme nel secolo XII.

L’ascesa di Folco al trono risollevò l’intera questione. L’opposizione contro la sua sovranità era

condotta da sua cognata Alice. Sottomessasi a suo padre, re Baldovino, con molta cattiva grazia, riaffermava adesso il suo diritto di essere la reggente in nome di sua figlia. La pretesa non era infondata, se si poteva sostenere che il re di Gerusalemme non era sovrano di Antiochia, poiché era uso, sia a Bisanzio, sia in Occidente, che si affidasse la reggenza alla madre del principe bambino. La morte di Jocelin I, avvenuta appena un mese dopo quella di Baldovino, le forni un’occasione propizia, perché Jocelin era stato tutore della piccola principessa Costanza e i baroni di Antiochia non avrebbero certo designato Jocelin II al posto di suo padre. Il nuovo conte di Edessa, deluso, prestò ascolto alle lusinghe di Alice; anch’egli, senza dubbio, non desiderava accettare Folco come proprio sovrano. Pons di Tripoli le offrì pure il suo appoggio: sua moglie Cecilia aveva ricevuto dal suo primo marito, Tancredi, le terre doarie di Chastel Rouge e di Arzghan e cosi, grazie alla consorte, egli era uno dei grandi baroni del principato antiocheno e si rendeva conto che l’emancipazione di Antiochia da Gerusalemme avrebbe permesso a Tripoli di comportarsi allo stesso modo. Alice aveva già guadagnato alla sua causa i più potenti baroni della parte meridionale del principato, i fratelli Guglielmo e Garenton di Zerdana, signori di Sahyun, il grande castello costruito dai bizantini nelle colline dietro Lattakieh, e aveva sostenitori anche in Antiochia stessa. Ma la maggior parte dei signori antiocheni temeva il governo di una donna e quando ebbero sentore del complotto di Alice inviarono a Gerusalemme un messaggero per convocare re Folco. Folco parti immediatamente dalla città santa con un esercito: era una sfida che non poteva ignorare. Quando giunse ai confini di Tripoli, Pons rifiutò di concedergli il transito. La contessa Cecilia era sorellastra di Folco, ma i suoi appelli ai doveri della consanguineità furono inutili. L’esercito di Gerusalemme dovette proseguire da Beirut a San Simeone per mare. Appena sbarcato sul territorio antiocheno, il re marciò verso sud e sconfisse gli alleati ribelli a Chastel Rouge. Non era tuttavia abbastanza forte da poter punire i suoi nemici. Pons presentò delle scuse e si riconciliò; Alice rimase senza subire danni a Lattakieh nelle terre che aveva avuto in dote; i fratelli Guglielmo e Garenton di Sahyun e Jocelin di Edessa vennero perdonati; quest’ultimo non era stato presente alla battaglia. Non è sicuro che Folco abbia ottenuto un giuramento di fedeltà da Pons o da Jocelin, e non riuscì neppure a spezzare il partito di Alice. Guglielmo di Sahyun fu ucciso pochi mesi dopo, durante una piccola incursione musulmana contro Zerdana; Jocelin si affrettò a sposarne la vedova, Beatrice, che probabilmente gli recò in dote Zerdana. Per il momento la pace era stata ristabilita. Folco stesso conservò la reggenza di Antiochia, ma ne affidò l’amministrazione al conestabile del principato, Rinaldo Mazoir, signore di Marqab. Poi tornò a Gerusalemme, dove fu subito coinvolto in un dramma di corte2. C’era fra i suoi nobili un giovane di bell’aspetto, Ugo di Le Puiset, signore di Giaffa, il cui padre, Ugo I di Le Puiset nell’Orleanese, primo cugino di Baldovino II, era stato il capo dell’opposizione dei nobili a re Luigi VI di Francia. Questi, nel 1118, distrusse il castello di Le Puiset e lo privò del suo feudo. I fratelli di Ugo, Gildoin, abate di Santa Maria Giosafat, e Valeriane di Birejik erano già partiti per l’Oriente e poiché Baldovino era diventato di recente re di Gerusalemme, Ugo decise di seguirli con sua moglie Mabilla3. Partirono con il loro figlioletto Ugo, ma, mentre attraversavano le Puglie, il ragazzo si ammalò, e fu lasciato alla corte di Boemondo II, primo cugino di Mabilla. Al loro arrivo in Palestina Ugo e Mabilla ricevettero da Baldovino il feudo di Giaffa. Ugo I morì poco dopo, e in seguito a ciò Mabilla ed il feudo passarono a un cavaliere vallone, Alberto di Namur. Ma sia Mabilla, sia Alberto seguirono ben presto nella tomba Ugo I e Ugo II, che aveva ormai circa sedici anni, salpò dalle Puglie per reclamare la sua eredità. Baldovino lo ricevette bene e gli trasmise il feudo dei suoi genitori; egli visse alla corte reale, dove la sua compagna prediletta era sua cugina, la giovane principessa Melisenda. Verso il 1121, però, sposò

Emma, nipote di Arnolfo e vedova di Eustachio Garnier, una dama di età matura, ricca proprietaria terriera. Essa era contenta del suo prestante marito, ma i suoi due figli gemelli, Eustachio II, erede di Sidone, e Gualtiero, erede di Cesarea, odiavano il loro patrigno che aveva solo pochi anni più di loro4. Nel frattempo Melisenda dovette sposare Folco, di cui non ricambiava affatto il grande amore che egli provava per lei. Dopo la sua ascesa al trono, essa continuò nella sua intimità con Ugo, e in seguito a pettegolezzi di corte re Folco diventò geloso. Ugo aveva molti nemici, capeggiati dai suoi figliastri, che diedero esca ai sospetti del re, finché Ugo, per autodifesa, riunì intorno a sé un proprio partito, il cui esponente più importante era Romano di Le Puy, signore delle terre dell’Oltregiordano. Ben presto tutta la nobiltà del regno si divise a favore del re o del conte, che godeva notoriamente delle simpatie della regina. La tensione aumentò durante tutti i mesi estivi del 1132; poi verso la fine dell’estate, quando il palazzo era pieno di tutti i personaggi importanti del reame, Gualtiero Garnier si levò ad accusare apertamente il proprio patrigno di complottare contro la vita del re e lo sfidò a giustificarsi in duello. Ugo respinse l’accusa, ma accettò la sfida. La data del duello fu stabilita dall’alta corte, e per prepararsi, Ugo si ritirò a Giaffa, Gualtiero a Cesarea. Il giorno fissato Gualtiero era pronto alla lizza, ma Ugo non si fece vedere. Forse la regina, allarmata perché le cose si erano spinte troppo lontano, lo implorò di rimanere assente, o forse fu la contessa Emma, terrorizzata alla prospettiva di perdere o il marito o il figlio. Può essere anche che Ugo stesso, conoscendo la propria colpevolezza, temesse il giudizio di Dio. Qualunque fosse il motivo, la sua codardia fu interpretata come prova di tradimento; i suoi amici non poterono più sostenerlo, e il consiglio del re lo dichiarò colpevole in contumacia. Ugo perse la testa e fuggì ad Ascalona per chiedere la protezione della guarnigione egiziana. Un distaccamento di quei soldati lo riportò a Giaffa e da lì cominciò a devastare la pianura di Sharon. Il tradimento di Ugo era ormai manifesto: il suo principale vassallo, Baliano, signore di Ibelin e conestabile di Giaffa, si volse contro di lui e quando un esercito reale giunse in tutta fretta da Gerusalemme, Giaffa stessa gli si arrese senza colpo ferire. Perfino gli egiziani lo abbandonarono come alleato inutile ed egli fu costretto a fare atto di sottomissione al re. Il suo castigo non fu severo: la regina era sua amica ed il patriarca Guglielmo di Messines consigliò misericordia. Il re stesso desiderava appianare le cose poiché ormai era emerso chiaramente il pericolo di una guerra civile. L’11 dicembre, quando l’esercito era stato convocato per marciare contro Giaffa, l’atabeg di Damasco aveva assalito di sorpresa la fortezza di Banyas e l’aveva riconquistata per l’Islam. Si decise che Ugo sarebbe andato in esilio per tre anni; poi avrebbe potuto tornare liberamente nelle sue terre. Mentre aspettava un’imbarcazione che lo conducesse in Italia, Ugo si recò a Gerusalemme, al principio dell’anno nuovo, per congedarsi dai suoi amici. Una sera, mentre stava giocando a dadi sulla porta di un negozio nella via dei Pellicciai, un cavaliere bretone si avvicinò di nascosto dietro di lui e lo colpi con un pugnale alla testa e nel corpo. Ugo fu trasportato sanguinante, ferito a morte. I sospetti caddero subito sul re, ma Folco agi con prontezza e con prudenza. Il cavaliere fu consegnato all’alta corte per essere processato: egli confessò di aver agito di propria iniziativa nella speranza di ottenere il favore del re, e fu condannato a morte: le sue membra dovevano essere tagliate una dopo l’altra. L’esecuzione ebbe luogo in pubblico: dopo che la vittima ebbe subito il taglio delle braccia e delle gambe, ma non quello della testa, fu costretto a ripetere la sua confessione. La reputazione del re era salva. Ma la regina non era soddisfatta e tale era la sua ira contro i nemici di Ugo che per molti mesi essi temettero di essere assassinati, mentre il loro capo, Raourt di Nablus, non osava camminare nelle vie senza una scorta. Si diceva che perfino re Folco temesse per la propria vita. Ma il suo unico desiderio era di guadagnarsi la benevolenza della moglie e perciò si mostrò con lei

remissivo in ogni suo volere, finché essa, contrariata in amore, non trovò consolazione nell’esercizio del potere5. Ugo sopravvisse, ma non a lungo, al tentativo di assassinio. Si ritirò alla corte di suo cugino, re Ruggero II di Sicilia, che gli concesse in feudo il Gargano, dove morì poco dopo6. Senza dubbio fu con sollievo che Folco volse di nuovo la sua attenzione verso nord. Per i franchi la situazione era molto più pericolosa che ai tempi di Baldovino II: nessun principe effettivo governava Antiochia; Jocelin II di Edessa non aveva l’energia e l’acume politico di suo padre. Era un uomo poco attraente, basso di statura e tarchiato, con i capelli e la pelle scuri; nella sua faccia butterata spiccavano un naso enorme ed occhi prominenti. Era capace di gesti generosi, ma era pigro, amante del lusso e lascivo, del tutto inadatto a governare il più importante avamposto della cristianità franca7. La scarsezza di capi tra i franchi costituiva un problema molto grave poiché in quel momento i musulmani avevano in Zengi un uomo capace di riunire le forze dell’Islam. Zengi stava però ancora aspettando l’occasione propizia: era troppo seriamente invischiato negli avvenimenti dell’Iraq per approfittare della situazione creatasi tra i franchi. Il sultano Mahmud ibn Mohammed moriva nel 1131 lasciando a suo figlio Dawud i suoi possedimenti nell’Iraq e nella Persia meridionale. Ma il membro più autorevole della famiglia selgiuchida, Sanjar, decise che l’eredità doveva passare al fratello di Mahmud, Tughril, signore di Kazwin. Anche gli altri due fratelli del defunto sultano, Masud di Fars e Seldjukshah dell’Azerbaigian, avanzarono le loro pretese. Dawud si ritirò ben presto, non essendo appoggiato né da Mustarshid, né dai suoi sudditi; per un certo tempo Tughril, sostenuto dall’influenza di Sanjar, fu accettato a Bagdad mentre Masud veniva costretto a ritirarsi. Ma Sanjar si disinteressò presto della questione, e di conseguenza Seldjukshah si recò a Bagdad dove si guadagnò l’appoggio del califfo. Masud si rivolse per aiuto a Zengi, che marciò contro la città senza ottenere altro risultato che quello di subire una grave sconfitta vicino a Tekrit ad opera del califfo e di Seldjukshah. Se il governatore curdo di Tekrit, Naim ed-Din Ayub, non lo avesse trasportato al di là del fiume Tigri, sarebbe stato catturato o trucidato. La sconfitta di Zengi incoraggiò il califfo che sognava di risuscitare l’antica potenza della sua casa. Perfino Sanjar ne fu allarmato e, come suo rappresentante, Zengi attaccò di nuovo Bagdad nel giugno del 1132, alleato questa volta con il volubile capo beduino Dubais. Nella battaglia che seguì, Zengi fu dapprima vincitore, ma poi il califfo in persona intervenne, sbaragliò Dubais e si volse trionfante contro Zengi che fu costretto a ritirarsi a Mosul. Mustarshid vi giunse la primavera seguente alla testa di un grande esercito. Sembrava che gli Abassidi dovessero ritrovare la loro antica gloria poiché il sultano selgiuchida dell’Iraq era in quel momento poco più che un vassallo del califfo; ma Zengi fuggì da Mosul e cominciò a compiere senza tregua azioni di disturbo contro l’accampamento del califfo e ad ostacolarlo nei suoi approvvigionamenti. Dopo tre mesi Mustarshid si ritirò8. La rinascita degli Abassidi veniva bruscamente interrotta. Durante l’anno seguente il principe selgiuchida Masud soppiantò a poco a poco gli altri pretendenti al sultanato dell’Iraq. Invano Mustarshid cercò di arrestarlo: nella battaglia svoltasi a Daimarg nel giugno del 1135 l’esercito del califfo fu sbaragliato da Masud ed egli stesso venne catturato. Fu esiliato nell’Azerbaigian e quivi trucidato da assassini, probabilmente con la connivenza di Masud. Il suo successore al califfato, suo figlio Rashid, si rivolse invano al pretendente selgiuchida Dawud e a Zengi; Masud ottenne la deposizione di Rashid per mezzo dei cadì di Bagdad. Il suo successore Moqtafi riuscì, con prodighe promesse, ad attirare Zengi lontano da Rashid e da Dawud. Reso più forte da nuovi titoli onorifici ricevuti da Moqtafi e da Masud, dal 1135 in avanti, Zengi si trovò in condizione di rivolgere la sua attenzione all’Occidente9.

Mentre Zengi era impegnato nell’Iraq, i suoi interessi in Siria erano curati da un soldato di Damasco, Sawar, che egli aveva fatto governatore di Aleppo. Egli non poteva permettersi di mandargli molti uomini, ma per suo incitamento diversi corpi di briganti turcomanni entrarono al servizio di Sawar che, con il loro aiuto, si preparò ad attaccare Antiochia nella primavera del 1133. Re Folco venne chiamato in soccorso dagli spaventati antiocheni. Mentre stava dirigendosi verso il nord con il suo esercito, ricevette a Sidone la visita della contessa di Tripoli, che gli narrò come suo marito fosse caduto in un’imboscata tesagli nelle montagne Nosairi da una banda di turcomanni e fosse fuggito al castello di Montferrand, ai margini della valle dell’Oronte. Per sua richiesta Folco marciò direttamente su Montferrand e al suo avvicinarsi i turcomanni si ritirarono. L’episodio ristabilì cordiali relazioni tra Folco e Pons. Poco dopo, al figlio ed erede di quest’ultimo, Raimondo, fu data in moglie la sorella della regina, Hodierna di Gerusalemme, mentre sua figlia Agnese sposava il figlio di Rinaldo Mazoir di Marqab10, conestabile di Folco ad Antiochia. Dopo aver liberato il conte di Tripoli, Folco proseguì per Antiochia. Qui apprese che Sawar aveva già predato con successo la città edessena di Turbessel e aveva radunato un esercito da impiegare contro Antiochia. Dopo un prudente indugio di parecchi giorni, Folco avanzò verso il campo musulmano stabilito a Qinnasrin e lanciò di sorpresa un attacco notturno: costrinse Sawar a ritirarsi e ad abbandonare le sue tende, ma la vittoria non era affatto completa. Nelle scaramucce che seguirono i musulmani annientarono parecchi distaccamenti franchi. Ma Folco, nell’estate 1133, fece un ingresso trionfale in Antiochia prima di tornare in Palestina; tuttavia era appena partito, quando ricominciarono le scorrerie di Sawar in territorio cristiano11. A eccezione di queste incursioni di frontiera il 1134 trascorse abbastanza pacificamente. L’anno seguente il mondo musulmano fu indebolito da rivoluzioni. In Egitto, il califfo fatimita al-Hafiz aveva tentato di assoggettare a sé l’autorità del visirato, designando come visir il proprio figlio Hasan, ma il giovane si dimostrò di una ferocia quasi folle. Dopo che quaranta emiri erano stati decapitati per una falsa accusa, scoppiò una rivolta e il califfo si salvò soltanto avvelenando suo figlio e consegnandone il cadavere ai ribelli. Poi nominò come visir un armeno, Vahram, molto più interessato ad arricchire i suoi amici e correligionari cristiani che ad intraprendere un’azione aggressiva contro i franchi12. Anche Damasco perse ogni aggressività. Il figlio di Toghtekin, Buri, morì nel 1132 e gli successe come atabeg suo figlio Ismail, che iniziò il proprio governo in modo brillante riconquistando Banyas ai franchi e Baalbek e Hama ai suoi rivali; ma ben presto uni un’oppressiva tassazione ad una crudeltà tirannica. La sua condotta provocò un tentativo di assassinarlo, che egli punì con gran numero di esecuzioni, giungendo fino a murare vivo il suo stesso fratello, Sawinij, per il più insignificante sospetto. Poi, progettò di eliminare il più fidato consigliere di suo padre, Yusuf ibn Firuz. Sua madre, la principessa vedova Zumurrud, aveva sopportato la morte di suo figlio Sawinij, ma Yusuf era il suo amante ed ella ordì un complotto per salvarlo. Ismail si rese conto di trovarsi in pericolo persino nel suo stesso palazzo e, allarmato, scrisse al vecchio nemico di suo padre, Zengi, offrendogli di diventare suo vassallo, se lo avesse mantenuto al potere; se non avesse voluto aiutarlo, avrebbe consegnato Damasco ai franchi. A Zengi non conveniva abbandonare Mosul finché il califfo abasside Mustarshid non fosse stato sconfitto, ma non poteva ignorare questo appello. Lo ricevette però troppo tardi: attraversò l’Eufrate il 7 febbraio, ma sei giorni prima Zumurrud era riuscita a fare assassinare Ismail e ad assicurare la successione al suo figlio minore, Shihab ed-Din Mahmud. Il nuovo atabeg, sostenuto dal suo popolo, rispose con un cortese rifiuto ai messi che Zengi gli inviò per chiedere la sua sottomissione. Quando questi avanzò su Damasco, ricevendo al passaggio la resa di Hama, trovò la città in stato di difesa. Il suo tentativo

di prendere d’assalto le mura fallì; ben presto i viveri scarseggiarono nel suo accampamento e parte delle sue truppe lo abbandonarono. In quel momento gli giunse un’ambasceria del califfo Mustarshid che lo pregava cortesemente di rispettare l’indipendenza damascena; Zengi accolse con gratitudine una scusa che gli permetteva di ritirarsi senza disonore e la pace venne fatta fra lui e Mahmud. Poi Zengi fece una visita ufficiale a Damasco; ma Mahmud, che non si fidava abbastanza di lui per restituirgliela, in sua vece mandò il proprio fratello13. L’episodio, che coincideva con la debolezza dell’Egitto, offriva un’occasione rara per la riconquista di Banyas e per intraprendere un’azione aggressiva, ma Folco lasciò passare il momento favorevole. Dopo essersi liberato della questione di Damasco, Zengi impiegò le sue forze in un attacco contro il territorio antiocheno: mentre il suo luogotenente Sawar minacciava Turbessel, Aintab e Azaz, impedendo una riunione degli eserciti di Antiochia e di Edessa, Zengi si precipitò oltre le fortezze della frontiera orientale, Kafartab, Maarrat, Zerdana e Athareb, conquistandole una dopo l’altra. Fortunatamente per i franchi fu poi costretto a tornare a Mosul, ma le difese di confine erano ormai perdute14. Questi disastri ricondussero Folco nel nord. Egli era ancora il reggente nominale di Antiochia, ma l’autorità vi era rappresentata dal venerabile patriarca Bernardo, che morì al principio dell’estate: era stato un capace statista, energico, fermo e coraggioso, ma severo verso la nobiltà franca e intollerante verso i cristiani indigeni. Alla sua morte la plebaglia acclamò come suo successore il vescovo latino di Mamistra, Radolfo di Domfront, che assunse la carica di patriarca senza attendere un’elezione canonica. Radolfo era un uomo molto diverso: di bell’aspetto, nonostante un leggero strabismo, era amante del fasto, generoso ed affabile; non molto colto, ma oratore eloquente e persuasivo, nascondeva sotto l’affabilità un carattere ambizioso ed astuto. Non desiderava affatto essere controllato dal re e dai suoi uomini, perciò intavolò trattative con la principessa vedova Alice, che continuava a vivere nelle sue terre di Lattakieh. Ella colse l’occasione propizia che le si offriva e rivolse un appello a sua sorella, la regina Melisenda. Folco giunse ad Antiochia in agosto per una breve visita, ma non si sentiva abbastanza forte per protestare contro l’elezione irregolare di Radolfo; inoltre, in quel momento, non poteva rifiutare nulla a sua moglie, perciò concesse ad Alice di tornare ad Antiochia. Folco rimase reggente, ma il potere venne condiviso, in un’inquieta alleanza, dalla principessa e dal patriarca15. Radolfo litigò ben presto con il suo clero ed Alice rimase padrona della città. Ma la sua posizione era precaria: l’appoggio principale le proveniva dalla popolazione cristiana indigena e, come avevano dimostrato i suoi intrighi con Zengi, ella aveva pochi riguardi per i sentimenti dei franchi. Elaborò ora un piano migliore: alla fine del 1135 inviò un messo a Costantinopoli per offrire la mano di sua figlia, la principessa Costanza, al figlio minore dell’imperatore, Manuele. Può darsi che il suo gesto fosse ispirato dal capriccio e dall’ambizione, come dichiararono i crociati scandalizzatissimi, ma in realtà offriva la soluzione migliore per la conservazione della Siria settentrionale. L’elemento greco era forte in Antiochia; il pericolo musulmano stava aumentando sotto Zengi e l’Impero era l’unica potenza abbastanza forte da arrestarlo. Uno Stato vassallo retto, sotto la sovranità imperiale, dapprima dalla semiarmena Alice, poi, insieme, da un principe bizantino e da una principessa franca, avrebbe potuto servire a saldare assieme greci e franchi per la difesa della cristianità. Ma i nobili franchi erano stupefatti e terrorizzati e il patriarca Radolfo si vide spodestato a favore di un odiato greco. Sembra che durante la sua visita ad Antiochia re Folco fosse stato consultato a proposito di un marito adatto per Costanza; in quelle particolari circostanze un messaggero andò segretamente da lui per dirgli che bisognava trovarne uno con urgenza. Dopo aver

passato in rivista tutti i principi francesi di sua conoscenza, Folco si decise per il figlio minore del duca Guglielmo IX d’Aquitania, Raimondo di Poitiers, allora in Inghilterra alla corte di re Enrico I, la cui figlia aveva sposato di recente il figlio di Folco, Goffredo. Un ospitaliere, Gerardo Jebarre, fu inviato in Inghilterra a cercarlo. Si osservò la più rigorosa segretezza: Alice non doveva sapere nulla e non era nemmeno prudente informarne la regina. Un altro pericolo era rappresentato dall’ostilità di re Ruggero di Sicilia, che non aveva mai perdonato al regno di Gerusalemme l’insulto fatto a sua madre Adelaide; le sue ambizioni mediterranee, poi, non gli avrebbero mai permesso di lasciar passare liberamente un pretendente alla mano della più importante ereditiera dell’Oriente. Gerardo giunse alla corte inglese e Raimondo accettò la proposta, ma re Ruggero venne informato del segreto, perché i normanni d’Inghilterra e quelli di Sicilia erano sempre in stretto contatto fra loro. Egli decise di arrestare Raimondo, che avrebbe potuto trovare una nave diretta in Siria soltanto in un porto dell’Italia meridionale. Raimondo fu costretto a dividere la sua compagnia e a travestirsi qualche volta da pellegrino, qualche volta da domestico di un mercante. Riuscì a sgusciare attraverso il blocco e nell’aprile del 1136 giunse ad Antiochia. Il suo arrivo non poteva essere nascosto ad Alice, perciò egli andò immediatamente a visitare il patriarca Radolfo, che gli offrì il suo aiuto a certe condizioni. Raimondo doveva rendergli omaggio ed attenersi alle sue indicazioni in ogni cosa. Raggiunto l’accordo, Radolfo chiese un’udienza ad Alice e le disse che l’affascinante straniero era arrivato quale candidato alla sua mano. La storia era convincente, poiché Raimondo aveva trentasette anni, Alice meno di trenta e Costanza soltanto nove. Poi, mentre Alice attendeva nel suo palazzo di ricevere il futuro fidanzato, Costanza venne rapita e portata nella cattedrale, dove il patriarca la uni affrettatamente in matrimonio con Raimondo. Alice era sconfitta: di fronte al marito legittimo dell’erede la vedova non aveva nessun diritto. Ella si ritirò una volta ancora a Lattakieh, dove visse sconsolata per il resto della sua esistenza16. Raimondo era nel pieno rigoglio della vita. Di bell’aspetto e di grande forza fisica, non era molto colto e amava il gioco d’azzardo; impetuoso e nello stesso tempo indolente, aveva fama di cavalleria e di purezza di costumi17. La sua popolarità riuscì presto a incutere rispetto al patriarca, i cui guai con il suo proprio clero continuavano; egli si trovò trattato con deferenza, ma in realtà privato di potere. I nobili appoggiavano Raimondo e in effetti la situazione era troppo grave perché essi potessero agire in altro modo. Il principato stava perdendo terreno: non soltanto erano state perdute le difese orientali, ma nel sud, nelle montagne Nosairi, un avventuriero turcomanno aveva conquistato nel 1131 il castello di Bisikrail al suo proprietario Rinaldo Mazoir, e al principio del 1136 fu ricacciato con difficoltà mentre tentava d’impadronirsi di Balatonos. Bisikrail venne recuperato poco dopo. Più a sud, il castello di Qadmus, che i franchi avevano acquistato nel 1129, ritornò nel 1131 all’emiro musulmano di Kahf, Saif ed-Din ibn Amrun, il quale l’anno seguente lo vendette al capo assassino Abul Fath. Nel 1135 gli assassini comprarono lo stesso Kahf dai figli di Saif ed-Din e nell’inverno del 1136 essi conquistarono ai franchi Khariba 18. La Cilicia era stata ormai persa. Nel 1131, poco dopo la morte di Boemondo II, il principe rupeniano Leone, protetto alle spalle da un’alleanza con l’emiro danishmend, discese nella pianura e s’impadronì delle tre città di Mamistra, Tarso e Adana. Suo fratello Thoros, che era stato il suo predecessore, aveva già cacciato alcuni anni prima le piccole guarnigioni bizantine da Sis e da Anazarbo, più nell’interno. Nel 1135 Leone conquistò Sarventikar, sulle pendici dell’Amano, sottraendola a Baldovino, signore di Marash. Ma il controllo degli armeni sulla Cilicia era debole: i banditi vi si rifugiavano ed i pirati bordeggiavano lungo le sue coste19. La contea di Edessa non si trovava in migliori condizioni. Timurtash l’Ortoqida si era annesso di

recente una parte del suo territorio a oriente. A nord, il principe armeno di Gargar, Michele, nell’impossibilità di difendersi contro i turchi, cedette le sue terre al conte Jocelin il quale, avventatamente, le affidò al nemico personale di Michele, Basilio, fratello del catholicus armeno. Scoppiò una guerra civile tra i due rivali e Jocelin fu costretto a fornire egli stesso Gargar di una guarnigione, ma non poté impedire che la campagna venisse devastata di volta in volta dagli armeni e dai turchi. Nel 1135 Sawar predò il distretto di Turbessel e nell’aprile del 1136, circa all’epoca dell’arrivo di Raimondo di Poitiers in Oriente, il suo generale Afshin non soltanto si aprì un varco attraverso il territorio antiocheno spingendosi a sud fino a Lattakieh, saccheggiando e incendiando i villaggi al suo passaggio, ma si volse in seguito verso nord giungendo a Kaisun, dopo aver oltrepassato Marash. Il più importante vassallo del conte di Edessa, Baldovino, signore di Marash e di Kaisun, era impotente a difendere le proprie terre20. Raimondo decise che la sua prima azione doveva essere la riconquista della Cilicia: aveva bisogno di avere le spalle sicure prima di arrischiarsi contro Zengi. Con l’approvazione di re Folco, marciò con Baldovino di Marash contro i rupeniani. Ma l’alleanza era incompleta; Jocelin di Edessa, sebbene fosse vassallo di Folco e sovrano di Baldovino, era pure nipote di Leone e le sue simpatie andavano a suo zio. L’autorità del re di Gerusalemme non era più sufficiente a mantenere uniti i principi franchi. Con l’aiuto di Jocelin, Leone respinse l’esercito antiocheno e, trionfante, acconsentì ad un incontro personale con Baldovino, che lo fece proditoriamente prigioniero inviandolo in cattività ad Antiochia. In sua assenza i suoi tre figli litigarono; il maggiore, Costantino, venne infine catturato e accecato dai suoi fratelli, ma nel frattempo i franchi non ne ricavarono alcun vantaggio. L’emiro danishmend, Mohammed II ibn Ghazi, invase la Cilicia, distrusse i raccolti, poi proseguì nelle terre di Baldovino devastandole fino a Kaisun. Scosso da questi disastri, Leone comprò la propria libertà offrendo di rinunciare alle città della Cilicia in favore di Raimondo, ma, tornato in patria, dimenticò la sua promessa. Scoppiò di nuovo una guerra irregolare finché, al principio del 1137, Jocelin compose alla meglio una tregua tra i combattenti che erano terrorizzati dalle notizie che giungevano dal nord, notizie che mostravano che, dopo tutto, la principessa Alice non era stata cosi sciocca21. Re Folco non si era trovato in condizione di prestare aiuto al suo amico Raimondo: doveva affrontare pericoli più vicini al suo regno. Il governo del giovane atabeg Mahmud di Damasco era stato dominato dalla influenza pacificatrice dell’amante di sua madre, Yusuf; ma una sera di primavera del 1136, mentre l’atabeg stava camminando sulla piazza d’armi in compagnia di Yusuf e di un comandante mamelucco, Bazawash, quest’ultimo all’improvviso pugnalò Yusuf a morte e fuggì a Baalbek presso il suo reggimento. Di là minacciò di marciare su Damasco e di deporre l’atabeg se non fosse stato fatto primo ministro. Mahmud cedette ai suoi desideri e subito i damasceni assunsero un atteggiamento aggressivo verso i franchi. Al principio dell’anno seguente invasero la contea di Tripoli; i cristiani indigeni, che non provavano alcun sentimento di lealtà verso i franchi, li guidarono segretamente nella pianura costiera attraverso i passi del Libano. Il conte Pons venne colto di sorpresa. Uscì con il suo piccolo esercito per affrontarli, ma venne disastrosamente sconfitto e, dopo essere fuggito nelle montagne, venne tradito da un contadino cristiano, consegnato ai musulmani e messo immediatamente a morte. Il vescovo di Tripoli, Gerardo, catturato in battaglia, per sua fortuna non venne riconosciuto e fu giudicato un uomo di nessuna importanza. Bazawash conquistò uno o due castelli di frontiera, ma non osò attaccare la stessa Tripoli. Si ritirò presto a Damasco, carico di bottino22. Pons aveva governato Tripoli per venticinque anni. Sembra che sia stato un amministratore

competente, ma un politico inefficiente, sempre desideroso di liberarsi della sovranità del re di Gerusalemme, ma troppo debole per portare a compimento l’indipendenza. Il suo successore, suo figlio Raimondo II, aveva un temperamento più passionale. Aveva ormai ventidue anni e aveva sposato di recente la sorella della regina Melisenda, Hodierna di Gerusalemme, a cui era gelosamente attaccato. Il suo primo atto fu di vendicare la morte del padre, non sui mamelucchi di Damasco, troppo potenti per lui, ma sugli sleali cristiani del Libano. Marciò sui villaggi sospetti di aiutare il nemico, ne massacrò tutti gli uomini e portò via le donne e i bambini per venderli schiavi a Tripoli. La sua spietatezza intimidì i libanesi, ma non li rese meglio disposti verso i franchi23. L’attività di Bazawash non era di gradimento a Zengi. Egli non desiderava attaccare i franchi avendo uno Stato musulmano indipendente e aggressivo sul suo fianco. Alla fine di giugno marciò su Homs, che era governata per conto dell’atabeg di Damasco da un anziano mamelucco, Unur. Per quasi due settimane Zengi rimase accampato davanti alla città, finché gli giunse la notizia che un esercito franco proveniente da Tripoli si stava avvicinando. Qualunque potesse essere stata l’intenzione del conte Raimondo, la sua mossa fece si che Zengi levasse l’assedio a Homs e si volgesse contro i franchi. Poiché Raimondo si ritirò davanti a lui, egli avanzò per assediare il grande castello di Montferrand, sulle pendici orientali delle colline Nosairi, che difendeva l’ingresso alla Buqaia. Nel frattempo Raimondo mandò a chiedere aiuti a re Folco a Gerusalemme. Folco aveva appena ricevuto un’urgente chiamata da Antiochia, ma una minaccia musulmana su Tripoli non poteva essere ignorata. Si affrettò a raggiungere Raimondo con tutti gli uomini che poté radunare e insieme intrapresero una marcia forzata intorno alle colline Nosairi verso Montferrand. Fu un viaggio difficile e il loro esercito si trovò ben presto in condizioni pietose. Al loro avvicinarsi Zengi si era allontanato, ma, informato della loro situazione, tornò e li strinse da presso mentre uscivano dalla zona collinosa vicino al castello. I franchi, in preda alla stanchezza, furono colti di sorpresa: combatterono valorosamente, ma la battaglia fu ben presto conclusa. La maggior parte dei cristiani giaceva morta sul terreno, altri, fra cui il conte di Tripoli, vennero fatti prigionieri, mentre Folco trovava scampo nella fortezza con una piccola guardia del corpo24. Prima che Zengi potesse muoversi per assalire Montferrand, il re inviò messaggeri al patriarca di Gerusalemme, al conte di Edessa e al principe di Antiochia, per chiedere loro un aiuto immediato. Tutti e tre, ignorando altri rischi, risposero al suo appello, poiché la cattura del re e di tutta la sua cavalleria poteva anche significare la fine del regno. Il patriarca Guglielmo raccolse insieme i resti della milizia rimasta in Palestina e li condusse fino a Tripoli, con la Santa Croce alla loro testa. Jocelin di Edessa, dimenticando le sue preoccupazioni locali, venne dal nord e fu raggiunto per via da Raimondo di Antiochia, che poteva permettersi con molta difficoltà di abbandonare la propria capitale in quel momento. Per buona sorte della Palestina, privata com’era di ogni uomo atto a combattere, i suoi vicini non erano in condizione di mostrarsi aggressivi. L’Egitto era paralizzato da una rivolta di palazzo che aveva sostituito il visir armeno Vahram con un violento anticristiano, Ridwan ibn al-Walakshi, completamente assorbito dalla necessità di trucidare gli amici del suo predecessore e di litigare con il califfo. La guarnigione di Ascalona intraprese una scorreria su Lydda, ma nulla più 25. Il mamelucco Bazawash di Damasco era più pericoloso e appena il patriarca ebbe lasciato il paese, egli si permise di devastarlo, spingendosi a sud fino alla città aperta di Nablus di cui passò a fil di spada gli abitanti. Ma timoroso delle conseguenze che una vittoria troppo schiacciante di Zengi avrebbe avuto per Damasco, non volle esercitare una pressione troppo forte contro i franchi26. Alla fine di luglio l’esercito liberatore si radunò nella Buqaia. Nel frattempo il re, a Montferrand,

era in preda alla disperazione: era tagliato fuori dalle notizie del mondo esterno, le sue provviste stavano scarseggiando e notte e giorno i dieci grandi mangani di Zengi martellavano le mura del castello. Infine inviò un araldo a Zengi per chiedergli quali fossero le sue condizioni. Questi, con sua incredula gioia, richiese soltanto la cessione di Montferrand. Il re poteva andarsene libero con tutti i suoi uomini; inoltre, i più importanti cavalieri catturati nella battaglia, incluso il conte di Tripoli, sarebbero stati posti in libertà, senza dover pagare alcun riscatto. Folco accettò subito e Zengi mantenne i suoi impegni. Folco e la sua guardia del corpo vennero condotti davanti al vincitore che li trattò con ogni segno di rispetto e donò al re un abito sontuoso. I loro compagni vennero liberati ed essi si misero in cammino pacificamente. Nella Buqaia incontrarono l’esercito di soccorso, molto più vicino di quanto avessero pensato. Alcuni di loro furono irritati nello scoprire che, se avessero resistito più a lungo, avrebbero potuto essere liberati, ma i più saggi erano contenti di essersela cavata cosi a buon mercato27. In realtà la tolleranza di Zengi non ha cessato mai di stupire gli storici. Ma egli sapeva molto bene quello che stava facendo: Montferrand aveva un prezzo altissimo. Possedendo quel castello avrebbe impedito ai franchi di penetrare nella parte superiore della valle dell’Oronte e inoltre la sua magnifica situazione gli consentiva di controllare Hama e la città damascena di Homs. Valeva la pena ottenerla senza altri combattimenti; egli infatti non desiderava correre il rischio di una battaglia con le forze franche di soccorso cosi vicino alle frontiere di Damasco, i cui governanti avrebbero immediatamente tratto vantaggio da un suo eventuale improvviso rovescio. Inoltre, al pari dei suoi nemici franchi, era preoccupato per le notizie che giungevano dal nord.

Capitolo terzo Le rivendicazioni dell’imperatore

Colui che è ingannato non confidi nella vanità: poiché avrà la vanità per ricompensa. Giobbe, XV, 31

La notizia che aveva spinto franchi ed armeni a rappacificarsi al più presto dissuadendo il principe Raimondo dal lasciare Antiochia e inducendo Zengi alla misericordia verso i suoi nemici, annunciava l’arrivo di un grande esercito che stava penetrando in Cilicia, condotto dall’imperatore Giovanni Comneno in persona. Fin da quando, nel corso della prima crociata, l’imperatore Alessio non era riuscito a recarsi ad Antiochia, i capi politici dell’Oriente franco avevano tranquillamente ignorato Bisanzio. Anche se il tentativo compiuto da Boemondo di invadere l’Impero da occidente era completamente fallito, Alessio era stato totalmente incapace di ottenere che le clausole del suo trattato con Boemondo venissero osservate. Come i franchi d’Antiochia ben sapevano, egli era occupato in altre difficoltà, più vicine a Bisanzio1. Erano preoccupazioni che durarono quasi trent’anni: ci furono guerre intermittenti su tutte le frontiere dell’Impero; invasioni polovziane attraverso il Danubio inferiore, come nel 1114 e nel 1121; lotte contro gli ungheresi lungo il medio Danubio, e una tensione continua che scoppiò in guerra aperta nel n28. Gli ungheresi invasero la penisola balcanica spingendosi fino a Sofia, ma vennero sconfitti e ricacciati nel loro territorio dall’imperatore. Le città marinare italiane razziarono periodicamente l’Impero per strappargli la concessione di privilegi commerciali: nel 1111 Pisa ottenne un trattato favorevole, e Venezia, dopo quattro anni di guerra motivati dal rifiuto dell’imperatore Giovanni di rinnovare le concessioni fatte da suo padre, riacquistò nel 1126 tutti i suoi privilegi; i normanni dell’Italia meridionale, rimasti tranquilli dal tempo della sconfitta di Boemondo a Durazzo, ridivennero minacciosi nel 1127, quando Ruggero II di Sicilia si annette le Puglie. Egli assunse il titolo di re nel 1130 e mostrò di avere ereditato senza attenuazioni l’odio della sua famiglia contro Bisanzio, sebbene si compiacesse di copiarne i metodi e patrocinarne le arti. Ma le sue ambizioni erano cosi smisurate che, di solito, era possibile trovare alleati contro di lui: infatti non soltanto egli cercava di dominare l’Italia, ma reclamava Antiochia in quanto unico rappresentante superstite, in linea maschile, della casa di Altavilla, e Gerusalemme stessa per il trattato stipulato da sua madre Adelaide con Baldovino I2. In Asia Minore non c’era pace. Durante e dopo la prima crociata Alessio aveva consolidato il suo dominio su circa un terzo della penisola verso occidente e sulle coste settentrionali e meridionali; se avesse avuto a che fare soltanto con i principi turchi avrebbe potuto mantenere intatti i suoi possedimenti, ma gruppi di turcomanni stavano ancora infiltrandosi nell’interno, dove essi stessi e le loro greggi si moltiplicavano e poi inevitabilmente si riversavano nelle vallate che scendono verso la costa, in cerca di un clima più mite e di pascoli migliori. Altrettanto inevitabilmente il loro arrivo distruggeva la ben regolata vita agricola dei cristiani. In realtà, quanto più i sovrani diventavano deboli, tanto più indocili e pericolosi per l’Impero si mostravano i loro

sudditi nomadi3. Nel 1118, alla morte dell’imperatore Alessio, l’Anatolia turca era divisa tra il sultano selgiuchida Masud, che da Konya regnava sulla zona centro-meridionale della penisola, tra il Sangario ed il Tauro, e l’emiro danishmend Ghazi II, le cui terre si stendevano dallo Halys all’Eufrate. Avevano assorbito ed eliminato gli emirati più piccoli, ad eccezione di Melitene, ad oriente, dove regnava il fratello minore di Masud, Toghrul, sotto la reggenza di sua madre e del secondo marito di lei, l’ortoqida Balak. Nonostante la vittoria bizantina a Filomelio nel 1115 ed il successivo tentativo di demarcazione della frontiera, negli anni seguenti i turchi avevano riconquistato Laodicea in Frigia, erano penetrati fino nella valle del Meandro e avevano interrotto la strada per Attalia. Nello stesso tempo i Danishmend premevano verso occidente in Paflagonia. L’imperatore Alessio stava progettando una campagna per ristabilire le frontiere anatoliche quando sopravvenne la sua malattia mortale4. L’ascesa al trono dell’imperatore Giovanni diede nuovo vigore a Bisanzio. Questi, chiamato dai suoi sudditi Kaloioannes, Giovanni il Buono, era uno di quei rari personaggi su cui nessuno scrittore contemporaneo, con una sola eccezione, trovò nulla di male da dire. L’eccezione era rappresentata dalla sua propria sorella, Anna Comnena, figlia maggiore di Alessio; ancora bambina era stata fidanzata al giovane co-imperatore Costantino Ducas, a cui Alessio aveva promesso l’eventuale successione. La morte prematura del fidanzato, avvenuta poco dopo la nascita del fratello di lei, fu un duro colpo per le sue ambizioni, ed essa cercò sempre, in seguito, di riparare all’ingiustizia celeste tentando di persuadere suo padre, con l’approvazione di sua madre, a lasciare il trono al proprio marito, il cesare Niceforo Briennio. Perfino quando l’imperatore era sul letto di morte, curato affettuosamente dalla moglie e dalla figlia, le due donne intercalavano i servigi che gli rendevano con insistenti richieste perché diseredasse Giovanni. Ma Alessio aveva deciso che suo figlio dovesse succedergli, e quando Giovanni venne ammesso a rendergli l’estremo saluto, il moribondo gli consegnò quietamente l’anello con il sigillo imperiale; Giovanni si allontanò rapidamente dal letto di suo padre per mettere delle guardie alle porte del palazzo. La sua prontezza venne ricompensata: l’esercito e il senato lo acclamarono subito come imperatore regnante e il patriarca sanzionò frettolosamente tale proclamazione con una cerimonia d’incoronazione in Santa Sofia. Anna e l’imperatrice madre erano state battute, ma Giovanni temeva che i loro partigiani attentassero alla sua vita e rifiutò persino di partecipare al funerale di suo padre, poiché aveva buoni motivi per sospettare che il suo assassinio fosse stato progettato per quell’occasione. Pochi giorni dopo Anna organizzò un complotto per eliminarlo, mentre l’imperatore si trovava nel tranquillo palazzo suburbano di Philopatium. La cospirazione aveva però un punto debole: mirava a mettere sul trono Niceforo Briennio, il quale, invece, non desiderava affatto il potere, e probabilmente avverti egli stesso l’imperatore. Giovanni punì molto blandamente i cospiratori: l’imperatrice madre Irene non era probabilmente a conoscenza del complotto, nondimeno si ritirò in un convento. I principali sostenitori di Anna ebbero le loro proprietà confiscate, ma a molti di loro esse vennero restituite più tardi; Anna stessa fu privata dei suoi beni per un certo tempo e da quel momento in poi si ritirò in completa solitudine. Niceforo non fu punito e sia lui, sia sua moglie si consolarono della perdita della corona dedicandosi alla professione meno impegnativa dello storico5. Ora Giovanni era sicuro. Era un uomo sulla trentina, piccolo, sottile, con i capelli e gli occhi scuri e la carnagione notevolmente scura; i suoi gusti erano austeri e non condivideva le soddisfazioni che la maggior parte della sua famiglia ricavava dalla letteratura e dalla discussione teologica. Era soprattutto un soldato, più felice in azioni di guerra che nel palazzo, ma era anche un amministratore capace ed equo e, nonostante la sua severità verso di sé, era generoso verso i propri

amici e verso i poveri e disposto ad apparire in sfarzose cerimonie solo se necessario. Affettuoso e paziente con la propria famiglia e fedele a sua moglie, la principessa ungherese Piriska, ribattezzata Irene, non si faceva però influenzare da lei, benché essa condividesse le sue austerità e i suoi atti di carità. Il suo unico amico intimo era il suo gran domestico, un turco di nome Axuch, che era stato fatto prigioniero da ragazzo durante la conquista di Nicea nel 1097 ed era stato allevato a palazzo. Giovanni aveva un concetto molto elevato della propria funzione imperiale. Suo padre gli aveva lasciato una forte flotta, un esercito composto da una mescolanza di razze, ma ben organizzato e ben equipaggiato, e un tesoro abbastanza ben fornito da permettere una politica attiva. Egli desiderava non soltanto di conservare le frontiere dell’Impero, ma di restituirgli i suoi antichi confini, rendendo effettivi i diritti imperiali sulla Siria settentrionale6. Giovanni iniziò la sua prima campagna contro i turchi nella primavera del 1119: discese attraverso la Frigia e riconquistò Laodicea. Un affare urgente lo richiamò poi a Costantinopoli, ma tornò un mese dopo per impadronirsi di Sozopoli e riaprire la strada per Attalia. Mentre egli stesso attaccava i Selgiuchidi in occidente, aveva organizzato un attacco contro i Danishmend in oriente. Costantino Gabras, duca di Trebisonda, approfittò di una lite tra l’emiro Ghazi e suo genero Ibn Mangu, un principotto turco stabilito a Taranaghi in Armenia, per prendere le armi a favore di quest’ultimo. Ma Ghazi, avendo come alleato Toghrul di Melitene, sconfisse e catturò Gabras, che dovette pagare trentamila dinari per riscattarsi. Un’opportuna disputa tra Ghazi e Toghrul impedì ai turchi di raccogliere i frutti della loro vittoria7. In seguito, per alcuni anni, Giovanni non fu in condizione di intervenire in Anatolia. Proprio quegli anni videro un allarmante incremento della potenza dei Danishmend. Nel 1124, quando il patrigno di Toghrul di Melitene, Balak l’ortoqida, venne ucciso mentre combatteva nello Jezireh, l’emiro Ghazi invase Melitene annettendola, con grande soddisfazione dei cristiani indigeni che trovavano il suo governo mite e giusto. Poi, egli si volse verso occidente e sottrasse ai bizantini Ankara, Gangra e Kastamonu ed estese il proprio dominio lungo la costa del Mar Nero. Costantino Gabras, tagliato fuori da ogni comunicazione terrestre con Costantinopoli, approfittò dell’isolamento in cui si trovava per dichiararsi monarca indipendente di Trebisonda. Nel 1129, alla morte del principe rupeniano Thoros, Ghazi volse la sua attenzione a sud, e l’anno seguente, in alleanza con gli armeni, trucidò sulle sponde dello Jihan il principe Boemondo II di Antiochia. Quali che fossero le mire di Giovanni riguardo ad Antiochia, egli non aveva certo nessun desiderio di vederla cadere in possesso di un potente principe musulmano; la sua rapida invasione della Paflagonia impedì a Ghazi di sfruttare la vittoria. Per fortuna, in quegli anni i Selgiuchidi dell’Anatolia erano ostacolati da dispute di famiglia: nel 1125 il sultano Masud venne spodestato da suo fratello Arab e fuggì a Costantinopoli, dove l’imperatore lo ricevette con tutti gli onori. Egli andò poi da suo suocero, il danishmend Ghazi, il cui aiuto gli permise di riconquistare il trono dopo una lotta durata quattro anni. A sua volta Arab cercò rifugio a Costantinopoli, dove mori8. Dal 1130 al 1135 Giovanni condusse ogni anno delle campagne contro i Danishmend. Due volte questa sua opera venne interrotta dagli intrighi di suo fratello, il sebastocrator Isacco, che fuggì dalla corte nel 1130 e trascorse i successivi nove anni a complottare con diversi principi musulmani e armeni. Nel 1134 l’improvvisa morte dell’imperatrice lo obbligò ad abbandonare le operazioni militari. Già nel settembre del 1134, quando la morte dell’emiro Ghazi venne a semplificare la situazione, egli aveva riconquistato tutto il territorio perduto, ad eccezione della città di Gangra che rioccupò nella primavera seguente. Il figlio e successore di Ghazi, Mohammed, tormentato da violente dispute familiari, non era in condizione di mostrarsi aggressivo e Masud, privato dell’aiuto

dei Danishmend, scese a patti con l’imperatore9. Domati i turchi dell’Anatolia, Giovanni era pronto per intervenire in Siria, ma prima doveva proteggersi alle spalle. Nel 1135 un’ambasceria bizantina giunse in Germania, alla corte dell’imperatore d’Occidente Lotario, per offrirgli, da parte di Giovanni, un ricco sussidio finanziario se avesse attaccato Ruggero di Sicilia. I negoziati durarono alcuni mesi e finalmente Lotario acconsentì ad attaccare Ruggero nella primavera del 1137 10. Gli ungheresi erano stati sconfitti nel 1128 e i serbi ridotti all’obbedienza da una campagna nel 1129; le difese sul Danubio inferiore erano sicure11. I pisani erano stati divisi dai loro alleati normanni mediante un trattato concluso nel 1126 e l’Impero si trovava in buoni rapporti, in quel momento, sia con Venezia, sia con Genova12. Nella primavera del 1137 l’esercito imperiale, alla cui testa erano l’imperatore e i suoi figli, si radunò ad Attalia ed avanzò verso oriente in Cilicia, mentre la flotta imperiale proteggeva il suo fianco. Tanto gli armeni quanto i franchi furono ugualmente colti di sorpresa alla notizia del suo avvicinarsi. Il rupeniano Leone, padrone in quel momento della pianura orientale della Cilicia, si mosse in un tentativo di arrestare l’avanzata occupando la fortezza bizantina di frontiera di Seleucia, ma fu costretto a ritirarsi. L’imperatore avanzò rapidamente, oltre Mersin, Tarso, Adana e Mamistra che gli si arresero subito. Il principe armeno faceva affidamento sulle grandi fortificazioni di Anazarbo per resistergli. La sua guarnigione resistette per trentasette giorni, ma le macchine d’assedio dei bizantini ne bombardarono duramente le mura, e la città fu costretta ad arrendersi. Leone si ritirò nell’alto Tauro, dove l’imperatore non si prese la briga di inseguirlo per il momento. Dopo il rastrellamento di parecchi castelli armeni delle vicinanze, condusse le sue forze verso sud, oltre Isso e Alessandretta, attraverso le Porte siriane, nella piana di Antiochia. Il 29 agosto fece la sua comparsa davanti alle mura della città e si accampò sulla sponda settentrionale dell’Oronte13. Antiochia era priva del suo principe: Raimondo di Poitiers era partito per liberare re Folco da Montferrand e Jocelin si trovava con lui. Come sappiamo, quando giunsero nella Buqaia, scoprirono che il re era stato rilasciato. Folco aveva avuto l’intenzione di recarsi personalmente ad Antiochia per incontrare i bizantini, ma dopo le recenti esperienze preferì per il momento tornare a Gerusalemme. Raimondo si affrettò a fare ritorno alla sua capitale e trovò che era cominciato l’assedio da parte dell’imperatore, ma che l’accerchiamento della città non era ancora completo. Egli poté penetrarvi di nascosto con la sua guardia del corpo attraverso la Porta di Ferro vicinissima alla cittadella. Per parecchi giorni le macchine bizantine bombardarono le fortificazioni. Raimondo non poteva sperare in nessun aiuto dall’esterno e non era molto sicuro dell’umore della popolazione entro le mura. Molti, persino tra i suoi baroni, cominciavano a vedere la saggezza della politica di Alice, a cui erano state mosse tante accuse. Non trascorse molto tempo prima che Raimondo inviasse un messaggio all’imperatore offrendogli di riconoscerlo come sovrano, se gli fosse stato concesso di conservare il principato come vicario imperiale. Per tutta risposta Giovanni chiese la resa incondizionata. Il principe dichiarò allora di dover consultare re Folco ed inviò in tutta fretta lettere a Gerusalemme, senza ottenere da Folco una risposta di qualche utilità. «Noi tutti sappiamo, - diceva il re, - e i nostri maggiori ci hanno insegnato da lungo tempo che Antiochia faceva parte dell’Impero di Costantinopoli, finché venne sottratta all’imperatore dai turchi che la tennero per quattordici anni, e che le rivendicazioni dell’imperatore relative ai trattati fatti dai nostri antenati sono legittime. Dobbiamo allora noi negare la verità ed opporci a ciò che è giusto?» Poiché il re, che egli considerava suo sovrano, gli dava tali consigli, Raimondo non poté resistere di più. I suoi inviati trovarono l’imperatore disposto a concessioni. Il principe doveva venire al suo accampamento e

prestargli un giuramento di obbedienza completa, diventando suo suddito e concedendogli libero accesso nella città e nella cittadella. Inoltre, se i bizantini avessero conquistato con l’aiuto dei franchi Aleppo e le città vicine, Raimondo avrebbe restituito Antiochia all’Impero e ricevuto in cambio un principato costituito da Aleppo, Shaizar, Hama e Homs. Raimondo acconsentì: andò, si inginocchiò davanti all’imperatore e gli rese omaggio. Giovanni non insisté per entrare in Antiochia, ma il vessillo imperiale venne innalzato sulla cittadella14. Le trattative mostrarono l’imbarazzo dei franchi nel loro atteggiamento verso l’imperatore. La risposta di Folco fu forse dettata dalle necessità immediate del momento: egli sapeva fin troppo bene che Zengi era il grande nemico del regno franco e non volle offendere l’unica potenza cristiana capace di tenere a freno i musulmani. Può anche darsi che la regina Melisenda abbia esercitato il proprio influsso a favore di una politica che giustificava sua sorella Alice e umiliava l’uomo che l’aveva ingannata. Ma la decisione del re fu probabilmente dettata dal meditato parere dei suoi giuristi. Nonostante tutta la propaganda di Boemondo I, i crociati più scrupolosi ritenevano che il trattato stipulato a Costantinopoli tra Alessio e i loro padri fosse tuttora valido: Antiochia avrebbe dovuto essere restituita all’Impero e Boemondo e Tancredi, violando i giuramenti fatti, avevano perso ogni diritto ad avanzare qualsiasi pretesa. Questo era un punto di vista radicale, ancor più imperialista di quello sostenuto dall’imperatore stesso. Il governo imperiale era sempre realista e si rendeva conto che sarebbe stato impossibile e poco saggio tentare di cacciare i franchi da Antiochia senza offrire loro qualche compenso. Inoltre, desiderava guarnire la frontiera con Stati vassalli, la cui politica generale fosse controllata dall’imperatore, ma che fossero in grado anche di sopportare l’urto degli attacchi nemici. Perciò il sovrano bizantino fondava le sue rivendicazioni non sul trattato fatto a Costantinopoli, ma su quello stipulato con Boemondo a Devol. Egli chiese la resa incondizionata di Antiochia come avrebbe fatto con un vassallo ribelle, ma era pronto a permettere che il principato continuasse ad esistere come Stato vassallo. Quello di cui aveva bisogno immediato era che collaborasse con lui nelle sue campagne contro i musulmani15. La stagione era ormai troppo avanzata per un’azione di vasto raggio, perciò Giovanni, dopo aver affermato la propria autorità, tornò in Cilicia per completarne la conquista. I principi rupeniani fuggirono davanti a lui fin nell’alto Tauro; tre dei figli di Leone, Mleh, Stefano e l’accecato Costantino, cercarono rifugio presso loro cugino Jocelin di Edessa. Il castello della famiglia a Vahka resistette per alcune settimane grazie al suo valoroso comandante Costantino, la cui singolar tenzone con un ufficiale del reggimento macedone, Eustrazio, fece impressione a tutto l’esercito imperiale. Poco dopo la sua caduta vennero catturati Leone ed i suoi due figli maggiori, Rupen e Thoros. Furono inviati in prigionia a Costantinopoli, dove Rupen fu ben presto messo a morte; ma Leone e Thoros riuscirono a guadagnarsi il favore dell’imperatore e fu loro concesso di vivere a corte, sotto sorveglianza. Leone vi morì quattro anni dopo, e Thoros riuscì finalmente a fuggire e a tornare in Cilicia. Quando la conquista della provincia fu completata, Giovanni si trasferì nei quartieri d’inverno nella pianura di Cilicia, dove Baldovino di Marash venne a rendergli omaggio e a chiedergli protezione contro i turchi. Nello stesso tempo un’ambasceria imperiale veniva inviata a Zengi, per dargli la impressione che i bizantini non desideravano intraprendere un’avventura aggressiva. Nel febbraio successivo le autorità di Antiochia arrestarono all’improvviso, per ordine dell’imperatore, tutti i mercanti e i viaggiatori provenienti da Aleppo e dalle città musulmane vicine, per timore che essi potessero riferire in patria notizie relative ai preparativi militari che avevano visto. Alla fine di marzo l’esercito imperiale si mosse verso Antiochia, dove le truppe del principe

antiocheno e del conte di Edessa gli si unirono, insieme con un contingente di Templari. Il 1° aprile gli alleati penetrarono in territorio nemico e occuparono Balat; il 3 apparvero davanti a Bizaa, che resistette per cinque giorni agli ordini della moglie del suo comandante. Un’altra settimana trascorse nel rastrellare i soldati musulmani sparsi nella zona; la maggioranza di costoro aveva cercato rifugio nelle grotte di el-Baba, dalle quali i bizantini li espulsero affumicandoli. Zengi si trovava con il suo esercito davanti a Hama per tentare di scacciarne la guarnigione damascena, quando alcuni esploratori lo informarono dell’invasione cristiana. In tutta fretta, inviò un distaccamento al comando di Sawar per rinforzare la guarnigione di Aleppo. Giovanni aveva sperato di cogliere di sorpresa la città, ma quando giunse davanti alle mura il 20 aprile e lanciò un attacco la trovò fortemente difesa; decise allora di non cominciare le fatiche di un assedio e si volse verso sud: il 22 occupò Athareb, il 25 Maarat an-Numan ed il 27 Kafartab. Il 28 aprile il suo esercito si trovava alle porte di Shaizar. Questa città apparteneva all’emiro munqidita, Abul Asakir Sultan, che era riuscito a rimanere indipendente da Zengi. Forse Giovanni sperava che questi si disinteressasse delle sorti della città. Ma il suo possesso avrebbe dato ai cristiani il controllo del corso medio dell’Oronte e avrebbe ostacolato l’ulteriore avanzata di Zengi in Siria. I bizantini iniziarono l’assedio con grande energia: parte della città bassa venne presto occupata e l’imperatore portò i suoi grandi mangani per bombardare la città alta che si trovava sulla collina a strapiombo sull’Orante. Le fonti latine e musulmane lodano ugualmente il coraggio personale e l’energia dell’imperatore e l’efficacia del bombardamento: sembrava che con il suo elmetto d’oro fosse sempre presente ovunque, per ispezionare le macchine, incoraggiare gli assalitori e confortare i feriti. Usama, nipote dell’emiro, vide i terribili danni causati dalle catapulte greche; case intere venivano distrutte da una sola palla; e l’asta di ferro su cui era fissata la bandiera dell’emiro crollò al suolo trafiggendo e uccidendo un uomo che si trovava nella via sottostante. Mentre l’imperatore e i suoi genieri-si dimostravano infaticabili, i franchi si tiravano indietro: Raimondo temeva che, se Shaizar fosse stata conquistata, egli avrebbe potuto essere costretto a vivere in quel luogo, in prima linea sul fronte della cristianità, abbandonando gli agi di Antiochia, mentre Jocelin, che personalmente odiava Raimondo, non desiderava affatto vederlo insediato in Shaizar e, forse, più tardi, in Aleppo. Le sue insinuazioni incoraggiavano la naturale indolenza di Raimondo e la sua diffidenza verso i bizantini. Invece di partecipare al combattimento, i due principi latini trascorrevano le giornate nella loro tenda giocando a dadi, ed i rimproveri dell’imperatore riuscivano soltanto a spingerli a un attivismo formale di breve durata. Nel frattempo Zengi rinunciava all’assedio di Hama e avanzava verso Shaizar. I suoi inviati si precipitarono in tutta fretta a Bagdad, dove il sultano dapprima non volle concedergli aiuto, finché un tumulto popolare, in cui la folla esigeva a gran voce la guerra santa, lo obbligò ad inviare un corpo di spedizione; il principe ortoqida Dawud gli promise un esercito di cinquantamila turcomanni dello Jezireh; vennero pure inviate all’emiro danishmend lettere in cui gli si chiedeva di compiere un’azione diversiva nell’Anatolia. Zengi era inoltre bene informato dei dissensi tra i bizantini e i franchi: i suoi agenti, che si trovavano nell’esercito cristiano, lo tenevano al corrente del risentimento dei principi latini contro l’imperatore. Malgrado tutta l’energia di Giovanni, le enormi rupi di Shaizar, il coraggio dei suoi difensori e l’apatia dei franchi lo sconfissero. Alcuni dei suoi alleati suggerivano che egli proseguisse l’avanzata per affrontare Zengi, il cui esercito era più piccolo di quello cristiano, ma egli non poteva permettersi di lasciare incustodito il suo macchinario da assedio, né poteva ormai fidarsi dei franchi: il rischio era troppo grande. Riuscì a occupare tutta la città bassa e allora, verso il 20 maggio, l’emiro di Shaizar gli inviò messi per offrirgli di pagare un grosso indennizzo e fargli dono dei suoi migliori cavalli e vesti di seta e dei suoi due tesori più preziosi, un tavolo tempestato di gioielli e

una croce incastonata di rubini, presa a Manzikert all’imperatore Romano IV Diogene, sessantasette anni prima. Egli acconsentì inoltre a riconoscere l’imperatore come suo sovrano e a pagargli un tributo annuo. Giovanni, disgustato dei suoi alleati latini, accettò le offerte e il 21 maggio levò l’assedio. Mentre il grande esercito imperiale si allontanava verso Antiochia, giunse Zengi in direzione di Shaizar, ma, ad eccezione di alcune, poco impegnative, scaramucce, non osò ostacolare la ritirata16. Quando l’esercito giunse ad Antiochia, Giovanni insiste per fare il suo ingresso ufficiale nella città secondo il cerimoniale: entrò a cavallo, mentre il principe di Antiochia e il conte di Edessa a piedi camminavano ai due lati come palafrenieri; il patriarca e tutto il clero gli vennero incontro alle porte e lo condussero, attraverso strade tappezzate di bandiere, fino alla cattedrale per una messa solenne e, poi, al palazzo, dove fissò la sua residenza. Convocò qui Raimondo e osservando che il principe aveva di recente mancato ai suoi doveri di vassallo, pretese che fosse concesso al suo esercito di entrare nella città e che gli venisse consegnata la cittadella. Aggiunse che le future campagne contro i musulmani dovevano essere organizzate da Antiochia, aveva perciò bisogno della cittadella per immagazzinare il suo tesoro e il suo materiale bellico. I franchi erano inorriditi. Mentre Raimondo chiedeva un certo tempo per riflettere sulla richiesta, Jocelin usciva inosservato dal palazzo. Appena fuori ordinò ai suoi soldati di spargere la voce tra la popolazione latina della città che l’imperatore stava chiedendo la loro espulsione immediata e di incitarla ad attaccare la popolazione greca. Appena ebbe inizio il tumulto, si precipitò di nuovo nel palazzo e gridò a Giovanni che era venuto, a rischio della vita, ad avvertirlo del pericolo che correva. C’erano, evidentemente, disordini nelle strade e dei greci ignari venivano sorpresi e massacrati; in Oriente non è mai possibile prevedere dove può condurre un tumulto. Giovanni non desiderava che i greci della città dovessero soffrire, né voleva rimanere isolato nel palazzo con la sua sola guardia del corpo, mentre il grosso del suo esercito si trovava sulle lontane rive dell’Oronte. Aveva inoltre appreso che, grazie all’opera diplomatica di Zengi, i Selgiuchidi dell’Anatolia avevano invaso la Cilicia e predato Adana. Si rese conto dell’inganno di Jocelin, ma prima di poter correre il rischio di un’aperta rottura con i latini doveva essere assolutamente sicuro delle proprie vie di comunicazione. Fece chiamare Raimondo e Jocelin e disse che per il momento avrebbe chiesto loro soltanto di rinnovare il giuramento di vassallaggio, aggiungendo che ormai doveva tornare a Costantinopoli. Lasciò il palazzo per ricongiungersi con l’esercito e i principi calmarono immediatamente i tumulti, ancora preoccupati e desiderosi di riguadagnare il favore dell’imperatore. Raimondo offrì persino di ammettere nella città funzionari imperiali, immaginando con ragione che Giovanni non avrebbe accettato un’offerta cosi poco sincera. Poco dopo l’imperatore si congedò da Raimondo e da Jocelin con una dimostrazione esteriore di sentimenti amichevoli, ma in assoluta e reciproca diffidenza. Poi ricondusse il suo esercito in Cilicia17. È singolare il fatto che, durante tutte le trattative di Giovanni a proposito di Antiochia non si parlasse affatto di quella chiesa. Secondo il trattato di Devol, il patriarcato doveva essere restituito ai greci ed è evidente che le autorità della Chiesa latina temevano che l’imperatore insistesse su tale clausola, poiché, nel marzo del 1138, quasi certamente in risposta a un appello pervenutogli da Antiochia, papa Innocenzo II emanava un’ordinanza in cui proibiva a qualsiasi membro della sua Chiesa di rimanere nell’esercito bizantino, se questo avesse intrapreso qualche azione contro le autorità latine della città. Probabilmente Giovanni non desiderava provocare complicazioni religiose, finché non si fosse trovato, politicamente e strategicamente, su un terreno più sicuro. Se fosse riuscito a procurare a Raimondo un altro principato in sostituzione di Antiochia, avrebbe

ristabilito nella città un patriarca greco, ma per il momento accettò pubblicamente la presenza di un latino quando, al suo ingresso solenne, Radolfo di Domfront venne ad ossequiarlo e a condurlo a messa nella cattedrale18. Giovanni fece lentamente il viaggio di ritorno a Costantinopoli, dopo aver inviato parte del suo esercito a castigare il selgiuchida Masud per la scorreria compiuta in Cilicia. Questi chiese la pace e pagò un indennizzo. Durante il 1139 e il 1140 l’imperatore si trovò impegnato contro l’emiro danishmend, nemico molto più pericoloso del selgiuchida. Nel 1139 Mohammed non soltanto invase la Cilicia superiore, impadronendosi del castello di Vahka, ma condusse anche una spedizione verso occidente giungendo fino al fiume Sangario; la sua alleanza con Costantino Gabras, il duca ribelle di Trebisonda, proteggeva il suo fianco settentrionale. Durante l’estate del 1139 Giovanni respinse i danishmend dalla Bitinia e dalla Paflagonia e in autunno marciò verso oriente lungo la costa del Mar Nero. Costantino Gabras fece atto di sottomissione e l’esercito imperiale deviò verso l’interno per assediare la fortezza danishmend di Niksar. Era un’impresa ardua: la piazzaforte era dotata di difese naturali e di una buona guarnigione, e in quella selvaggia regione montagnosa era difficile mantenere aperte le vie di comunicazione. Giovanni era scoraggiato per le gravi perdite subite dalle sue truppe e per la diserzione del nipote Giovanni, figlio di suo fratello Isacco, passato al nemico, facendosi musulmano e sposando la figlia di Masud, da cui pretesero di discendere i sultani ottomani. Nell’autunno del 1140 Giovanni abbandonò quella campagna e ricondusse il suo esercito a Costantinopoli con l’intenzione di ricominciare l’anno seguente. Ma l’anno dopo l’emiro Mohammed moriva e la potenza danishmend veniva temporaneamente messa fuori combattimento dalla guerra civile scoppiata tra i suoi eredi. Giovanni poté tornare ai suoi progetti più ambiziosi e volgere di nuovo la sua attenzione verso la Siria19. Qui i vantaggi ottenuti nella campagna del 1137 contro i musulmani erano stati rapidamente perduti. Zengi aveva riconquistato Kafartab ai franchi nel maggio del 1137 a Maarat an-Numan, Bizaa e Athareb nell’autunno. Durante i successivi quattro anni, mentre Zengi era interamente impegnato nel suo tentativo di conquistare Damasco, gli indolenti franchi del nord non seppero approfittare delle sue difficoltà. Ogni anno Raimondo e Sawar di Aleppo si scambiarono razzie nei territori l’uno dell’altro, ma non ebbe luogo nessuna azione più impegnativa20. La contea di Edessa godeva di una pace relativa a causa delle liti con le quali i principi musulmani stabiliti lungo la sua frontiera, si rovinavano l’un l’altro. Queste dispute si intensificarono alla morte del danishmend Mohammed. Per l’imperatore Giovanni, che da Costantinopoli osservava attentamente gli avvenimenti, era evidente che i franchi della Siria settentrionale non valevano nulla come soldati della cristianità. L’apparente indifferenza di Raimondo era dovuta in parte alla scarsità di soldati, in parte alla sua disputa con il patriarca Radolfo. Non aveva mai avuto intenzione di tenere fede al suo giuramento di obbedire al patriarca e l’arroganza di Radolfo lo esasperava. Trovò alleati nel capitolo della cattedrale, capeggiati dall’arcidiacono Lamberto e da un canonico, Arnolfo di Calabria. Incoraggiati da Raimondo, verso la fine del 1137 essi partirono per Roma per protestare contro l’elezione poco canonica di Radolfo. Mentre attraversavano i territori di Ruggero II, Arnolfo, che per nascita era suo suddito, lo sobillò contro Radolfo, sottolineando il fatto che costui aveva assicurato a Raimondo il trono di Antiochia, cui Ruggero aspirava. Il patriarca fu costretto a seguirli a Roma per giustificarsi, ma quando giunse nell’Italia meridionale venne arrestato da Ruggero; i suoi modi erano però cosi affascinanti e il suo eloquio tanto persuasivo che ben presto il re si schierò dalla sua parte. Poi Radolfo proseguì per Roma dove, ancora una volta, il suo fascino trionfò. Di sua spontanea volontà

depose il pallio sull’altare di San Pietro e lo ricevette di nuovo dal papa. Durante il viaggio di ritorno attraverso l’Italia del sud per tornare al suo trono patriarcale, fu trattato come un ospite d’onore da re Ruggero, ma quando giunse ad Antiochia il suo clero, sostenuto da Raimondo, non volle rendergli il consueto atto di omaggio accogliendolo alle porte della città. Radolfo, recitando la parte di un uomo mite e oltraggiato, si ritirò con discrezione in un monastero vicino a San Simeone, dove si trattenne finché Jocelin di Edessa, sempre desideroso di porre in imbarazzo Raimondo, non lo invitò a visitare in forma ufficiale la sua capitale. Qui l’arcivescovo lo ricevette come proprio superiore spirituale. Raimondo decise quasi subito che era più sicuro riaverlo ad Antiochia; quando vi ritornò, venne accolto con tutti gli onori che poteva desiderare. Grazie alle manovre di Raimondo venne riaperta a Roma l’inchiesta sulla sua posizione. Nella primavera del 1139 Pietro, arcivescovo di Lione, fu inviato a informarsi in loco della questione, ma essendo molto vecchio, egli si recò prima a visitare i Luoghi Santi: nel suo viaggio verso nord morì ad Acri. La sua morte scoraggiò i nemici di Radolfo e persino Arnolfo di Calabria gli offrì la propria sottomissione. Ma il patriarca, con arroganza, non volle accettarla e di conseguenza Arnolfo, furibondo, tornò a Roma e persuase il papa a mandare un altro legato, Alberico, vescovo di Ostia. Il nuovo inviato giunse nel novembre del 1139 e convocò subito un sinodo a cui presero parte tutti i prelati latini dell’Oriente, compreso il patriarca di Gerusalemme. Era evidente che le simpatie del sinodo andavano al principe e al clero dissidente, perciò Radolfo rifiutò di partecipare alle sue sedute nella cattedrale di San Pietro, mentre il suo unico sostenitore, Serlon, arcivescovo di Apamea, veniva cacciato dall’assemblea quando tentò di difendere il patriarca. Dopo aver disobbedito a tre mandati di comparizione per rispondere alle accuse elevate contro di lui, Radolfo venne deposto. In sua vece il sinodo elesse Aimery di Limoges, capo del capitolo, uomo volgare, energico e quasi analfabeta, debitore della sua prima promozione a Radolfo, ma fattosi saggiamente amico di Raimondo. L’ex patriarca, dopo la sua deposizione, venne gettato in prigione dal principe; più tardi però riuscì a fuggire e ad andare a Roma, dove ancora una volta, guadagnò il favore del papa e dei cardinali. Mori, però, nel 1142, prima di poter fare uso del loro aiuto per insediarsi nuovamente sul suo trono, e si sospettò che fosse stato avvelenato. Quest’episodio permise a Raimondo di ottenere la collaborazione leale della chiesa d’Antiochia, ma l’arbitrario trattamento che aveva riservato al patriarca lasciò una cattiva impressione, perfino tra quegli ecclesiastici che l’avevano maggiormente detestato21. Nella primavera del 1142 Giovanni era pronto a tornare in Siria; come già nel 1136, si protesse le spalle stringendo alleanza con il monarca tedesco contro Ruggero di Sicilia. I suoi ambasciatori si recarono in visita alla corte di Corrado III, successore di Lotario, per prendere gli accordi necessari e per suggellare l’amicizia con un matrimonio. Furono di ritorno nel 1142, conducendo la cognata di Corrado, Berta di Sulzbach, che con il nome di Irene doveva diventare la moglie del figlio minore di Giovanni, Manuele. Venne anche ricercato il favore delle città marinare italiane 22. Nella primavera del 1142 Giovanni e i suoi figli condussero l’esercito ad Attalia, attraverso l’Anatolia, respinsero i Selgiuchidi e i loro sudditi turcomanni che ancora una volta stavano tentando di penetrare nella Frigia e rinforzarono le difese confinarie. Mentre si trovava ad Attalia l’imperatore subì una grave perdita: il suo primogenito ed erede designato, Alessio, cadde ammalato e mori. Il suo secondo figlio, Andronico, e il terzo, Isacco, vennero incaricati di trasportarne il cadavere a Costantinopoli, per via mare, ma durante il viaggio anche Andronico mori 23. Nonostante questi lutti, Giovanni proseguì verso l’Oriente, lasciando intendere di essere diretto nella Cilicia superiore per riconquistare le fortezze che i Danishmend avevano occupato, poiché non desiderava suscitare i

sospetti dei franchi24. L’esercito attraversò a marce forzate la Cilicia e oltrepassò la catena superiore dell’Amano, il Giaour Dagh, e alla metà di settembre apparve inaspettatamente a Turbessel, la seconda capitale di Jocelin di Edessa. Questi, colto di sorpresa, si affrettò a rendere omaggio all’imperatore e gli offrì in ostaggio la propria figlia Isabella. Poi Giovanni si volse verso Antiochia e il 25 settembre giunse a Baghras, il grande castello dei templari che dominava la strada dalla Cilicia ad Antiochia. Di là inviò alcuni messi per esigere da Raimondo la consegna dell’intera città e ripeté la sua offerta di risarcire il principe con un principato costituito dalle sue future conquiste. Raimondo era spaventato. Certo ormai che l’imperatore era deciso a far valere i suoi diritti con la forza e di fronte alla possibilità che i cristiani indigeni fossero disposti ad aiutare i bizantini, cercò di guadagnare tempo. Rovesciando del tutto la posizione giuridica sulla quale si era basato nel 1131, Raimondo rispose che doveva consultare i suoi vassalli; venne tenuto ad Antiochia un consiglio nel quale costoro, ispirati probabilmente dal nuovo patriarca, dichiararono che Raimondo governava il principato soltanto in quanto marito dell’erede e che perciò non aveva nessun diritto di disporre del suo territorio: persino il principe e la principessa congiuntamente non potevano alienare o permutare lo Stato senza il consenso dei loro vassalli, i quali li avrebbero spodestati se essi avessero tentato di fare una cosa simile. Il vescovo di Jabala, che recò a Giovanni la risposta del consiglio, citò a sostegno del rifiuto di accogliere la richiesta imperiale l’autorità del papa; ma offrì all’imperatore un ingresso solenne in Antiochia. Questa risposta, completamente in contrasto con tutti i precedenti atteggiamenti di Raimondo, non lasciava a Giovanni altra alternativa che la guerra, ma la stagione era troppo avanzata per un’azione immediata. Dopo aver saccheggiato le proprietà dei franchi nei dintorni della città, egli si ritirò in Cilicia per riconquistare i castelli presi dai Danishmend e per trascorrervi l’inverno25. Di qui Giovanni inviò un’ambasceria a Gerusalemme a re Folco, per manifestargli il proprio desiderio di rendere visita ai Luoghi Santi e di discutere con lui un’azione comune contro gli infedeli. Folco era imbarazzato: non desiderava affatto che il grande esercito imperiale scendesse in Palestina, mentre il prezzo dell’aiuto dell’imperatore sarebbe stato inevitabilmente il riconoscimento della sua sovranità. Anselmo, vescovo di Betlemme, Roard, castellano di Gerusalemme, e Goffredo, abate del Tempio, profondo studioso di greco, vennero inviati per spiegare a Giovanni che la Palestina era un paese povero che non poteva fornire vettovaglie per il mantenimento di un esercito cosi numeroso come quello dell’imperatore; ma che se egli avesse voluto entrarvi con una scorta più piccola, il re sarebbe stato contentissimo di accoglierlo. Giovanni decise di non insistere per il momento su tale richiesta26. Nel marzo del 1143, quando erano ormai terminati i preparativi dell’imperatore per la sottomissione di Antiochia, si prese una breve vacanza per andare a caccia del cinghiale nelle montagne del Tauro. Nel corso di una battuta venne ferito accidentalmente da una freccia; prestò poca attenzione alla ferita, ma questa si infettò e ben presto si trovò in punto di morte per setticemia. Giovanni affrontò con serenità la fine, e sino all’ultimo rimase al lavoro per regolare la successione e il tranquillo proseguimento dell’attività di governo. I suoi due figli maggiori erano morti, il terzo, Isacco, che si trovava a Costantinopoli, era un giovane di carattere incerto; Giovanni decise che il minore e più brillante, Manuele, fosse l’erede e persuase il suo intimo amico, il gran domestico Axuch, a sostenerne i diritti. Collocò la corona sulla testa di Manuele con le sue proprie deboli mani e convocò i suoi generali perché acclamassero il nuovo imperatore. Dopo aver reso la sua estrema confessione a un santo monaco di Panfilia, morì l’8 aprile27.

La morte di Giovanni salvò l’Antiochia franca. Mentre Axuch si precipitava a Costantinopoli prima che vi giungesse la notizia, per proteggere il palazzo e il governo da qualsiasi tentativo di Isacco di reclamare il trono per sé, Manuele conduceva indietro l’esercito attraverso l’Anatolia: finché non avesse preso saldamente possesso della capitale non poteva affrontare altre avventure in Oriente. Il progetto imperiale venne lasciato in sospeso, ma non per molto tempo28.

Capitolo quarto La caduta di Edessa

L’eredità acquistata troppo presto da principio, alla fine non sarà benedetta. Proverbi, XX, 21

I franchi d’Oriente appresero con sollievo la notizia della morte dell’imperatore e nella loro gioia non si resero conto che ancor maggiore era la soddisfazione del loro diretto nemico, l’atabeg Zengi1. Per due anni, a partire dal 1141, questi era stato ostacolato dal desiderio del sultano Masud di riaffermare la propria autorità su di lui, e soltanto mediante un opportuno atto di sottomissione, accompagnato da un dono di denaro e dalla consegna di suo figlio in ostaggio, Zengi evitò un’invasione dell’esercito del sultano nel territorio di Mosul2. In quel momento una conquista bizantina della Siria avrebbe posto fine ai suoi progetti di espansione verso occidente. Quei piani vennero poi messi in pericolo da un’alleanza che, per la comune paura di lui, fu conclusa tra il re di Gerusalemme e l’atabeg di Damasco. Dopo il crollo dell’alleanza franco-bizantina nel 1138, Zengi si dedicò nuovamente all’impresa di conquistare Damasco. Il suo assedio di Homs era stato interrotto in due occasioni, la prima volta dall’avanzata franca su Montferrand, la seconda dall’assedio posto dai bizantini a Shaizar. Tornò ora con tutte le sue forze a Homs e nello stesso tempo fece chiedere a Damasco la mano della madre dell’atabeg, la principessa Zumurrud, con Homs in dote. I damasceni non potevano assolutamente rifiutare e nel giugno del 1138 la vedova sposò Zengi, le cui truppe entrarono in Homs. Come dimostrazione di buona volontà, diede in feudo al governatore della città, l’anziano mamelucco Unur, la fortezza di Montferrand, appena conquistata, e alcuni castelli dei dintorni3. Fortunatamente per la dinastia burida di Damasco, Unur non fissò la propria residenza a Montferrand, ma in città dove, nella notte del 22 giugno 1139, il giovane atabeg Shihab ed-Din Mahmud fu assassinato nel suo letto da tre dei suoi paggi favoriti. Se Zengi, di cui si sospettò la complicità, aveva sperato di ottenere con quel mezzo il governo, rimase deluso, perché Unur assunse subito il potere. Gli assassini furono crocifissi e il fratellastro dell’atabeg, Jemal ed-Din Mohammed, governatore di Baalbek, venne convocato per prendere la successione al trono di Mahmud; in cambio Mohammed diede sua madre e Baalbek a Unur. Questi però continuò a rimanere a Damasco, incaricato del governo, il che non conveniva a Zengi che era sobillato da sua moglie Zumurrud e da un fratello di Mohammed, Bahram Shah, nemico personale di Unur. Nella tarda estate del 1139 egli cinse d’assedio Baalbek, con un grosso esercito e quattordici macchine da assedio. La città capitolò il io ottobre, e il 21 si arrese anche la guarnigione della cittadella (costruita sulle rovine del grande tempio di Baal) dopo che Zengi ebbe giurato sul Corano di risparmiare la vita ai difensori. Tuttavia violò subito il giuramento: tutti vennero brutalmente massacrati e le loro donne vendute schiave. Il massacro era stato fatto per terrorizzare i damasceni, ma ebbe l’unico risultato di rafforzare la loro resistenza e di indurli a considerare Zengi un nemico estraneo al popolo dei credenti4. Durante gli ultimi giorni dell’anno, Zengi si accampò vicino a Damasco ed offrì all’atabeg

Mohammed di dargli Baalbek o Homs in cambio della città; il giovane principe avrebbe accettato se Unur glielo avesse permesso. Al suo rifiuto Zengi avanzò per assediare la città; in quel momento critico Mohammed mori, il 29 marzo 1140, ma Damasco rimase fedele ai Buridi e Unur poté elevare al trono senza difficoltà il giovane figlio di Mohammed, Mujir ed-Din Abaq. Allo stesso tempo decise che un appello ai cristiani era giustificato da ragioni sia religiose, sia politiche, al fine di ottenerne l’aiuto contro il perfido vicino: un’ambasceria condotta dal principe munqidita Usama parti da Damasco diretta a Gerusalemme5. Re Folco aveva tentato di trarre profitto dalle difficoltà dei damasceni per rafforzare il proprio controllo sulla Transgiordania. Durante l’estate del 1139 aveva ricevuto una visita di Thierry d’Alsazia, conte di Fiandra, che aveva sposato sua figlia Sibilla, nata dal suo primo matrimonio; con l’aiuto di Thierry aveva invaso la Galilea e con una certa difficoltà aveva conquistato una piccola fortezza vicino ad Ajlun, massacrandone i difensori 6. Lo sforzo gli aveva recato scarsi vantaggi e quando Unur gli offrì ventimila bisanti al mese e la restituzione della fortezza di Banyas, se avesse cacciato Zengi da Damasco, si lasciò persuadere facilmente a cambiare politica. L’idea di una simile alleanza non era del tutto nuova: già al principio del 1138 Usama aveva fatto un viaggio a Gerusalemme per conto di Unur al fine di discutere se fosse realizzabile, ma, sebbene la corte franca gli avesse riservato un’accoglienza onorevole, le sue proposte erano state respinte. Ora però si comprendeva meglio la minaccia rappresentata dalla crescente potenza di Zengi. Quando Folco convocò il suo consiglio per studiare l’offerta, era impressione generale che questa sarebbe stata accettata7. Dopo avere ricevuto ostaggi da Damasco, l’esercito franco parti in aprile per la Galilea. Folco avanzò prudentemente e si fermò vicino a Tiberiade mentre i suoi esploratori proseguivano. Zengi discese lungo la sponda opposta del Mare di Galilea per osservare i suoi movimenti, ma, poiché i franchi si erano arrestati, tornò all’assedio di Damasco. In seguito a ciò Folco avanzò verso nord. Zengi non volle correre il rischio di essere preso tra i franchi e i damasceni e si ritirò da Damasco; quando al principio di giugno Folco si incontrò con le truppe di Unur un po’ a oriente del lago di Huleh, esse appresero che Zengi si era ritirato a Baalbek. Alcuni uomini di Zengi tornarono verso la fine del mese per compiere una scorreria fino alle mura di Damasco, ma Zengi stesso e il grosso dell’esercito si ritirarono indisturbati ad Aleppo 8. L’alleanza aveva salvato l’indipendenza damascena senza una battaglia. Unur tenne fede ai patti. Da alcuni mesi ormai le sue truppe effettuavano un assedio intermittente a Banyas quando il luogotenente di Zengi, Ibrahim ibn Turgut, approfittò di un intervallo di calma nell’assedio per razziare la costa nelle vicinanze di Tiro. Qui venne sorpreso da un esercito condotto da Raimondo di Antiochia, sceso verso sud per collaborare con Folco nella campagna damascena. Ibrahim fu sconfitto e ucciso. Quando Unur stesso comparve davanti a Banyas, dove Folco e Raimondo lo raggiunsero, incoraggiati dal legato papale Alberico di Beauvais recatosi a visitarli, i difensori decisero di capitolare. Unur fece in modo che essi fossero ricompensati con terre nelle vicinanze di Damasco e consegnò poi la città ai franchi, che vi insediarono il suo antico governatore, Rainieri di Brus, mentre Adamo, arcidiacono di Acri, veniva nominato vescovo9. L’alleanza tra Folco e Unur venne suggellata da una visita che quest’ultimo fece poco dopo alla corte del re ad Acri, accompagnato da Usama. Vi ricevettero un’accoglienza cordiale e lusinghiera e proseguirono per Haifa e Gerusalemme, tornando poi attraverso Nablus e Tiberiade. La visita si svolse in un’atmosfera della massima benevolenza, sebbene Usama non approvasse in nessun modo tutto ciò che vedeva10. Folco mostrò ancor meglio il suo onesto desiderio di amicizia con Damasco

quando essi si lamentarono con lui delle scorrerie che Rainieri di Brus effettuava da Banyas contro le loro greggi; ordinò severamente a Rainieri di mettere fine a tali incursioni e di indennizzare le vittime11. Intorno all’anno 1140 re Folco aveva motivo di essere soddisfatto del proprio governo. La situazione nella Siria settentrionale era peggiorata fin dal tempo del suo predecessore, né egli vi godeva di grande prestigio o di grande autorità (è dubbio, infatti, che Jocelin di Edessa lo abbia mai riconosciuto come sovrano), però nel suo proprio territorio era sicuro. Aveva imparato la lezione secondo cui i franchi, per poter sopravvivere in quelle regioni, dovevano essere meno intransigenti verso i musulmani e disposti a fare amicizia con quelli meno pericolosi; e aveva trascinato i suoi nobili a condividere questa politica. Al tempo stesso aveva lavorato seriamente per assicurare le difese del paese: sulla frontiera meridionale erano stati costruiti tre grandi castelli a difesa del regno contro le scorrerie degli egiziani di Ascalona. A Ibelin, circa dieci miglia a sud-ovest di Lydda, in un luogo ricco d’acqua che controllava la confluenza delle strade da Ascalona a Giaffa e a Ramleh, egli adoperò le rovine dell’antica città romana di Jamnia per erigere una splendida fortezza, che venne affidata a Baliano, soprannominato «il vecchio», fratello del visconte di Chartres. Baliano aveva posseduto quel territorio alle dipendenze dei signori di Giaffa e si era guadagnato il favore di Folco sostenendo il re contro Ugo di Le Puiset. Come castellano di Ibelin fu elevato al rango di vassallo; poi sposò Helvis, erede di Ramleh. I suoi discendenti costituirono in seguito la più rinomata famiglia nobile dell’Oriente franco12. A sud di Ibelin, la strada diretta da Ascalona a Gerusalemme era difesa dal castello di Blanchegarde, sulla collina chiamata dagli arabi Tel as-Safiya, il tumulo luccicante. Il suo guardiano, Arnolfo, diventò uno dei baroni più ricchi e potenti del reame13. Il terzo castello venne costruito a Bethgibelin, il villaggio che i crociati identificarono erroneamente con Beersheba; esso controllava la strada da Ascalona a Hebron e la sua manutenzione fu affidata agli ospitalieri 14. Queste fortificazioni non erano abbastanza complete da impedire ogni scorreria da Ascalona; infatti, nel 1141 gli egiziani fecero irruzione e sconfissero nella pianura di Sharon un piccolo distaccamento crociato15; tuttavia potevano resistere ad ogni serio attacco proveniente da sud contro Gerusalemme e servivano quali centri per l’amministrazione locale. Allo stesso tempo Folco prese iniziative per ridurre sotto più stretto controllo la regione a est e a sud del Mar Morto. Il feudo di Montreal, con il suo castello posto in un’oasi delle colline idumee, aveva dato ai franchi un sommario controllo sulle strade carovaniere che andavano dall’Egitto all’Arabia e alla Siria, ma le carovane musulmane passavano ancora indisturbate lungo le strade e i predoni del deserto potevano ancora fare irruzione in Giudea. All’epoca dell’ascesa di Folco al trono, il signore di Montreal e dell’Oltregiordano era stato Romano di Le Puy, a cui Baldovino I aveva affidato quel feudo verso l’anno 1115. Ma Romano aveva sostenuto Ugo di Le Puiset contro il re, e questi, intorno al 1132, lo spodestò, diseredò suo figlio, e consegnò il feudo a Pagano il Dispensiere, uno degli alti funzionari di corte. Pagano era un amministratore energico e tentò di stabilire un controllo più stretto sulla vasta area che governava. Sembra che fosse riuscito a dominare il paese fino a sud del Mar Morto, ma nel 1139, mentre Folco era impegnato a Gilead, una banda di musulmani riuscì ad attraversare il Giordano vicino alla sua foce nel Mar Morto e a predare la Giudea, dove usarono la tattica di una finta ritirata per trarre in inganno una compagnia di cavalieri templari mandati contro di loro, annientandoli. Probabilmente allo scopo di controllare sia l’estremità settentrionale sia quella meridionale del Mar Morto, Pagano trasferì il proprio quartier

generale da Montreal in Idumea a Moab dove, con l’approvazione del re, nel 1142 costruì su una collina chiamata dai cronisti Petra Deserti, la Pietra del Deserto, una grande fortezza conosciuta come Kerak di Moab. Era situata in una posizione magnifica per dominare le uniche strade praticabili dall’Egitto e dall’Arabia occidentale verso la Siria, e non era troppo lontana dai guadi del Giordano inferiore. Baldovino I aveva già stabilito un posto di guardia sulla sponda del golfo di Akaba, a Elyn o Aila. Pagano vi insediò guarnigioni più forti e lo stesso fece nel Forte della Valle di Mosè, vicino all’antica Petra. Questi castelli, insieme con Montreal e Kerak, diedero al signore dell’Oltregiordano la padronanza delle terre di Idumea e di Moab, con i loro ricchi campi di grano e le saline vicino al Mar Morto, sebbene mancasse un’importante colonizzazione franca e le tribù di beduini continuassero la loro antica vita nomade nei distretti sterili, pagando soltanto un occasionale tributo ai franchi16. La sicurezza interna del reame migliorò durante il regno di Folco. Al tempo della sua ascesa al trono la strada tra Giaffa e Gerusalemme era ancora malsicura a causa dei banditi, che non soltanto molestavano i pellegrini, ma interrompevano pure i rifornimenti di viveri alla capitale. Nel 1133, mentre il re era assente perché si trovava nel nord, il patriarca Guglielmo organizzò una campagna contro i banditi e costruì un castello, chiamato Chastel Ernaut, vicino a Beit Nuba, dove la strada da Lydda s’arrampica nelle colline. La sua costruzione rese più facile alle autorità di controllare la strada e dopo la fortificazione della frontiera con l’Egitto i viaggiatori ebbero raramente fastidi durante il loro viaggio dalla costa17. Poco sappiamo sul governo del regno durante gli ultimi anni di Folco. Una volta schiacciata la rivolta di Ugo di Le Puiset e sbolliti i desideri di vendetta della regina, i baroni appoggiarono la corona con perfetta lealtà. I rapporti di Folco con la Chiesa di Gerusalemme furono costantemente buoni; il patriarca Guglielmo di Messines, che lo aveva incoronato e che doveva sopravvivergli, rimase un amico fedele e deferente. Invecchiando, la regina Melisenda si dedicò a opere pie, ma la sua fondazione più importante era destinata alla maggior gloria della propria famiglia. Essa era affezionata alle sue sorelle: Alice divenne principessa di Antiochia e Hodierna contessa di Tripoli, ma per la minore, Joveta, che aveva trascorso un anno della sua infanzia presso i musulmani come ostaggio, non si poté trovare nessun marito adatto. Essa entrò in religione e diventò monaca nel convento di Sant’Anna in Gerusalemme. La regina comprò, nel 1143, il villaggio di Betania dal Santo Sepolcro, in cambio di proprietà vicino a Hebron, e vi costruì un convento in onore di San Lazzaro e delle sue sorelle Marta e Maria, dandogli in dote Gerico con tutti i frutteti e le fattorie dei dintorni e fortificandolo con una torre. Affinché il motivo di questa fondazione non fosse troppo palese, designò come prima badessa una monaca eccellente, ma vecchia e moribonda, la quale molto opportunamente morì pochi mesi dopo. Il convento elesse allora, come di dovere, la ventiquattrenne Joveta per propria badessa. Nella duplice posizione di principessa di sangue reale e di badessa del più ricco convento della Palestina, Joveta occupò un posto importante e venerabile per il resto della sua lunga vita18. Questa fu la più generosa delle donazioni caritatevoli di Melisenda, ma essa persuase il marito a fare parecchie concessioni di terra al Santo Sepolcro e continuò a fondare case religiose su larga scala durante tutta la sua vedovanza19. Fu pure responsabile delle migliorate relazioni con la Chiesa giacobita e con quella armena. Prima che i crociati conquistassero Gerusalemme, i giacobiti erano fuggiti in Egitto e quando tornarono scoprirono che le proprietà della loro Chiesa in Palestina erano state date a un cavaliere franco, Gauffier. Nel 1103 questi venne catturato dagli egiziani e i giacobiti riebbero le loro terre. Ma nel 1137 Gauffier, che tutti credevano morto, tornò dalla prigionia e

reclamò il proprio possedimento. Grazie al diretto intervento della regina, fu concesso ai giacobiti di rimanere nella proprietà, dopo aver pagato a Gauffier trecento bisanti a titolo di indennizzo. Il 1140 vide il catholicus armeno partecipare a un sinodo della locale Chiesa latina. Melisenda fece alcune donazioni anche all’abbazia ortodossa di San Saba20. La politica commerciale di Folco fu la continuazione di quella dei suoi predecessori. Osservò gli obblighi contratti con le città italiane che controllavano le esportazioni del paese, ma rifiutò di concedere a una di esse il monopolio e nel 1136 fece un trattato con i mercanti di Marsiglia, promettendo loro quattrocento bisanti all’anno, dedotti dalle rendite di Giaffa, perché vi mantenessero i loro stabilimenti21. Nell’autunno del 1143 la corte si trovava ad Acri, godendo quel momento di tregua che il ritiro di Zengi da Damasco rendeva possibile. Il 7 novembre la regina desiderò prendere parte a una gita. Mentre il gruppo reale stava cavalcando per la campagna, venne messa in fuga una lepre e il re si lanciò al galoppo per inseguirla. Improvvisamente il cavallo incespicò, Folco venne scaraventato a terra e la pesante sella lo colpi al capo: lo trasportarono ad Acri, privo di sensi e con la testa orrendamente ferita. Morì in questa città tre giorni dopo. Era stato un buon re per il regno di Gerusalemme, ma non un grande re e neppure il capo dei franchi d’Oriente22. Il dolore della regina Melisenda, espresso a gran voce, anche se commosse tutta la corte, non impedì a lei di occuparsi della successione del regno. Dei bambini nati dal suo matrimonio con Folco sopravvivevano due figli maschi, Baldovino, di tredici anni, e Amalrico, di sette. Folco aveva ottenuto il trono in quanto suo marito e i diritti di lei come erede vennero pienamente riconosciuti. Ma l’idea di una sovrana che regnasse da sola era impensabile per i baroni; perciò essa designò il proprio figlio Baldovino come collega e assunse il governo. Il suo gesto fu considerato perfettamente legittimo e venne sanzionato dal consiglio del regno quando essa e Baldovino furono incoronati insieme, il giorno di Natale, dal patriarca Guglielmo23. Melisenda era una donna abile, che in tempi più felici avrebbe potuto regnare con successo. Scelse come proprio consigliere il conestabile Manasse di Hierges, suo cugino in primo grado, figlio di un signore vallone, che aveva sposato la sorella di Baldovino II, Hodierna di Rethel. Manasse era venuto da giovane alla corte dello zio, dove le sue capacità e le sue parentele reali gli assicurarono un costante progresso. Quando morì Baliano il Vecchio di Ibelin, poco dopo la morte di re Folco, Manasse sposò la sua vedova, Helvis, erede di Ramleh, che in parte per diritto proprio e in parte a nome dei figli, controllava l’intera pianura filistea. I baroni in seguito avrebbero mal tollerato il potere di Manasse perché egli e Melisenda erano portati a governare dispoticamente, ma per il momento nessuna opposizione si levò contro la regina24. La sua ascesa al trono recò un unico serio svantaggio. Sotto Folco la posizione del re di Gerusalemme come sovrano di tutti gli Stati crociati era diventata sempre più teorica piuttosto che effettiva, ed era naturale che i principi del nord facessero ancor meno caso alla sovranità di una donna e di un bambino. Quando scoppiò tutta una serie di dispute tra il principe di Antiochia e il conte di Edessa, un forte re di Gerusalemme come Baldovino II sarebbe partito per il nord e li avrebbe obbligati con la forza ad accordarsi; ma né una regina, né un re bambino potevano agire cosi e nessun altro aveva l’autorità suprema. Fin dall’epoca della morte dell’imperatore Giovanni e dello smacco subito da Zengi davanti a Damasco, Raimondo di Antiochia era tornato ad essere molto sicuro di sé. Mandò a chiedere immediatamente al nuovo imperatore, Manuele, che la Cilicia fosse restituita al suo principato e

quando Manuele rifiutò, invase la provincia. L’imperatore fu costretto a rimanere a Costantinopoli durante i primi mesi di regno, ma inviò una spedizione, per mare e per terra, agli ordini dei fratelli Contostefano, del turco convertito Bursuk e dell’ammiraglio Demetrio Branas, che non soltanto cacciarono Raimondo dalla Cilicia, ma inseguirono le sue truppe fin sotto le mura di Antiochia 25. Pochi mesi prima Raimondo aveva occupato parte del territorio di Aleppo fino a Bizaa, mentre Jocelin di Edessa avanzava fino all’Eufrate per congiungersi con lui; ma poi, improvvisamente, Jocelin fece una tregua con Sawar, governatore di Aleppo, mandando a monte i progetti di Raimondo. I rapporti tra lui e Jocelin peggioravano: sembra che già intorno al 1140 il conte di Edessa fosse stato costretto ad accettare Raimondo come sovrano, ma non ci fu mai nessuna cordialità fra di loro. Jocelin aveva irritato quest’ultimo intervenendo a favore del patriarca Radolfo e questa tregua li portò quasi ad una aperta rottura26. Zengi seguiva attentamente queste dispute. La morte dell’imperatore lo aveva liberato del suo più pericoloso nemico potenziale; i damasceni non avrebbero intrapreso nessuna azione contro di lui senza l’aiuto franco, ed era inverosimile che in quel momento il regno di Gerusalemme s’imbarcasse in avventure: egli non doveva quindi lasciarsi sfuggire l’occasione propizia. Nell’autunno del 1144 Zengi attaccò Kara Arslan, il principe ortoqida di Diarbekir, che aveva di recente stretto un’alleanza con Jocelin il quale, per aiutare l’alleato, uscì da Edessa con il grosso del suo esercito e discese verso l’Eufrate, apparentemente per tagliare le comunicazioni di Zengi con Aleppo. Questi venne informato dei movimenti di Jocelin da osservatori musulmani di Harran ed inviò subito un distaccamento agli ordini di Yaghi-Siyani di Hama per cogliere di sorpresa la città. Ma Yaghi-Siyani perse la strada nell’oscurità di una piovosa notte di novembre e giunse a Edessa il 28 del mese, non prima di Zengi con il grosso dell’esercito; ormai gli edesseni erano stati avvertiti e avevano predisposto le difese. L’assedio di Edessa durò quattro settimane. Jocelin aveva preso con sé tutti i migliori comandanti e perciò la difesa venne affidata all’arcivescovo latino Ugo II; il vescovo armeno Giovanni e quello giacobita Basilio lo sostennero lealmente. Se Zengi aveva avuto qualche speranza di indurre i cristiani indigeni a rifiutare l’obbedienza ai franchi, venne deluso. Basilio il giacobita suggerì di chiedere una tregua, ma l’opinione pubblica gli era contraria; però i difensori, per quanto combattessero valorosamente, erano pochi. Jocelin stesso si ritirò a Turbessel: lo storico Guglielmo di Tiro lo accusa aspramente di pigrizia e codardia per non essere accorso a liberare la sua capitale, ma in realtà il suo esercito non era abbastanza forte per affrontare il rischio di una battaglia con Zengi. Egli sperava che le grandi fortificazioni di Edessa resistessero per un certo tempo; a Turbessel poteva intercettare tutti i rinforzi che Zengi tentasse di far giungere da Aleppo e contava sull’aiuto dei suoi vicini franchi. Aveva mandato subito alcuni messi ad Antiochia e a Gerusalemme, dove la regina Melisenda tenne un consiglio e fu autorizzata a raccogliere un esercito, che fece partire al comando di Manasse il Conestabile, di Filippo di Nablus e di Elinando di Bures, principe di Galilea. Ma ad Antiochia Raimondo non volle fare nulla e furono inutili tutti gli appelli che Jocelin gli rivolse come proprio sovrano. Senza il suo aiuto il conte di Edessa non osò attaccare Zengi ed attese a Turbessel l’arrivo dell’esercito della regina. Questo giunse troppo tardi. L’esercito di Zengi si era ingrossato di curdi e turcomanni giunti dalla regione del Tigri superiore, e aveva buone macchine da assedio. D’altra parte gli ecclesiastici ed i mercanti che formavano il grosso della guarnigione erano inesperti nell’arte della guerra e i loro contrattacchi e tentativi di controminare furono infruttuosi; e si sospettò anche che l’arcivescovo Ugo volesse conservare il tesoro da lui ammassato, per quanto fosse urgentemente necessario per la

difesa. La vigilia di Natale un muro crollò vicino alla porta delle Ore e i musulmani si riversarono nella città attraverso la breccia. Gli abitanti fuggirono terrorizzati verso la cittadella, ma trovarono le porte chiuse davanti a loro per ordine dell’arcivescovo, che si trovava fuori nel vano tentativo di ristabilire un po’ d’ordine. Migliaia di persone morirono calpestate nella confusione e le truppe di Zengi, che li seguivano da presso, ne trucidarono altre migliaia, fra cui anche il vescovo. Alla fine giunse a cavallo Zengi in persona e ordinò che il massacro terminasse. I cristiani indigeni vennero risparmiati, ma tutti i franchi furono raccolti insieme e messi a morte, e le loro donne vendute schiave. Due giorni dopo un prete giacobita, Barsauma, che aveva assunto il comando della cittadella, si arrese a Zengi27. Una volta eliminati i franchi, Zengi trattò bene la città conquistata. Designò come governatore Kutchuk Ali di Arbil, ma ai cristiani indigeni, armeni, giacobiti e persino greci, venne concessa una certa autonomia. Sebbene le chiese latine fossero state distrutte, quelle dei cristiani indigeni erano intatte ed essi vennero incoraggiati a indurre i propri correligionari a venire a ripopolare la città. Il vescovo siriano Basilio godeva in modo particolare del favore dei conquistatori a causa della sua fiera risposta; quando gli chiesero se ci si poteva fidare di lui, disse che la sua lealtà verso i franchi stava a dimostrare di quanta lealtà fosse capace. Gli armeni, fra i quali era sempre stata popolare la dinastia di Courtenay, accolsero meno volentieri il nuovo regime28. Da Edessa Zengi avanzò su Saruj, la seconda grande fortezza franca a oriente dell’Eufrate, che cadde nelle sue mani in gennaio. Poi proseguì su Birejik, la città che controllava il più importante guado attraverso il fiume, ma la guarnigione franca oppose un’ostinata resistenza. Jocelin si trovava a poca distanza e l’esercito della regina stava avvicinandosi. In quel momento giunsero a Zengi voci di agitazioni in Mosul, perciò levò l’assedio e si precipitò verso oriente. Nominalmente era ancora soltanto l’atabeg di Mosul per conto del giovane principe selgiuchida Alp Arslan, figlio di Masud. Tornando nella città trovò che Alp Arslan, nel tentativo di affermare la propria autorità, aveva assassinato il luogotenente dell’atabeg, Shaqar. Il momento era scelto male, poiché Zengi, come conquistatore di una capitale cristiana, si trovava all’apogeo del suo prestigio nel mondo musulmano. Alp Arslan fu spodestato e i suoi consiglieri vennero messi a morte, mentre il califfo inviava a Zengi un’ambasceria carica di doni, per conferirgli il titolo di re e conquistatore29. La notizia della caduta di Edessa si diffuse in tutto il mondo. Ai musulmani recò nuova speranza: uno Stato cristiano che si era incuneato a forza in mezzo a loro era stato distrutto e i franchi erano ricacciati nelle regioni vicine al Mediterraneo. Le strade da Mosul ad Aleppo erano ora ripulite dal nemico e non c’era più un cuneo cristiano tra i turchi dell’Iran e quelli dell’Anatolia. Zengi si era ben guadagnato il suo titolo regale. Ai franchi la notizia recò scoraggiamento e allarme e giunse ai cristiani dell’Europa occidentale come un colpo terribile. Per la prima volta si resero conto che le cose non andavano tanto bene in Oriente. Si organizzò un movimento per predicare una nuova crociata. In realtà, una crociata era proprio necessaria, perché i principi franchi dell’Oriente, nonostante il pericolo che li minacciava, non riuscivano ancora a collaborare fra loro. Jocelin tentava di ricostituire il suo principato nelle terre che possedeva a occidente dell’Eufrate, con Turbessel come capitale30. Ma sebbene fosse evidente che Zengi lo avrebbe attaccato ben presto, non poteva perdonare Raimondo per avergli negato il suo aiuto; ruppe apertamente con lui e ne respinse la sovranità. Allo stesso modo Raimondo era contrario a una riconciliazione, ma era sensibile al pericolo dell’isolamento: nel 1145, dopo avere sconfitto un’incursione di turcomanni, decise di compiere un viaggio a Costantinopoli per chiedere aiuto all’imperatore. Al suo arrivo Manuele non

volle riceverlo e l’udienza gli venne concessa soltanto dopo che egli si fu inginocchiato, in atto di umile contrizione, sulla tomba dell’imperatore Giovanni. Allora Manuele lo trattò gentilmente, lo colmò di doni e gli promise un sussidio in denaro, ma non volle promettergli un immediato aiuto militare, poiché i bizantini erano impegnati in quel momento in una guerra contro i turchi. Si parlò di una spedizione nel futuro, e la visita, per quanto umiliante per l’orgoglio di Raimondo e impopolare fra i suoi baroni, ebbe un solo risultato utile: non passò inosservata a Zengi, che decise pertanto di rimandare un altro attacco contro i franchi del settentrione e di volgere ancora una volta la propria attenzione verso Damasco31. Nel maggio del 1146 Zengi si trasferì ad Aleppo per preparare la sua spedizione siriana. Mentre passava per Edessa apprese di un tentativo fatto dagli armeni della città per liberarsi del suo governo e restaurare quello di Jocelin. Kutchuk Ali l’aveva schiacciato facilmente e Zengi ordinò che i capi del complotto venissero giustiziati e che una parte della popolazione armena fosse messa al bando. Il loro posto fu preso da trecento famiglie ebree, per volontà di Zengi, perché gli ebrei erano notoriamente disposti ad appoggiare i musulmani contro i cristiani32. Nell’estate condusse il suo esercito verso sud, a Qalat Jabar, sulla strada diretta dall’Eufrate a Damasco, dove un signorotto arabo rifiutava di riconoscerlo come sovrano. Mentre stava assediando la città, nella notte del 14 settembre 1146 litigò con un eunuco di origine franca, che aveva sorpreso mentre beveva del vino dal suo proprio bicchiere. L’eunuco, furibondo per il rimprovero, attese che si addormentasse e lo assassinò33. L’improvvisa scomparsa di Zengi fu accolta con gioia da tutti i suoi nemici, i quali speravano che le dispute dinastiche, conseguenza normale della morte dei principi musulmani, avrebbero sfasciato il suo reame. Mentre il suo cadavere giaceva insepolto e abbandonato, il maggiore dei suoi figli, Saif ed-Din Ghazi, accompagnato dal visir Jamal ed-Din, si precipitò a Mosul per impadronirsi del governo, mentre il secondo, Nur ed-Din, strappato l’anello, insegna del potere, dal dito del cadavere, andò ad Aleppo per farsi proclamare sovrano dal curdo Shirkuh, il cui fratello Ayub aveva salvato la vita di Zengi quando il califfo l’aveva sconfitto nel 1132. La divisione del regno fu il segnale perché i suoi avversari ne iniziassero l’invasione: nel sud, le truppe di Unur provenienti da Damasco rioccuparono Baalbek e ridussero in vassallaggio il governatore di Homs e Yaghi-Siyani, governatore di Hama; a oriente, il selgiuchida Alp Arslan fece un altro inutile tentativo per ottenere il potere, mentre gli Ortoqidi di Diarbekir riconquistavano le città che avevano perduto34; nel centro, Raimondo di Antiochia condusse un’incursione fino sotto le mura di Aleppo, mentre Jocelin progettava di rioccupare Edessa. I suoi agenti stabilirono contatti con gli armeni della città e conquistarono il favore dei giacobiti; in quel momento Jocelin stesso parti con un piccolo esercito, a cui si uni Baldovino di Marash e Kaisun. Una volta ancora Raimondo rifiutò la propria collaborazione, ma questa volta con ragione perché la spedizione era insufficientemente preparata. Jocelin aveva sperato di cogliere Edessa di sorpresa, ma i musulmani furono avvertiti. Quando giunse davanti alle mura, il 27 ottobre, grazie all’aiuto degli indigeni poté penetrare nella città, ma la guarnigione della cittadella stava all’erta. Le sue truppe erano troppo scarse per consentirgli di attaccare le fortificazioni ed egli indugiò nella città, incerto sulla decisione da prendere. Nel frattempo, alcuni messaggeri avevano raggiunto Nur ed-Din ad Aleppo. Il suo esercito in quel momento stava contrattaccando Raimondo nel territorio antiocheno, ma egli lo richiamò immediatamente e chiese aiuto ai governatori musulmani delle vicinanze; il 2 novembre fece la sua comparsa davanti a Edessa e Jocelin si trovò preso tra lui e la cittadella, rendendosi conto che l’unica possibilità di scampo consisteva nell’evacuazione immediata. Durante la notte riuscì a

sgusciare fuori con i suoi uomini e con grande numero di cristiani indigeni e ad aprirsi un varco verso l’Eufrate. Nur ed-Din lo seguì da vicino ed il giorno seguente ebbe luogo una cruenta battaglia: i franchi tennero duro sulle loro posizioni finché Jocelin ordinò avventatamente un contrattacco, che venne respinto; allora l’esercito franco si dissolse nel panico. Baldovino di Marash rimase ucciso sul campo. Jocelin, ferito al collo, fuggì con la sua guardia del corpo e si rifugiò a Samosata, dove venne raggiunto dal vescovo giacobita Basilio. Giovanni, il vescovo armeno, fu catturato e trasportato ad Aleppo. I cristiani indigeni, abbandonati dai franchi, vennero tutti massacrati e le loro mogli e figli ridotti in schiavitù. A Edessa, l’intera popolazione cristiana venne cacciata in esilio. La grande città, che pretendeva di essere la più antica comunità indipendente cristiana nel mondo, fu lasciata vuota e desolata e non si è più ripresa fino ad oggi35. L’episodio mostrò ai nemici di Zengi che avevano guadagnato assai poco dalla sua morte, ed i suoi figli, sebbene avessero uno scarso affetto reciproco, furono abbastanza saggi da non litigare. Saif ed-Din Ghazi, completamente impegnato con gli Ortoqidi, prese l’iniziativa di un incontro con suo fratello, nel corso del quale venne pacificamente confermata la divisione dell’eredità. Saif edDin prese le terre nell’Iraq e Nur ed-Din quelle nella Siria. Quasi nello stesso periodo, la posizione di quest’ultimo venne rafforzata da un inatteso atto di follia commesso dai franchi a Gerusalemme. Al principio del 1147 uno dei luogotenenti di Unur, Altuntash, governatore di Bosra e di Salkhad nell’Hauran, un armeno convertitosi all’islamismo, si dichiarò indipendente da Damasco e si recò a Gerusalemme in cerca d’appoggio. Offrì di consegnare ai franchi Bosra e Salkhad se essi lo avessero insediato in un feudo nello Hauran. La regina Melisenda, molto correttamente, convocò il suo consiglio per discutere la proposta: era una decisione importante da prendere, perché appoggiare Altuntash voleva dire spezzare l’alleanza con Damasco, ma era un’offerta tentatrice. La popolazione dello Hauran era in larga misura cristiana, melchita di rito ortodosso, e con la collaborazione di questi correligionari sarebbe stato facile colonizzare la regione il cui controllo avrebbe posto Damasco alla mercè dei franchi. I baroni esitarono; ordinarono all’esercito di radunarsi a Tiberiade, ma inviarono un’ambasceria a Unur per dirgli che si proponevano di ristabilire Altuntash nella sua carica. Unur era adirato, ma desiderava evitare una rottura per timore di Nur ed-Din. Rispose ricordando alla regina che, secondo la legge feudale del regno di Gerusalemme, un sovrano non poteva appoggiare il vassallo ribelle di una potenza amica contro il suo signore, però si offriva di rimborsarle tutte le spese che le avesse causato la spedizione progettata. La regina inviò allora a Damasco un cavaliere di nome Bernardo Vacher per dire che, sfortunatamente, ella si era impegnata ad appoggiare Altuntash, che il suo esercito avrebbe riportato a Bosra; ma prometteva di non provocare in alcun modo danni al territorio damasceno. Bernardo tornò ben presto, dopo essersi lasciato convincere da Unur che la proposta era sbagliata e poco saggia. Riuscì a trarre dalla sua parte il giovane re Baldovino e quando la questione fu di nuovo discussa davanti al consiglio si decise di abbandonare la spedizione. Ma ormai era stato eccitato l’entusiasmo dei soldati e alcuni capi facinorosi dell’esercito, furibondi per la perdita di una proficua razzia contro gli infedeli, denunciarono Bernardo come traditore ed insistettero perché si dichiarasse la guerra. Il re ed i baroni si spaventarono e cedettero. Nel maggio del 1147 l’esercito franco, con a capo il re, attraversò il Giordano ed avanzò nello Jaulan. Ma non era la marcia trionfale che i soldati si erano aspettati. Unur era stato molto ben informato e le sue leggere truppe turcomanne, insieme con gli arabi della zona, li tormentarono mentre essi risalivano faticosamente la valle dello Yarmuk verso Deraa. Unur stesso aveva già inviato un’ambasceria ad Aleppo per chiedere aiuto a Nur ed-Din che accolse molto soddisfatto quest’appello. Venne stipulata un’alleanza: Nur ed-Din ebbe la mano della figlia di Unur e promise

di accorrere subito in soccorso; avrebbe ricevuto Hama, ma si impegnava a rispettare l’indipendenza damascena. Alla fine di maggio i franchi raggiunsero Deraa, circa a metà strada tra la frontiera e Bosra. Nel frattempo Unur si era precipitato su Salkhad che si trova più a oriente; la guarnigione di Altuntash che la difendeva chiese una tregua, e Unur si mosse verso occidente per unirsi con Nur edDin, sceso da Aleppo a tutta velocità. Insieme marciarono su Bosra, che venne loro consegnata dalla moglie di Altuntash. La notizia della resa giunse ai franchi verso sera quando, stanchi e assetati, arrivarono in vista della città. Non si trovavano assolutamente in condizione di attaccare i musulmani; non c’era nulla da fare se non ritirarsi. Il viaggio di ritorno fu ancora più penoso dell’avanzata: il cibo scarseggiava, molti pozzi erano stati distrutti, il nemico seguiva da presso la loro retroguardia e uccideva gli sbandati. Il giovane re mostrò grande coraggio, respingendo una proposta di abbandonare il grosso dell’esercito e di affrettarsi a mettersi in salvo con una guardia del corpo scelta. Grazie al suo esempio la disciplina si mantenne elevata. I baroni decisero infine di fare la pace con Unur e spedirono un messaggero che parlava arabo, probabilmente Bernardo Vacher, per chiedere una tregua; ma il messo venne ucciso durante il viaggio. Tuttavia, quando l’esercito raggiunse ar-Rahub, sul limite dello Je-bel Ajlun, arrivò un araldo da parte di Unur per offrire di rifornire i franchi di viveri. Data la vicinanza di Nur ed-Din, egli non desiderava che l’esercito cristiano fosse completamente annientato. Il re rifiutò arrogantemente l’offerta; ma fu notata l’apparizione di un misterioso straniero, che cavalcava un cavallo bianco e recava una bandiera scarlatta e che guidò l’esercito in salvo a Gadara. Di qui rientrarono in Palestina attraversando il Giordano, dopo un’ultima scaramuccia. Tutta la spedizione era stata costosa e inutile, e mostrava che i franchi erano buoni combattenti, ma politicamente incapaci e pessimi strateghi36. Soltanto un uomo ne aveva tratto vantaggio: Nur ed-Din. In realtà, Unur aveva riacquistato lo Hauran. Quando Altuntash si recò a Damasco, sperando di essere perdonato, fu accecato e imprigionato e i suoi amici caddero in disgrazia. Ma Unur era acutamente consapevole della forza di Nut ed-Din; allarmato per il futuro, desiderava di ristabilire l’alleanza con i franchi. Nur ed-Din, tuttavia, rimase fedele al suo trattato con Unur. Tornò verso nord per continuare l’impresa di privare il principato di Antiochia di tutte le sue terre a oriente dell’Oronte. Alla fine del 1147 Artah, Kafarlata, Basarfut e Balat si trovavano nelle sue mani37. Nur ed-Din si presentò cosi come il principale nemico dei cristiani. Aveva a quell’epoca ventinove anni, ma era molto saggio per la sua età. Persino i suoi oppositori ammiravano il suo senso della giustizia, la sua carità e la sua sincera devozione. Era forse un soldato meno brillante di suo padre Zengi, ma anche meno crudele e sleale; soprattutto era un migliore conoscitore degli uomini. I suoi ministri ed i suoi generali erano capaci e fedeli. Le sue risorse materiali erano minori di quelle di suo padre, perché Zengi aveva potuto adoperare le ricchezze dell’Iraq superiore, toccato a Saif ed-Din. Questi però aveva ereditato anche le difficoltà di Zengi con gli Ortoqidi, con il califfo e con il sultanato selgiuchida, lasciando Nur ed-Din libero di rivolgere tutta la sua attenzione all’Occidente. Inoltre, i figli di Zengi rimasero fedeli al loro patto familiare: Saif ed-Din avrebbe inviato aiuti a Nur ed-Din, se questi ne avesse avuto bisogno, senza desiderare di annettersi la sua parte delle terre di famiglia. Un terzo fratello, Nasr ed-Din, fu stabilito a Harran, come vassallo di Nur ed-Din, mentre il minore, Qutb ed-Din, veniva educato a Mosul, alla corte del fratello maggiore. Non temendo alcun pericolo dai suoi correligionari musulmani a causa delle sue relazioni familiari e della sua alleanza con Unur, Nur ed-Din si trovava in una posizione ideale per guidare il contrattacco dell’Islam. Se i cristiani dell’Oriente volevano sopravvivere, era contro di lui che dovevano concentrare i loro sforzi38.

Parte terza La seconda crociata

Capitolo primo L’adunata dei re

Levati dunque, mettiti all’opra, e l’Eterno sia teco! I Cronache, XXII, 16

Quando a Gerusalemme si seppe che Edessa era caduta, la regina Melisenda si consultò subito con il governo di Antiochia sull’opportunità di spedire a Roma un’ambasceria che recasse la notizia al papa e sollecitasse una nuova crociata. Si decise che l’ambasciatore fosse Ugo, vescovo di Jabala, la cui opposizione alle rivendicazioni dell’imperatore Giovanni lo aveva reso bene accetto ai cristiani latini. Sebbene il messaggio affida togli fosse urgente, il vescovo non giunse alla curia papale prima dell’autunno del 1145. Papa Eugenio III si trovava a Viterbo, poiché Roma era nelle mani di un governo comunale avverso al governo pontificio. Con lui c’era un cronista tedesco, Ottone di Frisinga, che lasciò una vivace descrizione del modo in cui il papa aveva accolto la tremenda noti zia. Per parte sua, Ottone era più interessato alle informazioni del ve scovo a proposito di un sovrano cristiano che viveva a oriente della Per sia e che stava conducendo una guerra fortunata contro gli infedeli. Il suo nome era Giovanni ed era un nestoriano; aveva già conquistato la capitale persiana di Ecbatana, ma poi si era spinto verso settentrione in una regione di neve e ghiacci, dove aveva perduto tanti uomini da esse re obbligato a fare ritorno in patria. In questo modo il leggendario Prete Gianni faceva il suo ingresso nelle pagine della storia1. Papa Eugenio non condivideva le speranze del celebre cronista secondo cui il Prete Gianni avrebbe liberato la cristianità, ed era seriamente preoccupato. Circa in quello stesso tempo gli giunse una delegazione di vescovi armeni della Cilicia desiderosi di un appoggio contro Bisanzio2. Il papa non poteva trascurare i propri doveri verso l’Oriente e mentre il vescovo Ugo proseguiva il suo viaggio per informare le corti di Francia e di Germania, Eugenio decideva di predicare la crociata3. Il papato allora non era però in condizione di prendere la direzione del movimento, come papa Urbano aveva tentato di fare a suo tempo. Dopo la sua ascesa al soglio pontificio, avvenuta in febbraio, Eugenio non era ancora riuscito a entrare in Roma e non poteva neppure permettersi di compiere un viaggio al di là delle Alpi. Per fortuna era in buoni rapporti con i due principali monarchi dell’Europa occidentale: infatti Corrado di Hohenstaufen, re di Germania, doveva il suo trono all’appoggio ecclesiastico ed era stato incoronato dal legato papale; ancor più cordiali erano le relazioni del papa con il piissimo re di Francia Luigi VII. Dopo alcuni errori giovanili, dovuti all’influenza di sua moglie Eleonora d’Aquitania, egli si era pentito e si lasciava guidare in ogni cosa da consiglieri ecclesiastici, specialmente dal grande abate di Chiaravalle, Bernardo. Proprio a re Luigi il papa decise di rivolgersi per chiedere aiuti per l’Oriente; l’appoggio dello Hohenstaufen gli serviva in Italia per sottomettere i romani e per tenere a freno le ambizioni di Ruggero II di Sicilia e non desiderava che Corrado assumesse altri impegni. Ma Luigi era il re del paese da cui proveniva la maggior parte dei principi e dei signori franchi d’Oriente: era il capo naturale della spedizione che doveva soccorrerli. Il 1° dicembre 1145 Eugenio indirizzò una bolla al re e a tutti i principi e fedeli di Francia, esortandoli a partire per la liberazione della cristianità orientale e promettendo loro

sicurezza per i loro beni terreni e remissione dei peccati4. La notizia della caduta di Edessa scosse l’Occidente. L’interesse e l’entusiasmo suscitati dalla prima crociata si erano ormai calmati: la conquista di Gerusalemme aveva acceso l’immaginazione della gente e subito dopo grossi rinforzi erano partiti di buon grado in risposta agli appelli giunti dall’Oriente, come avevano dimostrato le crociate del noi. Ma quelle spedizioni erano terminate in un disastro e nondimeno gli Stati franchi del Levante avevano mantenuto e consolidato la propria posizione; giungevano ancora rinforzi, ma in numero limitate. Continuava il flusso costante dei pellegrini, molti dei quali si fermavano abbastanza a lungo per prendere parte a una campagna estiva; fra loro c’erano principi come Sigurd di Norvegia o poteva esserci una grande compagnia di gente più umile, come quella degli inglesi, fiamminghi e danesi giunta in Palestina nel 1106. Le città marinare italiane mandavano di tanto in tanto una flotta per collaborare alla conquista di qualche porto di mare, ma il loro unico scopo era l’interesse commerciale, che spingeva pure nel Levante un crescente numero di singoli mercanti italiani. Ma fin dal regno di Baldovino I questi gruppi armati di pellegrini erano stati pochi: negli anni più recenti l’unico degno di nota era stato quello condotto dal genero di re Folco, Thierry, conte di Fiandra. Avevano continuato a giungere numerosi immigranti, cadetti di famiglie nobili, come Baliano di Chartres, fondatore della casata di Ibelin, o baroni, come Ugo di Le Puiset o Manasse di Hierges, che speravano di trarre vantaggi dalla parentela con la casa reale. Un elemento più costante e più prezioso era costituito dai cavalieri che venivano ad unirsi ai grandi ordini militari, gli ospitalieri e i templari. Gli ordini stavano a poco a poco assumendo la funzione di esercito permanente del regno e le molte concessioni di terre fatte loro dalla corona e dai suoi vassalli mostravano quanto fossero apprezzati. Mai però, dopo la dispersione degli eserciti della prima crociata, c’era stata in Oriente una forza armata franca abbastanza potente da poter prendere l’iniziativa di una grande offensiva contro gli infedeli5. C’era voluto il colpo del disastro di Edessa per svegliare di nuovo l’Occidente; infatti fino allora, dal punto di vista dell’Europa, gli Stati crociati della Siria apparivano semplicemente come l’ala sinistra di un fronte antislamico vasto quanto il Mediterraneo. L’ala destra si trovava in Spagna, dove era ancora possibile compiere imprese degne di un cavaliere cristiano. Il progresso della croce in Spagna aveva subito un arresto nel secondo e nel terzo decennio del secolo a causa delle dispute tra la regina Urraca di Castiglia e suo marito, re Alfonso I d’Aragona. Ma il figlio ed erede della regina, Alfonso VII di Castiglia, nato dal suo primo matrimonio borgognone, suscitò una rinascita in Castiglia. Nel 1132, sei anni dopo la sua ascesa al trono, iniziò contro i musulmani una serie di campagne che, nel 1147, lo condussero alle porte di Cordova dove venne riconosciuto sovrano. Già nel 1134 aveva assunto il titolo di imperatore per dimostrare che era signore della penisola e non era vassallo di nessuno. Nel frattempo Alfonso I, che la morte di Urraca aveva liberato da complicazioni con i vicini castigliani, trascorreva i suoi ultimi anni prendendo l’offensiva in Murcia, con varia fortuna, mentre lungo la costa Raimondo Berengario III, conte di Barcellona, estendeva il proprio potere verso sud. Alfonso I morì nel 1134 e suo fratello, l’ex monaco Ramiro, regnò in modo disastroso per tre anni. Ma nel 1137 la regina Petronilla, di due anni, figlia di Ramiro, venne sposata a Raimondo Berengario IV di Barcellona e cosi Catalogna ed Aragona si unirono formando un unico Stato, le cui forze navali permisero di completare la riconquista della Spagna nord-orientale6. Nel 1145, dunque, le cose procedevano bene sulla scena spagnola; ma stava preparandosi una burrasca. Gli Almoravidi, che avevano dominato la Spagna musulmana nell’ultimo mezzo secolo, erano precipitati in un’irrimediabile decadenza. In Africa il loro posto era già stato occupato dagli Almohadi, una setta di riformatori ascetici, quasi gnostica nella sua teologia e nell’importanza accordata a un gruppo di iniziati, che era stata fondata dal profeta berbero Ibn Tumart e si era

sviluppata in modo ancor più aggressivo sotto il suo successore Abd al-Mumin. Questi, nel 1145, sconfisse e trucidò nei pressi di Tlemcen il monarca almoravida, Tashfin ibn Ali. Nel 1146 completò la conquista del Marocco e si trovò pronto a invadere la Spagna7. Con simili preoccupazioni in patria i cavalieri cristiani di Spagna erano insensibili a un appello proveniente dall’Oriente. D’altra parte, i regni spagnoli ormai saldamente costituiti non offrivano più ai cavalieri e ai principi di Francia le stesse prospettive del secolo precedente. Il centro del campo di battaglia contro l’Islam era occupato da re Ruggero II di Sicilia che aveva riunito tutti i possedimenti normanni in Italia e aveva assunto il titolo regale nel 1130. Consapevole dell’importanza strategica del proprio regno, situato in una posizione ideale per controllare il Mediterraneo, riteneva necessario, per rendere completo questo controllo, un punto d’appoggio sulla costa africana dirimpetto alla Sicilia. I litigi e le rivalità delle dinastie musulmane dell’Africa settentrionale, intensificatesi per il declino degli Almoravidi in Marocco e per l’inefficiente sovranità dei Fatimiti sulla Tunisia, nonché la dipendenza delle città africane dall’importazione di grano dalla Sicilia, offrirono a Ruggero un’occasione favorevole. Ma la sua prima campagna, dal 1123 al 1128, non gli recò alcun vantaggio, oltre alla conquista dell’isola di Malta. Nel 1134, offrendogli saggiamente aiuto a tempo opportuno, indusse el-Hasan, signore di al-Mahdiya, ad accettarlo come proprio sovrano, e l’anno seguente occupò l’isola di Jerba nel golfo di Gabes. Il successo delle sue azioni piratesche contro la navigazione musulmana stimolarono il suo appetito ed egli cominciò ad attaccare le città costiere. Nel giugno del 1143 le sue truppe penetrarono in Tripoli, ma vennero costrette a ritirarsi. Riconquistò la città esattamente tre anni dopo, proprio mentre una rivoluzione interna portava al potere un principe almoravide. Questa volta non poté essere cacciato e Tripoli diventò il nucleo di una colonia normanna in Africa8. Re Ruggero era dunque adattissimo per prendere parte alla nuova crociata, ma era sospetto: la sua condotta verso il papato non era mai stata sottomessa e rispettosa; gli altri sovrani d’Europa mal tolleravano la presunzione dimostrata nell’assumere una corona reale e san Bernardo aveva commentato con Lotario di Germania che «chiunque si fa re di Sicilia attacca l’imperatore»9. La disapprovazione di san Bernardo implicava quella dell’opinione pubblica francese. Ruggero era ancora più impopolare tra i principi d’Oriente, perché aveva fatto capire chiaramente di non aver mai perdonato al regno di Gerusalemme il trattamento riservato a sua madre Adelaide, né il proprio insuccesso nel tentativo di ottenere la successione promessa nel contratto matrimoniale di lei; al tempo stesso pretendeva Antiochia, quale unico erede di suo cugino Boemondo in linea di discendenza maschile. La sua presenza alla crociata non era dunque desiderata, ma si sperava che avrebbe continuato la guerra contro l’Islam nel suo proprio settore particolare10. Era facile capire perché il papa avesse scelto re Luigi di Francia perché organizzasse la nuova crociata; il re dal canto suo rispose con entusiasmo all’appello. Quando giunse la bolla papale che seguiva da presso le notizie recate dal vescovo di Jabala, Luigi aveva appena emesso una convocazione ai suoi principali feudatari affinché a Natale si incontrassero con lui a Bourges. Quando si furono radunati egli annunziò che aveva deciso di prendere la croce e chiese loro di fare altrettanto, ma la loro risposta gli causò una dolorosa delusione: la nobiltà laica non mostrava nessun entusiasmo, mentre il più importante e più anziano uomo di Stato del reame, Suger, abate di SaintDenis, manifestò la propria disapprovazione per la progettata assenza del re; soltanto il vescovo di Langres si espresse a favore del sovrano11. Scoraggiato per l’indifferenza dei suoi vassalli, Luigi decise di rimandare di tre mesi il suo appello e convocò un’altra assemblea che doveva incontrarsi con lui per Pasqua a Vézélay. Nel

frattempo scrisse al papa per informarlo del proprio desiderio personale di condurre una crociata e mandò a chiamare l’unico uomo in Francia la cui autorità fosse maggiore della propria, Bernardo, abate di Chiaravalle. San Bernardo era allora al culmine della sua fama. È difficile oggi, a distanza di secoli, valutare adeguatamente la poderosa influenza che la sua personalità esercitava su tutti quelli che lo conoscevano. Il fuoco della sua eloquenza è spento nelle parole scritte che rimangono di lui; come teologo e come polemista egli appare oggi rigido, un po’ primitivo e scortese. Ma da quel giorno del 1115 in cui, all’età di venticinque anni, fu designato abate di Chiaravalle, fino alla morte avvenuta quasi quarant’anni dopo, egli esercitò un influsso predominante sulla vita religiosa e politica dell’Europa occidentale. A lui si deve lo slancio dell’Ordine cistercense, e fu lui che, quasi da solo, liberò il papato dal marasma dello scisma di Anacleto II. Il fervore e la sincerità della sua predicazione si univano al coraggio, all’energia e all’integrità della condotta per portare alla vittoria tutte le cause a cui diede il suo appoggio, con l’unica eccezione di quella contro gli inaspriti eretici catari della Linguadoca. Si era interessato per lungo tempo alla sorte della cristianità orientale e nel 1128 aveva collaborato alla stesura della regola per l’Ordine del Tempio. Quando il papa ed il re lo implorarono di dare il suo aiuto alla predicazione della crociata, acconsentì con premura12. L’assemblea si riunì a Vézélay il 31 marzo 1146. La notizia che san Bernardo doveva predicarvi attrasse visitatori da tutta la Francia. Come a Clermont mezzo secolo prima, la folla era troppo numerosa per poter prendere posto nella cattedrale, perciò san Bernardo parlò da un palco eretto in un campo nelle vicinanze della piccola città. Le sue parole non ci sono state tramandate e sappiamo soltanto che egli lesse la bolla papale che chiedeva una santa spedizione e prometteva l’assoluzione a tutti coloro che vi partecipavano, e che poi fece uso della sua formidabile eloquenza per mostrare quanto pressante fosse la richiesta del papa. Ben presto l’uditorio rimase ammaliato dalla sua parola e gli uomini cominciarono a gridare chiedendo: «Croci! Croci! Dateci delle croci!» - In pochi momenti si esaurì tutta la stoffa preparata all’uopo e san Bernardo cedette i suoi vestiti perché venissero tagliati. Al tramonto egli e i suoi aiutanti stavano ancora cucendo perché sempre più numerosi fedeli si impegnavano a partire per la crociata13. Re Luigi fu il primo a prendere la croce e i suoi vassalli, dimenticando la loro precedente freddezza, manifestarono un vivo desiderio di seguirlo. C’erano tra loro suo fratello Roberto, conte di Dreux, Alfonso-Giordano conte di Tolosa, nato in Oriente, Guglielmo conte di Nevers, il cui padre aveva condotto una delle sfortunate spedizioni del noi, Enrico, erede della contea di Champagne, Thierry di Fiandra, che aveva già combattuto in Oriente e la cui moglie era figliastra della regina Melisenda, lo zio del re, Amedeo di Savoia, Arcibaldo conte di Borbone, i vescovi di Langres, Arras e Lisieux e molti nobili di rango meno elevato. Una risposta ancor più massiccia venne dalla gente più umile14. Pochi giorni dopo san Bernardo poté scrivere al papa una lettera in questi termini: «Voi comandaste, io obbedii; e l’autorità di colui che impartì l’ordine ha reso fruttifera la mia obbedienza. Io aprii la bocca e parlai; e subito i crociati si sono moltiplicati all’infinito. I villaggi e le città sono abbandonati e trovereste a mala pena un uomo ogni sette donne. Per ogni dove ci sono vedove i cui mariti sono ancora in vita»15. Incoraggiato dal successo, san Bernardo intraprese un viaggio in Borgogna, Lorena e Fiandre per predicarvi la crociata. Mentre si trovava nelle Fiandre ricevette un messaggio dell’arcivescovo di Colonia che lo implorava di accorrere subito in Renania. Come ai tempi della prima crociata, l’entusiasmo suscitato dalla notizia del movimento si era rivolto contro gli ebrei. In Francia, l’abate di Cluny, Pietro il Venerabile, aveva protestato con eloquenza perché essi non pagavano un contributo finanziario per la liberazione della cristianità. In Germania il risentimento assunse una

forma più crudele, poiché un fanatico monaco cistercense di nome Rodolfo, spingeva le folle al massacro degli ebrei in tutta la Renania, a Colonia, Magonza, Worms, Spira e Strasburgo. Gli arcivescovi di Colonia e di Magonza fecero del loro meglio per salvare le vittime e quest’ultimo si rivolse a Bernardo perché mettesse a posto il cistercense. Il santo accorse in fretta dalle Fiandre e ordinò a Rodolfo di tornare nel suo monastero. Ristabilita la calma, Bernardo si trattenne in Germania poiché gli sembrava che anche i tedeschi dovessero partecipare alla crociata16. Fino allora, infatti, i tedeschi avevano avuto una parte insignificante nel movimento crociato. Il loro zelo cristiano si era piuttosto diretto verso l’evangelizzazione forzata degli slavi pagani alle frontiere orientali. Fin dall’inizio del secolo si era sviluppata un’opera missionaria e una colonizzazione tedesca nei distretti slavi in Pomerania e nel Brandeburgo, e i signori tedeschi consideravano questa espansione della cristianità come un’impresa più importante che una guerra contro l’Islam, la cui minaccia era per loro lontanissima e teorica. Non erano perciò molto propensi a rispondere alla predicazione di san Bernardo, e il loro re Corrado di Hohenstaufen, sebbene grande ammiratore del santo, non aveva molta voglia di prestargli ascolto. Aveva bensì interessi nel Mediterraneo, limitati però all’Italia, dove aveva promesso di prestare aiuto al papa contro i romani recalcitranti e contro Ruggero di Sicilia, in cambio della propria ambitissima incoronazione a imperatore; d’altra parte la sua posizione era ancora insicura nella stessa Germania. Infatti, nonostante la vittoria di Weinsburg nel 1140 doveva ancora fronteggiare l’ostilità della casa di Welf, mentre quegli strani individui che erano i suoi fratellastri e sorellastre Babenberger gli suscitavano difficoltà lungo tutta la frontiera orientale. Quando san Bernardo, dopo un’ampia corrispondenza mirante a ottenere la collaborazione dei vescovi tedeschi, incontrò il re a Francoforte sul Meno nell’autunno del 1146, Corrado tergiversò e Bernardo sarebbe tornato a Chiaravalle se i vescovi non l’avessero implorato di continuare la sua predicazione. Perciò egli si diresse verso sud per predicare la crociata a Friburgo, Basilea, Sciaffusa e Costanza. Il viaggio apparve subito un grande successo, anche se era necessario far tradurre i sermoni da un interprete tedesco: la gente più umile si affollava per prendere la croce. Quell’anno in Germania i raccolti erano scarsi e c’era carestia nel paese. L’estrema miseria generò un’esaltazione mistica ed è probabile che molti uditori di Bernardo, al pari dei pellegrini della prima crociata, pensassero che il viaggio in Oriente li avrebbe condotti verso le ricchezze della Nuova Gerusalemme17. Re Corrado acconsentì a incontrare di nuovo san Bernardo nel Natale del 1146, allorché egli doveva tenere una dieta a Spira. Il sermone natalizio in cui Bernardo gli chiedeva una volta ancora di prendere la croce non commosse il re, ma due giorni dopo il santo predicò di nuovo davanti alla corte. Parlando come se egli fosse Cristo in persona investi con violenza il re, ricordandogli tutti i benefici che il cielo aveva riversato su di lui: «Uomo, - gridò, - che cosa dovevo fare per te che non l’abbia fatto?» Corrado ne fu profondamente toccato e promise di seguire il comandamento del santo18. Bernardo lasciò la Germania compiaciuto per la sua azione; percorse la Francia orientale per sovrintendere ai preparativi della crociata e scrisse ai conventi cistercensi di tutta Europa ordinando loro di incoraggiare il movimento. In marzo era di nuovo in Germania per partecipare a un consiglio a Francoforte nel quale venne deciso l’invio di una crociata contro gli slavi pagani a oriente di Oldenburg. La sua presenza doveva dimostrare che, pur sostenendo il progetto di una crociata nel Levante, non desiderava che i tedeschi trascurassero i loro doveri più prossimi. Il papa concesse ai partecipanti di portare la croce, ma questa crociata germanica si concluse con un insuccesso che ritardò di molto la conversione degli slavi. Da Francoforte Bernardo si affrettò a far ritorno alla sua

abbazia di Chiaravalle per ricevervi una visita del papa19. Papa Eugenio aveva trascorso il Natale del 1146 a Roma, ma i suoi difficili rapporti con i romani l’obbligarono presto a ritirarsi di nuovo a Viterbo, mentre Roma passava sotto il governo di Arnaldo da Brescia. Eugenio si rese conto che senza l’aiuto di re Corrado non poteva sperare di insediarsi nuovamente nella città eterna; nel frattempo decise di attraversare le Alpi e di passare in Francia per incontrarsi con re Luigi e sovrintendere alla crociata. Lasciò Viterbo nel gennaio 1147 e arrivò a Lione il 22 marzo; durante il viaggio ricevette notizie dell’attività di san Bernardo e non ne fu interamente soddisfatto: il suo senso pratico l’aveva condotto a prevedere una crociata unicamente francese, sotto la guida laica del re di Francia, senza quella divisione di comando che aveva quasi fatto naufragare la prima crociata. San Bernardo aveva trasformato il movimento in un’impresa internazionale, ma, in pratica, la grandiosità della sua idea avrebbe potuto essere annullata dalla rivalità dei re. Inoltre il papa non poteva privarsi di re Corrado, sul cui aiuto in Italia faceva affidamento e perciò accolse molto freddamente la notizia della partecipazione tedesca, senza peraltro poterla impedire20. Proseguendo il suo viaggio in Francia, il papa incontrò re Luigi a Digione nei primi giorni d’aprile e giunse a Chiaravalle il 6 dello stesso mese. Corrado gli inviò colà un’ambasceria per chiedergli un’udienza a Strasburgo il 18, ma Eugenio aveva, promesso di trascorrere la Pasqua, 20 aprile, a Saint-Denis e non volle mutare i suoi piani. Corrado si preparò a partire per l’Oriente senza la benedizione diretta del pontefice. Nel frattempo Eugenio incontrava ripetutamente l’abate Suger, che doveva reggere la Francia durante l’assenza di Luigi; tenne un concilio a Parigi per discutere della eresia di Gilberto de la Porée e rivide Luigi a Saint-Denis l’11 giugno; poi, mentre il re completava i suoi ultimi preparativi, si mosse lentamente verso sud per tornare in Italia21. Mentre i re di Francia e di Germania si preparavano alla crociata progettando un lungo viaggio per via di terra, una spedizione più modesta, formata da inglesi e da alcuni fiamminghi e frisoni, venne ispirata dalla predicazione degli agenti di san Bernardo a partire per la Palestina per via di mare. Le navi lasciarono l’Inghilterra nella tarda primavera del 1147, ma al principio di giugno il maltempo le costrinse a cercar rifugio alla foce del Duero, sulla costa portoghese. Qui vennero loro incontro emissari di Alfonso Enrico, conte del Portogallo, che aveva affermato di recente l’indipendenza del proprio paese e stava trattando con il papato per ottenere il titolo di re, adducendo a giustificazione della richiesta le sue fortunate campagne contro i musulmani. Approfittando delle difficoltà degli Almoravidi, aveva ottenuto nel 1139 una grande vittoria a Ourique e nel marzo del 1147 aveva raggiunto le sponde del Tago e conquistato Santarem. Desiderava ora attaccare la capitale musulmana della regione, Lisbona, ma per questo aveva bisogno dell’aiuto di forze navali. L’arrivo dei crociati era dunque opportuno. Il più importante rappresentante del conte, il vescovo di Oporto, fece loro osservare che non era necessario compiere il lungo viaggio fino in Palestina se desideravano combattere per la croce: c’erano infedeli a portata di mano e si potevano guadagnare sul momento e sul posto non soltanto meriti spirituali, ma ricche proprietà. I fiamminghi e i frisoni acconsentirono subito, ma il contingente inglese esitò: avevano fatto voto di andare a Gerusalemme e per persuaderli a rimanere fu necessaria tutta l’influenza del loro capo, Enrico Glanville, conestabile di Suffolk, che il vescovo aveva guadagnato alla propria causa. Appena concordate le condizioni, la piccola flotta salpò verso il Tago per unirsi all’esercito portoghese e l’assedio di Lisbona ebbe inizio. I musulmani difesero valorosamente la loro città e soltanto in ottobre, dopo quattro mesi di lotta, la guarnigione si arrese, con la garanzia che avrebbero avuto salva la vita e le proprietà. I crociati violarono immediatamente i patti e compirono un

grandioso massacro di infedeli, in cui gli inglesi, fieri della propria rettitudine, ebbero soltanto una parte di secondo piano. Terminata la campagna, alcuni crociati continuarono il loro viaggio verso l’Oriente, ma la maggior parte si stabilirono come coloni sotto la corona portoghese. Questo episodio, che parve preludere alla lunga alleanza tra Inghilterra e Portogallo, per quanto ponesse le basi della successiva diffusione del cristianesimo al di là degli oceani, fece ben poco per aiutare i cristiani del Levante, dove la presenza di una forza navale sarebbe stata per loro di valore incalcolabile22. Mentre i nordici si trattenevano in Portogallo, i re di Francia e di Germania partivano per via di terra verso l’Oriente. Re Ruggero di Sicilia aveva fatto pervenire a ciascuno di loro l’offerta di trasportarli per mare con i loro eserciti. Per Corrado, che era stato a lungo nemico di Ruggero, tale proposta era ovviamente inaccettabile ed anche Luigi l’aveva respinta. Il papa non desiderava la collaborazione di Ruggero ed è improbabile che la marina siciliana fosse veramente abbastanza numerosa per trasportare tutti i soldati riunitisi per la crociata. Luigi non aveva nessun desiderio di affidare se stesso, separato dalla metà del proprio esercito, a un uomo il cui passato di doppiezza era ben noto e che era aspramente ostile allo zio della regina di Francia. Il viaggio per via di terra era più sicuro e più economico23. Re Corrado intendeva partire dalla Germania nella Pasqua del 1147. In dicembre aveva ricevuto a Spira un’ambasceria bizantina a cui aveva dato notizie della propria partenza immediata per l’Oriente, ma in realtà egli non iniziò il suo viaggio prima della fine di maggio. Lasciò Ratisbona verso gli ultimi giorni del mese e passò in Ungheria. Il suo esercito era di dimensioni imponenti: cronisti pieni di meraviglia e di rispetto parlarono di un milione di soldati; è probabile che l’intera compagnia, uomini armati e pellegrini, sommasse in totale a circa ventimila persone. Con Corrado c’erano due re vassalli, Ladislao di Boemia e Boleslao IV di Polonia; la nobiltà tedesca era capeggiata dal nipote ed erede di Corrado, Federico duca di Svevia; c’era un contingente della Lorena condotto da Stefano, vescovo di Metz, e da Enrico, vescovo di Toul. L’esercito era indisciplinato: i principi tedeschi erano invidiosi gli uni degli altri e c’era un costante attrito tra i tedeschi, gli slavi e i lorenesi di lingua francese. Corrado non era in grado di controllare la situazione: aveva passati i cinquant’anni, la sua salute era mediocre e il suo carattere debole e incerto; aveva cominciato a delegare buona parte della sua autorità nelle mani di suo nipote Federico, energico, ma privo d’esperienza24. Durante il mese di giugno l’esercito tedesco avanzò attraverso l’Ungheria. Il giovane re Geza era ben disposto e non si produssero incidenti spiacevoli. Un’ambasceria bizantina, guidata da Demetrio Macrembolita e dall’italiano Alessandro da Gravina, si incontrò con Corrado in Ungheria per domandargli da parte dell’imperatore se veniva come amico o come avversario e per chiedergli di prestare giuramento di non agire contro il benessere e gli interessi dell’imperatore. Questa formula di giuramento era ben scelta poiché in alcune parti dell’Occidente era il normale giuramento prestato dal vassallo al proprio signore; era lo stesso giuramento che Raimondo di Tolosa aveva prestato ad Alessio nel corso della prima crociata; eppure era concepito in modo che Corrado avrebbe potuto difficilmente rifiutarvisi senza classificarsi come nemico dell’imperatore. Egli giurò; gli ambasciatori promisero allora ogni assistenza per il periodo in cui si fosse trovato sul territorio imperiale25. Verso il 20 luglio Corrado penetrò nell’Impero a Braničevo e le navi bizantine collaborarono al trasporto dei suoi uomini oltre il Danubio. A Niš il governatore della provincia bulgara, Michele Branas, si incontrò con lui e rifornì l’esercito di viveri che erano stati immagazzinati in previsione

del suo arrivo. A Sofia, dove i soldati giunsero pochi giorni più tardi il governatore di Tessalonica, Michele Paleologo, cugino dell’imperatore, diede a Corrado un benvenuto ufficiale da parte del suo sovrano. Fino a quel momento tutto era andato bene e il re scrisse ai suoi amici in Germania che era soddisfatto di ogni cosa. Ma dopo aver lasciato Sofia i suoi uomini cominciarono a saccheggiare le campagne, rifiutandosi di pagare agli abitanti dei villaggi ciò di cui si impadronivano e trucidando persino coloro che reclamavano. Quando vennero presentate le proteste a Corrado, questi confessò di non essere in grado di disciplinare la soldataglia. A Filippopoli scoppiarono incidenti ancora peggiori: venne rubato del cibo e scoppiò un tumulto quando un prestigiatore del luogo, che aveva sperato di guadagnare un po’ di denaro mostrando ai soldati le sue abilità, venne accusato di stregoneria dai tedeschi. I sobborghi vennero incendiati, ma le mura della città erano troppo solide perché i germanici osassero attaccarle. L’arcivescovo Michele Italicus protestò cosi energicamente con Corrado che lo indusse, per la vergogna, a castigare i promotori della sommossa. Manuele inviò allora delle truppe per accompagnare i crociati e per impedire che si allontanassero dalla strada, ma questo produsse soltanto disordini ancora peggiori, perché bizantini e tedeschi vennero frequentemente alle mani. Il momento di maggior tensione si ebbe vicino ad Adrianopoli, quando alcuni banditi bizantini derubarono e uccisero un signorotto tedesco attardatosi per via perché ammalato; Federico di Svevia a mo’ di ritorsione incendiò il monastero nelle cui vicinanze era stato commesso il delitto e ne trucidò gli occupanti. Per rappresaglia vennero uccisi alcuni sbandati ubriachi, molto numerosi tra i tedeschi, ovunque cadessero nelle mani dei bizantini. Quando il loro comandante, Prosuch, ebbe ristabilito la pace e l’esercito ebbe ripreso la marcia, giunse un’ambasceria da parte di Manuele, che era ormai seriamente allarmato, per esortare Corrado a prendere la via verso Sestos sull’Ellesponto ed effettuare di là la traversata in Asia: l’eventuale avanzata dei tedeschi su Costantinopoli sarebbe stata considerata come un gesto di inimicizia. Corrado non volle acconsentire e sembra che allora Manuele avesse deciso di opporsi con la forza ai crociati, ma che all’ultimo momento revocasse gli ordini impartiti a Prosuch. I tedeschi furono ben presto colpiti dal castigo divino: mentre si trovavano accampati a Cheravas nella pianura della Tracia un’inondazione improvvisa si rovesciò tra le loro tende, facendo annegare parecchi soldati e distruggendo molti beni; soltanto il distaccamento di Federico, accampato su un terreno più elevato, non soffri alcun danno. Ma non si produsse più nessun serio incidente finché l’esercito, verso il io settembre, raggiunse Costantinopoli26. Re Luigi e l’esercito francese seguivano a circa un mese di distanza. Il re stesso parti da SaintDenis l’8 giugno e convocò i suoi vassalli perché lo incontrassero a Metz pochi giorni dopo. La sua spedizione era probabilmente un po’ più piccola di quella di Corrado. Tutti i nobili che avevano preso la croce con lui a Vézélay vennero per adempiere i loro voti; il re era accompagnato da sua moglie Eleonora d’Aquitania, la più importante ereditiera di Francia, nipote del principe di Antiochia. Le contesse di Fiandra e di Tolosa e molte altre nobildonne fecero il viaggio insieme con i loro mariti. Il gran maestro del Tempio, Everardo di Barre, raggiunse l’esercito con un reggimento di reclute per il suo ordine27. Il re aveva ventisei anni ed era noto per la sua devozione piuttosto che come uomo di forte personalità; sua moglie e suo fratello esercitavano un influsso dominante su di lui. Come comandante era inesperto e indeciso28. Nel complesso le sue truppe erano meglio disciplinate e meno sfrenate di quelle tedesche, sebbene scoppiassero disordini a Worms durante la traversata del Reno29. Quando tutti i contingenti francesi ebbero raggiunto il re l’esercito intraprese la marcia attraverso la Baviera. A Ratisbona, dove esso giunse il 29 giugno, stavano ad aspettarlo gli ambasciatori

dell’imperatore Manuele, Demetrio Macrembolita, che si era già incontrato con Corrado in Ungheria, e un certo Mauro. Essi chiesero garanzie a Luigi: avrebbe dovuto comportarsi come un amico finché si fosse trovato in territorio bizantino e promettere di restituire all’Impero tutti gli ex possedimenti imperiali che egli avesse potuto conquistare. Apparentemente essi non pretesero che prestasse giuramento di non aggressione, del cui significato il re di Francia si sarebbe reso conto fin troppo bene. Luigi dichiarò formalmente di venire come amico, ma non fece nessuna promessa circa le future conquiste, considerando pericolosamente vaga quella richiesta30. Da Ratisbona i francesi proseguirono pacificamente il viaggio attraversando in quindici giorni l’Ungheria e giungendo alla frontiera bizantina alla fine di agosto31. Passarono il Danubio a Braničevo e seguirono la strada principale attraverso i Balcani. Ebbero qualche difficoltà a procurarsi cibo a sufficienza poiché i tedeschi avevano consumato tutto ciò che era disponibile e i loro eccessi avevano reso gli abitanti dei luoghi sospettosi e poco disposti a prestare aiuto. Inoltre i mercanti locali tendevano sempre a dare misure scarse dopo avere insistito per un pagamento anticipato. Ma gli ufficiali bizantini erano ben disposti e i comandanti francesi mantenevano la disciplina tra i loro uomini. Non ci fu nessun grave inconveniente finché l’esercito giunse vicino a Costantinopoli, sebbene i francesi cominciassero a provare risentimento sia contro i bizantini, sia contro i tedeschi. A Adrianopoli le autorità imperiali tentarono, come avevano fatto con Corrado, di persuadere Luigi ad aggirare la capitale e a penetrare in Asia attraverso l’Ellesponto, ma senza successo. Nel frattempo alcuni francesi, impazienti per la lentezza con cui avanzava l’esercito, si affrettarono a spingersi avanti per ricongiungersi con i tedeschi, ma costoro si dimostrarono ostili e rifiutarono di spartire con i nuovi arrivati le loro razioni. I contingenti della Lorena, che si trovavano già in cattivi rapporti con i loro compagni germanici, si unirono con questi francesi e li eccitarono contro i tedeschi32. Cosi, prima ancora che re Luigi arrivasse a Costantinopoli, i rapporti tra i due eserciti crociati erano pieni d’amarezza e di sospetto, mentre tedeschi e francesi erano ugualmente mal disposti verso Bisanzio. Tutto questo non lasciava presagire nulla di buono per il successo della crociata.

Capitolo secondo Discordie tra i cristiani

...contese, gelosie, ire, rivalità, maldicenze, insinuazioni, superbie, tumulti. II Corinzi, XII, 20

Allorché giunse a Costantinopoli la prima notizia dell’arrivo di una crociata, l’imperatore Manuele si trovava completamente assorbito nelle questioni anatoliche; nonostante le campagne di suo padre e di suo nonno la situazione nelle province asiatiche dell’Impero era ancora preoccupante e soltanto i distretti costieri erano liberi da invasioni turche. Nell’entroterra, invece, quasi ogni anno bande di predoni turchi si precipitavano a razziare la regione, evitando le grandi fortezze ed eludendo gli eserciti imperiali. Gli abitanti delle zone di frontiera avevano abbandonato i villaggi ed erano fuggiti verso le città o verso la costa. La politica di Manuele consisteva nello stabilire una linea di frontiera ben definita, protetta da una serie di fortezze molto vicine le une alle altre. La sua diplomazia e le sue campagne militari avevano come scopo appunto la realizzazione di quel sistema difensivo. L’emiro danishmend Mohammed ibn Ghazi morì nel dicembre del 1141. Era stato il più potente principe musulmano dell’Asia Minore, ma la sua morte fu seguita da guerre civili tra i suoi figli e fratelli e prima della fine del 1142 l’emirato era diviso in tre parti: suo figlio Dhul Nuntenne Cesarea-Mazacha, i suoi fratelli Yakub Arslan ibn Ghazi e Ain ed-Daulat ibn Ghazi tennero rispettivamente Sivas e Melitene. Al sultano selgiuchida di Konya, Masud, la divisione parve un’occasione propizia per stabilire la propria egemonia sui turchi dell’Anatolia. Invase il territorio danishmend e impose il proprio dominio su una zona assai vasta, che verso oriente giungeva sino all’Eufrate. Terrorizzati dalla sua aggressione, i fratelli Yakub Arslan e Ain ed-Daulat cercarono l’alleanza di Bisanzio e. mediante un trattato concluso probabilmente nel 1143, ne diventarono in certo qual modo vassalli. Manuele volse allora la sua attenzione verso Masud, i cui razziatori si erano spinti fino a Malagina, sulla strada da Nicea a Dorileo. Li ricacciò, ma tornò ben presto a Costantinopoli a causa della propria cattiva salute e della malattia mortale della sua amatissima sorella Maria, che gli aveva dimostrato la propria lealtà quando suo marito, il cesare Giovanni Ruggero, di origine normanna, aveva complottato per ottenere il trono al momento dell’incoronazione di Manuele. Nel 1145 Masud invase di nuovo l’Impero e conquistò la piccola fortezza di Pracana nell’Isauria, minacciando cosi le comunicazioni bizantine con la Siria, e subito dopo predò la valle del Meandro giungendo quasi fino al mare. Manuele decise che era venuto il momento di colpire arditamente Masud e di marciare su Konya. Si era sposato di recente e si disse che desiderava mostrare alla moglie tedesca le splendide virtù cavalleresche dei bizantini. Nell’estate del 1146 inviò al sultano una formale dichiarazione di guerra e parti con fare marziale ed intrepido lungo la strada oltre Dorileo, verso Filomelio, dove certi distaccamenti turchi tentarono vanamente di arrestarlo. Masud si ritirò verso la capitale ma, pur rafforzandone la guarnigione, rimase in aperta campagna, mandando a cercare urgentemente rinforzi in Oriente. L’esercito bizantino si accampò per parecchi mesi davanti a Konya, difesa dalla sultana. L’atteggiamento di Manuele verso i suoi nemici

fu cortese: quando si sparsero voci che il sultano era stato ucciso, fece sapere alla sultana che la notizia era falsa e tentò, invano, di ottenere che i suoi soldati rispettassero le tombe musulmane fuori della città. All’improvviso diede l’ordine di ritirata. Più tardi si disse che avesse avuto sentore dell’arrivo della crociata, ma è difficile che potesse aver già ricevuto la notizia della decisione presa a Vézélay quella primavera. Diffidava evidentemente delle intenzioni dei siciliani e può darsi che si fosse già reso conto che qualche cosa era in movimento; apprese pure che Masud aveva ricevuto notevoli rinforzi per il suo esercito e temette di essere sorpreso con linee di comunicazione lunghe e insicure; perciò si ritirò lentamente e in perfetto ordine verso il proprio territorio1. Prima di poter lanciare una seconda campagna contro Konya, Manuele dovette affrontare il problema concreto dell’imminente crociata: era inquieto, e con ragione, poiché l’esperienza fatta dai bizantini con i crociati non era rassicurante. Perciò, quando nella primavera del 1147 Ma-sud gli inviò alcuni emissari per proporre una tregua, offrendosi di restituire Pracana e le altre recenti conquiste, Manuele acconsentì. Per questo trattato fu chiamato traditore della cristianità, ma l’ostilità dimostratagli da Corrado prima che la notizia della tregua potesse essere giunta ai tedeschi, mostra che le sue precauzioni erano sagge. Non aveva alcun obbligo verso un correligionario cristiano che pensava apertamente di attaccare Costantinopoli e non poteva neppure rallegrarsi per una spedizione che avrebbe senza dubbio incoraggiato il principe di Antiochia a dimenticare il proprio recente atto di omaggio e di subordinazione verso Bisanzio. Se Manuele fosse stato impegnato in una seria guerra contro i turchi, questo fatto avrebbe potuto aiutare i crociati ad attraversare l’Anatolia, ma al tempo stesso avrebbe permesso loro di recare un danno infinito all’Impero, baluardo della cristianità. Egli preferiva essere libero da complicazioni che rischiassero di indebolirlo in un momento cosi delicato, specialmente perché era imminente una guerra con la Sicilia2. Fino a quel momento i rapporti di Manuele con Corrado erano stati buoni: un comune timore di Ruggero di Sicilia li aveva indotti a un riavvicinamento e l’imperatore bizantino aveva sposato da poco la cognata di Corrado3. Ma il comportamento dei soldati tedeschi nei Balcani e il rifiuto del loro re di prendere la strada attraverso l’Ellesponto lo allarmarono. Quando Corrado giunse davanti a Costantinopoli gli venne concessa come sua residenza il palazzo suburbano di Philopatium, vicino alle mura, dal lato della terraferma, e il suo esercito si accampò attorno a lui. In pochi giorni i tedeschi avevano talmente saccheggiato il palazzo da renderlo inabitabile e Corrado si spostò oltre il promontorio del Corno d’Oro al palazzo di Picridium, dirimpetto al quartiere Fanar. Nel frattempo i suoi soldati commettevano atti di violenza contro la popolazione locale e soldati bizantini venivano inviati per reprimerli: ne seguì una serie di scaramucce. Quando Manuele chiese riparazioni, Corrado dapprima rispose che le offese arrecate non erano gravi, poi minacciò, adirato, di tornare l’anno dopo e di impadronirsi della capitale. Sembra che l’imperatrice, cognata del sovrano germanico, riuscisse a rappacificare i due monarchi. Manuele aveva esortato i tedeschi ad attraversare rapidamente il Bosforo per timore delle conseguenze di una loro congiunzione con l’esercito di Francia e li trovò improvvisamente docili, poiché avevano già cominciato a litigare con le avanguardie francesi. Venne ristabilita una concordia apparente e Corrado e il suo esercito proseguirono per Calcedonia, carichi di preziosi doni. Il re ricevette alcuni magnifici cavalli, ma respinse il suggerimento di permettere che alcuni dei suoi uomini si arruolassero al servizio dell’imperatore, prendendo in cambio alcuni reparti bizantini della Cilicia; Manuele avrebbe trovato conveniente questo accordo in vista della guerra contro Ruggero di Sicilia4. Giunto a Calcedonia, Corrado chiese a Manuele di fornirgli guide che lo accompagnassero attraverso l’Anatolia; l’imperatore affidò questo compito al capo della Guardia varega, Stefano, e

allo stesso tempo consigliò ai tedeschi di evitare la strada che attraversava in linea retta la penisola, ma di procedere per la strada costiera, marciando fino ad Attalia e rimanendo cosi nel territorio sotto il dominio imperiale. Suggerì anche di rimandare in patria tutti i pellegrini non combattenti, la cui presenza avrebbe soltanto appesantito l’esercito. Corrado non badò a questi consigli, ma parti per Nicea. Quando il suo esercito vi giunse, cambiò idea e decise di dividere la spedizione: Ottone di Frisinga doveva condurre un gruppo comprendente la maggior parte dei non combattenti per una strada attraverso Laodicea sul Lycus verso Attalia, mentre egli stesso e il grosso delle truppe combattenti avrebbero seguito la via della prima crociata attraverso l’interno5. L’esercito di Corrado lasciò Nicea il 15 ottobre, avendo come guida principale il varego Stefano. Per gli otto giorni seguenti, finché si trovarono nel territorio imperiale, vennero bene alimentati, sebbene più tardi si lamentassero che nella farina fosse mescolato del gesso e che le monete fossero di lega scadente. Ma non fecero nessuna provvista in previsione della marcia in territorio turco e, soprattutto, mancavano di acqua. Il 25 ottobre, mentre giungevano al piccolo fiume Bathys, nei dintorni di Dorileo, vicino al luogo che era stato teatro della grande vittoria crociata di mezzo secolo prima, l’intero esercito selgiuchida si gettò su di loro. La fanteria tedesca era stanca e assetata, molti cavalieri erano appena smontati di sella per far riposare i cavalli esausti. Gli improvvisi, veloci e ripetuti attacchi della cavalleria leggera turca li colsero di sorpresa: fu un massacro piuttosto che una battaglia. Corrado tentò invano di serrare le file dei suoi uomini: a sera fuggiva in gran fretta con i pochi sopravvissuti verso Nicea, avendo perduto i nove decimi dei suoi soldati e tutto il materiale dell’accampamento. Il bottino venne rivenduto dai vincitori nei mercati di tutto l’Oriente musulmano fino in Persia6. Nel frattempo re Luigi e l’esercito francese avevano oltrepassato Costantinopoli. Vi erano giunti il 4 ottobre e vi avevano trovato la loro avanguardia e il distaccamento di Lorena disgustati da una parte per la crudeltà dei tedeschi e dall’altra per la notizia della tregua di Manuele con i turchi. Nonostante il discorso dell’inviato di Luigi, Everardo di Barre, gran maestro del Tempio, le autorità bizantine sollevarono qualche difficoltà per permettere l’unione dei lorenesi con i francesi7. Il vescovo di Langres, con la poco cristiana intolleranza propria di un monaco di Chiaravalle, suggerì al re di cambiare la sua politica e di stringere una alleanza con Ruggero di Sicilia contro i perfidi greci, ma Luigi era troppo onesto per prestargli ascolto, con grande dispiacere dei suoi baroni. Egli era soddisfatto dell’accoglienza ricevuta alla corte bizantina e preferì il mite consiglio del vescovo umanista di Lisieux. Alloggiava a Philopatium, restaurato dopo l’occupazione tedesca, ospite bene accetto ai banchetti nel palazzo imperiale di Blachernae, e l’imperatore lo accompagnava per mostrargli le curiosità della grande metropoli. Anche molti dei suoi nobili erano lusingati dalle cortesie loro riservate8. Manuele però fece in modo che l’esercito francese attraversasse presto il Bosforo, e quando esso si fu stabilito a Calcedonia, prese a pretesto una rissa causata da un pellegrino fiammingo che pensava di essere stato truffato, per tagliare i viveri ai francesi. Sebbene Luigi facesse prontamente impiccare il colpevole, Manuele non volle tornare a rifornire l’accampamento, finché il re non si decise a giurare che avrebbe restituito all’Impero i suoi ex possedimenti, alla cui riconquista avesse partecipato, e consentì che i suoi baroni rendessero omaggio in anticipo all’imperatore per quelli che avrebbero eventualmente occupato. La nobiltà francese esitò, ma Luigi ritenne ragionevole la richiesta, considerando il proprio urgente bisogno dell’aiuto bizantino, specialmente perché stavano filtrando notizie relative alla disastrosa sconfitta tedesca9. Al principio di novembre l’esercito francese giunse a Nicea, dove apprese in modo

inequivocabile la sconfitta di Corrado. Federico di Svevia giunse a cavallo al campo francese per narrare il fatto e chiese a Luigi di andare subito a vedere Corrado. Luigi accorse all’accampamento tedesco e i due re si consultarono. Entrambi decisero di prendere la strada costiera verso sud, mantenendosi in territorio bizantino. Per il momento c’era amicizia tra i due eserciti. Quando i tedeschi, non potendo trovare cibo nella zona in cui si erano accampati, poiché i francesi avevano preso tutto ciò che era disponibile, cominciarono a predare i villaggi dei dintorni, le truppe bizantine li attaccarono subito, ma un distaccamento francese, al comando del conte di Soissons, venne in loro soccorso su richiesta di Corrado. Questi poté nel frattempo ristabilire un certo ordine fra le sue truppe. Intanto la maggior parte dei pellegrini sopravvissuti lo abbandonò per cercare di tornare a Costantinopoli, e non sappiamo che cosa sia avvenuto di loro10. Gli eserciti proseguirono insieme, e l’11 novembre si accamparono a Esseron, vicino alla moderna Balikesir, dove modificarono ancora una volta i loro piani. È probabile che avessero ricevuto informazioni sul viaggio compiuto da Ottone di Frisinga lungo la strada diretta per Filadelfia e Laodicea. Non sappiamo molto su quel viaggio, salvo che la spedizione giunse infine ad Attalia, stanca e ridotta di numero, dopo avere lasciati ai margini della via molti morti abbattuti dalle privazioni o dai predoni turchi. I re decisero di mantenersi più vicino alla costa, attraverso contrade più fertili, e di rimanere in contatto con la flotta bizantina. Avanzarono attraverso Adramittio, Pergamo e Smirne e giunsero ad Efeso. L’esercito di Luigi era all’avanguardia e i tedeschi si trascinavano faticosamente a circa una giornata di distanza, scherniti dai loro alleati per la loro lentezza. Lo storico bizantino Cinnamo riferisce le grida di «pousse, allemand!», lanciate loro con disprezzo dai francesi11. Quando giunsero a Efeso, Corrado si trovava in cosi cattive condizioni di salute che vi si fermò. Informato di questo fatto l’imperatore Manuele gli inviò ricchi doni e lo persuase a tornare a Costantinopoli, dove lo ricevette cortesemente e lo fece alloggiare nel palazzo. Manuele si interessava con passione di medicina ed insistette per essere egli stesso il medico del suo ospite. Corrado si riprese e fu profondamente commosso per le attenzioni dimostrategli dall’imperatore e dall’imperatrice; durante questo periodo venne progettato il matrimonio tra suo fratello Enrico, duca d’Austria, e la nipote dell’imperatore, Teodora, figlia di suo fratello Andronico. Il re tedesco e il suo seguito si trattennero a Costantinopoli fino all’inizio di marzo del 1148, quando una squadra navale bizantina li trasportò in Palestina12. Durante i quattro giorni trascorsi ad Efeso, re Luigi ricevette una lettera da Manuele che lo informava che i turchi erano scesi in guerra e lo consigliava di evitare ogni conflitto con loro e di mantenersi il più possibile al di qua della linea difensiva offerta dalle fortezze bizantine. Manuele evidentemente temeva che i francesi subissero perdite per mano dei turchi e che la colpa fosse fatta ricadere su di lui, ma al tempo stesso, a causa dell’imminente guerra siciliana, non desiderava affatto che accadesse qualche incidente suscettibile di interrompere la sua pace con il sultano. Luigi non diede nessuna risposta, neppure quando Manuele gli scrisse per avvertirlo che le autorità bizantine non potevano impedire al loro popolo di vendicarsi per i danni causati dai crociati. La disciplina dell’esercito francese stava allentandosi e giungevano alla capitale proteste per gli abusi commessi dai soldati13. Nel frattempo essi risalivano la serpeggiante valle del Meandro. A Decervium, dove trascorsero il Natale, i turchi fecero la loro apparizione e cominciarono a tormentare i crociati, finché non giunsero al ponte sul fiume, presso Antiochia in Pisidia, dove ebbe luogo una battaglia campale; ma i francesi si aprirono un varco sul ponte e i turchi si ritirarono entro le mura della città. Non sappiamo

come mai i turchi poterono rifugiarsi in questa fortezza bizantina. I francesi considerarono a ragione questo fatto un tradimento della cristianità, ma sia che la guarnigione locale avesse ceduto a forze superiori, sia che avesse concluso qualche privato accordo con gli infedeli, è poco verosimile che l’imperatore stesso avesse autorizzato quel progetto14. La battaglia davanti al ponte di Antiochia ebbe luogo intorno al 1° gennaio 1148. Tre giorni dopo i crociati giunsero a Laodicea, che trovarono deserta, poiché la loro reputazione aveva spinto gli abitanti a fuggire tra le colline con tutte le loro provviste e fu difficile per l’esercito raccogliere qualche cibo per l’ardua tappa che stava loro dinnanzi15. La strada per Attalia serpeggiava su per alte e desolate montagne. Era un viaggio duro persino in circostanze favorevoli, ma per un esercito affamato che avanzava a fatica nelle bufere di gennaio, con i turchi che ne attaccavano inesorabilmente i fianchi e uccidevano gli sbandati e gli ammalati, fu un incubo. Lungo tutta la strada i soldati videro i cadaveri dei pellegrini tedeschi periti durante il viaggio pochi mesi prima. Non si fece più nessun tentativo di mantenere la disciplina, ad eccezione della compagnia dei cavalieri templari. La regina e le sue dame tremavano nelle loro lettighe, giurando di non affrontare mai più una simile prova. Un pomeriggio, mentre l’esercito cominciava a scendere verso il mare, l’avanguardia al comando di Goffredo di Rancon, disobbedì alle disposizioni date dal re di accamparsi alla sommità del passo, e discese invece la collina, perdendo contatto con il grosso dell’esercito che i turchi attaccarono immediatamente. I crociati tennero duro, ma soltanto il cadere delle tenebre salvò il re da morte certa, mentre le perdite subite dai francesi furono gravi16. Da lì in poi il cammino fu più facile e i turchi non osarono avventurarsi nella pianura. Al principio di febbraio la crociata giunse ad Attalia, il cui governatore imperiale era un italiano di nome Landolfo. Per ordine dell’imperatore, fece tutto ciò che era in suo potere per soccorrere gli occidentali, ma Attalia non era una grande città con abbondanti disponibilità di cibo: era situata in una zona agricola povera e di recente devastata dai turchi. Le scorte invernali erano ormai alla fine e i pellegrini tedeschi avevano preso ciò che era stato possibile mettere da parte per loro. Era naturale che fossero disponibili poche provviste e che i prezzi fossero saliti alle stelle, ma per i francesi, adirati e delusi, tutto questo era soltanto un’ulteriore dimostrazione del tradimento bizantino. In quel momento re Luigi decise che bisognava continuare il viaggio per mare e trattò con Landolfo per ottenere alcune navi. Non era facile radunare una piccola flotta in un porto della selvaggia costa caramaniana in quel periodo dell’anno, e mentre si cercavano i trasporti i turchi scesero in un attacco improvviso contro l’accampamento crociato. Una volta ancora i francesi biasimarono i bizantini i quali, in realtà, non fecero probabilmente nessuno sforzo per difendere gli indesiderati ospiti, alla cui presenza dovevano queste scorrerie turche. Quando le navi giunsero, erano troppo poche per prendere a bordo tutta la spedizione, perciò Luigi vi fece salire il proprio seguito e tutti i soldati di cavalleria che vi poterono trovar posto, facendo vela verso San Simeone, dove arrivò il 19 marzo. Per placare la propria coscienza per l’abbandono dell’esercito, il re consegnò a Landolfo la somma di cinquecento marchi, pregandolo di prendersi cura degli ammalati e dei feriti e di far proseguire gli altri, se possibile, per via di mare. Furono lasciati come capi responsabili i conti di Fiandra e di Borbone. Il giorno dopo la partenza del re i turchi si precipitarono nella pianura e attaccarono l’accampamento: senza un adeguato corpo di cavalleria era impossibile respingerli efficacemente, perciò i crociati ottennero il permesso di rifugiarsi entro le mura. Qui furono trattati bene e i loro ammalati vennero curati, mentre Landolfo tentava affannosamente di radunare altre navi; ma di nuovo non poté trovarne a sufficienza per tutta la spedizione, cosicché Thierry di Fiandra e Arcibaldo di Borbone seguirono l’esempio del loro re e si imbarcarono con i loro amici e con i restanti cavalieri

lasciando che i fanti e i pellegrini si arrangiassero, viaggiando a piedi17. Abbandonati dai loro capi, questi disgraziati rifiutarono di stabilirsi nell’accampamento preparato per loro da Landolfo, che desiderava trasferirli fuori della città, poiché pensavano che sarebbero stati troppo esposti agli attacchi degli arcieri turchi. Partirono invece immediatamente per la strada verso oriente: ignoranti, indisciplinati e pieni di diffidenza verso le loro guide, continuamente molestati dai turchi e convinti che i bizantini fossero d’accordo con quelli, i miseri francesi compirono il loro doloroso viaggio fino in Cilicia, mentre quello che rimaneva della fanteria tedesca di Corrado si trascinava dietro di loro. Giunsero ad Antiochia nella tarda primavera ridotti a meno della metà18. In una delle numerose lettere inviate in patria all’abate Suger (lettere il cui tema costante è la richiesta di maggiori rimesse di denaro) Luigi VII indicava come causa dei disastri avvenuti in Anatolia «il tradimento dell’imperatore e anche il nostro proprio errore». L’accusa contro Manuele è stata ripresa con più costanza e veemenza dal cronista ufficiale della crociata, il francese Oddone di Deuil, ed è stata ripetuta dagli storici occidentali, con poche eccezioni, fino ai nostri giorni19. Le disgrazie capitate alle crociate contribuirono talmente a inasprire le relazioni tra la cristianità occidentale e quella orientale che tale accusa non può essere accettata senza attento esame. Oddone si lamenta che i bizantini fornivano vettovagliamenti insufficienti per i quali addebitavano prezzi esorbitanti, provvedevano un trasporto inadeguato e guide inefficienti e, peggio di tutto, si erano alleati con i turchi contro i loro correligionari cristiani. Le prime accuse sono assurde: nessuno Stato medievale, anche se bene organizzato come quello bizantino, possedeva scorte di cibo sufficienti a rifornire due eserciti eccezionalmente numerosi, giunti non invitati e con un breve preavviso; è inevitabile che quando il cibo scarseggia i prezzi salgano. Non v’è dubbio che molti mercanti locali e alcuni funzionari governativi abbiano tentato di truffare gli invasori, ma questo comportamento non è mai stato un fenomeno raro nel commercio, tanto meno nell’Oriente medievale. Era assurdo aspettarsi che Landolfo riuscisse a fornire un numero di navi sufficiente per un intero esercito nel piccolo porto di Attalia, in pieno inverno; e non si potevano nemmeno biasimare le guide, i cui consigli erano raramente seguiti, se ignoravano le più recenti distruzioni di ponti o di pozzi operate dai turchi, o se fuggivano davanti alle minacce e all’ostilità degli uomini a cui facevano scorta. La questione dell’alleanza con i turchi è più seria, ma dev’essere considerata dal punto di vista di Manuele, che non aveva invitato e non desiderava la crociata, ma aveva anzi buoni motivi per deplorarla. La diplomazia bizantina aveva ormai imparato molto bene come spingere i vari principi musulmani gli uni contro gli altri ed isolare cosi ognuno di loro a turno. Una spedizione come la crociata, annunziata con grande propaganda, avrebbe inevitabilmente riunito di nuovo assieme gli infedeli in un fronte unico contro la cristianità. Inoltre, per la strategia bizantina contro l’Islam era essenziale controllare Antiochia. Bisanzio aveva finalmente ottenuto quel controllo, quando il principe Raimondo aveva fatto la sua abietta sottomissione a Costantinopoli. L’arrivo di una crociata con a capo sua nipote e il marito di lei lo avrebbe inevitabilmente indotto a tentare di liberarsi dal vassallaggio. Il comportamento tenuto dai crociati mentre erano ospiti in territorio imperiale non era tale da accrescere le simpatie dell’imperatore verso di loro: saccheggiavano, attaccavano la sua polizia, ignoravano le sue richieste a proposito delle strade che dovevano seguire e molti dei loro capi parlavano apertamente di assalire Costantinopoli. Visto in una luce simile il trattamento riservato ai crociati pare generoso e tollerante ed alcuni di loro lo riconobbero per tale, ma gli occidentali non potevano comprendere né perdonare l’accordo fra Manuele e i turchi. Le complesse esigenze della politica bizantina oltrepassavano le loro capacità di comprensione ed essi preferirono ignorarle, sebbene fossero certamente a conoscenza del fatto che, mentre essi pretendevano dall’imperatore

aiuti contro gli infedeli, i suoi territori erano oggetto di un malvagio attacco da parte di un’altra potenza cristiana. Nell’autunno del 1147, infatti, re Ruggero di Sicilia conquistò l’isola di Corfù e da lì inviò un esercito a razziare la penisola greca: Tebe venne saccheggiata e centinaia di operai vennero rapiti per rafforzare la nascente industria della seta a Palermo; la stessa Corinto, la più importante piazzaforte della penisola, fu presa e spogliata di tutti i suoi tesori. Carichi di bottino, i normanni siciliani tornarono a Corfù che si proponevano di tenere in loro possesso come minaccia permanente contro l’Impero e come un cappio mortale al Mare Adriatico. L’imminenza dell’attacco normanno aveva deciso Manuele a ritirarsi da Konya nel 1146 e ad accettare l’anno seguente le proposte di pace del sultano. Se l’imperatore doveva essere classificato come un traditore della cristianità, re Ruggero aveva certamente la precedenza su di lui. L’esercito bizantino era numeroso, ma non onnipresente e le truppe migliori erano necessarie per la guerra contro Ruggero. C’erano anche voci di agitazioni nelle steppe russe, che dovevano dare come risultato un’invasione polovziana nei Balcani nell’estate del 1148. La vicinanza della crociata non permetteva a Manuele di privare di soldati la sua frontiera di Cilicia, mentre il passaggio degli occidentali attraverso l’Impero implicava la necessità di aumentare moltissimo la polizia militare. Con tutte queste preoccupazioni l’imperatore non poteva disporre di truppe confinarie abbastanza numerose per difendere le terre situate in prossimità della lunghissima frontiera anatolica e perciò preferì una tregua che permettesse ai suoi sudditi dell’Anatolia di vivere liberi dalla minaccia di scorrerie turche. I crociati misero in pericolo questa tregua. La marcia di Corrado su Dorileo fu una diretta provocazione ai turchi, e Luigi, sebbene si mantenesse entro il territorio bizantino, si presentò pubblicamente come il nemico di tutti i musulmani; per di più respinse la richiesta dell’imperatore di tenersi entro il raggio difeso dalle guarnigioni imperiali. È possibile che Manuele, alle prese con questo problema, addivenisse a un accordo con i turchi per il quale condonava le loro scorrerie nel suo territorio, finché essi attaccavano soltanto i crociati e che quelli osservassero i patti, dando cosi la chiara impressione di essere in lega con gli indigeni per i quali, in realtà, era indifferente che le loro greggi e le loro scorte di viveri venissero rubate dai crociati o dai turchi e che, in quelle circostanze, mostravano naturalmente meno risentimento verso questi ultimi20. Ma è impossibile credere con Oddone di Deuil che essi attaccassero deliberatamente i crociati a fianco dei turchi. Egli rivolge quest’accusa contro gli abitanti di Attalia subito dopo aver detto che essi furono più tardi puniti dall’imperatore per aver mostrato benevolenza verso i crociati21. La responsabilità principale per i disastri che accaddero ai crociati in Anatolia deve essere attribuita alla loro propria stoltezza. In realtà l’imperatore avrebbe potuto fare di più per aiutarli, ma soltanto con grave rischio per il suo Impero. Ma il vero problema è più profondo: gli interessi più autentici della cristianità richiedevano che ci fossero di tanto in tanto eroiche spedizioni verso l’Oriente, condotte da una mescolanza di stolti idealisti e di rozzi avventurieri, per soccorrere uno Stato intruso la cui esistenza dipendeva dalla disunione dei musulmani? O era preferibile che Bisanzio, per tanto tempo custode della frontiera orientale, potesse continuare ad adempiere quella funzione, senza esserne impedita dall’Occidente? La storia della seconda crociata mostra ancora più chiaramente della prima quanto le due politiche fossero incompatibili. Quale delle due fosse giusta lo si sarebbe visto in seguito, con la caduta di Costantinopoli e i turchi minacciosi alle porte di Vienna.

Capitolo terzo Fiasco

Fate pure dei piani e saranno sventati! Isaia, VIII, IO

Il 19 marzo 1148, alla notizia che re Luigi era sbarcato a San Simeone, il principe Raimondo e tutti i membri della sua casa scesero a cavallo da Antiochia per accoglierlo e scortarlo fino in città. I giorni seguenti trascorsero in feste e divertimenti, e i galanti nobili di Antiochia fecero del loro meglio per riuscire graditi alla regina di Francia e alle grandi dame del seguito; nel gradevole clima della primavera siriana, in mezzo al lusso della corte antiochena, i nuovi arrivati dimenticarono le sofferenze per cui erano passati. Non appena si furono rimessi dalle fatiche del viaggio, Raimondo cominciò a discutere con i capi francesi i piani per una campagna contro gli infedeli; egli infatti si aspettava che l’arrivo della crociata producesse qualche importante risultato. La sua propria posizione era insicura: Nur ed-Din si era attestato lungo tutta la frontiera cristiana da Edessa a Hama, e nell’autunno del 1147 aveva conquistato una dopo l’altra le fortezze franche a est dell’Oronte, mentre il conte Jocelin era completamente impegnato a difendere ciò che gli apparteneva a Turbessel. Se i musulmani avessero attaccato Antiochia con grandi forze, l’unica potenza che avrebbe potuto aiutare Raimondo era Bisanzio, le cui truppe sarebbero forse anche arrivate troppo tardi e comunque avrebbero insistito per una più stretta subordinazione del principato all’Impero. Anche se gli incidenti del viaggio avevano ridotto la consistenza della fanteria francese, l’esercito di Luigi VII forniva però tali rinforzi di cavalleria che i franchi d’Antiochia si sarebbero trovati in condizione di prendere l’iniziativa. Raimondo sollecitava il re a unirsi a lui per scagliarsi insieme contro il cuore della potenza di Nur ed-Din, la città di Aleppo; convinse molti cavalieri francesi ad accompagnarlo in un’esplorazione preliminare fino alle mura della città, il che avvenne con gran costernazione degli abitanti1. Ma quando giunse il momento di prendere un impegno preciso re Luigi esitò. Disse che il suo voto di crociato lo obbligava ad andare subito a Gerusalemme, prima ancora di iniziare una qualsiasi campagna militare, ma era una giustificazione addotta per mascherare la propria indecisione. Tutti i principi dell’Oriente franco richiedevano il suo aiuto. Il conte Jocelin sperava di servirsi di lui per riconquistare Edessa: la caduta di questa città non aveva forse dato l’avvio all’intera crociata? Raimondo di Tripoli, accampando dei diritti in quanto cugino (perché sua madre era stata una principessa francese) cercava il suo aiuto per rioccupare Montferrand. Poi, in aprile, era giunto ad Antiochia il patriarca di Gerusalemme in persona, inviato dall’alta corte del regno per pregarlo di affrettarsi verso la capitale ed avvertirlo che re Corrado si trovava già in Terra Santa 2. Alla fine, un motivo assolutamente privato costrinse il re a prendere una decisione. La regina Eleonora era molto più intelligente di suo marito e si rese subito conto della saggezza del progetto di Raimondo, ma dando il proprio appoggio appassionato e franco a suo zio riuscì soltanto a suscitare la gelosia di Luigi. Le male lingue cominciarono ad agitarsi; la regina ed il principe furono visti troppo spesso insieme e si mormorava che l’affetto di Raimondo fosse molto più intenso che quello normale di uno

zio. Luigi, preoccupato per il proprio onore, annunziò la sua immediata partenza, al che la regina dichiarò che lei si sarebbe trattenuta ad Antiochia ed avrebbe chiesto il divorzio. In risposta, Luigi trascinò con la forza sua moglie fuori dal palazzo dello zio e parti con tutte le sue truppe per Gerusalemme3. Re Corrado era sbarcato ad Acri con i più importanti dei suoi principi verso la metà di aprile e a Gerusalemme aveva ricevuto dalla regina Melisenda e da suo figlio una cordiale e degna accoglienza4. Onori simili vennero resi a re Luigi quando fece il suo ingresso in Terra Santa circa un mese più tardi. Gerusalemme non aveva mai visto una cosi scelta riunione di cavalieri e dame5. Ma molti personaggi importanti erano assenti. Raimondo di Antiochia, furioso per la condotta di Luigi, si disinteressò di tutta la crociata, e d’altra parte non avrebbe potuto permettersi in nessun caso di lasciare il suo principato cosi seriamente minacciato, per un’avventura nel sud. Neppure il conte Jocelin poteva abbandonare Turbessel. L’assenza dei conte di Tripoli invece era dovuta a una sinistra tragedia familiare: fra coloro che a Vézélay avevano fatto con re Luigi il voto di andare crociati c’era anche Alfonso-Giordano, conte di Tolosa, il quale, da Costantinopoli, aveva viaggiato per mare con la moglie ed i figli ed era sbarcato ad Acri pochi giorni dopo Corrado. Il suo arrivo con un forte contingente di soldati aveva rianimato i franchi d’Oriente che lo consideravano un personaggio romantico, poiché era il figlio del vecchio crociato Raimondo di Tolosa ed era nato nel Levante, a Monte Pellegrino, mentre suo padre stava assediando Tripoli. Ma la sua venuta metteva in grave imbarazzo il regnante conte di Tripoli, il nipotino di Bertrando, figlio bastardo del vecchio conte Raimondo. Se Alfonso-Giordano avesse avanzato delle pretese sulla contea, sarebbe stato difficile respingerle; e sembra che a lui piacesse parlare di questi suoi diritti. Durante il viaggio da Acri a Gerusalemme egli si fermò a Cesarea, dove, molto improvvisamente, morì tra gli spasimi. Può darsi che la sua morte fosse causata da un attacco acuto di qualche malattia, per esempio appendicite, ma tutti sospettarono subito un avvelenamento ed il figlio del morto, Bertrando, accusò apertamente suo cugino Raimondo di Tripoli di aver ordito il delitto. Altri pensavano che colpevole fosse la regina Melisenda la quale avrebbe agito per incarico della sua diletta sorella, la contessa Hodierna, moglie di Raimondo. Non si poté provare nulla, ma il conte, indignato per l’accusa rivoltagli, si astenne da qualsiasi rapporto con la crociata6. Quando tutti i crociati furono giunti in Palestina, la regina Melisenda e re Baldovino li invitarono a prender parte ad una grande assemblea che doveva aver luogo ad Acri il 24 giugno 1148. Fu una riunione solenne: gli ospiti erano re Baldovino ed il patriarca Fulcherio, insieme con gli arcivescovi di Cesarea e di Nazaret, i gran maestri del Tempio e dell’Ospedale ed i più importanti prelati e baroni del regno. Con Corrado c’erano i suoi fratellastri Enrico Jasimirgott d’Austria e Ottone di Frisinga, suo nipote Federico di Svevia, Guelfo di Baviera e molti principi minori. La Lorena era rappresentata dai vescovi di Metz e di Toul. Re Luigi era accompagnato da suo fratello Roberto di Dreux, dal suo futuro genero Enrico di Champagne, da Thierry conte di Fiandra, nonché dal giovane Bertrando, bastardo di Alfonso-Giordano. Non sappiamo quale corso seguisse la discussione né chi facesse la proposta finale, ma dopo una certa opposizione l’assemblea decise di concentrare tutte le proprie forze per un attacco contro Damasco7. Fu una decisione assolutamente insensata. Damasco rappresentava certamente una ricca preda ed il suo possesso da parte dei franchi avrebbe separato del tutto i musulmani dell’Egitto e dell’Africa dai loro correligionari della Siria settentrionale e dell’Oriente, ma, fra tutti gli Stati maomettani, soltanto il regno burida di Damasco era desideroso di mantenere rapporti amichevoli con i franchi poiché, al pari dei più avveduti tra i latini, riconosceva che il suo principale avversario era Nur ed-

Din. Perciò gli interessi franchi richiedevano che si conservasse l’amicizia damascena finché Nur ed-Din fosse stato schiacciato, e si impedisse un riavvicinamento tra Damasco ed Aleppo. Attaccare quella città era la via migliore, come avevano già dimostrato gli avvenimenti dell’anno precedente, per gettare i suoi governanti nelle braccia di Nur ed-Din. Ma i nobili di Gerusalemme bramavano le fertili terre sottoposte alla sovranità di Damasco e soffrivano acutamente al ricordo della loro recente umiliazione, per la quale il loro audace e giovane re desiderava certamente una rivincita. Per i crociati occidentali Aleppo non significava nulla, mentre Damasco era una città santificata nella Sacra Scrittura, la cui liberazione dagli infedeli avrebbe ridondato alla gloria di Dio. È inutile tentare di spartire la colpa per quella decisione, ma maggiore deve essere considerata la responsabilità dei nobili indigeni che conoscevano la situazione, mentre per i nuovi venuti tutti i musulmani erano uguali8. L’esercito cristiano, il più grande che i franchi avessero mai messo in campo, parti dalla Galilea alla metà di luglio. Dopo aver attraversato Banyas, il sabato 24 luglio si accampò al limite degli orti e dei frutteti che circondano Damasco. L’emiro Unur, dapprima, non aveva preso molto sul serio le notizie riguardanti la crociata; aveva udito delle gravi perdite che essa aveva subito in Anatolia ed in ogni caso non si aspettava che scegliesse Damasco come obiettivo. Quando scoprì la verità ordinò in tutta fretta ai propri governatori provinciali di mandargli tutti gli uomini di cui potevano privarsi, mentre un messaggero si precipitava ad Aleppo per chiedere aiuto a Nur ed-Din. I franchi si fermarono prima a Manakil al-Asakir, a circa quattro miglia a sud della città, le cui bianche mura e le torri si vedevano brillare attraverso lo spesso fogliame dei frutteti; ma poi si spostarono rapidamente al villaggio di al-Mizza, più abbondantemente provvisto di acqua. L’esercito damasceno tentò di fermarli colà, ma venne costretto a ritirarsi entro le mura. Dopo questa vittoria i capi crociati inviarono l’esercito di Gerusalemme nei frutteti per rastrellare i guerriglieri e, nel pomeriggio, i giardini a sud della città si trovarono nelle mani dei franchi che si dedicarono a costruire delle palizzate con gli alberi che avevano abbattuto. Poi, grazie soprattutto all’audacia personale di Corrado, si aprirono un varco fino a Rabwa, sul fiume Barada, proprio sotto le mura della città. I cittadini di Damasco pensarono che ormai tutto fosse perduto e cominciarono a costruire barricate nelle strade, pronti all’ultima, disperata difesa. Ma il giorno seguente il vento cambiò: i rinforzi convocati da Unur stavano riversandosi in città attraverso le porte settentrionali e con il loro aiuto egli lanciò un contrattacco che respinse i cristiani lontano dalle mura, e ripeté gli attacchi durante i due giorni successivi, mentre i guerriglieri s’infiltravano di nuovo nei giardini e nei frutteti. I loro colpi di mano erano cosi pericolosi per l’accampamento che Corrado, Luigi e Baldovino s’incontrarono insieme e decisero di evacuare i frutteti a sud della città e di spostarsi verso oriente per accamparsi in un luogo dove il nemico non potesse approfittare del riparo offerto dalla vegetazione. Il 27 luglio l’intero esercito si trasferì nella pianura che si trovava di fronte alle mura orientali; fu una decisione disastrosa poiché il nuovo sito mancava d’acqua e si trovava dirimpetto alla sezione di mura più solida, mentre le squadre damascene potevano fare delle sortite e muoversi più liberamente tra i frutteti. In realtà molti dei soldati franchi credettero che i baroni palestinesi che avevano consigliato i re fossero stati corrotti da Unur per suggerire una cosa simile, infatti con quello spostamento svanirono le loro ultime possibilità di conquistare Damasco. Unur, le cui truppe stavano aumentando di numero e che sapeva che Nur ed-Din era in marcia verso sud, rinnovò gli attacchi contro l’accampamento franco. Ormai era l’esercito crociato che si trovava sulla difensiva, e non la città assediata9. Mentre lo scoraggiamento ed il sospetto di un tradimento penetravano nel campo cristiano, i capi crociati litigavano apertamente a proposito dell’assetto da dare a Damasco quando l’avessero

conquistata. I baroni del regno di Gerusalemme pretendevano che fosse incorporata come feudo del regno stesso e si erano accordati per proporre che ne fosse signore Guido Brisebarre, signore di Beirut, la cui candidatura era stata confermata, a quanto sembra, dalla regina Melisenda e dal conestabile Manasse. Ma Thierry di Fiandra desiderava ardentemente Damasco che voleva tenere come un feudo semindipendente dello stesso tipo di Tripoli, e riuscì ad ottenere l’appoggio di Corrado, di Luigi e di re Baldovino, la cui sorellastra era sua moglie. L’ira che i nobili palestinesi provarono quando seppero che i re favorivano Thierry li indusse a diminuire i loro sforzi; coloro che erano sempre stati contrari all’attacco contro Damasco guadagnarono nuovi aderenti. Forse essi mantenevano segreti rapporti con Unur; si mormorava di grosse somme, pagate in verità con moneta che risultò falsificata, che sarebbero passate da Damasco alla corte di Gerusalemme e a Elinando, principe di Galilea. Forse Unur disse loro che se si fossero ritirati subito egli avrebbe dissolto l’alleanza con Nur ed-Din e senza dubbio quest’argomento, sia che egli ne abbia fatto uso apertamente o no, ebbe una grande influenza sui nobili del regno. Nur ed-Din si trovava già a Homs e stava discutendo le condizioni dell’aiuto che avrebbe prestato ad Unur: pretendeva che fosse concesso alle sue truppe di entrare liberamente in Damasco, ma l’emiro tentava di guadagnar tempo. L’esercito franco si trovava in una difficile posizione davanti alla città e non poteva aspettarsi nessun rinforzo, mentre al contrario gli uomini di Nur ed-Din potevano arrivare sul campo di battaglia in pochi giorni, e se fossero effettivamente arrivati, non soltanto l’intera spedizione crociata avrebbe potuto essere annientata, ma Damasco sarebbe passata certamente in potere di Nur ed-Din10. Ormai, troppo tardi, i baroni palestinesi si erano tutti quanti convinti della follia di continuare la guerra contro Damasco e tentarono di imporre il loro punto di vista a re Corrado ed a re Luigi. Gli occidentali ne furono scandalizzati: non potevano seguire i loro sottili ragionamenti politici, ma sapevano che senza l’aiuto dei franchi nativi potevano fare ben poco. I re deprecarono pubblicamente la slealtà che avevano trovato in loro e la loro mancanza di zelo per la causa, ma diedero l’ordine di iniziare la ritirata11. All’alba del mercoledì 28 luglio, quinto giorno dal loro arrivo davanti a Damasco, i crociati levarono il campo e cominciarono a ripiegare verso la Galilea. Può darsi che Unur si fosse servito del denaro per ottenere che si ritirassero, comunque non li lasciò partire in pace. Durante tutta quella giornata e nei giorni successivi, dei soldati della cavalleria leggera turcomanna tormentarono la colonna in marcia, lanciando frecce sulle truppe crociate: la strada era cosparsa di cadaveri umani e di carcasse di cavalli, il cui fetore appestò la pianura per molti mesi ancora. Ai primi di agosto la grande spedizione tornò in Palestina ed i soldati indigeni se ne andarono a casa; non s’era ottenuto altro che la perdita di molti uomini e materiale ed una tremenda umiliazione. Il fatto che un esercito cosi magnifico avesse dovuto abbandonare il suo obiettivo dopo soltanto quattro giorni di battaglia fu un duro colpo per il prestigio dei cristiani: ne risultò completamente distrutta la leggenda degli invincibili re dell’Occidente, affermatasi durante la grande avventura della prima crociata. Rinasceva l’ardire del mondo musulmano12. Dopo il ritorno da Damasco re Corrado non si attardò in Palestina e, con il suo seguito, l’8 settembre s’imbarcò ad Acri su una nave diretta a Tessalonica. Al suo sbarco ricevette un pressante invito di Manuele perché trascorresse Natale alla corte imperiale. A quel momento c’era tra i due monarchi un perfetto accordo e sebbene il suo giovane nipote Federico continuasse a serbare rancore contro i bizantini, a cui rimproverava le perdite tedesche in Anatolia, Corrado considerava soltanto l’importanza dell’alleanza di Manuele contro Ruggero di Sicilia ed era conquistato dal fascino personale e dalla splendida ospitalità dell’imperatore. Durante la sua visita venne celebrato con la

più grande pompa il matrimonio di suo fratello Enrico d’Austria con Teodora, nipote di Manuele. I bizantini scandalizzati piansero nel vedere la deliziosa, giovane principessa sacrificata ad una sorte cosi barbara - «immolata alla bestia dell’Occidente», scrisse alla madre di lei un comprensivo poeta di corte - ma le nozze significarono la completa riconciliazione delle corti tedesca e bizantina. Quando Corrado, nel febbraio del 1149, lasciò Costantinopoli per tornare in Germania era stata stretta tra di loro un’alleanza contro Ruggero di Sicilia, le cui terre nella penisola italiana essi si proponevano di spartirsi13. Mentre Corrado godeva degli agi di Costantinopoli, re Luigi indugiava in Palestina. L’abate Suger gli scrisse ripetutamente per implorarlo di tornare in Francia, ma egli non riusciva a decidersi; senza dubbio desiderava trascorrere una Pasqua a Gerusalemme, inoltre sapeva che il suo ritorno sarebbe stato seguito da un divorzio e da tutte le conseguenze politiche che ne sarebbero derivate, perciò cercava di ritardare quel funesto giorno. Nel frattempo, mentre Corrado rinnovava la sua amicizia con Bisanzio, Luigi al pensarci sentiva aumentare il proprio risentimento contro l’imperatore. Cambiò la sua politica e cercò l’alleanza di Ruggero di Sicilia. Il suo litigio con Raimondo di Antiochia aveva rimosso l’ostacolo principale a questo accordo, che gli avrebbe permesso di soddisfare il suo odio verso Bisanzio. Infine, all’inizio dell’estate del 1149, Luigi lasciò la Palestina su una nave siciliana che si uni subito alla squadra siciliana che stava incrociando nelle acque del Mediterraneo orientale, poiché era ancora in corso la guerra contro Bisanzio; ma non appena la flotta doppiò il Peloponneso venne attaccata da navi della marina bizantina. In tutta fretta, re Luigi diede ordini che il vessillo francese venisse innalzato sul suo vascello e perciò gli venne concesso di proseguire, ma una nave che trasportava molti dei suoi seguaci e dei suoi beni venne catturata e portata a Costantinopoli come bottino di guerra. Trascorsero molti mesi prima che l’imperatore acconsentisse a rimandare in Francia gli uomini e le merci14. Luigi sbarcò in Calabria alla fine di luglio e venne accolto da re Ruggero a Potenza. Il siciliano suggerì subito di lanciare una nuova crociata il cui scopo principale fosse quello di vendicarsi di Bisanzio. Luigi ed i suoi consiglieri acconsentirono prontamente e proseguirono per la Francia raccontando a chiunque, durante il viaggio, della perfidia dei bizantini e della necessità di castigarli. Papa Eugenio, che re Luigi incontrò a Tivoli, si dimostrò piuttosto tiepido, ma molti membri della sua curia accolsero con soddisfazione quel progetto. Il cardinale Theodwin si diede da fare per trovare dei predicatori che lo rendessero popolare, e Pietro il Venerabile gli diede il suo appoggio. Arrivato in Francia Luigi persuase Suger a dare il proprio consenso; e, fatto di gran lunga più importante, san Bernardo, disorientato per le vie della Provvidenza che aveva permesso che la sua grande crociata terminasse in modo cosi disastroso, accettò con premura l’idea che Bisanzio fosse la fonte di tutti i guai e si lanciò con tutta la sua energia nell’impresa di favorire la vendetta divina sull’Impero colpevole. Ma, per poter riuscire, il movimento doveva ottenere l’aiuto di Corrado di Germania, e questi non intendeva collaborare. Vedeva troppo chiaramente che c’era lo zampino del suo nemico Ruggero e non aveva motivi di rompere la propria alleanza con Bisanzio per aumentare il potere del re siciliano. Vani appelli gli vennero rivolti dal cardinale Theodwin e da Pietro il Venerabile e san Bernardo stesso lo supplicò e lo minacciò invano. L’ultima volta che Corrado aveva seguito i consigli del santo era stato a proposito della seconda crociata e non voleva cadere di nuovo nella trappola. Il progetto dovette essere abbandonato per il rifiuto del re tedesco di collaborarvi: il grande tradimento alla cristianità, sollecitato da san Bernardo, dovette essere rimandato di un altro mezzo secolo15. In Oriente rimaneva soltanto uno dei principi della seconda crociata, e la sua permanenza era del

tutto involontaria. Il giovane Bertrando di Tolosa, figlio bastardo del conte Alfonso, non poteva sopportare di vedere la ricca eredità di Tripoli nelle mani di un cugino che egli considerava l’assassino di suo padre. Egli rimase in Palestina fino alla partenza di re Luigi, poi, con i suoi uomini della Linguadoca, marciò verso nord, come se avesse l’intenzione di imbarcarsi da uno dei porti siriani settentrionali. Dopo aver attraversato la pianura dove la Buqaia si apre verso il mare, egli deviò improvvisamente verso l’interno e s’impadronì del castello di Araima. Quivi sfidò le truppe che il conte Raimondo aveva inviato da Tripoli per farlo sloggiare. Era un nido d’aquila ben situato, poiché dominava le strade da Tripoli a Tortosa e da Tripoli verso l’interno, risalendo la Buqaia. Il conte Raimondo non trovò nessuna simpatia tra gli altri principi cristiani, perciò inviò dei messaggeri a Damasco per chiedere aiuto ad Unur che accettò con piacere e invitò Nur ed-Din a raggiungerlo: avrebbe potuto cosi dimostrargli il suo desiderio di collaborare con lui contro i cristiani senza nuocere al proprio tentativo di ristabilire dei buoni rapporti con il regno di Gerusalemme. In effetti, avrebbe fatto cosa gradita alla regina Melisenda aiutando suo cognato. I due principi musulmani scesero su Araima che non poté resistere a lungo contro un esercito cosi grande; vincitori, i maomettani raserò al suolo il castello, dopo averlo completamente saccheggiato. Poi lasciarono che il conte Raimondo lo rioccupasse e si ritirarono con una lunga fila di prigionieri. Bertrando e sua sorella capitarono nella parte del bottino toccata a Nur ed-Din che li condusse ad Aleppo dove trascorsero dodici anni in prigionia16. Il fatto che l’ultimo crociato rimanesse prigioniero dei musulmani, alleati di quel principe cristiano suo correligionario che egli aveva tentato di spogliare, ecco un finale degno della seconda crociata. Nessuna impresa medievale aveva avuto un inizio più promettente: progettata dal papa, predicata ed ispirata dall’aurea eloquenza di san Bernardo e guidata dai due monarchi più importanti dell’Europa occidentale, aveva dato adito ad altissime speranze di gloria e di salvezza per la cristianità. Ma nel momento in cui giungeva alla sua fine ignominiosa con la faticosa ritirata da Damasco, non lasciava altri risultati che un deterioramento dei rapporti fra i cristiani occidentali e i bizantini fin quasi al punto di rottura, la diffusione di sospetti reciproci tra i crociati appena arrivati ed i franchi residenti in Oriente, la disunione fra i principi franchi occidentali, uno stretto riavvicinamento tra i musulmani e un danno irreparabile alla reputazione dei franchi riguardo al valor militare. I francesi potevano ben tentare di far ricadere su altri la colpa dell’insuccesso, sullo sleale imperatore Manuele o sugli indifferenti baroni palestinesi, e san Bernardo poteva lanciare minacce contro i malvagi uomini che intralciavano i piani di Dio, ma in realtà la crociata non aveva concluso nulla a causa della ferocia, dell’ignoranza e della vuota stupidità dei suoi capi.

Parte quarta Il principio della fine

Capitolo primo La vita in «Outremer»

E voi... avete agito secondo le leggi delle nazioni pagane che vi circondano. Ezechiele, XI, 12

Il fallimento della seconda crociata segna un punto decisivo nella storia di «Outremer». La caduta di Edessa concludeva il primo periodo della rinascita dell’Islam i cui successi ricevevano conferma dal crollo miserando della grande spedizione destinata a ristabilire la supremazia franca. Una delle ragioni principali di questo fallimento consisteva nella differenza di abitudini e di mentalità fra i franchi residenti in Oriente e i loro cugini giunti dall’Occidente. I crociati erano rimasti sconcertati nello scoprire in Palestina una società i cui membri, nel corso di una sola generazione, avevano cambiato modo di vivere: parlavano un dialetto francese, erano membri fedeli della Chiesa latina e si governavano secondo gli usi che noi chiamiamo feudali, ma queste somiglianze superficiali rendevano tanto più difficile per i nuovi venuti comprendere le differenze. Se i coloni fossero stati più numerosi avrebbero forse potuto permettersi di conservare le loro abitudini occidentali, ma essi costituivano una infima minoranza in un paese il cui clima e il cui genere di vita riuscivano loro molto estranei. È impossibile indicare cifre esatte, ma sembra che non vi sia mai stato nemmeno un migliaio di baroni e di cavalieri residenti nel regno di Gerusalemme in modo permanente; i loro familiari non combattenti, donne e vecchi, non ammontavano probabilmente a molto più di un altro migliaio; molti bambini nacquero, ma pochi sopravvissero. Perciò, ad eccezione del clero che non contava più che qualche centinaio di ecclesiastici, e dei cavalieri degli ordini militari, vi si trovavano soltanto da due a tremila adulti appartenenti alle classi superiori franche1. La popolazione delle classi dei nobili e dei cavalieri del principato di Antiochia e delle contee di Tripoli e di Edessa raggiungeva nel suo insieme, probabilmente, la stessa cifra 2. Queste classi si mantennero, nel complesso, razzialmente pure. A Edessa e ad Antiochia ci furono alcuni matrimoni misti con membri della locale aristocrazia greca ed armena; sia Baldovino 1 che Baldovino II quando erano conti di Edessa avevano sposato delle donne armene di fede ortodossa e sappiamo che alcuni nobili al loro seguito ne seguirono l’esempio. La moglie di Jocelin I e quella di Valeriano di Birejik erano armene, appartenenti alla Chiesa dissidente. Ma più a sud non esisteva un’aristocrazia cristiana indigena; l’unico elemento orientale era costituito dal sangue armeno che circolava nella famiglia reale e nella casa di Courtenay e, più tardi, dai discendenti della regina bizantina Maria Comnena, membri sia della casa regnante sia della famiglia Ibelin3. La classe dei «sergenti» era più numerosa; essi appartenevano in origine alla fanteria regolare di ceppo franco, si erano stabiliti nelle proprietà dei signori e, poiché non avevano un orgoglio di razza da difendere, si sposavano con delle cristiane indigene. Intorno al 1150 essi cominciavano a formare una classe di poulains che si mescolava già con i cristiani locali; nel 1180 si valutava il numero dei «sergenti» a poco più di cinquemila, ma non possiamo dire in quale proporzione rimanessero di puro sangue franco. Probabilmente anche i sodeers o soldati mercenari pretendevano di discendere dai

franchi. I turcopoles, reclutati in loco, armati e addestrati secondo il modello della cavalleria leggera bizantina da cui prendevano il nome, consistevano in parte di cristiani indigeni e di convertiti e in parte di figli di europei e di donne orientali. In mezzo a questi, c’era forse una differenza tra coloro che parlavano la lingua del padre e coloro che, invece, usavano quella della madre, probabilmente i turcopoles provenivano dai secondi4.

VII. Gerusalemme sotto i re latini.

Salvo nelle città maggiori, i coloni erano quasi tutti di origine francese; la lingua parlata nel regno di Gerusalemme e nel principato di Antiochia era la langue d’oïl familiare ai francesi del nord e ai normanni, mentre nella contea di Tripoli, popolata di tolosani, venne probabilmente adoperata dapprima la langue d’oc. Il pellegrino tedesco Giovanni di Würzburg, che visitò Gerusalemme intorno al 1175, era irritato al constatare che i suoi compatrioti non avevano nessuna parte di rilievo nella società franca sebbene Goffredo e Baldovino I, egli asseriva, fossero stati di origine germanica. Fu molto soddisfatto quando finalmente trovò un istituto religioso con personale esclusivamente

tedesco5. Nelle città risiedevano delle importanti colonie italiane. Sia i veneziani sia i genovesi possedevano delle vie anche a Gerusalemme. C’erano delle ditte commerciali genovesi, protette da trattati, a Giaffa, Acri, Cesarea, Arsuf, Tiro, Beirut, Tripoli, Jebail, Lattakieh, San Simeone ed Antiochia, ed altre veneziane nelle maggiori di queste città; i pisani avevano delle colonie a Tiro, Acri, Tripoli, Botrun, Lattakieh ed Antiochia, gli amalfitani ad Acri e Lattakieh. Erano tutte comunità autonome, i cui cittadini parlavano italiano e, da un punto di vista sociale, non si mescolavano con i loro vicini. Affini ad esse erano le case di commercio possedute da Marsiglia ad Acri, Giaffa, Tiro e Jebail, e da Barcellona a Tiro. Nessuna di queste colonie commerciali, salvo quelle di Acri, contava più di qualche centinaio di persone6. La grande maggioranza della popolazione era formata da cristiani indigeni. Nel regno di Gerusalemme essi erano di origine mista, per la maggior parte di lingua araba, chiamati genericamente arabi cristiani, quasi tutti membri della Chiesa ortodossa. Nella contea di Tripoli alcuni degli abitanti erano membri della setta monotelita detta dei maroniti. Più a nord, gli abitanti indigeni erano in maggioranza monofisiti della Chiesa giacobita, ma c’erano anche grosse colonie di armeni, quasi tutti appartenenti alla Chiesa armena dissidente e, in Antiochia Lattakieh e nella Cilicia, importanti gruppi di ortodossi di lingua greca. Inoltre, si trovavano in Terra Santa delle colonie religiose di ogni denominazione cristiana. I monasteri erano soprattutto ortodossi e di lingua greca, ma c’erano pure delle istituzioni ortodosse georgiane e, a Gerusalemme specialmente, delle colonie di monofisiti, sia copti egiziani ed etiopici che giacobiti siriani, nonché alcuni pochi gruppi latini che vi si erano stabiliti prima delle crociate7. Molte comunità musulmane erano emigrate quando era stato creato il regno cristiano, ma c’erano ancora dei villaggi maomettani intorno a Nablus8 e anche la popolazione di parecchi distretti conquistati dai franchi in epoca posteriore era rimasta musulmana. Nella Galilea settentrionale, lungo la strada da Banyas ad Acri, i contadini erano quasi tutti musulmani e più a nord, nella Buqaia, nelle montagne Nosairi e nella valle dell’Oronte, c’erano delle sette eretiche maomettane che riconoscevano il governo franco9. Lungo la frontiera meridionale e nell’Oltregiordano c’erano delle tribù di beduini nomadi. I massacri ed il timore di massacri avevano ridotto di molto il numero degli ebrei in Palestina e nella Siria cristiana: Beniamino di Tudela, visitando il paese verso il 1170, rimase addolorato al vedere quanto fossero piccole le loro colonie10. Nella sola città di Damasco essi erano più numerosi che in tutti gli Stati cristiani complessivamente11. Ma a un momento imprecisato, durante il secolo XII, essi acquistarono dalla corona il monopolio della fabbricazione delle tinture; anche l’industria del vetro si trovava quasi tutta nelle loro mani12. Una piccola comunità samaritana sopravviveva a Nablus13. Queste diverse comunità costituivano la base degli Stati franchi e i nuovi padroni non le molestarono affatto. Quando gli indigeni riuscivano a dimostrare il proprio diritto al possesso delle terre si permetteva loro di continuare ad occuparle, però in Palestina e a Tripoli, salvo il caso dei beni appartenenti alle chiese locali, i proprietari terrieri erano quasi tutti dei musulmani che erano fuggiti in seguito alla conquista franca, abbandonando vaste estensioni di territorio sulle quali i nuovi governanti potevano insediare come vassalli i loro compatrioti. Sembra che i villaggi liberi esistenti nei primi tempi della dominazione bizantina, fossero ormai tutti scomparsi. Ogni villaggio costituiva una comunità vincolata alla terra e doveva consegnare una parte dei prodotti al signore, ma non c’era una regola fissa riguardo all’ammontare di questo tributo. Nella maggior parte del paese dove i contadini praticavano una normale agricoltura mista, il signore si aspettava probabilmente di

ricevere prodotti sufficienti a nutrire la sua famiglia e i suoi poulains e turcopoles, che vivevano raggruppati intorno al castello; il contadino indigeno infatti non era adatto a fare il soldato. Nelle fertili pianure l’agricoltura era organizzata su basi più commerciali. Frutteti, vigneti e soprattutto le piantagioni di canna da zucchero venivano sfruttate dal signore e probabilmente il contadino riceveva in cambio del lavoro poco più che il mantenimento. Non si usavano schiavi, eccetto che nella casa del signore, tuttavia talvolta i prigionieri musulmani venivano fatti lavorare temporaneamente nelle proprietà del re o dei grandi signori. Le trattative dei contadini con il padrone venivano condotte dal loro capo, chiamato qualche volta con il nome arabo di rais e qualche volta con una forma latinizzata regulus. Da parte sua il signore impiegava un compatriota come fattore o drogmannus (dragomanno, interprete), ossia un segretario capace di parlare l’arabo e di tenere i registri14. Sebbene i cambiamenti nella vita dei contadini fossero molto limitati, il regno di Gerusalemme venne superficialmente riorganizzato secondo il sistema feudale. Il dominio reale comprendeva le tre città di Gerusalemme, Acri e Nablus, e più tardi anche la città di frontiera di Daron, con il loro rispettivo territorio; in origine era stato molto più esteso, ma i primi re e specialmente la regina Melisenda avevano largheggiato nel donare terre agli amici, alla Chiesa e agli ordini religiosi. Altre parti del dominio reale potevano venire temporaneamente alienate come legittime per le regine che fossero rimaste vedove. I quattro principali feudi del regno erano la contea di Giaffa, riservata di solito ad un cadetto della casa reale, il principato di Galilea, che doveva il suo titolo altisonante all’ambizione di Tancredi, la signoria di Sidone e quella dell’Oltregiordano. Sembra che i titolari di questi feudi avessero i loro alti funzionari a imitazione del re e cosi pure il signore di Cesarea, il cui feudo era quasi altrettanto importante, sebbene venisse classificato tra le dodici signorie minori. Dopo il regno di Baldovino II il possesso dei feudi fu regolato in base al diritto ereditario che ammetteva alla successione anche le donne in caso di mancanza di un erede maschio diretto. Un vassallo non poteva venire espulso se non per decisione dell’alta corte in seguito a qualche mancanza grave. Però doveva fornire al re, o al proprio superiore nella gerarchia feudale, un determinato numero di soldati in qualunque momento gli venissero richiesti e sembra che non ci fosse limite di tempo per il loro servizio. Il conte di Giaffa, il signore di Sidone e il principe di Galilea dovevano un centinaio di cavalieri completamente armati e il signore dell’Oltregiordano ne forniva sessanta15. Le dimensioni dei feudi variavano: quelli dei nobili laici erano il frutto di conquiste e formavano delle unità territoriali compatte mentre i possedimenti della Chiesa e degli ordini militari, essendosi accresciuti soprattutto grazie ai doni dei fedeli e a lasciti testamentari (oppure, nel caso degli ordini, per motivi di convenienza strategica) si trovavano disseminati in tutti i territori franchi. L’unità con cui venivano valutate le proprietà era il villaggio, o casal, oppure, molto raramente, la metà o un terzo di un villaggio; ma anche i villaggi erano di diversa grandezza. Nelle vicinanze di Safed, nella Galilea settentrionale, sembra che essi avessero in media soltanto quaranta abitanti maschi adulti, ma è nota l’esistenza di villaggi più grandi vicino a Nazaret e di altri più piccoli nei dintorni di Tiro, dove, tuttavia, in genere era maggiore la densità della popolazione16. Molti signori laici possedevano pure dei feudi in denaro, ossia ottenevano una rendita fissa in contanti da determinate città e villaggi e in cambio dovevano fornire soldati in numero proporzionato. Queste concessioni erano ereditarie ed era quasi impossibile al re annullarle17: come per i feudi terrieri, egli poteva soltanto sperare che il titolare morisse senza eredi o, almeno, lasciando unicamente una figlia, nel qual caso egli aveva il diritto di sceglierle un marito o di insistere perché essa lo scegliesse nella rosa dei tre candidati che egli le proponeva18.

Le città reali erano obbligate a fornire soldati in proporzione alla loro ricchezza: per Gerusalemme ne erano fissati 61, per Nablus 75 e per Acri 80; non era la borghesia a fornirli, ma la nobiltà che risiedeva in città o che vi possedeva delle case. I maggiori dignitari ecclesiastici dovevano pure dare dei soldati in proporzione all’importanza delle loro proprietà terriere o immobiliari. La borghesia pagava il suo contributo al governo mediante tasse in denaro. Venivano imposte delle tasse regolari sulle importazioni ed esportazioni, sulle compravendite, sull’ancoraggio, sui pellegrini, sull’uso di pesi e misure. Esisteva pure il terraticum, una tassa sulle proprietà dei borghesi, di cui si conosce pochissimo. Inoltre potevano esserci imposte speciali da pagarsi in occasione di determinate campagne. Nel 1166 i non combattenti dovettero pagare il dieci per cento del valore dei loro beni mobili e nel 1183 ci fu un tributo dell’uno per cento prò capite sui beni e i debiti di tutta la popolazione, insieme con uno del due per cento sulle rendite delle istituzioni ecclesiastiche e della nobiltà. Oltre ai prodotti che dovevano essere forniti dal villaggio, ogni contadino doveva versare al suo signore una capitazione personale, mentre i sudditi musulmani erano soggetti a una decima, o dime, che andava alla Chiesa. Le gerarchie latine tentarono continuamente di estendere la dime per applicarla anche ai cristiani appartenenti alle Chiese eretiche. Non vi riuscirono; ma quando il principe armeno Thoros II offrì di inviare dei coloni negli spopolati distretti della Palestina, re Amalrico fu obbligato a rifiutare l’offerta per l’insistenza con cui gli ecclesiastici chiedevano che a quei coloni venisse imposto di pagare la dime19. D’altra parte, pur pagando la decima, i musulmani trovavano il sistema di tassazione sotto i franchi più leggero di quello in uso presso i vicini signori maomettani; inoltre non venivano esclusi da cariche governative di secondaria importanza e potevano essere impiegati, al pari dei cristiani, come doganieri ed esattori20. È impossibile dare informazioni dettagliate sulla costituzione degli Stati franchi perché non ci fu mai, in nessun momento, una costituzione definitiva. Gli usi si sviluppavano o venivano modificati da decisioni prese caso per caso. I giuristi che più tardi pubblicarono delle compilazioni come il Livre au Roi o le Assises de Jerusalem tentarono di scoprire quali decisioni specifiche avevano modificato gli usi invalsi, anziché redigere un codice normativo per l’azione di governo. C’erano inoltre delle diversità da luogo a luogo. Il principe di Antiochia e i conti di Edessa e di Tripoli avevano di solito poche difficoltà con i loro vassalli, mentre la posizione del re di Gerusalemme era più debole. Egli era l’Unto del Signore, il capo riconosciuto dei franchi d’Oriente, senza rivali dopo che Baldovino I ebbe annientato le pretese del patriarcato, ma, mentre i signori di Antiochia e di Tripoli potevano trasmettere il potere secondo le regole generali della successione ereditaria, la dignità regale era elettiva. La pubblica opinione talvolta favoriva i diritti di un erede, come nel caso di Baldovino IV che nel 1174 venne accettato senza discussione quale successore di suo padre, sebbene avesse soltanto tredici anni e fosse lebbroso. Ma era necessaria una conferma mediante elezioni. A volte gli elettori ponevano le loro condizioni, come accadde quando Amalrico venne costretto a divorziare da sua moglie Agnese prima che gli concedessero la corona. Quando l’erede naturale era una donna sorgevano altre complicazioni: il marito poteva essere eletto re, ma si considerava, pare, che i suoi diritti gli derivavano dalla moglie. Nel caso della regina Melisenda e di suo figlio Baldovino III nessuno sapeva esattamente quale fosse la loro posizione giuridica però l’intero problema costituzionale apparve in tutta la sua gravità alla morte di Baldovino V, nel 118621. Il re si trovava al vertice della piramide sociale, ma era un vertice piuttosto basso. Quale Unto del Signore godeva di un certo prestigio e il recargli offesa era alto tradimento; egli presiedeva l’alta corte ed era comandante in capo delle forze armate del regno; era responsabile dell’amministrazione centrale e ne designava i funzionari; in quanto sovrano dei propri vassalli poteva impedire che essi

alienassero le loro terre e poteva scegliere i mariti per le loro eredi. Non avendo sopra di sé alcuna autorità a cui rendere conto, poteva a suo piacimento assegnare in feudo o in dote parte dei suoi domini personali sebbene egli (come pure i suoi nobili in casi analoghi) associasse di solito la moglie e i figli all’atto dell’assegnazione per evitare susseguenti discussioni sul doario della vedova o sull’eredità del figlio. Ma qui terminava il potere regale. Le rendite del sovrano erano piuttosto limitate e venivano ancora assottigliate da doni generosi, e il re si trovava sempre a corto di denaro. Inoltre egli era bensì a capo dello Stato, ma doveva sottostare alla legge del regno che era rappresentata dall’alta corte. Questa era costituita dai vassalli del reame, i signori che dovevano diretta obbedienza alla corona; i principali ecclesiastici vi prendevano parte a motivo delle loro proprietà terriere mentre le comunità straniere che possedevano beni nel regno, come i veneziani o i genovesi, vi inviavano dei rappresentanti. Qualche pellegrino di alto rango poteva essere invitato ad assistere alle sedute, ma non formava parte della corte e non aveva diritto di voto22. L’alta corte era essenzialmente un tribunale e come tale aveva due funzioni principali: in primo luogo doveva chiarire che cosa prescrivesse la legge su questioni particolari, ma in pratica ciò significava emanare leggi poiché, sebbene in teoria ogni assise fosse solamente una esplicitazione della legge, in pratica diventava anche la definizione di una legge nuova. In secondo luogo l’alta corte giudicava coloro tra i suoi membri che si fossero resi colpevoli di un delitto ed esaminava le querele che venivano sporte dagli uni contro gli altri. Il diritto di essere giudicato dai propri pari era un tratto caratteristico essenziale della consuetudine franca ed il re era considerato pari ai suoi vassalli quale primus inter pares, ossia loro presidente ma non loro superiore. Quest’uso corrispondeva alla teoria secondo cui il regno non era stato conquistato da un re bensì da un gruppo di nobili che avevano poi eletto il loro sovrano. Tale teoria conferiva alla corte il potere di eleggere i successivi re e, in caso di minore età o di prigionia del monarca, un reggente o un bali. L’alta corte veniva pure consultata sulle più importanti questioni politiche; questo sviluppo era inevitabile poiché senza la collaborazione dei vassalli ben di rado il re avrebbe potuto realizzare la propria politica. Nel 1166 l’alta corte venne ampliata includendovi i valvassori, come parte del disegno politico di Amalrico I di trovare appoggi per la corona contro i feudatari maggiori. Nel 1162 egli aveva costretto la corte ad approvare un’ assise che concedeva ai valvassori di appellarsi contro i loro signori dinanzi all’alta corte; se il signore rifiutava di rispondere al mandato di comparizione, i suoi vassalli potevano porsi sotto la protezione della corona. Sebbene questa legge fornisse al re un’utile arma contro la nobiltà, alla lunga non faceva che accrescere il potere dell’alta corte e poteva essere usata contro il monarca stesso. Sembra che la corte esaminasse le cause con attenzione e coscienziosamente sebbene un giudizio risultante dall’esito di un duello venisse accettato come prova. Non aveva una sede fissa ma poteva essere convocata dal re ovunque fosse conveniente. Durante il primo regno si riuniva abitualmente a Gerusalemme o ad Acri. I nobili, desiderosi di partecipare ai suoi lavori, cominciarono a trascurare i propri feudi e a stabilire la propria residenza in una di queste città23. Ma il loro potere di gruppo era indebolito dalle eterne dispute e contese familiari, che si intensificavano e complicavano col passare del tempo, perché ormai quasi tutte le casate nobili erano unite da vincoli stretti mediante matrimoni. In applicazione del principio del processo fatto dai pari, i coloni franchi non appartenenti alla nobiltà avevano le loro proprie cours des bourgeois. Queste corti borghesi si trovavano in ogni grande città e il loro presidente era sempre il visconte locale. Per ogni corte vi erano dodici giurati scelti dal signore tra i suoi sudditi latini nati liberi. Essi avevano la funzione di giudici, anche se un litigante poteva assumere uno di loro quale consulente legale. In questo caso l’avvocato-giurato non

partecipava alla formulazione del verdetto. Veniva pure richiesto ai giurati di fungere da testimoni per ogni atto o documento fatto nella corte. A differenza della prassi seguita dall’alta corte, si tenevano accurati verbali di tutti i procedimenti. Le corti borghesi si riunivano regolarmente il lunedì, il mercoledì ed il venerdì, ad eccezione dei giorni festivi. Una lite tra un nobile e un borghese veniva discussa davanti a una corte borghese, la quale ammetteva la prova del duello e la prova dell’acqua24. In un primo tempo le comunità indigene ebbero, per i casi meno importanti, corti proprie che si riunivano sotto la presidenza del loro capo locale, designato dal visconte, e nelle quali venivano applicate le loro leggi e consuetudini. Ma durante il regno di re Amalrico I venne istituita una cour de la fonde in ognuna delle trentatre principali città sedi di mercato. Questa trattava le questioni commerciali e si occupava di tutte le cause, anche di quelle criminali, che coinvolgevano la popolazione indigena ed era costituita da un bali, designato dal signore locale, e da sei giurati, due franchi e quattro indigeni. I litiganti indigeni prestavano giuramento ciascuno sul proprio libro sacro e i musulmani potevano usare il Corano; i maomettani di passaggio ammiravano l’equità della procedura. La cour de la fonde registrava pure le vendite e le donazioni di tutte le proprietà tranne quelle di immobili e fungeva da ufficio per l’esazione delle tasse sugli affari; essa riconosceva il diritto di appellarsi alla corte borghese, di cui imitava la procedura nelle linee generali. Amalrico stabilì pure una cour de la chaîne in tutte le città marittime; questa doveva occuparsi dei casi concernenti la navigazione e adempiere le funzioni di ufficio di registrazione per le dogane e i diritti di ancoraggio. I suoi giurati erano scelti tra i mercanti e i marinai. Le comunità commerciali italiane e provenzali avevano, inoltre, per le loro questioni interne i propri tribunali consolari. I feudatari più importanti avevano delle corti «baronali» per regolare le dispute tra i propri vassalli di rango cavalleresco; ce n’erano ventidue, oltre alle quattro esistenti nei possedimenti del re. Ognuna di queste numerose corti aveva la propria sfera d’attività chiaramente delimitata, ma quando in una causa le parti in lite erano di rango differente, la discussione avveniva davanti alla corte competente per la persona di rango inferiore25. Il concetto medievale della legge, che richiedeva l’emanazione di disposizioni specifiche soltanto quando sorgeva la necessità di definire qualche questione ben precisa, faceva si che l’attività legislativa del governo sembrasse arbitraria e capricciosa. È probabile che tra le leggi incorporate nella duecentesca raccolta delle Assises de Jérusalem sei datino dal tempo del duca Goffredo, mentre altre diciannove siano state emesse nel periodo che va fino al 1187; a undici di queste si può assegnare una data approssimativa26. L’amministrazione del regno era nelle mani dei principali funzionari del seguito del sovrano, i quali venivano scelti fra i maggiori vassalli. Nell’ordine di precedenza il primo posto spettava al siniscalco: egli era il maestro delle cerimonie e come tale recava lo scettro dinanzi al re al momento dell’incoronazione; era anche il capo dell’amministrazione civile. In particolare gli era affidata la tesoreria, la secrète, ossia l’ufficio dove venivano versate le somme dovute alla corona, si prelevavano i salari dei funzionari e si teneva un registro di tutte le transazioni finanziarie in cui avesse parte il governo. La secrète era un ufficio organizzato senza rigidezza, che i franchi avevano ereditato dagli arabi i quali, a loro volta, l’avevano ricopiato dal modello di analoghi uffici bizantini. Subito dopo il siniscalco veniva il conestabile, che disponeva di un maggior potere effettivo: era, dopo il re, il capo dell’esercito, responsabile di tutta la sua organizzazione e amministrazione. All’atto dell’incoronazione portava il vessillo reale e conduceva il cavallo del re, che rimaneva quindi di sua proprietà. Doveva occuparsi del vettovagliamento delle forze armate e della giustizia

militare. I mercenari, fossero essi assoldati dal re o da un nobile, si trovavano sotto la sua giurisdizione speciale ed egli curava che venissero pagati convenientemente. Se il monarca o il suo bali non partecipavano a una campagna, egli aveva il supremo comando della spedizione. Era coadiuvato dal maresciallo che era il suo luogotenente in qualsiasi affare di sua competenza. Il ciambellano si occupava del personale di servizio e delle finanze private del sovrano e in occasione di cerimonie aveva la funzione di primo gentiluomo della casa reale. La sua carica era assai vantaggiosa poiché era consuetudine che egli ricevesse un regalo dai vassalli che venivano a rendere omaggio al re. Le rendite di certi territori erano assegnate a chi ricopriva quella carica, ma nel 1179 il ciambellano Giovanni di Bellesme vendette quelle terre senza che ciò, apparentemente, recasse offesa al re. Non si sa quali fossero le mansioni del maggiordomo: erano probabilmente soltanto compiti cerimoniali. Il cancelliere, come in Occidente, era sempre un ecclesiastico sebbene, a differenza di quanto avveniva spesso in Europa, egli non fosse il cappellano del re. In qualità di capo della cancelleria aveva il compito di preparare le bozze dei documenti, di registrarli e di apporvi il sigillo reale. La cancelleria rimase sempre un semplice ufficio di registrazione: non esistendo una giustizia esercitata dal re o un diritto consuetudinario, essa non si trovò mai nella necessità di emanare decreti o di istituire un proprio tribunale. Sembra che i suoi documenti fossero tenuti in buon ordine, sebbene pochi siano giunti fino a noi. Nel secolo XII la lingua della cancelleria era il latino. La data veniva indicata menzionando l’Era volgare e l’Indizione romana, a cui talvolta si aggiungeva l’anno di regno del sovrano o l’anno dalla conquista di Gerusalemme. L’anno aveva inizio a Natale. I re usavano un numero ordinale cominciando a contare da Baldovino I ma senza tener conto del nome proprio. Il loro titolo non aveva dapprincipio una formula fissa ma finì per assumere stabilmente quella di: «per Dei gratiam in sancta civitate Jerusalem Latinorum Rex»27. Il funzionario locale più importante era il visconte che rappresentava il re nelle città reali e il feudatario in quelle baronali. Egli raccoglieva le tasse locali e le trasmetteva alla tesoreria dopo aver prelevato ciò che era necessario per le spese del governo locale; era responsabile del funzionamento dei tribunali locali e in genere del mantenimento dell’ordine nella città. Veniva scelto tra le famiglie nobili ma la sua carica non era ereditaria. Il funzionario di grado immediatamente inferiore era conosciuto con il titolo arabo di mathesep, o qualche volta con quello di capo-sergente, che era stato in origine il funzionario responsabile del regolamento delle compra-vendite28. Il re di Gerusalemme avanzava pretese di sovranità su tutti gli Stati franchi del Levante e si considerava autorizzato ad esigere dai rispettivi governanti l’invio di truppe che si affiancassero alle proprie nelle imprese militari. In realtà la sovranità esisteva soltanto quando il re era abbastanza forte per imporla, e Antiochia o Tripoli non venivano considerate come parte del regno neppure in teoria. I primi re esercitavano la sovranità su Tripoli a titolo personale: nel 1109 il conte Bertrando aveva reso omaggio a Baldovino I per le proprie terre; nel 1122 il conte Pons tentò di liberarsi dal proprio vassallaggio verso Baldovino II, ma fu costretto dalla propria alta corte a sottometterglisi. Nel 1131 egli si rifiutò di permettere a re Folco di passare attraverso i suoi territori, ma venne punito dal re e costretto di nuovo a sottomettersi. Dal 1164 al 1171 re Amalrico fu reggente di Tripoli in nome del conte bambino Raimondo III, ma lo fu probabilmente in qualità di parente maschio più prossimo del ragazzo, piuttosto che come sovrano. Diventato adulto Raimondo III non riconobbe mai quella sovranità, sebbene egli fosse vassallo del re per quel che si riferiva al principato di Galilea, appartenente a sua moglie. Durante la campagna del 1187, alla quale egli partecipò in qualità di principe di Galilea, la sua contea di Tripoli si dichiarò neutrale. Con la contea di Edessa i re avevano un rapporto personale: Baldovino I nel designare Baldovino II quale proprio successore

nella contea aveva preteso da lui un giuramento di vassallaggio, e Baldovino II seguì il suo esempio nei confronti di Jocelin di Courtenay, ma questi verso la fine della propria vita riconobbe anche il principe di Antiochia come suo sovrano. Antiochia si trovava in una posizione diversa: Boemondo I non aveva riconosciuto nessuno quale proprio sovrano e allo stesso modo si comportarono i reggenti Tancredi e Ruggero, designati ambedue dall’alta corte del principato. Baldovino II fu reggente per il giovane principe Boemondo II dal 1119 al 1126 ma, a quanto pare, non per diritto legale, ma per invito dell’alta corte. Questa lo invitò di nuovo nel 1131 e a quel momento esisteva anche il motivo che egli era il nonno della giovane principessa Costanza i cui interessi, a giudizio della corte, venivano messi in pericolo dalla madre di lei, Alice. Dopo la morte di Baldovino, quando Alice tentò ancora una volta di impadronirsi del potere, l’alta corte invitò re Folco ad assumere la reggenza al suo posto. Ma anche in questo caso il re era il più prossimo parente maschio della giovane principessa, in quanto marito di sua zia. Se in Oriente vi fosse stato un altro membro della casa di Altavilla di sesso maschile, sarebbe stato senza dubbio prescelto. Allo stesso modo, quando il re scelse un marito per la principessa egli agì su richiesta dell’alta corte e non come sovrano. Baldovino II aveva chiesto al re di Francia di designare un marito per la sua erede Melisenda, senza che ciò implicasse affatto l’idea che egli accettava la sovranità francese. Quando giunse per Costanza il momento di prendere un secondo marito, ella fece la sua scelta quale principessa sovrana e se chiese l’autorizzazione a re Baldovino III fu soltanto perché il marito che s’era scelta, Rinaldo, era vassallo di lui. Nel 1160 gli antiocheni invitarono Baldovino II ad assumere la reggenza, ma ancora una volta il re era il più prossimo parente di sesso maschile del loro giovane principe. La posizione legale non venne mai chiaramente definita: probabilmente il principe di Antiochia riteneva di dovere al re di Gerusalemme dei riguardi ma non lo considerava suo superiore29. Antiochia era diversa da Tripoli e da Edessa anche per il suo sistema di governo. Di quello edesseno sappiamo pochissimo: tutti i documenti costituzionali eventualmente emanati dal conte sono andati perduti. Presumibilmente egli aveva una corte di vassalli come tutti i grandi signori feudali, ma la posizione della contea alle estreme propaggini della cristianità impediva qualunque sviluppo costituzionale. La sua vita era assai simile a quella degli emiri turchi che lo circondavano; i coloni franchi erano pochi e anche i grandi feudi erano scarsi. Il conte faceva molto affidamento su funzionari armeni istruiti secondo i metodi bizantini. Uno stato di guerra permanente lo obbligava a comportarsi in un modo più autocratico di quanto gli sarebbe stato permesso in una zona più tranquilla. Sembra invece che la costituzione della contea di Tripoli rassomigliasse a quella di Gerusalemme: il conte aveva la sua alta corte di cui era tenuto ad osservare le decisioni, ma il suo titolo era ereditario, non elettivo, e i suoi possedimenti personali erano molto più vasti di quelli di qualsiasi suo vassallo. Salvo una o due gravi questioni politiche, come quella emersa allorché Pons aveva sfidato l’autorità del re di Gerusalemme, il conte aveva pochi fastidi dai suoi baroni i quali, con l’unica eccezione dei signori di Jebail che erano genovesi, discendevano dai vassalli tolosani dei suoi antenati. I maggiori dignitari della corte avevano gli stessi titoli e funzioni di quelli di Gerusalemme e analogamente anche le città erano amministrate da visconti30. Nel principato di Antiochia le istituzioni rassomigliavano esteriormente a quelle del regno di Gerusalemme; c’erano un’alta corte e una corte borghese e gli stessi alti funzionari. Antiochia aveva le sue proprie Assises, ma il loro tenore era in generale simile a quello delle Assises di Gerusalemme. Tuttavia, sotto le superficiali affinità c’erano molte differenze. Il titolo principesco era ereditario e l’alta corte interveniva solo per designare un reggente in caso di necessità. Fin dall’origine il principe amministrò direttamente le città più importanti nonché buona parte delle terre

del principato, ed era restio a concedere in feudo delle proprietà, salvo nei distretti di frontiera. I feudi in denaro gli convenivano di più. Sembra che nell’alta corte sedessero dei giurati designati dal principe e che i suoi rappresentanti personali controllassero le corti borghesi. Per l’amministrazione delle città e dei possedimenti personali i principi imitarono il sistema bizantino, la sua competente burocrazia e i suoi accurati metodi di tassazione. Antiochia, Lattakieh e Jabala avevano ciascuna un duca che era responsabile di tutta l’amministrazione municipale; egli veniva designato dal principe che poteva licenziarlo a suo piacimento, ma pare che finché rimaneva in carica sedesse nell’alta corte. I duchi di Lattakieh e Jabala appartenevano spesso alla popolazione indigena; il duca di Antiochia era un franco di famiglia nobile ma era coadiuvato da un visconte che poteva essere un indigeno. Al pari dei loro cugini di Sicilia, i signori di Antiochia consolidarono la propria posizione nei confronti della nobiltà valendosi di funzionari indigeni che dipendevano completamente dal favore dei principi. Costoro avevano trovato in Antiochia una società locale coita, di origine greca, siriana ed armena, che si era conservata sin dal tempo dei bizantini. Un ulteriore strumento per controllare l’alta corte era offerto dalla designazione dei giurati che vi partecipavano per decidere di questioni puramente legali; la stessa cosa avveniva nelle corti borghesi. I principi ereditarono il sistema bizantino per la determinazione ed esazione delle imposte; la loro secrète aveva la propria burocrazia e le sue rendite non dipendevano dalle corti locali, come invece accadeva a Gerusalemme. I principi decidevano l’indirizzo della propria politica senza quasi tenere in considerazione l’alta corte; stipulavano i propri trattati con le potenze straniere. Tutta quanta l’organizzazione del principato era più compatta ed efficiente di quella degli altri Stati franchi. Se non vi fossero state guerre continue, principi minorenni o prigionieri e la sostituzione di una dinastia francese al posto di quella normanna, in Antiochia avrebbe potuto svilupparsi un governo non meno efficiente di quello della Sicilia31. La singolarità della posizione di Antiochia fu ancora accentuata dai suoi speciali rapporti con l’imperatore di Costantinopoli. Secondo la teoria bizantina questi era il capo della comunità dei popoli cristiani; e sebbene egli non compisse mai alcun tentativo per far valere la propria sovranità sui monarchi dell’Occidente, egli considerava tuttavia la cristianità orientale come la propria zona d’influenza: nel califfato i cristiani ortodossi erano sempre stati sotto la sua protezione ed i suoi impegni verso di loro erano riconosciuti dai musulmani. L’imperatore non aveva nessuna intenzione di rinunziare a questi suoi doveri a seguito della conquista franca; ma c’era una differenza tra Antiochia ed Edessa da una parte e Gerusalemme e Tripoli dall’altra, in quanto queste due ultime regioni avevano cessato di far parte dell’Impero fin dal secolo VII, mentre le due prime erano state province imperiali ancora durante la vita di Alessio I. Questi, nell’indurre i capi della prima crociata a rendergli omaggio, aveva fatto una distinzione tra le terre da poco sottratte alla sovranità imperiale, come Antiochia, che dovevano essergli restituite, e le altre conquiste, sulle quali chiedeva che gli fosse riconosciuta soltanto una generica sovranità. I crociati non mantennero i giuramenti e Alessio non poté costringerli ad osservarli. La politica bizantina era sempre realistica. Dopo la vittoria su Boemondo, l’imperatore modificò le proprie richieste: con il trattato di Devol concesse alla dinastia normanna di governare in Antiochia, ma in rigide condizioni di vassallaggio e richiese alcune garanzie, come l’insediamento di un patriarca greco. Questo trattato costituì la base delle rivendicazioni bizantine, ma i franchi lo ignorarono. Sembra che l’opinione pubblica franca ritenesse che Boemondo si era effettivamente comportato molto male verso l’imperatore, ma che questi aveva avuto il torto di non farsi vedere personalmente; infatti, allorché un imperatore venne di persona i suoi diritti furono riconosciuti. In altri termini, a giudicare dal consiglio dato da re Folco nel 1137, i diritti di sovranità che l’imperatore accampava venivano accettati e considerati giuridicamente validi

quando egli si trovava in condizione di imporli con la forza; in caso diverso, le sue pretese potevano venire trascurate. Vi furono alcune altre occasioni - poche - in cui l’imperatore venne trattato come sovrano, per esempio quando la principessa Costanza si rivolse a Manuele perché le scegliesse un marito, ma poiché la scelta dell’imperatore non le piacque essa non ne tenne alcun conto. La sovranità imperiale si faceva dunque sentire a sbalzi e non era pesante, ma i principi di Antiochia ed i loro giuristi non si sentivano del tutto tranquilli in proposito ed essa rimaneva una potenziale limitazione all’indipendenza sovrana del principe. Il conte di Edessa nel 1137 riconobbe la sovranità imperiale, ma la sua contea era più lontana dalle frontiere dell’Impero e la questione era meno urgente. L’opinione franca approvò che nel n50 la contessa di Edessa vendesse all’imperatore ciò che rimaneva della sua contea, ma soltanto perché era evidentemente impossibile difendere quelle terre contro i musulmani. Raimondo di Tolosa era stato disposto a riconoscere l’imperatore come sovrano, e suo figlio Bertrando aveva reso omaggio ad Alessio per la sua futura contea nel 1109; nel 1137 Raimondo II ripeté quest’atto di omaggio all’imperatore Giovanni; Raimondo III, sebbene nel 1151 attaccasse Bisanzio, nel 1163 ricevette aiuto dai bizantini, il che fu forse un gesto di Manuele per dimostrare la propria sovranità. Ma non è da escludere che questo omaggio fosse limitato a Tortosa e dintorni, che appartenevano tradizionalmente al territorio di Antiochia come parte della theme di Lattakieh. Con il regno di Gerusalemme i rapporti giuridici dei bizantini erano ancora meno precisi. Baldovino III rese omaggio all’imperatore Manuele ad Antiochia nel 1158 e Amalrico si recò a Costantinopoli, nel 1171, come vassallo, anche se come un vassallo altamente onorato. Sia Baldovino che Amalrico ritenevano essenziale per la loro politica l’amicizia bizantina ed erano pertanto disposti a fare delle concessioni, ma sembra che i loro giuristi non considerassero mai questo vassallaggio se non come un espediente temporaneo32. Se il re di Gerusalemme aveva un sovrano, questi era il papa. La prima crociata aveva previsto uno Stato teocratico in Palestina, e se Ademaro di Le Puy fosse vissuto più a lungo, avrebbe potuto effettivamente svilupparsi un’organizzazione di quel genere; tale fu probabilmente il pensiero che trattenne Goffredo dall’accettare una corona reale. Daimberto, successore di Ademaro, mirava a ottenere uno Stato dominato dal patriarca di Gerusalemme; Baldovino I controbilanciò la mossa assumendo la corona e servendosi dei nemici che Daimberto aveva nella Chiesa. Era evidente che il papato non avrebbe gradito che vi fosse a Gerusalemme un patriarcato eccessivamente potente, il quale, per la sua posizione speciale e per la sua crescente ricchezza, avrebbe potuto trasformarsi, secondo quanto appunto sperava Daimberto, in un’equivalente orientale di Roma. Era facile perciò per il re opporre il papa al patriarca. Il sovrano era obbligato, per tradizione, a rendere omaggio al patriarca all’atto dell’incoronazione, ma chiese al papato la ratifica del titolo. Quel vassallaggio era quasi soltanto nominale e non più rigoroso di quello che i papi pretendevano dai regni spagnoli, ma era utile per il regno poiché cosi i papi si sentivano responsabili di non far mancare rifornimenti di uomini e di denaro alla Terra Santa, e di dare un aiuto diplomatico ogni volta che fosse necessario. Il papato poteva anche essere utile per porre un freno al patriarcato ed esercitare un certo controllo sugli ordini militari. Ma d’altra parte poteva anche avvenire che il papa appoggiasse gli ordini militari contro il re; egli inoltre intervenne spesso quando il monarca tentò di imporre certe limitazioni alle città marinare italiane33. Nel regno la Chiesa era retta dal patriarca di Gerusalemme, il quale, dopo le difficoltà iniziali suscitate dall’ambizione di Daimberto, era in realtà un funzionario della corona. Veniva eletto dal Capitolo del Santo Sepolcro che designava due candidati, fra i quali il re ne sceglieva uno. Sotto il

patriarca stavano i quattro arcivescovi di Tiro, Cesarea, Nazaret e Rabbot-Moab, nove vescovi, nove abati mitrati e cinque priori; ma alcune altre abbazie dipendevano direttamente dal papato, e cosi pure gli ordini militari. La Chiesa di Palestina era immensamente ricca di terre e di feudi in denaro. I più importanti ecclesiastici dovevano generalmente fornire per il servizio militare dei sergenti piuttosto che dei cavalieri. Il patriarca e il Capitolo del Santo Sepolcro dovevano ciascuno cinquecento sergenti, il vescovo di Betlemme duecento, l’arcivescovo di Tiro e gli abati di Santa Maria Giosafat e del Monte Sion centocinquanta ciascuno. Il convento di Betania, fondato dalla regina Melisenda per sua sorella, possedeva l’intera città di Gerico. Inoltre al patriarcato e a molte delle più famose abbazie erano state donate vaste proprietà in tutta l’Europa occidentale, le cui rendite venivano inviate in Palestina. La Chiesa aveva i propri tribunali per trattare i casi di eresia, di disciplina, di matrimonio, incluso divorzio e adulterio, e i testamenti. Essi seguivano le norme e la procedura dei tribunali ecclesiastici dell’Occidente34. I territori di Antiochia, Tripoli ed Edessa dipendevano ecclesiastica mente dal patriarca di Antiochia. La delimitazione della giurisdizione dei patriarchi aveva dato origine a difficoltà, poiché tradizionalmente Ti ro era inclusa nel patriarcato di Antiochia sebbene, dopo la conquista, venisse a far parte del regno di Gerusalemme. Pasquale II decise che Ti ro, con le diocesi dipendenti di Acri, Sidone e Beirut, venisse trasferita a Gerusalemme; e cosi fu fatto, poiché corrispondeva alla realtà politica. Ma i tentativi dei patriarchi di Gerusalemme di ottenere giurisdizione sui tre vescovati tripolini (cioè Tripoli propriamente detta, Tortosa e Jabala) fallirono malgrado il saltuario appoggio dato dal papato. Pare che Raimondo di Tolosa sperasse di avere una chiesa autonoma nella sua fu tura contea, ma i suoi successori riconobbero la sovranità ecclesiastica di Antiochia. Essa non pesava loro troppo, poiché potevano designare i propri vescovi senza interferenze. Il patriarca di Antiochia, al pari del suo confratello di Gerusalemme, veniva eletto dal Capitolo, ma in realtà era designato dal governatore laico, che poteva anche ottenerne la deposizione. Sappiamo che alcuni principi rendevano omaggio al patriarca all’atto della loro incoronazione, ma probabilmente ciò avveniva soltanto in circostanze eccezionali. Sotto il patriarca si trovavano gli arcivescovi di Albara, Tarso e Mamistra come pure quello di Edessa. L’arcidiocesi di Turbessel venne istituita più tardi con il titolo ufficiale di Ierapoli (Menbij). Il numero dei ve scovati variava secondo le circostanze politiche. C’erano nove abbazie e due conventi femminili latini; i più importanti monasteri erano quelli di San Paolo e di San Giorgio, dove pare che i benedettini fossero subentrati ai monaci greci, e San Simeone, dove sussistevano fianco a fianco i due riti. La Chiesa antiochena era ben lungi dal possedere la stessa ricchezza di quella di Gerusalemme, anzi molte istituzioni ecclesiastiche palestinesi avevano delle proprietà nel principato35. Molto prima della fine del secolo XII, la Chiesa secolare negli Stati franchi venne messa completamente in ombra dagli ordini militari. Fin dalla loro fondazione essi erano costantemente cresciuti sia in consistenza numerica che in ricchezze, e nel 1187 erano i più importanti proprietari terrieri di «Outremer». Doni ed acquisti ampliavano continuamente le loro tenute, molti nobili palestinesi si univano alle loro fila mentre dall’Occidente giungevano con regolarità delle reclute. Gli ordini rispondevano ad un bisogno spirituale di quell’epoca in cui c’erano uomini ansiosi di dedicarsi alla vita religiosa ma desiderosi di continuare ad essere attivi e di battersi per la Fede. Rispondevano anche a una necessità politica: la perenne scarsità di soldati in «Outremer». L’organizzazione feudale era troppo direttamente dipendente dalle vicende della vita di famiglia delle casate nobili per poter provvedere a sostituire gli uomini che morivano in battaglia o di malattia. I crociati provenienti dall’Occidente combattevano bene per una o due stagioni, ma poi

tornavano a casa. Gli ordini militari invece offrivano un rifornimento costante di pii soldati di professione che non costavano nulla al re e che inoltre erano abbastanza ricchi per costruire e mantenere in efficienza dei castelli di una mole tale che ben pochi signori laici avrebbero potuto permettersi. Senza il loro aiuto gli Stati crociati sarebbero spariti molto tempo prima. A proposito del loro numero reale abbiamo soltanto delle testimonianze sporadiche: gli ospitalieri inviarono cinquecento cavalieri e un numero proporzionale di soldati semplici e graduati nella campagna egiziana del 1158, mentre i cavalieri templari che parteciparono alla campagna del 1187 erano circa trecento. In ambedue i casi queste cifre rappresentano probabilmente soltanto i cavalieri del regno di Gerusalemme, senza contare che un certo numero doveva essere rimasto indietro con mansioni di presidio. Dei due ordini, quello ospitaliere era probabilmente il più numeroso e il più ricco, ma mostrava ancora un interesse attivo per le opere di carità. Il suo ospizio in Gerusalemme poteva albergare un migliaio di pellegrini, e l’ordine manteneva inoltre un ospedale per gli ammalati bisognosi, che rimase in funzione anche dopo la riconquista saracena. Ogni giorno essi distribuivano elemosine fra i poveri con una larghezza che meravigliava i visitatori. Sia essi sia i templari pattugliavano le strade percorse dai pellegrini dedicando particolare attenzione ai luoghi destinati ai sacri lavacri nel Giordano. Anche i templari distribuivano delle elemosine, ma meno generose degli ospitalieri. Il loro interesse si rivolgeva in modo più esclusivo alle questioni militari: essi erano famosi per il loro coraggio negli assalti e si consideravano consacrati ad azioni di guerra offensiva; si dedicavano pure ad operazioni bancarie e ben presto divennero gli agenti finanziari dei crociati di passaggio; più tardi dovevano attirarsi l’impopolarità in quanto sospettati di darsi a strani riti esoterici, ma per il momento erano universalmente stimati per il loro valore militare e per il loro spirito cavalleresco36. I vantaggi recati dagli ordini militari erano controbilanciati da gravi inconvenienti. Il re non aveva nessun controllo su di loro, poiché il loro unico sovrano era il papa. Le terre che venivano loro date erano tenute in regime di manomorta e non erano soggette a nessuna servitù; gli ordini non permettevano che i loro affittuari pagassero la dime dovuta alla Chiesa. I cavalieri combattevano con gli eserciti del re soltanto in qualità di alleati volontari. Talvolta il sovrano o un signore poteva affidare temporaneamente un castello alla loro custodia; altre volte veniva loro richiesto di assumere le funzioni di tutori di un minorenne. In tali casi essi erano soggetti all’obbligo di fornire i servizi cui erano tenute le proprietà affidate alla loro vigilanza. I gran maestri o i loro delegati sedevano nell’alta corte del regno, e i loro rappresentanti nelle alte corti del principe di Antiochia e del conte di Tripoli. Ma i pareri che essi vi esprimevano erano spesso irresponsabili. Quando non approvavano la politica ufficiale potevano rifiutarsi di collaborare, come appunto fecero i templari nel 1158 allorché boicottarono la spedizione contro l’Egitto. La perpetua rivalità tra i due ordini costituiva un continuo pericolo e soltanto di rado essi si lasciavano persuadere a scendere in campo assieme. Ogni ordine seguiva la propria linea d’azione diplomatica, senza riguardi per la politica ufficiale del regno. Troviamo infatti che ambedue gli ordini concludevano i propri trattati con le potenze musulmane, e in particolare la storia delle trattative con gli assassini nel 1172 dimostra con quale facilità i templari fossero disposti a mandare a monte un accordo desiderabile da ogni punto di vista, solo per proteggere i propri interessi finanziari, e dimostra parimenti il loro aperto spregio per l’autorità dei tribunali reali. Gli ospitalieri furono sempre più moderati e meno egoisti, ma anche per loro gli interessi dell’ordine avevano la precedenza su quelli del regno. Un analogo contrapporsi di vantaggi e svantaggi appariva nei rapporti tra gli Stati franchi e le città mercantili italiane e provenzali37. I coloni franchi erano soldati, non marinai. Tanto Tripoli

quanto Antiochia organizzarono, col tempo, una piccola flotta, e gli ordini militari costruirono del naviglio leggero, ma il regno, avendo pochi porti buoni e data la generale penuria di legname da costruzione, non dispose mai di un potere navale sufficiente. Per ogni spedizione che richiedesse il dominio del mare, come la conquista delle città costiere o le campagne contro l’Egitto, era necessario invocare l’aiuto di qualche potenza marinara. I due Stati che disponevano di potenti flotte in Oriente erano Bisanzio e l’Egitto, ma questo era sempre un nemico potenziale e, spesso, anche reale, mentre Bisanzio era sempre un po’ sospetto. La flotta siciliana avrebbe potuto essere utile, ma non ci si poteva fidare della politica di quel regno. Gli italiani e i francesi meridionali erano alleati migliori, inoltre il loro aiuto era necessario per mantenere aperte le rotte marittime verso l’Occidente e per trasportare pellegrini, soldati e coloni in «Outremer». Però le città marinare dovevano essere pagate: esse esigevano agevolazioni e privilegi per il loro commercio, volevano quartieri propri nelle città più grandi ed esenzione completa o parziale dai dazi doganali; chiedevano inoltre il diritto alla extraterritorialità per le loro colonie. Nel complesso queste concessioni non erano gravose per le autorità franche: ogni riduzione delle entrate veniva controbilanciata dall’incremento dato al commercio, mentre i tribunali reali non avevano nessun desiderio di trovarsi nella necessità di applicare la legge genovese o veneziana soprattutto perché a loro erano comunque riservati i casi in cui fosse coinvolto un cittadino del regno, oppure quelli che riguardavano i delitti più gravi, come l’assassinio. Di tanto in tanto si accendevano delle dispute: i veneziani erano in costante conflitto con l’arcivescovo di Tiro e i genovesi ebbero una lunga lite con re Amalrico I. In ambedue i casi il papato appoggiò gli italiani che avevano probabilmente il diritto dalla loro parte. Ma le città marinare si davano da fare non per il benessere generale della cristianità, bensì soltanto per il loro tornaconto commerciale. Di solito i due interessi coincidevano, ma se venivano a conflitto si dava la precedenza all’interesse commerciale immediato. Gli italiani e i provenzali erano perciò degli amici incostanti per il re. Inoltre la rivalità tra i due grandi ordini militari era niente al paragone di quella che esisteva tra le diverse città marinare: Venezia preferiva di gran lunga aiutare i musulmani piuttosto che Genova o Pisa o Marsiglia, le quali a loro volta la pensavano allo stesso modo. Perciò, mentre da un lato l’aiuto fornito da tutte quelle città era indispensabile per conservare l’esistenza di «Outremer», dall’altro gli intrighi e le risse tra i loro coloni e l’accomodante propensione a tradire la causa comune per un profitto momentaneo annullavano in gran parte il valore di quell’aiuto38. Ai pellegrini soprattutto sembravano scandalosamente avidi e poco cristiani. La conquista aveva stimolato fortemente il movimento di pellegrini: l’enorme ospizio degli ospitalieri era generalmente al completo. Malgrado le intenzioni originali della crociata, la strada attraverso l’Anatolia era ancora malsicura e soltanto un gruppo bene armato poteva sfidarne le insidie, perciò il pellegrino medio preferiva viaggiare per mare. Egli doveva procurarsi una cuccetta su una nave italiana, ma i prezzi erano molto elevati. Un certo numero di pellegrini potevano raggrupparsi per noleggiare una nave intera, ma anche cosi era costoso assoldare un capitano e un equipaggio. Per un pellegrino proveniente dalla Francia settentrionale o dall’Inghilterra era più economico viaggiare in uno dei piccoli convogli che partivano ogni anno dai porti della Manica diretti in Oriente. Ma era un viaggio lungo e pericoloso: bisognava prima affrontare le burrasche dell’Atlantico, poi c’erano i corsari musulmani in agguato nello stretto di Gibilterra e lungo la costa africana. Da Oporto o da Lisbona fino in Sicilia non c’erano porti in cui rifornirsi di acqua o provviste senza pericolo ed era difficile trasportare vettovaglie sufficienti per gli uomini e i cavalli che si trovavano a bordo. Era molto più semplice andare per terra in Provenza o in Italia e imbarcarsi di li su vascelli molto pratici di quel viaggio. Un pellegrino che viaggiasse da solo trovava più facilmente e a miglior prezzo un passaggio nei porti degli Stati del re di Sicilia, ma i gruppi più numerosi dovevano fare assegnamento sulle

flotte delle grandi città marinare39. Quando sbarcava ad Acri, a Tiro o a San Simeone, il viaggiatore si trovava subito in un ambiente che gli era estraneo, infatti, tolta la sovrastruttura feudale, «Outremer» era un paese orientale. Il suo lusso impressionava e scandalizzava gli occidentali, poiché in Europa la vita era ancora semplice ed austera: i vestiti erano di lana e raramente messi in bucato; le installazioni per lavarsi erano scarse, eccetto in alcune antiche città dove durava ancora la tradizione delle terme romane. Persino nei maggiori castelli il mobilio era rozzo ed utilitario e i tappeti vi erano quasi sconosciuti. Il cibo era grossolano e poco variato, specialmente durante i lunghi mesi invernali. Scarseggiavano ovunque le comodità e la vita intima. L’Oriente franco offriva un sorprendente contrasto. Forse non erano molto numerose le case grandi e splendide come il palazzo costruito al principio del secolo seguente dagli Ibelin, a Beirut, con i pavimenti di mosaico, le pareti di marmo e i soffitti affrescati, con le grandi finestre di cui alcune si affacciavano verso occidente sul mare e altre verso oriente su giardini e frutteti che si estendevano verso le montagne. Il palazzo reale di Gerusalemme, ricavato in una parte della moschea di el-Aqsa, era certamente più modesto, mentre invece il palazzo di Acri era un edificio sontuoso. Però ogni nobile o ricco borghese ammobiliava la propria casa di città con oggetti altrettanto splendidi: c’erano tappeti e tappezzerie damascate, tavoli e scrigni elegantemente intagliati e intarsiati, biancheria da letto e da tavola immacolata, servizi d’oro e d’argento, posatene, terracotte fini e persino alcuni piatti di porcellana provenienti dall’Estremo Oriente. Ad Antiochia l’acqua delle sorgenti di Dafne giungeva per mezzo di acquedotti e tubazioni in tutte le grandi case, e molte abitazioni lungo la costa libanese avevano il loro rifornimento privato. In Palestina, dove l’acqua era meno abbondante, le città avevano dei serbatoi bene organizzati, mentre in Gerusalemme era ancora in perfetta efficienza il sistema di fognature costruito dai romani. Le grandi fortezze di frontiera erano arredate in modo quasi altrettanto comodo che le case di città, per quanto fosca e crudele potesse essere la vita fuori delle mura. V’erano dei bagni, delle camere eleganti per le dame della famiglia del signore e sontuose sale di ricevimento. I castelli che appartenevano agli ordini militari erano un po’ più austeri, ma nelle grandi dimore principesche, come Kerak nel Moab o Tiberiade, il castellano viveva con maggior lusso che qualsiasi re dell’Europa occidentale40. Non solo l’arredamento delle case, ma anche gli abiti dei coloni assunsero ben presto foggia e lusso orientali. Quando un cavaliere non portava l’armatura, indossava un burnus di seta e usava di solito un turbante. Durante le campagne di guerra indossava sulla corazza una sopravveste di tela per riparare il metallo dal calore del sole e un kefieh di stile arabo sull’elmo. Le signore adottavano la tradizionale moda orientale consistente in una lunga sottoveste e una corta tunica o giacca, pesantemente ricamata con fili d’oro e, talvolta, con pietre preziose. In inverno esse, come pure i loro mariti, portavano delle pellicce. Fuori di casa usavano il velo come le donne musulmane, non tanto per modestia però quanto piuttosto per proteggere la loro carnagione, che veniva generosamente ricoperta di belletto; affettavano un’andatura ricercata. Ma pur con le loro arie di fragilità e di languore, esse non erano meno coraggiose dei loro mariti e fratelli. Molte nobildonne vennero chiamate a dirigere la difesa del castello in assenza del signore. Le mogli dei mercanti imitavano le dame dell’aristocrazia e spesso le superavano per la ricchezza del loro abbigliamento. Le cortigiane di classe - una categoria fino allora sconosciuta nella società occidentale - erano vestite in modo altrettanto vistoso. Di Paschia de Riveri, la moglie del bottegaio di Nablus i cui vezzi sedussero il patriarca Eraclio, i cronisti raccontano che per le sete e i gioielli la si sarebbe potuta scambiare per una contessa o baronessa41. Per quanto questo lusso sembrasse insolito al pellegrino occidentale, appariva invece del tutto

naturale a un viaggiatore proveniente dall’Oriente musulmano o da Bisanzio. I coloni franchi dovevano inevitabilmente tentare di adattarsi al nuovo ambiente e non potevano evitare di avere contatti con i propri sudditi e vicini. C’era inoltre da prendere in considerazione il clima: gli inverni in Palestina e in Siria possono essere non meno ventosi e freddi di quelli dell’Europa occidentale, ma sono di breve durata; le lunghe, soffocanti estati persuasero invece ben presto i coloni a indossare abiti diversi, a mangiare cibi differenti e a modificare gli orari. Le rigide consuetudini del settentrione erano ormai fuori posto; bisognava imparare invece le usanze indigene: i coloni dovevano assumere dei servi indigeni; balie indigene si prendevano cura dei bambini e palafrenieri indigeni dei cavalli. Esistevano delle malattie insolite di fronte alle quali i loro medici erano impotenti e ben presto dovettero ricorrere alla medicina locale42. Inevitabilmente essi impararono a capire gli indigeni e a penetrare nel loro mondo. Nel regno di Gerusalemme e nella contea di Tripoli l’assenza di un’aristocrazia locale capace di competere col regime dei franchi, dopo la fuga dei musulmani, rese questo processo più facile; nel nord invece, l’aristocrazia greca ed armena erano invidiose di loro e la politica si mise di mezzo rendendo più ardua la comprensione reciproca, ma alla fine gli armeni cercarono di avvicinarsi e adottarono molte abitudini occidentali43. Tra i franchi e i loro vicini musulmani non poté mai sussistere una pace durevole, ma i contatti si fecero sempre più frequenti. Le entrate degli Stati latini provenivano in larga misura da gabelle imposte al commercio tra le zone musulmane dell’interno e la costa; bisognava concedere ai mercanti maomettani di scendere liberamente fino ai porti di mare e trattarli equamente. A seguito dei rapporti commerciali si svilupparono relazioni amichevoli. L’Ordine del Tempio, con le sue cospicue attività bancarie, era disposto a estendere il raggio delle operazioni per favorire clienti infedeli e teneva dei funzionari in grado di specializzarsi nel campo degli affari con i musulmani. Allo stesso tempo i più saggi tra gli statisti franchi si rendevano conto che il loro regno poteva durare soltanto mantenendo disunito il mondo maomettano, e a questo scopo c’era un grande andirivieni di missioni diplomatiche. I grandi signori franchi e musulmani venivano spesso ricevuti con tutti gli onori a corti che professavano fedi rivali; prigionieri e ostaggi trascorrevano spesso degli anni nei castelli o nei palazzi dei nemici. Sebbene pochi musulmani si preoccupassero di imparare il francese, molti franchi, sia nobili che mercanti, parlavano l’arabo e alcuni, come Rinaldo di Sidone, dimostravano persino interesse per la letteratura araba. In tempo di guerra ambedue i contendenti apprezzavano atti di coraggio e gesti cavallereschi, mentre nei periodi di pace nobili provenienti dai due lati della frontiera si accordavano per delle partite di caccia44. Anche l’intolleranza religiosa era tutt’altro che assoluta: le due grandi fedi partecipavano di un’origine comune, e quando vennero scoperte a Hebron delle reliquie che si credeva appartenessero ad Abramo, Isacco e Giacobbe, i cronisti musulmani se ne interessarono tanto quanto quelli cristiani45. Persino in tempi di ostilità i pellegrini franchi potevano spingersi fino al santuario di Nostra Signora di Sardenay, nella zona collinosa oltre Damasco 46; mentre la protezione concessa dai beduini al grande monastero di Santa Caterina, che si trovava nel deserto del Sinai, veniva estesa di solito anche ai suoi visitatori47. Il brutale trattamento inflitto da Rinaldo di Châtillon ai pellegrini musulmani scandalizzò i suoi correligionari quasi quanto fece infuriare Saladino. Guglielmo di Tiro era pronto a rendere omaggio alla devozione di Nur ed-Din, pur non approvandone la religione. Scrittori musulmani si mostrarono spesso ammirati per il contegno cavalleresco dei franchi48. L’atmosfera dell’epoca è illustrata benissimo dalle memorie del principe munqidita Usama di Shaizar. Egli apparteneva a una modesta dinastia che viveva nel timore costante di venire assorbita

da correligionari più potenti ed era perciò disposta a scendere a patti con i franchi. Usama stesso trascorse molti anni alle corti di Damasco e del Cairo quando entrambe mantenevano stretti rapporti diplomatici con Gerusalemme. In qualità di inviato, di turista e di sportivo egli visitò spesso i paesi dei franchi e, sebbene nello scrivere li votasse tutti quanti piamente alla perdizione, aveva tuttavia molti amici franchi con i quali si dilettava a conversare. Si scandalizzava per la loro medicina primitiva pur avendo appreso una cura sicura contro la scrofola, e si stupiva per l’indipendenza concessa alle loro donne; si sentì in imbarazzo allorché un conoscente franco gli offrì di inviare suo figlio in Europa occidentale per esservi educato. Li considerava un po’ rozzi e si faceva beffe di loro assieme ai suoi amici cristiani indigeni, ma era pur sempre gente con cui si poteva giungere a un certo grado di comprensione. L’unico ostacolo all’amicizia era dato dai crociati appena arrivati dall’Occidente. Una volta mentre egli si trovava presso i templari a Gerusalemme e stava pregando, con il loro permesso, in un angolo della vecchia moschea di el-Aqsa, un cavaliere lo insultò grossolanamente, al che un altro templare si precipitò a spiegargli che il rozzo individuo era appena giunto dall’Europa e non sapeva ancora come stessero realmente le cose49. Di fatto l’immaturità degli immigranti venuti a combattere per la croce e decisi a non tollerare alcun indugio era l’elemento che rovinava continuamente la politica di «Outremer». Costoro avevano una posizione particolarmente forte nella Chiesa. Nessuno dei patriarchi latini di Gerusalemme durante il secolo XII era nato in Palestina, e tra i più alti dignitari ecclesiastici soltanto l’arcivescovo Guglielmo di Tiro, a cui venne rifiutata la carica di patriarca, era nato in Palestina. L’influenza della Chiesa si esercitava di rado a favore di un’intesa con gli infedeli, ed era ancor più disastrosa nei rapporti con i cristiani indigeni. Costoro avevano grande influenza nelle corti musulmane: molti dei più famosi scrittori e filosofi arabi e quasi tutti i medici erano cristiani. Essi avrebbero potuto costituire un ponte tra il mondo orientale e quello occidentale. Le comunità ortodosse della Palestina avevano accettato la gerarchia latina perché al tempo della conquista il loro proprio clero di grado superiore era tutto quanto in esilio. Il patriarca Daimberto aveva tentato di allontanare il loro clero dalle posizioni che occupava al Santo Sepolcro, ma strani avvenimenti successi durante la cerimonia del Sacro Fuoco nel 1101 e l’influenza del re avevano fatto tornare al tempio i canonici greci e avevano permesso la celebrazione del rito ortodosso. La corona si mostrò sempre animata da sentimenti amichevoli verso gli ortodossi: Morphia, consorte di Baldovino II e madre di Melisenda, era una principessa ortodossa, e parimenti lo furono le mogli dei due figli di quest’ultima. L’abate di San Saba, il più importante ecclesiastico ortodosso rimasto in Palestina, venne trattato con ogni onore da Baldovino I e Melisenda donò delle terre all’abbazia, la quale doveva probabilmente prestare qualche servizio alla corona. L’imperatore Manuele poté conservare un interesse protettivo sui suoi correligionari e ne danno testimonianza le riparazioni che fece fare nelle due grandi chiese del Santo Sepolcro e della Natività. Il monastero di Santo Eutimio, nel deserto di Giudea, venne ricostruito e rimesso a nuovo circa in quella stessa epoca, forse con il suo aiuto. Ma i rapporti tra il clero latino e quello greco non divennero affatto più cordiali. Il pellegrino russo Daniele ricevette ospitale accoglienza in diversi monasteri latini nel 1104, ma il pellegrino greco Foca, pur visitando nel 1184 delle istituzioni latine non provava alcuna simpatia per i latini stessi, ad eccezione di un eremita spagnolo che era vissuto per un certo tempo in Anatolia; egli narra con gran soddisfazione come un certo miracolo avesse fatto cadere nella confusione l’ecclesiastico latino che egli chiama l’«intruso» vescovo di Lydda. È probabile che il tentativo della gerarchia cattolica di costringere gli ortodossi al pagamento della dime, unito al risentimento provocato dal fatto che il loro rito era raramente ammesso nelle grandi chiese della loro fede, facesse scemare la simpatia degli ortodossi per il governo franco e, una volta terminata la protezione

di Manuele, li rendesse propensi ad accettare e persino ad accogliere con gioia la riconquista di Saladino. Ad Antiochia la presenza di una forte comunità greca e gli sviluppi della situazione politica avevano prodotto aperta ostilità fra greci e latini, dalla quale derivò un grave indebolimento del principato50. Le sette eretiche erano poco numerose nel territorio del regno all’infuori di Gerusalemme dove quasi tutte avevano qualche fondazione presso il Santo Sepolcro. Daimberto aveva tentato di cacciare anche loro, ma senza successo, poiché la corona proteggeva i loro diritti, al punto che la regina Melisenda concesse il suo appoggio personale ai giacobiti siriani quando si trovarono coinvolti in una causa contro un cavaliere franco51. Nella contea di Tripoli la principale chiesa eretica era quella dei maroniti, i superstiti seguaci della dottrina monotelita. Verso di loro la Chiesa occidentale si comportò con raro tatto e tolleranza e intorno al 1180 essi accettarono di riconoscere la supremazia della sede romana, a condizione di poter conservare la liturgia siriaca e le proprie tradizioni; non rinunciarono neppure alla loro dottrina eretica relativa alla presenza di un’unica volontà in Cristo. Le trattative, di cui sappiamo troppo poco, vennero probabilmente condotte dal patriarca Aimery di Antiochia. L’ammissione di questa prima Chiesa uniate mostra come il papato fosse disposto a permettere usi liturgici diversi e persino una teologia discutibile, purché gli venisse riconosciuta la suprema autorità52. Nel principato di Antiochia la Chiesa dissidente armena era potente e veniva incoraggiata dai principi che trovavano utile contrapporla agli ortodossi, mentre a Edessa gli armeni, sebbene considerati infidi da Baldovino I e Baldovino II, godevano dell’amicizia della casa di Courtenay. Molti vescovi armeni giunsero a riconoscere la supremazia papale ed alcuni parteciparono a sinodi della Chiesa latina, perdonando alle dottrine latine ciò che consideravano imperdonabile in quelle greche. I giacobiti siriani furono dapprima apertamente ostili ai crociati e preferivano il governo musulmano, ma, dopo la caduta di Edessa, si riconciliarono con il principe di Antiochia, in teoria a causa di un miracolo avvenuto sulla tomba di San Barsauma, ma in realtà per il timore e l’odio che avevano in comune contro Bisanzio. Il patriarca giacobita Michele, uno dei grandi storici del suo tempo, era amico del patriarca Aimery e gli rese una visita cordiale a Gerusalemme. Nessuna delle altre Chiese eretiche aveva qualche importanza negli Stati franchi53. I sudditi musulmani dei franchi accettavano tranquillamente i loro padroni di cui riconoscevano l’equità dell’amministrazione, ma non ci si poteva ovviamente fidare di loro quando le cose si mettevano male per i cristiani. Gli ebrei avevano buone ragioni per preferire il governo degli arabi che li trattarono sempre con onestà e cortesia, se pure con un certo disprezzo54. Per il pellegrino medievale proveniente dall’Occidente «Outremer» era scandalosa a motivo del lusso e della licenza che vi regnavano, mentre invece lo storico moderno si dispiace piuttosto per l’intolleranza e la disonorante crudeltà dei crociati; eppure entrambi gli aspetti trovano la loro spiegazione nell’atmosfera che regnava nel paese: la vita dei coloni franchi era scomoda e incerta, essi si trovavano in una regione dove l’intrigo e l’assassinio erano all’ordine del giorno e dove i nemici si tenevano in agguato al di là delle frontiere assai vicine; nessuno sapeva se non stava per toccargli una pugnalata da parte di qualche adepto degli assassini o un veleno dai suoi propri servitori; erano molto diffuse misteriose malattie di cui sapevano pochissimo ed anche con l’aiuto dei medici indigeni nessuno dei franchi viveva a lungo in Oriente. Le donne erano più fortunate degli uomini: evitavano i pericoli delle battaglie e, grazie alle maggiori conoscenze mediche locali i parti erano meno pericolosi che in Occidente. Ma la mortalità infantile era elevata, specialmente tra i

maschi. Uno dopo l’altro i feudi cadevano nelle mani di qualche ereditiera le cui sostanze potevano attirare coraggiosi avventurieri dall’Occidente, ma troppo spesso nell’ora della crisi i grandi possedimenti erano privi di un signore, e ogni matrimonio era motivo di dispute e di complotti. I matrimoni erano spesso sterili: molti dei più forti guerrieri non poterono generare figli. Le unioni tra le poche famiglie nobili esistenti accrescevano le rivalità personali; i feudi venivano ricongiunti o divisi senza tenere conto della convenienza geografica. C’erano liti perpetue tra i parenti più prossimi. La struttura sociale che i franchi avevano importato dall’Occidente esigeva una regolare successione ereditaria e il mantenimento del potenziale umano. Il declino fisico dell’elemento umano era pieno di pericoli: la paura li rendeva brutali e sleali e l’insicurezza incoraggiava il loro amore per i frivoli divertimenti. A misura che s’indeboliva il loro possesso del paese tornei e imprese cavalleresche diventavano più lussuosi. Viaggiatori di passaggio e indigeni inorridivano del pari per lo spettacolo di sperpero e d’immoralità che vedevano tutt’intorno mentre il maggior responsabile dello scandalo era il patriarca Eraclio55. Ma un visitatore saggio avrebbe capito che non tutto andava bene dietro la splendida facciata. Il re, con tutte le sue sete e oro, mancava spesso del denaro per pagare i soldati; gli orgogliosi templari che contavano le loro ricchezze potevano esser chiamati in qualsiasi momento a battaglie assai più aspre di quelle combattute in Occidente. Ai gaudenti, come successe agli invitati a nozze di Kerak nel 1183, poteva capitare di alzarsi da tavola per udire i mangani degli infedeli bersagliare le mura del castello. L’apparenza allegra e briosa della vita d’«Outremer» nascondeva a stento l’ansietà, l’incertezza e la paura; e un osservatore aveva ben ragione di domandarsi se, anche sotto il migliore dei sovrani, l’avventura avrebbe potuto durare a lungo.

Capitolo secondo L’ascesa di Nur ed-Din

... egli uscì fuori da vincitore, e per vincere. Apocalisse, VI, 2 Raimondo di Antiochia aveva avuto ragione di esortare i capi della seconda crociata a marciare contro Aleppo: il fatto di non essere riuscito a convincerli gli costò la vita. Il più importante nemico della cristianità era Nur ed-Din, ma nel 1147 un grande esercito avrebbe potuto schiacciarlo. Egli era padrone di Aleppo e di Edessa, però Unur di Damasco e i piccoli emiri indipendenti della valle dell’Oronte non erano disposti ad accorrere in suo soccorso, ed egli non avrebbe potuto contare neppure sull’aiuto di suo fratello Saif ed-Din di Mosul, che aveva preoccupazioni per conto suo in Iraq. Tuttavia la stoltezza dei crociati spinse Unur ad allearsi con lui finché durava il pericolo, inoltre l’occasione offertagli di intervenire nelle faccende di Tripoli gli permise di rafforzare il suo dominio sulla Siria centrale. Raimondo aveva tutte le ragioni di non volere unirsi alla crociata; né lui né Jocelin di Edessa potevano permettersi di lasciare le loro terre esposte alla minaccia di Nur ed-Din. Persino quando i crociati investivano Damasco le truppe di Aleppo razziavano il territorio cristiano. Alzando una bandiera bianca, il conte Jocelin andò di persona all’accampamento di Nur ed-Din per implorare clemenza, ma non ottenne altro che una tregua temporanea1. Nel frattempo, il sultano di Konya, Masud, in pace con Bisanzio, trasse vantaggio della sconfitta dei franchi per attaccare Marash. Raimondo si preparò ad affrontarlo, perciò Masud mandò a chiedere a Nur ed-Din di fare una diversione; ma Raimondo, con l’alleanza di un curdo (Ali ibn Wafa, capo degli assassini, che odiava l’emiro di Aleppo molto più dei cristiani), nel novembre del 1148 sorprese Nur ed-Din a Famiya, sulla strada da Antiochia a Marash, intento a spostarsi rapidamente attraverso i villaggi nella pianura dell’Aswad. Due dei principali luogotenenti di Nur ed-Din, il curdo Shirkuh e il notabile di Aleppo Ibn ed-Daya, avevano litigato: il primo si rifiutò di partecipare alla battaglia e l’intero esercito musulmano fu costretto a compiere una precipitosa e ignominiosa ritirata. La primavera seguente Nur ed-Din invase di nuovo il paese e sconfisse Raimondo a Baghras, vicino al precedente campo di battaglia. Poi si diresse verso sud per assediare la fortezza di Inab, una delle poche piazzeforti rimaste ai cristiani a oriente dell’Orante. Raimondo accorse in suo aiuto con un piccolo esercito e pochi alleati assassini agli ordini di Ali ibn Wafa, e Nur ed-Din, mal informato sull’effettiva consistenza delle forze avversarie, si ritirò. In realtà l’esercito musulmano, forte di seimila cavalli, era superiore a quello franco che disponeva di quattromila cavalli e mille fanti. Malgrado il parere contrario di Ali, Raimondo decise allora di rinforzare la guarnigione di Inab, ma l’emiro era ormai consapevole della debolezza dell’avversario. Il 28 giugno 1149 l’esercito cristiano si accampò in una depressione vicino alla Fontana di Murad, nella pianura tra Inab e la palude di Ghab. Durante la notte le truppe di Nur ed-Din avanzarono surrettiziamente e li circondarono; la mattina seguente Raimondo comprese che l’unica via di scampo che gli rimaneva era di aprirsi un varco caricando. Ma il terreno non gli era favorevole, inoltre si alzò un vento che gettò della polvere negli occhi dei suoi cavalieri mentre spingevano i loro cavalli su per il pendio: in poche ore il suo esercito venne annientato. Tra i caduti c’erano Rinaldo di Marash e il capo assassino Ali; Raimondo stesso peri per mano di Shirkuh che si riguadagnò cosi il favore del suo padrone che aveva perso a Famiya. Il

teschio del principe, incastonato in un astuccio d’argento, venne inviato in dono da Nur ed-Din al suo capo spirituale, il califfo di Bagdad2. Jocelin di Edessa, che godeva di un’inquieta tregua con i musulmani, si era rifiutato di collaborare con il suo antico rivale Raimondo, ma il suo turno giunse poco dopo. Nur ed-Din attraversò il territorio antiocheno e completò il suo dominio sul medio Oronte conquistando Arzghan e Tel-Kashfahan, poi sottomise le guarnigioni di Artah e di Harenc situate più a nord, infine si volse verso occidente per comparire davanti alle mura di Antiochia stessa e condurre incursioni fino a San Simeone3. Jocelin non fece alcun tentativo di soccorrere i suoi compatrioti franchi, ma marciò su Marash nella speranza di ottenere l’eredità di Rinaldo, che era suo genero. Entrò nella città, ma se ne ritirò subito all’avvicinarsi del sultano Mastici; la guarnigione che lasciò dietro di sé si arrese al selgiuchida dopo averne ricevuto la promessa di vita salva per i cristiani, ma mentre essi e gli ecclesiastici si dirigevano verso Antiochia vennero tutti quanti massacrati. Masud inseguì Jocelin fin nelle vicinanze di Turbessel; ma stavano avvicinandosi rinforzi cristiani e Nur ed-Din non desiderava che Jocelin, che era ancora suo vassallo, perdesse le sue terre a favore dei Selgiuchidi, perciò Masud trovò che era buona politica ritirarsi. In seguito, gli Ortoqidi dello Jezireh, arginati a sud da Nur ed-Din e dai suoi fratelli, tentarono di espandersi lungo l’Eufrate a spese degli armeni di Gargar che erano stati tributari di Rinaldo; Jocelin sprecò invano le sue energie inviando degli aiuti a Basilio di Gargar. L’ortoqida Kara Arslan occupò l’intero distretto di Gargar e Kharpurt, con gran soddisfazione dei cristiani giacobiti che preferivano di gran lunga il suo governo a quello di Rinaldo, cosi nettamente favorevole agli armeni e avverso ai giacobiti4. Nell’inverno del 1149 Nur ed-Din ruppe i rapporti con Jocelin: i suoi primi attacchi non ebbero successo, ma nell’aprile del 1150, mentre il conte si stava dirigendo a cavallo verso Antiochia per consultarsi con quel governo, rimase separato dalla sua scorta e cadde nelle mani di alcuni briganti turcomanni. Essi erano disposti a rilasciarlo dietro pagamento di un forte riscatto, ma Nur ed-Din informato della sua cattura inviò uno squadrone di cavalleria a prenderlo in consegna da quelli che lo avevano catturato. Egli venne accecato e imprigionato ad Aleppo, dove morì nove anni più tardi, nel 11595. Cosi, nell’estate del 1150, sia il principato di Antiochia che i resti della contea di Edessa avevano perduto i loro feudatari, ma Nur ed-Din non osò spingersi oltre. Quando la notizia della morte del principe Raimondo giunse ad Antiochia, il patriarca Aimery pose la città in stato di difesa e inviò in tutta fretta dei messaggeri al sud per chiedere a re Baldovino di accorrere in suo aiuto. Egli ottenne poi una breve tregua da Nur ed-Din, in cambio della promessa di consegnargli Antiochia se Baldovino non fosse venuto. L’accordo conveniva a Nur ed-Din che temeva di impegnarsi nell’assedio della città e frattanto si trovava in condizione di conquistare Apamea, l’ultima fortezza antiochena nella valle dell’Oronte. Re Baldovino si precipitò verso nord con una piccola compagnia formata in maggior parte da cavalieri templari. La sua comparsa indusse Nur ed-Din ad accettare una tregua più prolungata e servi a trattenere Masud dall’attaccare Turbessel. Ma sebbene Antiochia fosse salva, il principato era ormai ridotto alla sola pianura circostante la città e alla costa da Alessandretta a Lattakieh6. Bisognava ancora ridare un governo ai due territori privi di feudatario. Al tempo della cattura di Jocelin, Nur ed-Din aveva attaccato Turbessel, ma la contessa Beatrice aveva opposto una difesa cosi energica che egli si era ritirato, tuttavia era evidente che Turbessel non poteva essere tenuta. Era affollata di profughi franchi e armeni giunti dai distretti rimasti fuori dei confini, i cristiani giacobiti erano apertamente sleali, e tutta la regione era separata da Antiochia dai territori conquistati da Nur ed-Din. La contessa stava preparandosi ad abbandonare le sue terre quando le giunse un messaggio

dell’imperatore Manuele. Egli si rendeva conto della situazione e offriva di acquistare da lei tutto ciò che rimaneva della contea. Com’era suo dovere, Beatrice riferì l’offerta a re Baldovino che si trovava ad Antiochia. I signori del regno che l’avevano accompagnato e i nobili del principato discussero la questione: erano riluttanti a consegnare una parte di territorio a un odiato greco, ma decisero che, se non altro, sarebbe stata ormai colpa dell’imperatore se quei luoghi erano perduti per la cristianità. Il governatore bizantino della Ci-licia, Tommaso, portò ad Antiochia, alla contessa, dei sacchi d’oro - non ci è stato tramandato quanti - e in cambio ella consegnò ai soldati di lui le sei fortezze di Turbessel, Ravendel, Samosata, Aintab, Duluk e Birejik. L’esercito del re accompagnò nel loro viaggio le guarnigioni bizantine e al ritorno scortò tutti i profughi franchi e armeni che diffidavano del governo bizantino e preferivano la maggior sicurezza di Antiochia. La contessa escluse dalla vendita una delle fortezze, Ranculat o Rum Kalaat, sull’Eufrate vicino a Samosata, e la diede al catholicus armeno che ne fece la propria residenza, sotto la sovranità turca per un secolo e mezzo. Nur ed-Din tentò di attaccare di sorpresa ad Aintab, l’esercito reale e i profughi durante il viaggio di ritorno, ma l’ottima organizzazione predisposta dal re li salvò. I suoi più importanti baroni, Honfroi di Toron e Roberto di Sourdeval, lo implorarono invano di permetter loro di occupare Aintab in suo nome: egli volle mantener fede al contratto stipulato con l’imperatore7. Non è molto chiaro il motivo per cui Manuele volle concludere quest’affare. I franchi credettero che, nel suo orgoglio, egli pensasse di poter tenere le fortezze, ma è poco verosimile che fosse cosi imperfettamente informato. Piuttosto, egli guardava più lontano e sperava di poter venire in Siria con grandi forze entro un tempo non troppo lungo: se anche le avesse perdute ora, avrebbe potuto riconquistarle più tardi e il suo diritto sarebbe stato indiscutibile. In realtà egli le perse in meno di un anno, a beneficio di Nur ed-Din e del selgiuchida Masud che avevano fatto alleanza. Questa era stata stipulata all’indomani della cattura di Jocelin ed era stata suggellata dal matrimonio di Nur ed-Din con la figlia di Masud. Turbessel doveva essere la dote di lei, ma il selgiuchida non si era unito a suo genero nell’attacco contro Beatrice, accontentandosi di conquistare Kaisun e Behesni, nella parte settentrionale della contea, e di farne dono a suo figlio Kilij Arslan. Ma nella primavera del 1151 egli e Nur ed-Din attaccarono entrambi le guarnigioni bizantine, mentre gli Ortoqidi si precipitavano anch’essi per prendere la loro parte: Aintab e Duluk caddero nelle mani di Masud, Samosata e Birejik in quelle dell’ortoqida Timurtash di Mardin e Ravendel in quelle di Nur ed-Din; a Turbessel i bizantini resistettero per un certo tempo, ma vennero presi per fame e, nel luglio del 1151, si arresero al luogotenente di quest’ultimo, Hasan di Menbij8. Cosi era sparito ogni residuo della contea di Edessa. La contessa Beatrice si ritirò a Gerusalemme con i suoi figli Jocelin e Agnese i quali, nel futuro, avrebbero avuto una parte disastrosa nell’affrettare la rovina del regno9. Edessa non c’era più, ma Antiochia restava: la morte di Raimondo lasciava la principessa Costanza vedova, con quattro bambini in tenera età. Il trono le apparteneva di diritto, ma tutti pensavano che in tempi simili doveva governare un uomo. Alla morte del padre, il figlio maggiore, Boemondo III, aveva cinque anni e finché non fosse diventato maggiorenne era necessario un reggente. Il patriarca Aimery aveva assunto il governo al momento della crisi, ma la pubblica opinione dei laici detestava l’idea di una reggenza ecclesiastica. Era evidente che la giovane principessa doveva risposarsi; intanto, il reggente adatto era suo cugino, re Baldovino, che poteva agire in qualità di più prossimo parente maschio piuttosto che come sovrano. Alla notizia della morte di Raimondo, Baldovino si era precipitato ad Antiochia e aveva affrontato la situazione con una saggezza rara in un ragazzo di diciannove anni, mentre la sua autorità veniva riconosciuta da tutti. Egli tornò al principio dell’estate del 1150 per suggellare con la propria autorità la vendita delle terre della contessa Beatrice, ma aveva troppi motivi di preoccupazioni nel sud per desiderare di

assumersi la responsabilità anche di Antiochia, Esortò Costanza, che aveva soltanto ventidue anni, a scegliersi un altro marito ed egli stesso le propose una rosa di tre candidati: primo, Yves di Nesle, conte di Soissons, un ricco nobile francese che era venuto in Palestina nella scia della seconda crociata ed era disposto a rimanervi; secondo, Gualtiero di Falconberg, della famiglia di Saint-Omer, che in passato era stato signore di Galilea e, terzo, Rodolfo di Merle, un coraggioso barone della contea di Tripoli. Ma Costanza non volle nessuno dei tre e Baldovino dovette tornare a Gerusalemme lasciandola ad occuparsi del governo10. Irritata per le insistenze del suo giovane cugino, Costanza cambiò subito politica e inviò un’ambasceria a Costantinopoli per chiedere all’imperatore Manuele, quale suo sovrano, di sceglierle uno sposo11. Manuele si dimostrò ansioso di esaudire i suoi desideri. L’influenza bizantina stava declinando lungo la frontiera sud-orientale dell’Impero. Intorno all’anno 1143 il principe armeno Thoros della Rupenia era fuggito da Costantinopoli e si era rifugiato alla corte di suo cugino Jocelin II di Edessa. Quivi aveva radunato una compagnia di compatrioti con i quali aveva riconquistato il castello avito di Vahka, nella zona orientale delle montagne del Tauro. Due dei suoi fratelli, Stefano e Mleh, lo avevano raggiunto ed egli aveva stretto amicizia con un signore franco, Simone di Raban, suo vicino, di cui aveva sposato la figlia. Nel 1151, mentre i bizantini erano distratti dall’attacco musulmano contro Turbessel, egli si era lanciato nella pianura della Cilicia e aveva sconfitto e trucidato alle porte di Mamistra il governatore bizantino, Tommaso. Manuele mandò subito suo cugino Andronico, con un esercito, per riconquistare il territorio che era stato perduto a vantaggio di Thoros; ed ora giungeva, in modo tempestivo, l’occasione di collocare sul trono di Antiochia un suo proprio candidato. Nessuno dei due progetti ebbe fortuna. Andronico Comneno era il più brillante e affascinante membro della sua intelligentissima famiglia, ma era avventato e negligente. Mentre si trovava in marcia per assediare Thoros a Mamistra, gli armeni fecero una sortita improvvisa e lo colsero di sorpresa: il suo esercito venne sbaragliato ed egli fuggì disonorato verso Costantinopoli. Nello scegliere un marito per Costanza, Manuele dimostrò maggiore ingenuità che buon senso; inviò suo cognato, il cesare Giovanni Ruggero, vedovo della sua prediletta sorella Maria. Questi era normanno di nascita, ma, sebbene una volta avesse ordito un complotto per impadronirsi del trono imperiale, era ormai un sicuro e fidato amico dell’imperatore, il quale sapeva di poter contare sulla sua lealtà e sperava che la sua nascita latina lo avrebbe reso gradito alla nobiltà franca. Ma aveva dimenticato proprio Costanza! Giovanni Ruggero era decisamente di mezza età e aveva perduto tutto il fascino giovanile; la giovane principessa, il cui primo marito era stato famoso per la bellezza, non volle prendere in considerazione un consorte cosi poco romantico e ordinò al cesare di tornare dall’imperatore. Sarebbe stato meglio se Manuele avesse inviato Andronico ad Antiochia e Giovanni Ruggero a combattere in Cilicia12. Re Baldovino avrebbe accettato con piacere qualunque marito, si può dire, per sua cugina, poiché di recente gli era stata imposta una nuova responsabilità. La vita coniugale del conte Raimondo II di Tripoli e di sua moglie Hodierna di Gerusalemme non era del tutto felice. La contessa, come le sue sorelle Melisenda e Alice, era vivace e ostinata e circolavano chiacchiere sulla legittimità di sua figlia Melisenda. Raimondo, appassionato e geloso, tentò di tenerla in uno stato di clausura orientale. Al principio del 1152 essi erano in cosi cattivi rapporti che la regina Melisenda pensò fosse suo dovere intervenire e, insieme con il re suo figlio, venne a Tripoli per tentare una riconciliazione. Baldovino approfittò dell’occasione per convocare Costanza a Tripoli, dove le due zie la rimproverarono per la sua ostinata vedovanza; ma, forse per il fatto che nessuna delle due aveva avuto un brillante successo nella vita coniugale, le loro prediche risultarono inutili: Costanza tornò

ad Antiochia senza promettere nulla. Con Raimondo ed Hodierna la regina ebbe maggior fortuna; essi acconsentirono a comporre il loro litigio, ma si ritenne opportuno che la contessa si prendesse una lunga vacanza a Gerusalemme. Baldovino decise di trattenersi a Tripoli per un certo tempo poiché circolava voce che Nur ed-Din si preparasse ad attaccare la contea. La regina e sua sorella si incamminarono per la strada in direzione sud e il conte le scortò per circa un miglio. Mentre egli riattraversava a cavallo la porta meridionale della sua capitale una banda di assassini gli saltò addosso e lo pugnalò a morte. Rodolfo di Merle e un altro cavaliere, che si trovavano con lui, tentarono di difenderlo, ma perirono anch’essi. Tutto accadde cosi rapidamente che la sua guardia non poté catturare i criminali. Il re stava giocando a dadi nel castello quando delle urla si levarono dalla città sottostante; la guarnigione si precipitò alle armi e si riversò per le vie, trucidando tutti i musulmani che incontrava. Ma gli assassini riuscirono a fuggire e non si conobbe mai il motivo del loro gesto13. Vennero inviati dei messaggeri per riaccompagnare indietro la regina e la contessa, e Hodierna assunse la reggenza in nome del suo dodicenne figliolo, Raimondo III. Ma, come ad Antiochia, era necessario un uomo quale tutore del governo, e Baldovino, in qualità di più stretto parente di sesso maschile, fu costretto ad assumere la tutela. Nur ed-Din fece immediatamente un’incursione, spingendosi fino a Tortosa, che le sue truppe occuparono per un certo tempo; ne vennero ben presto ricacciate e Baldovino, con il consenso di Hodierna, consegnò Tortosa ai cavalieri del Tempio14. Baldovino era contento di poter tornare a Gerusalemme. La regina Melisenda, forte del suo diritto ereditario, non desiderava trasmettere il potere a suo figlio, ma egli aveva ormai più di ventidue anni e la pubblica opinione esigeva la sua incoronazione quale governante adulto. Perciò la regina prese accordi con il patriarca Fulcherio per essere di nuovo incoronata al suo fianco, affinché venisse esplicitamente riconosciuta anche la autorità di lei. L’incoronazione doveva aver luogo la domenica di Pasqua, 30 marzo, ma Baldovino la rimandò. Poi, il martedì, mentre sua madre non sospettava di nulla, entrò con una scorta di cavalieri nella chiesa del Santo Sepolcro e costrinse l’adirato patriarca a incoronare lui solo. Fu il segnale per un’aperta rottura. La regina aveva molti amici: Manasse di Hierges, suo protetto, era ancora conestabile e la sua famiglia era imparentata con il grande clan degli Ibelin, che controllava la pianura filistea, e molti nobili della Palestina meridionale appartenevano al partito di lui. Si noti che quando Baldovino andò ad Antiochia nel 1149, pochi della nobiltà vollero accompagnarlo in una spedizione in cui la regina non aveva interesse. Gli amici del re provenivano dal nord ed erano capeggiati da Honfroi di Toron e da Guglielmo di Falconberg, le cui proprietà si trovavano in Galilea. Baldovino non osò ricorrere alla forza, ma convocò un grande consiglio del reame davanti al quale difese i propri diritti. Grazie all’influenza del clero, egli fu costretto ad accettare un compromesso: avrebbe avuto la Galilea e il nord del regno, mentre Melisenda avrebbe conservato Gerusalemme e Nablus, cioè la Giudea e la Samaria; la costa poi, dove il giovane fratello del re, Amalrico, occupava la contea di Giaffa, si sarebbe trovata sotto la sovranità della regina. Era una soluzione impossibile e prima che fossero trascorsi molti mesi il re chiese a sua madre la cessione di Gerusalemme: senza di essa, affermò, egli non poteva intraprendere la difesa del regno. Dato che la potenza di Nur ed-Din cresceva di giorno in giorno, quest’argomento era persuasivo e persino i maggiori sostenitori della regina cominciarono ad abbandonare la sua causa. Ma ella tenne duro e fortificò Gerusalemme e Nablus contro suo figlio; sfortunatamente, il conestabile Manasse venne sorpreso e catturato dalle truppe del re nel suo castello di Mirabel, al limite della pianura costiera; gli venne risparmiata la vita in cambio della promessa di lasciare l’Oriente per sempre. In conseguenza di ciò, Nablus si arrese al re. Melisenda,

abbandonata dalla nobiltà laica ma appoggiata ancora dal patriarca, tentò di resistere in Gerusalemme dove, però, gli stessi cittadini le si ribellarono e la costrinsero a rinunciare alla lotta. Pochi giorni più tardi ella cedette la città a suo figlio. Egli non prese nessuna misura drastica contro la regina, poiché sembra che l’opinione dei giuristi sostenesse che il diritto, se non la convenienza, era dalla parte di lei. Le venne concesso di conservare Nablus e dintorni come suo doario e, sebbene si ritirasse dalla politica, ella conservò il patronato sulla Chiesa. Baldovino, ormai supremo reggitore laico, sostituì Manasse, quale conestabile, con il suo amico Honfroi di Toron15. Questi dissidi dinastici nelle famiglie regnanti franche erano riusciti molto graditi a Nur ed-Din, il quale, durante quegli anni, non si prese la briga di lanciare nessun serio attacco contro i cristiani, poiché doveva portare a termine un’impresa più urgente, la conquista di Damasco. Dopo il fallimento della seconda crociata, Unur di Damasco condusse per alcuni mesi una guerra saltuaria contro i franchi, ma il timore di Nur ed-Din lo indusse ad accettare volentieri le trattative di pace offerte da Gerusalemme. Nel maggio del 1149 venne concordata una tregua di due anni. Unur morì poco dopo, in agosto, e assunse il governo il nipote di Toghtekin, l’emiro burida Mujir ed-Din, per conto del quale Unur aveva governato16. La sua debolezza offrì a Nur ed-Din l’occasione propizia, ma egli non agi subito poiché in novembre era morto il proprio fratello Saif ed-Din e ne era seguita una ridistribuzione delle terre appartenenti alla famiglia. Il fratello minore, Qutb ed-Din, ereditò Mosul e il territorio che si trovava nell’Iraq, ma sembra che riconoscesse la sovranità di Nur ed-Din17. Nel marzo dell’anno seguente questi avanzò su Damasco, ma forti piogge ne rallentarono la marcia e diedero a Mujir ed-Din il tempo di chiedere aiuto a Gerusalemme. Perciò Nur ed-Din si ritirò, dopo aver ricevuto la promessa che il suo nome sarebbe stato menzionato sulle monete e nelle preghiere pubbliche a Damasco, dopo quelli del califfo e del sultano di Persia. Vennero cosi riconosciuti i suoi diritti a una generica sovranità18. Nel maggio del 1151 Nur ed-Din fece di nuovo la sua comparsa davanti a Damasco e di nuovo i franchi accorsero in aiuto della città minacciata. Dopo essere rimasto per un mese accampato vicino alle mura, egli si ritirò nei dintorni di Baalbek che era governata dal suo luogotenente Ayub, fratello di Shirkuh. Nel frattempo i franchi, al comando di re Baldovino, marciavano verso Damasco dove a molti di loro venne concesso di visitare i mercati entro le mura, mentre Mujir ed-Din rendeva una visita assai cordiale al re nell’accampamento cristiano. Ma gli alleati non erano abbastanza forti per lanciarsi all’inseguimento di Nur ed-Din e, invece, marciarono su Bosra, il cui emiro, Sarkhak, aveva accettato aiuto da Nur ed-Din in una rivolta contro Damasco. La spedizione non ottenne nulla, ma poco dopo Sarkhak, con la consueta volubilità dei principotti musulmani, fece amicizia con i franchi e Mujir ed-Din fu costretto a chiedere aiuto a Nur ed-Din per piegarlo all’obbedienza. Quando quest’ultimo si diresse di nuovo a nord, Mujir ed-Din lo seguì in una visita ad Aleppo, dove venne firmato un trattato d’amicizia19. Ma i damasceni rifiutavano ancora di rinunziare alla loro alleanza con i franchi. Nel dicembre del 1151 una banda di turcomanni, probabilmente agli ordini di Ayub, tentò di depredare Banyas; la guarnigione rispose con una scorreria nel territorio di Baalbek, che venne respinta da Ayub. Mujir ed-Din negò ansiosamente ogni responsabilità per la ripresa delle ostilità20. Egli si trovò maggiormente a disagio quando, nell’autunno del 1152, il principe ortoqida Timurtash di Mardin fece improvvisamente la sua comparsa con un esercito turcomanno che aveva condotto a marce forzate lungo il limite del deserto, e chiese il suo aiuto per un attacco di sorpresa contro Gerusalemme. Egli era stato probabilmente informato delle dispute tra Baldovino e Melisenda e pensava che un temerario assalto potesse avere successo. Mujir ed-Din scese a un compromesso

permettendogli di rifornirsi di viveri, ma cercò di dissuaderlo dal procedere oltre. Allora, Timurtash si lanciò al di là del Giordano e, mentre la nobiltà franca si trovava riunita a concilio a Nablus senza dubbio per sistemare la faccenda del doario di Melisenda, si accampò sul Monte degli Ulivi. Ma la guarnigione di Gerusalemme fece una sortita improvvisa contro i turcomanni i quali, vedendo che la sorpresa era fallita, si ritirarono verso il Giordano; quivi, sulla sponda del fiume, l’esercito del regno si gettò su di loro e ottenne una vittoria completa21. Durante i mesi seguenti l’attenzione sia dei cristiani che dei musulmani si rivolse all’Egitto. Il califfato fatimita sembrava sul punto di disintegrarsi completamente: da quando il visir al-Afdal era stato assassinato non s’era avuto nel paese un solo governante capace; il califfo al-Amir aveva regnato fino all’ottobre del n29, quand’era stato anch’egli assassinato, ma il governo effettivo si era trovato nelle mani di una serie di visir indegni. Il successore di ai-Amir, suo cugino al-Hafiz, mostrò un carattere più forte e cercò di liberarsi dalle pastoie del visirato designando a quella carica il proprio figlio Hasan. Ma questi si dimostrò infido e nel 1135 venne messo a morte per ordine di suo padre. Il successivo visir, Vahram, armeno di nascita, riempì l’amministrazione di suoi compatrioti, con l’unico risultato di provocare una violenta reazione nel 1137, quando per giorni interi nelle vie del Cairo scorse il sangue dei cristiani. E nemmeno con gli ultimi visir al-Hafiz fu più fortunato, sebbene riuscisse sia pure con difficoltà a conservare il trono fino alla morte, avvenuta nel 1149. Il regno di suo figlio al-Zafir cominciò con un’aperta guerra civile fra i suoi due massimi generali: Amir ibn Sallah vinse e diventò visir, ma venne assassinato anch’egli tre anni più tardi 22. Questa interminabile storia di intrighi e di sangue suscitò le speranze dei nemici dell’Egitto. Nel 1150 re Baldovino cominciò a riparare le fortificazioni di Gaza. Ascalona era ancora una fortezza fatimita e la sua guarnigione continuava a compiere frequenti scorrerie nel territorio cristiano: Gaza doveva essere la base per le operazioni militari contro Ascalona. Il visir Ibn Sallah ne fu allarmato. Tra i rifugiati presso la corte fatimita si trovava il principe munqidita Usama, che era stato un tempo al servizio di Zengi. Egli venne inviato presso Nur ed-Din, che in quel momento si trovava accampato davanti a Damasco, per chiedergli di compiere una diversione nella Galilea; intanto la flotta egiziana avrebbe condotto delle scorrerie nei porti di mare franchi. La missione non ebbe successo, Nur edDin aveva altre preoccupazioni. Nel suo viaggio di ritorno Usama si fermò per due anni ad Ascalona, per dirigere le operazioni contro i franchi del luogo, poi tornò in Egitto in tempo per assistere agli intrighi che seguirono l’assassinio di Ibn Sallah, avvenuto per mano del figlio del suo figliastro Abbas, con la connivenza del califfo23. Questo dramma, che seguiva da vicino il proprio trionfo sulla regina madre, decise re Baldovino ad attaccare Ascalona. Egli fece degli accurati preparativi e il 25 gennaio 1153 l’intero esercito del regno fece la sua comparsa davanti alle mura, con tutte le macchine d’assedio che il re aveva potuto radunare. Insieme al sovrano si trovavano i gran maestri dell’Ospedale e del Tempio, con i loro uomini migliori, i grandi feudatari laici del reame, il patriarca, gli arcivescovi di Tiro, Cesarea e Nazaret e i vescovi di Betlemme e di Acri. La reliquia della Vera Croce accompagnava il patriarca. Ascalona era una fortezza formidabile, che si stendeva dal mare in un ampio semicerchio, con le sue fortificazioni in ottime condizioni, e il governo egiziano si era sempre preoccupato di mantenerla ben provvista di armi e di viveri. Per alcuni mesi, l’esercito franco, sebbene fosse riuscito a bloccare completamente la città, non poté danneggiarne le mura. Le navi dei pellegrini che giungevano per le festività pasquali recavano rinforzi, i quali però vennero controbilanciati, in giugno, dall’arrivo di una flotta egiziana. I Fatimiti non osavano tentare di liberare Ascalona dalla terraferma, ma inviarono una squadra di settanta navi, cariche di uomini e di armi e di ogni specie di viveri. Gerardo di

Sidone, che comandava le venti galee che costituivano tutto ciò che i cristiani avevano potuto mettere insieme, non ebbe il coraggio di attaccarle e le navi egiziane penetrarono trionfalmente nel porto. I difensori si sentirono rianimati, ma le imbarcazioni se ne andarono di nuovo dopo essere state scaricate e l’assedio si trascinava. La più temibile delle macchine d’assedio franche era una grande torre di legno che sorpassava le mura e dalla quale si potevano lanciare nelle vie della città sassi e fascine incendiate. Una notte, verso la fine di luglio, alcuni uomini della guarnigione scivolarono fuori e le appiccarono il fuoco, ma si alzò il vento e la massa incendiata venne spinta contro le mura. L’intenso calore fece disintegrare il materiale delle mura e al mattino si era aperta una breccia. I templari, che presidiavano quel settore, decisero di prendere per sé tutto il merito della vittoria e, mentre alcuni dei loro soldati vigilavano per impedire agli altri cristiani di avvicinarsi, quaranta dei loro cavalieri penetrarono nella città. La guarnigione pensò dapprima che tutto fosse perduto, ma poi, accorgendosi di quanto pochi fossero i templari, si rivoltò con furore contro di loro e li trucidò. La breccia fu riparata in tutta fretta e i cadaveri dei templari vennero appesi sulle mura della città. Mentre veniva osservata una tregua per permettere ai contendenti di seppellire i morti, il re radunò un concilio nella sua tenda, davanti alla reliquia della Santa Croce. I nobili laici, scoraggiati dal disastro, volevano levare l’assedio, ma il patriarca e il gran maestro degli ospitalieri, Raimondo di Le Puy, persuasero il re a proseguirlo e la loro eloquenza convinse anche i baroni. Gli attacchi vennero lanciati con rinnovato vigore. Il 19 agosto, dopo un formidabile bombardamento della città, la guarnigione decise di arrendersi, a condizione che venisse concesso ai cittadini di andarsene sani e salvi con tutti i loro beni mobili. Baldovino accettò le condizioni e vi tenne fede lealmente. Mentre i musulmani, a fiotti, si rovesciavano fuori dalla città, per terra e per mare, per rifugiarsi in Egitto, i franchi entravano in gran pompa ed occupavano la cittadella, con le sue immense riserve di tesori e di armi. La signoria di Ascalona venne data al fratello del re, Amalrico, conte di Giaffa. La grande moschea diventò la cattedrale di San Paolo e il patriarca consacrò come vescovo uno dei suoi canonici, Absalom. Più tardi, il vescovo di Betlemme, Gerardo, riuscì ad ottenere un’ordinanza di Roma, secondo cui quella sede doveva dipendere dalla sua24. La conquista di Ascalona fu l’ultimo grande trionfo dei re di Gerusalemme e innalzò il loro prestigio a un’altezza straordinaria: l’aver vinto finalmente la città conosciuta come la Sposa di Siria fu un’impresa che ebbe grande risonanza, ma in realtà non arrecò alcun reale vantaggio. Sebbene la fortezza fosse stata la base per piccole scorrerie in territorio franco, ormai l’Egitto non minacciava più seriamente i cristiani; questi invece, con il possesso di Ascalona venivano attirati in pericolose avventure verso il Nilo. Forse per questa ragione Nur ed-Din, con la sua politica lungimirante, non aveva tentato di intervenire nella campagna, eccetto per una spedizione progettata contro Banyas, che egli aveva deciso con Mujir di Damasco e che non venne mai realizzata a causa dei litigi tra di loro. Egli non poteva rammaricarsi se l’Egitto veniva indebolito e se l’attenzione dei franchi si rivolgeva verso il sud. Mujir di Damasco si lasciava impressionare più facilmente: si affrettò ad assicurare Baldovino della sua fedele amicizia e acconsentì a pagargli un tributo annuo. Mentre i signori franchi viaggiavano e razziavano a loro piacimento in territorio damasceno, gli ambasciatori franchi giungevano nella città per raccogliere il denaro per il loro re25. Per Mujir e i suoi consiglieri, preoccupati della propria sicurezza personale, era preferibile un protettorato franco alla sorte che sarebbe loro toccata se Nur ed-Din fosse diventato loro padrone, ma per il semplice cittadino di Damasco l’insolenza dei cristiani era intollerabile: la dinastia burida si dimostrava traditrice della fede. Ayub, emiro di Baalbek, approfittò di questi sentimenti e inviò i

suoi agenti nella città a seminarvi malevolenza contro Mujir. Avvenne che in quel momento scarseggiassero i viveri in Damasco; perciò Nur ed-Din trattenne i convogli che trasportavano grano dal nord e gli agenti di Ayub sparsero la voce che questo succedeva per colpa di Mujir, poiché egli si era rifiutato di collaborare con i suoi correligionari musulmani. In seguito Nur ed-Din persuase Mujir che molti dei notabili damasceni stavano complottando contro di lui, e questi, colto dal panico, prese delle misure contro di loro. Quando Mujir ebbe perso cosi il favore sia dei ricchi che dei poveri, arrivò davanti a Damasco, come ambasciatore di Nur ed-Din, il fratello di Ayub, Shirkuh, ma si presentò pieno d’arroganza e con un seguito armato insolito per una missione amichevole. L’emiro non volle lasciarlo entrare in città né volle uscirne per andargli incontro. Nur ed-Din prese tale atteggiamento come un affronto fatto al suo ambasciatore e avanzò su Damasco con un grosso esercito. Il disperato appello di Mujir ai franchi venne inviato troppo tardi: il 18 aprile 1134 Nur edDin si accampava davanti alle mura ed esattamente una settimana più tardi, dopo una breve scaramuccia vicino al muro orientale, una donna ebrea faceva entrare alcuni soldati nel quartiere ebraico e immediatamente il popolino apriva la porta orientale al grosso dell’esercito. Mujir fuggì nella cittadella, ma capitolò poche ore dopo; gli venne offerta salva la vita e l’emirato di Homs, però, poche settimane più tardi, fu sospettato di complottare con vecchi amici di Damasco e cacciato da Homs. Egli rifiutò l’offerta della città di Balis, sull’Eufrate, e si ritirò a Bagdad. Nel frattempo i cittadini di Damasco ricevevano Nur ed-Din con grandi dimostrazioni di gioia; egli proibì alle sue truppe di darsi al saccheggio, riempì subito i mercati di viveri e abolì la tassa sulla frutta e verdura. Quando fece ritorno ad Aleppo, affidò Damasco ad Ayub, mentre Baalbek venne data a un nobile locale, Dhahak, che più tardi organizzò contro Nur ed-Din una rivolta che dovette essere soffocata26. La conquista di Damasco da parte di Nur ed-Din superò di gran lunga, per importanza, quella di Ascalona da parte di Baldovino: i suoi territori si estendevano ora lungo l’intera frontiera orientale degli Stati franchi, da Edessa all’Oltregiordano. Soltanto pochi, insignificanti emirati, come Shaizar, conservavano la loro indipendenza nella Siria musulmana. Sebbene i possedimenti dei latini avessero una superficie maggiore e fossero più ricchi di risorse, Nur ed-Din aveva il vantaggio dell’unione sotto un unico padrone che era molto meno ostacolato da vassalli arroganti di quanto non lo fossero i sovrani franchi. La sua stella era in ascesa, ma egli era troppo prudente per raccogliere affrettatamente i frutti del suo trionfo. Sembra che egli riaffermasse l’alleanza tra Damasco e Gerusalemme e che rinnovasse la tregua per altri due anni, nel 1156, facendo un versamento di ottomila ducati quale continuazione del tributo pagato da Mujir ed-Din. La sua tolleranza era dovuta soprattutto alla rivalità con i Selgiuchidi dell’Anatolia, a cui desiderava sottrarre quella parte dell’antica contea di Edessa che essi avevano occupato27. Il sultano Masud morì nel 1155 ed i suoi figli, Kilij Arslan II e Shahinshah, immediatamente litigarono sull’eredità. Il primo ottenne l’appoggio dei principi della dinastia di Danishmend, Dhul Nun di Cesarea e Dhul Qarnain di Melitene, e l’altro quello del maggiore dei Danishmend, YaghiSiyan di Sivas. Quest’ultimo chiese aiuto a Nur ed-Din e costui rispose prontamente attaccando e annettendosi le città edessene, Aintab, Duluk e probabilmente anche Samosata, che appartenevano ai Selgiuchidi. Kilij Arslan sconfisse suo fratello, ma, sebbene cercasse di costruire a poco a poco un’alleanza con gli armeni e con i franchi contro Nur ed-Din, venne costretto ad accettare la perdita della sua provincia dell’Eufrate28. Sicuro a nord, Nur ed-Din si volse di nuovo verso sud. Nel febbraio del 1157 Baldovino ruppe la tregua con il capo musulmano; fidando in essa, moltissimi turcomanni avevano condotto le loro

greggi e i loro cavalli a pascolare nei ricchi pascoli vicino alla frontiera di Banyas: re Baldovino, fortemente indebitato a causa del suo gusto per il lusso, non poté resistere alla tentazione di attaccare i pastori, che non sospettavano di nulla, e di svignarsela con il loro bestiame. Questa sfacciata violazione dei suoi impegni gli arrecò il più prezioso bottino che la Palestina avesse visto in molti decenni, ma suscitò la vendetta di Nur ed-Din. Mentre questi si tratteneva a Baalbek per sottomettere il suo emiro ribelle, il suo generale Shirkuh sconfisse alcuni predatori latini venuti dalla Buqaia e suo fratello Nasr ed-Din sbaragliò una compagnia degli ospitalieri vicino a Banyas. In maggio, Nur ed-Din stesso parti da Damasco per andare ad assediare quella città. Shirkuh sconfisse un piccolo esercito accorso ad aiutarlo e raggiunse il suo padrone davanti alle mura. La città bassa venne ben presto occupata, ma la cittadella, che si trovava due miglia lontano su una ripida montagna, resistette, agli ordini del conestabile Honfroi di Toron. Questi era sul punto di arrendersi quando giunse la notizia che il re si stava avvicinando. Nur ed-Din appiccò il fuoco alla città bassa e si ritirò, lasciando che Baldovino entrasse in Banyas e ne riparasse le mura. Mentre i franchi scendevano lungo il Giordano per tornare a sud, Nur ed-Din si gettò su di loro, poco a nord del Mare di Galilea, e ottenne una strepitosa vittoria. Il re riuscì a stento a rifugiarsi a Safed, e i musulmani poterono tornare ad assediare Banyas. Ma, pochi giorni più tardi, giunse dal nord la notizia di un attacco progettato da Kilij Arslan, e Nur ed-Din abbandonò il tentativo e si affrettò verso Aleppo29. Altri motivi facevano desiderare di evitare una guerra aperta in quel momento. Al principio dell’autunno del 1156 la Siria aveva subito una serie di terremoti: Damasco non era stata gravemente danneggiata, ma giungevano notizie di distruzioni da Aleppo e da Hama, mentre ad Apamea era crollato un bastione. In novembre e dicembre c’erano state altre scosse, per le quali aveva subito danni la cittadina di Shaizar. Cipro e le città costiere a nord di Tripoli vennero colpite durante la primavera seguente e nell’agosto del 1157 la valle dell’Oronte subì delle scosse ancor più gravi: molti perirono a Homs e ad Aleppo; a Hama i danni erano stati cosi terribili che il terremoto venne chiamato dai cronisti il terremoto di Hama. A Shaizar tutta la famiglia dei Munqiditi si trovava raccolta per celebrare la circoncisione di un giovane principe quando le enormi mura della cittadella erano crollate loro addosso; di tutta la dinastia sopravvissero soltanto la principessa di Shaizar, liberata dalle macerie, e Usama, che si trovava lontano, impegnato in missioni diplomatiche. Sia i musulmani che i franchi erano troppo occupati a riparare le loro fortezze sconvolte per pensare a serie spedizioni aggressive, almeno per un certo tempo30. Nell’ottobre del 1157, due mesi dopo il suo ritorno da Banyas, all’improvviso Nur ed-Din cadde gravemente ammalato. Sentendosi morire, egli insistette per essere trasportato in lettiga ad Aleppo, dove fece testamento: il fratello Nasr ed-Din doveva succedergli nei suoi Stati, mentre Shirkuh avrebbe governato Damasco sotto la sovranità di lui. Ma quando Nasr ed-Din entrò in Aleppo per essere pronto a prendere in consegna l’eredità, incontrò l’opposizione del governatore Ibn ed-Daya. Ci furono dei tumulti nelle vie che si acquetarono soltanto quando i notabili di Aleppo vennero convocati al capezzale del loro principe e videro che era ancora in vita. In realtà, la crisi era ormai passata ed egli cominciò lentamente a riprendersi. Ma sembrava che avesse perso una parte del suo spirito d’iniziativa e della sua energia e non fu più il guerriero invincibile di prima. In Siria stavano sorgendo altre forze, destinate a prendere il sopravvento sulla scena31.

Capitolo terzo Il ritorno dell’imperatore

E il re del settentrione arrolerà di nuovo una moltitudine più numerosa della prima; e in capo a un certo numero d’anni egli si farà avanti con un grosso esercito e con molto materiale. Daniele, XI, 13

Nel 1153, mentre l’attenzione di Nur ed-Din era rivolta a Damasco e mentre re Baldovino e il suo esercito si trovavano davanti ad Ascalona, la principessa di Antiochia decise il suo proprio destino. Fra i cavalieri che avevano seguito re Luigi di Francia nella seconda crociata c’era il figlio minore di Goffredo, conte di Gien e signore di Châtillon-sur-Loing. Rinaldo di Châtillon non aveva avvenire nel proprio paese, perciò, quando i crociati tornarono in patria, egli si fermò in Palestina, dove prese servizio sotto il giovane re Baldovino che accompagnò ad Antiochia nel 1151. La principessa vedova ben presto gli prestò attenzione e sembra che egli rimanesse nel principato di lei, senza dubbio in possesso di qualche piccolo feudo, ed era forse la sua presenza a indurla a rifiutare i mariti che le venivano proposti dal re e dall’imperatore. Nella primavera del 1153 ella decise di sposarlo, ma prima di render pubblica la sua intenzione chiese il permesso del re, poiché questi era tutore ufficiale del suo Stato e sovrano del suo sposo. Rinaldo si diresse in tutta fretta ad Ascalona, dove era appena stato impiantato l’accampamento del re, e consegnò il messaggio di Costanza. Baldovino, sapendo che Rinaldo era un soldato coraggioso e, soprattutto, soddisfatto di essere sollevato dalla responsabilità di Antiochia, non fece alcuna difficoltà. Appena lo sposo ritornò nel principato, si celebrò il matrimonio e Rinaldo fu insediato come principe; ma quest’unione non godeva del favore popolare, infatti non soltanto le grandi famiglie di Antiochia, ma anche i più umili sudditi della principessa pensavano che ella si era degradata dandosi a un individuo venuto dal nulla1. Sarebbe stato cortese e corretto da parte di Costanza di chiedere pure il permesso dell’imperatore Manuele. La notizia del matrimonio venne accolta sfavorevolmente a Costantinopoli, ma Manuele si trovava in quel momento impegnato in una campagna contro i Selgiuchidi e non poté esprimere in maniera concreta la propria collera. Consapevole dei propri diritti, egli inviò messaggeri ad Antiochia a offrire di riconoscere il nuovo principe se i franchi del principato avessero combattuto per lui contro l’armeno Thoros e promise un sussidio in denaro se il compito fosse stato eseguito a dovere. Rinaldo acconsentì volentieri. L’approvazione dell’imperatore rafforzava la sua posizione personale, inoltre gli armeni erano penetrati nel distretto di Alessandretta che i franchi reclamavano come parte del principato antiocheno. Dopo una breve battaglia vicino a quella città, egli ricacciò gli armeni in Cilicia e donò la regione riconquistata all’Ordine del Tempio, i cui cavalieri presero in consegna Alessandretta e per difenderne l’accesso ricostruirono i castelli di Gastun e di Baghras, che controllavano le Porte siriane. Rinaldo aveva ormai deciso di collaborare con i templari: aveva cosi inizio un’amicizia destinata a essere fatale per Gerusalemme2. Dopo essersi impadronito della regione che gli interessava, Rinaldo chiese all’imperatore i

sussidi promessi, ma Manuele li rifiutò, precisando che l’impresa maggiore non era ancora stata compiuta. Il principe allora cambiò politica: incoraggiato dai templari fece la pace con Thoros e con i suoi fratelli e mentre gli armeni attaccavano le poche fortezze bizantine che restavano in Cilicia, decise di condurre una spedizione contro la ricca isola di Cipro. Ma non aveva il denaro necessario per l’impresa. Il patriarca Aimery di Antiochia, invece, era molto ricco ed era stato assai esplicito nel manifestare la sua disapprovazione per il matrimonio di Costanza. Rinaldo decise di punirlo a proprio vantaggio personale. Aimery si era meritato il rispetto degli antiocheni per il coraggio e l’energia dimostrati nei tristi giorni che avevano seguito la morte del principe Raimondo, ma la sua mancanza d’istruzione e i costumi rilassati ne danneggiavano la riputazione e lo rendevano vulnerabile. Rinaldo gli chiese del denaro ed al suo rifiuto perse la testa e lo gettò in prigione, dove il prelato venne crudelmente battuto sulla testa. Poi gli spalmarono le ferite di miele e venne lasciato per un’intera giornata estiva sul tetto della cittadella, incatenato in pieno sole, preda di tutti gli insetti delle vicinanze. Il trattamento ottenne lo scopo: l’infelice patriarca si affrettò a pagare piuttosto che affrontare un’altra giornata di un simile tormento. Nel frattempo il racconto del fatto giungeva a Gerusalemme e il re Baldovino, inorridito, mandò subito il suo cancelliere Rodolfo e il vescovo di Acri a esigere l’immediata liberazione del patriarca. Rinaldo, che aveva ormai avuto il denaro, lo lasciò andare e Aimery accompagnò i suoi liberatori nel loro viaggio di ritorno a Gerusalemme; quivi egli venne accolto con i massimi onori dal re, dalla regina Melisenda e dal suo collega, il patriarca. Intanto non volle più tornare ad Antiochia3. L’esperienza del patriarca scandalizzò i circoli franchi rispettabili, ma Rinaldo rimase imperturbabile. Poteva ora attaccare Cipro, e infatti nella primavera del 1156 egli e Thoros sbarcarono improvvisamente nell’isola. Cipro era stata risparmiata dalle guerre e dalle invasioni che avevano sconvolto il continente asiatico nell’ultimo secolo ed era soddisfatta e prospera sotto i suoi governatori bizantini. Mezzo secolo prima, i rifornimenti di viveri inviati dai ciprioti erano stati molto utili per aiutare i franchi della prima crociata che stavano morendo di fame ad Antiochia; inoltre, eccetto per qualche occasionale disputa di carattere amministrativo, i rapporti tra i latini e il governo dell’isola erano stati amichevoli. Non appena informato del progetto di Rinaldo, re Baldovino inviò in tutta fretta un messaggio per avvertire gli isolani, ma era troppo tardi e non si poté farvi affluire in tempo dei rinforzi. Il governatore era il nipote dell’imperatore, Giovanni Comneno, e nell’isola con lui si trovava il valoroso e nobile soldato Michele Branas. Quando giunsero le notizie dello sbarco franco, Branas si precipitò verso la costa con le milizie isolane e vinse una prima, modesta battaglia. Ma gli invasori erano troppo numerosi: ben presto sopraffecero le sue truppe e lo catturarono, e quando Giovanni Comneno accorse in suo aiuto venne fatto anch’egli prigioniero. I franchi e gli armeni vittoriosi percorsero allora l’isola in lungo e in largo, depredando e saccheggiando tutti gli edifici che videro, chiese e conventi, negozi e case private. I raccolti vennero incendiati, le greggi radunate, insieme con tutta la popolazione, e condotte sulla costa; le donne furono violentate, i bambini e le persone troppo anziane per muoversi, vennero sgozzati. L’assassinio e la rapina furono praticati su cosi vasta scala da far invidia perfino agli unni o ai mongoli. L’incubo durò circa tre settimane poi, alla notizia che una flotta imperiale si trovava al largo, Rinaldo diede l’ordine di tornare a bordo: le navi vennero caricate di bottino; le mandrie e le greggi per cui non c’era più posto furono rivendute ai loro proprietari ad alto prezzo; ogni cipriota venne costretto a pagare una somma per riscattare se stesso, ma nell’isola non era rimasto denaro per quello scopo, perciò il governatore, Branas e i più importanti ecclesiastici, proprietari terrieri e mercanti, insieme con le loro famiglie al completo, vennero trasportati ad Antiochia per attendere in prigione che giungesse il denaro, tranne alcuni che furono mutilati e inviati per spregio a Costantinopoli4. L’isola

di Cipro non si riprese mai completamente dalle devastazioni subite ad opera dei francesi e dei loro alleati armeni. I terremoti del 1157, che Cipro furono violentissimi, completarono la distruzione, e nel 1158 gli egiziani, la cui flotta non aveva osato penetrare nelle acque cipriote per molti decenni, fecero alcune incursioni nell’isola indifesa; probabilmente ciò avvenne senza il permesso ufficiale del governo del califfo, poiché il fratello del governatore, che si trovava fra i prigionieri catturati in quelle circostanze, venne accolto onorevolmente al Cairo e rimandato immediatamente a Costantinopoli5. Thierry, conte di Fiandra, tornò in Palestina con una compagnia di cavalieri nel 11576, nell’autunno, Baldovino III decise di trarre profitto del suo arrivo e della malattia di Nur ed-Din per ristabilire le posizioni franche sul medio Oronte. Rinaldo si lasciò convincere a unirsi all’esercito reale per lanciare un assalto contro Shaizar. Dopo il disastroso terremoto dell’agosto, la cittadella era caduta nelle mani di una banda di avventurieri assassini. L’esercito cristiano vi giunse alla fine dell’anno: la città bassa cadde subito in loro possesso e sembrava che anche la semidistrutta cittadella stesse per arrendersi quando scoppiò una lite tra gli assedianti. Baldovino aveva promesso la città e il suo territorio a Thierry, come nucleo di un principato dipendente dalla corona, ma Rinaldo, con la scusa che i Munqiditi erano stati tributari di Antiochia, esigeva che Thierry gli rendesse omaggio. Per il conte era inaccettabile l’idea di rendere omaggio a un uomo di cosi bassa origine, perciò Baldovino poté risolvere la questione soltanto abbandonando il territorio conteso. L’esercito si diresse verso nord per occupare le rovine di Apamea, poi cinse d’assedio Harenc. Questa apparteneva innegabilmente ad Antiochia, ma Baldovino e Thierry erano disposti ad aiutare Rinaldo a riconquistarla per via della sua importanza strategica. Dopo un pesante bombardamento dei mangani, essa capitolò nel febbraio del 1158 e poco dopo venne assegnata a uno dei cavalieri di Thierry, Rinaldo di Saint-Valéry, che la occupò in qualità di vassallo del principe di Antiochia6. La condotta del principe non era stata molto soddisfacente, perciò il re decise di modificare la propria politica. Era al corrente dei cattivi rapporti esistenti tra Rinaldo e l’imperatore, il quale avrebbe difficilmente perdonato l’incursione contro Cipro, inoltre sapeva che l’esercito bizantino era ancora il più formidabile di tutta la cristianità. Nella primavera del 1157 aveva inviato a Costantinopoli un’ambasceria, guidata da Achard, arcivescovo di Nazaret (che morì in viaggio) e da Honfroi II di Toron, per chiedere in isposa una principessa appartenente alla famiglia imperiale. L’imperatore Manuele li accolse cordialmente e, dopo alcune trattative, offrì sua nipote Teodora, con una dote di 100 000 iperperi d’oro, più altri 10 000 per le spese nuziali e doni del valore di 30 000. In cambio, dovevano esserle assegnati come doario Acri e il suo territorio, che avrebbe conservato se suo marito fosse morto senza figli. Quando l’ambasceria tornò e Baldovino ebbe accettato le condizioni, la giovane principessa parti da Costantinopoli; giunse ad Acri nel settembre del 1158 e fece il viaggio in gran pompa fino a Gerusalemme, dove venne unita in matrimonio al re dal patriarca Aimery di Antiochia, poiché il patriarca della Città Santa, appena eletto, non era ancora stato confermato dal papa. La sposa aveva tredici anni, ma era ben sviluppata e molto graziosa; Baldovino ne fu molto contento e si dimostrò un marito fedele, abbandonando i facili costumi di quand’era scapolo7. Sembra che durante le trattative Manuele avesse promesso di prender parte a un’alleanza contro Nur ed-Din e che Baldovino fosse d’accordo con lui sulla necessità di umiliare Rinaldo. Nel frattempo il re conduceva una campagna lungo i confini di Damasco: nel marzo del 1158, egli e il conte di Fiandra marciarono di sorpresa contro la città vera e propria e il 1° aprile posero l’assedio al castello di Dareiya, nei sobborghi. Ma Nur ed-Din, ormai convalescente, si trovava già in cammino verso il sud per metter fine a tutti gli intrighi che vi erano stati orditi durante la sua malattia;

il 7 aprile giunse a Damasco, con gran gioia dei cittadini, e Baldovino pensò che fosse prudente ritirarsi. Nur ed-Din lanciò allora una controffensiva e, mentre il suo luogotenente Shirkuh predava il territorio di Sidone, egli attaccava personalmente il castello di Habis Jaldak, che era un avamposto costruito dai franchi a sud-est del Mare di Galilea, vicino alle sponde del fiume Yarmuk. La guarnigione era incalzata tanto da vicino che ben presto acconsentì a capitolare se entro dieci giorni non avesse ricevuto aiuti. Perciò Baldovino parti in suo soccorso, accompagnato dal conte Thierry, ma invece di marciare direttamente sul forte prese la strada a nord del lago, la quale conduceva a Damasco. Lo stratagemma funzionò: Nur ed-Din temette di avere le sue vie di comunicazione tagliate e levò l’assedio. I due eserciti si scontrarono vicino al villaggio di Butaiha, a oriente dell’alta valle del Giordano. I franchi, appena scorsero i musulmani attaccarono subito, credendo che si trattasse soltanto di una squadra di esploratori; ma il nitrito di un mulo che il re aveva regalato a uno sceicco (e che aveva riconosciuto i suoi antichi compagni tra i cavalli dei franchi) fece loro comprendere che era arrivato l’intero esercito saraceno; essi sapevano infatti che quel tale sceicco si trovava al seguito di Nur ed-Din. Il loro assalto era stato cosi impetuoso che i musulmani esitarono; Nur ed-Din, ancora delicato di salute, si lasciò persuadere ad abbandonare il campo di battaglia; dopo la sua partenza l’intero esercito fece dietro-front e si ritirò piuttosto disordinatamente. La vittoria franca fu sufficiente a indurre Nur ed-Din a chiedere una tregua e per alcuni anni non vi fu alcuna seria azione di guerra sulla frontiera siro-palestinese. Sia Baldovino che Nur ed-Din potevano rivolgere la loro attenzione al nord8. Nell’autunno del 1158 l’imperatore parti da Costantinopoli alla testa di un numeroso esercito dirigendosi verso la Cilicia. Mentre il grosso delle truppe proseguiva lentamente verso oriente lungo la difficile strada costiera, egli si spingeva avanti in tutta fretta con una compagnia di soli cinquecento cavalleggeri. I suoi preparativi erano stati cosi segreti e i suoi movimenti cosi rapidi che nessuno in Cilicia era informato della sua venuta. Il principe armeno Thoros si trovava a Tarso, non sospettando di nulla, quando all’improvviso, verso la fine di ottobre, un pellegrino latino che egli aveva ospitato tornò a precipizio alla corte per avvertirlo di aver scorto delle truppe imperiali distanti solo un giorno di marcia. Thoros riunì la sua famiglia, i suoi amici più cari e il suo tesoro e fuggì subito nelle montagne; il giorno seguente Manuele penetrava nella pianura della Cilicia. Mentre suo cognato Teodoro Vatatse occupava Tarso, egli proseguì rapidamente e in meno di due settimane tutte le città della Cilicia, fino ad Anazarbo, si trovavano in suo potere. Ma Thoros stesso continuava a sfuggirgli; mentre i distaccamenti bizantini perlustravano le vallate egli scappava da una cima all’altra finché alla fine trovò rifugio su un picco conosciuto con il nome di Dadjig, vicino alle sorgenti del Cidno, le cui rovine non erano state abitate da generazioni. Soltanto i suoi due più fedeli servitori conoscevano il luogo dov’egli si trovava nascosto9. L’arrivo dell’imperatore terrorizzò Rinaldo: egli sapeva di non poter resistere contro quest’enorme esercito imperiale, e tale consapevolezza lo salvò, poiché sottomettendosi immediatamente avrebbe ottenuto delle condizioni molto migliori che se fosse stato sconfitto in battaglia. Gerardo, vescovo di Lattakieh, il più acuto dei suoi consiglieri, gli fece notare che la venuta dell’imperatore era determinata piuttosto da motivi di prestigio che di conquista, perciò Rinaldo mandò in tutta fretta un messo a Manuele per offrirgli di consegnare la cittadella di Antiochia a una guarnigione imperiale. Quando al suo inviato venne risposto che ciò non era sufficiente, egli stesso indossò un saio da penitente e si precipitò all’accampamento dell’imperatore, situato fuori delle mura di Mamistra. A rendere omaggio al sovrano giungevano i rappresentanti di tutti i principati dei dintorni, di Nur ed-Din, dei Danishmend, del re di Georgia e perfino del califfo. Manuele fece aspettare Rinaldo per un certo tempo e sembra che a quel momento ricevesse un

messaggio dell’esiliato patriarca Aimery il quale suggeriva che il principe di Antiochia fosse portato in catene al suo cospetto e venisse deposto dalla carica. Ma all’imperatore conveniva di più avere un umile vassallo: in una riunione solenne, mentre l’imperatore sedeva sul trono nella sua tenda grandiosa, circondato dai cortigiani e dagli ambasciatori forestieri, e mentre i migliori reggimenti del suo esercito prestavano servizio d’ordine agli ingressi, Rinaldo fece il suo atto di sottomissione; egli e il suo seguito avevano camminato scalzi e a capo scoperto attraverso la città e fino all’accampamento. Quivi si prosternò nella polvere davanti alla tribuna imperiale, mentre tutti i suoi uomini alzavano le mani in un gesto supplichevole. Trascorsero parecchi minuti prima che Manuele si degnasse di accorgersi di lui, quindi gli fu concesso il perdono a tre condizioni: in qualsiasi momento gli venisse richiesta, doveva consegnare la cittadella di Antiochia a una guarnigione imperiale; doveva fornire un contingente di uomini all’esercito bizantino; e doveva accettare un patriarca di Antiochia greco invece di uno latino. Rinaldo giurò di osservare queste condizioni, poi venne congedato e rimandato ad Antiochia. La notizia dell’avvicinarsi di Manuele aveva fatto accorrere dal sud re Baldovino, suo fratello Amalrico e il patriarca Aimery; essi giunsero ad Antiochia poco dopo il ritorno di Rinaldo. Baldovino provò una piccola delusione quando seppe del perdono concesso a Rinaldo e scrisse subito a Manuele per chiedergli un’udienza. L’imperatore esitò, evidentemente perché credeva che Baldovino desiderasse per sé il principato; può darsi che questo fosse uno dei suggerimenti di Aimery. Ma davanti alle insistenze del re, Manuele cedette. Baldovino uscì da Antiochia a cavallo, scortato dai cittadini che lo imploravano di farli riconciliare con l’imperatore. L’incontro ebbe immenso successo: Manuele rimase affascinato dal giovane re che trattenne come suo ospite per dieci giorni. Mentre essi discutevano dei progetti per un’alleanza, Baldovino riuscì ad ottenere il perdono per Thoros, al quale venne concesso di conservare il suo territorio nelle montagne, dopo essersi sottoposto alla stessa umiliazione subita da Rinaldo e con lo stesso procedimento. Si deve probabilmente a Baldovino il fatto che Manuele non insistesse per l’insediamento immediato del patriarca greco. Aimery venne ristabilito sul suo trono patriarcale e formalmente si riconciliò con Rinaldo. Quando Baldovino tornò ad Antiochia, carico di doni, lasciò suo fratello presso l’imperatore. Manuele giunse ad Antiochia la domenica di Pasqua, 12 aprile 1159, e fece il suo ingresso solenne nella città. Le autorità latine tentarono di allontanarlo dicendogli che era stato organizzato un complotto per assassinarlo, ma egli non si lasciò intimidire; insistette soltanto perché i cittadini gli consegnassero degli ostaggi e perché i principi latini che dovevano partecipare al corteo fossero disarmati; egli stesso indossò una maglia di ferro sotto gli abiti. Non avvenne nessun disgraziato incidente: mentre i vessilli imperiali sventolavano sulla cittadella, il corteo transitava sul ponte fortificato per entrare in città. Avanzavano per primi i magnifici vareghi della guardia imperiale, seguiva poi l’imperatore in persona, a cavallo, avvolto in un mantello purpureo e con un diadema tempestato di perle. Rinaldo, a piedi, teneva le briglie del destriero, mentre altri signori franchi camminavano a fianco. Dietro di lui cavalcava Baldovino, senza corona e disarmato, poi seguivano gli alti funzionari dell’Impero. Appena al di là della porta aspettava il patriarca Aimery, con tutti i paramenti episcopali e il clero al gran completo, per guidare la processione attraverso le vie ricoperte di tappeti e di fiori, fino alla cattedrale di San Pietro, dapprima, e poi al palazzo. Manuele si trattenne in Antiochia per otto giorni, mentre i festeggiamenti si susseguivano. Egli stesso, sebbene si mostrasse orgoglioso e maestoso nelle occasioni solenni, irradiava un fascino personale e aveva un atteggiamento amichevole che conquistava le folle, e la prodigalità dei suoi doni, sia ai nobili sia al popolino, aumentava la letizia generale. Per compiere un gesto gradito agli

occidentali organizzò un torneo e permise che i suoi compagni si unissero a lui nelle giostre. Egli era un abile cavaliere e se la cavò con onore, ma i suoi ufficiali, per i quali l’equitazione era un mezzo e non un fine, si dimostrarono meno brillanti in confronto ai cavalieri dell’Occidente. L’intimità fra l’imperatore e il suo nipote d’acquisto, il re, diventò sempre più stretta; quando Baldovino cacciando si ruppe un braccio, Manuele insistette per curarlo egli stesso, cosi come a suo tempo aveva svolto le mansioni di consigliere medico per Corrado di Germania10. Quella splendida settimana segnò il trionfo del prestigio dell’imperatore. Ma Gerardo di Lattakieh aveva ragione: era prestigio che Manuele voleva, non conquiste. Quando tutte le feste furono terminate egli si ricongiunse con il suo esercito fuori delle mura e proseguì verso oriente, verso la frontiera musulmana. Gli si fecero incontro quasi subito ambasciatori inviatigli da Nur edDin, con pieni poteri per trattare una tregua. Con gran rabbia dei latini, i quali si erano aspettati che marciasse su Aleppo, egli ricevette l’ambasceria ed ebbero inizio le discussioni; quando Nur ed-Din si offrì di rilasciare tutti i prigionieri cristiani che si trovavano nelle sue prigioni, in numero di seimila, e di inviare una spedizione contro i turchi selgiuchidi, Manuele acconsentì a rinunciare alla campagna. Probabilmente non aveva mai avuto l’intenzione di portarla avanti e, sebbene i crociati e i loro moderni apologisti gridassero al tradimento, è difficile vedere che cos’altro avrebbe potuto fare. Per i crociati la Siria era della massima importanza, ma per Manuele era soltanto una delle tante zone di frontiera, e neppure la più vitale, del suo Impero. Egli non poteva permettersi di restare per molti mesi al limite estremo di una lunga e vulnerabile linea di comunicazioni, né, per quanto splendido fosse il suo esercito, poteva impunemente correre il rischio di subire delle gravi perdite. Inoltre, non aveva nessun desiderio di causare il crollo della potenza di Nur ed-Din, poiché sapeva, per amara esperienza, che i franchi lo accoglievano bene soltanto quando erano spaventati; sarebbe stata una follia rimuovere la causa principale della loro paura. L’alleanza di Nur ed-Din era una pedina importantissima nelle guerre contro un nemico molto più pericoloso per l’Impero, i turchi dell’Anatolia. Però, come si vide in seguito, egli avrebbe dato un valido aiuto per impedire a Nur edDin di conquistare l’Egitto, perché questo avrebbe fatalmente turbato l’equilibrio dei poteri; forse, se avesse avuto meno fretta, avrebbe potuto ottenere delle condizioni migliori. Ma aveva ricevuto notizie preoccupanti di un complotto a Costantinopoli e di incidenti alla frontiera europea; non poteva, comunque, permettersi di fermarsi in Siria più a lungo11. Tuttavia, la tregua stipulata con Nur ed-Din fu un errore psicologico. Per un momento i franchi erano stati disposti ad accettarlo per capo, ma, come uomini più saggi avrebbero potuto prevedere, egli aveva mostrato maggior interesse per la sorte del proprio Impero che per quella dei loro Stati; e per essi non fu neppure di grande consolazione la liberazione dei prigionieri cristiani. Tra costoro si trovavano alcuni importanti guerrieri locali, come il gran maestro del Tempio Bertrando di Blancfort, ma la maggioranza era costituita da tedeschi catturati durante la seconda crociata; tra di loro si trovava anche il pretendente di Tripoli, Bertrando di Tolosa, la cui ricomparsa avrebbe potuto essere imbarazzante se la sua salute non fosse stata rovinata dalla cattività12. Appena conclusa la tregua, l’imperatore ed il suo esercito cominciarono a ritirarsi verso occidente, dapprima lentamente, poi sempre più velocemente a misura che giungevano notizie allarmanti dalla capitale. Alcuni dei seguaci di Nur ed-Din, contro il desiderio del loro padrone, tentarono di molestare l’esercito e quando, per guadagnar tempo, attraversò il territorio dei Selgiuchidi, vi furono alcune scaramucce con le truppe del sultano; ma, alla fine dell’estate, esso giunse intatto a Costantinopoli. Circa tre mesi più tardi Manuele passò di nuovo in Asia per condurre

una campagna contro i Selgiuchidi e per esperimentare contro di loro una nuova tattica, molto più mobile. Nel frattempo i suoi inviati stavano edificando una coalizione contro il sultano selgiuchida Kilij Arslan II. Nur ed-Din, profondamente sollevato dalla partenza di Manuele, avanzò in territorio turco oltre la zona del medio Eufrate; il principe danishmend Yakub Arslan attaccava intanto da nordest, con tanto successo che il sultano fu costretto a cedergli le terre nei dintorni di Albistan, nell’Antitauro. Nel frattempo il generale bizantino Giovanni Contostefano radunava i soldati che Rinaldo e Thoros si erano impegnati per trattato a fornire e, con un contingente di peceneghi stanziati da Manuele in Cilicia, avanzava attraverso i passi del Tauro; Manuele e il grosso dell’esercito imperiale, rafforzato dalle truppe fornite dal principe di Serbia e da pellegrini franchi reclutati quando le loro navi avevano fatto scalo a Rodi, risalivano precipitosamente la valle del Meandro. Il sultano dovette dividere le sue forze e quando Contostefano ottenne una vittoria completa sui turchi inviati a fronteggiarlo, Kilij Arslan rinunciò alla lotta: scrisse all’imperatore offrendogli di restituire, in cambio della pace, tutte le città greche occupate dai musulmani negli ultimi anni, di badare che le frontiere venissero rispettate e che le scorrerie cessassero, e di provvedere un reggimento che combattesse nell’esercito imperiale in qualunque momento occorresse. Manuele accettò queste condizioni, ma trattenne presso di sé il fratello ribelle del sultano, Shahinshah, che era venuto a chiedergli protezione. Per confermare il trattato, Kilij Arslan inviò perciò a Costantinopoli il suo cancelliere cristiano, Cristoforo, per proporre una visita ufficiale alla corte imperiale. Le ostilità ebbero fine nell’estate del 1161 e nella primavera seguente Kilij Arslan venne ricevuto a Costantinopoli, con splendide cerimonie. Il sultano venne trattato con grande onore e coperto di doni, ma era considerato un principe-vassallo. La notizia di questa visita fece grande impressione a tutti i capi dell’Oriente13. In questo contesto generale va giudicata la politica orientale di Manuele: egli aveva ottenuto un’importantissima vittoria di prestigio e aveva umiliato, almeno temporaneamente, i Selgiuchidi che avevano rappresentato la principale minaccia per il suo Impero. Questi successi recarono alcuni vantaggi anche ai franchi: Nur ed-Din non era stato sconfitto, ma era stato spaventato e non avrebbe tentato di lanciare un attacco diretto contro il territorio cristiano; nello stesso tempo la pace fatta con i Selgiuchidi riapriva la strada della terraferma ai pellegrini che giungevano dall’Occidente. Essi aumentavano di numero e ne sarebbero arrivati ancora di più senza l’intoppo costituito dalla politica occidentale, dalle guerre tra Hohenstaufen e papisti in Germania e in Italia, e tra Capetingi e Plantageneti in Francia. Ma, sebbene per i successivi vent’an-ni Bisanzio fosse destinata ad essere la potenza più influente nella Siria settentrionale, i suoi amici sinceri, fra i franchi, erano molto pochi. Gli avvenimenti del 1160 mostrarono sia la natura sia l’importanza della sovranità imperiale su Antiochia. Re Baldovino era tornato al sud e si era impegnato in alcune scorrerie di scarsa importanza nel territorio damasceno approfittando dei fastidi che Nur ed-Din aveva nel nord, allorché venne informato che Rinaldo era stato fatto prigioniero da quest’ultimo. Nel novembre del 1160 il trasferimento stagionale delle greggi dalle montagne dell’Antitauro alla pianura dell’Eufrate aveva indotto il principe a condurre una scorreria lungo la valle del fiume. Durante il ritorno, e la sua marcia era resa più lenta dalle mandrie di bestiame, dai cammelli e i cavalli che aveva razziato, egli cadde in un’imboscata tesagli dal governatore di Aleppo, Majd ed-Din, fratello di latte di Nur edDin. Combatté coraggiosamente, ma i suoi uomini vennero soverchiati dagli avversari superiori di numero, ed egli stesso venne disarcionato e catturato. Legato, a dorso di cammello, venne inviato con i suoi compagni ad Aleppo, dove doveva rimanere in prigione per sedici anni: né l’imperatore, né il re di Gerusalemme e neppure il popolo di Antiochia mostrarono alcuna fretta di riscattarlo. In prigione egli s’incontrò con il giovane Jocelin di Courtenay, conte titolare di Edessa, che era stato

catturato alcuni mesi prima, durante una scorreria14. L’eliminazione di Rinaldo sollevò in Antiochia un problema costituzionale, perché egli vi aveva regnato in quanto marito della principessa Costanza. Ora, ella pretendeva che il potere le spettasse, ma l’opinione pubblica sosteneva i diritti del figlio nato dal suo primo matrimonio, Boemondo, soprannominato il Balbuziente, il quale, tuttavia, aveva soltanto quindici anni. Era una situazione simile a quella verificatasi a Gerusalemme alcuni anni prima, a proposito della regina Melisenda e di Baldovino III. Non c’era nessun pericolo immediato, perché il timore che Nur ed-Din provava verso Manuele gli impediva di attaccare direttamente Antiochia, ma era necessario provvedere a un governo efficiente. A rigore, sarebbe stato compito dell’imperatore, quale sovrano riconosciuto di Antiochia, di risolvere la questione, ma Manuele si trovava troppo lontano e gli antiocheni lo avevano accettato non senza riserve. I principi normanni di Antiochia si erano considerati principi sovrani, ma i frequenti casi di eredi minorenni avevano costretto i re di Gerusalemme ad intervenire, più come parenti che come monarchi. Si era tuttavia sviluppato in Antiochia un sentimento che considerava il re come sovrano e non c’è dubbio che Manuele era stato accettato cosi facilmente soltanto perché Baldovino era presente per dare la sua approvazione all’accordo. Ed era a Baldovino, e non a Manuele, che gli abitanti di Antiochia guardavano in quel momento, in attesa di una soluzione. Dietro loro invito, egli venne nella città, dichiarò che Boemondo III era il principe legittimo e affidò il governo al patriarca Aimery, finché il ragazzo non fosse maggiorenne. La decisione dispiacque a Costanza e il modo come era stata presa dispiacque a Manuele. La principessa si appellò prontamente alla corte imperiale15. Verso la fine dell’anno 1159 era morta l’imperatrice Irene, nata Berta di Sulzbach, lasciando soltanto una figlia. Nel 1160 giunse a Gerusalemme un’ambasceria guidata da Giovanni Contostefano, e accompagnata dal primo interprete di corte, l’italiano Teofilatto, per chiedere al re di indicare una delle principesse di «Outremer» che fosse adatta a diventare la sposa dell’imperatore vedovo. C’erano due candidate, Maria, figlia di Costanza di Antiochia, e Melisenda, figlia di Raimondo II di Tripoli, ambedue cugine di Baldovino e famose per la loro bellezza. Poiché diffidava di una stretta alleanza familiare tra l’imperatore e Antiochia, Baldovino suggerì Melisenda. Gli ambasciatori proseguirono per Tripoli per riferire sulla principessa che l’intero Oriente franco salutò come futura imperatrice. Raimondo di Tripoli decise orgogliosamente di dare alla sorella una degna dote e spese forti somme per il suo corredo; piovvero regali in quantità da parte della madre della sposa, Hodierna, e di sua zia, la regina Melisenda; da tutte le parti cavalieri si precipitarono a Tripoli nella speranza di essere invitati alle nozze. Ma da Costantinopoli non giunse alcuna conferma. Gli ambasciatori inviarono a Manuele dei resoconti brillanti ed intimi sulla persona di Melisenda, ma riferirono pure certe voci sulla sua nascita, voci fondate sul ben noto litigio tra sua madre e suo padre. In realtà, sembra che non ci fossero dubbi sulla sua legittimità, ma può darsi che i pettegolezzi facessero esitare l’imperatore. Poi, egli venne informato dell’intervento di Baldovino ad Antiochia e ricevette l’appello di Costanza. Al principio dell’estate del 1161 Raimondo, che diventava impaziente, inviò a Costantinopoli uno dei suoi cavalieri, Ottone di Risberg, per chiedere che cosa stava succedendo. Ottone tornò circa nel mese d’agosto, con la notizia che l’imperatore si rifiutava di riconoscere il fidanzamento16. Il colpo e l’umiliazione furono troppo forti per Melisenda: ella cominciò a declinare e ben presto appassì, come la Princesse Lointaine del romanzo medievale francese. Suo fratello Raimondo era furibondo e chiese con ira che gli venissero rimborsate le somme che aveva speso per il corredo della sorella; quando ne ricevette un rifiuto adattò come navi da guerra le dodici galee che aveva

ordinato per accompagnarla a Costantinopoli e le condusse a predare le coste di Cipro17. Re Baldovino, che si trovava presso i suoi cugini in attesa di notizie, s’adirò seriamente, soprattutto quando gli ambasciatori bizantini ricevettero l’ordine di andare ad Antiochia. Egli vi si precipitò dopo di loro e trovò nella città una splendida ambasceria dell’imperatore, capeggiata da Alessio Briennio Comneno, figlio di Anna Comnena, e dal prefetto di Costantinopoli Giovanni Camatero. Essi avevano già combinato un contratto di matrimonio fra il loro signore e la principessa Maria di Antiochia, e la loro presenza in città era bastata a confermare Costanza quale governatrice del principato. Baldovino dovette accettare la situazione. Maria, che era persino più affascinante di sua cugina Melisenda, salpò in settembre da San Simeone, orgogliosa di diventare imperatrice e felice, non sapendo quale destino l’aspettava. In dicembre venne unita in matrimonio all’imperatore, nella chiesa di Santa Sofia di Costantinopoli, da tre patriarchi, Luca di Costantinopoli, Sofronio di Alessandria e dal patriarca titolare di Antiochia, Atanasio II18. Baldovino si era reso conto del valore di un’alleanza con i bizantini, ma il successo di Manuele nel nord cristiano era stato maggiore di quanto egli desiderasse e meno efficace invece contro Nur ed-Din, sebbene mantenesse tranquilli i musulmani per i successivi due anni. Dopo lo scacco diplomatico a proposito del matrimonio dell’imperatore, il re tornò verso il suo regno, dove il suo governo era andato avanti senza incidenti da quando sua madre era decaduta dal potere. Ella era tornata alla vita pubblica nel 1157 per presiedere un consiglio di reggenza, mentre Baldovino si trovava lontano, in guerra, e teneva in mano il patronato sulla Chiesa. Quando, nel novembre del 1157, il patriarca Fulcherio morì ella fece designare quale successore un semplice ecclesiastico di sua conoscenza, Amalrico di Nesle, uomo colto, ma ingenuo e poco pratico. Hernes, arcivescovo di Cesarea, e Rodolfo, vescovo di Betlemme, si opposero alla designazione e Amalrico si vide costretto ad inviare a Roma Federico, vescovo di Acri, perché ottenesse l’appoggio del papa. Il tatto di Federico e anche, a quanto si insinuava, i suoi doni ottennero la conferma della curia papale19. Nel patronato sulla Chiesa Melisenda aveva la collaborazione della figliastra Sibilla di Fiandra la quale, nel 1158, rifiutò di tornare in Europa con suo marito Thierry, ma rimase, come monaca, nell’abbazia che la regina aveva fondato a Betania. Quando Melisenda morì nel settembre del 1161, mentre il re si trovava ad Antiochia, Sibilla le succedette nel prestigio che esercitava sulla famiglia reale e nella Chiesa fino alla morte, avvenuta quattro anni più tardi20. Mentre stava attraversando il territorio di Tripoli, re Baldovino cadde ammalato. Il conte di Tripoli gli inviò il suo medico personale, il siriano Barac, perché lo curasse, ma il re peggiorava. Venne trasportato a Beirut, dove morì il 10 febbraio 1162. Era un uomo alto, ben piantato, il cui aspetto florido e la folta barba bionda davano l’impressione di una buona salute e virilità, cosicché tutti quanti credettero che le droghe di Barac lo avessero avvelenato. Era nel suo trentatreesimo anno di età e se avesse vissuto più a lungo avrebbe potuto essere un grande re, perché aveva energia, un’ampia visione delle cose e un fascino personale irresistibile. Era molto versato nelle lettere, e colto sia in storia che in diritto. I suoi sudditi lo piansero amaramente e persino i contadini musulmani scesero dalle colline per rendere omaggio al suo corpo mentre il corteo funebre si metteva lentamente in moto verso Gerusalemme. Alcuni degli amici di Nur ed-Din suggerirono all’atabeg che era giunto il momento di attaccare i cristiani, ma egli, che era appena tornato da un pellegrinaggio alla Mecca a lungo rimandato, non volle molestare un popolo che stava piangendo la perdita di un principe cosi grande21.

Capitolo quarto Il miraggio dell’Egitto

No, andremo nel paese d’Egitto... Geremia, XLII, 14

Baldovino III non lasciava figli e Teodora, la regina di origine greca, rimaneva vedova a soli sedici anni. L’erede al trono era il fratello di lui, Amalrico, conte di Giaffa e di Ascalona: otto giorni dopo la morte di Baldovino egli venne incoronato re dal patriarca Amalrico. Non erano mancate tuttavia alcune discussioni riguardo alla successione, poiché i nobili non intendevano abdicare al loro diritto di eleggere il re, anche se non c’era nessun altro candidato possibile. Essi avevano una sola legittima riserva nei confronti di Amalrico: circa quattro anni prima egli aveva sposato Agnese di Courtenay, figlia di Jocelin II di Edessa, sua cugina in terzo grado e tra parenti di quel grado la Chiesa proibiva le nozze; infatti il patriarca si era rifiutato di ratificare quel matrimonio. Ma l’antipatia per Agnese aveva altri motivi: essa era notevolmente più vecchia di Amalrico il quale aveva solo tredici anni quando il primo marito di lei, Rinaldo di Marash, era stato ucciso nel 1149; inoltre non godeva fama di persona casta. Il patriarca e i baroni vollero che il matrimonio fosse annullato. Amalrico acconsentì subito, ma insiste perché venissero riconosciuti la legittimità e i diritti ereditari dei suoi due figlioletti, Baldovino e Sibilla1. Amalrico aveva allora venticinque anni, era alto e di bell’aspetto come suo fratello, con lo stesso colorito acceso e la stessa folta barba bionda, sebbene i critici trovassero che aveva il petto troppo grasso; era meno colto, ma bene informato sulle questioni legali. Mentre a suo fratello piaceva conversare, egli balbettava leggermente ed era taciturno, ma si abbandonava a frequenti parossismi di sonore risate che in certo qual modo ne menomavano la dignità. Non diventò mai cosi popolare come suo fratello, di cui gli mancavano il fascino e i modi cordiali; la sua vita privata non era encomiabile2. La sua abilità di statista si manifestò pochi mesi dopo l’ascesa al trono quando Gerardo, signore di Sidone e di Beaufort spodestò senza giusto motivo uno dei propri vassalli e questi si appellò alla corona. Amalrico insistette perché il caso fosse discusso davanti all’alta corte del regno, poi emanò una assise, basata su altri precedenti analoghi, con la quale si riconosceva ai vassalli il diritto di appellarsi all’alta corte contro il proprio signore. Se questi non si presentava davanti all’alta corte, il caso veniva giudicato in contumacia a favore del vassallo che veniva ristabilito nel suo feudo. Questa legge, che poneva i vassalli dei grandi feudatari in rapporto diretto con il re, a cui essi dovevano rendere omaggio di vassalli, dava un potere immenso a un re forte che dominasse l’alta corte. D’altra parte questa era formata precisamente da quella classe di feudatari contro cui la legge era diretta, perciò se il re era debole, la legge poteva essere usata contro di lui, applicandola ai feudatari dei possedimenti reali3. Questa assise fu seguita da altre che regolavano i rapporti del re con i propri vassalli. Dopo aver saldamente affermato la propria autorità regale in patria, Amalrico poté occuparsi di politica estera. Nel nord egli era disposto a sacrificare Antiochia ai bizantini. Verso la fine del 1162 c’erano stati dei disordini in Cilicia, a seguito dell’assassinio del fratello di Thoros, Stefano, ucciso

mentre stava recandosi a un banchetto offerto dal governatore imperiale Andronico. Thoros, che aveva i propri motivi personali per desiderare l’eliminazione del fratello, accusò Andronico di complicità e si precipitò su Mamistra, Anazarbo e Vahka, prendendo di sorpresa e assassinando le guarnigioni greche. Amalrico si affrettò a offrire aiuto all’imperatore, il quale sostituì Andronico con Costantino Coloman, abile generale di origine ungherese. Questi venne in Cilicia con rinforzi e Thoros si ritirò di nuovo tra le montagne, con molte scuse4. Boemondo di Antiochia aveva ormai diciotto anni, era quindi in età di governare. Ansiosa di conservare essa stessa il potere, Costanza si rivolse a Colo-man per ottenere un aiuto militare, ma la notizia di questo passo provocò un tumulto in Antiochia: Costanza venne esiliata e Boemondo III insediato al suo posto. Ella morì poco dopo5. L’imperatore non mosse alcuna obiezione al cambiamento di regime, probabilmente perché Amalrico gli aveva dato delle garanzie che la sua sovranità sarebbe stata rispettata. Ma, come salvaguardia, egli invitò a Costantinopoli il secondogenito di Costanza, Baldovino e, più tardi, i figli nati dal matrimonio di lei con Rinaldo. Baldovino entrò nell’esercito imperiale e morì in battaglia6. Mentre appoggiava apertamente i bizantini re Amalrico scriveva nello stesso tempo a re Luigi VII di Francia per chiedergli se si poteva sperare in un suo invio di aiuti ai latini di Siria7.

VIII. L’Egitto nel secolo XII.

Il favore dei bizantini era necessario ad Amalrico per realizzare la sua massima ambizione

politica: dominare l’Egitto. L’esistenza degli Stati latini - egli lo capiva molto bene - dipendeva dalla disunione dei loro vicini musulmani. La Siria maomettana era allora unita, ma finché l’Egitto si trovava in disaccordo con Nur ed-Din la situazione non era disperata. Tuttavia il califfato fatimita era in tale stato di decadenza che la sua fine sembrava imminente: era essenziale che non cadesse nelle mani di Nur ed-Din. Dall’epoca della perdita di Ascalona c’era stato un crescente disordine alla corte del califfo. Il visir Abbas sopravvisse un anno al disastro; suo figlio Nasr era il favorito del giovane califfo al-Zafir e la loro intimità dava esca a pettegolezzi scandalosi. Questo fatto mandò Abbas su tutte le furie, non per motivi morali, ma perché sospettava con ragione che al-Zafir intendesse opporre il figlio al padre. Usama, che si trovava ancora alla corte, apprese che effettivamente Nasr era d’accordo di assassinare Abbas. Egli si affrettò a riconciliare padre e figlio e ben presto persuase Nasr che sarebbe stato meglio assassinare piuttosto il califfo. Nasr invitò il suo benefattore a un’orgia notturna in casa sua e lo pugnalò. Abbas finse di credere che gli assassini fossero i fratelli del califfo e li mandò a morte; e, mentre s’impadroniva del tesoro del califfo, mise sul trono il figlioletto di al-Zafir, al-Faiz, un ragazzino di cinque anni che aveva assistito alla morte dei suoi zii e che da quel momento soffri di convulsioni croniche. Le principesse della famiglia sospettarono la verità e chiamarono in loro soccorso il governatore dell’alto Egitto, Ibn Ruzzik, armeno di nascita. Egli marciò sul Cairo e conquistò alla sua causa gli ufficiali della guarnigione. Abbas e Nasr imballarono il loro tesoro e il 29 maggio 1154 fuggirono dalla capitale portando con sé Usama che aveva cominciato a complottare con Ibn Ruzzik. Al momento in cui si lasciavano alle spalle i deserti del Sinai truppe franche provenienti da Montreal si gettarono loro addosso: Usama fuggì e giunse infine sano e salvo a Damasco, ma Abbas venne trucidato e Nasr con tutto il tesoro, catturato. Nasr fu consegnato ai templari e fece subito sapere che aveva deciso di farsi cristiano, ma la corte del Cairo offrì all’ordine sessantamila dinari per la sua persona, di conseguenza la sua istruzione religiosa venne interrotta ed egli fu inviato al Cairo in catene. Quivi le quattro vedove del defunto califfo lo mutilarono di propria mano, quindi venne impiccato e il suo cadavere rimase appeso per due anni alla porta Zawila8. Ibn Ruzzik governò fino al 1161. Nel 1160 moriva il califfo fanciullo e gli succedeva suo cugino al-Adid, di nove anni, che l’anno successivo fu costretto a sposare la figlia di Ibn Ruzzik. Ma la zia del califfo, sorella di al-Zafir, diffidava dell’ambizione del visir e indusse i propri amici a pugnalarlo nell’ingresso del palazzo. Tuttavia, prima di morire, nel settembre del 1161, egli fu ancora in grado di convocare alla sua presenza la principessa e di ucciderla di propria mano. Suo figlio al-Adil gli successe come visir e governò per quindici mesi, poi a sua volta venne spodestato e ucciso dal governatore dell’alto Egitto, Shawar, che rimase in carica per otto mesi, fino all’agosto del 1163, quando venne espulso dal proprio ciambellano arabo Dhirgham. Questi, per consolidare il proprio potere, mise a morte tutti quelli di cui temeva l’ambizione, lasciando in tal modo l’esercito egiziano quasi del tutto privo di ufficiali superiori9. Nel 1160 Baldovino III aveva minacciato d’invadere l’Egitto, ma si era lasciato dissuadere dalla promessa di un tributo annuo di cento sessantamila dinari, che non venne mai pagato. Nel settembre del 1163 Amalrico prese pretesto da questo fatto per un’improvvisa calata in Egitto: attraversò l’istmo di Suez senza difficoltà e cinse d’assedio Pelusio. Ma il Nilo era in piena e Dhirgham aprendo un paio di dighe lo costrinse a ritirarsi10. Il suo intervento era stato notato da Nur ed-Din che approfittò dell’assenza di Amalrico per attaccare il più debole degli Stati crociati, Tripoli. Egli invase la Buqaia con l’intento di stringere d’assedio il castello di Krak che dominava la stretta pianura. Fortunatamente per i franchi, Ugo conte di Lusignano e Goffredo Martei fratello del conte di

Angoulême stavano transitando per Tripoli con il loro seguito, di ritorno da un pellegrinaggio a Gerusalemme. Essi si unirono al conte Raimondo mentre un urgente appello ad Antiochia faceva scendere dal nord non soltanto Boemondo III, ma anche il generale imperiale Costantino Coloman. L’esercito cristiano unito avanzò rapidamente attraverso le colline e sorprese i musulmani nel loro accampamento sotto Krak. Dopo una breve battaglia, in cui si distinsero in modo particolare Coloman e le sue truppe, Nur ed-Din fuggì in disordine verso Homs, dove riorganizzò il suo esercito e ricevette rinforzi; i cristiani perciò abbandonarono l’inseguimento11. Poco dopo fece la sua comparsa alla corte di Nur ed-Din l’ex visir Shawar, che era fuggito dall’Egitto; se Nur ed-Din avesse inviato un esercito per insediarlo nuovamente al Cairo, l’ex visir si offriva di pagare le spese della campagna, di cedere alcuni distretti di frontiera, di riconoscere la sovranità di Nur ed-Din e di pagargli un tributo annuo pari a un terzo delle entrate del suo paese. Nur ed-Din esitò poiché temeva di mettere in pericolo un esercito lungo le strade dominate dai franchi dell’Oltregiordano. Soltanto nell’aprile del 1164, dopo aver cercato consiglio aprendo a caso il Corano, egli ordinò al suo più fidato luogotenente, Shirkuh, di partire con un grosso distaccamento e di avanzare con Shawar attraverso il deserto, mentre egli stesso avrebbe effettuato un’azione diversiva attaccando Banyas. Con Shirkuh si trovava anche suo nipote Saladino, figlio di Naim edDin Ayub, un giovanotto di ventisette anni, che non aveva un particolare desiderio di unirsi alla spedizione. Dhirgham, terrorizzato, mandò a chiedere aiuto ad Amalrico, ma Shirkuh avanzò cosi rapidamente che era ormai al di là dell’istmo di Suez prima che i franchi fossero pronti a intervenire. Il fratello di Dhirgham con le poche truppe che aveva potuto raccogliere venne sconfitto vicino a Pelusio; alla fine di maggio del 1164 Shawar era di nuovo insediato al Cairo e Dhirgham era morto12. Ricuperato il potere, Shawar denunciò l’accordo e ordinò a Shirkuh di tornarsene in Siria, ma questi rifiutò e s’impadronì di Bilbeis. Shawar si rivolse allora a re Amalrico supplicandolo di affrettarsi e offrendogli mille dinari per ognuna delle ventisette tappe del viaggio da Gerusalemme al Nilo e promettendogli altri doni per i cavalieri dell’Ospedale che lo accompagnassero, e il rimborso delle spese per il foraggio dei cavalli. Dopo aver sistemato il suo regno con buone condizioni di difesa, al principio di agosto Amalrico si diresse velocemente a Faqus, sul Nilo. Quivi Shawar lo raggiunse e avanzarono insieme per assediare Shirkuh in Bilbeis. La fortezza resistette per tre mesi e stava per cadere quando Amalrico, che aveva ricevuto delle notizie dalla Siria, decise di levare l’assedio a condizione che Shirkuh evacuasse l’Egitto. Questi acconsentì e i due eserciti, il franco e il siriano, se ne andarono per strade parallele attraverso la penisola del Sinai, lasciando Shawar padrone del suo reame. Shirkuh fu l’ultimo della sua compagnia a partire. Quando si accomiatò dai franchi, uno di loro, appena arrivato in Oriente, gli chiese se non temeva il tradimento. Egli rispose orgogliosamente che l’intero suo esercito l’avrebbe vendicato, e il franco replicò cavallerescamente che ora capiva come mai la reputazione di Shirkuh fosse cosi buona presso i crociati13. Le notizie che avevano fatto tornare Amalrico in patria in tutta fretta provenivano da Antiochia. Alla notizia che il re era partito per l’Egitto Nur ed-Din aveva sferrato un attacco contro il principato settentrionale cingendo d’assedio la fortezza-chiave di Harenc. Con lui c’erano l’esercito di suo fratello venuto da Mosul e dei contingenti dei principi ortoqidi di Diarbekir, di Mardin, di Diert e di Kir. Mentre il signore di Harenc, Rinaldo di Saint-Valéry, opponeva un’eroica resistenza, il principe Boemondo invocava Raimondo di Tripoli, Thoros d’Armenia e Costantino Coloman perché accorressero in suo aiuto. Essi partirono insieme alla metà di agosto e alla notizia del loro arrivo Nur ed-Din levò l’assedio; pare che egli fosse particolarmente allarmato per la presenza del

contingente bizantino. Mentre si ritirava Boemondo, che aveva con sé seicento cavalieri, decise di inseguirlo, malgrado il parere contrario di Rinaldo di Saint-Valéry: l’esercito musulmano era notevolmente più numeroso. Gli avversari vennero in contatto vicini ad Artah il io agosto. Senza badare agli avvertimenti di Thoros, Boemondo attaccò subito, e quando i musulmani fecero finta di fuggire si precipitò a capofitto all’inseguimento, con l’unico risultato di cadere in un’imboscata e di trovarsi, assieme ai suoi cavalieri, circondato dall’esercito di Mosul. Thoros e suo fratello Mleh, che erano stati più prudenti, riuscirono a fuggire dal campo di battaglia, mentre il resto dell’esercito cristiano veniva catturato o trucidato. Fra i prigionieri si trovavano Boemondo, Raimondo di Tripoli, Costantino Coloman e Ugo di Lusignano. Legati tutti insieme vennero condotti ad Aleppo14. I consiglieri di Nur ed-Din lo esortarono a marciare sulla città di Antiochia, ormai indifesa, ma egli non volle e disse che se si fosse mosso verso la città i greci avrebbero inviato in tutta fretta una guarnigione nella cittadella e quand’anche gli fosse riuscito di occupare la città, la cittadella avrebbe resistito fino all’arrivo dell’imperatore; egli riteneva preferibile che vi fosse in quel settore uno staterello franco piuttosto che la città diventasse parte di un grande Impero. Tale era il suo desiderio di non offendere Bisanzio che rimise quasi subito in libertà Costantino Coloman, in cambio di centocinquanta abiti di seta. Una volta ancora Antiochia era stata conservata alla cristianità dal prestigio dell’imperatore. Nella sua rapida marcia verso il nord Amalrico fu raggiunto da Thierry di Fiandra che era venuto a compiere il suo quarto pellegrinaggio in Palestina. Con questo rinforzo il re fece una sosta a Tripoli per riaffermare il proprio diritto di essere il reggente della contea durante la prigionia del conte, poi proseguì verso Antiochia. Appena giunto intavolò trattative con Nur ed-Din che acconsentì a rilasciare Boemondo e Thoros dietro pagamento di un grosso riscatto, ma soltanto perché erano vassalli dell’imperatore; non intendeva invece concedere la libertà a Raimondo di Tripoli e neppure al suo più antico prigioniero, Rinaldo di Châtillon15. Amalrico si sentì a disagio quando un messo imperiale venne a chiedergli che cosa stesse facendo ad Antiochia. Egli replicò inviando a Costantinopoli l’arcivescovo di Cesarea e il suo maggiordomo, Oddone di Saint-Amand, per chiedere all’imperatore la mano di una principessa imperiale e proporre un’alleanza per la conquista dell’Egitto16. Manuele fece aspettare l’ambasceria per due anni prima di dare una risposta. Nel frattempo Amalrico dovette tornare verso sud poiché Nur ed-Din, invece di attaccare Antiochia, nell’ottobre era improvvisamente comparso davanti a Banyas il cui signore, Honfroi II di Toron, si trovava con l’esercito di Amalrico. Egli aveva fatto circolare la voce che il suo obiettivo fosse Tiberiade e perciò la locale milizia franca vi si era concentrata. La guarnigione di Banyas oppose dapprima un’eroica resistenza, mentre si sperava che Thierry di Fiandra, da poco giunto in Palestina, accorresse a liberarla, ma poi, improvvisamente, forse a cagione di qualche tradimento, la fortezza capitolò. Nur ed-Din occupò la campagna circostante e minacciò di marciare sulla Galilea, i signori di questa regione però riuscirono ad ottenere che si allontanasse promettendogli il pagamento di un tributo17. Boemondo d’Antiochia appena liberato andò a Costantinopoli per fare visita a sua sorella e chiedere al cognato il denaro necessario per pagare quella parte del proprio riscatto di cui era ancora debitore a Nur ed-Din. Manuele gli concesse l’aiuto richiesto; in cambio Boemondo fece il viaggio di ritorno ad Antiochia con un patriarca greco, Atanasio II. Il patriarca latino Aimery protestando se ne andò in esilio al castello di Qosair18. Per i successivi cinque anni i greci ebbero il predominio nella Chiesa antiochena; non risulta che i vescovi latini venissero cacciati, ma le sedi

vacanti venivano occupate da greci. La Chiesa latina di Tripoli, che dipendeva da quella di Antiochia, non ne fu influenzata. L’arrivo dei greci spinse la Chiesa giacobita nelle braccia dei latini; essi erano in rapporti amichevoli fin dal 1152 allorché, per un miracolo verificatosi sulla tomba del santo siriano Barsauma, un bambino franco zoppo era guarito; inoltre, nel 1156 i giacobiti, con gran soddisfazione del loro patriarca Michele lo storico, erano stati autorizzati a costruire una nuova cattedrale, alla cui consacrazione avevano assistito anche la principessa Costanza ed il principe armeno Thoros. Il patriarca Michele andò dunque a visitare Aimery a Qosair per assicurarlo della propria simpatia, mentre d’altro canto la sua inimicizia per i greci era tale che nel 1169 rifiutò un amichevole invito dell’imperatore di recarsi a Costantinopoli per partecipare a uno di quei dibattiti religiosi di cui si dilettava Manuele19. Nur ed-Din trascorse il 1165 ed il 1166 lanciando attacchi improvvisi contro le fortezze che si trovavano sulle pendici orientali del Libano, mentre Shirkuh razziava l’Oltregiordano e distruggeva le fortificazioni che i templari avevano costruito in una grotta a sud di Amman20. Alla fine del 1166 Shirkuh ottenne finalmente dal suo padrone il permesso di invadere ancora una volta l’Egitto e persuase il califfo di Bagdad a rilanciare il progetto di una guerra santa contro il califfato eretico dei Fati-miti shia; questo fatto ebbe probabilmente grande influenza su Nur ed-Din che dopo la malattia era diventato profondamente religioso. Egli fece venire dei rinforzi da Aleppo per Shirkuh e per il suo esercito, e costui parti da Damasco nel gennaio del 1167, portando di nuovo con sé Saladino. Non aveva affatto tenuto segrete le proprie intenzioni e Shawar ebbe il tempo di chiedere anche questa volta l’aiuto di Amalrico. Il re si trovava a Nablus, dove convocò i suoi nobili; avendo egli messo in evidenza il pericolo che la Palestina avrebbe corso se i siriani sunniti avessero conquistato l’Egitto, l’alta corte si accordò su una grande spedizione per salvare Shawar. Tutte le forze combattenti del regno dovevano partecipare alla spedizione oppure rimanere di guardia alle frontiere per difenderle da eventuali attacchi lanciati in assenza del re. Chiunque non avesse potuto partecipare alla campagna sarebbe stato tassato di un decimo delle sue rendite annuali. Prima che l’esercito fosse pronto giunse la notizia che Shirkuh stava attraversando il deserto del Sinai; Amalrico inviò le truppe che aveva a portata di mano per tentare di sbarrargli il passo, ma era troppo tardi21. Poco mancò che una terribile tempesta di sabbia non distruggesse l’esercito di Shirkuh; questi riuscì tuttavia a raggiungere l’istmo verso i primi giorni di febbraio. Quivi apprese che l’esercito franco si era messo in marcia il 30 gennaio, perciò egli si diresse verso sud-ovest, attraverso il deserto, per raggiungere il Nilo ad Atfih, quaranta miglia a monte del Cairo. Attraversò il fiume, ne ridiscese la sponda occidentale e si accampò a Giza, dirimpetto alla capitale. Nel frattempo l’esercito franco si avvicinava al Cairo da nord-est. Shawar gli andò incontro a una certa distanza dalla città e lo guidò a un accampamento che si trovava sulla riva orientale del Nilo, a un miglio dalle mura cittadine. Dopo aver respinto la proposta di Shirkuh di far fronte comune contro i cristiani, egli fece un patto con Amalrico: i franchi avrebbero ricevuto quattrocentomila bisanti, metà subito e il rimanente più tardi, a condizione che Amalrico giurasse solennemente di non lasciare l’Egitto finché Shirkuh non ne fosse stato cacciato. Il re inviò al Cairo Ugo, signore di Cesarea, e un templare di nome Goffredo, che probabilmente parlava l’arabo, per ottenere dal califfo la ratifica formale del trattato. L’accoglienza a palazzo fu sontuosa: vennero condotti attraverso colonnati, fontane e giardini dove un’infinità di sale addobbate di tendaggi tessuti con fili di seta e d’oro e tempestati di gioielli, finché finalmente venne sollevata una grande tenda d’oro e apparve il califfo bambino seduto, velato, sul suo aureo trono. Vennero pronunciati i giuramenti di tener fede al trattato poi Ugo, in qualità di rappresentante del suo re, desiderò di suggellare il patto secondo l’uso

occidentale, stringendo la nuda mano del califfo. I cortigiani egiziani ne furono scandalizzatissimi, ma finalmente il loro sovrano, sorridendo sprezzante, si lasciò convincere a togliersi il guanto. Allora gli ambasciatori si ritirarono, profondamente colpiti, come appunto era stato previsto e calcolato, dal cumulo di ricchezze dell’Impero fatimita22. Per un mese i due eserciti si sorvegliarono reciprocamente, poiché nessuno dei due era in condizione di attraversare il fiume malgrado l’opposizione dell’altro, ma poi Amalrico riuscì a compiere una traversata fino a un’isola che si trovava nella parte superiore del Delta, un po’ più a nord, e di li sulla riva sinistra, dove colse di sorpresa uno dei reggimenti di Shirkuh. Questi, poiché il suo esercito era di gran lunga inferiore di numero a quello franco-egiziano, si ritirò verso sud risalendo il Nilo; Amalrico e Shawar lo seguirono, ma per precauzione lasciarono al Cairo una forte guarnigione al comando del figlio di Shawar, Kamil, e di Ugo di Ibelin. L’ingresso del reggimento di Ugo al Cairo e il libero accesso a palazzo concesso agli ufficiali scandalizzarono i circoli musulmani più osservanti della città. Non lontano da Minya, nella zona centrale dell’Egitto, Shirkuh si preparò ad attraversare nuovamente il Nilo con l’idea di tornare rapidamente indietro per invadere la frontiera siriana; egli si accampò ad Ashmunein, in mezzo alle rovine dell’antica Ermopoli, dove l’esercito francoegiziano lo raggiunse. Anche privo della guarnigione lasciata al Cairo era assai più numeroso del suo, ma questo era composto principalmente di cavalleria leggera turca, mentre le truppe egiziane erano di fanteria e i franchi avevano con sé soltanto poche centinaia di cavalieri; egli decise di dar battaglia, contro il parere dei suoi emiri. Da parte sua Amalrico esitava, ma san Bernardo compì proprio in quel momento uno dei suoi disgraziati interventi nella storia delle crociate: apparve al re in una visione e lo accusò di essere indegno del frammento della Vera Croce che portava appeso al collo; soltanto quando il re avesse promesso di essere un cristiano più zelante, il santo avrebbe benedetto la reliquia. Con questo incoraggiamento la mattina seguente, 18 marzo 1167, Amalrico condusse un attacco contro i siriani. Shirkuh adottò la solita tattica turca. Il centro agli ordini di Saladino cedette e quando il re e i suoi cavalieri si furono spinti al galoppo all’inseguimento, egli lanciò la sua ala destra contro la sinistra franco-egiziana che si sgretolò. Amalrico si trovò circondato; che riuscisse a salvare la vita era merito, secondo l’opinione comune, della sua reliquia benedetta, ma molti dei suoi migliori cavalieri furono uccisi e altri, fra cui Ugo di Cesarea, fatti prigionieri. Amalrico e Shawar e i resti del loro esercito si ritirarono precipitosamente al Cairo per unirsi alle truppe della guarnigione23. Shirkuh era vincitore; tuttavia c’era ancora un esercito nemico in campo. Invece di tentare un attacco contro il Cairo egli riattraversò il fiume e si diresse velocemente a nord-ovest attraverso il Fayyum e pochi giorni dopo comparve davanti ad Alessandria; la grande città che odiava Shawar a lui aprì le porte. Nel frattempo quest’ultimo e Amalrico riorganizzavano nei dintorni del Cairo il loro esercito che, nonostante le perdite subite, era ancora più numeroso di quello di Shirkuh; perciò lo seguirono fino ad Alessandria e assediarono la città. Alcuni scarsi rinforzi giunsero dalla Palestina mentre le navi franche salpavano per completare il blocco. Dopo circa un mese Shirkuh si trovò minacciato dalla fame; lasciato Saladino con un migliaio di uomini a difendere la città, riuscì a sgusciar fuori non visto in una notte di maggio con il grosso del suo esercito e, oltrepassato l’accampamento di Amalrico, si diresse verso l’alto Egitto. Il re era furibondo e voleva lanciarsi all’inseguimento, ma Shawar consigliò di lasciare che Shirkuh, se lo desiderava, saccheggiasse le città egiziane meridionali poiché era molto più importante riconquistare Alessandria. Verso la fine di giugno la posizione di Saladino dentro la città era cosi disperata che egli dovette pregare suo zio di

ritornare. Shirkuh si rese conto che non c’erano altre possibilità d’azione: si avvicinò ad Alessandria e inviò uno dei suoi prigionieri franchi, Arnolfo di Turbessel (dopo che Ugo di Cesarea ebbe rifiutato l’incarico) all’accampamento di Amalrico per proporre la pace sulla base di questa intesa: sia lui sia i franchi evacuassero l’Egitto e Shawar promettesse di non punire quelli tra i suoi sudditi che ad Alessandria o altrove avevano collaborato con gli invasori. Amalrico, che era inquieto per la situazione in Palestina e a Tripoli, accettò le condizioni. Il 4 agosto l’esercito franco con il re alla testa entrò in Alessandria, e Saladino e le sue truppe vennero scortati fuori della città con tutti gli onori militari, anche se la popolazione locale l’avrebbe volentieri fatto a pezzi considerandolo causa delle loro recenti tribolazioni. Ma le difficoltà non erano ancora terminate: non appena gli ufficiali di Shawar entrarono in città fecero arrestare chiunque fosse sospetto di collaborazione con i siriani. Saladino se ne lamentò con Amalrico che ordinò al suo alleato di rilasciare i prigionieri; egli stesso forni inoltre delle imbarcazioni per trasportare ad Acri, via mare, i feriti di Shirkuh; per loro disgrazia, appena giunti in Palestina, quelli che erano guariti vennero inviati a lavorare nelle piantagioni di zucchero finché giunse il re in persona a liberarli. Durante le trattative Saladino si guadagnò molti amici tra i franchi e più tardi si credette che allora egli fosse stato fatto cavaliere dal conestabile Honfroi di Toron. Shirkuh e Saladino lasciarono l’Egitto verso il io agosto e giunsero a Damasco in settembre; Amalrico e il suo esercito andarono al Cairo per dare il cambio a Ugo di Ibelin nel servizio di guarnigione, ma Shawar dovette firmare un patto in cui prometteva di pagare un tributo annuo di centomila monete d’oro e di tenere un alto commissario e un presidio franco al Cairo, per il controllo delle porte della città. Allora il re tornò in Palestina e giunse ad Ascalona il 20 agosto24. Alcuni dei feudatari franchi pensavano che si sarebbe potuto fare un contratto più vantaggioso, ma Amalrico non voleva continuare oltre ad arrischiare i suoi uomini in Egitto senza prima salvaguardare la Siria cristiana dagli attacchi di Nur ed-Din. Mentre egli si trovava ancora in Egitto, questi aveva condotto una scorreria nel territorio di Tripoli, ma senza conquistare nessuna fortezza importante. Era necessario riorganizzare la difesa del paese. Il problema principale era costituito come sempre dalla scarsità di uomini: le famiglie residenti in Palestina erano indebolite per i molti congiunti morti o prigionieri, ai crociati di passaggio, come Thierry di Fiandra, si poteva chiedere collaborazione soltanto per determinate campagne, perciò Amalrico doveva fare affidamento specialmente sugli ordini militari, a cui nel 1167 e negli anni successivi erano state consegnate gran numero di fortezze con le terre circostanti. Tali donazioni erano state particolarmente importanti a Tripoli, il cui conte era ancora prigioniero e dove c’erano poche grandi famiglie nobili. Tortosa e quasi tutta la zona settentrionale della contea passarono sotto il controllo dei templari, mentre la Buqaia veniva affidata agli ospitalieri che probabilmente possedevano già il Krak, conosciuto perciò con il nome di «Krak des Chevaliers». Nel territorio del regno i templari, che si erano già stabiliti a Gaza nel sud ottennero Safed nel nord e in pari tempo gli ospitalieri acquistavano Belvoir, che dominava i guadi del Giordano a sud del Mar di Galilea. Ad Antiochia Boemondo III seguiva l’esempio di Amalrico: ingrandì le proprietà dei templari intorno a Baghras, vicino alle Porte siriane, e assegnò agli ospitalieri un vastissimo territorio, nella parte meridionale del principato, territorio che si trovava praticamente in buona parte nelle mani dei musulmani. Se gli ordini fossero stati meno irresponsabili e meno invidiosi, la loro potenza avrebbe potuto mantenere in efficienza le difese del regno25. Mentre da un lato Amalrico affidava agli ordini una parte di primo piano nella difesa del reame, cercava d’altro canto una più stretta alleanza con Bisanzio. Nell’agosto del 1167, appena tornato

dall’Egitto, ricevette la notizia che i suoi ambasciatori accreditati a Costantinopoli, l’arcivescovo di Cesarea e il maggiordomo Oddone, erano sbarcati a Tiro con l’affascinante, giovane pronipote dell’imperatore, Maria Comnena. Egli si affrettò ad andarle incontro e il 29 agosto il loro matrimonio veniva celebrato con gran pompa nella cattedrale di Tiro dal patriarca Amalrico. Alla regina venne data in dote Nablus e il suo territorio. L’accompagnavano due alti ufficiali della corte di suo zio, i cugini dell’imperatore Giorgio Paleologo e Manuele Comneno, forniti di pieni poteri per discutere con Amalrico il progetto di un’alleanza26. I buoni rapporti tra i principi franchi e l’imperatore erano stati messi in pericolo di recente dalla mancanza di senso di responsabilità di un altro dei cugini di Manuele, Andronico Comneno. Questo principe, il più bello e il più brillante di tutta la famiglia, era già caduto in disgrazia per aver sedotto una delle sue parenti, Eudossia, nipote dell’imperatore, per la quale, dicevano le male lingue, lo zio stesso mostrava un affetto eccessivo. Inoltre, nel 1152, Andronico si era dimostrato poco saggio come governatore della Cilicia, ma nel 1166 venne di nuovo designato a quella carica. Il suo predecessore, Alessio Axuch, che vi era stato inviato al momento della cattura di Coloman, non era riuscito ad adempiere l’ordine dell’imperatore di far la pace con gli armeni, e si sperava che il fascino personale di Andronico, insieme con abbondanti sovvenzioni, avesse maggior successo con Thoros. Ma il principe bizantino, sebbene avesse ormai quarantasei anni, si interessava più d’avventure che di amministrazione. Ebbe ben presto l’occasione di recarsi ad Antiochia dove rimase colpito dalla bellezza della giovane principessa Filippa, sorella di Boemondo. Dimentico dei suoi doveri di governatore, egli si trattenne ad Antiochia a corteggiare Filippa con una serie di romantiche serenate finché ella, completamente affascinata, non seppe più rifiutargli nulla. Boemondo ne fu adiratissimo e se ne lamentò con suo cognato Manuele il quale, pieno di collera, richiamò Andronico e ristabilì al suo posto Costantino Coloman. Questi ricevette pure l’ordine di recarsi ad Antiochia e di tentare di conquistare l’affetto di Filippa, ma la principessa lo considerava insignificante, piccolo ed anzianotto in confronto al suo brillante seduttore. Tuttavia Andronico, che era stato spinto in quest’avventura soprattutto dal desiderio di infastidire l’imperatrice che detestava, ritenne prudente abbandonare Antiochia e la sua amante. Portando via con sé una gran parte delle rendite imperiali della Cilicia e di Cipro, partì a cavallo verso sud per offrire i propri servigi a re Amalrico. La principessa abbandonata venne sposata in tutta fretta a un maturo vedovo, il conestabile Honfroi II di Toron. Amalrico, colpito dal fascino personale di Andronico e dal suo coraggio, gli diede il feudo di Beirut che in quel momento era vacante. Poco tempo dopo Andronico andò ad Acri, doario di sua cugina, la vedova regina Teodora, che aveva allora ventun anni ed era al culmine della sua bellezza. Si innamorarono l’uno dell’altra; ma erano così strettamente imparentati che il matrimonio era impensabile, tuttavia la regina se ne venne spudoratamente a vivere a Beirut come sua amante. Quando Manuele seppe di questa nuova relazione, informato probabilmente dagli ambasciatori che avevano scortato in Palestina la regina Maria, la sua ira non conobbe più limiti. Altre successive ambascerie in Terra Santa chiesero segretamente l’estradizione del colpevole. Ma le loro istruzioni caddero in mano a Teodora, e, poiché era noto che Amalrico cercava il favore di Manuele, Andronico pensò che fosse prudente allontanarsi. Annunziò che stava per tornare in patria e Teodora scese ancora una volta da Acri per dargli l’addio: ma non appena si ritrovarono insieme abbandonarono tutti i loro beni e fuggirono senza seguito oltre la frontiera, a Damasco. Nur ed-Din li ricevette cortesemente ed essi trascorsero gli anni seguenti vagabondando per l’Oriente musulmano, e giungendo persino a Bagdad, finché in ultimo un emiro maomettano diede loro un castello vicino alla frontiera paflagonica dell’Impero; Andronico, scomunicato dalla Chiesa, vi si stabilì, dedicandosi

felicemente alla vita del brigante. Amalrico non si dispiacque troppo nel vederli partire, poiché ciò gli permetteva di riprendersi il ricco doario di sua cognata: Acri27. Amalrico, a quanto pare, aveva inviato a Manuele, per mezzo di Giorgio Paleologo, una proposta riguardante la conquista dell’Egitto. La susseguente ambasceria dell’imperatore, capeggiata da due italiani, Alessandro di Conversano, conte di Gravina, e Michele di Otranto, riferì quali erano le condizioni che egli poneva e che, sembra, consistessero nella spartizione del bottino egiziano e in una completa libertà d’azione ad Antiochia e, forse, la cessione di altro territorio franco. Le condizioni erano pesanti, perciò Amalrico inviò a Costantinopoli l’arcidiacono di Tiro, Guglielmo, il futuro storico, per riprendere le trattative. Quando questi vi giunse apprese che l’imperatore stava conducendo una campagna in Serbia; lo seguì e s’incontrò con lui a Monastir. Manuele lo accolse con la solita larghissima generosità e lo ricondusse nella capitale dove venne stipulato un trattato per il quale l’imperatore e il re si sarebbero spartite le conquiste fatte in Egitto. Guglielmo tornò in Palestina nel tardo autunno del 116828. Sfortunatamente i baroni del regno non avevano atteso il suo ritorno. Le notizie che giungevano dall’Egitto mettevano in rilievo l’instabilità del governo di Shawar; si sapeva che egli non gradiva la guarnigione franca al Cairo ed era in ritardo nel pagamento del tributo. Correvano pure delle voci secondo cui suo figlio Kamil stava trattando con Shirkuh e aveva chiesto la mano della sorella di Saladino. L’arrivo in Palestina del conte Guglielmo IV di Nevers, giunto alla fine dell’estate con una bella compagnia di cavalieri, incoraggiò coloro che volevano un’azione immediata. Il re convocò un consiglio a Gerusalemme e quivi il gran maestro degli ospitalieri, Gilberto di Assailly, li esortò con veemenza a non indugiare oltre e la maggioranza dei nobili laici si trovò d’accordo con lui. Il conte di Nevers e i suoi uomini, che erano venuti a combattere per la croce, aggiunsero il loro appoggio. I templari si opposero recisamente a qualsiasi spedizione e annunciarono che non vi avrebbero preso parte. Può darsi che la loro opposizione fosse dovuta a invidia verso gli ospitalieri che avevano già deciso di prendere come parte del bottino Pelusio, per controbilanciare il possesso della fortezza di Gaza da parte dei templari, ma costoro avevano anche dei rapporti finanziari con i musulmani e con i mercanti italiani, il cui commercio con l’Egitto era in quel momento molto più importante che quello con la Siria cristiana. Re Amalrico convenne che sarebbe stato ben presto necessario intraprendere qualche azione, in considerazione della debolezza e dell’atteggiamento ambiguo di Shawar, ma desiderava aspettare fino a che si potesse contare sull’aiuto dell’imperatore. Egli venne messo in minoranza e cedette davanti all’energica risolutezza degli ospitalieri e dei propri vassalli che non vedevano per quale ragione i greci dovessero partecipare al bottino: si progettò una spedizione per ottobre29. Quando Guglielmo di Tiro tornò da Costantinopoli con il suo trattato trovò che il re era già partito. Amalrico aveva annunciato che stava per attaccare Homs, allo scopo di distogliere Nur edDin dall’intraprendere qualche azione, ma questi in realtà aveva i propri fastidi nella Siria nordorientale e desiderava vivamente di evitare una guerra con i franchi. Neppure Shawar si rese conto di quello che si stava preparando, finché il 20 ottobre l’esercito franco uscì da Ascalona, giungendo dieci giorni più tardi davanti a Bilbeis. Egli ne fu scandalizzato perché non si sarebbe mai aspettato che Amalrico venisse meno cosi arbitrariamente al trattato con lui stipulato. Il suo primo ambasciatore, un emiro di nome Bedran, s’incontrò con il re a Daron, sulla frontiera, ma venne da questi corrotto con denaro. Il successivo rappresentante, Shams al-Khilafa, trovò il re nel deserto, a pochi giorni di marcia da Bilbeis, e gli rimproverò duramente la sua mancanza di lealtà. A ciò Amalrico rispose che egli era giustificato dalle trattative che il figlio di Shawar, Kamil, stava

conducendo con Shirkuh; e, comunque, egli disse, i crociati appena giunti dall’Occidente avevano deciso di attaccare l’Egitto ed egli si trovava là per tenerli a freno; avrebbe potuto ritirarsi, aggiunse, se gli si fossero pagati altri due milioni di dinari. Ma Shawar non credeva ormai più alla buona fede del re e, con sorpresa di Amalrico, decise di resistere. Suo figlio Taiy, che comandava la guarnigione di Bilbeis rifiutò di aprire le porte ai franchi, ma le sue truppe erano poche e dopo tre giorni di disperati combattimenti, di cui Amalrico non avrebbe creduto capaci gli egiziani, il 4 novembre l’esercito franco entrò nella fortezza. Seguì uno spaventoso massacro degli abitanti, di cui furono probabilmente protagonisti gli uomini di Nevers, ardenti e sfrenati come tutti i nuovi venuti dall’Occidente. Il loro conte era morto di febbre in Palestina prima che la spedizione partisse e non c’era nessuno capace di dominarli. Amalrico tentò di ristabilire l’ordine e quando, finalmente, ci riuscì, riscattò personalmente dai soldati i superstiti che essi avevano preso prigionieri. Ma il male era ormai fatto. Molti egiziani che detestavano Shawar sarebbero stati disposti ad accogliere i franchi come liberatori; e le comunità copte, specialmente numerose nelle città del Delta, avevano fin’ allora collaborato con i loro correligionari cristiani, ma sia copti che musulmani erano periti nella carneficina. L’intero popolo egiziano si trovò unito nell’odio contro i franchi. Pochi giorni più tardi una piccola flotta franca con equipaggi composti principalmente da occidentali, che doveva risalire il braccio tanitico del Nilo, giunse nel lago Manzaleh e piombò all’improvviso sulla città di Tanis. Seguirono le stesse scene d’orrore e furono soprattutto i copti a soffrirne. Amalrico si trattenne alcuni giorni a Bilbeis, senza dubbio per restaurare il controllo del suo esercito, e perse l’occasione di conquistare il Cairo per sorpresa; soltanto il 13 novembre egli apparve davanti alle mura di Fostat, l’antico sobborgo a sud della grande città. Shawar, incerto se poterlo difendere, gli appiccò il fuoco e ancora una volta inviò il suo ambasciatore Shams dal re a dirgli che, prima di lasciar cadere il Cairo nelle mani dei franchi, avrebbe incendiato anch’esso fino alle fondamenta, con tutte le sue ricchezze. Amalrico, la cui flotta era trattenuta nel Delta da barriere collocate attraverso il letto del fiume, si rese conto che la spedizione era fallita e per consiglio del suo siniscalco Miles di Plancy fece sapere a Shawar che egli era disposto a venire a patti per denaro. L’emiro egiziano tentò di guadagnare tempo e cominciò a mercanteggiare sulla somma di cui poteva disporre: pagò intanto centomila dinari per riscattare suo figlio Taiy e parlò di ulteriori versamenti. Nel frattempo l’esercito franco si spostò di alcune miglia verso nord e si accampò a Mataria, vicino al sicomoro alla cui ombra la Vergine aveva sostato durante la Fuga in Egitto. Essi attesero li per otto giorni, finché giunse all’improvviso la notizia che Shirkuh stava per penetrare in Egitto su invito del califfo fatimita30. Shawar non avrebbe voluto compiere un passo cosi disperato, ma suo figlio Kamil lo scavalcò e costrinse il sovrano titolare, al-Adid, a scrivere ad Aleppo offrendo a Nur ed-Din un terzo del paese d’Egitto e feudi per i suoi generali. Il giovane califfo dovette rendersi conto del pericolo di chiamare in aiuto un protettore ai cui occhi egli era un eretico e un usurpatore, ma era impotente. Nur ed-Din, appena ricevuto l’invito, inviò un messo a Homs dove risiedeva Shirkuh, ma il suo messaggero incontrò il generale già alle porte di Aleppo. Questa volta Nur ed-Din non ebbe esitazioni: diede a Shirkuh ottomila cavalleggeri e una somma di duecentomila dinari da adoperare assieme con l’esercito di Damasco per conquistare l’Egitto, e ordinò a Saladino di accompagnarlo. Shawar, ancora incerto da che parte si trovasse il suo interesse, avverti Amalrico il quale mosse con il suo esercito verso l’istmo, con la speranza di gettarsi su Shirkuh quando usciva dal deserto, ma questi riuscì a schivarlo deviando verso il sud. Ormai non c’era altra alternativa per i franchi se non l’evacuazione. Dopo aver ordinato alla flotta di tornare ad Acri e aver disposto che la guarnigione

lasciata a Bilbeis lo raggiungesse, Amalrico iniziò la ritirata il 2 gennaio 116931. Sei giorni più tardi Shirkuh entrava al Cairo. Lasciò l’esercito accampato alla porta di el-Luq e si diresse a palazzo, dove il califfo gli consegnò doni cerimoniali e promise denaro e cibo per le sue truppe. Shawar lo accolse cordialmente e nei giorni seguenti si videro con frequenza per discutere di accordi finanziari e di una spartizione del visirato. Shirkuh fece buon viso a queste iniziative, ma suo nipote Saladino, che era il suo principale consigliere, insisteva per passare a un’azione più concreta. Il califfo si lasciò persuadere a venire in incognito al quartier generale del comandante siriano poi, il 18 gennaio, Shawar venne invitato a unirsi a Shirkuh per un piccolo pellegrinaggio alla tomba del santo as-Shafii. Com’egli partiva, Saladino e i suoi emiri si gettarono su di lui, la sua scorta venne disarmata ed egli stesso fatto prigioniero. In meno di un’ora un ordine di decapitazione firmato dal califfo veniva esibito e la testa di Shawar portata ai suoi piedi. Poi, per evitare qualsiasi attentato contro di sé Shirkuh fece sapere che chiunque lo desiderasse poteva saccheggiare la casa del defunto visir, e mentre la plebaglia si precipitava da quella parte, egli e il califfo si trasferirono nel palazzo e tranquillamente assunsero ii governo. Il dominio di Shawar era stato troppo impopolare e il rispetto di Shirkuh per la legalità fu troppo scrupoloso perché qualche governatore provinciale si opponesse al nuovo regime. In poche settimane Shirkuh era padrone di tutto l’Egitto; i suoi emiri occuparono i feudi che erano appartenuti a Shawar e alla sua famiglia ed egli stesso assunse il titolo di visir e di re32. Shirkuh non visse a lungo dopo il trionfo: morì d’indigestione il 23 marzo 1169. La sua fama nella storia è stata offuscata da quella del suo padrone Nur ed-Din e di suo nipote Saladino. Eppure fu lui che vide, più chiaramente di qualsiasi altro musulmano, che la conquista dell’Egitto, data la posizione strategica e le illimitate risorse, era il preliminare necessario per la riconquista della Palestina e, malgrado l’esitazione e gli scrupoli di Nur ed-Din, si adoperò incessantemente a questo scopo. Suo nipote raccolse il frutto della sua tenacia. Fisicamente il suo aspetto era insignificante: basso di statura e corpulento, rosso di faccia, cieco da un occhio, e i lineamenti ne rivelavano la bassa estrazione. Ma era un soldato geniale e pochi comandanti sono stati cosi devotamente amati dai loro uomini33. I franchi si resero ben conto della decisiva importanza del trionfo di Shirkuh. Mentre alcuni di loro ne rendevano responsabile l’avidità di Miles di Plancy che aveva consigliato il suo re di accettare del denaro piuttosto che combattere, altri cercarono un capro espiatorio nel maestro dell’Ospedale, il quale venne costretto a dare le dimissioni dalla carica e a tornare in patria, in Europa. Amalrico stesso si rivolse all’Occidente per una nuova crociata. All’inizio del 1169 venne inviata un’imponente ambasceria, guidata dal patriarca Amalrico e dall’arcivescovo di Cesarea, con lettere per l’imperatore Federico, per Luigi VII di Francia, per Enrico II d’Inghilterra, per Margherita, regina-reggente di Sicilia e per i conti di Fiandra, Blois e Troyes. Ma dopo due giorni di navigazione le navi degli ambasciatori incapparono in una tempesta cosi violenta che ne vennero respinti ad Acri e nessuno dei passeggeri volle correre il rischio di esporsi di nuovo ai pericoli del mare. Venne inviata una seconda ambasceria guidata da Federico, arcivescovo di Tiro, accompagnato dal suo coadiutore Giovanni, vescovo di Banyas, e da Ghiberto, precettore dell’Ordine dell’Ospedale. Essi giunsero a Roma nel luglio del 1169 e papa Alessandro III diede loro delle lettere di raccomandazione per tutti i suoi ecclesiastici. Ma nessuna delle lettere che essi portavano risultò di qualche utilità: re Luigi li trattenne per molti mesi a Parigi (dove il vescovo di Banyas morì) a spiegare le sue difficoltà con i Plantageneti; proseguirono poi per l’Inghilterra dove re Enrico parlò loro delle sue grane con i Capetingi. Le dispute tra il papa e l’imperatore resero

inutile una visita in Germania. Dopo due anni di vani appelli essi tornarono, sconsolati, in Palestina34. Miglior fortuna toccò invece a un’ambasceria inviata a Costantinopoli. Manuele si rendeva perfettamente conto che l’equilibrio delle potenze in Oriente era stato pericolosamente sconvolto, e offrì ad Amalrico la collaborazione della grande flotta imperiale per la sua prossima campagna35. Il re accettò con piacere: l’Egitto poteva ancora essere riconquistato. Nur ed-Din sembrava interamente impegnato nel nord: la morte di Kara Arslan, emiro ortoqita di Diarbekir, avvenuta nel 1168, e le liti a proposito dell’eredità avevano guastato i suoi rapporti con suo fratello Qutb ed-Din di Mosul; poco dopo era scoppiata la rivolta di Ghazi ibn Hassan, governatore di Menbij, ed erano occorsi parecchi mesi per liquidarla. In quel momento Qutb ed-Din era morente e sarebbe sorta ben presto la questione della successione a Mosul36. In Egitto le cariche e il potere di Shirkuh erano passati a suo nipote Saladino il quale, però, come governatore era inesperto. Altri emiri di Shirkuh avevano sperato nella successione, ma il califfo aveva scelto Saladino sperando che la sua inesperienza lo avrebbe costretto a fare assegnamento sui funzionari fatimiti. Intanto il principale eunuco di al-Adid, un nubio chiamato al-Mutamen, ovvero il consigliere confidenziale, aveva scritto segretamente a Gerusalemme per promettere aiuto se i franchi avessero invaso l’Egitto. Sfortunatamente uno degli agenti di Saladino, incuriosito dalla strana forma di un paio di sandali indossati da un messaggero di corte, se ne impadronì, li scuci e vi trovò dentro la lettera. Saladino rimandò la vendetta, ma le notizie sulla precarietà della sua posizione incoraggiarono i cristiani37. Amalrico aveva esortato l’imperatore a far presto, e il io luglio 1169 la flotta imperiale parti dall’Ellesponto al comando del granduca Andronico Contostefano: il grosso si diresse verso Cipro e catturò due navi egiziane durante il viaggio, mentre una squadra più piccola salpava direttamente verso Acri per portare dei sussidi in denaro per i soldati di Amalrico. Al re fu chiesto di inviare un messaggio a Cipro appena desiderava che la flotta proseguisse. Ma Amalrico non era ancora pronto: la campagna del 1168 aveva disorganizzato le sue truppe, le perdite degli ospitalieri erano state molto gravi, i templari continuavano a rifiutare la loro partecipazione e i baroni, scoraggiati dalla loro precedente esperienza, non erano più cosi entusiasti. Non prima della fine di settembre il re convocò ad Acri la flotta, che con il suo magnifico aspetto elettrizzò gli abitanti della città, e soltanto alla metà di ottobre l’intera spedizione fu pronta a partire per l’Egitto. Tutti questi indugi ebbero conseguenze doppiamente gravi. Manuele, di temperamento piuttosto ottimista, aveva contato su di una breve campagna e aveva rifornito le sue navi di viveri per tre mesi soltanto, e i tre mesi erano ormai quasi completamente trascorsi. Cipro, che non si era ancora ripresa dalle devastazioni di Rinaldo, non era in condizioni di collaborare all’approvvigionamento, e ad Acri non si trovavano vettovaglie38. Allo stesso tempo Saladino riceveva molti avvertimenti sulla spedizione. Per rendere sicura la propria posizione al Cairo, il 20 agosto 1169 egli arrestò e decapitò l’eunuco al-Mutamen, poi licenziò tutti i funzionari di palazzo noti per la loro fedeltà al califfo, sostituendoli con creature sue. Gli ufficiali congedati, con l’incoraggiamento del califfo, incitarono la guardia di palazzo nubia a ribellarsi e ad attaccare le truppe di Saladino. Il fratello di questi, Fakhr ed-Din, contrattaccò, ma non ottenne alcun risultato finché Saladino non diede alle fiamme la caserma delle guardie a Fostat: là si trovavano le mogli e le famiglie dei nubii che fuggirono per correre in loro soccorso, allora Fakhr ed-Din si gettò su di loro e li trucidò quasi tutti. Il califfo, che aveva atteso l’esito della battaglia, si affrettò a rassicurare Saladino sulla propria lealtà; abbandonando in questo modo i nubii

ne completò la disfatta. La guardia armena, che non aveva preso parte al combattimento, peri nell’incendio della caserma. Cosi al Cairo fu ridotta al silenzio l’opposizione a Saladino39. L’esercito cristiano si mise finalmente in marcia il 16 ottobre. Andronico Contostefano, che si irritava per gli indugi di Amalrico, si offrì di trasportare per mare il grosso delle truppe, ma i franchi insistettero per seguire la via della terraferma. Il 25 ottobre l’esercito penetrò in Egitto a Farama, vicino a Pelusio. Saladino si aspettava un attacco contro Bilbeis e vi aveva concentrato i suoi soldati, ma i franchi vennero traghettati oltre le diramazioni orientali del Nilo dalle navi bizantine che erano scese lungo la costa di pari passo con l’esercito; essi proseguirono speditamente verso Damietta, la ricca fortezza che controllava il braccio principale del fiume, per il quale la flotta avrebbe potuto risalire verso il Cairo. Saladino venne colto di sorpresa: non osò allontanarsi personalmente dalla capitale per timore che i sostenitori dei Fatimiti si sentissero incoraggiati a ribellarsi, ma mandò dei rinforzi a Damietta e scrisse in Siria per chiedere aiuto a Nur ed-Din. La guarnigione della città minacciata aveva lanciato una grossa catena attraverso il fiume e le navi greche, già ostacolate da venti contrari, non poterono navigare a monte della città per intercettare le truppe e i rifornimenti che scendevano per il fiume dal Cairo. Un assalto improvviso avrebbe forse permesso di conquistare la fortezza, ma, per quanto Contostefano preoccupato per le sue scorte che diminuivano rapidamente esigesse un’azione immediata, Amalrico era intimorito dalle gigantesche fortificazioni. Egli voleva costruire delle altre torri da assedio; la prima, per qualche errore di valutazione, era stata collocata contro la parte più robusta delle mura. I greci, con grande scandalo dei cristiani e dei musulmani del luogo, usarono le loro macchine per bombardare un quartiere santificato da una cappella dedicata alla Vergine, che aveva sostato li durante la fuga. Ogni giorno giungevano nella città truppe fresche, e ogni giorno i marinai greci e i loro compatrioti a terra vedevano ridursi le razioni di cibo mentre i loro alleati franchi, che erano abbondantemente riforniti, non li volevano aiutare; ogni giorno Contostefano supplicava Amalrico di tentare un attacco su grande scala contro le mura, ma il re rispondeva che il rischio era troppo grande, mentre i suoi generali, sempre diffidenti verso i greci, mormoravano che lo zelo di Contostefano era motivato dal desiderio di impossessarsi di Damietta, quale parte del bottino imperiale. Verso il principio di dicembre divenne evidente che la spedizione era fallita. I greci non potevano più resistere senza viveri; un battello incendiario lanciato dai difensori nel mezzo della flotta aveva causato delle gravi perdite, sebbene il pronto intervento di Amalrico avesse limitato il danno. La fortezza era ormai ben provvista di uomini e di viveri e si diceva che un esercito musulmano stesse avvicinandosi dalla Siria. Quando giunse, in anticipo, la stagione delle piogge e trasformò l’accampamento cristiano in una palude, era ormai tempo di levare l’assedio. Chi sia stato il primo ad iniziare le trattative con i saraceni, se Amalrico o Contostefano, è dubbio, e non sappiamo neppure quali condizioni venissero stipulate. Probabilmente venne versata ai cristiani un’indennità in denaro e Amalrico sperava certamente che una dimostrazione d’amicizia verso Saladino potesse allontanarlo da Nur ed-Din, con cui si diceva infatti che non vi fossero rapporti cordiali. Il 13 dicembre i cristiani appiccarono il fuoco a tutte le loro macchine da assedio per impedire che cadessero nelle mani dei musulmani, e si allontanarono da Damietta. L’esercito giunse ad Ascalona il 24; la flotta fu meno fortunata: mentre veleggiava verso settentrione si alzò una terribile burrasca, i marinai esausti per la fame non riuscirono a mantenere il controllo delle navi e molte affondarono. Per giorni e giorni il mare gettò sulle coste della Palestina i cadaveri di marinai greci. Contostefano riuscì a salvarsi e salpò verso la Cilicia, donde proseguì per terraferma per andare a riferire all’imperatore. Il resto della flotta arrivò al Bosforo al principio del nuovo anno40.

Il disastroso risultato della spedizione sollevò inevitabilmente delle recriminazioni: i franchi criticavano i greci per la scarsità dei loro rifornimenti e costoro, con maggior ragione, rimproveravano agli altri i loro interminabili indugi. Ma sia Amalrico che l’imperatore si rendevano conto che non bisognava spezzare l’alleanza, poiché Saladino era ormai il padrone indiscusso dell’Egitto. Saladino era troppo saggio per cadere nella trappola diplomatica tesagli da Amalrico. Nur edDin si era fidato di Shirkuh, ma diffidava delle ambizioni del nuovo governatore dell’Egitto; Saladino, tuttavia, tenne un atteggiamento di perfetta correttezza. Nell’aprile del 1170 giunse da lui suo padre, Naim ed-Din Ayub, inviatogli da Nur ed-Din con una compagnia di soldati siriani, in parte come gesto d’amicizia e in parte, forse, come monito, poiché Ayub era fedele al suo padrone. Dato che il convoglio viaggiava con un gran numero di mercanti damasceni desiderosi di iniziare il commercio con il Cairo, Nur ed-Din stesso condusse un’azione dimostrativa contro Kerak per permettere alla grande carovana di attraversare tranquillamente il territorio dell’Oltregiordano41. Fu l’unico atto di Nur ed-Din contro i franchi. Durante la spedizione in Egitto egli li aveva lasciati in pace e nel gennaio del 1170 essi avevano persino potuto riconquistare il castello di Akkar, al sud della Buqaia, che era stato perduto probabilmente nel n65. Amalrico, quale reggente di Tripoli, l’assegnò insieme con la città di Arqa agli ospitalieri che così ottenevano il controllo dell’intera valle42. Il 29 giugno 1170 la Siria subì un terribile terremoto, non meno disastroso di quelli del 1157, e per alcuni mesi sia i cristiani che i musulmani furono occupati a riparare le fortezze crollate. Aleppo, Shaizar, Hama e Homs vennero tutte gravemente danneggiate, e cosi pure Krak des Chevaliers, Tripoli e Jebail. Ad Antiochia i danni furono enormi, ma i franchi vi scorsero l’intervento della giustizia divina poiché il patriarca greco ed il suo clero stavano celebrando la messa nella cattedrale di San Pietro quando l’edificio crollò loro addosso. Mentre Atanasio moriva sotto le macerie il principe Boemondo e la sua corte corsero in gran fretta a Qosair, dal suo rivale Aimery, per pregarlo di tornare nella sua sede: il breve episodio del governo ecclesiastico greco era terminato43. Per quanto adirato all’udire queste notizie, l’imperatore non poté intervenire, perché le cose si stavano mettendo male in Cilicia. Il principe armeno Thoros era morto nel 1168 lasciando come successore un bimbo, Rupen II, sotto la reggenza di un nobile franco di nome Tommaso, la cui madre era sorella di Thoros. Ma Mleh, fratello del defunto, rivendicò la successione per sé. Egli aveva pronunciato anni prima i voti di cavaliere templare, poi, dopo aver litigato con Thoros e aver tentato di assassinarlo, era fuggito presso Nur ed-Din, facendosi musulmano. All’inizio del 1170 questi gli prestò delle truppe con le quali non soltanto egli poté detronizzare suo nipote, ma anche invadere la pianura della Cilicia e conquistare, vincendo i greci che le presidiavano, Mamistra, Adana e Tarso. Quindi attaccò i templari a Baghras. Boemondo rivolse un appello ad Amalrico che penetrò in Cilicia dove, a quanto pare, ristabilì temporaneamente l’autorità del governo imperiale. Può darsi che per questo gesto amichevole Manuele fosse disposto a accettare la perdita del controllo sulla Chiesa ad Antiochia; ma fu impossibile sottomettere Mleh: circa un anno più tardi egli riuscì a catturare Costantino Coloman e a invadere di nuovo la Cilicia44. Nel frattempo Nur ed-Din era impegnato in un settore più orientale: suo fratello Qutb ed-Din di Mosul era morto nell’estate del 1170; i suoi due figli, Saif ed-Din e Imad ed-Din cominciarono a litigare per l’eredità e trascorsero alcuni mesi prima che Nur ed-Din potesse sistemare la questione secondo i propri desideri45. La tregua fu utile per i franchi, ma il problema dell’Egitto rimaneva

insoluto. Amalrico restava fedele alla sua politica di stretta alleanza con l’imperatore e di costanti appelli rivolti all’Occidente. Nella primavera del 1171 egli decise di recarsi in persona a Costantinopoli. La partenza venne rimandata a causa di un’improvvisa offensiva lanciata da Saladino contro la frontiera meridionale del regno: al principio di dicembre del 1170 un grande esercito egiziano faceva la sua comparsa davanti a Daron, la più meridionale delle fortezze franche sulla costa mediterranea. Le sue fortificazioni erano deboli e la caduta sembrava imminente, anche se Saladino non aveva con sé delle macchine da assedio. Amalrico, portando con sé il patriarca e la reliquia della Vera Croce, si affrettò ad accorrere verso Ascalona con un contingente piccolo ma bene addestrato; vi giunse il 18 dicembre e proseguì verso la fortezza dei templari di Gaza, dove lasciò Miles di Plancy a guardia, mentre i cavalieri templari si univano a lui nella marcia verso Daron. Egli riuscì ad aprirsi un varco attraverso l’esercito egiziano e a entrare in città, al che Saladino levò l’assedio e marciò su Gaza. La città bassa venne occupata, malgrado un’inutile resistenza ordinata da Miles, e i suoi abitanti vennero massacrati. Ma la cittadella era cosi poderosa che Saladino non osò attaccarla e perciò, improvvisamente come era giunto, scomparve oltre la frontiera egiziana. Inviò poi lungo il golfo di Akaba una squadra navale che conquistò l’avamposto franco di Aila, all’estremità del golfo, durante gli ultimi giorni dell’anno46. Il 10 marzo Amalrico parti da Acri per Costantinopoli con un numeroso seguito che comprendeva anche il vescovo di Acri e il maresciallo di corte Gerardo di Pougi. Il maestro del Tempio, Filippo di Milly, diede le dimissioni per poter precedere il re in qualità di ambasciatore. Dopo aver fatto una sosta a Tripoli Amalrico salpò verso il nord. A Gallipoli s’incontrò con suo suocero il quale, a causa dei venti contrari alla navigazione, lo condusse per la via terrestre fino a Eraclea. Quivi egli si imbarcò di nuovo per entrare nella capitale attraverso la porta del palazzo al porto di Bucoleon, onore riservato soltanto alle teste coronate. L’accoglienza ricevuta soddisfece sia Amalrico sia il suo seguito. Manuele apprezzava gli occidentali in genere e trovò Amalrico di suo gradimento. Egli mostrò la solita larghissima generosità; la sua famiglia, e soprattutto il suocero del re, tutti fecero a gara a offrire ospitalità. Si celebrarono infinite cerimonie religiose e festeggiamenti innumerevoli. Vi fu un’esibizione di danze all’ippodromo e un’escursione in barca fino al Bosforo e ritorno47. In mezzo a tutte queste manifestazioni l’imperatore e il re discussero del futuro. Venne stipulato e firmato un trattato, le cui clausole però non ci sono state tramandate. Pare che il re riconoscesse in qualche vaga maniera la sovranità dell’imperatore sui cristiani indigeni, che Manuele promettesse aiuti navali e finanziari se mai fosse progettata un’altra spedizione contro l’Egitto, e che venisse deciso di intraprendere un’azione comune contro Mleh di Armenia. C’erano probabilmente delle clausole che riguardavano la Chiesa ortodossa di Antiochia e forse persino del regno, dove già nel 1169 Manuele si era assunto l’onere di far restaurare la chiesa della Natività a Betlemme. Un’iscrizione dei mosaici attesta che l’artista Efrem li eseguì per ordine dell’imperatore. Questi aveva anche finanziato le riparazioni al Santo Sepolcro48. Quali che fossero i particolari del trattato, i franchi erano soddisfattissimi della loro visita e pieni d’ammirazione per il loro ospite. Il 15 giugno salparono da Costantinopoli per tornare in patria, con grandi speranze per il futuro. L’appello rivolto all’Occidente ebbe meno successo: Federico di Tiro stava ancora vagando tra le corti di Francia e d’Inghilterra senza ottenere nulla. Verso la fine del 1170 Amalrico gli scrisse di invitare Stefano di Champagne, conte di Sancerre, a recarsi in Palestina per sposarvi la principessa

Sibilla49. Questa idea era motivata da una sciagura che si era abbattuta sulla famiglia reale. Il figlio di Amalrico, Baldovino, aveva ormai nove anni ed era stato inviato, con dei compagni della sua stessa età, a scuola da Guglielmo, arcidiacono di Tiro. Egli era un bel ragazzo, intelligente; ma un giorno, mentre gli allievi mettevano alla prova la propria resistenza al dolore piantandosi le unghie nel braccio gli uni agli altri, Guglielmo si accorse che soltanto il principe non cedeva mai. Lo osservò attentamente e ben presto si rese conto che il ragazzo era insensibile al dolore perché era lebbroso50. Era la punizione divina per il matrimonio incestuoso dei suoi genitori, Amalrico ed Agnese, ed era di cattivo presagio per il regno: anche se Baldovino fosse diventato adulto non avrebbe mai potuto continuare la dinastia. La giovane regina greca poteva ancora avere un figlio, ma nel frattempo, per maggior sicurezza, era prudente che Amalrico sposasse la sua figliola maggiore, Sibilla, con qualche principe occidentale ricco ed esperto, che in caso di necessità potesse fungere da reggente o persino da re. Stefano accettò l’invito e sbarcò in Palestina con un gruppo di cavalieri nell’estate del 1171, pochi giorni prima che Amalrico giungesse di ritorno da Costantinopoli. Non gli piacque l’aspetto del paese, perciò interruppe bruscamente le trattative di matrimonio e, dopo aver adempiuto i suoi voti ai Luoghi Santi, parti con il suo seguito verso settentrione, con l’intenzione di recarsi a Costantinopoli. Mentre attraversava la Cilicia cadde in un agguato tesogli da Mieli d’Armenia che lo derubò di tutto ciò che aveva con sé51. L’anno seguente giunse in visita a Gerusalemme un personaggio ancor più importante, Enrico il Leone, duca di Sassonia e di Baviera, nipotino dell’imperatore Lotario e genero di Enrico II d’Inghilterra. Anch’egli, però, si rifiutò di combattere per la croce: era venuto soltanto come pellegrino e riparti al più presto possibile per la Germania52. L’indifferenza dell’Occidente era amara e deludente, ma forse non sarebbe stato indispensabile lanciare una nuova spedizione contro l’Egitto subito, infatti i rapporti tra Saladino e Nur ed-Din sembravano prossimi al punto di rottura. Nel gennaio del 1171 Nur ed-Din aveva insediato una sua guarnigione a Mosul, dove governava suo nipote Saif ed-Din, aveva annesso per sé Nisibin e la valle del Khabur e preso Sinjar per il suo nipote prediletto, Imad ed-Din. Poi, con la pia intenzione di vedere il trionfo dell’Islam ortodosso, scrisse a Saladino per chiedergli che le preghiere pronunciate nelle moschee egiziane non menzionassero più il califfo fatimita, bensì quello di Bagdad. Saladino non era propenso a obbedire: dopo due secoli di governo fatimita l’influenza shia era molto forte in Egitto e inoltre, sebbene Saladino stesso dovesse riconoscere Nur ed-Din come proprio signore, di fatto la sua autorità nel paese gli veniva dal califfo fatimita. Egli tergiversò finché in agosto Nur edDin minacciò di scendere personalmente in Egitto se i suoi ordini non fossero stati eseguiti. Dopo aver preso delle precauzioni di polizia, Saladino preparò il cambiamento; ma nessuno osava fare il primo passo, finché nel primo venerdì dell’anno musulmano 567 un teologo forestiero, giunto da Mosul, sali arditamente sul pulpito della Grande Moschea e pregò per il califfo al-Mustadi. Il suo esempio venne imitato in tutto il Cairo. Nel palazzo il califfo fatimita al-Adid era moribondo e Saladino proibì ai suoi servitori di raccontargli la novità: «Se guarisce l’apprenderà fin troppo presto, - disse, - se deve morire, lasciatelo morire in pace». Ma quando il povero giovane, poche ore prima della morte chiese di vedere Saladino, la sua richiesta venne respinta per timore di un complotto. Saladino si penti di avere rifiutato quando ormai era troppo tardi, e parlò di lui con affetto. Con al-Adid si estingueva la dinastia fatimita: i superstiti principi e principesse vennero raccolti insieme e trascorsero il resto della loro vita nel lusso, tagliati fuori da ogni contatto con il mondo53.

Pochi giorni più tardi Saladino si mise in marcia per attaccare il castello di Montreal, a sud del Mar Morto, e lo strinse duramente d’assedio, mentre Amalrico, male informato, partiva da Gerusalemme troppo tardi per accorrere in suo aiuto. Ma, proprio quando la guarnigione si disponeva a capitolare, Nur ed-Din apparve improvvisamente sulla strada di Kerak, al che Saladino levò l’assedio. Poi disse a Nur ed-Din che le guerre dei suoi fratelli nell’alto Egitto lo costringevano a tornare al Cairo, ma all’emiro questo gesto apparve semplicemente un tradimento meritevole di esser castigato con la forza. Quando Saladino seppe della sua collera, si allarmò e convocò in consiglio i propri familiari e principali generali. I membri più giovani della famiglia consigliavano aperta ribellione, ma il padre di Saladino, il vecchio Najm ed-Din Ayub, si alzò per dire che egli intendeva rimanere fedele al suo signore e rimproverò suo figlio per la sua ambizione; in privato lo sgridò di nuovo per aver lasciato trasparire con tanta evidenza le sue mire ambiziose. Saladino accettò il suo consiglio e inviò umili scuse a Nur ed-Din il quale, per il momento, le accettò54. Nell’estate del 1171 Nur ed-Din progettò una spedizione in Galilea, poi vi rinunziò; verso la fine dell’autunno, adirato per un atto di pirateria compiuto dai franchi di Lattakieh contro due navi mercantili egiziane, egli devastò i territori di Antiochia e di Tripoli, distrusse i castelli di Safita ed Araima e si allontanò soltanto dietro pagamento di un cospicuo indennizzo55. Ma nel 1172 rimase in pace, sia perché diffidava di Saladino, sia perché desiderava ottenere l’aiuto selgiuchida per un attacco contro Antiochia. Ma il sultano selgiuchida, dopo aver ricevuto un fermo ammonimento da Costantinopoli, respinse le sue proposte e iniziò invece una guerra contro i Danishmend, che sarebbe durata due anni. L’alleanza con Bisanzio, anche se non produsse altri importanti risultati, riuscì almeno a salvare Antiochia da una coalizione tra Aleppo e Konya 56. Circa nello stesso tempo Nur ed-Din acconsentì finalmente a liberare Raimondo di Tripoli per la somma di ottantamila dinari. Il re e gli ospitalieri raccolsero la maggior parte della somma, dopo di che fu concesso a Raimondo di tornare in patria; egli non pagò mai circa trentamila dinari di cui era rimasto debitore a Nur edDin57. La guerra ricominciò nel 1173. Amalrico si sentì abbastanza sicuro da spingersi verso nord fino in Cilicia per castigare Mleh dell’oltraggio inferto a Stefano di Champagne, e per mantenere le promesse fatte all’imperatore. La campagna non ebbe alcun risultato, salvo arrestare l’ulteriore espansione di Mleh58. Nur ed-Din approfittò dell’occasione per invadere l’Oltregiordano e convocò Saladino perché accorresse in suo aiuto; questi, fedele al consiglio di suo padre, giunse dall’Egitto con un esercito e pose l’assedio a Kerak. Nel frattempo Nur ed-Din scendeva da Damasco con un esercito ma, al suo avvicinarsi, Saladino levò l’assedio e se ne tornò in Egitto dicendo (ciò che corrispondeva a verità) che suo padre era gravemente ammalato; ma era chiaro che non desiderava affatto distruggere lo Stato-cuscinetto franco che si trovava fra lui e il suo autoritario padrone. Nur ed-Din si accampò a sua volta davanti a Kerak. Il feudo dell’Oltregiordano, di cui la città era capitale, apparteneva a un’ereditiera, Stefania di Milly. Il suo primo marito, Honfroi erede di Toron, era morto alcuni anni prima; il suo secondo marito, il siniscalco di Amalrico, Miles di Plancy, era lontano, con il re. Accorse in aiuto il primo suocero di lei, il vecchio conestabile Honfroi II di Toron, ma dopo la mobilitazione delle truppe che rimanevano nel regno Nur ed-Din si ritirò. La sua collera contro Saladino era illimitata e quando, in agosto, venne informato della morte di Najm edDin Ayub, il più fedele servitore che avesse al Cairo, giurò di invadere l’Egitto egli stesso la primavera seguente59. Questa frattura nel mondo musulmano era consolante per i franchi che nell’autunno del 1173

furono oggetto di sondaggi diplomatici provenienti da una parte del tutto inaspettata. Negli ultimi decenni gli assassini avevano fatto parlare molto poco di sé, ad eccezione dell’arbitraria uccisione di Raimondo II di Tripoli nel 1152; essi si erano dedicati tranquillamente a consolidare il loro territorio nelle montagne Nosairi e, in generale, non mostravano alcuna animosità verso i franchi. Il loro odiato nemico era Nur ed-Din la cui potenza poneva loro un limite a oriente. Ma questi non era riuscito a eliminarli e un pugnale che aveva trovato una notte sul suo guanciale lo aveva ammonito a non eccedere. Le loro simpatie andavano piuttosto agli shia che ai sunniti per cui erano rimasti scandalizzati per la fine del califfato fatimita. Nel 1169 il quartier generale degli assassini, che si trovava ad Alamut in Persia, inviò un nuovo governatore per la provincia Nosairi, Rashid ed-Din Sinan di Basra. Questo straordinario sceicco, destinato a rimanere noto tra i franchi con il soprannome di «Vecchio delle montagne», intraprese una politica più attiva. Inviò dunque dei messi ad Amalrico per proporgli una stretta alleanza contro Nur ed-Din e per fargli intendere che egli e tutti i suoi seguaci stavano prendendo in considerazione la possibilità di convertirsi al cristianesimo. In cambio, apparentemente, egli chiedeva soltanto che venisse abrogato un tributo che i templari di Tortosa erano riusciti a imporre a diversi villaggi appartenenti alla setta. Sia che Amalrico credesse o no all’ipotetica conversione degli assassini, fu ben lieto di incoraggiare la loro amicizia. Gli inviati di Sinan iniziarono il viaggio di ritorno alle loro montagne con la promessa che un’ambasceria franca li avrebbe ben presto seguiti. Mentre essi viaggiavano oltre Tripoli un cavaliere templare, Gualtiero di Mesnil, con la connivenza del suo gran maestro, tese loro un’imboscata e li trucidò tutti quanti. Re Amalrico ne rimase inorridito: la sua politica veniva compromessa e il suo onore macchiato soltanto perché l’ordine era troppo avido per sacrificare una piccola parte delle proprie rendite. Egli ordinò al gran maestro, Oddone di Saint-Amand, di consegnare il colpevole, ma Oddone rifiutò e offrì semplicemente di mandare Gualtiero a essere giudicato dal papa, l’unica autorità che egli riconoscesse. Ma Amalrico era troppo adirato per preoccuparsi della costituzione dell’ordine: con alcune truppe si precipitò a Sidone dove si trovavano il gran maestro e il Capitolo, si fece strada con la forza fino alla loro presenza, rapi Gualtiero e lo gettò in prigione a Tiro. Venne data assicurazione agli assassini che giustizia era stata fatta ed essi accettarono le scuse del re. Nel frattempo Amalrico progettava di chiedere a Roma che l’ordine venisse sciolto60. L’anno 1174 cominciò favorevolmente per i cristiani: gli assassini erano animati da sentimenti amichevoli, l’alleanza con i bizantini continuava ad essere solida, il giovane re di Sicilia Guglielmo II prometteva aiuti navali per la primavera, la discordia tra Nur ed-Din e Saladino si avvicinava al punto critico e Saladino stesso non si sentiva troppo sicuro in Egitto dove la nobiltà shia stava di nuovo tramando contro di lui e teneva contatti con i franchi. Nel 1173 Saladino aveva inviato suo fratello, Turanshah, a conquistare il Sudan in modo che potesse servire di rifugio per la famiglia nel caso che la situazione fosse peggiorata. Turan occupò la regione fino a Ibrim, vicino a Wady Halfa, dove trucidò il vescovo copto e il suo gregge, ossia ne distrusse sia la comunità sia i settecento maiali. Ma fece sapere che il paese non era adatto come rifugio. Allora Saladino lo inviò nell’Arabia meridionale, e Turan la preferì. La conquistò in nome di suo fratello e la governò come viceré fino al 117661. Ma ormai non era più necessario sfuggire al furore di Nur ed-Din. Nella primavera del 1174 l’atabeg venne a Damasco per tracciare i piani della campagna contro l’Egitto; una mattina, mentre con i suoi amici attraversava a cavallo i frutteti, egli conversava con loro sull’incertezza della vita umana: nove giorni più tardi, il 15 maggio, moriva per una tonsillite. Era stato un grande sovrano e un

uomo buono, che sopra ogni altra cosa aveva amato la giustizia. Dopo la malattia che aveva avuto diciannove anni prima, aveva perso una parte della sua energia, e trascorreva sempre più tempo in esercizi spirituali. Ma la sua religiosità, per quanto angusta, gli aveva meritato il rispetto dei sudditi e dei nemici. Era un uomo austero e sorrideva di rado, viveva in modo semplice e obbligava la sua famiglia a fare altrettanto, preferendo spendere le sue considerevoli rendite in opere di misericordia. Era un amministratore avveduto e attento, e con un saggio governo consolidò il regno che si era conquistato con la spada. In particolare egli cercò di frenare la turbolenza dei suoi emiri turchi e curdi sistemandoli in feudi le cui rendite erano pagate con la fornitura di soldati, ma i suoi tribunali li tenevano sotto stretto controllo. Questa specie di feudalesimo mitigato ebbe grande importanza nel far rifiorire la prosperità della Siria dopo quasi un secolo di dominio di nomadi. D’aspetto egli era alto, con la pelle scura, quasi senza barba, con i lineamenti regolari e un’espressione mite e triste. Il gioco del polo era l’unico suo divertimento62. L’erede di Nur ed-Din era suo figlio, Malik as-Salih Ismail, un ragazzo di undici anni che si trovava con lui a Damasco. Quivi l’emiro Ibn al-Muqaddam, appoggiato dalla madre del fanciullo, s’impadronì della reggenza, mentre Gumushtekin, governatore di Aleppo (che era stata la più importante capitale del defunto sovrano) vi si proclamava reggente. Il cugino del ragazzo, Saif edDin di Mosul, intervenne per annettersi Nisibin e tutto lo Jezireh fino a Edessa. Saladino, quale governatore della più ricca tra le province di Nur ed-Din, scrisse a Damasco per affermare che la reggenza toccava a lui; ma per il momento egli non era in grado di imporre le proprie pretese63. Il crollo dell’unità musulmana offriva ai franchi un’occasione favorevole che Amalrico seppe cogliere rapidamente. In giugno egli marciò su Banyas. Al-Muqaddam uscì da Damasco per andargli incontro e gli propose subito, come probabilmente Amalrico si aspettava, il pagamento di una forte somma di denaro, la liberazione di tutti i prigionieri franchi che si trovavano a Damasco e in avvenire un’alleanza contro Saladino64. Amalrico, che cominciava a soffrire per un attacco di dissenteria, accettò le proposte. Dopo aver firmato un patto egli ritornò a cavallo a Gerusalemme, attraverso Tiberiade e Nablus, rifiutando una comoda lettiga, e vi giunse gravemente ammalato. Vennero convocati al suo capezzale medici greci e siriani ed egli disse loro di fargli un salasso e dargli una purga. Essi non vollero, perché lo consideravano troppo debole per sopportare quello sforzo, allora il re ricorse al suo medico personale franco, che non aveva tali scrupoli. Sembrò che il rimedio gli avesse fatto del bene, ma l’effetto durò soltanto per un giorno o due: l’11 luglio 1174 il re moriva, all’età di trentotto anni65. Se la storia non è altro che un giuoco di azioni e reazioni, allora lo sviluppo dell’unità musulmana sotto Zengi, Nur ed-Din e Saladino fu l’inevitabile risposta alla prima crociata. Ma troppo spesso il destino gioca con dadi capricciosamente contraffatti. Al principio del 1174 pareva che la stella di Saladino stesse tramontando, ma la morte di Nur ed-Din e quella di Amalrico, entrambe inaspettate, lo salvarono dalla rovina e spalancarono la porta alle sue future vittorie. La morte di Amalrico, avvenuta proprio in quel momento cruciale, e le disgrazie che avevano colpito la sua famiglia facevano presagire ai franchi d’Oriente la fine del loro regno. Amalrico fu l’ultimo re della Gerusalemme cristiana degno d’occupare quel trono: egli aveva commesso degli errori, si era lasciato dominare dall’entusiasmo dei suoi nobili nel 1168 e dalle loro esitazioni nel 1169, era stato troppo propenso ad accettare donativi in denaro, di cui il suo governo aveva immediato bisogno, anziché realizzare una politica più lungimirante, tuttavia la sua energia e intraprendenza non avevano avuto limiti. Aveva mostrato che né i suoi vassalli, né gli ordini militari potevano sfidarlo impunemente. Se fosse vissuto più a lungo avrebbe probabilmente messo in forse l’inevitabilità del

trionfo dell’Islam.

Note Prefazioni

1 Riportiamo

qui le prefazioni ai tre volumi dell’edizione originale di A History of the Crusades

Note Capitolo primo L’abominazione della desolazione

1

Teofane, ad ann. 6127, p. 333; Eutichio, col. 1099; Michele il Siriano, vol. II, pp. 425-26; Elia di Nisibin, p. 64. Un eccellente compendio delle fonti è dato in Vincent e Abel, Jérusalem Nouvelle, II, pp. 930-32. 2 Cfr. l’articolo ‘Djizya’ di Becker, nella Encyclopaedia of Islam, e Browne, The Eclipse of Christianity in Asia, pp. 29-31 3 «Σωφρόνιος δέ. δ μελιλωσσς τῆς άληθείαϛ» in Mansi, Concilia, voi X, col. 607. È ormai acquisito che Sofronio il Patriarca e Sofronio l’amico di Mosco sono la stessa persona (cfr. Usener, Der Heilige Tychon, pp. 85-104). 4 II miglior resoconto della storia primitiva delle chiese nestorians e monofisita si trova in Vacant e Mangenot, Dictionnaire de Théologie Catholique, alle voci ‘Nestorio’ di Amann e ‘Monofisismo’ di Jugie, nei capitoli di Bardy nel vol. IV, e di Brébier nei voli. IV e V della Histoire de l’Èglise, a cura di Fliche e Martin. 5 Per l’arbitraria ma non molto oppressiva legislazione imperiale contro gli ebrei, cfr. Bury, Later Roman Empire (A D. 395-565), vol. II, p. 366, e Krauss, Studien zar byzantinisch-judischen Geschichten, pp. 1-36. 6 Cfr Bréhier, in Histoire de l’Eglise, vol. IV, pp. 489-93; Devreesse, Le Patriarchat d’Antioche, pp. 77-99. 7 Teofane, ad ann. 6101, p. 296; Giovanni di Nikiu, p. 166; Sebeos, pp 113-14; Eutichio, col. 1084 (riferisce dei tumulti di Tiro); il Chronicon Paschale, p 699 (attribuisce l’assassinio del patriarca a soldati ammutinati); Kulakovskij, Critica dell’evidenza in Teofane (in russo), in «Vizantijskij Vremennik», voi XXI, pp. 1-14, e Storia di Bisanzio (in russo), vol. III, pp. 12-15, che collaziona le testimonianze e fissa la data. 8 Antioco lo Stratega, pp. 9-15; Sebeos, pp. 130-31; Anon Guidi, p. 3; Chronicon Paschale, pp. 704-5; Teofane, ad ann. 6106, pp. 300-1. L’episodio dei mosaici di Betlemme e narrato nella lettera dei patriarchi orientali a Teofilo, in MPG, vol. XCV, coll. 380-81. 9 Per la storia della guerra persiana cfr. Kulakovskij, Storia di Bisanzio, vol. III, pp. 33-49; Ostrogorsky, Geschichte des Byzantinischen Staates, pp. 31-66; Bréhier, op cit, pp. 79-101; Pernice, L’Imperatore Eraclio, pp. 38-179, passim 10 Guglielmo di Tiro, 1,1-2, vol. I, parte 1, pp. 9-13. Il titolo completo della traduzione francese antica è L’Estoire de Eracles, Empereur, et la Conqueste de la Terre d’Outremer. 11 II concilio di Ctesifonte è descritto in Sebeos, pp. 189-92, e Anon. Guidi, p. 20. Quest’ultimo probabilmente esagera la parte avutavi dai nestoriani e il loro successo. 12 Una completa relazione con riferimenti si trova in Bréhier, op. cit, pp. 108-n. Teofane, ad ann. 6120, pp. 328-29 e Eutichio, col. 1089, sono le fonti principali. Il decreto che ordina il battesimo

degli ebrei è registrato in Dölger, Regestern, n. 206, vol. I, p. 24. Cfr. anche la Doctrina Jacobi a cura di Bonwetsch, p. 88. 13 II miglior compendio del monoergismo e del monotelismo si trova in Bréhier, op. cit., pp. 111-24,160-200. 14 Cfr Browne, op cit, cap. I; e Lammens, L’Arabie Occidentale avant l’Hégire, passim 15 La più completa relazione critica su Maometto e il sorgere dell’Islam si trova in Caetani, Annali dell’Islam, vol. I Cfr. anche l’articolo su ‘Muhammed’ di Buhl nella Encyclopaedia of Islam. Per una discussione sull’influenza dei monofisiti sull’Islam, cfr Grégoire, Mahomet et le Monophysisme, in Mélange! Charles Diehl, vol. I, pp. 107-19. 16 Teofane, ad ann. 6123-24, pp. 335-36. Tommaso il Prete, in CSCO, vol. IV, p. 114; Michele il Siriano, vol. II, p. 413. La storia dei martiri di Gaza è narrata in Passio IX Martyrum et Legenda Sancii Floriani, pp. 289-307. 17 Per la battaglia di Ajnadain, Teofane, ad ann. 6125, pp. 336-37; Sebeos, p. 163. Teofane chiama il luogo della battaglia «Gabitha»; Sebeos, la cui relazione è un po’ confusa, «RabbothMoab». Per la battaglia dello Yarmuk, Teofane, ad ann. 6126, pp. 337-38; Niceforo, pp. 23-24; Michele il Siriano, vol. II, pp. 420-24; Sebeos, pp. 166-67; Eutichio, col. 1097. Le fonti arabe sono compendia te in Pernice, op. cit., pp. 279-81. Cfr. anche ibid , p. 321, a proposito del luogo della battaglia. 18 La storia del rito di intercessione di Eraclio e del suo addio trovasi in Michele il Siriano, vol. II, p. 424, che lo accusa erroneamente di aver saccheggiato i tesori delle città siriane prima di partire. La tradizione del suo disfattismo è ripresa in Agapio, Kitab al-Unvan, p. 471, dove si dice che egli abbia rifiutato di combattere contro il volere di Dio. Secondo Niceforo, p. 23, Teodoro attribuì il disastro all’incestuoso matrimonio dell’imperatore con sua nipote. 19 Cfr. Caetani, op. cit., vol. III, pp. 1119 sgg e de Goeje, Mémoire sur la Conquête de la Syrie, passim; Pernice, op. cit., pp. 267-89; Kulakovskij, Storia di Bisanzio, vol. III, pp. 132-36. La parte avuta dagli ebrei è sottolineata in tutte le fonti originali, specialmente Sebeos, pp. 173-74, e nella Doctrina Jacobi, pp. 86-88, scritta da un ebreo di Costantinopoli che si trovava allora a Cartagine. 20 Caetani, op, cit., vol. III, pp. 629 sgg.; Christensen, L’Iran sous les Sassanides, pp. 494-503. 21 Bréhier, op. cit., pp. 134-38, 152-55; Amélineau, La Conqueste de l’Egypte par lei Arabes, nella «Revue Historique», vol. CXIX, pp. 275-301. La relazione completa si trova in The Arab Conquest of Egypt, di Butler, che è ancora utile sebbene in parte superna.

Note Capitolo secondo Il regno dell’anticristo

1 Michele

il Siriano, vol. II, pp. 412-13 (testo siriaco, p. 412). di Seert, II, XCV, vol. XIII, p. 262. 3 Giovanni di Nikiu, pp. 193, 200-1. 4 I fuorilegge mardaiti al tempo del califfo Moawiyah sono descritti da Teofane, ad ann. 6169, p. 355. Cfr. pure Sathas, Bibliotheca Crocea Medii Aevi, vol. II, pp. 45 sgg. 5 Encyclopaedia of Islam, articoli ‘Djizya’ di Becker e ‘Kharadij’ di Juynboll; Browne, op. cil., cap. V; Tritton, The Caliphs and their non-Muslim Subjects, cap. XV; Vincent e Abel, op. est., II, PP- 935-44. 6 Cfr. Runciman, The Byzantine «Protectorate» in the Holy Land, in «Byzantion», vol. XVIII, pp. 207-15. 7 Sulla struttura della società in Palestina e in Siria sotto i califfi cfr. Le Strange, Palestine un der the Moslems, passim; Gaudefroy-Demombynes e Platonov, Le Monde Musulman, pp. 233-47; Browne, op cit, cap. V; O’Leary, How Greek Science passed to the Arabs, pp. 135-39. 8 Per la civiltà omeiade, cfr. Diehl e Marçais, Le Monde Orientai de 395 à 1081, pp. 335-44. e Lammens, Etudes sur le Siede des Ommayades Per la sua arte, cfr. Creswell, Early Muslim Architecture, specialmente il cap. V, sui mosaici, di M. van Berchem. Per singoli edifici cfr. Richmond, The Dome of the Rock, e i due volumi Museir Amra, pubblicati dalla Imperiale Accademia delle Scienze di Vienna. 9 Diehl e Marçais, op cit., pp. 345-48; Gaudefroy-Demombynes e Platonov, op. cit., pp. 260-68. 10 Al-Jahiz, p. 18. Labourt, De Timotheo I, Nestorianorum Patriarcha, pp. 33-34, dà esempi dell’influenza esercitata dai nestoriani alla corte del califfo. 11 Lettera di Teodosio di Gerusalemme a Ignazio di Costantinopoli, in Mansi, Concilia, vol. XVI, pp. 26-27 12 Nel 923 e nel 924 la plebaglia musulmana distrusse chiese cristiane ortodosse a Ramleh, Asco lana, Cesarea e Damasco; perciò il califfo al-Muqtadir aiutò i cristiani a ricostruirle (Eutichio, col. 1151). 13 Barebreo, citato da Assemani, Bibliotheca Orientalis, vol. II, pp. 440-41. 14 Baladhuri, p. 142 (testo arar»), pp. 208-9 (trad. ingl. di Hitti e Murgotten). Cfr. Nau, Les Arabes Chrétiens de Mésopotamie et de Syrie, pp. 106-11. 15 Cfr. Runciman, Charlemagne and Palestine, in «English Historical Review», vol. L, pp. 606 sgg. 16 Vasiliev, Bisanzio e gli Arabi (in russo), vol. II, pp. 229-37; Runciman, The Emperor Romanus Lecapenus, pp. 135-50. 2 Cronaca

17 Schlumberger, Un Empereur Byzantin, capp. VIII e X. 18 Yachya di Antiochia, in PO, vol. XVIII, pp. 799-802. La data è discussa in Rosen, L’imperatore Basilio, uccisore di Bulgari (in russo), p. 351. 19 Schlumberger, Un Empereur Byzantin, cap. XIV. 20 Schlumberger, L’Epopée Byzantine, vol. I, cap. IV. 21 Costantino Porfirogenito, De Ceremoniis, ed. di Bonn, vol. I, pp. 332-33; a cura di Vogt, vol. II, pp. 155-36. Le acclamazioni furono probabilmente usate la prima volta per il trionfo di Miche le III sui saraceni nell’863. Cfr. Bury, The Ceremonial Book of Constantine Porphyrogennetos, in «English Historical Review», vol. XXII, p. 434. 22 Zonata, p. 506. 23 Schlumberger, Un Empereur Byzantin, pp. 427-30, con citazioni da un manoscritto arabo di Vienna. 24 Matteo di Edessa, pp. 13-20. 25 Miskawaihi, The Experiences of the Nations, in Amedroz e Margoliouth, The Eclipse of the Abbasid Caliphate, vol. II, pp. 303-5 (testo arabo) e vol. V, pp. 326-28 (trad. inglese). 26 L’attività di Basilio in Siria è descritta sulla base delle fonti arabe (Kemal ad-Din, Ibn alAthir e Abul Mahasin) in Rosen, op cit., pp. 239-66, 309-11. Nel 987-988 Basilio aveva inviato degli ambasciatori al Cairo che fornirono denaro per la manutenzione del Santo Sepolcro in Gerusalemme (ibid , pp. 202-5, in cui cita un testo da un manoscritto di Abul Mahasin). A proposito della frontiera vedi le discussioni in Honigmann, Die Ostgrenze des Byzantinischen Reiches, pp. 106-8, 134 sgg. e cosi pure il suo articolo ‘Shaizar’ nella Encyclopaedia of Islam. Shaizar venne ancora amministrata dal vescovo in nome dell’imperatore fino al 1081 (Michele il Siriano, vol. II, p. 178). 27 Un completo sommario, con riferimenti, della storia armena di questo periodo si trova in Grousset, Histoire de l’Arménie, pp. 531 sgg. 28 Cft. l’articolo ‘Hakim’ di Graefe nella Encyclopaedia of Islam, e anche Browne, op. cit., pp. 60-62. 29 Guglielmo di Tiro, I, pp. 391-93; Schlumberger, L’Epopée Byzantine, vol. III, pp. 23, 131, 203-4; Riant, Donation de Hugues, Marquis de Toscane, p. 137; Mukaddasi, p. 37. Mukaddasi dice (p. 77) che in Siria e in Palestina gli scrivani e i medici erano quasi tutti cristiani, mentre i concia tori di pelli, i tintori e i banchieri erano ebrei. 30 Nasir-i-Khosrau, p. 39. 31 Guglielmo di Tiro, 2, pp. 822-26; Airné, p. 320. 32 Nasir-i-Khosrau, pp. 6-7; Mukaddasi (pp. 3-4), scrivendo intorno all’anno 983 afferma che in Siria «la popolazione vive sempre nel terrore dei bizantini... poiché le loro frontiere sono continuamente devastate e le loro fortezze ripetutamente distrutte».

Note Capitolo terzo I pellegrini di Cristo

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San Gerolamo, Epistolae, XLVI, 9, col. 489 si riferisce ai primi pellegrinaggi in Palestina. Il primo pellegrino di cui si conosca il nome fu un vescovo di Cesarea in Asia Minore agli inizi del secolo III; si chiamava Fermiliano (Gerolamo, De viris illustribus, coli 665-66). Più tardi nello stesso secolo sappiamo di un vescovo di Cappadocia, di nome Alessandro, che visitò la Palestina (Eusebio, Historia ecclesiastica, pp. 183-86 [trad. ingl.]). Origene (col. 269) parla del desiderio dei cristiani di «ricercare le orme di Cristo». 2 Eusebio/Vita Constantini, capp. XXV-XL, in PPTS, vol. I. 3 L’Itinerario del pellegrino di Bordeaux è pubblicato in PPTS, vol. I, in traduzione inglese di A. Stewart. 4 II Pellegrinaggio di Aetheria è pubblicato in traduzione inglese da J. H. Bernard nel medesimo volume, sotto il nome di II pellegrinaggio di Santa Silvia di Aquitania, con la quale l’editore la identifica, il che è quasi certamente inesatto. 5 La lettera di Paola ed Eustochio a Marcella, in cui si descrive la vita nel cenacolo di san Gerolamo in Palestina è pubblicata tra le lettere di quest’ultimo con il n. XLVI, I0 (coli. 483 sgg.) in MPL Gerolamo stesso nella lettera XLVII, 2 (ibid , col. 493) raccomanda al suo amico Desiderio di visitare i luoghi santi; e spiega come il suo proprio soggiorno in Palestina gli abbia permesso di comprendere meglio le Sacre Scritture (in Liber Paralipumenon, prefazione, in MPL, vol. XXVIII, coli. 1323-26). Ma nei suoi momenti di cattivo umore, come nella lettera LVIII, 2, a Paolino di Nola (ibid., vol. XXII, col. 580), pensava che non si era perso niente non visitando Gerusalemme. 6 Sant’Agostino, lettera LXXVIII, 3, in MPL, vol. XXXIII, coli 268-69, Contra Faustum, XX, 21, coli. 384-85 San Gregorio di Nissa disapprova fortemente i pellegrinaggi (lettera II, in MPG, vol. XLVI, col. 1009). San Giovanni Crisostomo disapprova quasi con altrettanta forza (Ad Populum Antiochenum, V, 2, in MPG, vol. XLIX, col. 69), ma altrove esprime il desiderio che i suoi doveri gli permettano di fare un pellegrinaggio (In Ephesianos, omelia VIII, 2, ibid , vol. LXII, col. 57). 7 Couret, La Palestine sous les Empereurs grecs, p. 212. 8 Cfr. Bury, Later Roman Empire (A D. 395-565), vol. I, pp. 225-31. Cfr. Niceforo Callisto, col. 1061, per quel che riguarda l’intensa ricerca di reliquie da parte di Eudossia. 9 Prudenzio, Peristephanon, VI, pp. 132, 135; Ennodio, p. 315. Sant’Ambrogio credeva ferma mente nel potere delle reliquie ed egli stesso fu condotto a scoprirne alcune (lettera XXII, in MPL, vol. XVI, coll. 1019 sgg.). San Vittricio nel suo Liber de Laude Sanctorum afferma che le reliquie possiedono un potere e una grazia (coli. 453-54)- San Basilio d’altra parte voleva essere perfettamente sicuro della loro autenticità: cfr. la sua lettera a sant’Ambrogio a proposito del corpo di un vescovo di Milano, lettera CXCVII, in MPG, vol. XXXII, coli. 109-13. 10 Historia Translationum Sancti Mamantis vel Mammetis, in «Aa. Ss.», 17 agosto, vol. III, pp. 441-43.

11 Mabillon, Annales Ordinis Sancti Benedicti, vol. I, p. 481. 12 Gregorio di Tours, coli. 719-20. Cfr. Delehaye, Les Origines du Culle des Martyrs, in «Analecta Bollandiana», vol. XLIV. 13 Vita Genovefae Virginis Parisiensis, p. 226. 14 Martino I, lettera a Teodoro Calliopas, in MPL, vol. LXXXVII, coll. 199-200. 15 La narrazione di Arcolfo, scritta da Adamnan, si trova in PPTS, vol. III, in una traduzione di J. R. Macpherson. 16 Vita Sancti Wiphlagii, in «Aa. Ss.», 7 giugno, vol. II, pp. 30-31. 17 L’Hodoeporicon di Villibaldo tradotto da Brownlow trovasi in PPTS, vol. III. 18 Commemoratorium de Casis Dei vel Monasteriis, p. 303. 19 L’Itinerario di Bernardo il Savio, tradotto da J. H. Bernard, trovasi in PPTS, vol. III. 20 Cfr. de Rozière, Recueil general des Formule: usitées dans l’Empire des Frana, vol. II, pp. 939-41. Un nobile franco di nome Fromond che andò in Palestina con i suoi fratelli verso la metà del secolo ix per espiare un delitto è il primo di tali penitenti di cui si conosca il nome. La Peregrinatio Frotmundi si trova in «Aa. Ss.», 24 ottobre, vol. X, pp. 847 sgg. Cfr. anche van Cauwenbergh, Les Pèlerinages expiatoires et judiciaires, passim, e Villey, La Croisade: Essai sur la Formation d’une Théorie juridique, pp. 141 sgg. 21 Cfr. Bréhier, L’Eglise et l’Orient au Moyen Age, pp. 32-33 e Ebersolt, Orient et Occident, vol. I, pp. 72-73, che fornisce informazioni su questi viaggi. 22 Rodolfo il Glabro, pp. 20, 32, 52, 74, 106, 108. Cfr. Bréhier, L’Eglise et l’Orient au Moyen Age, pp. 42-45; Ebersolt, Orient et Occident, pp. 75-81. 23 Bréhier, L’Eglise et l’Orient au Moyen Age, p. 42, suppone che lo «scisma» di Michele Cerulario creasse malanimo tra bizantini e pellegrini. Riant, Expéditions et Pèlerinages des Scandinaves, p. 125, arriva al punto di dire che le autorità bizantine chiusero deliberatamente la strada per la Palestina. Ciò si basa apparentemente sulla sua interpretazione dell’esperienza di Lietbert di Cambra! che è spiegata dalle condizioni della Siria in quel tempo. Ma la lettera di papa Vittore (cfr. p. 47, nota 2) suggerisce l’idea che i funzionari imperiali non usassero sempre un trattamento cordiale verso i pellegrini. L’avversione per i normanni piuttosto che un qualche scisma fu la causa del la freddezza degli imperiali. 24 Riant (Expéditions et Pèlerinages des Scandinaves, pp. 97-129) di una relazione completa dei pellegrinaggi degli scandinavi. 25 Orderico Vitale, III, 4, vol. II, p. 64. 26 Cfr. Riant, Expéditions et Pèlerinages des Scandinaves, p. 60 27 Guglielmo di Tiro, XVIII, 4-5, I, pp. 822-26; Aimé, p. 320. 28 Vita Lietberti, pp. 706-12. Il grande pellegrinaggio tedesco d :11064-6J al quale parteciparono settemila persone trovò una situazione molto spiacevole a sud della frontiera bizantina. Ne esiste un resoconto in Annales Altahenses Majores, p. 815. Cfr. Joranson, The Great German ? Pilgrimage of 1064-65. 29 Miracula Sancii Wolframni Senonensis, in Ada Sanctorum Ordinis Sancii Benedicti,

saeculum in, parte I, pp. 381-82. Lietbert incontrò dei viaggiatori che erano stati cacciati dalla Palestina (Vita Lietberti, loc. cit ). 30 Lettera di Vittore II, in MPL, voi CXLIX, coli. 961-62, erroneamente attribuita a Vittore III: Riant, Inventaire critique, pp. 5o-53. 31 Ebersolt, Les Sanctuaires de Byzance, pp. 105 sgg.

Note Capitolo quarto Verso il disastro

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Per la civiltà bizantina di questo periodo cfr. Iorga, Histoire de la Vie Byzantine, vol. II, pp. 230-49; Vasiliev, Histoire de l’Empire Byzantin, vol. I, pp. 476-92. Sul problema agrario di Bisanzio, cfr. Ostrogorsky, Agraria» Conditions in the Byzantine Empire, in The Cambridge Economie History of Europe, vol. I, pp. 204 sgg. Sulla storia politica, cfr. Bury, Roman Emperors from Basii li to Isaac Komnenos, in Selected Essays, pp. 126-214; Ostrogorsky, Geschichte des Byzantinischen Staates, pp. 224-40. 2 Ostrogorsky, Geschichte des Byzantinischen Staates, pp. 238-42; Diehl e Marçais, op cit., pp. 3 Le migliori relazioni sull’infiltrazione normanna nell’Italia meridionale e sulla conquista della regione si trovano in Chalandon, Histoire de la Domination normande tn Italie et en Sicile, vol. I, capp. II-VII, e in Gay, L’Italie Meridionale et l’Empire Byzantin, libro V, capp. II-V. 4 Cfr. pp. 84-86. 5 II miglior compendio della primitiva storia turca si trova nell’articolo ‘Turks’ di Barthold, nell’Encyclopaedia of Islam. Cfr. pure l’articolo ‘Seljuks’ di Houtsma nella Encyclopaedia Britannica, 11 a ed. Su Mahmud il Ghaznavida cfr. Barthold, Turkestan down to the Mongol lnvasion, pp. 18sgg. 6 Laurent, Byzance et les Turcs Seldjoucides, pp. 16-24; Cahen, La première pénétration turque en Asie-Mineure, in «Byzantion», vol. XVIII, pp. 3-21. Cfr. pure Mukrimin Halil, Türkiye Tarihi, vol. I, Anadolun Fethi, passim 7 Laurent, Byzance et les Turcs Seldjoucides, pp. 4-6; Cahen, La première pénétration turque en Asie-Mineure, pp. 21-30. 8 Il più completo e meglio documentato resoconto si trova in Cahen, La Campagne de Mantzikertid’après les Sources Mussulmane;, in «Byzantion», vol. IX, pp. 613-42. Cfr. pure Laurent, Byzance, et les Turcs Seldjoucides, p. 43 e nota io. La strategia e la tattica della battaglia sono ben descritte in Oman, A History of the Art of War in the Middle Ages, pp. 217-19, Delbrück, Geschichte der Kriegskunst, vol. III, p. 206, e Lot, L’Art Militaire et les Armées du Moyen Age, vol. I, pp. 71-72, fauno dell’ironia su Oman per aver accettato le enormi cifre fornite dai cronisti orientali sull’entità dell’esercito di Romano IV - centomila uomini e più - ma l’esercito era senza dubbio eccezionalmente numeroso; però, come Laurent (Byzance et les Turcs Seldjoucides, pp. 45-59) ha precisato, a causa delle economie fatte da Costantino X a scapito dell’esercito, l’equipaggiamento era inadeguato e i soldati addestrati ne rappresentavano una minima parte.

Note Capitolo quinto Confusione in Oriente

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Guglielmo di Tiro, I, 2, I, p. 29, pensava che il disastro giustificasse il movimento crociato poiché i bizantini non potevano pili difendere la cristianità orientale. Delbrück, loc. cit., ritiene che è stata esagerata l’importanza della battaglia; ma i fatti dimostrano chiaramente che a conseguenza di essa, l’impero non poté mettere in campo un esercito efficiente per molti anni. Cfr. Laurent, Byzance et les Turcs Seldjoucides, pp. 45-59 2 Articolo ‘Suleiman ben Qutulmush’, di Zettersteen, in Encyclopaedia of Islam; Laurent, Byzance et les Turcs Seldjoucides, pp. 9-11; Cahen, La première pénétration turque en AsieMineure, pp. 31-32. Cfr. pure Wittek, Deux Chapitres de l’Histoire des Turcs de Roum, in «Byzantion», vol. IX, pp. 285-319. Sulla questione dei turcomanni cfr. Ramsay, The Intermixture of Races in Asia Minor, in Proceedings of the British Academy, vol. VII, pp. 23-30, e Jakubovskij, L’invasione dei Selgiuckidi e dei Turcomanni nel secolo undicesimo (in russo), in «Atti dell’Accademia delle Scienze dell’Urss». 3 La principale fonte originale di questo confuso periodo della storia bizantina è Niceforo Briennio che ne tratta in modo particolareggiato. Compendi moderni in Diehl e Marçais, op. cit, pp. 334 sgg. e Ostrogorsky, Geschichte des Byzantinischen Staates, pp. 243-47. 4 La carriera di Roussel è narrata da Briennio, pp 73-96, e Attaliate, pp. 183 sgg. Cfr. Schlumberger, Deux Chefs normands, in «Revue Historique», vol. XVI. 5 Sugli inglesi nella Guardia varega, cfr. Vasilievskij, Opere (in russo), vol. I, pp. 333-77; Vasiliev, The Opening Stages of the Anglo-Saxon Immigration to Byzantium, in Seminarium Kondakovianum, vol. IX, pp. 39-70. 6 Chalandon, Histoire de la Nomination normande en Italie et en Stelle, vol. I, pp. 264-63; Gay, Les Papes du XIe siècle, pp. 311-12. 7 II miglior compendio del regno del Boteniate si trova in Chalandon, Alexis Comnène Ier, pp. 35-30. 8 Anna Comnena descrive in termini lusinghieri l’aspetto fisico del padre in Alessiade, III, II, 5, vol. I, pp. 106-7. Il suo carattere è tratteggiato da Chalandon, Alexis Contratte Ier, pp. 51-52. L’anonima Synopsis Chronicon, che non è sempre ben disposta verso di lui, lo chiama «εγαλόβουλο χαὶ μεγαλουργϛ» (grande nel volere e nell’operare) (p. i8j). 9 Sui peceneghi cfr Vasilievskij, Opere (in russo), vol. I, pp. 38 sgg Per Suleiman, cfr. art cit, in Encyclopaedia of Islam e la voce ‘Izniq’, ibid, di Honigmann. Sui Danishmend, cfr. l’articolo ‘Danishmend’, di Mukrimin Halil nella turca Islam Ansiklopedisi, e Cahen, La première pénétration turque en Asie-Mineure, in «Byzantion», voi I, pp. 46-47, 58-6o. Per Menguchek cfr. l’articolo ‘Menguchek’, di Houtsma nella Encyclopaedia of Islam. Su Chaka, che conosciamo soltanto per mezzo di Anna Comnena, VII, VIII, 1-8, vol. II, pp. 110-16; sulla prima parte della sua carriera cfr l’articolo ‘Izmir’ di Mordtmann, in Encyclopaedia of Islam Sulla popolazione indigena cfr.

Bogiatzides, Iστοριχαὶ Mελέται, vol. I, parte I, passim e Köprülü, Les Origines de l’Empire Ottoman, pp. 48 sgg. 10 Laurent, Byzance et les Turcs Seldjoucides, pp. 81 sgg.; ID., Des Grecs aux Croisés, in «Byzantion», vol. I, pp. 368-403; Grousset, Histoire des Croisades, pp. xl-xliv. La carriera di Filarete ci è nota soprattutto dal racconto ostile di Matteo di Edessa (II, evi sgg., pp. 173 sgg.), che lo odiava in quanto cristiano ortodosso. 11 Sulla guerra normanna, cfr. Chalandon, Histoire de la nomination normande en Italie et en Sicile, pp. 58-94. 12 Laurent, Des Greci aux Croisés, pp. 403-10; e anche l’articolo ‘Malatya’ di Honigmann, in Encyclopaedia of Islam. 13 Cfr. sopra, p. 44, nota 4, p. 45, nota I. 14 Cfr. l’articolo ‘Tutush’ di Houtsman e ‘Ortoqids’ di Honigmann in Encyclopaedia of Islam. La Storia dei patriarchi di Alessandria, copta, paragona il governo turco con quello franco che lo seguì in Palestina, in modo molto favorevole al primo (pp. 181-207). La famosa freccia che Ortoq lanciò sul tetto del Santo Sepolcro non voleva essere un insulto ma un segno di sovranità Cfr. Cahcn, La Tughra Seldjucide, in «Journal Asiatique», vol. CXXXIV, pp. 167-73. Il patriarca Eutimio di Gerusalemme si trovava a Costantinopoli alla fine del 1082, quando andò a Tessalonica per un’ambasceria inviata a Boemondo, e il suo successore Simeone vi si recò al concilio del 1086 che condannò Leone di Calcedonia (cfr. Dölger, Regesten, n. 1087, p. 30, e Montfaucon, Bibliotheca Coisliniana, pp. 102 sgg. sul concilio di Costantinopoli di quell’anno). Ma era di ritorno a Gerusalemme nel 1089. Anche il patriarca di Antiochia era presente a quel concilio. 15 La morte di Chaka è descritta in Anna Comnena, IX, III, 3, vol. II, pp. 165-66, ma poi un nuovo Chaka appare nella sua storia (IX, v, 3, vol. III, pp. 24-25). Egli era probabilmente figlio del precedente e conosciuto come Ibn Chaka, che Anna semplifica in Chaka. Parimenti il sultano Kilij Arslan è chiamato Suleiman da autori occidentali che erano abituati a sentirlo chiamare Ibn Suleiman. La guerra di Chaka con Alessio è descritta in Chalandon, Alexis Comnène Ier, pp. 126 sgg. 16 Cft. l’articolo ‘Sukman ibn. Ortok’, di Zettersteen, in Encyclopaedia of Islam. Guglielmo di Tiro, I, 8, I, pp. 23-26, descrive le impressioni dei pellegrini del tempo. Simeone di Gerusalemme si era ritirato a Cipro molto prima dell’inizio della crociata, ma la data esatta è sconosciuta.

Note Capitolo primo Pace santa e guerra santa

1 San Basilio,

lettera 188, in MPG, vol. XXXII, col. 681. di Anna Comnena, cfr. Buckler, Anna Comnena, pp. 97-99. 3 Sant’Agostino, De Civitate Dei, col. 33. 4 Mansi, Concilia, vol. XIV, p. 888. 5 Giovanni VIII, lettere, in MPL, vol. CXXVI, coli. 696, 717, 816; Mansi, Concilia, vol. XVII, p. 104. 6 Lettera di Niccolò I, in Epistolae, p. 638. Questa lettera venne inclusa nelle raccolte canoni che di Burcardo e Graziano. 7 Cfr. Erdmann, Die Entstehung des Kreuzzugsgedankens, p. 97, nota 33, con riferimenti ai testi importanti. 8 Mansi, Concilia, vol. XIX, pp. 89-90. 9 Cartulaire de Saint-Chaffre, p. 132. 10 Mansi, Concilia, vol. XIX, pp. 267-68; Filiberto di Chartres, lettera, in Epistolae, p. 463. 11 Hefele, Histoire des Conciles, vol. IV, parte II, p. 1409; Rodolfo il Glabro, pp. 27-28. Cfr. Pfister, Etudes sur le Règne de Robert le Pieux, p. LX; Huberti, Studien zur Rechtsgeschichte der Gottesfrieden und Lundfrieden, p. 165. 12 Miracles de Saint Benoit, p. 192. 13 Mansi, Concilia, vol. XIX, pp. 483-88. 14 Mansi, Concilia, vol. XIX, pp. 593-96. 15 Constitutiones et Ada Publica lmperatorum et Regum, in MGH, vol. I, p. 599. Cfr. Huberti, op cit., pp. 296, 303. 16 Mansi, Concilia, vol. XIX, pp. 597-600. 17 Ibid , p. 1042. 18 Ibid , pp 827-32. 19 Anna Comnena, X, VIII, 8, vol. II, pp. 218-19; X, IX, 5-6, vol. II, p 222. 20 Liutprando, Antapodosis, in Opera, pp. 61-62; Leone da Ostia, pp. 50 sgg. Cfr Gay, L’Italie Meridionale et l’Empire Byzantin, p. 161, che stabilisce la data del 915; Runciman, The Emperor Romanus Lecapenus, pp. 184-85. 21 Liutprando, Antapodosis, in Opera, pp. 13J, 139; Poupardin, Le Royaume de Bourgogne, pp. 94 sgg. 22 Su Almanzor cfr. Dozy, Histoire des Musulmani en Espagne, ed. riv., vol. II, pp. 235 sgg. 2 Sull’atteggiamento

23 Ballesteros, Historia de España, vol. II, pp. 389 sgg. 24 Boissonnade, Du nouveau sur la Chanson de Roland, pp. 6-22. Fliche, in Histoire du Moyen- Age, vol. II, pp. 551-53 della Histoire Generale fondata da Glotz, considera che sia Boissonnade sia Hatem (Les Poèmes Epiques des Croisades, pp. 43-63) esagerino l’importanza della parte avuta da Cluny nell’organizzare guerre sante in Spagna. Halphen discute ampiamente la questione in una serie di conferenze tenute alla Ecole des Hautes Etudes di Parigi, che non sono ancora state pubblicate, e ritiene che Cluny abbia avuto una parte importante ma che non abbia organizzato effettivamente delle spedizioni militari. Cfr. pure Rousset, Les Origines et les Caractères de la première Croisade, PP- 31-35 25 Boissonnade, Du nouveau sur la Chanson de Roland, pp. 22-28; Fliche, Histoire du MoyenAge, pp. 551-52. 26 Gregorio VII, Registra, I, 7, pp. n-12. Cfr. pure Villey, La Croisade: Essai sur la Formation d’une Théorie juridique, p. 71 27 Boissonnade, Du nouveau sur la Chanson de Roland, pp. 29-31. 28 Ibid , pp. 31-32. 29 Riant, Inventale Critique, pp. 68-69. 30 Jaffé, Regesta, n. 4524, vol. I, p. 573. 31 Gregorio VII, loc. cit 32 Gregorio VII, VII, 14B, pp. 480 sgg.

Note Capitolo secondo La rocca di san Pietro

1

II miglior resoconto generale sui rapporti fra Roma e Costantinopoli si trova in Every, The Byzantine Patriarchate, passim. 2 Su questo incidente cfr. Michel, Humbert uni Kerukrios, vol. I, pp. 20-40. È provato che il filioque venne introdotto nel Credo a Roma quando Enrico II vi fu incoronato nel 1014. Berno, coll. 1061-62. 3 Rodolfo il Glabro, pp. 44-45. Nessuna fonte greca menziona queste trattative ma non c’è alcun motivo per dubitare che siano avvenute. 4 Sul cosiddetto «scisma» di Cerulario cfr. Michel, Humbert una Kerularios, passim, specialmente il vol. I, pp. 43-65; Jugie, Le Schisme Byzantin, particolarmente le pp. 187 sgg.; Leib, Rome, Kiev et Byzance, à la fin du XIe siede, pp. 27 sgg.; Every, op. cit, pp. 133-72. Jugie, a p. 188, deduce dalla lettera di Leone IX a Cerulario (MPL, vol. CXLIII, coli. 773-74) e da quella di Cerulario a Pietro di Antiochia (MPG, vol. CXX, col. 784) che il patriarca era disposto a ripristinare il nome dei papa nei dittici. L’atteggiamento di Pietro d’Antiochia risulta chiaramente dalla sua corrispondenza con Cerulario, ma i suoi motivi rimangono oggetto di congetture. Cfr. tali lettere in MPG, vol. CXX, coli. 756-820. 5 Cfr. le lettere di Gregorio VII nei suoi Registra, I, 46, 49, II, 37, vol. I, pp. 70, 75, 173. La visita di Domenico a Costantinopoli è narrata ibid., I, r8, pp. 31-32. È probabile che Gregorio non abbia inviato una lettera sistatica ai patriarchi orientali alla sua elezione. Cfr. Dvornik, The Photian Schism, pp. 327-28. 6 Jaffé, Monumenta Gregoriana, I, 46, 49, II, 3, 137, Bibliotheca, vol. II, pp. 64-65, 69-70, 11112,150-51. 7 Anna Comnena, III, X, 1-8, vol. I, pp. 132-36; Malaterra, col. 1192. Anna Comnena, I, XIII, I-I0, vol. I, pp. 47-51, dà un resoconto ostile e calunnioso della disputa tra Gregorio ed Enrico IV. 8 Sulla prima parte della carriera di Urbano cfr. Leib, Rome, Kiev et Byzance à la fin du XIe siècle, pp. 1-4, e Gay, Les Papes du XIe siede, pp. 356-38. 9 Gay, Les Papes du XIe siede, pp. 338-63. 10 La relazione sul sinodo si trova, insieme con lettere importanti, in Holtzmann, Die Unionsverbandlungen zwischen Kaiser Alexios I und Papst Urban II im Jabre 1089, in «Byzantinische Zeitschrift», vol. XXVIII, pp. 60-67. Le parole della risoluzione del Sinodo sopra citate vanno in tese nel senso che il patriarca Sergio II nel 1009 aveva agito senza riferire la questione a un sinodo o consultare i suoi colleghi patriarchi. Sul concilio di Guiberto cfr. Jaffé, Regesta, vol. I, p. 632. 11 Sul rapporto dell’ambasceria di Alessio a Urbano cfr. Holtzmann, op cit, pp. 64-67. Il trattato di Teofilatto si trova in MPG, vol. CXXVI, coll. 221-30.

12 II trattato di Simeone è pubblicato da Leib, Deux Inédits Byzantins, pp. 85-107. Leib dubita che Simeone ne sia l’autore poiché il trattato sembra essere la risposta a un altro scritto da Bruno di Segni verso il 1108. Ma Michel, Amalfi und Jerusalem im griechischen Kirchenstreit, ha dimostrato che quel trattato è stato scritto in risposta a uno di un certo Laycus, che Bruno aveva plagiato. 13 Bernardo da Costanza, ad ann. 1095, p. 161. Hefele, op. cit., vol. V, parte I, pp. 394-95. Cfr. pure Munro, Did the Emperor Alexius I ask for aid at the Council of Piacenza?, in «American Historical Review», vol. XXVII, pp. 731-33.

Note Capitolo terzo Il bando

Sui viaggi di Urbano cfr. Gay, Lei Papa du XIe siede, pp. 369-72; Chalandon, Histoire de la première Croisade, pp. 19-22. 2 Hefele, op. cit. vol. V, parte I, pp. 399-403; Mansi, Concilia, vol. XX, pp. 695-96, 815 sgg. 3 II discorso di Urbano è riportato da cinque cronisti, Fulcherio di Chartres, I, III, pp. 130-38; Roberto il Monaco. I, II, pp. 727-29, Baudri, Historia Jerosolimitana, I, IV, pp. 12-15; Guiberto di Nogent, 11, IV. pp. 137-40; e Guglielmo di Malmesbury, vol. II, pp. 393-98. Guglielmo scrisse circa trent’anni più tardi, ma gli altri quattro scrivono come se fossero stati presenti. Baudri, poi, afferma esplicitamente di esservi stato. Ma sia Baudri che Guiberto ammettono che la loro versione delle parole papali può non essere rigorosamente esatta. Tutte le versioni differiscono in modo notevole. Munro, The Speech of Pope Urban II at Clermont, nella «American Historical Review», vol. XI, pp. 231 sgg. analizza le differenze tra le versioni e spera di trovare il testo autentico collegando i punti su cui esse concordano. Ma è evidente che ciascuno degli autori scrisse il discorso che pensava che il papa avrebbe dovuto fare, aggiungendovi i propri artifizi retorici favoriti. 4 Roberto il Monaco, I,II-III, pp. 15-16; Baudri, Historia Jerosolimitana, I, v, p. 15. 5 I canoni del concilio di Clermont sono riportati da Lamberto di Arras in Mansi, Concilia, vol. XX, pp. 81.5-20. Soltanto il trentatreesimo ed ultimo si riferisce direttamente alla crociata; e, sebbene Graziano lo attribuisca al concilio, non lo si ritrova nei canoni del concilio di Rouen che riproducono quelli di Clermont. Cfr. Hefele, op cit., vol. V, p. 339 Chalandon, Histoire de la première Croisade, pp. 44-46, analizza le disposizioni prese dal papa, fondandosi sulle diverse, talvolta confuse, fonti. 6 Roberto il Monaco, I, IV, p. 731; Guiberto, II, v, p. 140. Sulla storia passata di Ademaro cfr. i testi raccolti da Chevalier, Cartulaire de Saint-Chaffre, pp. 13-14, 139,161-63. 7 Baudri, Bistorta Jerosolimitana, I, V, p. 16. 8 Orderico Vitale, IX, 3, vol. III, p. 470; Riant, Inventare critique, p. 109. Riant, alla p. 113, cita un testo del secolo XVI, basato apparentemente su qualche documento perduto, che afferma che il papa informò i signori laici dei suoi desideri. I suoi viaggi sono riportati in dettaglio da Crozet, Le Voyage d’Urbain II, in «Revue Historique», vol. CLXXIX, pp. 271-310. 9 La lettera è riportata da Hagenmeyer, Die Kreuzzugsbriefe, pp. 136-37. In essa Urbano indica la data del 15 agosto per la partenza della crociata. 10 Jaffé, Regesta, vol. I, p. 688. Le promesse di pentimento di Filippo non furono mantenute. 11 Documento riportato da d’Achéry, Spicilegium, 2a ed , vol. I, p. 630, e Mansi, Concilia, vol. XX, p 938. 12 Caffaro, De Liberatione, pp. 49-5o. 13 Per liste più complete dei crociati cfr. parte III, cap. I. 1

14 Urbano II, Lettera ai Bolognesi, in Hagenmeyer, Die Kreuzzugsbriefe, pp. 137-38. Sui normanni cfr. sopra, pp. 50-33. 15 Guiberto, I, VII, p. 142. La discussione più completa sulle origini e gli inizi della cartiera di Pietro si trovano in Hagenmeyer, Le vrai et le faux sur Pierre l’Hermite, trad. frane, di Furcy Raynaud, pp. 17-63. Guiberto lo descrive in II, VIII, p. 142; Orderico Vitale, IX, 4, vol. III, p. 477, indica in quindicimila il numero dei suoi seguaci. 16 Hagenmeyer, Le vrai et le faux sur Pierre l’Hermite, pp. 127-31; Chalandon, Histoire de la première Croisade, pp. 37-59. 17 Ekkehard, Chronicon, ad ann. 1094; Sigeberto di Gembloux, ad ann. 1095, p. 367; Roberto il Monaco, I, I, p. 728. La pioggia di meteoriti, interpretata dal vescovo Gisleberto di Lisieux come preannunzio di un movimento di massa verso i luoghi santi, è menzionata da Orderico Vitale, IX, 4, vol. III, pp. 461-62. 18 L’evangelismo apocalittico di Roberto di Arbrissel (la cui vita, narrata da Baudri, trovasi in «Aa. Ss.», 23 febbraio, vol. III) è tipico dello spirito dell’epoca. Su richiesta di Urbano anche Roberto predicò la crociata (ibid , p. 695). 19 Anna Comnena, X, v, 4-7, pp. 20(1-8. Anna attribuisce a Pietro l’organizzazione della crociata, probabilmente perché il suo primo contatto con i crociati avvenne con la plebaglia di Pietro, i quali gliene ascrivevano il inerito.

Note Capitolo primo La crociata popolare

1

L’unico resoconto originale e dettagliato dei viaggi di Pietro l’Eremita e di Gualtiero Sans Avoir si trova in Alberto di Aix. La sua veridicità (cfr. più avanti, Appendice I) è stata messa for temente in dubbio, ma sembra accertato che egli abbia ricavato le sue informazioni da un testimone oculare che probabilmente aveva preso degli appunti. Alcune delle sue cifre sono poco convincenti; e la condotta di Pietro appare talvolta incoerente, ma l’autore desiderava probabilmente mostrarlo sempre in una buona luce, senza preoccuparsi della coerenza. La Chronique de Zimmern fornisce al cune informazioni supplementari, ma sembra confondere le crociate del 1096 e del noi. Esiste pure un breve appunto nella Cronaca di Bari, p. 147. L’intera storia è stata studiata net dettagli da Hagenmeyer, he vrai et le faux sur Pierre l’Hermite, pp. 151-241. In linea generale io accetto le sue conclusioni. 2 Cfr Hagenmeyer, Le vrai et le faux sur Pierre l’Hermite, pp. 158-60 e 163-66, specialmente la p. 160, nota 2, e la p. 166, nota I, a proposito dei nobili tedeschi che si unirono a Pietro. Ekkehard, Hierosolymita, pp. 18-19, riferisce che la crociata non venne ufficialmente predicata in Germania a causa dello scisma. 3 Il viaggio di Gualtiero è narrato da Alberto di Aix, I, 6, pp. 274-76, e, più brevemente, da Orderico Vitale, IX, 4, vol. III, pp. 478-79. 4 Alberto di Aix, I, 7, p. 276. Bisogna certamente identificare Malavilla con Semlin (Hagenmeyer, Le vrai et le faux sur Pierre l’Hermite, p. 169, nota I); Giliberto, II, VIII, pp. 142-43, afferma che Pietro ebbe delle noie nell’attraversare l’Ungheria, ma sembra confonderlo con Emich. 5 Alberto di Aix, I, 7-8, pp. 276-78. Alberto a questo punto fa apparire Pietro assetato di vendetta, mentre altrove egli sembra di carattere pacifico, probabilmente perché il suo informatore pensava che una tale crudeltà tornasse a suo onore. Neppure il numero 7, che ricorre nel racconto a proposito delle guardie di fionderà peceneghe, va preso letteralmente. Alberto confonde i fiumi Morava e Sava. 6 Alberto di Aix, I, 9, p 278 Seguo la datazione di Hagenmeyer (Chronologie de la Première Croisade, pp. 30-51). 7 La scorta inviata da Costantinopoli incontrò a Pietro lo raggiunse a Sofia il 9 o il 10 luglio, dopo aver viaggiato per più di quattrocento miglia. Anche se si trattava probabilmente di una scorta di cavalleria, e che perciò viaggiava velocemente, doveva essere partita dalla capitale prima che potesse essere giunto alla corte imperiale qualsiasi messaggero inviato da Niš dopo che Pietro vi era arrivato il 3 luglio. Secondo Jireček, Die Heerstrasse von Belgrad nach Constantinopel, p. 9, ai tartari che trasportavano il corriere imperiale austriaco al principio del secolo XIX occorrevano cinque giorni per compiere quel viaggio andando al gran galoppo e cambiando i cavalli. (La distanza è assai superiore alle seicentocinquanta miglia). Le strade bizantine erano molto migliori di quelle ottomane, ma le stazioni di posta non erano probabilmente cosi bene organizzate. A quel tempo un messaggero speciale può aver impiegato cinque o sei giorni per raggiungere Costantinopoli da Niš.

Perciò Niceta deve aver informato la capitale dell’arrivo di Pietro prima che questi varcasse realmente la frontiera. Niceta, che le fonti occidentali chiamano Nichita, ci è anche noto per un sigillo, segnalato da Schlumberger. Sigillographie de l’Empire Byzantin, p. 239. Egli non dev’essere confuso con Leone Nicerites, duca di Paristrion, con cui Chalandon, Alexis Comnène 1er, p. 167, nota 4, lo identifica erroneamente 8 Alberto di Aix, I, 9-12, pp. 278-82. Egli afferma che di un esercito di quarantamila uomini ne rimasero trentamila. 9 Alberto di Aix, 1,13-13, pp. 282-83; Anna Comnena, X, V-VI, vol. II, p. 210. 10 Alberto di Aix, I, 15, pp. 283-84; Gesta Francorum, I, 2, p. 6, dove è menzionato il comportamento turbolento dell’esercito; Anna Comnena, loc. cit.; Orderico Vitale, IX, 5, vol. III, pp. 490-91, narra che Alessio aveva preparato Civetot per le sue truppe inglesi. Cfr. Vasilievskij, Opere (in russo), vol. I, pp. 363-64. Per la datazione, cfr. Hagenmeyer, Chronologie de la Première Croisode, p. 32. 11 Alberto di Aix, I, 16-22, pp. 284-89, e Gesta Francorum, I, 2, pp. 6-12, recano ambedue resoconti completi sulle scorrerie e sul disastro finale dell’esercito di Pietro. L’autore delle Gesta, che deve aver ricavato la sua versione da un superstite incontrato a Costantinopoli, afferma continuamente che Alessio era ostile a Pietro e che fu contentissimo del massacro dei suoi uomini, sebbene egli ammetta di nuovo che essi si comportarono malissimo ed incendiarono chiese. La versione di Alberto esprime gratitudine verso l’imperatore per la sua generosità, i suoi buoni consigli e l’aiuto concesso prontamente ai superstiti. Anna Comnena, X, VI, 1-6, dà un resoconto più breve nel quale deplora la condotta dei franchi e afferma che Pietro, che essa erroneamente suppone fosse stato assieme all’esercito, avrebbe attribuito il disastro all’empio comportamento di coloro che non avevano voluto obbedirgli. La Chronique de Zimmern reca una lista dei tedeschi uccisi a Civetot (p. 29).

Note Capitolo secondo La crociata tedesca

1 Sulla

condizione degli ebrei a quel tempo cfr. Graetz, Geschichte der Juden, vol. VI, pp. in MPL, vol. CLXVI, col. 1387. Hagenmeyer, Cronologie de la Première Croisade, p. II; Anonimo di Magonza-Darmstadt, p.

2 Lettera 3

169. 4

Salomon bar Simeon, pp. 25, 131. Le Notitiae Duae Lemovicenses de Praedicatione Crucis in Aquitania, p. 371, alludono con termini vaghi a massacri in parecchie città francesi. 5 Salomon bar Simeon, p. 87; Ekkehard, Chronicon ad ann. 1098, p. 208. 6 Ekkehard, Hierosolymita, p. 20; Cosma di Praga, III, 4, p. 103. 7 Alberto di Aix, I, 23, pp. 289-90; Ekkehard, Hierosolymita, p. 20. 8 Alberto di Aix, I, 27-28, pp. 292-94, I, 30, p. 295, I, 31, p. 299; Ekkehard, Hierosolymita, pp. 20-21. 9 Salomon bar Simeon, Eliezer bar Nathan e Anonimo di Magonza-Darmstadt, pp. 84, 154-36, 171; Bernardo da Costanza, p 463. 10 Salomon bar Simeon, p. 84; Eliezer bar Nathan, pp. 155-56; Anonimo di Magonza-Darmstadt, p. 172. 11 Salomon bar Simeon, pp. 87-91; Eliezer bar Nathan, pp. 157-58; Anonimo di MagonzaDarmstadt, pp. 178-80; Alberto di Aix, I, 27, pp. 292-5,3, colloca il massacro di Magonza dopo quello di Colonia. 12 Salomon bar Simeon, pp. 116-17; Martirologia di Norimberga, p. 109; Alberto di Aix, I, 26, p. 292. 13 Salomon bar Simeon, pp. 117-37; Eliezer bar Nathan, pp. 160-63. 14 Cosma di Praga, loc cit 15 Ekkehard, Hierosolymita, pp. 20-21; Alberto di Aix, I, 23-24, pp. 289-91. 16 Ekkehard, Hierosolymita, loc. cit.; Alberto di Aix, I, 28-29, PP. 293-95. 17 Alberto di Aix, I, 29, p. 239. Ekkehard, Hierosolymita, p. 21, afferma che molta gente considerava l’idea della crociata come vana e frivola.

Note Capitolo terzo I principi e l’imperatore

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Anna Comnena, X, VII, I, vol. II, p. 213; Gesta Francorum, p. 14; Fulcherio di Chartres, pp. 144-45. Anna afferma (X, VII, 3, vol. II, p. 213) che il conte «Tζερπεντήριος» accompagnava la sua spedizione, e Alberto di Aix (II, 7, p. 304) che Drogo e Clarambaldo erano con lui. Anna chiama Ugo «Uvos». 2 Anna Comnena, X, VII, 2-5, vol. II, pp. 213-15, ammette che Giovanni Comneno non lasciava Ugo in completa libertà; ma la sua narrazione è dettagliata e convincente. Le fonti occidentali, Gesta Francorum, Fulcherio ed Alberto (loc cit ) dichiarano che egli era tenuto contro voglia in totale cattività; la sua condotta posteriore non convalida queste affermazioni. 3 Sulla carriera giovanile di Goffredo di Lorena, cfr. Breysig, Gottfried von Bouillon vor dem Kreuzzuge, in «Westdeutsche Zeitschrift für Geschichte», vol. XVII, pp. 169 sgg. Alberto di Aix, II, I, p. 229, fornisce una lista dei suoi compagni. Guglielmo di Tiro descrive il suo aspetto (IX, 3, P. 371) e quello di Baldovino (X, 2, pp. 401-2). Secondo Alberto (II, 21, p. 314), Eustachio di Boulogne si mise in viaggio con l’esercito della Francia settentrionale, ma Fulcherio che viaggiò con quell’esercito ed è prodigo di informazioni su di esso, non menziona la sua presenza. Probabilmente egli era uno dei cavalieri che arrivarono a Costantinopoli poco dopo Goffredo avendo compiuto il viaggio per mare. 4 II viaggio di Goffredo è descritto dettagliatamente da Alberto di Aix, II, 1-9, pp. 299-303-La Chronique de Zimmern, pp. 21-22, ne di un breve resoconto. Nessuna fonte greca menziona il viaggio.. 5 I due resoconti pili completi sulla condotta di Goffredo a Costantinopoli sono quelli che si trovano in Anna Comnena, X, IX, I-II, vol. II, pp. 220-26, e Alberto di Aix, II, 9-16, pp. 305-11. Come è stato notato da Chalandon, Histoire de la première Croisade, pp. 119-29, il resoconto di Anna è molto pili convincente di quello di Alberto e può essere accettato come attendibile, salvo per l’esagerazione relativa alla consistenza dell’esercito di Goffredo. Esiste un resoconto più breve ed estremamente partigiano nelle Gesta Francorum, 1,3, pp. 14-18. Il sito esatto di Pelecanum è incerto. Leib, nella sua edizione di Anna Comnena (vol. II, p. 226, nota 2) lo identifica con Hereke, a circa sedici miglia ad occidente di Nicomedia. Ramsay, The Historical Geography of Asia Minor, in «Royal Geographical Society Supplementary Papers», vol. IV, p. 185, sottintende che era pili vicino a Calcedonia. Sembra chiaro da quel che ne dice Anna (cfr. più avanti, parte IV, cap. I) che si trovava vicino al traghetto per Civetot e posto a conveniente distanza per mantenersi in contatto con Costantinopoli. Giovanni Cantacuzeno, l’unico altro scrittore bizantino che lo menzioni, lo colloca a est di Dacibyza, la moderna Gebze (vol. I, pp. 342 sgg.). Il traghetto per Civetot partiva da Aegiali, a mezza strada fra Gebze ed Hereke, a circa sei miglia da ciascuna. Secondo Anna (XI, ni, 1, vol. III, p. 16) fu a Pelecanum che Alessio ricevette i crociati dopo la caduta di Nicea; ma Stefano di Blois (Hagenmeyer, Die Kreuzzugsbriefe, p 140) afferma che Alessio si trovava su un’isola quando egli lo vide in quell’occasione. È evidente che Pelecanum, dovunque fosse, non era un’isola, e non può

neppure essere stato la penisola di Aegiali, a cui Anna dà il suo nome esatto. La testimonianza di Stefano su un particolare del genere è attendibile; è probabile perciò che Pelecanum si trovasse vicino ad Aegiali ma che Alessio si fosse ritirato su una delle isole al largo della costa, sia l’isola di fronte a Tuzla (dodici miglia ad occidente di Aegiali), dove si trovano ancora notevoli rovine del tempo dei bizantini, che quella dei santi Pietro e Paolo, di fronte a Pendik, che era un famoso luogo di villeggiatura bizantino. 6 Anna Comnena, X, x, 1-7, vol. II, pp. 226-30. Essa chiama il comandante di questo gruppo «Conte Raoul» - «ό Ῥαούλ χαλούμενος Kόμηϛ.» - ma la sua identità è sconosciuta poiché non e menzionato in nessun’altra fonte. Dal fatto che l’imperatore abbia considerato opportuno che Goffredo assistesse alla cerimonia del giuramento da parte di questo contingente deduco che doveva trattarsi di uomini provenienti da regioni della Lorena e non dalla Francia, perché allora sarebbe stata più conveniente la presenza di Ugo per far loro impressione. Sappiamo che Rainardo di Toul partecipò alla crociata al seguito di Goffredo. Alberto di Aix lo menziona come un membro dell’esercito di quest’ultimo fin dal principio, ma non è necessario di prendere la sua testimonianza in modo troppo letterale. Anna non aveva facilità ad imparare i nomi franchi e, come nel caso di Raimondo che ella chiamava «Isangelcs», chiamava talvolta i conti dal loro titolo. Ma «Raoul» era un nome che essa conosceva fin da prima a causa di Raoul ambasciatore del Guiscardo. Può darsi perciò che essa abbia contratto «Rainardo di Toul» in una forma che le era familiare. 7 Cesta Francorum, I, 4, pp 18-20 Cfr. Chalandon, Histoire de la Domination normande en Italie et en Sicile, vol. II, p. 302. 8 Noto come Riccardo del Principato. 9 Cesta Francorum, I, 4, p. 20. 10 Cesta Francorum, I,4, pp. 20-22. Boemondo prese probabilmente la strada che corre all’interno dell’attuale frontiera albanese, attraverso Premeti e Koritsa, e segue una curva verso nord prima di attraversare la frontiera e dirigersi a sud-est verso Castoria. 11 Gesta Francorum, I, 4, pp. 22-24. 12 Ibid , II, 5, pp. 24-28. La data dell’arrivo di Boemondo a Costantinopoli è fissata da Hagenmeyer, Chronologie de la Première Croisade, p, 64. 13 Anna Comnena, XIII, x, 4-5, vol. III, pp. 122-24, per un ritratto di Boemondo. 14 Anna Comnena, X, XI, 1-7, vol. II, pp. 230-34. Gesta Francorum, II, 6, pp 28-32, reca, secondo il solito, un resoconto molto ostile all’imperatore. Il passo in cui parla di un trattato segreto fra l’imperatore e Boemondo a proposito di Antiochia (p. 30, linee 14-20, «Fortissimo autem... preteriret») è un’interpolazione posteriore nel testo, aggiunta per ordine di Boemondo. Cfr. Krey, A Negletteti Passale in the «Gesta», in Munro, Essays, pp. 57-78 Alberto di Aix, II, 18, p. 312, afferma che Boemondo prestò giuramento malvolentieri. Ciò non sembra esatto. 15 Gesta Francorum, II, 7, pp. 52-34; Alberto di Aix, II, 19, p 313. 16 Sulla cartiera giovanile di Raimondo cfr. Vaissère, Histoire de Languedoc, vol. III, pp. 466477, e Manteyer, La Provence du I er au XIIer siede, pp. 303 sgg I nomi dei principali signori della Francia meridionale che parteciparono alla crociata si trovano nella lista piuttosto confusa di Alberto di Aix, II, 22-23, PP- 315-16 17 Il viaggio di Raimondo verso Costantinopoli è descritto con tutti i dettagli da Raimondo di Aguilers, I-II, PP- 233-38, in un tono di aspro rancore contro i bizantini.

18 Le trattative di Raimondo con l’imperatore sono descritte in Raimondo di Aguilers, II, p. 238, e Gesta Francorum, II, 6, p. 238. I resoconti concordano nel dire che Raimondo era desideroso di vendicarsi per la sconfitta del suo esercito a Rodosto e che soltanto con difficoltà gli altri principi lo persuasero a prestare una qualche forma di giuramento. Entrambi concordano pure sui termini del giuramento da lui prestato. Soltanto Raimondo di Aguilers fornisce la significativa informazione che il conte era disposto a prendere servizio sotto il comando personale di Alessio. Credo che i suoi moventi si possano facilmente spiegare con la sua gelosia per Boemondo. Anna Comnena, che eventi posteriori resero parziale a favore di Raimondo, non dice assolutamente nulla di queste trattative ma afferma semplicemente che suo padre apprezzava e rispettava «Isangeles» - cioè il conte di SaintGilles - per la sua cortesia e la sua onestà. Aggiunge che Alessio aveva delle lunghe conversazioni con il conte e cita un discorso di quest’ultimo che metteva in guardia l’imperatore contro Boemondo e prometteva di collaborare con i bizantini (V, XI, 9, vol. II, pp. 234-35). Non vedo motivo per supporre che essa confonda questa visita con quella che Raimondo fece ad Alessio nel 1100; Alberto di Aix, che riceveva le sue informazioni da uno dei soldati di Goffredo, concorda sul fatto che Raimondo lasciò Costantinopoli in ottimi rapporti con Alessio dopo esservisi trattenuto quindici giorni più degli altri (II, 20, p. 314). Esempi di questa forma di giuramento in Linguadoca si trovano in Vaissète, op. cit., vol. V, pp. 372, 381 e VII, pp. 134 sgg. 19 Su Roberto di Normandia cfr. David, Robert Curthose, passim. Nell’appendice D, pp. 22129, egli fornisce una lista completa dei compagni di Roberto. 20 Su Stefano di Blois, cfr. Hagenmeyer, Die Kreuzzugsbriefe, pp. 48-56. 21 Su Roberto e Clemenzia di Fiandra, cfr. ibid , pp. 247-49. I nomi dei cavalieri della Francia settentrionale nell’esercito crociato si trovano nella lista di Alberto di Aix (II, 22-23, PP- 315-16). 22 Fulcherio di Chartres, I, VII, pp. 163-68; contratto di Clemenzia, contessa di Fiandra, in Hagenmeyer, Vie Kreuzzugsbriefe, pp. 142-43. 23 Fulcherio di Chartres, I, VII, p. 168; Anna Comnena, X, VIII, 2-10, vol. II, pp. 215-20. Maricq, Uff «Comte de Brabant » et des «Brabançons » dans deux textes byzantins, «Bulletin de la Classe des Lettres», dell’Accademia Reale del Belgio, vol. XXXIV, pp. 463 sgg., ha identificato in modo soddisfacente «ό Kόμηϛ Πρεβεντζαϛ» di Anna con Baldovino II, conte di Alost, eliminando cosi la prece dente supposizione di Grégoire che si trattasse di Riccardo del Principato. (Notes sur Anne Comnène, pp. 312-13, che contiene pure un’interessante discussione sulla parola τζάγγρα menzionata qui da Anna). La teoria di Ducanges secondo cui il «Kόμηϛ Πρεβεντζαϛ» sia Raimondo di Tolosa, che era pure conte di Provenza (seguita dalla Buckler, op. cit., p. 465), è impossibile poiché Anna chiama sempre Raimondo Isangeles ed i suoi movimenti ci sono ben noti. 24 Raimondo di Aguilers, II, p. 238. 25 Fulcherio di Chartres, II, VIII, pp. 168-76. Lettera di Stefano di Blois a sua moglie, in Hagenmeyer, Die Kreuzzugsbriefe, pp. 138-40. Questa lettera fu scritta da Nicea. Una lettera precedente, scritta da Costantinopoli e contenente la descrizione del viaggio, a cui Stefano fa qui riferimento, è sfortunatamente andata perduta. 26 Cfr. Appendice II 27 Fulcherio di Chartres, I, VIII, 9, PP- 175-76; I, IX, 3, p. 179. 28 Lettera di Teofilatto di Bulgaria, in MPG, vol. CXXVI, coll. 324-8

Note Capitolo primo La campagna in Asia Minore

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È difficile seguire i movimenti dei principi. L’esercito di Goffredo era a Pelecanum fin dal principio di aprile e quello di Boemondo l’aveva raggiunto colà. Questi due eserciti probabilmente proseguirono, quello di Goffredo con tre giornate d’anticipo su Boemondo, prima che vi arrivassero i soldati di Raimondo, il 29 o il 30 aprile, in modo da non sovraffollare l’accampamento. L’esercito di Raimondo lo attese a Pelecanum quando egli tornò a render visita all’imperatore. 2 Matteo di Edessa, II, cxlix e cl, pp. 211-12, 215, descrive l’assalto di Kilij Arslan contro Melitene e afferma che egli vi era impegnato mentre i franchi attaccavano Nicea. 3 Gesta Francorum, II, 7, p. 34, descrivono la marcia di Goffredo su Nicea. Anna Comnena, XI, 1,1, vol. III, p. 7, dice che una parte dell’esercito andò direttamente per mare da Pelecanum a Civetot. Alberto di Aix afferma che Goffredo giunse a «Rufinel» la notte stessa in cui lasciò l’accampamento (di Pelecanum) e vi si fermò per ricevere un messaggio di Raimondo da Costantinopoli e pei permettere a Pietro l’Eremita di raggiungerlo. (Alberto di Aix, II, 20, pp. 31314). Con «Rufinel» indica probabilmente Nicomedia che si trova a un giorno di marcia da Pelecanum. L’arrivo di Raimondo il 16 maggio è menzionato da Gesta Francorum, II, 8, p. 36, e quello dei francesi settentrionali, ibid., p. 38, e da Fulcherio di Chartres, I, X, 3, p. 182, che ne indica la data. 4 Anna Comnena, XI, I, 3-4, vol. III, pp. 8-9, afferma chiaramente che i turchi inviarono due diversi contingenti per liberare Nicea. Alberto di Aix, II, 25-26, pp. 318-19, parla della cattura di spie turche avvenuta poco prima del principale attacco nemico. La battaglia è descritta in Gesta Francorum, II, 8, pp. 36-38, e da Raimondo di Aguilers, III, p. 239, e Alberto di Aix, II, 27, pp. 31920. 5 Gesta Francorum, loc cit ; Alberto di Aix, II, 28, pp. 320-21. La morte di Baldovino di Gand è riferita da Stefano di Blois (p. 139). 6 Gesta Francorum, loc. cit.; Alberto di Aix, II, 31, pp. 322-23; Anna Comnena, XI, 1, 6-7, vol. III, pp. 9-10. 7 Gesta Francorum, II, 8, p. 40; Alberto di Aix, II, 32, pp. 323-24. Anna Comnena, XI, II, 3-4, vol. III, pp. n-12, accenna ai motivi di suo padre per inviare finalmente delle navi sul lago, e afferma che allo stesso tempo egli mandò delle truppe agli ordini di Taticio e di Tzitas per aiutare i crociati per terra. 8 Anna Comnena, XI, II, 4-6, vol. III, pp. 12-13, dà un resoconto completo sulla resa della città ammettendo francamente che i bizantini ingannarono i crociati. Le fonti occidentali dicono semplicemente che Nicea si arrese all’imperatore. 9 Raimondo di Aguilers, III, pp. 239-40, dice che l’imperatore aveva promesso ai principi tutto il bottino preso a Nicea e che vi aveva intrapreso la fondazione di un monastero e di un ospizio latini; e la sua inadempienza provocò un grande risentimento. Ma Fulcherio di Chartres, I, X, I0, pp. 188-89,

Anselmo di Ribemont, in Hagenmeyer, Die Kreuzzugsbriefe, p. 145, e Stefano di Blois (Ibid., p. 140) parlano della sua grande generosità e quest’ultimo afferma che egli in realtà distribuì il meglio del bottino ai principi e cibo ai soldati più poveri; e perfino le Gesta Francorum dicono (III, 9, p. 42) che egli diede abbondanti elemosine ai franchi poveri. Anna Comnena, XI, III, 1-2, vol. III, pp. 16-17, parla del secondo giuramento. Grousset, Histoire des Croisades, vol. I, p. 31, suppone, senza evidenti motivi, che Tancredi abbia di nuovo rifiutato di prestare il giuramento, e perfino Chalandon, Alexis Comnène Ier, p. 123, nota 4, crede che egli non lo abbia fatto perché più tardi Alessio non lo accusò mai effettivamente di aver violato un giuramento. Ma il racconto di Anna è chiaro e convincente D’altra patte la versione dell’episodio data da Radulfo di Caen (XVIII-XIX, pp. 619620) e chiaramente fantasiosa e corrisponde alla storia che Tancredi amava immaginare fosse vera. Cfr. Nicholson, Tancred, p. 32, nota 5. Anselmo, loc. cit., ammette che alcuni dei principi erano scontenti dell’imperatore. Alberto di Aix, II, 28, p. 321, menziona una distribuzione di doni fatta da Alessio ai principi durante l’assedio Cfr. sopra, p. 132, nota I, riguardo al luogo della cerimonia. 10 L’autore delle Gesta Francorum (II, 8, pp. 40-42) dichiara che l’imperatore trattò generosamente i prigionieri soltanto perché essi potessero più tardi dar fastidio ai crociati. Sui successivi movimenti della sultana, cfr. p. 168. 11 Stefano di Blois, loc. cit. I crociati vennero ammessi a visitare Nicea a gruppi di dieci. Anna Comnena, XI, II, io, vol. III, p. 16 12 Sulle strade dell’Asia Minore, cfr. Ramsay, The Historical Geography of Asia Minor, pp. 7482. 13 L’esercito di Boemondo si mise in marcia il 26 giugno (Gesta Francorum, III, 9, p. 44), quello di Raimondo il 28 giugno (Raimondo di Aguilers, III, p. 240; Anselmo di Ribemont, loc. cit ), e i francesi settentrionali il 29 (Fulcherio di Chartres, I, XI, I, p. 190). Anna Comnena, XI, III, 3, vol. III, pp. 16-17, menziona il fatto che alcuni dei franchi rimasero con Butumites. 14 Anna Comnena, XI, in, 4, vol. III, p. 18; Gesta Francorum, III, 9, p. 44; Alberto di Aix, II, 38, pp. 328-29. 15 Anna Comnena, loc cit. racconta l’episodio dei cavalieri francesi; Gesta Francorum, III, 9, pp. 44-48; Raimondo di Aguilers, IV, pp. 240-41, descrive la parte avuta da Ademaro; Fulcherio di Chartres, I, XI, 3-10, pp. 189-97; Alberto di Aix, II, 39-42, pp. 329-32. La lettera dei principi a Urbano II trovasi in Hagenmeyer, Die Kreuzzugsbriefe, p. 161. Dorileo, da cui prende generalmente nome la battaglia, si trova a circa due miglia a nord-ovest della moderna Eskisehir. È in discussione quale fosse il luogo esatto della battaglia: Anna lo chiama la «piana di Dorileo»; i principi nella loro lettera a Urbano la «valle di Dorotilla», con cui intendevano senza dubbio Dorileo; Raimondo di Aguilers il «Campus Floridus», e Alberto di Aix la «valle di Degorganhi che è ora chiamata Ozellis». Hagenmeyer, Chronologie de la Première Croisade, pp. 86-87, ritiene che i crociati non potevano giungere a Dorileo per la notte del 30 giugno poiché questa località si trova a ventidue ore di marcia da Leuce. Egli colloca la battaglia presso la moderna Bosuzuk (sic - Bosoyuk) o Inonu. Ma la strada bizantina diretta non toccava queste località, passando invece per Soğut ed entrava nella piana a arca otto miglia a nord-ovest di Dorileo. I turchi fecero un attacco di sorpresa, perciò dovevano essere nascosti dalle colline; anche Ademaro approfittò di alcune colline per prendere i turchi alle spalle. Prima che la strada entri nella pianura le montagne sono troppo ripide per permettere manovre di questo genere. Ma la pianura del Sari-su, il greco Bathys, nella quale sbocca la strada, è divisa da quella del Porsuk, il greco Tembris, da una bassa catena di colline facili da

attraversare, che si spingono verso la confluenza dei due torrenti poco sopra Dorileo. Se i crociati si accamparono nella valle del Sari-su, i turchi poterono fare un attacco di sorpresa venendo dalla valle del Porsuk, mentre un posto di vedetta sulle alture di Karacasehir, appena a sud del Porsuk, avrebbe permesso loro di osservare i movimenti del nemico. Anche Ademaro passò probabilmente nella valle del Porsuk per prendere i turchi alle spalle. Dopo aver fatto personalmente un sopraluogo nella zona, io colloco la battaglia nella pianura del Sari-su, dove vi sbocca la strada diretta proveniente da Leuce. Per raggiungere questo punto l’avanguardia avrebbe dovuto coprire circa ottantacinque miglia in quattro giorni, poiché era partita da Nicea la mattina del 26 giugno, ma forse si trattenne per un’intera giornata a Leuce La retroguardia lasciò Nicea due giorni più tardi, ma apparentemente non si fermò a Leuce, e dopo una marcia forzata poté raggiungere l’avanguardia nel pomeriggio della battaglia. I capi della retroguardia, essendo a cavallo, giunsero probabilmente a Leuce per prendere accordi con i loro colleghi, prima che arrivasse la fanteria. 16 Gesta Francorum, III, 9, pp. 50-52. 17 Ibid , IV, I0, pp. 52-54. 18 Non ci sono lagnanze contro Taticio e i bizantini fino a che l’esercito non giunse ad Antiochia, ma a quel momento egli era diventato «inimicus» {Gesta Francorum, VI, 16, p. 78). Senza dubbio il risentimento contro di lui era andato crescendo, se la propaganda di Boemondo poté avere un successo cosi immediato. 19 Gesta Francorum, IV, I0, p. 35; Fulcherio di Chartres, I, XIII, I -5, pp. 199-203; Alberto di Aix, III, 1-3, pp. 339-41. 20 Gesta Francorum, IV, I0, p. 56; Fulcherio di Chartres, I, XIII, p. 200. Raimondo di Aguilers, IV, p. 241, riferisce della malattia di Raimondo, che deve essere collocata a questo momento, e Alberto di Aix, III, 4, pp. 341-42, menziona l’incidente di Goffredo. 21 Gesta Francorum. loc cit.; Anna Comnena, XI III, 5, vol. III, pp. 18-19. Ella menziona la bravura di Boemondo in questa battaglia; è probabile che il suo informatore sia stato Taticio. Fulcherio di Chartres, I, XIV, pp. 203-5, menziona la cometa. 22 Gesta Francorum, IV, II, pp. 60-62; Stefano di Blois, p. 150; Baudri, Historia Jerosolimitana, VII, pp. 38-39; Anna Comnena, XI, III, 6, vol. III, p. 19. 23 Gesta Francorum, IV, II, p. 62. 24 La morte della moglie di Baldovino, Godvere (o Godhild) di Tosni, è segnalata da Alberto di Aix, III, 27, p. 358. 25 II viaggio da Coxon ad Antiochia è descritto nelle Gesta Francorum, IV, II, p. 64, che sottolineano l’orrore della strada di montagna, e da Alberto di Aix, III, 27-29, pp. 358-59. L’insediamento di Thatoul come governatore di Marash è menzionato da Matteo di Edessa, II, clxvi, pp. 229-30. 26 Anna Comnena, XI, v, I-6, vol. III, pp. 23-17.

Note Capitolo secondo Interludio armeno

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Su Thoros, cfr. Laurent, Des Grecs aux Croisés, pp. 405-10; su Gabriele, ibid., p. 410 e l’articolo ‘Malatiya’, di Honigmann nella Encyclopaedia of Islam. 2 Su Kogh Vasil cfr. Chalandon, Les Comnènes, pp. 99 sgg. In qualità di massimo principe armeno appartenente alla chiesa armena, egli offrì asilo al catholicus armeno Gregorio Vahram (Matteo di Edessa, II, clxxxviii, p. 278). C’era un catholicus rivale, Basilio, che in quel momento si trovava ad Ani (ibid , II, cxxxiv, pp. 201-2). 3 La carriera di Oshin è menzionata da Matteo di Edessa, II, cli, p. 216. Cfr. Laurent, Les Arméniens de Cilicie, in Mélange: Schlumberger, vol. I, pp. 139-68. Secondo Matteo, Pazouni, fratello di Oshin, era ancora in vita. In Radulfo di Caen, XL, pp. 634-3J, Oshin viene chiamato Ursinus. 4 Su Costantino, cfr. Matteo di Edessa, loc cit ; Sempad, Cronaca, p. 610. 5 La prima parte della carriera di Bagrat e i suoi rapporti con Baldovino sono menzionati da Alberto di Aix, III, 17, pp. 350-51. Guglielmo di Tiro, VII, 5,1, PP- 383-84, fa riferimento alla sua parentela con Kogh Vasil. 6 La storia della campagna in Cilicia è narrata dettagliatamente da Alberto di Aix, III, 5-17, pp. 342-50, e da Radulfo di Caen, XXXIII-XLVII, pp. 629-41. Un resoconto più breve, favorevole a Tancredi, si trova in Gesta Francorum, IV, I0, pp. 55-60. Radulfo (p. 634) afferma che Ursinus (Oshin) occupava allora Adana, ma Alberto (p. 346) dice che era in possesso di Guelfo. Alberto (pp. 348-49) parla dell’arrivo di Guynemer. 7 Secondo Matteo di Edessa, II, cliv, p. 219, Baldovino aveva con sé cento cavalleggeri quando prese Turbessel e sessanta quando proseguì per Edessa. Fulcherio di Chartres, che lo accompagnava (I, XIV, 2, p. 206,1, XIV, 17, p. 21;) afferma che egli aveva milites paucos quando si mise in marcia (I, XIV, 4, p. 208) e ottanta quando attraversò l’Eufrate (I, XIV, 7, p. 210). 8 Guglielmo di Tiro, III, 25, I, p. 149, dice che i marinai rimasero con Tancredi. 9 Lettera di Gregorio in Jaffé, Monumenta Gregoriana, VIII, I, Bibliotheca, vol. II, pp. 423-24. 10 Alberto di Aix, III, 17-18, pp. 350-51. 11 Alberto di Aix, III, 19, p. 352; Fulcherio di Chartres, I, XIV, 5-6, pp. 209-10; Matteo di Edessa, II, cliv, pp. 218-21; Laurent, Les Arméniens de Cilicie, pp. 418-23. 12 Alberto di Aix, III, 18, p. 351. 13 Alberto di Aix, III, 19-21, pp. 352-54; Fulcherio di Chartres, I, XIV, 7-12, pp. 210-13. Giliberto, XIV, p. 165, descrive anche la cerimonia dell’adozione. 14 Alberto di Aix, III, 21, pp. 353-54. Matteo di Edessa, II, CLIV, pp 218-21, dice semplicemente che la spedizione fu un disastro. 15 Matteo di Edessa, loc cit., accentua il tradimento di Baldovino; Fulcherio di Chartres, I, XIV,

13-14, PP- 213-15, il cui resoconto è breve e piuttosto imbarazzato; Alberto di Aix, III, 22-23, pp. 354-55- Cfr. Laurent, Les Arméniens de Cilicie, pp. 428-38, il quale sostiene in modo convincente che Matteo si trovava a Edessa in quel momento. 16 Alberto di Aix, III, 24, pp. 355-36. 17 Non si può stabilire in modo assolutamente sicuro l’identità del suocero di Baldovino. Alber to di Aix, III, 31, p. 361, lo chiama Taphnuz e dice che era fratello di Costantino. Guglielmo di Tiro, X, I, I, p, 402, lo chiama Tafroc. Dulaurier, p. 431, nota 2, nella sua edizione di Matteo di Edessa, presume che doveva essere un fratello di Costantino il Rupeniano, di nome Thoros, ma am mette che non si conosce a Costantino nessun fratello di questo nome. Hagenmeyer, p. 421, nota 7, nella sua edizione di Fulcherio di Chartres accetta tale identificazione. Ma è evidente che il Costantino a cui si riferiva Alberto era Costantino di Gargar. Honigmann, articolo ‘Marash’, nella Eitcyclopaedia of Islam, suggerisce che Taphnuz fosse in realtà Thatoul. A sostegno di questa tesi sappiamo che Thatoul si ritirò a Costantinopoli nel 1104 (Matteo di Edessa, III, clxxxvi, p. 257) e che la moglie di Baldovino chiese che le venisse concesso di raggiungere i suoi genitori a Costantinopoli poco dopo essere stata da lui ripudiata nel 1104 (Guglielmo di Tiro, XI, 1,1, pp. 431-52). Non c’è ragione per supporre che portasse il nome di Arda che le viene talvolta attribuito. Cfr. l’edizione di Fulcherio curata da Hagenmeyer, he cit. Alberto di Aix, V, 15, pp. 441-42, indica i nomi dei cavalieri che si unirono a Baldovino. 18 Alberto di Aix, III, 25, pp. 356-57. 19 Alberto di Aix, IV, 10-12, pp. 396-97; Fulcherio di Chartres, I, XIX, pp. 242-43; Matteo di Edessa, II, clv, p. 221. 20 Alberto di Aix, V, 16-18, pp. 442-43.

Note Capitolo terzo Davanti alle mura di Antiochia

1 Abul

Fida, p. 3: Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarikh, p. 192; Kemal ad-Din, pp. 578-79. ad-Din, loc cit. 3 Alberto di Aix, III, 28-33, pp. 338-64; Gesta Francorum, V, 12, pp. 66-67. 4 Fulcherio (I, XV, 2-4, pp. 217-18), e Raimondo di Aguilets (V, pp. 241-42) danno una breve descrizione di Antiochia. Guglielmo di Tiro (IV, 9-10, 1, pp. 163-69) la descrive in modo più completo. Il fiume Oronte è chiamato dai cronisti occidentali Ferrins (Fulcherio di Chartres, I, XV, X, p. 216: «Oronte o Ferrins»), Far (Guglielmo di Tiro, IV, 8, 1, p. 164, che lo considera un grossolano errore), o Farfar (Gesta Francorum, X, 34, p. 180) o «Pharpar» (Alberto di Aix, loc. cit.). 5 Alberto di Aix, III, 38-39, pp. 365-66, indica la disposizione delle truppe. Gesta Francorum, V, 12, pp. 66-68, descrive l’inattività della guarnigione e Raimondo di Aguilers (V, pp. 242-43), la costruzione del ponte e la sistemazione dell’accampamento di Raimondo. 6 Raimondo di Aguilers, IV, p. 241. 7 Gesta Francorum, V, 12, p. 68; Kemal ad-Din, p. 577. 8 Gesta Francorum, V, 12, pp. 68-70. 9 Gesta Francorum, V, 13, p. 70; Raimondo di Aguilers, V, p. 242; Caffaro, De Liberatione, p. 50. 10 Raimondo di Aguilers, V, pp. 243-44; Gesta Francorum, VI, 14, pp. 74-76. 11 Gesta Francorum, V, 13, pp. 70-72; Alberto di Aix, III, 50 -51, pp. 373-74; Kemal ad-Din, 580. 12 Anselmo di Ribemont, lettera in Hagenmeyer, Die Kreuzzugsbriefe, p. 157, parla specialmente dei cavalli; Stefano di Blois, ibid , p 150, menziona le orribili condizioni del tempo; Fulcherio di Chartres, I, XV, 2,1, XVI, 6, pp. 221-28, fa un resoconto retorico in cui rimprovera i crociati per i loro peccati; Raimondo di Aguilers, VI, p. 245, menziona l’aurora e il digiuno; le Gesta Francorum, VI, 14, p. 76, indicano i prezzi chiesti dagli speculatori indigeni; Matteo di Edessa, II, CLI, p. 217, parla della generosità dei principi e dei monaci armeni. 13 Alberto di Aix, VI, 39, p. 489. Simeone inviò in dono ai crociati dei melograni, «mele dei cedri del Libano», lardo affumicato e vino. La lettera datata in ottobre, inviata da Antiochia per relazionare la chiesa occidentale sui progressi della crociata, è redatta in nome di Simeone e di Ade maro, «e soprattutto di quest’ultimo a cui era stato affidato l’esercito cristiano da papa Urbano», Hagenmeyer, Die Kreuzzugsbriefe, pp. 141-42. 14 Gesta Francorum, VI, 15, pp. 76-78. 15 Lettera in Hagenmeyer, Die Kreuzzugsbriefe, pp. 146-49. 2 Kemal

16 Raimondo di Aguilers, V, pp. 254-56, afferma che Taticio propose un blocco più rigoroso. La sua idea non fu seguita e poco dopo egli fuggì proditoriamente dopo aver assegnato a Boemondo le città di Mamistra, Tarso e Adana. La notizia di questa donazione, estremamente improbabile, deve essere stata inventata da Boemondo e fatta circolare nell’esercito. Gesta Francorum, VI, 16, pp. 7880, affermano che fuggì per pura vigliaccheria con la scusa di cercare di organizzare un miglior approvvigionamento dell’esercito. Alberto di Aix dice che egli aveva posto la sua tenda ai limiti dell’accampamento perché aveva sempre avuto l’intenzione di fuggire. Al momento della fuga promise falsamente di tornare (III, 38, p. 366, IV, 38, p. 416). Il racconto di Anna Comnena, che dev’essere basato sui rapporti di Taticio stesso, è la versione più convincente (XI, IV, 3, vol. II, p. 20) che io ho seguito in queste pagine. 17 Raimondo di Aguilers, loc cit 18 Gesta Francorum, VI, 17, pp. 80-86; Raimondo di Aguilers, VII, pp. 246-48. 19 Gesta Francorum, VII, 18, pp. 88-96; Raimondo di Aguilers, VII-VIII, pp. 248-49; Alberto di Aix, III, 53-33, pp. 383-86; lettera di Stefano di Blois in Hagenmeyer, Die Kreuzzugsbriefe, pp. 13132; lettera di Anselmo di Ribemont, ibid., pp. 138-39; lettera del clero di Lucca, ibid., pp. 165-167, in cui si dichiara che un cittadino lucchese di nome Bruno arrivò a San Simeone in quel momento dopo aver fatto il viaggio con una flotta inglese. David, op cit, pp. 236-37, pone in dubbio che Edgardo Aetheling possa esser stato con questa flotta poiché nell’autunno del 1097 si trovava ancora in Scozia, ed essa doveva esser partita dall’Inghilterra prima di quella data. Ma la flotta era composta quasi certamente da «vareghi» inglesi che avevano lasciato l’Inghilterra molto tempo prima e stavano incrociando nel Mediterraneo agli ordini dell’imperatore, al cui servizio li vediamo operare più tardi. (Cfr. oltre, p. 219). Edgardo avrebbe potuto benissimo viaggiare rapidamente fino a Costantinopoli per prestare temporaneamente i suoi servizi all’imperatore, e unirsi alla flotta in quel porto. Orderico Vitale (X, II, vol. IV, pp. 70-72) afferma categoricamente che egli era con la flotta e che conquistò Lattakieh all’epoca dell’assedio, sebbene Guglielmo di Malmesbury (II, p. 310) collochi la sua conquista di Lattakieh a una data leggermente posteriore. 20 Gesta Francorum, VII, 18; VIII, 19, pp. 88, 96-98; Raimondo di Aguilers, VIII, pp. 249-50; lettera di Anselmo di Ribemont, in Hagenmeyer, Die Kreuzzugsbriefe, pp. 158-59; lettera del clero di Lucca, ibid., p. 166. 21 Secondo la Historia Belli Sacri (Tudebodus Continuatus), p. 181, i crociati avevano già inviato un’ambasceria in Egitto da Nicea, seguendo il consiglio di Alessio. La lista degli ambasciatori è sospetta; forse essi facevano parte dell’ambasceria inviata da Antiochia, ma è probabile che il consiglio dell’imperatore fosse stato ricordato. L’ambasceria egiziana ad Antiochia è menzionata da Raimondo di Aguilers, VII, p. 247, da Stefano di Blois, in Hagenmeyer, Die Kreuzzugsbriefe, p. 151, da Anselmo di Ribemont, ibid., p. 160 e dalle Gesta Francorum, VI, 17, p. 86, VII, 19, p. 96. Ibn al-Athir menziona le trattative dei crociati con Duqaq (Kamil fi t-tarikh, p. 193). 22 Gesta francorum. VIII, 19, pp. 100-2, confermato da Anna Comnena, XI, IV, 4, vol. III, p. 21 La narrazione di Guglielmo di Tiro (V, 17, 1, pp. 220-21) segnala il disaccordo di Raimondo. 23 Cfr. sopra, p. 181 e i riferimenti dati nelle note alle pp. 181 e 182. 24 Gesta Francorum, VIII, 20, p. 100. L’autore lo chiama «Pirrus» e afferma che era un turco. Anna Comnena, XI, IV, 2, vol. II, p. 19, lo chiama «un certo armeno». Radulfo di Caen, LXII, pp.

651-52, lo chiama «un ricco armeno»; Matteo di Edessa, «uno degli uomini più importanti della città», senza specificare la razza (II, civ, p. 222); Raimondo di Aguilers, VIII, p. 251, lo chiama «quidam de Turcatis», intendendo probabilmente con questa frase un cristiano rinnegato. Le fonti arabe, Kemal ad-Din (pp. 581-82) e Ibn al-Athir (Kamil fi t-tarikh, p. 192), non lo classificano dal punto di vista della razza e quest’ultimo lo chiama Firuz II primo afferma che era un armaiolo no to come «Zarrad», il fabbricante di corazze, che Yaghi-Siyan aveva punito per accaparramento. Guglielmo di Tiro, V, II, I, pp. 212-13, basandosi apparentemente su fonti arabe afferma che apparteneva alla corporazione dei «Beni Zarra; quod in lingua latina interpretatur filii loricatoris». Apparteneva a una buona famiglia. La traduzione di Guglielmo in francese antico aggiunge che egli era «Hermin», un armeno. 25 Fulcherio di Chartres, I, XVI, 7, p. 228, dice che la partenza di Stefano ebbe luogo il giorno prima della caduta di Antiochia, cioè il 2 giugno; la registra con dispiacere ma non l’attribuisce a viltà. Gesta Francorum, IX, 27, p. 140, dice che era fuggito con la scusa di una malattia. Raimondo di Aguilers, XI, p. 258, attribuisce la fuga a vigliaccheria e sembra che questa sia stata l’impressione generale. Guiberto di Nogent, XXV, pp. 199-200, sente la necessità di trovargli delle giustificazioni. Stefano era stato eletto «ductor» dell’esercito (Gesta Francorum, loc cit ) o «dictator» (Raimondo di Aguilers, loc cit ) o «dominus atque omnium actuum provisor atque gubernator» (Stefano di Blois, lettera in Hagenmeyer, Die Kreuzzugsbriefe, p. 149). Questo non può certamente voler dire che egli fosse stato designato comandante supremo o capo politico della crociata, perché non assunse mai la direzione in operazioni militari, mentre Ademaro era la sola persona a cui veniva riconosciuta un’autorità politica sui principi. È probabile che Stefano avesse avuto l’incarico della parte amministrativa della spedizione e fosse responsabile dell’organizzazione dei rifornimenti. 26 La descrizione più vivida della conquista di Antiochia si trova nelle Gesta Francorum, VIII, 20, pp. 100-110, sebbene tralasci di menzionare l’insuccesso di Boemondo di occupare la cittadella. Raimondo di Aguilers fornisce quest’informazione nella sua relazione e afferma che il primo crociato che penetrò in città era stato Folco di Chartres (IX, pp. 251-53). Radulfo di Caen lo chiama Gouel di Chartres (LXVI, p. 654). Fulcherio di Chartres (I, I-VIII, pp. 230-33) dà un resoconto più breve. La narrazione di Guglielmo di Tiro (V, 18-23, l , PP- 222-23), è piuttosto lunga con dei particolari poco verosimili. Egli annota l’episodio della moglie di Firuz. Ibn al-Athir parla della fuga e della morte di Yaghi-Siyan (Kamil fi t-tarikb, p. 193).

Note Capitolo quarto Il possesso di Antiochia

1 Alberto

di Aix, IV, 3, p. 433. Egli chiama Giovanni «virum Christianissimum». ad-Din, pp. 582-83; Gesta Francorum, IX, 21, p. 112. 3 Kemal ad-Din, loc cit ; Cesta Francorum, IX, 21, p. 114; lettera dei principe a Urbano II, in Hagenmeyer, Die Kreuzzugsbriefe, p. 162; Guglielmo di Tiro, VI, 4, 1, p. 240. 4 Raimondo di Aguilers, XI, pp. 256-38; Gesta Francorum, IX, 23, pp. 126-28; lettera del clero di Lucca, in Hagenmeyer, Die Kreuzzugsbriefe, p. 166, dove Guglielmo di Grant-Mesnil è chiamato «cognatus Boemundi». Ducange, nelle sue note su Anna Comnena, in Recueil des Historiens des Croisades, Historiens Grecs, vol. II, p 27, dà notizie di sua moglie Mabilla, anche se presuppone che il matrimonio fosse di data recente. Orderico Vitale, VIII, 28, vol. II, p. 435, dice che essi si sposarono in Puglia prima della crociata. 5 Cesta Francorum, IX, 27, pp. 140-46, parla dell’intervento di Guido, fratello di Boemondo; Anna Comnena, XI, VI, 1-2, vol. III, pp. 27-28. Anna afferma che Pietro di Aulps giunse con altri fuggiaschi da Antiochia. Egli era stato lasciato come governatore di Placentia, di dove perciò deve essere venuto, recando la notizia dell’avvicinarsi di un esercito turco da Oriente per isolare Alessio se continuava ad avanzare. Anna dimostra chiaramente che fu questa notizia che indusse Alessio a tornare indietro: se i franchi erano già stati sconfitti ad Antiochia sarebbe stata una follia continuare la marcia. 6 La notizia della ritirata dell’imperatore non può essere giunta ad Antiochia fino a molto dopo la sconfitta di Kerbogha. 7 Orderico Vitale, X, 19, vol. IV, p. 118, parla della vergogna di Adda finché non riuscì a indurre Stefano a partire di nuovo per una crociata. 8 Gesta Francorum, IX, 26, p. 136; Radulfo di Caen, LXXVI, pp. 660-61, dice che Roberto di Fiandra fece bruciare il quartiere; Alberto di Aix, IV, 33, p. 413, parla dei cavalieri di Malines. 9 L’episodio di Pietro Bartolomeo è narrato dettagliatamente da Raimondo di Aguilers, X, pp. 253-55, che crede in lui senza riserve. Il breve resoconto nelle Gesta Francorum, IX, 35, pp. 13234, scritto probabilmente a quell’epoca, mostra che anche l’autore vi credeva. E cosi anche la lettera dei principi a Urbano II, in Hagenmeyer, Die Kreuzzugsbriefe, p. 163, che era stata redatta da Boemondo 10 Raimondo di Aguilers, X, p. 255. Sulla Lancia conservata a Costantinopoli, cfr. Ebersolt, Les Sanctuaires de Byzance, pp. 9, 24, 116. Cfr. pure Runciman, The Holy Lance Found at Antioch, in «Analecta Bollandiana», vol. LXVIII. La cattiva reputazione di Pietro Bartolomeo, come è riferita da Boemondo, è menzionata da Radulfo di Caen, CII, p. 678. 11 Raimondo di Aguilers, XI, pp. 255-56 Gesta Francorum, IX, 24, pp. 128-32. 12 Raimondo di Aguilers, XI, p. 257. Tutte le fonti autorevoli menzionano il ritrovamento della 2 Kemal

Lancia, incluso Anna Comnena, XI, VI, 7, vol. III, p. 30, che la chiama un chiodo e non una lancia e ne attribuisce la scoperta a Pietro l’Eremita, e Matteo di Edessa, II, CLV, p. 223. Ibn al-Athir af ferma nettamente che Pietro seppellì egli stesso una lancia, Kamil fi t-tarikb, p. 197. Cfr. Runciman, The Holy Lance Found at Antioch. 13 Raimondo di Aguilers, XI, pp. 257-59. 14 Kemal ad-Din, p. 383; Abul Fida, p. 4; Ibn al-Athir, p. 194. 15 Gesta Francorum, IX, 28, pp. 146-50; Fulcherio di Chartres, I, XXI, 1-2, pp. 247-49; Raimondo di Aguilers, XI, p. 259; Alberto di Aix, IV, 44-46, pp. 420-21. 16 Gesta Francorum, IX, 29, pp. 150-58 (il resoconto più vivido); Raimondo di Aguilers, XII, pp. 259-61; Fulcherio di Chartres, XXII-XXIII, pp. 251-38; Alberto di Aix, IV, 47-56, pp. 421-29; Anselmo di Ribemont, lettera, in Hagenmeyer, Die Kreuzzugsbriefe, p. 160; Remai ad-Din, loc. cit.; Ibn a!-Athir, Kamil fi t-tarikb, pp. 195-96 17 Alberto di Aix, V, 2, pp. 433-34. Abbiamo fatto delle congetture sulla parte avuta da Ademaro. 18 Gesta francorum, X, 30, pp. 161-62; Alberto di Aix, V, 3, pp. 434-35. 19 Raimondo di Aguilets, XIII, pp. 261-62; il contratto dei genovesi con Boemondo, in Hagenmeyer, Die Kreuzzugsbriefe, pp. 155-56. 20 Gesta Francorum, X, 30, pp. 162-64; Kemal ad-Din, p. 584. 21 Gesta Francorum, X, 30, p. 166; Raimondo di Aguilets, XIII, p. 262; Fulcherio di Chartres, I, XXIII, 8, p. 258; lettera dei principi a Urbano II, in Hagenmeyer, Die Kreuzzugsbriefe, p. 164. 22 Raimondo di Aguilers, XIII, pp. 262-64. Sembra che circa in questo periodo Boemondo abbia cominciato a seminare dei dubbi sull’autenticità della Lancia (Radulfo di Caen, loc. cit.). 23 Raimondo di Aguilers, XIII, p. 262; Alberto di Aix, V, 4, p. 435, 13, pp. 440-41. 24 Sulla questione di Lattakieh, cfr. Chalandon, Alexis Comnène Ier, pp. 205-12 e David, op. cit., pp. 230 sgg. Alberto di Aix, VI, 45, pp. 500-I, afferma che Guynemer conquistò Lattakieh ai turchi nell’autunno del 1097 e la tenne per conto di Raimondo di Tolosa. Orderico Vitale dice che Edgardo Aetheling e gli inglesi la presero all’imperatore al principio del 1098 e la diedero a Roberto di Normandia the. cit., a p. 197, nota 1). David, loc. cit., non crede al racconto di Alberto e afferma che gli inglesi devono averla presa direttamente ai turchi e che Roberto vi si trovava nell’inverno del 1097-98. Raimondo di Aguilers racconta che Roberto era assente da Antiochia al tempo della spedizione in dicembre del 1097, ma si può dubitare che gli inglesi siano giunti alle coste siriane prima di marzo. Radulfo di Caen dice che Roberto andò a Lattakieh, che si trovava sotto il governo imperiale, al tempo della fuga di Stefano di Blois (LVIII, p. 649). Ma egli prese parte alla battaglia contro Kerbogha pochi giorni più tardi, e tutte le fonti ammettono che egli era presente. Giliberto di Nogent (XXXVII, p. 254), racconta che a un certo momento Roberto aveva governato Lattakieh, ma ne era stato cacciato a causa della sua oppressione fiscale. Ho fornito la versione che io considero più convincente. 25 Lettera dei principi a Urbano II, in Hagenmeyer, Die Kreuzzugsbriefe, pp. 161-65. 26 Raimondo di Aguilers, XIII, pp. 264-6.5; Alberto di Aix, V, 5-12, pp. 435-40; Kemal ad-Din, P. 386.

27 Raimondo di Aguilets, XIV, p 266; Gesta Francorum, X, 31, pp. 36-38, dove si afferma che il vescovo fu condotto ad Antiochia per esservi consacrato. 28 Raimondo di Aguilers, XIV, pp. 267-68; Gesta Francorum, X, 3, pp. 168-70; Historia Belli Sacri, XCII, p. 208. 29 Raimondo di Aguilers, XIV, pp. 267-70; Gesta Francorum, X, 33, pp 172-78 Ibn al-Qalanisi, pp 46-47; Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarikh, pp. 196-97. 30 Raimondo di Aguilers, XIV, p. 271; Cesta Francorum, X, 34, p. 178. Cfr. Appendice II. 31 Raimondo di Aguilers, XIV, pp. 270-72; Gesta Francorum, X, 33-34, pp. 176-78. 32 Raimondo di Aguilers, XIV, p. 272; Gesta Francorum, X, 34, p. 180. L’autore delle Gestaaccompagnava il contingente di Tancredi.

Note Capitolo primo Verso Gerusalemme

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Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarikh, pp. 197-98 Cfr. l’articolo di Buhl ‘Al Kuds’ e quello di Zettersteen ‘Sukman ibn Ortok’, nella Encyclopaedia of Islam. 2 L’articolo di Honigmann ‘Shaizar’ e quello di Sobernheim ‘Ibn Ammar’ nella Encyclopaedia of Islam. 3 Raimondo di Aguilers, XIV, pp. 272-73; Gesta Francorum, X, 34, pp. 180-82. 4 Raimondo di Aguilers, XIV, p. 273. 5 Raimondo di Aguilers, XIV, pp. 273-75; Gesta Francorum, X, 34, p. 182. 6 Raimondo di Aguilers, XIV-XV, p. 275; Cesta Francorum, X, 34, p. 184. 7 Raimondo di Aguilcts, XV, p 276; Gesta Francorum, X, 34, pp. 184-86. 8 Gesta Francorum, X, 35, p. 186; Alberto di Aix, V, 33, p 453. 9 Gesta Francorum, loc. cit ; Raimondo di Aguilers, XVI, pp. 277-78. 10 Raimondo di Aguilers, XVI, p. 277, XVIII, p. 286. 11 Raimondo di Aguilers, XVI, p 277; Guglielmo di Tiro, VII, 19,I, pp 305-6. 12 Raimondo di Aguilers, XVII-XVIII, pp. 279-88, appoggia Pietro Bartolomeo; Fulcherio di Chartres, I, XVIII, 4-5, pp. 238-41; Alberto di Aix, V, 13, p. 432; Radulfo di Caen, CVIII, p. 682. Sia Fulcherio che Alberto sono scettici ma non si pronunziano. Radulfo è apertamente ostile a Pietro; l’autore delle Gesta tralascia l’episodio. 13 Raimondo di Aguilers, XVI, pp. 276-77; Gesta Francorum, X, 35, p. 188; Fulcherio di Chartres, I, XXV, 8, p. 270, narra che venne ucciso da una pietra. 14 Raimondo di Aguilers, XVIII, pp 288, 290-91. 15 Ibid , p. 291; Gesta Francorum, X, 35-36, pp. 188-90. 16 Raimondo di Aguilers, XVIII-XIX, p. 291; Gesta Francorum, X, 36, pp. 190-92; Fulcherio di Chartres, I, XXV, 10-12, pp. 271-76. 17 Raimondo di Aguilers, XIX, pp. 291-92; Gesta Francorum, loc. cit.; Guglielmo di Tiro, VII, 22, I, p. 313 che indica il nome del vescovo. 18 Raimondo di Aguilers, XIX, p. 292. 19 Fulcherio di Chartres, I, XXV, 13-17, pp. 277-81; Alberto di Aix, V, 44-45, pp. 461-63. 20 Gesta Francorum, X, 37, P- 194; Raimondo di Aguilers, XX, p. 292; Alberto di Aix, V, 45, P- 463.

Note Capitolo secondo Il trionfo della croce

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Fulcherio di Chartres (I, XXVII, 12, p. 300), menziona truppe «etiopiche». Raimondo di Aguilers (XX, pp. 293-94) e le Gesta Francorum (X, 37, p. 198) parlano dell’avvelenamento dei pozzi. Il patriarca armeno Vahram si trovava a Gerusalemme in quel tempo ma sembra che sia riuscito a fuggire dalla città (Matteo di Edessa, II, CLVII, p. 225). 2 Raimondo di Aguilers, XX, p. 293; Gesta Francorum, X, 37, p. 194; Alberto di Aix, V, 46, pp. 463-64. 3 Raimondo di Aguilers, XX, pp. 293-94; Gesta Francorum, X, 37, pp. 194-98. 4 Raimondo di Aguilers, XX, p. 293; Gesta Francorum, X, 37, p. 196. 5 Raimondo di Aguilers, XX, pp. 294-97; Gesta Francorum, X, 37, pp. 196-200. 6 Raimondo di Aguilers, XX, pp. 295-96. 7 Ibid , pp. 296-97; lettera di Daimberto al papa, in Hagenmeyer, Die Kreuzzugsbriefe, pp. 170171; Gesta Francorum, X, 38, pp. 200-2. 8 Raimondo di Aguilers, XX, p. 298; Gesta Francorum, X, 38, p. 200. 9 Raimondo di Aguilers, XX, pp. 293-300; Gesta Francorum, X, 38, pp. 202-4. Questi due resoconti di testimoni oculari concordano l’uno con l’altro. Fulcherio di Chartres, I, XXVII, 3-13, pp. 293-30r. Fulcherio e Raimondo concordano nel collocare l’ingresso nella città a mezzogiorno. Le Gesta affermano che ebbe luogo all’ora della morte di Cristo. Alberto di Aix (VI, 19-28, pp. 47783). fa una lunga ma non molto attendibile relazione. 10 Raimondo di Aguilers, XX, p. 300; Gesta Francorum, X, 38, pp. 204-6; lettera di Daimberto in Hagenmeyer, Die Kreuzzugsbriefe, p. 171; Abul Fida, p. 4 e Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarikh, pp. 198-99, descrivono i massacri e quest’ultimo fa credito a Raimondo di aver mantenuto la parola data. Cfr. pure Ibn al-Qalanisi, p. 48. 11 Ibn al-Qalanisi, loc. cit. 12 Raimondo di Aguilers, XX, p. 300: Gesta Francorum, X, 38, p. 206; Fulcherìo di Chartres, I, XXIX. 1-4, pp. 304-6. 13 Raimondo di Aguilers, loc. Cit. 14 Alberto di Aix, VI, 39, p. 489. 15 Vita Urbani II, p. 293.

Note Capitolo terzo «Advocatus Sancti Sepulchri»

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Daimberto giunse a Lattakieh nel settembre del 1099 e deve perciò essere partito dall’Italia molto prima della conquista di Gerusalemme. 2 Raimondo di Aguilers, XX, pp. 300-I; Gesta Francorum, X, 39, p. 206; Fulcherio di Chartres, X, XXVIIl, 1-2, pp. 301-3. 3 Raimondo di Aguilers, XX-XXI, pp. 301-2; Guglielmo di Tiro, IX, I, I, pp. 364-66. Fulcherio di Chartres (I, XXX, 2, p. 308), afferma che non fu eletto nessun patriarca in attesa del parere del papa; si riferisce probabilmente a questa prima discussione. Sulla prima parte della carriera di Arnolfo cfr. David, op. cit, pp. 217-20. David lo chiama Arnolfo di Choques e considera inesatto il nome «di Rohes». 4 Guglielmo di Tiro, IX, I, I, pp. 365-66. 5 Raimondo di Aguilers, XX, p. 301, riferisce che Raimondo rifiutò la corona; Gesta Francorum, X, 39, pp. 206-8, affermano che Goffredo venne eletto «princeps civitatis» allo scopo di combattere contro i saraceni; Fulcherio di Chartres, I, XXX, I, adopera il titolo di «princeps»; Alberto di Aix, VI, 33, pp. 485-86, menziona anch’esso il rifiuto di Raimondo; Guglielmo di Tiro, IX, 2,1, pp. 36667. A proposito del titolo di Goffredo cfr. Moeller, Godefroid de Bouillon et l’Avouerie du SaintSépulchre, in Mélange! Godfried Kurth, passim 6 Cfr. Chalandon, Histoire de la première Croisade, pp. 290-92. 7 Raimondo di Aguilers, XX, pp. 301-2; Guglielmo di Tiro, IX, 3, I, pp. 367-68. 8 Raimondo di Aguilers, XXI, p. 30; Gesta Francorum, X, 39, p. 208, chiama Arnolfo «sapientissimum et honorabilem virum»; Guglielmo di Tiro, IX, 4, I, p. 369. 9 Raimondo di Aguilers, loc cit ; Fulcherio di Chartres, I, XXX, 4, pp. 309-10; Guglielmo di Tiro, loc cit. 10 Cesta Francorum, X, 39, pp. 208-10. 11 Ibid. 12 Cesta Francorum, X, 39, pp. 210-16; Raimondo di Aguilers, XXI, pp. 302-4; Fulcherio di Chartres, I, XXXI, I-II, pp. 311-18; Alberto di Aix, VI, 44-50, pp. 493-97; Ibn al-Athir, Kamil fi ttarikh, p. 202. 13 Gesta Francorum, X, 39, pp. 216-18; Raimondo di Aguilers, XXI, pp. 304-5; Alberto di Aix, VI, 47, p. 495; Fulcherio di Chartres, I, XXXI, I0, pp. 316-17. Sia Raimondo che le Gesta concludono il loro racconto con la battaglia di Ascalona. 14 Radulfo di Caen, CXXXVIII, p. 703; Alberto di Aix, VI, 51, pp. 497-98. 15 Alberto di Aix, loc. cit. 16 Alberto di Aix, VI, 53, p. 499; Fulcherio di Chartres, I, XXXII, I, pp. 318-20; Orderico Vitale,

X, 11, vol. IV, p. 69. 17 Alberto di Aix, loc. cit È incerto il momento in cui Raimondo si decise a cercate un principato nella Siria centrale. 18 Alberto di Aix, VI, 54, pp. 499-500. 19 Ibid. 20 Un racconto ostile della prima parte della vita di Daimberto si trova in Alberto di Aix, VII, 7, pp 510-12. Cfr. pure Tronci, Annales Pisani, pp. 178 sgg. 21 Anna Comnena, XI, X, 1-6, vol. III, pp. 41-44. 22 Alberto di Aix, VI, 45, pp. 300-1. 23 Anna Comnena, XI, X, 7-8, vol. III, p. 45; Alberto di Aix, loc cit. 24 Alberto di Aix, VI, 56-60, pp. 501-5; Orderico Vitale, vol. IV, pp. 70-72; Giliberto di Nogent, p. 232. 25 Fulcherio di Chartres, I, XXXIII, 1-6, pp. 322-26; Alberto di Aix, VII, 6, p. .511. 26 Fulcherio di Chartres (loc. cit ) dice che Boemondo invitò Baldovino ad accompagnarlo perché il numero superiore avrebbe rappresentato una maggiore sicurezza. Fulcherio indica il numero dei pellegrini, che è senza dubbio esagerato (ibid., I, XXXIII, 8, p. 328). 27 Fulcherio di Chartres, I, XXXIII, 7-18, pp. 326-32. 28 Secondo Guglielmo di Tiro, Goffredo aveva soltanto trecento cavalleggeri e duemila fanti (IX, 19, I, P- 393). 29 Radulfo di Caen, CXXXIX, pp. 703-4; Guglielmo di Tiro, IX, 13, I, p. 394. 30 Alberto di Aix, VII, 7, pp. 511-12; Guglielmo di Tiro, IX, 15, I, p. 387. 31 Cfr. Grousset, Histoire des Croisades, vol. I, pp. 194-96 e Moeller, op cit. 32 Su Pasquale II, cfr l’articolo Pascal II, di Amann in Vacane e Mangenot, Dictionnaire de Théologie Catholique 33 Non ci sono prove che Baldovino abbia mai reso omaggio a Daimberto per Edessa. È evidente da avvenimenti posteriori, che il patriarca non si fidava di lui. 34 Fulcherio di Chartres, I, XXXIII, 19-21, pp. 332-34. 35 Alberto di Aix, VII. I-6, pp. 507-II. 36 ibid., 12,14, pp. 515-16. 37 Alberto di Aix, VII, 13, 13, pp. 515-16. 38 Ibid ; Guglielmo di Tiro, IX, 20, I, pp. 395-96. 39 Alberto di Aix, VII, 14, p. 316. 40 Alberto di Aix, VII, 16-17, PP- 517-18. 41 Guglielmo di Tiro, IX, 16-17, I, PP- 388-90. 42 Alberto di Aix, VII, 18, p. 519. Matteo di Edessa, basandosi probabilmente su pettegolezzi dei cristiani del luogo, afferma nettamente che Goffredo venne avvelenato dall’emiro (II, clxv, p. 229). 43 Translatio Sancti Nicolai, pp. 272-73; Alberto di Aix, VII, 19, p 519

44 Translatio Sancti Nicolai, loc. cit. ; Alberto di Aix, VII, 20, p. 520. 45 Translatio Sancti Nicolai, loc. cit. 46 Alberto di Aix, VII, 21, pp. 520-21; Guglielmo di Tito, IX, 23,1, p. 399.

Note Capitolo quarto Il regno di Gerusalemme

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Alberto di Aix, VII, 30, p. 526; Guglielmo di Tiro, X, 3, I, pp. 403-4. È evidente che i capi dell’esercito vennero informati della morte di Goffredo soltanto dai veneziani. 2 Translatio Sancti Nicolai, pp. 275-76; Guglielmo di Tito, loc. cit. 3 Alberto di Aix, VII, 22-25, pp. 521-23; Translatio Sancti Nicolai, pp. 276-78. 4 Alberto di Aix, VII, 6, pp. 523-24. Non è documentata l’eventuale protesta di Gerardo contro Geldemaro. 5 Guglielmo di Tiro, loc. cit. 6 Alberto di Aix, VII, 27, p. 524. Il testo della lettera di Daimberto si trova in Guglielmo di Tiro, X, 4, 1, pp. 405-6. 7 Anna Comnena, XI, VII, 4, XI, X, 9-10, vol. III, pp. 345-46; Fulcherio di Chartres, I, XXXII, I, pp. 320-21; Translatio Sancii Nicolai, p. 271. L’ordine cronologico di Anna non è chiaro ma la data può essere confermata dalle fonti occidentali. 8 Alberto di Aix, loc. cit. 9 Kemal ad-Din, pp. 588-89.. 10 Alberto di Aix, he cit ; Matteo di Edessa, II, clxvii, pp. 230-31; Michele il Siriano (ed. a cura di Chabot), III, III, p. 187; Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarikh, pp. 203-4. 11 Guglielmo di Tito, VI, 23, I, pp. 273-73; Orderico Vitale, IV, p. 141, presuppone illogica mente che il cambiamento avvenisse durante la prigionia di Boemondo e che tuttavia questi abbia designato il successore; Radulfo di Caen, CXL, p. 704. Cfr. Leib, Deux Inédits Byzantins, pp. 59-69. L’atto di abdicazione di Giovanni, datato in ottobre del 1100 esiste in un manoscritto al Sinai, riportato da Benčevič, Catalogus Codicum Manuscriptorum Graecorum, p. 279. Cfr. Grumel, Les Patriarches d’Antioche du nom de Jean, in «Echos d’Orient», vol. XXXII, pp. 286-98. 12 Alberto di Aix, VII, 27-28, pp. 524-25; Fulcherio di Chartres, I, xxxv, 1-4, pp. 343-47; Radulfo di Caen, CXLI, pp. 704-5; Matteo di Edessa, loc cit ; Michele il Siriano, III, III, pp. 188-89 (che parla di tradimento armeno); Ibn al-Qalanisi, pp. 49-50; Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarikh, p. 203; Kemal ad-Din, p. 589. 13 Alberto di Aix, VII, 29, pp. 325-26, e riferimenti in note precedenti. 14 Ibid 15 Fulcherio di Chartres, II, I,I, pp. 352-54; Alberto di Aix, VII, 31, p. 527. 16 Fulcherio di Chartres, II, 1, 2, II, III, 9, pp. 354-66, vivido resoconto del viaggio di un testi mone oculate; Alberto di Aix, VII, 32-35, pp. 527-31 17 Fulcherio di Chartres, II, III, 13-14, pp. 368-69; Alberto di Aix, VII, 36, pp. 531-32; Guglielmo di Tito, X, 7, I, pp. 410-11

18 Fulcherio di Chartres, II, III, 15, pp. 369-70; Guglielmo di Tiro, X, 9, I, p. 413. 19 Fulcherio di Chartres, II, VII, I, pp. 390-93; Alberto di Aix, VII, 44-43, pp. 537-38. 20 Fulcherio di Chartres, II, VI, I, pp. 384-85; Alberto di Aix, VII, 43, pp. 536-37; Guglielmo di Tiro, loc. cit.

Note Capitolo primo «Outremer» e i suoi vicini

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Hagenmeyer, Le vrai et le faux sur Pierre l’Hermite, pp. 330-44. Pietro morì ad un’età avanzata nel i1115 (ibid., p. 347). 2 A proposito degli ebrei, cfr. oltre, libro II, parte IV, cap. I. 3 Cfr. sopra, pp. 261, 271-72. 4 Pellegrinaggio di Saewulf, pp. 8-9. 5 Cfr. sopra, pp. 273-74. 6 Una breve relazione, buona, sulla Palestina si trova in Munro, The Kingdom of the Crusaders, PP. 3-9. 7 Cfr. sopra, pp. 255-56. 8 Pellegrinaggio di Saewulf, pp. 6-8. 9 Un’eccellente e breve relazione sul mondo musulmano di quel tempo si trova in Gibb, introduzione a Ibn al-Qalanisi, Cronaca di Damasco. 10 Cfr. sopra, pp 273-74. 11 Su Antiochia cfr. Cahen, La Syrie du Nord, pp. 127 sgg. 12 Cfr. sopra, pp. 275-76; e oltre, cap. III. 13 Cahen, La Syrie du Nord, pp 110 sgg. 14 Gibb, introduzione a Ibn al-Qalanisi, Cronaca di Damasco, pp. 13-18; Le Strange, Palestine under the Moslems, pp. 342-32. 15 Sui Banu Ammar, cfr. l’articolo di Sobernheim ‘Ibn Ammar’, nella Encyclopaedia of Islam. 16 Ibn al-Qalanisi, pp. 31-32. 17 Cahen, La Syrie du Nord, p. 180. 18 Cfr. Honigmann, articolo ‘Shaizar’, e Sobernheim, articolo ‘Homs’, in Encyclopaedia of Islam; cfr anche l’introduzione a Hitti, An Arab-Syrian Gentleman, pp. 5-6. 19 Cfr. Gibb, introduzione a Ibn al-Qalanisi, Cronaca di Damasco, pp. 22-24. 20 Ibid , pp. 27-29. 21 Cfr. Wiet, L’Egypte arabe, pp. 260 sgg. 22 Cfr articoli, ‘Seldjuks’ e ‘Kilij Arslan’, in Encyclopaedia of Islam. 23 Sui Danishmend, cfr. Mukrimin Halil, articolo ‘Danişmend’, in Islam Ansiklopedisi 24 Sulla situazione generale dell’Armenia cfr. Tournebize, Histoire politique et religieuse de l’Arménie, pp. 168-70. 25 Sulla situazione di Bisanzio e la politica di Alessio, cfr. libro I, passim.

26 Il miglior sommario della parte avuta dagli italiani si trova in Heyd, Histoire du Commerce du Levant, vol. I, pp. 131 sgg.

Note Capitolo secondo Le crociate del noi

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Per esempio la lettera di papa Pasquale, in MPL, vol. CLXIII, coli. 42 sgg. In Oriente si pensava che se non fossero giunti dei rinforzi si sarebbero dovute evacuare le terre conquistate (Translatio Sancii Nicolai, p. 271). 2 Alberto di Aix, VIII, I, p. 559; Anna Comnena, XI, VIII, I, vol. III, p. 36, ne parla come di normanni agli ordini di due fratelli di nome Φλάντραϛ. 3 Alberto di Aix, VIII, 2-3, pp. 559-62; Orderico Vitale, X, 19, vol. IV, p 120, facendo con fusione, afferma che l’imperatore avrebbe usato i leoni contro i crociati. 4 Alberto di Aix, VIII, 7, p. 363; Anna Comnena, XI, VIII, 2, vol. III, pp. 36-37. Si diceva che Raimondo avesse con sé la cosiddetta Santa Lancia. Cfr. Runciman, The Holy Lance found al Antioche pp. 205-6 5 Orderico Vitale, X, 19, vol. IV, p. 119. 6 Alberto di Aix, VIII, 6, pp. 562-63; Orderico Vitale, loc cit. 7 Alberto di Aix, VIII, 7, pp. 563-64, afferma che la decisione di marciare verso Oriente fu presa dai lombardi; Anna, loc cit., dice che l’imperatore sperava che Raimondo e Tsitas avrebbero fatto cambiare questa decisione. 8 Alberto di Aix, VIII, 8-14, pp. 564-67. Egli dice che Raimondo sarebbe stato corrotto dai turchi affinché conducesse l’esercito a Kastamonu, ma questa affermazione non è convincente. Anna, loc cit, menziona il saccheggio del villaggio cristiano. Grousset, Histoire des Croisades, vol. II, p. 326, nota 2, ha certamente ragione nel respingere l’opinione di Tomaschek che identifica la «Maresch» di Alberto con Amasea (Topographie von Kleinasien, p. 88) e nel tornare all’idea di Michaud che la identifica come Merzifun o Mersivan Un francese ignorante può facilmente trasformare Mersivan in Matesiam o Marescam, una forma francese di Marash, ma è difficile intendere come una «r» possa introdursi in Amasya, che è il nome turco di Amasea, o in Masa, che è l’equivalente arabo. 9 Alberto di Aix, VIII, 14-23, pp. 567-73; la sua narrazione concorda con quella più breve di Anna (XI, VIII, 3, vol. III, pp. 37-38). 10 Alberto di Aix, VIII, 24, p. 274. 11 Alberto di Aix, loc. cit. Egli afferma che Raimondo placò l’indignazione dell’imperatore. 12 Michele il Siriano, vol. III, pp. 189-91. Cfr. Cahen, La Syrie du Nord, p. 232. 13 Alberto di Aix, VIII, 25-33, PP 576-78, è l’unica fonte riguardo a questa spedizione. Hagenmeyer, Chronologie du Royaume de Jérusalem, pp. 438-39,449,459-60, indica come data d’arrivo dei nivernesi a Costantinopoli la metà di giugno, come data della loro partenza da Ankara circa il 20 luglio e da Konya la metà d’agosto. 14 Alberto di Aix, VIII, 34-40, pp. 579-82 (è l’unica fonte completa); Ekkehard, XXIV-XXVI, pp. 30-32. Da Costantinopoli egli viaggio per mare e confonde le spedizioni terrestri, come fa pure

Fulcherio di Chartres, VII, XVI, 1-3, pp. 42833. Esistono tre Passione: Sancii Thiemonis, che descrivono il martirio dell’arcivescovo ma non contengono particolari sulla spedizione. La Historia Welforum Weingartensis, p. 462, narra il supposto destino di Ida. Ekkehard dice semplicemente che ella venne uccisa Parecchi cronisti occidentali menzionano per inciso questa spedizione. Hagenmeyer (Chronologie du Rovaume de Jérusalem, p. 457) indica come data del saccheggio di Filomelio il 10 agosto e della battaglia il 5 settembre approssimativamente. 15 Alberto di Aix, VIII, 42, PP- 582-83. Bernardo lo Straniero comandava a Tarso nel settembre del noi. È probabile che Raimondo sbarcasse a Longiniada, il porto di Tarso, come dice Radulfo di Caen (cxlv, p. 708) seguito da Cahen (La Syrie du Nord, p. 232, nota I0), e non a San Simeone con gli altri crociati come è sottinteso da Alberto. Matteo di Edessa, clxxii, p. 242, afferma che Raimondo venne imprigionato a «Sarouantavi», cioè Sarventikar, nel Tauro; ma questo sembra improbabile.

Note Capitolo terzo I principi normanni di Antiochia

1 Fulcherio

di Chartres, I, VII, I, pp. 390-93; Alberto di Aix, VII, 44-45, pp. 537-38. Schlumberger, Les Principautés Franques Au Levant, pp. 14-15, tratta delle monete di Tan credi che Io mostrano con paludamenti imperiali ma con un kefieh in testa. La leggenda in greco dice «Tancredi Servo di Dio», con una croce e IC XP NIKA (come sulle monete bizantine) sul verso. Secondo la Historia Belli Sacri, p. 228, egli non venne accettato come governatore finché non ebbe pre stato un giuramento di fedeltà a Boemondo. Fu investito della reggenza dal legato papale Maurizio da Porto. 3 Radulfo di Caen, cxliii, p. 706; Alberto di Aix, VIII, 40, p. 582; Orderico Vitale, XXIII, p. 140. 4 Caffaro, De Liberatione, p. 59; Ughelli, Italia Sacra, vol. IV, pp. 847-48. 5 Ibn al-Qalanisi, pp. 51-52. 6 Alberto di Aix (VII, 42, pp. 582-83) afferma che Raimondo giurò di non tentare alcuna conquista nella Siria a nord di Acri, ma poiché non venne sollevata alcuna obbiezione al suo attacco contro .Tortosa, il suo giuramento si riferiva probabilmente soltanto alla regione a nord di Lattakieh. 7 Radulfo di Caen, cxliv, cxlvi, pp. 708-9; Anna Comnena, IX, VII, 7, vol. III, p. 36. 8 Alberto di Aix, VIII, 41, 47-48, pp. 582, 384-8.5. Alberto chiama Manasse vescovo di «Barzenona» o «Barcinona» che viene comunemente inteso come Barcellona (Chalandon, Alexis Connène Ier, p. 237; Leib, Rome, Kiev et Byzance à la fin du XIe siede, pp. 273-74; Norden, Dos Papstlum uni Byzanz, p. 70). Ma a quel tempo il vescovo di Barcellona era Berengario II, un uomo anziano che non lasciò mai la sua diocesi (Baudrillart Dictionnaire d’Histoire et de Géographie Ecclésiastique, articolo ‘Barcelona’). È più probabile che il vescovo fosse un italiano ma è impossibile identificare la sua sede. Le sue lamentele furono probabilmente presentate al Sinodo che, come è noto. Pasquale tenne a Benevento nel 1102 (Annales Beneventani, ad ann. 1102, p. 183). Alberto di Aix afferma che egli si incontrò con il papa a Benevento. 9 Cfr. oltre, p. 330. 10 Guglielmo di Tiro, X, 24, pp. 437-38, XI, II, pp. 469-72, racconta la storia del matrimonio di Baldovino e della sua barba. Matteo di Edessa, ccxxv, p. 296, parla di lui con rispetto ma senza affetto. 11 Matteo di Edessa, clxviii, pp 232-33; Ibn al-Qalanisi, pp. 30-51; al-Azimi, p. 494. 12 Guglielmo di Tiro, X, 24, pp. 437. 13 Alberto di Aix, IX, 33-36, pp. 610 12; Orderico Vitale, X, 23, vol. IV, p. 144, parla di un intrigo amoroso di Boemondo con una figlia dei Danishmend, mentre il Miracula Sancii Leonardi (pp. 160-68. 179-82) trasforma la sua amica in una moglie cristiana dell’emiro. Matteo di Edessa (clxxviii, p. 232) afferma che Riccardo del Principato venne riscattato da Alessio; ma Riccardo si trovava già in Siria prima della liberazione di Boemondo (Miracula Sancti Leonardi, p. 157). 2

Radulfo di Caen dice che Baldovino agi per antipatia verso Tancredi (CXLVII, p. 709). La disputa tra il capo selgiuchida e quello danishmend è riferita da Ibn al-Qalanisi, op. cit., p. 59 14 Michele il Siriano, vol. III, pp. 185-89. 15 Fulcherio (p. 460) dice che Tancredi venne «adeguatamente» ricompensato, ma Radulfo afferma che gli vennero date soltanto due piccole città (loc. cit.). 16 Kemal ad-Din, p. 591; Ibn al-Athir (Kamil fi t-tarikh, p. 211) aggiunge che Boemondo estorse del denaro da Qinnasrin. 17 Anna Comnena, XI, IX, 1-4, vol. III, pp. 40-41; Matteo di Edessa, clxxxvi, p. 257, colloca erroneamente la conquista di Marash dopo la battaglia di Harran; Radulfo di Caen, CXLVIII-CL, pp. 710-12. 18 Kemal ad-Din, pp 591-92; Cronaca di Zettersteen, p. 239. 19 Sui precedenti e la preparazione della campagna di Harran, cfr. Cahen, La Syrie du Nord, pp. 236-37, con indicazione delle fonti. Nicholson, nella sua tesi su Tancredi, pp. 138-42, sottolinea il fatto che questa campagna non era parte di una politica generale di espansione, ma la risposta a una minaccia da parte dei musulmani. Ma Harran era certamente un preciso obiettivo dei franchi. 20 Alberto di Aix, IX, 38-42, pp. 614-16; Radulfo di Caen, CXLVIII, pp. 710-n; Fulcherio di Chartres, II, xxviI, 1-13, pp. 468-77; Ibn al-Qalanisi, pp. 60-61; Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarikh, pp. 221-23; Sibt ibn al-Djauzi, p. 537; Matteo di Edessa, clxxxii, pp. 254-55; Michele il Siriano, vol. III, p. 195; Chron. Anon. Syr., pp. 78-80. I resoconti sullo svolgersi della battaglia sono in parte contrastanti. 21 Radulfo di Casti, CXLVIII, p. 712; Alberto di Aix, loc cit ; Matteo di Edessa, clxxxii, p. 256. 22 Ibn al-Athir, loc. cit. riferisce che Soqman avrebbe detto: «Preferirei perdere il mio bottino piuttosto che permettere che i cristiani si vantino della nostra follia». 23 Alberto di Aix, XI, 43, pp. 617-18; Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarik, p 223; Ibn al-Qalanisi, pp. 69-70. 24 Alberto di Aix, IX, 46, pp. 619-20. 25 Radulfo di Caen, loc cit ; Kemal ad-Din, pp. 592-93; Sibt ibn al-Djauzi, p 329; Ibn alQalanisi, pp. 62-65. 26 Anna Comnena, XI, X, 9, XI, XI, 7, vol. III, pp. 43-49 27 Anna Comnena, XI, XII, 1-3, vol. III, pp. 50-51, dice che egli fece finta di essere motto per potersi imbarcare senza dar nell’occhio; Alberto di Aix, IX, 47, p. 620; Fulcherio di Chartres, II, xxix, I, pp. 482-85, Radulfo di Cacn, CLII, CLIII, pp. 712-14; Ibn al-Qalanisi, p 66; Matteo di Edessa, clxxxii, pp. 255-56. A proposito del passo interpolato nelle Gesta, cfr. Krey, A Neglected passage in the «Gesta», in The Crusades and other Historical Essays, dedicato a D. C. Mutuo. L’arrivo di Boemondo in Italia è registrato negli Annales Barenses, p. 155. 28 Matteo di Edessa, clxxxix, p. 260; Michele il Siriano, vol. III, p 195; Ibn al-Athir, Kamil li ttarikh, pp. 262-63. Da quel momento in poi nei suoi documenti Tancredi si designò come «Tancredus Dux et Princeps Antiochenus» (Röhricht, Regesta Regni Hierosolymitani, p. II). In documenti del periodo della sua prima reggenza egli viene chiamato «Princeps» senza una designazione territoriale (ibid, p. 5). Egli aveva ancora il titolo di principe di Galilea.

29 Orderico Vitale, XI, vol. IV, pp. 210-13; Suger, Historia Ludovici, pp. 29-30; Chronicon Sancti Maxentii, p. 423; Chronicon Vindocinense, pp. 161-62; Guglielmo di Tiro, XI, r, p. 4J0; Anna Comnena, XII, 1, 1, vol. III, p. 53. Secondo Luchaire, Louis VI le Gros, p. 22, il matrimonio tra Costanza e Boemondo ebbe luogo in aprile o maggio del 1106. Probabilmente Cecilia parti per l’Oriente dopo quella data, perciò è verosimile che il suo matrimonio venisse celebrato più tardi nel 1106. Matteo di Edessa (loc cit.) credeva che Boemondo fosse stato costretto a sposare una ricca nobildonna che egli indica come moglie di Stefano Poi (confondendo apparentemente Ugo di Champagne con il crociato Ugo di Saint-Poi che era amico di Boemondo). Ella lo avrebbe imprigionato finché egli accondiscese, ma egli avrebbe preferito tornare in Oriente. 30 Anna Comnena. XII, IV, 1-3, XII, VIII, I. XII , IX, 7, XIII, II, I, XIII, XII, 28, vol. III, pp. 6465, 77-8J, 91-139. Cfr. Chalandon, Alexis Comnène Ier, pp. 237-50. 31 La data della morte di Boemondo differisce secondo le diverse cronache. Ma Rey (Histoire des Princes d’Antioche, p. 334) e Hagenmeyer (Chronologie de la Première Croisade, p. 298) ne discutono ambedue ed indicano il 1111 (il 6 marzo, secondo la Necrologie de l’Abbaye de Molesme, citata da Rey). 32 Radulfo di Caen, CLIV, pp. 714-15; Alberto di Aix, IX, 47, pp. 620-21; Kemal ad-Din, p. J93; Ibn al-Qalanisi, pp. 69-70; Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarikh, pp. 227-28. 33 Ibn al-Qalanisi, loc. cit ; Cronaca di Zettersteen, p. 240; Kemal ad-Din, p. 694; Ibn al-Athir, Kamil fi i-tarikh, p. 233, Alberto di Aix, X, 17-23, pp. 639-42. Egli afferma che Abul Fath, che egli chiama «Botherus», assassinò l’emiro, 34 Usama, p. 157; Ibn al-Qalanisi, p 73; Kemal ad-Din, pp. 594-95. 35 Anna Comnena, XII. II, 1-7, vol. III, pp. 56-59; Guglielmo di Tiro, X, 23, pp. 635-36. (Cfr. pure Röhricht, Regesta Regni Hierosolymitani, p. 11 e Muratori, Antiquitates Italicae, vol. II, pp. 905-6. a proposito del trattato di Tancredi con i pisani). 36 Dal Borgo, Diplomata Pisana, pp. 85-94. Cfr. Heyd, op. cit., vol. I, pp. 143-46. 37 Anna Comnena, XIV, n, 3-5, vol. III, pp. 147-48.

Note Capitolo quarto Tolosa e Tripoli

1 Cfr.

sopra, pp. 310-II. Cfr. sopra, p. 291, e anche Sobernheim, articolo ‘Ibn Ammar’, in Encyclopaedia of Islam. Il figlio di Duqaq, Buri, aveva ricevuto Jabala dallo sceicco locale, ma ne era stato allontanato da Fakhr al-Mulk. 3 Fulcherio di Chartres, II, XVII, 1-2, pp. 433-35; Alberto di Aix, VIII, 43, p. 583; Caffaro, De Liberatione, p. 69, menziona l’aiuto dato da una flotta genovese, 4 Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarikh, pp. 211-12; Sibt ibn al-Djauzi (p. 525) indica come luogo della battaglia le immediate vicinanze di Tortosa, cosi pure Caffaro, De Liberatione, loc cit Radulfo di Caen, CXLV, p. 707. 5 Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarikh, p. 213. Il suo modo di indicare la data è poco chiaro. Kemal adDin, pp. 590-91. 6 Alberto di Aix, IX, 26, pp. 605-6; Caffaro, De Liberatione, p. 71. 7 Anna Comnena, XI, VIII, 5, vol. III, p. 389; Alberto di Aix, IX, 32, p. 510; Caffaro, De Liberatione, p 70; Radulfo di Caen, loc cit ; Guglielmo di Tiro, X, 17, p. 441; Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarikh, pp. 217-18; Abul Mahasin, p. 275. 8 Alberto di Aix, loc cit.; Caffaro, De Liberatione, p. 72; Bartolfo di Nangis, LXVIII, p. 539. Guglielmo di Tiro, XI, 2, p. 452; Ibn al-Athir, nel Kamil fi t-tarikh, p. 230 lo fa morire dieci giorni dopo l’incidente; Guglielmo di Tiro parla di lui come uomo «bonae memoriae» e «vir religiosus et timens Deum, vir per omnia commendabilis». 9 Alberto di Aix, IX, 50, pp. 123-24. Secondo Vaissète, op. cit, voi IV, I, pp. 195-99, Bertrando era figlio di Raimondo e della sua prima moglie che era la figlia del marchese di Provenza. Questo matrimonio venne annullato pili tardi per consanguineità, ma non sempre un simile annullamento rendeva illegittimi i figli. È chiaro che, sebbene Raimondo considerasse Bertrando come suo erede in Tolosa quando parti per l’Oriente accompagnato dai figli avuti da Elvira (e dei quali non si conosce il sesso), tuttavia in Tolosa i diritti di Bertrando erano considerati inferiori a quelli di AlfonsoGiordano la cui legittimità era fuori dubbio; e più tardi le pretese di Alfonso-Giordano su Tripoli allarmarono il nipote di Bertrando, Raimondo II (cfr. oltre, parte III, cap. III). Guglielmo di Malmesbury, che non è sempre molto accurato, afferma che Bertrando era il figlio che Raimondo aveva avuto da una concubina (II, 9, 456). Caffaro (De Liberatione, p. 71), che gli è contemporaneo, lo chiama un bastardo. 10 Anna Comnena, loc cit ; Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarikb, p. 236, dice che la città ricevette abbondanti provviste dai greci di Lattakieh. 11 Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarikb, pp. 226-27. 12 Ibn al-Qalanisi, p. 60; Ibn al-Athir. Kamil fi t-tarikh, p. 230. 2

13 Ibn al-Qalanisi, pp. 83-86; Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarikh, pp. 255-57. 14 Ibn al-Qalanisi, pp. 86-90; Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarikh, p. 274; Sibt ibn al-Djauzi, p. 536. 15 Alberto di Aix, XI, 3, p. 664, dice che Bertrando si fermò a Pisa, mentre intende Genova; Caffaro, De Liberatone, p. 72. 16 Anna Comnena, XIV, il, 6, vol. III, p. 159, afferma che Bertrando (Πελχτράνοϛ) giurò fedeltà ad Alessio quando si trovava già a Tripoli. Ma Alberto di Aix, he cit., menziona la sua andata a Costantinopoli per Almyro 17 Alberto di Aix, XI, 5-7, PP. 665-67. 18 Usama, p 78; Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarikh, pp. 226-27. 19 Fulcherio di Chartres, II, XI, I, pp. 526-30; Alberto di Aix, XI, 1-2, 8, pp. 663-64,666. 20 Fulcherio di Chartres, II, XLI, I, p. 331; Alberto di Aix, XI, 9-12, pp. 666-68. 21 Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarikh, p. 274; Ibn al-Qalanisi, p. 89. 22 Fulcherio di Chartres, II, xli, 2-4, pp. 531-33; Alberto di Aix, XI, 13, p. 668; Ibn al-Qalanisi, pp. 89-90; Ibn al-Athir, loc. cit.; Abul Mahasin, p. 489; Ibn Hamdun, p. 455; Sibt ibn al-Djauzi, p. 536. 23 Caffaro, De Liberatione, pp. 72-73. Cfr. Rey, Les Seigneurs de Gibelet, in «Revue de l’Orient Latin», vol. III, pp. 399-403. 24 Fulcherio di Chartres, loc cit.; Alberto di Aix, XI, 13, pp. 669-70.

Note Capitolo quinto Re Baldovino I

1

Fulcherio di Chartres, II, IV, I -5, II, pp. 370-93 (Fulcherio accompagnava la spedizione); Alberto di Aix, VII, 28-42, pp 533-36 C’era un monastero greco sull’attuale Jebel Harun (Monte Hor) ed una colonia di monaci nelle vicinanze della grande tomba nabatea conosciuta oggi come il Deir o Monastero. 2 Cfr. sopra, p. 280. 3 Guglielmo di Tiro. X, II, p. 415. 4 Alberto di Aix, VII, 52, PP. 541-42. 5 Fulcherio di Chartres, II, VIII, 1-7, pp. 393-400; Alberto di Aix, VII, 54, pp. 432-53. 6 Fulcherio di Chartres, IX, 1-9, pp. 400-4; Alberto di Aix, VII, 55-56, pp. 453-54. Guglielmo di Tiro, X, 16, p. 423, riferisce che i genovesi ricevettero, come parte del loro bottino, una coppa verde che credettero ricavata da un unico smeraldo massiccio. Si trova tutt’ora nel tesoro della cattedrale di San Lorenzo a Genova; in seguito si pensò che fosse il Santo Graal. Cfr. Heyd, op. cit., vol. I, p. 137. 7 Fulcherio di Chartres, II, XI, I, II, XIII, 5, pp. 407-20; Alberto di Aix, VII, 66-70, pp. 550-53. 8 Fulcherio di Chartres, II, XIV, 1-8, pp. 420-24. 9 ibid , XV, 1-6, pp. 424-28. 10 Fulcherio di Chartres, II, XVIII, I, II, XIX, 5, pp. 436-44; Ekkehard Hierosolymita, pp. 33-35; Alberto di Aix, IX, 2-6, pp. 391-94; Bartolfo di Nangis, pp. 533-35; Guglielmo di Tiro, X, 20-21, pp. 429-32, menziona l’intervento dello sceicco; Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarikb, pp. 213-16, dà un resoconto tendenzioso fondato su due versioni diverse. Io accetto la data di Hagenmeyer (Chronologie de la Première Croisade, pp. 162-66), sebbene la Chronicon Sancii Maxentii, p. 421, indichi il 27 maggio e Alberto di Aix «intorno a Pentecoste», cioè verso il 25 maggio; secondo Guiberto di Nogent, p. 245, non si venne a sapere nulla di preciso sulla morte di Stefano di Blois; il Cartulaire de Notre Dame de Chartres, vol. III, p. 115, indica la data del 19 maggio. 11 Fulcherio di Chartres, II, XX, I, II, XXI, 18, pp. 444-55; Ekkehard, loc cit.; Alberto di Aix, IX, 7-12, pp. 595-97; Ibn al-Athir, loc. cit. 12 Ibn al-Athir, loc. cit 13 Alberto di Aix, IX, 15, p. 599, Ibn Moyessar, p. 464; Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarikh, p. 213, afferma che i principi settentrionali fecero pressioni per ritirarsi. 14 Alberto di Aix, VII, 46-51, pp. 538-41, dà un resoconto ostile a Daimberto. Guglielmo di Tiro (X, 26-27, PP- 438-40), die fu sempre un difensore della causa di Daimberto perché favorevole all’indipendenza della chiesa, tralascia a bella posta di menzionare le investigazioni di Maurizio Riant, Inventane critique. pp 218-19. 15 Alberto, di Aix, VII, 58-64, pp. 545-49.

16 Alberto di Aix, IX, 14,16-17, PP- 398-600; Guglielmo di Tiro, loc. cit. 17 Guglielmo di Tiro, XI, X, pp. 450-51. 18 Alberto di Aix, X, 389, pp. 650-59, XII, 24, p. 704; Guglielmo di Tiro, loc cit e XI, 4, PP455-36. 19 Guglielmo di Tiro, XI, 15, p. 479. Guglielmo giudicava Arnolfo un opportunista. 20 Esiste un lungo racconto della cerimonia in un manoscritto di Fulcherio di Chartres, che è stampato nel RHC. Hagenmeyer, nella su» edizione di Fulcherio, osserva che esso appare soltanto in un manoscritto (L) e lo respinge interamente, eccetto le parole introduttive «conturbati sunt omnes propter ignem quem die sabbati non habuimus ad Sepulchrum Domini» (II, VIII, 2, p. 396). Cfr. la sua nota 3, pp. 395-96, per una discussione completa. Egli pubblica in appendice il testo interpolato, assieme a quelli che si trovano in Bartolfo di Nangis e Guiberto di Nogent (ibid., pp. 831-37). Poiché Fulcherio era cappellano di Baldovino, doveva essere presente a quella cerimonia. L’abate Daniele (ed. a cura di de Khitrowo, pp 75-83) dà un resoconto della cerimonia del 1107 da cui appare con evidenza che il Sepolcro era affidato ai greci. 21 Pellegrinaggio di Saewulf, pp. 8-9. 22 Alberto di Aix, IX, 18, pp. 600-1. 23 Alberto di Aix, IX, 15, p. 399; Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarikb, p. 213, con errata indicazione dell’anno (493 dell’Egira, invece di 496). 24 Fulcherio di Chartres, II, XXIV, I, pp. 460-61; Alberto di Aix, IX, 22-23, PP-103-4. 25 Fulcherio di Chartres, II, XXV, 1-3, pp. 462-64; Alberto di Aix, IX, 27-29, pp. 606-8; Carfaro, De Liberatione, pp. 71-72; atto di Baldovino in Liber Jurium Reipublicae Genuensis, vol. I, pp. 16-17. 26 Cfr. oltre, libro II, parte IV, cap. I. 27 Ibn al-Qalanisi, p. 71; Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarikh, p. 229. 28 Alberto di Aix, IX, 48-50, pp 621-24; Fulcherio di Chartres, II, XXXI, I, II, XXXIII, 3, pp. 489-503, Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarikh, pp. 228-29; Ibn Moyessar, p. 466. 29 Alberto di Aix, X, 10-14, pp. 635-38. 30 Ibid., 33, pp. 646-47, XI, 28, p. 676. 31 Ibid , X, 4-7, pp. 632-34. 32 Alberto di Aix, X, 48-51, pp. 653-55; Ibn al-Qalanisi, p. 87. 33 Fulcherio di Chartres, II, XLII, 1-3, p. 336, indica la data del 13 maggio nel corso di un poema astronomico; Alberto di Aix, p. 671, dà la data del 27 maggio; Ibn al-Qalanisi, pp. 99-101 (13 maggio). 34 Fulcherio di Chartres, II, XLIV, 1-7, pp. 543-48; Alberto di Aix, XI, 26, 30-34, pp. 675, 677; Guglielmo di Tiro, XI, 14, pp. 476-79, narra l’azione dei cristiani indigeni; Sigurdar Saga, in Agrip af Noregs Konungasögum, passim; Sigurdar Saga Jorsalafara ok broedra hans, pp. 73 sgg.; Ibn alQalanisi, pp. 106-8; Ibn al-Athir, Kamil fi l-tarikh, p. 273; Dandolo, p. 264; Tafel e Thomas, Utkunden zur ältern Handels und Staatsgeschichte der Republik Venedig, vol. I, pp. 86, 91, 143; Riant, Expéditions et Pèlerinages des Scandinaves, cap. IV, passim.

35 Alberto di Aix, XII, 3-7, pp. 690-93; Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarikh, p. 257, Ibn Moyessar, p. 467. 36 Alberto di Aix, XI, 36-37, pp. 680-81; Ibn al-Qalanisi, pp. 108-10. 37 Ibn al-Qalanisi, p. 106; Sibt ibn al-Djauzi, p. 537. 38 Guglielmo di Tiro, XI, 5, pp. 459-60; Ibn al-Qalanisi, pp. 72, 75; Ibn al-Athir, Kamil fi t tarikh. pp. 229-30; Alberto di Aix, X, 8, pp. 635-36 39 Alberto di Aix, X, 25-26, pp. 642-43; Ibn al-Qalanisi, p. 75. 40 Alberto di Aix, X, 57, p. 658; Ibn al-Qalanisi, pp. 86-87; Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarikh, pp. 268-69. Questi indica Gervasio come figlio di una sorella di Baldovino. 41 Alberto di Aix, XI, 12, p. 668; Guglielmo di Tiro, XI, 22, p. 492. 42 Ibn al-Qalanisi, p. 92; Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarikh, p. 269. 43 Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarikh, pp. 269-70. 44 Alberto di Aix, X, 43, p. 653; Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarikh, p. 272. 45 Cfr. oltre, p. 389. 46 Cfr sopra, pp. 338-39 e pp 379-80. 47 Alberto di Aix, X, 28-29, pp. 644-45; Ibn al-Qalanisi, pp. 81-82 A proposito dei monasteri greci in quel distretto cfr. sopra, p. 343, nota I. 48 Alberto di Aix, XII, 21-22, pp. 702-3; Guglielmo di Tiro, XI, 29, p. 505. Su Aila, cfr. Musil, articolo ‘Aila’, in Encyclopaedia of Islam 49 Fulcherio di Chartres, II, lxii, I, pp. 605-6; Guglielmo di Tiro, XI, 30, p. 307. 50 Alberto di Aix, XII, 25, p. 705; Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarikb, p. 314. 51 Cfr. La Monte, Feudal Monarchy, pp. 228-30. 52 Cfr. oltre, libro II, parte IV, cap. I. 53 Cfr. ibid 54 Röhricht, Regesta Regni Hierosolymitani, n. 83, p. 19. 55 Guglielmo di Tiro, XI, 28, pp. 502-5. 56 Giliberto di Nogent, p. 2.59, accenna alla sua vita licenziosa; Guglielmo di Tiro, XI, I, pp. 451-52, insinua che abbia cominciato la sua vita immorale dopo il divorzio. 57 Alberto di Aix, XII, 13-14, PP- 696-98; Guglielmo di Tiro, XI, 21, pp. 487-89; Fulcherio di Chartres, II, LI, pp. 575-77. Adelaide era figlia di un certo marchese Manfredi e nipote di Bonifacio di Salona, e nel 1089 era diventata la terza moglie di Ruggero I di Sicilia. Sulla sua genealogia, cfr. Chalandon, Histoire de la Domination normande en Italie et en Sicile, vol. II, p. 391, nota 5. 58 Lettera di Pasquale II del 13 luglio 1116, in MPL, vol. CLXIII, coll. 408-9; Alberto di Aix, XII, 24, p. 704; Guglielmo di Tiro, XI, 24, pp. 499-500. 59 Alberto di Aix, loc. cit.; Guglielmo di Tiro, loc. cit ; Fulcherio di Chartres, II, LIX, 3, p. 601. 60 Fulcherio di Chartres, II, LXI, 1-3, II, LXIII, 1-4, pp. 604-5, 607-8. Le note di Hagenmeyer discutono la questione delle date. Fulcherio menziona la morte di Pasquale, Baldovino, Adelaide,

Arnolfo e Alessio. 61 Annales Romani, p. 477; Guglielmo di Tiro, XII, 5, p. 518. 62 Necrologia Panormitana, pp. 472,474; Guglielmo di Tiro, XII, 3, p. 518. 63 Cfr. oltre, p. 404. 64 Ibn al-Qalanisi, p. 156; Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarikh, p. 303, indica la data del 18 aprile. 65 Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarikh, pp. 310-11; Matteo di Edessa, ccxxvi, p. 297. 66 Zonara, p. 759; Guglielmo di Tiro, XII, 5, p. 517; Ibn al-Qalanisi, p. 137, e Matteo di Edessa, ccxxviII, pp. 300-1, ne segnalano anch’essi la morte. 67 Fulcherio di Chartres, II, XIV, 1-5, pp. 609-13; Alberto di Aix, XII, 26-29, pp. 706-9; Guglielmo di Tiro, XI, 31, pp. 508-9; Ibn al-Qalanisi, loc. cit.

Note Capitolo sesto Equilibrio nel nord

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Ibn al-Furat, citato da Cahen, La Syrie du Nord, p. 248, nota 26; Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarikh, pp. 226-27. Ilghazi sottrasse Mardin a Ibrahim nel 1107. Sulla complicata storia degli emiri musulmani cfr. Cahen, La Syrie du Nord, pp. 246-49. 2 Ibn al-Athir, loc. cit 3 Michele il Siriano, vol. III, p. 192. 4 Cfr l’articolo ‘Kilij Arslan’, in Encyclopaedia of Islam Ibn al-Qalanisi, Ibn al-Athir e gli altri cronisti arabi si preoccupano di chiamarlo soltanto «malik». Matteo di Edessa, come pure Michele il Siriano, lo chiama sultano. 5 Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarikh, pp. 224-25. 6 Ibid , pp. 225-26. 7 Matteo di Edessa, clxxxix, pp. 260-61. 8 Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarikh, p. 239. 9 Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarikh, pp. 260-64. 10 Ibid , pp. 246-47; Matteo di Edessa, cxcvi, p. 264, considera la morte di Kilij Arslan come un disastro per l’intero mondo cristiano, ossia per gli armeni. 11 Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarikh, pp. 259-61; Barebreo, trad. ingl. di Budge, I, p. 241. 12 Michele il Siriano, vol. III, pp. 19J-96, afferma che i cittadini di Turbessel si consegnarono quali ostaggi finché il denaro fosse stato raccolto, poi fuggirono, cosicché in realtà non si pagò nulla. Ma Jocelin tornò in prigionia come ostaggio al posto di Baldovino e fece un’impressione eccellente sul sultano di Mosul che chiese particolarmente di vederlo. Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarikh, p. 261, dì per certo che la somma dovuta venne regolarmente pagata. 13 Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarikh, p 260; Barebreo, loc cit. 14 Michele il Siriano, loc cit ; Chron Anon. Syr., pp. 81-82; Barebreo, trad. ingl. di Budge, I, p. 243; Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarikh, p. 261. 15 Fulcherio di Chartres, II, xxvIII, 1-.5, pp. 477-81; Alberto di Aix, X, 37, p. 648; Matteo di Edessa, cxcix, p. 266; Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarikh, pp. 262-63, che indica il patriarca Bernardo come «l’equivalente cristiano di un imam per i musulmani». 16 Matteo di Edessa, cxcix, pp. 266-67; Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarikh, pp. 265-67; Kemal adDin, p. 595; Ibn al-Furat, citato da Cahen, La Syrie du Nord, p. 250, nota 34. 17 Matteo di Edessa, cxcix, pp. 267-68. 18 Usama, pp. 99-100. 19 Cfr. sopra, pp. 337-39, e Alberto di Aix, XI, 3-13, pp. 664-68, 685-86; Ibn al-Athir, Kamil fi

t-tarikh, p. 274. 20 Alberto di Aix, XI, 16-18, pp. 670-72; Matteo di Edessa, cciv, pp. 270-73; Ibn al-Qalanisi, p. 103. 21 Alberto di Aix, XI, 20-24, PP- 672-74; Fulcherio di Chartres, II, XLIII, 1-6, pp. 532-41; Ibn al-Qalanisi, p. 102. 22 Alberto di Aix, loc. cit ; Guglielmo di Tiro, XI, 7, p. 464; Matteo di Edessa, cclv, p. 273; Ibn al-Qalanisi, pp. 103-4. 23 Alberto di Aix, XI, 25, p. 675. 24 Matteo di Edessa, cciv, p. 274; Barebreo, trad. ingl. di Budge, I, p. 243; Ibn al-Qalanisi, pp. 103-6; Kemal ad-Din, pp. .596-98; Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarikb, p. 278. 25 Alberto di Aix, XI, 43-46, pp. 684-86; Usama, pp. 95-96; Kemal ad-Din, p. 599; Ibn alQalanisi, p. 114. 26 Michele il Siriano, vol. III, pp 194-95; Ibn al-Qalanisi, p. 81 (una storia piuttosto vaga). Cfr. Cahen, La Syrie du “Nord, pp. 253-54. 27 Anna Comnena, XIV, I, V-VI, pp. 141-46, 166-72. Cfr. Chalandon, Alexis Comnène Ier, pp. 254-56. 28 Su Kogh Vasil, cfr. Matteo di Edessa, clxxxvii, pp. 258-59, ccx, pp. 281-82. 29 Sugli assassini cfr. von Hammer, Histoire de l’Ordre dei Assassins; inoltre gli articoli ‘Assassins’ e ‘Ismaili’, in Encyclopaedia of Islam; Browne, Literary History of Persia, vol. II, pp. 193 sgg. 30 Ibn al-Qalanisi, pp. 112-13, afferma che l’imperatore (egli adopera il termine «usurpatore», mutamelik) fece avvertire i musulmani dei progetti dei franchi e presuppone che l’ambasceria sia venuta a Damasco. In realtà Alessio probabilmente suggerì soltanto un’azione contro Tancredi. Egli non aveva trovato nessun appoggio tra i capi franchi per il suo tentativo di costringere Tancredi ad osservare il trattato di Devol (cfr. sopra, p. 324). Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarikb, pp. 279-80, menziona l’ambasceria a Bagdad citando Ibn Hamdun. 31 Ibn al-Athir, loc cit. 32 Ibn al-Qalanisi, pp. 114-13; Kemal ad-Din, pp. 600-1; Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarikh, p. 282; Alberto di Aix, XI, 38, p. 681. 33 Alberto di Aix, XI, 39-40, pp. 682-83, indica la lista degli alleati; Matteo di Edessa, ccvi, p. 273; Michele il Siriano, vol. III, p. 205, riferisce la perdita di Albistan. 34 Fulcherio di Chartres, II, xlv, 1-9, pp. 349-57; Alberto di Aix, XI, 41-43, pp. 683-84; Ibn alQalanisi, pp. 116-19; Usama, pp. 97-98; Kemal ad-Din, p. 600; Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarikh, p. 83, confonde la narrazione dei fatti che trae da Ibn al-Qalanisi e Ibn Hamdun. Cfr. Cahen, La Syrie du Nord, p. 363, nota 33. 35 Kemal ad-Din, pp. 601-2; Alberto di Aix (XI, 43, p. 684) fa riferimento alla conquista di Azaz come avvenuta in quel momento, ma Azaz si trovava ancora in mano ai musulmani nel 1118. 36 Matteo di Edessa, ccix, pp. 280-81. 37 Guglielmo di Tiro, XI, 22, pp. 489-92; Matteo di Edessa, CCVIII, p. 280, allude ad un

complotto contro i franchi durante l’assedio effettuato da Mawdud; Chron. Anon. Syr , p. 86; Ibn alQalanisi, p. 133. 38 Matteo di Edessa, CCX, pp. 281-82. Non si conosce la data esatta della morte di Riccardo. Egli era già defunto al tempo della morte di Tancredi ma era ancora in vita l’inverno precedente. 39 Ibn al-Qalanisi, p. 127, dice che la notizia della morte di Bertrando giunse a Damasco il 3 febbraio. 40 Sembra che per un certo tempo Pons abbia fatto parte del seguito di Tancredi e che sia stato fatto cavaliere da lui. 41 Fulcherio di Chartres (II, XLVII, I, pp 562-63): 12 dicembre; Alberto di Aix (XII, 8, p. 693); nel periodo dell’Avvento; Ibn al-Qalanisi (pp. 131-32): 11 dicembre; Michele il Siriano (vol. III, p. 203): 5 dicembre. 42 Matteo di Edessa, loc. cit.: «il più grande dei credenti». 43 Guglielmo di Tiro, XI, 9, p. 523, chiama Ruggero cognato di Baldovino, ed altrettanto fa Gualtiero il Cancelliere, II, 16, p. 131. Il nome di Cecilia si ritrova in un documento del 1126 (Röhricht, Regesta Regni Hierosolymitani, Adattamenti:, p. 9). Orderico Vitale, X, 23, vol. IV, p. 158, attribuisce a Ruggero una moglie turca di nome Melaz, figlia dell’emiro danishmend che, secondo lui, ottenne la liberazione di Boemondo. 44 Maria è nota soltanto per un litigio che scoppiò più tardi a causa del suo doario. Chron. Anon. Syr., afferma che Jocelin la sposò nel 1121 (p. 89), ma è evidente che il matrimonio fu combinato mentre Ruggero era ancora in vita. La loro figlia Stefania già nel 1161 era considerata vecchia. 45 Secondo Alberto di Aix (XII, 19, p. 701) il matrimonio non ebbe luogo fino al 1115, ma sembra che il figlio di Pons, Raimondo II, avesse ventidue anni nel 1136. 46 Ibn al-Qalanisi, pp. 132-36. 47 Ibid., pp. 137-42. 48 Ibid., p. 144; Kemal ad-Din, p. 602. 49 Ibn al-Qalanisi, pp. 145-46; Kemal ad-Din, pp. 603-4. Cfr. Cahen, La Syrie du Nord, pp. 26768. 50 Ibn al-Qalanisi, pp. 146-48; Usama, pp. 146, 153 non indica nessuna data per la sorpresa contro Shaizar. 51 Ibn al-Qalanisi, pp. 148-49; Kemal ad-Din, pp. 605-6. 52 Matteo di Edessa, CCXII, pp. 281-83, CCXVI, p. 287; Chron Anon Syr., p. 86; Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarikh, pp. 292-93. 53 Matteo di Edessa, CCXII, pp. 282-84; Michele il Siriano, vol. III, pp. 216-17; Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarikh, pp. 292-93 54 Matteo di Edessa, CCXIII-IV, pp. 293-95; Chron Anon. Syr., p. 86. Valerano era probabilmente il fratello di Ugo di Le Puiset, la cui madre Alice era zia di Baldovino II e prima cugina di Tancredi. 55 Fulcherio di Chartres, II, LII, 1-5, pp. 578-80; Gualtiero il Cancelliere, I, pp. 83-84; Matteo di Edessa, ccxvii, pp. 287-89; Ibn al-Qalanisi, p. 149; Kemal ad-Din, p 607.

56 Fulcherio di Chartres, II, LIV, 1-6, pp. 586-90; Alberto di Aix, XII, 19, p. 701; Gualtiero il Cancelliere, I, 6-7, pp. 92-96 (è il resoconto più completo); al-Azimi, p. 509; Ibn Hamdun, citato in Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarikb, pp 295-98; Usama, pp 102-6; Michele il Siriano, voi III, p 217; Chron. Anon Syr., p. 86. 57 Usama, p. 106. 58 Ibn al-Qalanisi, pp. iji-52, sottintende che l’iniziativa venne da parte del sultano Ibn Hamdun, loc cit. 59 Ibn al-Qalanisi, pp. 155-56. 60 Ibn al-Qalanisi, loc cit.; Kemal ad-Din, pp. 610-15; Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarikb, pp. 308-9. 61 Matteo di Edessa, ccx-xvii, pp. 297-98; Kemal ad-Din, pp. 614-15. 62 A proposito delle fonti arabe vedi la discussione in Cahen, La Syrie du Nord, p. 279, nota 16. Pare che Pons di Tripoli aiutasse Ruggero dopo una breve disputa a proposito della dote di Cecilia, moglie di Pons e vedova di Tancredi la quale pretendeva Jabala ma si accontentò alla fine di Chastel Rouge e di Arzghan (Guglielmo di Tiro, XIV, 3, p. 612). 63 Matteo di Edessa, loc. cit. Sulla storia dei rupeniani cfr. Tournebize, op. cit., pp. 168 sgg. 64 Michele il Siriano, vol. III, pp. 193-94, 207-10. 65 Anna Comnena, XIV, II, 12-13, PP- 132-53. 66 Cfr. Chalandon, Alexis Comnène 1er, pp. 260-63, con completa indicazione delle fonti. 67 Landolfo, p. 487; Crisolano, coll. 911-19; Eustrazio, p. 15. 68 Anna Comnena, XIV, II, 14, pp. 153-J4. 69 Anna Comnena, XIV, V-VI, XV, I -II, IV-VI, pp. 164-72,187-94, 199-213- Cfr. Chalandon, Alexis Comnène Ier, pp. 26.5-71.

Note Capitolo primo Re Baldovino II

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Guglielmo di Tiro, XII, 3, pp. 513-16. Non si sa con certezza quali disposizioni avesse preso per Boulogne. Sua moglie, Maria di Scozia, morì nel 1116. 2 Fulcherio di Chartres, III, I, I, pp. 61J-16; Alberto di Aix, XII, 30, pp. 707-16; Guglielmo di Tiro, XII, 4, p. 517 3 Guglielmo di Tiro, XII, 2, pp. 512-13. 4 Immediatamente dopo la sua ascesa al trono Baldovino convocò Ruggero e Pons perché combattessero ai suoi ordini contro gli egiziani. 5 Alberto di Aix, loc. cit.; Guglielmo di Tiro, XII, 6, p. 319. 6 Fulcherio di Chartres, III, 11, 1-3, pp. 617-19; Guglielmo di Tiro, XII, 6, pp. J18-19; Ibn alAthir, Kamil fi t-tarikh, pp. 314-15. 7 Chron Anon Syr., p. 86 8 Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarikh, pp. 315-16. 9 Ibid., PP. 325-26. 10 Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarikh, pp. 318-23. Cfr. articoli ‘Sandjur’ e ‘Seldjuks’, in Encyclopaedia of Islam. 11 Ibn al-Qalanisi, pp. 157-38; Kemal ad-Din, pp. 615-16. 12 Gualtiero il Cancelliere, II, I, pp. 100-I. 13 Gualtiero il Cancelliere, II, 2-6, pp. 101-II (la narrazione più completa); Guglielmo di Tiro, XII, 9-10, pp. 323-26; Fulcherio di Chartres, III, III, 2-4, pp. 621-23, in una breve narrazione attribuisce il disastro alla collera di Dio per i numerosi adulteri di Ruggero; Matteo di Edessa, ccxxvi, pp. 276-77; Michele il Siriano, vol. III, p. 204; Ibn al-Qalanisi, pp. 139-61; Kemal ad-Din, pp. 616-618; Usama, pp. 148-49; Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarikh, pp. 324-23 Fulcherio indica le perdite dei franchi in settemila e quelle dei turchi in ventimila uomini. 14 Kemal ad-Din, loc cit. Gualtiero il Cancelliere, II, 7, pp. 111-13. 15 Gualtiero il Cancelliere, II, 8, pp. 114-15. 16 Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarikh, p. 332. 17 Gualtiero il Cancelliere, II, 8, p. 114. 18 Usama, pp. 148-49; Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarikh, pp. 332-33. Secondo Usama, se Ilghazi beveva del vino rimaneva ubriaco per venti giorni. 19 Gualtiero il Cancelliere, II, 9-10, pp. 115-18; Fulcherio di Chartres, III, VII, 1-3, pp. 633-35; Orderico Vitale (XI, 25, vol. IV, p. 245) parla di Cecilia, contessa di Tripoli, che conferisce dei feudi a dei cavalieri. La vedova di Ruggero fece lo stesso nel 1126 (Röhricht, Regesta Regni

Hierosolymitani, Additamenta, p. 9). Probabilmente fu a quel momento che Marash venne trasferita dalla sovranità di Antiochia a quella di Edessa. 20 Gualtiero il Cancelliere, II, 10-15, PP- 118-28; Guglielmo di Tiro, XII, 11-12, pp. 527-30; Kemal ad-Din, pp. 620-22; Usama, pp. 149-50. 21 Gualtiero il Cancelliere, II, 16, pp. 129-31; Guglielmo di Tiro, XII, 12, p. 530. 22 Fulcherio di Chartres, III, VII, 4, p. 635; Guglielmo di Tiro, XII, 12, p. 531. 23 Gualtiero il Cancelliere, loc. cit.; Ibn al-Qalanisi, p. 161; Kemal ad-Din, pp. 624-25. 24 Röhricht, Regesta Regni Hierosolymitani, p. 20; Mansi, Concilia, vol. XXI, pp. 262-66; Guglielmo di Tiro, XII, 13, p. .531. 25 Sugli ordini militari cfr. Guglielmo di Tiro, XII, 7, pp. 520-21 (i templari); XVIII, 4, pp. 822823 (gli ospitalieri). Buone opere moderne sono: Delaville Le Roulx, Les Hospitaliers en Terre Sainte; Curzon, La Règie du Tempie; Melville, La Vie des Templiers. Un resoconto completo sui templari (chiamati «Phrer frane») è dato da Michele il Siriano, vol. III, pp. 201-3. Cfr. pure La Monte, Feudal Monarchy, pp. 217-25. 26 Fulcherio di Chartres, III, IX, 1-7, pp. 638-42; Gualtiero il Cancelliere, II, 16, p. 131; Matteo di Edessa, ccxxx, pp. 302-3; Michele il Siriano, vol. III, pp. 203-6; Kemal ad-Din, p. 627; Ibn alQalanisi, p. 162; Grousset, Histoire des Croisades, vol. I, p. 574, seguendo Michele il Siriano, confonde Bulaq con il nipote di Ilghazi, Balak, che a quel momento conduceva una campagna molto più a nord (Ibn al-Qalanisi, loc cit ). 27 Fulcherio di Chartres, III, X, 1-6, pp. 643-45. 28 Ibn al-Qalanisi, p. 163; Kemal ad-Din, pp. 623-26. 29 Cronaca georgiana (in georgiano), pp. 209-10, 2ij; Matteo di Edessa, ccxxxI-II, ccxxxix, ccxliii, pp. 303-5, 310-11, 313-14; Ibn al-Qalanisi, p. 164; Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarikh, pp. 330332; Kemal ad-Din, pp. 628-29; Gualtiero il Cancelliere, II, 16, p. 130, attribuisce il merito della vittoria georgiana ai mercenari franchi; Michele il Siriano, vol. III, p. 206. 30 Sulle istituzioni georgiane in Gerusalemme, cfr. Cronaca georgiana, pp. 222-23 e Brosset, Additions et Eclaircissements, X, pp. 197-205. Un breve appunto si trova in Rey, Les Colonie! Franques, pp. 93-94. È possibile che i georgiani, minacciando continuamente gli Ortoqidi ed i Selgiuchidi di Persarmenia, aiutassero indirettamente lo sviluppo della potenza di Zengi. 31 Kemal ad-Din, p 629; Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarikh, pp. 349-30. 32 Fulcherio di Chartres, III. XI, pp. 647-48; Guglielmo di Tiro, XII, 17, pp. 336-37. 33 Fulcherio di Chartres, III, XI, 3-7, pp. 648-31; Kemal ad-Din, pp. 632-33; Ibn al-Qalanisi, p. 166. 34 Fulcherio di Chartres, III, XII, I, pp. 651-52; Matteo di Edessa, ccxxxiv, pp. 306-7; Kemal adDin, p 634; Chron Ano» Syr , p. 90, afferma che Jocelin stava conducendo a casa la sua nuova moglie, sorella di Ruggero. Ma non è menzionata affatto la cattura di lei e, poiché Ruggero diede una dote a sua sorella, il matrimonio deve aver avuto luogo prima della sua motte. 35 Ibn al-Qalanisi, p. 166; Ibn Hamdun, p. 516; Kemal ad-Din, pp 632-34; Matteo di Edessa, loc cit., dà un resoconto male informato della successione ortoqida. 36 Fulcherio di Chartres, III, XVI, I, pp. 658-59; Guglielmo di Tiro, XII, II, p. 537; Orderico

Vitale, XI, 26, vol. IV, p. 247; Matteo di Edessa, ccxxv, pp. 307-8; Ibn al-Qalanisi, p. 167; Ibn alAthir, Kamil fi t-tarikh, p 352. 37 Fulcherio di Chartres, III, XVI, 1-3, pp. 6.59-61; Guglielmo di Tito, XII, 17, p. 538. 38 Kemal ad-Din, pp. 636-37; Ibn al-Qalanisi, pp. 167-68. Su varie relazioni a proposito della conquista di Aleppo da parte di Balak, cfr. Cahen, La Syrie du Nord, p. 296, nota 35. 39 Fulcherio di Chartres, III, XXIII-xxvi, 6, pp. 676-93; Orderico Vitale, XI, 26, vol. IV, pp. 248250. Questi afferma che la regina Morphia, armena di nascita, collaborò a reclutare dei compatrioti per la liberazione del re. Aggiunge che i prigionieri vennero inviati in Persia ma rilasciati in seguito. Guglielmo di Tiro, XII, 18-20, pp. 338-41; Matteo di Edessa, ccxxxvi, pp. 308-10; Ibn al-Qalanisi, p. 169 (disgraziatamente con una lacuna nel testo); Kemal ad-Din, p. 637; Michele il Siriano, vol. III, p. 211. Il nipote di Baldovino era probabilmente un fratello di Manasse di Hierges, figlio di sua sorella Hodierna (cfr. oltre, p. 477). Ci viene riferito da Michele, che lo chiama Bar Noul (Arnolfo?), che egli era il figlio di una sorella. Pare che l’altra sorella di Baldovino, Mahalda, signora di Vitry, avesse avuto soltanto un figlio che sposò un’ereditiera sua cugina ed ebbe la successione di Rethel. Guglielmo di Tiro, XII, 1, pp. 311-12. 40 Fulcherio di Chartres, III, xxxi, 1-10, pp. 721-27; Orderico Vitale, XI, 26, vol. IV, p. 260; Guglielmo di Tiro, XIII, II, pp 570-71; Matteo di Edessa, ccxl, pp. 311-12; Kemal ad-Din, pp. 641642; Usama, pp. 63, 76, 130; Ibn al-Qalanisi, pp. 168-69 (ma non menziona la morte di Balak). 41 Fulcherio di Chartres, III, xvi, 3, iIi, XIX, I, pp. 661-68; Guglielmo di Tiro, XII, I, pp. 543-45 42 Fulcherio di Chartres, III, XXII, pp. 674-75; Guglielmo di Tiro, loc. cit. Su Ugo di Le Puiset cfr. oltre, p. 441. Egli aveva sposato Emma prima dell’aprile del 1124 (Röhricht, Regesta Regni Hierosolymitani, p. 25). 43 Fulcherio di Chartres, III, XX, 1-8, pp. 669-72; Guglielmo di Tiro, XII, 23, pp. 546-47; Mistoria Ducum Veneticorum, p. 73. 44 Tafel e Thomas, op. cit., I, pp. 84-89; Röhricht, Regesta Regni Hierosolymitani, pp. 23-25; Guglielmo di Tiro, XII, 4-5, pp. 547-53; Fulcherio di Chartres, III, XXVII, 1-3, pp. 693-95. 45 Fulcherio di Chartres, III, XVIII, I, pp. 695-96. 46 Ibn al-Qalanisi, pp. 128-30, 142. 47 Ibn al-Qalanisi, pp. 165-66, 170-71; Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarikh, pp. 356-58. 48 Fulcherio di Chartres, III, XXVIII, I, III, XXX, 13, pp. 695-720 (compresa una lunga disgressione sulla storia di Tiro); Guglielmo di Tiro, XIII, 7, p. 565. 49 Fulcherio di Chartres, III, XXXII, I, III, XXXIV, 13, pp. 728-39, fissa la data della conquista (egli rimprovera ingiustamente agli antiocheni di non aver collaborato); Guglielmo di Tito, XIII, 1314, pp. 573-76; Ibn al-Qalanisi, pp. 170-72, indica la data; Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarik, pp. 338359, fissa come data il 9 luglio; Abul Fida, pp. 13-16, reca la data del 3 luglio; Matteo di Édessa, CCXLIX, p. 314. 50 Usama, pp. 133, 130; Kemal ad-Din, pp. 643-44; Matteo di Edessa, ccxli, pp. 312-13, racconta che Jocelin e la regina trattarono il riscatto e aggiunge che Valeriano e il nipote del re vennero messi a morte da Timurtash - e ciò accadde probabilmente perché il re violò le condizioni del riscatto Michele il Siriano, vol. III, pp. 212, 225. Joveta è chiamata in diversi modi nei documenti, Yvette, Ivetta o Juditta.

51 Fulcherio di Chartres, III, XXXVIII-XXXIX, 9, 2, pp. 751-76; Guglielmo di Tiro, XIII, 13, pp. 576-77; Ibn al-Qalanisi, pp. 172-73; Kemal ad-Din, pp. 643-jo; Usama, p. 133; Matteo di Edessa, CCXLV, pp. 3I4-15. 52 Fulcherio di Chartres, III, XLII, I, III, XLIV, 4, pp. 761-71; Guglielmo di Tiro, XIII, II, pp. 578-80; Sigeberto di Gembloux, p. 380; Kemal ad-Din, p 651; Bustan, p 519; Usama, loc cit ; Matteo di Edessa, ccxlvii, pp. 315-18; Michele il Siriano, vol. III, p. 221. 53 Fulcherio di Chartres, III, xlvi, 1-7, III, l, 1-15, pp. 772-74,784-93; Guglielmo di Tiro, XIII, 17-18, pp. 581-85, Ibn al-Qalanisi, pp. 574-77. 54 Fulcherio di Chartres, III, li, 4, III, LII, I, pp. 795-97, 798-99; Guglielmo di Tiro, XIII, 19, PP 385-86; Ibn al-Qalanisi, p. 180; Kemal ad-Din, p. 652. 55 Fulcherio di Chartres, III, lvi, 1-5, pp. 803-5; Guglielmo di Tiro, XIII, 20, pp. 587-88. 56 Fulcherio di Chartres, III, lv, 5, pp. 802-3; Ibn al-Qalanisi, pp. 177-78; Kemal ad-Din, PP. 653-54 57 Ibn al-Qalanisi, pp. 181-82; Kemal ad-Din, p. 654; Michele il Siriano, vol. III, p. 225. 58 Fulcherio di Chartres, III, LVII, 1-4, III, LXI, 1-5, pp. 803-9,819-22. (I capitoli intermedi parlano dei pericoli del Mediterraneo e delle specie di serpenti che si trovano sulle sue sponde. Dopo un ulteriore capitolo su un’invasione di topi nel 1127 termina la narrazione di Fulcherio). Guglielmo di Tiro, XIII, 21, pp. 588-89; Orderico Vitale, XI, 9, vol. IV, p. 266; Matteo di Edessa, CCL, p 319, afferma che Baldovino promise a Boemondo la successione a Gerusalemme; Michele il Siriano, vol. III, p. 224; Usama, p. 150. 59 Ibn al-Qalanisi, p. 182. 60 Guglielmo di Tiro, XIII, 23-26, pp 394-95, 598; Guglielmo è chiamato qualche volta «di Malines», Messines si trova nella Fiandra occidentale. 61 Guglielmo di Tito, XIII, 24, p. J93, XIV, 2, p. 608; Gesta Ambaziencium Dominorum (p. 115) e Gesta Consulum Andegavorum (pp. 69-70) in Halphen et Poupardin, Chroniques des Comtes d’Anjou Folco aveva sposato Aremburga o Guiberga, etede del Maine, intorno al 1109 e aveva guerre continue con Enrico I d’Inghilterra a causa dell’eredità di lei. Il matrimonio di suo figlio Goffredo (17 giugno 1128) con l’imperatrice Matilde aveva risolto la disputa. Sua figlia Sibilla aveva già sposato Thierry di Alsazia, conte di Fiandra. Egli aveva già compiuto un pellegrinaggio «Gerusalemme nel 1120 (Guglielmo di Tiro, p. 608). La lettera di raccomandazione di papa Onorio II a Baldovino è riportata nel Cartulaire du Saint Sépulcre, pp. 17-18. 62 Ibn al-Qalanisi, pp. 183-86; Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarikh, pp. 317-18. 63 Ibn al-Qalanisi, pp. 179-80, 187-91; Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarikb, pp. 382-84. 64 Ibn al-Qalanisi, pp. 191-95; Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarikb, pp. 384-86. 65 Ibn al-Qalanisi, pp. 193-98. 66 Guglielmo di Tiro, XIII, 26, pp. 395-97; Ibn al-Qalanisi, pp. 198-200. 67 Guglielmo di Tiro, XIII, 22, p. 590; Michele il Siriano, vol. III, p. 224; Kemal ad-Din, P 665. 68 Sulla storia di Zengi fino al 1128, cfr. Cahen, La Syrie du Nord, pp. 306-7 e note 12 e 13 (con indicazione di fonti).

69 Ibn al-Qalanisi, pp. 200-2; Kemal ad-Din, p. 658; Matteo di Edessa, CCLII, p. 320. 70 ahram, Storia della dinastia rupeniana (testo armeno con trad. frane), p. 500. 71 Guglielmo di Tito, XIII, 27, pp. 598-99; Orderico Vitale, XI, I0, vol. IV, pp. 267-68; Romualdo di Salerno, p. 420; Michele il Siriano, vol. III, p. 227; Chron. Anon Syr., pp. 98-99; Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarikh, p. 468. 72 Michele il Siriano (vol. III, p. 230), afferma che Giovanni Comneno iniziò subito un’offensiva contro i turchi. Cfr. oltre, p. 457. 73 Guglielmo di Tito, XIII, 27, pp. 399-601; Michele il Siriano, vol. III, p. 230; Kemal ad-Din, pp. 660-61. 74 Guglielmo di Tiro, XIII, 28, pp. 601-2; Orderico Vitale, XII, 23, vol. IV, p. 500; Ibn alQalanisi, pp. 207-8, indica la data del giovedì 25 Ramadan, ma reca l’anno sbagliato (anno dell’Egira 526). 75 Guglielmo di Tiro, XIV, 3, pp. 609-11; Michele il Siriano, vol. III, p. 232; Chron. Anon. Syr., pp. 99-100. 76 Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarih , pp. 389-90, si rende conto del cambiamento di circostanze con la scomparsa dei pionieri crociati da una parte e l’inizio dell’unità musulmana sotto Zengi dall’altra.

Note Capitolo secondo La seconda generazione

1 Guglielmo

di Tiro, XIV, 2, pp. 608-9. Guglielmo di Tiro, XIV, 4-5, pp. 611-14; Michele il Siriano, vol. III, p. 233; Kemal ad-Din, p. 664, afferma che Guglielmo di Zerdana venne ucciso nella guerra civile. Ma Ibn al-Qalanisi (p. 215) dice che Guglielmo fu ucciso al principio del 1133. La ribellione di Alice è probabilmente da datarsi all’inizio del 1132. 3 La madre di Ugo I di Le Puiset, Alice di Monthléry, era sorella di Melisenda, madre di Baldovino II. Cuissard, Les Seigneurs du Puiset, p. 89. L’abate Gildoino di Santa Maria Giosafat e Valeriane di Birejik erano apparentemente suoi fratelli. Mabilla era figlia di Ugo, conte di Roucy, e di Sibilla, figlia di Roberto il Guiscardo. Cfr. oltre, appendice III, gli alberi genealogici, I, 1 e 2. Guglielmo di Tiro presuppone erroneamente che Ugo II fosse nato nelle Puglie, nel qual caso si sarebbe sposato all’età di sei anni. 4 I nomi dei figli di Eustachio Gatnier sono dubbi. Gualtiero viene nominato quale signore di Cesarea e di Sidone in un diploma del 21 settembre 1131 (Röhricht, Regesta Regni Hierosolymitani, p. 35); Eustachio II era signore di Sidone nel 1126 (ibid., p. 8), ed Eustachio e Gualtiero appaiono quali figli di Eustachio I in un diploma dello stesso anno (ibid., p. 28). Ma nei Lignages d’Outremer i due figli sono chiamati Gerardo e Gualtiero, e nelle Assises Gerardo viene pure chiamato Guido. Cfr. La Monte, The Lords of Sidon, in «Byzantion», vol. XVII, pp. 188-90; questi considera Gerardo figlio di Eustachio II, e colloca la morte di quest’ultimo prima del 1131 quando Gualtiero divenne reggente in nome di Gerardo. 5 La storia è raccontata con ampiezza da Guglielmo di Tito, XIV, 15-17, pp. 627-33. Ibn alQalanisi, p. 215, parla brevemente di dissensi tra i franchi - «insoliti tra di loro». 6 Guglielmo di Tiro, XIV, 17, p. 633. 7 Ibid , 3, p. 610. Jocelin II era nato nel 1113 (Chron. Ano» Syr., p. 35). 8 Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarikh, pp. 398-99 (e Storia degli atabeg di Mosul, pp. 78-85); articoli ‘Masud ibn Mohammed’, ‘Tughril I’, e ‘Sandiar’ in Encyclopaedia of Islam. 9 Abul Fida, pp. 21-23; Ibn al-Athir, Atabeg di Mosul, pp. 88-91; Ibn at-Tiqtaqa, pp. 297-98. 10 Guglielmo di Tiro, XIV, 6, pp 614-15; Ibn al-Qalanisi, pp. 221-22; Ibn al-Athir, Kamil fi ttarikh, pp. 399-400. 11 Guglielmo di Tiro. XIV. 7. pp. 615-16; Ibn al-Qalanisi, pp. 222-23; Kemal ad-Din, p. 665. 12 Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarikh, pp 405-8. 13 Ibn al-Qalanisi, pp. 211-36, dà una narrazione molto accurata ma attribuisce nobili motivi all’assassinio de! figlio da parte della madre vedova. Egli afferma che il primo ministro di Ismail era un curdo cristiano, Bertrando l’Infedele; Bustan, p. 329; Kemal ad-Din, pp. 667-70; Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarikh, pp. 403-5. 2

14 Remai ad-Din, p 670. 15 Guglielmo di Tiro, XIV, 9, 20, pp. 619-20, 636. Folco si trovava ad Antiochia nell’agosto 1135 (Röhricht, Regata Regni Hierosolymitani, p. 39). 16 Guglielmo di Tiro, XIV, 20, pp. 635-36; Cimiamo, pp. 16-17; Roberto di Torigny (I, p. 184) credeva che Raimondo avesse sposato la vedova di Boemondo II. 17 Guglielmo di Tiro, XIV, 21, pp. 637-38; Kemal ad-Din, p. 522, racconta come egli poteva piegare una sbarra di ferro. Cinnamo (p. 125) lo paragona ad Ercole. 18 Ibn al-Qalanisi, p. 241; Usama, p. 157; Kemal ad-Din, p. 680. 19 Gregorio il Prete, p 152; Michele il Siriano, vol. III, pp. 230-33; Vahram, p. 499; Sempad il Conestabile, p. 613. 20 Michele il Siriano, vol. III. p. 244; Ibn al-Qalanisi, pp. 239-40; Kemal ad-Din, p. 672. 21 Gregorio il Prete, loc cit. (e nota di Dulaurier); Sempad il Conestabile. p. 616; Matteo di Edessa, cerni, pp. 320-21. 22 Guglielmo di Tiro, XIV, 23, p. 640; Ibn al-Qalanisi, pp 240-41; Ibn al-Athir, Kamil fi ttarikh, pp. 419-20. 23 Guglielmo di Tiro, loc cit. 24 Guglielmo di Tiro, XIV, 23, pp. 643-45; Ibn al-Qalanisi, pp. 242-43 (omette pudicamente di menzionare l’alleanza franco-damascena); Kemal ad-Din, pp. 672-73; Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarikh, P 420. 25 Guglielmo di Tiro, XIV, 26, pp. 645-47. 26 Ibid., 27, p. 647. 27 Guglielmo di Tiro, XIV, 28-29, PP- 545-51; Ibn al-Qalanisi, loc. cit.; Kemal ad-Din, loc cit.; Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarikh, pp. 421-23.

Note Capitolo terzo Le rivendicazioni dell’imperatore

1 Cfr.

sopra, pp. 374-75. Su Ruggero II, cfr. Chalandon, Histoire de la domination normande en Italie et en Sicile, II, pp. I-51. L’invasione polovziana del 1121 venne narrata per iscritto dal giacobita Basilio di Edessa per Michele il Siriano (vol. III, p. 207). 3 Un buon sommario dello sviluppo e delle conseguenze delle invasioni turcomanne si trova in Ramsay, War of Moslem and Christian for the Possession of Asia Minor, in Studies in the History and Art of the Eastern Provinces of the Roman Empire, pp. 295-98. 4 Anna Comnena, XV, I, 6, XV, VI, I0, pp. 187-213; Chalandon, Alexis Comnène Ier, pp. 268-71. 5 Anna Comnena, XV, XI, 1-23, pp. 229-42; Zonata, p. 759 (una narrazione meno soggettiva); cfr. Chalandon, Alexis Comnène Ier, pp. 273-76, e Les Comnènes, pp. 1-8. 6 Chalandon, Le: Comnènes, pp. 8-11, 19. 7 Ibid., pp. 35-48. 8 Chalandon, Alexis Comnène Ier pp. 77-91; Niceta Coniate, p. 45; Michele il Siriano, vol. III, pp. 223-24, 227, 237. 9 Cinnamo, pp. 14-15; Niceta Coniate, pp. 27-29; Michele il Siriano, vol. III, pp. 237-49. 10 Pietro Diacono, p. 833. 11 Chalandon, Alexis Comnène Ier. pp. 59-63, 70-71. 12 Ibid., pp. 158-61. 13 Cinnamo, pp. 16 18; Niceta Coniate, pp. 29-35; Guglielmo di Tiro, XIV, 24, pp 341-42; Matteo di Edessa, ccliv, p. 323; Sempad il Conestabile, pp. 616-17; Gregorio il Prete, pp. 152-53; Michele il Siriano, vol. III, p. 45, Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarikh, p 424; Ibn al-Qalanisi, pp. 240-41 (il curatore a p. 240, nota 2, vorrebbe modificare la lezione Kiyalyani, ossia Kaloioannes, per Imanyal, cioè Emmanuele Ma è di Giovanni che il cronista sta parlando). 14 Guglielmo di Tiro, XIV, 30, pp. 651-53; Orderico Vitale, XIII, 34, pp. 99-101; Cinnamo, pp 18-19; Niceta Coniate, pp. 36-37. 15 Cfr. Chalandon, Alexis Comnène Ier, pp. 122-27, 130-33. 16 Guglielmo di Tiro, XV, 1-2, pp. 655 -58; Cinnamo, pp. 19-10; Niceta Coniate, pp. 37-41; Michele il Siriano, toc. cil ; Usama, pp. 26, 124, 143-44; Ibn al-Qalanisi, pp. 248-52; Kemal ad-Din, pp. 674-78; Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarikh, pp. 426-28. II componimento poetico laudativo dedicato da Prodromo all’imperatore lascia intendere che Shaizar venne salvata dalle condizioni atmosferiche (MPG, vol. CXXXIII, coll. 1344-49). 17 Guglielmo di Tiro, XV, 3-5, pp. 658-65; al-Azimi (p. 352) è l’unico cronista che, assieme al 2

precedente, menziona il complotto. 18 Guglielmo di Tiro, XV, 3, p. 659 . Ma Ibn al-Qalanisi (p. 243) afferma che Giovanni richiese un patriarca greco per Antiochia. Probabilmente confonde le richieste di Giovanni con quelle fatte più tardi da Manuele. La lettera di Innocenzo, datata il 25 marzo 1138, trovasi nel Cartulaire du Saint Sépulcre, p. 86. 19 Niceta Coniate, pp 44-49; Michele il Siriano, vol. III, p. 248. 20 Kemal ad-Din, pp. 681-85. 21 Guglielmo di Tiro, XIV, I0, pp. 619-20, XV, 11-16, pp. 674-85. È la nostra unica fonte. 22 Chalandon, Alexis Comnène Ier, pp. 161-62, 171-72. 23 Cinnamo, p. 24; Niceta Coniate, pp. 23-24. Cinnamo (p. 23) afferma che l’intenzione di Giovanni era che Alessio ereditasse l’impero, ma che Manuele, suo figlio minore, avesse un principato costituito da Antiochia, Attalia e Cipro. 24 Guglielmo di Tiro, XV, 19, p. 688, suggerisce che Raimondo avesse sollecitato l’intervento di Giovanni per timore di Zengi, ma Niceta Coniate (p. .52) dice che l’imperatore dissimulò i suoi piani e che il suo arrivo in Siria fu una sorpresa (Guglielmo di Tiro, XV, 19, p. 689). 25 Guglielmo di Tiro, XV, 19-20, pp. 688-91; Niceta Coniate, pp. 32-33; Gregorio il Prete, p. 1.56; Matteo di Edessa, cclv, p. 325. 26 Guglielmo di Tiro, XV, 21, pp. 691-93. Giovanni aveva preparato delle offerte per il Santo Sepolcro (Cinnamo, p. 25). 27 Guglielmo di Tiro, XV, 22-23, pp. 693-95; Cinnamo, pp. 26-29; Niceta Coniate, pp. 56-64; Matteo di Edessa, p. 323; Gregorio il Prete, p. 156; Michele il Siriano, vol. III, p. 234; Ibn alQalanisi, p. 264; Bustan, p. 537. 28 Cinnamo, pp. 29-32, parla di un’insolente ambasciata antiochena a Manuele, che replicò che sarebbe tornato per affermare i suoi diritti. Niceta Coniate, pp. 63-69; Guglielmo di Tiro, XV, 23, p. 696.

Note Capitolo quarto La caduta di Edessa

1

L’atteggiamento dei musulmani verso i bizantini appare chiaramente in Ibn al-Qalanisi (p. 272) il quale, parlando della ritirata dell’imperatore nel 1138 scrive «tutti gli animi si acquietarono dopo tante angosce e timori». 2 Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarikh, pp. 241-43. 3 Ibn al-Qalanisi, p. 252; Kemal ad-Din, pp. 678-79. 4 Ibn al-Qalanisi, pp. 253-56; Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarikh, p. 431. 5 Ibn al-Qalanisi, pp. 256-59. 6 Guglielmo di Tiro, XV, 6, pp. 665-68. 7 Guglielmo di Tiro, XV, 7, pp. 668-69; Ibn al-Qalanisi, pp. 239-60. 8 Guglielmo di Tiro, XV, 8, pp. 669 70; Ibn al-Qalanisi, p. 260; Kemal ad-Din, p. 682. 9 Guglielmo di Tiro, XV, 9-11, pp. 770-76; Ibn al-Qalanisi, pp. 260-61. 10 Usama, pp. 166-67, 168-69, 226. 11 Usama, pp. 93-94. 12 Guglielmo di Tiro, XV, 24, pp. 696-97. Sulle origini di Baliano cfr. Ducange, Les familles d’Outremer, pp. 360-61. 13 Guglielmo di Tiro, XV, 25, pp. 697-99. 14 Guglielmo di Tiro, XIV, 22, pp. 638-39. Martin, Les premiers princes croisés et les Syriens jacobites de Jérusalem, in «Journal Asiatique», serie VIII, voll. XII e XIII, pp. 34-35, riporta testimonianze siriane che indicano che il castello era in costruzione nel 1135. 15 Ibn al-Qalanisi. p. 263. 16 Guglielmo di Tiro, XV, ai, pp. 692-93. Sui prodotti della regione cfr. Abel, Géographie de la Palestine, vol. I, p. 505. A proposito delle conseguenze sul commercio musulmano cfr. Wiet, op cit., pp. 320-21. Cfr. Rey, Les Seigneurs de Montreal et de La Terre d’Oultrejourdain, in «Revue de l’Orient Latin», vol. IV, pp. 19 sgg. Il castello della Valle di Mosè si trova su una dirupata collina conosciuta oggi con il nome di Wueira, nelle vicinanze di Petra, dove importanti rovine del tempo dei crociati sovrastano il Wadi Musa. Ci sono pure delle rovine di un piccolo forte medievale sulla collina di al-Habis, nel centro di Petra. 17 Guglielmo di Tiro, XIV, 8, p. 617. 18 Guglielmo di Tiro, XV, 26, pp. 699-700. Joveta fu responsabile dell’educazione della sua bisnipote, la futura regina Sibilla. Essa morì qualche tempo prima del 1178, anno in cui la badessa Eva di Betania ne parla come di colei che l’aveva preceduta in quella carica (Cartulaire de Sainte Marie Josaphat, p. 122).

19 Per esempio Röhricht, Regesta Regni Hierosolymitani, pp. 43, 44, 45. 20 Nau, Le croisé lorrain, Godefroy de Ascha, in «Journal Asiatique», serie IX, vol. XIV, pp. 421-31; Röhricht, Regesta Regni Hierosolymitani, pp. 106-7. 21 Röhricht, Regesta Regni Hierosolymitani, p. 40. Cfr. La Monte, Feudal Monarchy, p. 272. Sedici anni più tardi Baldovino III diede loro un quartiere in Gerusalemme. Röhricht, Regesta Regni Hierosolymitani, p. 70. 22 Guglielmo di Tiro, XV, pp. 700-2; Matteo di Edessa, cclvi, p. 325; Ibn al-Qalanisi, p. 265. San Bernardo scrisse una lettera di condoglianze alla regina Melisenda (n. 354, MPL, vol. CLXXXII, coll. «6-57). 23 Guglielmo di Tiro, XVI, 3, p. 707. Sulla posizione costituzionale di Melisenda cfr. La Monte, Feudal Monarchy, pp. 14-18. 24 Guglielmo di Tito, loc. cit., fa l’elogio della regina. A proposito di Manasse cfr. più avanti, p. 563. Il suo matrimonio è ricordato da Guglielmo di Tiro, XVII, 18, p. 780, e il nome di Helvis appare spesso in documenti, per esempio Röhricht, Regesta Regni Hierosolymitani, pp. 22, 76. 25 Cinnamo, pp. 33-34. 26 Al-Azimi, p J37; Ibn al-Qalanisi, p. 266. Jocelin data un documento del 1141 «Raimundo Antiochiae principe regnante» (Röhricht, Regesta Regni Hierosolymitani, p. 51), e Guglielmo di Tiro (XVI, 4, p. 710) ne parla come se quegli riconoscesse Raimondo quale proprio signore nel 1144. 27 Guglielmo di Tiro, XVI, 4-5, pp. 708-12; Matteo di Edessa, cclvii, pp. 326-28; Michele il Siriano, vol. III, pp. 259-63; Chron. Anon. Syr., pp. 281-86, è il resoconto più completo, con particolari che non si trovano altrove. Nerses Shnorhali, pp. 2 sgg.; Barebreo, trad. ingl. di Budge, pp. 268-70; Kemal ad-Din, pp. 685-86; Ibn al-Qalanisi, pp. 266-68; Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarikh, pp. 443-46 Molti cronisti europei menzionano brevemente la caduta di Edessa. Vi fa riferimento anche la lettera di san Bernardo n. 256, in MPL, vol. CLXXXII, col. 463. Ibn al-Athir racconta di un musulmano che si trovava alla corte di re Ruggero di Sicilia ed ebbe una visione telepatica della conquista. 28 Michele il Siriano, loc. cit.; Chron Anon Syr., loc. cit. 29 Chron. Anon. Syr., pp. 286-88; Ibn al-Qalanisi, pp 268-69; Ibn al-Athir, Kamil fi l-tarikb, pp. 445-48; Ibn al-Furat, cit. da Cahen, La Syrie du Nord, p. 371, nota II. 30 Jocelin possedeva ancora il territorio che da Samosata, attraverso Marash (tenuta dal suo vassallo Baldovino) si estendeva verso sud fino a Birejik, Aintab, Ravendal e Turbessel. 31 Cinnamo, p. 35; Michele il Siriano, vol. III, p. 267. 32 Michele il Siriano, vol. III, pp. 267-68; Chron Anon. Syr., p. 289; Ibn al-Qalanisi, p. 270; Ibn al-Furat, loc. cit 33 Guglielmo di Tiro, XVI, 7, p. 714; Michele il Siriano, vol. III, p. 268; Chron Anon. Syr, p 291; Ibn al-Qalanisi, pp. 270-71; Kemal ad-Din, p. 688. 34 Ibn al-Qalanisi, pp. 27274; Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarikh, pp. 455-56; cfr. Cahen, Le Diyarbekr, in «Journal Asiatique», 1935,p. 352. 35 Guglielmo di Tito, XVI, 14-16, pp. 728-32; Matteo di Edessa, cclviii, pp. 328-29, indica

erroneamente la data del 1147-48; Michele il Siriano, vol. III, pp. 270-72. Basilio il Dottore, p. 203; Chron Anon Syr., pp. 292-97; Ibn al-Qalanisi, pp. 274-73; Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarikb, pp. 455438 e Atabeg di Mosul, p. 136; Bustan, p. 341. 36 Guglielmo di Tiro, XVI, 8-13, pp. 715-18; Ibn al-Qalanisi, pp. 276-79; Abu Shama, pp. 5053. 37 Kemal ad-Din, ed. a cura di Blochet, pp. 515-16; Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarikh, pp. 461-62. 38 Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarikh, p. 456, e Atabeg di Mosul, pp. 152-58.

Note Capitolo primo L’adunata dei re

1 Ottone

di Frisinga, Chronica, pp. 363-67. Cfr. Gleber, Papst Eugen III, p. 36. Tournebize, op. cit., pp. 235-39. 3 Chronicon Mauriniacense, p. 88; Ottone di Frisinga, Cesta Friderici, pp. 54-.57. 4 Jaffé, Regesta, n. 8796, vol. II, p. 26. Caspar, Die Kreuzzugsbullen Eugens III, in «Neues Archivi», vol. XLV, pp. 283-306, dimostra indiscutibilmente che la Bolla è datata il 1° dicembre 1145, il che demolisce la teoria francese secondo cui Luigi VII avrebbe ispirato la crociata. 5 Cfr. sopra, pp. 359-60. 6 Cfr Ballesteros, Historia de España, vol. II, pp. 247-62. 7 Sugli Almohadi, cfr. Codera, Decadencia y Desaparición de los Almoravides en España, e Bel, articolo ‘Almohads’, in Encyclopaedia of Islam. 8 Chalandon, Histoire de la Nomination normande en Italie et en Sicile, pp. 158-65. 9 San Bernardo, lettera 139, in MPL, vol. CLXXXII, col. 294. 10 Oddone di Deuil, pp. 22-23. 11 Vita Sugerii Abbatti, pp. 393 sgg.; Oddone di Deuil, p. 121. 12 Oddone di Deuil, p. 21. Secondo Ottone di Frisinga i nobili desideravano consultare san Bernardo prima di impegnarsi (Gesta Friderici, p. 58). Su san Bernardo e i templari, cfr. Vacandard, Vie de Saint Bernard, vol. I, pp. 227-49, 13 Oddone di Deuil, p. 22; Chronicon Mauriniacense, he cit ; Suger, Historia Ludovici VII, pp. 158-60. 14 II vescovo di Langres era Goffredo de la Roche Faillée, monaco di Clairvaux e parente di san Bernardo. Di Alvise, vescovo di Arras, ex abate di Anchin, si sa pochissimo. Leggende posteriori affermano senza fondamento che fosse fratello di Suger. Arnoldo di Séez, vescovo di Lisieux, era uno studioso dei classici con gusti nettamente mondani. I vescovi di Langres e di Lisieux consideravano che era stata conferita loro l’autorità di legati papali, sebbene in realtà i legati fossero il tedesco Teodovino, cardinale di Porto, e il fiorentino cardinal Guido. Giovanni di Salisbury (pp. 54-55) riteneva che le liti tra i due vescovi e il loro comune rancore verso i cardinali avessero contribuito in larga misura al fallimento della crociata; egli stimava che Goffredo di Langres fosse più ragionevole che Arnolfo di Lisieux 15 San Bernardo, lettera 247, loc cit, col. 447. 16 San Bernardo, lettere 363, 365, loc cit, coli. 564-68, 570-71; Ottone di Frisinga, Gesta Friderici, pp. 58-59; Joseph ben Joshua ben Meir, pp. 116-29 Le voci secondo cui essi avrebbero ucciso un bambino cristiano a Norwich contribuirono a eccitare gli animi contro gli ebrei. Cfr. Vacandard, op cit, pp. 274-81. 2 Cfr.

17 Bernhardi, Konrad III, pp. 563-78, dà un compendio completo delle crociate contro gli slavi. La lettera di Bernardo n. 457 (loc. cit, coll. 651-52) comanda ai cristiani della Germania di parteci pare alla crociata nel Levante, e quella n. 458, coli. 652-54, dà lo stesso ordine al re e al popolo di Boemia. Cronisti come Guglielmo di Tiro, Oddone di Deuil e la maggior parte degli storici moderni danno a Corrado il titolo di imperatore, ma in realtà egli non ricevette mai la corona imperiale. 18 Ottone di Frisinga, Gesta Friderici, pp. 60-63; Vita Sancii Bernardi, coli. 381-83. Può darsi che Corrado venisse influenzato dall’udire che il suo rivale Guelfo VI di Baviera aveva deciso di farsi crociato (Cfr. Cosack, Konrad III’s Entschluss zum Kreuzzug, in «Mitteilungen des Instituts für österreichische Geschichtsforschung», vol. XXXV; ma la decisione di Guelfo fu presa tanto poco tempo prima di quella di Corrado che è difficile che questi ne fosse informato. Cfr. Gleber, op. cit., PP- 53-54) 19 Cfr. San Bernardo, lettera cit., loc cit ; Vacandard, op cit., vol. II, pp. 297-98. 20 Cfr. Gleber, op cit, pp. 22-27, 48-61. 21 Oddone di Deuil, pp. 24-25. 22 La più importante fonte originale sulla crociata portoghese è Osborn, vol. I, pp. cxLIv cLxxxII. Cfr. pure Erdmann, Die Kreuzzugsgedankes in Portugal, in «Historische Zeitschrift», vol. 141, PP23-53. 23 Re Luigi aveva annunziato la crociata a Ruggero (Oddone di Deuil, p. 22), ma quando questi propose di prendervi parte attivamente egli respinse il suo aiuto con grande disappunto retrospettivo di Oddone (ibid , p. 24). 24 Ottone di Frisinga, Chronica, p. 354 e Gesta Friderici, pp. 63-65. 25 Cinnamo, pp. 67-69. 26 Cinnamo, pp. 69-74; Niceta Coniate, pp. 82-87; Oddone di Deuil, p. 38. L’episodio del prestigiatore è menzionato a p. 36. Ottone di Frisinga, Gesta Friderici, pp. 65-67. 27 Una lista di crociati si trova in Suger, Historia Ludovici VII, pp. 158-60. La leggenda secondo la quale la regina Eleonora viaggiò alla testa di una compagnia di amazzoni è basata su una osservazione di Niceta (p. 80) che nell’esercito tedesco c’era un certo numero di donne completamente armate. 28 Il ritratto che ne dà Suger nella sua biografia e quale appare dalle sue proprie lettere non è quello di un uomo energico. 29 Oddone di Deuil, p. 27. 30 Cinnamo, p. 82. Egli chiama i tedeschi «’Aλεμανοι» ed i francesi «Γερμανοι»; Oddone di Deuil, pp. 28 30, afferma che Luigi avesse fatto giurare dei rappresentanti al suo posto. 31 Oddone di Deuil, pp. 30-34. 32 Oddone di Deuil, pp. 35-44.

Note Capitolo secondo Discordie tra i cristiani

1

Cfr. Chalandon, Les Comnènes, pp. 248-58. Michele il Siriano (vol. III, p. 275), afferma che Manuele fece la pace con i turchi per timore dei crociati e che riuscì ad arrestarli per due anni. 2 Chalandon, Les Comnènes, pp. 266-67. La guerra con la Sicilia scoppiò infatti nell’estate del 1147. Oddone di Deuil vi fa riferimento (p. 53). 3 Il matrimonio ebbe luogo nel gennaio del 1146 (Chalandon, Les Comnènes, p. 262, nota 3). 4 Cinnamo, pp. 74-80; Niceta Coniate, p. 87; lettera di Corrado a Wibald, in Wibaldi Epistolae, p. 166 (nella quale egli dice di essere stato bene accolto dall’imperatore); Annales Herbipolenses, pp. 4-5; Romualdo di Salerno, p. 424; Oddone di Deuil, pp. 39-40. Egli afferma che secondo i calcoli dei greci avrebbero attraversato il Bosforo 900 566 soldati e pellegrini tedeschi. Probabilmente il nu mero esatto è 9566. Egli dice inoltre che Corrado non si incontrò di persona con Manuele. 5 Cinnamo, pp. 80-81. 6 Cinnamo, pp 81-82; Niceta Coniate, p. 89; lettera di Corrado a Wibald, in Wibaldi Epistolae, p. 152; Annales Palidenses, p. 82; Annales Herbipolenses, he cit.; Oddone di Deuil, pp. 53, 56-58; Guglielmo di Tiro, XVI, 21-22, pp. 740-44; Michele il Siriano, vol. III, p. 276. 7 Oddone di Deuil, pp. 40-41. 8 Cinnamo, pp. 82-83; Luigi VII, lettera a Suger, in Lettere, vol. XV, p. 488; Oddone di Deuil, pp 45-46, 47-48 9 Oddone di Deuil, pp. 48-51. 10 Oddone di Deuil, pp. 58-60; Guglielmo di Tito, XVI, 23, pp. 744-45. 11 Oddone di Deuil. pp. 61-63. Cinnamo (p. 84) si ferma a discutere la differenza tra i due eserciti: i francesi combattevano meglio a cavallo e con la lancia, i tedeschi a piedi e con la spada. Egli trascrive «Pousse Allemand» con Πούτζη ‘Aλεμανέ. 12 Cinnamo. pp. 85-86; lettera di Corrado a Wibald, in Wibaldi Epistolae, p. 153; Annales Herbipolenses, p 6; Oddone di Deuil, pp. 63-64; Guglielmo di Tiro, XVI, 23, pp. 745-46 13 Cimiamo, loc cit ; Oddone di Deuil, pp. 63-63. 14 Oddone di Deuil, pp. 65-66; Guglielmo di Tiro, XVI, 24, pp. 746-47. 15 Oddone di Deuil, loc cit. 16 Oddone di Deuil, pp. 67 sgg., 71-72; Guglielmo di Tiro, XVI, 2j, pp. 747-49. A proposito del l’infondata diceria secondo cui la regina Eleonora fosse responsabile del disastro, cfr. Walker, Eleanor of Aquitaine and the disaster at Cadmos Mountain, in «American Historical Review», vol. LV, pp. 857-61. Oddone di Deuil riuscì a compiere un’ ottimo lavoro di vettovagliamento dell’esercito, ma egli è troppo modesto per farne menzione.

17 Oddone di Deuil, pp. 73-76, tenta goffamente di mascherare con belle parole l’abbandono dell’esercito da parte del re. Guglielmo di Tiro, XVI, 26, pp. 749-51. 18 Oddone di Deuil, pp. 76-80. 19 Luigi VII, lettera a Suger, in Lettere, vol. XV, pp. 495-96; Oddone di Deuil in tutta la sua opera si mostra fanaticamente antigreco. 20 A proposito delle preoccupazioni di Manuele in quell’epoca, cfr. Chalandon. Michele il Siriano ripete molte delle accuse franche contro i greci (vol. III, p. 276). Ma le fonti musulmane, per esempio Abu Shama, p. 54, affermano che Manuele fece causa comune con i fianchi. 21 Oddone di Deuil, p. 79.

Note Capitolo terzo Fiasco

1 Guglielmo

di Tiro, XVI, 27, pp. 751-53; Guglielmo di Nangis, I, p. 44. II patriarca era Fulcherio di Angoulême, già arcivescovo di Tiro e designato da Melisenda nel 1147, alla morte di Guglielmo di Messines. 3 Guglielmo di Tiro, loc cit Egli definisce Eleonora una donna «fatua», ma non lascia intendere che fosse infedele. I sospetti del re sono ricordati da Giovanni di Salisbury (p. 53). 4 Guglielmo di Tiro, XVI, 28, pp. 753-54; Ottone di Frisinga, Gesta Friderici, pp. 88-89 5 Guglielmo di Tiro, XVI, 29, pp. 754-36 6 Guglielmo di Tiro, XVI, 28, p. 754; Guglielmo di Nangis, I, p. 43, insinua che Melisenda fosse coinvolta nel delitto. 7 Guglielmo di Tiro, XVII, I, pp. 758-59; fornisce una lista degli alti personaggi laici ed ecclesiastici presenti; Ottone di Frisinga, Cesta Friderici, p. 89; Gesta Ludovici, pp. 403-4. 8 Guglielmo di Tito, loc. cit 9 Guglielmo di Tiro, XVII, 2-5, pp. 760-67; Ibn al-Qalanisi, pp. 282-86; Abu Shama, pp. 55-59; Usama, p. 124. 10 Guglielmo di Tiro, XVII, 6, pp. 767-68. Rey, Les Seigneurs de Barut, in «Revue de l’Orient Latin», vol. IV, pp. 14-13, basandosi su Assises, II, p. 438, identifica il candidato dei baroni come Guido di Beirut. Michele il Siriano (vol. III, p. 276) riporta le voci relative al denaro pagato a re Baldovino e ad Elinando e che essi avrebbero accettato per timore delle ambizioni di Corrado. Barebreo (trad. ingl. di Budge, p 274), asserisce di non aver trovato questo episodio in nessuno degli scrittori arabi. Ibn al-Qalanisi (p. 268) dice che i franchi si misero in allarme per l’avvicinarsi di eserciti musulmani. Ibn al-Athir (Kamil fi t-tarikh, pp. 469-70) racconta che Unur deliberatamente avverti di ciò i franchi della zona e suscito discordia tra loro e il re di Germania. 11 Guglielmo di Tiro, XVII, 7, pp. 768-70. La traduzione francese aggiunge un attacco contro i Pulani. Corrado ne attribuisce la colpa alla nobiltà indigena. Cfr. la lettera in Wibaldi Epistolae, pp. 223-26. 12 Guglielmo di Tiro, loc. cit.; Ibn al-Qalanisi, pp. 286-87. 13 Guglielmo di Tiro, XVII, 8, pp. 770-71; Cinnamo, pp. 87-88; Annales Palidenses, p. 83; Ottone di Saint Blaise, p. 305; Ottone di Frisinga, Gesta Friderici, p. 96. Un componimento poetico di Prodromo in onore del matrimonio di Teodora è riportato in RHCG, II, p. 772; ma egli parla del suo essere sacrificata «alla bestia dell’Occidente» in un poema dedicato alla madre di lei, ibid., P768. 14 Cinnamo, p. 87; lettera di Suger (Opera, pp. 258-60); Guglielmo di Nangis, I, p. 46. La nave che trasportava la regina Eleonora venne fermata per un certo tempo dai bizantini (Giovanni di Salisbury, p. 61). 2

15 Per una sintesi di queste trattative, cfr. Bernhardi, op. cit., p. 810, e Vacandard, op cit., II, pp. 425-28. Sono andate perdute le lettere di san Bernardo e di Teodoino che propugnavano una crociata antigreca, ma il loro contenuto si può ritrovare in una lettera di Wibald (n. 252, p. 377). 16 Ibn al-Qalanisi, pp. 287-88; Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarikh, pp. 470-71, e Atabeg di Mosul, p. 162; Kemal ad-Din, ed. a cura di Blochet, p. 517. Secondo una leggenda franca la sorella di Bertrando sposò Nur ed-Din e divenne la madre del suo erede as-Salih (Roberto di Torigny, vol. II, P. 53).

Note Capitolo primo La vita in «Outremer»

1

II grande esercito che era stato sconfitto a Hattin contava probabilmente milleduecento cavalieri di cui trecento erano templari e verosimilmente altrettanti ospitalieri. È impossibile che i nobili e i cavalieri laici fossero più di settecento, eppure ogni cavaliere disponibile partecipò alla battaglia. Due soli erano rimasti a Gerusalemme. Questo esercito comprendeva un piccolo numero di cavalieri provenienti da Tripoli o da Antiochia. Un certo numero di cavalieri aveva da poco lasciato il regno assieme a Baldovino di Ibelin. Giovanni di Ibelin calcola che all’epoca di Baldovino IV il regno potesse mettere in campo cinquecentosettantasette cavalieri, senza contare quelli degli ordini, e cinquemilaventicinque sergenti (Giovanni di Ibelin, Le livre de Jean d’ibelin, pp. 422-27). 2 I dati riguardanti Antiochia e Tripoli si possono soltanto congetturare. Edessa probabilmente non ebbe mai più di cento famiglie franche di nobili o di cavalieri. La contea di Tripoli ne contava forse duecento e Antiochia parecchie di più. Alberto d’Aix racconta (XI, 40-41, pp. 182-83) che nel mt Turbessel avrebbe fornito cento cavalieri ed Edessa duecento, ma molti di loro devono esser stati aimeni. 3 Cfr. gli alberi genealogici in appendice. 4 Cfr. La Monte Feudal Monarchy The Kingdom of the Crusaders, pp. 106-7, 120-21. 5 Giovanni di Würzburg, passim. 6 Cahen, Notes sur l’histoire des Croisades et de l’Orient latin. III. Orient latin et commerce du Levant, in «Bulletin de la Faculté des Lettres de Strasbourg», année XXIX, n. 7, sottolinea il fatto che le attività commerciali degli italiani durante il secolo XII erano concentrate specialmente sull’Egitto e su Costantinopoli. I porti della costa siriana avevano per loro un’importanza molto minore. 7 Scarseggiano le testimonianze dirette sui cristiani indigeni in Palestina durante il secolo XII. Cfr. Rey, Les Colonies Franques, pp. 75-94. Cfr. Gemili, Etiopi in Palestina, pp. 8 sgg., per quel che riguarda copti ed abissini. 8 I musulmani dei dintorni di Nablus preoccuparono i franchi dopo Hattin (Abu Shama, p. 302); Ibn Giubair, pp. 304-7, dà notizie dei musulmani di Acri e dei dintorni. 9 Cfr. Cahen, La Syrie du Nord, pp. 170 sgg. Burcardo del Monte Sion menziona le varie sette musulmane della Siria settentrionale (p. 18). 10 Beniamino di Tudela, testo ebraico, pp. 26-47. 11 Ibid. pp. 47-48. 12 Ibid., p. 35 (monopolio della tintoria in Gerusalemme). Gli ebrei producevano vetro ad Antiochia e Tiro. Ibid , pp. 26-47. 13 Ibid , pp. 33-34, si tratta di mille famiglie, secondo Beniamino, il quale ne trovò altre a Cesarea e ad Ascalona (pp. 32, 44).

14 Cfr.. Cahen, Notes sur l’histoire des Croisades et de l’Orient latin. II Le Regime turai Syrien du temps de la domination franque, in «Bulletin de la Faculté des Lettres de Strasbourg», année XXIX, n. 7, che è uno studio di primissima qualità su questo molto oscuro problema. 15 La Monte, Feudal Monarchy, pp. 138-6.5; Rey, Lei Seigneurs de Montreal et de la Terre d’Oultre jourdain, pp. 1-56, 109-64. 16 Cahen, La Syrie du Nord, pp. 291-98. 17 La Monte, Feudal Monarchy, pp. 144-51. 18 La data dell’assise, che concesse all’ereditiera di scegliere uno dei tre mariti propostile dal re, è fissata da Grandclaude, Liste d’Assises de Jérusalem, in Mélange; Paul Fournier, p. 340, dopo il 1177. Ma Baldovino III offrì a Costanza d’Antiochia la scelta tra tre candidati nel 1130. Egli tuttavia non poté obbligarla ad accettare uno dei tre. 19 Cahen, La Syrie du Nord, pp. 299-302. L’offerta di Thoros è riferita da Ernoul, pp. 27-30. 20 Ibn Giubair, p. 305. 21 La Monte, Feudal Monarchy, pp. 87-137, passim. 22 La Monte, Feudal Monarchy, pp. 87-104. 23 La Monte, Feudal Monarchy, pp. 106-13. Usama fornisce esempi di giudizio per mezzo del duello e dell’ordalia dell’acqua (pp. 167-69). 24 La Monte, Feudal Monarchy, pp. 103-8. 25 La Monte, Feudal Monarchy, pp. 108-9. 26 Grandclaude, Liste d’Assises de Jérusalem, pp. 322 sgg., indica la lista delle assise che si possono assegnare al periodo 1099-1187. Ne assegna sei all’epoca del governo di Goffredo e undici ai re da Baldovino I a Baldovino IV (per quanto una che ordina la vendita di feudi privi di eredi per pagare il riscatto del re postdata, secondo lui, la cattura di Guido a Hattin. Potrebbe tuttavia riferirsi alla prigionia di Baldovino II). Ve ne sono inoltre otto a cui non si può assegnare nessuna data precisa. 27 La Monte, Feudal Monarchy, pp. 114-37, dà la migliore esposizione sommaria di quali fossero le funzioni delle alte cariche dello stato. 28 La Monte, Feudal Monarchy, pp. 135-36,167-68. 29 La Monte, Feudal Monarchy, pp. 187-202. Cfr. anche Cahen, La Syrie du Nord, pp. 436-37. Boemondo II era però vassallo di Amalrico I per via di un feudo in denaro che egli aveva ad Acri. 30 La Monte, Feudal Monarchy, loc cit ; Richard, La Comté de Tripoli, pp. 30-43. 31 Cahen, La Syrie du Noci, pp. 43.5 sgg., dà una descrizione completa della costituzione di Antiochia e dei suoi sviluppi. 32 Cahen, La Syrie du Nord, pp. 437-38, tratta dei rapporti di Antiochia con Bisanzio. Richard, op cit, pp. 26-30, di quelli di Tripoli con Bisanzio. Su tutta la questione delle rivendicazioni bizantine sugli stati crociati vedasi La Monte, To what extent was the Byzantine Empire the suzerain of the Crusading States?, in «Byzantion», vol. VII. 33 La Monte, Feudal Monarchy, pp. 203-16. 34 La Monte, Feudal Monarchy, pp. 203-16.

35 Cahen, La Syrie du Nord, pp. 501-10. 36 Per la bibliografia riguardo agli ordini cfr. sopra, p. 415, nota I. 37 Cfr. oltre, libro IV, capp. II e III, passim. 38 Heyd, op cit, pp. 129-63, dì una sintesi completa. 39 Cfr. Cahen, Notes sur l’histoire des Croisades et de l’Orient latin. III. Orient latin et commerce du Levant, p. 333. 40 Cahen, La Syrie du Nord, pp 129-32, in cui si descrive Antiochia e delle sue amenità. 41 Le monete di Tancredi lo effigiano con un turbante. Nel 1192 Enrico di Champagne nel ringraziare Saladino per il dono di un turbante fa sapere che ai suoi compatrioti piacciono tali capi di vestiario e che egli stesso lo porterà spesso. Ibn Giubair (p. 309) descrive gli abbigliamenti usati in una cerimonia nuziale cristiana ad Acri nel 1184. Su Paschia cfr. più avanti, p. 647. 42 II medico tripolino che si ritenne avesse avvelenato Baldovino III era un indigeno. Al letto di morte di Amalrico I i medici indigeni si dimostrarono migliori di quelli franchi. Amalrico teneva a servizio un certo Suleiman ibn Daoud e il suo figlio maggiore in qualità di medici di corte, mentre il secondogenito di Suleiman era maestro d’equitazione di corte. Cfr. Cahen, Indigenes et Croisés, in «Syria», vol. XV, 1934. Usama non si era fatta una grande opinione della medicina dei franchi. 43 Cfr Cahen, la Syrie du Nord, pp. 561-68. 44 Su Rinaldo di Sidone cfr. oltre, p. 681. I musulmani insistevano per avere delle garanzie finanziarie da patte dei cavalieri templati quando erano in trattative con sovrani cristiani, per esempio Abu Shama, p. 32. Raimondo III di Tripoli parlava l’arabo, Guglielmo di Tiro quasi certamente sapeva leggete l’arabo o aveva al proprio servizio dei segretari che conoscevano le lingue orientali. 45 Ibn al-Qalanisi, p. 161, menziona la scoperta. Cfr. anche Kohler, Un nouveau récit de l’invention des Patriarches Abraham, Isaac et Jacob à Hébron, in «Revue de l’Orient Latin», vol. IV, PP- 477 sgg. 46 Su Nostra Signora di Sardenay cfr. Rey, op. cit., pp. 291-96. 47 Su Santa Caterina ed i suoi pellegrini cfr. Rey, op. cit , pp. 287-91. 48 Per esempio Guglielmo di Tiro (XX, 31, p. 1000) chiama Nur ed-Din «princeps justus, valer et providus, et secundum gentis suae traditiones religiosus». 49 Usama, passim, specialmente le pp. 161-70. 50 Cfr. Pèlerinage de Daniel l’Hégoumène e Giovanni Foca, passim. Cfr. pure Cahen, loc cit La pellegrina russa Eufrosina di Polotsk morendo in Palestina si rivolse all’abate di San Saba, in qualità di massimo dignitario ecclesiastico ortodosso, per chiedergli di trovare un luogo adatto per esservi sepolta. Cfr. Khitrowo, Pèlerinage en Palestine de l’Abbesse Euphrosyne, in «Revue de l’Orient Latin», vol. III, pp. 32-35. Certi scrittori ortodossi posteriori, come il seicentesco Dositeo, non volendo ammettere che gli ortodossi avessero accettato i patriarchi latini dal 1099 al 1187, hanno sviluppato una lista di sei o sette patriarchi tra la morte di Simeone, nel 1099 ed il 1187 (Dositeo, II, p. 1243; Le Quien, Oriens Christianus, vol. III, pp. 498-503). Esiste un Giovanni, patriarca di Gerusalemme, che sottoscrisse la condanna di Soterico nel 1157, e un Giovanni di Gerusalemme - presumibilmente la stessa persona - che scrisse all’incirca in quella stessa epoca un

trattato contro i latini (Krumbacher, Geschichte der byzantinischen Literatur, p. 91). Può darsi che Manuele avesse in mente la riconquista del patriarcato di Gerusalemme e che perciò abbia tenuto di riserva un patriarca in vista di quel giorno. È chiaro comunque che gli ortodossi in Palestina si sottomettevano al patriarca latino. La presenza di canonici greci al Santo Sepolcro è atte stata nel Cartulaire du Saint Sépulcre; p. 177. 51 Cfr sopra, p. 476. 52 Cfr. Dib, articolo ‘Moronite’, in Vacant e Mangenot, Dictionnaire de Théologie Catholique, vol. X, 1. 53 Cfr. oltre, p. 597, e anche la prefazione all’edizione di Michele il Siriano curata dal Nau. 54 Ibn Giubair, pp. 304-5. Le statistiche di Beniamino di Tudela mostrano la maggiore prosperità degli ebrei sotto i musulmani. 55 Estoire d’Eracles, vol. II, p. 88; Ernoul, pp. 83-87; Itinerarium Peregrinorum et Gesta Regis Ricardi, pp. 5-6; Cesario di Heisterbach, vol. I, p. 188, attribuisce la caduta di Gerusalemme alla corruzione dei franchi di «Outremer».

Note Capitolo secondo L’ascesa di Nur ed-Din

1 Ibn al-Furat.

citato da Cahen, La Syrie du Nord, p. 382. Guglielmo di Tiro, XVII, 9, pp. 771-73; lettera del siniscalco del Tempio al gran maestro Everardo, in RHF, vol. XV, p 341; Cinnamo, pp. 122-23; Michele il Siriano, vol. III, pp. 288-89; Chron Anon Syr., p. 296 (dell’ed. siriaca); Matteo di Edessa, CCLIX, p. 329; Gregorio il Prete, p 142-, Ibn al-Qalanisi, pp. 288-92; Abu Shama. pp. 10-12; Ibn al-Furat, loc cit, indica il luogo con il nome di Ard al-Hatim 3 Guglielmo di Tiro, XVII, I0. pp. 774-75; lettera di Everardo, loc. cit ; Chron Anon Syr (edizione siriaca), p. 299; Ibn al-Qalanisi, p. 293; Ibn al-Athir, Atabeg di Mosul, p. 180 4 Matteo di Edessa, cclix, pp. 330-31; Gregorio il Prete, p. 162; Michele il Siriano, vol. III, pp. 209-II, 294-96, e nella versione armena, p. 346. 5 Guglielmo di Tiro, XVII, n, pp. 776-77; Matteo di Edessa, cclix, pp. 331-32; Michele il Siriano, vol. III, p. 295; Chron Ano». Syr., p. 300; Ibn al-Furat, citato da Cahen, La Syrie du Nord, p. 386; Kemal ad-Din, pp. 523-24; Eustan, p. 544; Ibn al-Qalanisi, p. 300; Ibn al-Athir, Kamil fi ttarikb, p. 481; Sibt ibn el-Djauzi, p. 122. Le circostanze del fatto sono narrate in modo diverso da ciascun autore: Guglielmo afferma che egli stava andando ad Antiochia per rispondere a un appello del patriarca; Matteo di Edessa e Ibn al-Furat dicono che vi andava in cerca di aiuti; la Chron. Anon. Syr., che voleva ottenere la reggenza. Il fatto che egli abbia perso il contatto con la sua scorta è attribuito da Guglielmo a necessità fisiologiche, da Sibt agli amori con una giovane turcomanna, da Ibn al-Furat a una caduta causata dall’urto del suo cavallo contro un albero, il quale albero, secondo Michele, esisteva soltanto nella sua fantasia (i cronisti siriaci considerarono la cattura di Jocelin come una punizione divina per la sua persecuzione contro i giacobiti); i cronisti siriaci affermano che egli fu identificato da un ebreo. Soltanto la Chron. Anon. Syr. dice ch’egli sia stato accecato. Michele aggiunge che non gli venne concesso un confessore latino, ma che sul suo letto di morte fu confessato dal vescovo giacobita di Edessa. 6 Guglielmo di Tiro, XVII, 15, pp, 783-84; Ibn al-Qalanisi, pp. 293-94, 300-1. 7 Guglielmo di Tiro, XVII, 16-17, pp. 784-89. Gli storici bizantini non menzionano affatto questo accordo. Riguardo alla data e alle testimonianze musulmane cfr. Cahen, La Syrie du Nord, p 388, nota 24. Michele il Siriano, vol. III, p. 297, e la versione armena, p. 343. Vartan, p. 435, e Vahram, p. 618, parlano della cessione di Rum Kalaat al catholicus. La versione siriaca di Miche le afferma che la contessa chiese al catholicus di aiutare un nobile armeno a Rum Kalaat, ma che il catholicus vi si sarebbe istallato con l’inganno 8 Guglielmo di Tiro, loc cit ; Barebreo, trad ingl di Budge, p. 277; Michele il Siriano, versione armena, p. 297; Ibn al-Qalanisi, p. 309; Ibn al-Athir, Atabeg di Mosul, p. 132 (con la data sbagliata). 9 L’altra figlia di Jocelin II, Isabella, era probabilmente già morta, sebbene Guglielmo di Tiro (p 777) ne parli come se fosse in vita al momento della morte di suo padre. 2

10 Guglielmo di Tiro, XVII, pp. 789-91. Egli lascia intendere che il patriarca Aimery avrebbe incoraggiato Costanza a rifiutare i vari candidati per timore che il proprio potere ne risultasse di minuito. 11 Cinnamo, p. 178. 12 Cimiamo, pp. 121-24, 178; Matteo di Edessa, cclxiii, pp. 334-36; Gregorio il Prete, p. 166; Sempad il Conestabile, p. 619; Vahram, pp. 304-6; Michele il Siriano, vol. III, p. 281. 13 Guglielmo di Tiro, XVII, 18-19, PP- 789-92. 14 Ibid.; Ibn al-Qalanisi, p. 312. 15 Guglielmo di Tiro, XVII, 13-14, pp. 779-83. Nablus era in possesso di Filippo di Milly che era sostenuto dalla regina. Il 31 luglio 1161, poche settimane prima della morte della regina, gli venne dato il feudo dell’Oltregiordano in cambio di Nablus (Röhricht, Regesta Regni Hierosolymitani, p. 96). La regina Melisenda non venne consultata, probabilmente perché era troppo malata, ma sua sorella Hodierna, contessa-madre di Tripoli, approvò l’operazione. Presumibilmente Filippo doveva le proprie terre a Melisenda e non a Baldovino il quale, soltanto quando la regina era ormai sul letto di morte, riuscì a effettuare quello scambio che l’avrebbe privata di colui che le era amico e principale vassallo. Isabella, o Elisabetta, moglie di Filippo, era nipote di Pagano dell’Oltregiordano ed eventuale erede del successore di lui, Maurizio. Alla morte di lei egli entrò nei templari. Walter Brisebarre III di Beirut, marito della sorella di lei Maria, fu probabilmente in un tempo successivo signore dell’Oltregiordano, in cambio del quale avrebbe ceduto le proprie terre di Beirut, ma alla morte della moglie e della figlioletta avrebbe presumibilmente perduto il feudo che passò a Stefania, figlia di Filippo. Cfr. Rey, Les Seigneurs de Montreal et de la Terre d’Oultrejourdain e Les Seigneurs de Barut, passim. 16 Ibn al-Qalanisi, p. 295. Unur morì di dissenteria, «jusantirya». 17 Ibn al-Athir, Atabeg di Mosul, pp 171-75; Ibn al-Qalanisi, pp. 295-96. Cfr. Cahen, La Syrie du Nord, p. 393, nota 12, per le fonti manoscritte. 18 Ibn al-Qalanisi, pp. 97-300. 19 Ibn al-Qalanisi, pp. 302-11. 20 Ibn al-Qalanisi, pp. 311-12. 21 Guglielmo di Tiro, XVII, 20, pp. 792-94. 22 Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarikh, pp. 475, 486-87. Cfr. Wiet, op. cit, pp. 190-95. 23 Usama, pp. 40-43; Ibn al-Qalanisi, p. 314. La scorreria egiziana del 1151 lungo le coste franche è ricordata da Ibn al-Qalanisi, pp. 307-8, il quale menziona anche una scorreria egiziana partita da Ascalona nell’aprile del 1132 (p. 312). 24 Guglielmo di Tiro, XVII, I-5, 27-30, pp. 794-802, 804-13; Ibn al-Qalanisi, pp. 314-17; Abu Shama, pp. 77-78; Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarikh, p. 490. 25 Ibn al-Qalanisi, pp. 315-16 (piuttosto reticente sull’influenza franca a Damasco); Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarikh, p. 496, e Atabeg di Mosul, p. 189. 26 Ibn al-Qalanisi, pp. 318-21; Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarikh, pp. 496-97, e Atabeg di Mosul, pp. 190-92; Kemal ad-Din, pp. 527-28.

27 Ibn al-Qalanisi, pp. 322, 327. 28 Ibn al-Qalanisi, pp. 324-25; Niceta Coniate, pp. 152-54; Gregorio il Prete, p. 176. 29 Guglielmo di Tiro, XVIII, II-I5, pp. 834-45; Ibn al-Qalanisi, pp. 325-26, 330-37. 30 Roberto di Torigny, I, p. 309; Michele il Siriano, vol. III, pp. 315-16, versione armena, p. 356; Chron. Anon. Syr., p. 302 (dell’ed. siriaca); Ibn al-Qalanisi, pp. 338-41; Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarikh, p. 503; Kemal ad-Din, p. 529. Secondo Ibn al-Qalanisi, Nur ed-Din temeva che i franchi avrebbero attaccato le sue tortezze sguarnite e tenne raccolto il proprio esercito appunto per impedire quella mossa. L’elegia di Usama sulla distruzione della propria famiglia, con la quale era stato in lite, è riportata in Abu Shama, edizione del Cairo, vol. I, p. 112. 31 Guglielmo di Tiro, XVIII, 17, pp. 847-48; Ibn al-Qalanisi, p. 341; Kemal ad-Din, ed. a cura di Blochet, pp. 531 sgg.; Abu Shama, p. 110.

Note Capitolo terzo Il ritorno dell’imperatore

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Guglielmo di Tiro, XVII, 26, p. 802, dice ch’essa sarebbe già stata sposata segretamente prima ancora di aver ottenuto il permesso del re Cinnamo, p 178, lo chiama «un certo Rinaldo» - «Pενάλδῴ τινί»; Michele il Siriano, versione armena, p. 310. Schlumberger (Renaud de Châtillon, p. 3) ne rintraccia le origini. Il matrimonio ebbe luogo prima del mese di maggio, quando Rinaldo confermò i privilegi dei veneziani ad Antiochia (Röhricht, Regesta Regni Hierosolymitani, P- 72). 2 Guglielmo di Tiro, XVIII, IO, pp. 834-35; Michele il Siriano, vol. III, p. 314 e la versione armena, p 349, dà una versione dei fatti pili favorevole a Thoros; Barebreo, trad. ingl. di Budge, p. 283. 3 Guglielmo di Tiro, XVIII, I, pp. 816-17; Cimiamo, p. 181. 4 Guglielmo di Tiro, XVIII, I0, pp. 834-35; Cimiamo, pp. 78-79; Michele il Siriano, vol. III, p. 315, e la versione armena, p. 350; Barebreo, trad. ingl. di Budge, p. 284; Gregorio il Prete, p. 187, afferma che Rinaldo tagliava il naso ai preti greci che catturava. 5 Ibn Moyessar, p. 473. 6 Guglielmo di Tiro, XVIII, 17-19, pp. 847-53; Roberto di Torigny, vol. I, p. 316; Michele il Siriano, versione armena, pp 351-53; Ibn al-Qalanisi, pp. 342, 344; Rinaldo di Saint Valéry era ancora uno dei baroni di Gerusalemme nel 1160 (Röhricht, Regesta Regni Hierosolymitani, p. 94) ma tornò in Occidente poco tempo dopo. Roberto di Torigny è l’unico che afferma che gli sarebbe stato dato Harenc. 7 Guglielmo di Tiro, XVIII, 16, 22, pp 846, 857-58; Gregorio il Prete, pp. 186-89; Matteo di Edessa, cclxxiii, pp. 332-53. 8 Guglielmo di Tiro, XVIII, ai, pp. 855-56; Ibn al-Qalanisi, pp. 346-48; Abu Shama, pp. 97- 100 (questi, probabilmente sulla base di una frase ambigua di Ibn al-Qalanisi, afferma che Baldo vino chiese una tregua). 9 Cinnamo, pp. 179-81; Matteo di Edessa, loc cit ; Gregorio il Prete, p. 187. 10 Guglielmo di Tiro, XVIII, 23-25, pp. 859-64; Cinnamo, pp. 181-90; Niceta Coniate, pp. 141145; Prodromo, in RHCG, vol. II, pp. 752, 766; Matteo di Edessa, cclxxiv, pp. 354-55; Gregorio il Prete, pp. 188-89; Vahram, p. 505; Ibn al-Qalanisi, pp 349, 353. Cfr. anche La Monte, To what extent was the Byzantine Empire the suzerain of the Crusading States? 11 Guglielmo di Tiro, XVIII, 25, p. 864, non biasima affatto l’imperatore; Ottone di Frisinga, Gesta Friderici, p 229; Cinnamo, pp 188-90; Gregorio il Prete, pp. 190-91; Matteo di Edessa, cclxxv, pp. 355-58; Ibn al-Qalanisi, pp. 353-55. 12 Guglielmo di Tiro, loc cit.; Cintiamo, p. 188, menziona particolarmente «τὸν Σαγγέληίέα» (il figlio di Saint-Gilles) e «τόν τέμπλον μαίστορα». 13 Cintiamo, pp. 191-201, 204-8; Niceta Coniate, pp. 152-64; Gregorio il Prete, pp. 193-94, 199;

Matteo di Edessa, cclxxxIII, p. 364; Michele il Siriano, vol. III, p. 320; Chron. Anon Syr , p. 302; Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarikh, p. 544. 14 Guglielmo di Tiro, XVIII, 28, pp. 868-69; Matteo di Edessa, cclxxxi, pp. 363-64; Chron. Anon Syr, p. 302; Gregorio il Prete, p. 308; Kemal ad-Din, p. 533; Cahen (La Syrie du Nord, p. 405, nota 1) indica ancora altre fonti e discute la questione della topografia. 15 Guglielmo di Tiro, XVIII, 30, p. 874; Michele il Siriano, vol. III, p. 324, afferma che Costanza venne allontanata dal governo di Antiochia ad opera di Thoros. 16 Guglielmo di Tiro, XVIII, 30, pp. 874-76; Cinnamo, pp. 208-10, afferma che, oltre alle voci che circolavano sulla legittimità della sua nascita, Melisenda non godeva di buona salute. Essa è menzionata come «futurae Imperatricis Costantinopolitanae» in un documento del 31 luglio 1161, allorché l’Oltregiordano venne assegnato a Filippo di Milly. Melisenda e suo fratello si trovavano allora assieme al re a Nazaret (Röhricht, Regesta Regni Hierosolymitani, p. 96). 17 Guglielmo di Tiro, XVIII, 31, 33, pp. 876, 878-79. 18 Guglielmo di Tiro, XVIII, 31, pp. 875-76; Cinnamo, pp. 210-11; Niceta Coniate, p. 151, fa un grandissimo elogio della bellezza della nuova imperatrice. 19 Guglielmo di Tiro, XVIII, 20, p. 854. Alcuni esempi delle elargizioni di carattere religioso fatte da Melisenda nel 1139 e nel 1160 sono indicati da Röhricht, Regesta Regni Hierosolymitani, pp. 88, 94 20 Guglielmo di Tiro, loc. cit., menziona la partecipazione di Sibilla. Ernoul, p. 21, ricorda il rifiuto di Sibilla di lasciare la Terrasanta. 21 Guglielmo di Tiro, XVI, 2, pp. 103-6, dipinge il carattere di Baldovino III.

Note Capitolo quarto Il miraggio dell’Egitto

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Guglielmo di Tiro, XIX, I, 4, pp. 883-84, 888-90. Roberto di Torigny, vol. I, p. 309, indica il 1157 come data del matrimonio di Amalrico. Sul primo marito di Agnese cfr. sopra, p. 558 I continuatori di Guglielmo di Tiro le erano fieramente avversi, per buoni motivi. Può darsi che ne abbiano esagerato i difetti, ma non è probabile che i baroni insistessero perché il re divorziasse, unicamente a motivo dei loro lontani vincoli di parentela. Secondo Guglielmo tale rapporto di parentela sarebbe stato segnalato dalla badessa Stefania, figlia di Jocelin I e di Maria di Salerno: ma doveva esser noto a tutti che Baldovino I e Jocelin I erano primi cugini, inoltre il patriarca aveva già rifiutato di benedire quel matrimonio. Agnese nacque probabilmente nel 1133; sua madre, Beatrice, rimase vedova del primo marito nel 1132 e sposò poco dopo Jocelin di Edessa. 2 Guglielmo di Tiro, XIX, 2-3, pp. 884-88. 3 A proposito di questa importantissima assise cfr. sopra, p. 535. La Monte, Feudal Monarchy, pp. 22-23, 99, 153; cfr. anche Grandclaude, Liste d’Assises de Jérusalem, pp. 329 sgg. Indica come data di questa assise il 1166 e ne menziona altre che possono attribuirsi ad Amalrico. 4 Cinnamo, p. 227; Gregorio il Prete, p. 200; Sempad il Conestabile, p. 621; Michele il Siriano, vol. III, p. 319, versione armena pp. 349, 356. 5 Michele il Siriano, vol. III p. 324, confermato da Chron. Anon Syr Questi autori sembrano combinare assieme gli eventi del 1160 e del 1162-63. Ughelli, op. cit., vol. VII, p. 203, cita un documento del 1167 in cui Boemondo III si qualifica come «Principe d’Antiochia, Signore di Laodicea e Gibel». Poiché Lattakieh e Jabala costituivano il doario di sua madre è da presumere che essa fosse morta. 6 Su Baldovino cfr. oltre, p. 633. La figlia che Costanza ebbe da Rinaldo, Agnese, sposò in seguito il pretendente ungherese Alessio ovvero Bela III, che divenne re d’Ungheria nel 1173 (Niceta Coniate, p. 221). 7 Lettere di Amalrico, in RHF, vol. XVI, pp. 36-37, 39-40. La seconda lettera parla della minaccia bizantina su Antiochia. Boemondo III scrisse all’incirca in quello stesso tempo a re Luigi (ibid., pp. 27-28). 8 Usama, 43-54 (il cui racconto non cela interamente i suoi volubili voltafaccia); Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarikh, pp. 492-93; Guglielmo di Tiro, XVIII, 9, pp. 832-34. Sulla storia dell’Egitto in questo periodo cfr. Wiet, op. cit., pp. 191 sgg. 9 Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarikh, p. 529; Abu Shama, p. 107. 10 Guglielmo di Tiro, XIX, 5, pp. 890-91; lettera di Amalrico, in RHF, vol. XVI, pp. 39-60. Egli assicura re Luigi che l’Egitto potrebbe essere conquistato con un piccolo aiuto supplementare; Michele il Siriano, vol. III, p. 317. 11 Guglielmo di Tiro, XIX, 8, pp. 894-93; Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarikh, p. 331, e Atabeg di Mosul, pp. 207-9; Kemal ad-Din, p. 534. Michele il Siriano, vol. III, p. 324. Ibn al-Athir parla dei

bizantini come dell’elemento più pericoloso dell’esercito cristiano. 12 Guglielmo di Tiro, XIX, 5, 7, pp. 891-93; Abu Shama, p. 107; Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarikh, p. 533, e Atabeg di Mosul, pp. 213-16; Beha ed-Din, pp. 46-48. 13 Guglielmo di Tiro, XIX, 7, pp. 893-94; Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarikh, pp. 534-36, e Atabeg di Mosul, pp. 217-19; Abu Shama, p. 125. 14 Guglielmo di Tiro, XIX, 9, pp. 895-97, indica erroneamente come data del fatto il 1165; Roberto di Torigny, vol. I, p. 355; lettere di Amalrico I e di Gaufred Pulcher a Luigi VII, in RHF, vol. XVI, pp. 60-62; Cinnamo, p. 216 (con brevissima menzione della cattura di Coloman); Michele il Siriano, vol. III, p. 324; Chron. Anon. Syr , p. 304; Bustan, p. 359; Kemal ad-Din, ed. a cura di Blochet, p. 510; Abu Shama, p. 133; Ibn al-Athir, Atabeg di Mosul, pp. 220-23. 15 Guglielmo di Tiro, XIX, I0, II, pp. 898, 900-1; Bustan, p. 561; Michele il Siriano, vol. III, p. 326 (versione armena), p. 360, racconta che Thoros, che era stato liberato prima, insisteva perché venisse liberato anche Boemondo. 16 Cinnamo, pp. 237-38; Guglielmo di Tiro, XX, I, p. 942. 17 Guglielmo di Tiro, XIX, I0, pp. 898-900; Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarikh, pp. 340-42, e Atabeg dì Mosul, p. 234; Kemal ad-Din, ed. a cura di Blochet, p. 541. 18 Guglielmo di Tiro, XIX, II, p. 901; Michele il Siriano, vol. III, p. 326. Atanasio II era stato nominato patriarca di Antiochia nel 1137, allorché il patriarca designato, Panteugenes Soterichus, era stato accusato d’eresia. 19 Michele il Siriano, vol. III, pp. 301-4, 332, 334-36. 20 Guglielmo di Tiro, XIX, II, pp. 901-2; Beha ed-Din, p. 501, pone la cattura di Munietra dopo la campagna egiziana del 1167; Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarikh, pp. 345-46, e Atabeg di Mosul, pp. 235-36. Nur ed-Dir prese Munietra, sulla via da Jebail a Baalbeck, mentre Shirkuh prendeva Shaqif Titun, ossia la Grotta di Tyrone, identificata da Rey (Les Colonies Franques, p. 313) in Qalat anNinha, a circa quindici miglia a oriente di Sidone. L’ubicazione della fortezza dei templari vicino ad Amman è sconosciuta. Beha ed-Din la chiama Akaf. Potrebbe essere la grotta di Kaf a sud-est di Amman, che contiene resti di opere romane, ma nessun segno di opere murarie medievali. 21 Guglielmo di Tiro, XIX, 13, 16, pp. 902-4, 907-8; Beha ed-Din, p. 48, il quale afferma che Nur ed-Din obbligò Saladino ad accompagnare Shirkuh; Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarikh, p. 547, e Atabeg di Mosul, p. 236. 22 Guglielmo di Tiro, XIX, 17-19, pp. 908-13; Ernoul, p. 19, osserva che soltanto la corte imperiale di Costantinopoli era più ricca di quella del Cairo; Abu Shama, p. 130. Guglielmo continua la sua narrazione spiegando le differenze tra le sette sunnita e shia. 23 Guglielmo di Tito, XIX, 22-25, Pp. 917-28 (inclusa una descrizione dell’Egitto e del Nilo); Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarikh, pp. 547-49, il quale fissa la data della battaglia di Ashmunein al 18 marzo, e Atabeg di Mosul, p. 23, in cui la indica al 18 aprile. La Vita Sancii Bernardi, coli. 366-67, indica il 19 marzo. 24 Guglielmo di Tiro, XIX, 26-32, pp. 928-39; Abu Shama, pp. 130-34; Ibn al-Athir, Kamil fi ttarikb, pp. 547-51. e Atabeg di Mosul, pp. 236-46; Beha ed-Din, pp. 49-51; Imad ed-Din. La storia di Saladino fatto cavaliere è raccontata nell’Itinerarium Peregrinorum et Gesta Regis Ricardi, P. 9 25 Cfr. Delaville Le Roulx, op cit. pp. 74-76. Röhricht, Regesta Regni Hierosolymitani, pp. 109

sgg., indica numerosi esempi di donazioni agli ordini. 26 Guglielmo di Tiro, XX, I, pp. 942-43; Ernoul, pp. 17-18; Cimiamo, p. 238. 27 Guglielmo di Tiro, XX, 2, pp. 943-44; Cinnamo, pp. 250-31; Niceta Coniate, pp. 180-86. Sul seguito della storia di Andronico cfr. oltre, pp. 645-47. 28 Guglielmo di Tiro, XX, 4, pp. 954-57. 29 Guglielmo di Tiro, XX, 5, pp. 948-49 (menziona l’arrivo del conte di Nevers nel capitolo precedente); Michele il Siriano (vol. III, pp. 332-33) e gli storici arabi (Ibn al-Athir, Kamil fi ttarikh, pp. 553-34, e Atabeg di Mosul, pp. 246-47, e Abu Shama, pp. 112-13) si resero conto che il re era stato trascinato dai suoi consiglieri. 30 Guglielmo di Tiro, XX, 6-9, pp. 949-56; Abu Shama, pp. 114-15, 136-40, che cita Imad edDin; Beha ed-Din, p. 52; Ibn al-Athir, Kamil i t-tarikh, pp. 554-56, e Atabeg di Mosul, pp. 247-50. 31 Beha ed-Din, pp. 52-53; Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarikh, p. 563, ed Atabeg di Mosul, p. 230; Abu Shama, p. 117. Secondo Beha ed-Din, ripetuto con più enfasi da Ibn al-Athir, Saladino sarebbe stato di nuovo assai poco propenso ad accompagnare la spedizione. 32 Beha ed-Din, pp. 53-35 (che cita Imad ed-Din); Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarikh, pp. 538-60, e Atabeg di Mosul, pp. 251-53; Abu Shama, pp. 118-19, 142-45; Guglielmo di Tiro, XX, I0, pp. 93658. 33 Beha ed-Din, p. 55; Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarikb, pp. 360-61; Guglielmo di Tiro (XIX, 5, p. 892) lo descrive con termini molto simili a quelli usati dagli scrittori arabi. Beha ed-Din (pp. 30-31) indica la sua determinazione di annettere l’Egitto al regno del suo signore. 34 Guglielmo di Tiro, XX, 12, pp. 960-61; lettere di Amalrico, in RHF, vol. XVI, pp. 187-88; Ibn al-Athir, Atabeg di Mosul, pp. 238-39. Il maestro dell’Ospedale annegò nel 1183 nel compiere la traversata da Dieppe all’Inghilterra. Cfr. Delaville Le Roulx, op. cit, pp. 76 sgg. 35 Guglielmo di Tiro, XX, 13, pp. 961-62. 36 Beha ed-Din, p. 52; Abu Shama, pp. 188-89; Ibn al-Athir, Atabeg di Mosul, p. 264; Michele il Siriano, vol. III, pp. 339-42; Qutb ed-Din moti l’anno seguente (1170). 37 Beha ed-Din, pp. 35-36; Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarikh, pp. 366-68; Abu Shama, p. 146. Il diploma della nomina di Saladino da parte del califfo esiste a Berlino ed è lungo circa ottomila parole. 38 Niceta Coniate, pp. 208-9; Guglielmo di Tiro, loc cit. 39 Abu Shama, pp. 147-48; Ibn al-Athir, Kamil fi l-tarikh, p. 568. 40 Guglielmo di Tito, XX, 14-17, pp. 962-71; Cimiamo, pp. 278-80; questi afferma che dopo quella campagna Saladino offrì a Manuele di pagargli un tributo annuo, ma Manuele avrebbe rifiutato; Niceta Coniate, pp. 209-19 lascia intendere d’altra parte che Manuele avrebbe trattato la pace con l’Egitto; Beha ed-Din, pp. 56-59; Abu Shama, pp. 151-53; Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarikh pp. 668-70, e Atabeg di Mosul, pp. 239-60. Michele il Siriano (vol. III, p. 333, e nella versione armena, pp. 369-70) insinua che i greci sarebbero stati comprati da Saladino affinché interrompessero la campagna. La sua testimonianza è così decisamente antigreca che è di poco valore. Guglielmo di Tiro afferma che Contostefano fu il primo a chiedere la pace, Niceta dice che fu il re.

41 Beha ed-Din, pp. 59-60; Abu Shama, pp. 133-34; Ibn al-Athir, Atabeg di Mosul, pp. 260-61. 42 Abu Shama, p. 149. La donazione di Akkar e di Arqa all’Ospedale fu fatta dopo il terremoto di giugno (Röhricht, Regesta Regni Hierosolymitani, p. 125). 43 Michele il Siriano, vol. III, p. 339; Ibn al-Athir, Atabeg di Mosul, p. 262; Guglielmo di Tiro, XX, 18, pp. 971-73 44 Guglielmo di Tiro, XX, 26, pp. 991-92; Niceta Coniate, p. 183; Michele il Siriano, vol. III, pp. 331, 337; Sempad il Conestabile, pp. 622-25; Vahram, pp. 508-9; è impossibile districate la questione delle date. Guglielmo di Tiro colloca il fatto dopo la visita di Amalrico a Costantino poli, Michele prima del terremoto del 1170. Tarso apparteneva ancora ai greci quando Enrico il Leone tornò dalla sua crociata nel 1172 (Arnoldo di Lubecca, Chronica Slavorum, pp. 22-23) 45 Per le fonti cfr sopra, p. 609, nota I. 46 Guglielmo di Tiro, XX, 19-20, pp. 973-77; Ibn al-Athir, Kamil fi tarikh, pp. 277-78. 47 Guglielmo di Tiro, XX, 22-24, pp 980-87; Cinnamo, p. 280 (narrazione molto succinta in cui egli afferma che Amalrico promettesse «δουλείαν» all’imperatore). Michele il Siriano, vol. III, P 343. 48 De Vogue, Les Eglises de la Terre Sainte, pp. 99-ro3, riporta le iscrizioni dei mosaici di Betlemme. 11 viaggiatore greco Foca le menziona e parla delle riparazioni al Santo Sepolcro (pp. 19, 31). La Monte, To what extent was the Byzantine Empire the suzerain of the Crusading States? studia la questione della sovranità dell’imperatore e afferma che essa non fu mai accettata. Ma Manuele, come i suoi predecessori anteriormente alle Crociate, si riteneva probabilmente responsabile della situazione degli ortodossi in Palestina, e il suo diritto di intervenire in loro favore era accettato. Si debbono probabilmente agli aiuti di Manuele le riparazioni fatte intorno a quell’epoca in varie istituzioni ortodosse di Palestina, come il monastero di Calamon (cfr. Vailhé, Les Laures de Saint Gérasime et de Calamon, in «Echos d’Orient», vol. II, p. 117), e il convento di Sant’Eutimio (Cfr. Johns, The Crusaders attempt to colonize Palestine and Syria, in «Journal of the Royal Central Asian Society», vol. XXI, pp. 292-93) 49 Guglielmo di Tiro, XX, 25, p. 988. Stefano era abiatico del crociato conte di Blois e figlio minore di Tibaldo, conte di Blois, Chartres e Troyes. Era nato verso il 1130 ed aveva sposato nel 1130 Matilde di Douzy dopo che questa era fuggita con lui. (Cfr. Anselme, Histoire Généalogique et Chronologique de la Trance, vol. II, p. 847) Ma poiché sua moglie è chiamata qualche volta Alice ed altre volte Maria è probabile che egli si sia sposato più di una volta e che fosse vedovo nel 1170. 50 Guglielmo di Tiro, XXI, I, pp. 1004-5. 51 Guglielmo di Tiro, XX, 25, p. 988. 52 La sua crociata è ampiamente descritta da Joranson, The Crusade of Henry the Lion, in Medieval Essays presented lo G. W. Thompson. La fonte principale è Arnoldo di Lubecca. 53 Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarikh, pp. 573-80, e Atabeg di Mosul, pp. 202-3; Kemal ad-Din, p. 531; Beha ed-Din, pp. 61-62. 54 Guglielmo di Tiro, XX, 27, pp. 992-94; Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarikh, pp. 381-83, ed Atabeg di Mosul, pp. 286-88; Kemal ad-Din, p. 352; Maqrizi, p. 306. Beha ed-Din, pp. 62-63, dà un resoconto prudentemente vago in cui mescola le spedizioni del 1171 e del 1173. Egli fa dire inoltre a Saladino che egli solo si sarebbe rifiutato di prendere in considerazione di opporsi a Nur ed-Din (P.

65). 55 Ibn al-Athir, Atabeg di Mosul, p. 279; Kemal ad-Din, p. 384; Beha ed-Din, p. 62, dice che Nur ed-Din conquistò Arga, il che è un errore invece di Aryma. 56 Cinnamo, pp. 291-92; Imad ed-Din, pp. 139-60. Enrico il Leone ricevette cortese ospitalità da Kilij Arslan quando passò per l’Anatolia al suo ritorno dalla Palestina. 57 Abu Shama, p. 168; Guglielmo di Tiro, XX, 28, p. 99J. Le circostanze in cui avvenne la liberazione di Raimondo sono oscure. Cfr. Baldwin, Raymond III of Tripolis, p. II, nota 23. La data sta tra il settembre 1173 e l’aprile 1176. 58 Guglielmo di Tiro, XX, 26, pp. 991-92; cfr. indicazione delle fonti sopra, p. 615, nota 3. Guglielmo probabilmente ha confuso le due spedizioni di Amalrico. 59 Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarikh, pp. .587-93, e Atabeg di Mosul, p. 293; Kemal ad-Din, ed. a cura di Blochet, p. 553; Maqrizi, pp. 309-11. Najm ed-Din Ayub morì in conseguenza di una caduta avvenuta mentre giocava al polo. 60 Guglielmo di Tiro, XX, 29-30, pp. 995-99. 61 Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarikh, pp. 599, 60J-3, e Atabeg di Mosul, p. 293; Beha ed-Din, pp. 65-66. 62 Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarikh, pp. 604-5; Beha ed-Din, p. 65. 63 Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarikh, pp. 606-9; Kemal ad-Din, ed. a cura di Blochet, pp. 558-60. 64 Guglielmo di Tiro, XX, 31, p. 1000; Abu Shama, p. 162; Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarikh, p. 611. 65 Guglielmo di Tiro, XX, 31, pp. 1000-1. Il medico siriano era probabilmente Suleiman ibn Daoud.

Indice

Presentazione dell’autore all’edizione italiana Prefazioni LIBRO PRIMO La prima crociata e la fondazione del regno di Gerusalemme Parte prima I luoghi santi della cristianità I.

L’abominazione della desolazione II. Il regno dell’anticristo III. I pellegrini di Cristo IV. Verso il disastro Capitolo quinto – Confusione in Oriente

Parte seconda La predicazione della crociata I.

Pace santa e guerra santa II. La rocca di san Pietro III. Il bando

Parte terza In cammino verso la guerra I.

La crociata popolare II. La crociata tedesca III. I principi e l’imperatore

Parte quarta La guerra contro i turchi I.

La campagna in Asia Minore II. Interludio armeno III. Davanti alle mura di Antiochia IV. Il possesso di Antiochia

Parte quinta La terra promessa I.

Verso Gerusalemme II. Il trionfo della croce III. «Advocatus Sancti Sepulchri» IV. Il regno di Gerusalemme

LIBRO SECONDO Il regno di Gerusalemme e l’Oriente franco – (1100-1187)

Parte prima La fondazione del regno I.

«Outremer» e i suoi vicini II. Le crociate del noi III. I principi normanni di Antiochia IV. Tolosa e Tripoli Capitolo quinto – Re Baldovino I Capitolo sesto – Equilibrio nel nord

Parte seconda L’apogeo I.

Re Baldovino II II. La seconda generazione III. Le rivendicazioni dell’imperatore IV. La caduta di Edessa

Parte terza La seconda crociata I.

L’adunata dei re II. Discordie tra i cristiani III. Fiasco

Parte quarta Il principio della fine I.

La vita in «Outremer» II. L’ascesa di Nur ed-Din III. Il ritorno dell’imperatore IV. Il miraggio dell’Egitto

Parte quinta Il trionfo dell’Islam I.

L’unità musulmana II. I Corni di Hattin LIBRO TERZO

Il regno di Acri e le ultime crociate Parte prima La terza crociata I.

La coscienza dell’Occidente II. Acri III. Cuor di Leone IV. Il secondo regno

Parte seconda Crociate male indirizzate I.

La crociata contro i cristiani II. La quinta crociata III. L’imperatore Federico IV. Anarchia legalizzata

Parte terza I mongoli ed i mamelucchi

I.

L’arrivo dei mongoli II. San Luigi III. I mongoli in Siria IV. Il sultano Baibars

Parte quarta La fine di «Outremer» I.

Il commercio di «Outremer» II. L’architettura e le arti in «Outremer» III. La caduta di Acri

Parte quinta Epilogo I.

Le ultime crociate II. Conclusione

Appendici I.

Principali fonti per la storia della prima crociata II. La forza numerica dei crociati III. Principali fonti per la storia dell’Oriente latino (1100-1187) IV. La battaglia di Hattin V. Principali fonti per la storia delle ultime crociate VI. La vita intellettuale di « Outremer »

Alberi genealogici Bibliografia

Indice delle cartine

I.

Le adiacenze di Costantinopoli e Nicea al tempo della prima crociata II. La penisola balcanica e l’Asia Minore al tempo della prima crociata III. Pianta di Antiochia nel 1098 IV. La Siria al tempo della prima crociata V. La Siria settentrionale e meridionale nel secolo XII, con le frontiere approssimative degli Stati cristiani VI. Il regno di Gerusalemme nel secolo epo persecuzione contro i giaco VII. Gerusalemme sotto i re latini VIII. L’Egitto nel secolo XII IX. La Galilea. X. I dintorni di Acri nel 1189 XI. Il delta del Nilo al tempo della quinta crociata e della crociata di san Luigi XII. L’impeto mongolo sotto Gengis Khan XIII. Acri nel 1291 XIV. «Outremer» nel secolo XIII

Parte quinta II trionfo dell’Islam

Capitolo primo L’unità musulmana

I savi erediteranno la gloria, ma l’ignominia è la parte degli stolti. Proverbi, III, 35

La notizia della morte di re Amalrico giunse a Saladino, che dal Cairo osservava ansiosamente l’andamento degli avvenimenti, come un segno del favore di Dio. Gli intrighi dei shia contro di lui erano giunti al punto culminante in aprile, quando gli venne svelato un complotto ordito per ucciderlo: egli colpi subito e fece crocifiggere i capi della cospirazione, ma non poteva essere sicuro che non ci fossero altri disposti a cospirare se un esercito cristiano fosse venuto in loro aiuto. E nel frattempo l’eredità di Nur ed-Din avrebbe potuto passare saldamente in altre mani1. Ora, morto Amalrico, non c’era nessun pericolo di un’invasione per la via di terra. È vero però che una flotta siciliana si trovava al largo, poiché re Guglielmo II non era stato informato né del fallimento della cospirazione shia né della morte di Amalrico. Il 25 luglio 1174 infatti i siciliani, al comando di Tancredi, conte di Lecce, apparvero improvvisamente davanti ad Alessandria con duecentottantaquattro navi, in cui trasportavano i loro uomini, animali e provviste. Ma si trovarono privi dell’appoggio su cui avevano contato, e oltre a ciò avevano già rifiutato qualsiasi aiuto da parte dell’imperatore, poiché Guglielmo aveva litigato con Manuele che gli aveva offerto la mano di sua figlia Maria e aveva poi ritirato l’offerta; comunque, il re desiderava dimostrare di saper far meglio che i bizantini nel 1169. Fallita la speranza di prendere la città di sorpresa, all’avvicinarsi di Saladino con un esercito i siciliani tornarono di nuovo a bordo delle loro navi e ripartirono il I° agosto. Saladino era ormai libero di marciare contro la Siria.2 Ibn al-Muqaddam, governatore di Damasco, ne fu spaventato e si rivolse ai franchi per aiuto. La sua paura-aumentò quando il giovane as-Salih fuggì con sua madre ad Aleppo, mettendosi sotto la protezione più energica di Gumushtekin. Ibn al-Muqaddam si rivolse poi a Saif ed-Din di Mosul perché accorresse in suo aiuto, ma questi preferì consolidare la propria posizione nelle nuove terre che aveva ottenuto nello Jezireh. Il popolo di Damasco insistette allora affinché il loro governatore convocasse Saladino. Questi partì immediatamente, con settecento cavalleggeri scelti, attraversò velocemente l’Oltregiordano dove i franchi non fecero nessun tentativo di fermarlo e giunse a Damasco il 26 novembre. Vi fu accolto con gioia; trascorse la notte nella vecchia casa di suo padre e la mattina seguente Ibn al-Muqaddam gli aprì le porte della cittadella. Egli insediò suo fratello Toghtekin quale governatore, in nome di as-Salih e, dopo aver rallegrato i damasceni con generosi doni tratti dal tesoro dello stesso as-Salih, marciò verso nord contro Gumushtekin3. La morte di re Amalrico aveva lasciato i franchi impotenti a intervenire. L’unico principe superstite della casa reale era il tredicenne Baldovino, che era lebbroso; sua sorella Sibilla, maggiore di un anno, non era ancora sposata; la sua matrigna, la regina Maria Comnena, aveva dato alla luce soltanto delle figlie, una delle quali era morta, mentre l’altra, Isabella, aveva due anni. I baroni accettarono Baldovino quale loro re senza esitazioni: egli venne incoronato dal patriarca

quattro giorni dopo la morte di suo padre. Non venne designato nessun reggente e il siniscalco Miles di Plancy, il più intimo amico del defunto re e signore del grande feudo dell’Oltregiordano grazie ai diritti di sua moglie, prese la successione nel governo. Ma egli era impopolare, specialmente tra la nobiltà già nata nel paese, e con l’appoggio di questa il conte Raimondo di Tripoli pretese la reggenza. Dopo le sorelle del re, Raimondo era il parente più prossimo dal lato reale della famiglia: sua madre, Hodierna di Gerusalemme, era zia di Amalrico e sebbene Boemondo di Antiochia fosse discendente della sorella maggiore di Hodierna, Alice, si trovava più distante dalla corona di una generazione. Inoltre viveva troppo lontano, mentre Raimondo aveva sposato di recente la seconda grande ereditiera del regno, Eschiva di Bures, principessa di Galilea, vedova di Gualtiero di SaintOmer. I suoi sostenitori, guidati dal vecchio conestabile Honfroi II di Toron, dalla famiglia Ibelin, e da Rinaldo di Sidone, insistettero perché le sue pretese venissero esposte davanti all’alta corte. Miles tergiversò il più a lungo possibile, ma alla fine dovette cedere e nel tardo autunno Raimondo venne insediato come reggente. Poche settimane più tardi Miles, che aveva accettato di malagrazia la sua estromissione dal potere, veniva assassinato nelle vie di Acri, in una notte senza luna4. Raimondo aveva ormai trentaquattro anni, era un uomo alto, sottile, con i capelli neri e la pelle scura, il viso dominato da un gran naso, di carattere freddo e controllato e un po’ meschino. Non c’era nulla in lui dell’audacia travolgente dei primi crociati; durante i lunghi anni della sua prigionia egli aveva letto moltissimo, aveva imparato l’arabo e studiato i costumi e la mentalità dei musulmani. Vedeva i problemi degli Stati franchi da un punto di vista locale ed era interessato alla loro sopravvivenza, non al loro ruolo di testa di ponte di una cristianità aggressiva. Era abile e appoggiato da amici abili, ma era soltanto il reggente e aveva dei nemici5. La sua reggenza diede inizio a un processo di scissione all’interno del regno. C’erano già state delle fazioni prima, specialmente al tempo della regina Melisenda, ma erano state di breve durata e la corona aveva sempre mantenuto il controllo della situazione. In questo momento sorsero due partiti ben definiti, il primo composto dai baroni indigeni e dagli ospitalieri, i quali riconoscevano l’autorità del conte Raimondo, ricercavano un’intesa con i loro vicini stranieri e non desideravano imbarcarsi in rischiose avventure; l’altro formato dai cavalieri appena giunti dall’Occidente e dai templari. Questo partito era aggressivo e di un cristianesimo militante e trovò i suoi capi nel 1175, quando finalmente Rinaldo di Châtillon venne liberato dalla prigione musulmana, insieme con Jocelin di Edessa, un conte senza contea, che la sorte aveva trasformato in avventuriero6. Le animosità personali erano ancora più forti che le differenze politiche: la maggior parte dei nobili erano ormai cugini gli uni degli altri e le liti di famiglia sono sempre le più aspre. Le due vedove di re Amalrico si odiavano a vicenda. Dopo il divorzio, Agnese di Courtenay, sorella del conte Jocelin, si era risposata altre due volte. Il secondo marito, Ugo di Ibelin, era morto pochi anni dopo il matrimonio; il suo successore, Rinaldo di Sidone, fu contento di scoprire che anch’egli, come Amalrico, era troppo strettamente imparentato con sua moglie e ottenere perciò un annullamento7. Mentre Agnese si trovava dalla parte di suo fratello e dei templari, egli si uni all’altro partito. La regina Maria Comnena si era ben presto risposata con Baliano, fratello di Ugo di Ibelin, a cui ella recò in dote il feudo di Nablus. Questo matrimonio fu felice e la regina-madre ebbe una parte di primo piano nel partito di suo marito8 Rinaldo di Châtillon sposò, pochi mesi dopo la sua liberazione, l’erede dell’Oltregiordano, Stefania, vedova di Miles di Plancy, la quale considerava il conte Raimondo l’assassino di suo marito9. La lunga disputa di Raimondo con i templari cominciò per un motivo di carattere personale. Nel 1173 era giunto a Tripoli un cavaliere fiammingo, Gerardo di Ridfort, che aveva preso servizio agli ordini del conte; questi gli aveva promesso la mano della prima ereditiera

della contea ritenuta adatta. Ma quando, pochi mesi più tardi, morì il signore di Botrun lasciando le proprie terre alla figlia Lucia, Raimondo ignorò i diritti di Gerardo e la diede a un ricco pisano di nome Plivano, il quale, assai poco galantemente, pose la fanciulla su una bilancia e offrì al conte il suo peso in oro. Gerardo, adirato e deluso, entrò nell’Ordine del Tempio e ne divenne ben presto il membro più influente e il siniscalco. Non perdonò mai Raimondo10. Il giovane re, precocemente consapevole degli intrighi che si svolgevano intorno a lui, tentò di mantenere l’equilibrio tra i partiti. Raimondo rimase suo reggente per tre anni, ma i legami di parentela lo strinsero più strettamente ai Courtenay. Nel 1176 creò siniscalco suo zio Jocelin, e sua madre, donna Agnese, tornò a corte. L’influenza di lei fu disastrosa: era viziosa e avida, mai sazia di uomini né di denaro. A suo tempo non le era stato concesso di allevare i propri figli, perciò Baldovino era stato affidato alle cure di Guglielmo di Tiro, e Sibilla a quelle della sua prozia, la principessa-badessa Joveta di Betania; a questo punto ella cominciò a intervenire nelle loro vite: Baldovino le prestava ascolto, contrariamente al suo miglior giudizio, e Sibilla cadde sotto il suo dominio11. Il primo dovere di Raimondo come reggente era quello di reprimere il crescente potere di Saladino. I franchi non avevano potuto impedire l’unione di Damasco con il Cairo, ma almeno Aleppo era ancora indipendente. Saladino, appena ricevuti rinforzi dall’Egitto, aveva marciato da Damasco verso Aleppo; il 9 dicembre 1174 egli entrò in Homs, vi lasciò delle truppe per dare l’assalto al castello che gli aveva resistito e proseguì per Aleppo passando attraverso Hama. Quando Gumushtekin gli chiuse le porte in faccia, il 30 dicembre, egli iniziò un regolare assedio della città. I cittadini erano quasi disposti ad arrenderglisi, ma il giovane as-Salih scese in mezzo a loro e li implorò di salvarlo dall’uomo che lo aveva derubato dell’eredità. Commossi dalle sue suppliche, i difensori non si persero di coraggio. Nel frattempo Gumushtekin mandava a chiedere aiuti agli assassini e ai franchi, e alcuni giorni più tardi alcuni di quei settari furono scoperti nel cuore dell’accampamento di Saladino, proprio vicino alla sua tenda: vennero trucidati, dopo una disperata resistenza. Il 1° febbraio comparve davanti a Homs il conte Raimondo con un esercito franco che, con l’aiuto della guarnigione del castello, cominciò ad attaccare le mura della città. Questo fatto ebbe l’effetto desiderato: Saladino levò l’assedio ad Aleppo e giunse in gran fretta nel sud, ma Raimondo non stette ad aspettarlo. Durante il mese seguente Saladino fu impegnato nell’assedio del castello di Homs e per aprile si era impadronito di tutta la Siria, giungendo a nord fino a Hama. Ma Aleppo era ancora indipendente. In segno di gratitudine verso i franchi Gumushtekin liberò Rinaldo di Châtillon e Jocelin di Courtenay e tutti gli altri prigionieri cristiani che languivano nei sotterranei di Aleppo12. I successi di Saladino indussero il nipote di Nur ed-Din, Saif ed-Din di Mosul, a scendere in campo inviando in Siria suo fratello, Izz ed-Din, con un grande esercito, perché si unisse a Gumushtekin. Saladino, sperando forse di provocare dei torbidi tra Aleppo e Mosul, si offrì di cedere Hama e Homs a quest’ultima; l’offerta venne respinta. Ma l’esercito alleato si lasciò sorprendere in un burrone fra le colline a nord di Hama e venne distrutto dai veterani di Saladino. Questi, però, non si sentiva abbastanza forte per cogliere i frutti della sua vittoria; si addivenne ad una tregua che permise a Saladino di occupare alcune città a nord di Hama, ma che per il rimanente lasciava le cose come stavano.13 In quel torno di tempo, Saladino denunciò il suo vassallaggio nominale verso as-Salih: aveva fatto del suo meglio, disse, per servirlo lealmente, ma as-Salih aveva preferito altri consiglieri e respinto il suo aiuto. Perciò egli assunse il titolo di re d’Egitto e di Siria e batté monete soltanto con il proprio nome. Il califfo di Bagdad diede la sua graziosa approvazione e gli inviò delle vesti regali

che gli vennero consegnate a Hama in maggio14. La tregua con la casa di Zengi fu di breve durata : nel marzo del 1176 lo stesso Saif ed-Din di Mosul attraversò l’Eufrate con un numeroso esercito e si uni alle truppe di Gumushtekin nelle vicinanze di Aleppo. Saladino, che aveva di nuovo ricevuto dei rinforzi dall’Egitto, risalì per affrontarlo. Un’eclisse di sole avvenuta l’11 aprile, mise in allarme i suoi uomini mentre stavano attraversando l’Oronte vicino a Hama, e dieci giorni più tardi Saif ed-Din li colse di sorpresa, mentre abbeveravano i cavalli. Egli tuttavia non ebbe il coraggio di attaccare immediatamente, e la mattina seguente, quando condusse tutto il suo esercito ad assalire l’accampamento di Saladino, che si trovava sul Tumulo del Sultano, era ormai troppo tardi. Il primo assalto ottenne quasi il successo, ma Saladino contrattaccò alla testa delle sue riserve, spezzò le linee nemiche e la sera era padrone del campo. Il tesoro che Saif ed-Din aveva abbandonato nel suo accampamento fuggendo, venne completamente speso dal vincitore per ricompensare i suoi uomini. Quelli che erano stati fatti prigionieri vennero trattati bene e rimandati presto alle loro case. La sua generosità e la sua clemenza fecero un’ottima impressione .15 Aleppo rifiutava ancora di aprire le porte a Saladino, perciò egli attaccò e conquistò le fortezze che si trovavano tra la città e l’Eufrate, Bizaa e Menbij, e cinse d’assedio Azaz, la grande piazzaforte che dominava la strada verso il nord. Quivi, ancora una volta, egli corse il rischio di perire per mano di uno degli assassini che era penetrato nella tenda dov’egli stava riposando. Lo salvò soltanto il copricapo di maglia di ferro che portava sotto il turbante. Azaz capitolò il 21 giugno; il 24 Saladino fece di nuovo la sua comparsa davanti ad Aleppo, ma a questo punto acconsentì a venire a patti: asSalih e i principi ortoqidi di Hisn Kaifa e di Mardin, che lo avevano appoggiato, accettarono di cedere a Saladino tutte le terre che egli aveva conquistato e si giurarono l’un l’altro, solennemente, di mantenere la pace. Dopo che il trattato era stato firmato il 29 luglio, la sorellina di as-Salih usci a visitare l’accampamento di Saladino. Questi le chiese gentilmente quale dono avrebbe gradito ed ella rispose: «Il castello di Azaz». Di conseguenza, Saladino lo restituì al fratello di lei.16 Sebbene Aleppo fosse ancora da conquistare, as-Salih e i suoi cugini erano stati intimiditi; Saladino poteva volgersi ormai contro gli assassini e contro i franchi. Egli penetrò nelle montagne Nosairi per porre l’assedio a Masyaf, la più importante piazzaforte degli assassini. Lo sceicco Sinan era assente, ma i soldati di Saladino avrebbero potuto catturarlo mentre tornava in tutta fretta verso casa, se un qualche misterioso potere non l’avesse loro impedito. C’era qualcosa di magico a quel riguardo; Saladino stesso era tormentato da incubi terribili. Una notte si svegliò improvvisamente e trovò nel suo letto alcuni dolci caldi, di una specie che soltanto gli assassini facevano, insieme con un pugnale avvelenato e un pezzo di carta su cui era scritto un verso minaccioso; credette che il Vecchio delle Montagne in persona fosse entrato nella sua tenda e i suoi nervi cedettero. Inviò un messaggero a Sinan per chiedergli di perdonargli i suoi peccati e promise, in cambio di un salvacondotto, di lasciare in pace gli assassini da quel momento in poi. Il Vecchio lo perdonò e il patto fra di loro venne mantenuto17. Con i franchi non si poteva fare un trattato del genere. Nel 1175, quando Saladino aveva liberato i prigionieri cristiani in suo possesso per essere in condizione di trattare con Saif ed-Din, era stata concordata una tregua18, ma l’anno successivo i franchi l’avevano rotta. Mentre Saladino assediava Aleppo, Raimondo di Tripoli invase la Bekaa dalla Buqaia, e nel frattempo l’esercito reale, al comando di Honfroi di Toron e del quindicenne re, risaliva dal sud. Sembra che Raimondo subisse una leggera sconfitta per opera di Ibn al-Muqaddam, allora governatore di Baalbek; ma i cristiani

riuscirono a ricongiungersi e sconfissero duramente il fratello di Saladino, Turanshah, e le milizie di Damasco. Essi si ritirarono di nuovo non appena Saladino si avvicinò dal nord, ma non li insegui perché era troppo ansioso di tornare in Egitto. Lasciando Turanshah in Siria, al comando di un forte esercito, egli attraversò inosservato, ancora una volta, l’Oltregiordano e giunse al Cairo verso la fine di settembre.19 Per un anno intero vennero sospesi i combattimenti, del che ambedue le parti furono contente. Mentre Saladino riorganizzava l’Egitto e ricostruiva e fortificava il Cairo, il governo di Gerusalemme affrontava il suo più importante problema interno. Nel 1177 re Baldovino diventava maggiorenne, a sedici anni, e Raimondo abbandonò la reggenza; ma la lebbra del re peggiorava e senza dubbio egli non sarebbe vissuto a lungo. Bisognava che la principessa Sibilla si sposasse, per assicurare la successione. Nel 1175, probabilmente per suggerimento di Luigi VII di Francia, Baldovino aveva invitato Guglielmo Spada-Lunga, figlio maggiore del marchese del Monferrato, a venire in Palestina e ad accettare la mano di Sibilla. Fu una buona scelta: Guglielmo aveva delle ottime relazioni di parentela; suo padre era il principe più ricco dell’Italia settentrionale ed era cugino sia dell’imperatore Federico Barbarossa sia di re Luigi. Egli stesso, sebbene non fosse più giovane, era abbastanza galante e di bell’aspetto da piacere alla frivola principessa; sbarcò a Sidone nell’ottobre del 1176. Pochi giorni più tardi, al momento del suo matrimonio con Sibilla, gli fu concessa la contea di Ascalona e di Giaffa e venne accettato da tutti quale erede al trono. Ma le speranze fondate sulla sua energia e sulle sue importanti relazioni di parentela dovevano risultare vane: al principio del 1177 il marchese si ammalò di malaria, la malattia si trascinò per alcuni mesi, ed in giugno egli morì. Verso la fine dell’estate la sua vedova diede alla luce un figlio, un erede per il regno, ma un erede che rendeva inevitabile una reggenza. Gli inviati del re percorsero di nuovo l’Europa per trovare un secondo marito per la principessa.20 Gli ambasciatori percorsero l’Europa anche per trovare degli alleati contro Saladino, poiché l’intervallo di calma nella guerra non poteva durare a lungo. Ma i principi dell’Occidente erano totalmente impegnati nelle proprie faccende e neppure Costantinopoli era più in condizioni di fornire lo stesso aiuto di prima. L’anno 1176 aveva segnato una svolta decisiva nella storia di Bisanzio. Il sultano selgiuchida, Kilij Arslan II, era diventato insofferente del dominio dell’imperatore. Finché Nur ed-Din era vissuto, l’aveva tenuto sotto controllo intervenendo in Anatolia nel 1173 per impedire che i Selgiuchidi s’impadronissero delle terre dei Danishmend. Il generale di Nur ed-Din, Abdalmassih, ex ministro di suo fratello Qutb ed-Din a Mosul, restituì Cesarea-Mazacha al danishmend Dhul-Nun ed egli stesso si fermò a Sivas con una guarnigione. Nello stesso tempo al fratello di Kilij Arslan, Shahinshah, veniva riconfermato il possesso di Ankara, dove lo aveva insediato l’imperatore alcuni anni prima. Ma la morte di Nur ed-Din liberò Kilij Arslan da queste remore: alla fine del 1174 Abdalmassih era di ritorno a Mosul, Dhul-Nun e Shahinshah si trovavano in esilio a Costantinopoli e le loro terre erano nelle mani del sultano selgiuchida. Questi si volse allora contro Bisanzio. Nell’estate del 1176 Manuele decise di liquidare una volta per sempre il problema turco. Alcuni modesti successi ottenuti nell’estate precedente lo avevano incoraggiato a scrivere al papa per annunciargli che i tempi erano propizi per una nuova crociata. Ora, egli voleva rendere sicura per sempre la strada che attraversava l’Anatolia; mentre un esercito, agli ordini di suo cugino Andronico Vatatse, veniva inviato attraverso la Paflagonia per riinsediare Dhul-Nun nel suo territorio, Manuele stesso conduceva il grande esercito imperiale, accresciuto di tutti i rinforzi che aveva potuto raccogliere, contro la capitale del sultano, Konya. Informato della spedizione, Kilij Arslan mandò a chiedere la pace, ma ormai Manuele non aveva più fiducia nella sua parola.

Al principio di settembre la spedizione inviata in Paflagonia subì una disastrosa sconfitta davanti alle mura di Niksar e la testa di Vatatse fu mandata come trofeo al sultano. Pochi giorni più tardi l’esercito di Manuele usci dalla valle del Meandro, oltrepassò la fortezza che l’imperatore aveva costruito l’anno prima a Sublaeum e superò l’estremità del lago di Egridir, penetrando nelle colline che precedono la catena montuosa di Sultan Dagh. Pesanti carri che trasportavano macchinari d’assedio e foraggio rallentavano l’avanzata, mentre i turchi avevano devastato la regione che l’esercito doveva attraversare. La strada passava per un passo che i greci chiamavano Tzibritze, alla cui estremità sorgevano le rovine del forte di Miriocefale. Quivi si era radunato l’esercito turco, visibilissimo sul nudo fianco della collina; i più esperti generali di Manuele lo ammonirono a non condurre il suo esercito, così lento nei suoi movimenti, attraverso il difficile passo in presenza del nemico, ma i principi più giovani avevano fiducia nel proprio valore, erano ansiosi di coprirsi di gloria e lo persuasero a proseguire. Il sultano aveva raccolto truppe da tutti i suoi alleati e da tutti i suoi vassalli; il suo esercito era numeroso quanto quello di Manuele, non altrettanto ben armato, ma più mobile. Il 17 settembre 1176 l’avanguardia imperiale si aprì un varco attraverso il passo; i turchi si ritirarono davanti a loro, ma poi girarono tra le colline e caricarono giù per le pendici verso il passo mentre l’esercito imperiale si affollava nella stretta strada. Il cognato dell’imperatore, Baldovino di Antiochia, contrattaccò su per la collina, alla testa di un reggimento di cavalleria, contro il nemico, ma egli e i suoi uomini vennero tutti quanti uccisi. I soldati che si trovavano nella valle videro la sua sconfitta; essi erano talmente ammassati che potevano a mala pena muovere le mani. Un capo ardito avrebbe ancora potuto ristabilire le sorti della giornata, ma a Manuele venne meno il coraggio: egli per primo si lasciò cogliere dal panico e si volse per fuggire fuori dal passo. L’intero esercito tentò allora di seguirlo, ma nel caos i carri da trasporto bloccarono la strada. Pochi dei soldati riuscirono a salvarsi: i turchi, agitando la testa di Vatatse davanti a loro, li massacrarono a loro piacimento finché scesero le tenebre. Allora il sultano inviò un araldo all’imperatore che stava tentando di radunare le sue truppe nel piano e gli offrì la pace a condizione che egli si ritirasse immediatamente e smantellasse le due fortezze, appena costruite, di Sublaeum e di Dorileo. Manuele accettò con gratitudine queste condizioni. La sua avanguardia invitta tornò indietro sana e salva attraverso il passo e si uni ai miseri resti dell’esercito che Manuele riconduceva in patria, continuamente bersagliati da turchi che non potevano capire perché Kilij Arslan fosse stato così generoso. E probabile che il sultano non avesse compreso quanto fosse stata completa la sua vittoria. Il suo interesse principale si trovava in quel momento a oriente e non gli importava nulla di espandersi verso occidente. L’unica cosa che voleva da quella parte era la sicurezza21. Manuele, tuttavia, era ben consapevole del significato del disastro che egli stesso paragonava a quello di Manzikert, avvenuto esattamente un secolo prima.22 La grande macchina da guerra che suo nonno e suo padre avevano costruito era stata improvvisamente distrutta e sarebbero occorsi molti anni per ricostruirla; in realtà non fu mai ricostruita. Rimanevano ancora truppe sufficienti per difendere le frontiere e persino per ottenere alcune modeste vittorie nei successivi tre anni, ma mai più l’imperatore sarebbe stato in condizione di marciare in Siria e di imporre la sua volontà ad Antiochia. Non rimaneva nulla nemmeno del suo grande prestigio che in passato aveva trattenuto Nur ed-Din, al culmine della sua potenza, dal premere troppo contro la cristianità. Il disastro di Miriocefale era quasi altrettanto fatale per i franchi che per Bisanzio. Malgrado tutta la reciproca diffidenza e incomprensione, essi sapevano che l’esistenza del potente Impero era una salvaguardia fondamentale contro il trionfo dell’Islam. Sul momento, mentre il governatore della Siria settentrionale era il debole fanciullo as-Salih, essi non si resero conto dell’importanza della

battaglia, ma quando, tre anni più tardi, Guglielmo di Tiro si recò a Costantinopoli e venne dettagliatamente informato di ciò che era successo, egli comprese quali pericoli si delineavano per il futuro23. Anche se l’esercito di Manuele era stato distrutto, la sua flotta era ancora forte ed egli era pronto a usarla contro Saladino. Una volta ancora, nel 1177, egli promise di inviarla ad appoggiare un attacco franco contro l’Egitto. Durante l’estate erano circolate voci su di una nuova crociata proveniente dall’Occidente; si diceva che sia Luigi VII che Enrico II d’Inghilterra si fossero fatti crociati24. Ma un solo nobile occidentale giunse in Palestina: in settembre, mentre re Baldovino si stava riprendendo da un grave attacco di malaria, Filippo, conte di Fiandra, sbarcò ad Acri con un notevole seguito. Egli era figlio del conte Thierry e di Sibilla d’Angiò e i franchi, ricordando le quattro crociate di suo padre e il devoto amore di sua madre per la Terra Santa, si aspettavano grandi cose da lui. La notizia della sua venuta fece accorrere quattro ambasciatori di alto lignaggio inviati dall’imperatore, i quali offrivano del denaro per una spedizione contro l’Egitto; subito dopo di loro giunse al largo di Acri una flotta bizantina di settanta navi da guerra ben equipaggiate. Re Baldovino, troppo ammalato per andare a combattere personalmente, si affrettò a offrirgli la reggenza se avesse condotto una spedizione in Egitto. Filippo esitò e tergiversò. Dapprima disse che era venuto soltanto per compiere un pellegrinaggio, e poi che non poteva assumersi da solo delle responsabilità simili; e quando il re suggerì che Rinaldo di Châtillon condividesse la direzione con lui, egli criticò il carattere di Rinaldo. Gli fu fatto notare che la flotta bizantina si trovava nelle vicinanze, pronta a collaborare; egli si limitò a chiedere perché mai doveva rendere un favore ai greci. Alla fine rivelò che l’unico scopo per cui era venuto in Palestina era quello di far sposare le sue due cugine, le principesse Sibilla e Isabella, con i due giovani figli del suo vassallo prediletto, Roberto di Béthune. Questo era più di quanto i baroni di Gerusalemme potessero sopportare. «Noi pensavamo che foste venuto a combattere per la croce e invece parlate soltanto di matrimoni», gridò Baldovino di Ibelin quando il conte presentò la sua richiesta davanti alla corte. Contrariato e furibondo Filippo si preparò a ripartire. Il violento alterco aveva scandalizzato gli ambasciatori dell’imperatore; era evidente che non ci sarebbe stata nessuna spedizione contro l’Egitto. Essi attesero circa un mese, poi completamente disgustati se ne andarono con la flotta, per ragguagliare il loro signore sulla incurabile leggerezza dei franchi25. Alla fine di ottobre il conte di Fiandra partì da Gerusalemme, diretto a Tripoli. Forse in quel momento la sua coscienza cominciava a turbarlo, poiché acconsentì ad accompagnare il conte Raimondo in una spedizione contro Hama; re Baldovino forni truppe arruolate nel regno per rafforzarla. Mentre un piccolo contingente razziava il territorio di Homs, con l’unico risultato di cadere poi in un’imboscata e perdere tutto il bottino che aveva raccolto, i due conti assediavano Hama, il cui governatore era gravemente ammalato. Ma quando giunsero delle truppe da Damasco, essi si ritirarono senza aver concluso nulla. Da Tripoli il conte Filippo proseguì per Antiochia e quivi acconsentì ad aiutare il principe Boemondo in un attacco contro la città di Harenc. Questa eraappartenuta all’ex ministro di as-Salih, Gumushtekin, ma poi egli aveva litigato con il suo padrone che lo aveva messo a morte. I suoi vassalli di Harenc si erano perciò rivoltati contro as-Salih, ma all’avvicinarsi dei franchi il loro ammutinamento terminò. Boemondo e Filippo cinsero d’assedio la città, senza molto impegno. I loro tentativi di aprire brecce con le mine non ebbero alcun risultato e, attraverso le loro linee, as-Salih poté inviare un distaccamento a rinforzare la guarnigione. Quando as-Salih inviò dei messi per far loro presente che Saladino, il vero nemico sia di Aleppo che di Antiochia, era di ritorno in Siria, essi acconsentirono a levare l’assedio. Filippo di Fiandra tornò a

Gerusalemme per Pasqua, poi da Lattakieh s’imbarcò su una nave diretta a Costantinopoli.26 Saladino aveva attraversato la frontiera dell’Egitto il 18 novembre. Il suo servizio di spionaggio era sempre eccellente: egli sapeva che l’alleanza franco-bizantina era crollata e che il conte di Fiandra si trovava lontano nel nord. Egli decise di lanciare un improvviso contrattacco contro la Palestina, lungo la costa. Per difendere Gaza i templari convocarono tutti i cavalieri dell’ordine disponibili, ma l’esercito egiziano marciò direttamente su Ascalona. Il vecchio conestabile Honfroi di Toron era gravemente ammalato e il re si era appena rimesso da una malattia. Con le truppe che poté raccogliere, cinquecento cavalieri in tutto, e con il vescovo di Betlemme che portava la Vera Croce, Baldovino si precipitò verso Ascalona ed entrò nella fortezza poco prima che vi giungesse il nemico. Egli aveva ordinato che ogni uomo del regno in condizione di portare le armi lo raggiungesse colà, ma i primi arruolati vennero intercettati da Saladino e fatti prigionieri. Dopo aver lasciato un piccolo contingente a trattenere il re nella città assediata, il generale egiziano proseguì verso Gerusalemme. Ma per una volta tanto, Saladino si mostrò troppo presuntuoso: non rimaneva più nessun nemico fra di lui e la capitale cristiana, per cui allentò la disciplina delle sue truppe e permise loro di vagare per la campagna dandosi al saccheggio. Con il coraggio della disperazione, Baldovino riuscì a mandare un messaggio ai templari, in cui diceva loro di abbandonare Gaza e di raggiungerlo. Quando essi furono vicini, egli si aprì un varco tra le linee degli assediami, usci da Ascalona e a cavallo risalì la costa con tutti i suoi uomini fino ad Ibelin, poi si volse verso l’interno. Il 25 novembre l’esercito egiziano stava attraversando un burrone vicino al castello di Montgisard, alcune miglia a sud di Ramleh, quando all’improvviso i cavalieri franchi si precipitarono loro addosso giungendo da nord. La sorpresa fu completa: una parte delle truppe di Saladino erano lontane, intente a predare, ed egli non ebbe il tempo di radunare quelle che gli restavano. Molte di esse fuggirono prima ancora dello scontro iniziale e Saladino stesso si salvò soltanto grazie alla sua guardia del corpo mamelucca. I reggimenti che rimasero fermi al loro posto vennero quasi del tutto annientati. Fra i cristiani, il re si trovava in prima fila; l’eroismo dei fratelli Ibelin, Baldovino e Baliano, e dei figliastri di Raimondo, Ugo e Guglielmo di Galilea, contribuì alla vittoria, e san Giorgio in persona fu visto combattere al loro fianco. Poche ore dopo l’esercito egiziano fuggiva disperatamente verso il suo paese, abbandonando tutto il bottino e tutti i prigionieri che aveva fatto. I soldati buttarono via persino le proprie armi per scappare più in fretta. Saladino riuscì a ristabilire una parvenza di ordine, ma la traversata del deserto del Sinai fu penosa, con i beduini che prendevano di mira i fuggiaschi quasi del tutto disarmati. Dalla frontiera egiziana Saladino inviò dei messaggeri al Cairo, a dorso di dromedario, per avvertire ogni ribelle potenziale che egli era ancora in vita; e il suo ritorno nella capitale venne annunciato in tutto l’Egitto per mezzo di piccioni viaggiatori. Ma il suo prestigio aveva subito un colpo terribile.27 Era stata una grande vittoria e per il momento aveva salvato il regno. Ma, in fin dei conti, non aveva mutato la situazione: le risorse dell’Egitto erano infinite, mentre invece i franchi continuavano a essere a corto di uomini. Se fosse stato possibile a re Baldovino inseguire il nemico fino in Egitto o lanciare un rapido attacco contro Damasco, avrebbe forse potuto schiacciare la potenza di Saladino, ma senza un aiuto dall’esterno egli non poteva mettere in pericolo il suo piccolo esercito in un’offensiva. Viceversa, egli decise di erigere delle robuste fortificazioni lungo la frontiera damascena, dove la perdita di Banyas aveva sconvolto il sistema difensivo del regno. Mentre Honfroi di Toron fortificava la collina di Hunin, sulla strada da Banyas a Toron, il re si accinse a costruire un castello sull’alto corso del Giordano, tra il lago Huleh e il Mar di Galilea, per

controllare il guado vicino al quale Giacobbe aveva lottato con l’angelo, guado noto anche con il nome di Guado dei Dolori. Dalle due parti, la regione era abitata da contadini e pastori musulmani, alcuni dei quali dovevano obbedienza a Damasco, altri ai cristiani. Essi andavano avanti e indietro liberamente attraverso la frontiera che era indicata soltanto da una grande quercia, e i franchi si erano impegnati a non fortificare mai il passaggio. Baldovino avrebbe desiderato di rimanere fedele al trattato e costruire un castello altrove, ma i templari fecero prevalere la loro volontà. I musulmani del luogo protestarono con Saladino per questa violazione della parola data ed egli offrì a Baldovino dapprima sessantamila, poi centomila monete d’oro perché rinunciasse alla costruzione. Al rifiuto del re, giurò di prendere personalmente delle misure28. Dopo il disastro sofferto a Montgisard egli era rimasto in Egitto per parecchi mesi, finché fu sicuro di avere ogni cosa perfettamente sotto controllo. Nella tarda primavera del 1178 tornò in Siria e trascorse il resto dell’anno a Damasco. Le uniche azioni di guerra dell’anno furono a scopo di incursioni e di difesa da queste29. Più a nord c’era pace tra Antiochia e Aleppo, e un’alleanza tra Antiochia e l’Armenia, il cui principe rinnegato Mleh era stato sconfitto poco dopo la morte di Nur ed-Din da suo nipote Rupen III. Questi era amico dei franchi e aveva collaborato con loro nell’inutile assedio di Harenc30. Anche Boemondo III ricercò l’amicizia dell’imperatore e nel 1177 sposò in seconde nozze una parente di Manuele, di nome Teodora31. Nella primavera del 1179, quando ebbe inizio la migrazione stagionale delle greggi, re Baldovino partì per impadronirsi delle pecore che fossero transitate verso Banyas, provenienti dalle pianure di Damasco. Saladino inviò suo nipote Farukshah per osservare ciò che stava succedendo; questi doveva informare lo zio, per mezzo di piccioni viaggiatori, della direzione presa dai franchi. Il 10 aprile Farukshah attaccò di sorpresa, improvvisamente, il nemico in una stretta valle nella foresta di Banyas. Il re fu colto alla sprovvista e riuscì a liberare i suoi soldati soltanto grazie all’eroismo del vecchio conestabile Honfroi di Toron che resistette ai musulmani con la sua guardia del corpo fino a che l’esercito reale si trovò in salvo. Honfroi fu ferito a morte e spirò nel suo nuovo castello di Hunin il 22 aprile. Perfino i musulmani resero omaggio alle sue qualità morali. La sua morte fu un terribile colpo per il regno, poiché egli era il più anziano uomo politico, l’unico rispettato da tutti. Saladino tentò di proseguire l’azione vittoriosa ponendo l’assedio al castello del Guado di Giacobbe, ma la difesa fu così energica che dopo pochi giorni si ritirò per accamparsi davanti a Banyas. Da quel luogo inviò dei razziatori in Galilea e oltre il Libano per distruggere i raccolti tra Sidone e Beirut. Re Baldovino raccolse tutte le forze del regno e convocò Raimondo di Tripoli perché lo raggiungesse. Essi avanzarono, attraverso Tiberiade e Safed, su Toron, dove vennero informati che Farukshah e una compagnia di predatori stavano tornando dalla costa carichi di bottino. Essi mossero verso nord per intercettarli nella valle di Marj Ayun, la Valle delle Sorgenti, tra il fiume Litani e il corso superiore del Giordano. Ma Saladino, da un posto di osservazione su una collina a nord di Banyas, aveva osservato che le greggi sulla riva opposta del Giordano si stavano sparpagliando spaventate, e si era reso conto che ciò era provocato dal passaggio dell’esercito franco; si diede allora a inseguirlo. Il 10 giugno 1179, mentre le truppe reali sbaragliavano Farukshah a Marj Ayun, il conte Raimondo e i templari si spostavano un po’ più avanti verso il Giordano, ma all’entrata della valle s’imbatterono nell’esercito di Saladino. I templari accettarono subito la battaglia, ma il contrattacco di Saladino li respinse in disordine sulle truppe di Baldovino, che anch’esse a loro volta furono costrette a indietreggiare e dopo poco l’intero esercito cristiano era in fuga. Il re e il conte Raimondo riuscirono ad attraversare il Litani con una parte dei loro uomini e a rifugiarsi nel grande castello di Beaufort, che si elevava sulla sponda occidentale. Tutti i soldati che

rimasero dall’altra parte del fiume vennero massacrati o fatti prigionieri più tardi. Alcuni dei fuggiaschi non si fermarono a Beaufort, ma si precipitarono direttamente verso la costa; sul loro cammino incontrarono Rinaldo di Sidone con le sue truppe locali, ma gli dissero che giungeva troppo tardi, perciò egli se ne tornò indietro, mentre invece, se fosse avanzato fino al Litani, avrebbe potuto salvare molti altri fuggiaschi. Fra i prigionieri di Saladino si trovavano Oddone di Saint-Amand, gran maestro del Tempio, la cui avventatezza era stata la causa principale della rotta, Baldovino di Ibelin e Ugo di Galilea. Ugo venne ben presto riscattato da sua madre, la contessa di Tripoli, per cinquantacinquemila dinari di Tiro. Per Baldovino di Ibelin Saladino chiese centocinquantamila dinari, il riscatto di un re, tanta era l’importanza che gli attribuiva. Dopo pochi mesi questi fu rilasciato in cambio di un migliaio di prigionieri musulmani e della sua promessa di cercare il denaro. Venne fatta la proposta di scambiare Oddone con un importante prigioniero maomettano, ma il gran maestro era troppo orgoglioso per riconoscere che qualcuno potesse valere quanto lui. Rimase in un sotterraneo di Damasco fino alla morte, avvenuta l’anno dopo. Saladino non approfittò della sua vittoria per invadere la Palestina, forse perché era stato informato dell’arrivo in Terra Santa di una grande compagnia di cavalieri provenienti dalla Francia e condotti da Enrico II di Champagne, da Pietro di Courtenay e da Filippo, vescovo di Beauvais. Attaccò invece, il castello di Baldovino al Guado di Giacobbe. Dopo un assedio di cinque giorni, dal 24 al 29 agosto, riuscì a minare le mura e ad aprirsi un varco: i difensori vennero messi a morte e il castello raso al suolo. I visitatori francesi non vollero andare a tentare di salvare il forte, ma se ne tornarono ben presto in patria. Ancora una volta i crociati venuti dall’Occidente si erano mostrati del tutto inutili32. Dopo la fortunata scorreria compiuta in ottobre dalla flotta egiziana contro le forze navali proprio nel porto di Acri e dopo una grande incursione musulmana in Galilea al principio del nuovo anno, re Baldovino mandò a chiedere una tregua a Saladino. Questi acconsenti. C’era stata una terribile siccità per tutto l’inverno e l’inizio della primavera perciò l’intera Siria era minacciata dalla carestia; nessuno desiderava delle scorrerie che avrebbero danneggiato i già scarsi raccolti, e Saladino aveva probabilmente deciso che la conquista di Aleppo dovesse precedere quella di Gerusalemme. Nel maggio del 1180 venne concordata una tregua di due anni, per mezzo di un trattato firmato dai rappresentanti di Baldovino e da quelli di Saladino. Tripoli restava esclusa dalla tregua, ma dopo che la marina egiziana ebbe saccheggiato il porto di Tortosa e che Saladino fu respinto in una scorreria nella Buqaia, questi fece un trattato analogo con Raimondo33. Nell’autunno egli marciò verso nord, in direzione dell’Eufrate, dove il principe ortoqida Nur ed-Din di Hisn Kaifa, che era diventato suo alleato, aveva litigato con Kilij Arslan il Selgiuchida. Nur ed-Din aveva sposato la figlia del sultano, ma la trascurava per una ballerina. Il 2 ottobre 1180 Saladino tenne un congresso vicino a Samosata: erano presenti i principi ortoqidi e delegati di Kilij Arslan, di Saif ed-Din di Mosul e di Rupen di Armenia. Essi giurarono solennemente di mantenere la pace gli uni con gli altri per i successivi due anni34. Re Baldovino approfittò della tregua per tentare di edificare un fronte cristiano contro l’Islam. Guglielmo di Tiro, arcivescovo dal 1175, andò a Roma per partecipare a un concilio in Laterano nel 1179 e durante il viaggio di ritorno si recò in visita a Costantinopoli, negli ultimi giorni dell’anno. L’imperatore Manuele fu cortese e amichevole come sempre, ma Guglielmo si accorse che era un uomo ormai in fin di vita. Egli non si era mai ripreso dal colpo della battaglia di Miriocefale, ma mostrava ancora un grande interesse per la Siria. Guglielmo si trattenne colà per sette mesi: assistette

alle grandi cerimonie organizzate quando la figlia di Manuele, Maria, una zitella di ventotto anni, sposò Ranieri del Monferrato, cognato di Sibilla, e il figlio di Manuele, Alessio, di dieci anni, sposò la principessa Agnese di Francia, di nove anni. L’arcivescovo tornò con dei messi imperiali fino ad Antiochia35. Il principe armeno Rupen era ansioso di rafforzare la propria alleanza con i franchi: al principio del 1181 venne in pellegrinaggio a Gerusalemme e quivi sposò donna Isabella di Toron, figlia di Stefania di Oltregiordano36. Perfino i giacobiti siriani si proclamarono fedeli alla causa comune dei cristiani quando il loro patriarca, lo storico Michele, visitò Gerusalemme ed ebbe un lungo colloquio con il re37. C’erano pure speranze di un alleato dall’Estremo Oriente: dal 1150 circolava per l’Europa occidentale una lettera che si credeva scritta dal gran monarca Prete Gianni all’imperatore Manuele. Sebbene fosse quasi certamente un falso di un vescovo tedesco, i riferimenti che conteneva alla ricchezza e alla devozione del re-prete erano troppo belli per non essere creduti. Nel 1177 il papa inviò il suo medico Filippo con un messaggio in cui chiedeva informazioni ed aiuto. Sembra che Filippo terminasse il suo viaggio in Abissinia, ma non aveva ottenuto nessun risultato concreto38. Dall’Occidente però non era ancora giunto nessun potente cavaliere, nemmeno per accettare l’offerta della mano della principessa Sibilla e la successione al trono. Federico di Tiro, mentre si trovava a Roma, aveva inviato un messaggio a Ugo III di Borgogna, appartenente alla dinastia dei Capetingi, per implorarlo di accettare la candidatura. Ugo dapprima acconsentì, ma poi preferì rimanersene in Francia. Nel frattempo, Sibilla si era innamorata di Baldovino di Ibelin. La famiglia degli Ibelin, anche se di modeste origini, era giunta a una posizione di primo piano fra la nobiltà palestinese. Alla morte di Baliano il Vecchio, fondatore della dinastia, Ibelin stessa era stata data agli Ospitalieri, ma Ramleh era passata al figlio maggiore Ugo e, alla morte di questi, a suo fratello Baldovino che aveva sposato e poi ripudiato, con la comoda scusa della parentela, l’ereditiera di Beisan. Il fratello minore, Baliano, era allora marito della regina Maria Comnena e signore della sua città-doario di Nablus. Baldovino e Baliano erano i più influenti tra tutti i nobili indigeni; e malgrado la genealogia poco aristocratica, il matrimonio di Baldovino con Sibilla sarebbe stato accolto favorevolmente in tutto il paese. Prima che si concordasse il fidanzamento, Baldovino venne catturato a Marj Ayun. Sibilla gli scrisse in prigione per rassicurarlo sul suo amore, ma quando egli fu rilasciato gli disse freddamente che non poteva prendere in considerazione il matrimonio finché egli era ancora debitore di una grossa somma per il suo riscatto. Il discorso era ragionevole, anche se scoraggiante; perciò Baldovino, non sapendo come raccogliere il denaro, si recò a Costantinopoli e lo chiese all’imperatore. Manuele, amante dei gesti generosi, lo pagò tutto quanto e Baldovino se ne tornò trionfante in Palestina, al principio della primavera del 1180, soltanto per scoprire che Sibilla si era fidanzata con un altro39. Donna Agnese non aveva mai nutrito simpatia per i parenti dei suoi vari mariti e aveva una cattiva opinione degli Ibelin. Alcuni anni prima era giunto in Palestina un cavaliere del Poitou, Amalrico, secondogenito del conte di Lusignano. Era un soldato coraggioso e alla morte di Honfroi di Toron venne designato conestabile; circa nello stesso tempo sposò la figlia di Baldovino di Ibelin, Eschiva, ed era pure l’amante di Agnese. In Francia aveva un giovane fratello di nome Guido e con l’appoggio di Agnese cominciò a vantare con Sibilla il bell’aspetto e il fascino del giovanotto finché ella lo pregò di farlo venire in Palestina. Mentre Baldovino si trovava a Costantinopoli, Amalrico si precipitò in tutta fretta in patria per andare a prendere Guido e per istruirlo sulla parte che doveva rappresentare. Sibilla lo trovò bello come le era stato detto e annunciò che intendeva sposarlo. Il re

suo fratello, protestò inutilmente; chiunque poteva rendersi conto che Guido era un ragazzo debole e sciocco. I baroni palestinesi erano furibondi al pensiero di avere in futuro come re quel figlio cadetto di un modesto nobile francese, la cui unica nota caratteristica era di discendere dalla ninfa Melusina. Ma Agnese e Sibilla tormentarono il re ammalato e stanco, finché egli diede il suo consenso: a Pasqua del 1180 Guido sposò Sibilla e ricevette in feudo le contee di Giaffa e di Ascalona40. Per motivi sia politici che privati, gli Ibelin ne furono indignati e la rottura fra loro e i Courtenay, sostenuti da Rinaldo di Châtillon, diventò sempre più profonda. Nell’ottobre del 1180 il re tentò di riavvicinarli fidanzando la sua sorellastra Isabella con Honfroi IV di Toron: Isabella era figliastra di Baliano di Ibelin e Honfroi figliastro di Rinaldo di Châtillon. Inoltre, il fidanzato, quale nipote ed erede del grande conestabile nonché erede presuntivo, da parte di sua madre, del feudo dell’Oltregiordano, era il partito più vantaggioso della nobiltà locale, alla quale il matrimonio doveva riuscire gradito. A causa della giovane età della principessa, che aveva soltanto otto anni, l’effettiva cerimonia venne rimandata di tre anni41. Ma il fidanzamento non recò nulla di buono: pochi giorni più tardi i Courtenay mostrarono il loro potere in occasione della designazione di un nuovo patriarca. Il patriarca Amalrico morì il 6 ottobre; dieci giorni più tardi, il 16, il Capitolo di Gerusalemme, dietro pressioni di donna Agnese, elesse quale suo successore Eraclio, arcivescovo di Cesarea. Questi era un prete appena in grado di leggere e scrivere, originario dell’Alvernia, ma Agnese aveva trovato irresistibile la sua bellezza e con il proprio favore gli aveva procurato costanti avanzamenti. La sua amante del momento era la moglie di un negoziante di tessuti di Nablus, Paschia de Riveri, destinata a diventare ben presto nota in tutto il regno come «Madame la Patriarchesse». Guglielmo di Tiro venne tutto agitato dalla sua diocesi per tentare di impedire l’elezione, ma inutilmente. Gli elettori lo indicarono come alternativa, ma il re, per ordine di sua madre, confermò la designazione di Eraclio.42 Il potere si trovava ora saldamente nelle mani dei Courtenay, dei Lusignano e dei loro alleati, Rinaldo di Châtillon e il nuovo patriarca. Nell’aprile del 1181 essi sferrarono un colpo contro Guglielmo di Tiro che, quale vecchio tutore del re, era pericoloso per loro: con una meschina giustificazione Eraclio lo scomunicò. Dopo inutili tentativi di ricomporre il dissidio, Guglielmo partì per Roma nel 1182 o nel 1183, per perorare la sua causa alla corte papale. Egli vi si trattenne un certo tempo e vi morì: avvelenato, si disse, da un emissario del patriarca43. Poi venne il turno di Raimondo di Tripoli: quando, al principio del 1182, egli si dispose a passare dalla sua contea nel territorio di sua moglie in Galilea, i funzionari del re gli impedirono di entrare nel regno, poiché Agnese e suo fratello Jocelin avevano convinto Baldovino che il conte stava complottando contro la corona. Soltanto dopo furiose proteste dei baroni del regno il re scese a più miti propositi e acconsentì di malavoglia a ricevere Raimondo, che lo persuase della propria innocenza44. Gli intrighi che s’intrecciavano intorno al re lebbroso, ormai morente, sarebbero stati meno pericolosi se la situazione esterna non fosse stata critica. Il 24 settembre 1180, quando l’imperatore Manuele morì a Costantinopoli, i franchi perdettero il loro alleato più potente. Egli aveva nutrito una sincera simpatia per loro e si era adoperato onestamente per il loro bene, eccetto quando questo si era urtato con gli interessi del suo impero. Era stato un uomo brillante e una forte personalità, ma non un grande imperatore poiché la sua ambizione di dominare sulla cristianità lo aveva trascinato in avventure che l’Impero non era più in grado di permettersi. Le sue truppe erano state inviate in Italia e in Ungheria, quando erano necessarie sulla frontiera dell’Anatolia o nei Balcani; aveva usato del suo tesoro come se fosse stato inesauribile. II disastro di Miriocefale fu un colpo mortale per il suo

esercito sottoposto a uno sforzo eccessivo; e, con una lunga serie di concessioni commerciali fatte alle città italiane in cambio di immediati vantaggi diplomatici, egli aveva reso malsicura la vita economica dei suoi sudditi, per cui il tesoro imperiale non si sarebbe mai più rimpinguato. Lo splendore della sua corte aveva abbagliato il mondo, facendogli credere che l’Impero fosse più grande di quel che in realtà era diventato; se egli fosse vissuto più a lungo, la sua flotta ed il suo oro avrebbero potuto essere ancora utili ai franchi. La sua personalità aveva mantenuto unito l’Impero, ma quando morì ne divenne evidente il declino. Egli aveva lottato contro la morte, aggrappandosi risolutamente alle profezie che gli davano altri quattordici anni di vita, e non aveva fatto nulla per combinare la reggenza che sarebbe stata necessaria per suo figlio45. Il nuovo imperatore, Alessio II, aveva undici anni. Secondo i precedenti, stabiliti ormai da lungo tempo, l’imperatrice-madre assunse la reggenza, ma Maria era una principessa latina di Antiochia, la prima latina che governava l’Impero, e come tale era detestata dal popolo di Costantinopoli, che si era anche sempre risentito per la benevolenza di Manuele verso i latini. La lunga serie delle volgari dispute ecclesiastiche ad Antiochia aveva aumentato il rancore dei bizantini; il tumultuoso passaggio dei crociati attraverso il territorio imperiale non era mai stato dimenticato, rimanevano vivi i ricordi dei massacri di Cipro e di altri massacri perpetrati da veneziani, pisani e genovesi. I più odiati di tutti erano i mercanti italiani che si pavoneggiavano per Costantinopoli, soddisfatti del controllo esercitato sul commercio dell’Impero, ottenuto, sovente, lanciando attacchi contro pacifici cittadini delle province. L’imperatrice scelse come consigliere e - si sussurrava - anche come amante, un nipote di suo marito, il protosebasto Alessio Comneno, zio della regina Maria di Gerusalemme. Egli era impopolare e malaccorto; entrambi d’accordo si appoggiarono sull’elemento latino e, soprattutto, i mercanti italiani. L’opposizione contro l’imperatrice era condotta dalla figliastra, Maria Porfirogeneta, e dal marito di lei, Ranieri del Monferrato. Il loro complotto per assassinare il favorito falli, ma quando essi cercarono rifugio nella chiesa di Santa Sofia, egli offese ancor più gravemente i sentimenti del popolo tentando di profanare il santuario. L’imperatrice fu costretta a perdonare i cospiratori, ma sentendosi insicura implorò suo cognato, Bela III di Ungheria, di accorrere in suo aiuto. Il cugino di suo marito, Andronico Comneno, perdonato dopo la sua carriera di seduttore in Oriente, viveva adesso in solitudine nel Ponto. I suoi compatrioti ne ricordavano il coraggio e il fascino; quando i suoi amici avanzarono la sua candidatura a capo della nazione, ci fu una immediata risposta. Nell’agosto del 1182 egli si mise in marcia attraverso l’Anatolia e le poche truppe che non si raccolsero intorno a lui vennero facilmente sconfitte. Ben presto l’imperatrice si trovò abbandonata in Costantinopoli, appoggiata soltanto dai latini. All’avvicinarsi di Andronico al Bosforo, il popolo di Bisanzio si gettò all’improvviso su tutti i latini della città: l’arroganza di costoro aveva provocato il massacro, ma l’evento orribile scandalizzò molti dei bizantini più patrioti. Sopravvissero soltanto alcuni, pochi, mercanti italiani che corsero alle loro navi e salparono verso occidente, predando le coste lungo le quali navigavano. La strada per Costantinopoli era aperta davanti ad Andronico. Il primo atto di costui fu di eliminare i suoi rivali: il protosebasto venne imprigionato e crudelmente accecato; Maria Porfirogeneta e suo marito morirono misteriosamente; poi, l’imperatrice fu condannata a essere strangolata e il suo giovane figlio fu costretto a firmare personalmente l’ordine. Andronico diventò imperatore insieme ad Alessio II, però due mesi più tardi, nel novembre del 1182, anche questi venne assassinato e Andronico, a sessantadue anni, ne sposò la vedova, la dodicenne Agnese di Francia. Eccezion fatta per questa serie di delitti, l’imperatore cominciò il suo regno rettamente: liberò l’amministrazione civile dai funzionari corrotti e da quelli in soprannumero; insistette sulla rigorosa

amministrazione della giustizia; obbligò i ricchi a pagare le tasse e protesse i poveri contro lo sfruttamento. Da secoli le province non erano state così ben governate. Ma Andronico era spaventato, e ne aveva buoni motivi. Molti dei suoi parenti erano gelosi e l’aristocrazia era contraria alla sua politica, mentre gli affari esteri si presentavano in una luce piuttosto minacciosa. Egli si rendeva conto della orribile impressione fatta in Occidente dal massacro del 1182 e si affrettò non soltanto a fare un trattato con Venezia in cui prometteva un indennizzo annuo quale risarcimento per le perdite subite dai veneziani, ma cercò pure di placare il papa costruendo nella capitale una chiesa per i fedeli di rito latino; intanto incoraggiava i mercanti occidentali a tornare. I più importanti nemici di Bisanzio erano, però, l’imperatore Hohenstaufen e il re di Sicilia; e nell'84 ebbe luogo un matrimonio, infausto per l’Impero bizantino, fra il figlio dell’imperatore Federico, Enrico, e la sorella ed erede di Guglielmo II, Costanza. Sapendo che i siciliani l’avrebbero inevitabilmente attaccato ben presto, Andronico desiderava essere tranquillo sulla frontiera orientale. Si rese conto che la potenza di Saladino era in fase ascendente, perciò, rovesciando completamente la politica di Manuele, fece un trattato con il capo musulmano, lasciandogli mano libera contro i franchi in cambio di un’alleanza contro i Selgiuchidi. Sembra che venissero progettate nei dettagli le divisioni delle future conquiste e delle sfere d’influenza. Ma il trattato non diede nessun risultato poiché Andronico, pieno di paura per la propria posizione in Costantinopoli, cominciò a prendere delle misure repressive che aumentarono in crudeltà, finché nessuno nella capitale si sentì più sicuro. Egli non soltanto prese di mira l’aristocrazia, ma anche mercanti e umili operai erano arrestati dalla sua polizia per il più inconsistente sospetto di cospirazione e venivano accecati oppure mandati al patibolo. Quando nell’agosto del 1185 un esercito siciliano sbarcò nell’Epiro e marciò su Tessalonica, Andronico fu colto dal panico. Gli arresti e le esecuzioni in massa spinsero la plebaglia alla rivolta, che scoppiò quando un cugino dell’imperatore, Isacco Angelo, uomo anziano e inoffensivo, riuscì a sfuggire ai suoi carcerieri e a rifugiarsi presso l’altare di Santa Sofia, da dove invocò aiuto. Persino la sua guardia del corpo abbandonò Andronico, il quale tentò invano di fuggire verso l’Asia; ma venne catturato e portato ostentatamente in giro per la città, su un cammello rognoso, poi torturato e fatto a pezzi dal popolo infuriato. Isacco Angelo fu proclamato imperatore: egli ristabilì un certo ordine e fece una pace umiliante con il re di Sicilia, ma come uomo di stato era totalmente inefficiente. L’antico Impero era diventato una potenza di terz’ordine, con scarsa influenza sulla politica mondiale46. Il declino di Bisanzio sconvolse l’equilibrio di poteri in Oriente. I principi di Armenia e di Antiochia ne furono molto soddisfatti e mostrarono il loro sollievo litigando l’uno con l’altro. Alla notizia della morte di Manuele, Boemondo III ripudiò la moglie greca per sposare una licenziosa dama di Antiochia, di nome Sibilla. Il patriarca Aimery non era stato favorevole al matrimonio greco, ma fu scandalizzato dall’adulterio: scomunicò Boemondo, lanciò un interdetto contro la città e si ritirò ancora una volta a Qosair. I nobili di Antiochia odiavano Sibilla, e con ragione, poiché era una spia al soldo di Saladino, da cui riceveva una rendita in cambio di informazioni sulle forze e i movimenti degli eserciti franchi, perciò essi appoggiarono Aimery. Stava per scoppiare una guerra civile quando re Baldovino inviò una delegazione di ecclesiastici, capeggiata dal patriarca Eraclio, perché fungesse da arbitro. In cambio di un compenso in denaro, Aimery acconsentì a levare l’interdetto ma non la scomunica, però a Sibilla venne riconosciuto il titolo di principessa. Molti nobili non erano soddisfatti per l’accordo e fuggirono alla corte di Rupen. I rapporti fra i due principi divennero ancor più complicati alla fine del 1182 quando il governatore bizantino della Cilicia, Isacco Comneno, in rivolta contro Andronico, cercò aiuto presso Boemondo contro Rupen e fece entrare le sue truppe in Tarso. Boemondo cambiò prontamente idea e vendette Tarso e il

governatore a Rupen, poi se ne penti. I templari riscattarono Isacco, con l’intesa che i ciprioti, che condividevano i suoi sentimenti, li avrebbero rimborsati. In seguito a ciò Isacco si ritirò a Cipro, dove s’insediò quale imperatore indipendente e dimenticò il debito. In seguito, Rupen allarmò i suoi vicini facendo sparire il piccolo principato armeno degli Hethumiani, che era sopravvissuto a Lampron, nella parte nord-occidentale della Cilicia, sotto la protezione di Costantinopoli. La sua espansione di potere spaventò Boemondo il quale, nel 1185, lo invitò ad Antiochia a un banchetto di riconciliazione e al momento dell’arrivo lo arrestò. Ma il fratello di Rupen, Leone, terminò la conquista degli Hethumiani e attaccò Antiochia: il principe armeno venne liberato dopo aver ceduto a Boemondo Mamistra e Adana, ma, appena tornato in Cilicia, le riconquistò ben presto e si rese padrone dell’intera provincia. Boemondo condusse diverse vane scorrerie, ma non ottenne nulla47. Questi deplorevoli alterchi tra i principi cristiani minori erano molto utili per Saladino: né Bisanzio e nemmeno i franchi della Siria settentrionale avrebbero ostacolato la sua avanzata o inviato aiuti al regno di Gerusalemme. L’unico stato cristiano che, in Oriente, incuteva rispetto ai musulmani era il lontano regno di Georgia, impegnato in quel momento a ingrandirsi a spese dei principi selgiuchidi dell’Iran, le cui difficoltà facevano molto comodo al sultano48. Per tutte queste circostanze, era essenziale per il regno mantenere la tregua del 1180. Ma Rinaldo di Châtillon, ormai signore dell’Oltregiordano, non poteva capire una politica che si opponesse ai suoi desideri. Secondo le condizioni della tregua, i mercanti cristiani e musulmani potevano transitare liberamente nel territorio gli uni degli altri, ma era una cosa che infastidiva Rinaldo il vedere le ricche carovane musulmane passare indisturbate così vicino a lui. Nell’estate del 1181 cedette alla tentazione e condusse le sue truppe locali verso oriente, a Taima, in Arabia, presso la strada che da Damasco porta alla Mecca. Vicino all’oasi si gettò su una carovana che viaggiava pacificamente verso la Mecca e se la svignò con tutti i loro averi. Pare che avesse persino accarezzato il progetto di proseguire per attaccare Medina, ma Saladino, che si trovava in Egitto, inviò da Damasco nell’Oltregiordano rapidamente una spedizione, al comando di suo nipote Farukshah, ciò che costrinse Rinaldo a tornare precipitosamente a casa. Saladino protestò con re Baldovino per la rottura della tregua e chiese un compenso; il re riconobbe che la pretesa era giusta, ma malgrado le insistenti rimostranze, Rinaldo rifiutò di fare qualsiasi ammenda. Gli amici che aveva a corte lo appoggiarono, finché Baldovino lasciò per debolezza cadere la questione. Ma Saladino non desistette: pochi mesi più tardi un convoglio di millecinquecento pellegrini fu costretto dalle condizioni atmosferiche a sbarcare in Egitto, vicino a Damietta, ignorando che la tregua era stata violata; Saladino li gettò tutti quanti in prigione e fece avvertire Baldovino che li avrebbe liberati non appena fossero state restituite le merci saccheggiate da Rinaldo; ma ancora una volta questi si rifiutò di restituire checchessia. La guerra era ormai inevitabile49. Rinaldo e i suoi amici persuasero il re a concentrare l’esercito reale nell’Oltregiordano, per sorprendere Saladino mentre risaliva dall’Egitto. Gli Ibelin e Raimondo fecero notare invano che questa manovra avrebbe lasciato la Palestina esposta al nemico, se vi si fosse avvicinato. Saladino partì dall’Egitto l’11 maggio 1182; mentre prendeva cerimoniosamente congedo dai suoi ministri, tra la folla una voce pronunciò un verso in cui si diceva che egli non avrebbe mai più rivisto il Cairo: la profezia si dimostrò esatta. Egli condusse il suo esercito ad Akaba, attraverso il deserto del Sinai, poi proseguì per il nord senza incontrare difficoltà, tenendosi ben ad oriente delle truppe franche e distruggendo i raccolti lungo il cammino. Quando giunse a Damasco trovò che Farukshah aveva già razziato la Galilea e saccheggiato i villaggi sulle pendici del Monte Tabor, impadronendosi di ventimila capi di bestiame e di un migliaio di prigionieri. Sulla via del ritorno, Farukshah attaccò la

fortezza di Habis Jaldak, scavata nella roccia sul fiume Yarmuk, oltre il Giordano. Mediante una galleria che fece tagliare nella roccia, la fortezza fu in sua mercè, e la guarnigione, composta da siriani cristiani che non avevano gran desiderio di morire per i franchi, si arrese prontamente. Saladino trascorse tre settimane in Damasco, poi, l’ 11 luglio, partì con Farukshah e un grosso esercito e penetrò in Palestina, passando a sud del Mare di Galilea. Il re, rendendosi conto ora dell’assurdità della sua strategia precedente, era tornato dall’Oltregiordano e stava risalendo la sponda occidentale del fiume, avendo con sé il patriarca e la Vera Croce perché benedicessero le sue armi. I due eserciti si scontrarono sotto il castello degli ospitalieri di Belvoir: nell’aspra battaglia che segui, i franchi resistettero agli attacchi di Saladino, ma i loro contrattacchi non spezzarono le file musulmane; al termine della giornata entrambi i contendenti si ritirarono, ciascuno proclamandosi vincitore50. La battaglia aveva posto un freno alle invasioni di Saladino, ma soltanto temporaneamente. In agosto egli riattraversò la frontiera e si diresse su Beirut con una marcia fulminea attraverso le montagne; nello stesso tempo la sua flotta, richiamata dall’Egitto per mezzo dei piccioni viaggiatori in servizio tra Damasco e il Cairo, apparve davanti alla costa. Ma Beirut era ben fortificata e il suo vescovo, Oddone, organizzò una difesa eroica ed energica, e alla notizia, Baldovino accorse dalla Galilea in tutta fretta con il suo esercito, fermandosi soltanto per radunare le navi che si trovavano nei porti di Acri e di Tiro. Non essendo riuscito a prendere d’assalto la città prima dell’arrivo dei franchi, Saladino si ritirò51. Era giunto per lui il momento di trattare questioni più urgenti. Saif ed-Din di Mosul moriva il 29 giugno ’80, lasciando soltanto dei figli in giovane età. Gli emiri invitarono a succedergli suo fratello Izz ed-Din. Diciotto mesi più tardi, il 4 dicembre 1181, as-Salih di Aleppo moriva improvvisamente per una colica, che tutti quanti attribuirono a veleno: aveva soltanto diciotto anni, era un ragazzo brillante e intelligente che avrebbe potuto diventare un grande uomo di Stato. Sul suo letto di morte egli pregò i suoi emiri di offrire la successione a suo cugino di Mosul, in modo da unire i possedimenti familiari contro Saladino. Izz ed-Din giunse ad Aleppo alla fine dell’anno e ricevette un’entusiastica accoglienza. Vennero dei messaggeri da parte dell’emiro di Hama ad offrirgli obbedienza, ma la tregua di due anni con Saladino non era ancora scaduta e Izz ed-Din rifiutò la loro offerta, più per indolenza che per un sentimento di onore. Era già abbastanza preoccupato, poiché nel febbraio del 1182 suo fratello Imad ed-Din di Sinjar pretese una parte dell’eredità e cominciò a complottare con il comandante dell’esercito di Aleppo, Kukburi. In maggio Izz ed-Din tornò a Mosul e suo fratello gli diede Sinjar in cambio di Aleppo, mentre Kukburi veniva ricompensato con l’emirato di Harran. Quivi egli si mise a complottare con i suoi vicini ortoqidi, i principi di Hisn Kaifa e di Birejik, contro i principi di Aleppo e di Mosul e contro Portoqida Qutb ed-Din di Mardin; i cospiratori chiamarono Saladino in loro aiuto. La tregua tra i governanti musulmani terminava in settembre: il giorno stesso in cui scadeva, Saladino attraversò la frontiera e, dopo un finto attacco contro Aleppo, proseguì oltre l’Eufrate verso Birejik; le città dello Jezireh, Edessa, Saruj e Nisibin, caddero nelle sue mani. Egli si strinse intorno a Mosul e iniziò l’assedio della città il 10 novembre, ma ancora una volta venne ostacolato da fortificazioni troppo robuste per essere prese d’assalto. Il suo capo spirituale, il califfo an-Nasir, scandalizzato per questa guerra tra correligionari musulmani cercò di trattare la pace; intanto il governatore selgiuchida della Persarmenia e il principe di Mardin si preparavano a inviare un esercito di soccorso, perciò Saladino si ritirò verso Sinjar che prese con un assalto, dopo un assedio durato quindici giorni. Per una volta non riuscì a impedire ai suoi soldati di saccheggiare la città, ma rilasciò il governatore e lo inviò, con una scorta d’onore, a Mosul. Izz ed-Din e i suoi alleati uscirono per affrontarlo vicino a

Mardin, ma inviarono innanzi dei messi per proporre una tregua; quando Saladino rispose feroce che li avrebbe incontrati sul campo di battaglia, essi si dispersero e fuggirono verso le loro case. Egli non li insegui, ma si diresse a nord per conquistare Diarbekir, la più ricca e la più grande fortezza dello Jezireh, che custodiva la più bella biblioteca dell’Islam. Egli diede la città al principe di Hisn Kaifa. Dopo aver riorganizzato la regione conquistata e aver insediato in ogni città, quale feudatario, un emiro di sua fiducia, il 21 maggio comparve di nuovo davanti ad Aleppo52. Quando Saladino si era messo in marcia contro di loro, sia Imad ed-Din che Izz ed-Din avevano ricercato l’aiuto dei franchi. Un’ambasceria giunta da Mosul promise loro un sussidio annuo di diecimila dinari, la restituzione di Banyas e di Habis Jaldak e la liberazione di ogni prigioniero cristiano che si fosse trovato in possesso di Saladino, se essi avessero fatto una diversione contro Damasco. Era un momento favorevole, perché pochi giorni dopo l’invasione dello Jezireh, il nipote di Saladino, Farukshah, governatore di Damasco, era morto improvvisamente. In conseguenza di ciò, re Baldovino, accompagnato dal patriarca e dalla Vera Croce, condusse una scorreria attraverso l’Hauran, saccheggiò Ezra e raggiunse Bosra, mentre Raimondo di Tripoli riconquistava Habis Jaldak. Al principio di dicembre del 1182, Raimondo guidò attraverso lo Hauran un’incursione di cavalleggeri che penetrarono di nuovo fino a Bosra e pochi giorni più tardi l’esercito regio si mise in marcia contro Damasco e si accampò nei sobborghi, a Dareiya, dove esisteva una famosa moschea; Baldovino la risparmiò dopo aver ricevuto una delegazione dei cristiani di Damasco i quali venivano ad avvertirlo che sarebbero state compiute delle rappresaglie contro le loro chiese se la moschea veniva danneggiata. Il re non tentò di attaccare la città vera e propria e si ritirò quasi subito, carico di bottino, per trascorrere il Natale a Tiro. Egli progettò un’altra campagna per la primavera, ma al principio dell’anno nuovo cadde gravemente ammalato di febbri, a Nazaret e per alcune settimane giacque tra la vita e la morte; la sua malattia obbligò l’esercito a rimanere inattivo53. Più a nord, Boemondo III non era in condizione di prendere nessuna iniziativa contro Saladino: inviò dei messi all’accampamento davanti ad Aleppo e concluse con lui una tregua di quattro anni, ciò che gli permise di riparare le fortificazioni della sua capitale54. Ad Aleppo, Imad ed-Din non fece grandi sforzi per opporsi a Saladino, anzi, quando questi si offrì di dargli quale feudo, la sua antica patria di Sinjar insieme con Nisibin, Saruj e Rakka, egli accondiscese con piacere, anche perché ad Aleppo era impopolare. Il 12 giugno 1183 Saladino prese possesso della città: cinque giorni più tardi Imad ed-Din partiva per Sinjar, con una scorta d’onore, ma deriso dalle folle della città che abbandonava così facilmente. Il 18 giugno Saladino fece il suo ingresso ufficiale e penetrò a cavallo nel castello55. Il 24 agosto il sultano tornò a Damasco, destinata a diventare la sua capitale56. Il suo impero si estendeva ora dalla Cirenaica al Tigri: per più di due secoli non c’era stato un principe musulmano così potente: dietro di sé egli aveva la ricchezza dell’Egitto. Le grandi città di Damasco e di Aleppo erano governate direttamente da lui; intorno ad esse e verso nord-est, fino alle mura di Mosul, c’erano dei feudi militari ed egli poteva avere piena fiducia nei suoi feudatari; il califfo di Bagdad lo appoggiava, Izz ed-Din di Mosul era intimorito, il sultano selgiuchida dell’Anatolia ne ricercava l’amicizia, mentre i principi selgiuchidi dell’Oriente non erano in condizione di opporglisi. L’Impero cristiano di Bisanzio non rappresentava più un pericolo per lui; restavano ormai soltanto da eliminare gli intrusi stranieri il cui possesso della Palestina e del litorale siriano era una vergogna costante per l’Islam.

Capitolo secondo I Corni di Hattin

La nostra fine è prossima, ... i nostri giorni son compiuti, la nostra fine è giunta. Lamentazioni, IV, 18

Quando re Baldovino si alzò, dopo la malattia che l’aveva prostrato a Nazaret, apparve evidente che non era più in grado di governare il paese: la febbre aveva aggravato la lebbra, egli aveva perso l’uso delle braccia e delle gambe, che cominciavano a decomporsi, e anche la vista gli si era molto indebolita. Sua madre, sua sorella Sibilla e il patriarca Eraclio gli stavano di guardia intorno e lo persuasero ad affidare la reggenza al marito di Sibilla, Guido di Lusignano. Questi doveva avere un controllo completo sul regno, con l’unica eccezione della città di Gerusalemme che il re conservava per sé personalmente insieme con una rendita di diecimila bisanti. I baroni del reame accettarono riluttanti la decisione del sovrano.1 Quando vennero prese queste deliberazioni Rinaldo di Châtillon era assente. Alla notizia che Saladino, nell’autunno del 1182, era partito per il nord, egli mise in esecuzione un progetto che aveva in mente da molto tempo: varare una squadra navale nel Mar Rosso per razziare le ricche carovane marittime dirette alla Mecca e attaccare niente di meno che la Città Santa dell’Islam. Verso la fine dell’anno egli discese ad Aila, all’estremità del golfo di Akaba, trasportando delle galee che aveva costruito con alberi di alto fusto delle foreste di Moab e che aveva collaudato nelle acque del Mar Morto. Aila, che apparteneva ai musulmani fin dal 1170, cadde nelle sue mani, ma la fortezza che si trovava sull’isola vicina, l’Ile de Graye degli storici franchi, resistette e Rinaldo si fermò con due delle sue navi per assediarla. Il resto della flotta proseguì allegramente, pilotata da pirati del luogo. Costeggiarono la sponda africana del Mar Rosso, predando le piccole città costiere davanti a cui passavano e, infine, attaccando e saccheggiando Aidib, il grande porto della Nubia, dirimpetto alla Mecca. Quivi catturarono navi mercantili, cariche di merci preziose, giunte da Aden e dall’India, e un gruppo da sbarco depredò un’immensa, indifesa carovana che era giunta dalla valle del Nilo attraverso il deserto. Da Aidib i corsari attraversarono il mare verso la costa araba: incendiarono le navi che si trovavano ad al-Hawra e a Yambo, i porti di Medina, poi penetrarono fino a ar-Raghib, uno dei porti della Mecca vera e propria, vicino alla quale affondarono una nave di pellegrini diretta a Jedda. Tutto il mondo musulmano era orripilato, e persino i principi di Aleppo e di Mosul, che si erano rivolti ai franchi per aiuto, si vergognarono di avere degli alleati capaci di progettare un simile oltraggio alla fede. Il fratello di Saladino, Malik al-Adil, governatore dell’Egitto, corse ai ripari: inviò all’inseguimento dei franchi l’ammiraglio egiziano. Husam ed-Din Lulu, con una flotta equipaggiata con marinai magrebini dell’Africa settentrionale. Lulu liberò dapprima il castello di Grave e riconquistò Aila, da cui Rinaldo si era già ritirato, poi raggiunse la flotta corsara al largo di al-Hawra, la distrusse e catturò quasi tutti gli uomini che si trovavano a bordo. Alcuni di essi vennero inviati alla Mecca, per essere giustiziati secondo il rito sulla piazza del Sacrificio a Mina, durante il prossimo pellegrinaggio. Tutti gli altri vennero condotti al Cairo, dove furono decapitati.

Saladino giurò solennemente che Rinaldo non sarebbe mai stato perdonato per quel tentato oltraggio.2 Il 17 settembre 1183 Saladino partì da Damasco con un grosso esercito per invadere la Palestina; il 29 attraversò il Giordano, poco a sud del Mar di Galilea ed entrò in Beisan, i cui abitanti cercarono scampo tra le mura di Tiberiade. Alla notizia della sua venuta, Guido di Lusignano convocò tutte le truppe del regno, rafforzate dai due ricchi crociati di passaggio Goffredo III duca di Brabante, e l’aquitano Rodolfo di Mauléon e dai loro uomini. Con Guido c’erano Raimondo di Tripoli, il gran maestro dell’Ospedale, Rinaldo di Châtillon, i fratelli Ibelin, Rinaldo di Sidone e Gualtiero di Cesarea. Il giovane Honfroi IV di Toron venne dall’Oltregiordano per congiungersi a loro insieme con le truppe del suo patrigno, ma sulle pendici del Monte Gilboa cadde in un’imboscata tesa dai musulmani e i suoi uomini vennero in gran parte trucidati. Quindi Saladino inviò dei distaccamenti per conquistare e distruggere tutti i piccoli forti dei dintorni, mentre altri saccheggiavano il convento greco che si trovava sul Monte Tabor, ma non riuscirono ad aprirsi un varco nelle robuste mura del monastero latino costruito sulla sommità. Egli stesso si accampò con il grosso del suo esercito vicino alla fontana di Tubaniya, sul luogo dove sorgeva l’antica città di Jezreel.

IX. La Galilea.

I franchi si erano radunati a Seforia e avanzarono nella piana di Jezreel il 1° dicembre; l’avanguardia venne immediatamente attaccata dai musulmani, ma l’arrivo tempestivo degli Ibelin e delle loro truppe la salvò. I cristiani fissarono il campo vicino agli Stagni di Golia, dirimpetto a Saladino, il quale, allora, estese le sue ali in modo da circondarli quasi completamente. Per cinque giorni i due eserciti rimasero fermi; per i cristiani era difficile ricevere rifornimenti e dopo un giorno o due i mercenari italiani cominciarono a lamentarsi per la fame; soltanto la provvidenziale scoperta di pesce negli Stagni di Golia salvò l’esercito dall’inedia. La maggior parte dei soldati, e con essi i cavalieri giunti dalla Francia e lo sfrenato Rinaldo, desideravano attaccare i musulmani; Guido esitava, timoroso, ma Raimondo e gli Ibelin insistettero energicamente che provocare a battaglia un nemico tanto superiore di numero era troppo rischioso: l’esercito doveva rimanere sulla difensiva. Avevano ragione, Saladino infatti tentò diverse volte di attirarli al combattimento, ma non riuscendovi levò l’accampamento l’8 ottobre, e si ritirò al di là del Giordano3. La condotta di Guido aveva scandalizzato sia i soldati che lo credettero un codardo, sia i baroni che lo sapevano un debole. Al suo ritorno a Gerusalemme ebbe una lite con il re: Baldovino aveva l’impressione che il clima di Tiro gli avrebbe fatto meglio delle ventose alture di Gerusalemme, perciò chiese a suo cognato di concordare uno scambio fra le due città. Guido accolse sgarbatamente la richiesta, al che Baldovino, in un accesso di iraconda energia, convocò i suoi principali vassalli e, dietro loro consiglio, destituì Guido dalla reggenza e in sua vece, il 23 marzo 1183, proclamò erede suo nipote Baldovino, un fanciullo di sei anni nato dalle prime nozze di Sibilla, e tentò di persuadere sua sorella ad annullare il matrimonio. Nel frattempo, sebbene non potesse muoversi senza aiuto e non potesse neppur più tracciare la propria firma, assunse di nuovo personalmente il governo. Guido replicò ritirandosi nella sua contea di Ascalona e di Giaffa e di qui liberarsi da ogni vincolo di obbedienza al sovrano. Baldovino s’impadronì di Giaffa che pose sotto l’autorità diretta della corona, ma da Ascalona Guido lo sfidò. Invano il patriarca Eraclio, il gran maestro del Tempio e quello dell’Ospedale intercedettero a favore del ribelle: il re perse la calma con loro e li bandi dalla corte. Li aveva convocati per ordinare loro di andare a predicare una crociata nell’Europa occidentale, ma trascorsero alcuni mesi prima che, stando così le cose, essi acconsentissero a partire.4 Il consesso di nobili che aveva consigliato al re di deporre Guido era composto di Boemondo di Antiochia, Raimondo di Tripoli, il signore di Cesarea ed i due Ibelin; non era intervenuto il signore dell’Oltregiordano. Era ormai giunto il momento di celebrare il matrimonio tra la principessa Isabella, di undici anni, e Honfroi di Toron, di circa diciassette. Rinaldo decise che la cerimonia avrebbe avuto luogo, con tutta la pompa possibile, al castello di Kerak, di cui lo sposo era l’erede. Durante il mese di novembre gli invitati cominciarono ad affluire nella fortezza. Molti di essi, come la madre della sposa, la regina Maria Comnena, erano nemici personali di Rinaldo, ma vennero in un estremo tentativo di sanare il contrasto fra le opposte fazioni. Con gli ospiti giunsero, da tutto l’Oriente cristiano, giocolieri, danzatori, prestigiatori e musici, ma i festeggiamenti vennero interrotti all’improvviso dalla terribile notizia che Saladino stava avvicinandosi con il suo esercito. La distruzione di Kerak e del suo empio signore occupava un posto di primo piano fra gli ambiziosi progetti di Saladino; finché Rinaldo occupava quel grande castello, poteva intercettare tutto il traffico che tentava di transitare tra la Siria e l’Egitto, e l’esperienza aveva dimostrato come nessun trattato potesse impedirglielo. Il 20 novembre dei rinforzi provenienti dall’Egitto si unirono a Saladino, e si accamparono davanti alle mura. I contadini e i pastori della campagna circostante, siriani cristiani, misero in salvo le loro greggi dentro la città e molti si rifugiarono nei cortili del castello. Saladino attaccò subito la parte bassa dell’abitato dove riuscì ad aprirsi un varco; Rinaldo

riuscì a salvarsi, ritirandosi nel castello, soltanto grazie all’eroismo di uno dei suoi cavalieri che difese da solo il ponte sul fossato tra la città e la cittadella, finché lo si poté distruggere alle sue spalle. Con una bella dimostrazione di coraggio, nel forte continuarono i festeggiamenti per il matrimonio e mentre venivano scagliati sassi contro le mura, all’interno proseguivano canti e danze. Donna Stefania, madre dello sposo, preparò con le proprie mani dei piatti con pietanze del festino nuziale e li inviò a Saladino. Questi, in cambio, chiese in quale torre fosse alloggiata la giovane coppia e ordinò che non venisse bombardata dalle macchine d’assedio; ma altrimenti non risparmiò i suoi sforzi: i nove grossi mangani erano continuamente in azione mentre gli operai colmarono quasi completamente il fossato. Alcuni messaggeri si erano precipitati a Gerusalemme per implorare l’aiuto del re; egli convocò l’esercito reale e lo pose agli ordini del conte Raimondo, ma insistette per venire anche lui con i suoi uomini, in lettiga. Essi oltrepassarono in tutta fretta Gerico e risalirono la strada presso il Monte Nebo: al loro avvicinarsi Saladino levò l’assedio, anche perché le sue macchine avevano avuto poco effetto contro le robuste mura della fortezza, e il 4 dicembre si ritirò verso Damasco. Il re venne portato in trionfo a Kerak e gli invitati a nozze si trovarono liberi di tornare a casa5. Una tale esperienza non aveva posto fine alle loro discordie, delle quali, più di tutti, avrebbe sofferto la giovane sposa; sua suocera infatti, senza dubbio su richiesta di Rinaldo, le proibì di vedere sua madre e questa, tutta dedita a intrighi di partito cari al suo sangue greco, la considerava quasi una traditrice. Soltanto il marito era cortese con lei: Honfroi di Toron era un giovane di straordinaria bellezza e di grande cultura, con gusti più confacenti a una donna che a un uomo, ma era gentile e pieno di riguardi verso la sua moglie-bambina; ed ella lo amava.6 L’autunno successivo Saladino marciò di nuovo contro Kerak, con un esercito a cui avevano inviato contingenti anche i suoi vassalli ortoqidi, ma ancora una volta le enormi fortificazioni si dimostrarono troppo robuste per lui. Non poté indurre i difensori a uscire per combattere sulle pendici ai piedi della città e, ancora una volta, all’avvicinarsi di un esercito da Gerusalemme egli si ritirò nel proprio territorio, lasciando soltanto un distaccamento per razziare la Galilea e per predare la regione fino a Nablus. Saladino ritornò a Damasco: c’era ancora molto da fare per riorganizzare il suo impero e non era ancora veramente giunto il momento favorevole per eliminare i cristiani7. A Gerusalemme, il re lebbroso teneva le redini del governo nelle proprie mani ormai in disfacimento; Guido occupava sempre Ascalona e si rifiutava di far entrare nella città i funzionari reali. Ma i suoi amici, il patriarca e i gran maestri, erano nella lontana Europa, dove tentavano invano di impressionare l’imperatore Federico, re Luigi e re Enrico con l’elenco dei pericoli che incombevano sull’Oriente cristiano. I monarchi occidentali li ricevevano con tutti gli onori e discutevano i progetti per una grande crociata, ma ognuno avanzava delle scuse per spiegare come mai non poteva intervenire personalmente. Tutto ciò che la missione diplomatica ottenne fu che alcuni cavalieri prendessero individualmente la croce8. Nell’autunno del 1184 Guido fece di nuovo andare in collera suo cognato: dopo la conquista di Ascalona da parte dei cristiani era stato concesso ai beduini del distretto, dietro pagamento di un piccolo tributo al re, di spostarsi a piacimento per pascolare le greggi, ma Guido, seccato perché il tributo veniva riscosso dal re e non da lui, un giorno si gettò loro addosso, li massacrò e s’impadronì del bestiame9. Baldovino era ormai costretto a letto, senza speranze di rialzarsi più. Egli si rese conto di quanto funesta fosse stata l’influenza di sua madre e degli amici di lei e fece chiamare suo cugino Raimondo di Tripoli perché s’incaricasse dell’amministrazione. Nel frattempo si preparava a morire. Al

principio del 1185 espose davanti a un’assemblea di nobili le sue ultime volontà: doveva succedergli sul trono il nipotino; ma per espresso desiderio dell’assemblea Guido non doveva avere la reggenza, che doveva invece essere assegnata a Raimondo di Tripoli; questi avrebbe avuto Beirut quale ricompensa per i suoi servizi. Ma Raimondo rifiutò la tutela sulla persona del piccolo re per timore che il ragazzino, il quale sembrava delicato, morisse in giovane età ed egli venisse accusato di averne affrettato la morte. In considerazione dello stato di salute del ragazzo, i baroni giurarono inoltre che, se egli fosse morto prima di aver raggiunto l’età di dieci anni, il conte Raimondo avrebbe conservato la reggenza finché i quattro grandi sovrani dell’Occidente, il papa, l’imperatore germanico e i re di Francia e di Inghilterra, avessero fatto da arbitri fra le pretendenti principesse Sibilla e Isabella. Nel frattempo, in un ultimo tentativo di riavvicinare le fazioni contendenti, la tutela personale del ragazzo veniva affidata al prozio Jocelin di Courtenay, che da quel momento cominciò a manifestare una cordiale amicizia verso Raimondo10. Tutti i baroni che si erano radunati giurarono di adempiere i desideri del re; in mezzo a loro c’era anche il patriarca Eraclio, appena tornato dall’Occidente, con il gran maestro dell’Ospedale, Ruggero di Les Moulins. Il gran maestro del Tempio, Arnoldo di Toroga, era morto durante il viaggio; l’ordine aveva eletto quale suo successore, dopo una tempestosa discussione, l’antico nemico di Raimondo, Gerardo di Ridfort, ma anche costui aveva dato la sua approvazione alla volontà del re. Il bambino venne portato nella chiesa del Santo Sepolcro e quivi, tenuto in braccio da Baliano di Ibelin, fu incoronato dal patriarca11. Poche settimane più tardi, nel marzo del 1185, la morte liberava Baldovino IV dai dolori della sua lunga malattia. Aveva soltanto ventiquattro anni; fu senza dubbio il più infelice di tutti i re di Gerusalemme. Di abilità indiscussa e di un coraggio meraviglioso, non poteva però dal suo letto di malato controllare gli intrighi che si intrecciavano intorno a lui e aveva ceduto troppo spesso alle pressanti insistenze della madre malvagia e della sorella sciocca. Gli venivano almeno risparmiate le umiliazioni finali che stavano per abbattersi sul regno12. Dopo che il misero cadavere del re fu sepolto nella chiesa del Santo Sepolcro, Raimondo, in qualità di reggente, convocò ancora una volta i nobili per chiedere loro quale politica dovesse seguire. Le piogge invernali non erano cadute e incombeva una minaccia di carestia. L’unico crociato arrivato in Oriente era l’anziano marchese Guglielmo del Monferrato, nonno del re-bambino, il quale, dopo essersi convinto che ogni cosa proseguiva in modo soddisfacente per il nipotino, si stabilì tranquillamente in un feudo della Galilea. Suo figlio Corrado, zio del re, si mise in cammino per seguirlo, ma durante il viaggio si fermò a Costantinopoli, dove alcuni anni prima era perito suo fratello Ranieri, e offrì il proprio aiuto al vendicatore di Ranieri, l’imperatore Isacco Angelo, di cui sposò la sorella dimenticandosi del nipote e della Palestina. Era evidente per tutti i baroni riuniti a Gerusalemme che finché non fosse giunta una nuova, grande crociata, il paese affamato non poteva affrontare una guerra, perciò approvarono la proposta di Raimondo di tentare di ottenere da Saladino una tregua di quattro anni. Questi da parte sua era ben disposto: c’era stata una disputa fra i suoi parenti rimasti in Egitto che esigeva una sistemazione ed egli era stato informato che Izz ed-Din di Mosul era di nuovo recalcitrante. Venne firmato il trattato e ristabilito il commercio fra gli Stati franchi e i loro vicini; e un abbondante arrivo di grano dall’Oriente salvò i cristiani dalla fame13. Nell’aprile del 1185 Saladino si mise in marcia verso il nord e il 15 attraversò l’Eufrate a Birejik, dove venne raggiunto da Kukburi di Harran e da inviati dei vassalli di Izz ed-Din, i signori di Jezireh e di Irbil. Izz ed-Din mandò delle ambascerie ai sovrani selgiuchidi di Konya e di

Persarmenia: quest’ultimo inviò alcune truppe in suo aiuto, mentre il primo spedì un messaggio minaccioso a Saladino, ma non intraprese nessuna azione. In giugno questi si trovava davanti a Mosul e rifiutò tutte le offerte di pace di Izz ed-Din, anche quando l’anziana madre del principe venne a supplicarlo di persona. Ma Mosul era ancora una fortezza troppo formidabile e le sue truppe cominciavano ad ammalarsi per il calore estivo. Quando in agosto morì improvvisamente il sultano selgiuchida di Persarmenia, Soqman II, Saladino si mosse verso nord per conquistare le città vassalle del sultano, Diarbekir e Mayyafaraqin, e per far riposare i suoi uomini nell’aria più fresca degli altipiani. Quivi anch’e-gli s’ammalò e a cavallo, quasi moribondo, si diresse al castello del suo amico Kukburi, a Harran. Suo fratello al-Adil, allora governatore di Aleppo, giunse in tutta fretta con i migliori medici del Levante, ma non poterono fare nulla. Credendo che la sua fine fosse ormai prossima e sapendo che tutti i suoi parenti stavano complottando per ottenere l’eredità, Saladino impose agli emiri di giurare obbedienza ai suoi figli; poi, inaspettatamente, cominciò a migliorare e nel gennaio 1186 era ormai fuori pericolo. Alla fine di febbraio ricevette un’ambasceria di Izz edDin e acconsentì a fare la pace. Con un trattato firmato dagli ambasciatori il 3 marzo, Izz ed-Din diventò vassallo di Saladino e venne confermato nei propri possedimenti, ma le terre oltre il Tigri, a sud di Mosul, incluse Arbil e Shahrzur, furono date a emiri designati da Saladino e che gli dovevano obbedienza diretta; la loro presenza garantiva la fedeltà di Izz ed-Din14. Intanto Saladino si trovava a Homs, dove era emiro suo genero Nasr ed-Din, figlio di Shirkuh. Costui aveva complottato, durante la malattia del suocero, per impadronirsi del trono di Siria, perciò nessuno si sorprese quando venne trovato cadavere nel proprio letto, il 5 marzo, dopo aver celebrato la Festa delle Vittime. La successione a Homs venne data al figlio del defunto, Shirkuh II, un ragazzo di dodici anni. Saladino confiscò buona parte del suo denaro, ma il ragazzo citò opportunamente un brano del Corano in cui si minacciano tormenti a coloro che derubano gli orfani e riuscì a farselo restituire. In aprile Saladino era di ritorno a Damasco; il suo impero si estendeva ormai, saldamente, fino ai confini della Persia15. La tregua tra i cristiani e i musulmani stava riportando una certa prosperità in Palestina; il commercio fra l’interno e i porti di Acri e di Tiro era stato ripreso con grande intensità, con vantaggio dei mercanti delle due religioni. Se la pace poteva durare finché dall’Occidente giungesse qualche grande crociata, rimaneva ancora una speranza di avvenire per il regno, ma il destino si mostrò di nuovo crudele verso i cristiani: intorno alla fine di agosto del 1186 re Baldovino V moriva ad Acri, prima di aver compiuto i nove anni16. Il reggente Raimondo e il siniscalco Jocelin erano entrambi presenti al suo letto di morte. Fingendosi ansioso di collaborare con Raimondo, Jocelin lo persuase ad andare a Tiberiade e a invitare i baroni del reame a raggiungervelo, lontano dai complotti del patriarca, per adempiere quanto disposto dalle ultime volontà di Baldovino IV. Egli avrebbe intanto trasportato a Gerusalemme il piccolo cadavere per la sepoltura. Raimondo cadde nella trappola e partì in buona fede, ma appena se ne fu andato, Jocelin mandò truppe di sua completa fiducia a occupare Tiro e Beirut, mentre egli se ne rimaneva ad Acri, dove proclamò Sibilla regina. Spedì il corpo del re a Gerusalemme, affidandolo ai templari, e i suoi messaggeri convocarono da Ascalona Sibilla e Guido perché partecipassero ai funerali; Rinaldo di Châtillon giunse in tutta fretta da Kerak per unirsi a loro. Raimondo scoprì di essere stato giocato e si diresse a Nablus, al castello di Baliano di Ibelin, dove, quale legittimo reggente del regno, convocò l’alta corte dei nobili. Tutti i suoi sostenitori si affrettarono a raggiungerlo: con Baliano e sua moglie, la regina Maria, c’erano la figlia di lei,

Isabella, e Honfroi di Toron, Baldovino di Ramleh, Gualtiero di Cesarea, Rinaldo di Sidone e tutti i vassalli della corona, a eccezione di Rinaldo di Châtillon. Mentre si trovavano a Nablus ricevettero un invito da parte di Sibilla di assistere alla sua incoronazione. Essi replicarono mandando a Gerusalemme quali inviati due monaci cistercensi, per ricordare ai cospiratori il giuramento prestato a re Baldovino IV e per impedire che venisse intrapresa qualsiasi azione finché la corte non avesse emanato le proprie deliberazioni. Ma Sibilla occupava Gerusalemme e i porti di mare; le truppe del siniscalco Jocelin e del conestabile Amalrico, fratello di Guido, erano dalla sua parte e Rinaldo aveva condotto i suoi uomini dall’Oltregiordano; il patriarca Eraclio, antico amante di sua madre, le garantiva l’appoggio dell’organizzazione ecclesiastica; il gran maestro del Tempio, Gerardo di Ridfort, avrebbe fatto qualsiasi cosa per importunare il suo vecchio nemico Raimondo. In Gerusalemme, soltanto il gran maestro dell’Ospedale rimaneva fedele al giuramento prestato, invece il popolo della città simpatizzava per Sibilla: ella rappresentava il diritto ereditario e, sebbene il trono fosse ancora nominalmente elettivo, i diritti dell’erede non potevano essere facilmente ignorati. Al tempo dei divorzio di sua madre, la legittimità di Sibilla era stata confermata, suo fratello era stato re e così pure suo figlio; il suo unico svantaggio era d’avere un marito detestato e disprezzato. Il patriarca e i templari sprangarono le porte di Gerusalemme e collocarono sentinelle per impedire ogni eventuale attacco da parte dei baroni riuniti a Nablus, poi presero le disposizioni necessarie per l’incoronazione. Le insegne reali erano conservate in un cofano con tre serrature le cui chiavi erano affidate al patriarca e ai due gran maestri, una ciascuno. Ruggero dell’Ospedale rifiutò di consegnare la propria chiave, per non prestarsi a un atto che considerava contrario al giuramento fatto, ma alla fine, con un gesto di disgusto, la scagliò fuori dalla finestra. Né lui, né alcuno dei suoi cavalieri avrebbe preso parte alla cerimonia, che venne celebrata appena tutto fu pronto. A causa dell’impopolarità di Guido, il patriarca incoronò soltanto Sibilla, ma una seconda corona venne collocata al suo fianco, ed Eraclio, dopo la cerimonia, le ordinò di adoperarla per incoronare l’uomo che ella considerasse degno di governare il regno. Ella chiamò Guido perché le si avvicinasse e s’inginocchiasse davanti a lei e gli collocò la corona in capo. Quindi tutti i presenti resero omaggio al nuovo re e alla regina. Mentre uscivano dalla chiesa, Gerardo di Ridfort esclamò ad alta voce che quella corona lo risarciva per il matrimonio di Botrun. Davanti al fatto compiuto dell’incoronazione, l’alta corte di Nablus poteva fare poco. Baldovino di Ibelin si alzò nell’assemblea per dire che egli non sarebbe mai rimasto in un paese che doveva essere governato da un simile re e consigliò a tutti i baroni di fare altrettanto, ma Raimondo rispose che tutto non era ancora perduto. Essi avevano dalla loro parte, egli disse, la principessa Isabella e suo marito Honfroi di Toron, bisognava farli incoronare e condurli a Gerusalemme. I loro rivali non avrebbero potuto resistere contro gli eserciti uniti di tutti i baroni, con la sola eccezione di Rinaldo di Châtillon, e l’appoggio dell’Ospedale. Raimondo aggiunse che, finché era lui reggente, poteva garantire che Saladino avrebbe osservato la tregua. I baroni si trovarono d’accordo e giurarono di sostenerlo, anche se ciò poteva significare la guerra civile. Ma avevano fatto i conti senza uno dei principali protagonisti: Honfroi era terrorizzato al pensiero di ciò che il destino aveva in serbo per lui e non desiderava affatto diventare re. Immediatamente, partì inosservato da Nablus e galoppò fino a Gerusalemme, dove chiese di essere ricevuto da Sibilla. Ella dapprima lo trattò con disdegno, ma quando se lo vide timido davanti a grattarsi la testa, diventò meno rigida e gli permise di raccontare la sua storia. Lo ascoltò benevolmente e lo accompagnò personalmente alla presenza di Guido, a cui egli rese omaggio17. La defezione di Honfroi sconfisse i baroni. Raimondo li sciolse dal giuramento e uno dopo l’altro

essi si recarono a Gerusalemme a offrire di sottomettersi a Guido. Perfino Baliano di Ibelin, il più rispettato di tutti, si rese conto che ormai non c’era altro da fare, ma suo fratello Baldovino confermò la propria decisione di abbandonare il regno piuttosto che accettare Guido; Raimondo di Tripoli si ritirò nelle terre di sua moglie in Galilea, giurando che anch’egli non avrebbe mai reso omaggio al nuovo re. Egli avrebbe accettato lealmente Isabella come regina, ma la codardia di Honfroi lo convinse che ormai era lui il solo candidato degno del trono18. Poco dopo re Guido tenne la sua prima assemblea di baroni, ad Acri. Raimondo non si fece vedere e Guido annunziò che Beirut, governata da Raimondo in qualità di reggente, gli veniva tolta; inoltre gli mandò a dire di render conto del pubblico denaro che aveva speso durante il periodo di reggenza. Baldovino di Ibelin, che era presente, venne chiamato a rendere omaggio da Rinaldo di Châtillon, che stava in piedi a fianco del re, ma egli rivolse al sovrano soltanto un saluto formale, dicendogli che lasciava le proprie terre di Ramleh a suo figlio Tommaso, il quale gli avrebbe reso omaggio quando avesse avuto l’età; in quanto a sé, non lo avrebbe mai fatto. Pochi giorni più tardi se ne andò dal regno e si pose agli ordini di Boemondo di Antiochia, che lo accolse con piacere e gli diede un feudo più grande di quello che aveva abbandonato. Altri signori meno importanti lo raggiunsero nel principato, poiché Boemondo non faceva mistero delle proprie simpatie per Raimondo e il suo partito19. Mentre il regno era così lacerato in fazioni esacerbate era una buona cosa che la tregua con i saraceni fosse mantenuta. Guido l’avrebbe osservata, ma egli aveva fatto i conti senza il suo amico Rinaldo di Châtillon. Protette dalla tregua, le grandi carovane che viaggiavano fra Damasco e l’Egitto avevano di nuovo attraversato senza inconvenienti le regioni franche. Alla fine del 1186 un’enorme carovana stava risalendo dal Cairo, con soltanto una piccola scorta di soldati egiziani per difenderla dai predoni beduini. Mentre avanzava in Moab, Rinaldo si gettò all’improvviso su di essa, trucidò i soldati e trasportò al suo castello di Kerak i mercanti con le loro famiglie e tutti i loro beni: era il più grosso bottino che avesse mai preso. Le notizie dell’oltraggio subito giunsero ben presto a Saladino ed egli, rispettando il trattato, mandò a chiedere a Rinaldo di rilasciare i prigionieri e di indennizzarli per le perdite subite. Rinaldo rifiutò di ricevere gli inviati, i quali proseguirono per Gerusalemme per protestare presso re Guido. Questi li ascoltò benevolmente e ordinò a Rinaldo di offrire delle riparazioni, ma egli, ben sapendo che solo in grazia del suo appoggio Guido aveva ottenuto e poteva conservare il trono, non prestò alcuna attenzione al suo ordine; e il re non poté, o non volle, costringerlo a obbedire20. Una così sfrontata violazione della tregua rendeva la guerra inevitabile, una guerra che il paese diviso poteva affrontare solo con gravi difficoltà. Boemondo di Antiochia si affrettò a rinnovare la sua tregua con Saladino21. Raimondo di Tripoli stipulò una tregua per la propria contea e la estese in modo da proteggere anche il principato appartenente a sua moglie in Galilea, persino nel caso che il suo sovrano, il re, fosse in guerra con i musulmani. Nello stesso tempo ottenne la simpatia di Saladino e la promessa che egli l’avrebbe sostenuto nelle sue mire di diventare re. Per quanto prudente potesse essere la politica di Raimondo, era senza dubbio infida. Incoraggiato da Gerardo del Tempio, Guido convocò i suoi vassalli fedeli e marciò verso nord, su Nazaret, per sottomettere la Galilea prima che avesse inizio l’attacco musulmano. La guerra civile venne evitata soltanto dall’intervento di Baliano di Ibelin che, quando giunse all’accampamento, chiese senza complimenti al re che cosa stesse facendo; quando Guido replicò che stava andando ad assediare Tiberia-de, Baliano gli fece notare la follia di un tale progetto, poiché Raimondo, che poteva fare appello all’aiuto saraceno, avrebbe avuto delle forze di gran lunga superiori a quelle del re. Baliano

chiedeva invece di essere inviato a parlare con il conte. Ma il suo appello all’unità non ebbe alcun effetto su Raimondo, che era disposto a sottomettersi a Guido soltanto se gli fosse stata restituita Beirut. Era un prezzo che il re considerò troppo elevato22. Ma quando giunsero le notizie sui preparativi di Saladino in vista della guerra imminente, Baliano supplicò ancora una volta il sovrano di riconciliarsi con Raimondo. «Con Baldovino di Ramleh avete perduto il vostro miglior cavaliere, - disse, menzionando con orgoglio suo fratello. - Se perdete anche l’aiuto e i consigli del conte Raimondo, siete finito». Guido, sempre pronto a trovarsi d’accordo con chiunque gli parlasse in tono fermo, concesse a Baliano di andare di nuovo in ambasceria a Tiberiade, insieme con Giosia, arcivescovo di Tiro, e con i gran maestri dell’Ospedale e del Tempio. Era essenziale che quest’ultimo, il peggior nemico di Raimondo, si trovasse personalmente impegnato in qualsiasi eventuale sistemazione pacifica23. I delegati partirono da Gerusalemme il 29 aprile 1187, con la scorta di dieci ospitalieri, e trascorsero la notte a Nablus, nel castello di Balia no. Questi doveva occuparsi di alcuni affari locali, perciò disse ai gran maestri e all’arcivescovo di proseguire: egli avrebbe trascorso la giornata sul posto e li avrebbe raggiunti l’indomani al castello di La Fève, nella pianura di Esdraelon. Baliano lasciò Nablus, con alcuni servi, nella tarda serata del 30, con l’intenzione di cavalcare tutta la notte, ma all’improvviso ricordò che era la vigilia di san Filippo e Giacomo, perciò abbandonò la strada a Sebastea, la Samaria degli antichi, e bussò alla porta del palazzo vescovile. Il vescovo venne svegliato e lo fece entrare; essi trascorsero tutta la notte a conversare finché giunse l’alba e si poté celebrare la messa. Poi egli si congedò dal suo ospite e continuò il cammino. II 30 aprile, mentre Baliano stava discutendo di affari con i suoi am ministratori e i gran maestri stavano cavalcando su per le colline verso La Fève, a Tiberiade il conte Raimondo ricevette un inviato dei musulmani che si trovavano a Banyas. Saladino aveva ordinato al suo giovane figlio alAfdal, che comandava quell’accampamento, di mandare delle truppe a compiere una ricognizione in Palestina e questi, molto correttamente, chiedeva l’autorizzazione per i suoi uomini di attraversare la Galilea, territorio del conte. Raimondo, vincolato dal suo trattato personale con Saladino, non poteva respingere l’imbarazzante richiesta; soltanto convenne che i musulmani avrebbero passato la frontiera dopo l’alba dell’indomani e che sarebbero tornati prima che annottasse senza recar danno ad alcuna città o villaggio della regione. Poi inviò dei messaggeri in tutto il feudo per avvertire la gente di rimanersene in casa, uomini e greggi, per tutto il giorno e di non aver paura. A quel momento venne informato dell’arrivo della delegazione di Gerusalemme: fu mandato un altro bando con lo stesso ammonimento. All’alba del 1° maggio Raimondo scorse dal suo castello l’emiro Kukburi e settemila mamelucchi che cavalcavano allegramente nelle vicinanze. Baliano e il suo gruppo giunsero a La Fève verso la metà di quella mattina. Da lontano avevano visto delle tende dei templari drizzate sotto le mura, ma quando si avvicinarono si accorsero che erano vuote, mentre nel castello regnava il più assoluto silenzio. Il palafreniere di Baliano, Ernoul, entrò nell’edificio e vagò di camera in camera: non c’era nessuno, ad eccezione di due soldati che giacevano in una delle gallerie superiori, gravemente ammalati e incapaci di parlare. Baliano era perplesso e preoccupato; attese un’ora o due, incerto sul da farsi, poi si rimise in cammino lungo la strada per Nazaret. All’improvviso giunse al galoppo un cavaliere templare, scarmigliato e sanguinante, gridando che era successo un gran disastro. Alla stessa ora, a Tiberiade, Raimondo osservava i mamelucchi che tornavano in patria. Avevano tenuto fede al patto: era molto prima del cader delle tenebre e non avevano recato danno a un solo

edificio nella provincia; ma sulle lance dell’avanguardia erano infilzate le teste di cavalieri templari. Il messaggio di Raimondo era giunto ai gran maestri a La Fève la sera del 30 e, sebbene Ruggero dell’Ospedale protestasse, Gerardo del Tempio aveva subito convocato i templari delle vicinanze perché venissero a raggiungerlo. Il maresciallo del Tempio, Giacomo di Mailly, si trovava al villaggio di Kakun, a circa cinque miglia, con novanta cavalieri; egli venne e trascorse la notte davanti al castello. La mattina seguente il gruppo a cavallo si diresse verso Nazaret, dove gli si unirono quaranta cavalieri laici. L’arcivescovo di Tiro si trattenne nella città, ma Gerardo si fermò soltanto per gridare agli abitanti che ci sarebbe stata ben presto una battaglia e che dovevano andare a raccogliere il bottino. Come i cavalieri oltrepassarono la collina dietro Nazaret, scoprirono i musulmani che stavano abbeverando i cavalli alle Sorgenti di Cresson, nella valle sottostante. Vedendo che erano così numerosi sia Ruggero che Giacomo di Mailly consigliarono la ritirata. Gerardo era furibondo: volse sprezzantemente le spalle al suo collega gran maestro e scherni il suo maresciallo: «Amate troppo la vostra testa bionda per desiderare di perderla». Giacomo replicò orgogliosamente: «Io morirò in battaglia da uomo coraggioso. Siete voi che fuggirete come un traditore». Infiammata dagli insulti di Gerardo, la compagnia caricò contro i mamelucchi; fu un massacro, piuttosto che una battaglia. La bionda testa di Giacomo fu una delle ultime a cadere, e il gran maestro dell’Ospedale cadde accanto a lui. Ben presto tutti i cavalieri templari furono trucidati salvo tre, fra cui Gerardo; feriti, essi tornarono al galoppo verso Nazaret e fu uno di loro che partì alla ricerca di Baliano. I cavalieri laici furono catturati vivi. Alcuni degli avidi cittadini di Nazaret erano andati al campo di battaglia per cercare il bottino che Gerardo aveva loro promesso, ma vennero accerchiati e presi prigionieri. Dopo aver inviato a sua moglie un messaggio perché radunasse d’urgenza tutti i suoi cavalieri, Baliano raggiunse Gerardo a Nazaret e tentò di persuaderlo a venire a Tiberiade, ma quegli addusse a pretesto che le sue ferite erano troppo gravi, perciò Baliano proseguì con l’arcivescovo. Essi trovarono Raimondo stupefatto e terrorizzato per la tragedia, per la quale si rendeva conto che era da biasimare la sua politica. Egli accettò con piacere la mediazione di Baliano e, dopo aver annullato il suo trattato con Saladino, si recò a Gerusalemme, ed effettuò la sua sottomissione al re. Pur con tutti i suoi difetti, Guido non era vendicativo: diede a Raimondo un cordiale benvenuto e si scusò persino per il modo in cui era avvenuta la sua incoronazione. Sembrava che finalmente il regno fosse di nuovo unito24. Ed era ora, poiché si sapeva che Saladino stava raccogliendo un grosso esercito nell’Hauran, al di là della frontiera. In maggio, mentre le truppe si radunavano da tutte le parti del suo impero, egli ridiscese la strada verso la Mecca per scortare una carovana di pellegrini con la quale sua sorella e il figlio di lei tornavano dalla Città Santa; voleva essere sicuro che Rinaldo non avrebbe tentato di perpetrare un’altra delle sue scorrerie degne di un bandito. Nel frattempo affluivano soldati da Aleppo, Mosul e Mardin, finché il suo esercito diventò il più numeroso che egli mai avesse comandato. Dall’altra parte del Giordano, re Guido convocò tutti i suoi vassalli e i loro valvassori perché venissero con tutti i loro uomini a incontrarlo ad Acri. Gli Ordini dell’Ospedale e del Tempio, desiderosi di vendicare il massacro di Cresson, condussero tutti i loro cavalieri disponibili, lasciando soltanto delle piccole guarnigioni a difendere i castelli loro affidati. I templari prestarono un ulteriore aiuto consegnando al re la loro parte del denaro inviato di recente agli ordini da re Enrico II, come espiazione per l’assassinio di Tommaso Becket. Era stato loro ordinato di depositarlo in banca in previsione della crociata che Enrico aveva giurato di organizzare, ma le necessità del momento erano troppo urgenti. I soldati che vennero equipaggiati con quel denaro recavano un vessillo con le armi di Enrico. Commosso da un appello di Raimondo e Baliano,

Boemondo di Antiochia promise un contingente agli ordini di Baldovino di Ibelin e inviò suo figlio Raimondo a raggiungere il conte di Tripoli, che era suo padrino. Per la fine di giugno si erano raccolti nell’accampamento davanti ad Acri milleduecento cavalieri completamente armati, un numero ancora maggiore di cavalieri locali, armati alla leggera, turcopoles di sangue misto e circa diecimila fanti. Fu chiesto al patriarca Eraclio di venire con la Vera Croce, ma egli rispose di essere indisposto e affidò la reliquia al priore del Santo Sepolcro perché la consegnasse al vescovo di Acri. Preferiva, dissero i suoi nemici, rimanersene con la diletta Paschia. Il venerdì 26 giugno Saladino passò in rivista le sue truppe nello Hauran: egli comandava personalmente il centro, suo nipote Taki ed-Din l’ala destra e Kukburi la sinistra. L’esercito marciò in formazione di battaglia verso Khisfin e proseguì in direzione dell’estremità meridionale del Mar di Galilea, dove rimase in attesa per cinque giorni, mentre i suoi esploratori raccoglievano informazioni sulle forze cristiane. Il 1° luglio Saladino attraversò il Giordano a Sennabra e il 2 si accampava con metà del suo esercito a Kafr Sebt, sulle colline cinque miglia a occidente del lago, mentre le altre sue truppe attaccavano Tiberiade. La città cadde nelle loro mani dopo un’ora di combattimenti. Raimondo e i suoi figliastri si trovavano con gli uomini del re, ma la contessa Eschiva, dopo aver inviato un messaggero ad avvertire suo marito di quello che stava succedendo, resistette nel castello con la sua piccola guarnigione. Quando giunse la notizia che Saladino aveva attraversato il Giordano, re Guido, ad Acri, radunò a consiglio i suoi baroni. Il conte Raimondo parlò per primo: egli mise in risalto il fatto che nel massacrante calore estivo l’esercito che attaccava si trovava in svantaggio e che perciò la loro strategia doveva essere puramente difensiva. Se l’esercito cristiano fosse rimasto imbattuto, Saladino non avrebbe potuto mantenere a lungo le sue ingenti forze nel paese riarso e dopo un certo tempo sarebbe stato costretto a ritirarsi. Nel frattempo sarebbero giunti i rinforzi da Antiochia. La maggior parte dei cavalieri erano propensi a seguire i suoi consigli, ma sia Rinaldo di Châtillon sia il gran maestro Gerardo accusarono Raimondo di essere un vile, venduto ai saraceni. Re Guido si lasciava sempre convincere da quello che parlava per ultimo, perciò diede ordine che l’esercito avanzasse verso Tiberiade. Nel pomeriggio del 2 luglio i cristiani si accamparono a Seforia: era un ottimo posto per un accampamento, con acqua in abbondanza e buoni pascoli per i cavalli. Se vi si fossero fermati, come quattro anni prima si erano fermati presso gli Stagni di Golia, Saladino non avrebbe mai osato attaccarli. Il loro esercito era quasi altrettanto numeroso del suo ed essi si trovavano inoltre in terreno favorevole. Ma quella sera giunse il messaggero inviato dalla contessa di Tripoli e ancora una volta Guido tenne consiglio nella sua tenda. I nobili cavalieri erano commossi al pensiero dell’eroica dama che resisteva disperatamente vicino al lago; i suoi figli imploravano con le lacrime agli occhi di soccorrere la loro madre e altri si levarono per appoggiare la loro causa. Poi si alzò Raimondo e ripete, con un’enfasi-ancor più disperata, il discorso che aveva già fatto ad Acri; dimostrò la follia di abbandonare l’attuale sicura posizione per compiere una marcia pericolosa sul nudo fianco della collina, nell’intenso calore di luglio. Tiberiade era la sua città, aggiunse, e chi la difendeva sua moglie, ma egli avrebbe preferito che Tiberiade e tutti quelli che vi si trovavano perissero, piuttosto che provocare la rovina del regno. Le sue parole persuasero gli altri e il consiglio si sciolse a mezzanotte, dopo aver deciso di rimanere a Seforia. Quando i baroni si furono ritirati nei loro quartieri, il gran maestro del Tempio rientrò inosservato nella tenda reale. «Sire, - egli disse, - vi fiderete di un traditore?» Era una vergogna permettere che si perdesse una città che si trovava a sole sei leghe di distanza; i templari, dichiarò, avrebbero abbandonato il loro ordine piuttosto che rinunciare a quell’occasione di vendicarsi sugli

infedeli. Guido, che era stato sinceramente convinto dagli argomenti di Raimondo un’ora prima, tentennò e lasciò che Gerardo lo persuadesse un’altra volta;- inviò i suoi araldi ad annunciare a tutto il campo che l’esercito, all’alba, avrebbe marciato verso Tiberiade. La strada migliore tra Seforia e Tiberiade da est piegava lievemente a nord attraverso le colline della Galilea e ridiscendeva sul lago un miglio a nord della città; l’altra raggiungeva il ponte a Sennabra, di dove una diramazione seguiva la sponda settentrionale del lago. L’accampamento di Saladino a Kafr Sebt si trovava sulla strada di Sennabra, poiché egli aveva attraversato il fiume su quel ponte. È possibile che dei traditori venissero dal campo cristiano ad avvertirlo che Guido stava allontanandosi da Seforia lungo la strada settentrionale, perciò egli condusse il suo esercito per circa cinque miglia attraverso le colline, a Hattin, dove la strada comincia a scendere verso il lago. Era un villaggio con ampi pascoli e acqua in abbondanza, e qui lo raggiunsero la maggior parte delle sue truppe di Tiberiade; là rimasero soltanto quelle necessarie per bloccare il castello. La mattina di venerdì 3 luglio, quando l’esercito cristiano lasciò i verdi giardini di Seforia per marciare sulle colline spoglie di alberi, era calda ed afosa. Raimondo di Tripoli, quale signore del feudo, aveva diritto, secondo la tradizione feudale, di comandare l’avanguardia; il re comandava il centro e Rinaldo, con gli ordini e Baliano di Ibelin, conduceva la retroguardia. Non c’era acqua lungo il cammino e ben presto, sia gli uomini che i cavalli, soffrirono grandemente per la sete e i loro spasimi rallentarono la marcia. Soldati musulmani addestrati per le scaramucce attaccavano continuamente sia l’avanguardia sia la retroguardia, lanciando frecce in mezzo alle file e fuggendo a cavallo prima che potesse venire lanciato un contrattacco. Nel pomeriggio i franchi avevano raggiunto l’altopiano che si trova immediatamente sopra Hattin. Davanti a loro s’innalzava una collina rocciosa con due cime, alta circa trenta metri, oltre la quale il terreno scendeva a picco verso il villaggio e sul lago: veniva chiamata i Corni di Hattin. I templari mandarono a dire al re che per quel giorno non potevano proseguire oltre; alcuni dei baroni lo implorarono di ordinare all’esercito di affrettarsi e di aprirsi un varco verso il lago combattendo, ma Guido, commosso per la stanchezza dei suoi uomini, decise di sostare per la notte. Alla notizia, Raimondo tornò indietro dalla prima linea, gridando: «Ah, Signore Iddio, la guerra è conclusa, siamo tutti morti, il regno è giunto alla fine». Per suo consiglio Guido stabilì il campo appena oltre Lubieh, verso le pendici dei Corni, dove c’era un pozzo e l’intero esercito si radunò intorno a lui. Ma il luogo era scelto male, perché il pozzo era asciutto. Saladino, che aspettava con tutti i suoi uomini nella verdeggiante pianura sottostante, poteva a malapena nascondere la sua gioia: finalmente era giunta la sua grande occasione. I cristiani trascorsero una notte angosciosa, ascoltando le preghiere e i canti che salivano dalle tende musulmane che si trovavano proprio sotto di loro. Alcuni soldati uscirono dall’accampamento per cercare inutilmente dell’acqua, ma vennero uccisi dal nemico. Per rendere ancor più intollerabili le loro sofferenze i musulmani appiccarono il fuoco ai secchi arbusti che coprivano la collina e un fumo acre entrò a fiotti nel campo. Intanto, con il favor delle tenebre, Saladino faceva risalire i suoi uomini e all’alba di sabato 4 luglio l’esercito reale si trovò circondato: neppure un gatto avrebbe potuto sgusciare attraverso la rete, afferma il cronista. L’attacco musulmano cominciò appena spuntato il giorno. I fanti cristiani avevano un solo pensiero: acqua; in una massa ondeggiante cercarono di aprirsi un varco giù per il pendio, verso il lago che scintillava là sotto, lontano, ma vennero respinti su per una collinetta, accerchiati dalle fiamme e dal nemico. Molti di loro vennero trucidati all’istante, molti altri fatti prigionieri, e la vista di quelli che giacevano feriti e con la bocca gonfia era così dolorosa che cinque dei cavalieri di Raimondo si recarono dai capi musulmani a implorarli di ucciderli tutti, per porre termine alle loro

sofferenze. I cavalleggeri sulla collina combatterono con magnifico e disperato coraggio, respingendo con perdite le ripetute cariche della cavalleria nemica, ma anche il loro numero calava paurosamente. Indeboliti com’erano dalla sete, il loro vigore cominciò a venir meno e prima che fosse troppo tardi, a richiesta del re, Raimondo guidò i suoi cavalieri in un tentativo di irrompere attraverso le linee musulmane: con tutti i suoi uomini si lanciò contro i reggimenti comandati da Taki ed-Din, ma questi fece aprire le suo file per lasciarli passare, poi le richiuse di nuovo dietro di loro. Essi non riuscirono a ritornare dai loro camerati, quindi si allontanarono miseramente dal campo di battaglia, dirigendosi a Tripoli. Un po’ più tardi anche Baliano di Ibelin e Rinaldo di Sidone riuscirono a forzare un varco, ma furono gli ultimi a trovare scampo. Ormai non c’era più nessuna speranza per i cristiani, ma continuavano a combattere, ritirandosi sulla collina verso i, Corni. La tenda rossa del re venne trasportata sulla cima e i suoi cavalieri gli si raccolsero intorno. Il giovane figlio di Saladino, al-Afdal, si trovava a fianco di suo padre, assistendo alla prima battaglia della sua vita, e molti anni più tardi rese omaggio all’eroismo dei cristiani. «Quando il re dei franchi si ridusse sul colle, con quella schiera, fecero una carica tremenda sui musulmani che avevano di fronte, ributtandoli addosso a mio padre. Io lo vidi costernato e stravolto, afferrandosi la barba, avanzare gridando: “ Via la menzogna del demonio!” , e i musulmani tornare al contrattacco ricacciando i franchi sul colle. Al vedere indietreggiare i franchi, e i musulmani incalzarli, io gridai dalla gioia: “ Li abbiamo vinti! ” ; ma quelli tornarono con una seconda carica pari alla prima, che ricacciò ancora i nostri fino a mio padre. Egli ripete il suo atto di prima, e i musulmani, contrattaccatili, li riaddossarono alla collina. Tornai ancora a gridare: “ Li abbiamo vinti! ” , ma mio padre si volse a me e disse: “ Taci, non li avremo vinti finché non cadrà quella tenda! ” , e, mentre egli così parlava, la tenda cadde, e il sultano smontò da cavallo e si prosternò in ringraziamento a Dio, piangendo di gioia»25. Il vescovo di Acri era stato ucciso e la Santa Croce che egli aveva portato nella battaglia si trovava nelle mani di un infedele. Pochi cavalli erano sopravvissuti e quando i vincitori raggiunsero la vetta del colle i cavalieri erano sdraiati al suolo, e il re in mezzo a loro, troppo stanchi per continuare a combattere e con appena la forza per consegnare le spade in segno di resa. I loro capi vennero portati nella tenda che era stata rizzata per il sultano sul campo di battaglia26. Quivi Saladino ricevette re Guido e il conestabile Amalrico, suo fratello, Rinaldo di Châtillon e il suo figliastro Honfroi di Toron, il gran maestro del Tempio, l’anziano marchese del Monferrato, i signori di Jebail e di Botrun e molti dei nobili meno importanti, e li accolse benevolmente. Fece sedere il re vicino a lui e, vedendo che era assetato, gli porse una coppa di acqua di rose ghiacciata con le nevi del Hermon. Guido ne bevette e poi la passò a Rinaldo che si trovava al suo fianco. Secondo le leggi dell’ospitalità araba, dar da mangiare o da bere a un prigioniero significava che egli aveva salva la vita, perciò Saladino disse rapidamente all’interprete: «Di’ al re che egli ha dato da bere a quell’uomo, non io». Poi si volse a Rinaldo, a cui non poteva perdonare l’empia attività da brigante, e gli rimproverò i delitti, il tradimento, il sacrilegio e la cupidigia, e quando questi gli rispose arrogantemente il sultano in persona afferrò una spada e gli troncò la testa. Guido si mise a tremare, pensando che stava per giungere il suo turno, ma Saladino lo rassicurò dicendo: «Un re non uccide un altro re, ma la perfidia e l’insolenza di quell’uomo erano veramente insopportabili». Egli ordinò poi che nessuno dei baroni laici venisse maltrattato, ma che tutti quanti fossero trattati con cortesia e rispetto durante la prigionia; ma non intendeva risparmiare i cavalieri degli ordini militari, con la sola eccezione del gran maestro del Tempio. Una banda di fanatici musulmani sufi si era aggregata alle sue truppe: a loro affidò l’incarico di trucidare i prigionieri templari e ospitalieri, ciò

che essi fecero con gran gusto. Fatto questo condusse il suo esercito lontano da Hattin e i cadaveri sul campo di battaglia vennero abbandonati agli sciacalli e alle iene. I prigionieri furono inviati a Damasco, dove i nobili vennero alloggiati convenientemente e i poveri diavoli venduti sul mercato degli schiavi. Erano talmente numerosi che il prezzo di un solo prigioniero cadde a tre dinari e si poteva comprare un’intera famiglia di persone robuste, padre, madre, tre figli e due figlie, per diciotto dinari; un musulmano considerò persino che faceva un buon affare a scambiare un prigioniero per un paio di sandali27. I cristiani dell’Oriente avevano già subito dei disastri in passato e i loro re e principi erano già stati catturati altre volte, ma allora erano stati fatti prigionieri da piccoli signorotti, in cerca di modesti profitti. Sui Corni di Hattin venne annientato il più grosso esercito che il regno avesse mai radunato, venne perduta la Santa Croce, e il vincitore era il capo dell’intero mondo musulmano. Distrutti i suoi nemici, a Saladino rimaneva soltanto da occupare le fortezze della Terra Santa. Il 5 luglio, sapendo che ormai nessun aiuto le sarebbe giunto, la contessa di Tripoli gli consegnò Tiberiade. Egli la trattò con gli onori che si meritava e le concesse di andarsene a Tripoli con tutto il suo seguito28. Poi condusse il grosso del suo esercito verso Acri. Il siniscalco Jocelin di Courtenay, che aveva il comando della città, si preoccupò soltanto della sua salvezza personale. Quando, l’8 luglio, Saladino giunse davanti alle mura, gli inviò un cittadino di nome Pietro Brice per offrirgli la resa della città, a condizione che venissero garantiti la vita e i beni degli abitanti. A molti cittadini questa imbelle capitolazione sembrò vergognosa: scoppiò un breve tumulto durante il quale furono incendiate parecchie case, ma l’ordine venne ristabilito prima che Saladino occupasse ufficialmente Acri, il giorno 10. Egli aveva sperato di persuadere la maggior parte dei mercanti cristiani a rimanervi, ma es: si erano pieni di timore per il futuro ed emigrarono con tutti i loro beni mobili. Le immense scorte di mercanzie, sete e metalli, gioielli e armi, che vennero abbandonati furono distribuiti dai conquistatori fra i loro soldati e i loro compagni; se ne occupò soprattutto il giovane figlio di Saladino, al-Afdal, a cui venne regalata la città. La grande fabbrica di zucchero fu saccheggiata da Taki ed-Din, con grave fastidio di Saladino 29. Mentre il sultano si tratteneva ad Acri, alcuni distaccamenti del suo esercito ricevevano la sottomissione delle città e dei castelli della Galilea e della Samaria. A Nablus la guarnigione di Baliano resistette per alcuni giorni e quando si arrese ottenne condizioni onorevoli; anche il castello di Toron oppose resistenza per una quindicina di giorni prima che la sua guarnigione capitolasse, ma vi furono pochi altri tentativi di resistere30. Nel frattempo il fratello di Saladino, al-Adil, risaliva dall’Egitto e poneva l’assedio a Giaffa: la città non volle arrendergli, perciò egli la prese d’assalto e condusse via come prigionieri tutti i suoi abitanti, uomini donne e bambini, e la maggior parte venne inviata ai mercati di schiavi e agli harem di Aleppo31. Dopo aver conquistato la Galilea, Saladino risalì la costa fenicia. La maggior parte dei superstiti di Hattin erano fuggiti con Baliano a Tiro, che era ben presidiata e le cui enormi mura, che la proteggevano dal lato della terraferma, erano formidabili. Quando il suo primo attacco falli, il sultano passò oltre e Sidone gli si arrese, senza colpo ferire, il 29 luglio. Il signore del luogo, Rinaldo, era fuggito nel suo inespugnabile castello di Beaufort, nell’interno del paese. Beirut fece un tentativo di difendersi, ma capitolò il 6 agosto. Jebail si arrese pochi giorni più tardi, dopo averne ricevuto l’ordine dal suo signore Ugo Embriaco che Saladino liberò a quella condizione. Alla fine di agosto ai cristiani rimanevano soltanto, a sud della stessa Tripoli, Ascalona, Gaza, pochi castelli isolati e la Città Santa di Gerusalemme32.

In settembre Saladino fece la sua comparsa davanti ad Ascalona recando con sé i suoi due prigionieri più importanti, re Guido e il gran maestro Gerardo. Al re era stato promesso che avrebbe potuto comprare la propria libertà in cambio della resa di Ascalona e al suo arrivo davanti alle mura egli arringò i cittadini, chiedendo loro di rinunciare alla battaglia. Gerardo uni le sue suppliche a quelle di Guido, ma ad entrambi venne risposto con bordate di insulti. Ascalona si difese eroicamente e l’assedio costò a Saladino la perdita di due dei suoi emiri, ma il 4 settembre la guarnigione fu costretta a capitolare. Ai cittadini fu concesso di andarsene con tutti i loro beni mobili: vennero scortati da soldati di Saladino in Egitto e alloggiati confortevolmente ad Alessandria, fino a quando potessero essere rimpatriati in territorio cristiano33. A Gaza, la guarnigione composta di cavalieri templari era obbligata secondo le leggi dell’ordine a obbedire al gran maestro, perciò venne immediatamente eseguito l’ordine di resa lanciato da Gerardo: questi ottenne la libertà in cambio della fortezza34. Ma re Guido fu tenuto in prigionia per alcuni mesi ancora, dapprima a Nablus e poi a Lattakieh. La regina Sibilla fu autorizzata a lasciare Gerusalemme per venire a raggiungerlo. Come Saladino senza dubbio prevedeva, la loro liberazione, avvenuta nella primavera successiva, aumentò le difficoltà dei cristiani35. Il giorno in cui le truppe del sultano entrarono in Ascalona ci fu una eclissi di sole e Saladino ricevette nell’oscurità una delegazione dei cittadini di Gerusalemme, che egli aveva convocato per discutere le condizioni della resa della Città Santa. Ma non ci fu nessuna discussione: i delegati si rifiutarono di consegnare la città nella quale il loro Dio era morto per la loro salvezza, fissi tornarono orgogliosamente a Gerusalemme e Saladino giurò di impadronirsene con la spada. Intanto, nella città era giunto un aiuto insperato: Baliano di Ibelin, che si trovava a Tiro con i profughi franchi, aveva chiesto a Saladino un salvacondotto per Gerusalemme, dove si era ritirata sua moglie, la regina Maria, con i bambini. Prima, essi erano stati a Nablus, ma egli desiderava condurli con sé a Tiro. Saladino accolse la sua richiesta a condizione che egli si trattenesse soltanto una notte nella città e non portasse armi. Baliano trovò a Gerusalemme il patriarca Eraclio e gli ufficiali degli ordini che stavano tentando di organizzare la difesa della città, ma non c’era nessun capo in cui il popolo avesse fiducia. Perciò pretesero a gran voce che Baliano si fermasse e assumesse il comando e non vollero lasciarlo partire. Profondamente imbarazzato, egli scrisse a Saladino spiegandogli per quale motivo avesse violato il giuramento fatto. Il sultano era sempre cortese verso un nemico per il quale nutriva rispetto e non soltanto perdonò Baliano, ma inviò una scorta per condurre a Tiro la regina Maria con i bambini, il seguito e tutti i beni36. Con lei partirono il giovane nipote di Baliano, Tommaso di Ibelin, e il figliolo di Ugo di Jebail: Saladino pianse nel vedere quei fanciulli, eredi di una grandezza ormai scomparsa, attraversare il suo accampamento per andarsene in esilio. A Gerusalemme Baliano fece quanto stava in suo potere. La popolazione era enormemente aumentata a causa dei profughi giunti da tutti i distretti vicini, e pochi di costoro potevano essere di qualche utilità come combattenti: per ogni uomo c’erano cinquanta donne e bambini. C’erano soltanto due cavalieri nella città, perciò Ballano consacrò cavalieri tutti i figli di famiglia nobile, maggiori di sedici anni, e trenta borghesi. Inviò dei distaccamenti a raccogliere tutte le vettovaglie ancora disponibili, prima che gli eserciti musulmani rinchiudessero il cerchio; prese in consegna il tesoro reale e il denaro che Enrico II aveva inviato all’Ospedale e tolse persino l’argento che rivestiva il tetto del Santo Sepolcro; vennero date delle armi ad ogni uomo in grado di adoperarle. Il 20 settembre Saladino si accampò davanti alla città e cominciò a lanciare attacchi contro le mura settentrionali e nord-occidentali, ma i suoi soldati avevano il sole negli occhi e, da quella parte, le difese erano molto robuste, perciò dopo cinque giorni spostò l’accampamento. Per un breve istante

i difensori credettero che egli avesse levato l’assedio, ma la mattina del 26 settembre il suo esercito si era stabilito sul Monte degli Ulivi e i suoi zappatori, fiancheggiati dai cavalleggeri, stavano minando il muro vicino alla porta della Colonna, non lontano dal luogo dove Goffredo di Lorena aveva fatto irruzione nella città ottantotto anni prima. Il 29 c’era già una grande breccia aperta nel muro: i difensori la guernirono come poterono e combatterono furiosamente, ma erano troppo pochi per poter resistere a lungo contro le orde del nemico. I soldati franchi volevano tentare una furibonda sortita e morire, se era necessario, ma il patriarca Eraclio non aveva nessuna intenzione di diventare un martire: se avessero compiuto un atto simile, disse loro, avrebbero abbandonato le loro donne ed i loro bambini in una schiavitù inevitabile ed egli non avrebbe potuto benedire un’azione così avventata. Baliano appoggiò la sua tesi, perché si rendeva conto che era una follia sprecare altre vite umane e il 20 ottobre si recò personalmente nell’accampamento nemico per chiedere a Saladino le condizioni di resa. La città era ormai alla mercè di Saladino. Egli avrebbe potuto prenderla d’assalto quando voleva e inoltre, all’interno della città, aveva molti amici potenziali. L’orgoglio della Chiesa latina aveva sempre suscitato il risentimento dei cristiani ortodossi che costituivano la maggioranza della popolazione più umile. Non c’era stato uno scisma vero e proprio, la famiglia reale e la nobiltà laica avevano mostrato, salvo che in Antiochia, sentimenti amichevoli e rispetto verso il clero greco, ma le gerarchie superiori erano sempre state esclusivamente in mani latine. Nei grandi santuari della loro fede, i cristiani indigeni avevano dovuto assistere a cerimonie in cui si adoperavano una lingua e un rituale a loro estranei e ricordavano con nostalgia i tempi in cui, sotto equi governatori musulmani, avevano potuto adorare Iddio a modo loro. Il consigliere privato di Saladino per le trattative con i principi cristiani era uno studioso ortodosso di Gerusalemme, di nome Giuseppe Batit; in quel momento egli prese contatto con le comunità greche della Città Santa e queste promisero di aprire le porte al sultano. Il loro intervento non fu necessario. Quando Baliano giunse davanti alla sua tenda, Saladino dichiarò che egli aveva giurato di prendere Gerusalemme con la forza e soltanto una resa incondizionata lo avrebbe liberato da quel voto. Ricordò a Baliano i massacri compiuti dai cristiani nel 1099: doveva egli agire in modo diverso? Mentre essi parlavano, la battaglia infuriava e Saladino gli mostrò che il suo vessillo era stato innalzato sulle mura della città. Ma subito dopo i suoi uomini vennero respinti e Baliano lo ammoni che, se egli non avesse concesso delle condizioni onorevoli, i difensori, presi dalla disperazione, avrebbero distrutto, prima di morire, ogni cosa che si trovava nella città, inclusi gli edifici nell’area del Tempio sacri per i musulmani, e avrebbero trucidato i prigionieri nemici che detenevano. Saladino era disposto a mostrarsi generoso, finché gli veniva riconosciuto il suo potere, e desiderava che Gerusalemme soffrisse il meno possibile. Egli acconsentì a scendere a trattative e propose che ogni cristiano avesse facoltà di riscattarsi al prezzo di dieci dinari se era un uomo, cinque se una donna e uno se un bambino. Baliano fece allora notare che c’erano nella città ventimila poveri che non sarebbero mai riusciti a racimolare una simile somma: le autorità cristiane avrebbero potuto consegnare una cifra globale che li liberasse tutti quanti? Saladino era disposto ad accettare centomila dinari per tutti i ventimila, ma Baliano sapeva che non sarebbe stato possibile trovare una così grossa somma di denaro; finalmente venne concordato che per trentamila dinari fossero liberate settemila persone. La guarnigione depose le armi per ordine di Ibelin e il venerdì 2 ottobre Saladino entrò in Gerusalemme; era il 27 Rajab, l’anniversario del giorno in cui il Profeta aveva visitato nel sonno la Città Santa ed era quindi stato trasportato in cielo. I vincitori si condussero in modo corretto e umano: dove ottantotto anni prima i franchi avevano

sparso fiumi di sangue, nemmeno un edificio venne allora saccheggiato né una persona colpita. Alcune guardie pattugliavano le vie e le porte, per ordine di Saladino, per impedire qualsiasi atto d’oltraggio contro i cristiani. Nel frattempo tutti si sforzavano di trovare il denaro per il proprio riscatto e Baliano svuotava il tesoro per raccogliere i trentamila dinari promessi. L’Ospedale e il Tempio furono costretti con molta difficoltà a tirar fuori le loro ricchezze, mentre il patriarca e il suo capitolo si preoccuparono soltanto di se stessi. I musulmani furono scandalizzati nel vedere Eraclio pagare i dieci dinari del proprio riscatto e poi lasciare la città, curvo sotto il peso dell’oro che stava trasportando e seguito da carri carichi di tappeti e vasellame. I settemila poveri vennero liberati grazie a ciò che restava della donazione di Enrico II, ma per molte altre migliaia poteva essere evitata la schiavitù soltanto se gli ordini e la Chiesa si fossero dimostrati più generosi. Ben presto si riversarono fuori dalle porte due correnti di cristiani, l’una formata da coloro che erano riusciti a pagare il riscatto, con i propri mezzi o grazie agli sforzi di Baliano, e l’altra da quelli che non avevano potuto raccogliere il denaro necessario e venivano condotti in schiavitù. La loro vista era così patetica che al-Adil si volse a suo fratello e gli chiese di concedergliene un migliaio in ricompensa dei suoi servizi: gli vennero consegnati ed egli li liberò immediatamente. Il patriarca Eraclio, molto soddisfatto di aver trovato la maniera di fare del bene con poca spesa, chiese di poter ottenere alcuni schiavi da rimettere in libertà; gliene vennero concessi settecento e altri cinquecento furono consegnati a Baliano. Poi Saladino in persona annunziò che avrebbe liberato tutti gli anziani, uomini e donne. Quando le signore franche che si erano riscattate vennero piangendo a chiedergli dove mai potevano andare, poiché i loro mariti o padri erano morti oppure schiavi, egli promise loro di liberare tutti i mariti prigionieri e alle vedove e agli orfani consegnò dei doni, prendendoli dal suo tesoro personale, a ciascuno secondo la sua condizione. La sua misericordia e gentilezza formavano uno strano contrasto con gli atti compiuti dai conquistatori cristiani della prima crociata. Alcuni dei suoi emiri e dei suoi soldati erano animati da sentimenti meno benevoli. Circolavano delle storie a proposito di cristiani che certi musulmani avevano fatto uscire clandestinamente travestiti per poi ricattarli, spogliandoli di tutti i loro averi. Altri signorotti maomettani pretendevano di riconoscere degli schiavi fuggitivi e si facevano consegnare dalle loro vittime, personalmente, dei forti riscatti, prima di lasciarli di nuovo liberi. Ma il castigo di Saladino era durissimo, ovunque scoprisse simili episodi37. La lunga fila di profughi si snodava lentamente verso la costa, senza essere molestata dai musulmani. Erano divisi in tre convogli, uno condotto dai templari, l’altro dagli ospitalieri e il terzo da Baliano e dal patriarca. Tiro, già fin troppo affollata di profughi, lasciò entrare soltanto gli uomini validi alle armi. Vicino a Botrun un signorotto locale, Raimondo di Niphin, derubò gli esuli di buona parte dei loro beni. Proseguirono per Tripoli, anch’essa già piena di gente rifugiatasi in precedenza, dove le autorità, a corto di rifornimenti, non vollero lasciare entrare nessuno e chiusero loro in faccia le porte della città. Non riuscirono a trovare asilo finché non giunsero ad Antiochia, ma anche qui il permesso di entrare in città fu loro concesso malvolentieri. I profughi di Ascalona furono più fortunati: quando i comandanti delle navi mercantili italiane rifiutarono di trasportarli in porti cristiani se non dietro cospicuo pagamento, il governatore egiziano negò alle navi il permesso di uscita dal porto se non li avessero presi a bordo gratuitamente38. I cristiani ortodossi e i giacobiti rimasero a Gerusalemme. Ufficialmente ognuno avrebbe dovuto pagare una tassa prò capite oltre al proprio riscatto, ma molte persone delle classi più povere ne furono esonerate. I più ricchi invece comprarono buona parte delle proprietà rimaste abbandonate per la partenza dei franchi. Il resto fu acquistato da musulmani o da ebrei che Saladino incoraggiò a

stabilirsi nella città. Quando la notizia della vittoria del sultano giunse a Costantinopoli l’imperatore Isacco Angelo inviò un’ambasceria a Saladino per congratularsi con lui e per chiedere che i Luoghi Santi della cristianità venissero restituiti alla Chiesa ortodossa; il che gli venne concesso dopo un breve rinvio. Molti amici di Saladino l’avevano esortato a distruggere la chiesa del Santo Sepolcro, ma egli aveva fatto notare che i cristiani veneravano non l’edificio, ma il luogo stesso, e perciò avrebbero continuato ugualmente a desiderare di venirvi in pellegrinaggio; egli d’altronde non voleva scoraggiarli in questo. In realtà la chiesa fu chiusa soltanto per tre giorni, dopo di che i pellegrini franchi vi furono ammessi dietro pagamento di un ingresso39. I profughi cristiani non avevano abbandonato la città prima che la Croce sovrastante la Cupola della Roccia venisse abbattuta e fossero tolti tutti i segni del culto cristiano, e la moschea di al-Aqsa venisse ripulita di ogni traccia dell’occupazione dei templari. Ambedue gli edifici furono spruzzati con acqua di rose e dedicati nuovamente al culto islamico. Il venerdì 9 ottobre Saladino vi si recò, assieme a una grande moltitudine, per rendere grazie al suo Dio nella moschea40. Con la riconquista di Gerusalemme Saladino aveva adempiuto il suo dovere più importante nei confronti della propria fede, ma rimanevano ancora molte fortezze franche da sottomettere. La nobildonna Stefania dell’Oltregiordano si trovava tra i prigionieri riscattati di Gerusalemme e aveva chiesto a Saladino il rilascio di suo figlio Honfroi di Toron. Egli accondiscese a condizione che i due grandi castelli appartenenti a lei gli si arrendessero; liberò Honfroi dalla prigione e lo mandò a raggiungerla; ma né la guarnigione di Kerak, né quella di Montreal vollero obbedire all’ordine di resa, perciò la nobildonna, non essendo riuscita ad adempiere all’accordo rimandò suo figlio in prigionia. Questo gesto d’onestà piacque a Saladino che qualche mese più tardi rimise Honfroi in libertà. Nel frattempo al-Adil e l’esercito egiziano assediavano Kerak. L’assedio durò più di un anno: per molti mesi i difensori furono sul punto di morire di fame, donne e bambini furono mandati fuori della fortezza perché provvedessero a se stessi; alcuni furono persino venduti ai beduini in cambio di cibo. La fortezza si arrese alla fine del 1188, non prima che l’ultimo cavallo esistente entro le mura fosse stato mangiato. Montreal, assediata meno strettamente resse ancora per qualche mese41. Più a nord il castello che i templari avevano a Safed si arrese il 6 dicembre 1188, dopo un mese di bombardamento pesante, e gli ospitalieri di Belvoir, che sovrastava dall’alto la valle del Giordano, ne seguirono l’esempio un mese più tardi. Il Château Neuf di Hunin era stato occupato poco tempo prima, invece Beaufort, dove si era rifugiato Rinaldo di Sidone, fu salvato dalla sua diplomazia. Egli era un uomo colto che si interessava moltissimo di letteratura araba: venne alla tenda di Saladino dichiarandosi disposto a consegnare il suo castello e a ritirarsi a Damasco se gli si concedevano tre mesi di tempo per sistemare i propri affari; accennò perfino all’idea di abbracciare la religione dell’Islam. La sua conversazione era così piacevole che Saladino rimase convinto della sua buona fede, ma dovette scoprire - troppo tardi - che la tregua concessa era servita a rafforzare le difese del castello. Nel frattempo Saladino si era trasferito nel territorio di Tripoli ed Antiochia42. Raimondo di Tripoli morì verso la fine del 1187. Poco dopo esser sfuggito al disastro di Hattin si era ammalato di pleurite, ma molti pensavano che la sua malattia fosse causata dalla malinconia e dalla vergogna. Molti contemporanei lo considerarono un traditore il cui egoismo aveva contribuito alla caduta del regno; però Guglielmo di Tiro e Baliano di Ibelin furono suoi amici e ne presero le difese. La tragedia della sua vita era quella di tutti i coloni franchi della seconda o terza generazione i quali, per temperamento e per ragioni politiche, erano pronti a integrarsi nel mondo orientale, mentre il fanatismo dei loro cugini appena arrivati dall’Occidente li obbligava a prender posizione e,

a lungo andare, non potevano fare a meno di schierarsi dalla parte dei loro correligionari cristiani. Egli non aveva figli, perciò lasciò per testamento la sua contea al suo figlioccio Raimondo, figlio del principe Boemondo d’Antiochia, il suo parente più prossimo di sesso maschile; ma aggiunse una clausola secondo la quale, se un membro della casa di Tolosa fosse venuto in Oriente, la contea avrebbe dovuto appartenergli. Boemondo accettò l’eredità per suo figlio, al quale però poi sostituì un altro figlio più giovane, anche questi di nome Boemondo, nel timore che Antiochia e Tripoli assieme costituissero un territorio troppo grande per esser difeso da una sola persona43. In realtà, poco tempo dopo non rimaneva gran cosa dell’eredità: il 1° luglio 1188 Saladino spazzò come una ondata la Buqaia con rinforzi giuntigli da poco da Sinjar; evitò la fortezza degli ospitalieri di Krak, che considerò troppo forte per attaccarla, e si volse verso Tripoli, ma l’arrivo della flotta del re di Sicilia lo intimorì. Si diresse allora a nord: a Tortosa conquistò d’assalto la città, ma il castello dei templari gli resistette. Si spinse avanti in fretta, fin sotto le mura di Marqab, dove gli ospitalieri cercarono di impedirgli il passaggio. Jabala si arrese il venerdì 15 luglio, Lattakieh il venerdì 22. Quest’ultima era una bellissima città con chiese e palazzi ancora dell’epoca bizantina; il cronista musulmano Imad ed-Din che si trovava assieme all’esercito pianse nel vederla saccheggiata e rovinata. Da Lattakieh Saladino si diresse verso l’interno del paese a Sahyun. L’ampio castello degli ospitalieri era considerato imprendibile, ma dopo pochi giorni di combattimenti furibondi fu conquistato d’assalto il venerdì 29 luglio. Il venerdì 12 agosto la guarnigione di Bakas-Shoqr, per quanto il castello fosse protetto da formidabili burroni, si arrese vedendo che nessun aiuto giungeva da Antiochia. Venerdì 19 cadde la città di Sarminya e pochi giorni più tardi, il 23, capitolava Burzey, il più meridionale dei castelli dell’Oronte. Il comandante aveva sposato la sorella dell’agente segreto di Saladino, la principessa d’Antiochia; lui e la moglie furono lasciati in libertà. Il 16 settembre si arrendeva Darbsaq, fortezza dei Templari nelle montagne dell’Amano e il 26 cadeva il castello di Baghras che dominava la strada da Antiochia verso la Cilicia44. Ma l’esercito di Saladino era ormai stanco e le truppe di Sinjar volevano tornarsene a casa, perciò quando il principe Boemondo chiese una tregua, riconoscendo tutte le conquiste musulmane, Saladino gliela concesse. Riteneva di poter condurre a termine il suo compito in qualsiasi momento, poiché tutto quello che rimaneva a Boemondo e ai suoi figli erano le due capitali di Antiochia e Tripoli e il porto di San Simeone, mentre gli ospitalieri tenevano ancora Marqab e Krak e i templari Tortosa45. Ma più a sud rimaneva una città che Saladino non aveva conquistato e a proposito della quale commise un grave errore. I nobili profughi dalla Palestina si erano tutti concentrati a Tiro, la piazzaforte meglio difesa della costa, unita alla terraferma soltanto da una stretta penisola sabbiosa attraverso cui era stata costruita una grande muraglia. Se Saladino si fosse affrettato ad attaccare Tiro subito dopo aver preso Acri, neppure quella muraglia avrebbe potuto fermarlo; ma egli indugiò un pochino troppo. Rinaldo di Sidone, che aveva il comando della città, stava trattando la resa e Saladino aveva già mandato due delle sue bandiere perché fossero issate sulla cittadella quando, il 14 luglio 1187, dieci giorni dopo la battaglia di Hattin, un vascello entrava in porto. A bordo v’era Corrado, figlio del vecchio marchese del Monferrato e fratello del primo marito della regina Sibilla. Egli viveva a Costantinopoli, ma si era trovato implicato in un assassinio e si era allontanato alla chetichella, con un gruppo di cavalieri franchi, per compiere il pellegrinaggio ai Luoghi Santi. Non sapeva nulla del disastro e si dirigeva ad Acri, ma all’arrivo della nave in vicinanza del porto il comandante fu sorpreso di non udire la campana che veniva suonata ogni qualvolta si avvistava una vela, e sospettando che qualche cosa di irregolare fosse successo non gettò l’ancora. Ben presto si

avvicinò una scialuppa che aveva a bordo un ufficiale musulmano della capitaneria del porto e Corrado, facendo finta di essere un mercante chiese che cosa era accaduto e seppe così che Saladino era entrato in città quattro giorni prima. La costernazione prodotta in lui dalla notizia svegliò i sospetti del musulmano, ma prima che egli potesse dare l’allarme Corrado era ripartito, risalendo la costa fino a Tiro. Quivi fu accolto come un liberatore e incaricato della difesa della città: gli accordi di pace con Saladino vennero respinti e le sue bandiere gettate nel fossato. Corrado era energico, coraggioso e senza scrupoli. Egli comprese che era possibile difendere la città fino all’arrivo di soccorsi dall’Occidente e aveva piena fiducia che, alla notizia della caduta di Gerusalemme, tale aiuto non avrebbe potuto mancare. Quando Saladino comparve dinanzi a Tiro pochi giorni più tardi trovò che la difesa era troppo energica per le sue forze. Fece venire da Damasco il marchese del Monferrato e lo fece passeggiare davanti alle mura minacciando di metterlo a morte se la città non si fosse arresa, ma l’amore filiale di Corrado non era abbastanza forte da distoglierlo dai suoi doveri di soldato cristiano. Non si lasciò commuovere; e Saladino, con la sua consueta gentilezza, risparmiò la vita al vecchio, poi tolse l’assedio per dirigersi contro Ascalona. Quando comparve di nuovo davanti a Tiro, nel novembre 1187, le fortificazioni erano state rafforzate, erano giunti alcuni rinforzi sia navali sia terrestri, e lo stretto terreno gli impediva di sfruttare vantaggiosamente uomini e mangani. Furono fatte venire da Acri dieci navi musulmane ma il 29 dicembre cinque ne vennero catturate dai cristiani e un contemporaneo assalto alle mura veniva respinto. In un consiglio di guerra Saladino prestò ascolto a coloro tra i suoi emiri che gli facevano presente come gli uomini avessero necessità di riposo. L’inverno era umido e freddo e le malattie circolavano per l’accampamento. Il giorno di capodanno n° 88 Saladino smobilitò metà del suo esercito e si ritirò per conquistare i castelli dell’entroterra. L’energia e la fiducia di Corrado avevano salvato la città e, con essa, la continuazione del regno cristiano46. Più tardi Saladino rimpianse amaramente di non esser riuscito a impadronirsi di Tiro. Ma anche così i suoi successi erano stati formidabili. I suoi trionfi erano forse dovuti all’inevitabile reazione dell’Islam contro la sfida dei franchi invasori, o forse alla lungimirante politica dei suoi grandi predecessori, ovvero alle liti e alla leggerezza dei franchi, o forse ancora alla sua personalità: in ogni caso egli aveva dato una dimostrazione della forza e dello spirito dell’Oriente. Ai Corni di Hattin e alle porte di Gerusalemme egli aveva vendicato l’umiliazione della prima crociata e mostrato in che modo un uomo d’onore celebra la vittoria.

LIBRO TERZO Il regno di Acri e le ultime crociate

Traduzione di Aldo e Fernanda Comba

Parte prima La terza crociata

Capitolo primo La coscienza dell’Occidente

Né i re Della terra né alcun abitante del mondo avrebbero mai creduto che l’avversario, il nemico, sarebbe entrato nelle porte di Gerusalemme. Lamentazioni, IV, 12

Le cattive notizie viaggiano rapidamente. Si era appena combattuta, e persa, la battaglia di Hattin, e già i messaggeri si affrettavano verso l’Occidente per informare i principi d’Europa; ben presto altri seguirono recando l’annunzio della caduta di Gerusalemme. La cristianità occidentale apprese, costernata, le notizie dei disastri. Nonostante tutti gli appelli giunti negli ultimi anni dal regno di Gerusalemme, nessuno in Occidente, salvo forse la corte papale, si era reso conto dell’imminenza del pericolo. I cavalieri e i pellegrini che erano stati in Oriente, avevano trovato negli Stati franchi una vita più lussuosa e gaia di quanto avessero mai conosciuto in patria. Avendo udito racconti di prodezze militari e ammirato un commercio fiorente, non potevano capire quanto fosse precaria tutta quella prosperità. Ed ora, all’improvviso, apprendevano che tutto era finito. L’esercito cristiano era stato distrutto, la Santa Croce, la più sacra delle reliquie della cristianità, era nelle mani degli infedeli, e Gerusalemme stessa era stata conquistata. In pochi mesi era crollato l’intero edificio dell’Oriente franco; per cercare di salvare qualche cosa dalle rovine bisognava mandare aiuti, e mandarli presto. I sopravvissuti al disastro si erano rifugiati in massa tra le mura di Tiro, rianimati dalla ferrea energia di Corrado del Monferrato. La fortunata coincidenza del suo arrivo aveva salvato la città dalla capitolazione, e uno dopo l’altro i signori sfuggiti dalle mani di Saladino si univano a lui, accettandone grati l’autorità. Ma tutti sapevano che senza aiuti dall’Occidente c’erano ben poche possibilità di conservare Tiro e nessuna di riconquistare il territorio perduto. Nella calma che seguì il primo attacco di Saladino contro Tiro, allorché egli si spinse più avanti per conquistare il nord della Siria, essi inviarono il più venerato dei loro colleghi, Giosia arcivescovo della città, ad esporre al papa ed ai re dell’Occidente quanto disperato fosse il loro bisogno d’aiuto. Circa nello stesso tempo i superstiti degli ordini militari scrissero a tutti i loro confratelli dell’Occidente per attirarne l’attenzione su quelle medesime preoccupanti notizie1. L’arcivescovo salpò da Tiro alla fine dell’estate del 1187 ed arrivò dopo un rapido viaggio alla corte di re Guglielmo II di Sicilia, trovandolo profondamente amareggiato dalle voci del disastro. Quando ne conobbe tutta l’estensione, Guglielmo si vesti di sacco e si appartò per quattro giorni. Poi scrisse agli altri sovrani per spingerli ad unirsi in una crociata ed egli stesso si preparò a mandare al più presto possibile una spedizione in Oriente. In quel momento egli era impegnato in una guerra con Bisanzio: infatti nel 1185 le sue truppe avevano tentato di impadronirsi di Tessalonica, ma erano state completamente battute; però la sua flotta stava ancora incrociando nelle acque cipriote, per aiutare l’usurpatore Isacco Comneno, signore di Cipro, nella sua rivolta contro l’imperatore Isacco Angelo. La pace con l’imperatore venne conclusa rapidamente e l’ammiraglio siciliano Margarito di Brindisi fu richiamato in patria per riparare le sue navi e salpare per Tripoli con trecento cavalieri.

Nel frattempo l’arcivescovo Giosia, scortato da un’ambasceria siciliana, si dirigeva verso Roma2. Anche là si comprese la gravità delle notizie che egli recava, poiché i genovesi avevano già inviato un rapporto alla corte pontificia3. Il vecchio papa, Urbano III, era un uomo malato ed il colpo fu troppo forte per lui: ne morì di dolore il 20 ottobre4. Ma il suo successore Gregorio VIII mandò immediatamente una circolare a tutti i fedeli dell’Occidente: parlava del grave evento della perdita della Terra Santa e della Santa Croce, ricordava ai suoi lettori che la perdita di Edessa quarant’anni prima avrebbe dovuto essere considerata già allora come un avvertimento e che grandi sforzi erano ormai necessari; ognuno doveva pentirsi ed ammassare tesori nel cielo prendendo la croce; a tutti i crociati il papa prometteva un’indulgenza plenaria; essi avrebbero goduto la vita eterna in paradiso e nel frattempo i loro beni terreni sarebbero stati posti sotto la protezione del Santo Sigillo. Il papa terminava la sua lettera ordinando un digiuno ogni venerdì per i prossimi cinque anni ed astinenza dalla carne mercoledì e sabato; la sua corte e quella dei cardinali avrebbero digiunato anche il lunedì. Altri messaggi inviati da Roma imponevano a tutti i principi della cristianità una tregua di sette anni; si diceva che tutti i cardinali avessero giurato di essere tra i primi a prendere la croce e che avrebbero condotto gli eserciti cristiani verso la Palestina, come predicatori mendicanti5. Papa Gregorio non vide il risultato dei suoi sforzi: morì a Pisa il 17 dicembre dopo un pontificato di due mesi, lasciando la prosecuzione dell’opera al vescovo di Preneste che fu eletto due giorni più tardi con il nome di Clemente III. Mentre questi si affrettava a prendere contatto con il più potente principe dell’Occidente, l’imperatore Federico Barbarossa, l’arcivescovo di Tiro continuava il suo viaggio attraversando le Alpi per incontrarsi con i re di Francia e d’Inghilterra6. Le notizie della sua missione erano arrivate prima di lui. L’anziano patriarca di Antiochia, Aimaro, scriveva in settembre una lettera al re Enrico II per parlargli delle tribolazioni dell’Oriente, e l’affidava al vescovo di Banyas7. Prima ancora che Giosia di Tiro arrivasse in Francia, il figlio maggiore superstite di Enrico, Riccardo, conte di Poitou, si era fatto crociato 8. Enrico stesso aveva continuato per vari anni una guerra intermittente con Filippo Augusto di Francia. Nel gennaio del 1188 Giosia incontrò i due re a Gisors, sulla frontiera tra la Normandia ed il regno francese, dove erano convenuti per discutere una tregua. La sua eloquenza li persuase a fare la pace ed a promettere di partire al più presto possibile per la crociata. Filippo, conte di Fiandra, forse mortificato per l’insuccesso della sua crociata di dieci anni prima, si affrettò a seguire il loro esempio e molti esponenti della nobiltà dei due regni giurarono di accompagnare i sovrani. Si decise che gli eserciti avrebbero marciato insieme, i soldati francesi con croci rosse, gli inglesi con croci bianche, i fiamminghi verdi. I due re imposero tasse speciali per pagare le spese della spedizione9. Alla fine di gennaio i consiglieri di re Enrico si riunirono a Le Mans per ordinare il pagamento della decima di Saladino, una tassa del dieci per cento sulle entrate e i beni mobili che doveva essere versata da ogni suddito del re sia in Inghilterra, sia in Francia. Enrico passò poi in Inghilterra per prendere ulteriori accordi in vista della crociata, che era predicata con fervore da Baldovino, arcivescovo di Canterbury. L’arcivescovo di Tiro cominciò il suo viaggio di ritorno in patria pieno di speranza10. Poco dopo la conferenza di Gisors, Enrico scrisse una lettera di risposta al patriarca di Antiochia, annunziandogli che i soccorsi stavano giungendo rapidamente11. Ma il suo ottimismo era ingiustificato. La decima di Saladino venne raccolta in modo soddisfacente nonostante il tentativo di un cavaliere templare, Gilberto di Hoxton, di appropriarsi del denaro affidatogli; invece Guglielmo il Leone, re di Scozia, vassallo di Enrico, non riuscì a persuadere i suoi parsimoniosi baroni a dare un solo centesimo. Si fecero dei piani per provvedere al governo del paese durante il tempo in cui

Enrico e il suo erede sarebbero stati in Oriente12. Però, molto prima che l’esercito potesse essere riunito, scoppiò di nuovo la guerra in Francia. Alcuni vassalli di Riccardo si ribellarono nel Poitou e nel giugno 1188 egli si trovò coinvolto in una disputa con il conte di Tolosa. Il re di Francia, adirato per questo attacco contro il proprio vassallo, rispose invadendo il Berry. Enrico, a sua volta, invase il territorio di Filippo e la guerra si trascinò per tutta l’estate e l’autunno. Nel gennaio 1189 Riccardo, la cui fedeltà filiale era incostante, si uni con Filippo in un’offensiva contro Enrico. L’interminabile contesa scandalizzò la maggior parte dei buoni cristiani. Fra i vassalli di Filippo, i conti di Fiandra e di Blois rifiutarono di prendere le armi finché la crociata non fosse stata intrapresa13. Nell’autunno del 1188 il papa aveva invano inviato prima il vescovo di Albano e poi, dopo la morte di questi nella primavera successiva, il cardinale Giovanni di Anagni, per ordinare ai re di fare la pace. Baldovino, arcivescovo di Canterbury, non ottenne risultati migliori. Per tutta la prima parte dell’estate Filippo e Riccardo invasero con successo i possessi francesi di Enrico. Il 3 luglio Filippo s’impadronì dell’importante fortezza di Tours e il giorno dopo Enrico, ormai mortalmente ammalato, si piegò a umilianti condizioni di pace. Due giorni dopo, il 6 luglio, prima di poterle ratificare, moriva a Chinon14. La morte del vecchio re semplificava la situazione. Non si sa se egli avesse mai pensato seriamente di partire per la crociata; invece il suo erede, Riccardo, aveva la ferma intenzione di adempiere il voto e sebbene avesse ereditato dal padre l’ostilità contro re Filippo, era pronto a scendere a patti per essere libero di partire per l’Oriente, specialmente nel caso in cui Filippo si unisse alla crociata. Questi, da parte sua, temeva meno Riccardo che Enrico e si rendeva conto che rimandare ancora la crociata non era una buona politica. Fu rapidamente stipulato un trattato e Riccardo tornò in Inghilterra per esservi incoronato e per assumere il governo15. L’incoronazione ebbe luogo il 3 settembre a Westminster e fu seguita da una energica persecuzione degli ebrei a Londra e a York. I cittadini erano gelosi del favore dimostrato loro dal re defunto, ed il fervore suscitato dalla crociata offriva sempre una buona scusa per distruggere i nemici di Dio. Riccardo punì gli intemperanti e permise a un ebreo convertitosi al cristianesimo per evitare la morte, di tornare alla sua religione. I cronisti furono scandalizzati all’udire il commento dell’arcivescovo Baldovino: se quello non voleva essere un uomo di Dio, meglio era che lo fosse del diavolo. Il re rimase in Inghilterra tutto l’autunno per riorganizzare la propria amministrazione. Si provvide alle sedi episcopali vacanti. Dopo alcuni riordinamenti preliminari, Guglielmo Longchamp, vescovo di Ely, fu fatto cancelliere e justiciar dell’Inghilterra meridionale, mentre Ugo vescovo di Durham, fu justiciar per il nord e conestabile di Windsor. Alla regina madre Eleonora furono attribuiti poteri vicereali, benché non avesse intenzione di rimanere in Inghilterra. Il fratello del re, Giovanni, ebbe in feudo vasti possedimenti nel sud-ovest, mentre un prudente bando che gli proibiva l’ingresso in Inghilterra per tre anni veniva avventatamente revocato. Si vendettero alcune proprietà della corona per ricavare denaro, e queste misure, insieme con i doni e la decima di Saladino, fornirono al re un cospicuo tesoro, a cui si aggiungevano diecimila sterline inviate da Guglielmo di Scozia per essere esonerato dall’obbligo di fedeltà alla corona inglese e per riavere le città di Berwick e di Roxburgh, perdute durante il regno di Enrico16. In novembre Rothrud, conte di Perche, arrivò dalla Francia per annunziare che re Filippo aveva quasi completato i propri preparativi in vista della crociata e desiderava incontrarsi con Riccardo a Vézélay il 1° aprile, per accordarsi sulla comune partenza17. Verso la fine dell’88 la corte francese aveva ricevuto una lettera dai propri agenti a Costantinopoli in cui si riferiva una profezia del santo

eremita Daniele, secondo la quale i franchi avrebbero riconquistato la Terra Santa nell’anno in cui la festa dell’Annunziazione cadesse la domenica di Pasqua. Questa congiuntura doveva verificarsi nel 1190. Il rapporto aggiungeva che Saladino era turbato da dispute tra la sua famiglia ed i suoi alleati, malgrado l’empio aiuto datogli dall’imperatore Isacco; menzionava inoltre vaghe dicerie secondo cui Saladino stesso sarebbe stato duramente sconfitto vicino ad Antiochia 18. Le notizie giunte in Francia l’anno seguente erano meno ottimistiche, tuttavia si seppe che, grazie all’aiuto dei siciliani, i franchi stavano passando all’offensiva19. Inoltre l’imperatore Federico Barbarossa era ormai in viaggio verso il Levante20. Per i re di Francia e d’Inghilterra era tempo di partire. Dopo aver chiesto il parere del suo consiglio, Riccardo accettò l’incontro di Vézélay. Tornò in Normandia a Natale e si preparò a partire per la Palestina a primavera inoltrata. Ma all’ultimo momento ogni cosa dovette essere rinviata a causa dell’improvvisa morte della regina di Francia, Isabella di Hainault, avvenuta ai primi di marzo21. Era già il 4 luglio quando i due re si incontrarono a Vézélay con i loro cavalieri e la fanteria, pronti a partire per la santa impresa22. Erano passati ormai tre anni dalla battaglia di Hattin, così disastrosa per il regno di Gerusalemme, ed era stato un bene per i franchi d’Oriente che gli altri crociati non avessero perso tanto tempo. Il tempestivo aiuto di re Guglielmo di Sicilia aveva conservato alla cristianità Tiro e Tripoli. Guglielmo morì il 18 novembre 1189; il suo successore Tancredi si trovò a dover affrontare aspri contrasti in patria23. Ma già in settembre una flotta danese e fiamminga (che ottimistici cronisti stimavano di cinquecento unità) arrivò alle coste siriane, e quasi nello stesso tempo giunse Giacomo, signore di Avesnes, il più valoroso cavaliere delle Fiandre 24. Perfino tra gli inglesi non tutti avevano aspettato che il loro re si muovesse. Una piccola flotta equipaggiata da londinesi lasciò il Tamigi in agosto e giunse in Portogallo il mese dopo. Qui, come già avevano fatto circa quarant’anni prima i loro compatrioti, accettarono di servire temporaneamente agli ordini del re portoghese, e, grazie al loro aiuto, re Sandro poté riprendere all’Islam la fortezza di Silves, a oriente del capo San Vincenzo. Nel giorno di san Michele i londinesi proseguirono la navigazione attraverso lo stretto di Gibilterra25. Tuttavia il corpo di spedizione più importante partito per la Terra Santa era l’esercito dell’imperatore Federico Barbarossa. Federico era stato profondamente colpito dalla notizia dei disastri di Palestina. Da quando era tornato con suo zio Corrado dalla sfortunata seconda crociata aveva sempre desiderato di combattere di nuovo contro gli infedeli. Era un uomo vecchio ormai, prossimo ai settant’anni, e aveva governato la Germania per trentacinque anni. L’età non aveva diminuito il suo coraggio né il suo fascino, ma parecchie amare esperienze gli avevano insegnato la prudenza. Non aveva avuto molti contatti personali con la Palestina, dove pochissimi erano i coloni di origine tedesca; e la lunga lotta da lui sostenuta con il papato aveva reso il governo franco titubante nel richiedere il suo aiuto. Però la casa del Monferrato era sempre stata tra i suoi sostenitori e può darsi che le notizie della valorosa difesa di Tiro ad opera di Corrado l’avessero incoraggiato. Il recente matrimonio del suo erede Enrico con la principessa siciliana Costanza costituiva uno stretto vincolo con i normanni del sud e la morte di papa Urbano III nell’autunno del 1187 lo aveva messo in grado di fare la pace con Roma. Gregorio Vili accettò con premura un alleato così importante per il riscatto della cristianità e Clemente III era altrettanto ben disposto26. Federico prese la croce a Magonza il 27 marzo 1188 dalle mani del cardinale di Albano. Era la quarta domenica di Quaresima, nota per l’introito della messa come «Laetare Hierusalem».27

Trascorse però più di un anno prima che egli fosse pronto a partire per l’Oriente. La reggenza dei suoi possedimenti venne affidata al figlio, il futuro Enrico VI mentre il suo grande rivale in Germania, Enrico il Leone di Sassonia, ebbe l’ordine di cedere i propri diritti su una parte delle terre che gli appartenevano, oppure di accompagnare la crociata a proprie spese, ovvero di andare in esilio per tre anni; egli scelse quest’ultima alternativa, ritirandosi alla corte del suocero, Enrico II d’Inghilterra28. Grazie alla benevolenza papale la Chiesa tedesca ritrovò la pace dopo una lunga serie di dispute. La frontiera occidentale della Germania fu rafforzata con la creazione di una nuova marca di confine29. Mentre raccoglieva il suo esercito Federico scrisse ai sovrani di cui stava per attraversare i territori: il re d’Ungheria, l’imperatore Isacco Angelo ed il sultano selgiuchida Kilij Arslan; mandò pure un ambasciatore, Enrico di Dietz, con una lettera altezzosa per Saladino, nella quale chiedeva la restituzione di tutta la Palestina ai cristiani e lo sfidava a battaglia sul campo di Zoan per il novembre del 1189 30. Il re d’Ungheria ed il sultano selgiuchida risposero con messaggi in cui promettevano assistenza. Un’ambasceria bizantina arrivò a Norimberga nel corso del 1188 per fissare i particolari del passaggio dei crociati attraverso il territorio di Isacco31. Invece la risposta di Saladino, sebbene cortese, fu altera. Egli offriva di rilasciare i prigionieri franchi e di restituire le abbazie latine in Palestina ai loro proprietari, ma nient’altro. Altrimenti sarebbe stata la guerra. Ai primi di maggio del 1189 Federico partì da Ratisbona, accompagnato dal suo secondogenito Federico di Svevia e da molti dei suoi maggiori vassalli; il suo esercito, in quanto singolo corpo di spedizione, era il più grande di quanti fossero mai partiti per una crociata; era ben armato e ben disciplinato32. Re Bela gli diede un amichevole benvenuto ed ogni facilitazione per il passaggio attraverso l’Ungheria. Il 23 giugno Federico attraversò il Danubio a Belgrado e penetrò in territorio bizantino33. Qui cominciarono i guai. L’imperatore Isacco Angelo non era l’uomo adatto a fronteggiare una situazione che richiedeva tatto, pazienza e coraggio. Era un cortigiano intelligente, ma debole di carattere, giunto al trono per caso e rimasto sempre consapevole di avere molti rivali potenziali nei propri territori. Sospettava di tutti i propri ufficiali, ma non osava controllarli strettamente. Né le forze armate del suo Impero, né le sue finanze si erano riprese dallo sforzo imposto dal governo di Manuele Comneno. Il tentativo dell’imperatore Andronico di riformare l’amministrazione non era sopravvissuto alla sua caduta. L’Impero era più corrotto che mai. Elevate e ingiuste tassazioni causavano disordini nei Balcani, Cipro era in rivolta sotto la guida di Isacco Comneno, la Cilicia era stata persa ad opera degli armeni, i turchi stavano intaccando le province imperiali nell’Anatolia centrale e sud-occidentale mentre i normanni avevano lanciato un grande attacco contro l’Epiro e la Macedonia. La sconfitta dei normanni fu il solo trionfo militare del regno di Isacco Angelo. Per il resto egli si affidava alla diplomazia. Strinse alleanza con Saladino, con grande scandalo dei franchi d’Oriente. Il motivo che lo aveva spinto a questo non era il desiderio di danneggiare i loro interessi, ma l’intenzione di frenare la potenza dei Selgiuchidi; però il fatto che egli avesse tra l’altro ottenuto che i Luoghi Santi di Gerusalemme fossero restituiti alle cure degli ortodossi fu particolarmente offensivo per l’Occidente. Per accrescere il proprio potere sui Balcani strinse amicizia con re Bela d’Ungheria, di cui sposò la giovane figlia Margherita nel 1185. Ma la tassa straordinaria imposta per il matrimonio fu la scintilla dell’aperta ribellione di serbi e bulgari, che già mordevano il freno. Nonostante alcuni successi iniziali, i suoi generali furono incapaci di domare i ribelli. Quando Federico giunse a Belgrado, si era già formato sulle colline della parte nord-occidentale della penisola uno Stato serbo indipendente, e benché le forze bizantine occupassero ancora le fortezze lungo la strada principale per Costantinopoli, predoni bulgari erano

padroni della campagna34. L’esercito tedesco aveva appena attraversato il Danubio e già cominciavano le difficoltà. Briganti serbi e bulgari attaccavano i soldati sbandati, mentre i contadini erano spaventati ed ostili. I tedeschi accusarono subito i bizantini di fomentare questa ostilità, rifiutando di rendersi conto che Isacco non aveva il potere di mettervi freno. Saggiamente Federico ricercò l’amicizia dei capi ribelli. Stefano Nemanya, principe di Serbia, venne con suo fratello Sraćimir a Niš per ossequiare il sovrano tedesco quando questi attraversò la città in luglio; mentre i fratelli Vlach, Ivan Asen e Pietro, capi della rivolta bulgara, gli mandarono messaggi in cui gli promettevano il loro aiuto. La notizia di questi contatti provocò alla corte di Costantinopoli un’inquietudine ben comprensibile. Isacco già diffidava delle intenzioni di Federico. I suoi precedenti ambasciatori alla corte tedesca, Giovanni Ducas e Costantino Cantacuzeno, erano stati inviati per ricevere Federico al suo ingresso nel territorio bizantino ma, con grande scandalo del loro vecchio amico, lo storico Niceta Coniate, avevano approfittato di questa loro missione per aizzare Federico contro Isacco, il quale era stato ben presto informato dei loro intrighi. Mentre la diffidenza del Barbarossa verso Bisanzio, che risaliva alle sue esperienze durante la seconda crociata, veniva ravvivata dalle mene della sua scorta bizantina, il buon senso di Isacco venne meno. Fino a quel momento la disciplina dell’esercito tedesco e le adeguate disposizioni delle autorità bizantine per il suo vettovagliamento avevano impedito spiacevoli incidenti. Ma quando Federico occupò Filippopoli e da lì mandò ambasciatori a Costantinopoli per predisporre il passaggio delle proprie truppe in Asia, Isacco li imprigionò con l’intenzione di trattenerli come ostaggi per garantirsi una pacifica condotta da parte di Federico. Isacco si era completamente sbagliato nel giudicarlo; l’imperatore tedesco spedì immediatamente suo figlio Federico di Svevia ad occupare la città di Didymotichon in Tracia come contro-ostaggio e scrisse in patria a suo figlio Enrico di preparare una flotta da usare contro Bisanzio e di ottenere la benedizione del papa per una crociata contro i greci. Se gli stretti non erano in mano ai franchi, diceva, la crociata non avrebbe mai avuto alcun successo. Di fronte alla prospettiva di un attacco a Costantinopoli da parte dell’esercito tedesco coadiuvato da una flotta occidentale, Isacco tergiversò per alcuni mesi, ma alla fine cedette e rilasciò gli ambasciatori tedeschi. La pace fu ricomposta alla bell’e meglio ad Adrianopoli. Isacco consegnò ostaggi a Federico e promise di provvedere delle navi, se egli avesse voluto attraversare i Dardanelli invece del Bosforo, e di rifornirlo di viveri durante il suo passaggio attraverso l’Anatolia. Il Barbarossa desiderava proseguire per la Palestina perciò dominò la collera ed accettò i patti. L’esercito tedesco aveva marciato molto lentamente attraverso i Balcani e Federico era troppo prudente per spingersi in Anatolia durante l’inverno. Trascorse i mesi invernali ad Adrianopoli, mentre i cittadini di Costantinopoli temevano che egli respingesse le scuse di Isacco e marciasse contro la loro città. Finalmente nel marzo 1190 l’intera spedizione si mosse verso Gallipoli, sui Dardanelli e con l’aiuto dei trasporti bizantini passò in Asia, con gran sollievo di Isacco e dei suoi sudditi35. Lasciando la sponda asiatica dei Dardanelli, Federico seguì grosso modo la strada percorsa da Alessandro Magno quindici secoli prima, attraversando il Granico ed il fiume Angelocomites in piena, finché raggiunse una via maestra bizantina, lastricata, tra Miletopoli e la moderna Balikesir. Seguì questa strada attraverso Calamo sino a Filadelfia, dove gli abitanti si mostrarono dapprima ospitali, ma poi tentarono di derubare la retroguardia dell’esercito e ne vennero puniti. Raggiunse Laodicea il 27 aprile, trenta giorni dopo la traversata dei Dardanelli. Di qui si spinse nell’interno, lungo la via percorsa da Manuele nella sua fatale marcia verso Miriocefalo, ed il 3 maggio, dopo una

scaramuccia con i turchi, passò per il luogo della battaglia dove si vedevano ancora le ossa dei caduti. Si trovava ora nel territorio controllato dal sultano selgiuchida. Era chiaro che Kilij Arslan, malgrado le sue promesse, non aveva l’intenzione di permettere ai crociati di attraversare in pace i propri domini; però, tenuto in rispetto dalla mole del loro esercito, si accontentò di girare loro intorno, rastrellando gli sbandati e disturbando il vettovagliamento. Fu una tattica efficace: la fame, la sete e le frecce turche cominciarono a causare delle perdite. Facendosi strada ai piedi delle montagne del Sultan Dagh, lungo la vecchia via che conduce da Filomelio verso est, Federico giunse a Konya il 17 maggio. Il sultano e la sua corte si erano ritirati davanti a lui e, dopo un’aspra battaglia con il figlio del sultano, Qutb ed-Din, egli poté entrare a viva forza nella città il giorno seguente. Non rimase a lungo tra le mura, però permise al suo esercito di riposarsi per qualche tempo nei giardini di Meram, nei sobborghi meridionali. Sei giorni dopo si mosse verso Karaman dove arrivò il 30, quindi condusse l’esercito attraverso i passi del Tauro senza incontrare resistenza, dirigendosi verso la costa meridionale, a Seleucia. Il porto era in quel momento nelle mani degli armeni il cui catholicus si affrettò ad inviare un messaggio a Saladino. La strada passava per una regione difficile, il cibo era scarso ed il calore estivo intenso36. Il 10 giugno il grande esercito discese nella piana di Seleucia e si preparò ad attraversare il fiume Calicadno per entrare nella città. L’imperatore cavalcava in testa con la sua guardia del corpo e giunse vicino all’acqua. Che cosa sia successo allora è incerto: o scese da cavallo per rinfrescarsi nelle gelide acque, la cui corrente era più impetuosa di quanto supponesse, o il suo organismo ormai vecchio non poté sopportare la brusca reazione, o fors’anche il cavallo scivolò gettandolo in acqua, mentre il peso dell’armatura lo faceva affondare. Quando l’esercito giunse al fiume il suo cadavere era stato ricuperato e giaceva sulla riva37. La morte del grande imperatore fu un duro colpo non soltanto per il suo seguito, ma per tutto il mondo franco. La notizia della sua venuta alla testa di un numeroso esercito aveva fortemente rianimato i cavalieri che combattevano sulla costa siriana. Le sue forze da sole sembravano sufficienti per ricacciare i musulmani, e la loro unione con gli eserciti dei re di Francia e d’Inghilterra, che si sapeva sarebbero partiti presto per l’Oriente, avrebbe certamente permesso alla cristianità di riconquistare la Terra Santa. Saladino stesso temeva che la coalizione potesse essere troppo forte per lui. Quando udì che Federico era in viaggio per Costantinopoli mandò il suo segretario e futuro biografo Beha ed-Din, a Bagdad per avvertire il califfo Nasr che i fedeli dovevano riunirsi per affrontare la minaccia, ed ordinò a tutti i suoi vassalli di raggiungerlo. Raccolse informazioni su ogni tappa della marcia dell’esercito tedesco e credette erroneamente che Kilij Arslan stesse segretamente aiutando gli invasori. Quando, all’improvviso, si diffuse la notizia della morte di Federico, parve ai musulmani che Dio avesse operato un miracolo a favore della fede. L’esercito che Saladino aveva riunito per affrontare i tedeschi nel nord della Siria poteva tranquillamente essere ridotto e vari distaccamenti potevano essere inviati a raggiungere le altre truppe sulla costa della Palestina38. Il pericolo era stato grande per l’Islam e Saladino aveva ragione di vedere nella morte dell’imperatore la propria salvezza. Sebbene un certo numero di soldati fosse perito e qualche equipaggiamento perduto nella difficile marcia attraverso l’Anatolia, tuttavia l’esercito dell’imperatore era ancora formidabile. Ma i tedeschi, che aspirano ad avere un capo da venerare, generalmente si demoralizzano quando il condottiero scompare. Le truppe di Federico si persero d’animo. Il duca di Svevia assunse il comando ma, benché fosse abbastanza valoroso, non possedeva la forte personalità del padre. Alcuni principi decisero di ritornare in Europa con i loro uomini, altri

si imbarcarono da Seleucia o da Tarso per Tiro. Il duca, con l’esercito molto ridotto, proseguì la marcia nell’umido calore estivo della piana di Cilicia portando con sé il corpo dell’imperatore conservato nell’aceto. Dopo qualche esitazione il principe armeno Leone fece una deferente visita al campo tedesco. Ma i capi non riuscirono ad organizzare in modo soddisfacente il vettovagliamento dei loro uomini. Prive del controllo dell’imperatore, le truppe persero la loro disciplina; parecchi erano affamati, altri ammalati e tutti erano insubordinati. Il duca stesso cadde gravemente infermo e dovette trattenersi in Cilicia. Il suo esercito continuò senza di lui ma venne attaccato e subì gravi perdite nell’attraversare le Porte di Siria. Quella che arrivò il 21 giugno ad Antiochia era una plebe miserabile; Federico la raggiunse alcuni giorni più tardi quando si fu ristabilito39. Il principe Boemondo di Antiochia riservò ai tedeschi un’accoglienza molto ospitale che fu la loro rovina. Privati del loro capo avevano perso l’entusiasmo, e dopo le privazioni del viaggio erano poco propensi ad abbandonare le comodità di Antiochia, mentre gli eccessi a cui indulgevano non miglioravano la loro salute. Federico di Svevia, soddisfatto degli omaggi ricevuti da Boemondo e incoraggiato da una visita che suo cugino Corrado del Monferrato gli aveva fatto da Tiro, era ansioso di proseguire il viaggio. Ma nel lasciare Antiochia alla fine di agosto si trovò con un esercito ulteriormente assottigliato, mentre molti franchi che egli era venuto a soccorrere non seppero neppure apprezzare il suo sforzo. Tutti gli avversari di Corrado, sapendo che Federico era suo cugino ed amico, mormoravano che Saladino aveva pagato a Corrado sessantamila bisanti perché lo facesse andar via da Antiochia, dove la sua presenza sarebbe stata più utile per la causa cristiana. Con appropriato simbolismo anche il corpo del vecchio imperatore si era decomposto. L’aceto era stato inefficace ed i resti putrefatti furono rapidamente sepolti nella cattedrale di Antiochia. Ma alcune ossa furono tolte dal cadavere e continuarono il viaggio assieme all’esercito nella vana speranza che almeno una parte di Federico Barbarossa potesse aspettare il giorno del giudizio in Gerusalemme40. Il tragico insuccesso della crociata dell’imperatore rese ancora più urgente la necessità che i re di Francia e d’Inghilterra arrivassero in Oriente per prendere parte alla dura e fatale contesa che si era impegnata sulle coste della Palestina settentrionale.

Capitolo secondo Acri

Ecco, io sto per fare rientrare nella città le armi di guerra che sono nelle vostre mani e con le quali voi combattete, fuori delle mura, contro il re di Babilonia e contro i Caldei che vi assediano... Geremia, XXI, 4

Nel momento del successo Saladino aveva commesso un grave errore lasciandosi intimorire dalle fortificazioni di Tiro. Se avesse marciato sulla città immediatamente dopo la conquista di Acri, nel luglio del 1187, se ne sarebbe impadronito. Ma egli pensò che la resa di Tiro fosse già stata predisposta ed indugiò alcuni giorni. Quando arrivò davanti alla città vi era giunto ormai anche Corrado del Monferrato che rifiutava di prendere in considerazione l’idea di capitolare. In quel momento Saladino non era attrezzato per intraprendere un assedio sistematico della piazzaforte e proseguì verso più facili conquiste. Soltanto in ottobre, dopo la caduta di Gerusalemme, egli tentò un secondo assalto contro Tiro con un grande esercito e tutte le sue macchine da assedio. Ma le mura attraverso lo stretto istmo erano state ormai rinforzate da Corrado, che dedicò il denaro portato con sé da Costantinopoli a migliorare tutte le opere di difesa. Quando le macchine di Saladino si furono dimostrate inefficaci e la sua flotta fu distrutta in una battaglia all’entrata del porto, egli levò ancora una volta l’assedio e congedò la maggior parte delle truppe. Prima che gli riuscisse di completare la conquista della costa, erano arrivati i soccorsi da oltremare1. Le forze inviate da Guglielmo II di Sicilia nella tarda primavera del 1188 non erano numerose ma consistevano di una flotta bene armata al comando dell’ammiraglio Margarito e di duecento cavalieri bene addestrati. La presenza di questi rinforzi obbligò Saladino a levare l’assedio al Krak des Chevaliers nel luglio del 1188 e lo dissuase dall’attaccare Tripoli 2. Egli sarebbe stato contento ora di trattare la pace. C’era a Tiro un cavaliere, arrivato in tempo per partecipare alla difesa: il suo nome era sconosciuto, ma dall’armatura che indossava lo chiamarono il Conte Verde. Il suo valore e la sua audacia impressionarono grandemente Saladino che si incontrò con lui vicino a Tripoli nell’estate del 1188, nella speranza di persuaderlo a favorire una tregua e a passare al servizio dei saraceni. Ma il Conte Verde rispose che i franchi non avrebbero preso in considerazione null’altro che la restituzione del loro paese, specialmente ora che stavano giungendo aiuti dall’Occidente: Saladino evacuasse dunque la Palestina ed allora avrebbe trovato in loro i più fedeli alleati3. Sebbene non si potesse fare la pace, Saladino mostrò le sue amichevoli intenzioni rilasciando alcuni dei suoi prigionieri più importanti. Aveva adottato la tattica di indurre i signori franchi che teneva in prigionia ad ottenere la libertà in cambio della resa dei loro castelli: era un modo rapido e facile di impadronirsi delle fortezze. La sua condotta cavalleresca si spinse ancora più in là: quando Stefania, signora della Transgiordania, non ottenne che le sue guarnigioni a Kerak e a Montreal si arrendessero in cambio del rilascio di suo figlio, Honfroi di Toron, Saladino glielo restituì ancor prima che gli ostinati castelli fossero presi d’assalto. Il prezzo della libertà di re Guido doveva essere Ascalona, ma gli abitanti, vergognandosi dell’egoismo del loro re, non vollero accettare le sue

decisioni. Ascalona era caduta ormai, perciò la regina Sibilla scrisse più e più volte a Saladino per chiedergli di restituirle il marito. Nel luglio del 1188 Saladino le concesse quanto chiedeva. Dopo aver giurato solennemente che se ne sarebbe tornato oltre mare e mai più avrebbe preso le armi contro i musulmani, re Guido fu inviato a raggiungere la regina a Tripoli, insieme con dieci importanti personaggi del seguito tra cui il conestabile Amalrico. Allo stesso tempo fu permesso all’anziano marchese del Monferrato di tornare da suo figlio a Tripoli4. La generosità di Saladino allarmò i suoi compatrioti. Non solo egli aveva permesso che i cittadini franchi di ogni città arresasi se ne andassero a raggiungere i loro compagni a Tiro o a Tripoli, ma ancora accresceva le guarnigioni di queste ultime fortezze cristiane col rendere la libertà a tanti signori prigionieri. Ma Saladino sapeva bene che cosa stava facendo. Le lotte di partito che avevano travagliato gli ultimi anni del regno di Gerusalemme erano state composte dal tatto di Baliano di Ibelin soltanto poche settimane prima della battaglia di Hattin ed erano scoppiate di nuovo proprio alla vigilia del combattimento. La sconfitta le esasperò. I sostenitori di Lusignano e di Courtenay rinfacciavano quel disastro a Raimondo di Tripoli, mentre gli amici di quest’ultimo, gli Ibelin e i Garnier e la maggior parte della nobiltà locale, l’attribuivano con maggior ragione alla debolezza dire Guido, all’azione dei templari e di Rinaldo di Châtillon. Raimondo e Rinaldo erano morti ormai, ma l’amarezza rimaneva. Rinchiusi tra le mura di Tiro i nobili spodestati avevano poco altro da fare che recriminare gli uni contro gli altri. Baliano ed i suoi amici sfuggiti alla prigionia accettavano Corrado del Monferrato come loro capo; avevano visto che lui solo aveva salvato Tiro. Ma i sostenitori di Guido, tornati in libertà quando il momento peggiore della crisi era ormai passato, vedevano in lui soltanto un intruso, un potenziale rivale del loro re. Il rilascio di Guido, invece di rinforzare i franchi, portò la disputa al parossismo5. La regina Sibilla, probabilmente per sfuggire ad un ambiente ostile a suo marito, si era ritirata a Tripoli. Questa città, alla morte di Raimondo nell’autunno 1187 era passata al giovane figlio del cugino di lui, Boemondo di Antiochia; e questi, sia per indolenza, sia forse per la soddisfazione di veder rafforzata la propria guarnigione, non sollevò alcuna obiezione quando i sostenitori di Lusignano vi si raccolsero attorno a lei. Guido la raggiunse appena liberato e si trovò subito un sacerdote per esonerarlo dal suo giuramento a Saladino: era stato fatto in prigionia e ad un infedele, perciò, disse la Chiesa, non era valido. Saladino si adirò, ma non ne fu probabilmente sorpreso. Dopo aver visitato Antiochia, dove Boemondo gli fece vaghe promesse d’aiuto, Guido marciò con i suoi sostenitori da Tripoli a Tiro con l’intenzione di riprendere il governo di ciò che rimaneva del proprio regno, ma Corrado gli chiuse le porte in faccia. Nell’opinione del partito di Corrado, Guido aveva perso il diritto al regno con la battaglia di Hattin e durante la prigionia. Aveva lasciato lo Stato senza governo, e tutto sarebbe stato perso senza l’intervento di Corrado. Alla richiesta di Guido di essere accolto come re, quegli rispose che teneva Tiro in custodia per i monarchi crociati che stavano venendo a riscattare la Terra Santa; l’imperatore Federico ed i re di Francia e d’Inghilterra avrebbero deciso a chi dovesse essere affidato il potere. Era una pretesa abbastanza giusta e favoriva Corrado. Riccardo d’Inghilterra, come sovrano dei Lusignani di Guienne, poteva favorire la causa di Guido, ma l’imperatore e Filippo di Francia erano cugini ed amici di Corrado. Guido, desolato, tornò a Tripoli con il suo seguito 6. Fu una fortuna per i franchi che in quel momento Saladino, con il suo esercito in parte dissolto, fosse occupato a sottomettere i castelli nel nord della Siria e che nel gennaio del 1189 congedasse altri contingenti. Egli stesso, dopo aver trascorso i primi mesi dell’anno a Gerusalemme e ad Acri per riorganizzare l’amministrazione della Palestina, in marzo tornò nella sua capitale a Damasco7.

In aprile Guido venne di nuovo a Tiro con Sibilla, e di nuovo chiese che gli venisse dato il governo della città. Avendo trovato Corrado non meno ostinato di prima, si accampò davanti alle mura. Quasi allo stesso tempo arrivarono notevoli rinforzi dall’Occidente. All’epoca della caduta di Gerusalemme i pisani e i genovesi erano occupati in una delle loro solite guerre; però fra i successi ottenuti da papa Gregorio Vili durante il suo breve pontificato si annovera il trattato di tregua tra le due città, e la promessa dei pisani di mandare una flotta alla crociata. Essi partirono prima della fine dell’anno, ma svernarono a Messina. Le loro cinquantadue navi al comando del loro arcivescovo Ubaldo giunsero davanti a Tiro il 6 aprile 1189. Sembra che subito dopo Ubaldo litigasse con Corrado, e quando Guido apparve, i pisani si unirono a lui. Egli si guadagnò anche l’appoggio delle milizie ausiliarie siciliane. Al principio dell’estate vi furono alcune lievi scaramucce tra franchi e musulmani, ma Saladino desiderava che i suoi eserciti riposassero ancora e i cristiani aspettavano maggiori aiuti dall’Occidente. Improvvisamente, alla fine di agosto, re Guido levò il campo e intraprese con i suoi seguaci la marcia verso sud, lungo la strada costiera, per attaccare Acri, mentre le navi pisane e siciliane salpavano per accompagnarlo. Fu un impulso di disperata e folle temerarietà, la decisione di un uomo coraggioso, ma assai poco prudente. Contrastato nel suo desiderio di regnare a Tiro, Guido aveva urgente bisogno di una città da cui ricostituire il suo regno. Corrado era seriamente ammalato in quel momento e al suo rivale sembrò una buona occasione per dimostrare che egli era l’attivo capo dei franchi. Ma il rischio era enorme. La consistenza della guarnigione musulmana di Acri era più di due volte superiore all’intero esercito di Guido, mentre le truppe regolari di Saladino non erano lontane. Nessuno poteva prevedere che l’avventura avrebbe avuto successo: la storia riserva le sue sorprese. Se la spietata energia di Corrado aveva salvato alla cristianità il rimanente della Palestina, l’ardimentosa follia di Guido cambiò il corso degli eventi e iniziò un periodo di riconquista8. Quando le notizie della spedizione di Guido giunsero a Saladino, egli stava assediando il castello di Beaufort, sulle colline dietro Sidone. Il forte, arrampicato su un alto roccione sul fiume Litani, apparteneva a Rinaldo di Sidone e si era salvato fino a quel momento per l’astuzia del suo signore. Questi recatosi alla corte di Saladino, aveva incantato il sultano e i suoi cortigiani con la sua profonda conoscenza della letteratura araba e il suo interesse per l’Islam. Insinuò che, passato un certo tempo, si sarebbe convertito e stabilito a Damasco. Ma i mesi passavano e nulla accadeva, salvo che le fortificazioni di Beaufort venivano rinforzate. Finalmente, ai primi di agosto, Saladino decise che era venuto il momento di costringere il castello alla resa, come pegno della serietà delle intenzioni di Rinaldo. Questi fu accompagnato con una scorta alle mura del forte ed ordinò al comandante della guarnigione, in arabo, di arrendersi, e, in francese di resistere; gli arabi compresero l’astuzia, ma erano impotenti ad impadronirsi d’assalto del castello. Mentre Saladino raccoglieva le sue forze per bloccarlo, Rinaldo fu gettato in prigione a Damasco9. Saladino pensò dapprima che Guido, con la sua marcia, intendesse ricacciare da Beaufort l’esercito saraceno, ma presto le sue spie gli riferirono che l’obiettivo era Acri. Egli volle allora attaccare i franchi mentre risalivano la Scala di Tiro, e il promontorio di Naqura, ma il suo consiglio non fu d’accordo. Sarebbe stato meglio, dissero, lasciarli giungere ad Acri e coglierli tra la guarnigione e l’esercito del sultano. Saladino, che non stava bene di salute in quel tempo, per debolezza lasciò fare10. Guido arrivò nelle vicinanze di Acri il 28 agosto e stabilì il suo campo sulla collina di Turon, la moderna Tel el-Fukhkhar, un miglio a est della città, vicino al piccolo fiume Belus, che forniva ai suoi uomini l’acqua necessaria. Quando, tre giorni dopo, fallì il suo primo tentativo di prendere la città d’assalto, si sistemò in attesa di rinforzi11. Acri era costruita su una piccola penisola che si

spinge verso sud nel golfo di Haifa. A sud e ad ovest era protetta dal mare e da un robusto muraglione. Un molo si spingeva a sud-est fino a un roccione, su cui torreggiava un forte chiamato la Torre delle Mosche. Dietro il molo c’era un porto protetto contro tutti i venti salvo quello di terra. A nord e ad est la città era difesa da grandi mura che a nord-est si univano ad angolo retto con un forte chiamato la Torre Maledetta. Le due porte di terraferma si trovavano alle due estremità del muro, vicino alla spiaggia.

X.

I dintorni di Acri nel 1189.

Verso il mare una grande porta si apriva sul porto e un’altra più oltre, su un ancoraggio esposto al predominante vento occidentale. Sotto i re franchi Acri era stata la più ricca città del regno e la loro residenza preferita. Saladino l’aveva visitata spesso negli ultimi mesi ed aveva accuratamente riparato i danni arrecati dalle sue truppe quando se ne erano impadronite. Era una robusta fortezza, ora, con una buona guarnigione e molte provviste, in grado di resistere a lungo12. I rinforzi cominciarono ad arrivare dall’Occidente al principio di settembre. Per prima giunse

una grande flotta di danesi e di frisoni, soldati indisciplinati, ma ottimi marinai, le cui galee furono di inestimabile utilità per bloccare la città dal mare, specialmente quando la squadra siciliana si ritirò, in novembre, per la morte di Guglielmo di Sicilia13. Alcuni giorni dopo giunsero altre navi dall’Italia portando truppe fiamminghe e francesi, guidate dal valoroso cavaliere Giacomo di Avesnes 14, dai conti di Bar, Brienne e Dreux e da Filippo, vescovo di Beauvais. Prima della fine del mese giunse un gruppo di tedeschi, agli ordini di Luigi, langravio di Turingia, che aveva preferito viaggiare con i suoi seguaci per mare anziché accompagnare l’imperatore. Con lui c’erano il conte di Gheldria e una compagnia di italiani agli ordini di Gerardo, arcivescovo di Ravenna, e del vescovo di Verona. Questi arrivi allarmarono Saladino che cominciò a riunire di nuovo i suoi vassalli e se ne partì da Beaufort con una parte del suo esercito, lasciandovi solo un distaccamento ridotto per terminare la conquista del castello. Il 15 settembre fallì il suo attacco contro il campo di Guido, ma suo nipote Taki aggirando le linee franche poté oltrepassarle e ristabilire il contatto con la porta nord della città. Egli stesso stabilì il suo accampamento leggermente ad oriente di quello cristiano. Presto i franchi furono in condizioni di prendere l’offensiva. Luigi di Turingia, al suo passaggio per Tiro, riuscì a convincere Corrado del Monferrato ad unirsi all’esercito franco alla condizione che non avrebbe dovuto servire agli ordini di Guido. Il 4 ottobre, dopo avere fortificato il loro campo ed averlo affidato al comando di Goffredo, fratello di Guido, i franchi lanciarono un grande attacco contro le linee di Saladino. Fu una dura battaglia. Taki, all’ala destra saracena si ritirò per attirare i templari che stavano di fronte a lui, ma Saladino stesso fu ingannato dalla manovra ed indebolì il centro per correre in suo soccorso. Come conseguenza sia la destra che il centro furono posti in fuga con gravi perdite: alcuni soldati non fermarono i loro cavalli se non quando ebbero raggiunto Tiberiade. Il conte di Brienne entrò nella stessa tenda del sultano. Ma la sinistra saracena era intatta e quando i cristiani ruppero i ranghi per inseguire i fuggiaschi, Saladino li caricò e li ricacciò indietro in disordine verso il loro accampamento che nello stesso tempo veniva attaccato da una sortita della guarnigione di Acri. Goffredo di Lusignano tenne duro e ben presto la maggior parte dell’esercito cristiano si trovò in salvo dietro le fortificazioni, dove Saladino non osò assalirlo. Molti cavalieri franchi, tra cui Andrea di Brienne, caddero sul campo. Le truppe tedesche si lasciarono prendere dal panico e furono duramente provate; le perdite furono alte anche tra i templari. Il loro gran maestro, Gerardo di Ridfort, che era stato il cattivo genio di re Guido nei giorni che precedettero Hattin, fu catturato e pagò con la morte le sue follie. Corrado stesso sfuggi alla cattura soltanto per il cavalleresco intervento del suo rivale, re Guido15. La vittoria era toccata ai musulmani, ma non era completa: i cristiani non erano stati sloggiati e durante l’autunno giunsero altri rinforzi dall’Occidente. La flotta londinese arrivò in novembre, incoraggiata dai suoi successi in Portogallo16. I cronisti citano parecchi altri crociati appartenenti alla nobiltà di Francia, Fiandra, Italia e perfino d’Ungheria e di Danimarca17. Molti cavalieri occidentali non avevano voluto aspettare i loro lenti sovrani. Grazie all’arrivo di queste forze i franchi furono in condizione di completare il blocco di Acri dalla parte di terra. Ma anche i saraceni stavano ricevendo rinforzi. La notizia del viaggio dell’imperatore Federico, mentre incoraggiava i cristiani, indusse Saladino a convocare i suoi vassalli da tutta l’Asia; egli scrisse persino ai musulmani del Marocco e della Spagna per dir loro che se la cristianità occidentale stava inviando i suoi cavalieri a combattere per la Terra Santa, l’Islam d’Occidente doveva fare altrettanto. Essi gli risposero con simpatia, ma con scarsissimi aiuti reali18. Nondimeno il suo esercito fu ben presto

abbastanza numeroso da permettergli di circondare a sua volta i cristiani. Gli assedianti divennero così anch’essi assediati. Il 31 ottobre cinquanta galee musulmane forzarono il blocco della flotta franca, nonostante la perdita di alcune navi, per portare cibo e munizioni ad Acri; ed il 26 dicembre una flotta egiziana ancor più numerosa ristabilì le comunicazioni con il porto19. Per tutto l’inverno gli eserciti si fronteggiarono senza impegnarsi. Vi furono scaramucce e duelli, ma al tempo stesso i soldati cominciarono a fraternizzare. I cavalieri di ambedue le parti impararono a conoscersi e a rispettarsi mutuamente. Un combattimento poteva essere interrotto mentre i protagonisti si intrattenevano in amichevole conversazione. Soldati nemici potevano essere invitati a partecipare a feste e divertimenti organizzati nell’altro campo. Un giorno i ragazzini che vivevano nel campo saraceno sfidarono i ragazzi cristiani a un’allegra, finta battaglia. Saladino stesso si distingueva per le gentilezze che usava ai cristiani prigionieri e per i cortesi messaggi e doni che inviava ai loro principi. I più fanatici dei suoi seguaci si domandavano che trasformazione avesse mai subito la guerra santa che egli aveva chiesto al califfo di predicare; e nemmeno i cavalieri appena arrivati dall’Occidente trovavano un ambiente facile da capire. In superficie la guerra aveva perduto asprezza, però ambedue le parti erano fermamente decise a vincere20. Nonostante queste piacevoli cortesie la vita era dura al campo cristiano in quell’inverno: il cibo era scarso, specialmente da quando i franchi avevano perduto il dominio del mare. All’avvicinarsi della stagione più mite l’acqua diventò un problema e le disposizioni sanitarie si rivelarono insufficienti. Diverse malattie serpeggiavano tra le truppe. Provati dalle difficoltà dei loro uomini, Guido e Corrado giunsero ad un accordo: Corrado avrebbe governato Tiro, con Beirut e Sidone quando fossero state riconquistate, ed avrebbe riconosciuto Guido come re. Fatta così la pace tra di loro, Corrado lasciò il campo in marzo ed alla fine del mese tornò da Tiro con navi cariche di viveri ed armi. La flotta di Saladino usci dal porto di Acri per intercettarlo, ma dopo un’aspra battaglia le navi saracene furono respinte, sebbene avessero fatto uso del fuoco greco, e Corrado poté sbarcare le merci. Con l’aiuto del materiale portato i franchi costruirono torri da assedio in legno, con le quali il 5 maggio tentarono di dare l’assalto alla città. Ma le torri vennero incendiate21. Presto fame e malattie riapparvero nel campo cristiano, né era di grande consolazione sapere che anche ad Acri vi era carestia, sebbene di tanto in tanto le navi saracene riuscissero ad aprirsi un varco verso il porto per recare nuove provviste22. Durante tutta la primavera contingenti di musulmani si unirono all’esercito di Saladino. Il 19 maggio, vigilia di Pentecoste, egli iniziò contro il campo un attacco che fu respinto solo dopo otto giorni di combattimenti23. La seguente battaglia in grande scala avvenne il giorno di san Giacomo, il 25 luglio, quando i soldati franchi, guidati dai loro sottufficiali e contro il volere dei capi, attaccarono arditamente il campo di Taki, sulla destra di Saladino. Furono duramente sconfitti e molti perirono. Un nobile crociato inglese, Rodolfo di Alta Ripa, arcidiacono di Colchester, accorse in loro aiuto e fu ucciso24. Durante l’estate altri crociati di alti natali giunsero al campo e vi furono accolti con gioia, anche se ogni nuovo soldato significava una bocca in più da nutrire. Vi erano tra di loro parecchi dei maggiori nobili francesi e borgognoni, affrettatisi a precedere il loro re. C’era Tibaldo, conte di Blois e suo fratello Stefano di Sancerre, che era stato un riluttante candidato alla mano della regina Sibilla, Rodolfo conte di Clermont, Giovanni conte di Fontigny ed Alano di Saint-Valéry, insieme con l’arcivescovo di Besançon, i vescovi di Blois e di Toul ed altri eminenti ecclesiastici. Il loro capo era Enrico di Troyes conte di Champagne, un giovane di condizione molto elevata perché sua madre, nata dal matrimonio francese di Eleonora d’Aquitania, era sorellastra dei re d’Inghilterra e di

Francia; ambedue i suoi zii avevano un’alta stima di lui. Gli fu subito data una posizione particolare come rappresentante e avanguardia dei re. Egli assunse il comando delle operazioni di assedio fino a quel momento dirette da Giacomo d’Avesnes e dal langravio di Turingia 25, ammalato per qualche tempo, probabilmente di malaria, che approfittò del suo arrivo per tornarsene in Europa26. Federico di Svevia giunse ad Acri ai primi di ottobre con i resti dell’esercito del Barbarossa 27. Pochi giorni dopo anche un contingente inglese, capeggiato da Baldovino, arcivescovo di Canterbury, sbarcò a Tiro e venne ad Acri28. Ci furono combattimenti sporadici per tutta l’estate, poiché ambedue le parti aspettavano i rinforzi che avrebbero loro permesso di prendere l’iniziativa dell’attacco. In luglio la caduta di Beaufort liberò alcuni contingenti dell’esercito di Saladino, ma nel frattempo questi aveva inviato delle truppe al nord per intercettare Federico Barbarossa ed esse non ritornarono fino all’inverno. Intanto le scaramucce si alternavano a momenti di fraternizzazione. I cronisti cristiani annotano con compiacimento parecchi casi in cui, con l’aiuto di Dio, i saraceni furono sconfitti e venne ricompensato l’eroismo dei crociati; però ogni tentativo di scalare le mura della città falli. Federico di Svevia lanciò un vigoroso attacco poco dopo il suo arrivo e l’arcivescovo di Besançon poco più tardi ripete la prova con nuovi arieti appena costruiti, ma i due tentativi fallirono29. In novembre i crociati riuscirono a sloggiare Saladino dalle sue posizioni a Tel-Keisan, a cinque miglia dalla città; ma egli si stabilì in una posizione più forte a Tel-Kharruba, un po’ più lontano. Questo però permise ai cristiani di aprirsi un varco verso Haifa per un invio di vettovagliamento che migliorò un poco la situazione nel campo. Ma sia nella città, sia nei due accampamenti regnavano fame e malattie. Nessuna delle due parti era in condizione di fare uno sforzo definitivo30. Tra le vittime della malattia vi fu in quell’autunno la stessa regina Sibilla. Le due figliolette che aveva dato al re Guido morirono pochi giorni prima di lei31. Erede del regno era rimasta la principessa Isabella, e la corona di Guido, da lui ricevuta quale marito della regina, era in pericolo. I suoi diritti sarebbero sopravvissuti alla morte di lei? Ai superstiti baroni del regno, guidati da Ballano di Ibelin, sembrò un’occasione favorevole per sbarazzarsi del suo governo debole e sfortunato. Il loro candidato al trono era Corrado del Monferrato. Se egli avesse potuto sposare Isabella, i suoi diritti sarebbero stati più forti di quelli di Guido. Ma questa soluzione presentava alcune difficoltà: si mormorava che Corrado avesse una moglie a Costantinopoli e fors’ anche un’altra in Italia, e che non si fosse mai preoccupato di annullamenti o divorzi. Ma Costantinopoli e l’Italia erano lontane e se queste mogli abbandonate esistevano potevano essere dimenticate. Un problema più immediato era l’esistenza del marito d’Isabella, Honfroi di Toron, non soltanto vivo, ma presente nel campo. Era un giovane affascinante, valoroso e colto, ma la sua bellezza era troppo femminea perché egli potesse farsi rispettare dai rozzi soldati che vivevano intorno a lui, ed i baroni non avevano mai dimenticato che per debolezza aveva abbandonato la loro causa nel 1186, quando Guido si era impadronito della corona, nonostante le condizioni del testamento di Baldovino IV. Perciò decisero che doveva divorziare. Honfroi si lasciò facilmente persuadere ad accettare: non era tagliato per la vita coniugale e le responsabilità politiche lo atterrivano. Ma Isabella fu meno docile: suo marito era sempre stato gentile con lei ed essa non desiderava cambiarlo per un torvo guerriero di mezza età; né aveva alcuna ambizione per il trono. I baroni lasciarono la faccenda nelle abili mani di sua madre, la regina Maria Comnena, moglie di Baliano. Essa usò della propria autorità materna per convincere la riluttante principessa ad abbandonare Honfroi, poi dichiarò davanti ai vescovi riuniti che sua figlia era stata obbligata al matrimonio da suo zio Baldovino IV e che aveva soltanto

otto anni quando il suo fidanzamento era stato deciso. In considerazione della sua estrema giovinezza e della nota effeminatezza di Honfroi, il matrimonio doveva essere annullato. Il patriarca Eraclio era troppo malato per partecipare alla riunione ed aveva designato a rappresentarlo l’arcivescovo di Canterbury; questi, conoscendo l’affetto del re Riccardo suo signore per i Lusignani, rifiutò di dichiarare l’annullamento. Menzionò il precedente matrimonio di Corrado e dichiarò che le nozze tra questi ed Isabella sarebbero state doppiamente adultere. Ma l’arcivescovo di Pisa, legato del papa, era stato guadagnato alla causa di Corrado dalla promessa (cosi si diceva) di concessioni commerciali ai suoi conterranei, mentre il vescovo di Beauvais, cugino di re Filippo, faceva uso dell’appoggio del legato per assicurarsi l’approvazione generale al divorzio di Isabella; egli stesso la sposò a Corrado il 24 novembre 1190. I sostenitori dei Lusignani erano furibondi per un matrimonio che annullava il diritto di Guido al trono, ed i vassalli inglesi, normanni ed aquitani di re Riccardo simpatizzarono con loro. Ma l’arcivescovo Baldovino, loro massimo rappresentante, dopo aver lanciato scomuniche contro chiunque avesse avuto parte nella faccenda, era morto improvvisamente il 19 novembre. I cronisti inglesi fecero quanto poterono per diffamare la memoria di Corrado. Guido stesso si spinse fino al punto di sfidare Corrado a singolar tenzone, ma questi, sapendo di trovarsi legalmente dalla parte della ragione non volle ammettere che la questione potesse ancora essere discussa. I Lusignani potevano ben dire che questa era codardia, ma tutti quelli che avevano a cuore il futuro del regno si rendevano conto che, se si doveva continuare la dinastia, Isabella doveva risposarsi ed avere un figlio e che Corrado, il salvatore di Tiro, era l’unico candidato possibile per lei. I novelli sposi si stabilirono a Tiro, dove l’anno dopo Isabella diede alla luce una figlia, battezzata Maria come la nonna materna. Corrado, correttamente, non voleva assumere il titolo di re finché egli e sua moglie non fossero stati incoronati ma, poiché Guido rifiutava di rinunziare a qualsiasi diritto, egli non intendeva tornare da Tiro al campo32. Le tribolazioni dei crociati continuarono durante tutti i mesi invernali. I rinforzi di Saladino erano giunti dal nord cosicché ora il campo franco era strettamente circondato. Nessuna provvista di cibo poteva giungere per via di terra e durante l’inverno era quasi impossibile sbarcare sulla costa aperta, mentre le navi saracene potevano di tanto in tanto aprirsi un varco fino al rifugio del porto di Acri. Fra i baroni morti di malattia nell’accampamento vi furono Tibaldo di Blois e suo fratello Stefano di Sancerre33. Il 20 gennaio 1191 morì Federico di Svevia e i soldati tedeschi si ritrovarono senza capo, benché suo cugino, Leopoldo d’Austria, arrivato da Venezia al principio della primavera, cercasse di riunirli sotto la propria bandiera34. Enrico di Champagne fu per parecchie settimane così ammalato che si disperò della sua vita35. Molti soldati, specialmente inglesi, rimproveravano a Corrado la loro triste situazione, perché restava a Tiro e si rifiutava di venire in loro aiuto. Però, quali che fossero i suoi motivi, è difficile dire che cos’altro avrebbe potuto fare; il campo era abbastanza affollato anche senza di lui36. Di tanto in tanto si cercava di scalare le mura: uno sforzo particolare venne fatto il 31 dicembre, quando il naufragio di una nave saracena di soccorso, avvenuto all’imboccatura del porto, aveva distratto la guarnigione, ma l’attacco falli, e sei giorni dopo i cristiani non seppero approfittare del crollo di una parte del muro dal lato della terraferma. Molti disertori passarono ai musulmani. Grazie al loro aiuto e alla sua eccellente organizzazione di spionaggio Saladino poté aprirsi un varco attraverso le linee cristiane il 13 febbraio, mandando un nuovo comandante ed una guarnigione riposata per dare il cambio agli stanchi difensori della città. Ma egli stesso esitò a lanciare un assalto definitivo contro il campo cristiano. Le sue truppe erano stanche e quando giunsero rinforzi egli inviò dei distaccamenti lontano a riposare. La carestia tra i

cristiani stava compiendo il lavoro in sua vece37. Una volta ancora la sua attesa si dimostrò poco saggia. All’avvicinarsi della Quaresima sembrava che i franchi non avrebbero potuto resistere a lungo. Nel loro campo con una monetina d’argento si comperavano soltanto tredici fagioli o un uovo, mentre un sacco di grano costava cento monete d’oro. Molti dei migliori cavalli furono macellati per fornire cibo ai loro proprietari, mentre i soldati semplici mangiavano erba o succhiavano ossa spolpate. I prelati cercarono di organizzare qualche specie di soccorso, ma furono ostacolati dall’avarizia dei mercanti pisani che controllavano la maggior parte delle provviste di viveri. In marzo, però, quando tutto sembrava perduto, una nave con le stive colme di grano giunse vicino alla costa e poté sbarcare il suo carico e, poiché il tempo migliorava, altre la seguirono. Erano doppiamente benvenute perché portavano non soltanto cibo, ma anche la notizia che i re di Francia e d’Inghilterra si trovavano finalmente nelle acque dell’Oriente38.

Capitolo terzo Cuor di Leone

... io faccio venite dal settentrione una calamità e una grande rovina. Un leone balza fuori dal folto del bosco, e un distruttore di nazioni s’è messo in via. Geremia, IV, 6, 7

Re Filippo Augusto sbarcò nel campo crociato davanti ad Acri il 20 aprile 1191, il primo sabato dopo Pasqua, e re Riccardo sette settimane più tardi, il sabato dopo Pentecoste. Erano passati quasi quattro anni dalla battaglia di Hattin e dal disperato appello rivolto all’Occidente perché inviasse soccorsi. Gli stanchi soldati che combattevano sulla costa della Palestina erano così felici di accogliere i re, che perdonarono o dimenticarono il lungo ritardo. Ma per lo storico moderno gli indugi di Riccardo ed i numerosi litigi che punteggiarono il suo viaggio verso il campo di battaglia, dove si aveva così urgente bisogno di lui, rivelano una certa mancanza di impegno. È facile capire perché re Filippo non si fosse affrettato; non era un idealista e partecipava alla crociata solo per necessità politica. Se si fosse astenuto dalla santa avventura avrebbe perso il favore non solo della Chiesa, ma anche della maggior parte dei suoi sudditi. Ma il suo regno era malsicuro ed egli giustamente diffidava delle ambizioni degli Angioini. Non poteva permettersi di lasciare la Francia finché non fosse stato certo che anche il suo rivale d’Inghilterra era in viaggio. La prudenza esigeva che essi partissero insieme. Non si poteva neppure biasimare il re per l’ultimo indugio causato dalla morte della regina di Francia. Anche Riccardo aveva alcune giustificazioni: la morte di suo padre lo aveva obbligato a riorganizzare il regno; inoltre, come Filippo, intendeva viaggiare per mare, e ciò non era possibile durante i mesi invernali; tuttavia il fatto che un crociato così ardente ed entusiasta si muovesse con tanto poca premura mostra una mancanza di decisione e di senso di responsabilità. C’erano dei gravi difetti nel carattere di Riccardo. Fisicamente era un bellissimo uomo, alto, slanciato, forte, con capelli di un rosso dorato e lineamenti regolari: dalla madre aveva ereditato non solo la bellezza della casa di Poitou, ma i suoi modi attraenti, il suo coraggio ed il suo gusto per la poesia e per le avventure cavalleresche. I suoi amici ed i suoi servitori lo seguivano con devozione e con rispetto. Da ambedue i genitori aveva ricevuto un temperamento ardente ed un’appassionata caparbietà, però non aveva né l’astuzia politica e la competenza amministrativa di suo padre, né il buon senso della regina Eleonora. Era stato educato in un’atmosfera di dispute e tradimenti familiari. Come figlio prediletto di sua madre, odiava il padre e disprezzava i suoi fratelli, sebbene amasse la sorella minore, Giovanna. Aveva appreso a parteggiare con passione, ma senza lealtà. Era avaro, sebbene capace di gesti generosi, ed amava sfoggiare prodigalità. La sua energia era smisurata, ma nell’interessarsi con fervore per l’opera del momento, dimenticava le altre responsabilità. Gli piaceva organizzare, ma si annoiava ad amministrare. Soltanto l’arte della guerra poteva tenere desta la sua attenzione; come soldato aveva qualità brillantissime, possedeva il senso della strategia e della tattica e notevole capacità di comando. Era in quel momento un uomo di trentatré anni nel fiore della vita, un personaggio affascinante la cui fama lo aveva preceduto in Oriente1.

Molto diverso da lui era re Filippo Augusto. Aveva otto anni meno di Riccardo, ma era re ormai da più di dieci anni e le sue amare esperienze gli avevano insegnato la prudenza. Fisicamente non era da paragonare con Riccardo. Ben piantato, con un ciuffo di capelli in disordine, aveva perduto, però, l’uso di un occhio e non possedeva grande coraggio. Sebbene collerico e incline ai piaceri mascherava le proprie passioni e non amava l’ostentazione dei sentimenti, né dei beni materiali. La sua corte era noiosa ed austera. Non si curava delle arti, non era molto colto, ma conosceva il valore degli uomini di cultura; cercava la loro amicizia per calcolo politico e la conservava con la sua conversazione spiritosa e interessante. Come uomo politico era paziente e osservatore, astuto, sleale e senza scrupoli. Ma aveva un alto senso dei propri doveri e responsabilità. Sebbene fosse meschino verso se stesso e verso gli amici, era generoso con i poveri e li proteggeva contro i loro oppressori. Era insomma un uomo poco attraente, antipatico, ma un buon re. Tra i franchi stabiliti in Oriente godeva di particolare prestigio come sovrano di quasi tutte le famiglie da cui essi provenivano. Anche la maggior parte dei partecipanti alla crociata erano direttamente o indirettamente suoi vassalli, ma essi apprezzavano di più Riccardo per il suo coraggio, le sue prodezze cavalleresche ed il suo fascino; anche ai saraceni questi sembrava il più nobile, il più ricco, il più grande dei due2. I re erano partiti insieme da Vézélay il 4 luglio 1190. Riccardo aveva già inviato innanzi la flotta inglese che doveva circumnavigare la Spagna e raggiungerlo a Marsiglia, ma quasi tutte le forze terrestri dei suoi Stati erano con lui. L’esercito di Filippo era più piccolo perché molti dei suoi vassalli erano già partiti per l’Oriente. L’esercito francese, seguito da presso da quello inglese, marciò da Vézélay a Lione. Qui, dopo che i francesi erano già passati, il ponte sul Rodano crollò sotto il peso delle truppe inglesi. Parecchie vite andarono perdute e ci fu qualche indugio prima che si potesse riorganizzare il trasporto. Subito dopo aver lasciato Lione i re si separarono: Filippo proseguì verso sud-est attraverso le propaggini delle Alpi per raggiungere il mare vicino a Nizza e proseguire lungo la costa verso Genova dove lo aspettavano delle navi. Riccardo invece andò a Marsiglia dove la sua flotta lo raggiunse il 22 agosto dopo un viaggio senza incidenti, salvo una breve fermata in giugno in Portogallo dove i marinai aiutarono il re Sancho a respingere un’invasione intrapresa dall’imperatore del Marocco. Da Marsiglia alcuni seguaci di Riccardo partirono direttamente per la Palestina agli ordini di Baldovino di Canterbury; ma la maggior parte dell’esercito si imbarcò su vari convogli diretti a Messina, dove si sarebbero ricongiunti con i francesi3. Per suggerimento di re Guglielmo II di Sicilia, i re di Francia e d’Inghilterra, quando avevano formulato i primi progetti di crociata, avevano deciso di radunare le loro forze nell’isola. Ma re Guglielmo era morto nel novembre del 1189. Egli aveva sposato la sorella di Riccardo, Giovanna d’Inghilterra; dal matrimonio non erano nati figli, perciò erede del regno era sua zia Costanza, moglie del figlio maggiore di Federico Barbarossa, Enrico di Hohenstaufen. A molti siciliani l’idea di un sovrano tedesco riusciva odiosa. Un rapido intrigo appoggiato da papa Clemente III (che la prospettiva di un Hohenstaufen signore dell’Italia meridionale allarmava), portò sul trono, invece di Costanza e di Enrico, un cugino bastardo del defunto re, Tancredi, conte di Lecce. Un brutto, insignificante ometto, che si trovò quasi subito in difficoltà. Era scoppiata una rivolta musulmana in Sicilia e aveva avuto inizio un’invasione tedesca nelle terre del continente, mentre i vassalli che lo avevano eletto cominciavano a pentirsene. Tancredi si vide obbligato a richiamare dalla Palestina i suoi uomini e le sue navi e, grazie a loro, sconfisse i propri nemici; ma, benché fosse pronto a ricevere i re crociati con tutti gli onori e a rifornirli di vettovaglie, non era in condizione di accompagnarli nella spedizione4. Re Filippo lasciò Genova alla fine di agosto e dopo un facile viaggio lungo la costa italiana

arrivò a Messina il 14 settembre. Poiché odiava il fasto entrò nella città il più modestamente possibile, ma per ordine di Tancredi fu ricevuto con onore ed alloggiato nel palazzo reale. Re Riccardo decise di viaggiare da Marsiglia per via di terra. Sembra che odiasse i viaggi di mare, senza dubbio perché ne soffriva. La sua flotta trasportò l’esercito a Messina e gettò le ancore fuori del porto per aspettarlo, mentre egli, con una piccola scorta, prendeva la strada costiera attraverso Genova, Pisa ed Ostia fino a Salerno. Qui si trattenne finché non seppe che la sua flotta era arrivata a Messina e poi mandò la maggior parte della propria scorta su una nave per prepararvi il suo arrivo, mentre egli proseguiva a cavallo con un solo scudiero. Mentre passava vicino alla piccola città calabrese di Mileto, cercò di rubare un falco dalla casa di un contadino e corse grave rischio di essere ucciso dagli abitanti inferociti. Era perciò di cattivo umore quando giunse allo stretto, un giorno o due dopo. I suoi uomini si incontrarono con lui sulla sponda di Calabria e lo accompagnarono in gran pompa a Messina, dove sbarcò il 3 settembre. La fastosa magnificenza del suo ingresso era in vivo contrasto con il modesto arrivo di Filippo. Durante il suo viaggio attraverso l’Italia Riccardo aveva appreso parecchie cose spiacevoli sul conto di Tancredi: la vedova regina Giovanna, sorella del re inglese era confinata e la sua dote le era stata tolta; essa aveva una certa influenza nel regno e Tancredi ovviamente non si fidava di lei. Inoltre Guglielmo II aveva destinato a suo suocero Enrico II un cospicuo lascito di vasellami ed ornamenti d’oro, una tenda di seta, due galee armate e parecchie provviste. Poiché Enrico era morto, Tancredi si propose di trattenere per sé tutto ciò. Da Salerno Riccardo gli aveva inviato un messaggio per chiedergli il rilascio della propria sorella e la consegna della dote e del lascito. Queste richieste, seguite dalla notizia della condotta di Riccardo in Calabria, spaventarono Tancredi. Provvide a che il re fosse alloggiato in un palazzo fuori dalle mura di Messina, ma, per conciliarselo, inviò Giovanna con una scorta regale a raggiungere il fratello e intavolò negoziati per riscattare, mediante un pagamento in contanti, la dote ed il lascito. Re Filippo, a cui Riccardo aveva fatto visita due giorni dopo l’arrivo, offrì i suoi buoni uffici e quando la regina Giovanna venne a rendergli omaggio, la ricevette così cordialmente che tutti si aspettavano che venisse annunciato il loro prossimo matrimonio. Ma Riccardo non era d’umore conciliante. Per prima cosa inviò un distaccamento oltre lo stretto ad occupare la città di Bagnara sulla costa calabrese e vi insediò la sorella. Poi attaccò appena fuori Messina una piccola isola su cui era situato un convento greco, cacciandone brutalmente i monaci per far posto alle proprie truppe. Il trattamento inflitto a quei santi uomini scandalizzò il popolo di Messina, formato in massima parte da greci, mentre i cittadini più ricchi erano adirati per il contegno dei soldati inglesi verso le loro mogli e le loro figlie. Il 3 ottobre una disputa scoppiata in un sobborgo tra alcuni soldati inglesi ed un gruppo di cittadini diede origine ad un tumulto; in città si sparse la voce che Riccardo volesse conquistare l’intera Sicilia, per cui le porte furono chiuse ai suoi uomini. Un tentativo delle sue navi di forzare il porto fu respinto. Filippo Augusto convocò in tutta fretta al suo palazzo l’arcivescovo di Messina, l’ammiraglio di Tancredi Margarito e gli altri notabili siciliani della città e la mattina dopo andò con loro al quartier generale di Riccardo fuori delle mura per calmarlo. Quando sembrava che si sarebbe giunti a qualche compromesso, Riccardo udì che alcuni cittadini, riuniti su una collina davanti alle finestre del palazzo, lanciavano insulti contro di lui. Come una furia abbandonò la riunione ed ordinò alle sue truppe di attaccare di nuovo. Questa volta i cittadini furono colti di sorpresa. In poche ore gli inglesi avevano conquistato Messina e saccheggiato tutti i quartieri, ad eccezione delle vie attorno al palazzo dove alloggiava re Filippo. Margarito e gli altri notabili ebbero appena il tempo di fuggire con le loro famiglie, le loro case furono occupate da Riccardo. La flotta siciliana all’ancora nel porto fu incendiata. Nel pomeriggio il vessillo dei Plantageneti sventolava sulla città.

L’aggressività di Riccardo non si arrestò qui. Sebbene accettasse che il vessillo di Filippo Augusto sventolasse accanto al suo, obbligò i cittadini a consegnargli ostaggi per garantirsi della buona condotta del loro re ed annunziò che era pronto ad occupare l’intera provincia. Nel frattempo costruì un grande castello di legno appena fuori della città cui diede lo sprezzante nome di Mategrifon, «la briglia dei greci». Filippo era preoccupato per questa manifestazione violenta del carattere del suo rivale. Inviò suo cugino, il duca di Borgogna, a trovare re Tancredi a Catania, per avvertirlo delle intenzioni di Riccardo e per offrirgli aiuto se la situazione fosse peggiorata. Tancredi si trovava in una posizione difficile; era a conoscenza del fatto che Enrico di Hohenstaufen stava per invadere le sue terre e sapeva di non potersi fidare dei propri vassalli. Un rapido calcolo lo persuase che Riccardo sarebbe stato un alleato migliore di Filippo. Questi lo avrebbe difficilmente attaccato in quel momento, però i re di Francia erano in buoni rapporti con gli Hohenstaufen e non era sicuro che Filippo gli sarebbe rimasto amico in futuro. Riccardo, d’altra parte, era in quel momento il più pericoloso, ma notoriamente detestava gli Hohenstaufen, nemici dei suoi cugini Welf. Tancredi quindi respinse l’offerta francese di aiuto ed intavolò negoziati con il re inglese: offrì a Riccardo ventimila once d’oro in cambio del lascito dovuto a Enrico II e la stessa somma a Giovanna per la dote. Di solito l’ira di Riccardo poteva essere mitigata dalla vista dell’oro. Accettò l’offerta a nome suo e di sua sorella e in seguito accondiscese a che il proprio giovane erede, Arturo, duca di Bretagna, si fidanzasse con una delle figlie di Tancredi. Quando questi più tardi gli rivelò le proposte fattegli da re Filippo, Riccardo di buon grado trasformò l’accordo in un trattato di cui fu chiesto al papa di rendersi garante. Venne ristabilita la pace e Riccardo, su consiglio dell’arcivescovo di Rouen, restituì a malincuore a Margarito ed agli altri principali cittadini di Messina i beni confiscati. Filippo Augusto era stato giocato, ma non protestò pubblicamente. L’8 ottobre, mentre si stava redigendo il trattato, egli e Riccardo si incontrarono ancora una volta per discutere della futura condotta della crociata. Furono stabilite alcune regole per il controllo del prezzo dei viveri. Ai soldati fu proibito di passare da un signore all’altro. La metà del denaro di ogni cavaliere doveva essere devoluta per i bisogni generali dei crociati. Il gioco era proibito, salvo per i cavalieri e gli ecclesiastici, però se questi giocavano eccessivamente dovevano essere puniti. I debiti contratti durante il pellegrinaggio dovevano essere pagati. Il clero sanzionò queste norme promettendo di scomunicare i trasgressori. Era facile per i re trovarsi d’accordo su questi punti, ma c’erano delle questioni politiche più difficili da risolvere. Dopo alcune discussioni fu deciso che le future conquiste sarebbero state ripartite in uguale misura tra i due sovrani. Un problema più delicato riguardava Alice, sorella di re Filippo. Questa infelice principessa era stata inviata anni prima, ancora bambina, alla corte inglese per sposarvi Riccardo o un altro dei figli di Enrico II. Questi l’aveva trattenuta, malgrado lo scarso desiderio di Riccardo di accettare quel matrimonio e ben presto si erano levate voci maligne secondo cui Enrico sarebbe stato in rapporti troppo intimi con lei. Riccardo, che non si sentiva portato al matrimonio, rifiutò di dare esecuzione ai progetti che suo padre aveva fissato, e non tenne conto delle reiterate insistenze di Filippo. D’altra parte sua madre, la regina Eleonora, a cui la morte di Enrico permetteva ormai di dar libero corso ai propri sentimenti, non desiderava vedere il suo figliolo prediletto unito a un membro di una famiglia che odiava e a una persona che credeva fosse stata l’amante di suo marito. Preoccupata degli interessi della sua nativa Aquitania aveva deciso di farlo sposare con una principessa di Navarra ed egli aveva accettato la scelta. Cosi, quando Filippo mise di nuovo sul tappeto la questione del matrimonio di Alice, Riccardo non volle prenderla in considerazione, giustificandosi con la cattiva reputazione

di lei. Filippo era del tutto indifferente alla felicità della propria famiglia, infatti non intervenne mai in aiuto della sua infelice sorella Agnese, vedova di Alessio II di Bisanzio; non poteva sopportare un tale affronto. I suoi rapporti con Riccardo diventarono perciò ancora più freddi ed egli decise di salpare subito da Messina per l’Oriente. Ma il giorno dopo la partenza una gran tempesta lo ricondusse in Sicilia e poiché si era ormai alla metà di ottobre ritenne più prudente passare l’inverno a Messina. Pare che questa fosse sempre stata l’intenzione di Riccardo che firmò il trattato con Tancredi non prima dell’11 novembre ed inviò nello stesso tempo un messaggio a sua madre per chiederle di condurre Berengaria di Navarra in Sicilia. L’inverno trascorse abbastanza tranquillamente nell’isola. Il giorno di Natale Riccardo diede un sontuoso banchetto a Mategrifon, ed invitò il re di Francia ed i notabili siciliani. Alcuni giorni dopo ebbe un interessante incontro con l’anziano abate di Corazzo, Gioacchino, il fondatore dell’Ordine di Fiore. Il santo vegliardo gli spiegò il significato dell’Apocalisse. Le sette teste del drago, egli disse, erano Erode, Nerone, Costanzo, Maometto, Melsemuth (con cui egli indicava probabilmente Abdul Muneim, fondatore della setta Almohad) Saladino ed infine l’anticristo stesso che, egli dichiarò, era nato a Roma quindici anni prima e si sarebbe seduto sul trono papale. La pronta risposta di Riccardo, che in questo caso l’anticristo era probabilmente il papa regnante, Clemente III, da lui personalmente detestato, non fu bene accetta; il santo abate non si trovò neppure d’accordo con lui sul fatto che l’anticristo sarebbe nato dalla tribù di Dan a Babilonia o ad Antiochia ed avrebbe regnato a Gerusalemme. Ma era confortante apprendere da Gioacchino che Riccardo sarebbe stato vittorioso in Palestina e che presto Saladino sarebbe stato trucidato. In febbraio Riccardo organizzò dei tornei, durante i quali litigò con un cavaliere francese, Guglielmo di Barres, ma Filippo riuscì a riconciliarli. In realtà, Riccardo si comportò molto correttamente verso Filippo ed alcuni giorni dopo gli consegnò persino parecchie galee che erano appena arrivate dall’Inghilterra. Circa in quello stesso tempo fu informato che la regina Eleonora e Berengaria erano arrivate a Napoli ed inviò alcuni suoi uomini ad incontrarle e a scortarle a Brindisi perché la loro compagnia era troppo numerosa per le esauste risorse di Messina, dove era appena giunto il conte di Fiandra con un seguito considerevole. All’avvicinarsi della primavera i re si prepararono a riprendere il loro viaggio. Riccardo andò a Catania per visitare Tancredi e gli giurò eterna amicizia. Filippo era spaventato da questa alleanza e perciò li raggiunse a Taormina. Ormai era pronto a liquidare tutti i suoi contrasti con Riccardo e formalmente lo dichiarò libero di sposare chi volesse. Filippo salpò da Messina con tutti i suoi uomini il 30 marzo in un’atmosfera di benevolenza generale. Appena ebbe lasciato il porto arrivarono la regina Eleonora e Berengaria. La regina si trattenne presso suo figlio soltanto tre giorni, poi riparti per l’Inghilterra, passando da Roma per trattare per lui alcuni affari alla corte papale. Berengaria rimase, affidata alla regina Giovanna5. Riccardo lasciò finalmente Messina il 10 aprile, dopo aver smantellato la torre di Mategrifon. Tancredi era spiacente di vederlo partire, per buoni motivi. Lo stesso giorno papa Clemente III moriva a Roma, quattro giorni dopo il cardinale di Santa Maria in Cosmedin veniva consacrato con il nome di Celestino III. In quel tempo Enrico di Hohenstaufen si trovava a Roma; il primo atto del nuovo papa, spintovi da varie pressioni, fu di incoronare lui e Costanza di Sicilia come imperatore e imperatrice. La flotta francese fece una buona traversata fino a Tiro, dove Filippo fu lietamente ricevuto da suo cugino Corrado del Monferrato. Essi arrivarono insieme ad Acri il 20 aprile. Subito fu reso più stretto l’assedio alla fortezza musulmana. Per il carattere paziente ed ingegnoso di Filippo una guerra d’assedio era attraente: egli riorganizzò i macchinari degli assedianti e fece costruire alcune torri, ma

ogni tentativo di dar l’assalto alle mura fu rimandato fino all’arrivo di Riccardo e dei suoi uomini6. Il viaggio di Riccardo fu meno tranquillo. Forti venti separarono presto la flotta, il re stesso si rifugiò in un porto cretese, da dove ebbe una burrascosa traversata fino a Rodi; qui si fermò per dieci giorni, dal 22 aprile al 1° maggio, per riprendersi dal mal di mare. Intanto una delle sue navi si era persa in una tempesta ed altre tre, fra cui quella che aveva a bordo Giovanna e Berengaria, furono spinte verso Cipro. Due delle navi naufragarono sulla costa meridionale dell’isola, ma la regina Giovanna poté raggiungere un ancoraggio vicino a Limassol. Cipro era stata per cinque anni sotto il sedicente imperatore Isacco Ducas Comneno che aveva condotto una fortunata rivolta contro Bisanzio al tempo dell’ascesa al trono di Isacco Angelo ed aveva conservato la propria indipendenza con volubili alleanze, ora con i siciliani, ora con gli armeni di Cilicia, ora con Saladino. Era un uomo crudele, che odiava i latini e non era popolare nell’isola a causa delle esorbitanti tasse che imponeva. Molti dei suoi sudditi lo consideravano ancora un ribelle e un avventuriero. L’apparire di una grande flotta franca nelle acque cipriote lo allarmò ed egli affrontò il problema in modo poco assennato. Quando i naufraghi di Riccardo giunsero a riva li arrestò e confiscò tutte le merci che si erano potute salvare. Poi inviò un messaggero alla nave della regina Giovanna per invitare lei e Berengaria a sbarcare. Giovanna, che aveva imparato per esperienza il proprio valore come possibile ostaggio, rispose che non poteva lasciare la nave senza il permesso di suo fratello; ma la sua domanda di poter inviare a terra qualcuno per provvedersi di acqua fresca fu rudemente respinta. Anzi, Isacco stesso si recò a Limassol e costruì fortificazioni lungo la spiaggia per impedire ogni sbarco. L’8 maggio, una settimana dopo l’arrivo di Giovanna nelle vicinanze di Limassol, apparve Riccardo con il grosso della sua flotta. Avevano subito una terribile traversata da Rodi e la nave stessa di Riccardo era sfuggita per miracolo alla distruzione nel golfo di Attalia. Il mal di mare non aveva migliorato il suo carattere e quand’egli fu informato del trattamento inflitto a sua sorella e alla sua fidanzata, giurò vendetta. Subito cominciò a sbarcare uomini vicino a Limassol e marciò sulla città. Isacco non offrì resistenza, ma si ritirò nel villaggio di Kilani sulle pendici del Troodos. Non soltanto i mercanti latini stabiliti a Limassol accolsero bene Riccardo, ma anche i greci, per antipatia verso Isacco, si mostrarono favorevoli agli invasori. Perciò Isacco si dichiarò pronto a trattare. Dopo aver ricevuto un salvacondotto scese a Colossi e andò al campo di Riccardo. Qui egli accettò di pagare un compenso per le merci che aveva rubato, di permettere alle truppe inglesi di comprare provviste senza pagar dazio, e di mandare come pegno cento uomini alla crociata, benché egli stesso rifiutasse di lasciare l’isola. Si offrì di inviare sua figlia a Riccardo come ostaggio. La visita di Isacco al campo lo persuase che il re inglese non era così forte come aveva pensato perciò, appena tornato a Colossi, denunciò l’accordo ed ordinò a Riccardo di lasciare il paese. Fu un grossolano errore. Riccardo aveva già mandato una nave ad Acri per annunziare il suo prossimo arrivo a Cipro e proprio l’11 maggio, il giorno in cui Isacco si era incontrato con Riccardo ed aveva fatto ritorno a Colossi, entravano in Limassol parecchie navi recanti a bordo tutti i principali crociati avversari di Corrado. C’era re Guido e suo fratello Goffredo conte di Lusignano, uno dei più importanti vassalli di Riccardo in Francia, c’era Boemondo di Antiochia con suo figlio Raimondo, c’era il principe rupeniano Leone che era appena succeduto a suo fratello Rupen, c’era Honfroi di Toron, il marito divorziato di Isabella, e molti dei principali templari. Poiché Filippo aveva preso le parti di Corrado, erano venuti per assicurare al loro partito l’appoggio di Riccardo. Questo aumento di forze lo decise ad intraprendere la conquista di tutta l’isola. I suoi ospiti senza dubbio gliene avevano fatto presente l’importanza strategica per la difesa dell’intera costa siriana ed il pericolo che poteva derivare da una più stretta alleanza tra Isacco e Saladino. L’occasione era troppo buona

per essere perduta. Il 12 maggio Riccardo sposò con solenne cerimonia Berengaria nella cappella di San Giorgio a Limassol, dove fu anche incoronata regina d’Inghilterra dal vescovo di Evreux. Il giorno dopo giunsero gli ultimi vascelli della flotta inglese. Isacco, conscio del pericolo, si spostò a Famagosta. Gli inglesi lo inseguirono, parte dell’esercito per terra ed il rimanente per mare. L’imperatore non fece nessun tentativo di difendere Famagosta, ma si ritirò a Nicosia. Mentre Riccardo si riposava a Famagosta, fu raggiunto dagli inviati di Filippo e dei signori palestinesi che lo sollecitavano ad affrettare il suo arrivo in Palestina. Ma egli rispose adirato che non si sarebbe mosso finché non avesse occupato Cipro e sottolineò enfaticamente quanto importante fosse quell’isola per tutti loro. Uno dei messi di Filippo, Pagano di Haifa, fu poi sospettato di essersi recato da Isacco per dargli ulteriori avvertimenti. Questi inviò sua moglie, una principessa armena, e sua figlia, al castello di Kyrenia e poi marciò verso Famagosta. Le truppe di Riccardo lo incontrarono vicino al villaggio di Tremithus e lo sconfissero dopo un aspro scontro in cui, si disse, Isacco avrebbe usato delle frecce avvelenate. Egli fuggì dal campo di battaglia a Kantara e Riccardo entrò a Nicosia senza incontrare resistenza. La popolazione cipriota si mostrò indifferente al destino di Isacco e persino disposta ad aiutare gli invasori. A Nicosia Riccardo cadde ammalato mentre Isacco sperava che i suoi quattro grandi castelli nel nord, Kantara, Buffavento, Sant’Ilario e Kyrenia avrebbero resistito finché il re inglese si fosse stancato della guerra e fosse partito. Ma re Guido, al comando dell’esercito di Riccardo, marciò su Kyrenia e se ne impadronì prendendo prigioniera l’imperatrice con la sua figlioletta. Poi cominciò ad assediare Sant’Ilario e Buffavento. Privato della famiglia e circondato da sudditi indifferenti o addirittura ostili, Isacco perse la testa e si arrese senza condizioni. Fu portato davanti a Riccardo e caricato di catene d’argento. Alla fine di maggio l’isola intera era nelle mani di Riccardo. Il bottino ottenuto fu immenso. Isacco aveva ammassato con le sue estorsioni un grande tesoro e molti notabili comprarono il favore dei nuovi padroni con generose donazioni. Presto Riccardo dimostrò chiaramente che il suo maggior interesse era il denaro: impose ad ogni greco una tassa del cinquanta per cento del capitale, ma in cambio confermò le leggi e le istituzioni vigenti al tempo di Manuele Comneno. Furono stabilite guarnigioni latine in tutti i castelli dell’isola e due inglesi, Riccardo di Camville e Roberto di Turnham, furono fatti justiciars e incaricati dell’amministrazione, finché Riccardo non avesse deciso della sua definitiva sistemazione. Ben presto i greci si accorsero che la loro gioia per la caduta d’Isacco era mal fondata, infatti la loro partecipazione al governo dell’isola non era aumentata e come simbolo della nuova subordinazione venne loro imposto di tagliarsi la barba7. A Riccardo la conquista di Cipro sembrò importante per l’inaspettata ricchezza che gli recò, ma in realtà fu la più lungimirante e la più durevole di tutte le sue imprese nella crociata. Il possesso di Cipro da parte dei franchi prolungò la vita dei loro Stati sul continente, mentre i loro possedimenti sull’isola durarono due secoli più di quelli di Siria. Ma fu di cattivo augurio per i greci. Se i crociati erano disposti e capaci di annettersi una provincia ortodossa, non sarebbero stati tentati di lanciare presto contro Bisanzio la guerra santa, da tanto tempo desiderata? Il 5 giugno la flotta inglese salpò da Famagosta per la costa siriana. L’imperatore Isacco era a bordo come prigioniero affidato a re Guido, mentre la sua figlioletta faceva parte della corte della regina Giovanna per apprendere il modo di vivere occidentale. La prima cosa che Riccardo vide della costa siriana fu il castello di Marqab. Dopo questo primo contatto si volse verso sud, oltre Tortosa, Jebail e Beirut e sbarcò la sera del 6 giugno vicino a Tiro. La guarnigione, che agiva secondo gli ordini di Filippo e di Corrado, gli impedì l’ingresso nella città, cosicché egli continuò il

viaggio per mare verso Acri, osservando intanto con piacere come una grande galea saracena veniva affondata dalle sue navi. Arrivò nel campo vicino ad Acri l’8 giugno8. L’arrivo di re Riccardo con venticinque galee portò fiducia e speranza agli stanchi assedianti di Acri. Furono accesi dei falò per celebrare la sua venuta e le trombe risuonarono nel campo. Il re di Francia aveva costruito molte utili macchine da assedio, fra cui una grande catapulta per il lancio di pietre, che i suoi soldati chiamavano il Mal Vicino, e una scala fornita di ganci, nota come il Gatto. Il duca di Borgogna e i due ordini militari avevano ognuno la propria catapulta e un’altra era stata costruita con fondi comuni e chiamata la Vera Fionda di Dio9. Queste macchine avevano martellato le mura con una certa efficacia, ma c’era bisogno di un capo che spronasse gli assedianti a uno sforzo finale. Il re di Francia era troppo prudente per questa parte e gli altri principi locali o crociati erano troppo stanchi o troppo screditati. Riccardo portò nuovo vigore a tutta l’impresa. Appena sbarcato mandò quasi subito un messaggero con un interprete confidenziale, un prigioniero marocchino in cui aveva fiducia, al campo di Saladino per proporre un incontro: era curioso di vedere il famoso infedele e sperava che si potesse giungere a qualche accordo amichevole, se avesse potuto conversare con un nemico così cavalleresco. Ma Saladino rispose prudentemente che non era saggio per re nemici incontrarsi, finché non avessero firmato una tregua; tuttavia era disposto a permettere che suo fratello, al-Adil, si incontrasse con Riccardo. Furono fissati tre giorni di tregua dal combattimento e si decise che il colloquio avesse luogo nella pianura tra i due campi, ma proprio in quel momento i re d’Inghilterra e di Francia caddero improvvisamente ammalati. Si trattava di quella malattia che i franchi chiamavano «arnaldia», una febbre che provocava la caduta dei capelli e delle unghie. L’attacco di Filippo fu leggero, ma Riccardo fu gravemente ammalato per alcuni giorni; tuttavia egli diresse le operazioni dal suo letto, spiegando dove dovevano essere collocate le grandi catapulte che aveva portato con sé e ordinando la costruzione di una grande torre di legno, simile al Mategrifon, da lui eretto a Messina. Mentre era ancora appena convalescente insistette per visitare le posizioni dei suoi soldati10. Saladino da parte sua ricevette rinforzi alla fine di giugno. L’esercito di Sinjar arrivò il 25 giugno, subito seguito da un nuovo esercito egiziano e dalle truppe del signore di Mosul. I signori di Shaizar e di Hama condussero le loro compagnie al principio di luglio. Ma nonostante questo aumento di forze egli non era in condizioni di cacciare i cristiani dal loro accampamento. Essi avevano adoperato la pausa invernale, quando la pioggia aveva ammorbidito il suolo, per circondarsi di fortificazioni di terra, bastioni protetti da fossati, facili da difendere. Durante tutto giugno e il principio di luglio il piano di battaglia rimase pressoché invariato: le macchine franche continuarono a bombardare le mura di Acri, ma appena vi aprivano una piccola breccia ed i franchi si precipitavano per tentare di forzarla, la guarnigione segnalava il fatto a Saladino che lanciava subito un attacco contro il campo, così da costringere gli aggressori a ritirarsi dalle mura. Ci furono di tanto in tanto scontri navali. L’arrivo delle flotte inglese e francese aveva tolto il dominio del mare ai saraceni ed era raro ormai che le loro navi potessero giungere con rifornimenti fino nel porto. Cibo e materiale bellico stavano scarseggiando nella città assediata, dove ormai si parlava di resa11. Nel campo cristiano continuavano malattie e dispute. Il patriarca Eraclio morì e vi furono intrighi per l’elezione di un successore12. Proseguiva pure la disputa per la corona. Riccardo aveva preso le parti di re Guido, mentre Filippo sosteneva Corrado. I pisani si erano uniti al partito di Riccardo, cosicché quando arrivò una piccola flotta genovese questa offrì i propri servigi a Filippo. Quando

questi progettò un grande attacco contro la città verso la fine di giugno, Riccardo, probabilmente perché non stava abbastanza bene per combattere in persona e temeva così di perdere il bottino della vittoria, rifiutò la cooperazione dei propri uomini. L’attacco fallì a causa dell’assenza dei suoi seguaci e dei suoi amici e il contrattacco di Saladino contro il campo fu respinto solo con difficoltà13. Le relazioni tra Riccardo e Filippo si erano complicate per la morte, avvenuta il 10 giugno, di Filippo, conte di Fiandra, il riluttante crociato del 1177, che non lasciava eredi diretti: mentre il re di Francia aveva qualche diritto sulla sua eredità, il re d’Inghilterra non desiderava permettere che una provincia così ricca e così strategicamente collocata cadesse nelle mani del rivale. Quando Filippo, citando le condizioni stipulate a Messina, chiese la metà dell’isola di Cipro, Riccardo rispose chiedendo la metà delle Fiandre. Né l’uno né l’altro insisté nella richiesta, ma ambedue rimasero scontenti14. Il 3 luglio, dopo che Taki, nipote di Saladino, ebbe invano tentato di penetrare nella città, i francesi aprirono una pericolosa breccia nel muro, ma furono obbligati a battere in ritirata. Otto giorni più tardi gli inglesi e i pisani, approfittando di un momento in cui gli altri crociati erano a pranzo, tentarono a loro volta la fortuna, con lo stesso successo iniziale e lo stesso fallimento finale. Intanto la guarnigione aveva già deciso di abbandonare la lotta. Il 4 luglio avevano inviato messaggeri al campo crociato, ma Riccardo aveva respinto le loro proposte, sebbene quello stesso giorno i suoi ambasciatori visitassero Saladino, chiedendo di poter comprare frutta e neve e lasciando capire di essere pronti a discutere le condizioni di pace. Saladino fu assai colpito nell’udire che i suoi uomini in Acri avevano abbandonato ogni speranza, e promise loro un aiuto immediato; ma non poté galvanizzare il suo esercito per lanciare contro il campo cristiano il grande attacco che aveva progettato per il 5 luglio. Il giorno 7 un uomo, a nuoto, gli portò un ultimo appello dalla città. Senza aiuti, la guarnigione non poteva resistere più a lungo; la battaglia dell’11 fu l’ultimo sforzo degli assediati. Il giorno dopo offrirono di capitolare e le loro condizioni furono accettate. Acri doveva arrendersi con tutto ciò che conteneva, le sue navi ed il suo materiale bellico; dovevano essere pagate ai franchi duecento monete d’oro, più altre quattrocento destinate personalmente a Corrado; dovevano essere liberati millecinquecento prigionieri cristiani, fra cui un centinaio di persone di rango, che sarebbero state specificamente nominate, e si doveva restituire la Vera Croce. A queste condizioni sarebbe stata risparmiata la vita ai difensori. A nuoto, un uomo lasciò il porto per riferire a Saladino che cosa era stato concordato, perché toccava a lui osservare le clausole. Egli inorridì. Si era appena seduto davanti alla sua tenda per scrivere una risposta in cui proibiva alla guarnigione di arrendersi a quelle condizioni, quando vide i vessilli franchi spiegarsi sulle torri della città. Era troppo tardi. I suoi ufficiali avevano stipulato il trattato in suo nome e da uomo d’onore egli lo mantenne. Spostò il suo campo a Shaframr sulla strada di Seforia, più lontano dalla città non potendo ormai fare più nulla per aiutarla e si preparò a ricevere gli ambasciatori dei franchi vittoriosi15. Appena la capitolazione fu accettata la guarnigione saracena usci da Acri. I conquistatori erano commossi al vederla passare in prigionia, perché ne ammiravano il coraggio e la tenacia, degni di miglior causa. Quando l’ultimo saraceno fu uscito, si mossero i franchi capeggiati da Corrado, il cui portabandiera recava il suo vessillo personale e quelli dei re. Riccardo fissò la propria residenza nell’ex palazzo reale vicino al muro settentrionale della città, mentre re Filippo si stabilì in quella che era stata la sede dei templari, sul mare, vicino all’estremità della penisola. Indecorose liti turbarono l’assegnazione degli alloggi nella città. Il duca d’Austria, come capo dell’esercito tedesco, pretendeva una posizione uguale a quella dei re di Francia e d’Inghilterra ed innalzò il suo stendardo

accanto a quello di Riccardo, soltanto per vederlo abbattere dagli inglesi e scagliare nel sottostante fossato. Fu un affronto che Leopoldo d’Austria non perdonò mai: tornando in patria pochi giorni dopo aveva il cuore pieno d’odio contro Riccardo. I mercanti e i nobili franchi che avevano avuto in passato proprietà in Acri chiesero la restituzione dei loro beni. Erano quasi tutti sostenitori di Corrado, perciò si appellarono a re Filippo quando i crociati non residenti tentarono di sloggiarli. Il re insistette perché i loro diritti venissero riconosciuti16. Come primo lavoro si dovevano pulire e riconsacrare le chiese di Acri. Poi i principi si riunirono sotto la presidenza del legato papale, Adelardo di Verona, per decidere finalmente la questione di chi avesse diritto alla dignità regale. Dopo qualche discussione si convenne che Guido sarebbe rimasto re vita naturai durante, dopo di che la corona sarebbe passata a Corrado e ad Isabella e alla loro discendenza. Nel frattempo Corrado sarebbe stato signore di Tiro, Beirut e Sidone ed avrebbe diviso con Guido le rendite reali. Dopo aver così assicurato l’avvenire di Corrado, Filippo Augusto parlò di tornare a casa: dal momento del suo arrivo in Terra Santa era stato quasi continuamente ammalato, aveva compiuto il suo dovere di cristiano aiutando a riconquistare Acri ed avrebbe lasciato dietro di sé il duca di Borgogna e la maggior parte dell’esercito francese. Invano Riccardo insistette per ottenere che si facesse una dichiarazione comune secondo la quale i due re sarebbero rimasti in Oriente per tre anni. Al più Filippo era disposto a promettere di non attaccare i territori francesi di Riccardo finché questi non fosse tornato in patria: promessa che in seguito non venne nemmeno rigorosamente mantenuta. Poi il 30 luglio lasciò Acri per Tiro, accompagnato da Corrado, che disse di dover andare a vedere quelle sue terre, mentre in realtà non desiderava servire in un esercito dominato da re Riccardo. Tre giorni dopo re Filippo salpava da Tiro diretto a Brindisi17. La partenza di Filippo Augusto venne considerata dagli inglesi una vile diserzione e un tradimento. Ma pare che la sua salute fosse realmente malandata; e c’erano dei problemi in patria, come l’eredità delle Fiandre, della cui soluzione egli era personalmente responsabile. Inoltre sospettava che Riccardo stesse complottando contro di lui e che la sua vita fosse in pericolo. Circolava una curiosa storia secondo la quale Riccardo era venuto a vederlo quando egli era gravemente ammalato e gli aveva detto, mentendo, che il suo unico figlio Luigi era morto, sia per fargli un pesante scherzo, sia con la sinistra speranza che il colpo fosse troppo duro per lui. Molti nell’esercito cristiano erano pronti a simpatizzare con Filippo nelle sue inquietudini. Sebbene Riccardo attirasse la devozione dei suoi uomini e l’ammirazione dei saraceni, il re di Francia era per i baroni dell’Oriente franco il monarca che più rispettavano e che, secondo loro, capiva meglio le loro necessità18. Partito Filippo, Riccardo prese la direzione suprema dell’esercito e dei negoziati con Saladino. Il sultano accettò di riconoscere il trattato fatto dai suoi ufficiali ad Acri. Mentre i crociati si dedicavano a ricostruire e fortificare le mura della città, Saladino cominciò a riunire i prigionieri ed il denaro che gli era stato richiesto. Il 2 agosto alcuni ufficiali cristiani si recarono nel suo accampamento recando il consenso di Riccardo a un suo suggerimento: che i pagamenti e la restituzione dei prigionieri fossero divisi in tre rate mensili. I prigionieri saraceni sarebbero stati liberati dopo il pagamento della prima rata. Ai visitatori fu mostrata la Santa Croce che Saladino aveva tenuto con sé ed essi le resero omaggio. L’11 agosto fu inviata al campo cristiano la prima rata di uomini e di denaro; gli ambasciatori di Riccardo tornarono per dire che le cifre erano esatte, ma che non erano stati restituiti tutti i prigionieri di rango specialmente nominati; e che perciò essi non avrebbero rimesso in libertà i soldati del sultano catturati ad Acri. Saladino chiese loro o di

accettare la rata con alcuni ostaggi per i signori mancanti e di rimandargli i suoi uomini, oppure di accettare la rata e di lasciargli ostaggi per garantirgli il rilascio dei suoi uomini. Gli ambasciatori respinsero i due suggerimenti. Essi chiesero la rata ed offrirono soltanto una promessa verbale per i prigionieri saraceni. Saladino, diffidando della loro parola, non volle dare nulla a meno che i suoi uomini fossero liberati. Riccardo era ansioso ormai di lasciare Acri e di marciare su Gerusalemme. I prigionieri saraceni gli erano di ingombro ed egli era lieto di avere una scusa per liberarsi di loro. A sangue freddo il 20 agosto, ossia più di una settimana dopo il ritorno dei suoi ambasciatori, dichiarò che Saladino aveva violato il patto ed ordinò il massacro dei duemilasettecento sopravvissuti della guarnigione di Acri. I suoi soldati si dedicarono con ardore alla strage, ringraziando Iddio (cosi ci raccontano allegramente gli apologisti di Riccardo) per questa occasione di vendicare i loro compagni caduti dinanzi alla città. Le mogli e i bambini dei prigionieri furono uccisi insieme con loro. Vennero risparmiati soltanto pochi notabili e pochi uomini abbastanza robusti per essere usati come schiavi. Gli avamposti saraceni più vicini ad Acri videro quello che stava succedendo e si precipitarono per salvare i loro compatrioti, ma benché combattessero fino a notte non poterono raggiungerli. Quando la carneficina fu compiuta, gli inglesi se ne andarono abbandonando i cadaveri mutilati e in decomposizione; i musulmani poterono andare a riconoscere i corpi dei loro amici martirizzati19. Il giovedì 22 agosto Riccardo fece uscire da Acri l’esercito crociato. Corrado e molti baroni indigeni erano assenti ed i francesi, agli ordini del duca di Borgogna, seguivano a malincuore nella retroguardia. Nessuno dei soldati desiderava lasciare la città dove avevano vissuto così comodamente nell’ultimo mese con cibo in abbondanza e donne dissolute per soddisfare le loro voglie; non erano certo molto soddisfatti nell’udire che le uniche donne ammesse a seguire l’esercito erano le lavandaie. Ma la forte personalità di Riccardo li dominava. Saladino si trovava ancora a Shaframr, di dove controllava le due strade principali provenienti dalla costa, quella per Tiberiade e Damasco e l’altra per Gerusalemme attraverso Nazaret. Ma Riccardo s’incamminò verso sud per la strada costiera, lungo la quale il suo fianco era protetto dal mare e dalla flotta. Il sultano, perciò, lo seguì lungo un itinerario parallelo e si accampò a Tel-Kaimun, sulle pendici del Carmelo. Da qui ispezionò la campagna verso la spiaggia a sud del Carmelo per cercarvi un luogo idoneo per dar battaglia. I cristiani si spinsero oltre Haifa, che Saladino aveva smantellato poco prima della caduta di Acri, e oltrepassarono il contrafforte del Carmelo. Avanzavano lentamente per non distanziare la flotta; Riccardo era convinto che occorresse far riposare i soldati quasi un giorno ogni due. Il vento infatti soffiava da occidente e le navi avevano difficoltà a doppiare il promontorio. Di tanto in tanto veloci cavalleggeri saraceni piombavano dal Carmelo sull’esercito in marcia, catturando gli sbandati che venivano portati da Saladino, sottoposti ad interrogatorio e poi trucidati, come vendetta per il massacro di Acri, Soltanto le donne erano risparmiate. Frattanto Riccardo condusse il grosso del suo esercito oltre la dorsale del Carmelo e si accampò nell’interno, poco lontano da Cesarea20. Il 30, allorché i cristiani si avvicinavano alla città, i due eserciti vennero a più stretto contatto. Da quel momento si ebbero ogni giorno aspri combattimenti, ma Riccardo condusse avanti i propri soldati con ostinazione. Egli era in eccellenti condizioni di salute e di spirito, combatteva abitualmente all’avanguardia, ma di tanto in tanto cavalcava lungo l’intera colonna per incoraggiare i suoi uomini a proseguire. Il calore era intenso e gli occidentali, pesantemente armati e non abituati al sole, persero parecchi uomini per insolazione, mentre molti svenivano ed erano uccisi sul posto. Il duca di Borgogna con le truppe francesi rischiarono di essere annientati mentre si trascinavano alla

retroguardia dietro i carri di rifornimento, ma riuscirono a superare le loro difficoltà. L’intero esercito avanzava a fatica ma con regolarità, gridando ad intervalli la preghiera: Sanctum Sepulcbrum adjuva, «Soccorrici, Santo Sepolcro». Pochi giorni dopo Saladino scelse il campo di battaglia: leggermente a nord di Arsuf, dove la pianura era abbastanza ampia da permettere l’uso della cavalleria, ma ben coperta da foreste che scendevano fino a due miglia dal mare. Il 5 settembre Riccardo chiese di parlamentare e si incontrò con il fratello del sultano, al-Adil, sotto una bandiera bianca. Sebbene fosse stanco di combattere, chiese nientemeno che la cessione di tutta la Palestina e al-Adil interruppe immediatamente le trattative. Il sabato mattina, 7 settembre, Riccardo si rese conto chiaramente che i musulmani stavano per obbligarlo a dar battaglia e schierò i suoi uomini in previsione del combattimento: il convoglio dei bagagli fu sparso lungo la costa sotto la custodia di Enrico di Champagne e di parte della fanteria; gli arcieri erano in prima linea e dietro di loro i cavalieri; i templari all’ala destra, all’estremità meridionale del fronte; accanto a loro i bretoni e gli uomini di Anjou, poi le truppe dell’Aquitania agli ordini di Guido e di suo fratello Goffredo di Lusignano. Al centro c’era il re in persona con le sue truppe inglesi e normanne, poi i fiamminghi e i baroni indigeni sotto Giacomo di Avesnes, i francesi agli ordini di Ugo di Borgogna e all’estrema sinistra gli ospitalieri. Quando tutti furono schierati, Riccardo ed il duca di Borgogna cavalcarono lungo le linee per rivolgere ai soldati parole di incoraggiamento. L’attacco saraceno cominciò a mezza mattina: si precipitarono sui cristiani ondate di soldati appiedati e armati leggermente, negri e beduini che lanciavano frecce e dardi. Essi disorganizzarono la prima linea di fanteria, ma non ebbero effetto alcuno sui cavalieri dalle pesanti armature. All’improvviso essi aprirono i loro ranghi e tra i varchi i cavalleggeri turchi si precipitarono alla carica brandendo sciabole e asce. Lanciarono gli attacchi più decisi contro gli ospitalieri, i fiamminghi e i baroni indigeni che erano accanto a loro, sperando di aggirare il fianco sinistro cristiano. I cavalieri tennero duro e dopo ogni ondata gli arcieri ricomponevano le file. Malgrado le insistenze dei suoi soldati, Riccardo non voleva permettere a nessun reparto del suo esercito di attaccare finché tutti non fossero pronti e le cariche turche mostrassero segni di stanchezza e finché il grosso dell’esercito saraceno non fosse più vicino. Parecchie volte il gran maestro dell’Ordine degli ospitalieri gli mandò a chiedere di dare il segnale: i suoi cavalieri, diceva, sarebbero stati costretti a cedere a meno di poter prendere l’offensiva. Quando Riccardo ordinò ancora di pazientare, due cavalieri, il maresciallo dell’ordine e Baldovino Carew, assunsero l’iniziativa e cavalcarono contro il nemico seguiti dai loro compagni al galoppo. Alla vista della carica dei cavalieri il fronte spronò avanti i cavalli. Vi fu dapprima una certa confusione perché gli arcieri non si aspettavano la carica ed ingombravano la strada alla cavalleria. Il re stesso cavalcò in mezzo al tumulto per ristabilirvi un po’ d’ordine e prese il comando dell’assalto. Il segretario di Saladino, che osservava da una collina vicina, trattenne il respiro allo spettacolo magnifico della cavalleria cristiana che si precipitava con fragore di tuono verso di lui. Era troppo per i soldati musulmani: ruppero i ranghi e si diedero alla fuga. Saladino li raccolse in tempo per difendere il suo accampamento ed anche per lanciare un’altra carica contro il nemico, ma invano. A sera l’esercito cristiano, padrone del campo, stava riprendendo la sua marcia verso sud21. La battaglia di Arsuf non era stata decisiva, ma fu una grande vittoria morale per i cristiani. Le loro perdite erano state sorprendentemente piccole, sebbene tra i morti vi fosse il grande cavaliere Giacomo di Avesnes che giaceva con sedici cadaveri saraceni intorno. Ma le perdite musulmane erano state quasi altrettanto limitate. Nessun emiro importante era caduto, e fin dal giorno seguente

Saladino aveva riunito tutti i suoi uomini, pronto per un altro scontro; Riccardo, però, lo sfuggi ed egli non era abbastanza forte per obbligarlo a battaglia. L’importanza della vittoria stava nell’aver ridato fiducia ai cristiani. Era la prima grande battaglia in campo aperto dopo Hattin e aveva mostrato che Saladino non era imbattibile. Essendo avvenuta così poco tempo dopo la conquista di Acri, sembrava dimostrare che il vento era mutato e che Gerusalemme stessa avrebbe potuto essere liberata ancora una volta. La fama di Riccardo era al suo apogeo. La carica vittoriosa era stata lanciata, in verità, contro i suoi ordini, ma solo pochi minuti prima che egli fosse pronto; ed il suo modo paziente di imporre la calma in un primo tempo, e poi la sua guida quando la carica era in corso, avevano mostrato una magnifica capacità di comando, che prometteva bene per il futuro della crociata. Saladino, d’altra parte, aveva subito un’umiliazione personale e pubblica. Il suo esercito, mostratosi inefficiente ad Acri, era stato sconfitto in campo aperto. Come il suo grande predecessore Nur ed-Din, Saladino, invecchiando, perse una parte della sua energia e della sua abilità nel comando. Aveva poca salute: soffriva di attacchi ricorrenti di malaria, ed era meno capace di imporre la propria volontà ai litigiosi emiri suoi vassalli di quanto lo fosse stato nei suoi anni giovanili. Molti di loro lo consideravano ancora un villano rifatto ed un usurpatore, ed erano pronti all’insubordinazione se la sua stella sembrava in declino. Egli non poteva permettersi di essere superato da Riccardo come comandante; soprattutto non doveva perdere Gerusalemme, la cui conquista era stato il suo trionfo più glorioso. Condusse il suo esercito in buon ordine a Ramleh, sulla strada di Gerusalemme per aspettare la prossima mossa di Riccardo. L’esercito crociato proseguì la marcia verso Giaffa e si dispose a ricostruire le fortificazioni. Finora Riccardo aveva avuto sul fianco la flotta che lo riforniva e non intendeva penetrare nell’interno, verso la Città Santa, senza avere una forte base sul litorale. Inoltre, dopo la lunga marcia sulla costa, il suo esercito era stanco ed aveva bisogno di riposo. Le sue cautele ed i suoi indugi hanno lasciato perplessi molti storici, perché se egli avesse avanzato rapidamente contro Gerusalemme l’avrebbe trovata scarsamente presidiata e con le mura in cattive condizioni. Tuttavia l’esercito di Saladino era stato soltanto sconfitto, non distrutto, ed era ancora temibile: anche se Riccardo fosse riuscito a spingersi fino a Gerusalemme, esso poteva tagliare le sue comunicazioni con la costa, perciò prima di cominciare la grande avventura era prudente assicurarsi che Giaffa avrebbe resistito. Nondimeno l’indugio fu troppo lungo e permise a Saladino di consolidare le difese della Città Santa. Poi, temendo che Riccardo potesse muovere su Ascalona per stabilirvi una base e così tagliargli la via dell’Egitto, che era la sua principale fonte di reclutamento di uomini, Saladino condusse parte del suo esercito da Ramleh ad Ascalona e metodicamente demolì tutta quella ricca e prospera città22. Intanto l’esercito cristiano godeva delle comodità di Giaffa. La vita vi era piacevole: frutta e verdure abbondavano negli orti intorno alla città e le navi portavano grandi rifornimenti. Da Acri esse trasportarono anche allegre donnine per divertire i soldati. I saraceni si tenevano a distanza; vi furono soltanto poche scaramucce cavalleresche nella piana di Lydda, ai limiti del campo. L’esercito diventò indolente e molle, molti soldati ripresero la via di ritorno ad Acri. Riccardo inviò re Guido perché facesse loro premura di ritornare al campo, ma essi non gli fecero caso. Era necessario che Riccardo stesso andasse ad Acri per raccoglierli di nuovo insieme23. Il re aveva le sue preoccupazioni personali: non era contento di come andavano le cose né ad Acri né più a nord, dove il partito di Corrado era potente. A Cipro erano scoppiati disordini: Riccardo di Camville era morto e Roberto di Turnham non riusciva a dominare una rivolta. Riccardo temeva inoltre le iniziative che re Filippo avrebbe potuto prendere al suo ritorno in Francia. Pose

fine alle preoccupazioni per Cipro vendendo l’isola ai templari24. Ma era anche ansioso di avviare trattative con Saladino; questi era pronto ad ascoltare le proposte del re e diede pieni poteri a suo fratello, al-Adil, per trattare in suo nome. Appena giunto a Giaffa, Riccardo inviò a Lydda, dove al-Adil esercitava il potere, Honfroi di Toron, il migliore studioso di arabo del suo esercito, per il quale nutriva un profondo affetto, incaricandolo di discutere i preliminari di una tregua; ma nulla fu deciso. Al-Adil era un diplomatico consumato e raffrenava il desiderio di suo fratello di giungere ad un accordo. Una magnifica occasione si offerse alla sua abilità diplomatica nel mese di ottobre, quando vennero da lui inviati da Tiro per chiedergli se fosse disposto a ricevere un’ambasceria da parte di Corrado. La prima richiesta di Riccardo era stata, nientemeno, la cessione di Gerusalemme con tutta la regione ad occidente del Giordano e la restituzione della Santa Croce. Saladino ribatté che la reliquia era sacra anche per l’Islam e che non l’avrebbe restituita senza qualche contropartita. Pochi giorni dopo, il 20 ottobre, Riccardo fece nuove proposte. Egli ammirava al-Adil al pari di tutti i crociati che lo chiamavano Safadin, perciò propose che questi ricevesse tutta la Palestina posseduta in quel momento da Saladino e che sposasse la regina Giovanna di Sicilia, sorella del re, la quale avrebbe ricevuto in dote le città costiere conquistate da Riccardo, compresa Ascalona; gli sposi si sarebbero stabiliti a Gerusalemme a cui i cristiani avrebbero avuto libero accesso; la Croce sarebbe stata restituita, tutti i prigionieri delle due parti sarebbero stati rilasciati ed i templari e gli ospitalieri avrebbero riavuto le loro proprietà in Palestina. Saladino, quando il suo segretario gli trasmise l’offerta, la ricevette come uno scherzo e si disse allegramente d’accordo. Ma è probabile che Riccardo facesse sul serio. La regina Giovanna che lo aveva raggiunto con la regina Berengaria a Giaffa si scandalizzò nell’udire la proposta; dichiarò che nulla l’avrebbe indotta a sposare un musulmano. Allora Riccardo chiese a al-Adil se avrebbe preso in considerazione la possibilità di farsi cristiano. Questi rifiutò cortesemente l’onore che gli veniva fatto, ma invitò Riccardo a un sontuoso banchetto a Lydda l’8 novembre. Fu una festa allegra ed essi si separarono con proteste d’affetto e molti doni reciproci. Però nello stesso momento Saladino stava intrattenendo nel suo accampamento vicino l’ambasciatore inviato da Corrado, l’affascinante Rinaldo di Sidone a cui il sultano aveva perdonato l’astuzia a proposito di Beaufort. La mattina dopo Saladino ricevette l’inviato di Riccardo, Honfroi di Toron. Questi recava una proposta, secondo la quale al-Adil poteva essere riconosciuto come governatore di tutta la Palestina se i cristiani avessero avuto una parte di Gerusalemme; si augurava che il matrimonio con Giovanna potesse concludersi, benché Riccardo ammettesse che la pubblica opinione cristiana sarebbe stata piuttosto scandalizzata all’idea; pensava però che una dispensa papale avrebbe forse fatto cambiare opinione a Giovanna. In caso contrario, al-Adil poteva avere sua nipote, Eleonora di Bretagna, che come pupilla del re poteva essere sposata senza alcuna interferenza del papa. Quando tutto questo fosse stato regolato Riccardo sarebbe tornato in Europa. L’offerta di Corrado era meno sensazionale: in cambio di Sidone e di Beirut egli si sarebbe separato dagli altri crociati; propose perfino di restituire Acri ai musulmani. Ma quando gli venne chiesto se avrebbe preso le armi contro Riccardo, il suo ambasciatore tergiversò. Saladino riunì un consiglio per decidere con quale dei partiti franchi dovesse continuare le trattative. Al-Adil e gli altri emiri votarono per quello di Riccardo, non tanto, forse, per simpatia per il re, ma piuttosto perché egli sarebbe partito ben presto dalla Palestina, mentre Corrado, al quale tutti loro portavano un certo rispetto, pensava di viverci per sempre. Le proposte di Riccardo vennero accettate in linea di massima; ma un giorno il seguito di Honfroi fu turbato dalla vista di Rinaldo di Sidone che stava cacciando con al-Adil in evidenti rapporti di amicizia. In effetti il

fratello di Saladino trascinò in lungo i negoziati finché venne l’inverno25. Nel frattempo i combattimenti fra gli eserciti erano stati irregolari e sporadici. Un giorno, verso la fine di novembre, Riccardo, mentre stava cacciando con il falco, cadde in un’imboscata saracena e sarebbe stato catturato se il prode cavaliere Guglielmo di Preaux non avesse gridato di essere il re, lasciandosi prendere prigioniero. Alcuni altri cavalieri caddero quel giorno, ma oltre questa piccola scaramuccia non vi furono scontri degni di nota26. A novembre, quando cominciarono le piogge Saladino congedò metà del suo esercito e si ritirò con il rimanente nei quartieri d’inverno a Gerusalemme, mentre dei rinforzi erano in arrivo dall’Egitto. Ma Riccardo non volle lasciarsi scoraggiare dal cattivo tempo: alla metà del mese fece uscire da Giaffa il suo esercito, a cui si erano aggiunte truppe fresche provenienti da Acri, conducendolo fino a Ramleh, che trovò deserta e smantellata dai saraceni. Vi si fermò per sei settimane aspettando una occasione favorevole per marciare su Gerusalemme. Vi furono frequenti scorrerie di saraceni contro i suoi avamposti; poco mancò che egli stesso non fosse catturato mentre si trovava in perlustrazione vicino al castello di Blanchegarde; in un’altra scaramuccia fu preso il conte di Leicester, che però venne rilasciato in seguito. Negli ultimi giorni dell’anno il tempo fu così cattivo che Saladino ritirò i suoi guastatori. Riccardo passò il Natale a Latrun, ai piedi delle colline di Giudea; ed il 28 dicembre il suo esercito penetrò nella zona collinosa senza incontrare resistenza. Pioveva a dirotto, la strada era diventata un profondo pantano, un forte vento rompeva i pali delle tende prima che queste potessero essere rizzate. Il 3 gennaio l’esercito aveva raggiunto il forte di Beit-Nuba, a dodici miglia soltanto dalla Città Santa. I soldati inglesi e francesi erano pieni d’entusiasmo: persino le scomodità dell’accampamento sulle umide e ventose colline, le provviste di galletta e di carne di porco (che era il loro cibo principale) rovinate dalla pioggia, la perdita di molti cavalli causata dal freddo e dallo scarso cibo, la loro propria debolezza e la febbre, tutto ciò era sopportabile quando la meta era così vicina. Ma i cavalieri che conoscevano il paese, gli ospitalieri, i templari ed i baroni nati in Oriente, avevano un’opinione più saggia e più pessimistica. Avvertirono re Riccardo che se anche fosse riuscito, nonostante l’inclemenza del tempo, a spingersi oltre le fangose colline fino a Gerusalemme e a resistere all’esercito di Saladino, un altro esercito saraceno era appena giunto dall’Egitto e si era accampato sulle colline poco lontano; egli si sarebbe trovato preso in trappola tra i due. E se anche avesse conquistato Gerusalemme, essi aggiungevano, che cosa sarebbe successo? I crociati provenienti dall’Europa sarebbero tutti tornati a casa appena compiuto il loro pellegrinaggio ed i soldati cristiani del posto non erano abbastanza numerosi per difendere la città contro le forze unite dell’Islam. Riccardo si lasciò convincere e dopo cinque giorni di esitazione fece suonare la ritirata27. L’esercito, irritato e depresso, si ritirò attraverso il nevischio a Ramleh. Gli inglesi sopportarono la delusione gagliardamente, ma i francesi, con il loro temperamento volubile, cominciarono a disertare. Molti di loro, compreso il duca di Borgogna, si ritirarono a Giaffa, altri persino ad Acri. Riccardo si rese conto che per risollevare il morale dei suoi uomini era necessaria qualche attività. Tenne un consiglio di guerra il 20 gennaio e, con il suo appoggio, ordinò all’esercito di trasferirsi da Ramleh ad Ascalona, passando per Ibelin. Appena arrivato si dedicò a riparare la grande fortezza che Saladino aveva smantellato pochi mesi prima. Al pari di questi ne capiva bene l’importanza strategica e persuase i francesi a raggiungerlo colà 28. Ad eccezione di un viaggio ad Acri, Riccardo rimase per i successivi quattro mesi ad Ascalona e ne fece la più munita fortezza di tutta la costa palestinese. I suoi uomini lavorarono bene, nonostante i molti disagi; non c’era porto e spesso non si potevano sbarcare i viveri che giungevano per mare; il

tempo in quell’inverno fu particolarmente cattivo, ma Saladino non li molestò. Alcuni seguaci di Riccardo pensavano che egli, con disappunto dei suoi emiri, si astenesse cavallerescamente dall’attaccarli mentre erano così vulnerabili, ma in realtà egli desiderava far riposare il suo esercito ed aspettare i rinforzi dallo Jezireh e da Mosul. Può darsi che alcuni dei suoi emiri fossero scontenti, ma non a causa della sua inattività. Mentre essi erano di quell’umore egli non avrebbe osato dar battaglia29. Inoltre notizie provenienti da Acri gli dimostrarono che i franchi erano divisi. In febbraio Riccardo aveva convocato Corrado perché venisse ad aiutarlo nei lavori ad Ascalona, ma questi aveva rifiutato in termini bruschi. Pochi giorni dopo Ugo di Borgogna e molti francesi disertarono e tornarono ad Acri. Re Filippo aveva lasciato al duca pochissimo denaro per le sue truppe e da allora si era provveduto al loro soldo con prestiti fatti da Riccardo; persino il suo immenso tesoro stava però diminuendo, per cui egli non intendeva più finanziarli. Ad Acri l’eterna rivalità tra pisani e genovesi, che avevano molte navi e molti uomini acquartierati, era scoppiata in guerra aperta. I pisani, con la pretesa di agire in nome di re Guido, si impossessarono della città sotto il naso di Ugo di Borgogna, appena arrivato, la tennero per tre giorni contro Ugo, Corrado e i genovesi, mandando a chiedere a Riccardo di accorrere in loro aiuto. Il 20 febbraio questi arrivò ad Acri e cercò di metter pace; ebbe un deludente incontro con Corrado a Casal Imbert, sulla strada di Tiro. Corrado continuò a rifiutare di raggiungere l’esercito ad Ascalona perfino quando Riccardo lo minacciò, in caso contrario, di confiscargli tutte le terre. Era una minaccia che comunque non poteva esser messa in pratica. Quando Riccardo tornò ad Ascalona dopo aver patteggiato una tregua precaria, era più che mai convinto che bisognava fare la pace con Saladino30. Era rimasto ancora in contatto con al-Adil. Un inviato inglese, Stefano di Turnham, andò a Gerusalemme per vedere il sultano e suo fratello, e al suo arrivo alle porte della città fu scandalizzato alla vista di Rinaldo di Sidone e Baliano di Ibelin che ne stavano uscendo. Le trattative di Saladino con Corrado non erano state interrotte e la presenza di Baliano era pericolosa, perché era un cavaliere molto stimato dal sultano. Tuttavia il 20 marzo al-Adil cavalcò fino al campo di Riccardo con un’offerta precisa: i cristiani potevano tenersi quello che avevano conquistato ed avere il diritto di andare in pellegrinaggio a Gerusalemme, dove i latini potevano mantenere dei preti; la Santa Croce sarebbe stata loro restituita; potevano annettere anche Beirut se fosse stata smantellata. L’ambasceria fu bene accolta dal re, e infatti, in segno di speciale onore, uno dei figli di al-Adil venne insignito della cintura di cavaliere, sebbene senza dubbio durante la cerimonia si omettessero gli abituali elementi cristiani. Quando, ai primi di aprile, al-Adil raggiunse suo fratello parve che finalmente si fosse arrivati a un accordo31. La necessità di venire a patti si rese più evidente pochi giorni dopo, quando il priore di Hereford, giunto dall’Inghilterra, riferì a Riccardo che la situazione nel paese prendeva una cattiva piega. Giovanni, fratello del re, stava usurpando un’autorità sempre maggiore ed il cancelliere Guglielmo, vescovo di Ely, pregava Riccardo di tornare subito in patria. Questi aveva trascorso al campo il giorno di Pasqua, 5 aprile, furibondo perché gli ultimi francesi, chiamati al nord da Ugo di Borgogna, lo avevano appena lasciato. In quel momento, più che mai, le dispute tra i crociati dovevano cessare. Il re convocò un consiglio di tutti i cavalieri e baroni della Palestina e disse loro che avrebbe lasciato ben presto il paese e che la questione del trono di Gerusalemme doveva essere definita; offerse loro la scelta tra re Guido ed il marchese Corrado. Con suo scandalo e sorpresa nessuno parlò a favore di Guido: tutti volevano Corrado. Riccardo fu abbastanza saggio e magnanimo da conformarsi a tale decisione ed accettò di

riconoscere Corrado come re. Una missione capeggiata da suo nipote, Enrico di Champagne, partì per Tiro per portare la buona notizia al marchese. Quando Enrico vi giunse, verso il 20 aprile, ci furono grandi festeggiamenti. Si decise che l’incoronazione avrebbe avuto luogo pochi giorni dopo ad Acri ed allora si comprese che Corrado avrebbe finalmente acconsentito di raggiungere il campo ad Ascalona. Enrico partì subito da Tiro per Acri per preparare la città alla cerimonia32. Udendo la notizia Corrado si era buttato in ginocchio ed aveva chiesto a Dio che non gli venisse concesso il regno se egli ne era indegno. Pochi giorni dopo, il martedì 28 aprile 1192, fu costretto ad aspettare il pranzo perché sua moglie, la principessa Isabella, stava indugiando troppo a lungo nel bagno. Egli decise di andarsene a pranzare dal suo vecchio amico, il vescovo di Beauvais. Trovò che il vescovo aveva appena terminato il pasto e, benché gli si facessero delle premure perché aspettasse che qualche cosa gli fosse preparato, s’incamminò allegramente verso casa. Mentre svoltava un angolo piuttosto stretto due uomini gli si pararono dinnanzi, e mentre uno gli porgeva una lettera, l’altro lo pugnalò. Fu trasportato moribondo al suo palazzo. Uno degli uccisori venne abbattuto sul posto, l’altro fu preso e, prima di essere giustiziato, confessò che egli ed il suo compagno appartenevano alla setta degli assassini ed erano stati inviati ad eseguire quel delitto dal Vecchio Uomo delle Montagne, lo sceicco Sinan. Durante tutta la crociata gli assassini avevano osservato un atteggiamento di tranquilla neutralità, il che aveva loro permesso di fortificare i propri castelli e di ammassare grandi ricchezze. Corrado aveva offeso Sinan compiendo un atto di pirateria contro una nave mercantile carica di merce pregiata che la setta aveva comperato e nonostante le proteste dello sceicco non aveva restituito né le merci né l’equipaggio che, invece, era stato fatto annegare. È anche possibile che Sinan temesse che lo stabilirsi di un forte Stato crociato sulle coste libanesi potesse mettere in pericolo i suoi territori. Si disse che i due sicari avevano vissuto per qualche tempo a Tiro aspettando l’occasione favorevole e che avevano persino accettato il battesimo, avendo come padrini Corrado stesso e Baliano di Ibelin. Ma l’opinione pubblica cercava delle cause più profonde: alcuni dissero che Saladino aveva corrotto Sinan perché facesse uccidere sia Riccardo, sia Corrado, ma che Sinan, temendo che la morte di Riccardo permettesse a Saladino di marciare contro gli assassini, aveva eseguito solo la seconda parte del progetto. Un’altra teoria, più generalmente accettata, affermava che Riccardo stesso avesse predisposto l’assassinio. Non è ammissibile l’idea di una connivenza di Saladino; mentre Riccardo, per quanto detestasse Corrado, non avrebbe mai fatto uso di un simile mezzo. Ma i suoi nemici, capeggiati dal vescovo di Beauvais, non vollero credere alla sua innocenza33. La morte di Corrado fu un fiero colpo per il rinascente regno. Duro, ambizioso e senza scrupoli, egli godeva però la fiducia e l’ammirazione della nobiltà franca indigena e sarebbe stato un re forte ed astuto. Nondimeno la sua scomparsa aveva anche alcuni aspetti positivi. L’erede del regno, Isabella, era libera di sposarsi e di recare la corona a qualche candidato meno discusso. Quando Enrico di Champagne udì la notizia del delitto si affrettò a ritornare da Acri a Tiro. Qui la principessa, vedova da pochi giorni, si era rinchiusa nella fortezza e rifiutava di consegnare le chiavi della città se non al rappresentante del re di Francia o del re d’Inghilterra. Al suo arrivo Enrico fu subito acclamato dal popolo di Tiro come l’uomo che avrebbe sposato la loro principessa ed ereditato il trono. Egli era giovane, aitante e popolare e per giunta nipote di due re. Isabella cedette alla voce pubblica e diede se stessa e le sue chiavi ad Enrico. Due giorni dopo l’assassinio di Corrado venne annunziato il loro fidanzamento. Alcuni pensavano che un intervallo più lungo sarebbe stato più decente, mentre era discutibile se un nuovo matrimonio contratto prima di un anno fosse

canonicamente valido. Enrico stesso era un po’ incerto. Isabella era una giovane donna di ventun anni, molto attraente, ma era già stata sposata due volte ed aveva ora una figlia di pochi mesi che sarebbe stata la sua erede. Sembra che Enrico insistesse perché il fidanzamento venisse ratificato da Riccardo. Alcuni messaggeri avevano chiamato quest’ultimo ad Acri dove si incontrò col nipote. Si mormorava che Enrico gli avesse parlato dei propri dubbi e del desiderio di tornare a casa nelle sue belle terre di Francia. Ma a Riccardo la soluzione sembrava magnifica e consigliò Enrico di accettare l’elezione al trono promettendo che un giorno sarebbe tornato con nuovi aiuti per il suo regno; si rifiutò di dar consigli riguardo al matrimonio, però Enrico poteva diventare re soltanto come marito di Isabella. Il 5 maggio 1192, dopo esattamente una settimana di vedovanza, Isabella entrava in Acri a fianco di Enrico. L’intera popolazione usci loro incontro ed il matrimonio fu celebrato con gran pompa tra l’esultanza generale. La principessa e suo marito fissarono poi la loro residenza nel castello di Acri34. Fu un matrimonio felice. Presto Enrico si innamorò profondamente di sua moglie e gli era intollerabile la sua lontananza; Isabella, a sua volta, trovò irresistibile il fascino di lui, dopo la grinta arcigna dell’anziano piemontese che aveva dovuto sposare per forza. Riccardo aveva già trovato una sistemazione per re Guido. Aveva finalmente capito che in Palestina nessuno voleva più saperne dell’inetto ex monarca. Ma c’era da pensare al futuro di Cipro: egli non desiderava mantenervi dei funzionari quando fosse tornato in Europa ed i templari, ai quali aveva ceduto l’isola, non si erano dimostrati saggi nel loro modo di trattare gli abitanti greci e desideravano restituirgliela; egli quindi permise a Guido di comperarla da loro chiedendo per sé una somma addizionale che, in realtà, Guido non gli pagò mai interamente. Ai primi di maggio questi sbarcò a Cipro con un’autorità assoluta per governarla a proprio talento35. Quando tutte queste questioni furono sistemate Riccardo invitò Enrico a raggiungerlo ad Ascalona. Correva voce che uno dei nipoti di Saladino avesse iniziato in Mesopotamia una pericolosa rivolta contro il sultano, cosicché Riccardo, il cui trattato con i saraceni non era ancora stato ratificato, decise un improvviso attacco contro Daron, venti miglia più lontano, sulla costa. Ma Enrico indugiava ad Acri con l’esercito francese. Senza aspettarli Riccardo avanzò su Daron per mare e per terra; ed il 23 maggio, dopo cinque giorni di accaniti combattimenti, la città bassa fu conquistata d’assalto e la guarnigione della cittadella si arrese. Riccardo aveva imparato ben poco dalla cortesia di Saladino. Alcuni degli uomini della guarnigione furono uccisi con la spada, altri fatti precipitare dalle mura o portati via in perpetua prigionia36. La facile conquista dell’ultima fortezza di Saladino sulla costa palestinese rianimò talmente i crociati che essi, ancora una volta, progettarono di marciare su Gerusalemme. Enrico ed i francesi arrivarono a Daron il giorno dopo la sua occupazione, in tempo per trascorrervi la Pentecoste con il re. Subito dopo, l’esercito tornò ad Ascalona, mentre francesi ed inglesi esigevano che si lanciasse subito un attacco contro la Città Santa. Riccardo aveva appena ricevuto altre notizie inquietanti dall’Inghilterra e dubitava inoltre che la spedizione fosse militarmente possibile. Si mise a letto perplesso e solo un vibrante appello rivoltogli da uno dei suoi cappellani di Poitiers riuscì a scuoterlo. Egli allora fece voto di rimanere in Palestina fino alla Pasqua successiva37. Il 7 giugno l’esercito cristiano riparti di nuovo da Ascalona, oltrepassò Ramleh marciando sulla strada che attraversa Blanchegarde, raggiunse Latrun il 9 e Beit-Nuba l’11. Qui Riccardo si fermò e l’esercito vi si trattenne un mese. Saladino aspettava a Gerusalemme dove gli erano appena arrivati rinforzi dallo Jezireh e da Mosul. Sarebbe stata una follia per i cristiani inoltrarsi tra le colline senza migliori provviste ed animali da soma. Da ambe le parti ci si limitò alle scaramucce, con alterno

successo. Un giorno che stava cavalcando sulle colline sopra Emmaus, re Riccardo vide improvvisamente apparire in lontananza le mura e le torri di Gerusalemme. In fretta si copri la faccia con lo scudo per non contemplare interamente la città che Dio non gli aveva concesso di liberare. Ma c’era anche qualche ricompensa: un giorno venne al campo il vescovo siriano di Lydda con un pezzo della Vera Croce che egli aveva salvato. Un po’ più tardi l’abate del convento greco di Mar Elias, un uomo venerabile, con una lunga barba bianca, parlò al re di un luogo dove egli aveva sepolto, per nasconderlo agli infedeli, un altro pezzo della Croce. Fu riportato alla luce e consegnato a Riccardo. Questi frammenti consolavano l’esercito del suo insuccesso nel tentativo di ricuperare la parte maggiore della reliquia che, a quanto pare, Saladino aveva ricollocato nel Santo Sepolcro in Gerusalemme. Il 20 giugno, mentre i generali stavano pensando se abbandonare il tentativo di liberare Gerusalemme per marciare invece contro l’Egitto, giunsero notizie di un grande convoglio musulmano che si stava dirigendo dal sud verso la Città Santa. Tre giorni dopo Riccardo lo assali vicino alla Cisterna Rotonda, i pozzi di Kuwaifa, nella regione desertica a circa venti miglia a sudovest di Hebron. I musulmani erano impreparati all’attacco; dopo una breve battaglia l’intera carovana fu catturata con le sue ricche mercanzie, le sue abbondanti provviste di viveri ed alcune migliaia di cavalli e cammelli. L’esercito cristiano ritornò trionfante al campo di Beit-Nuba. A tale notizia Saladino rimase costernato: certamente ora Riccardo avrebbe marciato contro Gerusalemme. Inviò in tutta fretta suoi uomini a riempire tutti i pozzi tra Beit-Nuba e la città, e fece tagliare tutti gli alberi da frutta. Il 1° luglio tenne un consiglio a Gerusalemme in un’atmosfera di grande ansietà per discutere se ritirarsi verso est; egli desiderava rimanere ed i suoi emiri riuniti appoggiarono la sua decisione, assicurandolo della loro fedeltà. Ma fra le truppe turche e curde erano scoppiati litigi ed egli non era sicuro di loro nel caso di un energico assalto. Le sue preoccupazioni svanirono presto. C’erano state affannose discussioni anche nel campo cristiano. I soldati francesi erano ansiosi di avanzare, avendo cibo e mezzi di trasporto in abbondanza, ma gli esploratori di Riccardo lo avevano avvertito della mancanza d’acqua; inoltre rimaneva pur sempre il problema di come tenere Gerusalemme quando i crociati occidentali fossero tornati in patria. Tra le beffe e gli insulti dei francesi, Riccardo ordinò ancora una volta all’esercito di ritirarsi da Beit-Nuba. Il 4 luglio Saladino ricevette la notizia che i cristiani avevano levato il campo e stavano cominciando a scendere verso la costa. Egli cavalcò alla testa dei suoi uomini fino ad una collina vicina per osservare di lontano la colonna in marcia38. Appena tornato a Giaffa Riccardo cercò nuovamente di giungere ad una tregua che gli avrebbe permesso di tornare in patria. Enrico di Champagne inviò un altezzoso messaggio a Saladino per annunziargli che egli era ora l’erede del regno di Gerusalemme e che questo doveva essergli interamente restituito. Gli ambasciatori di Riccardo giunti nella Città Santa tre giorni dopo erano più concilianti: Riccardo raccomandava suo nipote alla buona grazia di Saladino e faceva premura per un’amichevole sistemazione. Con l’approvazione del suo consiglio, Saladino acconsentì a trattare Enrico come un figlio, a permettere a preti latini di stabilirsi nei Luoghi Santi e a cedere ai cristiani la costa della Palestina, con la sola condizione che Ascalona fosse smantellata. Ma Riccardo rifiutò di prendere in considerazione la distruzione di Ascalona anche quando Saladino offrì Lydda in cambio. Mentre continuava la discussione per mezzo di messaggeri che andavano e venivano, Riccardo si trasferì ad Acri con l’intenzione di salpare anche se il trattato non fosse stato firmato; progettava di marciare all’improvviso su Beirut, d’impadronirsene e d’imbarcarsi di là per l’Europa39.

La sua assenza offrì a Saladino un’occasione favorevole: il 27 luglio di buon’ora condusse il suo esercito fuori di Gerusalemme, arrivò la sera stessa davanti a Giaffa e cominciò subito l’assalto alla città. Dopo tre giorni di attacco, i suoi zappatori aprirono una breccia attraverso la quale l’esercito saraceno si precipitò all’interno. La difesa fu eroica ma inutile. La guarnigione fu obbligata a capitolare con l’intesa che avrebbe avuto salva la vita. Per i cristiani le trattative furono condotte dal nuovo patriarca che si trovava per caso nella città. Le truppe di Saladino gli avevano però preso la mano: curdi e turchi si precipitarono per le strade al saccheggio trucidando i cittadini che cercavano di difendere le loro case; perciò Saladino consigliò alla guarnigione di rinchiudersi nella cittadella finché egli avesse potuto ristabilire l’ordine. Un veloce messaggero aveva portato a Riccardo le notizie dell’attacco contro Giaffa appena Saladino si era avvicinato alle mura. Egli partì immediatamente alla riscossa, viaggiando per mare con l’aiuto dei pisani e dei genovesi, mentre il suo esercito procedeva per la via di terra. I venti contrari lo trattennero oltre il promontorio del Carmelo e il suo esercito indugiò sulla strada di Cesarea perché non voleva giungere a Giaffa prima di lui. Il 31 luglio, quando Saladino aveva sufficientemente sottomesso le sue truppe da poter evacuare dalla cittadella attraverso la città quarantanove cavalieri della guarnigione, con le mogli ed il bagaglio, la flotta di Riccardo con cinquanta galee apparve all’orizzonte. La guarnigione ricominciò subito la battaglia e con una carica disperata quasi ricacciò dalla città i musulmani disorganizzati. Riccardo, ignorando che cosa stesse succedendo, esitava a sbarcare finché un prete nuotò fino a lui per dirgli che la cittadella non era stata occupata. Egli accostò allora le sue navi ai piedi della fortezza e sbarcò alla testa dei suoi uomini. La guarnigione disperata aveva già inviato nuovi messaggeri per trattare con Saladino, che stava conversando con loro nella sua tenda, quando Riccardo lanciò l’attacco. I saraceni, molti dei quali erano ancora sparsi per le strade, furono colti di sorpresa. La violenza dell’assalto in cui Riccardo stesso combatteva furiosamente in prima fila, combinata con una nuova sortita della guarnigione, li gettò in una fuga precipitosa. Un segretario entrò nella tenda di Saladino e sottovoce lo informò della disfatta; mentre questi cercava di trattenere i suoi visitatori con una piacevole conversazione, la fiumana dei saraceni fuggitivi rivelò la verità. Il sultano fu obbligato a ordinare la ritirata; egli stesso poté rimanere nel suo accampamento con un pugno di cavalleggeri, ma il grosso del suo esercitò fuggì fino ad Assir, a cinque miglia dalla costa, prima di ricomporre le file. Riccardo aveva riconquistato Giaffa con un’ottantina di cavalieri, quattrocento arcieri e forse duemila marinai italiani: tutto il suo corpo di sbarco possedeva soltanto tre cavalli40. L’indomani mattina Saladino mandò il suo ciambellano, Abu Bakr, per riprendere le trattative di pace. Trovò Riccardo che stava scherzando con alcuni emiri prigionieri sulla rapida conquista di Giaffa da parte di Saladino e sulla sua riconquista. Diceva di non essere stato armato e di non aver nemmeno avuto il tempo di cambiare le calzature, però si trovò subito d’accordo con Abu Bakr nel dire che la guerra doveva cessare. Il messaggio di Saladino suggeriva, come punto di partenza per la discussione, che la frontiera franca si fermasse a Cesarea dato che ormai Giaffa era mezza distrutta. Riccardo replicò con l’offerta di tenersi Giaffa ed Ascalona come un feudo sotto Saladino, senza spiegare in che modo il vassallaggio sarebbe stato conservato quando il re fosse tornato in Europa. Saladino rispose offrendo Giaffa, ma insistendo per tenersi Ascalona; una volta ancora questa città si trasformò in un ostacolo insormontabile. Le trattative furono interrotte41. L’esercito franco che Riccardo aveva chiamato a raccolta per liberare Giaffa stava avanzando oltre Cesarea. Saladino, ben sapendo ormai quanto scarse fossero le forze del re a Giaffa, decise di attaccare il suo accampamento fuori le mura prima che la nuova armata potesse giungere. All’alba

del mercoledì 5 agosto, un genovese che stava vagando fuori del campo udì il nitrito di cavalli e lo scalpiccio di soldati e vide in lontananza luccicare le armi sotto i raggi del sole nascente. Diede l’allarme al campo, e quando i saraceni apparvero Riccardo era pronto. I suoi uomini non avevano avuto il tempo di armarsi e ciascuno aveva afferrato quello che gli capitava tra le mani. C’erano soltanto cinquantaquattro cavalieri pronti per la battaglia con quindici cavalli e circa duemila fanti. Dietro una bassa palizzata di paletti da tenda, che doveva sconcertare i cavalli del nemico, Riccardo dispose i suoi uomini a coppie con i loro scudi fissati in modo da formare un muro davanti a loro e le loro lunghe lance piantate nel suolo con un angolo tale che la cavalleria che si avvicinava vi si infilasse sopra. Ogni coppia di fanti c’era un arciere. La cavalleria musulmana caricò in sette ondate di circa mille uomini ciascuna, ma non poté sfondare il muro d’acciaio. Le cariche continuarono fino al pomeriggio, poi, quando sembrò che i cavalli nemici fossero stanchi, Riccardo fece passare i suoi arcieri in prima linea e scaricò tutte le frecce contro il nemico che avanzava. La scarica lo arrestò. Gli arcieri passarono di nuovo dietro i lancieri che si gettarono alla carica con Riccardo a cavallo alla loro testa. A quella vista Saladino fu pieno d’ira e di ammirazione, e quando il cavallo del re gli cadde sotto, inviò cavallerescamente nel mezzo della mischia un servo con due cavalli freschi come dono per il valoroso monarca. Alcuni musulmani nascostamente aggirarono l’esercito per attaccare la città e i marinai di guardia fuggirono verso le navi, finché Riccardo non giunse al galoppo a riordinarne le file. Verso sera Saladino interruppe la battaglia e si ritirò a Gerusalemme che fortificò ancora per tema che Riccardo osasse inseguirlo42. Fu una magnifica vittoria dovuta alla tattica del re e al suo valore personale, ma non venne sfruttata. Dopo due o tre giorni Saladino era di ritorno a Ramleh con un nuovo esercito di reclute provenienti dall’Egitto e dalla Siria del nord, mentre Riccardo, consumato dalle fatiche, giaceva nella sua tenda seriamente ammalato e febbricitante. Egli desiderava ardentemente la pace. Saladino ripeté la sua precedente offerta, insistendo ancora per la cessione di Ascalona: ciò era molto duro da accettare per Riccardo. Scrisse al suo vecchio amico al-Adil, anch’egli ammalato vicino a Gerusalemme, per pregarlo di intervenire presso il fratello affinché gli lasciasse Ascalona, ma Saladino tenne duro. Inviò al re prostrato dalla febbre pesche e pere e neve del monte Hermon per rinfrescare le sue bevande, ma non volle cedere Ascalona. Riccardo non era in condizioni di contrattare: la sua salute ed i misfatti di suo fratello in Inghilterra esigevano il suo rapido ritorno in patria. Gli altri crociati erano stanchi: suo nipote Enrico e gli ordini militari mostravano di non aver fiducia nella sua politica. Di che utilità sarebbe stata per loro Ascalona quando egli ed il suo esercito fossero partiti? Egli aveva troppo spesso reso pubblica la sua decisione di lasciare la Palestina. Il venerdì 28 agosto un corriere di al-Adil gli portò la definitiva offerta di Saladino. Cinque giorni dopo, il 2 settembre 1192, il re firmava un trattato di pace per cinque anni e gli ambasciatori del sultano vi aggiungevano le loro firme. Quindi presero la mano di Riccardo e giurarono in nome del loro signore. Riccardo, in quanto re, rifiutò di pronunciare un giuramento, ma lo fecero per lui Enrico di Champagne, Baliano di Ibelin ed i maestri degli ospitalieri e dei templari. Saladino firmò il trattato il giorno dopo, alla presenza degli ambasciatori di Riccardo. La guerra della terza crociata era finita. Il trattato diede ai cristiani le città costiere fino a Giaffa, verso sud. I pellegrini potevano visitare liberamente i Luoghi Santi, e musulmani e cristiani potevano reciprocamente attraversare il territorio dei diversi Stati; Ascalona doveva essere demolita43. Alcuni gruppi di crociati disarmati, appena Saladino ebbe preso disposizioni per scortarli ed alloggiarli, partirono con un passaporto del re per rendere omaggio ai santuari di Gerusalemme.

Riccardo stesso non volle andare e rifiutò di dare passaporti alle truppe francesi, ma molti dei suoi cavalieri fecero il viaggio. Uno dei gruppi era diretto da Uberto Walter, vescovo di Salisbury, che fu accolto con tutti gli onori e ricevuto in udienza dal sultano. Conversarono su parecchi argomenti, ma specialmente sul carattere di Riccardo. Il vescovo dichiarò che egli possedeva ogni buona qualità, ma Saladino pensava che gli facessero difetto saggezza e moderazione. Quando il sultano offrì un dono d’addio al vescovo, il prelato chiese che fosse permesso a due preti e a due diaconi latini di officiare al Santo Sepolcro ed anche a Betlemme e a Nazaret. Saladino diede il suo consenso; i preti giunsero pochi mesi dopo e fu loro permesso di compiere il loro ufficio senza essere molestati44. A Costantinopoli erano giunte voci secondo cui Riccardo stava facendo pressioni per ottenere di sottoporre alla Chiesa latina i Luoghi Santi. Mentre Saladino si trovava ancora a Gerusalemme, vi giunse un’ambasceria dell’imperatore Isacco Angelo per chiedere che fosse restituito ai greci il completo controllo della Chiesa ortodossa, di cui avevano goduto al tempo dei Fatimiti. Saladino rifiutò: non intendeva permettere a nessuna setta di esercitare il predominio, ma, come i sultani ottomani dopo di lui, voleva essere l’arbitro di tutte. Respinse pure recisamente la richiesta della regina di Georgia di comprare la Santa Croce per duecentomila dinari45. Firmato il trattato, Riccardo andò ad Acri. Quivi mise in ordine i suoi affari pagando i debiti e cercando di ricuperare i crediti. La regina Berengaria e la regina Giovanna salparono da Acri il 29 settembre per raggiungere la Francia tranquillamente prima delle tempeste invernali. Dieci giorni dopo, il 9 ottobre, Riccardo stesso lasciò il paese dove aveva combattuto così valorosamente per sedici duri mesi. Ma la sorte gli fu avversa. Il cattivo tempo lo obbligò a rifugiarsi a Corfù, in territorio dell’imperatore Isacco Angelo; temendo di essere preso prigioniero riparti subito, travestito da cavaliere del Tempio, con quattro servitori su una nave corsara che si dirigeva verso l’alto Adriatico. Questa nave naufragò vicino ad Aquileia e Riccardo e i suoi compagni proseguirono il viaggio attraverso la Carinzia e l’Austria con l’intenzione di raggiungere in fretta e segretamente i territori di suo cognato Enrico di Sassonia. Ma Riccardo non era il tipo da indossare in modo convincente un travestimento. L’11 dicembre venne riconosciuto mentre si riposava in una locanda vicino a Vienna e fu subito condotto davanti al duca Leopoldo d’Austria, quello stesso di cui ad Acri aveva gettato a terra lo stendardo. Leopoldo lo accusò dell’assassinio di Corrado del Monferrato, lo rinchiuse in prigione e dopo tre mesi lo consegnò al proprio sovrano, l’imperatore Enrico VI. La lunga amicizia di Riccardo con Enrico il Leone e la sua recente alleanza con Tancredi di Sicilia lo rendevano inviso all’imperatore, che lo tenne prigioniero per un anno, rilasciandolo soltanto nel marzo 1194, dietro pagamento di un enorme riscatto e un giuramento di vassallaggio. Durante i tediosi mesi della prigionia le sue terre erano rimaste esposte agli intrighi di suo fratello Giovanni e agli attacchi aperti di re Filippo. Quando riuscì a tornarvi, ebbe troppe cose da fare per potere sia pur soltanto prendere in considerazione la possibilità di un altro viaggio in Oriente. Per cinque anni combatté brillantemente in Francia per difendere la propria eredità contro l’astuto Capeto, finché, il 26 marzo 1199 una freccia lanciata a caso da un castello ribelle nel Limousin pose termine alla sua vita. Era stato un cattivo figlio, un cattivo marito e un cattivo re, ma un valoroso e magnifico soldato46.

Capitolo quarto Il secondo regno

E la regione marittima... sarà una regione per il resto della casa di Giuda. Sofonia, II, 7

La terza crociata era giunta alla fine. Mai più avrebbe mosso verso Oriente per la guerra santa una tale pleiade di principi. Tuttavia, se l’intera Europa occidentale si era unita nel grande sforzo, i risultati erano esigui: Tiro era stata salvata da Corrado e Tripoli dalla flotta siciliana prima dell’arrivo dei crociati. Acri e la costa fino a Giaffa costituirono tutto il contributo che essi diedero alla rinascita del regno franco, senza contare l’isola di Cipro sottratta al suo sovrano cristiano. Un risultato però era stato raggiunto: la carriera di conquistatore di Saladino era stata arrestata. I musulmani erano stanchi della lunga guerra e per qualche tempo non avrebbero ritentato di cacciare i cristiani oltre il mare. Il regno era stato saldamente ricostruito, abbastanza robusto da poter durare per un altro secolo. Era piccolissimo e sebbene i suoi re si chiamassero re di Gerusalemme, questa città rimaneva fuori dai loro confini; tutto ciò che possedevano era una striscia di terra non più larga di dieci miglia che si estendeva per novanta miglia lungo il mare da Giaffa a Tiro. Più a nord la saggia neutralità di Boemondo gli aveva permesso di conservare la sua capitale e un po’ di terra intorno, giù fino al porto di San Simeone; mentre suo figlio continuava a governare Tripoli e, sotto la sua sovranità, gli ospitalieri possedevano il Krak des Chevaliers e i templari tenevano Tortosa. Non era molto quello che si era salvato dal naufragio dell’Oriente franco, ma per il momento quel poco era al sicuro. Saladino aveva soltanto cinquantaquattro anni, ma dopo tante fatiche guerresche era stanco e malato. Rimase a Gerusalemme, occupandosi dell’amministrazione civile della provincia di Palestina, finché non seppe che Riccardo era salpato da Acri. Sperava quindi di poter tornare in Egitto e poi di soddisfare la sua pia ambizione di compiere un pellegrinaggio alla Mecca; ma il dovere lo chiamava a Damasco. Dopo un’ispezione di tre settimane nelle terre che aveva conquistato e dopo essersi incontrato con Boemondo a Beirut per firmare una pace definitiva con lui, giunse a Damasco il 4 novembre. Lo aspettava una quantità di lavoro accumulatosi durante i quattro anni in cui aveva vissuto con l’esercito. Era un duro inverno e, avendo tanto da fare nella sua capitale, rimandò il viaggio in Egitto ed il pellegrinaggio. Quando aveva un po’ di tempo libero ascoltava le discussioni di dotti filosofi e qualche volta andava a caccia. Ma con il trascorrere dei mesi invernali, quelli che lo conoscevano bene si accorsero che la sua salute peggiorava. Si lamentava di una profonda stanchezza e di cattiva memoria e poteva appena fare lo sforzo di tenere le udienze. Il venerdì 19 febbraio 1193 raccolse tutte le proprie energie per cavalcare incontro a un pellegrinaggio che tornava in patria dalla Mecca. Quella sera si lamentò di febbre e di dolori. Sopportò la malattia con pazienza e calma, ben sapendo che la fine si stava avvicinando. Il 1° marzo cadde in coma. Suo figlio, al-Afdal, partì in gran fretta per assicurarsi l’obbedienza degli emiri, e soltanto il cadì di Damasco e pochi fedeli servitori rimasero accanto al letto del sultano. Il mercoledì 3 marzo, mentre il cadì, ripetendogli le parole del

Corano, giungeva al passo: «Non c’è altro Dio che Lui solo, in Lui io credo», il morente aprì gli occhi e sorrise, e se ne andò in pace dal suo Signore1. Tra tutti i grandi personaggi della crociata Saladino fu il più simpatico. Aveva anche i suoi difetti: nell’ascesa al potere aveva mostrato un’astuzia e una mancanza di scrupoli che mal si accordavano con la fama ottenuta negli ultimi tempi. Non si era mai astenuto dallo spargimento di sangue quando gli interessi politici erano in gioco; aveva trucidato con le sue mani l’odiato Rinaldo di Châtillon. Ma quando era duro, lo era per amore del suo popolo e della sua fede. Era un musulmano convinto e per quanto avesse sentimenti gentili verso i suoi amici cristiani, sapeva che le loro anime erano condannate alla perdizione. Ma rispettava le loro idee e li considerava suoi simili. A differenza dei capi crociati non violò mai la parola data, quale che fosse la religione della persona verso cui si era impegnato. Pur con tutto il suo fervore religioso, era sempre cortese e generoso, misericordioso come conquistatore e come giudice, comprensivo e tollerante come padrone. Sebbene alcuni dei suoi emiri lo considerassero ancora un parvenu curdo e per quanto i predicatori dell’Occidente lo chiamassero l’anticristo, pochissimi suoi sudditi non nutrivano per lui rispetto e devozione, e pochi nemici potevano astenersi dall’ammirarlo. Fisicamente era di complessione snella, il suo viso era malinconico in riposo, ma poteva rapidamente illuminarsi di un piacevole sorriso. I suoi modi erano sempre gentili, i suoi gusti semplici. Detestava la volgarità e l’ostentazione; amava l’aria aperta e la caccia, ma leggeva molto e godeva delle discussioni intellettuali, sebbene avesse in orrore gli spiriti irreligiosi. Nonostante il suo potere e le sue vittorie, era un uomo tranquillo e modesto. Molti anni più tardi giunse all’orecchio di uno scrittore franco, Vincenzo di Beauvais, una leggenda secondo cui, mentre giaceva sul letto di morte, avrebbe chiamato il suo portabandiera imponendogli di andare in giro per Damasco con un lembo del suo sudario infilato su una lancia, proclamando che il monarca di tutto l’Oriente non poteva portare con sé nella tomba null’altro che quel pezzo di stoffa2. Aveva compiuto grandi imprese: aveva completato l’opera di unificazione dell’Islam cominciata da Nur ed-Din ed aveva respinto gli intrusi occidentali fuori della Città Santa su una stretta striscia di costa, ma era stato incapace di ricacciarli del tutto. Re Riccardo e gli eserciti della terza crociata erano stati troppo forti per lui. Se gli fosse succeduto un altro sovrano della sua stessa levatura, il poco che rimaneva da fare sarebbe stato compiuto ben presto; ma la tragedia dell’Islam medievale fu appunto la sua mancanza di istituzioni permanenti che, anche dopo la morte di un capo, conservassero un’autorità di carattere continuativo. Il califfato era la sola istituzione la cui esistenza non fosse minacciata dall’avvicendarsi dei suoi titolari; ma in quel momento il califfo non aveva nessuna importanza politica, né Saladino era califfo. Egli era un curdo di famiglia non molto importante, che otteneva l’obbedienza del mondo musulmano soltanto per la forza della propria personalità. Ai suoi figli questa personalità faceva difetto. Morendo Saladino lasciava diciassette figli ed una figlioletta. Il maggiore era al-Afdal, un arrogante giovanotto di ventidue anni, che per designazione paterna doveva ereditare Damasco e diventare capo della famiglia ayubita. Mentre Saladino era in punto di morte al-Afdal aveva convocato a Damasco tutti gli emiri perché gli giurassero fedeltà e promettessero di divorziare dalle loro mogli e di diseredare i loro figli se avessero violato il giuramento. L’ultima clausola scandalizzò molti di loro ed altri non vollero giurare se al-Afdal non avesse giurato a sua volta di mantenerli nei loro feudi. Ma quando suo padre morì e fu sepolto nella grande moschea degli Ommaiadi, la sua autorità su Damasco fu accettata. Il secondo fratello, al-Aziz, all’età di ventun anni era già governatore dell’Egitto e vi si proclamò sultano indipendente. Un terzo, az-Zahir, governava Aleppo e non mostrava nessun desiderio di accettare suo fratello come sovrano. Un altro ancora più

giovane, Khidr, possedeva lo Hauran, ma riconobbe la sovranità di al-Afdal. Sopravvivevano soltanto due dei fratelli di Saladino, Toghtekin, che era successo a Turanshah come signore dello Yemen, e al-Adii, delle cui ambizioni Saladino aveva cominciato a diffidare. Questi aveva come feudo le terre che erano state dei franchi nell’Oltregiordano e certi possessi nello Jezireh, intorno a Edessa. Nipoti e cugini possedevano feudi minori in tutti i territori del sultano. I principi della casa di Zengi, Izz ed-Din e Imad ed-Din, possedevano Mosul e Sinjar in qualità di vassalli, mentre gli Ortoqidi erano ancora stabiliti a Mardin e a Haifa. Tra gli altri feudatari, molti dei quali erano generali fortunati che erano stati al servizio di Saladino, il più importante era Bektimur, signore di Akhlat3. Alla morte di Saladino l’unità dell’Islam cominciò a sgretolarsi. Mentre i suoi figli si sorvegliavano gelosamente a vicenda nel nord-est si ordì un complotto, con l’appoggio di Bektimur e degli Ortoqidi, per restaurare il potere zengida nella persona di Izz ed-Din. Gli Ayubiti furono salvati dalle precauzioni di al-Adil e dalla morte improvvisa sia di Izz ed-Din che di Bektimur, alla quale si pensò che non fossero estranei gli agenti di lui. Il figlio ed erede di Izz ed-Din, Nur ed-Din Arslan, e Aqsonqor successore di Bektimur, impararono la lezione e per il momento si mostrarono deferenti verso al-Adil. Più a sud, al-Afdal litigò ben presto con al-Aziz. Il primo aveva poco saggiamente licenziato la maggior parte dei ministri di suo padre ed aveva dato tutta la propria fiducia a az-Ziya ibn al-Athir, fratello dello storico Ibn al-Athir, mentre egli stesso si dedicava giorno e notte ai piaceri della musica e del vino. Gli ex ministri fuggirono al Cairo da al-Aziz che li ricevette con grande gioia; dietro loro consiglio nel maggio 1194 egli invase la Siria, giungendo sotto le mura di Damasco. Al-Afdal invocò spaventato suo zio al-Adil che accorse in forze dallo Jezireh e s’incontrò con al-Aziz nel suo accampamento. Si giunse ad un nuovo compromesso familiare: al-Afdal fu costretto a cedere la Giudea a al-Aziz, nonché Lattakieh e Jabala a suo fratello az-Zahir di Aleppo, ma questi due si impegnavano a riconoscere la sua sovranità. Al-Adil non ricevette nulla da questa transazione eccetto il prestigio di essere stato l’arbitro della famiglia. La pace non durò a lungo. Meno di un anno dopo al-Aziz marciò di nuovo su Damasco e di nuovo al-Adil accorse-in aiuto del suo nipote maggiore. Gli emiri alleati di al-Aziz cominciarono ad abbandonarlo e al-Afdal lo respinse in Egitto attraverso la Giudea, progettando di marciare contro il Cairo. Era più di quanto alAdii desiderasse: minacciò di dare il suo appoggio ad al-Aziz, se al-Afdal non fosse ritornato a Damasco. Una volta ancora fu obbedito. Ben presto fu evidente che al-Afdal non era adatto a regnare. Il governo di Damasco era interamente nelle mani del visir az-Ziya che suscitava la ribellione tra tutti i vassalli del suo signore. Al-Adil decise che gli interessi degli Ayubiti non potevano sopportare un capofamiglia così incompetente. Cambiò la propria politica, si alleò con al-Aziz e con il suo aiuto nel luglio del 1196 si impadronì di Damasco, annettendosi tutte le terre di al-Afdal. Questi ebbe un luogo di rifugio onorevole nella piccola città di Salkhad nello Hauran, dove abbandonò i piaceri dei sensi per darsi ad una vita di devozione, e al-Aziz fu riconosciuto quale supremo sultano della dinastia. Questa sistemazione durò due anni. Nel novembre del 1198 al-Aziz, la cui autorità sullo zio era stata sempre soltanto nominale, cadde da cavallo mentre stava cacciando lo sciacallo vicino alle piramidi. Mori il 29 novembre per le ferite riportate. Il suo figliolo maggiore, al-Mansur, era un ragazzo di dodici anni ed i ministri di suo padre, spaventati dall’ambizione di al-Adil, richiamarono da Salkhad al-Afdal perché diventasse il reggente dell’Egitto. Questi arrivò al Cairo nel gennaio del 1199 e prese in mano il governo. Al-Adil si trovava in quel momento nel nord ad assediare Mardin, il cui principe ortoqida Yuluk Arslan era restio ad accettare il controllo ayubita. Le sue temporanee difficoltà incoraggiarono il suo terzo nipote, az-Zahir di Aleppo, a progettare un’alleanza contro di

lui. Durante tutto il suo regno az-Zahir era stato disturbato da irrequieti vassalli che sospettava incoraggiati da suo zio. Mentre al-Afdal inviava dall’Egitto un esercito per attaccare Damasco, azZahir si preparava a scendere dal nord. Altri membri della famiglia, come Shirkuh di Homs, si unirono a loro. Al-Adil, accorrendo in tutta fretta da Mardin dove lasciava suo figlio al-Kamil a continuare l’assedio, giunse a Damasco l’8 giugno. Sei giorni dopo arrivò l’esercito egiziano e penetrò nella città al primo assalto, ma ne fu rapidamente ricacciato. Az-Zahir ed il suo esercito giunsero una settimana dopo e per sei mesi i due fratelli assediarono lo zio nella sua capitale. Ma alAdil era un consumato e sottile diplomatico; a poco a poco trasse dalla sua parte molti dei vassalli dei suoi nipoti, incluso Shirkuh di Homs; quando infine, nel gennaio del 1200, giunse suo figlio alKamil con un esercito che era stato vittorioso nello Jezireh, i fratelli, che avevano cominciato a litigare, si separarono e si ritirarono. Al-Adil insegui al-Afdal fino in Egitto e sconfisse le sue truppe a Bilbeis. In febbraio al-Afdal, preso da un nuovo accesso di devozione, si sottomise allo zio e ritornò al suo ritiro di Salkhad. Al-Adil assunse la reggenza dell’Egitto, ma az-Zahir non era stato sconfitto. La primavera seguente questi, mentre lo zio si trovava ancora in Egitto, marciò improvvisamente su Damasco e persuase al-Afdal a raggiungerlo di nuovo. Ancora una volta al-Adii si affrettò a tornare nella sua capitale in tempo per esservi assediato dai suoi nipoti. Ma si trovò presto in condizioni di suscitare una disputa fra di loro. Al-Afdal fu attratto con la promessa delle città settentrionali di Samosata e di Mayyafaraqin in cambio di Salkhad, mentre i vassalli di az-Zahir cominciarono ad abbandonarlo uno dopo l’altro ed egli fu contento di fare la pace con al-Adil, di cui riconobbe la effettiva sovranità. Alla fine del 1201, al-Adil si trovò padrone di tutto l’Impero di Saladino e prese il titolo di sultano. Al-Mansur d’Egitto ebbe soltanto la città di Edessa, mentre ad al-Afdal non fu mai concesso di controllare Mayyafaraqin che venne data, insieme con i territori circostanti, al quarto figlio di al-Adil, al-Muzaffar. Il maggiore, al-Kamil, governò l’Egitto sotto suo padre; il secondo, al-Muazzam, ne fu il rappresentante in Damasco ed il terzo, al-Ashraf, governò la maggior parte dello Jezireh da Harran. I figli minori ricevettero dei feudi quando giungevano all’età della ragione; ma tutti loro si trovavano sotto la stretta sorveglianza del padre. L’unità dell’Islam si trovò così ristabilita sotto un principe meno rispettato di Saladino, ma più astuto ed attivo4. Le liti familiari degli Ayubiti impedirono ai musulmani di prendere l’offensiva contro il rinascente regno franco. Enrico di Champagne era riuscito lentamente a riportarvi un po’ d’ordine. Non era un’impresa facile, né la posizione di Enrico era del tutto sicura. Per qualche ragione che oggi non si riesce a spiegare, non fu mai incoronato re: può darsi che egli volesse aspettare sperando di riconquistare un giorno Gerusalemme, o può darsi che trovasse l’opinione pubblica poco favorevole a riconoscergli il titolo regale, o che non potesse contare sulla collaborazione dell’autorità ecclesiastica5. Questa omissione limitava la sua autorità, specialmente sulla Chiesa. Alla morte del patriarca Eraclio erano sorte alcune difficoltà per trovargli un successore. Finalmente era stato designato un oscuro ecclesiastico di nome Radulfo. Quando questi morì nel 1194, i canonici del Santo Sepolcro residenti ormai ad Acri, si riunirono ed elessero come patriarca Aimaro, soprannominato il Monaco, arcivescovo di Cesarea e chiesero a Roma di confermare l’elezione. Enrico, contrario a tale scelta, si lamentò di non essere stato consultato e fece arrestare i canonici. La sua azione fu criticata severamente persino dai suoi amici, perché egli non era re incoronato e perciò non aveva nessun diritto di intervenire. Il suo cancelliere, Giosia, arcivescovo di Tiro, lo persuase a ritirarsi da questa difficile posizione e a placare la Chiesa rilasciando i canonici con molte scuse e offrendo al nipote del nuovo patriarca un ricco feudo nei dintorni di Acri; allo stesso tempo ricevette un aspro rimprovero dal papa6. Benché la pace fosse ristabilita può darsi che il patriarca non desiderasse fare un favore ad Enrico con l’incoronarlo in quel momento. Con i suoi vassalli laici

Enrico fu più fortunato: godeva infatti l’appoggio del loro capo, Baliano di Ibelin, e degli ordini militari. Ma Guido di Lusignano guardava ancora con nostalgia da Cipro al suo antico regno, ed era incoraggiato dai pisani, ai quali aveva promesso ricche concessioni, adirati per il favore mostrato da Enrico ai genovesi. Nel maggio del 1193 questi scoprì che la colonia pisana di Tiro stava complottando per impadronirsi della città e consegnarla a Guido; fece arrestare subito i capi della congiura e ordinò che la colonia fosse ridotta a trenta persone. I pisani si vendicarono saccheggiando i villaggi costieri fra Tiro ed Acri, perciò Enrico li espulse dalla stessa Acri. Il conestabile del regno era ancora il fratello di Guido, Amalrico di Lusignano, che era stato responsabile dell’arrivo di Guido in Palestina molti anni prima, ma che era riuscito a stabilire buoni rapporti con la nobiltà locale. Era sposato con Eschiva di Ibelin, nipote di Baliano e figlia del più ostinato avversario di Guido, Baldovino di Ramleh; nel passato egli non era stato un marito fedele, ma ora si era riconciliato con lei. Intervenne in difesa dei pisani con l’unico risultato di farsi anch’egli arrestare per la sua ingerenza. I gran maestri degli ospitalieri e dei templari persuasero ben presto Enrico a rilasciarlo; ma Amalrico pensò che era prudente ritirarsi a Giaffa, dove suo fratello Goffredo era stato nominato governatore da re Riccardo. Non abbandonò il suo incarico di conestabile, ma Enrico considerò che era venuto meno ai doveri della carica e nel 1194 nominò come suo successore Giovanni di Ibelin, figlio di Baliano e fratellastro di Isabella. Circa nello stesso tempo fu fatta la pace con i pisani a cui venne restituito il loro quartiere in Acri mentre essi da allora in poi riconobbero l’autorità di Enrico7. La riconciliazione generale fu resa possibile dalla morte di re Guido, avvenuta in Cipro nel maggio del 1194. La sua scomparsa rendeva sicura la posizione di Enrico, privando i pisani e gli altri dissidenti di un candidato da opporgli. Guido aveva lasciato per testamento il suo potere in Cipro a suo fratello maggiore Goffredo, ma questi era tornato in Francia ed i franchi di Cipro, senza esitazione, chiamarono da Giaffa Amalrico, affinché ne prendesse il posto. Enrico dapprima chiese che, come rappresentante dei re di Gerusalemme, lo si consultasse riguardo alla successione, ma non poté imporre le sue pretese; e presto egli ed Amalrico capirono che dovevano collaborare. Il conestabile di Cipro, Baldovino, che era stato signore di Beisan, andò ad Acri e persuase Enrico a riconoscere Amalrico, proponendogli anche di rendergli visita a Cipro. Il loro incontro fu molto amichevole ed essi progettarono una stretta alleanza, rafforzandola con il fidanzamento dei tre giovani figli di Amalrico, Guido, Giovanni ed Ugo, con le tre figlie di Isabella, Maria del Monferrato, Alice e Filippina di Champagne. Speravano così di unificare i loro possedimenti nella generazione seguente, ma due dei piccoli principi ciprioti morirono troppo giovani. L’unico matrimonio che poté aver luogo fu quello tra Ugo e Alice che a tempo debito diede il suo frutto dinastico. Accordi di questo genere erano urgentemente necessari perché, se il possesso di Cipro da parte dei franchi doveva essere di qualche utilità ai loro connazionali di Palestina ed offrir loro una base sicura, bisognava che i due paesi collaborassero. Per gli immigranti dall’Occidente lo stabilirsi nell’incantevole isola piuttosto che nel piccolo resto del regno di Palestina, dove non v’erano più feudi disponibili, era una continua tentazione; ma la stessa nobiltà palestinese rimasta senza possessi era tentata di attraversare lo stretto braccio di mare. Se i signori ciprioti fossero stati disposti a compiere la traversata e a combattere sul continente per la croce all’avvicinarsi di qualsiasi pericolo, Cipro sarebbe diventata un elemento di forza per l’Oriente franco; se invece fossero sorte delle incomprensioni, l’isola poteva altrettanto facilmente diventare un pericoloso elemento di disgregazione8. Sebbene animato da sentimenti amichevoli, Amalrico non aveva intenzione di farsi subordinato di Enrico. Aveva già cercato di ottenere il titolo di re per definire chiaramente, sia verso i propri

sudditi e coloni, sia verso le potenze straniere, il carattere della propria autorità. Ma sentiva la necessità di qualche sanzione più alta. Probabilmente le vicende conosciute dai re di Gerusalemme lo resero poco incline all’idea di rivolgersi al papa per ottenere la corona. L’imperatore di Oriente non glie l’avrebbe certamente concessa e perciò, con una decisione poco saggia per le sue future conseguenze, si rivolse all’imperatore d’Occidente, Enrico VI. Questi stava progettando una crociata e l’avere in Oriente un re suo vassallo gli conveniva moltissimo. Nell’ottobre del 1195 a Gelnhausen presso Francoforte l’ambasciatore di Amalrico, Rainieri di Jebail, a nome del suo signore, rese omaggio per il regno di Cipro all’imperatore. Amalrico ricevette dal suo sovrano uno scettro reale; e l’incoronazione ebbe luogo nel settembre del 1197, quando il cancelliere imperiale, Corrado vescovo di Hildesheim, andò a Nicosia per partecipare alla cerimonia, e ricevette l’omaggio di Amalrico9. Il governo del paese fu organizzato secondo gli ordinamenti strettamente feudali che erano stati elaborati nel regno di Gerusalemme, con un’alta corte equivalente a quella della Città Santa; anche le leggi di Gerusalemme con gli emendamenti apportativi dai suoi re, furono messe in vigore nell’isola. Per l’organizzazione della sua chiesa Amalrico ricorse al papa, che designò l’arcidiacono di Lattakieh ed Alano, arcidiacono di Lydda e cancelliere di Cipro, incaricandoli di stabilirvi le sedi episcopali che ritenevano opportune. Essi crearono un arcivescovato di Nicosia, di cui Alano divenne il reggitore, e vescovati a Pafo, Famagosta e Limassol. I vescovi greci non furono immediatamente espulsi, ma persero le loro decime e gran parte delle loro terre a vantaggio dei nuovi titolari latini10. Sebbene Enrico di Champagne non potesse ottenere il controllo su Cipro, i baroni del suo regno gli erano ormai fedeli. I suoi avversari, infatti, si erano ritirati felicemente nell’isola lasciando le terre della Palestina ai suoi amici. Gli ex signori di Haifa, Cesarea ed Arsuf furono ristabiliti nelle rispettive baronie; e Saladino, prima di morire, aveva regalato a Baliano di Ibelin il cospicuo feudo di Caymon, o Tel-Kaimun, sulle falde del Carmelo 11. L’amicizia degli Ibelin, patrigno e fratellastro della moglie di Enrico, era di gran valore per fare accettare da tutti l’autorità di lui. Ma un problema più grave era costituito dal principato di Antiochia. Boemondo III d’Antiochia, che governava anche Tripoli in nome del proprio figliolo minorenne, aveva tenuto un atteggiamento piuttosto equivoco durante le guerre di conquista di Saladino e la terza crociata. Non aveva fatto nessun serio sforzo per impedire al sultano di impadronirsi nel 1188 della valle dell’Oronte, né per riconquistare Lattakieh e Jabala che erano state consegnate ai saraceni dal suo funzionario musulmano, il cadì Mansur ibn Nabil. Era stato lieto di accettare da Saladino la tregua che gli aveva permesso di conservare Antiochia ed il porto di San Simeone. Tripoli era stata salvata per suo figlio soltanto dall’intervento della flotta siciliana. Quando Federico di Svevia e i resti dell’esercito del Barbarossa erano arrivati ad Antiochia, Boemondo aveva vagamente proposto che essi combattessero per lui contro i musulmani nel nord, ma quando quelli si affrettarono a proseguire verso sud, non prese nessuna parte attiva alla crociata, salvo una visita di cortesia a re Riccardo mentre era a Cipro. Nel frattempo aveva cambiato la propria posizione riguardo alla politica dei partiti palestinesi. Quando suo cugino Raimondo di Tripoli morì ed egli se ne fu assicurata l’eredità per il proprio figlio, si affrettò a parteggiare per Guido di Lusignano e i suoi amici, probabilmente per timore che Corrado del Monferrato nutrisse mire su Tripoli. Non desiderava un re forte ed aggressivo sulla frontiera meridionale poiché era interamente occupato in una disputa con il suo vicino settentrionale, il principe rupeniano di Armenia, Leone II, fratello ed erede di Rupen III. Giunto al potere nel 1186 Leone aveva cercato di allearsi con Boemondo riconoscendone la

sovranità; nel ’87 i due principi si unirono per respingere un’invasione turcomanna e poco dopo Leone sposò una nipote della principessa Sibilla. Circa in quello stesso tempo prestò una grossa somma di denaro a Boemondo, ma a questo punto ebbe fine la loro amicizia. Boemondo non mostrò nessuna fretta di restituire il prestito, e quando Saladino invase il territorio di Antiochia, Leone rimase rigorosamente neutrale. Nel 1191 Saladino smantellò la grande fortezza di Baghras che aveva conquistato ai templari. I suoi uomini erano appena partiti quando Leone giunse e rioccupò di nuovo e ricostruì la fortezza. Boemondo chiese che fosse restituita ai templari e al rifiuto di Leone, se ne lamentò con Saladino. Questi era troppo occupato altrove per intervenire e Leone rimase in possesso di Baghras. Ma era furibondo perché Saladino era stato chiamato in causa da Boemondo, ed il suo risentimento fu rafforzato dalla moglie di questi, Sibilla, che sperava di usufruire del suo aiuto per assicurare l’eredità di Antiochia al proprio figlio Guglielmo a danno dei figliastri. Nell’ottobre del ’93 Leone invitò Boemondo a Baghras per discutere tutta la questione. Egli giunse, accompagnato da Sibilla e dal figlio di lei, ed accettò l’offerta di ospitalità fra le mura del castello. Non appena entrato, il suo ospite lo fece prigioniero con tutto il seguito, dicendogli che non sarebbe stato liberato se non avesse rinunziato alla sovranità su Antiochia a favore di Leone. Boemondo accettò molto a malincuore queste condizioni, persuaso, forse, da Sibilla che sperava che Leone, come sovrano di Antiochia, ne lasciasse la successione al di lei figlio. Il maresciallo di Boemondo, Bartolomeo Tirel, ed il nipote d’acquisto di Leone, Hethum di Sassoun, furono inviati ad Antiochia con truppe armene per preparare la città al governo del nuovo sovrano. Quando la delegazione arrivò ad Antiochia i nobili, parecchi dei quali avevano sangue armeno e non amavano molto Boemondo, furono pronti ad accettare Leone come sovrano e permisero a Bartolomeo di far entrare i soldati armeni in città e di acquartierarli nel palazzo; ma i borghesi, sia greci sia latini, furono molto spaventati credendo che Leone intendesse governare direttamente la città e che essi sarebbero stati dominati dagli armeni. Quando un soldato armeno parlò irrispettosamente di sant’Ilario, il martire francese a cui era dedicata la cappella del palazzo, un cantiniere presente cominciò a scagliargli addosso delle pietre. Scoppiò subito un tumulto nel palazzo che si estese rapidamente a tutta la città. Gli armeni furono cacciati e si ritirarono prudentemente a Baghras, con Hethum di Sassoun. I cittadini, con a capo il patriarca, si riunirono allora nella cattedrale di San Pietro e procedettero alla costituzione di un comune per l’amministrazione della città. Al fine di legalizzare la propria posizione, i membri eletti si affrettarono a giurare fedeltà al figlio maggiore di Boemondo, Raimondo, finché suo padre potesse tornare. Questi accettò il loro omaggio ed accettò le loro richieste. Nel frattempo venivano inviati messaggeri a suo fratello Boemondo di Tripoli e ad Enrico di Champagne per chiedere loro di venire a proteggere Antiochia dagli armeni. L’episodio mostrò che mentre i nobili di Antiochia erano pronti ad andare persino più in là dei loro cugini di Gerusalemme nell’identificarsi con i cristiani d’Oriente, l’opposizione contro tale assimilazione veniva dalla comunità mercantile. Ma le circostanze erano diverse da quelle che prevalevano nel regno pochi anni prima. Sia i franchi, sia i greci d’Antiochia consideravano gli armeni come montanari barbari. La Chiesa latina, nella persona del patriarca, mostrava la sua simpatia per il comune, ma è poco probabile che abbia avuto una parte determinante nel farlo nascere. Il patriarca, Radulfo II, era un uomo debole ed anziano, succeduto soltanto da poco al temibile Aimery di Limoges. È più verosimile che i principali ispiratori fossero i mercanti italiani che temevano danni per il loro commercio da una dominazione armena. L’idea di un comune poteva venire a quel tempo più facilmente ad un italiano che a un francese. Ma chiunque fosse stato il promotore del comune, ben presto i greci di Antiochia vi ebbero una parte di primo piano12.

Boemondo di Tripoli si affrettò verso Antiochia in risposta all’appello di suo fratello e Leone si rese conto di aver perso l’occasione favorevole. Si ritirò con i suoi prigionieri nella sua capitale, Sis. Enrico di Champagne decise di intervenire al principio della primavera successiva. Era una fortuna che, dopo la morte di Saladino, i saraceni non fossero in grado di mostrarsi aggressivi, tuttavia non si poteva permettere che una situazione così pericolosa durasse a lungo. Al momento di incamminarsi verso il nord Enrico incontrò un’ambasceria degli assassini. Il Vecchio Uomo delle Montagne, Sinan, era morto ed il suo successore desiderava riallacciare l’amicizia esistita tra la setta ed i franchi; inviava scuse per l’assassinio di Corrado del Monferrato, un delitto che Enrico poté facilmente perdonare, ed invitò questi a visitare il suo castello a al-Kahf. Quivi, su un’aspra cresta nelle montagne Nosairi, gli fu offerto un sontuoso ricevimento. Gli fu mostrato come i settari si uccidessero volentieri su ordine del loro sceicco, finché egli chiese che la dimostrazione terminasse. Riparti carico di ricchi doni e gli assassini gli promisero in segno d’amicizia di uccidere chiunque egli designasse loro13. Da al-Kahf marciò lungo la costa in direzione di Antiochia, dove si fermò appena, prima di continuare il suo viaggio verso l’Armenia. Leone, che non desiderava una guerra aperta, lo incontrò davanti a Sis pronto a negoziare un compromesso. Si decise che Boemondo sarebbe stato rilasciato senza pagamento di riscatto, che Baghras e la campagna circostante sarebbero stati riconosciuti come territorio armeno e che nessuno dei due principi sarebbe stato sovrano dell’altro. A conferma del trattato e, in ultima analisi, nella speranza di riunire i principati, l’erede di Boemondo, Raimondo, avrebbe sposato la nipote e presunta erede di Leone, Alice, figlia di Rupen III. È vero che Alice era già sposata con Hethum di Sassoun, ma l’ostacolo fu presto superato: Hethum trovò una morte repentina e tempestiva. La sistemazione prometteva pace nel nord; ed Enrico, quale suo artefice, si mostrava un degno successore dei primi re di Gerusalemme. Quando ritornò a sud il suo prestigio si era grandemente accresciuto14. Le ambizioni di Leone non erano rimaste soddisfatte. Cosi, saputo che Amalrico di Cipro stava cercando di ottenere la corona reale, ne seguì l’esempio. In quel tempo l’opinione dei giuristi stimava che una corona potesse essere concessa soltanto da un imperatore o, secondo i franchi, dal papa. Bisanzio, che le conquiste dei Selgiuchidi tagliavano fuori dalla Cilicia e dalla Siria, non era più abbastanza potente perché i suoi titoli avessero valore presso i franchi, sui quali Leone voleva fare impressione. Perciò si rivolse all’imperatore d’Occidente, Enrico VI. Questi tergiversò: sperava di recarsi presto in Oriente ed allora si sarebbe occupato della questione armena. Quindi Leone tentò con il papa Celestino III. Aveva già avuto contatti con Roma al tempo di Clemente III e in quell’occasione aveva accennato all’eventuale sottomissione della sua Chiesa al papato; sapeva infatti che, quale capo di uno Stato eretico, non sarebbe mai stato accettato come sovrano dai franchi. Il suo clero, geloso della propria indipendenza e del proprio credo, si oppose violentemente a questi approcci, ma Leone perseverava con pazienza. I suoi vescovi si persuasero infine, non senza resistenze, che la sovranità papale sarebbe stata puramente nominale, mentre ai legati di papa Celestino veniva detto che i vescovi unanimi desideravano vivamente questo cambiamento. Il papa aveva ordinato tolleranza e tatto, cosicché i legati non fecero domande. Nel frattempo Enrico VI, che aveva promesso una corona ad Amalrico, fece la stessa promessa a Leone in cambio del riconoscimento dei propri diritti sovrani sull’Armenia; l’atto dell’incoronazione avrebbe avuto luogo al suo arrivo. Egli non partì mai per l’Oriente, ma nel gennaio del 1198, poco dopo la sua morte, il suo cancelliere Corrado di Hildesheim, andò a Sis con il legato papale Corrado, arcivescovo di Magonza, e presenziò a una solenne cerimonia d’incoronazione. L’imperatore d’Oriente, Alessio

Angelo, sperando di conservare qualche influenza sulla Cilicia aveva inviato qualche mese prima una corona reale a Leone che l’accettò con gratitudine. Il catholicus armeno, Gregorio Abirad, collocò la corona sul capo di Leone, mentre Corrado gli porgeva uno scettro regale. L’arcivescovo ortodosso di Tarso, il patriarca jacobita e gli ambasciatori del califfo assistettero tutti al rito, come pure molti nobili di Antiochia. Leone poteva affermare che il suo titolo era stato riconosciuto da tutti i suoi sudditi e dai suoi vicini15. Fu un gran giorno per gli armeni che videro in esso la rinascita dell’antico regno d’Armenia; esso portò a compimento l’integrazione del principato rupeniano nel mondo franco d’Oriente. Ma è improbabile che la politica di Leone rispondesse agli interessi di tutti gli armeni, poiché divideva quelli della vecchia Grande Armenia, patria della nazione, dai fratelli meridionali. E, dopo un breve periodo di gloria, gli armeni di Cilicia dovettero rendersi conto che alla fin fine l’occidentalizzazione recava loro pochi vantaggi. La presenza dell’arcivescovo Corrado in Oriente era dovuta alla decisione dell’imperatore Enrico di lanciare una nuova crociata. In seguito alla morte prematura di suo padre Federico, il contributo tedesco alla terza crociata era stato pietosamente inefficiente. Enrico aveva l’ambizione di fare del proprio Impero una realtà internazionale e il suo primo compito, appena si fosse consolidato in Europa, doveva essere quello di ristabilire il prestigio tedesco in Terra Santa. Mentre egli stesso preparava i piani di una grande spedizione che avrebbe posto tutto il Mediterraneo sotto il suo controllo, dava disposizioni per la sollecita partenza di un esercito tedesco che doveva salpare direttamente per la Siria. L’arcivescovo Corrado di Magonza e Adolfo conte di Holstein partirono da Bari con un grosso contingente di soldati provenienti soprattutto dai ducati di Renania e di Hohenstaufen. I primi reparti arrivarono ad Acri in agosto, ma i capi si fermarono a Cipro per l’incoronazione di Amalrico. Enrico duca di Brabante li aveva preceduti con un reggimento di connazionali16. Enrico di Champagne non li accolse con gioia. Aveva imparato per esperienza quanto fosse stolto provocare una guerra non necessaria. I suoi consiglieri principali erano gli Ibelin, il patrigno ed i fratellastri di sua moglie, e i signori di Tiberiade, figliastri di Raimondo di Tripoli. Essi, fedeli alle tradizioni della loro famiglia, consigliarono intese con i musulmani ed un sottile lavorio diplomatico che indebolisse i figli ed i fratelli di Saladino spingendoli gli uni contro gli altri. Questa politica aveva avuto successo e la pace, che era di vitale importanza per la ripresa del regno cristiano, era stata conservata nonostante le provocazioni dell’ emiro-pirata di Beirut, Usama, che né al-Adil a Damasco, né al-Aziz al Cairo potevano controllare17. Beirut e Sidone si trovavano ancora in mani musulmane e separavano il regno dalla contea di Tripoli. Al principio del 1197 questo iato fu in parte colmato con il ricupero di Jebail. La sua feudataria, la vedova Stefania di Milly, era nipote di Rinaldo di Sidone e ne aveva ereditato la capacità di trattare con i musulmani. Un intrigo con l’emiro curdo le permise di rioccupare la città senza colpo ferire e di consegnarla a suo figlio18. I tedeschi erano arrivati decisi a combattere. Senza fermarsi a consultare il governo di Acri, i primi arrivati marciarono direttamente nel territorio musulmano di Galilea. L’invasione sollevò i saraceni. Al-Adil, a cui apparteneva la regione, intimò ai parenti di dimenticare le proprie dispute e di unirsi a lui. I tedeschi avevano appena attraversato la frontiera quando giunse la notizia che alAdil stava avvicinandosi. Vaghe dicerie esageravano l’importanza del suo esercito e, senza aspettare di incontrarlo, i tedeschi colti dal panico fuggirono verso Acri, mentre i cavalieri nella fretta abbandonavano i fanti. Sembrava verosimile che al-Adil avrebbe continuato la marcia su Acri senza incontrare resistenza; ma Enrico, per consiglio di Ugo di Tiberiade, si precipitò con i suoi cavalieri e

con tutti i soldati italiani che poté racimolare a rinforzare la fanteria tedesca che, più coraggiosa dei propri comandanti, era pronta a resistere. Al-Adil non voleva correre il rischio di una battaglia campale, ma non desiderava che il suo esercito si fosse mosso per nulla. Deviò quindi verso sud e marciò su Giaffa. Questa era ben fortificata, ma aveva una piccola guarnigione ed Enrico non poteva permettersi di aumentarla. Amalrico di Lusignano aveva governato la città prima di andare a Cipro; Enrico gli offrì ora di restituirgliela se l’avesse difesa: era meglio che appartenesse ai ciprioti piuttosto che ai musulmani o agli irresponsabili tedeschi. Appena ricevuta l’offerta Amalrico inviò uno dei suoi baroni, Rinaldo Barlais, a prendere il comando di Giaffa e a prepararsi per l’imminente assedio. Ma Rinaldo non era certo l’uomo adatto. Presto giunse ad Acri notizia che stava trascorrendo le sue giornate in frivoli passatempi e non mostrava nessuna intenzione di organizzare una resistenza contro al-Adil. Perciò Enrico riunì tutte le truppe che poteva togliere da Acri e chiese alla locale colonia pisana di fornirgli rinforzi19. Il 10 settembre 1197 le sue truppe si raccolsero nel cortile del palazzo ed Enrico le passò in rivista da una loggia di una galleria elevata. In quel momento entrarono nella stanza alcuni inviati della colonia pisana. Enrico si voltò per salutarli, poi, dimenticando dove si trovava, fece un passo indietro, precipitando attraverso la loggia aperta. Il suo nano, Scarlet, era in piedi accanto a lui e lo afferrò per i vestiti, ma Enrico era un uomo pesante e Scarlet molto leggero: si sfracellarono insieme sul selciato sottostante uccidendosi20. L’improvvisa scomparsa di Enrico di Champagne gettò nella costernazione l’intero regno. Era stato molto popolare e sebbene non avesse doti eccezionali, aveva dimostrato con il suo tatto, con la sua perseveranza e con la capacità di affidarsi a buoni consiglieri, di essere uno statista capace, pronto a far tesoro dell’esperienza. Aveva avuto una parte importante nell’assicurare la continuità del regno. Ma i baroni non potevano permettersi di perdere tempo a piangere. Bisognava trovare presto un nuovo capo per affrontare i problemi della guerra saracena, della crociata tedesca, oltre a tutti gli affari correnti del governo. La vedova di Enrico, la principessa Isabella, troppo fuor di sé per il lutto, non poteva occuparsi del governo e tuttavia, in quanto erede della linea reale, era il personaggio-chiave della situazione. Dei figli di Enrico sopravvivevano soltanto due bimbette, Alice e Filippina. La figlia che Isabella aveva avuto da Corrado, Maria del Monferrato, conosciuta dal titolo di suo padre come «la Marquise» aveva soltanto cinque anni. Era chiaro che Isabella doveva risposarsi. Ma i baroni, pur riconoscendo a lei la qualità di erede, consideravano affare loro la scelta del suo futuro marito. Disgraziatamente non riuscirono a mettersi d’accordo su un candidato adatto. Ugo di Tiberiade con i suoi amici proponeva il proprio fratello Rodolfo, la sua famiglia, la casa di Falconberg di Saint-Omer, era una delle più aristocratiche del regno ma era povera; aveva perduto le sue terre in Galilea ad opera dei musulmani e Rodolfo era un figlio cadetto. Secondo un’opinione condivisa da molti non aveva ricchezza e prestigio sufficienti. Specialmente gli ordini militari erano contrari alla sua candidatura. Mentre continuavano le discussioni giunse la notizia che Giaffa era caduta senza resistenza. Il duca di Brabante, partito per recarle soccorso, tornò ad Acri ed assunse il governo. Pochi giorni dopo, il 20 settembre, giunsero da Cipro Corrado di Magonza ed i comandanti tedeschi. Corrado, quale prelato dell’Impero d’Occidente, confidente dell’imperatore e per giunta amico del nuovo papa Innocenzo III, era un uomo di immensa autorità. Quando propose che il trono fosse offerto a re Amalrico di Cipro non vi fu opposizione, se non da parte del patriarca, Aimaro il Monaco, che però non era sostenuto dal suo clero. Sembrò una scelta eccellente. La prima moglie di Amalrico, Eschiva di Ibelin, era morta da poco ed egli era libero di sposare Isabella. Sebbene molti baroni siriani non potessero dimenticare interamente che era un Lusignano, egli aveva abbandonato

ostentatamente ogni politica partigiana e si era mostrato molto più abile di suo fratello minore, Guido. La sua designazione piacque al papa, a cui sembrava saggio unificare l’Oriente latino sotto un unico capo. Ma le ragioni dell’atteggiamento del cancelliere Corrado erano più sottili. Amalrico doveva la corona di Cipro all’imperatore Enrico di cui era diventato vassallo. Come re di Gerusalemme non avrebbe perciò portato anche il suo nuovo regno sotto la sovranità imperiale? Amalrico stesso esitò un poco e non andò ad Acri fino al gennaio del ’98. Il giorno dopo il suo arrivo sposò la principessa Isabella; e pochi giorni dopo il patriarca li incoronò re e regina di Gerusalemme21. L’unione delle due corone non doveva essere così completa come il papa ed i partigiani dell’imperatore avevano sperato. Amalrico disse chiaramente fin dal principio che i due regni sarebbero stati amministrati separatamente e che il denaro cipriota non sarebbe stato affatto speso per la difesa della terraferma. Egli stesso era soltanto un legame personale tra i due Stati. Cipro, infatti, era un regno ereditario di cui la successione era destinata a suo figlio Ugo. Nel regno di Gerusalemme, invece, il diritto ereditario era ammesso dall’opinione pubblica, ma l’alta corte si riservava la prerogativa di eleggere i re. Qui Amalrico doveva la propria posizione a sua moglie; se fosse morto, essa poteva risposarsi e il nuovo marito sarebbe stato accettato come re. E l’erede di lei era sua figlia Maria del Monferrato. Persino nel caso in cui ella avesse partorito ad Amalrico un figlio maschio, era difficile che il nato da un quarto matrimonio potesse pretendere di avere precedenza su di un figlio nato dal secondo. Ma in realtà essi non ebbero che due bambine: Sibilla e Melisenda22. Pur considerandosi poco più che reggente, Amalrico governò attivamente e con abilità. Persuase l’alta corte ad unirsi a lui in una revisione della costituzione, allo scopo di definire chiaramente i diritti regali. In particolare si fece un punto d’onore di consultare Rodolfo di Tiberiade, il suo rivale per il trono, che, si dice, egli stimava ma non amava. Rodolfo era rinomato per le sue conoscenze giuridiche ed è naturale che gli si chiedesse di preparare il Livre au Roi, come fu chiamata la nuova edizione delle leggi. Ma Amalrico temeva che il sapere di Rodolfo potesse venire usato contro di lui. Nel marzo del 1198 mentre la corte stava cavalcando tra i frutteti nei dintorni di Tiro, quattro cavalieri tedeschi galopparono verso il re precipitandosi addosso a lui. Egli fu rialzato praticamente illeso. I suoi assalitori rifiutarono di dire in nome di chi avevano agito, ma Amalrico proclamò Rodolfo colpevole e lo mise al bando. Come era suo diritto, questi chiese un processo davanti ai suoi pari; e Giovanni di Ibelin, fratellastro della regina, persuase il re a sottoporre il caso all’alta corte la quale trovò che egli aveva commesso un’ingiustizia nel bandire Rodolfo senza processo. La questione fu risolta soltanto quando, probabilmente grazie all’intervento pieno di tatto di Giovanni di Ibelin, Rodolfo stesso annunziò che, avendo perso il favore del re, se ne sarebbe andato in volontario esilio, ritirandosi a Tripoli. L’episodio aveva mostrato ai baroni che non ci si poteva opporre impunemente al re, ma a questi aveva insegnato la necessità di conformarsi alla costituzione23. La sua politica estera fu vigorosa e flessibile. Nell’ottobre del 1197, prima di accettare il trono, egli aveva aiutato Enrico di Brabante a trarre partito dalla concentrazione di forze musulmane a Giaffa per riconquistare Sidone e Beirut con un’improvvisa spedizione, composta da tedeschi e brabantini e guidata da Enrico stesso. Sidone era già stata demolita dai musulmani che la consideravano indifendibile. Quando i cristiani vi arrivarono trovarono la città ridotta a un mucchio di rovine. L’emiro pirata Usama di Beirut, vedendo che al-Adil non gli inviava nessun soccorso, decise di distruggere la propria città. Ma cominciò troppo tardi: quando Enrico e le sue truppe vi giunsero, trovarono le mura smantellate cosicché poterono entrare facilmente, ma la maggior parte

della città era intatta e fu presto restaurata. Beirut fu data in feudo al fratellastro della regina, Giovanni di Ibelin. Poiché Jebail era già tornata nelle mani dei suoi signori cristiani, il regno ancora una volta si trovava ad avere la frontiera in comune con la contea di Tripoli. Ma la costa intorno a Sidone non era ancora del tutto libera dai nemici che conservavano il possesso di metà dei sobborghi24. Incoraggiati dal successo ottenuto a Beirut i crociati tedeschi, guidati dall’arcivescovo, fecero in seguito il progetto di marciare su Gerusalemme. I baroni siriani, che avevano sperato di rifare la pace con al-Adil cedendo Giaffa in cambio di Beirut, cercarono vanamente di dissuaderli. Nel novembre del 1197 i tedeschi entrarono in Galilea e cinsero d’assedio la grande fortezza di Toron. Il loro primo assalto fu così vigoroso che ben presto la guarnigione musulmana offrì di abbandonare il castello, con i cinquecento prigionieri cristiani che languivano nelle sue torri, a patto che si garantisse ai difensori la salvezza della vita e dei beni personali. Ma l’arcivescovo Corrado insistette per una resa senza condizioni; ed i baroni franchi, che desideravano mostrarsi amici verso al-Adil e temevano che un massacro potesse provocare un jihad (guerra santa) musulmano, fecero avvertire il sultano che i tedeschi non erano soliti risparmiare la vita ai nemici. La difesa continuò con rinnovato vigore; ed al-Adil persuase il nipote al-Aziz ad inviare un esercito dall’Egitto per lottare contro gli invasori. I tedeschi cominciavano a stancarsi ed allentarono i loro sforzi. Nel frattempo era giunta ad Acri la notizia che l’imperatore Enrico era morto in settembre. Molti dei capi erano perciò ansiosi di tornare in patria e quando poco dopo arrivarono informazioni su una guerra civile in corso in Germania, Corrado ed i suoi colleghi decisero di abbandonare l’assedio. Il 2 febbraio 1198 l’esercito egiziano si avvicinava dal sud; le truppe tedesche erano pronte a dar battaglia quando improvvisamente si sparse la voce che il cancelliere ed i grandi signori erano fuggiti. L’intero esercito fu preso dal panico e non si fermò neppure un momento nella sua fuga finché non si fu posto in salvo a Tiro; pochi giorni dopo cominciò ad imbarcarsi per il suo viaggio di ritorno in Europa. La crociata era stata un fiasco e non aveva contribuito affatto a rialzare il prestigio tedesco. Tuttavia aveva aiutato i franchi a ricuperare Beirut; e lasciava dietro di sé un’istituzione permanente ossia l’Ordine dei cavalieri teutonici25. Gli ordini militari più antichi, sebbene ufficialmente fossero internazionali, avevano reclutato pochi membri germanici. Al tempo della terza crociata alcuni mercanti di Brema e di Lubecca organizzarono ad Acri un ospizio per i tedeschi, secondo il modello dell’ospedale di san Giovanni. Era dedicato alla Vergine e prendeva cura del pellegrini provenienti dalla Germania. L’arrivo delle spedizioni tedesche nel 1197 ne aumentò inevitabilmente l’importanza. Quando un gruppo di cavalieri crociati decise di non ritornare subito in Germania, l’organizzazione seguì l’esempio dell’ospedale di san Giovanni un secolo prima: incorporò questi cavalieri e nel 1198 venne riconosciuta dal re e dal papa come ordine militare. Probabilmente il cancelliere Corrado si rendeva conto che un ordine puramente tedesco poteva essere utile per ulteriori progetti espansionistici ed egli stesso fu largamente responsabile di averne favorito l’avvio. Fu presto dotato di ricche proprietà in Germania e cominciò ad acquistare castelli in Siria. Il suo primo possesso fu la torre sulla porta di San Nicola ad Acri, concessa da Amalrico a condizione che i cavalieri la restituissero a richiesta del re. Poco dopo comprarono il castello di Montfort, che ribattezzarono Starkenberg, sulle colline che dominano la Scala di Tiro. Anche quest’ordine, come quelli del Tempio e dell’Ospedale, forni soldati per la difesa dell’Oriente franco, ma non facilitò il compito di governare il regno26. Appena i crociati tedeschi furono partiti, Amalrico intavolò trattative con al-Adii. Al-Aziz era tornato rapidamente in Egitto; e al-Adii, ansioso di assicurarsi l’intera eredità ayubita, non

desiderava avere dispute con i franchi. Il 10 luglio 1198 fu firmato un trattato che lasciava in suo possesso Giaffa e ai franchi Jebail e Beirut, e spartiva Sidone tra di loro. Sarebbe durato cinque anni e otto mesi. Il compromesso si dimostrò utile a al-Adil perché, alla morte di al-Aziz in novembre, lo lasciò libero di intervenire in Egitto e di annettersi le terre del defunto sultano. Il suo accresciuto potere rese Amalrico sempre più deciso a rimanere in pace con lui, tanto più che erano di nuovo sorte complicazioni ad Antiochia27. Boemondo III aveva partecipato all’assedio di Beirut e aveva deciso di attaccare Jabala e Lattakieh nel suo viaggio di ritorno. Ma dovette affrettarsi a tornare a casa. La felice sistemazione secondo cui la Cilicia ed Antiochia dovevano essere unite nelle persone di suo figlio Raimondo e della di lui sposa armena fu annullata dall’improvvisa morte di Raimondo avvenuta al principio del 1197. Egli lasciava un bimbetto, Raimondo-Rupen, cui spettava Antiochia per diritto ereditario. Ma Boemondo III aveva quasi sessant’anni e difficilmente sarebbe vissuto fino a che suo nipote avesse raggiunto la maggiore età; c’era dunque il manifesto pericolo di un sovrano minorenne e di una reggenza dominata dai parenti armeni del ragazzo. Boemondo rimandò in Armenia la vedova Alice con il suo bambino, forse perché progettava che uno dei figli di Sibilla prendesse la successione, o forse perché pensava che là sarebbero stati più al sicuro. Ciò avveniva circa al tempo dell’incoronazione di Leone, e Corrado di Magonza, ansioso di assicurare il trono di Antiochia a uno dei vassalli del proprio padrone completando così il suo lavoro ad Acri, si recò in gran fretta da Sis ad Antiochia, dove obbligò Boemondo a riunire i suoi baroni e a farli giurare che avrebbero sostenuto la successione di Raimondo-Rupen28. Corrado avrebbe fatto meglio ad andare a Tripoli. Boemondo, conte di Tripoli, secondogenito di Boemondo III, era un giovane molto ambizioso e di pochi scrupoli, molto dotto in giurisprudenza ed abile nel trovare argomenti per giustificare le azioni più spregiudicate. Non era amico della Chiesa. Aveva già appoggiato i pisani, senza dubbio per denaro, in una loro disputa con il vescovo di Tripoli a proposito di certe terre; e quando il vescovo Pietro di Angoulême fu nominato patriarca di Antiochia e con una fretta poco canonica designò un successore per la sede di Tripoli, il papa ne accettò la giustificazione fondata sul fatto che, con un sovrano come Boemondo, la Chiesa non poteva permettersi il rischio di un indugio. Costui era deciso ad assicurarsi la successione ad Antiochia e rifiutò subito di riconoscere la validità del giuramento prestato a favore di Raimondo-Rupen. Aveva però bisogno di alleati. I templari, furibondi perché Leone continuava a tenersi Baghras, si unirono a lui con gioia. Gli ospitalieri, sebbene non fossero mai molto desiderosi di collaborare con i templari, si lasciarono attirare da appropriati donativi. I pisani e i genovesi furono acquistati alla sua causa mediante concessioni commerciali. Cosa ancora più importante, lo stesso comune di Antiochia aveva paura degli armeni ed era ostile ad ogni azione intrapresa dai baroni. Alla fine del 1198 Boemondo di Tripoli apparve improvvisamente ad Antiochia, estromise suo padre e indusse il comune a rendergli un giuramento di fedeltà. Ma Leone aveva un formidabile alleato in papa Innocenzo III. Per quanto grandi fossero i dubbi che il papato poteva aver avuto riguardo alla sincerità della sottomissione della Chiesa armena a Roma, Innocenzo non desiderava inimicarsi i suoi nuovi vassalli. Messaggi cordialmente rispettosi e richieste piovevano su Roma da parte di Leone e del suo catholicus e non potevano essere ignorate. Probabilmente a causa dell’opposizione della Chiesa, il giovane Boemondo permise a suo padre di tornare ad Antiochia ed egli stesso fece ritorno a Tripoli; ma in qualche modo riuscì a riconciliarsi con il vecchio principe che mutò atteggiamento, mettendosi dalla sua parte. Nel frattempo i templari esercitarono tutto il loro influsso su Roma. Ma Leone ignorò i velati suggerimenti che gli venivano

fatti da parte della Chiesa di restituire all’ordine Baghras; la fortezza infatti era per lui della massima importanza strategica per poter un giorno controllare Antiochia. Egli invitò il vecchio principe Boemondo e il patriarca Pietro a discutere tutta la questione, ma la sua intransigenza spinse persino il patriarca dalla parte di Boemondo di Tripoli. La Chiesa di Antiochia si uni al comune e agli ordini nell’avversare la successione armena. Quando Boemondo III morì nell’aprile del 1201, Boemondo di Tripoli non ebbe nessuna difficoltà ad insediarsi nella città. Ma molti nobili, memori del loro giuramento e temendo le sue inclinazioni autoritarie, fuggirono alla corte di Leone a Sis29. Per il successivo quarto di secolo i cristiani della Siria settentrionale furono divisi dalla guerra di successione antiochena; ma molto prima che si giungesse ad una conclusione, tutta la situazione dell’Oriente era cambiata. Per fortuna né i principi selgiuchidi dell’Anatolia, né gli Ayubiti erano in condizione di iniziare una guerra di conquista. La morte del sultano selgiuchida Kilij Arslan II era stata seguita da una lunga guerra civile fra i suoi figli e passarono quasi dieci anni prima che uno dei più giovani, Rukn ad-Din Suleiman di Tokat, riuscisse a riunire nuovamente i possedimenti della famiglia. C’era stata un’incursione selgiuchida contro la Cilicia nel 1193 e di nuovo nel 1201, che aveva distratto Leone nel momento critico della morte di Boemondo III. Ma quando le guerre con i fratelli e con i decadenti principi danishmend lasciavano a Rukn ad-Din un po’ di tempo libero, egli lo impiegava per attaccare la Georgia, la cui grande regina Tamara sembrava essere per l’Islam una minaccia molto più pericolosa di qualsiasi principe latino30. Ad Aleppo il figlio di Saladino, azZahir, era troppo preoccupato dall’ambizione di suo zio al-Adil per rischiare qualsiasi impresa all’esterno. Perciò gli antiocheni si trovarono liberi di continuare le proprie dispute senza nessuna ingerenza musulmana. Da Acri re Amalrico osservava la guerra civile nel nord con crescente impazienza. Le sue simpatie andavano a Leone ed al giovane Raimondo-Rupen piuttosto che all’aggressivo Boemondo, ma non cercò mai d’intervenire attivamente. La sua preoccupazione maggiore era quella di impedire lo scoppio di una guerra con al-Adil. Correvano voci che un’immensa crociata si stesse preparando in Europa e, finché non fosse giunta, la pace doveva essere mantenuta. Da parte sua al-Adil non poteva contare su una leale collaborazione dei propri nipoti e cugini a meno che un serio attacco cristiano non provocasse una guerra santa. Non era sempre facile mantenere la pace. Alla fine del 1202 una squadra fiamminga entrò ad Acri, dopo aver doppiato Gibilterra agli ordini del castellano di Bruges, Giovanni di Nesle. Pochi giorni dopo arrivò con navi di Marsiglia un gruppetto di cavalieri, al comando del vescovo Gualtiero di Autun e del conte di Forez. Furono seguiti da un altro gruppo di cavalieri francesi provenienti da Venezia; tra di loro vi erano Stefano di Perche, Roberto di Montfort e Rinaldo II conte di Dampierre. I tre gruppi insieme sommavano appena a poche centinaia di uomini, una piccola parte del grande esercito che stava salpando dalla Dalmazia; ma poco dopo Rinaldo di Montmirail che aveva lasciato quell’esercito a Zara, portò la notizia che ci sarebbe voluto un po’ di tempo prima che l’intera spedizione giungesse in Siria, se mai l’avesse fatto. Come tutti i nuovi venuti, i cavalieri francesi erano decisi a partire subito per combattere per la croce. Essi si scandalizzavano quando re Amalrico insisteva perché aspettassero con pazienza. Rinaldo di Dampierre insultò il re in faccia trattandolo da codardo e, autonominandosi capo, persuase i cavalieri a prendere servizio sotto Boemondo di Tripoli. Partirono per raggiungerlo ad Antiochia ed attraversarono tranquillamente la contea di Tripoli. Ma Jabala e Lattakieh erano ancora in mani musulmane. L’emiro di Jabala era un uomo pacifico in eccellenti rapporti con i suoi vicini cristiani; offrì ospitalità ai viaggiatori, ma li avverti che per attraversare in sicurezza il territorio di Lattakieh dovevano ottenere un salvacondotto dal suo sovrano, az-Zahir di Aleppo. Si offrì di scrivere al sultano che avrebbe certamente concesso

il permesso perché aveva interesse ad inasprire la guerra civile ad Antiochia. Ma Rinaldo ed i suoi amici non vollero aspettare: si affrettarono oltre Lattakieh il cui emiro, pensando di compiere il proprio dovere di musulmano, li attirò in un’imboscata, ne catturò molti e massacrò gli altri31. Amalrico stesso permise occasionali scorrerie contro i musulmani. Quando un emiro si stabilì vicino a Sidone e cominciò a predare le coste cristiane senza che al-Adii vi ponesse rimedio, Amalrico per rappresaglia inviò alcune navi a intercettare e catturare un ricco convoglio egiziano che navigava verso Lattakieh e condusse un’incursione in Galilea. Al-Adil, sebbene si fosse spinto fino al Monte Tabor per incontrarlo, non volle dar battaglia. Non ebbe neppure una reazione violenta quando la flotta cristiana salpò per il Delta del Nilo risalendo il fiume fino oltre Rosetta per saccheggiare la piccola città di Fuwa. Circa allo stesso tempo, gli ospitalieri da Krak e da Marqab condussero incursioni senza nessun durevole successo contro Hama, emirato di al-Mansur, bisnipote di al-Adil32. Nel settembre del 1204 fu concluso tra Amalrico e al-Adil un trattato di pace della durata di sei anni. Sembra che l’iniziativa venisse da Amalrico, ma al-Adil da parte sua era desideroso di porre fine alla lotta. Può darsi che fosse inquieto per la superiorità dei cristiani sul mare, ma era certamente consapevole dei vantaggi che avrebbe avuto il suo impero se fosse stato ripristinato un commercio regolare con la costa siriana. Perciò era pronto non soltanto a lasciare definitivamente Beirut e Sidone ad Amalrico, ma anche a cedergli Giaffa e Ramleh ed a semplificare la procedura per i pellegrini che andavano a Gerusalemme ed a Nazaret. Per Amalrico, che non poteva ora aspettarsi nessun aiuto effettivo dall’Occidente, le condizioni erano sorprendentemente buone33. Ma non poté godere a lungo del suo accresciuto prestigio. Il 1° aprile 1205, morì ad Acri, poco più che cinquantenne, dopo una breve malattia causata da un’indigestione di pesce34. Amalrico II non fu un grande re, ma, come il suo predecessore Enrico, imparò dall’esperienza una saggezza politica che era di grande valore per il suo povero ed instabile regno; e la sua mente precisa e giuridica creò non soltanto una costituzione per Cipro, ma fece molto per conservare la monarchia sul continente. Come uomo era rispettato, ma non molto amato. In gioventù era stato irresponsabile ed attaccabrighe; un’opposizione lo irritava sempre. Ma è suo merito l’aver accettato e compiuto con senso del dovere le fatiche che la seconda corona gli imponeva, anche quando avrebbe evidentemente preferito rimanere re della sola Cipro. Alla sua morte i due regni furono divisi. Cipro toccò al figlio che aveva avuto da Eschiva di Ibelin, Ugo I, un bambino di sei anni. La sorella maggiore del ragazzo, Burgundia, aveva da poco sposato Gualtiero di Montbéliard a cui l’alta corte dell’isola affidò la reggenza35. Nel regno di Gerusalemme l’autorità passò automaticamente alla regina Isabella che non era tanto profondamente afflitta per la morte di questo suo ultimo marito da non poter assumere il governo. Ma ella stessa non sopravvisse a lungo. La data della sua morte, come la maggior parte della sua vita, è avvolta nell’oscurità. Tra le dame della casa reale di Gerusalemme è l’unica ad avere una figura scialba, una personalità di cui non è rimasto nulla. Il suo matrimonio e la sua stessa esistenza erano di grande importanza: se avesse avuto delle ambizioni politiche avrebbe potuto essere un’autorità nel paese; ma lasciò che la passassero da un marito all’altro senza alcun riguardo per i suoi desideri personali. Sappiamo che era bella, ma dobbiamo concludere che era inetta e debole36. Isabella lasciò cinque figlie: Maria del Monferrato, Alice e Filippina di Champagne, Sibilla e Melisenda di Lusignano. Maria, che aveva ormai tredici anni, successe al trono, e Giovanni di Ibelin, signore di Beirut, fu designato reggente. Non si sa se sia stato nominato dalla regina morente o eletto

dai baroni, ma era il candidato naturale. Come maggiore dei fratellastri di Isabella era il più prossimo parente maschile della bambina. Possedeva nel piccolo regno il feudo più ricco ed era il capo riconosciuto della nobiltà; univa in sé il valore e la saggezza di suo padre Baliano con l’astuzia greca ereditata da sua madre Maria Comnena. Per tre anni governò il paese quietamente e con tatto, non disturbato da guerre saracene o dall’inconveniente di una crociata. Infatti, come Amalrico aveva malinconicamente previsto nel fare il suo trattato con al-Adil, nessun cavaliere occidentale si sarebbe ormai disturbato a venire di sua spontanea volontà in Palestina. La crociata aveva trovato altrove un più ricco terreno di caccia37.

Parte seconda Crociate male indirizzate

Capitolo primo La crociata contro i cristiani

Come mai è diventata simile a una vedova, quella ch’era grande tra le nazioni; ed è stata ridotta tributaria colei ch’era principessa tra le province? … tutti i suoi amici l’hanno tradita, le son diventati nemici. Lamentazioni, I, I e 2

Nel novembre del 1199 il conte Tibaldo di Champagne invitò amici e vicini nel suo castello di Ecri sull’Aisne per un torneo. Quando le giostre furono terminate, la conversazione tra i signori si indirizzò sulla necessità di una nuova crociata. Era una questione a cui il conte teneva moltissimo perché era nipote di Riccardo Cuor di Leone e di Filippo Augusto e fratello del conte Enrico che aveva regnato in Palestina. Per suo suggerimento fu chiamato un predicatore itinerante, Folco di Neuilly, perché parlasse agli ospiti. Infiammata dalla sua eloquenza, tutta la compagnia fece voto di prendere la croce ed un messaggero fu inviato ad annunziare al papa la pia decisione1. Innocenzo III sedeva sul trono papale da poco più di un anno. Ambiva con passione ad affermare la suprema autorità della Santa Sede, ma nello stesso tempo era prudente, lungimirante e perspicace; era un avvocato desideroso di dare un fondamento legale alle proprie pretese ed un politico pronto ad adoperare qualunque strumento si trovasse a portata di mano. Egli era turbato dalla situazione in Oriente. In uno dei suoi primi atti aveva manifestato pubblicamente il desiderio di una nuova crociata, e nel ’99 scriveva al patriarca Aimaro di Gerusalemme per chiedergli un particolareggiato rapporto sul regno franco2. I re di Gerusalemme erano suoi vassalli e il suo desiderio di aiutarli era fomentato dalla politica attiva dell’imperatore Enrico VI, la cui concessione di corone a Cipro e all’Armenia era un’implicita sfida all’autorità papale in quelle regioni. L’esperienza aveva mostrato che la presenza di re e imperatori non era molto desiderabile nelle spedizioni crociate: l’unica che avesse avuto un completo successo era stata la prima, a cui non aveva partecipato nessun regnante. Una crociata di nobili, più o meno omogenea per nazionalità, avrebbe evitato le rivalità tra i re e tra i gruppi nazionali, che avevano così gravemente danneggiato la seconda e la terza crociata. Se fossero sorte gelosie, sarebbero state di poca importanza e facilmente dominate da un abile rappresentante papale. Perciò Innocenzo accolse con piacere le notizie che giungevano dalla Champagne: il movimento lanciato da Tibaldo avrebbe non soltanto recato un effettivo aiuto all’Oriente, ma avrebbe anche potuto diventare uno strumento per rafforzare l’unità della cristianità sotto Roma3. Per il papato il momento era ben scelto. Come al tempo della prima crociata, non c’era in Occidente nessun imperatore in grado di interferire. La morte di Enrico VI nel settembre del 1197 aveva liberato la Chiesa da una minaccia molto concreta. Come figlio di Federico Barba-rossa e marito dell’erede di Sicilia, la cui eredità era saldamente in suo possesso fin dal 1194, Enrico era

più potente di qualsiasi altro sovrano dai tempi di Carlomagno. Aveva un alto concetto della propria carica e riuscì quasi a stabilirla su basi ereditarie. L’aver concesso corone nell’Oriente e la richiesta di obbedienza a Riccardo d’Inghilterra prigioniero mostravano come egli si considerasse «re dei re». Non faceva mistero né del suo odio per Bisanzio, l’antico Impero le cui tradizioni superavano quelle del suo, né della sua aspirazione a proseguire la politica normanna di costruire un impero mediterraneo, che di per sé implicava la distruzione di Bisanzio. Una crociata faceva parte inevitabilmente di questa politica. Durante tutto il 1197 egli preparò accuratamente i suoi piani. La spedizione tedesca che sbarcò ad Acri in quello stesso anno doveva essere l’avanguardia di un più grande esercito che egli avrebbe comandato di persona. Papa Celestino III, uomo timoroso ed incerto, ne era infastidito, ma non fece nessun tentativo per dissuaderlo, sebbene lo consigliasse di non lanciare subito un attacco contro Bisanzio perché erano in corso trattative con quell’imperatore per una riunione della Chiesa. Se Enrico non fosse morto a Messina improvvisamente a trentadue anni, proprio mentre stava organizzando una grande flotta per partire alla conquista dell’Oriente, egli avrebbe potuto riuscire a diventare signore di tutta la cristianità4. Papa Celestino morì pochi mesi dopo l’imperatore. Perciò salendo al trono Innocenzo III si trovò senza nessun rivale tra i principi laici. La vedova dell’imperatore, Costanza, affidò alle cure del pontefice il proprio regno di Sicilia ed il figlioletto Federico. In Germania, dove il principe nato in Sicilia era sconosciuto, suo zio Filippo di Svevia, fratello di Enrico, s’impossessò delle terre della famiglia e reclamò la dignità imperiale; ma scoprì che i nemici degli Hohenstaufen erano stati sottomessi soltanto temporaneamente, infatti la casa di Welf gli opponeva un candidato rivale, Ottone di Brunswick. Riccardo d’Inghilterra era stato ucciso nel marzo del 1199 e suo fratello Giovanni e suo nipote Arturo stavano disputandosi l’eredità, mentre re Filippo di Francia interveniva attivamente nella contesa. Con i re di Francia e d’Inghilterra così occupati, con la Germania divisa dalla guerra civile e l’autorità papale ristabilita nell’Italia meridionale, Innocenzo poteva procedere senza timori alla predicazione della sua crociata. Come passo preliminare aprì negoziati con l’imperatore bizantino Alessio III sull’unione delle Chiese5. In Francia l’agente principale del papa era il predicatore itinerante Folco di Neuilly, che si era sforzato da tempo di ispirare una crociata. Era famoso per l’ardimento mostrato davanti ai principi, come quando aveva ordinato a re Riccardo di abbandonare il suo orgoglio, la sua avarizia e la sua lussuria6. A richiesta del papa egli viaggiò per il paese, persuadendo i contadini a seguire i loro signori nella guerra santa. In Germania i sermoni dell’abate Martino di Pairis erano quasi altrettanto efficaci, sebbene qui i nobili fossero troppo profondamente coinvolti nella guerra civile per prestargli attenzione 7. Ma né Folco, né Martino sollevarono lo stesso entusiasmo dei predicatori della prima crociata. Il reclutamento era più ordinato e in genere limitato ai vassalli dei baroni che avevano preso la croce; molti di questi, poi, erano spinti non tanto dalla devozione, quanto dal desiderio di acquistare nuove terre dove non potesse raggiungerli l’azione di re Filippo Augusto, volta a disciplinarli. Tibaldo di Champagne era generalmente riconosciuto capo del movimento; con lui c’erano Baldovino IX di Hainault, conte di Fiandra e suo fratello Enrico, Luigi conte di Blois, Goffredo III di Le Perche, Simone IV di Montfort e i loro fratelli, Enguerrando di Boves, Rinaldo di Dam-pierre e Goffredo di Villehardouin e molti altri signori meno importanti della Francia del nord e dei Paesi Bassi. Il vescovo di Autun annunziò la sua adesione con una compagnia di cavalieri dell’Alvernia. Nella Renania presero la croce il vescovo di Halberstadt ed il conte di Katznellenbogen con molti dei loro vicini8. Il loro esempio fu seguito poco dopo da parecchi signori dell’Italia settentrionale guidati da Bonifacio marchese del Monferrato, la cui partecipazione suscitò

in papa Innocenzo le prime apprensioni riguardo all’impresa nel suo insieme: i signori del Monferrato erano infatti fedeli amici ed alleati degli Hohenstaufen9. Non fu possibile organizzare rapidamente la spedizione. Il primo problema consisteva nella ricerca di navi che la trasportassero in Oriente; infatti con il declino di Bisanzio, la strada attraverso i Balcani e l’Anatolia non era più praticabile. Ma nessuno dei crociati aveva una flotta a disposizione, eccetto il conte di Fiandra; e la flotta fiamminga salpò per conto proprio verso la Palestina agli ordini di Giovanni di Nesle10. C’era poi la questione della strategia generale. Lasciando la Palestina, Riccardo Cuor di Leone era stato del parere che l’Egitto fosse il punto vulnerabile dell’Impero saraceno: si venne dunque alla decisione di porre l’Egitto come obiettivo della crociata. L’anno 1200 trascorse in varie trattative, che Innocenzo cercò di tenere in qualche misura sotto il proprio controllo. Nel marzo del 1201 morì improvvisamente Tibaldo di Champagne; ed al suo posto la crociata scelse come capo Bonifacio del Monferrato. Era una decisione ovvia. La casa del Monferrato aveva importanti rapporti con l’Oriente: il padre di Bonifacio, Guglielmo, alla propria morte era un membro della nobiltà palestinese; dei suoi fratelli, Guglielmo aveva sposato Sibilla di Gerusalemme ed era stato padre del re bambino Baldovino V; Ranieri aveva sposato la figlia dell’imperatore Manuele ed era stato assassinato a Costantinopoli; e Corrado era stato il salvatore di Tiro, aveva governato la Terra Santa ed era il padre dell’attuale principessa ereditaria. Ma la designazione di Bonifacio quale capo dei crociati sottrasse la spedizione all’influenza di papa Innocenzo. Nell’agosto del 1201 il nuovo comandante venne in Francia ed incontrò i suoi principali colleghi a Soissons, dove gli venne confermata la sua carica; di là si recò in Germania per trascorrere i mesi invernali con il suo vecchio amico Filippo di Svevia11. Anche Filippo era interessato alle cose d’Oriente ma più a Bisanzio che alla Siria. Condivideva pienamente l’avversione che la sua dinastia provava per gli imperatori bizantini, sperava di diventare presto imperatore d’Occidente e desiderava condurre a termine l’intero programma di suo fratello Enrico. Aveva inoltre rapporti personali con Bisanzio. Quando Enrico VI aveva conquistato la Sicilia tra i suoi prigionieri c’era la giovane vedova dello spodestato principe siciliano Ruggero, Irene Angelina, figlia dell’imperatore Isacco Angelo; egli l’aveva data in moglie a Filippo. Fu un matrimonio d’amore; ed attraverso il suo amore per lei Filippo si trovò coinvolto nelle dispute dinastiche della casa degli Angelo12. Pochi mesi dopo il matrimonio di Filippo, suo suocero Isacco perse il trono. Il potere non ne aveva accresciuto le capacità. I suoi funzionari erano corrotti e indisciplinati ed egli stesso molto più spendaccione di quanto il suo Impero impoverito potesse sopportare. Aveva perso metà della penisola balcanica a vantaggio di un forte e minaccioso regno valacco-bulgaro. I turchi, fino alla morte di Kilij Arslan II nel 1192, avevano mantenuto saldamente l’occupazione dell’Anatolia, tagliando fuori Bisanzio dalla costa meridionale e dalla Siria. Sempre più numerose erano le concessioni commerciali vendute per contanti agli italiani. La prodiga e inopportuna magnificenza per le nozze dell’imperatore con la principessa Margherita d’Ungheria irritò i sudditi già eccessivamente tassati. La sua stessa famiglia cominciò ad abbandonarlo, finché nel 1195 suo fratello Alessio organizzò con successo una congiura di palazzo: Isacco fu accecato e gettato in prigione insieme con suo figlio, il giovane Alessio. Il nuovo imperatore Alessio III era un po’ più capace del fratello; intraprese qualche attività diplomatica, cercando di ottenere l’amicizia del papato con l’offerta di conversazioni sull’unione delle Chiese (un’amicizia questa che avrebbe potuto proteggerlo da un attacco di Enrico VI) e fomentando con gli intrighi la disunione tra i principi selgiuchidi. Ma gli affari interni furono affidati a sua moglie Eufrosina che era altrettanto prodiga e

circondata da servi corrotti quanto lo spodestato cognato13. Alla fine del 1201 il giovane Alessio, figlio di Isacco, fuggì dalla sua prigione di Costantinopoli dirigendosi in Germania alla corte di sua sorella. Filippo lo accolse bene e lo presentò a Bonifacio del Monferrato. I tre tennero consiglio insieme: Alessio desiderava ottenere il trono di suo padre, Filippo era pronto ad aiutarlo allo scopo di rendere l’Impero d’Oriente vassallo di quello d’Occidente, Bonifacio aveva un esercito crociato a disposizione. Non sarebbe stato vantaggioso per la crociata soffermarsi durante il viaggio per collocare sul trono di Costantinopoli un sovrano amico?14. Nel frattempo i crociati avevano cercato dei mezzi di trasporto per il loro viaggio per mare. Al principio del 1201, mentre viveva ancora il conte di Champagne, avevano iniziato trattative con Venezia e inviato Goffredo di Villehardouin per prendere accordi. In aprile fu firmato un trattato tra Goffredo ed i veneziani: in cambio di ottantacinquemila marchi d’argento di Colonia, Venezia accettava di fornire alla crociata mezzi di trasporto, nonché viveri per un anno, a partire dal 28 giugno 1202, per quattromilacinquecento cavalieri ed i loro cavalli, novemila scudieri e ventimila fanti. Inoltre la repubblica avrebbe fornito cinquanta galee per accompagnare la crociata, a condizione che metà delle sue conquiste fossero vendute a Venezia. Appena fu raggiunto l’accordo, i crociati furono convocati in quella città, pronti per partire contro l’Egitto15. Alcuni crociati diffidavano del trattato. Il vescovo di Autun condusse la sua compagnia direttamente da Marsiglia in Siria; altri, agli ordini di Rinaldo di Dampierre, s’impazientivano per l’indugio a Venezia e per conto proprio presero disposizioni per imbarcarsi per Acri. La decisione di attaccare l’Egitto suscitò qualche malcontento tra i crociati più umili. Essi si erano arruolati per liberare la Terra Santa e non potevano capire il motivo di andare altrove. La loro insoddisfazione fu incoraggiata discretamente dai veneziani che non avevano nessuna intenzione di fornire aiuti per un attacco contro l’Egitto. Al-Adii era ben conscio dei vantaggi che il commercio con l’Europa recava ai suoi Stati, perciò, dopo aver conquistato l’Egitto, aveva offerto importanti concessioni commerciali alle città italiane. Nel momento stesso in cui il governo veneziano stava contrattando con i crociati per il trasporto delle loro truppe, i suoi ambasciatori al Cairo progettavano un accordo commerciale con il viceré del sultano; questi firmò con loro un trattato nella primavera del 1202, dopo che speciali plenipotenziari mandati da al-Adil a Venezia ebbero avuto dal doge l’assicurazione che egli non avrebbe favorito nessuna spedizione contro l’Egitto16. È difficile dire se i crociati capissero le sottigliezze della diplomazia veneziana, ma anche se qualcuno di loro sospettò l’inganno, non c’era nulla da fare. Il loro trattato con Venezia li poneva interamente in suo potere, perché non erano in grado di raccogliere gli ottantacinquemila marchi che avevano promesso. Nel giugno del 1202 l’esercito era radunato, ma poiché il denaro non veniva, la repubblica non intendeva fornire le navi. Accampati sulla piccola isola di San Niccolò di Lido, tormentati dai mercanti veneziani con cui avevano contratto debiti, tenuti sotto la minaccia di vedersi tagliare del tutto i rifornimenti se non sborsavano il denaro, in settembre i crociati erano pronti ad accettare qualunque condizione Venezia facesse loro. Bonifacio, che li aveva raggiunti nell’estate dopo una poco soddisfacente visita al papa a Roma, era già pronto a collaborare con i veneziani. Negli ultimi decenni c’era stata una saltuaria ostilità tra la repubblica ed il re d’Ungheria per il controllo della Dalmazia, la cui città-chiave, Zara, era passata di recente in possesso degli ungheresi. I crociati vennero informati che la spedizione avrebbe potuto partire ed il pagamento del debito essere dilazionato se avessero partecipato ad una campagna preliminare per la riconquista di Zara. Il papa, informato dell’offerta, si affrettò a proibirne l’accettazione. Ma, quali che fossero i loro

sentimenti circa la moralità dell’impresa, i crociati non potevano fare altro che acconsentire17. Questa combinazione era stata concordata dietro le quinte tra Bonifacio del Monferrato, che aveva pochi scrupoli cristiani, e il doge di Venezia, Enrico Dandolo. Era questi un uomo molto vecchio, ma l’età non aveva placato né la sua energia, né la sua ambizione. Circa trent’anni prima aveva partecipato a un’ambasceria a Costantinopoli, dove era stato coinvolto in una rissa e aveva parzialmente perduto l’uso della vista. L’amarezza che ne era derivata contro i bizantini era aumentata quando, poco dopo la sua ascesa al dogato nel 1193, aveva avuto difficoltà per ottenere dall’imperatore Alessio III il rinnovo dei favorevoli accordi commerciali concessi a Venezia dall’imperatore Isacco. Era perciò pronto a discutere con Bonifacio i piani di una spedizione contro Costantinopoli, ma per il momento conveniva conservare le apparenze della crociata. Appena deciso l’attacco a Zara, si fece in San Marco una solenne cerimonia nel corso della quale il doge e i suoi principali consiglieri presero con ostentazione la croce18. La flotta salpò da Venezia l’8 novembre 1202 e in due giorni arrivò davanti a Zara. Dopo un violento assalto, la città capitolò il 15 e fu completamente saccheggiata. Tre giorni dopo i veneziani e i crociati vennero alle mani mentre si dividevano il bottino, ma la pace fu rabberciata alla meglio. Il doge e Bonifacio decisero allora che la stagione era troppo avanzata per avventurarsi in Oriente. La spedizione si fermò a Zara per l’inverno, mentre i suoi capi preparavano i piani delle future operazioni19. Quando le notizie del saccheggio di Zara giunsero a Roma, papa Innocenzo ne inorridì: era intollerabile che, sfidando i suoi ordini, una crociata fosse stata impiegata per attaccare il territorio di un fedele figlio della Chiesa. Scomunicò tutta la spedizione poi, rendendosi conto che i crociati stessi erano stati vittime di un ricatto, li perdonò, ma mantenne la scomunica contro i veneziani20. Dandolo non si scompose; per mezzo di Bonifacio era già in contatto con Filippo di Svevia, anch’egli scomunicato. Al principio del 1203 giunse a Zara dalla Germania un messaggero di Filippo per Bonifacio con una precisa offerta di suo cognato Alessio: se la crociata avesse proseguito per Costantinopoli e lo avesse posto sul trono imperiale, Alessio garantiva di pagare ai crociati le somme da loro ancora dovute ai veneziani; li avrebbe riforniti del denaro e dei viveri necessari per la conquista dell’Egitto ed avrebbe aggiunto un contingente di diecimila uomini dell’esercito bizantino; avrebbe pagato per il mantenimento di cinquecento cavalieri di stanza in Terra Santa e avrebbe assicurato la sottomissione della Chiesa di Costantinopoli a Roma. Bonifacio ne informò il doge che fu contentissimo. L’offerta significava che Venezia avrebbe avuto il suo denaro e nello stesso tempo avrebbe umiliato i greci e sarebbe stata in condizioni di estendere e rafforzare i suoi privilegi commerciali in tutto l’Imperò bizantino. L’attacco contro l’Egitto poteva essere facilmente rimandato a più tardi21. Quando la proposta venne presentata ai crociati pochi furono i dissenzienti; fra questi, Rinaldo di Montmirail, il quale pensava che essi avevano preso la croce per combattere contro i musulmani e non vedeva motivo per ulteriori indugi. Gli scontenti lasciarono l’esercito e salparono verso la Siria; altri rimasero protestando, altri ancora furono fatti tacere da opportune somme di denaro date dai veneziani. Ma alla maggioranza dei crociati si era fatto credere che Bisanzio avesse costantemente tradito la cristianità durante tutte le guerre sante: sarebbe dunque stato un atto saggio e meritorio obbligarla ora a collaborare. Gli uomini più religiosi dell’esercito erano contenti di dare il proprio aiuto ad una politica destinata a riportare all’ovile i greci scismatici. I più mondani pensavano alle ricchezze di Costantinopoli e alle sue prospere province e si prospettavano con impazienza il

saccheggio. Alcuni baroni, tra cui lo stesso Bonifacio, probabilmente nutrivano mire ancora più lontane ed avevano calcolato che le proprietà sulle sponde dell’Egeo sarebbero state molto più convenienti di qualunque feudo avessero potuto trovare nella misera terra di Siria. Tutto il risentimento che l’Occidente aveva a lungo nutrito contro i cristiani d’Oriente rendeva facile a Dandolo e a Bonifacio di ottenere il favore della pubblica opinione22. L’inquietudine del papa riguardo alla crociata non diminuì quando egli conobbe la decisione presa. Era assurdo pensare che una macchinazione ordita tra i veneziani e gli amici di Filippo di Svevia contribuisse . ad innalzare il prestigio della Chiesa. Egli aveva inoltre incontrato il giovane Alessio e lo considerava un individuo spregevole. Ma era troppo tardi per protestare efficacemente; nel caso, poi, che la spedizione fosse riuscita realmente ad assicurarsi l’aiuto attivo dei bizantini contro gli infedeli ed a portare a compimento l’unione delle Chiese, poteva essere giustificata. Il pontefice si contentò di emanare un ordine che proibiva gli attacchi ad altri cristiani a meno che ostacolassero attivamente la guerra santa. Considerando lo sviluppo degli eventi, sarebbe stato più saggio da parte sua l’aver subito manifestato, anche se inutilmente, una disapprovazione aperta e senza compromessi. Per i greci, sempre diffidenti verso le intenzioni del papa ed ignari delle complicazioni della politica occidentale, il tono debole della sua condanna sembrò la prova che egli fosse la potenza che manovrava nell’ombra tutto l’intrigo23. Il 25 aprile Alessio arrivò a Zara dalla Germania; pochi giorni dopo la spedizione si imbarcò, fermandosi per qualche tempo a Durazzo, dove Alessio fu riconosciuto imperatore, poi a Corfù; qui egli firmò solennemente un trattato con i suoi alleati. Il viaggio fu ripreso il 25 maggio: la flotta circumnavigò il Peloponneso e si volse a nord verso l’isola di Andro, dove rifornì i suoi serbatoi d’acqua dalle abbondanti sorgenti che vi si trovano. Da Andro si spinse verso i Dardanelli che trovò indifesi. In Tracia il raccolto stava maturando, perciò i crociati sbarcarono ad Abido per raccogliere quello che potevano. Il 24 giugno arrivarono davanti alla capitale imperiale24. L’imperatore Alessio III non aveva fatto nessun preparativo di difesa. L’esercito imperiale non si era mai ripreso dai disastri degli ultimi anni di Manuele ed era quasi interamente formato da mercenari. Ovviamente in quel momento non ci si poteva fidare dei reggimenti franchi, e su quelli slavi e peceneghi si poteva fare affidamento solo finché c’era denaro disponibile per pagarli. La Guardia varega, formata allora specialmente da inglesi e danesi, aveva si tradizioni di fedeltà alla persona dell’imperatore, ma Alessio III non era uomo che ispirasse grande devozione: era un usurpatore che aveva ottenuto il trono non per i propri meriti di soldato o di statista, ma per un meschino complotto di palazzo; e si era mostrato poco adatto al governo. Non poteva essere sicuro né dei suoi soldati, né dell’umore generale dei sudditi: sembrava che la cosa migliore fosse non far niente. Costantinopoli aveva resistito a molte altre tempeste durante i nove secoli della sua storia; senza dubbio poteva sopportarne ancora una. Dopo aver attaccato senza esito Calcedonia e Crisopoli, sulla costa asiatica del Bosforo, i crociati sbarcarono a Galata, oltre il Corno d’Oro. Occuparono la città e furono in grado di spezzare la catena che attraversava l’entrata del Corno d’Oro così da portare le loro navi nel porto. Il giovane Alessio li aveva spinti a credere che tutta Bisanzio sarebbe accorsa per. dargli il benvenuto, perciò furono sorpresi di trovare le porte della città chiuse contro di loro e soldati di guardia sulle mura. I loro primi tentativi di assalto, fatti dalle navi contro le mura lungo il Corno d’Oro furono respinti; ma dopo una lotta accanita, Dandolo ed i veneziani aprirono una breccia il 17 luglio. Alessio III, non meno sorpreso dei crociati nel vedere la città difendersi, stava ormai meditando la fuga; aveva letto nella Bibbia come Davide fosse fuggito davanti ad Assalonne e fosse così sopravvissuto per

riconquistare il trono. Prendendo con sé la sua figliuola prediletta ed una borsa di pietre preziose, sgusciò fuori dalle mura verso la campagna e si rifugiò in Tracia a Mosynopolis. I funzionari del governo, rimasti senza imperatore, presero una decisione rapida ma astuta: fecero uscire dal carcere il cieco ex imperatore Isacco, lo posero sul trono ed annunziarono a Dandolo ed ai crociati che, poiché il padre del pretendente era stato reintegrato non v’era più necessità di continuare la lotta. Fino a quel momento il giovane Alessio aveva deciso di ignorare l’esistenza di suo padre, ma ormai non gli era facile rinnegarlo: persuase i suoi alleati ad interrompere l’attacco ed essi inviarono in città un’ambasceria per comunicare che avrebbero riconosciuto Isacco se suo figlio fosse stato elevato al grado di co-imperatore e se ambedue avessero osservato il trattato che quest’ultimo aveva fatto. Isacco promise di eseguire quanto chiedevano. Il 1° agosto, con una solenne cerimonia nella chiesa di Santa Sofia, alla presenza dei più importanti baroni crociati, Alessio IV fu incoronato imperatore collega di suo padre25. Alessio IV scoprì ben presto che un imperatore non può essere irresponsabile come un pretendente. Un suo tentativo di obbligare il clero della città a riconoscere la supremazia di Roma e ad introdurre usi latini si urtò contro una resistenza ostile; né gli riuscì facile raccogliere tutto il denaro promesso. Aveva cominciato incautamente il proprio regno facendo grandiosi doni ai capi crociati, la cui cupidigia ne fu stimolata, ma quando si vide nella necessità di versare ai veneziani il denaro che i crociati dovevano loro, il tesoro si trovò insufficientemente fornito, perciò Alessio annunziò nuove tasse ed irritò ulteriormente la Chiesa confiscando grandi quantità di vasellame d’oro e d’argento che doveva essere fuso per i veneziani. Durante l’autunno e l’inverno del 1203 l’atmosfera nella città diventò sempre più tesa: la vista degli arroganti cavalieri francesi che cavalcavano per le vie esasperava i cittadini; vi era ristagno nel commercio; gruppi di soldati occidentali ubriachi saccheggiavano continuamente i villaggi nei sobborghi, cosicché non si poteva più vivere in sicurezza fuori delle mura. Un incendio disastroso si propagò a un intero quartiere della città quando alcuni francesi, presi da un accesso di devozione, diedero alle fiamme la moschea costruita ad uso dei mercanti musulmani di passaggio. Da parte loro i crociati erano altrettanto insoddisfatti quanto i bizantini: stavano rendendosi conto che il governo di Bisanzio non era in condizione di mantenere le promesse fatte da Alessio IV; infatti non si vedevano arrivare né gli uomini né il denaro promesso. Alessio stesso rinunziò presto all’impresa disperata di cercare di accontentare i suoi ospiti. Li invitò ad una festa di circostanza a palazzo e con il loro aiuto fece una breve escursione militare in Tracia contro suo zio Alessio III e ritornò in città a celebrare il trionfo non appena ebbe vinto un’insignificante scaramuccia. Il resto delle sue giornate e delle sue notti lo trascorreva in privati piaceri. Suo padre Isacco, impotente per la sua cecità a partecipare al governo, si appartò con i suoi astrologi favoriti, le cui profezie non lo rassicuravano molto sul futuro. Una rottura aperta era inevitabile, e Dandolo fece del suo meglio per affrettarla, avanzando pretese irragionevoli26. C’erano soltanto due uomini in Costantinopoli che sembravano capaci di assumere il controllo della situazione ed erano ambedue generi dell’ex imperatore Alessio III. Il marito di Anna, Teodoro Lascaris, era un valoroso soldato che aveva organizzato la prima difesa contro i latini, ma dopo la fuga del suocero si era ritirato a vita privata. Il marito di Eudossia, Alessio Murzuflo, aveva invece ricercato il favore di Alessio IV ed aveva ricevuto il titolo di Protovestiario. Era diventato ora il capo della lotta contro gli invasori d’Occidente: nel gennaio 1204 organizzò un tumulto, probabilmente allo scopo di cacciare Alessio IV dal suo trono spaventandolo. Ma l’unico risultato concreto fu la distruzione della grande statua di Atena, opera di Fidia, che si trovava nel foro

guardando verso occidente. Fu fatta a pezzi dalla plebaglia infuriata, perché la dea sembrava far cenno agli invasori27. In febbraio una delegazione di crociati si recò al palazzo di Blachernae per esigere da Alessio l’immediato adempimento delle sue promesse. Egli dovette confessare la propria impotenza, e i delegati furono quasi fatti a pezzi dalla folla inferocita mentre uscivano dalla sala delle udienze imperiali. Il popolaccio si precipitò poi in Santa Sofia dove dichiarò Alessio decaduto ed elesse al suo posto un oscuro nobiluomo di nome Nicola Canabo che per caso era presente e che cercò di rifiutare un tale onore. Allora Murzuflo invase il palazzo. Nessuno tentò di difendere Alessio IV, che fu gettato in un sotterraneo e strangolato, meritatamente dimenticato da tutti. Suo padre Isacco morì pochi giorni dopo di dolore e di adeguati maltrattamenti, l’insignificante Canabo fu imprigionato e Murzuflo sali al trono con il nome di Alessio V28. La rivolta era un’aperta sfida ai crociati. Da lungo tempo i veneziani ripetevano con insistenza che l’unica condotta efficace era di impadronirsi di Costantinopoli con la forza e di insediarvi un imperatore occidentale. Il loro consiglio sembrava ora giustificato, ma non sarebbe stato facile scegliere un imperatore. Al campo di Galata le discussioni durarono tutto il mese di marzo. Alcuni facevano pressioni per l’elezione di Filippo di Svevia allo scopo di unire i due Imperi. Ma Filippo era assente; era stato scomunicato e i veneziani non gradivano l’idea di un impero potente. Il candidato naturale era Bonifacio del Monferrato, ma di nuovo i veneziani non erano d’accordo, malgrado le proteste d’affetto di Dandolo per lui. Bonifacio era troppo ambizioso per i loro gusti e inoltre aveva rapporti con i genovesi. Finalmente si stabilì che una giuria di sei franchi e di sei veneziani avrebbe eletto l’imperatore appena fosse stata conquistata la città. Nel caso in cui, come pareva più conveniente, l’imperatore fosse stato franco, si sarebbe eletto un patriarca veneziano. L’imperatore avrebbe avuto per sé il grande palazzo imperiale e quello residenziale di Blachernae, un quarto della città e dell’Impero. I restanti tre quarti sarebbero andati metà ai veneziani e metà ai cavalieri crociati per essere divisa in feudi tra loro. Ad eccezione del doge, tutti i possessori di feudi avrebbero reso omaggio all’imperatore. In tal modo tutto sarebbe stato messo in ordine ad «onore di Dio, del papa e dell’Impero». L’idea che la spedizione dovesse poi andare a combattere contro gli infedeli fu apertamente abbandonata29. Alessio V era un governante energico ma non popolare. Licenziò tutti quei ministri che ritenne poco leali verso la propria persona, incluso lo storico Niceta Coniate che si vendicò di lui nella sua opera. Si fecero alcuni tentativi di riparare le mura e di organizzare la popolazione in vista della difesa della città. Ma le guardie cittadine erano state demoralizzate dalle continue rivolte e non c’era stata mai occasione di far venire truppe dalle province. Inoltre in città c’erano traditori pagati dai veneziani. Il primo attacco dei crociati, il 6 aprile, fu respinto con gravi perdite. Sei giorni dopo vi fu un nuovo assalto. Una lotta disperata si svolse nel Corno d’Oro e le navi greche cercarono inutilmente di impedire alla flotta veneziana di sbarcare truppe sotto le mura. L’attacco principale fu lanciato contro il quartiere di Blachernae, dove le mura dalla terraferma scendevano verso il mare. Fu aperta una breccia nel muro esterno, ma i difensori resistevano ancora sul muro interno, quando, per caso o per tradimento, un incendio scoppiò nella città dietro di loro e li intrappolò. La difesa crollò e i franchi e i veneziani si riversarono nella città. Murzuflo fuggì con sua moglie lungo le mura verso la Porta d’Oro, vicino al Mar di Mannara, e di lì in Tracia per cercare rifugio presso suo suocero a Mosynopolis. Quando si seppe che era fuggito, i nobili rimasti si riunirono in Santa Sofia per offrire la corona a Teodoro Lascaris. Ma era troppo tardi per salvare la città. Egli si spinse con il patriarca fino alla Pietra Miliare d’Oro nella piazza tra la chiesa ed il Grande Palazzo e parlò

appassionatamente alla Guardia varega dicendo loro che non avevano niente da guadagnare ad arrendersi ora ai nuovi padroni. Ma il loro coraggio era crollato: non volevano più combattere. così Teodoro, sua moglie e il patriarca insieme con molti nobili scesero furtivamente al porto del palazzo e di lì si imbarcarono per l’Asia30. Qualche combattimento si svolse nelle strade mentre gli invasori si aprivano un varco attraverso la città, ma il giorno seguente il doge ed i principali capi crociati erano già insediati nel Grande Palazzo ed ai soldati era stato concesso di dedicarsi al saccheggio per i tre giorni successivi. Il sacco di Costantinopoli non ha paralleli nella storia. Per nove secoli la grande città era stata la capitale della civiltà cristiana. Era piena d’opere d’arte lasciate dall’antica Grecia e di capolavori dei suoi propri eccellenti artigiani. I veneziani effettivamente conoscevano il valore di tali oggetti e, dovunque poterono, si impadronirono dei tesori asportandoli per adornarne le piazze, le chiese ed i palazzi della loro città. Ma i francesi e i fiamminghi erano pieni di bramosia di distruzione. Si precipitavano furiosi ed urlanti per le strade e per le case, strappando tutto ciò che luccicava e distruggendo ogni cosa che non potessero trasportare, fermandosi soltanto per assassinare o violentare, o per spalancare le cantine e dissetarsi con vino. Non risparmiarono né monasteri, né chiese, né biblioteche. Nella stessa Santa Sofia si potevano vedere soldati ubriachi strappare le tappezzerie e spezzare la grande iconostasi d’argento, calpestando i sacri libri e le icone. Mentre bevevano allegramente dal vasellame dell’altare una prostituta si sedette sul trono del patriarca e cominciò a cantare un’oscena canzone francese. Molte monache furono violentate nei loro conventi. Palazzi e tuguri furono ugualmente forzati e rovinati. Donne e bambini feriti, giacevano morenti per le strade. Per tre giorni continuarono le orrende scene di saccheggio e spargimento di sangue, finché l’immensa e magnifica città fu ridotta a un macello. Perfino i saraceni sarebbero stati più misericordiosi, esclamò lo storico Niceta, e con ragione31. Alla fine i comandanti latini si resero conto che una così grande distruzione non recava vantaggio ad alcuno. Quando i soldati furono esausti per i loro eccessi, l’ordine venne ristabilito. Chiunque aveva rubato un oggetto prezioso fu obbligato a consegnarlo ai nobili franchi; e sfortunati cittadini furono torturati per costringerli a consegnare i beni che erano riusciti a nascondere. Perfino dopo che tanti tesori erano stati stoltamente distrutti, la quantità del bottino era impressionante. Nessuno, scrisse Villehardouin, avrebbe potuto valutare l’oro e l’argento, il vasellame e i gioielli, lo sciamito, le sete, le pellicce di vaio e di ermellino; ed aggiunse, fondandosi sulla propria dotta autorità, che mai, dalla creazione del mondo, era stato preso tanto bottino in una sola città. Tutto fu diviso secondo il trattato: tre ottavi ai crociati, tre ottavi ai veneziani ed un quarto messo da parte per il futuro imperatore32. La questione successiva fu la scelta dell’imperatore. Bonifacio del Monferrato sperava ancora di essere eletto; per rafforzare la propria posizione aveva liberato l’imperatrice madre Margherita, la vedova ungherese di Isacco e l’aveva immediatamente sposata. Ma i veneziani non lo volevano. Per le loro pressioni il trono fu dato a un principe meno discusso, Baldovino IX, conte di Fiandra e di Hainault, uomo di alto lignaggio e grande ricchezza, ma più mite e trattabile. Al suo titolo altisonante non doveva corrispondere un potere effettivo. Egli doveva in realtà essere sovrano di tutto il territorio conquistato, con l’infausta eccezione delle terre assegnate al doge di Venezia. Il suo dominio personale doveva includere la Tracia fino a Chorlu, la Bitinia e la Misia fino al Monte Olimpo, e alcune isole dell’Egeo, Samotracia, Lesbo, Chio, Samo e Coo. Ma la capitale non sarebbe stata interamente sua, perché i veneziani reclamavano il loro diritto sui tre ottavi di Costantinopoli, e si presero la parte che includeva Santa Sofia, dove un veneziano, Tommaso Morosini, fu installato

come patriarca. Chiesero inoltre quelle parti dell’Impero che avrebbero rafforzato la loro supremazia marittima: le coste occidentali della Grecia continentale, l’intero Peloponneso, Nasso, Andro e l’Eubea, Gallipoli e i porti traci sul Mar di Marmara e Adrianopoli. A Bonifacio, come compenso per non aver avuto il trono, offrirono un vago dominio in Anatolia, la Grecia orientale e centrale e l’isola di Creta. Ma non avendo nessun desiderio di andare a conquistare terre in Asia, egli chiese invece la Macedonia con Tessalonica. Baldovino esitò, ma l’opinione pubblica lo appoggiava, specialmente quando egli avanzò un diritto ereditario derivante da suo fratello Rainieri che aveva sposato Maria Porfirogenita; poi trasse i veneziani dalla sua parte vendendo loro Creta; diventò così re di Tessalonica come vassallo dell’imperatore. Ai nobili minori furono assegnati feudi secondo il loro rango e la loro importanza33. Il 16 maggio 1204 Baldovino fu incoronato con grande cerimonia in Santa Sofia. Il 1° ottobre, dopo aver soffocato un tentativo di Bonifacio per ottenere l’indipendenza, tenne corte a Costantinopoli e investi di feudi circa seicento dei suoi vassalli. Nel frattempo veniva elaborata una costituzione, in parte basata sulle teorie dei giuristi feudali, in parte su quello che si credeva fosse la prassi del regno di Gerusalemme. Un consiglio dei principali vassalli, assistito dal podestà veneziano di Costantinopoli, assisteva l’imperatore nelle questioni politiche, dirigeva le operazioni militari e poteva annullare i suoi ordini amministrativi. Un’alta corte, composta allo stesso modo, regolava i suoi rapporti con i vassalli. Egli divenne poco più che il presidente di una camera dei pari. Poche costituzioni erano state così impossibili da mettere in pratica come quella che si espresse nelle Assise di Romania34. Romania, come i latini chiamavano il loro Impero, aveva poca più consistenza che il potere del suo imperatore. Molte delle sue province non erano ancora state conquistate né mai lo sarebbero state. I veneziani, più realisti, presero soltanto quello che sapevano di poter conservare: Creta e i porti di Modone e Crotone nel Peloponneso e, per qualche tempo, Corfù. Nelle loro isole egee stabilirono come vassalli signori di origine veneziana e a Cefalonia e nell’Eubea accettarono l’omaggio di principi latini insediativisi prima di loro. Bonifacio del Monferrato ben presto si rese padrone della maggior parte della Grecia continentale e vi pose i suoi vassalli: un borgognone, Ottone de La Roche diventò duca di Atene e di Tebe, mentre il Peloponneso toccò a due signori francesi, Guglielmo di Champlitte e Goffredo di Villehardouin, nipote del cronista, che fondò una dinastia di principi di Acaia35. Quasi tutte le province europee dell’Impero passarono così nelle mani dei latini, ma costoro si sbagliavano nel supporre che la conquista di Costantinopoli li avrebbe resi padroni di tutto l’Impero. In tempi di crisi l’animo greco mostra il massimo del suo coraggio e della sua energia; la perdita della capitale imperiale produsse dapprima il caos, ma nello spazio di due anni il mondo greco indipendente si era riorganizzato in tre Stati, retti da discendenti di imperatori deposti. Lontano, in Oriente, due nipoti dell’imperatore Andronico, Alessio e Davide Comneno, con l’aiuto della grande regina Tamara di Georgia loro zia, avevano occupato Trebisonda e stabilito il proprio dominio lungo le coste dell’Asia Minore sul Mar Nero. Davide fu ucciso nel 1206 mentre stava combattendo per estendere i loro possessi in direzione del Bosforo; ma Alessio visse abbastanza per prendere il titolo di imperatore e fondare una dinastia che durò due secoli e mezzo, arricchita dal commercio proveniente dalla Persia e dall’Oriente che passava attraverso la sua capitale e dalle miniere d’argento che si trovavano nelle colline dell’entroterra, e famosa per la bellezza delle sue principesse. All’estremità occidentale, un bastardo degli Angelo si autonominò despota dell’Epiro e fondò una dinastia che doveva in seguito annientare il regno di Tessalonica dei Monferrato. Il più

potente dei tre Stati era però quello fondato a Nicea dalla figlia di Alessio III, Anna, e da suo marito Teodoro Lascaris. I principali cittadini fuggiti da Costantinopoli si raccolsero intorno a loro; il patriarca greco Giovanni Camatero fuggito in Tracia, rinunziò alla carica affinché un prete che si trovava già a Nicea, Michele Autoreano, potesse essere eletto dal clero esiliato dall’antica capitale imperiale; in seguito a ciò Michele celebrò l’incoronazione di Teodoro e di Anna. Agli occhi dei greci Nicea divenne così la sede dell’Impero legittimo. Teodoro estese ben presto il proprio dominio sulla maggior parte delle regioni dell’Asia rimaste a Bisanzio. In poco meno di cinquant’anni i suoi successori avrebbero di nuovo regnato a Costantinopoli36. I latini non tennero conto neppure degli altri popoli balcanici. L’Impero valacco-bulgaro dei fratelli Asen si sarebbe alleato volentieri con loro contro gli odiati greci, ma l’imperatore latino avanzò pretese su certi territori che lo zar Kaloyan aveva occupato ed il patriarca latino volle affermare la propria autorità sulla Chiesa ortodossa bulgara. La Bulgaria fu spinta così a un’alleanza innaturale con i greci; e nella battaglia di Adrianopoli del 1205 l’esercito di Romania fu quasi completamente distrutto e l’imperatore Baldovino catturato e portato a morire prigioniero in un castello balcanico. Parve per un momento che lo zar bulgaro dovesse diventare imperatore di Costantinopoli, ma con Enrico, fratello di Baldovino, l’Oriente latino produsse il suo maggiore statista. L’energia e la saggia tolleranza che egli mostrò nei suoi dieci anni di regno salvarono l’Impero latino dalla distruzione immediata, mentre le rivalità dei capi greci, le lotte che essi conducevano l’uno contro l’altro e contro i bulgari, nonché la presenza dei turchi sullo sfondo contribuirono a prolungarne l’esistenza fino al 126137. I conquistatori trionfanti del 1204 non potevano prevedere quanto vacui sarebbero stati i risultati della loro impresa e i loro contemporanei furono parimenti abbagliati dalla conquista. In un primo tempo ci fu esultanza in tutto il mondo latino; è vero che lo scrittore satirico cluniacense Guyot de Provins si domandò nei suoi poemi come mai il papa permettesse una crociata condotta contro altri cristiani, ed è vero che il trovatore provenzale Guillem Figuera accusò aspramente Roma di aver tradito i greci; ma quando egli scriveva, Roma stava predicando una crociata contro i suoi compatrioti38. Simili dissidenti erano però rari. Papa Innocenzo, nonostante tutte le apprensioni nutrite per deviazione della crociata su Costantinopoli, si manifestò assai soddisfatto: in risposta a una lettera estasiata del nuovo imperatore Baldovino che vantava i grandi ed importanti risultati del miracolo compiuto da Dio, Innocenzo scrisse che egli si rallegrava nel Signore e dava la sua approvazione senza riserve39. In tutto l’Occidente vi furono peana di lode e l’entusiasmo aumentò quando cominciarono a giungere preziose reliquie per le chiese di Francia e del Belgio. Si cantarono inni per celebrare la caduta della grande empia città, Costantinopolitana Civitas diu profana, i cui tesori ora venivano restituiti. I latini d’Oriente si sentirono incoraggiati dalla notizia40: sicuramente il possesso di Costantinopoli da parte dei loro connazionali avrebbe reso più efficace tutta la strategia delle crociate. Giunsero voci secondo le quali i musulmani erano presi dal panico e il papa si rallegrò per l’allarme che, a quanto si diceva, era stato espresso dal sultano d’Egitto41. Le riflessioni più ponderate esprimevano minore entusiasmo. Presto le apprensioni del papa cominciarono a risvegliarsi: l’integrazione dell’Impero e della Chiesa d’Oriente nel mondo della cristianità occidentale era senza dubbio una magnifica impresa, ma era stata fatta in modo da recare vantaggi durevoli? Egli ricevette ulteriori informazioni ed apprese con orrore le scene sacrileghe e sanguinose avvenute durante il sacco della città; ne fu profondamente turbato come cristiano, e come uomo di Stato ne fu molto preoccupato. Una simile barbara brutalità non era la miglior politica per

cattivarsi l’affetto della cristianità orientale. Egli scrisse a Costantinopoli con amarezza ed ira enumerando e denunciando le atrocità. Apprese pure che i conquistatori si erano tranquillamente spartiti lo Stato e la Chiesa senza richiamarsi affatto alla sua autorità; i suoi diritti erano stati deliberatamente ignorati ed egli poteva rendersi conto di quanto inadeguati fossero gli ordinamenti stabiliti per il nuovo Impero e di come i crociati fossero stati completamente raggirati dai veneziani. Poi, con disgusto, venne a sapere che il suo legato, Pietro di San Marcello, aveva emanato un decreto in cui assolveva tutti coloro che avevano preso la croce dall’obbligo di continuare il viaggio fino in Terra Santa. La crociata si rivelò dunque una spedizione il cui unico scopo era stata la conquista di un territorio cristiano e nulla sarebbe stato fatto per aiutare i soldati cristiani che combattevano contro l’Islam42. I franchi di Siria si erano ormai accorti che non potevano sperare in nessuna spedizione per il 1204. L’estate passò mentre i crociati continuavano a rimanere a Costantinopoli; in settembre re Amalrico stipulò una tregua con al-Adil, conscio che nessun rinforzo sarebbe giunto per allora43. E presto fu chiaro che i possessi latini in Grecia avrebbero arrecato un danno reale a quelli di Siria. L’imperatore Baldovino si era vantato con il papa che molti cavalieri di «Outremer» erano venuti alla sua incoronazione; ed egli aveva fatto del suo meglio per persuaderli a rimanere con lui. Quando scoprirono che potevano ottenere ricchi e comodi feudi sul Bosforo o in Grecia, altri cavalieri che avevano perduto le loro terre in Siria a vantaggio dei musulmani si affrettarono a recarsi a Costantinopoli. Tra costoro vi era Ugo di Tiberiade, il maggiore dei figliastri di Raimondo di Tripoli e marito di Margherita di Ibelin, figlia di Maria Comnena. Avventurosi cavalieri occidentali trovavano che non aveva senso spingersi fino al lontano ed affollato regno di Gerusalemme per cercarvi un feudo o un’ereditiera, quando si potevano trovare terre migliori in Grecia. Già la conquista di Cipro aveva richiamato coloni lontano dalle terre siriane; dopo la conquista della Romania i cavalieri che partivano dall’Europa per andare a difendere la Terra Santa furono quasi unicamente le reclute degli ordini militari44. Di rado fu commesso contro l’umanità un delitto maggiore della quarta crociata. Non soltanto essa causò la distruzione o la dispersione di tutti i tesori del passato che erano stati accuratamente raccolti da Bisanzio ed inferse un colpo mortale a una civiltà ancora grande ed attiva, ma fu anche un gesto di madornale insipienza politica. Infatti non soltanto non recò nessun aiuto ai cristiani di Palestina anzi sottrasse loro possibili aiuti, ma sconvolse l’intero sistema di difesa della cristianità. Se i latini fossero stati in condizione di occupare tutto l’Impero bizantino come esso era al tempo di Manuele, avrebbero potuto fornire un forte impulso al movimento crociato, sebbene Bisanzio, governata secondo gli interessi della Siria latina, difficilmente avrebbe potuto prosperare a lungo. Ma fin dalla morte di Manuele Bisanzio aveva perduto molti territori in Anatolia ed i latini non poterono nemmeno conquistare tutto ciò che ne era rimasto, mentre i loro attacchi contro i greci rafforzavano ancor più i turchi. Uno dei risultati della quarta crociata fu che la strada dall’Europa alla Siria diventò più difficile, a causa della diffidenza dei greci di Nicea e dell’ostilità dei turchi verso i viaggiatori. Nessun gruppo armato tentò mai più di compiere il viaggio dall’Occidente attraverso l’Anatolia. Nemmeno la via del mare era diventata più facile: infatti le navi italiane preferivano ora trasportate passeggeri alle isole greche o al Bosforo piuttosto che ad Acri o ai porti della Siria. Nell’ampio quadro della storia mondiale le conseguenze furono assolutamente disastrose. Fin dall’origine del suo Impero Bisanzio era stata il baluardo dell’Europa contro l’Oriente infedele e il barbaro Settentrione: li aveva fronteggiati con i suoi eserciti e domati con la sua civiltà; aveva

trascorso molti periodi difficili quando pareva che il suo fato fosse segnato, ma era riuscita a superarli. Alla fine del secolo XII stava affrontando una lunga crisi, poiché il danno che le conquiste turche in Anatolia del secolo precedente avevano inferto al suo potenziale umano ed alla sua economia, cominciavano soltanto allora ad avere pieno effetto, accresciuto dall’energia concorrenza delle città mercantili italiane. Ma l’impero avrebbe potuto molto bene mostrare ancora una volta la propria capacità di ricupero e riconquistare i Balcani e buona parte dell’Anatolia; la sua cultura poteva continuare ad esercitare senza interruzione la propria influenza sui paesi circostanti. Perfino i turchi selgiuchidi avrebbero potuto cadere sotto il suo dominio ed essere alla fine assorbiti, ringiovanendo l’Impero. La storia dell’Impero di Nicea dimostra che i bizantini non avevano perduto la loro energia, però, con la perdita di Costantinopoli, era stata spezzata l’unità del mondo bizantino che non poté più rinnovarsi nemmeno quando la capitale stessa fu riconquistata. L’aver tenuto a freno i Selgiuchidi fa parte dei successi ottenuti dai niceni, ma quando apparve una nuova, più vigorosa tribù turca, sotto la direzione dell’audace casata di Osman, il mondo cristiano d’Oriente era troppo profondamente diviso per opporre una resistenza efficace. La sua funzione di guida stava passando altrove, lontano dalla patria mediterranea della cultura europea, verso il lontano nord-est, verso le vaste pianure della Russia. La seconda Roma stava cedendo il posto alla terza, quella di Moscovia. Nel frattempo fra la cristianità orientale e quella occidentale era stato seminato l’odio; le tiepide speranze di papa Innocenzo e le compiaciute vanterie dei crociati di aver posto fine allo scisma e riunito la Chiesa non divennero mai una realtà. Al contrario, la loro crudeltà lasciò un ricordo che non sarebbe più stato perdonato. Più tardi i potentati dell’Oriente cristiano avrebbero perorato l’unione con Roma nell’appassionata speranza che l’unione conducesse a un fronte unico contro i turchi, ma la loro gente non li volle seguire: non potevano dimenticare la quarta crociata. Forse era inevitabile che la Chiesa di Roma e le grandi Chiese d’Oriente seguissero vie diverse, ma tutto il movimento crociato aveva inasprito i loro rapporti e da allora in poi, quali che fossero i tentativi di alcuni pochi principi, nei cuori dei cristiani d’Oriente lo scisma fu completo, irrimediabile, definitivo.

Capitolo secondo La quinta crociata

Due uomini camminano eglino assieme, se prima non si sono concertati? Amos, III, 3

Il mancato invio di aiuti materiali alla Palestina da parte della quarta crociata ebbe anche un lato positivo: per più di dieci anni il piccolo regno fu lasciato in pace. La tregua che re Amalrico aveva concordato con il sultano fu effettiva: senza aiuto dall’Occidente i franchi non potevano arrischiarsi a romperla, mentre da parte sua al-Adil era abbastanza occupato a mantenere uniti i propri domini per disturbarsi a conquistare uno stato innocuo che, invece, se fosse stato attaccato, avrebbe potuto suscitare una crociata. Per tre anni Giovanni di Ibelin poté governare indisturbato come reggente di sua nipote, la regina Maria. Nel 1208 la regina compì diciassette anni: era giunto il momento di trovarle marito. Un’ambasceria, composta da Florent vescovo di Acri, e Aimaro signore di Cesarea, fu inviata in Francia per chiedere a re Filippo di proporre un candidato. Si sperava che l’offerta di una corona lusingasse qualche principe ricco ed energico inducendolo a venire in soccorso dell’Oriente franco; ma non era facile trovare un aspirante. Finalmente nella primavera del 12io, Filippo annunziò che un cavaliere della Champagne di nome Giovanni di Brienne aveva accettato l’offerta1. Fu una delusione: Giovanni era un cadetto squattrinato ed aveva ormai sessant’anni. Suo fratello maggiore Gualtiero aveva sposato la primogenita di re Tancredi di Sicilia ed aveva avanzato vane pretese al trono siciliano; ma Giovanni aveva trascorso la sua vita in una relativa oscurità come uno degli ufficiali del re francese. Si mormorava che fosse stato scelto proprio allora per via di un intrigo amoroso con la contessa Bianca di Champagne, che aveva scandalizzato tutta la corte. Ma, salvo che per la sua povertà, egli non era disadatto al compito che lo aspettava: aveva una vasta conoscenza della politica internazionale e la sua età era una garanzia che non si sarebbe imbarcato in avventure imprudenti. Per renderlo più accettabile re Filippo e papa Innocenzo gli diedero ciascuno una dote di quarantamila marchi d’argento2. Nel frattempo, fino al suo arrivo, Giovanni di Ibelin continuava a governare. Nel luglio 1210 spirava la tregua con al-Adii ed il sultano inviò messi ad Acri per suggerirne il rinnovo. Giovanni di Ibelin presiedette un consiglio al quale raccomandò di accettare l’offerta; fu appoggiato dal gran maestro dell’Ospedale, Guerin di Montaigu, e dal gran maestro dei cavalieri teutonici, Hermann Bardt, ma il gran maestro dei templari, Filippo di Le Plessiez, persuase i vescovi ad insistere per respingere la proposta per un motivo di carattere legale, ossia che il futuro re non poteva essere vincolato da una nuova tregua. Ne seguì qualche scaramuccia. Al-Adil inviò suo figlio, al-Muazzam, sul Monte Tabor con poche truppe e la loro presenza tenne a freno i franchi.3 Giovanni di Brienne sbarcò ad Acri il 13 settembre 1210. Il giorno dopo il patriarca Alberto di Gerusalemme lo uni in matrimonio con la regina Maria; il 3 ottobre la coppia reale fu incoronata a Tiro.

Il nuovo re acquistò ben presto popolarità: dimostrò tatto nel trattare con i vassalli e con gli ordini militari e prudenza nei suoi rapporti con i musulmani. Mentre la corte era a Tiro per l’incoronazione, al-Muazzam aveva assalito i sobborghi di Acri ma non aveva osato attaccare la città. Al principio dell’estate successiva Giovanni permise ad alcuni suoi vassalli di unirsi ai templari per una spedizione marittima contro Damietta, alla foce del Nilo, che però risultò vana. Pochi mesi dopo egli accettò una nuova offerta di al-Adil di stipulare una tregua quinquennale, a cominciare dal luglio del 1212. Nel frattempo il re inviò messaggi a Roma per chiedere che si preparasse una nuova crociata in grado di giungere in Palestina non appena spirasse la tregua4. Nello stesso anno morì la giovane regina, dopo aver dato alla luce una figlia chiamata Isabella come la nonna, ma conosciuta abitualmente come Jolanda. La sua morte rese incerta la posizione legale di Giovanni che aveva regnato in quanto marito della regina; ora il regno passava a Jolanda e suo padre non aveva giuridicamente nessun diritto. Ma, appunto in quanto padre di lei, fu accettato come reggente naturale del regno, almeno fino al suo matrimonio. Continuò a governare in pace il paese fino all’arrivo della successiva crociata. Per consolarsi della vedovanza, nel 1214 sposò la principessa Stefania d’Armenia, figlia di Leone II, che si dimostrò una cattiva matrigna, tanto che a corte si attribuì la sua morte, avvenuta nel 1219, alle dure percosse somministratele da Giovanni per aver cercato di avvelenare la piccola Jolanda5. Gli Stati latini viciniori furono meno fortunati del regno di Acri. A Cipro era succeduto a re Amalrico suo figlio Ugo di dieci anni e la reggenza era stata affidata a Gualtiero di Montbéliard, un cavaliere francese già conestabile di Amalrico che aveva sposato la sorella maggiore di Ugo, Burgundia. Fu un reggente poco abile che trascinò l’isola in una sfortunata guerra contro i turchi, e quando trasmise il potere a suo cognato nel 1210 fu costretto all’esilio sotto il sospetto di un grossolano peculato compiuto mentre era in carica. Re Ugo era ormai quindicenne6: due anni prima aveva sposato la sua sorellastra Alice di Gerusalemme, secondo l’accordo fatto dai loro rispettivi padri. Le trattative per il matrimonio furono condotte dalla nonna della sposa, la regina Maria Comnena, e la dote fu fornita da Bianca di Navarra, contessa di Champagne, vedova dello zio della sposa. Questa temeva che, se Alice e sua sorella non si fossero entrambe felicemente sposate in Oriente, una di loro potesse tornare e pretendere la contea di Champagne dal di lei figlioletto. Re Ugo era un giovane dal carattere ardente ed i suoi rapporti con i vicini e i vassalli, con la Chiesa e il papato furono costantemente procellosi; diede però al suo regno un governo forte7. La situazione nel principato di Antiochia era molto più agitata. Boe-mondo, conte di Tripoli, vi si era stabilito nel 1201 alla morte di suo padre Boemondo III, in spregio ai diritti di suo nipote Raimondo-Rupen, mentre il prozio materno di Raimondo, Leone d’Armenia, continuava a sostenerne la causa. Si presentarono altre complicazioni per la disputa di Leone con i templari, ai quali egli rifiutava di restituire la fortezza di Baghras. Gli ospitalieri si schierarono perciò al suo fianco contro Boemondo. Questi, tuttavia, poteva chiamare in aiuto i turchi selgiuchidi, con i quali Leone era continuamente in guerra, mentre az-Zahir di Aleppo era sempre pronto a mandargli rinforzi. Perciò al-Adil era ostile a Boemondo, mentre il re di Gerusalemme e quello di Cipro erano incostanti nelle loro simpatie. I problemi religiosi aumentavano il caos. Nell’interesse di tutto il movimento crociato era essenziale che la questione della successione antiochena fosse risolta e papa Innocenzo ritenne suo dovere intervenire. Due dei suoi legati, Sofred di Saint-Praxedis e Pietro di San Marcello, prima a turno, poi insieme, cercarono di esaminare la questione; ma mentre Leone a parole era deferente verso Roma, in pratica rifiutava di far la pace con i templari restituendo loro Baghras, come il papa gli comandava. D’altro canto Boemondo negava che il papa avesse diritto di occuparsi di una

questione puramente feudale. Poco dopo la morte di Boemondo III il patriarca Pietro di Antiochia si era unito al partito di Leone, cosa che non gli fu mai perdonata né da Boemondo IV né dal comune di Antiochia fortemente antiarmeno. Ma nel 1203 Leone aveva scritto al papa per chiedergli che la Chiesa armena fosse posta direttamente sotto la giurisdizione di Roma; nel 1205 il patriarca litigò con il legato papale Pietro di San Marcello a proposito della nomina dell’arcidiacono di Antiochia, perciò si ritrovò senza appoggi, esposto alle vendette di Boemondo8. Questi aveva anche le sue difficoltà: sebbene occupasse Antiochia ed avesse l’appoggio del comune, il suo potere nel distretto rurale era limitato. La sua contea di Tripoli fu perturbata alla fine del 1204 dalla rivolta di Renoart, signore di Nephin, che aveva sposato l’erede di Akkar senza il permesso di Boemondo. Parecchi signori si unirono a lui, fra cui Rodolfo di Tiberiade, il cui fratello Ottone si trovava alla corte di Leone; i ribelli inoltre godevano della simpatia di re Amalrico. Mentre Boemondo tentava di reprimere la rivolta, Leone cinse d’assedio Antiochia e si ritirò soltanto all’arrivo di un esercito di soccorso inviato da az-Zahir di Aleppo. Dopo la morte di Amalrico, Giovanni di Ibelin ritirò ogni appoggio ai ribelli, che Boemondo sconfisse alla fine dell’anno dopo aver perso un occhio durante la campagna. Nel frattempo, per dimostrare che Antiochia, in quanto Stato laico, era fuori della giurisdizione del papa, annunziò che il proprio sovrano era sempre stato l’imperatore di Costantinopoli. Quando Maria di Champagne, moglie del nuovo imperatore latino Baldovino, visitò la Palestina nel 1204 durante il suo viaggio per raggiungere il marito, Boemondo si recò ad Acri per renderle omaggio9. Nel 1206, adirato sia con il papa sia con il proprio patriarca, egli depose quest’ultimo e chiamò ad occuparne il posto il patriarca titolare greco, Simeone II. È probabile che questi abitasse già ad Antiochia; ed è certo che il gesto di Boemondo fu appoggiato, se non suggerito, dal comune. Nonostante un secolo di governo franco l’elemento greco di Antiochia era ancora numeroso e prospero e, con il trascorrere del tempo, molte famiglie di mercanti latini si erano senza dubbio imparentate con i greci. Tutti costoro odiavano gli armeni, e gli approcci tra il papa e Leone li resero ostili a Roma. Da parte sua Boemondo, da quando Bisanzio non costituiva più un pericolo per lui, era prontissimo a favorire una Chiesa le cui tradizioni imponevano un atteggiamento di deferenza verso il principe secolare. L’ironia della sorte volle che la restaurazione del patriarcato greco, per cui gli imperatori bizantini dell’ultimo secolo avevano lottato così aspramente, dovesse avvenire dopo la distruzione di Bisanzio da parte dei latini. Il patriarca latino Pietro si rappacificò subito con il legato che gli restituì il diritto di decretare scomuniche, sul quale erano stati elevati dubbi. Con la piena approvazione di Roma egli scomunicò il principe ed il comune, i quali risposero affollando le chiese greche della città. Il patriarca latino ricorse allora ai complotti. Verso la fine dell’anno successivo, il 1207, introdusse di notte entro le mura alcuni cavalieri; essi riuscirono ad occupare la parte bassa della città, ma Boemondo radunò le sue forze nella cittadella e li ricacciò ben presto. Il patriarca Pietro, la cui complicità era evidente, fu processato per tradimento e gettato in prigione. Non gli furono portati né cibo né acqua; disperato, trangugiò l’olio della sua lampada e morì tra gli spasimi10. Papa Innocenzo cominciò a stancarsi dell’interminabile contesa e affidò al patriarca di Gerusalemme la responsabilità di appianarla. Nel 1208 Leone adirato devastò la campagna intorno ad Antiochia mentre Tripoli era invasa dalle forze di al-Adii, accorse proditoriamente a vendicare un attacco di alcuni ciprioti contro mercanti musulmani e una incursione aggressiva degli ospitalieri. Boemondo si salvò facendo intervenire contro Leone i Selgiuchidi, mentre il papa faceva appello ad az-Zahir di Aleppo perché salvasse Antiochia dai greci. Ne seguì una rivoluzione diplomatica: il

patriarca di Gerusalemme, Alberto, era amico degli alleati di Boemondo, i templari; egli offese Leone con l’insistere che il passo preliminare per qualsiasi accordo ulteriore doveva essere la restituzione di Baghras all’ordine. Nel frattempo Boemondo decise di accettare ad Antiochia un nuovo patriarca latino, Pietro di Locedio. Leone dimenticò perciò la propria obbedienza a Roma ed ostentatamente strinse alleanza con l’imperatore greco di Nicea; accolse in Cilicia il patriarca greco di Antiochia, Simeone e diede ai greci una buona parte delle terre che la Chiesa latina vi possedeva. Ma nello stesso tempo ricercò l’amicizia di Ugo di Cipro, la cui sorella Helvis aveva sposato Raimondo-Rupen e consegnò dei castelli in Cilicia all’Ordine teutonico. La lotta continuò11. Nel 1213 il figlio maggiore di Boemondo, Raimondo, di diciotto anni, fu ucciso nella cattedrale di Tortosa da una banda di assassini. Sembra che gli uccisori fossero istigati dagli ospitalieri a cui, in quel momento, gli assassini pagavano un tributo. Il patriarca Alberto di Gerusalemme, altro nemico degli ospitalieri, fu ucciso dalla stessa banda l’anno seguente. Boemondo volle vendicarsi e, con rinforzi dei templari, attaccò il castello degli assassini di Khawabi. Costoro fecero appello ad az-Zahir che a sua volta invocò al-Adii. L’assedio a Khawabi fu tolto e Boemondo presentò le sue scuse ad az-Zahir, ma questi era ormai meno disposto ad appoggiarlo. Inoltre, voci di una nuova crociata riportarono una maggiore unione nel mondo musulmano; az-Zahir cominciò a ricercare l’amicizia di suo zio al-Adil12. Leone colse l’occasione per fare ancora una volta la pace con Roma. Il nuovo patriarca di Gerusalemme, Rodolfo, prima vescovo di Sidone, era ben disposto, ed il papa era pronto a perdonare Leone se egli avesse aiutato la crociata che stava per giungere. Il matrimonio di Giovanni di Brienne con la figlia di Leone, Stefania, sigillò un’alleanza tra Armenia ed Acri. Nel 1216 con un fortunato complotto, a cui indubbiamente partecipò il patriarca Pietro, Leone riuscì ad introdurre proprie truppe in Antiochia e ad occupare la città senza colpo ferire. Boemondo era assente, trovandosi a Tripoli e il presidio della cittadella si arrese ben presto a Leone. Raimondo-Rupen fu consacrato principe. Lieto per il fortunato risultato della lunga guerra, Leone restituì finalmente Baghras ai templari e ridiede alla Chiesa latina le terre di Cilicia. Ma egli pagava la sua vittoria con la perdita di fortezze nell’ovest ed oltre il Tauro, a vantaggio del principe selgiuchida Kaikaus I di Konya13. La questione di Antiochia era stata liquidata appena in tempo per la nuova crociata. Fin dal momento in cui la quarta crociata aveva deluso le sue aspettative, Innocenzo era andato preparando un più lodevole sforzo per salvare l’Oriente. Era stato disturbato da molte altre questioni: aveva dovuto affrontare il difficile problema degli eretici della Francia meridionale, e la feroce soluzione della crociata contro gli albigesi, per quanto da lui stesso ispirata col promettere ai crociati indulgenze simili a quelle guadagnate in una guerra contro gli infedeli, aveva sollevato a sua volta varie difficoltà. Nel 1211, in risposta ad un’invasione della Ca-stiglia da parte del visir omeiade anNasir, aveva predicato la crociata in Spagna; i suoi sforzi furono giustificati dalla magnifica vittoria di Las Navas de Tolosa, nel luglio 1212, quando l’esercito africano venne sbaragliato ed una nuova fase della riconquista cristiana ebbe inizio. C’erano però pochi cavalieri pronti a fare il viaggio in Terra Santa, e l’unica risposta alle preghiere per la liberazione di Gerusalemme venne da una classe sociale molto diversa14. Un giorno di maggio 1212 apparve a Saint-Denis, dove re Filippo di Francia teneva la sua corte, un pastorello di circa dodici anni, di nome Stefano, che veniva dalla piccola città di Cloyes nell’Orleanese. Recava con sé una lettera per il re che, a quanto diceva, gli era stata consegnata da Cristo in persona il quale gli era apparso mentre stava conducendo al pascolo le sue pecore e gli

aveva ordinato di andare a predicare la crociata. Re Filippo non si lasciò impressionare dal fanciullo e gli disse di tornare a casa, ma Stefano, il cui entusiasmo era stato acceso dal misterioso visitatore, vedeva ormai se stesso come un capo ispirato che sarebbe riuscito dove gli adulti avevano fallito. Negli ultimi quindici anni diversi predicatori avevano percorso le campagne esortando ad una crociata contro i musulmani d’Oriente o di Spagna oppure contro gli eretici della Linguadoca. Era facile per un ragazzo isterico venir contagiato dall’idea di poter diventare a sua volta un predicatore, emulo di Pietro l’Eremita, le cui gesta avevano raggiunto, durante il secolo precedente, una grandezza leggendaria. Senza scoraggiarsi per l’indifferenza del re, Stefano cominciò a predicare proprio all’entrata dell’abbazia di Saint-Denis e ad annunziare che avrebbe capeggiato una banda di fanciulli per riscattare la cristianità. I mari si sarebbero prosciugati davanti a loro ed essi sarebbero passati in tutta sicurezza come Mosè attraverso il Mar Rosso, fino alla Terra Santa. Aveva il dono di un’eloquenza straordinaria; le persone adulte ne erano colpite ed i ragazzi accorrevano in folla alla sua chiamata. Dopo il primo successo cominciò a viaggiare per tutta la Francia convocando i fanciulli, e molti dei suoi convertiti continuarono il lavoro per lui. Dovevano ritrovarsi tutti a Vendôme circa un mese più tardi per partire verso l’Oriente. Verso la fine di giugno i fanciulli si raggrupparono a Vendôme. Con immenso stupore i contemporanei parlarono di trentamila bambini, nessuno maggiore di dodici anni. Ce n’erano certamente parecchie migliaia, giunti da tutte le parti del paese: alcuni erano semplici contadini, i cui genitori, in molti casi, li avevano lasciati partire volentieri per la grande missione, ma vi erano pure dei ragazzi di famiglie nobili, fuggiti di casa per raggiungere Stefano ed il suo seguito di «piccoli profeti», come li chiamavano i cronisti. C’erano anche delle fanciulle tra loro, pochi giovani preti e pochi pellegrini più anziani, alcuni spinti dalla devozione, altri forse dalla compassione, ed altri certamente per ottenere una parte dei doni che piovevano su tutti loro. Le bande cominciarono a radunarsi nella città, ciascuna con un capo che portava una copia dell’orifiamma che Stefano aveva preso come insegna della crociata. La città non poteva contenerli tutti ed essi si accamparono fuori, nei campi. Dopo aver ricevuto la benedizione di preti amici ed aver respinto gli ultimi addolorati genitori, la spedizione partì verso il sud. Quasi tutti andavano a piedi, ma Stefano, come conveniva ad un capo, insistette per avere per sé un carro decorato gaiamente, con un baldacchino per proteggerlo dal sole. Al suo fianco cavalcavano ragazzi di nobile nascita, abbastanza ricchi da possedere un cavallo. Nessuno si risentì per il fatto che l’ispirato profeta viaggiasse comodamente, anzi lo si trattava come un santo e si raccoglievano ciocche dei suoi capelli e pezzi dei suoi vestiti come preziose reliquie. Essi presero la strada per Tours e Lione, dirigendosi verso Marsiglia. Fu un viaggio penoso: l’estate era eccezionalmente calda; per il cibo dovevano fare affidamento sulla carità, ma la siccità aveva lasciato nel paese poco da spartire, e l’acqua era scarsa. Molti bambini morirono lungo la strada, altri si allontanarono e cercarono di raggiungere le loro case alla spicciolata. Ma alla fine la piccola crociata giunse a Marsiglia. Gli abitanti della città accolsero gentilmente i bambini. Molti furono alloggiati nelle case, altri si accamparono per le strade. La mattina seguente tutta la spedizione si precipitò al porto per vedere il mare aprirsi davanti a loro, ma quando il miracolo non avvenne ci fu amaro disappunto: alcuni bambini si rivoltarono contro Stefano gridando che li aveva traditi e cominciarono a tornare sui loro passi, ma la maggioranza rimase in riva al mare, aspettando ogni mattina che Dio si impietosisse. Pochi giorni più tardi, due mercanti di Marsiglia, che secondo la tradizione, si chiamavano Ugo il Ferro e Guglielmo il Porco, si offrirono di porre alcune navi a loro disposizione e di trasportarli gratuitamente, per la gloria di Dio, in Palestina. Stefano accettò con premura la gentile offerta. Sette

vascelli furono affittati dai mercanti ed i bambini salirono a bordo e si spinsero in alto mare. Passarono diciotto anni prima che se ne avesse qualche notizia. Nel frattempo i racconti della predicazione di Stefano erano giunti in Renania. I bambini della Germania non dovevano essere da meno dei coetanei francesi. Poche settimane dopo la partenza di Stefano per la sua missione, un ragazzo chiamato Nicola, proveniente da un villaggio renano, cominciò a predicare le stesse cose davanti al santuario dei Tre Re a Colonia. Al pari di Stefano, egli dichiarava che i bambini potevano far meglio che gli adulti e che il mare si sarebbe aperto per dar loro un passaggio. Ma, mentre i bambini francesi volevano conquistare la Terra Santa con la forza, i tedeschi dovevano condurre a termine la loro missione con la conversione degli infedeli. Nicola aveva, come Pietro, una facondia naturale e fu capace di trovare eloquenti discepoli che continuarono la sua predicazione per ogni dove in Renania. In poche settimane un esercito di bambini si era raccolto a Colonia pronto a partire per l’Italia ed il mare. Sembra che i tedeschi fossero, in media, un po’ maggiori di età che i francesi e che fra di loro vi fossero più fanciulle. C’era anche un più numeroso contingente di ragazzi di famiglie nobili ed un certo numero di vagabondi di cattiva reputazione e di prostitute. La spedizione si divise in due gruppi: il primo, che secondo i cronisti raggiungeva le ventimila persone, era guidato da Nicola stesso. Risalirono il Reno verso Basilea e percorrendo la Svizzera occidentale oltrepassarono Ginevra per attraversare le Alpi al colle del Moncenisio. Era un viaggio duro per i bambini e le loro perdite furono rilevanti. Meno di un terzo della compagnia che aveva lasciato Colonia giunse alla fine di agosto davanti alle mura di Genova e chiese di essere ospitata per la notte in città. Dapprima le autorità genovesi furono pronte ad accogliere i pellegrini, ma poi ripensandoci sospettarono un complotto tedesco, perciò permisero loro di fermarsi soltanto per una notte; tuttavia chiunque desiderava stabilirsi definitivamente a Genova era invitato a farlo. I bambini, che aspettavano di vedere il mare aprirsi davanti a loro il mattino dopo, furono contenti. Ma il mattino seguente il mare si dimostrò altrettanto insensibile alle loro preghiere come lo era stato a Marsiglia per i francesi. Numerosi bambini, delusi, accettarono subito l’offerta delle autorità della città e diventarono cittadini genovesi dimenticando il loro pellegrinaggio. Parecchie grandi famiglie di Genova pretesero più tardi di essere discendenti da questa immigrazione straniera. Però Nicola e la maggioranza proseguirono: il mare si sarebbe aperto per loro da qualche altra parte. Pochi giorni dopo giunsero a Pisa, dove due navi dirette in Palestina accettarono di prendere a bordo parecchi bambini che si imbarcarono e forse raggiunsero la Terra Santa; ma non si sa nulla della loro sorte. Nicola, tuttavia, aspettava ancora un miracolo e si trascinò con i suoi fedeli seguaci fino a Roma dove papa Innocenzo li ricevette. Egli fu commosso dalla loro devozione, ma confuso per la loro follia. Con gentile fermezza disse loro che ora dovevano tornare a casa; quando fossero cresciuti avrebbero potuto adempiere i loro voti ed andare a combattere per la croce. Si sa poco del viaggio di ritorno. Molti di loro, specialmente le bambine, non poterono affrontare di nuovo le difficoltà del lungo cammino e rimasero indietro in qualche città o villaggio italiano. Soltanto pochi sbandati ritornarono la primavera seguente in Renania. Probabilmente Nicola non era con loro, ma i genitori che avevano perduto i propri figliuoli insistettero, furibondi, per ottenere l’arresto di suo padre che, sembra, avesse incoraggiato il ragazzo per vanagloria. Egli fu preso e impiccato. Il secondo gruppo di pellegrini tedeschi non fu più fortunato. Aveva viaggiato verso l’Italia attraverso la Svizzera centrale ed il San Gottardo e dopo grandi sofferenze era giunto al mare ad Ancona. Poiché il mare non si aprì per loro, si diressero lentamente lungo la costa orientale fino a Brindisi. Qui alcuni pochi trovarono passaggio su navi in partenza per la Palestina, ma gli altri

tornarono sui loro passi e cominciarono a ripercorrere adagio adagio la via del ritorno. Soltanto un piccolissimo numero giunse finalmente a casa. Malgrado le loro sofferenze furono forse più fortunati dei francesi. Nel 1230 arrivò in Francia dall’Oriente un prete che raccontava una curiosa storia. Era stato, egli disse, uno dei giovani preti che avevano accompagnato Stefano a Marsiglia e si era imbarcato con loro sulle navi procurate dai mercanti. Dopo pochi giorni di viaggio si erano imbattuti in una tempesta e due delle navi erano naufragate sull’isola di San Pietro, al largo dell’estremità sud-occidentale della Sardegna e tutti i passeggeri erano annegati. Le cinque navi che avevano resistito alla burrasca si trovarono subito dopo circondate da una flotta saracena dell’Africa; ed i passeggeri vennero a sapere che erano stati portati li in seguito ad un accordo, per essere venduti come schiavi. Furono tutti condotti a Bougie, sulla costa algerina: molti di loro furono comprati all’arrivo e vi trascorsero il resto della loro vita in schiavitù. Altri, fra cui il giovane prete, furono spediti in Egitto dove gli schiavi franchi erano venduti ad un prezzo migliore. Quando arrivarono ad Alessandria, la maggior parte venne comprata dal governatore per lavorare nelle sue proprietà: secondo il prete circa settecento di loro vi si trovavano ancora in vita. Un piccolo gruppo fu portato al mercato di schiavi di Bagdad dove diciotto subirono il martirio per aver rifiutato di accettare l’islamismo. Più fortunati furono i giovani preti e i pochi altri che sapevano leggere e scrivere. Il sovrano dell’Egitto, al-Kamil figlio di al-Adil, si interessava di lingue e letterature occidentali: egli li comprò e li tenne con sé come interpreti, maestri e segretari e non cercò mai di convertirli alla propria fede. Essi vissero al Cairo in una confortevole schiavitù ed alla fine solo questo prete fu rilasciato con il permesso di tornare in Francia. Ai genitori dei suoi compagni che lo interrogavano raccontò tutto quello che sapeva, poi spari nell’oscurità. Un racconto posteriore identificava i due malvagi mercanti di Marsiglia con due commercianti che erano stati impiccati pochi anni dopo per aver tentato di rapire l’imperatore Federico per conto dei saraceni; cosicché alla fine essi avrebbero pagato il fio dei loro delitti15. Non erano i piccoli bambini che avrebbero riscattato Gerusalemme. Papa Innocenzo aveva progetti più ampi e più realistici. Decise di tenere a Roma nel 1215 un grande concilio in cui sarebbero state regolate tutte le questioni religiose della cristianità e soprattutto si sarebbe giunti all’integrazione della Chiesa greca. Desiderava avere una crociata già avviata per quel momento. Durante tutto il 1213 il suo legato, Roberto di Courçon, viaggiò per la Francia con l’ordine - data la gravità della situazione - di non essere troppo esigente nell’esaminare se coloro che si facevano crociati erano veramente adatti. Il legato eseguì le istruzioni del suo sovrano con uno zelo persino eccessivo. Molto presto i nobili francesi cominciarono a scrivere al loro re che i predicatori del legato scioglievano i loro vassalli dai propri obblighi e che una assurda accozzaglia di vegliardi e di bambini, lebbrosi, zoppi e donne di malaffare si era riunita per andare alla guerra santa. Il papa fu obbligato a raffrenare Roberto; e quando si aprì il concilio del Laterano del 1215, non c’era ancora nessuna crociata pronta ad imbarcarsi. Nella prima seduta il papa stesso parlò della situazione di Gerusalemme ed il patriarca di quella città si alzò per implorare aiuto. Il concilio si affrettò a riconfermare i privilegi e le indulgenze concesse ai crociati, e a prendere accordi per il finanziamento della spedizione che doveva riunirsi in Sicilia o in Puglia e imbarcarsi per l’Oriente il 1° giugno 121716. Il concilio spinse la Chiesa all’attività: per tutta la primavera del 1216 si sparsero dei predicatori per tutta la cristianità occidentale, spingendosi fino all’Irlanda ed alla Scandinavia. I dottori dell’università di Parigi dichiararono che chiunque si faceva crociato e poi cercava di evitare di compiere il suo voto, commetteva peccato mortale. Si parlò di visioni popolari di croci fluttuanti

nell’aria, alle quali fu data grande pubblicità. Innocenzo era pieno di speranza; aveva già osservato che erano quasi trascorsi i 666 anni assegnati alla Bestia nell’Apocalisse: infatti erano trascorsi sei secoli e mezzo dalla nascita di Maometto. Egli aveva scritto al sultano al-Adii per ammonirlo dell’ira divina che stava per venire e per esortarlo a cedere pacificamente Gerusalemme finché era ancora in tempo. Ma il suo ottimismo era un poco prematuro. Gervasio, abate di Prémontré, gli scrisse confidenzialmente che i nobili di Francia ignoravano deliberatamente i punti di vista dei dottori di Parigi e che bisognava prendere qualche drastica misura per obbligare i duchi di Borgogna e di Lorena ad adempiere i loro voti. Egli suggeriva anche saggiamente che non si facesse una spedizione mista franco-tedesca: le due nazioni non collaboravano assieme in buon accordo. Ma i popolani stavano prendendo la croce con entusiasmo: non dovevano essere scoraggiati da indugi17. Nel maggio del 1216 papa Innocenzo andò a Perugia per cercare di risolvere la lunga contesa tra Genova e Pisa che avrebbero potuto contribuire entrambe al trasporto dei crociati. Quivi egli morì il 16 luglio, dopo una breve malattia. Pochi regni papali erano stati più splendidi o, in apparenza, più trionfali. Tuttavia la sua più cara ambizione, la riconquista di Gerusalemme, non fu mai realizzata. Due giorni dopo la sua morte l’anziano cardinale Savelli fu eletto papa con il nome di Onorio III18. Onorio continuò con foga il programma del suo grande predecessore. Pochi giorni dopo la sua ascesa al trono scrisse ad Acri a re Giovanni per dirgli che la crociata stava per giungere 19. Questi cominciava a preoccuparsi poiché la sua tregua con al-Adil doveva durare fino all’anno seguente. Onorio scrisse pure a tutti i sovrani d’Europa: pochi di loro risposero. Nel lontano settentrione re Ingi II di Norvegia prese la croce; morì però la primavera seguente, e quando la spedizione scandinava parti, risultò una misera cosa20. Re Andrea II d’Ungheria aveva già preso la croce da tempo, ma fino ad allora Innocenzo l’aveva esonerato dall’adempiere il voto a causa della guerra civile che infuriava nel suo paese. Egli ora mostrava dello zelo, ma per un altro motivo: la regina sua moglie era la nipote, per parte di madre, dell’imperatore latino di Costantinopoli, Enrico, che non aveva figli, ed Andrea aveva qualche speranza di ereditare. Ma quando Enrico morì nel giugno del 1216 il padre di lei, Pietro di Courtenay, fu scelto al suo posto. Il fervore di re Andrea cominciò ad affievolirsi, tuttavia alla fine accettò di preparare il proprio esercito per l’estate seguente21. Nella bassa Renania la predicazione della crociata incontrava una buona risposta; ed il papa sperava in una grande flotta equipaggiata dai frisoni22. Ma ancora una volta si frapposero nuovi indugi. Anche le notizie dalla Palestina erano poco incoraggianti: Giacomo di Vitry, da poco inviato come vescovo di Acri con istruzioni di incitare i latini della zona, scrisse un’amara relazione su ciò che vi aveva trovato. I cristiani indigeni odiavano i latini e avrebbero preferito un governo musulmano, mentre gli stessi latini conducevano una vita indolente, lussuosa e immorale e avevano assunto costumi completamente orientali. Il loro clero era corrotto, avaro e intrigante. Soltanto gli ordini militari erano degni di raccomandazione, anche se i coloni italiani, abbastanza intelligenti da condurre una vita frugale, conservavano qualche energia ed iniziativa; ma la gelosia reciproca delle grandi città italiane, Venezia, Genova e Pisa, li rendeva totalmente incapaci di collaborare. In realtà, come il vescovo Giacomo scopri, i franchi di «Outremer» non desideravano affatto una crociata. Due decenni di pace avevano aumentato la loro prosperità materiale. Dalla morte di Saladino i musulmani non avevano mostrato nessuna aggressività, perché anch’essi stavano traendo vantaggio dall’incremento del commercio. Mercanzie provenienti dal retroterra riempivano le banchine dei porti di Acri e Tiro. Il palazzo che Giovanni di Ibelin aveva costruito a Beirut era una testimonianza della rinnovata prosperità. C’erano colonie italiane felicemente stabilite in Egitto. Il costante incremento del potere

d’acquisto dell’Europa occidentale offriva buone prospettive per il futuro del commercio mediterraneo. Ma tutto ciò era precario e dipendeva dal mantenimento della pace23. Papa Onorio però la pensava diversamente. Egli sperava che una grande spedizione sarebbe salpata dalla Sicilia nell’estate del 1217. Ma quando venne l’estate, sebbene varie compagnie di cavalieri francesi avessero raggiunto i porti italiani, non c’erano navi. L’esercito del re d’Ungheria arrivò in agosto a Spalato, in Dalmazia, dove lo raggiunse il duca Leopoldo d’Austria ed il suo esercito24. La flotta di Frisia arrivò in Portogallo soltanto in luglio, ed una parte rimase a Lisbona. Il resto entrò nel porto di Gaeta in ottobre, troppo tardi per proseguire verso la Palestina prima della fine dell’inverno25. Alla fine di luglio il papa ordinò ai crociati riuniti in Italia ed in Sicilia di proseguire per Cipro; ma ancora non si forni loro nessun mezzo di trasporto. Finalmente al principio di settembre il duca Leopoldo trovò una nave a Spalato per portare la sua piccola compagnia ad Acri. Il suo viaggio durò soltanto sedici giorni. Re Andrea lo seguì circa due settimane più tardi; ma gli abitanti di Spalato non poterono dargli più di due navi, cosicché il grosso del suo esercito rimase indietro26. Quasi allo stesso tempo re Ugo di Cipro sbarcava ad Acri con le truppe che aveva potuto raccogliere27. In Siria quell’anno il raccolto era stato misero ed era difficile nutrire un esercito inattivo. Quando i re arrivarono, Giovanni di Brienne insiste perché si iniziasse immediatamente una campagna. Il venerdì 3 novembre i crociati partirono da Acri e marciarono attraverso la pianura di Esdraelon. Il loro numero, sebbene non grande, era il maggiore che si fosse raccolto in Palestina dalla terza crociata in poi. Al-Adii, quando aveva udito che i cristiani si stavano riunendo, era accorso in Palestina con nuove truppe, ma non si era aspettato così presto un’invasione. Trovandosi in condizioni di inferiorità numerica, quando la crociata avanzò verso Beisan, si ritirò, mandando suo figlio, al-Muazzam, a proteggere Gerusalemme, mentre egli stesso aspettava ad Ajlun, pronto ad intercettare un eventuale attacco contro Damasco. Ma i suoi timori erano ingiustificati. All’esercito cristiano mancava la disciplina: re Giovanni si considerava come il comandante in capo, ma le truppe austro-ungariche prendevano ordini soltanto da re Andrea ed i ciprioti da re Ugo, mentre gli ordini militari obbedivano ai loro propri capi. Beisan fu occupata e saccheggiata; poi i cristiani vagarono senza meta sull’altra riva del Giordano e sulla sponda orientale del Mar di Galilea, girando attorno a Cafarnao e ritornando ad Acri attraverso la Galilea. La loro occupazione principale era stata quella di procurarsi delle reliquie. Re Andrea fu soddisfattissimo di aver ottenuto una delle anfore adoperate alle nozze di Cana28. Re Giovanni non era contento e progettava una spedizione per conto proprio per distruggere il forte che i musulmani avevano costruito sul Monte Tabor. Né Andrea, né Ugo si unirono a lui, ed egli non volle aspettare gli ordini militari. Il 3 dicembre il suo primo attacco contro il forte fallì, sebbene in realtà la guarnigione fosse pronta ad arrendersi. Quando gli ordini giunsero due giorni più tardi si tentò, invano, un secondo assalto. Una volta ancora l’esercito si ritirò ad Acri29. Verso il Capodanno una piccola banda di ungheresi, trascurando i consigli degli indigeni e senza l’approvazione del loro re, progettò una incursione nel Bekaa e fu quasi del tutto distrutta da una tormenta di neve nell’attraversare il Libano30. Nel frattempo re Andrea si recò con re Ugo a Tripoli, dove Boemondo IV, ex principe di Antiochia, da poco rimasto vedovo della sua prima moglie Plaisance di Jebail, celebrava il proprio matrimonio con la sorellastra di Ugo, Melisenda. Quivi Ugo morì improvvisamente il 10 gennaio, lasciando il trono di Cipro a un bimbette di otto mesi, Enrico,

sotto la reggenza della vedova Alice di Gerusalemme 31. Re Andrea ritornò ad Acri ed annunziò la propria partenza per l’Europa. Aveva adempiuto il suo voto; aveva da poco aggiunto alla sua collezione di reliquie la testa di santo Stefano: era dunque tempo di tornare in patria. Invano il patriarca di Gerusalemme lo implorò e lo minacciò. Egli condusse le sue truppe verso nord, attraverso Tripoli ed Antiochia, in Armenia e di là, con un salvacondotto del sultano selgiuchida, a Costantinopoli. La sua crociata non aveva concluso nulla32. Leopoldo d’Austria rimase in Palestina. Era a corto di denaro e dovette farsi prestare da Guido Embriaco di Jebail cinquantamila bisanti, ma era pronto a lottare ancora per la croce. Re Giovanni si servi del suo aiuto per fortificare nuovamente Cesarea, mentre i templari ed i cavalieri teutonici si accingevano a costruire una grande fortezza a Athlit, poco a sud del Carmelo: il Castello dei Pellegrini. Al-Adii smantellava intanto il suo forte sul Monte Tabor : era troppo vulnerabile e non valeva le spese di mantenerlo33. Il 26 aprile 1218 arrivò ad Acri la prima metà della flotta di Frisia e quindici giorni dopo l’altra metà che aveva svernato a Lisbona. Era giunta la notizia che i crociati francesi ammassati in Italia dovevano presto tener loro dietro. Re Giovanni prese subito consiglio sul modo migliore di impiegare i nuovi venuti. Non si era mai dimenticato il consiglio di attaccare l’Egitto, che re Riccardo aveva dato a suo tempo; ed il concilio del Laterano aveva anch’esso menzionato l’Egitto come meta principale della crociata. Se i musulmani fossero stati ricacciati dalla valle del Nilo, non soltanto avrebbero perso la loro provincia più ricca, ma non sarebbero più stati in grado di mantenere una flotta nel Mediterraneo orientale e non avrebbero neppure potuto difendere a lungo Gerusalemme contro un attacco a tenaglia proveniente da Acri e da Suez. Trovandosi a poter disporre delle navi frisone i crociati avevano ora i mezzi per un grande attacco contro il Delta. Senza esitare si decise che il primo obiettivo sarebbe stato il porto di Damietta, chiave del Nilo34. Il sultano al-Adil era vecchio ormai e aveva sperato di trascorrere in pace i suoi ultimi anni. Aveva le sue preoccupazioni nel nord: suo nipote, az-Zahir di Aleppo, era morto nel 1216, lasciando come successore un bambino chiamato al-Aziz, in nome del quale governava come reggente un eunuco, Toghril. Al-Afdal, fratello di az-Zahir e figlio maggiore di Saladino, riemerse dal suo ritiro di Samosata per tentare di ottenere l’eredità e chiamò in suo aiuto il sultano selgiuchida di Konya, Kaikhaus. I Selgiuchidi dell’Anatolia si trovavano allora all’apogeo della loro potenza. Bisanzio non c’era più, e l’imperatore di Nicea era troppo occupato a combattere i franchi per disturbarli. I Danishmend erano scomparsi; i loro sudditi turcomanni erano bene organizzati e tranquilli e la prosperità stava ritornando nella penisola. Al principio del 1218 Kaikhaus e al-Afdal penetrarono rapidamente nel territorio di Aleppo ed avanzarono sulla capitale. Il reggente Toghril, sapendo che al-Adil era minacciato dalla crociata, fece appello al cugino del suo giovane padrone, al-Ashraf dell’Iraq, terzo figlio di al-Adil. Egli sbaragliò l’esercito selgiuchida vicino a Buzaa; al-Afdal si ritirò di nuovo a Samosata; ed il principe di Aleppo dovette riconoscere la sovranità di al-Ashraf. Ma i Selgiuchidi continuarono a rappresentare una minaccia fino alla morte di Kaikaus, avvenuta l’anno successivo, quand’egli stava progettando di intervenire in una lotta di successione a Mosul. Ciò permise ad al-Ashraf di consolidare il proprio potere e di diventare un serio rivale per i suoi fratelli delle regioni meridionali35. Sembra che al-Adil avesse sperato fino all’ultimo che i franchi non sarebbero stati così stolti da violare la pace. Suo figlio, al-Malik al-Kamil, viceré d’Egitto, condivideva le sue speranze. AlKamil era in ottimi rapporti con i veneziani, con i quali aveva firmato un trattato commerciale nel

1208. Nel 1215 v’erano non meno di tremila mercanti europei in Egitto. Quell’anno l’improvviso arrivo ad Alessandria di due signori occidentali con una compagnia armata aveva spaventato le autorità, che avevano posto temporaneamente agli arresti tutta la colonia cristiana. Ma i buoni rapporti erano stati ristabiliti. Nel 1217 una nuova ambasceria veneziana fu ricevuta cordialmente dal viceré. Il vano vagabondare della crociata del 1217 non aveva impressionato i musulmani, i quali non potevano credere che ora vi fosse un serio pericolo. Nel giorno dell’Ascensione, il 24 maggio 1218, l’esercito crociato al comando di re Giovanni si imbarcava ad Acri sulle navi frisone e salpava verso Athlit per caricare altri approvvigionamenti. Dopo poche ore le navi levarono l’ancora, ma il vento cadde improvvisamente. Soltanto alcune riuscirono a lasciare l’ancoraggio ed a salpare verso l’Egitto. Giunsero al largo della foce del Nilo di Damietta il 27 e gettarono le ancore per aspettare i loro compagni. Dapprima i soldati non osarono tentare lo sbarco perché non vi era nessun ufficiale superiore in mezzo a loro. Ma il 29, quando ancora non era apparsa nessuna flotta, l’arcivescovo di Nico-sia, Eustorgio, li persuase ad accettare come loro capo il conte Simone II di Sarrebruck ed a forzare uno sbarco sulla sponda occidentale della foce del fiume. Ci fu pochissima resistenza; e l’operazione era quasi del tutto completata quando le vele del grosso della flotta crociata apparvero all’orizzonte. Presto le navi si spinsero nell’estuario e re Giovanni, il duca d’Austria ed i gran maestri dei tre ordini militari sbarcarono36. Damietta giace a due miglia a monte della foce, sulla sponda orientale, ed è protetta alle spalle dal lago Manzaleh. Come aveva dimostrato l’esperienza dei franchi nel 1169, non poteva essere attaccata efficacemente se non dal fiume e da terra contemporaneamente. Come nel 1169 una catena era stata tesa attraverso il fiume, un po’ a valle della città, dalla riva orientale a una torre che si trovava su un’isola vicino alla sponda occidentale, e bloccava l’unico canale navigabile; e dietro la catena c’era un ponte di barche. I crociati fecero di questa torre il loro primo obiettivo. Appena i musulmani si resero conto che la crociata era diretta contro l’Egitto, al-Adil reclutò in tutta fretta un esercito in Siria, mentre al-Kamil conduceva il grosso dell’esercito egiziano dal Cairo verso nord e si accampava a al-Adiliya, a poche miglia a sud di Damietta. Egli non aveva abbastanza uomini e navi per attaccare le posizioni cristiane, però rafforzò la torre. Alla fine di giugno fallì il primo serio attacco al forte. Oliviero di Paderborn, il futuro storico della campagna, suggerì allora di ricorrere ad un nuovo stratagemma, che venne finanziato da lui stesso e da uno dei suoi compatrioti: si trattava di una torre costruita su due navi legate insieme, coperta di cuoio e fornita di scale a piuoli per la scalata. Il forte poteva così essere attaccato sia dal fiume che dalla riva37.

XI.

Il delta del Nilo al tempo della quinta crociata e della crociata di san Luigi.

Il venerdì 17 agosto l’esercito cristiano celebrò una solenne cerimonia d’intercessione. Una settimana dopo, nel pomeriggio del 24, cominciò l’assalto. Circa ventiquattro ore più tardi, dopo una fiera lotta, i crociati riuscirono a consolidarsi sui bastioni e dilagarono nel forte. La guarnigione combatté finché rimase solo un centinaio di superstiti; poi si arrese. Il bottino trovato nel forte era immenso ed i vincitori costruirono un piccolo ponte di barche per trasportarlo sulla riva occidentale. Poi tagliarono la catena ed il ponte di barche che sbarravano il canale navigabile principale e le loro navi poterono risalirlo fin sotto le mura di Damietta38. Quando le notizie della caduta del forte giunsero a Damasco pochi giorni dopo, al-Adil era ammalato. Aveva appena saputo che suo figlio al-Muazzam aveva preso e distrutto Cesarea; ma il colpo del disastro di Damietta fu troppo forte per lui: morì il 31 agosto all’età di circa settantacinque anni. Safadin, come lo chiamavano i crociati, non aveva la notevole personalità di suo fratello Saladino; e la sua condotta verso i propri nipoti, figli di Saladino, aveva mostrato una certa slealtà e furberia. Ma aveva mantenuto unito l’Impero ayubita ed era stato un capo capace, tollerante e amante della pace. Verso i cristiani era stato sempre benevolo ed onesto, e aveva saputo guadagnarsi e conservare la loro ammirazione ed il loro rispetto. In Siria gli succedette il suo figlio minore, alMuazzam e in Egitto il maggiore, al-Kamil39. Per i musulmani il disastro non era così grande come al-Adil aveva temuto. Se i cristiani avessero premuto contro Damietta e l’avessero attaccata subito, forse la città sarebbe caduta. Ma dopo la conquista del forte essi esitarono e decisero di aspettare rinforzi. Molti frisoni ritornarono alle loro case, e la loro diserzione parve punita dalla terribile inondazione che spazzò la Frisia

all’indomani del loro arrivo. Si sapeva ormai che la spedizione papale, così lungamente progettata, aveva già lasciato l’Italia. C’erano stati continui indugi, ma alla fine papa Onorio aveva potuto equipaggiare una flotta, al prezzo di ventimila marchi d’argento, per il trasporto delle truppe che avevano aspettato più d’un anno a Brindisi. Alla loro testa pose il cardinale Pelagio di Santa Lucia40. Quasi allo stesso tempo due nobili francesi, Hervé, conte di Nevers e Ugo di Lusignano, conte di La Marche, contrattarono delle navi con i genovesi per portare in Oriente una compagnia di crociati francesi ed inglesi. Sebbene il conte di Nevers fosse notoriamente un cattivo figlio della Chiesa, il papa gli permise di pagare il trasporto mediante una tassa da prelevare sul reddito degli ecclesiastici di Francia ed equivalente ad un ventesimo del suo ammontare. I due conti vennero raggiunti a Genova dall’arcivescovo di Bordeaux, Guglielmo II, dai vescovi di Parigi, Laon e Angers e da altri signori meno importanti, nonché dai conti di Chester, Arundel, Derby e Winchester. Il papa inviò il cardinale Roberto Courçon come direttore spirituale della spedizione, ma senza i poteri di legato41. Il cardinale Pelagio ed i suoi uomini giunsero al campo cristiano alla metà di settembre. Pelagio era spagnolo, uomo di grande attività ed esperienza amministrativa, ma assolutamente privo di tatto. Era già stato incaricato di sistemare la questione delle chiese greche nell’Impero latino di Costantinopoli, ma era riuscito soltanto a renderle ancora più ardentemente ostili a Roma. Il suo arrivo a Damietta provocò subito inconvenienti. Giovanni di Brienne era stato accettato come capo della crociata. Negli anni precedenti la sua posizione di comandante era stata contestata dai re di Ungheria e di Cipro; ma uno era partito e l’altro era morto. Pelagio riteneva che, come legato, quella carica toccasse a lui. La rivalità delle varie nazioni che partecipavano all’impresa era fin troppo chiaramente evidente; soltanto il rappresentante del papa poteva mantenere tra loro la concordia. Egli recò la notizia che il giovane imperatore occidentale, Federico II, aveva promesso di venire in seguito con un esercito imperiale. Quand’egli fosse giunto gli si sarebbe certamente dato il supremo comando militare. Ma Pelagio non intendeva ricevere nessun ordine da re Giovanni che, dopo tutto, era re soltanto a causa della sua defunta moglie42. In ottobre al-Malik al-Kamil aveva ottenuto rinforzi sufficienti per tentare un attacco contro il campo crociato per mezzo di una piccola flotta che ridiscese il fiume; l’attacco fu respinto, grazie soprattutto all’energia di re Giovanni. Pochi giorni dopo i musulmani costruirono un ponte sul Nilo un po’ a monte della città. Pelagio organizzò un’incursione senza esito contro i lavori; ma alla costruzione al-Kamil non fece seguire la decisione di far attraversare il fiume al suo esercito: tentò invece un altro attacco dall’acqua; fu un violento, furioso assalto, ma era troppo tardi; il primo contingente di crociati francesi era ormai arrivato e condusse la difesa. Un secondo attacco giunse fino al margine stesso del campo, ma fu respinto nel fiume dove molti musulmani annegarono43. Dopo l’arrivo dell’intero esercito franco-inglese alla fine di ottobre, ci fu una lunga pausa nella lotta. La morte di al-Adii aveva fatto ritardare l’aiuto che al-Kamil attendeva dalla Siria. Egli era in attesa di un esercito che suo fratello al-Muazzam gli aveva promesso. Anche i cristiani avevano le loro difficoltà: scavarono un canale dal mare al fiume a sud del ponte musulmano, ma non lo poterono riempire d’acqua. Nella notte del 29 novembre un forte vento proveniente da nord spinse il mare sulla terra bassa dove si trovava il loro accampamento: tutte le tende furono inondate ed i magazzini invasi dalle acque; parecchie barche furono distrutte ed altre spinte verso il campo musulmano; alcuni cavalli annegarono. Quando l’inondazione si ritirò, si trovavano pesci dappertutto, una leccornia, dice il cronista Oliviero di Paderborn, a cui tutti avrebbero volentieri rinunziato. Per prevenire il ripetersi di un fatto simile Pelagio ordinò che si costruisse rapidamente

una diga. Per renderla più alta si adoperarono tutti i rottami, perfino le vele lacerate e le carcasse dei cavalli. L’unico risultato positivo dell’inondazione fu che ora il canale era pieno d’acqua e che le imbarcazioni cristiane potevano spingersi più lontano risalendo il fiume44. Il campo era stato appena riparato quando una grave epidemia colpi l’esercito: le vittime soffrivano di una forte febbre e la loro pelle diventava nera. Almeno un sesto dei soldati, tra cui il cardinale Roberto Courçon, ne morì; i superstiti rimanevano indeboliti e depressi. Poi seguì un inverno eccezionalmente rigido. Per fortuna dei cristiani, anche i musulmani soffrirono per la malattia ed il freddo45. Ai primi di febbraio del 1219, Pelagio stimò che soltanto qualche attività poteva risollevare il morale dell’esercito. Il sabato 2 febbraio persuase i soldati a partire per attaccare i musulmani, ma una pioggia torrenziale li obbligò a ritornare. Il martedì seguente giunsero al campo notizie secondo cui il sultano ed il suo esercito stavano ritirandosi. I crociati si affrettarono ad al-Adiliya e trovarono il luogo abbandonato. Dopo aver respinto una sortita della guarnigione di Damietta, essi occuparono al-Adiliya e così isolarono completamente la città46. L’improvvisa fuga di al-Kamil era dovuta alla scoperta di una cospirazione nella cerchia dei suoi collaboratori. Uno dei suoi emiri, Imad ad-Din Ahmed Ibn al-Mashtub, stava progettando di assassinarlo e di sostituirlo con suo fratello al-Faiz. Disperato e non sapendo quanti membri della sua corte fossero implicati nel complotto, il sultano pensava di fuggire nello Yemen, dove suo figlio al-Masud era governatore, quando udì che suo fratello al-Muazzam stava finalmente giungendo in suo aiuto. Si spostò dunque con le sue truppe verso il Sud-est, ad Ashmun, dove i due sultani fratelli si incontrarono il 7 febbraio. La presenza di al-Muazzam con un numeroso esercito intimorì i cospiratori: Ibn al-Mashtub fu arrestato ed inviato in prigione a Kerak, mentre il principe al-Faiz fu esiliato a Sinjar e morì in modo misterioso durante il viaggio. Al-Kamil aveva salvato il suo trono, ma a prezzo della perdita di Damietta47. Ormai al-Kamil non poteva sloggiare i cristiani, nemmeno con l’aiuto di al-Muazzam. Il fiume, le lagune e i canali rendevano impossibile ai musulmani di approfittare della loro superiorità numerica: fallirono gli attacchi contro i due campi, sull’argine occidentale ed a al-Adiliya. Allora il sultano stabilì il proprio accampamento a Fariskur, a circa sei miglia a sud di Damietta, pronto ad attaccare i crociati alle spalle se avessero tentato l’assalto alla città. Le posizioni non mutarono per tutta la primavera; ci furono accaniti combattimenti la domenica delle Palme e poi di nuovo la domenica di Pentecoste, allorché i musulmani tentarono invano di forzare la via per al-Adiliya. In Damietta stessa, sebbene vi fosse ancora cibo in abbondanza, la guarnigione era stata decimata dalla malattia; ma ancora i cristiani non osavano sferrare un assalto48. Nel frattempo il sultano al-Muazzam decise di smantellare Gerusalemme. Poteva essere necessario, per porre fine alla guerra, offrirla ai cristiani, e in tal caso sarebbe stata loro consegnata distrutta ed impossibile da difendere. La demolizione delle mura cominciò il 19 marzo e causò panico nella città: gli abitanti musulmani credettero che stessero arrivando i franchi, e molti di loro fuggirono terrorizzati oltre il Giordano; le case lasciate incustodite furono saccheggiate dai soldati. Alcuni fanatici volevano distruggere il Santo Sepolcro, ma il sultano non lo permise. Dopo Gerusalemme anche le fortezze della Galilea, Toron, Safed e Banyas, furono tutte smantellate. Al tempo stesso i due sultani chiamarono in soccorso l’intero mondo musulmano, rivolgendo le loro invocazioni in modo particolare al califfo di Bagdad; questi promise di inviare un grande esercito, che non venne mai49.

Il gelido inverno fu seguito da una caldissima estate ed il morale dei crociati si abbatté di nuovo. E di nuovo Pelagio insisté sulla necessità di agire. Dopo aver respinto il 20 luglio un energico attacco musulmano contro il campo, con gravi perdite da ambedue le parti, i crociati si concentrarono nel bombardamento delle mura della città. Mentre erano così impegnati, inutilmente perché il fuoco greco usato dai difensori procurava grandi danni alle loro macchine e non poteva essere spento con vino e acido, un altro attacco musulmano per poco non distrusse l’intero esercito cristiano che si salvò soltanto per l’improvvisa caduta della notte. Il 6 agosto un secondo assalto alle mura fu ugualmente vano50. I rovesci spinsero all’azione i soldati semplici della crociata. Essi rimproveravano ai loro capi pigrizia e cattiva strategia. Molti dei più importanti nobili, tra cui i conti di La Marche e di Bar-surSeine e Guglielmo di Chartres, gran maestro dei templari erano stati uccisi. Altri erano ritornati in Europa. Leopoldo d’Austria lasciò l’esercito in maggio: era stato il più energico dei principi, ma aveva prestato servizio per due anni in Oriente e nessuno poteva rimproverarlo se ritornava al suo paese. Il suo coraggio aveva cancellato la cattiva reputazione acquistata con i suoi alterchi con Riccardo Cuor di Leone durante la terza crociata. Egli recò con sé in patria un frammento della Vera Croce. Ma il convoglio che lo riportò in Europa trasportava altri crociati, la cui partenza sembrava una diserzione dalla causa51. Verso la fine di agosto, mentre re Giovanni e Pelagio litigavano furiosamente sulla strategia, l’uno sostenendo la necessità di serrare maggiormente l’assedio, l’altro di attaccare il campo del sultano, i soldati assunsero l’iniziativa per conto loro e il 29 si riversarono in massa disordinata contro le linee musulmane. Questi finsero di ritirarsi, poi contrattaccarono. Pelagio aveva cercato di assumere il comando, ma nonostante le sue esortazioni le truppe italiane fecero dietrofront, dandosi alla fuga e presto il panico fu generale. Soltanto l’abilità di re Giovanni e l’azione dei nobili francesi ed inglesi e degli ordini militari salvarono i superstiti e difesero il campo52. La battaglia era stata osservata con addolorata costernazione da un eccezionale visitatore dell’accampamento, frate Francesco d’Assisi. Egli era giunto in Oriente credendo, come hanno creduto molte buone ma poco sagge persone prima e dopo di lui, che una missione di pace possa portare la pace. Chiese a Pelagio il permesso di andare a visitare il sultano. Dopo qualche esitazione il cardinale acconsentì e lo inviò a Fariskur sotto bandiera bianca. Le guardie musulmane furono dapprima sospettose, ma presto si convinsero che un individuo così semplice, così gentile e così sudicio doveva essere matto, e lo trattarono con il rispetto dovuto ad un uomo che era stato toccato da Dio. Fu condotto dal sultano al-Kamil, che ne rimase colpito e che ascoltò pazientemente il suo appello, ma che era troppo garbato e troppo profondamente civilizzato per permettergli di rendere testimonianza della sua fede in una ordalia con il fuoco; né voleva correre il rischio di suscitare irritazione con una pubblica discussione sulla religione. A Francesco vennero offerti molti doni che egli rifiutò e fu ricondotto al campo cristiano con una scorta d’onore53. L’intervento del santo non era in realtà necessario, perché al-Kamil stesso era propenso a far la pace. Il Nilo era straripato molto poco quell’estate e l’Egitto era minacciato dalla carestia. Il governo aveva bisogno di tutte le proprie risorse per procurarsi in gran fretta cibo dai paesi vicini. Al-Muazzam era ansioso di tornare in Siria con il suo esercito; e nessuno dei due sultani era contento delle attività del loro fratello al-Ashraf più a nord. A Bagdad il califfo Nasr si trovava alla mercè dello scià khwarizmiano Jelal ad-Din, il cui padre Mohammed aveva distrutto il dominio selgiuchida in Iran ed aveva fondato un impero che si estendeva dall’Indo al Tigri. Si sarebbe potuto usare Jelal ad-Din contro al-Ashraf, ma conoscendo le sue ambizioni sarebbe stato pericoloso incoraggiarlo

troppo. Perciò al-Muazzam era pronto ad appoggiare al-Kamil in qualche amichevole approccio verso i franchi. Un certo giorno di settembre giunse da parte del sultano un prigioniero franco per offrire una breve tregua e per accennare al fatto che i musulmani erano disposti a cedere Gerusalemme. La tregua fu accettata; ma i cristiani si rifiutarono di discutere più impegnative proposte di pace54. Ambedue le parti impiegarono la tregua per riparare le proprie opere di difesa. Molti crociati trovarono che era un’occasione propizia per tornarsene a casa. Alcuni erano già partiti al principio del mese, ed il 14 settembre altre dodici navi completamente cariche se ne andarono. La perdita fu compensata una settimana più tardi dall’arrivo del nobile francese Sauvary signore di Mauléon, con una compagnia trasportata da dieci galee genovesi55. Quando al-Kamil il 26 ruppe la tregua ed attaccò i franchi, i nuovi venuti sostennero validamente l’urto56. Al-Kamil sperava ancora nella pace. Sapeva che Damietta non poteva essere difesa: la guarnigione si era troppo assottigliata a causa delle malattie per poter disporre sulle mura un numero sufficiente di difensori ed i suoi tentativi di inviare rinforzi erano falliti. Anche le spie cristiane di cui aveva comprato i servizi nel campo crociato, non avevano ottenuto successo in alcuno dei loro piani. Alla fine di ottobre il sultano inviò due cavalieri prigionieri per recare ai franchi le sue proposte definitive. Se avessero evacuato l’Egitto egli avrebbe restituito loro la Vera Croce ed avrebbe ceduto Gerusalemme, tutta la Palestina centrale e la Galilea. I musulmani avrebbero conservato soltanto i castelli dell’Oltregiordano, ma avrebbero pagato per essi un tributo57. Era un’offerta sensazionale. Senza più combattere la Città Santa con Betlemme, Nazaret e la Vera Croce potevano essere restituite alla cristianità. Re Giovanni consigliò di accettare ed i suoi baroni e quelli d’Inghilterra di Francia e di Germania lo appoggiarono. Ma Pelagio non ne voleva sapere, e nemmeno il patriarca di Gerusalemme, pensando che fosse male scendere a patti con l’infedele. Gli ordini militari erano d’accordo con loro per ragioni strategiche: Gerusalemme ed i castelli della Galilea erano stati smantellati e sarebbe stato in ogni caso impossibile difendere la Città Santa senza avere il controllo dell’Oltregiordano. Gli italiani erano parimenti contrari alle proposte. Per quanto alle città marinare italiane fosse dispiaciuta la rottura con l’Egitto, dal momento che ormai era avvenuta, esse volevano assicurarsi Damietta per farne un centro commerciale; l’annessione di territori all’interno del paese non le interessava affatto. La contesa tra i due partiti diventò così aspra che il vescovo Giacomo di Acri riteneva che il sultano avesse fatto quell’offerta unicamente per suscitare dissensi: per insistenza di Pelagio fu respinta58. Pochi giorni dopo una pattuglia di esploratori inviata dal cardinale riferì che il muro esterno di Damietta era sguarnito di uomini. Il giorno dopo, martedì 5 novembre 1219, i crociati avanzarono in forze, e superarono il muro esterno, poi quello interno, senza quasi incontrare resistenza. Nella città trovarono quasi tutta la guarnigione ammalata. Soltanto tremila cittadini erano rimasti in vita, ma molti di loro erano troppo deboli perfino per seppellire i morti. Vi era abbondanza di cibo e di tesori, ma la malattia aveva lavorato per i cristiani. Appena la città fu completamente occupata trecento dei principali cittadini furono messi da parte come ostaggi; i bambini piccoli furono consegnati al clero per essere battezzati ed impiegati per il servizio della Chiesa, e tutti gli altri furono venduti schiavi. Il tesoro doveva essere diviso tra i crociati secondo il rango di ciascuno; ma tutti gli anatemi del legato non poterono impedire il furto e l’occultamento di oggetti preziosi da parte delle truppe59. Bisognava poi decidere quale sarebbe stato il futuro governo di Damietta. Re Giovanni pretese

subito che venisse ammessa al regno di Gerusalemme; e gli ordini militari ed i feudatari laici si schierarono dalla sua parte. Pelagio sosteneva che la città conquistata apparteneva a tutta la cristianità, cioè alla Chiesa. Ma, a causa dell’opinione pubblica che gli era ostile e di Giovanni che minacciava di ripartire per Acri, venne ad un compromesso: il re l’avrebbe governata finché Federico di Germania si fosse unito alla crociata60. Nel frattempo una parte dell’esercito era stata inviata ad attaccare Tanis, sulla foce omonima del Nilo, a poche miglia verso oriente. La città era stata abbandonata dalla sua guarnigione terrorizzata, ed i crociati tornarono con altro bottino che provocò soltanto nuove dispute. Gli italiani in particolare credevano di essere stati truffati e quando Pelagio non volle sostenerli scoppiarono in aperta rivolta; gli ordini militari dovettero cacciarli dalla città. Quando giunse l’inverno, in tutto l’esercito vittorioso covava lo scontento61. Pelagio, nei suoi primi momenti di esaltazione, prevedeva la distruzione finale dell’Islam: la crociata avrebbe conquistato tutto l’Egitto, senza dubbio quel valoroso principe cristiano che era il re di Georgia avrebbe inviato aiuti. Poi c’era il prete Gianni che, secondo le dicerie, stava aspettando di assestare un nuovo colpo ai nemici della cristianità. Il legato aveva creduto in un primo tempo che il prete Gianni fosse il Negus d’Etiopia, il quale, tuttavia, non aveva mai risposto ad una lettera scrittagli dal papa quarant’anni prima62. Ma ora c’era un nuovo candidato a quella parte, un principe orientale il cui nome era Gengis Khan. Sfortunatamente i supposti alleati non andavano d’accordo: nel 1220 l’esercito di re Giorgio di Georgia fu sbaragliato dai mongoli di Gengis Khan sulle frontiere dell’Azerbaigian, e venne in tal modo distrutta la grande potenza militare creata dalla regina Tamara. I vincitori non dimostrarono di avere alcun interesse di attaccare l’Impero ayubita 63. C’era invece da aspettarsi una collaborazione più seria da parte del più potente signore dell’Europa occidentale, Federico, re di Germania e di Sicilia. Federico aveva preso la croce nel 1215 ; ma papa Innocenzo gli aveva permesso di rinviare la crociata finché avesse messo in ordine gli affari di Germania. Federico indugiava ancora. Egli aveva promesso al papato di dare il trono di Sicilia, che aveva ereditato quando era fanciullo, al suo giovane figlio Enrico. Ma presto scoprì che sottolineando la propria decisione di partecipare alla crociata poteva differire la divisione dei suoi regni e mercanteggiare con il papa per ottenere da lui l’incoronazione imperiale. Il suo desiderio di andare in Oriente era reale, sebbene fosse determinato più dall’ambizione che dalla devozione. Da suo padre Enrico VI aveva ereditato le aspirazioni verso l’Oriente, ma non intendeva accingersi a realizzarle se non come imperatore e tenendo ben saldamente in pugno i suoi regni in Europa. Il papa avrebbe dovuto capire chiaramente quali erano le sue intenzioni, ma Onorio, che era stato un tempo suo precettore, era un uomo semplice che credeva alle sue promesse e che continuava ad inviare messaggi ai crociati in Egitto per dir loro di aspettare da un momento all’altro l’esercito dello Hohenstaufen64. La crociata che si trovava in Egitto perciò non si mosse e durante la sua inattività aumentarono le dispute tra Pelagio, re Giovanni, gli italiani e gli ordini militari. Una marcia sul Cairo, compiuta immediatamente dopo la caduta di Damietta, poteva forse aver successo. Al-Kamil si trovava in una situazione disperata: il suo esercito era scoraggiato, i suoi sudditi affamati, al-Muazzam insisteva per ricondurre le proprie forze in Siria poiché temeva disordini nel nord e credeva che in quel momento si potesse giovare maggiormente all’Islam con un attacco contro Acri stessa. Aspettando di giorno in giorno notizie di un’avanzata cristiana, al-Kamil stabilì il suo accampamento a Talkha, poche miglia a monte lungo il braccio del Nilo di Damietta e costruì fortifica2ioni sulle due sponde del fiume in attesa di un’offensiva che non venne mai65.

Leone II, re d’Armenia, morì al principio dell’estate del 1219 lasciando soltanto due figlie. La maggiore, Stefania, era la moglie di Giovanni di Brienne; la minore, Isabella, figlia della principessa Sibilla di Cipro e di Gerusalemme, aveva quattro anni. Leone aveva promesso la successione a suo nipote Raimondo-Rupen di Antiochia, ma sul suo letto di morte nominò erede Isabella. Giovanni presentò subito reclamo per conto di sua moglie e del loro figlioletto e nel febbraio 1220 ricevette il permesso del papa di lasciare la crociata e di recarsi in Armenia. I suoi rapporti con Pelagio erano così cattivi che non c’era per lui nessun motivo di rimanere con l’esercito e perciò il papa affidò ormai chiaramente al legato il comando supremo. Giovanni partì per Acri. Mentre si preparava a salpare per la Cilicia sua moglie armena morì per i maltrattamenti che, secondo le dicerie, egli le aveva inflitto. Quando il loro figlioletto morì poche settimane dopo, Giovanni perse ogni diritto al trono armeno; ma non ritornò in Egitto66. In marzo al-Muazzam invase il regno, attaccando il forte di Cesarea, che era appena stato ricostruito e andando poi ad assediare Athlit, roccaforte dei templari. I cavalieri del Tempio tornarono precipitosamente da Damietta e re Giovanni tenne il suo esercito ad una certa distanza. L’assedio durò fino a novembre quando al-Muazzam si ritirò a Damasco67. Nel frattempo la crociata rimaneva ferma a Damietta. C’era stato qualche tentativo di ricostruire la città; nella festa della Purificazione in febbraio, la moschea principale era stata consacrata come cattedrale della Vergine. In marzo arrivò una compagnia di prelati italiani, guidati dall’arcivescovo di Milano ed accompagnati da due inviati di Federico II. Essi portavano forze considerevoli e si trovarono subito d’accordo con Pelagio sulla necessità di lanciare un’offensiva. Ma i cavalieri non erano dello stesso avviso perché, dicevano, re Giovanni era l’unico capo a cui tutte le nazioni avrebbero ubbidito; ed egli era assente68. Quando in luglio Matteo conte delle Puglie arrivò con otto galee inviate da Federico, Pelagio richiese, di nuovo invano, che si passasse all’azione. Perfino i suoi stessi mercenari italiani si rivoltarono contro di lui quando propose una spedizione separata. L’unica impresa compiuta fu un’incursione dei cavalieri militari contro la città di Burlos, venti miglia a ovest di Damietta. La città fu saccheggiata, ma al loro ritorno i cavalieri caddero in una imboscata e parecchi ospitalieri furono catturati, fra cui il loro maresciallo69. Intanto al-Kamil aveva ripreso fiducia. Sebbene fosse ancora a corto di forze terrestri, aveva ricostruito la flotta; nell’estate del 1220 una squadra discese il braccio del Nilo di Rosetta e salpò per Cipro, dove trovò una flotta crociata all’ancora davanti a Limassol e con un attacco improvviso affondò o catturò tutte le navi, facendo parecchie migliaia di prigionieri. Si disse che Pelagio fosse stato avvertito dei preparativi fatti dai marinai egiziani, ma che non vi avesse fatto caso. Quando era ormai troppo tardi, inviò una squadra veneziana per intercettare il nemico ed attaccare i porti di Rosetta e di Alessandria, ma senza risultato. La mancanza di denaro gli impediva di mantenere a proprie spese un numero sufficiente di navi, e il tesoro papale non poteva concedergli più nulla70. In settembre altri crociati ancora tornarono a casa. Ma alla fine dell’anno papa Onorio inviò buone notizie. Federico era venuto a Roma nel novembre del 1220 ed il papa aveva incoronato lui e Costanza, sua moglie, imperatore e imperatrice. In cambio Federico aveva promesso in modo categorico di partire per l’Oriente nella primavera seguente. Onorio ormai diffidava delle promesse di Federico e consigliò perfino a Pelagio di non respingere nessuna proposta di pace da parte del sultano senza prima riferirne a Roma. Ma sembrava che il nuovo imperatore facesse ora sul serio: incoraggiava attivamente i propri sudditi a prendere la croce ed inviò un numeroso contingente agli ordini di Luigi, duca di Baviera, che partì dall’Italia al principio della primavera71. Le notizie dell’imminente arrivo del duca esaltarono talmente Pelagio che quando in giugno il

sultano avanzò nuove proposte di pace, egli le respinse, trascurando le istruzioni del papa e informando Roma soltanto a fatto compiuto. Al-Kamil aveva proposto ancora una volta la cessione di Gerusalemme e di tuttala Palestina, ad eccezione dell’Oltregiordano, insieme con una tregua trentennale e un indennizzo in denaro per lo smantellamento della Città Santa. Luigi di Baviera arrivò poco dopo che le condizioni erano state rifiutate72. Federico aveva ordinato a Luigi di non lanciare nessuna importante azione offensiva finché egli stesso non l’avesse raggiunto. Ma Luigi era impaziente di attaccare gli infedeli; e quando dopo cinque settimane non c’erano ancora notizie della partenza di Federico dall’Europa, egli si trovò d’accordo con Pelagio. Quando il duca argomentò che, se l’esercito rafforzato doveva avanzare in Egitto era meglio farlo subito poiché si avvicinava ormai la stagione delle inondazioni del Nilo, e quando il legato dichiarò che le finanze dell’esercito imponevano una rapida azione, i principali crociati si lasciarono convincere. Essi insistevano soltanto perché si convocasse re Giovanni per partecipare all’azione. Pochi furono i dissenzienti. La reggente di Cipro scrisse a Pelagio che alMuazzam e suo fratello al-Ashraf stavano formando in Siria un grande esercito musulmano ed i cavalieri degli ordini militari ricevettero conferma di tali notizie dai loro confratelli di Palestina. Ma Pelagio ne ricavò un altro argomento in favore di un’immediata avanzata: aveva udito profezie secondo le quali la dominazione del sultano doveva terminare presto73. Il 4 luglio 1221 il legato ordinò un digiuno di tre giorni nel campo. Il 6 re Giovanni giunse di ritorno con i cavalieri del suo regno, pieno di pessimismo, ma non disposto a lasciarsi accusare di codardia. Il 12 le forze crociate mossero verso Fariskur, e quivi Pelagio le dispose in ordine di battaglia. Era un esercito imponente: i contemporanei parlano di 630 navi di varie dimensioni, cinquemila cavalieri, quattromila arcieri e quarantamila fanti. Un’orda di pellegrini marciava con l’esercito; fu loro ordinato di rimanere vicino alla riva del fiume per rifornire d’acqua i soldati. Una numerosa guarnigione venne lasciata a Damietta. L’esercito musulmano avanzò fino a Sharimshah per incontrarli, ma vedendo il loro numero si ritirò oltre il Bahr as-Saghir, che scorre dal fiume al lago Manzaleh, aspettando su posizioni prestabilite a Talkha e nel luogo dove sarebbe sorta più tardi al-Mansura, sulle due sponde del fiume. Al 20 luglio i crociati avevano già occupato Sharimshah. Re Giovanni li pregò di fermarsi lì: era l’epoca delle inondazioni del Nilo e l’esercito siriano stava avvicinandosi. Ma Pelagio insistette per un’ulteriore avanzata, sostenuto dai soldati semplici che avevano udito voci di una fuga del sultano dal Cairo. Proprio a sud di Sharimshah, un canale proveniente da un altro braccio del Nilo si gettava nel fiume. I crociati, nella fretta d’avanzare, non lasciarono nessuna nave di guardia alla foce, forse perché pensavano che non fosse navigabile. Il sabato 24 luglio l’intero esercito cristiano si trovava lungo il Bahr as-Saghir, di fronte al nemico. Il livello del Nilo era cresciuto ed il canale era pieno d’acqua perciò facile da difendere, ma prima che l’acqua fosse troppo profonda gli eserciti dei fratelli di al-Kamil lo avevano attraversato vicino al lago di Manzaleh e si erano schierati tra i crociati e Damietta. Appena ci fu abbastanza acqua nel canale vicino a Sharimshah, le navi di al-Kamil discesero il fiume e tagliarono la ritirata alla flotta cristiana. Verso la metà di agosto Pelagio si rese conto che il suo esercito era inferiore di numero e completamente accerchiato, con viveri sufficienti soltanto per venti giorni. Dopo alcune discussioni i bavaresi persuasero il comando che l’unica probabilità di scampo stava in un’immediata ritirata. Nella notte di giovedì 26 agosto la ritirata cominciò. Era male organizzata: molti soldati non potendo sopportare l’idea di abbandonare le loro scorte di vino le bevvero tutte piuttosto che lasciarle ed erano perciò intontiti quando giunse l’ordine di muoversi. I cavalieri

teutonici diedero stupidamente fuoco alle provviste che non potevano trasportare, informando così i musulmani che stavano abbandonando le loro posizioni. Il Nilo continuava a crescere; ed il sultano o uno dei suoi luogotenenti diede l’ordine di aprire le chiuse lungo l’argine destro. L’acqua si riversò sulle terre basse che i cristiani dovevano attraversare. Essi procedevano a fatica tra pozzanghere fangose e fossati, inseguiti da vicino dalla cavalleria turca del sultano e dalla fanteria scelta della Nubia. Re Giovanni ed i suoi cavalieri sconfissero la prima ed i cavalieri militari respinsero i nubii, ma non prima che fossero periti a migliaia fanti e pellegrini. Sulla sua nave Pelagio fu trasportato rapidamente dalle acque dell’inondazione oltre il blocco della flotta egiziana; ma poiché aveva con sé le provviste di medicinali dell’esercito e la maggior parte dei viveri la sua fuga fu un disastro. Poche altre navi scamparono; molte invece furono catturate74. Il sabato 28 Pelagio abbandonò ogni speranza e mandò un messaggero al sultano per trattare la pace. Egli aveva ancora qualche base su cui negoziare: Damietta era stata di nuovo fortificata ed aveva una buona guarnigione con abbondanti armi; e una forte squadra navale, inviata dall’imperatore Federico, si trovava al largo sotto il comando di Enrico, conte di Malta, e di Gualtiero di Palear, cancelliere di Sicilia. Ma al-Kamil sapeva di avere alla sua mercè il grosso dell’esercito crociato; fu risoluto ma generoso. Dopo aver discusso negli ultimi giorni della settimana, al lunedì Pelagio accettò le sue condizioni: i cristiani avrebbero abbandonato Damietta ed osservato una tregua di otto anni, che doveva essere confermata dall’imperatore. Vi sarebbe stato uno scambio di tutti i prigionieri da ambe le parti. Dal canto suo il sultano avrebbe restituito la Vera Croce. La crociata doveva consegnare i propri capi come ostaggi finché Damietta non si fosse arresa. Al-Kamil indicò Pelagio, re Giovanni, il duca di Baviera, i maestri degli ordini ed altri diciotto conti e vescovi. Egli inviò in cambio uno dei suoi figli, uno dei suoi fratelli ed un certo numero di giovani emiri75. Quando i maestri dei templari e dei cavalieri teutonici furono spediti a Damietta per annunziare che la città doveva arrendersi, la guarnigione dapprima si ribellò contro questa decisione ed attaccò la casa di re Giovanni e quella degli ordini. Era appena giunto Enrico, conte di Malta, con quaranta navi ed essi si sentivano abbastanza forti per sfidare il nemico. Ma stava venendo l’inverno ed il cibo era scarso; i loro capi erano trattenuti come ostaggi ed i musulmani minacciavano di marciare su Acri. I ribelli cedettero ben presto. Dopo che al-Kamil ebbe offerto a re Giovanni uno splendido banchetto ed ebbe rifornito largamente di vettovaglie l’esercito cristiano, gli ostaggi furono restituiti scambievolmente; il mercoledì 8 settembre l’intera crociata si imbarcò sulle proprie navi ed il sultano fece il suo ingresso in Damietta76. La quinta crociata era finita. Era giunta molto vicino al successo. Se ci fosse stato nell’esercito cristiano un capo prudente e rispettato, il Cairo poteva essere occupato ed il regime ayubita in Egitto distrutto. Stabilitovi un governo più favorevole ai franchi (essi infatti non avrebbero mai potuto sperare di reggere da sé l’intero Egitto) non sarebbe stato impossibile riconquistare tutta la Palestina. Ma l’imperatore, il solo che avrebbe potuto esercitare quella funzione, non giunse mai, nonostante le sue promesse. Pelagio era un uomo arrogante, privo di tatto e impopolare, ed i suoi difetti come stratega si rivelarono nell’ultima disastrosa offensiva; mentre re Giovanni, sebbene fosse un valoroso, non aveva né la personalità, né il prestigio necessari per comandare un esercito internazionale. Quasi ogni fase della campagna era stata rovinata dalle gelosie personali o nazionali. Sarebbe stato più saggio accettare le condizioni offerte per due volte dal sultano e riprendere Gerusalemme. Ma gli strateghi avevano probabilmente ragione nel dire che senza i castelli dell’Oltregiordano, Gerusalemme non poteva essere difesa, almeno fintantoché i musulmani d’Egitto

e di Siria fossero alleati. Allo stato dei fatti, nulla era stato guadagnato e molto era stato perduto, uomini, risorse e reputazioni. E le vittime più infelici erano le meno colpevoli. La paura verso i cristiani occidentali provocò una nuova ondata di fanatismo nell’Islam. In Egitto, sebbene al-Kamil fosse personalmente tollerante, furono imposte ai cristiani indigeni, sia melchiti, sia copti, nuove limitazioni di libertà. Si riscossero tasse esorbitanti, si chiusero chiese, e molte altre furono saccheggiate dalla soldataglia musulmana furibonda. Neppure i mercanti italiani poterono riprendere interamente la loro precedente posizione ad Alessandria. I loro compatrioti avevano incoraggiato la crociata e sebbene essi tornassero ai loro banchi di vendita non si poteva più avere fiducia in loro come prima. I soldati della croce ripartirono per i loro paesi coperti di un’onta amara e ben meritata. Essi non riportarono con sé neppure la Vera Croce: quando infatti giunse il momento della sua restituzione non la si poté trovare77.

Capitolo terzo L’imperatore Federico

Io ti mando dunque un uomo abile ed intelligente. II Cronache, II, 13

Quando la crociata riparti demoralizzata da Damietta, re Giovanni tornò direttamente ad Acri, mentre il cardinale Pelagio andava più a nord, ad Antiochia e nel regno armeno di Cilicia, per eseguire le istruzioni del papa. Alla morte di re Leone, Onorio aveva riconosciuto il diritto di Giovanni di Brienne di chiedere la successione per sua moglie o per il figlio di lei. Alla loro morte il papa concesse l’appoggio della Chiesa a Raimondo-Rupen di Antiochia che era andato personalmente a Damietta nell’estate del 1220 per consultarsi con Pelagio. Pochi mesi prima Boemondo di Tripoli aveva riconquistato Antiochia, sebbene gli ospitalieri conservassero la cittadella. Raimondo-Rupen insieme con sua madre, la principessa armena Alice, aveva allora invaso la Cilicia e si era stabilito a Tarso in attesa di soccorsi da parte degli ospitalieri, con i quali era in buoni rapporti; aveva infatti affidato la cittadella di Antiochia alle loro cure. Ma i nobili armeni vollero adempiere i desideri del defunto re ed accettarono la sua figlioletta Isabella come regina, sotto la reggenza di Adamo di Baghras. Pochi mesi dopo aver assunto il potere Adamo fu ucciso dagli assassini, senza dubbio su istigazione degli ospitalieri: il suo successore come reggente fu Costantino, capo della dinastia degli Hethumiani. Costoro in passato avevano rappresentato il partito filobizantino in Armenia; ora si facevano avanti come paladini delle tradizioni nazionali, contro le tendenze latinizzanti della dinastia regnante. Al principio del 1221 Costantino marciò su Tarso e la conquistò, catturando anche il principe e sua madre. Raimondo-Rupen morì in prigione poco dopo. La sua scomparsa lasciò Isabella sicura del trono armeno e Boemondo di Tripoli ad Antiochia1. Il papa ammoni Pelagio di agire con oculatezza. Non c’era scopo nel sostenere i diritti delle figlie di Raimondo-Rupen ancora bambine: esse si ritirarono a Cipro con la loro madre, che era una Lusignano. Ma Boemondo era un cattivo figlio della Chiesa. Riuscì a strappare la cittadella di Antiochia agli ospitalieri e ritirò pure la promessa relativa a Jabala che Raimondo-Rupen aveva loro offerta se l’avessero conquistata, passandone il diritto ai templari. C’era dunque il pericolo di una guerra aperta tra gli ordini. Pelagio riuscì a persuaderli ad accettare ciascuno metà della città; ma Boemondo non soltanto rifiutò di ammettere gli ospitalieri in Antiochia, ma si impadronì delle proprietà che essi avevano nella città, benché Pelagio lo minacciasse di scomunica e lo scomunicasse poi realmente. I templari rimasero legati a lui ed il reggente dell’Armenia cercò la sua alleanza. Il sultano selgiuchida Kaikobad era diventato il più potente signore dell’Asia Minore: aveva occupato le montagne occidentali del Tauro, aveva stabilito la sua capitale invernale sulla costa di Alava e minacciava tutta la frontiera armena. Gli armeni avevano bisogno del favore di Antiochia, perciò il reggente suggerì che Boemondo inviasse il suo quarto figlio, Filippo, per sposare la giovane regina armena, insistendo soltanto perché lo sposo passasse alla loro Chiesa separata. Boemondo, risentito per la scomunica del legato, permise volentieri a suo figlio di cadere nello

scisma. L’alleanza tra Armenia ed Antiochia ottenne il suo scopo immediato: Kaikobad infatti distolse da loro la sua attenzione per rivolgerla ai suoi vicini musulmani d’Oriente. Gli armeni avevano sperato che Filippo, che non poteva aspettarsi in alcun modo di ereditare Antiochia, sarebbe diventato un buon armeno, ma i suoi gusti erano incorreggibilmente latini ed egli trascorreva tutto il tempo possibile ad Antiochia. Gli Hethumiani ed i loro amici erano esasperati: infine sul declinare del 1224, lo arrestarono nottetempo mentre stava viaggiando verso Antiochia e lo imprigionarono a Sis, dove fu avvelenato pochi mesi dopo. Boemondo era adiratissimo, ma poté fare ben poco. Il papa aveva confermato la scomunica ed aveva diffidato i templari dall’aver nulla a che fare con lui. Gli ospitalieri parteggiavano apertamente per gli scismatici armeni quando la giovane regina, vedova di Filippo, affranta dal dolore, fuggì per mettersi sotto la loro protezione a Seleucia, essi consegnarono l’intera città al reggente Costantino per evitare la vergogna di consegnare lei sola. Boemondo invocò in suo aiuto Kaikobad ed i Selgiuchidi invasero la Cilicia. Costantino allora chiese a Boemondo di richiamarli, invitandolo a recarsi in Cilicia per riprendersi il figlio, poi fece in modo che il reggente di Aleppo, Toghril, avanzasse su Antiochia. Quando Boemondo si trovava già in Cilicia venne a sapere che suo figlio era morto e dovette affrettarsi a tornare indietro per difendere la propria capitale da Toghril. Nel frattempo l’infelice giovane regina Isabella venne obbligata a sposare il figlio di Costantino, Hethum, ma per vari anni rifiutò di vivere con lui, poi alla fine venne a più miti propositi. Entrambi furono insieme incoronati nel 1226. Costantino in quel momento, nonostante i suoi sentimenti nazionali, pensò che fosse prudente riconciliare l’Armenia con il papato. In nome della giovane coppia furono perciò inviati messaggi di fedeltà al papa e all’imperatore2. Era un bene per i cristiani del nord che i loro due principali vicini musulmani, i Selgiuchidi e gli Ayubiti di Aleppo e Mosul, fossero continuamente in lotta tra di loro, dato che essi non erano compresi nella tregua di otto anni garantita da al-Kamil. Più a sud Giovanni di Brienne ne approfittava per dar riposo al suo esausto regno e soprattutto per riprendere, con l’entroterra musulmano, il commercio che gli forniva la massima parte delle sue entrate. Nell’autunno del 1222 decise di fare un viaggio in Occidente. Desiderava esaminare con il papa il modo di ottenere in futuro aiuti per il suo regno, e doveva trovare un marito per sua figlia, la giovane regina. Ella aveva soltanto undici anni, ma Giovanni era ormai sui settanta ed era necessario assicurare la successione. Dopo aver designato come viceré Oddone di Montbéliard, si imbarcò da Acri con Pelagio, che aveva appena finito una visita come legato a Cipro, con il patriarca di Gerusalemme, Rodolfo di Merencourt, e con il gran maestro dell’Ospedale. Il gran maestro dei cavalieri teutonici, Ermanno di Salza, si trovava già a Roma. Il gruppo sbarcò a Brindisi alla fine d’ottobre3. Giovanni proseguì direttamente per Roma dove avanzò la richiesta che in futuro qualsiasi territorio conquistato da una crociata fosse aggiunto al regno di Gerusalemme. Può darsi che Pelagio abbia sollevato obiezioni, ma il papa fu d’accordo con Giovanni e l’imperatore fece sapere che anch’egli dava la sua approvazione. Giovanni proseguì quindi per la Francia per visitare ancora una volta il suo vecchio amico, re Filippo Augusto. Nel frattempo Ermanno di Salza propose che la regina Jolanda sposasse l’imperatore Federico, la cui consorte era morta quattro mesi prima. Sarebbe stato uno splendido partito. Giovanni si sentì lusingato all’idea, ma esitò finché Ermanno non gli promise che avrebbe conservato la reggenza fino alla morte. Il papa era entusiasta del progetto: se Federico fosse stato principe consorte di Gerusalemme non avrebbe certamente più tergiversato e rimandato la sua crociata. Quando Giovanni arrivò a Parigi le trattative erano quasi concluse. Re Filippo non si mostrò soddisfatto della notizia e lo rimproverò perché fino allora si era sempre chiesto al re di Francia di provvedere un marito per l’erede di «Outremer». Giovanni stesso

era stato designato da Filippo. Ma in ricordo dei vecchi tempi il re accolse benevolmente Giovanni e questi era presente quando Filippo morì a Mantes il 14 luglio 1223. Nel suo testamento il re gli lasciava la somma di cinquantamila marchi a favore del regno di Gerusalemme, con lasciti simili per gli ospitalieri ed i templari. Giovanni assiste al funerale del re e all’incoronazione di suo figlio, Luigi VIII; poi andò in pellegrinaggio a Santiago di Compostela in Spagna. Rimase alcuni mesi in Castiglia, dove sposò la sorella di re Ferdinando III, Berengaria, e ritornò in Italia nel corso del 12244. Nell’agosto dell’anno successivo arrivò ad Acri con quattordici galee imperiali il conte Enrico di Malta che doveva accompagnare in Italia per il matrimonio la giovane regina, ormai quattordicenne. A bordo c’era Giacomo, arcivescovo eletto di Capua, il quale, appena sbarcato, sposò per procura, in nome di Federico, Jolanda, nella chiesa della Santa Croce. Ella partì subito dopo per Tiro e quivi, essendo considerata ormai adulta, venne incoronata regina di Gerusalemme dal patriarca Rodolfo, alla presenza di tutta la nobiltà di «Outremer». I festeggiamenti durarono quindici giorni, poi la regina si imbarcò, accompagnata dall’arcivescovo di Tiro, Simone di Maugastel, e dal proprio cugino, Baliano di Sidone. Si fermò per pochi giorni a Cipro per visitare sua zia, la regina Alice. Quando giunse l’ora di separarsi le due regine e tutte le loro dame si sciolsero in lagrime, ed esse udirono Jolanda sussurrare un triste addio alla dolce terra di Siria che non avrebbe rivisto mai più5. L’imperatore, assieme a re Giovanni, aspettava la sua sposa a Brindisi. Ella fu accolta con pompa imperiale e nella cattedrale di Brindisi ebbe luogo, il 9 novembre 1225, una seconda cerimonia nuziale6. Federico era nel suo trentunesimo anno. Era un bell’uomo, non alto, ma ben proporzionato, sebbene avesse già una certa tendenza alla pinguedine. I suoi capelli, i rossi capelli degli Hohenstaufen, stavano sfoltendosi leggermente. I suoi lineamenti erano regolari, con una bocca piena, piuttosto sensuale ed un’espressione che sembrava gentile finché non si notavano i suoi freddi occhi verdi, il cui sguardo penetrante celava la loro miopia. Le sue brillanti qualità intellettuali erano evidenti: parlava correntemente sei lingue: francese, tedesco, italiano, latino, greco e arabo; era versatissimo in filosofia, nelle scienze, in medicina e in storia naturale, e bene informato sugli altri paesi. Quando voleva, la sua conversazione era affascinante. Ma, pur con tutte le sue doti brillanti, non era simpatico. Era crudele, egoista e scaltro, non ci si poteva fidare di lui come amico ed era implacabile come nemico. Il suo indulgere ai piaceri erotici di ogni specie era scandaloso persino per i criteri morali piuttosto indulgenti di «Outremer». Si dilettava di offendere i sentimenti dei suoi contemporanei con irriverenti commenti sulla religione e sulla morale. In realtà non era irreligioso, ma il suo cristianesimo era simile a quello di certi imperatori bizantini: si considerava consacrato vicario di Dio sulla terra. Era conscio di essere un competente studioso di teologia e non era disposto a sottomettersi ai dettami di nessun vescovo, fosse pure il vescovo di Roma. Non vedeva nessun male nel dimostrare interesse per altre religioni, specialmente per l’Islam, con cui era stato in contatto per tutta la sua vita. Non considerava come scismatici i greci solo perché respingevano l’autorità del papa; eppure nessun principe perseguitò più crudelmente di lui gli eretici come i catari e i seguaci di altre sette cristiane. Per l’occidentale medio egli riusciva quasi incomprensibile. Sebbene per nascita fosse mezzo tedesco e mezzo normanno, per educazione era essenzialmente un siciliano, figlio di un’isola a metà greca e a metà araba. Come sovrano di Costantinopoli o del Cairo sarebbe stato singolare ma non eccentrico, come re della Germania ed imperatore dell’Occidente era un personaggio sconcertante. Eppure, nonostante tutta la sua comprensione del mondo orientale in

genere, non comprese mai «Outremer»7. Egli mostrò il suo carattere all’indomani delle nozze. Lasciò Brindisi assieme all’imperatrice senza avvertire il suocero e quando il vecchio re lo seguì, lo ricevette freddamente. Seguì un aperto litigio quando Giovanni apprese dalla propria figliola in lacrime che suo marito aveva sedotto una delle cugine di lei. Federico allora gli annunziò con freddezza di non aver mai promesso che Giovanni avrebbe continuato ad essere reggente. Non c’era alcun accordo scritto ed il re non aveva nessun diritto legale dopo che sua figlia era sposata. Giovanni si trovò spogliato della propria dignità ed i soldati di Federico gli tolsero perfino la somma di denaro che re Filippo gli aveva lasciato per testamento a favore di Gerusalemme8. Egli fuggì disperato alla corte papale. Papa Onorio che era ostinatamente restio a pensar male del suo antico discepolo, ne fu una volta ancora deluso e disgustato; ma non poté far nulla per Giovanni salvo dargli l’amministrazione dei beni papali in Toscana. Ma la carriera del vecchio guerriero non era ancora terminata. Era già stato proposto per il trono d’Inghilterra. Poi, nel 1228 l’Impero latino di Costantinopoli ebbe bisogno di un reggente per l’imperatore bambino Baldovino II. Giovanni, già vicino agli ottanta, assunse l’incarico con piacere: la sua figliola di quattro anni, Maria, fu sposata con Baldovino, ed il vecchio si preoccupò con grande attenzione di ottenere per sé il titolo di imperatore da portare fino alla morte, che avvenne nel 12379. L’imperatrice regina Jolanda fu meno fortunata di suo padre. Federico la mandò nell’harem che teneva a Palermo, e qui ella visse in clausura, languendo di desiderio per la brillante vita di «Outremer»; il 25 aprile 1228 diede alla luce un figlio, Corrado, e, avendo compiuto il suo dovere, morì sei giorni dopo. Non aveva ancora diciassette anni10. Federico, in un primo tempo, aveva promesso al papa, che si sarebbe recato in Siria per sposarvi la sua fidanzata, ma poi, a propria richiesta e per intercessione di re Giovanni e del maestro dei cavalieri teutonici, gli furono concessi due anni di proroga. Il 25 luglio 1225 si incontrò con due legati papali a San Germano e giurò di partire per l’Oriente nell’agosto del 1227, di mandare subito un migliaio di cavalieri e di depositare a Roma centomila once d’oro, che sarebbero andate alla Chiesa, se avesse violato il suo voto. Se si fosse chiesto consiglio ai signori di «Outremer», la partenza dell’imperatore sarebbe stata rinviata fino al 1229, quando doveva terminare la tregua con al-Kamil11. I cavalieri promessi furono inviati nel convoglio che al ritorno dovevano trasportare la futura imperatrice. Federico stesso impiegò i due anni concessigli per tentare di imporre la propria sovranità sull’Italia settentrionale e collegare così i suoi territori tedeschi con quelli del Mezzogiorno. La risoluta ostilità della Lega lombarda lo ostacolò, ed egli poté soltanto assicurarsi un accettabile compromesso con i lombardi, blandendo il papato mediante nuove dimostrazioni di entusiasmo per la crociata. Ma il suo vecchio precettore, papa Onorio, morì nel marzo del 1127. Il nuovo papa, Gregorio IX, era di una tempra più severa. Era cugino di Innocenzo III, e come lui, uomo dalla mente chiara e legalistica e dalla fede orgogliosa e inflessibile sull’autorità divina del papato. Personalmente severo e ascetico, sentiva avversione per Federico come uomo, e comprese che non poteva esserci nessuna conciliazione tra il cesaropapismo desiderato dall’imperatore e la sua propria concezione dell’autorità papale. La politica, non meno che la religione, esigevano che Federico partisse per l’Oriente12. Federico sembrava pronto a partire. Un gruppo di crociati inglesi e francesi agli ordini dei vescovi di Exeter e di Winchester era già partito per l’Oriente. Durante tutta l’estate del 1227 l’imperatore passò in rivista un grande esercito nelle Puglie. Un’epidemia di malaria indebolì le

truppe, ma parecchie migliaia di soldati salparono da Brindisi in agosto, agli ordini di Enrico IV, duca di Limburgo. Federico raggiunse l’esercito pochi giorni dopo e si imbarcò l’8 settembre. Avevano appena levato l’ancora quando uno dei suoi compagni, Luigi, langravio di Turingia, cadde gravemente ammalato. La loro nave si diresse verso Otranto, dove il langravio morì e Federico stesso prese il contagio. Egli lasciò la flotta, che mandò innanzi verso Acri agli ordini del patriarca di Gerusalemme, Geroldo di Losanna, e andò a rimettersi in salute alle sorgenti minerali di Pozzuoli. Fu spedito un messo a papa Gregorio ad Anagni per spiegargli come il ritardo fosse inevitabile 13. Ma Gregorio non si lasciò convincere da questa scusa: pensò che l’imperatore stesse di nuovo tergiversando. Lo scomunicò subito e in novembre ripeté solennemente la sentenza in San Pietro14. Federico, dopo avere emesso un nobile proclama ai principi d’Europa in cui denunciava le pretese papali, continuò i suoi preparativi per la crociata. Sebbene il papa lo ammonisse che, colpito da anatema, non poteva legittimamente partire per la guerra santa, egli riunì una piccola compagnia e si imbarcò da Brindisi il 28 giugno 122815. Il ritardo, tuttavia, aveva cambiato la sua posizione, poiché l’imperatrice Jolanda era morta. Federico non era più re e marito della regina, ma tutore dell’infante re Corrado, suo figlio. I baroni del regno erano autorizzati, se così desideravano, a rifiutargli la reggenza16. La gioia con cui i principi dell’Oriente franco aspettavano la venuta dell’imperatore non era priva di nubi. Boemondo di Antiochia e di Tripoli era il meno inquieto, poiché non riconosceva nessun signore, salvo, forse, l’imperatore latino di Costantinopoli. Ma Federico poteva reclamare diritti di sovrano su Cipro, perché re Amalrico aveva ottenuto la propria corona dall’imperatore Enrico VI, e, fino alla morte dell’imperatrice (di cui l’Oriente non fu informato se non circa all’epoca del suo arrivo) egli era certamente re di Gerusalemme17. Era già intervenuto negli affari del regno: nel 1226 aveva inviato Tomaso d’Aquino, conte di Acerra, per sostituire Oddone di Montbéliard come reggente. E Tomaso mostrò un vigore ed una decisione nelle sue trattative con l’alta corte che non erano affatto di gradimento dei baroni18. A Cipro, la reggente ufficiale del re bambino, Enrico I, era sua madre Alice di Gerusalemme, che aveva affidato il governo al proprio zio Filippo di Ibelin, secondogenito della regina Maria Comnena. Le relazioni tra la regina ed il suo bali non erano molto buone. Ella si lamentava che i suoi desideri fossero sempre trascurati, e giunse a un’aperta rottura nel 1223, quando Filippo non volle permettere che il clero ortodosso fosse derubato delle sue decime a favore dei latini, come aveva raccomandato il cardinale Pelagio a un consiglio tenutosi a Limassol. La regina era d’accordo con il cardinale e quando non poté imporre il suo punto di vista, si ritirò adirata a Tripoli, dove sposò il maggiore dei figli ancora viventi del principe Boemondo, il futuro Boemondo V19. Nel 1225, quando fu certo che l’imperatore aveva serie intenzioni di partire per l’Oriente, Filippo ordinò l’incoronazione di re Enrico, di otto anni, al fine, se non altro, di impedire che, quando Enrico avesse raggiunto l’età di quindici anni, si prolungasse la reggenza con il pretesto che non era ancora stato incoronato. La regina Alice, sebbene in volontario esilio, si considerava ancora reggente. Il suo tentativo di nominare bali il suo nuovo marito non approdò ad alcun risultato, perché nessuno dei baroni lo volle accettare. Ella allora offrì la carica a uno dei maggiori nobili, Amalrico Barlais, che, sebbene si fosse opposto alla candidatura di Boemondo, l’accettò per sé, soprattutto perché odiava gli Ibelin. Ma i baroni, eccetto un dissenziente, dichiararono che un bali poteva essere nominato soltanto con il consenso dell’alta corte, la quale decise che Filippo continuasse nel suo incarico. Dopo un aperto litigio con i sostenitori degli Ibelin, Barlais si ritirò a Tripoli per aspettare la venuta

di Federico, mentre uno dei suoi amici, Gavino di Chenichy, raggiungeva l’imperatore in Italia 20. Filippo di Ibelin morì nel 1227, e l’alta corte invitò suo fratello maggiore Giovanni, signore di Beirut, a sostituirlo come bali. Sembra che la regina Alice confermasse tale designazione21. Giovanni di Ibelin era in quel momento il più importante personaggio di «Outremer». In Oriente era il più prossimo parente maschio sia del re di Cipro, sia dell’imperatrice regina Jolanda. Era ricco: possedeva la città di Beirut e sua moglie era l’erede di Arsuf. Le sue qualità personali gli meritavano il rispetto generale. La sua nascita, la sua ricchezza e integrità avevano fatto di lui, già da alcuni decenni, il capo riconosciuto della nobiltà di «Outremer». Mezzo franco-levantino e mezzo greco, capiva l’Oriente e le sue popolazioni ed aveva una profonda conoscenza della storia e delle leggi del regno franco22. L’imperatore Federico si accorse subito che egli rappresentava il pericolo principale per la sua politica. Anche Federico capiva l’Oriente ed i suoi popoli per il tirocinio avuto in Sicilia. Il suo modo di trattare i musulmani era di un genere che i baroni stabiliti in «Outremer» potevano seguire con simpatia, ma la concezione della monarchia che Federico aveva non corrispondeva alla loro. Il re di Gerusalemme era per tradizione un re vincolato ad una costituzione, poco più che un presidente dell’alta corte ed un comandante in capo. Ma Federico si vedeva come un autocrate nello stile romano-bizantino, il depositario del potere e della legge, il supremo vicario di Dio in terra, con tutti i vantaggi, per di più, che potevano derivargli dal diritto ereditario. L’imperatore dei romani non era disposto a lasciarsi controllare da pochi insignificanti baroni franchi. Barlais ed il suo gruppo erano già in contatto con Federico prima che egli arrivasse davanti a Limassol il 21 luglio 1228. Per loro consiglio, egli convocò subito Giovanni di Ibelin con i suoi figli e il giovane re di Cipro per incontrarsi con lui. Gli amici di Giovanni lo avvertirono della reputazione di perfidia di Federico; ma egli era coraggioso e corretto: non avrebbe rifiutato un invito dal sovrano di Cipro. Al suo arrivo con i suoi figli e con il re, Federico lo ricevette con grandi onori chiamandolo zio ed offrendogli ricchi doni. Gli fu detto di mettere da parte il lutto che portava per suo fratello Filippo e di partecipare ad una festa data in suo onore. Ma durante la festa entrarono surrettiziamente i soldati di Federico e si disposero dietro ogni ospite, con le spade sguainate. L’imperatore chiese allora a Giovanni di rinunziare al suo feudo di Beirut e di consegnargli tutte le rendite di Cipro, incassate dopo la morte di re Ugo. Giovanni replicò che Beirut gli era stata data da sua sorella, la regina Isabella, e che avrebbe difeso i suoi diritti sulla città davanti all’alta corte del regno di Gerusalemme. In quanto alle rendite, sia Filippo, sia egli stesso le avevano consegnate, come era giusto, alla reggente, la regina Alice. Federico esplose in aperte minacce, ma Giovanni fu irremovibile. Non voleva che si dicesse, dichiarò, che aveva rifiutato di aiutare l’imperatore nella sua crociata, ma non intendeva infrangere le leggi del paese neppure a rischio della propria vita. Federico, che aveva soltanto tre o quattromila soldati con sé, non osò correre il rischio di un’aperta rottura. Pretese che venti nobili, tra cui i due figli di Giovanni, gli fossero lasciati come ostaggi, che il re rimanesse con lui, e che Ibelin lo seguisse in Palestina. In cambio Giovanni ed i nobili ciprioti riconobbero Federico, come era giusto, quale sovrano di Cipro, ma non come reggente - poiché la regina Alice era la legittima titolare di quella carica - e inoltre come reggente di Gerusalemme, ma non come re; poiché essi sapevano ormai che Jolanda era morta e che re era suo figlio Corrado23. L’imperatore aveva frattanto convocato a Cipro i più importanti capi di «Outremer». In agosto giunse Baliano, signore di Sidone, con un contingente di truppe dal continente e poco dopo Guido Embriaco di Jebail, che detestava gli Ibelin, e a cui Federico chiese in prestito, come aveva fatto pochi anni prima Leopoldo d’Austria, una grossa somma di denaro. Con questi rinforzi l’imperatore

marciò su Nicosia. Durante il viaggio fu raggiunto da Boemondo IV di Antiochia. Giovanni di Ibelin si ritirò prudentemente nel castello che i greci chiamavano i Picchi Gemelli, Didymi, ed i franchi Dieu d’Amour e che noi oggi chiamiamo Sant’Ilario. Vi aveva già mandato le donne e i bambini della sua famiglia con un’ampia scorta di provviste. La legge feudale stabiliva che, durante una reggenza, i baroni non potessero essere espulsi dai castelli affidati loro dal defunto monarca. Federico in quel momento non si proponeva di violare la legge, essendo ansioso di proseguire per la Palestina. Sembra che Baliano di Sidone, nipote di Giovanni, avesse agito come mediatore. Fu stabilito che il re avrebbe reso omaggio all’imperatore e che tutti i ciprioti gli avrebbero giurato fedeltà di vassalli riconoscendolo come sovrano. Sebbene soltanto Alice fosse riconosciuta come reggente, Federico avrebbe designato dei bali per governare il paese e Giovanni sarebbe andato in Palestina per difendere il suo diritto su Beirut davanti all’alta corte. Tutti gli ostaggi dovevano essere rilasciati. Raggiunto questo accordo, dopo che si fu giurato di conservare la pace, l’imperatore salpò da Famagosta il 3 settembre accompagnato dal re, dagli Ibelin e dalla maggior parte dei baroni di Cipro. Amalrico Barlais fu lasciato come bali con Gavino di Chenichy e gli altri suoi amici come aiutanti24. Federico aveva pure suggerito che Boemondo gli rendesse omaggio per Tripoli ed Antiochia. Ma questi simulò un improvviso collasso nervoso e se la svignò segretamente andandosene a casa, dove guari in modo singolarmente rapido25. Quando l’imperatore e i suoi compagni arrivarono ad Acri, Giovanni di Ibelin si precipitò subito a Beirut per assicurarsi che potesse resistere ad un attacco di Federico. Poi ritornò ad Acri per difendersi davanti all’alta corte. Ma l’imperatore non aveva fretta di passare all’azione. Erano giunte in Palestina notizie secondo le quali il papa l’aveva scomunicato di nuovo, perché era partito per la crociata prima di avere ottenuto l’assoluzione dalla scomunica precedente. C’era perciò qualche dubbio se i giuramenti di vassallaggio resigli fossero veramente validi; molte persone pie, tra cui il patriarca Geroldo, rifiutarono di collaborare con lui. I templari e gli ospitalieri non volevano aver nulla a che fare con uno scomunicato. Egli poteva fare assegnamento soltanto sui cavalieri teutonici il cui maestro, Ermanno di Salza, era suo amico. Il suo proprio esercito non era numeroso. Delle truppe partite con il duca di Limburgo nel 1227, molti erano già ritornati in patria, per impazienza o per timore di offendere la Chiesa. Pochi altri erano salpati per l’Oriente con il patriarca un mese dopo, e Federico si era fatto precedere nella primavera del 1228 da cinquecento cavalieri agli ordini di un suo fedele servitore, il maresciallo Riccardo Filangieri. Neppure includendo tutto l’esercito di «Outremer» Federico era in grado di raccogliere una forza imponente, tale da vibrare un colpo decisivo contro i musulmani. Ad accrescere la sua inquietudine giunse dall’Italia la voce che l’attacco del suo luogotenente, il duca Rinaldo di Spoleto, contro la marca di Ancona era fallito e che il papa stava ammassando forze per invadere il suo regno. Federico non poteva dunque permettersi di intraprendere una vasta campagna in Oriente: la sua crociata doveva essere una crociata diplomatica26. Per l’imperatore fu una fortuna che il sultano al-Kamil avesse dei punti di vista simili ai suoi. L’alleanza dei tre fratelli ayubiti al-Kamil, al-Muazzam di Siria e al-Ashraf dello Jezireh non era durata a lungo dopo il loro trionfo sulla quinta crociata. Al-Muazzam era sempre stato invidioso di al-Kamil ed ora sospettava con ragione che questi ed al-Ashraf stessero progettando di dividersi le sue terre. Ad oriente dei territori ayubiti stava giungendo al suo apogeo il grande impero khwarizmiano di Jelal ad-Din. Costui aveva respinto un’invasione mongolica ed estendeva ora il suo regno dall’Azerbaigian all’Indo, dominando il califfo di Bagdad. Sebbene la presenza dei mongoli alle sue spalle lo trattenesse dall’avventurarsi troppo lontano verso occidente, era un pericolo

potenziale per gli Ayubiti, e quando al-Muazzam per contrariare i suoi fratelli, gli si rivolse per aiuto e nel 1226 ne riconobbe la sovranità, al-Kamil fu veramente spaventato. Al-Ashraf era sulla difensiva: stava resistendo a un assedio posto alla sua capitale, Akhlat. In quel momento i mongoli erano impegnati in Cina ed un appello rivolto a loro, anche supponendo che una cosa simile fosse prudente, sarebbe rimasto inascoltato. Perciò nell’autunno del 1226 al-Kamil aveva inviato in Sicilia uno dei suoi emiri più fidati, Fakhr ad-Din ibn as-Shaikh, per chiedere aiuto all’imperatore Federico. Questi si dimostrò comprensivo, ma non fece promesse. In quel momento stava ancora pensando di condurre una crociata attiva. Ma, per mantenere aperti i negoziati, inviò al Cairo Tomaso di Acerra, che si trovava già in Palestina, assieme al vescovo di Palermo, con doni e messaggi amichevoli per il sultano. Al-Kamil fece capire, come aveva fatto durante la quinta crociata, che era pronto a restituire Gerusalemme ai cristiani. Ma questa, disgraziatamente, apparteneva a suo fratello al-Muazzam e quando il vescovo di Palermo si recò a Damasco per confermare l’accordo, al-Muazzam replicò adirato di non volere la pace, ben sapendo ancora maneggiare la spada. Nel frattempo Fakhr ad-Din tornò in Sicilia, dove diventò amico intimo dell’imperatore e ricevette da lui il titolo di cavaliere. La partenza di Federico per l’Oriente, per la quale il papa faceva tante incalzanti pressioni, era ugualmente sollecitata dal sultano27. Ma prima che Federico partisse la situazione era già cambiata. Al-Muazzam era morto l’11 novembre 1227, lasciando i propri domini a un giovane di ventun anni, suo figlio an-Nasir Dawud. Poiché il nuovo principe era debole e senza esperienza, al-Kamil si preparò subito ad annettersi il suo territorio ed invase la Palestina conquistando Gerusalemme e Nablus. An-Nasir rivolse un appello a suo zio al-Ashraf, che accorse in suo aiuto, proclamando di voler evitare che i franchi approfittassero della situazione per annettere la Palestina. Al-Kamil a gran voce affermava la stessa cosa, e ciò sembrava plausibile, dato che Federico era ormai in viaggio per l’Oriente. Alla fine i due fratelli si incontrarono a Tel-Ajul, vicino a Gaza, e decisero di dividersi le terre del nipote, affermando ancora solennemente di operare così nell’interesse dell’Islam. An-Nasir era accampato a Beisan, dove al-Ashraf progettò di catturarlo, ma il giovane ebbe sentore del complotto e fuggì a Damasco. Gli eserciti dei suoi zii lo inseguirono e posero l’assedio alla città verso la fine dell’anno 122828. In tali circostanze al-Kamil si rammaricava della venuta di Federico. Aveva grandi probabilità di potersi impadronire definitivamente della Palestina, poiché i khwarizmiani non davano segno di voler accorrere in aiuto di an-Nasir ; ma la presenza di un esercito crociato ad Acri significava per lui l’impossibilità di concentrare tutte le proprie forze nell’assedio di Damasco. Non ci si poteva fidare interamente di Federico; poteva anche decidere di intervenire in favore di an-Nasir. Quando l’imperatore inviò Tomaso di Acerra a Baliano di Sidone per annunciare ad al-Kamil il suo arrivo, questi ordinò a Fakhr ad-Din di recarsi ancora una volta da lui, per intavolare trattative e tirarle il più- a lungo possibile, finché Damasco fosse caduta o Federico stesso fosse tornato in patria. Seguirono parecchi mesi di mercanteggiamenti in un’atmosfera fatta in parte di reciproco inganno, in parte di mutua ammirazione. Né l’imperatore, né il sultano erano fanaticamente devoti alla propria religione. Ognuno era interessato al mondo e ai costumi dell’altro. Nessuno dei due era disposto a fare la guerra se poteva evitarla; ma entrambi, per salvare il proprio prestigio dinanzi ai propri popoli, dovevano ottenere dal trattato i maggiori vantaggi possibili. Federico aveva poco tempo e un esercito non abbastanza numeroso per una campagna di qualche importanza; ma finché Damasco non fosse stata conquistata ogni dimostrazione di forza allarmava al-Kamil, che era pronto a fare concessioni ai cristiani, se ciò l’avesse aiutato a proseguire nella sua politica di più ampio respiro, consistente nel riunire e dominare tutto il mondo ayubita. Le concessioni, però, non dovevano essere

eccessive. Quando Federico chiese la restituzione di tutta la Palestina, Fakhr ad-Din gli disse, secondo le istruzioni di al-Kamil, che il suo signore non poteva permettersi di offendere l’opinione pubblica musulmana fino a quel punto. Alla fine di novembre del 1228, l’imperatore cercò di affrettare le cose con uno spiegamento di forze. Riunì tutte le truppe che vollero seguirlo e marciò lungo la costa fino a Giaffa, disponendosi a ricostruirne le fortificazioni. Nello stesso tempo an-Nasir, che non era strettamente accerchiato in Damasco, condusse un esercito a Nablus per interrompere le linee di rifornimento di suo zio. Ma alKamil non si lasciò ingannare. Interruppe le trattative dicendo che gli uomini di Federico avevano saccheggiato villaggi musulmani e le riprese soltanto quando l’imperatore ebbe pagato un’indennità alle vittime29. Alla fine Federico risultò il miglior negoziatore. Quando si giunse a febbraio, an-Nasir era ancora sano e salvo in Damasco ed il khwarizmiano Jelal ad-Din stava di nuovo volgendo la sua attenzione verso occidente. Federico aveva completato le fortificazioni di Giaffa e, per consiglio di Fakhr ad-Din, inviò ancora una volta Tomaso di Acerra a Baliano di Sidone presso al-Kamil. L’11 febbraio essi tornarono con le proposte definitive del sultano. L’imperatore le accettò e una settimana dopo, il 18 febbraio, firmò un trattato di pace insieme con i rappresentanti di al-Kamil: Fakhr ad-Din e Salah ad-Din di Arbela. Furono testimoni il gran maestro dell’ordine teutonico e i vescovi di Exeter e di Winchester. Con questo trattato il regno di Gerusalemme otteneva la città santa e Bedemme con un corridoio che, passando per Lydda, raggiungeva il mare a Giaffa, e inoltre Nazaret e la Galilea occidentale, inclusi Montfort e Toron, e i rimanenti distretti musulmani intorno a Sidone. Però, in Gerusalemme, l’area del Tempio, con la cupola della Roccia e la moschea al-Aqsa, doveva rimanere nelle mani dei musulmani, ai quali si concedeva diritto di accesso e libertà di culto. Federico poteva ricostruire le mura di Gerusalemme, ma la concessione era fatta a lui personalmente. Tutti i prigionieri di ambedue le parti dovevano essere rilasciati. La pace doveva durare dieci anni, secondo il calendario cristiano, e dieci anni e cinque mesi, secondo quello musulmano. Ma la tregua non si applicava al principato di Boemondo di Antiochia-Tripoli30. Cosi, senza colpo ferire, l’imperatore scomunicato aveva riguadagnato alla cristianità i Luoghi Santi. Raramente un trattato suscitò una riprovazione così immediata e universale. Il mondo musulmano ne fu scandalizzato. A Damasco, an-Nasir, non senza soddisfazione, ordinò lutto pubblico per il tradimento dell’Islam. Perfino gli imami stessi di al-Kamil lo insultarono in faccia; né la sua debole replica: aver ceduto soltanto case e chiese in rovina, mentre i santuari musulmani erano intatti e preservati alla fede, era di scarsa consolazione. Neppure la sua osservazione che i musulmani erano ancora strategicamente padroni della provincia sembrò una giustificazione soddisfacente31. I cristiani, d’altra parte, si rendevano ben conto della situazione strategica. I più intransigenti fra loro deploravano che Gerusalemme non fosse stata riconquistata con la spada ed erano disgustati dal fatto che gli infedeli conservassero i loro santuari; tutti ricordavano le trattative della quinta crociata, quando l’offerta di al-Kamil di cedere tutta la Palestina era stata respinta perché i capi militari avevano messo in evidenza che non si poteva difendere Gerusalemme senza la Transgiordania. Come poteva allora essere conservata quando soltanto una stretta striscia di terra la collegava con la costa? Non vi fu ombra di festeggiamenti, nonostante l’attesa di Federico: nessuno propose che si levasse la scomunica all’uomo che aveva reso un così segnalato servizio alla cristianità. Il patriarca Geroldo proclamò la sua disapprovazione e lanciò l’interdetto contro la città santa nel caso che essa accogliesse l’imperatore. I templari, furiosi perché il tempio rimaneva ai musulmani, elevarono la loro protesta. Né essi, né gli ospitalieri volevano mantenere rapporti con il nemico del papa. I baroni

locali, già risentiti per l’assolutismo di Federico, erano allarmati per l’assurdità della nuova frontiera, e la loro avversione per l’imperatore si accrebbe quando egli annunziò che sarebbe andato a Gerusalemme per esservi incoronato re. Perché, in realtà, egli non era il loro re, ma soltanto il reggente e padre del re32. Il sabato 17 marzo 1229 Federico fece il suo ingresso solenne in Gerusalemme. Era scortato dalle sue truppe tedesche e italiane, ma da pochissimi nobili indigeni. Tra gli ordini militari soltanto i cavalieri teutonici erano rappresentati; e non vi erano membri del clero, salvo i vescovi siciliani di Federico ed i suoi amici inglesi Pietro di Winchester e Guglielmo di Exeter. L’imperatore fu ricevuto alla porta dal cadì Shams ad-Din di Nablus che gli consegnò le chiavi della città in nome del sultano. Il piccolo corteo passò poi attraverso le strade deserte fino al vecchio edificio dell’Ospedale, dove Federico fissò la propria residenza. Non c’era nessun segno d’entusiasmo. I musulmani avevano abbandonato la città, eccetto i loro santuari. I cristiani nativi si tenevano in disparte, temendo con ragione che una restaurazione latina portasse loro poco o nulla di buono. Gli stessi compagni di Federico erano imbarazzati per la sua scomunica; e quando si seppe che l’arcivescovo di Cesarea era in viaggio con ordini del patriarca di mettere la città sotto l’interdetto, vi fu a corte incertezza ed esitazione. La mattina seguente, domenica 18, Federico andò ad assistere alla messa nella chiesa del Santo Sepolcro, ma non c’era neanche un prete: soltanto le sue proprie truppe e i cavalieri teutonici. Senza lasciarsi impressionare, egli aveva fatto collocare sull’altare del Calvario una corona reale che egli stesso sollevò e si pose in capo. Quindi il maestro dei cavalieri teutonici lesse, dapprima in tedesco poi in francese, un encomio dell’imperatore e re, descrivendone le imprese e giustificando la sua politica. La corte poi tornò all’Ospedale; e Federico tenne un consiglio per discutere sulla difesa di Gerusalemme. Il gran maestro dell’Ospedale e il precettore del Tempio, che a prudente distanza avevano seguito l’imperatore in città, acconsentirono ad essere presenti in compagnia dei vescovi inglesi e di Ermanno di Salza. Federico ordinò che si riparassero subito la torre di Davide e la porta di Santo Stefano e consegnò all’Ordine teutonico la residenza reale annessa alla torre. Ad eccezione dei teutoni, aveva trovato poca collaborazione33. Con sollievo Federico si distolse dal suo lavoro per visitare i santuari musulmani. Il sultano, con molto tatto, aveva ordinato al muezzin di al-Aqsa di non lanciare il richiamo alla preghiera mentre il sovrano cristiano si trovava nella città. Ma Federico protestò. I musulmani non dovevano cambiare le loro abitudini a causa sua. Inoltre, egli disse, era venuto a Gerusalemme per udire il richiamo del muezzin nella notte. Mentre entrava nell’area sacra dello Haram as-Sharif si accorse che un ecclesiastico cristiano lo stava seguendo. Egli stesso lo cacciò subito violentemente e diede ordine che ogni prete cristiano che ne oltrepassasse la soglia senza autorizzazione dei musulmani fosse messo a morte. Mentre camminava intorno alla cupola della Roccia notò l’iscrizione che Saladino aveva fatto collocare in mosaico intorno alla cupola per ricordare la purificazione dell’edificio dai politeisti. «Chi mai potevano essere i politeisti?» chiese l’imperatore con un sorriso. Fece commenti sulle inferriate alle finestre e gli fu detto che erano state messe per tener fuori i passeri. «Dio, ora, vi ha inviato i porci», disse, usando il termine musulmano volgare per i cristiani. Si osservò che nel suo seguito c’erano musulmani, tra gli altri il suo professore di filosofia, un arabo della Sicilia. I musulmani erano interessati dall’imperatore, ma non molto colpiti. Il suo aspetto li deluse. Dicevano che non sarebbe costato più di duecento dirhems al mercato degli schiavi, con la sua rossa faccia liscia e gli occhi miopi. Si sentivano a disagio per le osservazioni che egli faceva contro la sua stessa fede. Potevano rispettare un onesto cristiano; ma un franco che disprezzava il cristianesimo e mostrava un rozzo ossequio verso l’Islam risvegliava i loro sospetti. Può darsi che avessero udito

l’osservazione universalmente attribuitagli: che Mosè, Cristo e Maometto erano tutti e tre degli impostori. Ad ogni modo sembrava un uomo senza religione. L’illuminato Fakhr ad-Din, con cui egli aveva spesso discusso di filosofia nel palazzo di Acri, rimase preso dal suo fascino, ed il sultano alKamil, la cui posizione filosofica era simile alla sua, lo considerava con affettuosa ammirazione, specialmente quando Fakhr ad-Din gli riferì che Federico gli aveva confidato che non avrebbe mai insistito per la cessione di Gerusalemme se non fosse stato in gioco tutto il suo prestigio. Ma i pii musulmani ed i cristiani devoti consideravano con uguale sospetto tutta la faccenda: un manifesto cinismo non conquista mai i cuori del popolo34. Il lunedì 19 giunse Pietro di Cesarea per lanciare l’interdetto del patriarca su Gerusalemme. Furibondo per l’insulto patito Federico abbandonò subito ogni ulteriore lavoro per la difesa della città e, raccolti assieme tutti i suoi uomini, si affrettò a scendere a Giaffa. Vi si trattenne un giorno, poi risalì la costa fino ad Acri, dove arrivò il 23. Trovò la città in agitazione per il malcontento. I baroni non potevano perdonargli di essersi fatto beffe della costituzione: sebbene infatti fosse soltanto reggente egli aveva concluso un trattato senza il loro consenso e si era incoronato re. Ci furono risse tra gli armati di Acri e la guarnigione dell’imperatore. I coloni genovesi e veneziani erano offesi per i favori mostrati ai pisani, la cui città era uno dei pochi fedeli alleati di Federico in Italia. Il ritorno dell’imperatore accrebbe soltanto il risentimento dell’ambiente35. La mattina seguente Federico convocò i rappresentanti di tutto il regno perché si incontrassero con lui e fece loro una relazione delle sue imprese. Le sue parole suscitarono disapprovazione ed ira. Egli allora ricorse alla forza: dispose un cordone di soldati intorno al palazzo del patriarca e intorno al quartier generale dei templari, e mise guardie alle porte della città, in modo che nessuno potesse entrare o uscire senza autorizzazione. Correva voce che volesse confiscare la grande fortezza dei templari ad Athlit, ma apprese che la guarnigione era troppo forte. Considerò anche la possibilità di rapire Giovanni di Ibelin ed il gran maestro del Tempio, per inviarli nelle Puglie; ma tutti e due si tenevano ben protetti ed egli non tentò il colpo. Nel frattempo, però, ricevette gravi notizie dall’Italia, dove suo suocero, Giovanni di Brienne, aveva invaso i suoi Stati alla testa di un esercito papale. Non poteva rimandare più a lungo la partenza dall’Oriente. Con le scarse truppe che aveva in Siria gli era impossibile schiacciare i suoi avversari; perciò scese al compromesso. Annunciò la sua prossima partenza e designò come bali del regno Baliano di Sidone e Garnier il Tedesco. Baliano era noto per il suo atteggiamento moderato e sua madre era una Ibelin. Garnier, nonostante la sua origine tedesca, era stato luogotenente di re Giovanni di Brienne. Oddone di Montbéliard fu lasciato come conestabile del regno a capo dell’esercito. Queste nomine rappresentavano in realtà una sconfitta per l’imperatore. Egli sapeva di aver perduto e, per evitare scene umilianti, decise di imbarcarsi il 1° maggio all’alba, quando nessuno sarebbe stato in giro per le strade. Ma mentre si dirigeva con il suo seguito verso il porto scendendo per la via dei Beccai, la gente si accalcò fuori delle porte e gli lanciò budella di animali e sterco. Giovanni di Ibelin e Oddone di Montbéliard udirono il tumulto e si precipitarono a ristabilire l’ordine. Ma quando formularono un cortese arrivederci all’imperatore sulla sua galea, egli rispose borbottando imprecazioni36. Da Acri Federico salpò per Limassol e si trattenne per circa dieci giorni a Cipro confermando che i bali dovevano essere Amalrico Barlais ed i suoi quattro amici, Gavino di Chenichy, Amalrico di Beisan, Ugo di Jebail e Guglielmo di Rivet. Affidò loro la persona del re. Allo stesso tempo combinò un matrimonio tra il giovane sovrano ed Alice del Monferrato, il cui padre era uno dei suoi fedeli sostenitori in Italia. Il 10 giugno 1229 sbarcava a Brindisi37.

Fra tutti i grandi crociati l’imperatore Federico II è il più deludente. Era un uomo molto brillante che conosceva la mentalità dei musulmani e poteva valutare le complicazioni della loro diplomazia; capi che, se l’Oriente franco doveva continuare ad esistere, era necessaria qualche intesa tra loro e i cristiani. Ma non seppe comprendere l’«Outremer» franco. Le esperienze ed i successi dei suoi antenati normanni, il suo proprio temperamento e la sua concezione dell’Impero lo portavano a cercare di costruire un’autocrazia centralizzata. Trovò che era un’impresa troppo ardua in Europa, all’infuori delle sue terre italiane. Avrebbe potuto compierlo a Cipro se avesse scelto meglio i suoi strumenti. Ma nel ristretto regno di Gerusalemme l’esperimento era condannato al fallimento. Il regno era poco più che un gruppo di città e castelli, precariamente tenuti insieme senza una frontiera difendibile. Un governo centralizzato era ormai impossibile. Per quanto insulse fossero le reciproche invidie e dispute delle autorità locali, a queste ultime andava affidato il governo, sotto la guida di un capo abile e rispettato. Queste autorità erano i nobili laici e gli ordini militari. Federico si alienò i primi calpestando i diritti e le tradizioni di cui erano orgogliosi. Gli ordini militari erano ancor più importanti perché, da quando i cavalieri laici preferivano cercar fortuna nella Grecia franca, essi soltanto potevano fornire reclute che combattessero e si stabilissero in Oriente. Ma, sebbene i loro maestri sedessero nel consiglio del re ed essi gli obbedissero come comandante in capo sul campo di battaglia, tuttavia dovevano fedeltà soltanto al papa. Non ci si poteva aspettare che aiutassero un principe che il papa aveva scomunicato e stigmatizzato come nemico della cristianità. Soltanto i cavalieri teutonici, il cui ordine era il meno importante dei tre, erano pronti a sfidare l’anatema papale a causa dell’amicizia del loro maestro per l’imperatore. Fu molto notevole il fatto che su basi così precarie ed avendo provocato contro di sé tanto odio Federico riuscisse ad ottenere un successo diplomatico così sorprendente come la restituzione di Gerusalemme38. Di fatto però la rioccupazione della Città Santa era di ben poca utilità per il regno. A causa dell’affrettata partenza di Federico rimase una città aperta. Era impossibile controllare la strada dalla costa a Gerusalemme e i banditi musulmani derubavano continuamente e perfino uccidevano i pellegrini. Poche settimane dopo che Federico ebbe lasciato il paese, alcuni fanatici imami musulmani di Hebron e Nablus organizzarono un’incursione contro la città. I cristiani di tutti i riti si rifugiarono nella torre di Davide, mentre il governatore, Rinaldo di Haifa, mandava a chiedere aiuti ad Acri. L’arrivo dei due bali, Baliano di Sidone e Garnier, con un esercito obbligò i razziatori a ritirarsi. Le autorità musulmane negarono di essere in qualche modo coinvolte nella scorreria, e quando venne lasciata in città una guarnigione più numerosa e furono costruite alcune piccole fortificazioni ci fu un po’ più di sicurezza. Il patriarca tolse l’interdetto e venne a risiedervi una parte dell’anno. Ma la situazione era precaria: il sultano avrebbe potuto riconquistare Gerusalemme quando avesse voluto. In Galilea, dove vennero ricostruiti i castelli di Montfort e di Toron, la posizione dei cristiani era più forte. Ma con i musulmani a Safed e Banyas non c’era nessuna garanzia di potervi rimanere stabilmente39. La cosa più importante che Federico lasciava dietro di sé, sia a Cipro, sia nel regno di Gerusalemme, era un’aspra guerra civile. A Cipro cominciò subito. I cinque bali avevano ricevuto istruzioni di esiliare dall’isola tutti gli amici degli Ibelin. Avevano pure accettato di pagare a Federico una somma di diecimila marchi, ed i castelli ancora occupati dalle truppe imperiali non sarebbero stati loro restituiti finché non avessero pagato una prima rata. Essi raccolsero il denaro imponendo pesanti tasse e confiscando le proprietà del gruppo degli Ibelin. Accadde che uno dei più devoti sostenitori di Giovanni di Beirut, lo storico e poeta Filippo di Novara, si trovasse nell’isola e che i bali gli offrissero un salvacondotto per andare a Nicosia e discutervi una qualche sorta di

tregua tra loro stessi e gli Ibelin. Ma quando Filippo arrivò, cambiarono idea e lo arrestarono. Dopo una scenata alla presenza del re bambino, che conosceva bene Filippo, ma non poteva intervenire, i bali gli concessero libertà provvisoria dietro cauzione ed egli fuggì alla casa degli ospitalieri; saggiamente, poiché uomini armati irruppero nella sua propria casa quella stessa notte. Egli mandò a Giovanni di Ibelin ad Acri un appello, scritto in versi zoppicanti, affinché venisse a liberarlo ed a salvare i beni di tutti i suoi amici. Giovanni equipaggiò senza indugi una spedizione a proprie spese e riuscì a forzare uno sbarco a Gastria, a nord di Famagosta. Poi mosse cautamente su Nicosia, dove si incontrò con l’esercito dei bali molto più numeroso del suo, ma meno entusiasta. Dopo alcuni tentativi di negoziato, gli Ibelin diedero battaglia il 14 luglio. Un impetuoso attacco dei cavalieri di Giovanni, guidati da suo figlio Baliano, combinato con una sortita dell’Ospedale, organizzata da Filippo di Novara, decise la giornata. I bali fuggirono con le loro truppe ai tre castelli di Dieu d’Amour, Kantara e Kyrenia, dove Giovanni li seguì cingendo d’assedio le tre fortezze. Kyrenia fu conquistata subito, ma Dieu d’Amour, dove Barlais aveva condotto il re e le sue sorelle, e così pure Kantara erano quasi inespugnabili. Esse si arresero soltanto nell’estate del 1230, per fame. Le condizioni di pace di Giovanni furono generose. Dei cinque bali Gavino di Chenichy era stato ucciso a Kantara e Guglielmo di Rivet, suo fratellastro, era fuggito da Kyrenia per cercare aiuto in Cilicia e vi era morto. Gli altri tre furono lasciati impuniti, con grande contrarietà di molti amici di Giovanni. Questi non volle nemmeno permettere a Filippo di Novara di comporre un poema satirico su di loro. In nome del re fu inviato un messaggero ai principi d’Europa per giustificare i provvedimenti presi contro l’imperatore. Giovanni stesso assunse il governo, finché re Enrico non avesse raggiunto la maggiore età nel 123240. Nel frattempo il regno di Gerusalemme era pacificamente governato da Baliano di Sidone e da Garnier il Tedesco. Nell’autunno del 1229 la regina Alice di Cipro si era presentata ad Acri come pretendente alla corona. La reggenza di Cipro, da lei ancora nominalmente conservata, non le dava altro che fastidi. Aveva divorziato dal giovane Boemondo di Antiochia per motivi di consanguineità, come cugini in terzo grado. Ora ella dichiarava che, sebbene Corrado, figlio dell’imperatore, fosse legalmente re di Gerusalemme, aveva perduto i suoi diritti per non essere venuto nel suo regno. L’alta corte doveva perciò trasmettere la corona al più prossimo erede legittimo, cioè a lei stessa. La corte respinse la sua richiesta. Corrado era minorenne, perciò la sua presenza non era essenziale; ma fu convenuto di mandare un’ambasceria in Italia per chiedere che Corrado fosse inviato entro un anno in Oriente, affinché si potesse rendere omaggio a lui in persona. Federico replicò che avrebbe fatto ciò che credeva meglio41. Il 23 luglio 1230 l’imperatore fece la pace con il papa mediante il trattato di San Germano. Nel complesso era riuscito vincitore in Italia ed era pronto a fare concessioni sulla questione del controllo della Chiesa in Sicilia pur di essere assolto dalla sua scomunica. La riconciliazione con il papato rafforzava il suo potere in Oriente. Al patriarca Geroldo venne ordinato di togliere l’interdetto a Gerusalemme e fu rimproverato per averlo lanciato senza essersi consultato con Roma. Gli ordini militari non si sentirono più obbligati a tenersi in disparte, e i baroni non poterono più contare sull’appoggio degli ecclesiastici42. L’imperatore aspettava la sua ora. Nell’autunno del 1231, dicendo al papa che doveva inviare un esercito per la difesa di Gerusalemme, mise insieme circa seicento cavalieri, cento sergenti, settecento fanti armati e tremila soldati di marina e li spedì, in trentadue galee, agli ordini del suo maresciallo, il napoletano Riccardo Filangieri, che ebbe il titolo di legato imperiale43. Giovanni di Ibelin si trovava ad Acri quando uno dei suoi agenti, giunto dall’Italia su una nave

appartenente ai cavalieri teutonici, lo avverti dell’avvicinarsi di quella flotta. Egli suppose che il primo obiettivo sarebbe stato Cipro e si affrettò a radunare tutti i suoi uomini da Beirut, lasciando soltanto una piccola guarnigione nel castello e fece vela per Cipro. Quando la flotta imperiale arrivò davanti alle coste dell’isola, Filangieri apprese che Giovanni si trovava con re Enrico a Kiti e che Battano di Ibelin teneva Limassol. Egli inviò un ambasciatore ad incontrarsi con il re e a recargli un messaggio da parte di Federico, il quale gli ordinava di esiliare gli Ibelin e di confiscare le loro terre. Enrico rispose che Giovanni era suo zio e che in ogni caso non avrebbe spossessato i suoi propri vassalli. Barlais, che era presente e parlò senza riserve per Federico, sarebbe stato linciato dalla folla, se Giovanni non lo avesse salvato. Al ritorno del suo ambasciatore, Filangieri salpò direttamente per Beirut. La città, che era senza guarnigione, gli fu consegnata dal suo timoroso vescovo, ed egli cominciò ad assediare il castello. Lo lasciò strettamente accerchiato e occupò Sidone e Tiro giungendo poi ad Acri. Qui convocò una riunione dell’alta corte, a cui mostrò le lettere di Federico che lo designavano come bali. I baroni confermarono la nomina, al che Filangieri proclamò la confisca delle terre degli Ibelin. A questo punto tutti i baroni protestarono: i possedimenti non potevano essere confiscati a meno che lo decidesse l’alta corte dopo aver dato al proprietario la possibilità di difendersi. Filangieri replicò con arroganza che egli era il bali dell’imperatore e che ne avrebbe mandato ad effetto le istruzioni. Una violazione così grossolana della costituzione scandalizzò perfino i moderati come Baliano di Sidone e Oddone di Montbéliard disposti, fino a quel momento, a sostenere l’imperatore. I baroni al completo passarono dalla parte di Giovanni di Ibelin. I mercanti di Acri, tra cui Giovanni era popolare e che si sentivano offesi dai metodi arbitrari di Filangieri, si aggiunsero ai sostenitori di Ibelin. Molti di loro, insieme con alcuni pochi nobili, appartenevano ad una confraternita religiosa dedicata a sant’Andrea. Fondandosi su quella base organizzarono un comune che, sotto la direzione di dodici consoli, rappresentasse tutta la borghesia locale, e invitarono Giovanni di Ibelin ad essere il loro primo podestà. Ma Filangieri era temibile: aveva un buon esercito composto specialmente di lombardi; i cavalieri teutonici e la comunità pisana erano suoi fedeli amici. Il patriarca, gli ospitalieri ed i templari si tenevano in disparte: nessuno di loro si curava di Federico, ma dopo la sua riconciliazione con il papa erano incerti su quale fosse il loro dovere. Quando le notizie dell’attacco contro Beirut giunsero a Cipro, Giovanni di Ibelin chiese a re Enrico di accorrere in suo soccorso con le forze dell’isola. Il giovane re acconsentì ed ordinò all’intero esercito del regno di far vela per il continente. Nel frattempo Giovanni venne informato della sua elezione a podestà di Acri. Sebbene fosse rischioso lasciare Cipro senza difesa, Giovanni credette necessario conservare prima di tutto il continente; e, per precauzione, Barlais ed i suoi amici furono obbligati ad accompagnare la spedizione. Giovanni aveva sperato di partire da Cipro il giorno di Natale del 1231 ; ma a causa del tempo burrascoso, l’esercito non poté salpare da Famagosta fino al 25 febbraio. Le navi fecero una veloce traversata durante un grande temporale e gettarono l’ancora davanti al piccolo porto di Puy du Connétable, poco a sud di Tripoli. Qui Barlais ed i suoi amici, ottanta cavalieri in tutto, sbarcarono segretamente ed andarono a Tripoli, abbandonando il loro equipaggiamento. Filangieri inviò una nave per trasportarli a Beirut. Giovanni li segui, marciando lungo la costa con la maggior parte dei suoi uomini, mentre la flotta cipriota salpava verso sud, ma si imbatté nel maltempo vicino a Botrun. Alcune navi naufragarono, altre furono danneggiate e molto materiale andò perduto. Quando Giovanni passò per Jebail un certo numero di fanti disertarono. Finalmente raggiunse Beirut e si aprì la strada combattendo fino al castello. Di là si appellò ai baroni perché lo liberassero. Molti accorsero, guidati da suo nipote Giovanni di Cesarea. Ma Baliano di Sidone sperava ancora in un compromesso; si precipitò a Beirut

con Garnier, che era stato suo collega come bali, con il patriarca e con i gran maestri dell’Ospedale e del Tempio. Ma Filangieri rifiutò di prendere in considerazione delle condizioni che avrebbero lasciato gli Ibelin in possesso delle loro terre ed i negoziatori non volevano acconsentire a che ne fossero spogliati. Dopo aver rinforzato la sua guarnigione a Beirut, Giovanni andò a Tiro, dove fu bene accolto e guadagnò molte reclute, specialmente tra i genovesi. Inviò pure a Tripoli un’ambasceria, sotto la guida di suo figlio Baliano, per combinare il matrimonio della sorella minore di re Enrico, Isabella, con il secondogenito di Boemondo, Enrico. Ma Boemondo non aveva molta fiducia nella causa degli Ibelin e trattò l’ambasceria con poca cortesia. Filangieri tuttavia era inquieto. Aveva stabilito il suo quartier generale a Tiro lasciando il comando di Beirut a suo fratello Lotario, a cui ordinò allora di levare l’assedio e di raggiungerlo. Nel frattempo Barlais, con rinforzi di truppe lombarde, ritornò a Cipro e cominciò ad invadere l’isola. Uno dopo l’altro i castelli caddero nelle sue mani, eccetto Dieu d’Amour dove si rifugiarono le sorelle del re, e Buffavento, il più inespugnabile di tutti in cui, travestita da monaco, aveva cercato rifugio, con molte provviste, la nobildonna Eschiva di Montbéliard, cugina di re Enrico e nipote di Oddone, che lo tenne per il re. Il suo primo marito, Gualtiero di Montaigu, era stato ucciso dagli uomini di Barlais alla battaglia di Nicosia ed essa aveva da poco sposato Baliano di Ibelin, ma poiché erano cugini il matrimonio era stato tenuto segreto. A Tripoli Baliano udì dell’invasione da due capitani di marina genovesi che gli offrirono aiuto, ma le cui navi erano sequestrate da Boemondo. Alla fine di aprile i genovesi, in cambio di concessioni a Cipro, accettarono di aiutare gli Ibelin in un attacco contro Filangieri a Tiro. L’esercito si diresse a nord verso Casal Imbert, a circa dodici miglia dalla città. Ma qui Giovanni incontrò il patriarca di Antiochia, Alberto di Rezzato, di recente nominato legato papale in Oriente, spintosi a sud per fare da mediatore. Era stato poco prima a Tiro, dove aveva udito le nuove condizioni di Filangieri. Giovanni dichiarò correttamente che esse dovevano essere presentate all’alta corte e cavalcò di ritorno ad Acri con il patriarca, prendendo una scorta che diminuì notevolmente il suo esercito. Tardi nella notte del 2 maggio Filangieri, che sapeva della partenza di Giovanni e che forse l’aveva perfino combinata con il patriarca, usci da Tiro con tutte le sue forze ed investi l’accampamento degli Ibelin, che era senza sospetti e mal sorvegliato. Anselmo di Brie, che aveva il comando assieme con i giovani signori Ibelin, combatté con supremo valore, ma il campo fu conquistato. Il giovane re di Cipro, seminudo, fu portato in salvo in tutta fretta ad Acri. Gli altri scampati si rifugiarono sulla cima di una collina. Filangieri non tentò di sfruttare la sua vittoria, ma si ritirò a Tiro con tutto il bottino, lasciando un contingente di guardia al passo della Scala di Tiro. Giovanni di Ibelin, informato del disastro, tornò rapidamente da Acri e salvò i suoi figli, ma quando cercò di raggiungere il nemico, appesantito dal carico, fu trattenuto al passo. Allora ritornò ad Acri. Nel frattempo Filangieri si imbarcò per Cipro con rinforzi per Barlais. In conseguenza di ciò Giovanni confiscò tutte le navi che si trovavano nel porto di Acri, mentre re Enrico offriva feudi in Cipro ai cavalieri indigeni e persino ai mercanti siriani che si fossero uniti a lui, e prendeva accordi con i genovesi, che lo avrebbero aiutato in cambio dell’esenzione dalle tasse e del diritto di avere i loro propri quartieri a Nicosia, Famagosta e Pafo. Il denaro era scarso; ma Giovanni di Cesarea e Giovanni di Ibelin il giovane, figlio di Filippo, vendettero alcune proprietà in Cesarea ed in Acri ai templari ed agli ospitalieri e prestarono al re i trentunmila bisanti che ne avevano ricavato. Cosi equipaggiati, Giovanni e re Enrico salparono da Acri il 30 maggio. Passarono da Sidone per raccogliere Baliano di Ibelin, che era sulla via del ritorno dalla sua ambasceria a Tripoli, e fecero la

traversata fino a Famagosta. I lombardi di Filangieri erano nella città con duemila caval-leggeri, mentre gli Ibelin ne avevano soltanto 233. Nondimeno Giovanni si arrischiò a sbarcare il grosso delle sue truppe dopo il tramonto su un’isoletta rocciosa appena a sud del porto. Non era sorvegliata perché nessuno pensava che vi si potessero sbarcare dei cavalli. Poi un piccolo distaccamento si introdusse con barche nel porto, lanciando urla così tremende, che i lombardi pensarono che fosse piombato loro addosso un grande esercito, perciò diedero alle fiamme le loro proprie navi ed abbandonarono in tutta fretta la città. Nella mattinata, quando l’esercito di Ibelin attraversò le scogliere verso la terraferma, Famagosta era deserta. Giovanni vi si trattenne appena il tempo necessario al re per compiere la promessa fatta ai genovesi e firmare un trattato con cui assegnava loro un quartiere. Poi l’esercito proseguì per Nicosia. I lombardi si erano resi impopolari nell’isola per la loro condotta brutale e temevano che i contadini si sollevassero contro di loro. Durante la ritirata davanti agli Ibelin incendiarono tutti i granai in cui era appena stato ammassato il nuovo raccolto. Decisero di non difendere Nicosia, ma di continuare la marcia lungo la strada che porta alle colline di Kyrenia, dove sarebbero stati in contatto con Filangieri stesso, che stava assediando Dieu d’Amour, e dove avrebbero avuto le spalle protette da Kyrenia in loro possesso. Si sapeva che la guarnigione di Dieu d’Amour era affamata e sul punto di arrendersi. Se Filangieri poteva tenere impegnati i suoi nemici finché il castello fosse caduto nelle sue mani insieme con le due sorelle del re che vi si trovavano, egli si sarebbe trovato in una posizione di forza per trattare con il sovrano. Gli Ibelin mossero lentamente verso Nicosia, soffrendo per mancanza di cibo; ma nella città stessa trovarono grandi magazzini ignorati dai lombardi. Questo fatto insospettì talmente Giovanni che non volle accampare entro le mura, ma condusse subito il suo esercito, il 15 giugno, verso Kyrenia con l’intenzione di accamparsi ad Agridi, proprio sotto il passo. Temendo ad ogni momento un attacco, l’esercito marciava in ordine di battaglia. Il figlio di Giovanni, Ballano, avrebbe dovuto condurre l’avanguardia, ma era stato scomunicato per aver sposato sua cugina Eschiva, la valorosa signora che osservava tutta la campagna militare dal suo nido di falco a Buffavento, e suo padre non voleva affidargli un alto comando. La prima compagnia era perciò comandata da suo fratello Ugo con Anselmo di Brie. Il terzo figlio di Giovanni, Baldovino, comandava la seconda compagnia, Giovanni di Cesarea la terza e Giovanni di Ibelin stesso la retroguardia, con gli altri suoi figli ed il re. Era un piccolo esercito, così a corto di cavalli che gli scudieri dei cavalieri dovevano combattere a piedi. Ai lombardi che guardavano giù dall’alto del passo, dove il sentiero che viene da Dieu d’Amour raggiunge la strada, essi sembravano disprezzabili. Fu dato l’ordine di attaccarli senza indugio. Il primo squadrone di cavalleggeri lombardi galoppò rombando giù per la collina al comando di Gualtiero, conte di Manupello. Passò lungo il fianco dell’esercito di Ibelin, ma non poté romperne le linee, poi fu trasportato dallo slancio della carica nella pianura sottostante. Giovanni proibì ai suoi uomini di inseguirli; ed i lombardi non osarono tornare indietro e cavalcare su per il ripido pendio, ma galopparono avanti verso oriente senza mai fermarsi finché giunsero a Gastria. Il secondo squadrone lombardo, agli ordini del fratello di Gualtiero, Berardo, caricò direttamente contro le linee comandate da Ugo di Ibelin e da Anselmo di Brie. Ma il pendio della collina scabroso e pieno di rocce era difficile per i cavalli. Molti incespicarono disarcionando i cavalieri, troppo pesantemente armati per potersi rimettere in piedi. I cavalieri di Ibelin combattevano principalmente a piedi e, sebbene inferiori di numero, ben presto sopraffecero il nemico. Berardo di Manupello fu ucciso da Anselmo stesso. Filangieri, che stava aspettando nella parte superiore del passo, aveva intenzione di scendere in soccorso di Berardo; ma improvvisamente apparve Baliano di Ibelin con un pugno di cavalieri, staccatisi dalla retroguardia dell’esercito, che avevano cavalcato su per un

sentiero di montagna a ovest della strada e si lanciarono alla carica contro l’accampamento di Filangieri. Anche qui i lombardi erano superiori di numero e Baliano fu duramente incalzato. Suo padre rifiutava di distaccare truppe in suo aiuto; ma presto Filangieri, al vedere che gli squadroni dei Manupello non ritornavano, perse la testa e condusse i suoi uomini in disordine giù a Kyrenia. Dieu d’Amour era così liberato mentre i suoi assedianti fuggivano verso sud-ovest nella pianura dove al cadere dell’oscurità furono sorpresi e catturati da Filippo di Novara. Gualtiero di Manupello raggiunse Gastria ma i templari, che ne occupavano il castello, rifiutarono di lasciarlo entrare e Giovanni, figlio di Filippo di Ibelin, lo catturò mentre si nascondeva nel fossato. Nel frattempo Giovanni di Beirut proseguiva l’avanzata per assediare Filangieri a Kyrenia. L’assedio di questa fortezza durò dieci mesi. Gli Ibelin dapprima mancavano di navi, mentre Filangieri aveva una squadra che si manteneva in contatto con Tiro. Finché i genovesi non si lasciarono indurre a dare ancora una volta il loro aiuto non fu possibile bloccare il castello dal mare. Prima che il blocco fosse completo Filangieri fuggì con Amalrico Barlais, Amalrico di Beisan e Ugo di Jebail, andando dapprima in Armenia per cercare, ma invano, di procurarsi aiuto da re Hethum, poi a Tiro ed infine in Italia per riferire all’imperatore. I lombardi di Kyrenia, agli ordini di Filippo Chenart, si difesero vigorosamente. Nel corso della battaglia i giovani signori di Ibelin vennero tutti feriti ed il fedele guerriero Anselmo di Brie, che Giovanni di Beirut aveva soprannominato il suo «leone rosso», fu colpito da un dardo di ferro e morì dopo sei mesi di agonia. Fra i rifugiati a Kyrenia c’era Alice del Monferrato, la principessa italiana che Federico aveva scelto come sposa per re Enrico. Era stata sposata per procura e non si sa se abbia mai visto suo marito, poiché arrivò a Cipro scortata dagli imperiali quando il re aveva già raggiunto gli Ibelin. Durante l’assedio cadde ammalata e morì; ed il combattimento fu interrotto mentre il suo cadavere, vestito come si conveniva ad una regina, fu solennemente consegnato al marito che non l’aveva mai conosciuta in vita e che la fece trasportare a Nicosia per una sepoltura regale. Kyrenia s’arrese nell’aprile del 1233. Ai difensori fu concesso di ritirarsi a Tiro con i loro beni personali ed i prigionieri catturati dagli Ibelin furono scambiati con quelli trattenuti da Filangieri. Cipro era ormai interamente restituita al governo di Enrico e dei suoi cugini Ibelin. I vassalli rimasti fedeli al re furono ricompensati e i prestiti che avevano fatti, furono loro restituiti44. L’isola entrò in un periodo di pace, turbata soltanto dai tentativi della gerarchia della Chiesa latina di sopprimere, malgrado l’opposizione dei nobili laici, alcuni membri del clero greco, che rifiutavano di riconoscerne l’autorità o di conformarsi alle sue consuetudini. I monaci greci, più ostinatamente ribelli, furono perfino arsi sul rogo45. Sebbene Cipro fosse pacificata, sul continente Filangieri teneva ancora Tiro, e Federico era tuttora legalmente il sovrano di Gerusalemme per conto del suo giovane figlio. Quando l’imperatore seppe, forse da Filangieri stesso, del fallimento della sua politica, inviò lettere ad Acri per mezzo del vescovo di Sidone che era stato a Roma, annullando la nomina di Filangieri come bali e designando in sua vece un nobile siriano, Filippo di Maugastel. Se aveva sperato di placare i baroni col nominare un signore indigeno, si era illuso, poiché Maugastel era un giovane effeminato la cui intimità con Filangieri aveva dato origine a scandalo. A quest’ultimo fu lasciato il possesso di Tiro. Kyrenia non era ancora stata conquistata quando le notizie della designazione pervennero a Giovanni di Beirut. Egli fece rapidamente la traversata fino ad Acri. Quivi Baliano di Sidone e Oddone di Montbéliard erano disposti ad accettare Maugastel e avevano stabilito che gli si prestasse giuramento nella chiesa della Santa Croce, ma Giovanni di Cesarea si alzò all’apertura della cerimonia e dichiarò che l’azione era illegale. L’imperatore non poteva annullare a proprio capriccio gli accordi

stipulati davanti all’alta corte. Cominciò un’aspra disputa, e Giovanni suonò la campana d’allarme del comune di Acri, chiamando in aiuto i suoi membri. Una moltitudine furibonda si precipitò nella chiesa e soltanto l’intervento personale di Giovanni salvò Baliano e Oddone dalla morte per mano della folla, mentre Maugastel fuggiva terrorizzato a Tiro. Giovanni fu rieletto podestà del comune e divenne di fatto il governatore del regno ad eccezione di Tiro, che Filangieri governava in nome dell’imperatore, e di Gerusalemme stessa che sembra fosse sotto un rappresentante diretto di Federico. È probabile che Baliano di Sidone sia rimasto bali di nome, ma di fatto l’alta corte accettò la guida di Giovanni fino a che fosse possibile trovare qualche nuovo ordinamento legale. Due inviati, Filippo di Troyes ed Enrico di Nazaret, furono mandati a Roma per spiegare le azioni dei baroni e del comune; ma Ermanno di Salza, gran maestro dell’Ordine teutonico, che vi si trovava, provvide a che non fosse data loro un’udienza equanime. Il papa era ancora in buoni rapporti con Federico e si preoccupava di ristabilire la sua autorità in Oriente. Nel 1235 inviò ad Acri come suo legato l’arcivescovo di Ravenna, ma questi raccomandò soltanto di ubbidire a Filangieri; il che era inaccettabile. In cambio i baroni mandarono a Roma un giurista, Goffredo Le Tor. Papa Gregorio stava cominciando di nuovo ad essere in disaccordo con l’imperatore, ma era deciso ad agire correttamente. Nel febbraio del 1236 scrisse a Federico e ai baroni dicendo che Filangieri doveva essere accettato come bali, ma che Oddone di Montbéliard fungesse da assistente fino a settembre, quando sarebbe stato designato bali Boemondo di Antiochia. Poiché Federico e Corrado erano sovrani legali, i baroni avevano agito male, ma sarebbero stati tutti perdonati, eccetto gli Ibelin, che dovevano essere processati davanti all’alta corte. Il comune di Acri doveva essere sciolto46. Queste condizioni erano inaccettabili per i baroni e per il comune, che non ne tennero conto. In questo stato di cose Giovanni di Ibelin morì, in conseguenza di una caduta da cavallo. Il vecchio signore di Beirut, come lo chiamavano i suoi contemporanei, era stata la figura predominante dell’Oriente franco. Nessuno poteva avere dubbi sulle sue alte qualità personali: era coraggioso, onesto e retto ed il suo carattere irreprensibile contribuì molto a consolidare la causa dei baroni47. Senza di lui Federico avrebbe potuto riuscire a stabilire un’autocrazia sia a Cipro, sia nel regno siriano; e sebbene il governo dei baroni tendesse all’improvvisazione, è difficile vedere in che modo un regime autocratico potesse rappresentare un progresso. Federico stesso era troppo lontano per controllarlo ed era un cattivo conoscitore di uomini. Un governo assolutista nelle mani di un individuo come Riccardo Filangieri avrebbe portato ben presto il regno al disastro. La soluzione migliore era quella raccomandata dal papa stesso, l’unione del governo del continente con quello di Cipro48. Ma il legalismo dei baroni, che li faceva resistere all’autocrazia di Federico, non consentiva loro di accettare altro re che non fosse il loro legittimo sovrano, ossia suo figlio Corrado. L’unione con Cipro doveva aspettare di essere autorizzata dalla mano stessa di Dio. L’atteggiamento dei baroni era coerente e corretto, ma nel frattempo legalizzava l’anarchia.

Capitolo quarto Anarchia legalizzata

La legge non ha condotto nulla a compimento. Epistola agii Ebrei, VII, 19

La morte del vecchio signore di Beirut privò «Outremer» del suo capo naturale. Nessun altro barone franco avrebbe goduto in futuro di un prestigio così alto. Ma egli aveva adempiuto il suo compito: aveva fondato un’alleanza tra la nobiltà ed il comune di Acri ed aveva dato loro una comune politica basata sui loro diritti legali. Dei suoi quattro figli, due rimasero sulla terraferma, in Siria, Baliano, che gli succedette a Beirut, e Giovanni, che ereditò da sua madre il feudo di Arsuf, e due rilevarono i possedimenti della famiglia a Cipro, dopo aver fatto entrambi matrimoni politici, che unirono di nuovo la nobiltà del regno; Baldovino, che diventò siniscalco, sposò la sorella di Amalrico di Beisan, e Guido, che divenne conestabile, la figlia ed erede dell’ arciribelle Amalrico Barlais. Il nipote del vecchio signore, un altro Giovanni che sarebbe diventato più tardi conte di Giaffa e autore delle Assise di Gerusalemme, era il più importante avvocato del regno. Il loro cugino, Baliano di Sidone, occupava ancora la carica di bali, insieme con Oddone di Montbéliard, ma il fallimento della sua politica di compromesso ne aveva sminuito l’autorità. Il più energico tra i baroni era un altro cugino, Filippo di Montfort, figlio di Helvis di Ibelin e del suo secondo marito Guido di Montfort, fratello di quel Simone che aveva diretto la crociata contro gli albigesi. Filippo aveva sposato da poco la principessa armena Maria, figlia di Raimondo-Rupen, erede di Toron per via della sua bisnonna, sorella dell’ultimo signore di quel feudo. Ancora un altro cugino, Giovanni di Cesarea figlio di Margherita di Ibelin, completava il gruppo familiare che in quel momento dominava «Outremer». Un postumo omaggio alla fama del vecchio signore era il fatto che i suoi figli e nipoti fossero pronti a collaborare assieme in amicizia; li rendeva ancor più uniti il comune odio per Filangieri che ancora governava Tiro in nome dell’imperatore1. Tuttavia la situazione di «Outremer» continuava ad essere precaria. Boemondo IV, principe di Antiochia e conte di Tripoli, era morto nel marzo del 1233 finalmente riconciliato con la Chiesa. Durante le guerre tra gli imperiali e i baroni di «Outremer» aveva dimostrato una notevole flessibilità: aveva dapprima accolto bene Federico, specialmente perché detestava gli Ibelin i quali si erano opposti a che suo figlio Boemondo, il marito della regina Alice, fosse nominato reggente di Cipro. Poi, temendo l’ambizione di Federico, aveva mutato la sua politica e, quando Alice ed il giovane Boemondo avevano divorziato per consanguineità, aveva accettato volentieri una proposta di Giovanni di Ibelin, che suo figlio minore, Enrico, sposasse Isabella di Cipro, sorella maggiore di re Enrico: un matrimonio che a suo tempo avrebbe portato un principe di Antiochia sul trono cipriota. Ma in quel momento Filangieri vinse la battaglia di Casal Imbert; così Boemondo tergiversò, desiderando trovarsi dalla parte del vincitore. Il matrimonio fu celebrato soltanto dopo la sconfitta degli imperiali a Cipro2. Circa nello stesso tempo Boemondo si riconciliò con gli ospitalieri. La comune antipatia per l’imperatore Federico aveva imposto una temporanea collaborazione tra il Tempio e l’Ospedale, perciò egli non poteva più continuare a manovrarli l’uno contro l’altro. Fece

pertanto il proprio atto di sottomissione alla Chiesa e domandò a Geroldo, patriarca di Gerusalemme, di trattare per lui con l’Ospedale. In cambio di importanti rendite su proprietà nelle città di Antiochia e Tripoli, l’Ordine acconsentì ad abbandonare le sue rivendicazioni per i privilegi promessigli da Raimondo-Rupen ed a riconoscere i diritti feudali di Boemondo. Allo stesso tempo Geroldo abrogò la sentenza di scomunica contro di lui e scrisse a Roma per avere la ratifica di questa decisione; l’approvazione del papa giunse poche settimane dopo la morte di Boemondo3. Pur con tutti i suoi difetti Boemondo IV era stato un energico governante; persino i suoi nemici ammiravano la sua cultura e la sua erudizione di uomo di legge. Suo figlio, Boemondo V, era un uomo più debole. Era un buon figlio della Chiesa e permise a papa Gregorio IX di scegliergli per seconda moglie Luciana di Segni, che apparteneva alla famiglia stessa del pontefice4. Pochi anni dopo, nel 1244, giovandosi dell’esperienza fatta da suo padre, ottenne da Roma una garanzia per cui non potesse venire scomunicato se non dal papa in persona5. Ma non era padrone del suo proprio principato. Antiochia stessa era governata dal suo comune, presso il quale egli non godeva della popolarità di suo padre, probabilmente perché al forte gruppo greco che vi predominava spiaceva la sua amicizia con Roma. Perciò egli preferiva risiedere nella sua seconda capitale, Tripoli. Non aveva autorità sugli ordini militari. L’Armenia, sotto gli Hethumiani, era piuttosto ostile. Il cuneo musulmano di Lattakieh tagliava in due i suoi possedimenti. Il regno di Boemondo V segnò un rapido declino6. Federico, che a quel tempo si trovava in cattivi rapporti con Boemondo IV, aveva escluso Antiochia e Tripoli dal suo trattato di pace con al-Kamil. Tuttavia Boemondo aveva mantenuto la pace con i suoi vicini musulmani, ad eccezione di qualche sporadico attacco contro gli assassini che egli detestava per la loro alleanza con gli ospitalieri. Con suo grande disappunto, gli ordini militari non erano altrettanto prudenti. Gli ospitalieri avevano provocato al-Kamil a compiere un’incursione contro il Krak, quand’egli stava attaccando Damasco nel 1228. L’anno dopo essi fecero un’incursione di rappresaglia contro Barin; e nel 1230 combinarono con i templari di Tortosa un attacco contro Hama, dove furono presi in un’imboscata e duramente sconfitti. L’anno successivo gli ordini piombarono all’improvviso su Jabala, ma la tennero soltanto per poche settimane. Nella primavera del 1231 fu finalmente concordata una tregua che durò due anni7. Poco dopo aver assunto il potere, Boemondo V inviò suo fratello Enrico, insieme con contingenti provenienti da Acri e da Cipro, ad aiutare gli ordini in un altro attacco contro Barin, che venne scongiurato mediante la promessa di un tributo che Hama avrebbe pagato all’Ospedale. La tregua rinnovata durò fino al 1237, quando i templari di Baghras piombarono sulle ignare tribù turcomanne stabilite ad oriente del lago di Antiochia. Per vendetta l’esercito di Aleppo andò in forze ad assediare Baghras, che fu salvata soltanto dall’arrivo di Boemondo stesso, il quale prese accordi per rinnovare la tregua. Il precettore dei templari ad Antiochia, Guglielmo del Monferrato, si offese per questa umiliazione e, contro l’espresso desiderio di Boemondo, decise di violare la tregua appena conclusa. Quello stesso anno, in giugno, indusse i propri cavalieri, insieme con il signore di Jebail e pochi altri nobili laici, ad attaccare il castello di Darbsaq, a nord di Baghras. La guarnigione, colta di sorpresa, oppose tuttavia un’energica resistenza, mentre alcuni messaggeri si precipitavano ad Aleppo, il cui governatore distaccò immediatamente un poderoso esercito. Alcuni cristiani prigionieri a Darbsaq, informati della forza che veniva a portar soccorso, riuscirono ad inviare a Guglielmo un messaggio in cui gli facevano premura perché si ritirasse. Egli ignorò sprezzantemente l’avvertimento, con l’unico risultato di trovarsi addosso la cavalleria musulmana. Il suo piccolo distaccamento fu sbaragliato, egli stesso venne trucidato e la maggior parte dei suoi compagni

catturati. Alle notizie del disastro, sia i templari sia gli ospitalieri scrissero ansiosamente in Occidente per chiedere soccorsi; ma i musulmani non sfruttarono a fondo il loro successo. Dopo avere ricevuto la promessa di grosse somme di denaro per il riscatto dei prigionieri, acconsentirono a rinnovare la tregua. Gli ordini erano stati umiliati e mantennero la pace per dieci anni, con l’approvazione del papa che era stato costretto a fornire la maggior parte del denaro del riscatto8. La mancanza di spirito aggressivo mostrata dai musulmani era in larga misura dovuta alla personalità del grande sultano al-Kamil. Questi era un uomo di onore ed amante della pace. Era pronto a combattere e a tessere intrighi senza scrupoli per unire i possedimenti degli Ayubiti sotto il proprio scettro, dato che le dispute e le divisioni familiari non recavano vantaggio a nessuno; ed era pronto a respingere gli attacchi dei turchi selgiuchidi o khwarizmiani; ma finché i cristiani non gli causavano noie, li lasciava in pace. Tutti i principi musulmani erano ben consapevoli dei vantaggi commerciali derivanti dall’avere i porti marittimi franchi vicino alle loro frontiere. Non desideravano correre il rischio di scombussolare con imprudenti ostilità il grande commercio tra l’Oriente e l’Occidente. Specialmente al-Kamil era ansioso di garantire la prosperità dei suoi sudditi. Inoltre, come il suo amico Federico II, era uomo di vasti interessi culturali e avido di conoscere; ma era più genuinamente tollerante e molto più cortese dello Hohenstaufen. Sebbene fosse privo dell’eroica grandezza di suo zio Saladino e della brillante finezza di suo padre al-Adil, aveva più calore umano di loro. Ed era un re capace. I contemporanei musulmani potevano deplorare la sua simpatia per gli «uomini biondi», ma rispettavano la giustizia ed il buon ordine del suo governo9. Al-Kamil ebbe successo nella sua ambizione di ridare unità al mondo ayubita. Nel giugno del 1229 suo fratello al-Ashraf riuscì finalmente a cacciare da Damasco il loro nipote an-Nasir. Questi ebbe come compenso un regno nella valle del Giordano e in Transgiordania, con Kerak come capitale, da governare sotto la sovranità effettiva di al-Kamil. Al-Ashraf si tenne Damasco, ma riconobbe l’egemonia di al-Kamil e gli cedette terre nello Jezireh e lungo il medio Eufrate. Erano queste le province dell’Impero ayubita più esposte agli attacchi ed al-Kamil desiderava averne il diretto controllo. Il sovrano khwarizmiano Jelal ad-Din costituiva una minaccia molto reale; dietro di lui, più a oriente, si trovava la sconosciuta forza dei mongoli, mentre il grande sultano selgiuchida Kaikobad stava premendo dall’Anatolia verso oriente. Nel 1230, quando al-Ashraf si trovava a Damasco, Jelal ad-Din conquistò la sua grande fortezza di Akhlat, vicino al lago di Van, e passò ad attaccare i Selgiuchidi. Al-Ashraf si precipitò verso il nord per stringere un’alleanza con Kaikobad. Assieme ottennero una vittoria decisiva su Jelal ad-Din vicino a Erzinjan. Attaccato allo stesso tempo alle spalle dai mongoli, l’Impero khwarizmiano cominciò a disgregarsi. L’anno seguente Jelal ad-Din in persona fu sconfitto dai musulmani e durante la sua fuga dal campo di battaglia venne assassinato il 15 agosto 1231 da un contadino curdo a cui aveva trucidato molto tempo prima il fratello10. La sua eliminazione sconvolse ancora una volta l’equilibrio delle potenze. I Selgiuchidi si trovarono senza rivali nell’Anatolia orientale ed i mongoli poterono avanzare liberamente verso occidente. Nel frattempo il califfato abasside di Bagdad godeva di pochi, insoliti e precari mesi di indipendenza. Non passò molto tempo prima che Kaikobad gettasse gli occhi sulle terre che al-Kamil possedeva lungo il medio Eufrate. Dal 1233 al 1235 la guerra durò ininterrotta mentre Edessa, Saruj ed altre città di quella provincia passarono da un padrone all’altro, sinché alla fine al-Kamil ristabilì il suo predominio. Questi successi suscitarono la gelosia dei suoi parenti. Al-Ashraf detestava la propria condizione subordinata. Ad Aleppo morì improvvisamente nel 1236 il giovane re al-Aziz, figlio di az-Zahir, e sua madre Dhaifa, sorella di al-Kamil, che assunse la reggenza per il suo giovane

nipote az-Zahir II, temeva l’ambizione del proprio fratello. Un certo numero di principi ayubiti minori condivideva i suoi timori. Durante i primi mesi del 1237 al-Ashraf riunì i suoi alleati e si assicurò l’aiuto attivo di Kaikobad. Sembrava inevitabile una guerra civile, quando al principio dell’estate Kaikobad morì e al-Ashraf cadde gravemente ammalato. La sua morte il 27 agosto dissolse la cospirazione. Un fratello minore, as-Salih Ismail, prese Damasco e tentò invano di unire di nuovo i cospiratori. Al-Kamil, invece, con l’aiuto di an-Nasir di Kerak, marciò su Damasco nel gennaio del 1238 e la conquistò. As-Salih Ismail fu compensato con un appannaggio a Baalbeck. Ma al-Kamil non sopravvisse a lungo al proprio trionfo: due mesi dopo, l’8 marzo, moriva in Damasco all’età di sessant’anni11. La sua morte diede via libera alla guerra civile. Suo figlio maggiore, as-Salih Ayub, la cui madre era una schiava sudanese, si trovava nel nord ma marciò subito su Damasco, dove uno dei nipoti di al-Kamil, al-Jawad, si era impadronito del potere. Con l’aiuto dei briganti khwarizmiani sloggiò suo cugino. Nel frattempo il suo fratello minore, al-Adil II, veniva insediato come sultano in Egitto. Ayub era deciso ad ottenere la più ricca delle province di suo padre, ma mentre partiva per invadere l’Egitto, un improvviso colpo di Stato a Damasco lo detronizzò a favore di suo zio as-Salih Ismail. Fuggendo verso sud, Ayub cadde nelle mani di an-Nasir di Kerak il quale, tuttavia, fece causa comune con lui e prestò le proprie truppe per l’invasione dell’Egitto. L’impresa non era difficile, perché al-Adil aveva offeso i suoi ministri affidando il governo a un giovane favorito negro. Un fortunato complotto lo depose nel giugno del 1240, e Ayub fu invitato a succedergli sul trono egiziano. An-Nasir fu ricompensato con la carica di governatore militare della Palestina. Ma Ismail rimaneva padrone di Damasco e per i successivi dieci anni il mondo ayubita fu lacerato dalla rivalità tra zio e nipote. Il nord cadde ben presto nel caos. Soldati khwarizmiani senza capi, ma nominalmente agli ordini di Ayub, vagavano per la Siria settentrionale dandosi al saccheggio. Nello Jezireh il principe ayubita di Mayyafaraqin, al-Muzaffar, deteneva un limitato potere. Il figlio di Ayub, Turanshah, tentò di mantenere unite le terre di suo nonno, ma molte città caddero nelle mani del sultano selgiuchida, Kaikhosrau II. Ad Aleppo, an-Nasir Yusuf, succeduto a suo fratello nel 1236, rimaneva sulla difensiva mentre i principi di Hama e di Homs erano interamente occupati a respingere i khwarizmiani12. In mezzo a questi rivolgimenti giunse a termine il trattato stipulato tra Federico II e al-Kamil. In vista di ciò, nell’estate del 1239 papa Gregorio IX aveva inviato i suoi agenti a predicare la crociata in Francia e in Inghilterra. Né il re francese né quello inglese si sentivano pronti a rispondere di persona al suo appello, ma incoraggiarono in tutti i modi i predicatori. Al principio dell’estate una scelta compagnia di nobili francesi era pronta a salpare per l’Oriente. Alla loro testa c’era Tibaldo di Champagne, re di Navarra, nipote di Enrico di Champagne e perciò cugino dei redi Francia, d’Inghilterra e di Cipro. Con lui vi erano il duca di Borgogna Ugo IV, Pietro Mauclerc conte di Bretagna, i conti di Bar, Nevers, Montfort, Joigny e Sancerre e molti signori minori. Il numero dei fanti era inferiore a quanto ci si potesse aspettare, dato l’alto rango dei capi; nondimeno la spedizione nel suo insieme era imponente13. Tibaldo aveva sperato di imbarcarsi con i suoi compagni a Brindisi; ma le guerre tra l’imperatore e il papa rendevano difficile il viaggio attraverso l’Italia e l’imperatore, nei cui domini si trovava Brindisi, non approvava la crociata. Egli si considerava sovrano della Palestina in nome del proprio figlio, perciò una spedizione di aiuto al suo regno avrebbe dovuto essere organizzata sotto la sua autorità. Non poteva dare la sua approvazione a quei nobili francesi, il cui istinto li avrebbe certamente portati a sostenere i baroni di «Outremer» contro di lui. Inoltre, conoscendo la

situazione del mondo musulmano, egli sperava di combinare un affare vantaggioso per il regno mediante la diplomazia. La venuta di questi cavalieri impazienti ed avventati avrebbe reso impossibile qualunque trattativa del genere. Ma a causa dei suoi fastidi in Italia, non poteva permettersi di mandare egli stesso degli uomini per sorvegliarli. Ottenne da loro la promessa che nulla sarebbe stato intrapreso prima dello spirare della tregua, in agosto, poi si disinteressò di tutta la questione. Perciò i crociati furono obbligati ad imbarcarsi da Aigues-Mortes e da Marsiglia14. La traversata del Mediterraneo fu burrascosa: alcune delle navi finirono a Cipro ed altre furono addirittura sospinte indietro fino in Sicilia. Ma Tibaldo stesso giunse ad Acri il 1° settembre; e nei pochi giorni seguenti vi si raccolse un esercito di circa mille cavalieri. Fu tenuto subito un consiglio per decidere quale fosse il miglior modo di impiegare queste forze. Oltre i principi arrivati dall’Europa erano presenti i principali baroni del luogo, assieme con i delegati degli ordini militari mentre l’arcivescovo di Tiro, Pietro di Sargines, rappresentava il patriarca di Gerusalemme. Era un momento adatto per far uso di abilità diplomatica. Le dispute tra gli eredi di al-Kamil offrivano ai cristiani l’occasione di usare la loro rinnovata forza militare come un elemento di peso nelle trattative per ottenere importanti concessioni dall’una o dall’altra delle fazioni rivali. Ma i crociati erano venuti per combattere: non volevano seguire il vergognoso esempio di Federico II. Perciò i baroni indigeni raccomandavano una spedizione contro l’Egitto, che non soltanto non avrebbe offeso i loro immediati vicini musulmani in Siria, ma che, a motivo della ben nota impopolarità del sultano al-Adil, prometteva una buona probabilità di successo. Altri sostenevano che il nemico era Damasco; l’esercito doveva fortificare i castelli della Galilea e poi marciare contro la capitale della Siria. Ma Tibaldo desiderava numerose vittorie; probabilmente per suggerimento del conte di Giaffa, Gualtiero di Brienne, che non apparteneva alla fazione della famiglia Ibelin, egli decise che l’esercito avrebbe prima di tutto attaccato gli avamposti egiziani di Ascalona e di Gaza; quindi, quando la frontiera meridionale fosse sicura, avrebbe attaccato Damasco. Quando fu nota la sua decisione vi fu un frettoloso scambio di messaggeri tra le varie corti ayubite per giungere ad un temporaneo armistizio tra i principi musulmani15. La spedizione partì da Acri verso la frontiera egiziana il 2 novembre; alcuni distaccamenti degli Ordini e parecchi baroni indigeni accompagnavano i crociati. Mentre stavano marciando verso Giaffa, una spia avverti Pietro di Bretagna che una grande carovana musulmana stava risalendo la valle del Giordano verso Damasco. Pietro si staccò subito dal grosso dell’esercito con Rodolfo di Soissons e duecento cavalieri per tendere un’imboscata. La carovana era bene armata e nella battaglia che seguì Pietro per poco non fu ucciso; ma alla fine i soldati musulmani fuggirono, lasciando nelle mani dei cristiani un grosso gregge di bovini e pecore. Pietro condusse in trionfo il suo bottino a Giaffa dove i suoi colleghi erano ormai arrivati. Poiché il cibo per l’esercito scarseggiava, la sua vittoria fu molto gradita. Ma essa fece di an-Nasir di Kerak un nemico16. Un esercito egiziano agli ordini del mamelucco Rukn ad-Din, era stato inviato in tutta fretta dal delta a Gaza. Le prime notizie che giunsero ai cristiani sul suo arrivo parlavano soltanto di un migliaio di uomini. Enrico di Bar, invidioso del successo del conte di Bretagna, decise subito di attaccarlo per assicurarsi tutto il merito ed il bottino. Tenne segreto il suo progetto salvo a pochi amici, come il duca di Borgogna e diversi signori della Francia orientale. Poi furono ammessi nel gruppo i due bali del regno, Baliano di Sidone e Oddone di Montbéliard, risentiti verso Tibaldo che aveva il comando, e così pure Gualtiero di Giaffa e uno degli Ibelin, Giovanni di Arsuf. Al cader della notte del 12 novembre tutta la compagnia, cinquecento cavalleggeri e più di un migliaio di fanti, si prepararono a marciare contro Gaza. Ma la notizia era già trapelata e mentre essi stavano

montando a cavallo si avvicinò re Tibaldo con i tre gran maestri degli Ordini ed il conte di Bretagna, e dapprima li pregò, poi comandò loro di tornare al campo. Enrico di Bar rifiutò di cambiare decisione. Accusando il re ed i suoi amici di codardia, rifiutò di obbedire ai suoi ordini, e la cavalcata partì nella notte illuminata dalla luna. Tibaldo, che sospettava la reale forza del nemico, fu impotente a impedirlo, ma la mattina seguente spostò il suo campo fin presso le mura di Ascalona, per essere a portata di mano se il suo aiuto fosse stato necessario. Il conte di Bar era così fiducioso nel successo che quando si avvicinò a Gaza all’alba fece fermare i suoi uomini in un avvallamento del terreno fra le dune della spiaggia e disse loro di riposarsi un momento. Ma l’esercito egiziano era molto più numeroso di quanto egli pensasse ed aveva spie sparse tutt’intorno. L’emiro Rukn ad-Din si persuase a stento della stoltezza dei suoi avversari. Inviò squadre di arcieri, che si avvicinarono senza farsi scorgere tra le dune, finché i franchi non furono quasi del tutto accerchiati. Gualtiero di Giaffa fu il primo a rendersi conto di quello che stava succedendo. Consigliò una rapida ritirata perché era impossibile manovrare con i cavalli nella sabbia profonda. Egli stesso si allontanò a cavallo verso nord in compagnia del duca di Borgogna; gli altri cavalieri di «Outremer» lo seguirono appena poterono. Ma Enrico di Bar non volle abbandonare la fanteria da lui condotta nella trappola ed i suoi amici più intimi rimasero con lui. La battaglia fu presto conclusa: con i cavalli e la fanteria pesante che annaspavano nelle dune, i franchi erano impotenti. Più di un migliaio furono uccisi, tra cui lo stesso conte Enrico. Altri seicento furono catturati e portati in Egitto. Tra questi, il conte di Montfort e il poeta Filippo di Nanteuil, che trascorse i suoi giorni di prigionia scrivendo maledizioni in versi contro gli ordini a cui, con più ira che logica, rimproverava il fallimento dell’assurda spedizione. Quando i fuggiaschi raggiunsero Ascalona, Tibaldo dimenticò la sua prudenza e volle marciare subito su Gaza per liberare i compagni. Ma i cavalieri di «Outremer» non acconsentirono: sarebbe stata una follia mettere in pericolo l’esercito senza contare che i musulmani avrebbero certamente trucidato tutti i prigionieri che avevano preso piuttosto che perderli. Tibaldo era adirato e non perdonò mai interamente i suoi ospiti; ma non c’era nulla da fare. L’esercito così ridotto si ritirò lentamente su Acri17. Nel frattempo an-Nasir di Kerak, in risposta all’attacco bretone contro la carovana musulmana, marciava su Gerusalemme. La Città Santa era priva di difese, salvo il pezzo di mura accanto alla porta di Santo Stefano che Federico aveva iniziato, ed una cittadella di cui faceva parte la torre di Davide, rafforzata di recente. Dipendeva non dal governo di Acri, ma da Filangieri che si trovava a Tiro e che aveva trascurato di fornirle una guarnigione adeguata. An-Nasir occupò la città senza difficoltà, ma i soldati nella cittadella resistettero per ventisette giorni, finché terminarono le loro provviste. Il 7 dicembre si arresero in cambio di un salvacondotto per la costa. Dopo aver distrutto le fortificazioni, compresa la torre di Davide, an-Nasir tornò a Kerak18. Dopo il disastro di Gaza, Tibaldo spostò le sue truppe verso nord, a Tripoli. Era giunto un inviato dell’emiro di Hama, al-Muzaffar II, il quale aveva litigato con tutti i suoi parenti ayubiti ed era minacciato da una coalizione tra il reggente di Aleppo e il principe di Homs. In cambio dell’aiuto franco proponeva di cedere una o due fortezze e lasciava sperare in una sua conversione al cristianesimo. Tibaldo accettò la sua offerta con premura; ma la sua avanzata su Tripoli fu sufficiente per scoraggiare i nemici di al-Muzaffar, e l’emiro gli mandò a dire cortesemente che, dopo tutto, i suoi servigi non sarebbero stati necessari19. Mentre la crociata indugiava a Tripoli, Ayub si rese padrone dell’Egitto e la guerra scoppiò tra lui e Ismail di Damasco. Era chiaro che in quel momento i franchi potevano fare un bum affare.

Tibaldo ritornò verso sud in tutta fretta ed accampò il suo esercito in Galilea vicino alle sorgenti di Seforia. Non dovette aspettare a lungo. Al principio dell’estate del 1240 Ismail, atterrito al pensiero di un’invasione congiunta di Ayub e an-Nasir, propose un’alleanza difensiva con i franchi. Se essi avessero assicurato la difesa della frontiera con l’Egitto vicino alla costa e lo avessero rifornito di armamenti, egli avrebbe ceduto loro le grandi fortezze di Beaufort e Safed e la zona collinosa intermedia. I templari, che in quel momento avevano rapporti finanziari con Damasco, condussero le trattative e furono ricompensati con il possesso di Safed. Ma i sudditi di Ismail ne furono scandalizzati. La guarnigione di Beaufort rifiutò di consegnare la fortezza che aveva in custodia a Baliano di Sidone, figlio del suo ultimo signore cristiano, ed Ismail fu obbligato ad andare egli stesso ad assediare il castello per costringerlo all’obbedienza. Due dei maggiori teologi di Damasco, tra cui il principale predicatore della grande moschea, lasciarono disgustati la città e cercarono rifugio al Cairo20. La comune diffidenza verso l’imperatore Federico aveva mantenuto l’Ospedale e il Tempio uniti in una non facile alleanza durante gli ultimi dodici anni. Ma l’acquisto di Safed da parte dei templari era più di quanto gli ospitalieri potessero tollerare. Mentre Tibaldo conduceva il suo esercito a congiungersi con le forze di Ismail, tra Giaffa ed Ascalona, essi aprirono negoziati con Ayub. Il loro ragionamento si vide confermato quando metà degli uomini di Ismail, scontenti di dover collaborare con dei cristiani, passarono al campo egiziano costringendo così gli alleati a ritirarsi. Ayub, il cui principale obiettivo era la sconfitta di Ismail, era contentissimo di avere un’occasione per spezzare l’alleanza. Offri dunque ai franchi, in cambio della loro neutralità, il rilascio dei prigionieri catturati a Gaza ed il diritto di occupare e fortificare Ascalona. Il gran maestro dell’Ospedale firmò poi l’accordo ad Ascalona insieme con il rappresentante del sultano. Era un trionfo diplomatico per Ayub, il quale a poco prezzo aveva spezzato un’alleanza che Ismail aveva condotto a termine con grave umiliazione. Tibaldo, soddisfatto di aver ottenuto la liberazione di Amalrico di Montfort e degli altri suoi amici, aveva dato il suo appoggio agli ospitalieri; ma l’opinione pubblica di «Outremer » fu scandalizzata per l’impudente violazione del patto con Damasco, alleato tradizionale dei cristiani fino dal tempo di Saladino. Tibaldo diventò così impopolare che decise di tornare in Europa. Dopo aver compiuto un affrettato pellegrinaggio a Gerusalemme, salpò da Acri alla fine di settembre del 1240, seguito dalla maggior parte dei suoi compagni, eccetto il duca di Borgogna, che giurò di aspettare il completamento delle fortificazioni di Ascalona, ed il conte di Nevers che si uni al gruppo dei templari e dei baroni indigeni, con i quali si accampò vicino a Giaffa, facendo voto di mantenere l’alleanza con Damasco e di opporsi a qualsiasi invasione egiziana. La crociata di Tibaldo non era stata del tutto inutile. Beaufort, Safed ed Ascalona erano state riacquistate ai cristiani. Ma i musulmani avevano scorto ancora un esempio del tradimento dei franchi21. L’11 ottobre, pochi giorni dopo la partenza di Tibaldo, giunse ad Acri un pellegrino ancora più altolocato: Riccardo, conte di Cornovaglia, fratello di Enrico III d’Inghilterra, la cui sorella aveva sposato l’imperatore Federico. Aveva trentun anni ed era considerato uno dei principi più capaci del suo tempo. Il suo pellegrinaggio godeva la completa approvazione dell’imperatore, che gli aveva dato pieni poteri per prendere tutti i provvedimenti che stimasse utili per il regno22. Egli inorridì per l’anarchia che trovò al suo arrivo. Il Tempio e l’Ospedale erano quasi in guerra aperta l’uno contro l’altro. I baroni indigeni, ad eccezione di Gualtiero di Giaffa, sostenevano i templari; perciò gli ospitalieri stavano cominciando a ricercare l’amicizia di Filangieri e degli imperiali. L’Ordine teutonico si teneva in disparte: presidiava i suoi castelli in Siria, ma dedicava la sua attenzione

principale alla Cilicia dove il re armeno gli aveva affidato vaste terre. Filangieri stesso teneva ancora Tiro ed era responsabile dell’amministrazione di Gerusalemme23. Al suo arrivo Riccardo si affrettò ad andare ad Ascalona. Qui si incontrò con gli ambasciatori del sultano egiziano che gli chiesero di ratificare il trattato fatto dagli ospitalieri. Riccardo acconsenti, ma, per placare i baroni di «Outremer», insistette che gli egiziani confermassero le concessioni territoriali fatte da Ismail di Damasco e vi aggiungessero il rimanente della Galilea, incluso Belvoir, Monte Tabor e Tiberiade. Ismail, che aveva perduto a vantaggio di an-Nasir il controllo sulla Galilea orientale, non poté rifiutare quest’ulteriore cessione. Nel frattempo i prigionieri franchi catturati a Gaza erano restituiti in cambio dei pochi musulmani in mano ai cristiani. Il regno ricuperò così tutte le sue antiche terre ad occidente del Giordano, estendendosi a sud fino ai sobborghi di Gaza, con l’infausta eccezione di Nablus e della provincia di Samaria. Gerusalemme rimase senza fortificazioni; ma Oddone di Montbéliard, la cui moglie era l’erede dei principi di Galilea, cominciò a ricostruire il castello di Tiberiade; fu anche terminato il lavoro ad Ascalona. Governatore di questa città, Riccardo nominò Gualtiero Pennenpié, già rappresentante di Filangieri a Gerusalemme. Probabilmente per suggerimento di Riccardo l’imperatore Federico inviò al sultano Ayub un’ambasceria per porgere le sue congratulazioni. I suoi due ambasciatori furono ricevuti al Cairo con gran pompa e vi si fermarono fino all’inizio della primavera. Riccardo stesso rimase in Palestina fino al maggio del 1241. Si era comportato con grande saggezza e tatto e si era reso bene accetto da tutti come temporaneo viceré del regno. L’imperatore era molto soddisfatto di lui e in «Outremer» tutti erano dispiaciuti della sua partenza. Egli ritornò in Europa dove l’attendeva una carriera di grandi speranze e di scarse soddisfazioni24. L’ordine ristabilito da Riccardo di Cornovaglia non durò a lungo dopo la sua partenza. I baroni indigeni sperarono di prolungarlo presentando una petizione all’imperatore perché designasse come bali uno dei compagni di lui, Simone di Montfort. Questi, che aveva per moglie la sorella di Riccardo ed era egli stesso cugino del signore di Toron, aveva fatto ottima impressione. Ma Federico ignorò la loro richiesta e Simone ritornò a una grande e tempestosa carriera in Inghilterra25. In Terra Santa presto ricominciarono le dispute. I templari rifiutarono di considerarsi vincolati dal suo trattato con Ayub e nella primavera del 1242 compirono una scorreria contro la città musulmana di Hebron. An-Nasir di Kerak replicò inviando truppe a stabilire un posto di blocco sulla strada per Gerusalemme per imporre pedaggi ai pellegrini ed ai mercanti che vi transitavano. Questo fatto spinse i templari ad uscire da Giaffa per gettarsi su Nablus il 30 ottobre saccheggiandola, dando alle fiamme la sua grande moschea e massacrando molti abitanti, compreso un gran numero di cristiani indigeni. Ayub non era ancora pronto per una guerra. Si accontentò di inviare un forte esercito ad assediare Giaffa per un certo tempo, come un avvertimento per il futuro26. All’interno del regno non vi era nessuna autorità dominante. Gli ordini si comportavano come Stati indipendenti, Acri era governata dal comune il quale, tuttavia, non poteva impedire che i templari e gli ospitalieri combattessero gli uni contro gli altri per le vie della città. I baroni risiedevano nei propri feudi, governandoli a loro piacimento. Il caos sembrava molto promettente per Filangieri, che si trovava a Tiro. Era personalmente in contatto con gli ospitalieri di Acri ed aveva attirato dalla sua parte due dei principali borghesi della città, Giovanni Valin e Guglielmo di Conches. Una notte, nella primavera del 1243, giunse da Tiro e fu fatto entrare segretamente in Acri pronto ad organizzare un colpo di stato. Ma la sua presenza venne notata, e Filippo di Montfort, signore di Toron, che si trovava per caso in Acri ne fu informato. Filippo avverti subito il comune e le colonie genovese e veneziana. I loro emissari arrestarono

Giovanni Valin e Guglielmo di Conches e pattugliarono le vie. Fu inviato un messaggio per far venire Baliano di Ibelin da Beirut e Oddone di Montbéliard da Cesarea. Filangieri si rese conto di aver perduto l’occasione favorevole e se la svignò silenziosamente tornando a Tiro. La complicità degli ospitalieri era evidente. Al suo arrivo Baliano assediò il loro quartier generale in Acri. L’assedio durò sei mesi. Il gran maestro, Pietro di Vieille Bride, si trovava a Marqab dove stava conducendo una campagna irregolare contro i suoi vicini musulmani e non poteva permettersi di inviare i suoi uomini per cercare di liberare i cavalieri ad Acri. Alla fine fece la pace con Baliano offrendogli delle scuse e giurando di non aver avuto parte nel complotto27. Il 5 aprile 1243 Corrado di Hohenstaufen, figlio dell’imperatore Federico e della regina Jolanda aveva compiuto quindici anni ed era diventato ufficialmente maggiorenne. Era suo dovere comparire ad Acri e prendere personalmente possesso del regno. Suo padre non aveva più alcun diritto alla reggenza. Ma, sebbene il giovane re inviasse subito Tommaso di Acerra come proprio rappresentante, non mostrava di avere intenzione di recarsi di persona in Oriente. Perciò i baroni considerarono loro dovere legale designare come suo reggente il parente più prossimo, presente in Oriente. Era questi Alice, la regina madre di Cipro, sua prozia. Dopo il suo divorzio da Boemondo V, essa si era riconciliata con i suoi cugini Ibelin e nel 1240 aveva sposato, con la loro approvazione, Rodolfo, conte di Soissons, un giovane che aveva circa la metà dei suoi anni, giunto in Oriente con re Tibaldo. Baliano di Ibelin e Filippo di Montfort convocarono un parlamento in Acri, nel palazzo del patriarca per il 5 giugno 1243. Tutti i baroni erano presenti. La Chiesa era rappresentata da Pietro di Sargines, arcivescovo di Tiro, e dai vescovi del regno. Il comune inviò i suoi funzionari e la colonia genovese e quella veneziana i loro capi. Filippo di Novara spiegò la situazione giuridica e raccomandò che non si rendesse alcun omaggio a re Corrado, finché egli non fosse venuto di persona a riceverlo, e che, fino a quel momento, la reggenza venisse affidata su Alice e a suo marito. Oddone di Montbéliard propose che si chiedesse ufficialmente a Corrado di venire nel suo regno e che non si facesse nulla finché egli non avesse risposto. Ma gli Ibelin non vedevano la necessità di questo passo. Il loro punto di vista prevalse. L’assemblea prestò giuramento di obbedienza ad Alice e a Rodolfo, salvaguardando i diritti di re Corrado28. Questa decisione tolse a Filangieri quel resto di autorità per il quale i baroni avevano esitato ad attaccarlo a Tiro. In seguito alla designazione di Tommaso di Acerra era stato richiamato in Italia dall’imperatore e aveva lasciato la città sotto il comando di suo fratello Lotario. Il 9 giugno il parlamento di Acri ordinò a Lotario di consegnare Tiro ai reggenti. Al suo rifiuto, Baliano di Ibelin e Filippo di Montfort marciarono sulla città con contingenti veneziani e genovesi. Lotario poneva la sua fiducia nelle grandi mura che avevano sfidato con successo lo stesso Saladino. Ma gli abitanti erano stanchi di Filangieri e si offrirono di aprire la porta secondaria, detta dei Macellai, vicino al mare. Nella notte del 12 giugno Baliano ed i suoi uomini aggirarono silenziosamente gli scogli fino alla porta posteriore e furono fatti entrare; aprirono allora le porte principali ai loro alleati. Quando ebbero occupato le case degli ospitalieri e dei cavalieri teutonici erano praticamente padroni della città ad eccezione della cittadella, a sud, dove si era rifugiato Lotario. Era una fortezza formidabile e per quattro settimane gli imperiali tennero duro. Ma poi, per un caso sfortunato, la nave che stava portando in Italia Riccardo Filangieri fu costretta dal cattivo tempo a tornare indietro. Riccardo sbarcò senza sospetti nel porto di Tiro e cadde direttamente nelle mani dei suoi nemici, che lo portarono legato alla porta della cittadella e minacciarono di impiccarlo, se la guarnigione non si arrendeva. Lotario rifiutò finché non vide la corda che si serrava intorno al collo di suo fratello; allora accettò le condizioni non gravose offerte dai vincitori. Fu concesso ai fratelli di andarsene

Uberi con le loro famiglie ed i loro beni. Lotario si ritirò a Tripoli dove Boemondo V lo accolse con favore. Vi fu poi raggiunto da Tommaso di Acerra. Riccardo, coscienzioso, tornò dal suo imperiale padrone, che lo gettò immediatamente in prigione. Partiti i Filangieri, Gerusalemme, Ascalona e Tiro passarono ufficialmente nelle mani dei reggenti. Rodolfo di Soissons aveva creduto con eccessiva fiducia che il controllo della città conquistata sarebbe stato affidato ai reggenti. Ma Filippo di Montfort desiderava Tiro per sé, per completare il suo feudo di Toron; e gli Ibelin gli diedero il loro appoggio. Quando Rodolfo richiese adirato la città, i baroni risposero, cinicamente divertiti, che essi stessi l’avrebbero tenuta in custodia, finché non si fosse saputo con certezza a chi spettava. Rodolfo si rese conto d’un tratto che gli era riservata una funzione puramente decorativa. Umiliato e disgustato lasciò immediatamente la Terra Santa e fece ritorno in Francia. La regina Alice, a cui cinquant’anni di vita avevano insegnato la pazienza, rimase come reggente titolare fino alla morte, avvenuta nel 124629. Il trionfo dei baroni significava il trionfo della politica estera dei templari su quella degli ospitalieri. Furono riprese le trattative con la corte di Damasco. Ayub d’Egitto aveva litigato di recente con an-Nasir di Kerak ed era allarmato per la defezione franca. Quando Ismail di Damasco, con l’approvazione di an-Nasir, propose ai franchi di ritirare dall’area del Tempio di Gerusalemme i preti musulmani, la cui presenza era stata garantita da Federico II, Ayub fece subito la stessa offerta. Manovrando abilmente i principi musulmani gli uni contro gli altri, i templari, che dirigevano l’operazione, ottennero da loro la restituzione dell’intera area al culto cristiano. Il gran maestro, Armando di Périgord, scrisse in Europa pieno d’entusiasmo alla fine del 1243 per dar notizia del felice risultato e per annunziare che l’ordine stava di nuovo attivamente fortificando la Città Santa. Fu questo l’ultimo trionfo diplomatico di «Outremer»30. L’imperatore Federico scrisse a Riccardo di Cornovaglia con acidi commenti sulla facilità con cui i templari ricercavano un’alleanza musulmana, dopo che essi avevano inveito, per quello stesso motivo, contro di luì31. Il successo incoraggiò i templari. Quando scoppiò la guerra tra Ayub ed Ismail nella primavera del 1244 essi persuasero i baroni a partecipare attivamente a favore di quest’ultimo. An-Nasir di Kerak ed il giovane principe di Homs, al-Mansur Ibrahim, si erano uniti entrambi ad Ismail; ed alMansur Ibrahim si recò di persona ad Acri per suggellare l’alleanza e offrire ai franchi, in nome degli alleati, una parte dell’Egitto, quando Ayub fosse stato sconfitto. Il principe musulmano fu accolto con grande onore e i templari provvidero alla maggior parte delle spese del ricevimento32. Ma non era tanto facile sconfiggere Ayub, che aveva trovato alleati più efficienti dei franchi. I turchi khwarizmiani, fin dalla morte del loro re Jelal ad-Din, avevano vagato per lo Jezireh e la Siria settentrionale, compiendo scorrerie e saccheggi sulla loro strada. Una coalizione dei principi ayubiti della Siria aveva cercato di dominarli nel 1241 e li aveva duramente sconfitti in una battaglia non lontano da Edessa. Ma poi i khwarizmiani avevano stabilito il loro quartier generale nella campagna tra Edessa e Harran, manifestando l’intenzione di vendere i propri servigi33. Ayub aveva avuto contatti con loro per qualche tempo ed ora li incoraggiò ad invadere il territorio di Damasco e la Palestina34. Nel giugno del 1244 i cavalleggeri khwarizmiani, forti di diecimila uomini calarono sul territorio di Damasco devastando la campagna ed incendiando i villaggi. Damasco stessa era troppo forte perché essi l’attaccassero, perciò proseguirono la loro cavalcata in Galilea oltrepassando la città di Tiberiade, che conquistarono, e volgendo poi a sud, attraverso Nablus, verso Gerusalemme.

D’improvviso i franchi si resero conto del pericolo. Il patriarca Roberto, da poco eletto, si affrettò verso la città con i gran maestri del Tempio e dell’Ospedale e rinforzò la guarnigione entro le fortificazioni che i templari avevano da poco ricostruito, ma essi stessi non osarono rimanervi. L’11 luglio i khwarizmiani irruppero nella città. Vi furono combattimenti nelle strade, ma essi si aprirono con la forza un varco fino al convento armeno di San Giacomo e massacrarono i frati e le suore. Il governatore franco fu ucciso mentre, insieme con il precettore dell’Ospedale, tentava una sortita dalla cittadella. Ma la guarnigione tenne duro e, poiché da parte dei franchi non giungeva nessun aiuto, si rivolse al suo alleato musulmano più vicino, an-Nasir di Kerak. Questi non aveva alcuna simpatia per i cristiani ed era contrariato per l’alleanza stretta con loro; perciò si limitò ad inviare qualche contingente, che costrinse i khwarizmiani ad offrire ai difensori un salvacondotto per la costa in cambio della resa della cittadella, dopo di che egli si disinteressò della loro sorte. Il 23 agosto circa seimila cristiani, uomini, donne e bambini, partirono dalla città abbandonandola ai khwarizmiani. Mentre avanzavano lungo la strada verso Giaffa alcuni di loro guardando indietro videro dei vessilli franchi sventolare sulle torri: pensando che in qualche modo fossero giunti aiuti, molti insistettero per ritornare verso la città, ma caddero in un’imboscata sotto le mura. Vi perirono circa duemila persone. Gli altri furono attaccati da banditi arabi mentre viaggiavano verso il mare e soltanto trecento giunsero a Giaffa. In questo modo Gerusalemme cessò definitivamente di appartenere ai franchi. Trascorsero quasi sette secoli prima che un esercito cristiano varcasse di nuovo le sue porte. I khwarizmiani mostrarono poca pietà per la città: irruppero nella chiesa del Santo Sepolcro, dove alcuni vecchi preti latini che avevano rifiutato di lasciare la città stavano celebrando la messa, e li trucidarono, uccidendo pure i preti indigeni che vi si trovavano. I resti dei re di Gerusalemme inumati nella chiesa furono dissepolti e la chiesa stessa fu data alle fiamme. Per tutta la città vennero saccheggiate case e botteghe ed incendiate le chiese. Poi, dopo averne fatto un luogo di desolazione, i khwarizmiani se ne andarono rapidamente a raggiungere l’esercito egiziano a Gaza35. Mentre costoro saccheggiavano Gerusalemme i cavalieri di «Outremer» si erano radunati nei dintorni di Acri. Qui furono raggiunti dagli eserciti di Homs e Damasco, al comando di al-Mansur Ibrahim di Homs, mentre an-Nasir vi conduceva l’esercito di Kerak. Il 4 ottobre 1244 le forze alleate cominciarono ad avanzare verso sud, lungo la strada costiera. Sebbene an-Nasir ed i suoi beduini si tenessero in disparte, c’era un perfetto cameratismo tra i franchi ed al-Mansur Ibrahim ed i suoi uomini. L’esercito cristiano era il più numeroso che «Outremer» avesse messo in campo dopo la giornata fatale di Hattin. C’erano seicento cavalieri laici guidati da Filippo di Montfort, signore di Toron e di Tiro, e da Gualtiero di Brienne, conte di Giaffa. Il Tempio e l’Ospedale mandarono ambedue più di trecento dei loro cavalieri al comando dei due gran maestri, Armando di Périgord e Guglielmo di Chàteauneuf. C’era anche un contingente dell’Ordine teutonico. Boemondo di Antiochia inviò i suoi cugini Giovanni e Guglielmo di Botrun e Giovanni di Ham, conestabile di Tripoli. Il patriarca Roberto in persona accompagnava l’esercito, assieme all’arcivescovo di Tiro e a Rodolfo, vescovo di Ramleh. C’era un numero proporzionato di sottufficiali e di fanti. Le truppe al comando di al-Mansur Ibrahim erano probabilmente più numerose, ma armate più leggermente. Sembra che anNasir avesse fornito la cavalleria beduina. L’esercito egiziano si trovava davanti a Gaza, al comando di un giovane emiro mamelucco Rukn ad-Din Baibars. Era formato da cinquemila soldati scelti egiziani e dall’orda khwarizmiana. Gli eserciti avversari vennero in contatto il 17 ottobre al villaggio di Herbiya, o La Forbie, nella pianura sabbiosa a poche miglia a nord-est di Gaza. Gli alleati tennero frettolosamente un consiglio di guerra: al-Mansur Ibrahim raccomandò di non muoversi e di fortificare l’accampamento contro un

attacco dei khwarizmiani. Calcolava che costoro sarebbero diventati presto impazienti; detestavano infatti lanciarsi all’attacco di una posizione fortificata mentre d’altra parte l’esercito egiziano non avrebbe potuto attaccare senza di loro. Con un po’ di fortuna si poteva contare che gli egiziani si sarebbero presto ritirati in patria. Molti cristiani erano d’accordo con lui, ma Gualtiero di Giaffa esigeva con impazienza un attacco immediato. Le loro forze erano superiori di numero: era una magnifica occasione per annientare la minaccia khwarizmiana e per umiliare Ayub. Riuscì ad imporre il suo punto di vista e tutto l’esercito avanzò per l’attacco. I franchi si trovavano all’ala destra, poi venivano gli uomini di Damasco e quelli di Homs al centro, ed an-Nasir sulla sinistra. Mentre le truppe egiziane sostenevano l’attacco franco, i khwarizmiani caricavano i loro alleati musulmani. Al-Mansur Ibrahim ed i suoi uomini di Homs mantennero le loro posizioni, ma le truppe di Damasco non poterono sostenere l’urto: volsero le spalle e fuggirono e con loro an-Nasir ed il suo esercito. Mentre al-Mansur Ibrahim si apriva un varco combattendo senza tregua, i khwarizmiani fecero una conversione e piombarono sull’ala dei cristiani, sospingendoli contro i reggimenti egiziani. I franchi combatterono valorosamente, ma inutilmente. In poche ore il loro intero esercito venne distrutto. Fra i morti vi erano il gran maestro ed il maresciallo dei templari, l’arcivescovo di Tiro, il vescovo di Ramleh ed i due giovani signori di Botrun. Il conte di Giaffa, il gran maestro dell’Ospedale ed il conestabile di Tripoli furono fatti prigionieri. Filippo di Montfort ed il patriarca trovarono scampo ad Ascalona dove furono raggiunti dai sopravvissuti degli ordini, trentatré templari, ventisei ospitalieri e tre cavalieri teutonici. Proseguirono per mare verso Giaffa. Il numero dei morti fu stimato in non meno di cinquemila, e probabilmente erano molti di più. Ottocento prigionieri furono portati in Egitto36. L’esercito vincitore marciò subito su Ascalona, ora presidiata dagli ospitalieri. Le sue fortificazioni si dimostrarono buone: gli assalti degli egiziani fallirono ed essi si disposero ad assediarla, facendo venire delle navi dall’Egitto per sorvegliare la costa. Nel frattempo i khwarizmiani si precipitarono su Giaffa con il suo conte prigioniero, minacciando di impiccarlo se la guarnigione non si fosse arresa. Ma egli gridò ai suoi uomini di non cedere. Le fortificazioni erano troppo formidabili per i khwarizmiani che si ritirarono con il loro prigioniero, risparmiandogli la vita. Mori poco tempo dopo in prigionia, dopo una lite con un emiro egiziano con il quale stava giocando agli scacchi37. Il disastro di Gaza privò i franchi di tutte le precarie conquiste ottenute con la diplomazia negli ultimi decenni. Non è verosimile che Gerusalemme e la Galilea potessero essere difese contro un serio attacco musulmano, ma la perdita di un gran numero di uomini validi impedì a «Outremer» di difendere qualche cosa di più che non i soli distretti costieri e pochi dei più forti castelli nell’interno. Soltanto a Hattin le perdite erano state superiori. C’era tuttavia una differenza tra Hattin e Gaza: il vincitore di quella battaglia, Saladino, era già padrone di tutta la Siria e dell’Egitto. Questa volta invece Ayub doveva ancora sottomettere il suo rivale di Damasco prima di potersi arrischiare a dare il colpo decisivo ai cristiani. Questo indugio salvò «Outremer». I khwarizmiani avevano sperato che, come ricompensa per il loro aiuto, Ayub permettesse loro di stabilirsi in qualche ricca contrada dell’Egitto. Ma egli rifiutò di lasciarli attraversare la frontiera e dispose le sue truppe per vigilare che essi rimanessero in Siria. Essi tornarono indietro per predare la Palestina fin nei sobborghi di Acri, poi si diressero verso l’interno per unirsi agli egiziani nell’assedio di Damasco. L’esercito egiziano, al comando dell’emiro Muin ad-Din, avanzò attraverso la Palestina centrale privando an-Nasir di Kerak di tutte le sue terre ad occidente del Giordano, e finalmente giunse davanti a Damasco nell’aprile del 1245. L’assedio durò sei mesi. Ismail di

Damasco tagliò le dighe che contenevano il fiume Barada e la zona fuori delle mura diventò un acquitrino intransitabile. Ma il blocco rigoroso organizzato dagli egiziani causò ben presto inquietudine tra i mercanti ed i bottegai. Al principio di ottobre Ismail venne a patti: cedette Damasco in cambio di un principato dipendente, formato da Baalbek e dalla Hauran. Ma i khwarizmiani non erano ancora stati ricompensati. Decisero perciò di abbandonare la causa di Ayub e all’inizio del 1246 offrirono i loro servizi a Ismail. Questi, con il loro aiuto, tornò verso Damasco e pose l’assedio alla città. Aveva sperato che altri principi ayubiti si sarebbero uniti a lui contro Ayub; ma essi detestavano ancor più i khwarizmiani. Il reggente di Aleppo ed il principe di Homs, sovvenzionati da Ayub, inviarono un esercito a liberare Damasco. Ismail ed i suoi alleati levarono l’assedio e si diressero verso nord, scontrandosi con l’esercito di soccorso sulla strada fra Baalbek e Homs. Egli fu duramente sconfitto ed i khwarizmiani quasi annientati. I sopravvissuti si diressero verso oriente per arruolarsi con i mongoli, mentre la testa del loro capo era portata in trionfo per le vie di Aleppo. Tutto il mondo arabo si rallegrò per la loro scomparsa. Fu confermato il possesso di Damasco da parte di Ayub. Ismail fu una volta ancora confinato a Baalbek e gli Ayubiti del nord riconobbero la preminenza del sultano egiziano. Egli poté di nuovo rivolgere la sua attenzione ai franchi38. Il 17 giugno 1247 un esercito egiziano conquistò Tiberiade ed il suo castello che Oddone di Montbéliard aveva ricostruito poco prima. Poi furono occupati Monte Tabor ed il castello di Belvoir. Successivamente l’esercito mosse all’assedio di Ascalona. Le fortificazioni che Ugo di Borgogna aveva costruito si trovavano in buone condizioni e c’era una forte guarnigione di ospitalieri. Furono chiesti altri aiuti ad Acri ed a Cipro. Dall’isola re Enrico inviò subito una squadra di otto galee con un centinaio di cavalieri agli ordini del suo siniscalco Baldovino di Ibelin; ad Acri il comune, con l’aiuto dei coloni italiani, aveva equipaggiato altre sette galee e cinquanta imbarcazioni più leggere. Gli egiziani avevano impegnato nel blocco di Ascalona una flotta di ventun galee che in quel momento salparono contro i cristiani. Ma prima di prendere contatto incapparono in un’improvvisa burrasca mediterranea: molte navi furono gettate sulla costa e naufragarono; i sopravvissuti tornarono in Egitto. La flotta cristiana poté così accostarsi ad Ascalona, vettovagliare la guarnigione e sbarcare i cavalieri. Ma il cattivo tempo continuò e le navi non potevano rimanere all’ancoraggio privo di protezione vicino alla città. Tornarono ad Acri e abbandonarono Ascalona al suo destino. L’esercito assediarne si era trovato in difficoltà a causa della mancanza di legname per le macchine da assedio; ma i relitti delle sue navi disseminati lungo la spiaggia lo rifornì di tutto il materiale di cui aveva bisogno. Un grande ariete aprì una breccia sotto le mura proprio sotto la cittadella ed il 15 ottobre l’esercito egiziano vi si riversò. I difensori furono colti di sorpresa: la maggior parte vennero uccisi senz’altro ed i restanti furono fatti prigionieri. Per ordine del sultano la fortezza fu smantellata ed abbandonata39. Ayub non sfruttò a fondo il successo. Fece una visita a Gerusalemme’ ordinando di ricostruirne le mura, poi proseguì per Damasco dove tenne la sua corte. Vi risiedette per l’inverno del 1248 e la primavera del 1249 e tutti i principi musulmani di Siria vennero a rendergli omaggio40. Nel ridotto regno di «Outremer», malgrado le perdite e la mancanza di un’autorità centrale, la situazione interna era calma. La regina Alice morì nel 1246 e la reggenza passò all’erede successivo, suo figlio re Enrico di Cipro, dopo una protesta della sorellastra di lei, la principessa-madre Melisenda di Antiochia. Re Enrico, la cui maggiore caratteristica era l’enorme corpulenza, non era un uomo che affermasse la propria autorità41. Designò Baliano di Ibelin come suo bali e confermò a Filippo di Montfort il possesso di Tiro. Quando Baliano morì nel settembre del 1247 gli succedette

come bali suo fratello Giovanni di Arsuf e come signore di Beirut suo figlio, un altro Giovanni42. Più a nord, Boemondo V di Antiochia e Tripoli cercava di tenersi il più possibile in disparte dagli affari dei suoi vicini. L’influenza della moglie italiana Luciana di Segni lo manteneva in buoni rapporti con il papato; ma il gran numero di parenti ed amici romani che ella invitava in Oriente irritava i suoi baroni e doveva procurargli più tardi non poche noie. Fu probabilmente dietro richiesta del pontefice che egli inviò un contingente alla disastrosa battaglia di Gaza. Allo stesso tempo, però, manteneva amichevoli relazioni con Federico II e dava asilo a Tripoli, con disappunto del papa, a Lotario Filangieri e a Tommaso di Acerra, sebbene rifiutasse di aiutarli attivamente. La sua disputa con il regno armeno durò per alcuni anni. Cercò vanamente di persuadere il papa a combinare un divorzio tra la giovane erede rupeniana Isabella ed il nuovo re Hethum, allo scopo di privare quest’ultimo del suo diritto al trono. Ma sia a lui, sia ad Enrico di Cipro Roma proibì specificatamente di attaccare gli armeni, mentre da parte sua Hethum era troppo impegnato a respingere gli attacchi del grande sultano selgiuchida Kaikhosrau per essere aggressivo. Il matrimonio tra la sorella di Hethum, Stefania, ed Enrico di Cipro nel 1237 preparò gradualmente la via ad una riconciliazione generale43. Boemondo aveva scarsa autorità sugli ordini militari stabiliti nei suoi territori, ma essi erano diventati più cauti. Il papato, in un tentativo di riconciliazione con il comune di Antiochia ed il suo forte elemento greco, modificò la propria politica verso la locale Chiesa ortodossa, probabilmente con l’approvazione di Boemondo. Era evidentemente impossibile ormai integrare i greci ed i latini in un’unica Chiesa, perciò Onorio III offrì ai greci una Chiesa autonoma, con la sua propria gerarchia ed il suo proprio rituale, a condizione che il patriarca greco riconoscesse la suprema autorità di Roma. Il clero greco rifiutò l’offerta, forse con l’incoraggiamento segreto di Boemondo, il quale pensava che una gerarchia greca indipendente sarebbe s’tata più docile, e il patriarca Simeone si recò al concilio antilatino convocato dall’imperatore di Nicea a Ninfeo, dove il papa fu solennemente scomunicato. Ma quando Simeone morì, verso l’anno 1240, il suo successore Davide, per la cui nomina forse intrigò la principessa Luciana, si mostrò desideroso di intavolare trattative con Roma. Nel 1245 papa Innocenzo IV inviò in Oriente il francescano Lorenzo di Orta con istruzioni secondo le quali i greci che riconoscessero la supremazia ecclesiastica papale, dovevano essere messi ovunque sullo stesso piano dei latini. Dovevano obbedire ai superiori latini soltanto dove esisteva un solido precedente storico in tal senso. Il patriarca fu invitato a mandare a Roma una missione, a spese del papa, per discutere i punti controversi. Davide accettò queste condizioni. Circa nello stesso tempo il patriarca latino Alberto, che non era del tutto soddisfatto degli accordi, partì per la Francia per partecipare ad un concilio a Lione, dove morì. Il successivo patriarca latino, Opizone Fieschi, nipote del papa, non fu designato fino al 1247 e giunse ad Antiochia l’anno seguente. Nel frattempo Davide era l’unico patriarca residente nella città. Ma alla morte di Davide, la cui data è sconosciuta, il suo successore Eutimio respinse l’autorità papale e perciò fu scomunicato da Opizone e bandito dalla città44. Una parte notevole della Chiesa giacobita aveva già fatto la sua sottomissione a Roma. Nel 1237 il patriarca giacobita Ignazio di Antiochia, mentre stava visitando Gerusalemme, dopo aver fatto una dichiarazione di fede ortodossa, prese parte ad una processione latina e ricevette un abito da domenicano. Al suo ritorno ad Antiochia trasse dalla sua parte molti membri del suo clero mentre ai latini veniva detto in forma ufficiale che potevano confessarsi con i preti giacobiti, quando non vi fossero confessori latini disponibili. Nel 1245 un emissario del papa, Andrea di Longjumeau, visitò Ignazio a Mardin, dov’egli aveva la sua residenza principale: insieme trattarono le condizioni

dell’unione. Ignazio era disposto ad accettare una formula di accordo verbale sulla dottrina e l’autonomia amministrativa sotto la diretta sovranità di Roma. Ma purtroppo egli parlava soltanto per una parte della Chiesa giacobita. Esisteva da tempo un dissidio tra i giacobiti della Siria del nord e quelli delle province orientali e meridionali; questi ultimi non tennero conto dell’unione. Finché visse Ignazio i suoi seguaci rimasero fedeli ai latini, ma dopo la sua morte avvenuta nel 1252 scoppiò una disputa per la sua successione: il candidato filolatino Giovanni di Aleppo trionfò per un certo tempo, ma considerava che i suoi amici latini gli avessero dato un appoggio insufficiente, mentre il suo rivale Dionigi, che alla fine lo spodestò, fu loro avversario costante. Soltanto una piccola parte della Chiesa, con sede a Tripoli, mantenne l’unione45. Lo sforzo per rendere effettiva l’unione era stato compiuto specialmente dai frati predicatori, domenicani e francescani, che avevano cominciato a lavorare in Oriente subito dopo la fondazione dei loro ordini. Nel piccolo regno di Gerusalemme non trovarono un campo d’azione sufficientemente ampio, ma erano particolarmente attivi nel patriarcato di Antiochia, dove il patriarca Alberto era loro devoto protettore. Essi tendevano sempre più a sostituire il clero secolare nelle disseminate diocesi del patriarcato. I rapporti dei patriarchi con il nuovo ordine monastico dei cistercensi furono meno felici. Pietro II, che era stato egli stesso un abate cistercense, li aveva stabiliti in due monasteri, San Giorgio di Jubin, vicino ad Antiochia, e Belmont vicino a Tripoli. Ma durante il patriarcato di Alberto scoppiarono vari scandali e fu necessaria una serie di appelli a Roma prima che l’ordine fosse ristabilito nei monasteri e l’autorità del patriarca diventasse effettiva46. Boemondo V dimostrò scarso interesse per questi fatti. Visitò raramente Antiochia, e tenne la sua corte a Tripoli. Come accadeva nel regno, così anche nei suoi territori i diversi elementi della popolazione si allontanavano gli uni dagli altri, salvandosi dalla distruzione solo per il perdurare delle liti tra gli Ayubiti e perché una forza più recente e tremenda cominciava ad agitare il mondo musulmano: l’impero dei mongoli.

Parte terza I mongoli ed i mamelucchi

Capitolo primo L’arrivo dei mongoli

... i suoi carri son come un turbine; i suoi cavalli son più rapidi delle aquile. «Guai a noi! poiché siam devastati!» Geremia, IV, 13

Nel 1167, vent’anni prima che Saladino riconquistasse Gerusalemme all’Islam, sulle lontane sponde del fiume Onon, nell’Asia nord-orientale, nasceva un bambino da un capotribù mongolo, di nome Yesugai, e da sua moglie Hoelun. Il ragazzo fu chiamato Temugin, ma è meglio conosciuto nella storia con il nome che assunse più tardi di Gengis Khan1. I mongoli erano un gruppo di tribù che vivevano lungo il corso superiore del fiume Amur, perpetuamente in guerra con i loro vicini orientali, i tartari. Il nonno di Yesugai, Qabul Khan, li aveva raccolti insieme in una libera confederazione; ma dopo la sua morte il suo regno si era disintegrato e l’imperatore Chin della Cina settentrionale aveva stabilito la propria sovranità su tutto il distretto. Yesugai ereditò soltanto una piccola parte dell’antica confederazione, ma accrebbe il proprio potere e la propria fama sconfiggendo e sottomettendo alcune tribù tartare e intervenendo negli affari del più civilizzato dei suoi immediati vicini, il khan dei keraiti. Era questa una popolazione seminomade di origine turca, che abitava la regione attorno al fiume Orkhon, in quella che è oggi la Mongolia esterna. Al principio del secolo XI il loro capo si era convertito al cristianesimo nestoriano, insieme con la maggior parte dei suoi sudditi; la conversione li mise in contatto con i turchi uighur tra i quali abbondavano i nestoriani. Nella valle del Tarim e nella depressione di Turfan, loro patria, gli uighur avevano sviluppato una civiltà sedentaria ed. avevano perfezionato un alfabeto per la lingua turca, basato sui caratteri siriaci. In tempi anteriori la loro religione prevalente era stata il manicheismo, ma ora, sotto l’influsso cinese, i manichei tendevano a diventare buddisti. Il potere degli uighur stava affievolendosi, ma la loro civiltà si era propagata ai keraiti ed anche ai turchi naiman, che risiedevano in una regione intermedia2. Verso l’anno 1170 morì il khan keraita Qurjakuz, figlio di Merghus Khan, e suo figlio Toghrul ebbe qualche difficoltà ad assicurarsi l’eredità paterna contro l’opposizione di fratelli e zii. Nel corso delle sue guerre fratricide ottenne l’aiuto di Yesugai, che diventò suo fedelissimo amico. Tale amicizia diede a Yesugai una certa preminenza tra i capitribù mongoli; ma prima che potesse consolidarsi come principale khan mongolo morì, avvelenato da alcuni nomadi tartari con i quali aveva cenato. Il suo figliuolo maggiore, Temugin, aveva allora nove anni3. L’energia di Hoelun, vedova di Yesugai, conservò al giovane capo una certa autorità sulle tribù di suo padre. Ma l’infanzia di Temugin fu tempestosa. Fin da bambino dimostrò la tempra di un capo, ed era spietato con i suoi rivali, perfino nella cerchia della famiglia. Nel corso delle guerre con le quali conquistò l’egemonia sui mongoli, fu per un certo tempo prigioniero della tribù Tayichiut e sua moglie Borke, che egli aveva sposato a diciassette anni fu tenuta in cattività per qualche mese dai turchi merkiti del lago Baikal; fu perciò sempre messa in dubbio la legittimità del di lei figlio

maggiore Juji, nato durante questa prigionia. I crescenti successi di Temugin erano dovuti in gran parte alla sua alleanza con il khan, keraita Toghrul che egli ostentava di considerare come un padre e che lo aiutò nelle sue guerre contro i merkiti. Verso l’anno 1194 Temugin fu eletto re o khan di tutti i mongoli e prese il nome di Gengis, il Forte. Poco dopo l’imperatore Chin riconobbe Gengis come il capo principale dei mongoli e lo fece suo alleato contro i tartari che minacciavano la Cina. Una rapida guerra diede come risultato la sottomissione di costoro al governo di Gengis. Quando nel 1197 Toghrul Khan fu cacciato dal trono keraita Gengis ve lo reintegrò. Nel 1199 egli uni le sue forze a quelle di Toghrul Khan per sconfiggere i turchi naiman; ma non passò molto tempo prima che egli stesso diventasse invidioso del potere dei keraiti. Toghrul era in quel momento il principe più potente nelle steppe orientali. Aveva il titolo di Wang Khan o Ong Khan, che filtrò fino all’Asia occidentale nella forma più familiare ed eufonica di Johannes, facendone così un candidato alla parte di «Prete Gianni». Era però un uomo assetato di sangue e sleale, con una notevole carenza di virtù cristiane, che non pensò mai a recare aiuto ai suoi correligionari. Nel 1203 litigò con Gengis. La loro prima battaglia, avvenuta a Khalakhaljit Elet, ebbe esito incerto; ma poche settimane dopo l’esercito dei keraiti fu sterminato a Jejer Undur, nel cuore del loro territorio: Toghrul venne ucciso mentre fuggiva in cerca di scampo. I membri superstiti della sua famiglia fecero atto di sottomissione a Gengis, il quale si annette tutto il paese4.

XII.

L’impeto mongolo sotto Gengis Khan.

Il successivo popolo soggiogato furono i naiman, nel 1204, con la grande battaglia di Chakirmaut,

dove era in gioco tutto il futuro della potenza di Gengis. Le guerre dei due anni seguenti affermarono la sua supremazia su tutte le tribù comprese tra il bacino del Tarim, il fiume Amur e la Grande Muraglia cinese. Nel 1206 si tenne sulle sponde del fiume Onon una kuriltay, o assemblea, di tutte le tribù che gli erano soggette, nella quale gli venne confermato il titolo regale; ed egli proclamò che i suoi sudditi dovevano essere conosciuti collettivamente come i mongoli. L’Impero di Gengis Khan era essenzialmente una agglomerazione di tribù. Egli non fece nessun tentativo di modificare la vecchia organizzazione tribale basata su famiglie patriarcali sotto il comando di capitribù ereditari. Semplicemente impose al disopra delle altre la propria famiglia, l’Altin Uruk o Clan d’Oro, stabilì un governo centrale controllato dai suoi familiari e collocò agli ordini dei clan Uberi un gran numero di schiavi presi dalle tribù che gli avevano opposto resistenza ed erano state sottomesse. Regalò servi a migliaia a parenti ed amici. Durante la kuriltay del 1206 sua madre Hoelun e suo fratello Temughe Otichin ricevettero in regalo ciascuno diecimila famiglie come beni mobili ed i suoi giovani figli cinque o seimila ciascuno. Non si ingeriva negli affari delle tribù e neppure delle città che gli si erano sottomesse pacificamente, purché rispettassero le leggi che imponeva e pagassero ai suoi esattori i pesanti tributi richiesti. Per legare insieme i suoi paesi promulgò un codice di leggi, lo Yasa, che doveva sostituire le consuetudini delle steppe. Lo Yasa, che fu pubblicato in parti successive per tutta la durata del suo regno, affermava specificatamente i diritti e privilegi dei capitribù, le condizioni del servizio militare e di quegli altri servizi dovuti al khan, i principi della tassazione e quelli della legge penale, civile e commerciale. Per quanto fosse un autocrate assoluto, Gengis intendeva che sia egli stesso che i suoi successori fossero vincolati alla legge5. Appena sistemata l’amministrazione del suo Impero, Gengis si dedicò alla sua espansione. Aveva ora un numeroso esercito alla cui organizzazione aveva pure dedicato un’attenta cura. Secondo la tradizione mongola e turca ogni membro delle tribù tra i quattordici e i sessant’anni era soggetto al servizio militare; e le grandi spedizioni annuali di caccia, durante l’inverno, necessarie per rifornire di carne l’esercito e la corte, servivano come manovre per mantenere i soldati in allenamento. Per temperamento gli uomini delle tribù erano abituati a rendere ai loro capi un’obbedienza cieca; ed i capi sapevano ora, per amara esperienza, che dovevano obbedire al khan. Come tutte le tribù nomadi, anche i suoi sudditi avevano un ardente desiderio di avanzare al di là dell’orizzonte ed il timore che le loro terre da pascolo e le loro foreste si esaurissero. Il khan offriva loro nuove contrade, un grande bottino e orde di schiavi. Erano un esercito a cavallo con arcieri e lancieri montati su veloci cavalcature di piccola taglia; uomini e bestie erano abituati fin dalla nascita ad una vita dura e a fare lunghi viaggi attraverso i deserti con pochissimo cibo e bevanda. Una tale combinazione di rapidità di movimenti, di disciplina e di immenso numero non si era mai vista prima di allora6. I tre grandi Stati che confinavano con i mongoli erano l’Impero Chin ad oriente, con capitale Pechino; il regno Tangut di Hsia Hsi, sul corso superiore del Fiume Giallo, dove una dinastia di origine tibetana regnava su una popolazione sedentaria mista di mongoli, turchi e cinesi; ed infine, verso sud-ovest, il regno dei kara khitai, nomadi buddisti che gli imperatori Chin al principio del secolo XII avevano respinto dalla Manciuria e che si erano aperti combattendo una via verso occidente per fondare un impero a spese degli uighur del bacino del Tarim e dei turchi musulmani di Yarkand e Khotan. Il loro monarca, il Gur Khan, era già un elemento di grande peso nella politica musulmana orientale; e gli uighur di Turf an erano suoi vassalli. Il più debole dei tre era Hsia Hsi, perciò Gengis lo attaccò per primo. Nel 1212 il suo re ne accettava la sovranità. Seguirono invasioni dell’Impero Chin: una serie di tremende battaglie mise in suo potere tutta la zona rurale fino al Mar Giallo e allo Shantung; ma i mongoli non erano abituati ad attaccare posizioni fortificate e le grandi

città cinte di mura gli resistettero. Gli eserciti di Gengis cominciarono ad imparare l’arte della guerra d’assedio soltanto quando un geniere Chin, Liu Po-lin, entrò al suo servizio. Ma nel 1226 l’imperatore Chin era ormai ridotto allo stato di vassallo. Già nel 1221 la provincia Chin della Manciuria era stata annessa e la Corea aveva riconosciuto la sovranità mongola. Quando l’ultimo imperatore Chin morì nel 1223 le sue restanti province furono incorporate nell’Impero mongolo7. Nel frattempo Gengis aveva esteso il suo potere verso sud-ovest. In quel momento giungeva al suo apogeo l’Impero khwarizmiano dello scià Mohammed, padrone di tutta l’Asia dal Kurdistan e dal Golfo Persico fino al lago Arai, al Pamir e all’Indo. Il Gur Khan dei kara khitai trovò in lui un vicino inquietante e cercò di creargli dei fastidi, incitandogli contro i suoi vassalli transoxiani. Le guerre che ne derivarono indebolirono seriamente i kara khitai; e mentre lo scià Mohammed ne annetteva il territorio meridionale, il trono del Gur Khan veniva usurpato da un principe esule naiman di nome Kuchluk. Questi, nestoriano di nascita, era diventato buddista per il suo matrimonio con una principessa kara khitai; ma, al contrario dei Gur Khan, si dimostrò intollerante verso i suoi sudditi cristiani e musulmani. La sua impopolarità forni a Gengis l’occasione di intervenire. Quando un esercito mongolo si precipitò sul bacino del Turfan fu accolto come liberatore. Gli uighur si sottomisero con gioia al governo dei mongoli e Kuchluk fu confinato in un piccolo principato nella valle del Tarim8. Questa espansione portò Gengis a contatto diretto con il territorio dei khwarizmiani. Lo scià Mohammed non era uomo da tollerare un rivale altrettanto ambizioso. Tra i due sovrani vi furono scambi di ambascerie; ma Mohammed si sentì insultato apertamente quando Gengis chiese che, in quanto khan delle nazioni turco-mongole egli fosse considerato come sovrano dal principe khwarizmiano. Nel 1218 una grande carovana di mercanti musulmani partì dalla Mongolia: vi era con loro un centinaio di mongoli inviati alla corte khwarizmiana per una missione speciale. Quando la carovana raggiunse Otrur sul fiume Jaxartes, nei territori di Mohammed, il governatore del luogo massacrò i viaggiatori e rubò le loro mercanzie, di cui inviò metà allo scià. Era una provocazione che Gengis non poteva ignorare. Vedendo che stava per scoppiare la guerra Kuchluk fece un tentativo per ridar vita al regno kara khitai. In una brillante campagna il generale mongolo Jebe insegui Kuchluk ed il suo esercito da un capo all’altro dei suoi possedimenti e finalmente lo uccise in un’alta vallata del Pamir9. Soppresso Kuchluk, Gengis era pronto a partire contro i khwarizmiani. Era un’impresa formidabile: si diceva che lo scià Mohammed potesse mettere in campo mezzo milione di uomini; e Gengis doveva condurre le operazioni a mille miglia di distanza dalla sua patria. Nella tarda estate del 1219 l’esercito mongolo composto di duecentomila uomini lasciò i suoi accampamenti sul fiume Irtysh. I re vassalli del khan, come per esempio il principe degli uighur, si unirono a lui nella marcia verso occidente. Lo scià Mohammed, non sapendo dove i mongoli avrebbero colpito, divise le sue truppe tra la linea dello Jaxartes ed i passi di Ferghana, mentre il grosso del suo esercito aspettava vicino alle grandi città transoxiane di Buchara e Samarcanda. L’esercito mongolo raggiunse direttamente il medio Jaxartes ed attraversò il fiume vicino a Otrur. Una parte dell’esercito fu lasciata ad assediare la città: un’impresa lunga perché i mongoli erano ancora inesperti della guerra d’assedio; una parte discese il fiume per attaccare i khwarizmiani sulle sue sponde; una parte lo risalì per tagliar fuori l’esercito di Ferghana, mentre Gengis ed il grosso delle truppe marciavano direttamente su Buchara. Vi giunsero nel febbraio del 1220. Quasi subito la popolazione gli aprì le porte della città. I turchi resistettero nella cittadella per pochi giorni, poi furono massacrati senza eccezione, insieme con gli imami musulmani che li avevano incoraggiati a continuare la lotta. Da Buchara Gengis mosse su Samarcanda mentre lo scià Mohammed, che non poteva fare affidamento

sulle sue truppe, si ritirava nella sua capitale a Urgenj, sull’Oxo, vicino a Khiwa. A Samarcanda, dove Gengis fu raggiunto dai suoi figli che si erano impadroniti di Otrur, la guarnigione turca si arrese subito, nella speranza di venire arruolata nell’esercito del conquistatore. Ma egli diffidava di soldati così pronti a passare al nemico e li mandò tutti a morte. Alcuni cittadini cercarono invano di organizzare una resistenza: anch’essi furono trucidati. Gengis inviò in seguito i suoi figli ad assediare Urgenj. Quivi la difesa fu più vigorosa e le dispute fra i figli del khan ritardarono di alcuni mesi la conquista. Nel frattempo lo scià Mohammed fuggiva a Khorasan, inseguito da un esercito agli ordini dei più fidati generali di Gengis, Subotai e Jebe. Egli sfuggi ai suoi inseguitori soltanto per morire nel dicembre del 1220 abbandonato e ridotto alla disperazione, in un’isoletta del Mar Caspio. Una lotta più decisa fu combattuta dal figlio di Mohammed, Jelal ad-Din, che raggiunse l’esercito khwarizmiano a Ferghana e si ritirò nell’Afganistan. A Parvan, poco a nord dell’Hindu Kush, egli sconfisse duramente l’esercito mongolo mandato per distruggerlo. Gengis stesso aveva attraversato l’Oxo, oltre Balkh, che gli si sottomise e fu risparmiata, ed era giunto fino a Bamian, nell’Hindu Kush centrale. La fortezza gli resistette; durante l’assedio fu ucciso il suo nipotino prediletto, Mutugen, perciò quando la città fu conquistata d’assalto, nessun essere vivente vi fu risparmiato. Nel frattempo suo figlio Tului e suo genero Toghutshar conducevano una campagna ancor più ad occidente, conquistando Merv (della cui popolazione maschile furono risparmiati soltanto quattrocento esperti artigiani) e Nishapur, dove Toghutshar fu ucciso e che subì esattamente la stessa sorte; la sua vedova assistette di persona al massacro. Gli artigiani delle due città furono inviati in Mongolia. Nell’autunno del 1221 Gengis avanzò attraverso l’Afganistan per attaccare Jelal ad-Din e lo raggiunse sulle sponde dell’Indo. L’esercito khwarizmiano fu distrutto il 24 novembre in una battaglia disperata: Jelal ad-Din stesso fuggì oltre il fiume e si rifugiò presso il re di Delhi. I suoi figli caddero nelle mani del vincitore e furono massacrati. Gengis rimase per circa un anno nell’Afganistan. L’immensa città di Herat, dopo essersi in un primo tempo sottomessa pacificamente ai mongoli, si era ribellata in seguito alla vittoria di Jelal adDin a Parvan. Un esercito mongolo l’assediò per parecchi mesi; alla sua conquista, avvenuta nel giugno del 1222 la popolazione intera che ammontava a centinaia di migliaia di persone fu mandata a morte. La carneficina durò una settimana. Alle città distrutte ed alle campagne devastate furono preposti amministratori mongoli sostenuti da truppe sufficienti per mantenere in ordine gli abitanti terrorizzati. Gengis ritornò allora nella Transoxiana, che era meno desolata. Quivi insediò un governatore khwarizmiano, Ma-sud Yalawach, circondato da consiglieri mongoli per sorvegliarlo e controllarlo. Il padre di Masud, Mahmud Yalawach, fu inviato in oriente a governare Pechino: metodo onorifico per garantire meglio la fedeltà di suo figlio. Gengis riattraversò lo Jaxartes nella primavera del 1223 e percorse lentamente la via del ritorno attraverso le steppe, raggiungendo l’Irtysh nell’estate del 1224 e la sua casa sul fiume Tuia nella primavera seguente10. Le fantastiche conquiste di Gengis Khan non restarono sconosciute ai cristiani di Siria. Si sapeva che egli stava attaccando la più grande potenza musulmana dell’Asia centrale, ed i nestoriani, con le loro chiese sparse per tutta l’Asia, potevano testimoniare che non era mal disposto verso i cristiani. Il khan personalmente era uno sciamanita, ma amava consultare preti cristiani e musulmani, con una certa preferenza per i primi. I suoi figli avevano sposato principesse keraite cristiane, che esercitavano un’influenza considerevole alla sua corte. Nulla impediva che potesse diventare un alleato della cristianità11. Queste speranze furono scosse nel corso del 1221. L’esercito inviato da Gengis agli ordini di Subotai e Jebe per catturare lo scià Mohammed non riuscì nel suo scopo immediato. Lo scià gli

sfuggi e si rifugiò verso il Mar Caspio, ma i generali mongoli continuarono l’avanzata verso occidente. Nell’estate del 1220 conquistarono e saccheggiarono Reiy, vicino alla moderna Teheran, ma risparmiarono la maggior parte della popolazione. Poi fu presa Qum i cui abitanti vennero tutti massacrati. Un destino simile toccò a Kazwin e a Zenjan, ma Hamadan lo evitò sottomettendosi a tempo e pagando un riscatto esorbitante. L’emiro dell’Azerbaigian pagò per evitare un attacco su Tabriz, ed i mongoli passarono oltre per attaccare la Georgia nel febbraio del 1221. Re Giorgio IV, figlio della regina Tamara, mobilitò la cavalleria georgiana per fronteggiare la loro avanzata, ma fu sbaragliato a Khunani, appena a sud di Tiflis. Fu un disastro da cui l’esercito georgiano non si riprese mai completamente. Ma i conquistatori tornarono verso sud: Hamadan si era ribellata e doveva essere punita; nella loro spedizione per andare a saccheggiare e distruggere la città si fermarono soltanto a depredare Maragha nell’Azerbaigian. Trascorsero il resto dell’anno nella Persia nord-occidentale. Al principio del 1222 si diressero di nuovo verso nord e, dopo aver devastato le province georgiane orientali e sconfitto le truppe inviate a respingerli, continuarono la marcia lungo la costa del Caspio, attraverso le Porte del Caspio, verso il territorio dei kipciak, tra la Volga ed il Don. I kipciak si allearono immediatamente con le tribù del Caucaso settentrionale, gli alani ed i lesghiani; ma quando Subotai e Jebe offrirono loro una parte del bottino essi non si mossero mentre i caucasici venivano schiacciati dai mongoli i quali, come era inevitabile, si volsero poi contro di loro. Essi sperarono di salvarsi offrendo denaro ai russi perché accorressero in loro aiuto; ma il 31 maggio 1222 un grande esercito russo guidato dai principi di Kiev, Galič, Cernikov e Smolensk fu distrutto sulle sponde del fiume Kalka, vicino al Mare di Azov. I generali mongoli non sfruttarono fino in fondo il loro successo: penetrarono in Crimea e saccheggiarono la base commerciale genovese di Soldaia, poi si precipitarono verso l’Oriente, fermandosi soltanto per distruggere un esercito dei bulgari kama e per devastare il loro paese. Raggiunsero Gengis Khan vicino al fiume Jaxartes al principio del 1223. Le vittime occidentali di questa immensa scorreria la considerarono, speranzosi, come un fenomeno isolato, come un orrendo cataclisma che non si sarebbe più ripetuto. Ma Gengis era contentissimo dei suoi generali. Non soltanto essi avevano operato una ricognizione di grande importanza scoprendo che nell’Asia occidentale non c’era nessun esercito che potesse resistere loro, ma avevano anche terrorizzato talmente le popolazioni con la loro crudeltà, che quando fosse venuto il tempo di un’invasione vera e propria nessuno avrebbe osato opporsi12. Quando Gengis Khan morì nel 1227 i suoi domini si estendevano dalla Corea alla Persia e dall’Oceano Indiano alle gelide pianure della Siberia. Nessun altro uomo aveva mai creato un impero così vasto. È impossibile spiegare il suo successo con la teoria secondo cui i mongoli sarebbero stati spinti ad espandersi da necessità economiche; si può soltanto dire che essi furono uno strumento idoneo per un capo dalle ambizioni espansionistiche. Gengis fu l’artefice del proprio destino, ma la sua figura rimane misteriosa. Si dice che all’aspetto fosse alto e vigoroso con occhi simili a quelli di un gatto. La sua resistenza fisica era certamente grande. Ed è pure certo che la sua personalità faceva una profonda impressione su chiunque avesse a che fare con lui. La sua capacità organizzativa era straordinaria; sapeva scegliere e dirigere gli uomini. Aveva un sincero rispetto per la cultura ed era sempre pronto a risparmiare la vita di uno studioso, ma disgraziatamente a poche delle sue vittime fu lasciato il tempo di dimostrare la propria erudizione. Adottò per i suoi popoli l’alfabeto uighur e gettò le basi della letteratura mongola. In questioni religiose era tollerante e pronto ad aiutare qualsiasi setta che non gli si opponesse politicamente. Insisteva sulla necessità di un governo giusto e ben ordinato: le strade furono liberate dai briganti, fu introdotto un servizio postale e sotto la sua protezione il commercio rifiorì e grandi carovane potevano transitare

tranquillamente ogni anno da un’estremità all’altra dell’immensa Asia. Ma non aveva nessuna pietà: non teneva in alcuna considerazione la vita umana e non dimostrava nessuna comprensione per la sofferenza degli uomini. Milioni di innocenti abitanti delle città perirono nel corso delle sue guerre, milioni di contadini innocenti videro i loro campi ed i loro frutteti distrutti. Il suo impero era fondato sul dolore umano13. La morte del grande conquistatore diede un momento di respiro al mondo esterno. Passarono infatti quasi due anni prima che le questioni della sua successione fossero definite. Secondo l’uso mongolo il maggiore dei figli ed i suoi discendenti avevano il diritto di ereditare l’impero, ma il minore aveva il diritto di conservare le terre d’origine della famiglia ed il dovere di convocare l’assemblea che avrebbe ratificato la successione. Gengis aveva rotto la tradizione ed aveva nominato il suo terzo figlio, Ogodai, erede del potere supremo, scartando il suo figlio maggiore Juji, la cui legittimità era discussa e le cui capacità militari ed amministrative si erano rivelate insoddisfacenti. Il suo secondo figlio, Jagatai, era un ottimo soldato, ma troppo violento ed impulsivo per essere un buono statista. Ogodai, sebbene meno brillantemente dotato, aveva, secondo Gengis, la pazienza ed il tatto necessari per dirigere i suoi fratelli ed i vassalli. Il minore, Tului, era forse il più capace di tutti, ma gli era di ostacolo la sua abitudine di abbandonarsi senza freno ai piaceri. Come principe responsabile della convocazione della kuriltay, era il personaggio più importante per decidere la successione; ma persuase i capi del clan ad adempiere i desideri di Gengis. Ogodai divenne il khan supremo e ricchi appannaggi furono assegnati ai suoi parenti. I fratelli di Gengis ebbero le province orientali, nei pressi del fiume Amur ed in Manciuria. Tului si tenne «le terre di famiglia» vicino all’Onon. Il patrimonio personale di Ogodai fu l’antico territorio keraita e naiman. Jagatai ereditò gli ex regni uighur e kara khitai. Juji era già morto, ma ai suoi figli Batu, Orda, Berke e Shiban, furono date le province occidentali fino alla Volga. Ma, se da un lato ai principi erano concessi diritti assoluti sui loro sudditi, d’altra parte essi dovevano obbedire alla legge imperiale dei mongoli e accettare le decisioni del governo del khan supremo, che Ogodai stabilì a Karakorum. L’unità dell’Impero mongolo non era stata indebolita14. Quando Gengis Khan ed i suoi eserciti ritornarono in Mongolia, il khwarizmiano Jelal ad-Din lasciò il suo esilio in India e raccolse intorno a sé i considerevoli resti degli eserciti di suo padre. In Persia fu acclamato come il liberatore dei mongoli. Già nel 1225 era padrone dell’altopiano persiano e dell’Azerbaigian e nel 1226 era sovrano di Bagdad. Il suo regno, che minacciava gli Ayubiti, era un elemento utile per la politica dei franchi di Siria; ma i cristiani delle regioni più settentrionali lo consideravano un vicino peggiore persino dei mongoli. Nel 1225 egli invase la Georgia. La sovrana georgiana, Russudan, sorella di Giorgio IV, mandò un esercito contro di lui, ma il fiore della cavalleria georgiana era caduto quattro anni prima davanti a Khunani e le sue truppe furono facilmente sconfitte a Garnhi, sulla frontiera meridionale. Mentre la regina stessa fuggiva a Kutais, Jelal ad-Din occupava e saccheggiava la sua capitale Tiflis e annetteva tutta la valle del fiume Kur. Un tentativo fatto dai georgiani nel 1228 per riconquistare le province perdute si concluse in un disastro. Il regno georgiano fu ridotto alle sue regioni vicino al Mar Nero. Non ebbe più alcun peso come avamposto della cristianità a nordest, ne come potenza capace di sfidare l’influenza musulmana in Asia Minore15. Non passò molto tempo prima che i mongoli tornassero verso occidente. Avevano dovuto prima reprimere ima rivolta dei Chin nella Cina settentrionale, ma all’inizio del 1231 apparve in Persia un immenso esercito mongolo agli ordini del generale Chormaqan. Il ricordo della precedente invasione mongola gli fu molto utile: nella sua marcia da Khorasan all’Azerbaigian non incontrò nessuna

resistenza. Jelal ad-Din fuggì davanti a lui per morire ingloriosamente nel Kurdistan. I suoi soldati khwarizmiani lo seguirono nella fuga e si raggrupparono nello Jezireh fuori della portata delle orde mongole, almeno per il momento. Quivi essi si prestarono come mercenari agli Ayubiti in lite, fino alla loro distruzione definitiva avvenuta vicino a Homs nel 1246. Chormaqan annette all’Impero mongolo tutta la Persia settentrionale e l’Azerbaigian e dal 1231 al 1241 governò quella provincia da un accampamento a Mughan, vicino al Mar Caspio. Nel 1236 invase la Georgia. Dopo la caduta di Jelal ad-Din la regina Russudan aveva rioccupato Tiflis; ma fuggì una volta ancora a Kutais ed i mongoli si impossessarono della Georgia orientale. Gli abitanti, una volta passate le atrocità della conquista, li preferivano di gran lunga ai khwarizmiani, per l’efficienza della loro amministrazione. Nel 1243 la regina stessa diventò loro vassalla a condizione che l’intero regno georgiano fosse consegnato a suo figlio, che lo avrebbe governato sotto la sovranità mongola16. Più a nord i cristiani furono molto meno soddisfatti. Nella primavera del 1236 un enorme esercito mongolo si ammassò a settentrione del lago Arai al comando di Batu, figlio di Juji, la cui eredità includeva quelle terre. Con lui c’erano i suoi fratelli e quattro dei suoi cugini: Guyuk e Qadan, figli di Ogodai, Baidar figlio di Jagatai e Mongka figlio di Tului. L’anziano generale Subotai fu inviato come capo di stato maggiore. Dopo aver eliminato le tribù turche della Volga, nell’autunno del 1237 l’esercito mongolo invase il territorio russo. Riazan fu presa d’assalto ed occupata il 21 dicembre ed il suo principe e tutti gli abitanti furono massacrati. Kolomna cadde pochi giorni dopo; e al principio del nuovo anno i mongoli attaccarono la grande città di Vladimir. Resistette soltanto per sei giorni e la sua caduta, l’8 febbraio 1238, fu segnata da un altro immenso massacro. Suzdal fu saccheggiata circa nello stesso tempo, poi seguì la conquista e la distruzione di città minori della Russia centrale, Mosca, Juriev, Galič, Pereslavl, Rostov e Jaroslavl. Il 4 marzo il gran principe Yuri di Vladimir fu sconfitto ed ucciso sulle sponde del fiume Sitti. Tver e Torzhok caddero poco dopo la battaglia ed i conquistatori avanzarono sulle colline Valdai verso Novgorod. Per buona fortuna della città, le piogge primaverili inondarono le paludi all’intorno. Batu si ritirò e trascorse il resto dell’anno a soffocare l’ultima resistenza dei kipciak, mentre suo cugino Mongka sottometteva gli alani e le tribù caucasiche settentrionali, facendo poi un’incursione esplorativa fino a Kiev. Nell’autunno del 1240 Batu entrò in Ucraina con il grosso del suo esercito. Cernikov e Pereslavl furono saccheggiate e Kiev, dopo una valorosa resistenza, fu conquistata d’assalto il 6 dicembre. Molti dei suoi tesori più notevoli furono distrutti e la maggior parte della sua popolazione trucidata, sebbene al comandante della guarnigione, Demetrio, fosse risparmiata la vita a motivo del suo coraggio, che Batu ammirava. Da Kiev una parte dell’esercito, agli ordini di Baidar figlio di Jagatai, mosse verso nord in Polonia, saccheggiando Sandomir e Cracovia. Il re polacco invocò l’aiuto dei cavalieri teutonici stabiliti sulla costa baltica; ma i loro eserciti riuniti, al comando del duca Enrico di Slesia, furono sbaragliati il 9 aprile 1241 dopo un’accanita battaglia a Wahlstadt, vicino a Liegnitz. Tuttavia Baidar non osò spingersi oltre verso occidente. Devastò la Slesia, poi si volse a sud, penetrando in Ungheria attraverso la Moravia. Nel frattempo Batu e Subotai erano passati in Galizia, sospingendo davanti a sé un’orda di fuggiaschi terrorizzati comprendente gente di tutti i popoli delle steppe. Nel febbraio del 1241 superarono i Carpazi e scesero nella pianura ungherese. Re Bela condusse loro incontro il suo esercito, ma l’11 aprile fu disastrosamente sconfitto presso il ponte di Mohi, sul fiume Sajo. I mongoli si riversarono sull’Ungheria, in Croazia e fino alle rive dell’Adriatico. Batu rimase egli stesso in Ungheria per alcuni mesi e sembra che desiderasse annetterla all’Impero mongolo. Ma al principio del 1242 giunsero messaggeri con la notizia che il gran khan Ogodai era morto a

Karakorum l’11 dicembre 124117. Batu non poteva permettersi di rimanere lontano dalla Mongolia mentre si decideva la successione. Durante la campagna di Russia aveva litigato aspramente con i suoi cugini Guyuk, figlio di Ogodai, e Buri, nipote di Jagatai, ed ambedue erano ritornati irritati in patria. Ogodai appoggiava Batu contro il suo proprio figlio che cadde in disgrazia e fu mandato in esilio. Ma Guyuk come figlio maggiore del khan era ancora potente. Ogodai designò come successore il proprio nipote Shiremon, il cui padre, Kuchu era stato ucciso mentre combatteva contro i cinesi. Tuttavia Shiremon era giovane ed inesperto. La vedova di Ogodai, la Khatun Toragina, nata principessa naiman, assunse la reggenza, decisa ad ottenere che Guyuk avesse il trono. Ella convocò una kuriltay ma, benché la sua autorità fosse riconosciuta fino alla designazione di un nuovo gran khan, passarono cinque anni prima che potesse convincere i principi del sangue ed i capi tribù ad accettare Guyuk. Durante questi anni ella resse il governo: era energica ma avara e, sebbene cristiana di nascita, scelse come suo favorito un musulmano, Abd ar-Rahman, che i pettegolezzi accusavano di aver affrettato la morte di Ogodai. La sua corruzione e la sua cupidigia lo resero odioso a tutti, ma nessuno era abbastanza potente per rovesciare la reggenza18. Finché la successione non fosse sicura, Batu non era disposto ad imbarcarsi in avventure in Occidente. Lasciò guarnigioni in Russia, ma all’Europa centrale fu dato un po’ di respiro. L’avanzata mongola continuò solo nell’Asia occidentale, dove la reggente aveva inviato come governatore un generale capace ed attivo di nome Baichu. Passati i primi mesi del 1242 questi invase i territori del sultano selgiuchida Kaikhosrau, che si trovava in quel momento nello Jezireh per cercare di annettersi le terre rimaste senza padrone dopo il crollo di Jelal ad-Din. Al principio della primavera Erzerum cadde nelle mani dei mongoli. Il 26 giugno 1243 l’esercito del sultano fu sbaragliato a Sadagh, vicino a Erzinjan; e Baichu avanzò su Cesarea-Mazacha. Kaikhosrau fece allora atto di sottomissione ed accettò la sovranità mongola. Il suo vicino, re Hethum l’armeno, si affrettò a seguirne l’esempio19. C’era da aspettarsi che i principi della cristianità occidentale facessero qualche piano per un’azione in comune contro una minaccia così terribile. Già nel 1232 quando Chormaqan aveva distrutto la potenza khwarizmiana in Persia, l’ordine degli assassini, il cui quartier generale ad Alamut nelle montagne persiane era minacciato, aveva inviato messi in Europa per avvertire i cristiani e chiedere aiuti20. Nel 1241, quando sembrava che l’Europa centrale fosse condannata, papa Gregorio IX aveva esortato i principi a formare una grande alleanza per la sua liberazione. Ma l’imperatore Federico, che in quel momento si dava molto da fare per conquistare gli Stati papali in Italia, non volle essere distolto da questa sua occupazione. Ordinò a suo figlio Corrado, in qualità di governatore della Germania, di mobilitare l’esercito tedesco e si rivolse per aiuti ai re di Francia e d’Inghilterra21. Quando, l’anno seguente, i mongoli si ritirarono in Russia la cristianità occidentale tornò alle sue illusioni. La leggenda di Prete Gianni diffuse una credenza quasi apocalittica - che lasciò un’impronta assai forte - secondo la quale la salvezza sarebbe venuta dall’Oriente. Nessuno si fermò a riflettere che, se Wang-Khan il keraita era stato veramente il misterioso Johannes, era inverosimile che colui che lo aveva distrutto potesse compiere la sua stessa funzione. Tutti preferivano ricordare che i mongoli avevano combattuto contro i musulmani e che principesse cristiane si erano sposate nella famiglia imperiale. Il gran khan dei mongoli poteva anche non essere personalmente cristiano, poteva anche non essere Prete Gianni, ma si presumeva con grande speranza che sarebbe stato desideroso di sostenere il cristianesimo contro le forze dell’Islam. La presenza di

un alleato potenziale così forte sullo sfondo del mondo orientale dava l’impressione che i tempi fossero maturi per una nuova crociata; ed era per giunta disponibile un crociato pieno di buona volontà22.

Capitolo secondo San Luigi

...Non giova a nulla all’uomo l’avere il suo diletto in Dio. Giobbe, XXXIV, 9

Nel dicembre del 1244 Luigi IX, re di Francia, cadde molto gravemente ammalato di un’infezione malarica: prostrato dal male e prossimo alla morte fece voto di partire per una crociata se fosse guarito. La vita gli fu risparmiata; ed appena la salute glielo permise cominciò i preparativi. In quel momento il re aveva trent’anni ed era un uomo alto, esile, biondo e chiaro di pelle, anemico e sempre sofferente di risipola; ma dotato di una forza di carattere che non venne mai meno. Pochi esseri umani sono stati così sinceramente virtuosi e consci di esserlo. In quanto re si sentiva responsabile davanti a Dio per il benessere del suo popolo e non permetteva a nessun prelato, nemmeno al papa in persona, di allontanarlo da questo dovere. Era suo compito governare con giustizia: sebbene non fosse un innovatore e rispettasse scrupolosamente i diritti feudali dei suoi vassalli, si aspettava che essi compissero la loro parte e, se vi mancavano, limitava le loro prerogative. Questa rigorosa serietà gli guadagnò l’ammirazione persino dei suoi nemici; ed il loro rispetto si accrebbe a motivo della sua religiosità personale, della sua umiltà e della sua vita straordinariamente austera. Il suo concetto dell’onore era molto elevato: non violò mai la parola data. Era spietato con i malfattori; ed era duro, persino crudele verso gli eretici e gli infedeli. I suoi intimi trovavano la sua conversazione piena di fascino e di una gentile vivacità, ma egli teneva a distanza i suoi ministri ed i suoi vassalli; e persino per i suoi figli era un signore autocratico. La regina sua consorte, Margherita di Provenza, era stata una ragazza gaia ed orgogliosa, ma egli la domò imponendole una condotta più confacente alla moglie di un santo1. In un’epoca come quella, in cui la virtù era tanto ammirata e così raramente praticata, re Luigi si elevava molto al di sopra di tutti gli altri sovrani suoi contemporanei. Era naturale che desiderasse partecipare ad una crociata; e la sua effettiva adesione al movimento fu accolta con sommo piacere. Una crociata era infatti estremamente necessaria. Il 27 novembre 1244, subito dopo il disastro di Gaza, Galerano vescovo di Beirut salpò da Acri per annunziare ai principi d’Occidente, a nome del patriarca Roberto di Gerusalemme, che era indispensabile l’invio di rinforzi, se si voleva evitare la distruzione del regno. Nel giugno del 1245 papa Innocenzo IV, cacciato dall’Italia dalle truppe dell’imperatore, tenne un concilio nella città imperiale di Lione per discutere delle misure da adottare contro Federico. Il vescovo Galerano lo raggiunse colà insieme con Alberto, patriarca di Antiochia. Innocenzo era un po’ offeso con Luigi il quale, per scrupolo di correttezza, rifiutava di accettare per buone tutte le azioni del papa contro l’imperatore; ma udendo la triste relazione che Galerano portava dall’Oriente il pontefice fu lieto di confermare i voti di crociata formulati dal re e mandò Oddone, cardinale vescovo di Frascati, a predicare la crociata per tutta la Francia2. I preparativi del re durarono tre anni. Furono imposte tasse straordinarie per pagare le spese della spedizione, e lo stesso clero, con sua gran de stizza, non ne fu esentato. Bisognava decidere chi

avrebbe governato il paese: alla regina madre Bianca, che aveva dimostrato la sua abilità di statista durante i tempestosi anni in cui suo figlio era minorenne, venne affidata ancora una volta la reggenza. C’erano anche problemi di politica estera da risolvere: bisognava persuadere il re d’Inghilterra a mantenere la pace3.I rapporti con l’imperatore Federico, poi, erano particolarmente delicati. Luigi si era guadagnata la sua gratitudine col mantenersi strettamente neutrale nella sua disputa con il papato; ma nel 1247 do vette minacciare un intervento, quando Federico propose ai suoi alleati un attacco contro la persona del papa che si trovava a Lione. Inoltre l’imperatore era il padre del legittimo re di Gerusalemme. Senza il permesso di re Corrado, Luigi non aveva nessun diritto di entrare nel suo paese. Sembra che inviati francesi tenessero Federico al corrente della crociata che si progettava e che questi, mentre esprimeva la sua simpatia, tra smettesse tali informazioni alla corte d’Egitto. Poi fu necessario trovare navi per trasportare la crociata in Oriente. Dopo alcune trattative, Geno va e Marsiglia acconsentirono a fornire ciò che occorreva. Per tal motivo i veneziani, già infastiditi da un progetto che minacciava di interrompere i loro buoni rapporti commerciali con l’Egitto, gli divennero ancora più ostili4. Finalmente, il 12 agosto 1248 re Luigi lasciò Parigi ed il 25 salpò da Aigues-Mortes per Cipro. Con lui partirono la regina e due dei suoi fratelli, Roberto, conte di Artois, e Carlo, conte di Angiò. C’erano al suo seguito i suoi cugini Ugo, duca di Borgogna, e Pietro, conte di Bretagna, che erano stati ambedue crociati nel 1239, Ugo X di Lusignano, conte di La Marche, patrigno di re Enrico III, che aveva partecipato da giovane alla quinta crociata, Guglielmo di Dampierre conte di Fiandra, Guido III conte di Saint-Poi, i cui padri erano stati nella terza e nella quarta crociata, Giovanni, conte di Sarrebruck, e suo cugino Giovanni di Joinville, siniscalco di Champagne, lo storico, e molta gente meno altolocata. Alcuni di loro si imbarcarono a Aigues-Mortes, altri a Marsiglia. Joinville e suo cugino, che avevano ciascuno nove cavalieri, noleggiarono un battello in quest’ultimo porto5. Un distaccamento inglese al comando di Guglielmo, conte di Salisbury, nipote di Enrico II e della bella Rosamunda, li seguì da vicino. Altri signori inglesi avevano progettato di unirsi alla crociata, ma Enrico III non desiderava privarsi dei loro servigi e tramò perché il papa ne ostacolasse il viaggio. Dalla Scozia venne Patrizio, conte di Dunbar, che morì a Marsiglia durante il viaggio6. La squadra navale reale giunse a Limassol il 17 settembre ed il re e la regina vi sbarcarono la mattina seguente. Durante i pochi giorni successivi le truppe destinate alla crociata si raccolsero a Cipro. Oltre ai nobili provenienti dalla Francia vi giunsero, da Acri, il sostituto gran maestro dell’Ospedale, Giovanni di Ronay, il gran maestro del Tempio e molti dei baroni siriani. Re Enrico di Cipro li ricevette tutti con cordiale ospitalità7. Quando si discusse il piano della campagna tutti si trovarono d’accordo nel fissare come obiettivo l’Egitto. Era la provincia più ricca e più vulnerabile dell’Impero ayubita ed i soldati ricordavano che durante la quinta crociata il sultano era stato disposto a dare Gerusalemme stessa in cambio di Damietta. Appena presa la decisione, Luigi volle iniziare subito le operazioni. I gran maestri ed i baroni siriani lo dissuasero. Ben presto dovevano cominciare le burrasche invernali e sarebbe stato pericoloso avvicinarsi alla costa del Delta, con le sue infide spiagge sabbiose ed i rari porti. Inoltre speravano di persuadere il re ad intervenire nelle dispute familiari degli Ayubiti. Nell’estate del 1248 il signore di Aleppo, an-Nasir Yusuf, aveva cacciato da Homs suo cugino alAshraf Musa, ed il principe spodestato si era rivolto per aiuto al sultano Ayub, che venne dall’Egitto inviando un esercito a riconquistare Homs. I templari erano già entrati in trattative con il sultano facendo presente che concessioni territoriali gli avrebbero permesso di trarre dalla sua milizie ausiliarie franche. Ma re Luigi non volle aver nulla a che fare con un progetto simile: al pari dei

crociati europei dei secoli precedenti, anch’egli era venuto per combattere gli infedeli e non per darsi alla diplomazia. Ordinò ai templari di interrompere le trattative8. Gli scrupoli che impedivano al re di scendere a patti con qualsiasi musulmano non si applicavano ai mongoli che erano pagani. Egli aveva un valido precedente: nel 1245 papa Innocenzo IV aveva accompagnato i suoi sforzi per salvare la cristianità del vicino Oriente con l’invio di due ambascerie alla corte del gran khan in Mongolia. Una, guidata dal francescano Giovanni da Pian del Carpine, aveva lasciato Lione nell’aprile di quello stesso anno e, dopo aver viaggiato per quindici mesi attraverso la Russia e le steppe dell’Asia centrale, era giunta all’accampamento imperiale a Sira Ordu, vicino a Karakorum, nell’agosto del 1246, in tempo per assistere alla kuriltay che elesse Guyuk al potere supremo. Questi, che aveva parecchi nestoriani tra i suoi consiglieri, ricevette gentilmente l’inviato papale; ma quando lesse la lettera del papa che gli chiedeva di accettare il cristianesimo, scrisse una risposta in cui ordinava al pontefice di riconoscere la sua sovranità e di venire a rendergli omaggio con tutti i principi dell’Occidente. Giovanni da Pian del Carpine al suo ritorno alla curia papale alla fine del 1247 diede a Innocenzo, insieme con questa lettera deludente, un rapporto particolareggiato in cui mostrava che i mongoli si interessavano soltanto di conquiste9. Ma Innocenzo non volle abbandonare interamente le sue illusioni. La sua seconda ambasceria, guidata dal domenicano Ascelino di Lombardia, era partita un po’ più tardi, aveva viaggiato attraverso la Siria e si era incontrata a Tabriz, nel maggio del 1247, con il generale mongolo Baichu. Costui, che Ascelino giudicò persona antipatica e sgradevole, era pronto a discutere la possibilità di un’alleanza contro gli Ayubiti. Egli progettava di attaccare Bagdad e gli sarebbe convenuto che una crociata tenesse impegnati i musulmani di Siria. Mandò due inviati, Aibeg e Serkis (quest’ultimo senza dubbio un nestoriano), ad accompagnare Ascelino a Roma; e, sebbene essi non fossero plenipotenziari, le speranze dell’Occidente rinverdirono nuovamente. Essi si fermarono quasi un anno presso il papa. Nel novembre del 1248 furono invitati a tornare da Baichu per riferirgli il disappunto di Roma perché il progetto d’alleanza non aveva fatto nessun passo avanti10. Nel dicembre del 1248, mentre re Luigi si trovava a Cipro, giunsero a Nicosia due nestoriani, di nome Marco e Davide, che affermavano di essere inviati da un generale mongolo, Aljighidai, commissario del gran khan a Mosul. Erano latori di una lettera che parlava in termini esageratamente adulatori della simpatia dei mongoli per il cristianesimo. Luigi ne fu contentissimo e spedì subito una missione di domenicani agli ordini di Andrea di Longjumeau e di suo fratello, che parlavano ambedue arabo. Andrea, infatti, era stato il principale agente del papa nelle recenti trattative con i monofisiti. Essi recavano con sé una cappella portatile, come dono adatto per un khan nomade convertito, reliquie per il suo altare ed altri regali più mondani. Lasciarono Cipro nel gennaio del 1249 per l’accampamento di Aljighidai e furono da lui fatti proseguire per la Mongolia. Al loro arrivo a Karakorum trovarono che Guyuk era morto e che la sua vedova, Oghul Qaimish, stava occupando temporaneamente la carica di reggente. Accolse benevolmente la missione, ma considerò i doni del re come il tributo di un vassallo al proprio sovrano, mentre le difficoltà dinastiche in patria le impedivano, anche se avesse voluto farlo, di inviare in Occidente una spedizione di qualche importanza. Andrea ritornò tre anni più tardi con nulla più che una lettera piena di espressioni di condiscendenza, in cui la reggente ringraziava il proprio vassallo per le sue cortesie e chiedeva che doni analoghi fossero inviati ogni anno. Luigi fu scandalizzato da questa risposta, ma non perse la speranza di poter concludere una volta o l’altra un’alleanza con i mongoli11. La sosta della crociata a Cipro fu perciò, da un punto di vista diplomatico, del tutto inutile. Quasi un anno prima re Luigi aveva inviato agenti per ammassare viveri ed armamenti per l’esercito.

Quest’ultimo compito fu efficacemente portato a termine, ma il commissariato non si era aspettato di dover nutrire tante bocche per più di un mese o due. Tuttavia solo nel maggio del 1249 fu possibile alla spedizione salpare contro l’Egitto. Quando giunse la primavera Luigi si rivolse alle locali colonie di mercanti italiani per procurarsi le navi necessarie. I veneziani erano contrari alla crociata e non volevano prestare aiuto. In marzo cominciò una guerra aperta tra genovesi e pisani lungo le coste siriane, ed i primi, su cui soprattutto Luigi faceva assegnamento, ebbero la peggio. Giovanni di Ibelin, signore di Arsuf, riuscì dopo circa tre settimane a far firmare una tregua di tre anni tra le colonie italiane di Acri. Verso la fine di maggio fu possibile trovare le navi di cui la crociata aveva bisogno12. Nel frattempo Luigi riceveva a Nicosia visitatori ed ambascerie: Hethum di Armenia gli mandò ricchi doni; Boemondo di Antiochia chiese ed ottenne l’invio di una compagnia di seicento arcieri per proteggere il suo principato dai briganti turcomanni; l’imperatrice latina di Costantinopoli, Maria di Brienne, si recò personalmente a Cipro per implorare aiuto contro l’imperatore greco di Nicea. Luigi si dimostrò pieno di comprensione, ma dichiarò che la crociata contro gli infedeli doveva avere la precedenza. Finalmente, in maggio, Guglielmo di Villehardouin, principe di Acaia, giunse dalla Morea con ventiquattro navi ed un reggimento di soldati franchi. Il duca di Borgogna aveva trascorso l’inverno con lui a Sparta e lo aveva persuaso ad unirsi al re. L’esercito radunato in Cipro stava assumendo proporzioni molto cospicue, ma i piaceri della graziosa isola ne indebolirono il morale; e le scorte di cibo che dovevano bastare per la campagna egiziana si esaurivano rapidamente13. Il 13 maggio 1249 una flotta di centoventi grandi navi da carico e molti vascelli minori si trovava a Limassol e l’esercito cominciò ad imbarcarsi. Sfortunatamente una tempesta disperse le navi pochi giorni dopo. Quando il re stesso salpò il 30 maggio soltanto un quarto del suo esercito partì con lui; gli altri andarono per conto loro verso la costa egiziana. La squadra reale arrivò davanti a Damietta il 4 giugno14. Il sultano Ayub aveva trascorso l’inverno a Damasco, nella speranza che le sue truppe terminassero la conquista di Homs prima che avesse inizio l’invasione dei franchi. Si era dapprima aspettato che Luigi sbarcasse in Siria, ma quando si rese conto che si stava per lanciare un attacco contro l’Egitto tolse l’assedio a Homs ed egli stesso si affrettò a tornare al Cairo, ordinando ai suoi eserciti siriani di seguirlo. Era ammalato, in uno stadio avanzato di tubercolosi e non poteva ormai più condurre di persona i suoi uomini. Ordinò al suo anziano visir, Fakhr ad-Din, l’amico di Federico II, di assumere il comando dell’esercito che doveva opporsi allo sbarco franco ed inviò a Damietta scorte di munizioni ed una guarnigione composta da uomini delle tribù dei Banu Kinana, beduini famosi per il loro coraggio. Egli stesso si stabilì a Ashmun-Tannah, ad est del braccio principale del Nilo15. A bordo della nave ammiraglia, la Montjoie, i consiglieri del re implorarono Luigi di aspettare il rimanente della flotta prima di tentare uno sbarco, ma egli non volle indugiare. All’alba del 5 giugno cominciarono le operazioni alla presenza del nemico, sulle rive sabbiose a occidente della foce del fiume. Si combatté accanitamente proprio sulla battigia, ma il coraggio e la disciplina dei soldati francesi, con il re alla loro testa, ed il valore dei cavalieri di «Outremer» al comando di Giovanni di Ibelin, conte di Giaffa, obbligò i musulmani ad indietreggiare con gravi perdite. Al cader della notte Fakhr ad-Din fece ritirare i suoi uomini e, attraverso il ponte di barche, ripiegò a Damietta. Vi trovò la popolazione in preda al panico e la guarnigione titubante decise di evacuare la città. Tutti i civili musulmani fuggirono con lui ed i Banu Kinana li seguirono dopo aver dato fuoco ai bazar, ma trascurando i suoi ordini di distruggere il ponte di barche. La mattina seguente i crociati seppero, da

certi cristiani rimasti nelle loro case, che Damietta era indifesa. Essi marciarono trionfalmente sul ponte penetrando in città16. La facile conquista di Damietta riempi di stupore e di soddisfazione i franchi. Ma, per il momento, non potevano sfruttarla. Le inondazioni del Nilo stavano per cominciare e Luigi, traendo insegnamento dall’amara esperienza della quinta crociata, non volle spingersi più avanti finché il livello del fiume non fosse calato. Inoltre stava aspettando dalla Francia l’arrivo di rinforzi al comando di suo fratello Alfonso, conte di Poitou. Nel frattempo Damietta veniva trasformata in una città franca. Ancora una volta, come nel 1219, la grande moschea fu trasformata in cattedrale e vi fu insediato un vescovo. Furono assegnati vari edifici ai tre ordini militari e prebende in denaro ai principali signori di «Outremer». I genovesi e i pisani furono ricompensati per i loro servigi con la concessione di un mercato e di una via ciascuno, e i veneziani, pentiti della loro ostilità, implorarono ed ottennero un dono simile. I cristiani indigeni, monofisiti copti, venivano trattati con scrupolosa giustizia da re Luigi e ne accolsero con gioia il governo. La regina, che era stata inviata ad Acri con le altre dame della crociata quando l’esercito era partito da Cipro, fu invitata a raggiungere il re. Luigi accolse pure un altro amico importante, anche se caduto in miseria, Baldovino II imperatore di Costantinopoli; lo aveva già conosciuto a Parigi quando, per far denaro, l’imperatore lo aveva visitato offrendogli in vendita reliquie della Passione scampate al saccheggio della metropoli imperiale da parte dei crociati. Durante tutti i mesi estivi Damietta fu la capitale di «Outremer». Ma quest’inattività nell’umido calore del delta demoralizzò i soldati; il cibo cominciò a scarseggiare e le malattie serpeggiavano nell’accampamento17. La perdita di Damietta aveva costernato il mondo musulmano ma, mentre i franchi esitavano, il sultano moribondo prese l’iniziativa. Come suo padre trent’anni prima, egli offrì di riprendere Damietta in cambio di Gerusalemme. L’offerta venne respinta; re Luigi rifiutava ancora di trattare con un infedele. Nel frattempo Ayub puniva i generali responsabili della perdita della città: gli emiri dei Banu Kinana furono giustiziati e Fakhr ad-Din cadde in disgrazia insieme con i principali comandanti mamelucchi. Costoro progettavano una rivoluzione di palazzo, ma Fakhr ad-Din li dissuase; e per la sua fedeltà ottenne di nuovo il favore del sultano. Furono fatte affluire rapidamente truppe a Mansura, la città il cui nome significa «vittoriosa», costruita dal sultano al-Kamil nel luogo del suo trionfo sulla quinta crociata. Ayub stesso vi si fece trasportare nella sua lettiga per organizzare l’esercito, mentre guerriglieri beduini, sguinzagliati nella campagna, si spingevano fin sotto le mura di Damietta uccidendo tutti i franchi che vagavano nei dintorni. Luigi fu costretto a costruire sbarramenti e a scavare fossati per proteggere il suo accampamento18. Le acque del Nilo calarono alla fine di ottobre. Quasi contemporaneamente, il 24 dello stesso mese, giunse con i rinforzi dalla Francia il secondo fratello di Luigi, Alfonso di Poitou. Era tempo di avanzare sul Cairo. Pietro di Bretagna, appoggiato dai baroni di «Outremer», disse che sarebbe stato più saggio attaccare Alessandria: gli egiziani sarebbero stati sorpresi da una mossa del genere. I crociati avevano abbastanza navi per attraversare i bracci del Nilo, e appena avessero occupato Alessandria avrebbero controllato tutto il litorale mediterraneo dell’Egitto. Il sultano sarebbe stato costretto a scendere a patti. Ma il fratello del re, Roberto di Artois, si oppose con veemenza ad un simile progetto e Luigi si schierò dalla sua parte. Il 20 novembre l’esercito franco partì da Damietta, lungo la strada meridionale verso Mansura. Una forte guarnigione fu lasciata nella città con la regina ed il patriarca di Gerusalemme19. La fortuna sembrò favorire re Luigi poiché il sultano Ayub si trovava ora sul letto di morte. Mori infatti a Mansura tre giorni dopo, il 23 novembre: era stato un uomo duro, solitario, senza nulla

dell’affabilità, della generosità o dell’amore per la cultura dimostrata dalla maggior parte dei membri della sua stirpe. Fu sempre cagionevole di salute, e può darsi che per il suo sangue sudanese si tenesse volutamente a distanza dal resto della famiglia che era rimasta di pura razza curda. Ma fu un abile statista e l’ultimo grande rappresentante della dinastia ayubita. La sua morte minacciò di trasformarsi in un disastro per i musulmani poiché il suo unico figlio, Turanshah, si trovava nel lontano Jezireh in qualità di viceré. L’Egitto fu salvato dalla vedova del sultano, Shajar ad-Durr, armena di nascita. Confidando nell’eunuco Jamal ad-Din Mohsen che controllava il palazzo ed in Fakhr ad-Din, ella tenne celata la morte del marito e falsificò un documento con la firma di lui nel quale designava Turanshah come erede e Fakhr ad-Din come generalissimo e viceré durante la malattia del sultano. Quando infine trapelò la notizia della morte di Ayub la sultana e Fakhr ad-Din tenevano ormai saldamente il potere e Turanshah era in viaggio per l’Egitto. Ma i franchi ne trassero motivo di incoraggiamento: sembrava loro che il governo di una donna e di un vecchio generale dovesse crollare da un momento all’altro, ed affrettarono la loro marcia verso il Cairo20. La strada da Damietta alla capitale era tagliata da innumerevoli canali e bracci del Nilo, di cui il più largo era il Bahr as-Saghir, che si staccava dal corso principale del fiume poco a valle di Mansura e scorreva oltre Ashmun-Tannah verso il lago Manzaleh, tagliando fuori in questo modo la cosidetta isola di Damietta. Fakhr ad-Din tenne il grosso delle sue forze oltre il Bahr as-Saghir, ma inviò la cavalleria a molestare i franchi ogni volta che attraversavano un canale. Nessuna di queste scaramucce riuscì a contenere l’avanzata dei crociati. Re Luigi procedeva lentamente e con prudenza. Il 7 dicembre ci fu una battaglia vicino a Fariskur, dove la cavalleria egiziana fu respinta, ma i templari, violando gli ordini del re, si allontanarono eccessivamente per inseguire i fuggiaschi e si trovarono in difficoltà per ricongiungersi con i loro compagni. Il 14 dicembre il re arrivo a Baramun ed il 21 il suo esercito si accampava sulle sponde del Bahr as-Saghir, dirimpetto a Mansourah21. Per sei settimane gli eserciti si fronteggiarono sulle opposte rive dell’ampio canale. Un tentativo della cavalleria egiziana di attraversarlo più a valle e penetrare così nell’isola di Damietta per attaccare i franchi alle spalle venne respinto vicino all’accampamento da Carlo d’Angiò. Nel frattempo Luigi ordinava la costruzione di una diga per attraversare il corso d’acqua; ma, sebbene avesse preparato gallerie di protezione per i lavoratori, il bombardamento egiziano proveniente dall’altra sponda e specialmente l’uso del fuoco greco erano così formidabili che il lavoro fu abbandonato. Al principio di febbraio del 1250 un copto si recò da Salamun al campo del re, offrendo di rivelare per cinquecento bisanti dove si trovava un guado attraverso il Bahr as-Saghir. L’8 febbraio, all’alba, i crociati avanzarono attraverso il guado. Il duca di Borgogna fu lasciato a difendere l’accampamento con un forte distaccamento, mentre re Luigi accompagnava l’esercito in marcia. Suo fratello Roberto di Artois guidava l’avanguardia con i templari ed il contingente inglese. Aveva ricevuto ordini severissimi di non attaccare gli egiziani finché il re non ne desse il permesso. La difficile traversata fu condotta a termine con successo, ma lentamente. Appena si trovò di là dal fiume con i suoi uomini il conte di Artois temette che, senza un immediato attacco, l’elemento sorpresa sfumasse. I templari gli rammentarono invano le istruzioni ricevute; alle sue insistenze, acconsentirono di accompagnarlo all’assalto. La sua precipitazione era giustificata: l’accampamento egiziano, a circa due miglia fuori di Mansura, stava cominciando le sue ordinarie attività quotidiane senza alcun sospetto, quando improvvisamente la cavalleria franca gli piombò in mezzo. Molti egiziani furono uccisi mentre correvano a cercare le armi. Altri fuggirono seminudi, cercando rifugio nella città. Il generalissimo Fakhr ad-Din era appena uscito dal bagno e un servo gli stava tingendo la barba con henne quando udì il clamore. Senza aspettare di indossare l’armatura saltò a cavallo e si

precipitò nella mischia: si ritrovò in mezzo ad alcuni cavalieri templari che lo colpirono a morte. Roberto di Artois era padrone dell’accampamento egiziano. Una volta ancora il gran maestro del Tempio lo implorò di aspettare finché il re ed il grosso dell’esercito avessero passato il guado e l’avessero raggiunto, ed anche Guglielmo di Salisbury consigliò prudenza. Ma Roberto era deciso ad impadronirsi di Mansura e a distruggere l’esercito musulmano. Dopo aver accusato i templari e gli inglesi di codardia, riunì i suoi uomini e li lanciò di nuovo alla carica contro gli egiziani in fuga; ed una volta ancora i templari e Guglielmo si sentirono obbligati a seguirlo. Sebbene Fakhr ad-Din fosse morto, i comandanti mamelucchi riuscirono a ristabilire la disciplina tra le loro truppe; ed il più abile di loro, Rukd ad-Din Baibars soprannominato Bundukdari, «il balestriere», assunse il comando. Collocò i suoi uomini in punti strategici all’interno della città, poi lasciò che la cavalleria franca vi si riversasse attraverso la porta aperta. Quando i cavalieri francesi, seguiti da vicino dai templari, si furono spinti fin sotto le mura della cittadella, i mamelucchi si precipitarono su di loro dalle vie laterali. I cavalli dei franchi non potevano manovrare facilmente nello spazio ristretto e crearono subito grande confusione. Pochi cavalieri fuggirono a piedi verso le sponde del Nilo, affogando però nelle sue acque. Pochi altri riuscirono a districarsi ed uscire dalla città. I templari caddero combattendo nelle vie; soltanto cinque dei loro duecentonovanta cavalieri trovarono scampo. Roberto di Artois si barricò con la sua guardia del corpo in una casa, ma gli egiziani vi fecero irruzione ben presto e li massacrarono tutti. Tra i cavalieri che caddero nella battaglia c’era il conte di Salisbury e quasi tutti i suoi compagni inglesi e i conti di Coucy e di Brienne. Pietro di Bretagna era stato con loro all’avanguardia e fu gravemente ferito alla testa, ma riuscì ugualmente a fuggire a cavallo dalla città e corse ad avvertire il re. Quasi tutto l’esercito crociato aveva attraversato il Bahr as-Saghir. All’udire la notizia del disastro Luigi dispose subito che la prima linea fosse messa in condizione di sostenere un attacco e nel frattempo mandò i suoi reparti del genio a costruire un ponte sul corso d’acqua. Il corpo dei balestrieri era stato lasciato sull’altra riva affinché, se fosse necessario, potesse coprire la traversata del canale; ed il re aspettava con ansia che essi lo raggiungessero. Confermando le sue previsioni, i mamelucchi vincitori uscirono presto dalla città e si lanciarono alla carica contro le sue linee. Luigi con mano ferma trattenne i suoi uomini mentre il nemico riversava nugoli di frecce nei loro ranghi; poi, appena le munizioni dei mamelucchi cominciarono a scarseggiare, ordinò un contrattacco. La sua cavalleria respinse i saraceni; ma essi riordinarono rapidamente le fila e caricarono di nuovo, mentre alcune pattuglie distaccate cercavano di ostacolare la costruzione del ponte provvisorio. Il re stesso fu quasi respinto nel canale, ma un altro contrattacco lo salvò. Finalmente, versò il tramonto, la passerella fu terminata e gli arcieri l’attraversarono. Il loro arrivo diede la vittoria al re: gli egiziani si ritirarono di nuovo in Mansura e Luigi pose il suo campo proprio dove essi si erano accampati la notte precedente. Soltanto allora fu informato dal sostituto gran maestro dell’Ospedale che suo fratello era stato ucciso: il re scoppiò in pianto22. I crociati avevano vinto, ma era stata una vittoria di Pirro. Se Roberto di Artois non avesse compiuto la sua folle incursione in Mansura, sarebbero stati abbastanza forti per tentare più tardi l’assalto alla città, nonostante la superiorità dell’avversario in fatto di macchine da guerra. così come stavano le cose non c’era nulla da fare. La situazione presentava infauste somiglianze con la quinta crociata, quando l’esercito cristiano che aveva conquistato Damietta era stato fermato non lontano da dove si trovava in quel momento ed era stato infine costretto a ritirarsi. Luigi non poteva sperare in una sorte migliore, a meno che disordini alla corte egiziana inducessero il governo del Cairo ad offrirgli condizioni di pace accettabili. Nel frattempo egli fortificava il sub campo e rinforzava il ponte provvisorio. Fu cosa saggia, poiché tre giorni dopo, l’n febbraio, gli egiziani attaccarono di

nuovo; avevano ricevuto rinforzi dal sud ed erano più forti di prima. Fu una delle battaglie più accanite che gli uomini di «Outremer» potessero ricordare. I mamelucchi lanciarono una carica dopo l’altra scagliando ogni volta un nugolo di frecce mentre avanzavano; ad ogni ondata Luigi tratteneva i suoi uomini finché fosse giunto il momento di balzare al contrattacco. Carlo d’Angiò, sull’ala sinistra, e i baroni siriani e ciprioti al centro-sinistra tennero saldamente le loro posizioni, ma i templari superstiti ed i nobili francesi al centrodestra vacillavano ed il re stesso dovette accorrere in loro soccorso perché non perdessero il contatto con l’ala sinistra. Il gran maestro Guglielmo, che aveva perduto un occhio a Mansura, perse anche l’altro e ne morì. Ad un certo momento Alfonso di Poitou, che difendeva l’accampamento sull’ala destra, si trovò circondato e fu liberato dai cuochi e dalle donne che seguivano il campo. Alla fine la stanchezza costrinse i musulmani a ritirarsi in buon ordine nella città23. Per otto settimane re Luigi si fermò nell’accampamento davanti a Mansura: ma l’atteso rivolgimento interno egiziano non avvenne. Invece, il 28 febbraio giunse al campo egiziano Turanshah, figlio del defunto sultano. Non appena la sua matrigna l’aveva informato della morte del padre, aveva lasciato la propria capitale, Diarbekir, cavalcando velocemente verso sud. Trascorse tre settimane a Damasco dove fu proclamato sultano e giunse al Cairo verso la fine di febbraio. Il suo arrivo a Mansura fu il segnale di una rinnovata attività egiziana. Egli fece costruire una flottiglia di battelli leggeri che furono trasportati a dorso di cammello fino ad un punto situato più a valle lungo il Nilo. Quivi furono varati e cominciarono ad intercettare i vascelli che portavano viveri da Damietta al campo crociato. Più di ottanta navi franche furono successivamente catturate ed il 16 marzo un convoglio di trentadue unità fu preso tutto in una volta. I franchi si trovarono ben presto sotto la minaccia della fame, a cui fecero seguito le malattie, dissenteria e febbre tifoide24. Al principio di aprile re Luigi capi che doveva fare del suo meglio per allontanare l’esercito dai miasmi dell’accampamento e ritirarsi a Damietta. Allora, finalmente, si indusse ad intavolare trattative con gli infedeli e fece offrire a Turanshah Damietta in cambio di Gerusalemme 25. Ma era troppo tardi: gli egiziani ormai sapevano quanto fosse precaria la sua posizione. Quando la sua offerta fu respinta, Luigi convocò i capi militari per discutere la ritirata. Essi lo implorarono di partire per primo clandestinamente per Damietta insieme con la sua guardia del corpo, ma egli con fierezza rifiutò di abbandonare i suoi uomini. Si decise che gli ammalati discendessero il corso del Nilo su battelli mentre gli altri avrebbero effettuato la marcia per la stessa strada da cui erano venuti. Il campo fu tolto la mattina del 5 aprile 1250 ed ebbe inizio il penoso viaggio, con il re alla retroguardia per incoraggiare gli sbandati. I mamelucchi di Mansura videro il movimento e si gettarono all’inseguimento. I franchi avevano ormai tutti attraversato il Bahr as-Saghir, ma i genieri avevano trascurato di distruggere il ponte provvisorio. Gli egiziani vi si precipitarono e presto cominciarono a molestare i franchi da ogni parte. Durante tutta quella giornata i loro attacchi furono respinti, mentre i crociati procedevano lentamente. Il valore del re fu superiore ad ogni elogio, ma quella notte stessa si ammalò e la mattina seguente poteva a mala pena stare a cavallo. Nel corso dell’interminabile giornata, i musulmani accerchiarono l’esercito e lo attaccarono con tutte le loro forze. I soldati, ammalati e stanchi, tentavano appena una resistenza: era chiaro che era giunta la fine. Goffredo di Sargines che comandava la guardia del corpo del re, portò il sovrano in una casetta nel villaggio di Munyat al-Khols Abdallah, poco a nord di Sharimshah, nel centro della battaglia. Per i cavalieri francesi era intollerabile ammettere la sconfitta, ma i baroni di «Outremer » assunsero il comando ed inviarono Filippo di Montfort a trattare con il nemico. Filippo era quasi riuscito a persuadere i generali mamelucchi a lasciare che l’esercito si ritirasse indisturbato in cambio della

resa di Damietta, quando improvvisamente un sergente di nome Marcello, corrotto, si disse, dagli egiziani, cavalcò tra i ranghi cristiani ordinando ai comandanti, in nome del re, la resa senza condizioni. Essi obbedirono a quest’ordine, di cui Luigi stesso non sapeva nulla, e deposero le armi; l’intero esercito venne riunito e condotto prigioniero. Quasi alla stessa ora le navi che trasportavano gli ammalati a Damietta vennero circondate e catturate26. Gli egiziani furono dapprima nell’imbarazzo per il numero enorme dei prigionieri. Trovando impossibile custodirli tutti, uccisero subito quelli che erano troppo deboli per camminare, e per una settimana, ogni sera, trecento uomini erano decapitati in seguito a un ordine preciso del sultano. Re Luigi, tolto dal letto dove giaceva ammalato, fu incatenato ed alloggiato in una casa privata a Mansura. I nobili principali furono messi tutti insieme in una prigione più vasta. Quelli che li avevano catturati li minacciavano continuamente di morte, ma in realtà non avevano la minima intenzione di uccidere chi fosse in condizione di pagare un buon riscatto. Joinville, che si trovava a bordo di una delle navi catturate, salvò la propria vita e quella dei compagni dando ad intendere di essere cugino del re, e quando l’ammiraglio egiziano lo interrogò al riguardo ed apprese che la notizia era falsa, ma che di fatto egli era un cugino dell’imperatore Federico, la sua reputazione si accrebbe grandemente. In realtà, il prestigio dell’imperatore miscredente contribuì molto a migliorare la situazione dei crociati. Quando il sultano ordinò a Luigi, prigioniero, di cedere non soltanto Damietta ma tutte le terre franche di Siria, egli replicò che non appartenevano a lui, ma a re Corrado, figlio dell’imperatore e che soltanto questi avrebbe potuto cederle. I musulmani lasciarono subito cadere il discorso, tuttavia imposero al re condizioni assai dure: egli doveva riscattare se stesso mediante la cessione di Damietta ed il suo esercito con il pagamento di cinquecentomila lire tornesi, cioè un milione di bisanti. Era una grossa somma, ma i prigionieri da far rilasciare erano molto numerosi. Appena le condizioni furono accettate, il re e i principali baroni furono presi a bordo di galee che ridiscesero il fiume fino a Fariskur, dove il sultano stabilì la propria residenza. Fu deciso che avrebbero proseguito per Damietta e che la città sarebbe stata consegnata due giorni dopo, il 30 aprile27. Soltanto la forza d’animo della regina Margherita rese possibile il riscatto del re. Quando questi l’aveva lasciata per marciare su Mansura, essa stava per dare alla luce un figlio; tre giorni dopo che era giunta notizia della resa dell’esercito nacque un bimbo, che ebbe come levatrice un cavaliere ottuagenario: fu chiamato Giovanni Tristano, figlio di dolore. Quello stesso giorno la regina udì che i pisani ed i genovesi stavano progettando di evacuare Damietta, poiché non vi era cibo sufficiente per gli abitanti. Ella sapeva di non poter conservare Damietta senza l’aiuto degli italiani e convocò al suo capezzale i loro capi per implorarli: se infatti si abbandonava Damietta non ci sarebbe stato nulla da offrire in cambio del rilascio del re. Quando propose di comprare lei stessa tutto il cibo che si trovava nella città e di provvedere alla sua distribuzione essi acconsentirono a rimanere. L’acquisto le costò più di trecentosessantamila lire tornesi, ma salvò il morale della città. Appena si fu abbastanza rimessa in salute da poter viaggiare, il personale del suo seguito insistette per trasportarla per via mare ad Acri, mentre il patriarca Roberto andava con un salvacondotto a Fariskur, dal sultano, per completare le trattative per il riscatto28. Al suo arrivo trovò che il sultano era morto. C’erano stati alcuni indugi nelle trattative finali ed il lunedì 2 maggio Turanshah ed i suoi prigionieri si trovavano ancora a Fariskur. Quel giorno egli offrì un banchetto ai suoi emiri, ma aveva perduto l’appoggio dei mamelucchi. Questo grande organismo militare, formato da schiavi turchi e circassi, aveva assunto crescente importanza e potenza durante il

regno di Ayub, il cui favore era stato ricompensato dalla loro fedeltà, e l’appoggio che essi diedero alla sultana Shajar ad-Durr aveva conservato il trono a Turanshah. Ma ora, come vincitore dei franchi, egli si sentiva abbastanza forte per riempire il governo di favoriti venuti dallo Jezireh, e quando i mamelucchi protestarono rispose con minacce da ubriaco. Allo stesso tempo offese la sua matrigna reclamando da lei beni che erano stati di suo padre. Essa si rivolse subito ai comandanti mamelucchi chiedendo la loro protezione. Nel momento in cui Turanshah si alzava per lasciare il banchetto del 2 maggio, alcuni soldati del reggimento mamelucco Bahrid, capeggiato da Baibars Bundukdari, entrarono impetuosamente e cominciarono, Baibars in testa, a colpire il sultano con le loro spade. Ferito, egli fuggì fino a una torre di legno vicino al fiume. Quando i soldati lo inseguirono e appiccarono il fuoco alla costruzione, egli saltò nel Nilo e, in piedi nell’acqua, implorò misericordia, offrendo di abdicare e di tornarsene nello Jezireh. Nessuno rispose al suo appello. Dopo che una scarica di frecce l’ebbe mancato, Baibars scese per la riva e lo fini con la sua sciabola. Per tre giorni il corpo mutilato rimase insepolto. Alla fine l’ambasciatore del califfo di Bagdad ottenne il permesso di deporlo in una semplice tomba. I congiurati trionfanti designarono il più anziano comandante mamelucco, Izz adDin Aibek, come generalissimo e reggente; egli sposò Shajar ad-Durr, la sultana vedova di Ayub, che rappresentava la legittimità. Un bambino, al-Ashraf Musa, cugino del defunto sultano, fu messo innanzi più tardi e proclamato co-sultano, solo per essere deposto quattro anni dopo. La sua fine ci è ignota29. Quando l’anziano patriarca giunse da Damietta con un salvacondotto firmato da Turanshah, il nuovo governo finse di considerarlo senza valore e lo trattò come un prigioniero. Alcuni mamelucchi comparvero davanti a re Luigi con le spade ancora macchiate di sangue, esigendo da lui del denaro per aver trucidato il suo nemico. Altri, con umorismo sinistro, agitarono le loro spade sotto il naso dei baroni prigionieri. Joinville ne fu francamente terrorizzato. Ma i mamelucchi non avevano nessuna intenzione di rinunziare all’enorme riscatto; essi confermarono le condizioni già stabilite. Quando Damietta si fosse arresa, il re ed i nobili sarebbero stati rilasciati, ma i soldati semplici, alcuni dei quali erano stati condotti al Cairo, avrebbero dovuto aspettare il pagamento del riscatto, che fu ridotto a quattrocentomila lire tornesi, da pagarsi metà a Damietta e metà all’arrivo del re ad Acri. Quando al re venne richiesto di giurare che, se non avesse potuto tener fede ai patti avrebbe ripudiato Cristo, egli rifiutò fermamente. Per tutto il tempo della prigionia la sua dignità e la sua rettitudine impressionarono profondamente i suoi nemici, alcuni dei quali, scherzando, proposero di proclamarlo loro prossimo sultano30. Il venerdì 6 maggio 1250 Goffredo di Sargines andò a Damietta e consegnò la fortezza all’avanguardia musulmana. Il re ed i nobili vi furono condotti nel pomeriggio, e Luigi si diede da fare per trovare il denaro occorrente per la prima rata del riscatto. Ma nel suo tesoro personale non si trovarono più di centosettantamila lire tornesi. Gli egiziani trattennero il fratello del re, Alfonso di Poitou finché non si fosse trovato il resto. Era noto che i templari avevano grandi riserve di denaro sulla loro principale galea, ma essi acconsentirono a sborsare le somme necessarie soltanto sotto la minaccia della forza. Quando l’intero ammontare pattuito fu consegnato agli egiziani il conte di Poitou fu lasciato in libertà. Quella sera stessa il re e i baroni fecero vela per Acri, dove giunsero sei giorni più tardi dopo un viaggio burrascoso. Sulla nave del re non erano stati preparati per lui né abiti, né letto, perciò fu costretto ad indossare le stesse vesti e a dormire sullo stesso materasso che aveva adoperato in prigionia31. Molti soldati feriti erano stati lasciati a Damietta: contrariamente alle loro promesse i musulmani

li massacrarono tutti32. Poco dopo il suo arrivo ad Acri Luigi si consigliò con i suoi vassalli circa i progetti per il futuro. Sua madre gli aveva scritto dalla Francia per esortarlo a tornare in tutta fretta: si diceva che re Enrico d’Inghilterra si preparasse alla guerra e c’erano molti altri urgenti problemi da risolvere. Ma egli sentiva che la sua presenza era necessaria in «Outremer». Il disastro della campagna egiziana non soltanto aveva distrutto un esercito francese, ma aveva privato «Outremer» di quasi tutte le sue truppe. Inoltre era suo dovere non allontanarsi finché l’ultimo dei prigionieri in Egitto non fosse stato rilasciato. I fratelli del re ed il conte di Fiandra gli consigliarono di tornare in Francia, ma in realtà la sua decisione era già presa. Il 3 luglio annunciò pubblicamente la sua risoluzione: i suoi fratelli e chiunque lo desiderasse poteva tornare in patria, ma egli sarebbe rimasto ed avrebbe preso al suo servizio personale tutti coloro che, come Joinville, avessero voluto rimanere con lui. Fu inviata una lettera ai nobili di Francia per spiegare la sua decisione e per chiedere rinforzi per la crociata. Egli era rimasto amareggiato per il fallimento del suo grande sforzo. Era certo molto bello da parte sua dichiarare che la catastrofe era un segno della grazia di Dio, inviato per insegnargli l’umiltà; ma egli non poté non aver pensato che il privilegio di ricevere quella lezione era stato pagato con la perdita di molte migliaia di vite innocenti33. I fratelli del re, insieme con i principali nobili della crociata, salparono da Acri verso la metà di luglio. Lasciarono in «Outremer» tutto il denaro che poterono, ma soltanto millequattrocento uomini circa34. La regina rimase con il re. Egli fu subito accettato come il sovrano «de facto» del regno. Il trono apparteneva ancora legalmente a Corrado di Germania, ma era chiaro ormai che Corrado non sarebbe venuto affatto in Oriente. Alla morte di Alice la reggenza era passata a suo figlio, re Enrico di Cipro, che aveva nominato come bali suo cugino Giovanni di Arsuf. Questi trasmise volentieri il governo a Luigi35. La partenza dei suoi vassalli francesi permise a Luigi di ascoltare più facilmente i consigli. Le recenti esperienze gli avevano aperto la mente e la mancanza di una forza armata gli insegnava la necessità di avere rapporti diplomatici con gli infedeli. Alcuni dei suoi amici lo trovarono anche troppo propenso a seguire una politica accomodante, ma così facendo egli si dimostrò assai saggio; inoltre il momento era favorevole per l’azione diplomatica. La rivoluzione mamelucca in Egitto non era stata accolta con favore nella Siria musulmana, dove perduravano sentimenti di fedeltà verso gli Ayubiti. Quando giunse la notizia della morte di Turanshah, an-Nasir Yusuf di Aleppo scese da Homs ed il 9 luglio 1250 occupò Damasco, dove fu accolto con grande entusiasmo come pronipote di Saladino. Una volta ancora ci fu un’aspra rivalità tra il Cairo e Damasco, ed ambedue le corti si dimostrarono ansiose di assicurarsi l’aiuto franco. Luigi era appena arrivato ad Acri quando vi giunse un’ambasceria da parte di an-Nasir Yusuf. Ma il re non volle compromettersi: l’alleanza con Damasco poteva essere preferibile da un punto di vista strategico, ma egli doveva pensare ai prigionieri franchi che si trovavano ancora in Egitto36. Nell’inverno del 1250 l’esercito di Damasco iniziò un’invasione dell’Egitto. Il 2 febbraio 1251 incontrò l’esercito egiziano, agli ordini di Aibek, ad Abbasa nel delta, dodici miglia a est della moderna Zagazig. La fortuna fu dapprima favorevole ai siriani, sebbene il reggimento proprio di Aibek resistesse; ma in seguito una compagnia di mamelucchi dell’esercito di an-Nasir Yusuf disertò la sua causa nel bel mezzo della battaglia. Il sultano, il cui coraggio non era eccezionale, fuggi. Il potere mamelucco in Egitto era salvo, ma gli Ayubiti tenevano ancora la Palestina e la Siria. Quando in seguito an-Nasir Yusuf inviò messi ad Acri incaricati di far capire che egli avrebbe potuto cedere

Gerusalemme in cambio dell’aiuto franco, Luigi mandò un’ambasceria al Cairo per avvertire Aibek che, se la questione dei prigionieri franchi non veniva risolta rapidamente, egli si sarebbe alleato con Damasco. Il suo ambasciatore, Giovanni di Valenciennes, nel corso di due missioni riuscì ad ottenere dapprima il rilascio dei cavalieri, tra cui il gran maestro dell’Ospedale fatto prigioniero nel 1244 a Gaza, e poi quello di circa tremila prigionieri delle recenti operazioni, in cambio di trecento musulmani che si trovavano nelle mani dei franchi. Aibek mostrò il suo crescente desiderio di rendersi amico il re mandandogli in dono, insieme con il secondo invio, un elefante e una zebra. Luigi prese ardire e chiese il rilascio di tutti i prigionieri che rimanevano nelle mani dei mamelucchi senza ulteriori pagamenti. Quando Aibek si rese conto che un inviato del re, Yves il Bretone che parlava l’arabo, stava visitando la corte di Damasco acconsentì alla richiesta di Luigi in cambio di un’alleanza militare contro an-Nasir Yusuf. Egli promise inoltre che quando i mamelucchi avessero occupato la Palestina e Damasco,- avrebbero restituito ai cristiani tutto l’antico regno di Gerusalemme comprese le regioni orientali fino al Giordano. Luigi accettò e i prigionieri vennero tutti rilasciati alla fine di marzo del 1252. Poco mancò che il trattato naufragasse per il rifiuto dei templari di rompere le relazioni con Damasco. Il re fu costretto a rimproverarli pubblicamente e ad esigere umili scuse37. L’alleanza franco-mamelucca non produsse alcun risultato. Appena ne fu informato, an-Nasir Yusuf inviò truppe a Gaza per ostacolare il congiungimento delle forze alleate. Luigi mosse su Giaffa, ma i mamelucchi non avanzarono oltre la frontiera egiziana. Per circa un anno i siriani ed i franchi rimasero fermi, poiché nessuna delle due parti desiderava provocare una battaglia. Nel frattempo Luigi riparò le fortificazioni di Giaffa; aveva già rinforzato quelle di Acri, di Haifa e di Cesarea38. Al principio del 1253 an-Nasir Yusuf si rivolse a Bagdad per ottenere una mediazione tra sé ed i mamelucchi. Il califfo al-Mustasim desiderava ardentemente unire il mondo musulmano contro i mongoli. Egli indusse Aibek, che ne accettava la sovranità nominale, ad accedere alle condizioni proposte da an-Nasir Yusuf. Aibek sarebbe stato riconosciuto capo dell’Egitto e gli si sarebbe concesso di annettere la Palestina, verso nord fino alla Galilea e ad oriente fino al Giordano. La pace fu firmata nell’aprile del 1253 e gli accordi di Aibek con i franchi vennero dimenticati39. L’esercito damasceno tornò in patria da Gaza attraverso il territorio franco, saccheggiandolo al passaggio. Le città erano troppo forti per essere attaccate, eccetto Sidone di cui si stavano ricostruendo le mura. Sebbene non facessero nessun tentativo per assalire il castello sulla sua piccola isola, essi saccheggiarono la città e si ritirarono carichi di bottino e di prigionieri. Re Luigi per rappresaglia inviò una spedizione a predare Banyas, ma senza successo. Per fortuna di «Outremer» né Aibek né an-Nasir Yusuf mostravano serie intenzioni di continuare la guerra40. La loro moderazione dipendeva in larga misura dalla presenza del re di Francia in Oriente. Benché la sua recente impresa militare fosse stata disastrosa, tuttavia la sua personalità si imponeva nettamente. Era questa una fortuna per «Outremer», dato che nel dicembre 1250 moriva in Italia l’imperatore Federico, il cui nome godeva ancora negli ambienti musulmani di grande prestigio, senza però che suo figlio Corrado ne ereditasse qualcosa41. Luigi inoltre aveva molto più successo di Federico nei rapporti con gli abitanti di «Outremer», perché era disinteressato e pieno di tatto. Tali qualità apparvero in piena luce quando dovette intervenire nel principato di Antiochia. Boemondo V moriva nel gennaio del 1252 lasciando due figli: Plaisance, diventata pochi mesi prima la terza moglie di re Enrico di Cipro, il quale era privo di eredi, ed un figlio, Boemondo, di tredici anni, che assumeva la successione sotto la reggenza della principessa madre, l’italiana Luciana. Era

una donna debole di carattere, che non si allontanò mai da Tripoli e lasciò governare il principato dai suoi parenti romani. Boemondo VI si rese conto ben presto che sua madre era impopolare e, con l’approvazione di Luigi, ottenne dal papa il permesso di essere riconosciuto maggiorenne pochi mesi prima della data legale. Quando Innocenzo IV ebbe dato il suo consenso, Boemondo si recò ad Acri, dove fu fatto cavaliere dal re. Luciana fu allontanata dal governo e compensata con una magnifica rendita. Allo stesso tempo Luigi rese completa la riconciliazione tra le corti di Antiochia e di Armenia. Nei suoi ultimi anni Boemondo V aveva allacciato nuovi rapporti con re Hethum, ma per lui il passato era troppo pieno di amari ricordi. Boemondo VI non nutriva tali rancori. Nel 1254, per consiglio di Luigi, sposava la figlia di Hethum, Sibilla, e diventava in certo modo vassallo di suo suocero. Gli armeni acconsentirono a condividere la responsabilità della difesa di Antiochia42. Re Enrico di Cipro morì il 18 gennaio 1253. Poiché suo figlio, Ugo II, aveva soltanto pochi mesi, la regina Plaisance reclamò per sé la reggenza di Cipro e la reggenza nominale di Gerusalemme. L’alta corte di Cipro le riconobbe quel titolo per l’isola, ma i nobili del continente chiesero che venisse di persona per essere accettata come reggente. Nel frattempo Giovanni di Ibelin, signore di Arsuf, continuava nelle funzioni di bali, mentre Plaisance meditava di sposare il giovane figlio di lui, Baliano. In realtà, re Luigi continuava a reggere il governo43. Non c’era nessuna speranza che una nuova crociata venisse dall’Europa. Enrico III d’Inghilterra, che aveva preso la croce con molti dei suoi sudditi nella primavera del 1250, persuase il papa a concedergli di rinviare la spedizione. I fratelli di re Luigi rifiutavano di mandare aiuti dalla Francia, dove l’opinione pubblica era adirata ma delusa. Appena giunsero le notizie del disastro di Mansura, si scatenò un isterico movimento di massa tra i contadini e i lavoratori, che presero il nome di pastouraux e guidati da un misterioso «Maestro d’Ungheria», percorsero il paese, tenendo riunioni per denunziare il papa ed il suo clero e facendo voto di liberare il re cristiano. Inizialmente la regina-reggente Bianca diede loro il suo appoggio, ma poi la loro turbolenza la spinse a soffocarne il movimento. I nobili francesi si accontentavano di criticare aspramente un papa che preferiva predicare una crociata contro i cristiani partigiani dell’imperatore, piuttosto che inviare aiuti a coloro che stavano combattendo contro gli infedeli. Bianca giunse al punto di confiscare i beni di ogni vassallo del re che rispondesse all’appello di Innocenzo IV per una crociata contro re Corrado nel 1251. Ma né lei, né i suoi consiglieri osarono inviare rinforzi in Oriente44. Nella sua ricerca di alleati stranieri, re Luigi entrò in rapporti molto amichevoli con la setta degli assassini. Immediatamente dopo il disastro di Damietta, il loro capo in Siria aveva fatto chiedere ad Acri una ricompensa in denaro per la loro neutralità, ma fu ridotto a più miti consigli dalla ferma risposta che il re diede ai suoi inviati alla presenza dei gran maestri degli ordini. La setta aveva chiesto soprattutto di essere esonerata dall’obbligo di pagare un tributo all’Ospedale. L’ambasceria successiva fu molto più umile. Recava magnifici doni per il re, con la richiesta di una stretta alleanza. Luigi, che era stato informato dell’ostilità degli assassini ismailiani verso i musulmani sunni ortodossi, rispose positivamente ai loro approcci inviando Yves il Bretone per stabilire un trattato. Yves rimase affascinato dalla biblioteca che la setta aveva a Masyad: vi trovò fra l’altro un sermone apocrifo rivolto a san Pietro da Cristo, il quale, gli dissero i settari, era la reincarnazione di Abele, Noè ed Abramo. Fu firmato un patto di mutua difesa45. Tuttavia, la principale ambizione diplomatica di Luigi era quella di assicurarsi l’amicizia dei più feroci nemici degli assassini, ossia i mongoli. Al principio del 1253 giunse ad Acri una voce secondo la quale uno dei principi mongoli, Sartaq, figlio di Batu, era stato convertito al cristianesimo. Luigi si affrettò ad inviare due domenicani, Guglielmo di Rubruck e Bartolomeo da

Cremona, per esortare il principe a muovere in aiuto dei suoi correligionari cristiani in Siria. Ma il concludere un’alleanza di così grande importanza esorbitava dalle possibilità di un principe mongolo cadetto46. Mentre i domenicani si spingevano più innanzi in Asia fino alla corte dello stesso gran khan, re Luigi fu costretto a lasciare «Outremer». Sua madre, la regina reggente Bianca, era deceduta nel novembre del 1252 e la sua morte era stata prontamente seguita da disordini. Il re d’Inghilterra cominciava a creare fastidi, nonostante il suo giuramento di partecipare alla crociata, e non intendeva neppure appoggiare i suoi vescovi che dovevano predicarla per incarico del pontefice. La guerra civile scoppiò a proposito dell’eredità della contea di Fiandra, e tutti i grandi vassalli di Francia cominciarono a mostrarsi insubordinati. I doveri di Luigi verso il suo proprio regno avevano la precedenza su ogni altro obbligo. Egli si preparò con riluttanza a tornare in patria. Fece vela da Acri il 24 aprile 1254. Il suo battello corse il rischio di naufragare al largo della costa di Cipro, ma la regina promise una nave d’argento al santuario di San Nicola di Varangeville e la tempesta si placò. Pochi giorni dopo la presenza di spirito della regina salvò la nave da un incendio. In luglio i sovrani ed il seguito sbarcarono a Hyères, nel territorio del fratello del re, Carlo d’Angiò47. La crociata di san Luigi aveva coinvolto l’Oriente cristiano in una terribile catastrofe militare e, sebbene la sua permanenza di quattro anni ad Acri avesse contribuito validamente a riparare il danno, nondimeno «Outremer» non poté mai riaversi del tutto dalla perdita di uomini. Il re superava, per la nobiltà del carattere, tutti i grandi crociati, ma sarebbe stato meglio per «Outremer» se egli non avesse mai lasciato la Francia. Il suo fallimento impressionava tanto più profondamente: quantunque fosse infatti un uomo buono e timoroso di Dio, Dio lo aveva condotto al disastro. Negli anni precedenti si potevano spiegare le disgrazie dei crociati come un degno castigo per i loro delitti e i loro vizi, ma questa spiegazione non poteva più valere. Era possibile che. Dio fosse corrucciato contro l’intero movimento crociato?48. Ma se la spedizione del re di Francia in Oriente era stata sfortunata, la sua partenza costituì un rischio di danno immediato. Egli lasciava come suo rappresentante Goffredo di Sargines, a cui venne conferita la carica ufficiale di siniscalco del regno. Il bali era in quel momento Giovanni di Ibelin, conte di Giaffa, succeduto nella carica a suo cugino Giovanni di Arsuf nel 1254, il quale l’avrebbe riavuta nel 1256. Può darsi che durante quegli anni Giovanni di Arsuf fosse assente, trovandosi a Cipro come consigliere della regina Plaisance, che continuava ad essere la reggente legale dei due regni49. La morte di Corrado di Germania avvenuta in Italia nel 1254, diede il titolo di re di Gerusalemme a suo figlio Corradino, di due anni, i cui diritti nominali furono scrupolosamente ricordati dai giuristi di «Outremer»50. Poco prima della sua partenza re Luigi aveva concordato con Damasco una tregua che doveva durare per due anni, sei mesi e quaranta giorni a partire dal 21 febbraio 1254. An-Nasir Yusuf di Damasco si rendeva ben conto del pericolo mongolo e non desiderava affatto una guerra con i franchi. Aibek d’Egitto desiderava parimenti evitare una guerra estesa e nel 1255 stabilì con i franchi una tregua di dieci anni, da cui però aveva espressamente escluso Giaffa, perché sperava di assicurarsela come porto per la sua provincia palestinese51. Ci furono scorrerie da ambo le parti oltre la frontiera. Nel gennaio del 1256 Goffredo di Sargines e Giovanni di Giaffa catturarono un’immensa carovana di animali. Quando il governatore mamelucco di Gerusalemme inviò in marzo una spedizione per punire i razziatori, fu sconfitto ed ucciso. Aibek, che aveva delle difficoltà con i suoi generali compreso Baibars, fece un nuovo trattato con Damasco, sempre con la mediazione del califfo, e restituì la Palestina; ma ambedue gli Stati musulmani rinnovarono le loro tregue con i franchi; queste dovevano durare dieci anni includendo anche il

territorio di Giaffa52. La tolleranza mostrata dal Cairo e da Damasco e dettata dalla loro crescente paura dei mongoli, salvò i franchi dalle meritate conseguenze di una guerra civile, che cominciò subito dopo la partenza di re Luigi. In quel momento nelle città di «Outremer» gli elementi più attivi erano i diversi mercanti italiani. Le tre grandi repubbliche di Genova, Venezia e Pisa, con le loro colonie in ogni porto di mare del Levante, dominavano il commercio mediterraneo. Se si eccettuano le imprese bancarie dei templari, la maggior parte delle entrate di «Outremer» provenivano da questo commercio che offriva vantaggi quasi altrettanto importanti anche ai principi musulmani, la cui periodica buona volontà a firmare una tregua era largamente incoraggiata dal timore di interrompere questa fonte di profitti. Ma tra le repubbliche esistevano ostinate rivalità: a causa della tensione tra Pisa e Genova re Luigi aveva dovuto rinviare la sua partenza da Cipro nel 1249. L’anno seguente, dopo l’assassinio di un mercante genovese per mano di un veneziano, vi furono combattimenti nelle vie di Acri 53. Quando Luigi partì per l’Europa scoppiarono di nuovo dei disordini. Il quartiere veneziano e quello genovese in Acri erano separati dalla collina di Montjoie, che apparteneva ai genovesi ad eccezione del suo sperone più alto, coronato dall’antico monastero di San Saba. Ambedue le colonie reclamavano il monastero; e una mattina, al principio del 1256, mentre i legali stavano ancora discutendo la questione, i genovesi se ne impadronirono e risposero alle proteste dei veneziani facendo scendere a precipizio dalla collina nel quartiere rivale degli uomini armati. I pisani, con cui era stato concertato in precedenza un accordo, si affrettarono a raggiungerli, ed i veneziani, colti di sorpresa, videro il saccheggio delle loro case e anche delle navi attraccate alla banchina. Solo con difficoltà riuscirono a cacciare gli invasori, ma perdettero il monastero e molte navi54. In quel momento, Filippo di Montfort, signore di Tiro e di Toron, che da tempo contestava i diritti dei veneziani su certi villaggi vicino a Tiro, ritenne opportuno cacciarli da quel terzo della città che apparteneva loro in virtù del trattato stipulato all’epoca della conquista di Tiro nel 1124, estromettendoli pure dai loro possedimenti nei sobborghi. Occupati dalla disputa con i genovesi, essi non poterono impedirglielo; ma quando il governo di Genova, che non desiderava iniziare una guerra con Venezia, offrì i suoi buoni uffici essi erano troppo adirati per accettarli. Il console veneziano ad Acri, Marco Giustiniani, era un abile diplomatico. Il gesto arbitrario di Filippo aveva urtato i suoi cugini Ibelin, difensori della legalità. Il bali, Giovanni di Arsuf, sospettò che i Montfort volessero rendere Tiro indipendente dal governo di Acri, quindi si lasciò guadagnare da Giustiniani alla causa dei veneziani, benché i suoi rapporti con costoro fossero piuttosto freddi, specialmente a causa del loro atteggiamento verso la crociata di Luigi IX. Giovanni di Giaffa era già in cattivi rapporti con i genovesi, uno dei quali aveva tentato di assassinarlo. Le confraternite di Acri, poste in allarme dal timore che Filippo facesse di Tiro una fortunata rivale commerciale della loro città, simpatizzarono con Venezia ed aiutarono Giustiniani, il quale poi ottenne l’appoggio dei pisani, riuscendo a convincerli che i genovesi erano alleati egoisti ed infidi. Anche i mercanti marsigliesi, sempre invidiosi dei genovesi, si unirono a lui, mentre i catalani, gelosi dei marsigliesi, passavano alla parte avversa. I templari ed i cavalieri teutonici appoggiavano i veneziani, invece gli ospitalieri sostenevano i genovesi. Più a nord la famiglia Embriaco, che regnava a Jebail, memore della propria origine genovese, contravvenendo alla precisa proibizione del loro sovrano Boemondo VI di Antiochia e Tripoli, con il quale il capofamiglia Enrico aveva litigato, inviò truppe per aiutare i genovesi di Acri. Boemondo stesso cercò di mantenersi neutrale, ma le sue simpatie andavano ai veneziani e la sua contesa con la famiglia Embriaco lo costrinse a partecipare al conflitto. Sua sorella, la regina reggente Plaisance, non poteva fare nulla. La sola persona di «Outremer» in cui

essa potesse avere fiducia era Goffredo di Sargines, ma egli, come straniero, aveva poca influenza e nessun potere effettivo. La guerra civile cominciava a coinvolgere tutta la società di «Outremer»: non era più un conflitto di baroni indigeni uniti tra loro contro un signore straniero, come ai tempi di Federico II. Meschine dispute familiari esacerbavano i contrasti. La madre di Filippo di Montfort e la moglie di Enrico di Jebail erano nate Ibelin; la bisnonna di Boemondo VI era stata una Embriaco, ma ai legami del sangue non si dava più nessuna importanza in quella circostanza55. Il governo veneziano aveva agito con rapidità. Appena i genovesi seppero che i pisani li avevano abbandonati, invasero il quartiere pisano di Acri ottenendo così il controllo del porto interno. Ma avevano appena fatto in tempo a collocare una catena per sbarrarne l’entrata, quando apparve una grande flotta agli ordini dell’ammiraglio veneziano Lorenzo Tiepolo. Le sue navi irruppero attraverso la catena e sbarcarono soldati sulla banchina. Ci fu una sanguinosa battaglia per le vie ed infine i genovesi furono ricacciati nel loro quartiere, protetto da quello degli ospitalieri ad esso contiguo verso nord. Il monastero di San Saba fu occupato dai veneziani, i quali però non poterono sloggiare né i genovesi né gli ospitalieri dai loro propri edifici56. Nel febbraio del 1258 Plaisance fece un tentativo per imporre la propria autorità: con il suo figlioletto di cinque anni, re Ugo, fece la traversata da Cipro a Tripoli; accolta da suo fratello Boemondo che la scortò ad Acri. Venne convocata l’alta corte del regno a cui Boemondo chiese di confermare il diritto del re di Cipro ad essere riconosciuto come depositario del potere reale in qualità di erede più diretto dopo l’assente Corredino, e di confermare altresì i diritti della madre e tutrice di lui alla reggenza. Boemondo aveva sperato che l’autorità e la presenza di sua sorella avrebbero calmato la guerra civile, ma rimase deluso. Quando gli Ibelin ebbero accettato le richieste di Ugo e di Plaisance, salvi restando sempre i diritti di re Corradino, i templari ed i cavalieri teutonici si dichiararono d’accordo, invece gli ospitalieri affermarono immediatamente che non si poteva decidere nulla in assenza di Corradino, usando lo stesso argomento già accantonato nel 1243. La famiglia reale fu così coinvolta nella guerra civile: il partito veneziano sosteneva Plaisance e suo figlio, mentre, per ironia della storia, Genova, l’Ospedale e Filippo di Montfort, che in passato erano stati tutti aspri avversari di Federico II, diventavano i difensori dello Hohenstaufen. Nella votazione la maggioranza riconobbe Plaisance come reggente. Giovanni di Arsuf presentò formalmente le dimissioni dalla carica di bali, ma fu riconfermato. Quindi tornò con suo fratello a Tripoli e di là a Cipro, dopo avere dato istruzioni al suo bali di agire con severità contro i ribelli57. Patriarca di Gerusalemme era Giacomo Pantaleon, figlio di un calzolaio di Troyes. Era stato designato nel dicembre del 1255, ma giunse ad Acri soltanto nell’estate del 1260, quando era già iniziata la guerra civile. Sebbene poco tempo prima avesse mostrato grande abilità nel trattare con i pagani delle regioni baltiche, la situazione di «Outremer» sfuggiva al suo controllo. Molto correttamente diede il suo appoggio alla regina Plaisance e si rivolse al papa perché prendesse qualche iniziativa in Italia. Papa Alessandro IV convocò alla propria corte a Viterbo i delegati delle tre repubbliche ed ordinò un immediato armistizio: due plenipotenziari veneziani e due pisani dovevano andare in Siria su una nave genovese e due genovesi su una nave veneziana e tutta la questione doveva essere risolta. Gli inviati partirono nel luglio del 1258, ma durante il viaggio vennero a sapere di essere partiti troppo tardi. La repubblica di Genova infatti aveva già inviato una flotta agli ordini dell’ammiraglio Rosso della Turca, che giunse davanti a Tiro in giugno, unendosi alle squadre navali genovesi del Levante. Il 23 giugno la flotta congiunta, forte di circa quarantotto galee, fece vela da Tiro, mentre un reggimento di soldati di Filippo di Montfort scendeva lungo la costa. I veneziani ed i loro alleati pisani avevano circa trentotto galee al comando di Tiepolo. La

battaglia decisiva ebbe luogo davanti ad Acri il 24 giugno. Tiepolo si dimostrò miglior tattico: dopo un accanito combattimento i genovesi perdettero ventiquattro navi e millesettecento uomini, e si ritirarono in disordine. Soltanto un’improvvisa brezza dal sud rese possibile ai superstiti di mettersi in salvo a Tiro. Nel frattempo la milizia di Acri fermava l’avanzata di Filippo e invadeva il quartiere genovese della città. In conseguenza della loro sconfitta i genovesi decisero di abbandonare completamente Acri e di stabilire il loro quartier generale a Tiro58. Nell’aprile del 1259 il papa inviò in Oriente un legato, Tommaso Agni di Lentino, vescovo titolare di Betlemme, con ordine di risolvere la disputa. Quasi allo stesso tempo morì il bali Giovanni di Arsuf ; la regina Plaisance partì di nuovo per Acri ed il 1° maggio designò a quella carica Goffredo di Sargines. Era un uomo rispettato e meno discusso del suo predecessore e collaborò con il legato per ottenere un armistizio. Nel gennaio del 1261 una riunione dell’alta corte, a cui presero parte delegati delle colonie italiane, giunse ad un accordo: i genovesi avrebbero avuto le loro basi a Tiro ed i veneziani e i pisani ad Acri; mentre i nobili e gli ordini militari rivali si riconciliavano ufficialmente. Ma gli italiani non considerarono mai come definitivo quell’accordo ed il loro conflitto ricominciò ben presto e si protrasse a lungo con grave danno per tutto il commercio e la navigazione lungo la costa siriana59. Ne derivò un danno a tutti i franchi in Oriente, molto al di là delle frontiere della Siria. Il vacillante Impero latino di Costantinopoli era riuscito a durare fino allora specialmente per l’aiuto degli italiani, che temevano di perdere le loro concessioni commerciali. Venezia, con le sue proprietà nella stessa Costantinopoli e nelle isole egee, aveva un interesse particolare alla sua conservazione. Perciò Genova sostenne attivamente l’energico imperatore greco di Nicea, Michele Paleologo. Questi, già nel 1259 aveva posto le basi per la riconquista bizantina del Peloponneso con la grande vittoria ottenuta a Pelagonia, in Macedonia, dove Guglielmo di Villehardouin, principe di Acaia, era stato catturato con tutti i suoi baroni e costretto a cedere le fortezze di Maina, Mistra e Monemvasia che dominavano la metà orientale della penisola. Nel marzo del 1261 Michele firmò un trattato con i genovesi per il quale concedeva loro un trattamento di favore in tutti i suoi territori presenti e futuri. Il 25 luglio le sue truppe entrarono in Costantinopoli, con l’aiuto dei genovesi. L’Impero di Romania, creatura della quarta crociata, era finito. Non aveva arrecato altro che danni all’Oriente cristiano60. La riconquista bizantina di Costantinopoli ed il crollo dell’Impero latino furono pertanto la conseguenza di una guerra iniziatasi per il possesso di un antico monastero di Acri. Fu un colpo tremendo per il prestigio dei latini e del papa, ed un trionfo per i greci. Ma i bizantini, pur avendo riacquistato la loro capitale, non rappresentavano più l’Impero universale che era fiorito nel secolo XII: il loro non era ormai che uno Stato come tanti altri. Oltre ai superstiti principati latini sussistevano infatti nei Balcani i potenti regni bulgari e serbi e non v’era più alcuna speranza di cacciare i turchi dall’Anatolia, per quanto il sultanato selgiuchida fosse stato indebolito dai mongoli. In pratica, il possesso dell’antica capitale aumentò i problemi degli imperatori, anziché accrescerne la potenza. Chi ne trasse i maggiori benefici furono i genovesi. Erano stati sconfitti in Siria, ma l’alleanza con Bisanzio dava loro il controllo sul commercio con il Mar Nero, un commercio che stava aumentando di volume e d’importanza, poiché le conquiste mongole davano incremento al traffico carovaniero attraverso l’Asia centrale61. In «Outremer» Goffredo di Sargines, sostenuto dal prestigioso ricordo di san Luigi, ristabiliva una parvenza di ordine tra i baroni del regno. Per quanto i marinai italiani potessero continuare a combattere, le ostilità a mano armata cessavano sulla terraferma; ma non tornò più l’antica amicizia

tra i Montfort e gli Ibelin. Il Tempio e l’Ospedale non vollero mitigare la loro tradizionale inimicizia; mentre l’Ordine teutonico, disperando del futuro della Siria, cominciò a dedicare la propria attenzione principale alle lontane rive del Baltico, dove, fin dal 1226, gli erano state date terre e castelli per aver aiutato a domare e convertire i prussiani ed i lettoni pagani62. L’autorità di Goffredo non si estendeva alla contea di Tripoli. Qui l’antipatia di Boemondo per il proprio vassallo Enrico di Jebail era scoppiata in guerra aperta. Non soltanto Enrico respingeva la sovranità di lui, mantenendosi, con l’aiuto dei genovesi, in una situazione di completa indipendenza, ma suo cugino Bertrando, capo del ramo cadetto della famiglia Embriaco, attaccò Boemondo nella stessa Tripoli. La principessa madre Luciana, quando era stata allontanata dalla reggenza, era riuscita a mantenere molti dei suoi favoriti romani in posti importanti nella contea, con grande sdegno dei baroni indigeni. Costoro trovarono in Bertrando Embriaco, che possedeva grandi tenute a Jebail e nei dintorni, ed in suo cognato Giovanni di Antiochia, signore di Botrun, cugino in secondo grado di Boemondo, i loro capi. Nel 1258 i baroni marciarono su Tripoli, dove il principe aveva la sua residenza, e posero l’assedio alla città. Boemondo tentò una sortita ma fu sconfitto e ferito ad una spalla da Bertrando stesso e dovette rimanere assediato nella sua seconda capitale finché i templari non giunsero a liberarlo. Ardeva dal desiderio di vendetta. Un giorno, mentre attraversava a cavallo uno dei suoi villaggi, Bertrando fu attaccato da alcuni contadini armati e ucciso. La sua testa fu inviata in dono a Boemondo, e nessuno dubitò che questi fosse l’ispiratore del delitto. Per il momento esso serviva al suo scopo: infatti i ribelli, intimiditi, si ritirarono a Jebail. Ma c’era ora una vendetta di sangue tra la casa di Antiochia e gli Embriaco63. Il governo di Goffredo di Sargines terminò nel 1263. La regina Plaisance di Cipro era morta nel settembre del 1261 profondamente rimpianta, perché era una donna di grande rettitudine. Suo figlio, Ugo II, aveva otto anni ed era necessario un nuovo reggente per Cipro e per Gerusalemme. Il padre di Ugo II, Enrico I, aveva avuto due sorelle: la maggiore, Maria, aveva sposato Gualtiero di Brienne ed era morta giovane lasciando un figlio, Ugo; la minore, Isabella, era sposata ad Enrico di Antiochia, fratello di Boemondo VI, ed era ancora in vita. Suo figlio, che si chiamava pure Ugo, era maggiore di suo cugino di Brienne, che Isabella aveva allevato insieme con il suo proprio figliuolo. Ugo di Brienne, sebbene fosse il più diretto erede al trono, non desiderava competere contro sua zia ed il figlio di lei per la reggenza. Dopo una consultazione, l’alta corte di Cipro, considerando che un uomo fosse più adatto all’ufficio di reggente, lasciò cadere le pretese di Isabella, decidendo a favore del figlio di lei, che era il più anziano dei principi di sangue reale. L’alta corte di Gerusalemme ebbe più tempo per riflettere. Isabella e suo marito Enrico di Antiochia giunsero ad Acri solo nella primavera del 1263. I nobili l’accettarono come reggente de facto, ma, manifestando scrupoli che erano stati ignorati fino allora, rifiutarono di renderle un giuramento di fedeltà; questo poteva essere fatto soltanto se re Corradino fosse stato presente. Goffredo di Sargines diede le dimissioni da bali e a questa carica la reggente designò allora suo marito. Ella stessa se ne ritornò felicemente senza di lui a Cipro. Vi morì l’anno dopo, e la reggenza di Gerusalemme fu di nuovo vacante. Ugo di Antiochia, reggente di Cipro, la reclamò per sé, in quanto figlio ed erede di lei, ma una contropretesa venne avanzata da Ugo di Brienne. Egli dichiarò che, secondo gli usi di Francia seguiti in «Outremer», il figlio di una sorella maggiore precedeva quello di una minore, senza tener conto di quale dei due cugini fosse il maggiore d’età. Ma i giuristi di «Outremer» stimarono che il fattore decisivo fosse il grado di consanguineità con l’ultimo reggitore della carica. Poiché Isabella era stata accettata come ultima reggente, suo figlio Ugo ebbe la precedenza sul nipote. I nobili e gli alti funzionari dello Stato

lo accettarono all’unanimità e gli tributarono quell’atto di omaggio che avevano negato a sua madre. I comuni e le colonie straniere gli promisero fedeltà ed i gran maestri del Tempio e dell’Ospedale gli diedero il loro riconoscimento. Sebbene gli italiani combattessero ancora gli uni contro gli altri sui mari, c’era nel regno un’atmosfera generale, anche se superficiale, di riconciliazione, dovuta soprattutto all’energia di Ugo. Egli non designò un bali perché agisse in suo nome sul continente, ma fece la spola tra Cipro ed Acri. Mentre si trovava sull’isola il governo del continente era affidato a Goffredo di Sargines, nominato ancora una volta siniscalco. Era un bene che l’amministrazione si trovasse nelle mani di persone rispettate perché si profilavano all’orizzonte grandi e crescenti pericoli64. Re Luigi di Francia non dimenticò mai la Terra Santa. Ogni anno inviava una somma di denaro per il mantenimento della piccola compagnia di soldati che aveva lasciato ad Acri al comando di Goffredo di Sargines; e la consuetudine continuò persino dopo la morte di Goffredo e dopo quella del re stesso. Sperava sempre di partire di nuovo per una crociata, ma i problemi del suo proprio paese non gli davano tregua. Non si sentì in condizioni di prepararsi per la sua seconda crociata prima del 1267, quando era ormai stanco ed ammalato, e cominciò lentamente a prendere le misure necessarie ed a raccogliere il denaro indispensabile. Nel 1270 era pronto ad imbarcarsi per la Palestina65. Il pio progetto fu deformato e rovinato da Carlo, fratello del re. Nel 1259 il piccolo Corradino, re titolare di Sicilia e di Gerusalemme, era stato detronizzato da suo zio Manfredi, figlio illegittimo di Federico II. Manfredi aveva ereditato molto della brillante arroganza di suo padre e raccolse dal pontefice un odio non meno intenso. Il papa iniziò la ricerca di un principe da collocare in sua vece sul trono siciliano, che era per tradizione sotto la loro sovranità. Dopo aver preso in considerazione Edmondo di Lancaster, figlio di Enrico d’Inghilterra, essi trovarono il loro candidato in Carlo d’Angiò. Questi rassomigliava poco al suo santo fratello: era freddo, crudele e smodatamente ambizioso; inoltre sua moglie, la contessa Beatrice, erede di Provenza e sorella di tre regine, desiderava ardentemente avere anche lei una corona. Nel 1261 Giacomo Pantaleon, patriarca di Gerusalemme, divenne papa con il nome di Urbano IV. Egli persuase ben presto Luigi che l’eliminazione degli Hohenstaufen dalla Sicilia era un preliminare necessario per il successo di qualsiasi crociata futura. Luigi approvò la candidatura di suo fratello ed impose persino tasse in Francia a suo favore. Urbano morì nel 1264, ma il suo successore Clemente IV, sempre francese, completò gli accordi con Carlo, il quale nel 1265 calò in Italia e sconfisse ed uccise Manfredi nella battaglia di Benevento. La vittoria mise in suo potere l’Italia meridionale e la Sicilia e sua moglie ricevette la corona tanto bramata. Tre anni dopo Corradino fece un valoroso tentativo di riconquistare la sua eredità italiana, che fallì disastrosamente vicino a Tagliacozzo, ed il sedicenne erede degli Hohenstaufen fu preso prigioniero e decapitato. Le ambizioni di Carlo crebbero ancora: voleva dominare l’Italia, riprendere Costantinopoli ai greci scismatici e fondare quell’impero mediterraneo che invano i suoi predecessori normanni avevano sognato di stabilire. Papa Clemente cominciò a temere il mostro che aveva evocato, ma morì nel 1268. Per tre anni Carlo bloccò l’elezione di un nuovo papa mediante intrighi con i cardinali. Nessuno poteva frenarlo. Ma il pensiero della crociata decisa da suo fratello lo inquietava: i soldati francesi ed il denaro francese dovevano essere adoperati a suo vantaggio, non già per puntellare un lontano regno, di cui non era ancora disposto ad interessarsi. Aveva sperato in un aiuto per attaccare Bisanzio; se esso non doveva giungere, bisognava almeno deviare la crociata facendole assumere un corso che gli arrecasse qualche beneficio66.

Mustansir, emiro di Tunisi, che governava la costa africana dirimpetto alla Sicilia, era noto per essere ben disposto verso i cristiani, ma aveva offeso Carlo dando asilo a certi ribelli fuggiti dall’isola. Carlo persuase Luigi, il cui ottimismo per la fede non era stato offuscato dall’esperienza, che l’emiro era pronto a convertirsi. Una piccola dimostrazione di forza l’avrebbe condotto all’ovile e così si sarebbe aggiunta alla cristianità una nuova provincia in un luogo di grande importanza strategica per ogni futura crociata. Può darsi che il discernimento di Luigi fosse indebolito dalla malattia. Amici saggi, come Joinville, non facevano mistero della loro avversione per quel progetto, ma Luigi aveva fiducia in suo fratello. Il 1° luglio egli fece vela da Aigues-Mortes alla testa di una formidabile spedizione. Con lui c’erano i suoi tre figli; suo genero, re Tibaldo di Navarra; suo nipote, Roberto di Artois; i conti di Bretagna e di La Marche, e l’erede di Fiandra, tutti figli di compagni della sua precedente crociata; inoltre, il conte di Saint-Poi, un sopravvissuto di quella crociata, e il conte di Soissons. La flotta arrivò davanti a Cartagine il 18 luglio, nel pieno calore dell’estate africana. L’emiro di Tunisi non mostrò alcun desiderio di convertirsi al cristianesimo, ma al contrario rafforzò le fortificazioni e la guarnigione della sua città. Non ebbe neppure bisogno di combattere: il clima lavorò per lui. La malattia si diffuse rapidamente nel campo francese; principi, cavalieri e soldati caddero ammalati a migliaia. Il re fu tra i primi ad essere colpito. Quando Carlo d’Angiò giunse il 25 agosto con il suo esercito apprese che suo fratello era morto poche ore prima. L’erede al trono di Francia, Filippo, era gravemente ammalato; Giovanni Tristano, il principe nato a Damietta, stava morendo. L’energia di Carlo salvò la spedizione da un disastro completo fino all’autunno, allorché l’emiro gli pagò un notevole indennizzo perché se ne tornasse in Italia; ma la crociata come tale era stata sprecata67. Quando la notizia della tragedia giunse in Oriente, i musulmani ne furono profondamente sollevati e i cristiani piombarono nel lutto. La loro afflizione era ben giustificata: mai più un esercito reale sarebbe partito dalla loro madrepatria per soccorrere i franchi di «Outremer». Re Luigi era stato per la Francia un sovrano grande e buono, ma alla Palestina, che aveva amato ancor più profondamente, aveva recato quasi soltanto delusione e dolore. Mentre giaceva moribondo pensava alla Città Santa che non aveva mai visto e che, nonostante tante fatiche, non era riuscito a liberare. Le sue ultime parole furono «Gerusalemme, Gerusalemme»68.

Capitolo terzo I mongoli in Siria

Ti fiderai di lui perché la sua forza è grande? Lascerai a lui il tuo lavoro? Giobbe, XXXIX, II

Quando Guglielmo di Rubruck giunse alla corte del gran Khan negli ultimi giorni del 1253, vi trovò un governo molto diverso da quello che aveva accolto il precedente inviato di re Luigi, Andrea di Longjumeau. Alla morte di Guyuk, figlio di Ogodai, avvenuta nel 1248, la sua vedova Oghul Qaimish assunse la reggenza in nome dei suoi figli giovanetti Qucha, Naqu e Qughu. Ma si dimostrò una sovrana inetta, avara e dedita alla stregoneria, e nessuno dei suoi figli prometteva di diventare migliore. Il loro cugino Shiremon, che suo nonno Ogodai aveva destinato alla successione, complottava continuamente contro di loro. Ma un’opposizione molto più pericolosa si concretò nell’alleanza di Batu, viceré dell’Occidente, con la principessa Sorgaqtani, vedova di Tului, il minore dei figli di Gengis. Sorgaqtani, keraita di nascita e fervente cristiana nestoriana come tutto il suo popolo, era molto rispettata per la sua saggezza ed onestà. Quando era rimasta vedova, Ogodai avrebbe voluto che il proprio figlio Guyuk la sposasse, ma ella aveva rifiutato preferendo dedicarsi all’educazione dei suoi quattro figliuoli, Mongka, Kubilai, Hulagu e Ariqboga, tutti eccezionalmente dotati. Quando Guyuk condusse un’ispezione sulle finanze della famiglia imperiale si trovò che soltanto lei ed i suoi figli avevano agito sempre con perfetta correttezza. Batu, la cui disputa con Guyuk non era mai stata composta, nutriva per lei una grande ammirazione. Sapendo che il proprio diritto al trono sarebbe sempre stato inficiato dai dubbi sulla legittimità di suo padre Juji, egli si uni a lei per sostenere i diritti di Mongka. Andò in Mongolia e, come principe più anziano della casa, convocò il 1° luglio 1261 una kuriltay che elesse Mongka khan supremo. Nonostante i sinceri tentativi di riconciliazione effettuati da Sorgaqtani, i nipoti di Ogodai rifiutarono di partecipare alla kuriltay e tramarono, invece, di assalirne i membri quando fossero stati ubriachi nei banchetti che seguivano la cerimonia d’apertura. Il complotto falli, e dopo un anno di guerra civile intermittente, Mongka trionfò su tutti i suoi rivali e fu insediato come Khan supremo a Karakorum. La reggente Oghul Qaimish e la madre di Shiremon furono dichiarate colpevoli di stregoneria e fatte annegare. I principi della casa di Ogodai furono cacciati in esilio1. Con l’ascesa di Mongka i mongoli ripresero la loro politica di espansione. I grandi principi tornarono ai loro governi: le province orientali vennero affidate al maggiore dei fratelli di Mongka, Kubilai, che intraprese con energia e con metodo la conquista di tutta la Cina. Egli si converti al buddismo e le sue guerre ed il trattamento riservato ai paesi conquistati furono notevoli per umanità e tolleranza. Mongka ed il suo fratello minore rimasero in Mongolia, esercitando un attento controllo su tutto l’enorme impero. Gli eredi di Jagatai, nel Turkestan, iniziarono il tentativo di estendere il loro potere oltre il Pamir in India. Batu trasferì il suo quartier generale sul corso inferiore della Volga, in modo da controllare i principi suoi vassalli in Russia e vi fondò il khanato chiamato kipciak dagli scrittori musulmani e Orda d’Oro da quelli mongoli e russi. Il governo della Persia passò al secondo

dei fratelli di Mongka, Hulagu; su questa frontiera e su quella di Kubilai in Oriente si concentrarono ora gli sforzi principali dei mongoli2. Tra gli Stati che circondavano il Mediterraneo, il regno armeno di Ci-licia fu il primo a rendersi conto dell’importanza dell’avanzata mongola. Gli armeni avevano assistito con interesse nel 1243 al crollo dell’esercito selgiuchida davanti a un corpo di spedizione mongolo condotto da un governatore provinciale. Essi erano in grado di valutare quanto irresistibile potesse essere l’esercito imperiale. Re Hethum aveva saggiamente mandato un deferente messaggio a Baichu nel 1243, ma poi i mongoli si erano ritirati; Kaikhosrau riconquistò allora le regioni dell’Anatolia che aveva perduto e cominciò ancora una volta a premere sull’Armenia, aiutato da un principe armeno ribelle, Costantino di Lampron3. Hethum calcolò che i mongoli sarebbero tornati e che potevano essere molto utili a tutta la cristianità asiatica, e in particolare a lui stesso. Nel 1247 mandò suo fratello, il conestabile Sempad, alla corte del gran khan con una ambasceria. Sempad giunse a Karakorum nel 1248, non molto tempo prima della morte di Guyuk. Questi lo ricevette con cordialità e, udendo che Hethum era pronto a considerarsi suo vassallo, promise di inviare aiuti affinché gli armeni potessero riconquistare le città sottratte loro dai Selgiuchidi. Sempad ritornò in patria con un documento ufficiale del gran khan che garantiva l’integrità dei territori di Hethum4. Ma la morte di Guyuk impedì un’azione immediata. Nel 1254, informato dell’ascesa al trono di un nuovo, energico khan, re Hethum partì per Karakorum5. Questa città era allora il centro diplomatico del mondo. Quando l’ambasciatore di Luigi IX, Guglielmo di Rubruck, vi giunse nel 1254 vi trovò ambascerie dell’imperatore greco, del califfo, del re di Delhi e del sultano selgiuchida, come pure emiri dello Jezireh e del Kurdistan e principi della Russia, tutti in attesa di essere ricevuti dal khan. Parecchi europei vi si erano stabiliti, fra cui un gioielliere di Parigi con una moglie ungherese ed una donna alsaziana sposata con un architetto russo6. Alla corte non c’era nessuna discriminazione razziale o religiosa: le alte cariche dell’esercito e del governo erano riservate ai membri della famiglia imperiale, ma c’erano ministri e governatori provinciali provenienti da quasi tutti i paesi dell’Asia. Mongka stesso professava la fede dei suoi padri, lo sciamanismo, ma assisteva indifferentemente ai riti cristiani, buddisti e musulmani. Sosteneva che c’era un solo Dio che ognuno poteva adorare a modo proprio. L’influsso religioso predominante era esercitato dai cristiani nestoriani, ai quali Mongka dimostrava uno speciale favore in ricordo di sua madre Sorgaqtani, che era sempre rimasta fedele alla sua religione, sebbene fosse abbastanza tollerante da dotare di rendite un istituto teologico musulmano a Buchara. La sua moglie principale, l’imperatrice Kutuktai e molte altre delle sue mogli erano pure nestoriane7. Guglielmo di Rubruck si mostrò molto scandalizzato dell’ignoranza e della scostumatezza degli ecclesiastici nestoriani e considerava le loro funzioni religiose poco più che orge di ubriachi. Una domenica egli vide l’imperatrice tornare vacillante dalla messa solenne. Quando i suoi affari andavano male, era propenso ad attribuirne la colpa alla rivalità di questa gerarchia eretica8. La sua ambasceria, infatti, non ebbe molto successo. Aveva compiuto il viaggio passando per la capitale di Batu sulla Volga, dove aveva trovato che il figlio di lui, Sartaq, sebbene con ogni probabilità non fosse personalmente un cristiano, era particolarmente ben disposto verso i cristiani. Batu lo fece proseguire per la Mongolia: viaggiò a spese del governo lungo la grande strada commerciale, comodamente ed in tutta sicurezza, sebbene di tanto in tanto trascorressero intere giornate senza che si vedesse una sola casa. Alla fine del dicembre 1253 giunse all’accampamento del gran khan, poche miglia a sud di Karakorum. Mongka lo ricevette in udienza il 4 gennaio e poco dopo egli si trasferì insieme con la corte in città. Trovò il governo mongolo già deciso ad attaccare i musulmani dell’Asia occidentale e pronto a discutere un’azione comune. Ma c’era un’insormontabile

difficoltà: il gran khan non poteva ammettere che esistessero nel mondo altri principi sovrani oltre a se stesso. La sua politica estera era estremamente semplice: i suoi amici erano già suoi vassalli, i suoi nemici dovevano essere eliminati o ridotti al vassallaggio. Tutto quello che Guglielmo poté ottenere fu la promessa assolutamente sincera che i cristiani avrebbero ricevuto grandi aiuti, se i loro governanti fossero venuti a rendere omaggio al sovrano del mondo. Il re di Francia non poteva trattare a queste condizioni. Guglielmo lasciò Karakorum nell’agosto del 1254 avendo imparato, come avrebbero appreso in seguito molti altri ambasciatori in visita alle corti dell’Asia orientale, che i monarchi dell’Oriente non capiscono né gli usi, né i principi della diplomazia occidentale. Egli fece il viaggio di ritorno attraverso l’Asia centrale fino alla corte di Batu e poi, superando il Caucaso e l’Anatolia selgiuchida, giunse in Armenia e ad Acri. Ovunque fu trattato con il rispetto dovuto a un ambasciatore accreditato presso il gran khan9. Re Hethum arrivò a Karakorum poco dopo la partenza di Guglielmo. Vi si era recato spontaneamente come vassallo e poiché gli altri visitatori stranieri erano o vassalli convocati contro la loro volontà o rappresentanti di re che rivendicavano l’indipendenza, fu oggetto di speciali favori. Al ricevimento ufficiale offertogli da Mongka il 13 settembre 1254 gli fu consegnato un documento che confermava l’inviolabilità della sua persona e del suo regno, ed egli stesso venne trattato come il principale consigliere cristiano del khan per le questioni riguardanti l’Asia occidentale. Mongka gli promise di esentare dalle tasse tutte le chiese e i monasteri cristiani. Annunziò che suo fratello Hulagu, già stabilitosi in Persia, aveva ricevuto ordini di conquistare Bagdad e di distruggere il potere del califfato, e si impegnò a riconquistare Gerusalemme stessa per la cristianità, se tutte le potenze cristiane avessero collaborato con lui. Hethum lasciò Karakorum il 1° novembre, carico di doni e molto soddisfatto per il successo dei suoi sforzi. Tornò in patria passando per il Turkestan e la Persia, dove porse i suoi ossequi a Hulagu e nel luglio seguente era di ritorno in Armenia10. L’ottimismo di Hethum era naturale, ma un po’ eccessivo. I mongoli erano certamente desiderosi di avere sotto controllo o di distruggere il califfato; avevano ormai tanti sudditi maomettani che era essenziale per loro dominare la principale istituzione religiosa del mondo islamico. Non avevano nessuna particolare animosità contro l’Islam in quanto religione e, analogamente, benché favorissero il cristianesimo più di qualsiasi altra fede, non avevano nessuna intenzione di tollerare l’esistenza di uno Stato cristiano indipendente. Se Gerusalemme doveva essere restituita ai cristiani lo sarebbe stata sotto l’Impero mongolo. È interessante meditare su quello che avrebbe potuto succedere se si fossero realizzate le ambizioni mongole nell’Asia occidentale. Si sarebbe forse potuto costituire un grande khanato cristiano che col tempo sarebbe riuscito a staccarsi dal potere centrale della Mongolia. Ma il sogno di san Luigi di trasformare i mongoli in figli obbedienti della Chiesa romana era assurdo; anche gli Stati cristiani dell’Asia occidentale non avrebbero conservato nessuna indipendenza. Un trionfo mongolo sarebbe forse stato utile per gli interessi della cristianità nel suo insieme, ma i franchi di «Outremer», che sapevano quale fosse l’atteggiamento del gran khan verso i principi cristiani, non possono essere eccessivamente criticati per aver preferito i musulmani, che ben conoscevano, piuttosto che questo popolo bizzarro, fiero e arrogante, proveniente dai lontani deserti e la cui apparizione nell’Europa orientale era stata così poco incoraggiante11. Il tentativo di Hethum di costruire a poco a poco una grande alleanza cristiana per aiutare i mongoli fu ben accolto dai cristiani indigeni e Boe-mondo di Antiochia, che si trovava sotto l’influenza di suo suocero, diede la sua adesione. Ma i franchi d’Asia se ne tennero in disparte12. Nel gennaio del 1256 un enorme esercito mongolo attraversò il fiume Oxo, al comando di Hulagu, fratello del gran khan. Al pari di suo fratello Kubilai, Hulagu era più colto della maggioranza dei

principi mongoli, aveva simpatia per gli uomini di cultura ed egli stesso si dilettava di filosofia e d’alchimia. Al pari di Kubilai si sentiva attirato dal buddismo, ma non abiurò mai la religione dei suoi antenati, lo sciamanismo e non aveva i sentimenti umanitari di suo fratello. Soffriva di attacchi epilettici e può darsi che questi abbiano influito sul suo carattere, sul quale non si poteva fare affidamento. Verso i popoli conquistati era non meno brutale dei suoi predecessori. Ma i cristiani non avevano nessun motivo per lamentarsi di lui, perché alla sua corte l’influsso più potente era esercitato da sua moglie principale Dokuz Khatun. Questa donna di straordinarie qualità era una principessa keraita, nipote di Toghrul Khan e cugina, perciò, della madre di Hulagu. Era una nestoriana fervente, che non faceva mistero della propria antipatia per l’Islam e del suo desiderio di aiutare i cristiani di qualsiasi setta13. Il primo obiettivo di Hulagu era il quartier generale degli assassini in Persia. Finché non si fosse distrutta quella setta sarebbe stato impossibile disporre di un governo bene ordinato; la setta, poi, aveva offeso in modo particolare i mongoli, assassinando Jagatai, il secondo dei figli di Gengis Khan. L’obiettivo successivo era Bagdad, poi l’esercito mongolo avrebbe proseguito per la Siria. Ogni cosa era stata progettata con cura: le strade attraverso il Turkestan e la Persia vennero riparate e si costruirono ponti; furono requisiti carri per il trasporto di macchine da assedio dalla Cina; i pascoli furono liberati dalle greggi, in modo che vi fosse erba in abbondanza per i cavalli mongoli. Con Hulagu c’erano Dokuz Khatun e altre due mogli ed i suoi due figli maggiori. La casa di Jagatai era rappresentata dal suo abiatico Nigudar. Dall’Orda d’Oro, Batu inviò tre dei suoi nipoti che viaggiarono lungo le sponde occidentali del Caspio e raggiunsero l’esercito in Persia. Ogni tribù della confederazione mongola forni un quinto dei propri combattenti; c’erano inoltre un migliaio di arcieri cinesi abili nel lanciare delle frecce infuocate con la balestra. Un esercito era stato mandato a preparare la via quasi tre anni prima, agli ordini del più fidato dei generali di Hulagu, il nestoriano Kitbuqa, di razza naiman, che si diceva discendesse da uno dei tre re Magi. Kitbuqa aveva ristabilito l’autorità mongola sulle principali città dell’altopiano iranico ed aveva conquistato prima dell’arrivo di Hulagu alcuni capisaldi secondari degli assassini14. Il gran maestro della setta, Rukn ad-Din Khurshah, tentò invano di allontanare il pericolo con intrighi diplomatici e diversioni. Hulagu penetrò in Persia ed avanzò lentamente, ma inesorabilmente attraverso Demavend e Abbassabad nelle valli degli assassini. Quando l’enorme esercito apparve davanti ad Alamut ed iniziò a stringere più da vicino d’assedio la cittadella, Rukn ad-Din cedette. In dicembre andò di persona alla tenda di Hulagu e fece atto di sottomissione. Il governatore della fortezza rifiutò di obbedire ai suoi ordini di arrendersi, ma il castello fu preso d’assalto pochi giorni dopo. Hulagu promise a Rukn ad-Din salva la vita, ma egli chiese di essere inviato a Karakorum sperando di ottenere condizioni più favorevoli dal gran khan Mongka. Quando vi giunse, Mongka rifiutò di riceverlo dicendo che era stato un peccato stancare buoni cavalli per una missione così inutile. Due fortezze degli assassini resistevano ancora ai mongoli, Girdkuh e Lembeser. Fu ordinato a Rukn ad-Din di tornare in patria e di fare in modo che si arrendessero, ma nel viaggio di ritorno fu messo a morte con il suo seguito, mentre nello stesso tempo veniva mandato a Hulagu l’ordine di sterminare tutta la setta. Un certo numero di parenti del gran maestro furono inviati alla figlia di Jagatai, Salghan Kathun, affinché ella potesse vendicare personalmente la morte di suo padre. Altri furono riuniti con la scusa di un censimento e massacrati a migliaia. Alla fine del 1257 rimanevano nelle montagne persiane soltanto pochi profughi. Gli assassini di Siria erano fino allora rimasti fuori alla portata dei mongoli, ma già prevedevano quale sarebbe stata la loro sorte15. Ad Alamut gli assassini possedevano una grande biblioteca piena di opere di filosofia e di

scienze occulte. Hulagu inviò il suo ciambellano musulmano, Ata al-Mulk Juveni, ad esaminarla. Questi mise da parte gli esemplari del Corano che vi trovò, come pure i libri di valore scientifico e storico; le opere eretiche furono bruciate. Per una strana coincidenza ci fu quasi allo stesso tempo un grande incendio, causato dal fulmine, nella città di Medina, la cui biblioteca, che conservava la più grande collezione di opere di filosofia musulmana ortodossa, andò completamente perduta16. Dopo aver annientato gli assassini di Persia, Hulagu e l’esercito mongolo si volsero contro il quartier generale dell’ortodossia islamica a Bagdad. Il califfo al-Mustasim, trentasettesimo sovrano della dinastia abasside e figlio del califfo al-Mustansir e di una schiava etiopica, aveva sperato di far rivivere la potenza ed il prestigio del suo trono. Dal momento del crollo dei khwarizmiani il califfato era stato indipendente e la rivalità tra il Cairo e Damasco aveva reso possibile al califfo di atteggiarsi ad arbitro dell’Islam. Ma per quanto si circondasse di pompa e di cerimonie, al-Mustasim era un uomo debole e sciocco, il cui interesse principale consisteva nei divertimenti. La sua corte era lacerata da una contesa tra il suo visir, lo shia Muwaiyad ad-Din, ed il suo segretario, il sunni Aibeg, che godeva l’appoggio dell’erede al trono. Bagdad era saldamente fortificata ed il califfo poteva reclutare un grosso esercito, infatti soltanto la sua cavalleria assommava a centoventimila uomini; tuttavia dipendeva dalla concessione di benefici ai militari. Al-Mustasim, poi, non si fidava dei propri vassalli. Seguì perciò il consiglio del suo visir e ridusse l’esercito adoperando il denaro così risparmiato per offrire un tributo volontario ai mongoli, nella speranza di tenerli lontano. Era del tutto inverosimile che una simile politica di pacificazione potesse avere successo, anche se fosse stata condotta innanzi con coerenza. Ma quando Hulagu rispose chiedendo diritti sovrani sul califfato, l’influenza di Aibeg era in fase ascendente, perciò la richiesta venne respinta con alterigia17. Hulagu si accingeva alla campagna con una certa trepidazione. Non tutti i suoi astrologi lo incoraggiavano ed egli temeva il tradimento dei propri vassalli musulmani e l’intervento dei sovrani di Damasco e d’Egitto. Ma le sue precauzioni contro il tradimento si dimostrarono efficaci, e nessuno accorse in soccorso di Bagdad. Nel frattempo il suo proprio esercito era stato rinforzato dall’arrivo del contingente dell’Orda d’Oro, dell’esercito che Baichu aveva mantenuto negli ultimi dieci anni sulle frontiere dell’Anatolia e da un reggimento di cavalleria georgiana, ansioso di combattere contro la capitale degli infedeli. Alla fine del 1257 i mongoli scesero dalla loro base di Hamadan. Baichu e le sue truppe attraversarono il Tigri a Mosul e ridiscesero lungo la riva occidentale. Kitbuqa e l’ala sinistra entrarono nella piana dell’Iraq ad oriente della capitale mentre Hulagu ed il centro avanzavano attraverso Kermanshah. Il grosso dell’esercito del califfo, agli ordini di Aibeg, partiva per incontrare Hulagu quando udì dell’avvicinarsi di Baichu da nord-ovest. Aibeg attraversò nuovamente il Tigri e l’11 gennaio 1258 giunse addosso ai mongoli vicino a Anbar, a circa trenta miglia da Bagdad. Baichu finse di ritirarsi e così attirò gli arabi su un terreno basso e paludoso, poi mandò i genieri a tagliare le dighe dell’Eufrate dietro di loro. Il giorno seguente la battaglia riprese e l’esercito di Aibeg fu ricacciato nelle terre inondate. Soltanto Aibeg stesso e la sua guardia del corpo riuscirono a scampare all’inondazione rifugiandosi a Bagdad. Il grosso delle sue truppe peri sul campo di battaglia ed i superstiti fuggirono nel deserto e si dispersero18. Il 18 gennaio Hulagu apparve davanti alle mura orientali di Bagdad e già il 22 la città era investita da tutti i lati, con ponti di barche costruiti attraverso il Tigri appena a monte ed a valle delle mura. Bagdad è situata sulle due sponde del fiume. La città occidentale, dove i primi califfi avevano avuto il loro palazzo era diventata meno importante di quella orientale, dove erano concentrati gli edifici del governo. Contro queste mura orientali i mongoli lanciarono i loro assalti più massicci. Al-

Mustasim cominciò a perdere le speranze: alla fine di gennaio inviò il suo visir, che aveva sempre sostenuto la necessità della pace con i mongoli, insieme con il patriarca nestoriano, che egli sperava potesse intercedere presso Dokuz Khatun, affinché cercassero di trattare con Hulagu. Essi furono rimandati indietro senza neppure avere ottenuto un’udienza. Dopo un terribile bombardamento avvenuto nella prima settimana di febbraio, le mura orientali cominciarono a crollare. Il 10 febbraio, quando le truppe mongole stavano già riversandosi in città, il califfo si presentò e si arrese a Hulagu, insieme con tutti gli alti ufficiali dell’esercito ed i funzionari dello Stato. Fu loro ordinato di deporre le armi dopo di che vennero massacrati. Soltanto al califfo fu risparmiata la vita fino al 15 febbraio, allorché Hulagu fece il suo ingresso in città e nel palazzo. Dopo aver rivelato al conquistatore il nascondiglio di tutto il suo tesoro, anch’egli fu messo a morte. Nel frattempo i massacri continuavano per tutta la città: sia quelli che si arrendevano subito, sia coloro che continuavano a combattere, venivano tutti ugualmente trucidati. Donne e bambini perivano insieme con i loro uomini. Un mongolo trovò in una via secondaria quaranta neonati le cui madri erano morte: con un atto di misericordia li uccise, ben sapendo che non avrebbero potuto sopravvivere senza nessuno che li allattasse. Le truppe georgiane, che erano state le prime ad irrompere attraverso le mura, erano particolarmente feroci nella loro opera di distruzione. In quaranta giorni furono trucidati circa ottantamila cittadini di Bagdad. Sopravvissero soltanto alcuni pochi fortunati, i cui nascondigli nelle cantine non erano stati scoperti, un certo numero di ragazze e di giovinetti di bell’aspetto, che furono risparmiati per essere ridotti in schiavitù, e la comunità cristiana che aveva cercato rifugio nelle chiese e vi era rimasta indisturbata, per disposizione speciale di Dokuz Khatun19. Alla fine di marzo era tale in città il fetore dei cadaveri in decomposizione che Hulagu ritirò le sue truppe per paura di una pestilenza. Molti soldati partirono a malincuore, poiché credevano che vi fossero ancora oggetti di valore da ritrovare. Ma Hulagu possedeva l’immenso tesoro accumulato dai califfi abassidi durante cinque secoli. Dopo averne inviato una cospicua parte a suo fratello Mongka, ritornò a piccole tappe verso Hamadan e poi nell’Azerbaigian, dove costruì un solido castello a Shaha, sulla sponda del lago Urmiah, come deposito per tutto il suo oro, metalli preziosi e gioielli. Lasciò come governatore di Bagdad l’ex visir Muwaiyad, strettamente sorvegliato da funzionari mongoli. Il patriarca nestoriano Makika ricevette ricche rendite ed un antico palazzo reale per stabilirvi la propria residenza e la sua chiesa. A poco per volta la città fu ripulita e rimessa in ordine, e quarant’anni dopo era una fiorente città di provincia, le cui dimensioni raggiungevano appena un decimo di quello che erano state20. Le notizie della distruzione di Bagdad fecero profonda impressione in tutta l’Asia. I cristiani asiatici si rallegrarono ovunque; scrissero con accenti di trionfo sulla caduta della Seconda Babilonia e salutarono Hulagu e Dokuz Khatun come nuovi Costantino ed Elena, strumenti di Dio per la sua vendetta sui nemici di Cristo21. Per i musulmani fu un colpo terribile, che metteva in pericolo tutto il loro mondo. Da secoli il califfato abasside era privo di un’importante potenza materiale, ma il suo prestigio morale era ancora grande. L’eliminazione della dinastia e della capitale rendeva vacante il posto di guida dell’Islam, lasciandolo alla mercè di qualunque capo musulmano ambizioso. La soddisfazione dei cristiani fu di breve durata: non passò molto tempo prima che l’Islam vincesse i suoi vincitori. Ma l’unità del mondo musulmano aveva sofferto un colpo da cui non si sarebbe mai ripresa. La caduta di Bagdad, che seguiva di un mezzo secolo quella di Costantinopoli, avvenuta nel 1204, poneva fine per sempre a quell’antica equilibrata diarchia di Bisanzio e del califfato, sotto cui le popolazioni del Vicino Oriente avevano prosperato per tanto tempo. Il Vicino Oriente non avrebbe mai più avuto una parte di primo piano nella storia della civiltà.

Dopo la distruzione di Bagdad, Hulagu volse la sua attenzione alla Siria. Come primo passo rafforzò il dominio mongolo sullo Jezireh e schiacciò il principe ayubita di Mayyafaraqin, al-Kamil, che rifiutava di riconoscere la sua sovranità e aveva avuto l’audacia di crocifiggere un prete giacobita a lui inviato da Hulagu22. Questi, prima di lasciare il suo accampamento vicino a Maragha, ricevette ambasciatori di molti Stati. Il vecchio atabeg di Mosul, Badr ad-Din Lulu, era andato per scusarsi di antichi misfatti. I due sultani selgiuchidi figli di Kaikhosrau, Kaikaus II e Kilij Arslan IV, giunsero poco dopo: il primo, che si era opposto a Baichu nel 1236, cercò invano di placare Hulagu con servili adulazioni che scandalizzarono i mongoli. Infine an-Nasir Yusuf, sovrano di Aleppo e Damasco, inviò il suo proprio figlio al-Aziz per porgere umili ossequi al conquistatore. Mayyafaraqin fu cinta d’assedio e conquistata al principio del 1260 grazie soprattutto all’aiuto degli alleati georgiani ed armeni di Hulagu. I musulmani furono massacrati e i cristiani risparmiati. AlKamil venne torturato: fu obbligato a mangiare le sue proprie carni finché mori23. Nel settembre del 1259 Hulagu condusse l’esercito mongolo alla conquista della Siria nordoccidentale. Kitbuqa guidava l’avanguardia, Baichu l’ala destra, un altro generale favorito, Sunjak, la sinistra, mentre Hulagu stesso comandava il centro. Egli avanzò oltre Nisibin, Harran ed Edessa fino a Birejik dove attraversò l’Eufrate. Saruj tentò di resistergli e fu saccheggiata. Al principio del nuovo anno l’esercito mongolo cinse d’assedio Aleppo ed avendo la guarnigione rifiutato di arrendersi, la città fu conquistata d’assalto il 18 gennaio. Il sultano an-Nasir Yusuf si trovava a Damasco quando si scatenò l’attacco. Aveva sperato che la presenza di suo figlio al campo di Hulagu avrebbe allontanato il pericolo, ma quando si accorse del proprio errore fece un passo ancora più umiliante offrendosi di accettare la sovranità dei mamelucchi d’Egitto. Essi gli promisero aiuti, ma non avevano nessuna fretta di mandarglieli. Nel frattempo egli raccolse un esercito fuori Damasco e chiamò in suo aiuto i suoi cugini di Hama e di Kerak. Mentre rimaneva in attesa, alcuni suoi ufficiali turchi cominciarono a complottare contro di lui. Scoprì in tempo i loro progetti, ma essi fuggirono in Egitto portando con sé uno dei suoi fratelli; la loro diserzione indebolì a tal punto il suo esercito che egli rinunziò ad ogni speranza di andare a liberare Aleppo. Questa venne difesa eroicamente dallo zio di an-Nasir Yusuf, Turanshah, ma dopo sei giorni di bombardamento le mura crollarono e i mongoli irruppero in città. Come già era accaduto altrove, i cittadini musulmani furono abbandonati al massacro, mentre i cristiani erano risparmiati, eccettuati alcuni ortodossi la cui chiesa non era stata riconosciuta nel furore della carneficina. La cittadella resistette per altre quattro settimane al comando di Turanshah. Quando infine cadde, Hulagu si dimostrò di una clemenza inaspettata: risparmiò la vita al comandante a motivo della sua età e del suo coraggio e lasciò indenne anche il suo seguito. Un grosso tesoro cadde nelle mani dei conquistatori. Hulagu assegnò Aleppo all’ex emiro di Homs, al-Ashraf, che aveva avuto la previdenza di presentarsi nell’accampamento mongolo come vassallo alcuni mesi prima. Gli vennero forniti consiglieri ed una guarnigione mongola per tenerlo sotto sorveglianza24. Bisognava poi punire la fortezza di Harenc, sulla strada tra Aleppo ed Antiochia, che aveva rifiutato di arrendersi, se non a condizione che la parola di Hulagu fosse garantita da un musulmano. Dopo la conquista cui fece seguito il solito massacro, egli giunse alla frontiera di Antiochia. Il re d’Armenia e suo genero, il principe d’Antiochia, si recarono in visita al suo accampamento per rendergli omaggio. Hethum gli aveva già fornito truppe ausiliarie e ne era stato ricompensato con una parte del bottino preso ad Aleppo, mentre ai principi selgiuchidi era stato ordinato di restituirgli le terre che suo padre aveva conquistato in Cilicia. Anche Boemondo ricevette una ricompensa per la sua deferenza. Molte città e fortezze appartenute ai musulmani fin dai tempi di Saladino, compresa

Lattakieh, furono restituite al principato. In cambio fu chiesto a Boemondo di insediare nella sua capitale il patriarca greco Eutimio, in luogo di quello latino. Sebbene re Hethum non fosse ben disposto verso i greci, Hulagu comprendeva quale fosse la loro importanza in Antiochia e può darsi che i suoi amichevoli rapporti con l’imperatore di Nicea contribuissero a spingerlo a quel passo25. Ai latini di Acri la servile obbedienza di Boemondo sembrò disonorevole, soprattutto perché comportava l’umiliazione della Chiesa latina di Antiochia. L’influsso dei veneziani era ancora predominante nel regno e costoro erano di nuovo in buoni rapporti commerciali con l’Egitto. I loro interessi dipendevano dal commercio che proveniva dall’Estremo Oriente per la via meridionale e risaliva il Golfo Persico o il Mar Rosso: osservavano quindi con crescente ansietà le carovaniere mongole che, attraverso l’Asia centrale, giungevano al Mar Nero, dove i genovesi, mediante l’alleanza con i greci, stavano rafforzando le loro posizioni. Il governo di Acri si guardava intorno alla ricerca di un protettore non ecclesiastico. Si sapeva che Carlo d’Angiò, fratello del re di Francia, aveva grandi ambizioni mediterranee e stava già intrigando per ottenere il trono di Sicilia. Nel maggio del 1260 gli fu inviata una lettera, dal tono preoccupato, in cui si descrivevano i pericoli dell’avanzata mongola e gli si chiedeva di intervenire26. Nel momento in cui la lettera fu scritta i mongoli erano ormai padroni di Damasco. Il sultano anNasir Yusuf non fece alcun tentativo per difendere la sua capitale, ma alla notizia della caduta di Aleppo e dell’avvicinarsi dell’esercito mongolo fuggì verso l’Egitto per rifugiarsi presso i mamelucchi, poi cambiò idea e fu catturato dai mongoli mentre stava cavalcando di nuovo verso il nord. Nel febbraio del 1260 Hama inviò una delegazione a Hulagu per offrirgli le chiavi della città. Pochi giorni dopo i notabili di Damasco facevano altrettanto. Il 1° marzo Kitbuqa entrò in Damasco alla testa di un esercito mongolo; erano con lui il re d’Armenia ed il principe d’Antiochia. I cittadini dell’antica capitale del califfato videro per la prima volta in sei secoli tre principi cristiani cavalcare in trionfo per le sue vie. La cittadella resistette per poche settimane agli invasori, ma il 6 aprile fu costretta alla resa. Cadute le tre grandi città di Bagdad, Aleppo e Damasco sembrava giunta la fine dell’Islam in Asia. A Damasco e in tutto il resto dell’Asia occidentale la conquista mongola significò la rinascita dei cristiani indigeni. Kitbuqa, che era cristiano, non faceva mistero delle sue simpatie. Per la prima volta dal secolo vii i musulmani dell’interno della Siria diventarono una minoranza oppressa: ardevano dal desiderio di rivincita27. Durante la primavera del 1260 Kitbuqa inviò distaccamenti ad occupare Nablus e Gaza, ma essi non giunsero mai fino a Gerusalemme. In tal modo i franchi si trovarono completamente circondati dai mongoli le cui autorità non avevano alcuna intenzione di attaccare il loro regno se questo si fosse mostrato sufficientemente sottomesso. I franchi più prudenti erano pronti ad evitare ogni provocazione, ma non potevano controllare le teste calde che vi erano in mezzo a loro. Il più irresponsabile dei baroni era Giuliano, signore di Sidone e di Beaufort, uomo di grande corporatura e di bell’aspetto, ma amante dei piaceri e sciocco, che non aveva ereditato nulla della fine intelligenza di suo nonno Rinaldo. La sua prodigalità lo aveva già costretto a dare Sidone in pegno ai templari, da cui aveva preso a prestito grosse somme, mentre per il suo cattivo carattere si era messo in lite con Filippo di Tiro, suo zio (fratellastro di suo padre). Aveva sposato una delle figlie di re Hethum, ma il suocero non aveva alcuna influenza su di lui. Gli sembrò che le guerre tra i mongoli ed i musulmani gli offrissero una buona occasione per fare una scorreria da Beaufort nella fertile Bekaa. Ma Kitbuqa non intendeva tollerare che l’ordine appena stabilito dai mongoli venisse turbato da predatori ed inviò una piccola compagnia di soldati agli ordini di uno dei suoi nipoti, per punire i

franchi. Giuliano chiamò allora in suo aiuto i propri vicini, che tesero un’imboscata e trucidarono il nipote di Kitbuqa; questi, furibondo, inviò allora un esercito più numeroso che penetrò in Sidone e devastò la città, mentre il Castello del Mare veniva salvato da navi genovesi accorse da Tiro. All’udire queste notizie re Hethum si infuriò e rimproverò i templari che avevano approfittato delle perdite di Giuliano per sequestrare a proprio favore Sidone e Beaufort. Un’incursione condotta poco dopo da Giovanni II di Beirut e dai templari nell’interno della Galilea venne trattata con uguale severità dalle milizie ausiliarie mongole28. Tuttavia, Kitbuqa non era in condizioni di imbarcarsi in imprese di più ampio respiro. L’n agosto 1259 il gran khan Mongka era morto mentre stava conducendo una campagna in Cina con suo fratello Kubilai. I suoi figli erano giovani ed inesperti, perciò l’esercito in Cina faceva pressioni perché Kubilai assumesse la successione. Ma il fratello minore di Mongka, Ariqboga, controllava le terre della famiglia, incluso Karakorum e la tesoreria centrale dell’Impero, e desiderava il trono per sé. Dopo parecchi mesi di manovre per scoprire quali fossero i propri amici, ognuno dei due fratelli, nella primavera del 1260, tenne una kuriltay che lo elesse khan supremo. Ariqboga era sostenuto dalla maggior parte dei suoi imperiali parenti che si trovavano in Mongolia, mentre Kubilai era appoggiato specialmente dai generali. Nessuna delle due assemblee era rigorosamente legale poiché non tutti i rami della famiglia vi erano rappresentati. Nessuna delle due parti, tuttavia, era disposta ad aspettare che Hulagu ed i principi dell’Orda d’Oro o anche quelli della casa di Jagatai fossero informati ed inviassero i loro rappresentanti. Hulagu stesso favoriva Kubilai, sebbene suo figlio Chomughar appartenesse al partito di Ariqboga, mentre Berke, khan dell’Orda d’Oro, nutriva simpatie per quest’ultimo. Kubilai poté schiacciare definitivamente Ariqboga non prima della fine del 1261. Nel frattempo Hulagu rimaneva prudentemente vicino alla propria frontiera orientale, pronto ad accorrere in Mongolia se ciò fosse diventato necessario. Aveva seri motivi d’inquietudine: Ariqboga, infatti, interveniva assolutisticamente negli affari interni del khanato del Turkestan, sostituendo la reggente Orghana con il cugino del marito di lei, Alghu; il successivo voltafaccia di costui ed il suo matrimonio con Orghana contribuirono largamente alla vittoria di Kubilai. Hulagu temeva un intervento analogo nei propri territori. Inoltre i suoi rapporti con i suoi cugini dell’Orda d’Oro stavano peggiorando: mentre infatti la sua corte mostrava forti simpatie per i cristiani, il khan Berke si portava nettamente in campo maomettano e disapprovava la politica antimusulmana di Hulagu. C’erano attriti nella regione del Caucaso dove passava la frontiera tra la zona d’influenza di Berke e quella di Hulagu. Il khan dell’Orda d’Oro ed i suoi generali perseguitavano continuamente le tribù cristiane, ma il tentativo di Hulagu di affermare la propria autorità sul lato settentrionale delle montagne venne frustrato allorché uno dei suoi eserciti fu duramente sconfitto nel 1269 dal pronipote di Berke, Nogai, vicino al fiume Terek29. A causa di queste preoccupazioni Hulagu non appena si fu impadronito di Damasco fu costretto a ritirare molte delle sue truppe dalla Siria. Kitbuqa fu lasciato a governare il paese con un potere molto ridotto. Sfortunatamente per i mongoli la loro avanzata in Palestina costituì una provocazione per l’unica grande potenza musulmana imbattuta, i mamelucchi d’Egitto, che in quel momento si trovavano in condizioni di accettare la sfida. Il primo sultano mamelucco, Aibek, non era stato sicuro della propria posizione. Per rendere legittima la successione, non soltanto aveva sposato Shajar ad-Dur, vedova del sultano precedente, ma aveva designato come co-sultano un principe ayubita bambino. Ma il piccolo al-Ashraf Musa non contava nulla, e si trovò ben presto che costituiva una spesa inutile; nel 1257, poi, Aibek litigò con la sultana. Costei non era disposta a lasciarsi insultare da un uomo di così bassa origine ed il 15 aprile

dispose che fosse assassinato dai suoi eunuchi mentre prendeva il bagno. La sua morte provocò quasi una guerra civile, poiché alcuni mamelucchi invocavano vendetta contro la sultana, altri l’appoggiavano come simbolo della legittimità. Alla fine vinsero i suoi nemici: il 2 maggio 1257 ella fu percossa a morte, mentre il figlio quindicenne di Aibek, Nur ad-Din Ali, era fatto sultano. Ma il giovane non rappresentava una dinastia rispettata, né aveva la personalità di un capo. Nel dicembre del 1259 fu deposto da uno degli ex colleghi di suo padre, Saif ad-Din Qutuz, che divenne sultano in sua vece. Alla sua ascesa al trono tornarono in Egitto diversi mamelucchi, tra cui Baibars, fuggiti a Damasco per antipatia verso Aibek30. Al principio del 1260 Hulagu inviò in Egitto una ambasceria per esigere la sottomissione del sultano. Qutuz mise a morte l’ambasciatore e si preparò ad uno scontro con i mongoli in Siria. In quel preciso momento le notizie della morte di Mongka e della guerra civile in Mongolia costrinsero Hulagu a spostare la maggior parte delle sue truppe verso l’Oriente. L’esercito lasciato a Kitbuqa era assai più piccolo di quello che Qutuz aveva allora raccolto. Oltre agli egiziani stessi c’erano i resti delle forze khwarizmiane e truppe del principe ayubita di Kerak. Il 26 luglio l’esercito egiziano varcò la frontiera marciando su Gaza con Baibars alla testa dell’avanguardia. A Gaza c’era un piccolo distaccamento mongolo agli ordini del generale Baidar, che fece avvertire Kitbuqa dell’invasione, ma prima che potessero giungere aiuti i suoi uomini erano stati sopraffatti dagli egiziani31. Kitbuqa si trovava a Baalbek. Si preparò subito a scendere oltre il Mare di Galilea nella valle del Giordano, ma fu trattenuto da una sollevazione dei musulmani di Damasco. Furono distrutte case e chiese cristiane e fu necessario impiegare truppe mongole per ristabilire l’ordine32. Nel frattempo Qutuz decise di risalire la costa palestinese e di addentrarsi nell’interno più a nord, per minacciare le vie di comunicazione di Kitbuqa, se questi fosse avanzato in Palestina. Perciò un’ambasceria egiziana fu inviata ad Acri per chiedere il permesso di passare attraverso il territorio franco e per ottenere rifornimenti durante la marcia, se non un vero e proprio aiuto militare. I baroni si incontrarono ad Acri per discutere insieme tale richiesta. Essi erano risentiti contro i mongoli a causa del recente saccheggio di Sidone ed erano diffidenti verso questa potenza orientale con la sua lunga lista di massacri in grande scala. La civiltà islamica era loro familiare; e molti di loro preferivano di gran lunga i musulmani ai cristiani indigeni, verso cui i mongoli dimostravano tanto favore. Dapprima erano propensi ad offrire al sultano truppe ausiliarie, ma il gran maestro dell’Ordine teutonico, Anno di Sangerhausen, li avverti che non sarebbe stato saggio fidarsi troppo dei maomettani, specialmente se inorgogliti da una vittoria sui mongoli. L’Ordine teutonico aveva molti possedimenti nel regno armeno ed Anno probabilmente apprezzava la politica di re Hethum. Le sue parole prudenti ebbero un certo effetto: l’alleanza militare non fu accettata, ma si promise al sultano libero passaggio e facilitazioni di rifornimento per il suo esercito33. Durante il mese di agosto il sultano condusse i suoi uomini lungo la strada costiera e per diversi giorni si accampò negli orti intorno ad Acri. Parecchi dei suoi emiri furono invitati a visitare la città come ospiti d’onore e tra questi Baibars, il quale, ritornando al campo, avverti Qutuz che sarebbe stato facile occupare la piazza di sorpresa. Ma il sultano non era disposto a comportarsi così perfidamente, né a correre il rischio di rappresaglie da parte dei cristiani, mentre i mongoli non erano ancora stati sconfitti. I franchi si sentirono un po’ a disagio per il numero dei loro visitatori, ma furono consolati dalla promessa che avrebbero potuto comprare a prezzi ridotti i cavalli che sarebbero stati catturati ai mongoli34.

Mentre si trovava ad Acri, Qutuz apprese che Kitbuqa aveva attraversato il Giordano ed era penetrato nella Galilea orientale. Condusse subito il suo esercito verso sud-est, attraverso Nazaret, ed il 2 settembre raggiunse Ain Jalud, gli Stagni di Golia, dove l’esercito cristiano aveva sfidato Saladino nel 1183. La mattina seguente si avvistò l’esercito mongolo la cui cavalleria era accompagnata da contingenti georgiani ed armeni, ma Kitbuqa mancava di esploratori e la popolazione locale gli era ostile. Egli non sapeva perciò che l’intero esercito mamelucco era molto vicino. Qutuz era ben consapevole della propria superiorità numerica quindi nascose il grosso delle sue forze nelle colline vicine e scoprì soltanto l’avanguardia condotta da Baibars. Kitbuqa cadde nella trappola: caricò alla testa di tutti i suoi uomini contro il nemico che vedeva davanti a sé. Baibars si ritirò precipitosamente nelle colline, inseguito con veemenza, ed all’improvviso l’intero esercito mongolo si trovò circondato. Kitbuqa combatté magnificamente. Gli egiziani cominciarono a vacillare e Qutuz dovette entrare egli stesso nella mischia per raccoglierli di nuovo insieme. Ma dopo poche ore la superiorità numerica dei musulmani fece il suo effetto. Alcuni degli uomini di Kitbuqa poterono aprirsi un varco e fuggire, ma egli non volle sopravvivere alla propria sconfitta. Era rimasto quasi solo quando il suo cavallo fu ucciso ed egli stesso venne fatto prigioniero. La sua cattura pose fine alla battaglia. Fu portato legato davanti al sultano che si beffò della sua caduta; egli rispose in tono di sfida, annunciando una terribile vendetta sui suoi vincitori e vantandosi di essere sempre rimasto fedele al suo padrone, al contrario degli emiri mamelucchi. Essi lo decapitarono35. La battaglia di Ain Jalud fu una delle più decisive della storia. È vero che a causa di avvenimenti successi a quattromila miglia di distanza l’esercito mongolo in Siria era troppo ridotto per essere in condizione di poter intraprendere, senza una singolare buona fortuna, la sottomissione dei mamelucchi ed è anche vero che, se si fosse inviato un esercito più numeroso immediatamente dopo il disastro, si sarebbe potuto riparare alla sconfitta. Ma le contingenze della storia impedirono di rovesciare la situazione creatasi ad Ain Jalud. La vittoria mamelucca salvò l’Islam dalla più pericolosa minaccia che avesse mai dovuto fronteggiare. Se i mongoli fossero penetrati in Egitto non sarebbe più esistito nessun grande Stato musulmano nel mondo a oriente del Marocco. I maomettani in Asia erano troppo numerosi perché fosse mai possibile eliminarli, ma non avrebbero più costituito il gruppo dominante. Se Kitbuqa il cristiano avesse trionfato, le simpatie dei mongoli per i suoi correligionari sarebbero state incoraggiate ed i cristiani asiatici sarebbero giunti al potere per la prima volta dal tempo delle grandi eresie dell’era premusulmana. È vano speculare sulle cose che avrebbero potuto accadere; lo storico può soltanto riferire quello che accadde in realtà. Ain Jalud fece del sultanato mamelucco di Egitto la principale potenza del Vicino Oriente per i due secoli seguenti, fino al sorgere dell’Impero ottomano e completò in pari tempo la rovina dei cristiani indigeni d’Asia. Rafforzato l’elemento musulmano ed indebolito quello cristiano, non ci volle molto perché i mongoli rimasti nell’Asia occidentale abbracciassero l’Islam. Questo affrettò la distruzione degli Stati crociati perché, come aveva previsto il gran maestro dell’Ordine teutonico, i musulmani vittoriosi sarebbero stati desiderosi di farla finita con i nemici della fede. Cinque giorni dopo la vittoria il sultano entrò in Damasco. L’ayubita al-Ashraf, che aveva abbandonato la causa dei mongoli, fu reintegrato a Homs. L’emiro ayubita di Hama, che era fuggito in Egitto, tornò al suo emirato. Aleppo fu riconquistata in meno di un mese. Hulagu, per quanto adiratissimo per la perdita della Siria, non poteva far nulla finché non si fosse ristabilito l’ordine nel cuore dell’Impero mongolo. In dicembre egli inviò le sue truppe per riconquistare Aleppo, ma dopo due settimane queste furono costrette a ritirarsi, dopo aver massacrato un gran numero di musulmani come rappresaglia per la morte di Kitbuqa. Ma Hulagu non poté fare di più per vendicare il suo

fedele amico36. Il sultano Qutuz iniziò il viaggio di ritorno in Egitto coperto di gloria. Ma, sebbene la profezia di vendetta di Kitbuqa non si fosse mai interamente realizzata, il suo offensivo rimprovero alla slealtà dei mamelucchi si dimostrò ben presto giustificato. Qutuz era diventato sempre più diffidente nei riguardi del suo luogotenente più attivo, Baibars; e quando questi chiese di esser fatto governatore di Aleppo, la domanda ebbe un brusco rifiuto. Baibars non attese a lungo per agire. Il 23 ottobre 1260, quando l’esercito vittorioso giungeva ai margini del delta, Qutuz si prese un giorno di vacanza per andare a caccia di lepri. Partì con pochi emiri, fra cui Baibars e alcuni suoi amici. Appena furono abbastanza lontani dal campo uno di loro si avvicinò come per presentare una petizione al sultano e mentre lo teneva saldamente per la mano come se volesse baciarla, Baibars si precipitò da dietro ed affondò la sua spada nella schiena del suo signore. I cospiratori tornarono poi al galoppo nell’accampamento ed annunziarono il delitto. Il capo di stato maggiore del sultano, Aqtai, si trovava nella tenda reale quando essi giunsero e chiese subito chi di loro avesse commesso il crimine. Quando Baibars ammise di essere stato lui, Aqtai lo invitò a sedere sul trono del sultano e fu il primo a rendergli omaggio; tutti i generali dell’esercito seguirono il suo esempio. Baibars tornava al Cairo come sultano37.

Capitolo quarto Il sultano Baibars

Io darò l’Egitto in mano d’un signore duro, e un re crudele signoreggerà su lui. Isaia, XIX, 4

Rukn ad-Din Baibars Bundukdari si avvicinava alla cinquantina: di nascita era un turco kipciak, un uomo enorme di pelle scura, con occhi azzurri ed una voce forte e risonante. Quando giunse in Siria per la prima volta, come giovane schiavo, fu offerto in vendita all’emiro di Hama, che lo esaminò e lo considerò uno zotico troppo grossolano. Ma un emiro mamelucco, Bundukdar, lo notò sul mercato intuendo la sua intelligenza e lo comprò per la guardia mamelucca del sultano. Da allora egli aveva fatto una rapida carriera e dopo la sua vittoria sui franchi nel 1244 veniva considerato come il più abile soldato mamelucco. Mostrò ora di essere uno statista di altissima classe, libero da scrupoli d’onore, di gratitudine o di misericordia1. Dovette in primo luogo dare una solida base alla propria posizione di sultano. In Egitto lo si accettò senza esitazioni, ma a Damasco un altro emiro mamelucco, Sinjar al-Halabi, si era impadronito del potere. Costui era popolare nella città ed il contemporaneo attacco dei mongoli contro Aleppo pose in crisi l’autorità di Baibars in Siria. Ma i principi ayubiti di Homs e di Hama sconfissero i mongoli mentre Baibars marciava su Damasco e il 17 gennaio 1261 sbaragliava le truppe di Sinjar davanti alla città. I cittadini di Damasco continuarono a combattere a favore di Sinjar, ma la loro resistenza venne soffocata. Baibars passò poi a regolare i conti con gli Ayubiti: il principe di Kerak, incoraggiato da allettanti promesse, si affidò al potere del sultano e fu silenziosamente eliminato; ad al-Ashraf di Homs fu concesso di conservare la sua città fino alla propria morte avvenuta nel 1263 ; fu annessa in seguito all’Impero. Soltanto ad Hama un ramo della famiglia poté ancora mantenersi, sotto rigorosa sorveglianza, per altre tre generazioni2. Baibars desiderava pure dare un riconoscimento religioso al proprio governo. Alcuni beduini portarono al Cairo un uomo dalla pelle scura, di nome Ahmed, e dichiararono che era lo zio del defunto califfo. Baibars finse di verificare la sua genealogia e lo salutò come califfo e capo religioso dell’Islam, ma lo privò di ogni potere effettivo. Ahmed, col nuovo nome di al-Hakim, fu inviato ben presto a riconquistare Bagdad occupata dai mongoli. Essendo stato ucciso durante questo tentativo, che Baibars sostenne pochissimo, uno dei suoi figli fu elevato al califfato nominale. Questa fantomatica dinastia di Abassidi putativi fu tenuta in vita al Cairo finché durò il regime dei mamelucchi3. La successiva impresa del sultano fu la punizione dei cristiani che avevano aiutato i mongoli. Egli aveva uno speciale risentimento contro re Hethum di Armenia ed il principe Boemondo di Antiochia. Alla fine dell’autunno del 1261 inviò un esercito ad assumere il controllo di Aleppo, il cui governatore mamelucco si era dimostrato insubordinato, e ad eseguire scorrerie a largo raggio nel territorio antiocheno. Altre incursioni furono compiute nella primavera seguente, compreso il saccheggio del porto di San Simeone. Antiochia stessa fu minacciata, ma Hethum si rivolse per aiuto ad Hulagu e giunse con un distaccamento di mongoli ed armeni in tempo per salvarla4. Il potere

mongolo nella Siria nord-orientale era ancora abbastanza forte per tenere in rispetto il sultano, perciò egli fece ricorso alla diplomazia. Il khan Berke dell’Orda d’Oro si era ormai apertamente dichiarato maomettano ed era pronto ad allearsi con Baibars. Uno dei due sultani selgiuchidi dell’Anatolia, Kaikaus, privato delle sue terre da un’alleanza tra i mongoli, i bizantini ed il proprio fratello Kilij Arslan, era fuggito alla corte di Berke e ne era tornato con aiuti forniti dall’Orda d’Oro e da Baibars, mentre un capo turcomanno di nome Karaman, stabilito in quel momento a sud-est di Konya, poteva essere usato per esercitare una continua pressione sugli armeni5. I franchi di Acri avevano sperato che i loro gesti amichevoli verso i mamelucchi al tempo della campagna di Ain Jalud li avrebbero preservati da ostilità. Ma quando Giovanni di Giaffa e Giovanni di Beirut andarono all’accampamento di Baibars alla fine del 1261 per cercare di trattare la restituzione dei prigionieri franchi presi negli ultimi anni e l’adempimento della promessa del sultano Aibek di restituire Zirin in Galilea o di pagare in cambio un indennizzo, Baibars rifiutò di ascoltarli, sebbene, a quanto pare, avesse simpatia per Giovanni di Giaffa, e mandò invece tutti i prigionieri in campi di lavoro forzato6. Nel febbraio del 1263 Giovanni fece una seconda visita al sultano, che si trovava allora accampato vicino al Monte Tabor, ed ottenne la promessa di una tregua e di uno scambio di prigionieri. Ma in quel momento né il Tempio, né l’Ospedale vollero acconsentire a rinunziare ai musulmani che erano in loro possesso, poiché si trattava di esperti artigiani che davano grandi guadagni agli ordini. Baibars stesso, scandalizzato da una cupidigia così eccessiva, interruppe le trattative ed avanzò in territorio franco. Dopo aver saccheggiato Nazaret ed aver distrutto la chiesa della Vergine, il 4 aprile 1263 lanciò un attacco improvviso su Acri. Ci furono aspri combattimenti fuori delle mura, durante i quali il siniscalco Goffredo di Sargines fu malamente ferito, ma Baibars non era ancora in grado di porre l’assedio alla città e si ritirò dopo averne saccheggiato i sobborghi. Si sospettò che si fosse messo d’accordo con Filippo di Montfort ed i genovesi di Tiro per averne la collaborazione, ma che all’ultimo momento costoro fossero stati trattenuti dalla loro coscienza cristiana7. Incursioni e scorrerie di rappresaglia continuarono lungo la frontiera; le città franche nella pianura vicina al mare erano costantemente minacciate. Già nell’aprile del 1261 Baliano di Ibelin, signore di Arsuf, aveva dato in affitto il suo feudo all’Ospedale perché sapeva di non essere in condizione di provvedere alla difesa. Al principio del 1264 templari ed ospitalieri si accordarono per unire le loro forze ed impadronirsi della piccola fortezza di Lizon, l’antica Meghiddo, e pochi mesi più tardi fecero insieme una scorreria fino ad Ascalona, mentre in autunno le truppe francesi pagate da Luigi IX si spinsero fino ai sobborghi di Beisan ricavandone un ricco bottino. Ma, per rappresaglia, i musulmani devastarono talmente la campagna franca a sud del Carmelo che diventò impossibile vivervi con una certa sicurezza8. Al principio del 1265 Baibars partì dall’Egitto alla testa di un esercito formidabile. Quell’inverno i mongoli avevano mostrato segni di aggressività nella Siria settentrionale e la sua prima intenzione era stata di contrattaccarli. Ma avendo appreso che le sue truppe stanziate nel nord li avevano contenuti, poté impiegare il suo esercito per attaccare i franchi nel sud. Dopo aver finto di svagarsi con una grande spedizione di caccia nelle colline dietro Arsuf, apparve all’improvviso davanti a Cesarea: la città cadde subito, il 27 febbraio, ma la cittadella resistette per una settimana. La guarnigione capitolò il 5 marzo e le fu concesso di andarsene libera, ma sia la città, sia il castello furono rasi al suolo. Pochi giorni dopo le truppe mamelucche apparvero a Haifa; gli abitanti che erano stati avvertiti in tempo, fuggirono ai battelli che si trovavano alla fonda, abbandonando la città e la cittadella, che vennero ambedue distrutte; coloro invece che non erano fuggiti furono massacrati.

Intanto Baibars stesso attaccava la grande fortezza dei templari ad Athlit. Il villaggio fuori delle mura fu incendiato, ma il castello gli resistette con successo. Il 21 marzo egli rinunciò all’assedio e marciò su Arsuf : gli ospitalieri vi avevano raccolto una buona guarnigione ed ampie provviste, nel castello c’erano duecentosettanta cavalieri che combatterono con magnifico coraggio. Ma la città bassa cadde il 26 aprile, dopo che le macchine d’assedio del sultano ne avevano fatto crollare le mura; tre giorni dopo il comandante della cittadella, che aveva perduto un terzo dei suoi cavalieri, capitolò in cambio della promessa di libertà per i superstiti. Baibars violò la parola data e li fece tutti quanti prigionieri. La perdita delle due grandi fortezze atterri i franchi ed ispirò al trovatore templare, Ricaut Bonomel, un amaro poema, in cui si lamentava che Cristo sembrava compiacersi dell’umiliazione dei cristiani9. Ora toccava ad Acri. Ma il reggente Ugo di Antiochia, che si trovava a Cipro, si era già affrettato a compiere la traversata con tutti gli uomini che aveva potuto raccogliere nell’isola. Quando Baibars da Arsuf si spinse di nuovo verso nord scoprì che Ugo era sbarcato ad Acri il 25 aprile. L’esercito egiziano ritornò in patria dopo aver lasciato truppe a controllare i territori da poco conquistati. La linea di frontiera passava ora in vista di Acri stessa 10. Baibars si affrettò a dare la notizia delle sue vittorie a Manfredi, re di Sicilia, con il quale la corte egiziana manteneva i legami d’amicizia stabiliti con suo padre Federico II11. Era stato un anno fortunato per Baibars. L’8 febbraio 1265 Hulagu moriva nell’Azerbaigian. Suo fratello Kubilai gli aveva concesso il titolo di ilkhan ed il governo ereditario dei possessi mongoli nell’Asia sud-occidentale; e., sebbene le sue difficoltà con l’Orda d’Oro e con i mongoli del Turkestan, che si erano pure convertiti all’Islam, gli avessero impedito di riprendere seriamente l’offensiva contro i mamelucchi, tuttavia era ancora abbastanza temibile da indurre costoro a non attaccare i suoi alleati. Nel luglio del 1264 egli tenne la sua ultima kuriltay nel proprio accampamento vicino a Tabriz. Tutti i suoi vassalli erano presenti, anche re Davide di Georgia, re Hethum di Armenia ed il principe Boemondo di Antiochia. Sia Hethum, sia Boemondo erano caduti in disgrazia presso Hulagu, perché l’anno prima avevano rapito e portato in Armenia Eutimio, patriarca ortodosso di Antiochia, per il cui insediamento il capo mongolo aveva insistito nel 1260. Al suo posto era stato introdotto in Antiochia il latino Opizone. L’alleanza con i bizantini era importante per Hulagu come mezzo per mantenere sotto controllo i turchi dell’Anatolia. Egli era in trattative per ottenere che una dama della famiglia imperiale di Costantinopoli si aggiungesse al numero delle sue mogli; quando l’imperatore Michele scelse per questo onore la propria figlia illegittima Maria, ella venne scortata a Tabriz dal patriarca Eutimio, che aveva trovato rifugio a Bisanzio e che senza dubbio tornava in Oriente per esplicito invito di Hulagu. Ma i mongoli conservavano il loro atteggiamento tollerante e non avrebbero mai permesso che dispute di carattere settario tra i cristiani interferissero con la loro politica generale. Boe-mondo, a quanto pare, riuscì a giustificarsi ed Eutimio non fu riammesso ad Antiochia12. La morte di Hulagu inevitabilmente indebolì i mongoli in un momento difficile. L’influenza della sua vedova, Dokuz Khatun, assicurò la successione al suo figlio prediletto Abaga, governatore del Turkestan. Ma questi non fu insediato formalmente come ilkhan fino a giugno, quattro mesi dopo la morte di suo padre; e ci vollero ancora parecchi mesi prima che fosse completata la ridistribuzione dei feudi e dei governatorati. Anche Dokuz Khatun morì durante l’estate, profondamente rimpianta dai cristiani. Nel frattempo Abaga era continuamente minacciato dai suoi cugini dell’Orda d’Oro, che invasero effettivamente il suo territorio nella primavera seguente. Per il governo mongolo era impossibile per il momento intervenire nella Siria occidentale. Baibars, la cui opera diplomatica era la causa principale dei dissapori tra Pilkhan ed i suoi vicini settentrionali, poteva riprendere le sue

campagne contro i cristiani senza timore di interferenze13. Al principio dell’estate del 1266, mentre le truppe di Abaga erano occupate a respingere l’invasione della Persia da parte del khan Berke, due eserciti mamelucchi partirono dall’Egitto. Uno, al comando del sultano stesso, apparve davanti ad Acri il 1° giugno. Ma il reggimento pagato da Luigi IX era stato di recente rinforzato con contingenti giunti dalla Francia. Scoprendo che la città aveva una guarnigione così forte, Baibars deviò per compiere una dimostrazione di forza davanti al castello di Montfort appartenente ai teutonici, poi marciò improvvisamente su Safed, dalla cui immensa fortezza i templari dominavano gli altipiani della Galilea. Le fortificazioni erano state interamente ricostruite circa venticinque anni prima e la guarnigione era numerosa, sebbene vi fossero tra i soldati molti cristiani indigeni o di razza mista. Il primo assalto del sultano, il 7 luglio, venne respinto ed egli non fu più fortunato nei successivi tentativi, il 13 ed il 19 luglio. Fece allora annunziare dagli araldi che offriva un’amnistia completa a tutti i soldati indigeni che gli si fossero arresi. Non si sa se molti di loro si sarebbero fidati della sua parola, ma i cavalieri templari diventarono subito diffidenti; ci furono recriminazioni, i difensori vennero persino alle mani ed i siriani cominciarono a disertare. I templari si accorsero ben presto di non poter difendere il castello, ed alla fine del mese inviarono al campo di Baibars un sergente siriano, che credevano leale, perché offrisse la resa. Costui, di nome Leone, tornò con la promessa che sarebbe stato concesso alla guarnigione di ritirarsi in salvo ad Acri. Ma quando, a queste condizioni, i templari consegnarono la fortezza a Baibars, egli li fece decapitare tutti quanti. Non si sa se Leone sia stato consapevolmente un traditore, ma la sua rapida conversione all’islamismo costituì una prova contro di lui14. La conquista di Safed diede a Baibars il controllo della Galilea. Egli attaccò quindi Toron, che cadde nelle sue mani senza quasi tentare di resistere. Di qui mandò un distaccamento a distruggere il villaggio cristiano di Qara, tra Homs e Damasco, di cui sospettava che avesse rapporti con i franchi: gli abitanti adulti furono massacrati ed i bambini ridotti in schiavitù. Quando i cristiani di Acri gli inviarono una deputazione per chiedere il permesso di seppellire i morti, egli rifiutò bruscamente dicendo che, se desideravano cadaveri di martiri, ne avrebbero trovati a casa propria. Per portare a compimento questa minaccia discese lungo la costa trucidando tutti i cristiani che cadevano nelle sue mani. Ma, ancora una volta, non osò attaccare Acri stessa, dove era appena giunto da Cipro il reggente Ugo. Quando, nell’autunno, i mamelucchi si ritirarono, Ugo riunì i cavalieri degli ordini ed il reggimento francese al comando di Goffredo di Sargines e compì un’incursione di rappresaglia attraverso la Galilea. Ma il 28 ottobre l’avanguardia cadde in un’imboscata tesa dalla guarnigione di Safed, mentre gli arabi indigeni attaccavano l’accampamento franco, e Ugo fu costretto a ritirarsi con gravi perdite15. Mentre Baibars stava conducendo la campagna in Galilea, l’altro esercito mamelucco, agli ordini del più capace dei suoi emiri, Qalawun, si concentrava a Homs. Dopo una fulminea incursione su Tripoli, durante la quale conquistò i porti di Qulaiat e di Halba e la città di Arqa, che dominavano l’accesso a Tripoli dalla Buqaia, Qalawun si diresse in tutta fretta verso il Nord per ricongiungersi con l’esercito di al-Mansur di Hama. Le loro truppe unite marciarono poi su Aleppo e volgendo verso occidente, penetrarono in Cilicia16. Da tempo re Hethum si aspettava un attacco dei mamelucchi. Nel 1263, alla notizia della morte di Hulagu, aveva cercato di venire a patti con Baibars. La marina egiziana dipendeva dal legname proveniente dall’Anatolia meridionale e dal Libano per la costruzione delle sue navi. Hethum e suo genero Boemondo dominavano queste foreste e speravano di poterne approfittare per ottenere condizioni favorevoli. Ma il tentativo di blocco

servi solo a rendere Baibars più deciso alla guerra17. Nella primavera, sapendo che un attacco mamelucco era imminente, Hethum partì per la corte dell’ilkhan, a Tabriz. Mentre vi si trovava, intento ad implorare l’aiuto dei mongoli, la bufera scoppiò sulla Cilicia. L’esercito armeno guidato dai due figli di Hethum, Leone e Thoros, aspettava presso le Porte siriane, mentre i templari di Baghras ne proteggevano i fianchi; ma i mamelucchi si diressero a nord per attraversare le montagne Amano vicino a Sarventikar. Gli armeni accorsero per intercettarli mentre scendevano nella piana di Cilicia ed una battaglia decisiva ebbe luogo il 24 agosto: gli armeni, inferiori di numero, vennero sbaragliati. Dei loro due principi, Thoros fu trucidato e Leone fatto prigioniero. I musulmani vittoriosi si sparsero per tutta la Cilicia. Mentre Qalawun ed i suoi mamelucchi saccheggiavano Lajazzo, Adana e Tarso, al-Mansur conduceva il suo esercito oltre Mamistra nella capitale armena Sis, dove saccheggiò il palazzo, incendiò la cattedrale e trucidò alcune migliaia di abitanti. Alla fine di settembre i vincitori si ritirarono ad Aleppo con quasi quarantamila prigionieri e grandi carovane cariche di bottino. Re Hethum tornò indietro in tutta fretta dalla corte dell’ilkhan, con una piccola compagnia di mongoli, per trovare il suo erede prigioniero, la sua capitale in rovina e tutto il paese devastato. Il regno di Cilicia non si riprese mai da quel disastro e nel quadro della politica asiatica non poté più avere se non una parte da spettatore18. Dopo aver eliminato gli armeni, nell’autunno del 1266 Baibars inviò delle truppe ad attaccare Antiochia, ma i suoi generali erano sazi di bottino e non avevano più voglia di combattere, perciò si lasciarono indurre da donativi di Boemondo e del comune ad abbandonare quel tentativo19. Baibars era furibondo per la debolezza dei suoi luogotenenti. Egli stesso non dava tregua ai franchi: nel maggio del 1267 apparve una volta ancora davanti ad Acri. Sventolando le bandiere che aveva conquistato ai templari ed agli ospitalieri poté avvicinarsi fin sotto le mura prima che l’inganno fosse scoperto. Ma il suo assalto alle fortificazioni venne respinto ed egli si limitò a devastare la campagna. Cadaveri decapitati rimasero sparsi nei giardini intorno ad Acri, finché i cittadini non osarono avventurarsi fuori delle mura per seppellirli. Quando i franchi inviarono ambasciatori per chiedere una tregua, li ricevette a Safed, dove l’intero castello era circondato dai teschi dei prigionieri cristiani assassinati20. La vita ad Acri non era certo facilitata dalla ripresa delle ostilità tra veneziani e genovesi per il dominio del porto. Il 16 agosto 1261 l’ammiraglio genovese Luccheto Grimaldi forzò l’ingresso del porto con ventotto galee, dopo aver conquistato la torre delle Mosche che si erigeva all’estremità del frangiflutti. Ma dodici giorni dopo portò quindici delle sue navi a Tiro per riparazioni. Durante la sua assenza apparve una flotta veneziana di ventisei galee che attaccò le navi genovesi rimaste; cinque di queste andarono perdute nella battaglia, le altre si aprirono la strada per Tiro combattendo21. All’inizio del 1268 Baibars partì di nuovo dall’Egitto. Gli unici possedimenti cristiani a sud di Acri erano il castello templare di Athlit e la città di Giaffa, appartenente al giurista Giovanni di Ibelin. Questi, che era stato sempre trattato con rispetto dai musulmani, moriva nella primavera del 1266, e suo figlio Guido non godeva del suo stesso prestigio; sperava però che il sultano avrebbe osservato la tregua stipulata da suo padre. Di conseguenza, quando il 7 marzo l’esercito egiziano apparve davanti alla città, questa non era in condizione di difendersi e, dopo dodici ore di combattimento, cadde nelle mani del sultano. Molti abitanti vennero trucidati, ma alla guarnigione fu concesso di ritirarsi incolume ad Acri. Il castello fu distrutto ed il suo legname ed i suoi marmi furono inviati al Cairo per la nuova grande moschea che Baibars vi stava costruendo22.

Il successivo obiettivo del sultano fu il castello di Beaufort che i templari avevano di recente preso in consegna da Giuliano di Sidone. Dopo dieci giorni di bombardamento massiccio, il 15 aprile la guarnigione si arrese; le donne ed i bambini furono inviati liberi a Tiro, ma tutti gli uomini vennero ridotti in schiavitù. Il castello stesso fu riparato da Baibars e fornito di una forte guarnigione23. Il 1° maggio l’esercito mamelucco apparve improvvisamente in vicinanza di Tripoli, ma, trovandola ben guarnita, altrettanto improvvisamente si volse verso il nord. I templari di Tortosa e Safita mandarono a chiedere in tutta fretta al sultano di risparmiare il loro territorio24 ed egli rispettò i loro desideri e discese rapidamente la valle dell’Oronte. Il 14 maggio si trovava davanti ad Antiochia dove suddivise le sue truppe in tre parti: un corpo d’esercito andò a conquistare San Simeone, tagliando così ad Antiochia la possibilità di contatto con il mare; il secondo distaccamento sali alle Porte siriane per impedire che qualsiasi aiuto giungesse dalla Cilicia, mentre il grosso dell’esercito, agli ordini dello stesso Baibars, stringeva d’assedio la città. Il principe Boemondo si trovava a Tripoli, ed Antiochia era governata dal suo conestabile, Simone Mansel, la cui moglie era una armena imparentata con la consorte di Boemondo. Le mura della città si trovavano in buono stato di conservazione, ma la guarnigione era a mala pena sufficiente per guarnirle di uomini in tutta la loro estensione. Il conestabile aveva avventatamente effettuato una sortita con un piccolo distaccamento per cercare di ostacolare l’accerchiamento della città ed era stato catturato dai mamelucchi. Questi gli ordinarono di prendere le misure per la capitolazione della guarnigione, ma i suoi luogotenenti che si trovavano all’interno delle mura non vollero dargli retta. Il primo assalto alla città ebbe luogo il giorno seguente; fu respinto e di nuovo si intavolarono trattative, ma senza maggior successo. Il 18 maggio l’esercito mamelucco lanciò un attacco generale contro tutte le sezioni delle mura e, dopo un accanito combattimento, venne aperta una breccia nel punto dove le opere di difesa risalivano le pendici del Monte Silpio, ed i musulmani si riversarono in città. Perfino i cronisti maomettani furono scandalizzati dalla carneficina che ne segui. Per ordine degli emiri del sultano vennero chiuse le porte delle mura di modo che nessuno degli abitanti potesse fuggire. Coloro che furono trovati per le vie vennero trucidati all’istante, gli altri, che si nascondevano nelle case, furono risparmiati ma terminarono i loro giorni in prigionia. Parecchie migliaia di cittadini erano fuggiti con le loro famiglie, per cercare rifugio nell’enorme cittadella situata sulla cima della montagna. Fu loro risparmiata la vita, ma vennero suddivisi come schiavi tra gli emiri. Il 19 maggio il sultano ordinò l’ammasso e la distribuzione del bottino: sebbene da alcuni decenni la prosperità di Antiochia fosse in declino, essa era stata per molto tempo la più ricca delle città franche ed i tesori che aveva accumulato erano meravigliosi. C’erano grandi mucchi di ornamenti d’oro e d’argento e le monete erano così numerose che venivano distribuite a ciotole colme. Il numero dei prigionieri era enorme: non c’era un solo soldato dell’esercito del sultano che non acquistasse uno schiavo e l’eccedenza era tale che il prezzo di un ragazzo cadde a dodici dirhems, quello di una ragazza a soli cinque. Pochi cittadini tra i più ricchi ebbero il permesso di pagare un riscatto, Simone Man-sei fu lasciato libero e si rifugiò in Armenia. Ma molti dei maggiori dignitari del governo e della Chiesa furono uccisi, oppure non si seppe più nulla di loro25. Il principato di Antiochia, il primo degli Stati fondati dai franchi in «Outremer», era durato 171 anni. La sua distruzione fu un colpo terribile per il prestigio cristiano e segnò il rapido declino del cristianesimo nella Siria settentrionale. I franchi erano scomparsi e i cristiani indigeni non stavano molto meglio: era il loro castigo non per l’appoggio dato ai franchi, ma per quello concesso ai più pericolosi nemici dell’Islam, i mongoli. La città stessa non si riprese mai: aveva già perduto la sua

importanza commerciale da quando la frontiera tra l’Impero mongolo e quello mamelucco si era fissata lungo l’Eufrate, perché il commercio proveniente dall’Iraq e dall’Estremo Oriente non passava più per Aleppo, ma si teneva in territorio mongolo e trovava il suo sbocco sul mare a Lajazzo, in Cilicia. I conquistatori musulmani non avevano perciò nessun interesse di ripopolare Antiochia. La sua importanza ora consisteva soltanto nell’essere una fortezza di confine; tra le sue grandi mura molte case non furono neppure ricostruite. I prelati delle chiese locali si trasferirono in centri più attivi, non ci volle molto tempo perché il quartier generale siriano della Chiesa ortodossa, come pure quello della Chiesa giacobita si stabilisse a Damasco26. Indebolita l’Armenia e distrutta Antiochia, anche i templari decisero che era impossibile conservare le fortezze che possedevano nelle montagne Amano. Baghras ed il castello più piccolo di La Roche de Russole vennero perciò abbandonati senza lotta. Tutto ciò che rimaneva del principato era la città di Lattakieh, che era stata restituita a Boemondo dai mongoli e che si trovò ad essere un cuneo isolato, nonché il castello di Qosair il cui signore era diventato amico dei musulmani dei dintorni; gli fu concesso di rimanervi per altri sette anni come vassallo del sultano27. Dopo il suo trionfo su Antiochia, Baibars si riposò per un po’ di tempo. Vari sintomi indicavano che i mongoli erano pronti a riprendere una maggiore attività e circolavano voci secondo cui Luigi IX stava preparando una grande crociata. Quando il reggente Ugo fece chiedere una tregua, il sultano rispose mandando un’ambasceria ad Acri per offrire una temporanea cessazione delle ostilità. Ugo aveva sperato in qualche concessione e tentò di minacciare l’ambasciatore Muhi ad-Din mostrandogli le sue truppe in assetto di guerra, ma questi gli rispose semplicemente che l’intero esercito non era così numeroso come la schiera dei prigionieri cristiani al Cairo. Il principe Boemondo chiese di essere incluso nella tregua. Si sentì offeso per la risposta del sultano che lo chiamava semplicemente conte, in quanto aveva perduto il suo principato, ma accettò volentieri il momento di respiro che gli veniva offerto. Nella primavera del 1269 ci furono piccole incursioni mamelucche in terre cristiane, ma nel complesso la tregua fu osservata per un anno28. Nel frattempo i franchi cercavano di mettere un po’ d’ordine in casa propria. Nel dicembre del 1267 re Ugo II di Cipro moriva all’età di quattordici anni ed il reggente Ugo di Antiochia-Lusignano gli succedeva con il nome di Ugo III. Fu incoronato il giorno di Natale. La sua ascesa al trono gli diede un’autorità più salda sui suoi vassalli, perché non c’era più pericolo che il suo governo terminasse bruscamente al momento in cui il suo pupillo avesse raggiunto l’età legale. Ma non riuscì a privarli del privilegio che consisteva nel non essere obbligati a prestar servizio militare fuori dei confini del regno. Tutte le volte che desiderava portare truppe sul continente poteva quindi fare affidamento solo sugli uomini dei feudi della corona o su volontari. Il 29 ottobre 1268 Corradino di Hohenstaufen veniva decapitato a Napoli per ordine di Carlo d’Angiò, a cui aveva tentato invano di riprendere i propri territori ereditari in Italia. La sua morte significava l’estinzione del ramo principale della casa reale di Gerusalemme, che discendeva dalla regina Maria, detta la Marquise. Subito dopo nella linea di successione veniva la casa di Cipro, discendente dalla sorellastra di Maria, Alice di Champagne. La pretesa di re Ugo III di essere considerato erede era stata tacitamente riconosciuta quando lo si era designato come reggente, scavalcando suo cugino Ugo di Brienne, i cui diritti ereditari erano legalmente maggiori dei suoi propri. Ugo di Brienne era andato a cercare fortuna nel ducato franco di Atene, di cui aveva sposato la erede. Ora egli non presentò le proprie rivendicazioni contro suo cugino, ma prima che re Ugo potesse cingere la sua seconda corona si avanzò un altro pretendente che doveva essere preso in considerazione. L’altra sorellastra della regina Maria, Melisenda di Lusignano, era stata la seconda moglie del principe Boemondo IV di

Antiochia e la loro figlia Maria era ancora in vita. Mentre Ugo poteva sostenere di discendere da un matrimonio della regina Isabella anteriore a quello da cui discendeva Maria, questa era più prossima alla regina Isabella di una generazione. Ella si presentò davanti all’alta corte, sostenendo che la successione doveva essere decisa secondo il grado di parentela con la regina Isabella, antenata comune di Corradino, di Ugo e di lei stessa. Argomentava che una nipote aveva precedenza su un bisnipote. Ugo rispose che sua nonna, la regina Alice, era stata accettata come reggente, perché era l’erede più prossima, e che alla morte di lei ne era stato accettato come reggente il figlio, re Enrico di Cipro, e dopo Enrico la sua vedova e quindi Ugo stesso, come tutori del giovane Ugo II. Egli dunque rappresentava ora la discendenza di Alice. Maria ribatté dicendo che c’era stato un errore: sua madre Melisenda avrebbe dovuto succedere ad Alice come reggente. Dopo alcune discussioni in cui Maria ricevette l’appoggio dei templari, i giuristi di «Outremer» sostennero i diritti di Ugo; se non l’avessero fatto sarebbero stati costretti a confessare di aver commesso in precedenza un errore. L’opinione pubblica era dalla loro parte perché l’energico e giovane re di Cipro era ovviamente un candidato più desiderabile di una zitella di mezza età. Maria non volle accettare il verdetto: pubblicò una protesta formale il giorno dell’incoronazione di Ugo, poi partì in tutta fretta per l’Italia per presentare il proprio caso davanti alla curia papale. Giunse a Roma durante un interregno; ma papa Gregorio X, eletto nel 1271, le dimostrò la sua simpatia e le permise di sollevare la questione al concilio di Lione del 1274. Si presentarono delegati da Acri affermando che soltanto l’alta corte di Gerusalemme aveva giurisdizione sulla successione del regno e la questione fu lasciata cadere. Prima della sua morte, avvenuta nel 1276, Gregorio ottenne che Maria vendesse i propri diritti a Carlo d’Angiò. La trasmissione fu perfezionata nel marzo del 1277: la principessa ricevette mille lire d’oro ed una annualità di quattromila lire tornesi. L’impegno annuale fu confermato da Carlo II di Napoli, ma non è chiaro quanto denaro ricevesse effettivamente Maria che era ancora in vita nel 130729. Ugo fu incoronato il 24 settembre del 1269 dal vescovo di Lydda che rappresentava il patriarca. Il suo primo compito consisteva nel tentare di ridare una certa unità al suo nuovo regno. Già prima della sua incoronazione era riuscito a comporre il vecchio dissidio tra Filippo di Montfort ed il governo di Acri. L’orgoglio di Filippo era stato umiliato dalla perdita di Toron ed egli era meno propenso che in passato a tenersi in disparte. Quando Ugo gli propose che la propria sorella, Margherita di Antiochia-Lusignano, la più bella fra le sue coetanee, sposasse Giovanni, figlio maggiore di Filippo, questi fu felice di accettare l’offerta. Ugo poté così andare a Tiro per essere incoronato in quella cattedrale che, dalla caduta di Gerusalemme, era stato il luogo tradizionale per l’incoronazione dei re. Poco dopo il figlio minore di Filippo, Honfroi sposava Eschiva di Ibelin, la figlia più giovane di Giovanni II di Beirut. Questa riconciliazione tra i Montfort e gli Ibelin fu più facile perché la vecchia generazione degli Ibelin si era ormai estinta: Giovanni di Beirut era morto nel 1264, Giovanni di Giaffa nel 1266 e Giovanni di Arsuf nel 1268. Dopo le recenti campagne di Baibars l’unico feudo rimasto agli Ibelin sul continente e, in realtà, l’unico feudo laico del regno, oltre a Tiro, era Beirut, toccato alla figlia maggiore di Giovanni, Isabella. Ella era stata data in moglie in tenerissima età al re-bambino di Cipro, Ugo II, che morì prima che il matrimonio fosse consumato. Ugo III sperava di servirsi di lei, che era una ereditiera desiderabile, per attirare in Oriente qualche importante cavaliere. A Cipro gli Ibelin erano ancora la famiglia più potente. Poco dopo il re si guadagnò la loro fedeltà sposando un’altra Isabella di Ibelin, figlia del conestabile Guido30. Sebbene riuscisse a mettere pace tra i pochi vassalli laici che gli rimanevano, meno facile gli era

assicurarsi la collaborazione degli ordini militari, del comune di Acri o degli italiani. Venezia e Genova non erano disposte a rinunciare alle loro dispute per ordine di un qualunque monarca. I templari e i cavalieri teutonici si erano risentiti per la riconciliazione di Ugo con Filippo di Montfort. Il comune di Acri era invidioso di ogni segno di favore dimostrato a Tiro e, in egual misura, detestava la fine di quell’assenteismo della monarchia durante il quale il proprio potere era aumentato. E Ugo non poteva fare appello ai suoi vassalli ciprioti per affermare la propria autorità; il suo tentativo di rendere effettivo il suo governo era condannato al fallimento31. Gli affari esteri non erano molto più incoraggianti. L’ombra di Carlo d’Angiò incombeva oscura sul mondo mediterraneo. In Oriente si erano edificate grandi speranze sulla prossima crociata di san Luigi, ma nel 1270 Carlo la fece dirottare per favorire i propri interessi. La morte di Luigi, avvenuta a Tunisi quell’anno, lo liberò dall’influenza altruistica dell’unica persona che egli rispettasse. Era in amichevoli rapporti con il sultano Baibars, ma personalmente ostile a re Ugo contro il quale incoraggiava le pretese di Ugo di Brienne al trono di Cipro e quelle di Maria di Antiochia alla corona di Gerusalemme. In realtà fu una fortuna per «Outremer» che le principali ambizioni di Carlo fossero dirette contro Bisanzio, poiché era chiaro che egli avrebbe trasformato qualsiasi crociata a cui avesse partecipato in un’operazione tendente a favorire i propri fini egoistici32. Tuttavia lo spirito crociato non era del tutto morto in Europa. Il 1° settembre del 1269 re Giacomo I d’Aragona salpò da Barcellona con una potente squadra navale per liberare l’Oriente. Sfortunatamente si imbatté quasi subito in una tempesta che provocò un tale sconquasso da costringere il re e la maggior parte della flotta a tornare in patria. Soltanto una piccola squadra continuò il viaggio, agli ordini dei due bastardi del re, gli infanti Fernando Sanchez e Pedro Fernandez. Giunsero ad Acri alla fine di dicembre, ansiosi di combattere contro gli infedeli. Al principio dello stesso mese Baibars aveva rotto la sua tregua con Ugo ed era apparso nei campi davanti ad Acri con tremila uomini, lasciandone altri nascosti nelle colline. Gli infanti desideravano precipitarsi subito fuori ad attaccare il nemico e fu necessario tutto il tatto dei cavalieri degli ordini militari per trattenerli. Si sospettava un’imboscata; inoltre la consistenza numerica dei cristiani era diminuita perché il reggimento francese, che il siniscalco Goffredo di Sargines aveva comandato fino alla sua morte avvenuta quella stessa primavera, era andato a compiere una scorreria oltre Montfort con il suo nuovo comandante, Oliviero di Termes e con il nuovo siniscalco, Roberto di Cresèques. Questi predatori si accorsero delle forze musulmane mentre stavano tornando; Oliviero di Termes desiderava sgusciare inosservato attraverso i frutteti fino ad Acri, ma il siniscalco Roberto insisteva per attaccare il nemico. I francesi caddero immediatamente nell’imboscata preparata per loro da Baibars e pochissimi trovarono scampo. Quando le truppe all’interno di Acri chiesero con gran clamore di accorrere a liberarli, gli infanti di Aragona, che avevano imparato la lezione, le trattennero. Poco dopo tornarono in patria senza aver concluso nulla33. Sebbene l’aiuto offerto dall’Occidente fosse insufficiente c’era ancora qualche speranza di ottenere soccorsi dall’Oriente. L’ilkhan di Persia, Abaga, al pari di suo padre Hulagu, era uno sciamanna eclettico con forti simpatie per i cristiani. Con la morte della sua matrigna cristiana Dokuz Khatun, i correligionari di lei di qualsiasi setta erano rimasti privi della loro amica più importante, ma essi trovarono una nuova protettrice nella principessa bizantina Maria. Al suo arrivo alla corte dell’ilkhan apprese che Hulagu era morto da poco, ma fu subito data in isposa ad Abaga che ben presto sentì per lei un profondo rispetto; tutti i suoi sudditi, che la conoscevano come Despina Khatun, la veneravano per la sua bontà e per la sua sagacia. Le notizie sulle buone disposizioni dell’ilkhan indussero nel 1267 il re d’Aragona, d’accordo con papa Clemente IV, ad inviare in

missione Giacomo Alarico di Perpignano per annunziargli le prossime crociate degli aragonesi e di re Luigi e per proporgli un’alleanza militare. Ma Abaga, che era completamente impegnato nella sua guerra contro l’Orda d’Oro, fece soltanto vaghe promesse34. La sua impossibilità di fare qualche cosa di più apparve evidente nel fallimento del suo tentativo di liberare Antiochia dai mamelucchi l’anno successivo. Dovette presto affrontare un’altra guerra con i propri cugini della casa di Jagatai, che nel 1270 invasero i suoi possedimenti orientali e furono respinti soltanto dopo una terribile battaglia vicino a Herat. Nei due anni seguenti l’attività principale di Abaga fu volta a ristabilire le comunicazioni con il proprio zio e sovrano, il gran khan Kubilai di Cina35. Ma nel 1270, dopo la sua vittoria a Herat, scrisse a re Luigi impegnandosi a concedergli aiuti militari non appena la crociata fosse giunta in Palestina36. Re Luigi andò invece a Tunisi, dove i mongoli non potevano aiutarlo. L’unica assistenza che l’ilkhan fu in condizione di offrire ai cristiani consisté nel procurare a Hethum di Armenia un importante prigioniero mamelucco, Shams ad-Din Sonqor al-Ashkar, il Falcone Rosso, che i mongoli avevano catturato ad Aleppo. In cambio del suo rilascio Baibars acconsentì a liberare l’erede di Hethum, Leone, ed a stipulare con il re una tregua, a condizione che gli armeni cedessero le fortezze dell’Amano, Darbsaq, Behesni e Raban. Il trattato fu firmato nell’agosto del 1268. Al principio dell’anno successivo Leone, a cui era stato concesso di fare un pellegrinaggio a Gerusalemme, ritornò in Armenia. Suo padre abdicò subito in suo favore e si ritirò in un monastero dove morì l’anno seguente. Leone ebbe il proprio titolo di re confermato da Abaga, dal quale egli si recò di persona a rendere omaggio37. Per tutta l’estate del 1270 Baibars rimase tranquillo, temendo di dover eventualmente difendere l’Egitto contro il re di Francia. Ma, per indebolire i franchi, tramò l’assassinio del più autorevole tra i loro nobili, Filippo di Montfort. Gli assassini di Siria erano grati al sultano che con le sue conquiste li aveva liberati dalla necessità di pagare un tributo agli ospitalieri e si erano vivamente offesi per le relazioni diplomatiche dei franchi con i mongoli, i quali avevano distrutto il loro quartier generale in Persia. A richiesta di Baibars inviarono a Tiro uno dei loro membri più fanatici. Questi, fingendo di essere un convertito al cristianesimo, la domenica 17 agosto 1270 penetrò in una cappella dove Filippo e suo figlio Giovanni stavano pregando e si gettò all’improvviso su di loro. Prima che potessero giungere aiuti, Filippo era ferito a morte: sopravvisse appena il tempo necessario per apprendere che l’assassino era stato catturato e che il suo erede era sano e salvo. La sua morte fu un duro colpo per «Outremer», perché Giovanni, sebbene rimanesse fedele a re Ugo suo cognato, non possedeva l’esperienza ed il prestigio di suo padre38. La morte di re Luigi davanti a Tunisi fu un grande sollievo per il sultano che si era preparato ad accorrere in aiuto dell’emiro tunisino. Sapeva di non aver nulla da temere da Carlo d’Angiò. Nel 1271 avanzò di nuovo nel territorio franco: in febbraio comparve davanti a Safita, il bianco castello dei templari. Dopo una vivace difesa la piccola guarnigione ebbe dal gran maestro il consiglio di arrendersi; ai superstiti fu concesso di ritirarsi a Tortosa. Poi il sultano marciò contro l’enorme fortezza degli ospitalieri, il Krak des Chevaliers, Qalat al-Hosn. Vi giunse il 3 marzo; il giorno seguente si unirono a lui contingenti degli assassini e così pure al-Mansur di Hama ed il suo esercito. Forti piogge gli impedirono per alcuni giorni di far avvicinare le sue macchine da assedio, ma il 15 marzo, dopo un breve pesante bombardamento, i mamelucchi si aprirono un varco nella torre della porta della cinta esterna. Due settimane dopo irruppero nella cinta interna, trucidando i cavalieri che vi incontrarono e facendo prigionieri i soldati indigeni. Molti difensori, asserragliati nella grande torre del lato meridionale della cinta, tennero duro per altri dieci giorni. L’8 aprile capitolarono e

furono inviati a Tripoli con un salvacondotto. La conquista del Krak, che aveva sfidato persino Saladino, permise a Baibars di dominare l’accesso a Tripoli. Sfruttò il successo con la conquista di Akkar, il castello degli ospitalieri a sud della Buqaia, che cadde il 1° maggio, dopo un assedio di quindici giorni39. Il principe Boemondo si trovava a Tripoli. Temendo che la città condividesse la sorte dell’altra sua capitale, Antiochia, inviò ad implorare da Baibars una tregua. Il sultano si fece beffe della sua mancanza di coraggio e gli chiese di pagare tutte le spese della recente campagna mamelucca. Boemondo aveva ancora abbastanza dignità per respingere le insultanti condizioni. Nel frattempo Baibars aveva lanciato senza fortuna un attacco contro il piccolo forte di Maraclea, costruito su uno scoglio a poca distanza dalla costa tra Buluniyas e Tortosa. Il suo signore, Bartolomeo, era andato a cercare aiuti alla corte mongola e Baibars era così furibondo per il suo insuccesso che tentò di convincere gli assassini ad ucciderlo durante il viaggio40. Alla fine di maggio Baibars offrì improvvisamente a Boemondo una tregua di dieci anni alla sola condizione di conservare le sue recenti conquiste. Ottenutane l’accettazione, intraprese il viaggio di ritorno in Egitto fermandosi soltanto per assediare la fortezza teutonica di Montfort, che si arrese il 12 giugno, dopo una settimana di assedio41. Nessun castello rimaneva ai franchi nell’interno del paese. Quasi allo stesso tempo, avendo udito che re Ugo era partito da Cipro per Acri, Baibars inviò una squadra di diciassette navi ad attaccare l’isola. La sua flotta apparve inaspettata davanti a Limassol, ma per un errore di manovra undici navi si incagliarono e gli equipaggi caddero nelle mani dei ciprioti42. La mitezza del sultano verso Boemondo era dovuta all’arrivo di una nuova crociata. Enrico III d’Inghilterra aveva preso la croce molto tempo prima, ma era ormai un uomo vecchio, logorato dalle guerre civili; incoraggiò perciò il principe Edoardo, suo figlio ed erede, a partire per l’Oriente in sua vece. Edoardo, poco più che trentenne, era un uomo capace, energico, dotato di sangue freddo, ed aveva già mostrato le sue doti di statista trattando con i ribelli di suo padre. Decise la sua crociata appena udì della caduta di Antiochia, ma la preparò con cura e con metodo. Sfortunatamente, sebbene molti nobili inglesi avessero acconsentito ad accompagnarlo, uno dopo l’altro essi trovarono qualche scusa e non più di un migliaio di uomini partì finalmente dall’Inghilterra nell’estate del 1270, insieme con il principe e con sua moglie Eleonora di Castiglia. Suo fratello Edmondo di Lancaster, che era stato candidato al trono di Sicilia, lo seguì pochi mesi dopo con rinforzi a cui si aggiungeva pure un piccolo contingente di bretoni agli ordini del loro conte, ed un altro dai Paesi Bassi al comando di Tedaldo Visconti, arcivescovo di Liegi. La prima intenzione di Edoardo era stata di raggiungere re Luigi a Tunisi e di proseguire con lui per la Terra Santa; ma al suo arrivo in Africa trovò che il re era morto e che le truppe francesi stavano per tornare in patria. Trascorse quindi l’inverno in Sicilia con re Carlo, la cui prima moglie era stata sua zia, e salpò la primavera seguente per Cipro e poi per Acri, dove sbarcò il 9 maggio del 1271 e dove fu raggiunto poco dopo da re Ugo e dal principe Boemondo43. Edoardo fu scandalizzato per la situazione interna di «Outremer». Sapeva che il suo proprio esercito era piccolo, ma sperava di unire i cristiani d’Oriente facendone un organismo formidabile, e poi di usare l’aiuto dei mongoli per lanciare un efficace attacco contro Baibars. La sua prima sgradevole sorpresa fu la scoperta che i veneziani mantenevano un fiorente commercio con il sultano, fornendogli tutto il legname da costruzione ed il metallo di cui aveva bisogno per i suoi armamenti, mentre i genovesi stavano facendo del loro meglio per introdursi in questo redditizio affare e

dominavano già il commercio di schiavi dell’Egitto. Ma quando biasimò i mercanti perché in tal modo mettevano in pericolo il futuro dell’Oriente cristiano, essi gli mostrarono le licenze che avevano ricevuto a questo scopo dall’alta corte di Acri. Egli non poté far nulla per impedir loro di continuare44. Sperava inoltre che tutta la cavalleria di Cipro avrebbe seguito il suo re sul continente, ma, sebbene fossero venuti alcuni feudatari, costoro sottolineavano con insistenza che erano volontari; e quando re Ugo chiese loro di rimanere in Siria finché ci rimaneva anche lui, il loro portavoce, cugino di sua moglie, Giacomo di Ibelin, dichiarò fermamente che essi erano obbligati a servire sotto le armi soltanto per la difesa dell’isola. Aggiunse arrogantemente che il re non poteva contare come un precedente il fatto che nobili ciprioti fossero andati in passato a combattere sul continente perché lo avevano fatto più spesso al comando degli Ibelin che al comando di qualunque re. Ma insinuò che se Ugo avesse fatto la sua richiesta con più riguardo, gli si sarebbe potuto concedere quanto domandava. La discussione continuò fino al 1273, quando con un raro spirito di compromesso i ciprioti accettarono di trascorrere quattro mesi sul continente, se il re in persona o il suo erede fossero stati assieme all’esercito. Ma era ormai troppo tardi per gli scopi di Edoardo45. Il principe inglese non ebbe maggior successo con i mongoli. Appena arrivato ad Acri inviò all’ilkhan un’ambasceria composta da tre inglesi: Reginaldo Russel, Goffredo Welles e Giovanni Parker. Abaga, i cui eserciti principali stavano combattendo nel Turkestan, acconsentì a mandare tutto l’aiuto possibile. Nel frattempo Edoardo si accontentò di poche piccole scorrerie appena oltre la frontiera. Verso la metà di ottobre del 1271 Abaga tenne fede alla sua promessa distaccando diecimila cavalleggeri dalle sue guarnigioni in Anatolia. Essi si rovesciarono oltre Aintab sulla Siria, sconfiggendo le truppe turcomanne che proteggevano Aleppo. Le guarnigioni mamelucche della città fuggirono davanti a loro fino a Hama, ed essi continuarono la loro corsa oltre Aleppo fino a Maarat an-Numan e Apamea. Il panico si diffuse tra i musulmani del luogo, ma Baibars, che si trovava a Damasco, non si allarmò oltre misura: aveva un grosso esercito con sé e fece venire rinforzi dall’Egitto. Quando il 12 novembre egli cominciò a spostarsi verso nord, i mongoli si ritirarono: non erano abbastanza forti per affrontare l’intero esercito mamelucco ed i loro vassalli turchi dell’Anatolia erano recalcitranti; si ritirarono quindi al di là dell’Eufrate, carichi di bottino46. Mentre Baibars era distratto dai mongoli, Edoardo condusse i franchi oltre il Monte Carmelo per predare la piana di Sharon, ma le sue truppe erano troppo poche perfino per tentare di attaccare la piccola fortezza mamelucca di Qaqun, che sorvegliava la strada sulle colline: se si voleva riconquistare qualche territorio era necessario un più efficace aiuto mongolo o una crociata più numerosa47. Nella primavera del 1272 il principe Edoardo si rese conto che stava perdendo il suo tempo. Con pochi soldati e pochi alleati non poteva far altro che addivenire ad una tregua che permettesse a «Outremer» di sopravvivere per il momento. Da parte sua Baibars era disposto a concedere la tregua: i patetici resti del regno franco si trovavano alla sua mercè, fintanto che egli non fosse ostacolato da complicazioni internazionali. Il primo compito del suo esercito consisteva nel respingere i mongoli, ai quali inoltre si dovevano creare difficoltà con un’azione diplomatica in Anatolia e nelle steppe. Finché non si sentisse sicuro su quel fronte non valeva la pena di fare lo sforzo necessario per sottomettere le ultime roccaforti franche. Nel frattempo bisognava impedire ogni intervento dall’Occidente, e a questo scopo era necessario mantenere buoni rapporti con Carlo d’Angiò, l’unico sovrano che avrebbe potuto recare ad Acri un aiuto effettivo. Ma la principale ambizione di Carlo era la conquista di Costantinopoli, perciò in quel momento la Siria era per lui di un interesse secondario. Egli aveva già qualche vaga idea di aggiungere «Outremer» al proprio

impero; desiderava quindi che continuasse ad esistere, ma non intendeva far nulla per aumentare il potere di re Ugo che egli sperava di spodestare un giorno. Era però ben disposto a fare da intermediario tra Baibars ed Edoardo. Il 22 maggio 1272 fu firmato a Cesarea un trattato di pace tra il sultano ed il governo di Acri. Si garantivano al regno, per dieci anni e dieci mesi, le terre in suo possesso, costituite quasi soltanto dalla stretta pianura costiera tra Acri e Sidone, nonché il diritto di usare liberamente la strada dei pellegrini per Nazaret. La contea di Tripoli era protetta dalla tregua del 127148. Si sapeva che il principe Edoardo desiderava tornare in Oriente alla testa di una crociata più grande perciò, nonostante la tregua, Baibars decise di eliminarlo. Il 16 giugno 1272 un assassino travestito da cristiano indigeno si introdusse nella camera del principe e lo colpi con un pugnale avvelenato; la ferita non era mortale, ma Edoardo fu gravemente ammalato per alcuni mesi. Il sultano si affrettò a dissociarsi dall’attentato inviando al principe le sue congratulazioni per lo scampato pericolo. Appena si fu rimesso, Edoardo si preparò a ritornare in patria: la maggior parte dei suoi compagni erano già partiti, suo padre stava morendo, la sua propria salute era cattiva e in «Outremer» non poteva fare nient’altro. Si imbarcò ad Acri il 22 settembre 1272 49 e fece ritorno in Inghilterra per scoprire che ne era diventato il re. L’arcivescovo di Liegi, che aveva accompagnato Edoardo in Palestina, era partito nell’inverno precedente, avendo ricevuto l’inattesa notizia di essere stato eletto papa. Assunse il nome di Gregorio X e non perse mai il suo interesse per la Terra Santa; si prefisse anzi come compito principale di cercare i mezzi per far rivivere lo spirito crociato. Gli appelli che egli rivolse ai suoi contemporanei perché prendessero la croce e andassero a combattere in Oriente furono fatti circolare in tutta l’Europa, sino in Finlandia e in Islanda, forse raggiunsero persino la Groenlandia e la costa dell’America del nord50; ma non ottennero nessuna risposta. Nel frattempo egli raccoglieva rapporti che spiegavano l’ostilità dell’opinione pubblica alle crociate. Queste relazioni erano scritte con molto tatto: nessuna di esse menzionava il vero guaio, e cioè il fatto che la crociata stessa era stata degradata. Dal momento in cui si erano promesse ricompense spirituali a coloro che avessero combattuto contro i greci, contro gli albigesi e contro lo Hohenstaufen, la guerra santa era diventata un semplice strumento di politica papale meschina ed aggressiva; e persino fedeli sostenitori del papato non vedevano la necessità di fare un viaggio avventuroso fino in Oriente, quando c’erano tante occasioni per acquistarsi meriti spirituali in campagne meno impegnative. Sebbene i resoconti inviati al pontefice fossero prudenti nelle loro critiche alla politica papale, essi erano abbastanza sinceri nel mettere in evidenza le colpe della Chiesa. Quattro di questi rapporti meritano di essere ricordati: il primo, la Collectio de scandalis Ecclesiae, scritto probabilmente dal francescano Gilberto di Tournay, pur menzionando il danno arrecato alle crociate dalle dispute dei re e dei nobili, ha come temi principali la corruzione del clero e l’abuso delle indulgenze. Mentre i prelati spendevano il loro denaro per magnifici cavalli o per le loro predilette scimmiette, i loro agenti raccoglievano grandi somme, concedendo a masse di gente la remissione del voto di farsi crociati in cambio di un pagamento. Nessun membro del clero voleva contribuire alle tasse imposte per finanziare le crociate, sebbene con loro grande ira san Luigi avesse rifiutato di esonerarli. Intanto la gente comune veniva ripetutamente tassata a favore di crociate che non si realizzavano mai51. La relazione inviata da Bruno, vescovo di Olmötz, svolgeva un’argomentazione diversa. Anche Bruno parlava di scandali nella Chiesa, ma egli era un politico: erano necessarie la pace in Europa ed una riforma generale, affermava; ma quest’impresa poteva essere compiuta soltanto da un imperatore potente. Lasciava intendere che il suo signore, il re Ottocaro di Boemia, era il candidato

adatto per quel compito. Sosteneva che le crociate in Oriente erano ormai senza scopo ed anacronistiche e che dovevano essere dirette invece contro i pagani sulle frontiere orientali dell’Impero. I cavalieri teutonici con la loro cupidigia e brama di potere stavano rovinando quest’opera che, se fosse stata convenientemente diretta da un sovrano idoneo, avrebbe recato vantaggi sia finanziari, sia religiosi52. Guglielmo di Tripoli, un domenicano che viveva ad Acri, presentò un saggio più disinteressato e costruttivo. Egli aveva poche speranze in una guerra santa in Oriente condotta dall’Europa, ma era rimasto colpito dalle profezie di una prossima fine dell’Islam e credeva che proprio i mongoli l’avrebbero distrutto. Era quindi venuto il tempo opportuno per un’attività missionaria e come membro di un ordine di predicatori, aveva fede nell’efficacia dei sermoni ed era convinto che l’Oriente sarebbe stato guadagnato con le missioni e non con la spada. In quest’opinione egli era sostenuto da un pensatore molto più profondo, Ruggero Bacone53. Il rapporto più completo venne da un altro domenicano, l’ex maestro generale dell’ordine, Umberto di Romans. Il suo Opus tripartitum fu scritto in previsione di un concilio generale che avrebbe discusso della crociata, dello scisma greco e della riforma della Chiesa. Egli non credeva nella possibilità di convertire i musulmani, sebbene la conversione degli ebrei fosse stata promessa da Dio e non fosse impossibile quella dei pagani dell’Oriente europeo. Sosteneva che era essenziale un’altra crociata nel Levante; menzionava i vizi che impedivano agli uomini di salpare per l’Oriente, la loro pigrizia, la loro avarizia e la loro viltà. Deplorava l’amore per la terra natia che li tratteneva dal viaggiare e l’influenza delle donne che tentavano di ancorarli alla casa, ma la cosa peggiore era il fatto che pochi credessero ormai ai benefici spirituali promessi al crociato. Questa incredulità, che Umberto menzionava con tristezza, era certamente molto diffusa e costituiva il tema di numerosi poemi popolari; parecchi trovatori dichiaravano francamente che Dio non sapeva più che farsene delle crociate. I suggerimenti di Umberto per combattere questa incredulità e svegliare nuovo entusiasmo non erano di grande valore. Era inutile continuare a sostenere che sconfitte ed umiliazioni erano buone per la salvezza dell’anima, come credeva san Luigi, ed era troppo tardi per cercare di persuadere la gente che la crociata fosse la migliore penitenza per i loro peccati. Di qualche utilità poteva essere la riforma del clero che Umberto sosteneva energicamente; ma come guida pratica per la trasformazione dell’opinione pubblica i consigli che egli dava avevano ben poco valore, e di conseguenza anche le sue raccomandazioni riguardo alla condotta di una crociata erano premature: doveva esserci, secondo lui, tutto un programma di preghiere, digiuni e cerimonie, bisognava studiare la storia, avere un gruppo di consiglieri devoti ed esperti ed un esercito permanente di crociati. Per quel che si riferiva alle finanze, Umberto accennava al fatto che i metodi papali di estorsione non erano popolari; egli credeva che, se la Chiesa avesse venduto una parte del suo enorme tesoro e dei suoi ornamenti superflui, ne avrebbe ricavato un vantaggio sia psicologico, sia materiale. Ma i principi, non meno della Chiesa, dovevano fare la loro parte54. Munito di tutti questi consigli, che non l’avevano certamente rassicurato, Gregorio X convocò un concilio che doveva radunarsi a Lione. Le sedute si iniziarono nel maggio del 1274. Paolo di Segni, vescovo di Tiro, aveva guidato un buon gruppo di delegati dall’Oriente ed era presente anche Guglielmo di Beaujeu, eletto di recente gran maestro del Tempio. Ma gli inviti insistenti rivolti al re della cristianità vennero ignorati. Filippo III di Francia rifiutò di parteciparvi e perfino Edoardo I, sul quale soprattutto Gregorio faceva affidamento, addusse a scusa gli affari che lo trattenevano in patria. Fece la sua apparizione soltanto Giacomo I d’Aragona, un garrulo vecchietto, il cui primo tentativo di condurre una crociata in Oriente non aveva concluso nulla, ma che, con molta boria,

desiderava sinceramente partire per un’altra avventura; ben presto però egli si annoiò alle discussioni e si affrettò a tornare tra le braccia della sua amante, donna Berengaria. I rappresentanti dell’imperatore bizantino Michele promisero la sottomissione della Chiesa di Costantinopoli; Michele infatti era terrorizzato dalle ambizioni di Carlo d’Angiò. Ma era una promessa che non poteva essere mantenuta, poiché i sudditi dell’imperatore non volevano saperne. L’unione delle Chiese, destinata al fallimento, fu l’unico successo del concilio; non si concluse nulla d’importante riguardo alla riforma della Chiesa e mentre tutti erano pronti a parlare della crociata, nessuno si fece avanti per offrire l’aiuto concreto necessario a lanciarla. Tuttavia Gregorio perseverava, tentando di costringere i sovrani d’Europa a mettere in pratica le pie decisioni del concilio. Nel 1275 Filippo III prese la croce. Più tardi, in quello stesso anno, Rodolfo di Asburgo seguì il suo esempio, in cambio della promessa che il papa lo avrebbe incoronato a Roma. Nel frattempo Gregorio cercava di preparare la Terra Santa per l’arrivo della crociata: ordinò che si riparassero le fortezze e che si fornissero più numerosi e migliori mercenari. Sembra che dalla sua esperienza personale in Oriente avesse tratto la convinzione che non si poteva sperare nulla dal governo di re Ugo. Perciò sosteneva le pretese di Maria di Antiochia e la incoraggiò a vendere i propri diritti a Carlo d’Angiò: desiderava infatti che questi prendesse un interesse più attivo agli affari di «Outremer» e ciò non soltanto a vantaggio di quel regno, ma anche per distoglierlo dalle sue ambizioni bizantine55. Ma tutti i progetti di papa Gregorio finirono nel nulla. Quando egli morì il 10 gennaio 1276 nessuna crociata era partita, né si preparava a partire per l’Oriente. Re Ugo di Cipro aveva una visione più realistica delle cose: non si aspettava, né desiderava una crociata, ma voleva soltanto mantenere la tregua con Baibars. Tuttavia anche la tregua fu di poca utilità per migliorare la sua posizione. Nel 1273 egli perse il controllo del suo principale feudo continentale, Beirut. Alla morte di Giovanni II di Beirut questa signoria era passata alla sua figlia maggiore Isabella, moglie del defunto re di Cipro, rimasta vedova, ma vergine, nel 1267. La sua verginità fu di breve durata: la notoria mancanza di castità e, specialmente, la sua relazione con Giuliano di Sidone provocarono una bolla papale che la esortava energicamente a risposarsi. Nel 1272 ella diede se stessa ed il proprio feudo a un inglese, Hamo l’Estrange, ossia il Forestiero, che sembra fosse stato uno dei compagni del principe Edoardo. Egli diffidava di re Ugo e l’anno dopo, sul suo letto di morte, pose sua moglie ed il feudo di lei sotto la protezione di Baibars. Quando Ugo cercò di far venire la vedova a Cipro per risposarla con un candidato di sua scelta, il sultano citò subito il patto che Hamo aveva fatto con lui e pretese il ritorno di Isabella. L’alta corte non diede nessun appoggio al re: egli fu costretto a rimandare la vedova a Beirut dove si insediò una guardia mamelucca per proteggerla56. Soltanto molto tempo dopo la morte di Baibars, Ugo ottenne di nuovo il controllo del feudo. Isabella sposò altri due mariti, ma alla sua morte, avvenuta intorno al 1282, Beirut passò a sua sorella Eschiva, moglie di Honfroi di Montfort, fedele amico del re57. La successiva delusione di Ugo riguardava la contea di Tripoli: Boe-mondo VI, ultimo principe di Antiochia, era morto nel 1275 lasciando un figlio, Boemondo, di circa quattordici anni, ed una figlia minore, Lucia. Re Ugo, essendo il più diretto erede adulto della casa di Antiochia, pretese la reggenza di Tripoli, ma la principessa-madre Sibilla d’Armenia assunse subito la carica, come aveva diritto di fare secondo l’usanza della famiglia. Quando Ugo giunse a Tripoli per sostenere le proprie pretese scoprì che il giovane Boemondo VII era stato inviato alla corte di suo zio, re Leone III d’Armenia, e che la città era amministrata, in nome di Sibilla, da Bartolomeo, vescovo di Tortosa, che sembra appartenesse alla grande famiglia Mansel di Antiochia. Nessuno appoggiò Ugo in

Tripoli, perché Bartolomeo era per il momento molto popolare; era un aspro avversario del vescovo di Tripoli, Paolo di Segni, zio materno di Boemondo VI, e di tutti i romani che egli e Luciana avevano sistemato nella contea. Con l’appoggio della nobiltà locale Sibilla e Bartolomeo misero a morte alcuni romani e ne esiliarono altri, ma sfortunatamente il vescovo Paolo godeva dell’appoggio dei templari, di cui aveva incontrato il maestro al concilio di Lione. Quando Boemondo VII giunse dall’Armenia nel 1277 per assumere il governo dovette fronteggiare l’ostilità implacabile dell’ordine58. Soltanto più a nord, a Lattakieh, il prestigio di Ugo ottenne un successo di limitata importanza. Lattakieh era l’unico residuo del principato di Antiochia e Baibars non la considerava inclusa nei propri trattati con Tripoli o con Acri. I suoi eserciti stavano avvicinandosi alla città, quando gli abitanti rivolsero un appello diretto a re Ugo. Questi poté negoziare una tregua con il sultano, che richiamò le proprie truppe in cambio di un tributo annuo di ventimila dinari e del rilascio di venti prigionieri musulmani59. Non passò molto tempo prima che le difficoltà di Ugo si estendessero alla stessa Acri. Il comune di Acri si era offeso per il governo diretto del re, mentre l’Ordine del Tempio, che aveva avversato la sua riconciliazione con i Montfort e si era opposto alla sua ascesa al trono, gli divenne sempre più ostile. L’Ospedale, sul cui favore avrebbe potuto contare, era diminuito d’importanza dopo la perdita del suo quartier generale di Krak; l’unico grande castello che gli rimaneva era Marqab, sull’alta collina che sorveglia Buluniyas. Già nel 1268 il gran maestro, Ugo di Revel, scriveva che in quel momento l’ordine poteva mantenere in «Outremer» soltanto trecento cavalieri, invece dei diecimila di un tempo. Ma il Tempio possedeva ancora il suo quartier generale a Tortosa, come pure Sidone e l’enorme castello di Athlit, mentre i suoi rapporti bancari con tutto il mondo levantino ne aumentavano la forza. Tommaso Berard, che fu gran maestro dal 1256 al 1273, in gioventù era stato fedele ai reggenti ciprioti e, sebbene avesse cominciato a detestare Ugo, non gli si oppose mai apertamente. Ma il suo successore, Guglielmo di Beaujeu era d’una tempra diversa: imparentato con la casa reale di Francia, era orgoglioso, ambizioso ed energico. Al momento della sua elezione si trovava nelle Puglie, sul territorio di suo cugino Carlo d’Angiò. Giunse in Oriente due anni dopo, deciso a favorire i progetti di Carlo e fu perciò, fin dal principio, avverso a re Ugo. Nell’ottobre del 1276 l’Ordine del Tempio acquistò dal suo padrone, Tommaso di Saint-Bertin, un villaggio chiamato La Fauconnerie, poche miglia a sud di Acri, e deliberatamente omise di ottenere il consenso del re alla transazione. Le proteste di Ugo vennero ignorate. Esasperato contro gli ordini, il comune e le colonie commerciali, egli decise di abbandonare il regno ingrato. Improvvisamente raccolse i suoi averi e si ritirò a Tiro con l’intenzione di salpare da lì per Cipro. Lasciò Acri senza designare un bali. I templari ed i veneziani, che erano loro stretti alleati, ne furono molto soddisfatti, ma il patriarca Tommaso di Lentino, gli ospitalieri e i cavalieri teutonici, come pure il comune ed i genovesi ne furono scandalizzati ed inviarono delegati a Tiro per pregarlo di designare almeno un rappresentante. Dapprima il re era troppo adirato per ascoltarli, ma alla fine, probabilmente per la mediazione di Giovanni di Montfort, nominò come bali Baliano di Ibelin, figlio di Giovanni di Arsuf, e designò i giudici per le corti del regno. Immediatamente dopo si imbarcò per Cipro, di notte, senza congedarsi da nessuno. Dall’isola scrisse al papa per giustificare il proprio operato60. Baliano aveva un compito difficile: c’erano risse per le vie di Acri tra i mercanti musulmani di Betlemme, protetti dai templari, ed i mercanti nestoriani di Mosul, i cui protettori erano gli ospitalieri; scoppiarono di nuovo improvvisamente ostilità fra i veneziani e i genovesi. Soltanto con

l’aiuto del patriarca e degli ospitalieri fu possibile conservare una qualche forma di governo61. Nel 1277 Maria di Antiochia condusse a termine la vendita dei propri diritti a Carlo d’Angiò. Questi assunse immediatamente il titolo di re di Gerusalemme e spedì ad Acri Ruggero di San Severino, conte di Marsico, con una forza armata perché vi si insediasse come suo bali. Grazie all’aiuto del Tempio e dei veneziani, Ruggero poté sbarcare nella città ed esibì credenziali firmate da Carlo, da Maria e da papa Giovanni XXI. Baliano di Ibelin era profondamente imbarazzato: non aveva istruzioni da parte di re Ugo e sapeva che i templari ed i veneziani erano pronti a prendere le armi in favore di Ruggero, mentre né il patriarca né l’Ospedale volevano promettere di intervenire. Per evitare spargimento di sangue, egli consegnò la cittadella agli angioini; Ruggero vi innalzò il vessillo di Carlo e lo proclamò re di Gerusalemme e di Sicilia, poi ordinò ai baroni del regno di venire a rendergli omaggio nella sua qualità di bali del re. I baroni esitarono, non tanto per amore di Ugo, quanto perché non volevano ammettere che il trono poteva essere trasmesso senza una decisione dell’alta corte. Per conservare una certa legalità inviarono delegati a Cipro per chiedere a Ugo di essere sciolti dal loro giuramento di fedeltà a lui. Ugo rifiutò di dare una risposta. Infine Ruggero, che si sentiva saldamente in sella, minacciò di confiscare le proprietà di chiunque non gli rendesse omaggio, ma concesse tempo sufficiente per un altro appello a Ugo. Esso fu ugualmente inutile, cosicché i baroni fecero atto di sottomissione a Ruggero. Poco dopo, Boemondo VII lo riconobbe come legittimo bali. Egli designò come suoi principali ufficiali parecchi francesi della corte di Carlo: Oddone Poilechien diventò siniscalco, Riccardo di Neublans conestabile e Giacomo Vidal maresciallo62. Questi provvedimenti erano molto graditi a Baibars. Poteva essere sicuro che i rappresentanti di Carlo non avrebbero provocato una nuova crociata, né complottato con i mongoli. Per questo senso di sicurezza era disposto a concedere a «Outremer» ancora alcuni - pochi - anni di esistenza; nel frattempo poteva prendere l’offensiva contro l’ilkhan. Abaga era conscio del pericolo e desiderava concordare un’alleanza con l’Occidente. Nel 1273 inviò ad Acri una lettera indirizzata a Edoardo d’Inghilterra per chiedergli quando avrebbe avuto luogo la sua prossima crociata. Fu portata in Europa da un domenicano, Davide, cappellano del patriarca Tommaso di Lentino. Edoardo inviò una cordiale risposta, spiacente del fatto che un’altra spedizione in Oriente non fosse ancora stata decisa né da lui, né dal papa. Altri inviati mongoli apparvero l’anno dopo al concilio di Lione e due di loro furono battezzati cattolicamente dal cardinale di Ostia, il futuro Innocenzo V. Le risposte che ricevettero dal papa e dalla curia furono nuovamente amichevoli, ma vaghe. L’ilkhan fece un nuovo tentativo nell’autunno del 1276: due georgiani, i fratelli Giovanni e Giacomo Vaseli sbarcarono in Italia per far visita al papa, con ordine di proseguire alla volta delle corti di Francia e d’Inghilterra. Erano latori di una lettera personale di Abaga ad Edoardo I, in cui egli si scusava perché nel 1271 il suo aiuto non era stato più efficace. Tutta questa attività diplomatica non produsse alcun risultato. Re Edoardo sperava sinceramente di partecipare a un’altra crociata, ma né lui né Filippo III di Francia erano ancora pronti a farla; la curia papale si trovava sotto la sinistra influenza di Carlo d’Angiò, il quale detestava i mongoli quali amici dei suoi nemici bizantini e genovesi, e la cui politica era tutta basata su un’intesa con Baibars. I papi speravano ottimisticamente di accogliere i mongoli nell’ovile della Chiesa, ma non volevano rendersi conto che la promessa di ricompense in cielo non era abbastanza allettante per l’ilkhan. Persino le insistenze di Leone III d’Armenia, che era allo stesso tempo fedele vassallo dell’ilkhan e si trovava in comunione con Roma, non poterono ottenere alcun aiuto pratico dal papato63. Baibars poté così portare innanzi i suoi progetti senza la minaccia di un intervento occidentale.

Nella primavera del 1275 condusse di persona una scorreria nella Cilicia, durante la quale saccheggiò le città della pianura, ma non gli riuscì di penetrare a Sis. Due anni dopo decise di invadere l’Anatolia. Il sultano selgiuchida era in quel momento un bambino, Kaikhosrau III. Il suo ministro, Suleiman il Pervana, ossia guardasigilli, era l’uomo più potente del paese, ma non era affatto in condizione di controllare gli emirati locali che stavano sorgendo e di cui il più importante era quello karamaniano. L’ilkhan manteneva un indefinito protettorato sul sultanato, rafforzato dalla presenza di una considerevole guarnigione mongola. Il 18 aprile 1277 questa guarnigione fu sbaragliata ad Albistan dai mamelucchi; cinque giorni dopo Baibars entrò in Cesarea-Mazacha. Il ministro del sultano, Solimano, e l’emiro karamaniano si affrettarono entrambi a congratularsi con il vincitore, ma Abaga si sentì provocato e condusse egli stesso a marce forzate un esercito mongolo in Anatolia. Baibars non aspettò il suo arrivo, ma si ritirò in Siria e Abaga riacquistò rapidamente il controllo sul sultanato selgiuchida. Solimano il traditore fu catturato e giustiziato e, secondo alcune dicerie, la sua carne fu servita in stufato al successivo banchetto dell’ilkhan64. Baibars non sopravvisse a lungo alla sua avventura anatolica. Si raccontarono parecchie versioni della sua morte: secondo alcuni cronisti egli morì in conseguenza di ferite ricevute in quella campagna; secondo altri bevve troppo kumiz, il latte di giumenta fermentato, prediletto dai turchi e dai mongoli. Ma prevalse la voce secondo cui egli avrebbe preparato del kumiz avvelenato per il principe ayubita di Kerak, al-Qahir, figlio di an-Nasir Dawud, che si trovava nel suo esercito e lo aveva offeso; e poi per negligenza bevesse dalla stessa tazza, prima che fosse stata lavata. Mori il 1° luglio 127765. La sua morte tolse di mezzo il più grande nemico che la cristianità avesse avuto dal tempo di Saladino. Quando Baibars era diventato sultano i territori franchi si estendevano lungo la costa da Gaza alla Cilicia, con grandi fortezze all’interno del paese che ne proteggevano il confine orientale. Durante un regno di diciassette anni egli aveva ridotto i franchi a poche città lungo la costa, Acri, Tiro, Sidone, Tripoli, Jebail e Tortosa, con l’isolata cittadina di Lattakieh ed i castelli di Athlit e Marqab. Non visse abbastanza per vedere la loro eliminazione completa, ma la rese inevitabile. Personalmente aveva poche delle qualità per cui Saladino si era guadagnato il rispetto persino dei suoi avversari: era crudele, sleale e traditore, rozzo di modi e grossolano nel parlare. I suoi sudditi non poterono amarlo, ma lo ammirarono giustamente, perché era un valoroso soldato, un astuto uomo politico e un saggio amministratore, rapido e riservato nelle sue decisioni, perspicace nei suoi scopi. Nonostante le sue umili origini, fu un protettore delle arti ed un attivo costruttore, che fece molto per abbellire le sue città e per ricostruire le sue fortezze. Come uomo era malvagio, ma come sovrano fu tra i più grandi del suo tempo.

Parte quarta La fine di «Outremer»

Capitolo primo Il commercio di «Outremer»

... Per l’abbondanza del tuo commercio, tutto in te s’è riempito di violenza. Ezechiele, XXVIII, 16

Durante tutta la storia di «Outremer» l’esito della lotta tra la cristianità e l’Islam fu spesso condizionato ed alterato da problemi economici. Le colonie franche si trovavano in una zona che l’opinione comune riteneva ricca e che senza dubbio dominava alcune delle più grandi vie di traffico commerciale del mondo. Le ambizioni finanziarie e commerciali dei coloni e dei loro alleati erano talvolta in contrasto con il loro sentimento religioso, e in alcune occasioni i loro bisogni umani fondamentali esigevano un atteggiamento amichevole verso i loro vicini musulmani. Non c’era nessun movente di carattere commerciale dietro il lancio della prima crociata. Le città marinare italiane, i cui mercanti erano i più abili affaristi di quel tempo, furono dapprima allarmate per un movimento che avrebbe potuto mandare in rovina i buoni rapporti commerciali da loro stabiliti con i musulmani del Levante. Gli italiani offrirono il loro aiuto soltanto quando la crociata ebbe ottenuto successo e dopo la fondazione degli stabilimenti franchi di Siria, poiché allora si resero conto che potevano usare le nuove colonie a proprio vantaggio. L’impulso economico che aveva spinto i crociati era piuttosto la fame di terre, diffusa tra la piccola nobiltà di Francia e dei Paesi Bassi, ed il desiderio dei contadini di quelle contrade di abbandonare le loro povere case e le inondazioni e carestie degli anni più recenti, emigrando verso terre di leggendaria ricchezza. Per molta di quella gente semplice la distinzione tra questo mondo e quello futuro era vaga: confondevano la Gerusalemme terrena con quella celeste e si aspettavano di trovare una città pavimentata d’oro, in cui scorressero il latte ed il miele. Le loro speranze furono deluse, ma il disinganno si fece strada lentamente. La civiltà urbana dell’Oriente ed il suo più alto livello di vita offrivano un’apparenza di ricchezza, che i pellegrini tornati in patria decantavano ai loro amici; ma col passar del tempo tali narrazioni divennero meno elogiative. Dopo la seconda crociata non vi fu più nessun movimento di massa tra i contadini dell’Occidente alla ricerca di una nuova patria in Terra Santa. Molti nobiluomini avventurosi continuarono ad andare in Oriente in cerca di fortuna, ma una delle difficoltà che ostacolarono l’organizzazione delle ultime crociate fu appunto la mancanza di attrattive economiche1. In realtà le province franche di «Outremer» non erano ricche per natura. C’erano regioni fertili, come ad esempio le pianure di Esdraelon, di Sharon e di Gerico, la stretta fascia costiera tra le montagne del Libano ed il mare, la valle della Buqaia e la piana di Antiochia. Ma la Palestina, in paragone con la campagna d’Oltregiordano, lo Hauran e la Bekaa, era sterile e improduttiva. L’importanza dell’Oltregiordano per i franchi era data tanto dalla sua produzione di grano, quanto dal fatto che dominava la via tra Damasco e l’Egitto2. Senza l’aiuto dell’Oltregiordano non era sempre facile per il regno di Gerusalemme trovare il cibo necessario per il proprio sostentamento. In caso di cattivo raccolto bisognava importare il grano dalla Siria musulmana3. Durante gli ultimi decenni di

esistenza di «Outremer», quando i franchi furono ridotti alle città della fascia costiera, il grano dovette sempre essere importato. Altri generi alimentari vi si trovavano in quantità sufficiente. Le colline nutrivano gran numero di pecore, capre e maiali; c’erano frutteti ed orti intorno a tutte le città ed abbondanza di oliveti. Infatti non è improbabile che si esportassero in Occidente piccole quantità d’olio d’oliva, mentre qualche volta sulla tavola dei ricchi italiani comparivano frutti rari provenienti dalla Palestina, come ad esempio limoni dolci o melograni4. Tuttavia «Outremer» era in grado di esportare pochi prodotti in quantità sufficiente da riuscire a incrementare le entrate del paese. Il più importante di questi era lo zucchero. Quando i crociati giunsero in Siria scoprirono che la canna da zucchero era coltivata in molte zone costiere e nella valle del Giordano. Essi ne continuarono la coltivazione ed appresero dagli indigeni il procedimento di estrazione dello zucchero dalla canna. C’era una grande fabbrica di zucchero ad Acri ed altre fabbriche nella maggioranza delle città costiere. Il principale centro di questa industria era Tiro. Quasi tutto lo zucchero consumato in Europa durante i secoli XII e XIII proveniva da «Outremer»5. Il secondo posto nelle esportazioni era tenuto dai tessuti di vario genere. Il baco da seta era stato allevato nei dintorni di Beirut e di Tripoli sin dalla fine del secolo vi, mentre il lino cresceva nelle pianure della Palestina. Stoffe di seta erano vendute per l’esportazione: lo sciamito era fabbricato ad Acri, Beirut e Lattakieh; e Tiro era famosa per il tessuto conosciuto come zendado o zendale. La tela di Nablus aveva fama internazionale, la tintura di porpora di Tiro era ancora di moda per gli abiti. Ma gli italiani potevano comprare seta e tele anche sui mercati di Siria e d’Egitto, dove la scelta era più abbondante e i prezzi spesso più bassi6. Lo stesso succedeva con il vetro. In diverse città, specialmente a Tiro e ad Antiochia, gli ebrei producevano vetro per esportazione, ma dovevano competere con la concorrenza dell’Egitto. Probabilmente le concerie provvedevano soltanto alle necessità locali, invece si esportavano occasionalmente stoviglie di terracotta7. Sul mercato egiziano si poteva sempre collocare del legname. Fin dai tempi più antichi la flotta egiziana era stata costruita con alberi d’alto fusto provenienti dalle foreste del Libano e dalle colline a sud di Antiochia, e gli egiziani avevano anche bisogno di grandi quantità di travi per i loro edifici. Le guerre tra l’Egitto e gli Stati crociati non interruppero mai a lungo questo commercio8. C’erano miniere di ferro nelle vicinanze di Beirut, ma la loro produzione era probabilmente insufficiente per l’esportazione9. Venivano esportate diverse erbe e spezie, fra cui la più importante era il balsamo. Poiché in Europa lo si adoperava specialmente per funzioni religiose, quello proveniente dalla Terra Santa era particolarmente ricercato; nel secolo XII veniva coltivato in grandi quantità nei dintorni di Gerusalemme. Ma la coltivazione non era facile poiché richiedeva una costosa irrigazione. Dopo la riconquista musulmana alla fine del secolo la sua produzione declinò e fu rapidamente abbandonata10. Entrate molto maggiori ottenevano le autorità di «Outremer» dalle merci in transito. Nell’Europa medievale c’era una crescente domanda di prodotti orientali: spezie, materie coloranti, legni odorosi, seta e porcellane, come pure di merci provenienti dai paesi musulmani situati appena oltre le frontiere di «Outremer». Ma questo commercio dipendeva inevitabilmente dalla situazione politica dell’Asia. Quando le crociate ebbero inizio la maggior parte del commercio proveniente dall’Estremo Oriente seguiva la via marittima attraverso l’Oceano Indiano risalendo poi il Mar Rosso fino all’Egitto, attiratovi dalla ricchezza delle città egiziane e dalle condizioni di sicurezza offerte dal governo fatimita, che l’avevano distolto dall’itinerario più antico attraverso il Golfo

Persico e Bagdad. I porti siriani servivano soltanto per l’esportazione di mercanzie di meno lontana provenienza, come l’indaco dell’Iraq oppure oggetti di metallo damasceni, e di quelle merci che giungevano dall’Arabia meridionale trasportate dalle carovane piuttosto che per mare. Le piccole guerre locali che seguirono le invasioni turche alla fine del secolo XI non incoraggiarono né il commercio, né l’industria del retroterra siriano. Soltanto quando Nur ed-Din e, dopo di lui, Saladino ebbero unificato la Siria musulmana e l’Egitto in uno Stato ben ordinato, rinacque in Siria la prosperità. Si ebbe un aumento della produzione locale e le merci provenienti dall’Iraq e dalla Persia potevano giungere senza rischi ad Aleppo o a Homs o a Damasco e poi al mare. I porti usati dai mercanti di Aleppo erano San Simeone, che essi raggiungevano passando per Antiochia, e Lattakieh; Tortosa e Tripoli servivano come porti di Homs, ed Acri di Damasco11. Sebbene gli italiani avessero collaborato con i crociati alla conquista di ognuno di questi porti, il loro principale interesse commerciale rimaneva l’Egitto. I documenti pubblicati riguardanti il commercio di Venezia nel secolo XII menzionano molto più spesso Alessandria che Acri, specialmente dopo che i veneziani furono cacciati da Costantinopoli. I registri del genovese Scriba, un giurista di attività internazionale, che vanno dall’anno 1156 al 1164 mostrano che il numero dei suoi clienti aventi interessi ad Alessandria era quasi doppio di quelli con interessi nell’Oriente franco. È pure degno di nota il fatto che durante la prima metà del secolo XII la maggior parte dei viaggiatori diretti dall’Europa alla Palestina viaggiassero prima su navi veneziane o genovesi fino a Costantinopoli e poi per via di terra o su battelli di cabotaggio greci fino in Siria, oppure partivano direttamente dall’Italia meridionale su navi appartenenti al regno di Sicilia. Sembra, perciò, che non molte navi facessero viaggi regolari tra i porti delle città marinare italiane e la Siria, fino agli ultimi anni del secolo12. Non può essere stata molto grande, fino a quel momento, la quantità di mercanzie che passava per i porti siriani e poiché il dazio doganale su queste merci in transito era soltanto del dieci per cento circa del loro valore, è facile capire perché il tesoro di «Outremer» fosse raramente ben fornito e perché i re fossero così spesso tentati di intraprendere scorrerie in tempi in cui sarebbe stato più dignitoso e più diplomatico mantenere la pace13. È anche facile capire perché le città marinare italiane fossero timorose di aiutare troppo avventatamente la crociata. Era senza dubbio loro dovere di cristiani aiutare i franchi contro i musulmani, ma tutta la loro prosperità dipendeva dalla conservazione di buoni rapporti con i maomettani. Tutte le volte che prestavano aiuto a un’impresa cristiana correvano il rischio di perdere i loro diritti commerciali ad Alessandria. Eppure senza la loro collaborazione i crociati non avrebbero mai potuto conquistare le città costiere; ed il fatto che tale collaborazione sia stata effettiva dimostra che, dopo tutto, il loro problema non era così semplice. I genovesi inviarono aiuti quando la prima crociata si trovava ancora ad Antiochia. Una squadra navale pisana partì prima che giungesse in Occidente la notizia della conquista di Gerusalemme, e la freddezza mostrata più tardi verso il regno di Gerusalemme era dovuta piuttosto alla disputa di Baldovino I con Daimberto, il loro ex arcivescovo, che a qualunque calcolo commerciale. Perfino i veneziani, che avevano più stretti rapporti con l’Egitto, avevano offerto aiuto a Goffredo di Lorena poco prima della sua morte. Questa politica non era affatto così arrischiata come sembrava a prima vista: il commercio non può esistere se non è vantaggioso per le due parti. Le autorità musulmane dell’Egitto non desideravano una lunga interruzione dei rapporti commerciali più di quanto lo desiderassero gli italiani. Sebbene potessero in un accesso d’ira chiudere Alessandria alle navi cristiane, tuttavia anch’essi risentivano di un’interruzione degli affari, e perciò le loro rappresaglie non venivano mai effettuate con eccessivo rigore. Inoltre gli italiani trovavano molti vantaggi nell’ assicurarsi una parte dei porti

appena conquistati. Nelle città musulmane, e perfino in Costantinopoli, non potevano mai sentirsi del tutto sicuri: una rivolta popolare poteva distruggere i loro stabilimenti, oppure i capricci di autorità straniere potevano ostacolare i loro affari. Benché il reale volume degli scambi commerciali che si potevano effettuare attraverso i porti cristiani di Siria fosse minore di quello che passava per Costantinopoli o per Alessandria, essi potevano contare su un giro di affari ininterrotto. Le loro uniche difficoltà traevano origine dalla rivalità dei loro compatrioti italiani, non dall’ostilità delle autorità locali. Si poteva ricavare inoltre dai porti franchi un altro vantaggio di crescente importanza. Per gli italiani la difficoltà principale consisteva nel trovare in Europa merci la cui vendita servisse a pagare i prodotti orientali che essi desideravano comperare. Fino al principio del secolo x la principale esportazione veneziana consisteva in schiavi provenienti dall’Europa centrale, ma la conversione degli slavi e degli ungheresi aveva posto fine a questo traffico. Nella seconda metà del secolo XIII i genovesi ridiedero vita alla tratta, trasportando dai porti del Mar Nero schiavi turchi e tartari per venderli in Egitto ai mamelucchi; ma nel periodo intermedio erano pochi gli schiavi disponibili. Le uniche importanti esportazioni dall’Occidente erano legname e metallo, ma poiché questi materiali erano adoperati specialmente per gli armamenti, le autorità ecclesiastiche condannavano naturalmente la vendita di queste merci ai musulmani. Però gli italiani si resero conto poco per volta che il movimento crociato e l’esistenza di «Outremer» attiravano in Oriente gran numero di soldati, di diplomatici e, soprattutto, di pellegrini. Se essi li trasportavano, le somme che quelli pagavano come prezzo del viaggio e per le loro spese a bordo fornivano agli armatori denaro contante, che poteva essere speso nei porti siriani per l’acquisto di merci importate da paesi situati ancor più ad oriente. Infine, per quanto i mercanti italiani fossero privi di sentimentalismi, non ignoravano del tutto gli scrupoli religiosi. Molti commercianti, anche di Genova o di Venezia, preferivano fare affari in un porto cristiano piuttosto che in uno musulmano; interveniva inoltre la considerazione pratica che il commercio con gli infedeli era fortemente disapprovato dalla Chiesa, la quale in Italia era politicamente molto potente. La sua ostilità poteva causare seri fastidi14. Il commercio fiori in «Outremer» nel decennio che precedette la conquista di Gerusalemme da parte di Saladino e durante i primi decenni del secolo XIII. Il mondo musulmano era unito e prospero e gli italiani avevano scoperto i vantaggi del commercio che passava per i porti cristiani. Nel frattempo i coloni franchi avevano appreso a stringere amicizia con i loro vicini infedeli. Il pellegrino musulmano, Ibn Giubair, che nel 1184 viaggiò con una carovana di commercianti maomettani da Damasco ad Acri, lascia intendere chiaramente che queste carovane erano frequenti. Egli rimase impressionato dalla semplicità della procedura per l’esazione delle tasse doganali15. Acri era il più attivo porto della costa: era il porto naturale di Damasco e perciò era usato non soltanto per i prodotti delle fabbriche damascene e della ricca zona rurale dello Hauran, ma serviva anche ai mercanti provenienti dallo Yemen che risalivano la via dei pellegrini lungo la costa dell’Arabia. Possedeva anche l’unico scalo sicuro di tutta la Palestina. I viaggiatori che andavano in Terra Santa preferivano sbarcare lì, piuttosto che nella rada aperta di Giaffa, dove erano successe tante disgrazie prima che Acri fosse conquistata dai crociati. L’unico svantaggio di Acri consisteva nel fatto che il porto interno era troppo piccolo per accogliere i maggiori vascelli del tempo, i quali dovevano rimanere fuori del molo trovandosi così esposti al vento di sud-ovest, oppure dovevano risalire la costa fino al porto più grande e sicuro di Tiro 16. Nella Siria settentrionale il porto migliore, sicuro con qualsiasi tempo, era Lattakieh, sebbene San Simeone, alla foce del fiume Oronte, fosse più conveniente per Antiochia e per Aleppo e fosse usato per le imbarcazioni minori17. Le Assise di Gerusalemme menzionano un certo numero di merci orientali che transitavano

attraverso le dogane di «Outremer». Oltre alla seta e ad altri tessuti, c’erano diverse spezie come il cinnamomo, il cardamone, i chiodi di garofano, il macis, il muschio, la galanza e la noce moscata, e inoltre indaco, robbia, aloe ed avorio18.1 franchi stessi avevano pochissima parte in questo traffico: le merci venivano portate alla costa da mercanti dell’interno, musulmani o cristiani indigeni e, nella Siria settentrionale, anche da greci e da armeni di Antiochia. I mercanti forestieri erano trattati con cortesia. Ai musulmani era concesso di compiere i loro atti di culto nelle città cristiane; infatti in Acri stessa la grande moschea, che era stata trasformata in chiesa, aveva una parte riservata ai riti maomettani. C’erano caravanserragli dove essi potevano alloggiare e non poche famiglie cristiane accettavano inquilini musulmani. I mercanti italiani comperavano direttamente dagli importatori maomettani. Sembra che, oltre agli italiani, venissero per mare ad Acri un certo numero di musulmani, specialmente magrebini dell’Africa nordoccidentale, per comprare merci provenienti dall’interno, viaggiando eventualmente essi stessi fino a Damasco o a qualche altra città musulmana dell’entroterra19. L’espansione dell’Impero mongolo nel secolo XIII modificò le principali vie commerciali provenienti dall’Estremo Oriente. Dopo avere conquistato l’interno dell’Asia, i mongoli incoraggiarono i mercanti a seguire la via terrestre dalla Cina, attraverso il Turkestan, e di qui a nord del Caspio, fino ai porti della costa settentrionale del Mar Nero, come Caffa, ovvero a sud del Caspio, attraverso l’Iran, fino a Trebisonda, sulla costa meridionale dello stesso mare, oppure fino a Lajazzo, nel regno cilicio d’Armenia. L’ordine perfetto mantenuto dai mongoli rendeva preferibile questa via al pericoloso viaggio marittimo sull’Oceano Indiano20. Nel secolo XII le giunche cinesi avevano veleggiato di frequente a occidente di Ceylon fino ai porti d’Arabia. Ora valeva di rado la pena, per loro, di spingersi oltre la costa orientale dell’India21. La conquista dell’Iraq da parte dei mongoli fece sì che una parte del commercio indiano giungesse in Occidente per mare risalendo il Golfo Persico, di dove alcuni mercanti proseguivano attraverso Damasco ed Aleppo verso i porti franchi, mentre la maggioranza preferiva rimanere in territorio mongolo e poi scendere verso il Mediterraneo a Lajazzo; tuttavia la maggior parte dei prodotti indiani venivano trasportati per terra attraverso l’Afganistan e la Persia22. L’Egitto era ancora un ricco mercato per le merci orientali, ma non si trovava più sulla via di transito più conveniente tra l’Estremo Oriente e l’Europa23. Nel frattempo, sia Venezia, sia Genova continuavano ad aumentare il volume dei loro commerci, mentre Pisa restava indietro; e la loro reciproca rivalità diventò intensa. Lo spostamento delle vie commerciali ne accrebbe la concorrenza. Dapprima Venezia controllava il Mar Nero a causa del proprio dominio sull’Impero latino di Costantinopoli, perciò non fu contrariata dall’ascesa della potenza mongola. Ma quando i bizantini riconquistarono la loro capitale nel 1261, con l’aiuto attivo dei genovesi, costoro si trovarono in condizione di escludere i veneziani dal Mar Nero, di monopolizzare il commercio dell’Asia centrale e, come redditizia impresa collaterale, anche il traffico degli schiavi tra le steppe russe e l’Egitto. Poiché il governo mamelucco faceva affidamento su un costante rifornimento di schiavi provenienti dalle tribù di kipciak e da quelle turche limitrofe, era impossibile per i veneziani escludere i genovesi da Alessandria. Benché il re d’Armenia avesse concesso ai veneziani di partecipare al commercio mongolo che giungeva a Lajazzo, era essenziale per Venezia tentare di cacciare i genovesi dai porti franchi. Per quel che riguarda Acri ebbe successo; infatti Tiro, dove dovettero ritirarsi i genovesi, era in una posizione meno vantaggiosa. In odio a Genova, Venezia adottò un atteggiamento politico di opposizione ai mongoli, dal cui Impero la città rivale traeva così grossi guadagni. Di conseguenza i veneziani fecero uso della loro influenza ad

Acri per indurre il governo a sostenere i mamelucchi contro i mongoli24. Lo sviluppo di Lajazzo come principale sbocco mediterraneo del commercio mongolo fece diminuire ovviamente l’importanza dei porti franchi. Ma sotto i mongoli l’incremento generale del commercio asiatico fu tale che una parte seguì sempre le vie più antiche. Nella seconda metà del secolo XIII i mercanti di Mosul andavano regolarmente ad Acri. Le guerre tra i mamelucchi e i mongoli non disturbarono eccessivamente il passaggio delle carovane dirette in Palestina dall’Iraq e dall’Iran. Fino ai suoi ultimi anni Acri, come capitale cristiana, rigurgitava di attività commerciale mentre più a nord Lattakieh controllava tanta parte del commercio proveniente da Aleppo che i mercanti di questa città rivolsero una speciale richiesta al sultano mamelucco affinché conquistasse il porto per evitare che un luogo così importante rimanesse nelle mani degli infedeli25. Nondimeno, tutto questo fiorente commercio era di scarso vantaggio per i franchi stessi; anzi, trasformando i porti di mare in campi di battaglia tra le colonie italiane rivali era causa di reale debolezza politica; ma anche se gli italiani rimanevano in pace non era molto il denaro che i governi di «Outremer» ne ricavavano. Al re spettava ufficialmente il dieci per cento circa dei diritti doganali, ma in realtà egli aveva venduto enormi quote di questa percentuale ai suoi vassalli, alla Chiesa o agli ordini militari e quindi non gli rimaneva molto per sé. I principi di Antiochia e i conti di Tripoli erano in condizioni leggermente migliori, perché avevano creato un minor numero di feudi economici. Ma «Outremer» non era una regione dove si potessero creare grandi fortune. C’erano alcuni signori abbastanza ricchi da poter vivere nel fasto, come gli Ibelin di Beirut, che possedevano le miniere di ferro del luogo, o i Montfort di Tiro con le loro fabbriche di zucchero. Agli occhi inesperti dei viaggiatori occidentali i cittadini di «Outremer» sembravano fantasticamente ricchi, ma era solo apparenza: le città erano più pulite e meglio costruite, i loro abitanti potevano comprare vestiti di seta ed adoperare profumi e spezie che in Europa occidentale soltanto i più ricchi potevano permettersi, ma si trattava di prodotti locali e perciò relativamente a buon mercato26. Possediamo scarsissime informazioni sulla classe borghese di «Outremer». Sembra che non abbia preso parte agli scambi internazionali e che si sia limitata al commercio al minuto ed alla fabbricazione di prodotti per il consumo locale. Aveva però un certo potere politico: il comune di Acri, formato dalla borghesia franca, era un elemento importante nello Stato. Ma pare che si tenesse a distanza dalle comunità indigene, persino dagli ortodossi, che erano trattati come un’entità diversa27. Ad Antiochia, dove il comune aveva un’importanza anche maggiore, la borghesia franca e quella greca collaboravano assieme: i matrimoni tra membri delle due comunità erano probabilmente molto più frequenti ed i franchi non furono mai così numerosi come ad Acri, né come a Tripoli, dove sembra si seguisse piuttosto l’esempio della capitale28. Le classi lavoratrici erano composte principalmente di indigeni o di sangue-misti e c’erano normalmente notevoli quantità di schiavi (musulmani catturati in guerra) per lavorare nelle miniere o alla costruzione di edifici pubblici o nelle tenute del re e dei nobili29. Il governo era sempre a corto di denaro. Anche in tempo di pace il paese doveva essere pronto ad uno scoppio improvviso di ostilità, che di solito portavano come conseguenza la devastazione di estese zone della campagna. Le entrate provenienti da tributi o da imposte erano insufficienti e non si sarebbe potuto far fronte ad un inatteso stato d’emergenza, come la cattura del re o di interi reparti dell’esercito, senza un aiuto proveniente dall’esterno. Per fortuna l’aiuto dall’estero giungeva spesso: oltre al denaro ottenuto stoltamente con le razzie condotte in territorio musulmano, c’era un continuo afflusso di doni dall’Europa. La Palestina era la Terra Santa e generalmente crociati e coloni erano

considerati soldati di Cristo. I pellegrini al loro arrivo pagavano una tassa; essi recavano con sé denaro da spendere o da dare in elemosina, ma, oltre a ciò, molti santuari ed abbazie ricevevano in dono terre in Occidente, le cui rendite venivano loro inviate. Gli ordini militari traevano la maggior parte delle loro entrate dalle proprietà donate loro nei paesi occidentali, a tal punto che, persino dopo la perdita di tutti i loro possessi siriani, essi erano ancora enormemente ricchi. Privati cittadini di «Outremer», dal re al più umile colono, ricevevano occasionalmente doni da parenti o sostenitori occidentali. Questi sussidi aiutavano in larga misura ad equilibrare le finanze di «Outremer»; e così i lussi che i visitatori provenienti dall’Occidente ammiravano nelle città siriane erano pagati in parte dai loro compatrioti nei paesi europei30. Un’altra fonte di potere economico, i cui effetti sono più difficili da valutare, era l’uso di battere moneta. Quando ebbero inizio le crociate, nell’Europa occidentale non circolavano monete d’oro, eccettuata la Sicilia e la Spagna musulmana: l’argento era il metallo più prezioso usato dalla zecca. A quel tempo neppure gli Stati maomettani di Siria emettevano monete d’oro, sebbene i califfi rivali di Bagdad e del Cairo ne conservassero entrambi la consuetudine. Tuttavia, non appena gli Stati crociati si furono organizzati, il re di Gerusalemme, il principe di Antiochia e il conte di Tripoli cominciarono a coniare dinari d’oro, che furono conosciuti con il nome di bisanti del saracenato, ed erano un’imitazione dei dinari dei Fatimiti, ma contenevano soltanto due terzi circa del peso d’oro di quelli. Queste monete, specialmente quelle del regno di Gerusalemme che erano conosciute dai musulmani come souri, i dinari di Tiro, circolarono ben presto largamente in tutto il Vicino Oriente. È difficile capire donde i franchi ricavassero l’oro: saccheggi e riscatti potevano produrne soltanto una quantità limitata ed in modo irregolare. A quel tempo la maggior parte dell’oro proveniva dal Sudan e può darsi che piccole quantità di metallo fossero introdotte nei porti franchi dai mercanti magrebini che venivano a commerciarvi. Ma l’apparizione delle monete d’oro si spiega soltanto supponendo che vi sia stato un vasto movimento aureo dai paesi musulmani verso quelli cristiani. I coloni europei devono aver comprato l’oro dai musulmani, senza dubbio ad un prezzo molto alto, in cambio dell’argento, molto abbondante in Europa; e le emissioni di monete d’oro di bassa lega devono aver favorito tutto questo movimento. Grandi quantità d’oro devono aver proseguito verso Occidente, poiché è degno di nota il fatto che durante il secolo XIII cominciarono ad apparire nell’Europa occidentale monete d’oro di ottima lega31. Il diritto di battere monete d’oro rimase saldamente nelle mani dei regnanti di «Outremer»: né le colonie italiane, né gli ordini militari ebbero il permesso di infrangere questo monopolio. I principali feudatari potevano coniare soltanto monete di bronzo per le necessità locali32. Gli ordini militari avevano un’altra fonte di ricchezza proveniente dalle loro attività bancarie; con i loro vasti possedimenti sparsi in tutta la cristianità, si trovavano in una posizione molto favorevole per finanziare le spedizioni crociate. La partecipazione francese alla seconda crociata fu resa possibile soltanto dall’aiuto dei templari che pagarono in Oriente somme enormi a Luigi VII e ne furono rimborsati in Francia. A partire dalla fine del secolo XII i templari presero l’abitudine di prestare denaro ad interesse: il tasso era molto alto, ma, sebbene in campo politico non si potesse far molto affidamento su di loro, sul piano finanziario godevano di un credito così elevato, che persino i musulmani avevano fiducia in loro e facevano uso dei loro servizi. Gli ospitalieri e i cavalieri teutonici conducevano operazioni simili, ma su scala minore. I governi di «Outremer» non ricavavano direttamente nessun guadagno da queste attività che aumentavano la potenza e l’insubordinazione degli ordini, ma che avvantaggiavano finanziariamente il paese nel suo insieme33. La storia economica delle crociate è ancora molto oscura: le informazioni sono insufficienti e

molti particolari oggi non si possono spiegare. Ma è impossibile capire la storia politica del movimento crociato senza tenere presentì i bisogni commerciali e finanziari dei coloni e dei mercanti italiani. Di solito queste necessità spingevano in direzione opposta a quella dell’impulso religioso che aveva dato inizio e continuava a tenere in vita il movimento. «Outremer» si trovava in permanenza in bilico tra i corni di un dilemma: doveva la propria origine ad una combinazione di fervore religioso e di avventurosa fame di terre, tuttavia per durare nel tempo in condizioni soddisfacenti non poteva rimanere dipendente da un costante afflusso di uomini e di denaro dall’Occidente, ma doveva giustificare economicamente la propria esistenza; e ciò poteva avvenire soltanto stabilendo rapporti con i propri vicini. Se questi erano animati da intenzioni amichevoli ed erano ricchi, anche «Outremer» avrebbe prosperato. Ma ricercare l’amicizia dei musulmani sembrava un completo tradimento degli ideali crociati, e i maomettani, per parte loro, non potevano veramente accettare la presenza di uno Stato straniero e intruso in terre che avevano sempre considerato loro proprie. Il loro dilemma era meno acuto, perché la presenza di coloni cristiani non era indispensabile per il loro commercio con l’Europa, per quanto possa essere stato conveniente di tanto in tanto. I buoni rapporti erano perciò sempre precari. Il secondo grande problema che «Outremer» doveva affrontare erano le sue relazioni con le città marinare italiane. Esse erano un elemento indispensabile alla sua esistenza: senza di loro sarebbe stato quasi impossibile mantenere le comunicazioni con l’Occidente e sarebbe stato del tutto impossibile esportare i prodotti del paese o approfittare in qualche misura del commercio in transito proveniente dall’Estremo Oriente. Ma gli italiani, con la loro arroganza, le loro rivalità ed il cinismo della loro politica, provocarono danni irrimediabili. Essi si tenevano in disparte da campagne importantissime, ostentavano apertamente la disunione della cristianità, rifornivano i musulmani di materiali strategici indispensabili, provocavano tumulti e combattevano gli uni contro gli altri per le vie delle città. I sovrani di «Outremer» dovevano spesso rammaricarsi per il ricco commercio che conduceva alle loro rive alleati così pericolosi e turbolenti; e tuttavia, senza questo commercio, la storia degli Stati franchi sarebbe stata ancora più breve e più triste. Non è mai facile scegliere tra le esigenze contrastanti della prosperità materiale e dell’ideologia in cui si crede: nessun governo può sperare di soddisfare completamente l’una e l’altra esigenza. L’uomo non può vivere soltanto di ideali, d’altra parte la prosperità dipende da un complesso di elementi che trascende largamente i confini di una stretta striscia di territorio. I crociati commisero molti errori, la loro politica era spesso esitante e mutevole, ma non si può far ricadere interamente su di loro la colpa di non essere riusciti a risolvere un problema che era, in realtà, insolubile.

Capitolo secondo L’architettura e le arti in «Outremer»

Su via, adornati di maestà, di grandezza, rivestiti di splendore, di magnificenza! Giobbe, XL, IO

I franchi di «Outremer» si lasciarono sfuggire di mano il commercio che avrebbe dato solidità al loro Stato, ma nelle arti conservarono almeno in parte il controllo della produzione. Le loro realizzazioni in questo campo furono notevoli, tenendo conto che i coloni non erano numerosi e che soltanto pochi di loro potevano essere artisti. Essi, inoltre, si erano stabiliti in un paese la cui tradizione artistica era molto più antica della loro e nel quale non potevano trovare i materiali a cui erano abituati. Tuttavia cominciarono a sviluppare uno stile che rispondeva in modo soddisfacente alle loro necessità. La maggior parte delle loro opere d’arte di piccole dimensioni è andata distrutta. L’agitata storia della Siria e della Palestina non ha permesso che si conservassero oggetti fragili e delicati. L’architettura fu più durevole, sebbene anche qui, come nella maggior parte dei paesi che ebbero una civiltà medievale, sia rimasto ben poco ad eccezione di monumenti militari ed ecclesiastici, e perfino in questi la forma originale è stata alterata da modifiche e dall’opera rovinosa del tempo. Ad eccezione dei santuari più venerati della cristianità, che i musulmani non toccarono, perché troppo pieni di scrupoli, ma che i cristiani ripararono in seguito, le chiese che ancora esistono si sono conservate perché furono trasformate in moschee; le altre sono cadute in rovina. I castelli e le fortificazioni dei franchi furono così gravemente danneggiati nel corso delle guerre, che i conquistatori musulmani, volendo riadoperarli, furono costretti a ricostruirne buona parte, specialmente per quel che riguarda le mura esterne e le porte. Infine la natura, in un paese così soggetto ai terremoti, contribuì a distruggere quelle opere che l’uomo aveva lasciato in abbandono. Persino là dove gli archeologi moderni hanno usato tutta la loro scienza nel lavoro di restauro, come per esempio a Krak des Chevaliers, non è sempre possibile distinguere nettamente quello che è crociato e quello che è mamelucco. I primi edifici che i crociati si videro obbligati a costruire furono opere di difesa; chiese e palazzi dovettero aspettare finché il paese fosse saldamente in mano ai conquistatori. Era necessario riparare le mura delle città e costruire castelli per proteggere le frontiere e per essere adoperati come ben difesi centri amministrativi dei distretti agricoli. Le fortificazioni delle città principali richiedevano soltanto di essere rabberciate qua e là, salvo nei pochi casi in cui i crociati erano riusciti a penetrare solo aprendo brecce nelle mura. Ad Antiochia il grande sistema difensivo costruito dai bizantini verso la fine del secolo x aveva subito pochissimi danni: i principi latini non ebbero bisogno di ampliarlo. Altrettanto modesto fu il lavoro di riparazione richiesto dalle mura di Gerusalemme costruite dai Fatimiti, sebbene pare che i crociati apportassero quasi subito dei cambiamenti e dei miglioramenti alla torre di Davide. Ma essi cominciarono ben presto ad erigere castelli nelle città dove le fortificazioni erano già sufficienti. Questi furono tutti costruiti alla periferia e potevano essere difesi indipendentemente dalla città: i loro signori desideravano non

soltanto di poter continuare a resistere nel caso che l’abitato cadesse nelle mani del nemico, ma anche di trovarsi in condizioni di imporre rispetto alla popolazione se si fosse dimostrata insubordinata. Il primo castello di cui si può stabilire con certezza la data di costruzione è quello del conte Raimondo sul Monte Pellegrino, eretto nel 1104 per servire da quartier generale mentre assediava Tripoli. Si trovava allora fuori della città, sebbene più tardi la Tripoli musulmana sia stata costruita ai suoi piedi. Ma dell’opera originale di Raimondo rimane oggi poco più che il muro occidentale. I castelli dei principi di Galilea a Tiberiade ed a Toron devono essere stati costruiti circa nella stessa epoca. Ma per la costruzione di castelli il primo periodo importante cominciò nella seconda decade del secolo XII, sotto Baldovino II e continuò sotto Folco, allorché vennero costruite splendide fortezze, come Kerak di Moab, Beaufort e, più a nord, Sahyun, nonché i forti minori della Giudea, come Blanchegarde ed Ibelin1. I crociati trovarono l’architettura militare molto più sviluppata in Oriente che in Occidente, dove cominciava appena allora a fare la sua comparsa il castello in pietra. I romani avevano studiato la difesa militare come una scienza; i bizantini, costretti dalle infinite invasioni straniere che dovevano fronteggiare, l’avevano sviluppata adattandola ai propri bisogni, e gli arabi avevano imparato da loro. Ma i problemi dei bizantini non erano gli stessi dei crociati: i primi presupponevano di avere sempre soldati a disposizione e potevano permettersi di mantenere grosse guarnigioni. Essi si preoccuparono enormemente di difendere bene le loro città. Le mura di Costantinopoli, mille anni dopo la loro costruzione, erano ancora in condizione di sfidare gli allora modernissimi cannoni ottomani, e le mura di Antiochia riempirono di ammirazione i crociati. Ma il castello bizantino era poco più che un accampamento fortificato; era previsto per lottare con un nemico i cui armamenti erano meno efficienti di quelli bizantini; gli arabi infatti, che erano i loro rivali più pericolosi, erano meno progrediti nel campo delle macchine da assedio. Non era necessario che le mura del castello fossero solide, poiché un sistema di fortificazioni esterne, di cui la parte principale era costituita da almeno un fossato di considerevole larghezza, impediva al nemico di portare molto vicino ad esse i propri arieti o le scale a ramponi. Le torri erano costruite ad intervalli regolari lungo le mura, con un leggero saliente, non tanto per difendere le mura stesse quanto per offrire agli arcieri e ai lanciatori di pece della guarnigione la possibilità di un tiro a più lunga gittata entro le linee nemiche. Il torrione al centro del recinto non era destinato all’estrema difesa, ma piuttosto come magazzino per gli armamenti e le provviste. Eccetto rari casi sulla frontiera armena, dove vivevano feudatari quasi indipendenti, il castello bizantino non era previsto come residenza: il comandante era un soldato di carriera che lasciava a casa moglie e figli. Infine, sebbene si approfittasse dei vantaggi offerti dalle difese naturali, l’inaccessibilità del luogo non era una considerazione di primaria importanza: il castello infatti era usato principalmente come caserma ed era scomodo costringere i soldati a salire e a scendere faticosamente una montagna ogni volta che si muovevano2. Gli arabi avevano la tendenza ad imitare i modelli bizantini, sebbene fossero meno interessati ai problemi della difesa, perché i loro eserciti erano essenzialmente mobili ed aggressivi3. I crociati studiarono l’architettura militare che ebbero occasione di vedere durante il loro viaggio verso Oriente e ne trassero molti insegnamenti, ma i loro bisogni fondamentali erano diversi. Sempre a corto di uomini, essi non potevano mantenere grosse guarnigioni, perciò i loro castelli dovevano essere molto più solidi e più facili da difendere ed il luogo doveva essere scelto per le sue qualità propizie alla difesa. Ogni pendio ed ogni collinetta doveva essere sfruttato al massimo e, poiché raramente ci si poteva privare di esploratori che recassero messaggi, ogni piazzaforte doveva essere in condizione di ricevere e fare segnali a quella vicina. Le mura dovevano essere molto più spesse e più alte per resistere ad un attacco diretto poiché la difesa di fortificazioni esterne richiedeva troppi

uomini. Allo stesso tempo il castello doveva servire come residenza per il signore e come sede per la sua amministrazione. I franchi avevano recato con sé i loro sistemi feudali e governavano un popolo straniero. Il castello era la sede del governo locale; la sua superficie doveva essere abbastanza grande da offrire rifugio anche a greggi e mandrie durante le frequenti scorrerie nemiche. In realtà il castello ebbe per i franchi un’importanza molto maggiore di quella avuta per i bizantini o per gli arabi4. In Occidente il castello non era ancora molto più che un solido torrione quadrato, di un tipo perfezionato dai normanni, ma non era adatto alle necessità di «Outremer», ed i crociati furono costretti a diventare pionieri in questo campo. Presero molte idee dai bizantini: da essi impararono l’uso dei caditoi e l’utilità di collocare torri lungo il muro tra due baluardi, benché vi apportassero ben presto un miglioramento, quando si accorsero che la torre rotonda offriva un campo di tiro più ampio delle torri rettangolari preferite dai bizantini. I loro castelli più piccoli, edificati al principio del secolo XII, come Belvoir, seguivano il consueto modello bizantino, con un muro esterno più o meno rettangolare, lungo il quale erano distribuite varie torri, racchiudente uno spazio centrale, in cui si elevava il torrione. Ma la sede era scelta in modo da evitare complicate fortificazioni esterne e l’intera costruzione era molto più solida. Spesso le nuove fortificazioni incorporavano opere precedenti: a Sahyun gli ampi fossati bizantini furono completati con uno stretto canale profondo novanta piedi, tagliato nella dura roccia5.1 franchi aggiunsero pure la saracinesca, che non era stata adoperata in Oriente dal tempo dei romani, e l’entrata curva, che gli arabi cominciavano a preferire, ma che i bizantini adoperavano di rado, probabilmente perché era malagevole per i pesanti macchinari che essi custodivano nelle fortezze6. Naturalmente i castelli più grandi erano più complicati. Una fortezza come Kerak, per esempio, doveva fornire alloggio non soltanto al signore ed alla sua famiglia, ma anche ai soldati e ai funzionari necessari per l’amministrazione di una provincia. In un castello del genere, nel secolo XII il torrione con gli appartamenti residenziali si trovava generalmente nell’angolo della cinta più lontano e più facilmente difendibile; i magazzini e la cappella di solito erano posti nello spazio centrale, mentre altre torri lungo le mura erano abbastanza vaste da contenere camerate per la truppa, e gli uffici. Il piano variava secondo la natura del terreno e l’area su cui era situato il castello. Il torrione era ancora una semplice torre rettangolare, secondo il modello normanno, di solito con un unico ingresso. La muratura era solida e semplice, ma si fecero alcuni tentativi di decorare gli alloggi signorili e la cappella. Disgraziatamente non è rimasta nemmeno una delle decorazioni di castelli fatte nel secolo XII: i castelli rimasti in mani cristiane dopo le conquiste di Saladino vennero restaurati nel secolo successivo, mentre i saraceni modificarono quelli che essi stessi avevano occupato; gli altri caddero in rovina7. Nel corso del secolo XII si verificarono alcuni mutamenti nel piano dei castelli. Venne considerato più logico sistemare il torrione, che era la parte più robusta di tutta la costruzione, nel punto più debole della cinta ed il torrione stesso divenne di solito rotondo e non più rettangolare, poiché una superficie tondeggiante resisteva più efficacemente ai bombardamenti. Fu aperto un maggior numero di porte ed ingressi secondari. Si manifestò la tendenza ad aumentare la mole dei castelli, specialmente quando gli ordini militari ne costruirono per sé o vennero in possesso di altri già appartenuti alla nobiltà laica. Nei castelli degli ordini non c’era da dare alloggio alle donne e, sebbene agli alti ufficiali potessero permettersi appartamenti eleganti, tutti i residenti vi si trovavano per uno scopo militare. Le fortezze più grandi, come Krak o Athlit, erano vere e proprie città militari che potevano alloggiare parecchie migliaia di combattenti ed il personale di servizio necessario per

una comunità di quelle proporzioni; ma raramente erano occupati fino al limite della loro capacità. A quel tempo le difese erano di solito rinforzate dall’uso di una doppia cinta concentrica. I grandi castelli degli ospitalieri, come Krak e Marqab, avevano una doppia cinta. A Safita i templari seguirono lo stesso sistema, ma di solito preferivano una cinta unica; i loro più importanti castelli del secolo XIII, Tortosa e Athlit, rispettarono il modello più antico, ma in ambedue i casi la sezione più lunga delle mura si alzava direttamente dal mare. Sulla penisola che univa Athlit alla terraferma c’era una complicata doppia linea difensiva. Anche il castello dei cavalieri teutonici a Montfort si atteneva alla cinta unica. L’idea di una cinta doppia non era nuova: nel secolo v le mura di Costantinopoli verso terra furono costruite su una doppia linea e nel secolo vili il califfo al-Mansur circondò la sua città circolare, Bagdad, con un doppio anello di mura. Ma gli ospitalieri furono i primi ad applicare il sistema ad un castello singolo, sebbene lo si potesse usare soltanto per una fortezza di mole considerevole8. Altri miglioramenti introdotti nel secolo XIII furono la rivestitura accuratamente liscia delle mura esterne per offrire meno presa alle scale con ramponi, l’uso più abbondante di caditoi e di feritoie per gli arcieri, alle quali di solito fu data una posizione inclinata verso il basso e qualche volta una base a forma di staffa, ed una complicazione più grande delle porte d’ingresso. A Krak c’era un lungo accesso coperto, dominato da feritoie che si aprivano nei muri laterali, poi tre svolte ad angolo retto, una saracinesca e quattro porte separate. Porte laterali erano collocate in angoli inattesi, uno stratagemma introdotto dai bizantini per primi9. Queste enormi fortezze, con la loro solida costruzione in muratura, magnificamente situate su picchi o cime di montagne sembravano inespugnabili in tempi in cui non si conosceva la polvere da sparo. Il terreno rendeva di solito impossibile l’uso di scale né si potevano elevare torri da assedio con cui dominare le mura, se intorno non si stendeva un terreno pianeggiante e privo di fossati. Era spesso piuttosto difficile per gli assediano trovare un luogo abbastanza vicino dove collocare mangani o balestre per il lancio di pietre. Il principale pericolo di carattere tecnico erano le mine: i genieri scavavano una galleria sotto le mura puntellandola, mentre avanzavano, con pali di legno che alla fine venivano incendiati con ramaglia causando il crollo della galleria e con essa della costruzione in muratura sovrastante. Ma, se il castello era costruito su roccia compatta, come Krak, era impossibile minarlo. Un forte cadeva di solito per altri motivi: nonostante i magazzini e le cisterne, la fame e la sete costituivano un vero pericolo. La scarsità di uomini significava molte volte l’impossibilità di conservare in buono stato le opere di difesa, mentre spesso il regno non era in condizione di inviare un esercito di soccorso e la conoscenza di questo, induceva la guarnigione al pessimismo. Nel pieno dei trionfali successi di Saladino il grande castello di Sahyun, considerato il più forte del suo tempo, resistette ai musulmani soltanto tre giorni10. I castelli crociati sono importanti per la storia militare piuttosto che per la storia dell’arte. Quando tornavano in Europa, i crociati recavano con sé le idee che avevano trovato espressione in «Outremer» e castelli come il Chateau Gaillard di Riccardo Cuor di Leone le fecero penetrare nel mondo occidentale. Tuttavia le fortezze d’Oriente avevano anche un valore artistico: le loro cappelle sono tra i migliori esempi di architettura ecclesiastica di «Outremer»; le loro sale di rappresentanza, di cui la più bella è quella di Krak, si possono paragonare alle migliori sale del gotico primitivo dell’Europa occidentale; i loro appartamenti residenziali, che rimangono a darci un’idea di come potessero essere i palazzi della nobiltà di «Outremer», mostrano finezza e buon gusto. A Krak la camera del gran maestro che si trova nella parte alta della torre sudoccidentale della cinta esterna, con la sua volta a costoloni, i suoi snelli pilastri ed il suo fregio ornamentale, semplice, ma finemente

scolpito a fiori di cinque petali, era forse più elegante della maggior parte delle camere delle grandi fortezze, ma poteva trovare paralleli nei più ricchi castelli e palazzi delle città. Il suo stile è il gotico del secolo XIII, quale si trova nella Francia settentrionale, mentre il grande salone ha al sommo delle finestre una decorazione in pietra simile a quella che si trova nella coeva chiesa di San Nicola a Reims11. I castelli erano soprattutto opera di ingegneri militari, mentre le chiese dovevano essere opere d’arte. Quando i crociati giunsero in Oriente vi trovarono un’antica tradizione architettonica, adatta al paese. Il legname era un prodotto raro: tutto quello che le foreste producevano veniva adoperato per la costruzione di navi e per gli armamenti, perciò gli architetti dovevano evitare l’uso di travature nei loro edifici. I tetti erano di pietra ed erano generalmente piatti, in modo da offrire un terrazzo per godere il fresco della sera. Per sostenere il tetto si usava di solito la volta, ed era già in voga l’arco acuto, con la sua capacità di sostenere grossi carichi. Lo stile locale del costruttore siriano era ispirato a quello bizantino-arabo, che era stato perfezionato sotto i califfi omeiadi; egli però era venuto in contatto con i tardi sviluppi abassidi e con l’architettura fatimita e le sue influenze nordafricane, aveva visto di recente i bizantini al lavoro sui Luoghi Santi e ad Antiochia e notato un afflusso di esperti artisti armeni che recavano i loro stili propri. La prima chiesa costruita dai crociati in Oriente fu la cattedrale di San Paolo a Tarso, che venne terminata prima del 1102. È un edificio rozzo, senza eleganza, nello stile delle chiese romaniche della Francia settentrionale, ma con gli archi acuti; è rettangolare, con due navate laterali ed una centrale delimitata da pilastri alternati a colonne. Queste ultime provengono da qualche antico edificio; i loro capitelli sono semplici blocchi, dai cui vertici è stato tagliato un cuneo triangolare: una forma di decorazione che si trova in Renania, ma anche in Armenia, e che in questo caso fu probabilmente eseguita da artigiani armeni. Pur nel suo stile immaturo essa offre un’anticipazione dell’architettura crociata posteriore12. Appena i coloni si furono stabiliti saldamente, la loro prima preoccupazione fu di riparare i Luoghi Santi e quindi di dare alle loro principali città chiese adeguate. Tra i santuari più venerati, la chiesa della Natività a Betlemme, costruita da Costantino e riparata da Giustiniano, si trovava ancora in buone condizioni. Le uniche aggiunte di ordine architettonico apportate dai crociati furono un semplice chiostro gotico, eretto probabilmente intorno al 1240 e due accessi alla Grotta della Natività, uno a sud e l’altro a nord, costruiti intorno al 1180 in un tardo stile romanico, con un arco acuto ed una decorazione a foglie di acanto sui capitelli, che è probabilmente opera siriana. Costruirono pure, attorno alla chiesa, edifici monastici, oggi distrutti13. Ma la più venerata di tutte le chiese, quella del Santo Sepolcro a Gerusalemme, sembrò loro inadeguata. Dopo la sua distruzione per mano del califfo Hakim, i bizantini avevano ricostruito la Rotonda che circondava la tomba stessa, ma ne avevano resa rettilinea la parte orientale costruendovi tre absidi. La cappella di Santa Maria Vergine era stata unita al lato settentrionale della Rotonda e le tre cappelle di San Giovanni, della Trinità e di San Giacomo a quello meridionale. Il Golgota era stato ricostruito come cappella separata e così pure quella di Sant’Elena con la Grotta del ritrovamento della croce. Gli edifici erano tutti splendidamente decorati con marmi e mosaici. I crociati decisero di riunire assieme tutte le costruzioni sotto un unico tetto. Apparentemente la parte più importante del lavoro fu portata a compimento dopo un terremoto avvenuto nel 1114 e prima del 1130, sebbene alcune parti fossero ancora incompiute al tempo della morte di Baldovino II, nel 1131, e l’intero nuovo edificio non venisse consacrato prima del 15 luglio 1149, cinquantesimo anniversario della conquista della città. Il campanile fu aggiunto verso il 1175.

Il piano della nuova costruzione era inevitabilmente determinato dalle caratteristiche del terreno, limitato a sud dalla roccia del Golgota e ad est dal dislivello verso la cappella di Sant’Elena che si trova parecchi piedi più in basso della Rotonda. Perciò i crociati soppressero il muro orientale della Rotonda bizantina, demolendone le absidi e sostituendo quella centrale con un ampio arco che conduceva in una nuova chiesa. Questa consisteva di un coro a cui si aggiungeva una cupola appoggiata su pennacchi di volta vicino all’estremità occidentale, una navata laterale con un ambulacro che ne faceva tutto il giro ed un lato orientale curvo terminante in tre absidi. Tra l’abside centrale e quella meridionale una scala conduceva direttamente alla cappella di Sant’Elena. La navata sud si trovava a ridosso della cappella del Golgota che venne ricostruita, ma i cui mosaici bizantini furono conservati insieme con le colonne dell’ingresso. Ad occidente del Golgota, fra questo, la Rotonda e la cappella di San Giovanni, fu costruito un nuovo atrio che includeva la Pietra dell’Unzione e le tombe di Goffredo e di re Baldovino I. Una porta (che costituisce l’attuale entrata principale) conduceva dall’atrio in un cortile. Lungo la navata nord c’era una navata esterna, in gran parte di costruzione bizantina, che si apriva su un altro cortile dal quale un corridoio conduceva nella via del Patriarca, oltre la cappella di Santa Maria. Un terzo cortile circondava la cappella di Sant’Elena ed era a sua volta circondato dai nuovi edifici costruiti per alloggiare i priori agostiniani a cui in quel momento era affidata la chiesa. Quella parte delle costruzioni dei crociati sopravvissuta al saccheggio dei khwarizmiani del 1244, alle ingiurie del tempo ed al disastroso incendio del 1808, mostra una certa affinità con le grandi chiese cluniacensi di pellegrinaggio, in modo particolare con quella di Saint-Sernin di Tolosa, che papa Urbano II consacrò immediatamente dopo il concilio di Clermont. L’ambulacro ricorda fortemente quello di Cluny stessa e quello di Saint-Sernin. La differenza sta nelle proporzioni: gli architetti del Santo Sepolcro mantennero le loro colonne più basse e più robuste, perché armonizzassero con quelle della Rotonda bizantina che erano state probabilmente progettate in modo da resistere alle scosse dei terremoti. I particolari decorativi, eccetto là dove furono conservati mosaici e capitelli bizantini, possono essere paragonati a molti di quelli che si trovano nella Francia meridionale e sudoccidentale. Le sculture, specialmente le figure scolpite sugli architravi, sembrano per la maggior parte opera della scuola di Tolosa, sebbene probabilmente fossero scolpite in loco. Sembra che in generale gli architetti e gli artisti di tutto il monumento fossero francesi, provenienti probabilmente dalla Francia sudoccidentale, educati nella tradizione cluniacense. L’architetto del campanile ci è noto perché si chiamava Giordano, un nome dato di solito ai bambini battezzati nel sacro fiume e perciò probabilmente nato in Palestina14. La chiesa del Santo Sepolcro fu l’unico santuario preesistente a cui i crociati apportassero grandi mutamenti. Essi ripararono parecchie piccole cappelle come quella dell’Ascensione sul Monte degli Ulivi e la Tomba della Vergine nel Getsemani. Alla Cupola della Roccia essi aggiunsero soltanto decorazioni in marmo e lavori in ferro quando diventò la chiesa dei templari; la moschea di al-Aqsa rimase parimenti intatta, sebbene le fondamenta venissero sistemate in modo da fornire scuderie e magazzini e fossero inoltre disposti intorno alla moschea alcuni edifici per alloggiare l’ordine, mentre un’ala aggiuntavi a sud-ovest diventò la residenza preferita dei re. Nella maggior parte delle città colonizzate i crociati trovarono chiese troppo gravemente danneggiate perché valesse la pena di ripararle, oppure le lasciarono alle sette locali, che già le avevano in uso. Presero possesso di alcuni dei più antichi monasteri, ma in generale preferirono costruirsi i loro propri edifici. Alcune volte adoperarono luoghi e fondamenta già usati in precedenza, come ad esempio per la basilica del Monte Sion; qualche volta cambiarono leggermente l’orientamento preesistente, come per la chiesa del Getsemani. Più spesso scelsero essi stessi i luoghi su cui edificare o ricostruirono completamente

delle chiese nei luoghi tradizionali15. Salvo le chiese dei templari che avevano una pianta circolare, il disegno invariabile per una piccola cappella era un rettangolo con un’abside, inclusa a volte nel muro esterno, all’estremità orientale. La costruzione in muratura era solida; un’unica volta a sesto acuto e con costoloni a croce sosteneva un tetto piatto di pietra. Cappelle simili venivano costruite in ogni castello, perfino in fortezze isolate come quella sulla collina della Wueira, vicino alle rovine dell’antica Petra 16. Anche le chiese più grandi erano rettangolari, con navate laterali che si estendevano per tutta la lunghezza dell’edificio, separate dalla navata centrale per mezzo di colonne o pilastri. C’erano quasi sempre tre absidi, di solito invisibili dall’esterno perché ricavate nello spessore del muro. La grande cattedrale di Tiro e una o due altre chiese avevano brevi transetti che davano alla pianta una forma di croce, ma non avevano un’importanza strutturale. La cattedrale di Tortosa ha una sagrestia ed una protesi costruite esternamente, agli angoli di sud-est e nord-est. Alcune chiese, come per esempio quella di Sant’Anna a Gerusalemme e a quanto pare la cattedrale di Cesarea, avevano cupole elevate su pennacchi di volta che ricoprivano lo spazio antistante il tabernacolo, ma c’era di solito un tetto piatto o una volta a botte. Le navate laterali erano quasi invariabilmente coperte con volte a crociera, la navata centrale aveva una volta a crociera oppure una volta a botte, ma a sesto acuto e sostenuta da arconi. Quando le navate laterali erano più basse del resto della chiesa, si aprivano alcune finestre lungo la parte superiore della parete della navata centrale. Le finestre, perfino quelle della parte absidale, erano piccole per attenuare la luce accecante del sole di Siria. Gli archi, con pochissime eccezioni, erano a sesto acuto; rari i campanili. La chiesa abbaziale sul Monte Tabor ne aveva due, uno ad ogni lato dell’ingresso occidentale, ciascuno dei quali conteneva una piccola cappella con abside, a livello del suolo. I campanili erano talvolta uniti alla chiesa, ma non ne erano parte integrante17. La decorazione delle chiese del secolo XII era semplice: si adoperavano spesso colonne appartenenti ad edifici dell’antichità; i capitelli erano di diversi tipi; alcuni antichi, altri copiati dalle interpretazioni bizantine o arabe del capitello corinzio o di quello ad intreccio di vimini, eseguiti forse da muratori indigeni o da franchi che avevano osservato i modelli locali; altri poi erano di stile romanico occidentale18. Alcune chiese, come quella di Qariat el-Enab, erano ornate con affreschi di stile bizantino19; nel cenacolo sul Monte Sion e nella contigua cappella della Dormizione c’erano invece dei mosaici20. Può darsi che artisti bizantini vi abbiano lavorato, come certamente fecero nella chiesa della Natività di Betlemme, dove furono inviati dall’imperatore Manuele insieme con i loro materiali21. Ma le decorazioni dipinte erano rare, mentre quelle scolpite intorno agli archi erano di solito costituite da ornamenti a zig-zag o piccoli rilievi a forma di piramide. Si sono conservate pochissime sculture di figure. I peducci degli archi erano spesso rigonfi. Un’altra decorazione molto comune era una semplice rosetta22. Le chiese del secolo XII davano l’impressione di qualche cosa di piuttosto pesante, quasi di tozzo a paragone delle opere realizzate nello stesso periodo in Occidente, ma ciò era dovuto alla necessità di evitare l’uso del legname e di premunirsi contro i terremoti; tuttavia di solito l’insieme era ben proporzionato. Senza dubbio i crociati portarono con sé i propri architetti, usi agli stili di Francia, specialmente della Provenza e del Tolosano; essi però seguirono evidentemente i consigli dei costruttori locali. L’uso di archi acuti fu da loro appreso in Oriente. I primi esempi conosciuti in Occidente si trovano in due chiese costruite verso il 1115 da Ida di Lorena, madre dei due primi re franchi di Gerusalemme; il suo figliuolo maggiore, Eustachio di Boulogne, era tornato di recente

dalla Palestina. Non è difficile pensare che gli architetti di ritorno in Europa diffondessero la nuova tecnica in Occidente, dove venne sviluppata in modo da servire alle necessità strutturali locali23. È impossibile generalizzare sulle origini dei diversi particolari architettonici ed ornamentali. La cupola di Sant’Anna a Gerusalemme rassomiglia moltissimo a quelle che gli architetti francesi erigevano nel Périgord, ma lo stesso tipo di cupola, costruito su pennacchi di volta senza tamburo, si può trovare in Oriente24. La scultura romanica è così spesso affine a quella bizantina ed armena che non si possono fare facilmente distinzioni nette. È probabile che le sculture di figure ed i capitelli più fantasiosi fossero opera di artisti franchi, ma i disegni tradizionali dell’acanto e della foglia di vite erano locali. Sembra che l’ornamento a zig-zag sia venuto, anche in Europa, dal nord verso il sud, mentre quello a rilievi piramidali era già conosciuto in Oriente; lo si può vedere infatti, come pure i peducci d’arco rigonfi, sulla grande porta fatimita del Cairo, il Bab al-Futuh, che fu costruita da architetti armeni originari di Edessa, città dove i bizantini pochi decenni prima avevano innalzato molti nuovi edifici25. Gli esempi di pittura giunti fino a noi mostrano un influsso bizantino così forte da far nascere il dubbio che qualche artista franco abbia lavorato in Oriente. I mosaici di Betlemme furono sicuramente disegnati ed eseguiti da artisti di Costantinopoli, di nome Basilio ed Efrem, che però lavorarono in collaborazione con le autorità latine locali. Vi si vedono infatti figure di santi sia occidentali, sia orientali, ed iscrizioni in latino e in greco. Il mosaico di Cristo nella cappella latina sul Calvario è probabilmente opera loro26. Gli affreschi a Qariat el-Enab, che si stanno deteriorando rapidamente, sono di stile bizantino, ma, pur avendo soggetti orientali, recano iscrizioni in latino27. C’erano certamente artisti greci che lavoravano in Palestina intorno all’anno 1170 sotto il patronato dell’imperatore Manuele, che fece eseguire gli affreschi dei monasteri ortodossi di Calamon e di Sant’Eutimio. Senza dubbio i padri latini di Qariat li assunsero poi per decorare la loro chiesa28. La piccola chiesa di Amioun, non lontano da Tripoli, per le sue caratteristiche architettoniche è considerata qualche volta un monumento crociato, ma il fatto di essere consacrata ad un santo greco, Foca, le sue iscrizioni greche ed i suoi affreschi bizantini dimostrano che deve essere sempre stata un santuario ortodosso, ed illustrano la difficoltà di una netta differenziazione tra lo stile indigeno e quello franco29. Molte chiese franche trassero profitto dai doni che i loro prelati ottenevano dall’imperatore di Costantinopoli. Il grande arcivescovo Guglielmo di Tiro narra che l’imperatore Manuele gli fece magnifici presenti per la sua cattedrale30; anche la salma del vescovo Achard di Nazaret, deceduto mentre si trovava nella città imperiale per discutere il matrimonio di Baldovino III, tornò in Palestina non meno carica di doni31. Per tutto il secolo XII, specialmente al tempo di Manuele, ci furono intense comunicazioni tra «Outremer» e Bisanzio, perciò l’influsso artistico bizantino deve essere stato molto forte, protraendosi poi fino al secolo seguente. La descrizione che Wilbrand di Oldenburg fa del palazzo degli Ibelin a Beirut e dei marmi e mosaici che lo adornavano, suscita l’impressione che si trattasse di opera bizantina. Il vecchio signore Giovanni di Ibelin che lo costruì era figlio di una principessa di Bisanzio32. Il palazzo di Beirut era però un’eccezione. L’architettura di «Outremer» nel secolo XIII rimase più vincolata alle tradizioni francesi di quella del secolo precedente. Sembra che nel momento in cui il territorio franco si riduceva a poco più che la fascia delle città costiere, gli artigiani indigeni e le tradizioni locali abbiano esercitato un influsso minore. L’ultima chiesa importante, terminata prima delle conquiste di Saladino, fu la cattedrale dell’Annunciazione a Nazaret. L’edificio venne distrutto

da Baibars, ma le notevoli sculture di figure che ne rimangono sono puramente francesi. Per la maggior parte adornavano il grande portale, che pare somigliasse assai a quelli di varie cattedrali francesi del tempo ed è probabile che l’intero edificio fosse più affine allo stile francese che allo stile indigeno precedente33. La principale chiesa costruita nel secolo XIII, quella di Sant’Andrea ad Acri, era un edificio gotico, alto ed armonioso. Oggi non ne rimangono che poche tracce, ma le descrizioni e i disegni di viaggiatori più antichi sottolineano tutti la sua altezza. Le navate laterali erano molto alte e rischiarate da finestre lunghe, strette e ad arco acuto, con una leggiadra serie di archi ciechi che correva lungo il muro esterno al di sotto di esse. Non possiamo specificare da dove prendesse luce la parte superiore della navata centrale o la zona absidale, ma al di sopra del portale sulla facciata a occidente si aprivano tre finestre più larghe sovrastate da tre finestrelle tonde. Tutto ciò che oggi rimane della chiesa è un portico, che apparteneva probabilmente al lato occidentale, e che, dopo la conquista di Acri, fu trasportato al Cairo a dorso di cammello e sistemato come ingresso della moschea costruita in memoria del sultano conquistatore, al-Ashraf. Le sue proporzioni sono slanciate ed armoniose: una serie di tre sottili pilastri, che si alternano con altri due ancor più sottili, sostiene l’arcata dai due lati e la modanatura della curva corrisponde ai pilastri. Nel vuoto dell’arco ce n’è un secondo trilobato e forato da un occhio di bove. Lo stile è il gotico primitivo della Francia meridionale34. Le costruzioni del secolo XIII a Krak des Chevaliers mostrano lo stesso gusto per una maggiore altezza. L’ariosa camera del gran maestro e la grande sala dei banchetti sono ambedue di carattere interamente occidentale. La sala ha un portico che per le proporzioni è molto simile a quello di Sant’Andrea di Acri, sebbene i pilastri siano meno eleganti, e su di esso si apre un elaborato rosone nel centro dell’arco, laddove Sant’Andrea ha un occhio di bove35. Sfortunatamente rimangono pochissimi monumenti del secolo XIII, però in generale lo stile di «Outremer» si stava avvicinando al contemporaneo stile gotico francese della Cipro dei Lusignani ed allontanandosi da quello più indigeno del secolo precedente. Ciò che rimane delle costruzioni di Nazaret suggerisce l’idea che l’arte crociata si mantenesse in contatto con il movimento gotico dell’Occidente. Le conquiste di Saladino indussero molti artigiani locali a condividere le sorti dei musulmani. Il crollo di Bisanzio all’inizio del secolo diminuì inevitabilmente l’influsso bizantino, mentre la terza crociata recò in Oriente molti altri artisti ed artigiani occidentali. Al tempo stesso la crescente ostilità tra la Chiesa latina e quella ortodossa ispirò probabilmente una distinzione più netta tra i loro stili rispettivi. Esiste un solo manoscritto miniato del secolo XII, di cui si sappia con certezza che proviene da «Outremer», il salterio che si ritiene sia appartenuto alla regina Melisenda. Appartenne certamente ad una donna e poiché menziona la morte di Baldovino II e quella della regina Morphia, ma non quella di re Folco, si è supposto che appartenesse a Melisenda e che fosse stato scritto prima della morte di Folco. Tuttavia, avrebbe potuto benissimo essere stato fatto per Joveta, sorella di Melisenda e badessa di Betania ed in questo caso, poiché ogni menzione di Folco sarebbe stata priva di significato, lo si può datare in uno qualsiasi degli anni della vita di Joveta, cioè fin verso il 1180. Il testo fu scritto da un esperto scrivano latino e i disegni decorativi delle testate sembrano piuttosto latini che bizantini, mentre le illustrazioni a tutta pagina sono bizantine, eseguite nello stile delle province orientali dell’Impero. Si nota la firma di un pittore di nome Basilio ed è possibile che si tratti di quello stesso che fu autore di alcuni mosaici di Betlemme nel 1169. Le figure mostrano una certa somiglianza con quelle di un lezionario siriano, che fu decorato da Giuseppe di Melitene al tempo di un certo vescovo Giovanni, identificato poi con il vescovo che vi esercitò il ministero dal

1193 al 1220. Perciò è possibile che l’artista del Salterio di Melisenda fosse un siriano addestrato in una scuola bizantina, ed è probabile che il lavoro venisse eseguito per la badessa Joveta verso la fine della sua lunga vita36. Esiste un’interessante serie di manoscritti, un tempo considerati opera siciliana, mentre le ricerche moderne hanno dimostrato che sono stati scritti ad Acri, intorno agli anni in cui vi soggiornò san Luigi, tra il 1250 ed il 1254. Essi sono di stile nettamente bizantino. Luigi aveva fatto ampi acquisti dall’imperatore Baldovino II di Costantinopoli e può darsi che tra questi oggetti vi fossero anche manoscritti, che gli sarebbero stati inviati ad Acri, dove avrebbero ispirato alcuni artisti che vi lavoravano. Non si sa se quella scuola abbia continuato ad esistere dopo il ritorno del re in Francia37. Delle arti minori si è conservato pochissimo ed è impossibile distinguere ciò che fu eseguito sul posto da ciò che fu importato dall’Oriente o dall’Occidente. Mobili ed oggetti d’uso quotidiano erano prodotti senza dubbio da laboratori locali, ma molti articoli ornamentali provenivano dall’estero, da Costantinopoli o dalle grandi città musulmane, o erano portati da viaggiatori in arrivo dalla Francia o dall’Italia. Una collezione di oggetti scoperta nel secolo XIX nelle fondamenta degli edifici monastici di Betlemme includeva due bacinelle d’ottone, che sembrano appartenere alla scuola mosana del secolo XII, e che sono incise con una serie di figure che illustrano la vita dell’apostolo san Tommaso, un paio di candelieri d’argento, che sembrano essere lavoro bizantino della fine del secolo XII, un altro paio di candelabri di smalto di Limoges, anch’essi della fine del secolo XII, ed un candeliere più grande ed il manico d’un pastorale in smalto di Limoges del secolo XIII38. La grata di ferro posta dai crociati nella Cupola della Roccia può essere opera locale, ma ha una forte somiglianza con i lavori romanici in ferro della Francia39. I candelabri di ferro usati nelle chiese erano probabilmente fatti sul posto, ma seguivano i modelli abituali dell’Europa occidentale40. Non sono rimaste stoviglie identificabili, né di terracotta, né di vetro. Le monete e i sigilli erano di produzione locale: le prime dovevano essere adoperate in Oriente e perciò imitavano i modelli musulmani locali, avendo persino iscrizioni in arabo; i sigilli del secolo XII sono semplici e rozzi, ma quelli del secolo XIII sono più graziosi e più elaborati41. Un reliquiario di cristallo, incastonato in un supporto d’argento a forma di staffa, tempestato di pietre preziose e recante all’interno una cassettina di legno scolpito, attualmente conservato a Gerusalemme, è forse opera indigena, sebbene le parti in cristallo e in argento provenissero probabilmente dall’Europa centrale42. Come esempi di lavori in avorio rimangono le due placche finemente scolpite che servono da copertina al salterio della regina Melisenda: una ha medaglioni che narrano la storia di Davide e reca la psicomachia negli angoli, l’altra ha le opere di misericordia con animali fantastici negli angoli. L’iconografia è piuttosto occidentale che bizantina, sebbene gli abiti regali, gli animali e la decorazione siano d’ispirazione rispettivamente bizantina, moresca ed armena. Non sembra verosimile che vivesse a Gerusalemme uno scultore in avorio di così alto livello artistico; si ritiene perciò che le placche fossero un dono, proveniente dall’estero43. La scarsità dei documenti non dev’essere interpretata come prova che poco fu fatto. Se fiori l’architettura è probabile che fossero fiorenti anche le altre arti e riflettessero in ugual maniera la vita di «Outremer». L’architettura eclettica del secolo XII è quella di coloni disposti ad adattarsi alle terre dove erano giunti, benché ricevessero continuamente rinforzi dall’Occidente.. Ma i disastri della fine del secolo posero termine all’antico equilibrio. Nel secolo XIII sopravvivevano poche delle antiche grandi famiglie di «Outremer» ed il loro posto era stato preso dagli ordini militari, che

si reclutavano soprattutto in Occidente ed erano poco sensibili alle tradizioni locali. In quel momento, nelle città gli elementi indigeni erano tenuti in disparte, Acri guardava verso occidente, la ricchezza si trovava nelle mani degli italiani ed il potere di solito in quelle di sovrani venuti dall’Europa o dei loro rappresentanti, mentre i membri della nobiltà si ritiravano sempre più numerosi a Cipro, dove stava sorgendo una nuova cultura gotica. Giungeva ancora qualche eco da Bisanzio e dall’Oriente, ma stava diventando sempre più flebile: Costantinopoli aveva perso il suo splendore, la civiltà araba più antica era stata distrutta dai mongoli e la più recente civiltà dell’Egitto mamelucco era aggressiva ed ostile. Può darsi che la sintesi sia stata continuata ad Antiochia, ma saccheggi, terremoti e rovina ne hanno distrutto tutte le prove. Più a sud, sul campo di Hattin, venne annullato il tentativo di «Outremer» di formare il suo proprio stile caratteristico. La modesta ma vigorosa opera del secolo XII fu un preludio che non condusse a nulla: nel secolo XIII «Outremer» era soltanto una lontana provincia del mondo gotico mediterraneo.

Capitolo terzo La caduta di Acri

La fine! la fine viene sulle quattro estremità del paese! Ezechiele, VII, 2

Grande fu la gioia di «Outremer» alla notizia della morte di Baibars. Gli succedeva il suo figlio maggiore, Baraqa, un giovane debole che passava tutto il suo tempo a cercare di dominare gli emiri mamelucchi. Era un compito superiore alle sue forze: nell’agosto del 1279 l’emiro delle truppe siriane, Qalawun, si ribellò e marciò sul Cairo; Baraqa abdicò a favore del proprio fratello diciassettenne e Qalawun assunse il governo, ma quattro mesi dopo spodestava il ragazzo, proclamandosi sultano. Il governatore di Damasco, Sonqor al-Ashqar, non volle riconoscerne l’autorità e nell’aprile successivo si proclamò a sua volta sultano in quella città. Ma non era in condizioni di reggere contro gli egiziani. Dopo una battaglia avvenuta in prossimità di Damasco nel giugno del 1280, si ritirò nella Siria settentrionale e fece ben presto la pace con Qalawun, che raccolse così l’intera eredità di Baibars1. I franchi non seppero approfittare di quel momento di tregua. Invano l’ilkhan Abaga e il suo vassallo Leone III d’Armenia sollecitavano la formazione di un’alleanza ed una crociata. Il solo che li sostenesse era l’Ordine degli ospitalieri. Carlo d’Angiò, che odiava Bisanzio e i genovesi che ne erano gli alleati, ordinò al proprio bali ad Acri, Ruggero di San Severino, di attenersi a una politica di alleanza con i veneziani, i templari e la corte mamelucca. Il papa, a cui l’imperatore Michele aveva promesso la sottomissione della Chiesa bizantina, incoraggiava Carlo nei suoi progetti relativi alla Siria, per distoglierlo dall’idea di attaccare Costantinopoli. Re Edoardo I mostrava sentimenti amichevoli verso i mongoli, ma era lontano in Inghilterra e non aveva né il tempo, né il denaro per una nuova crociata.2 In «Outremer», Boemondo VII avrebbe forse collaborato volentieri con suo zio, Leone III, ma era in cattivi rapporti con i templari; nel 1277 inoltre aveva litigato con il più potente dei propri vassalli, Guido II Embriaco di Jebail. A Guido, suo cugino ed intimo amico, era stata promessa per il proprio fratello Giovanni la mano di un’ereditiera locale appartenente alla famiglia Aleman. Ma il vescovo Bartolomeo di Tortosa desiderava l’eredità per il proprio nipote e riuscì ad ottenere il consenso di Boemondo. In conseguenza di ciò Guido rapi la fanciulla e la fece sposare a Giovanni; poi, temendo la vendetta di Boemondo, fuggì presso i templari. Boemondo reagì distruggendo gli edifici di costoro a Tripoli e tagliando una foresta che essi possedevano vicino a Montroque. Il maestro del Tempio, Guglielmo di Beaujeu, condusse subito i cavalieri dell’ordine contro Tripoli per un’azione dimostrativa fuori delle mura e, sulla via del ritorno, incendiò il castello di Botrun; ma nel tentativo di assalire Nephin una dozzina di suoi cavalieri vennero catturati e Boemondo li imprigionò debitamente a Tripoli. Quando i templari furono tornati ad Acri, Boemondo usci per attaccare Jebail. Guido, al quale Guglielmo di Beaujeu aveva lasciato un contingente di cavalieri dell’ordine, gli mosse incontro: un’accanita battaglia ebbe luogo poche miglia a nord di Botrun. C’erano appena duecento combattenti per parte, ma la strage fu terribile e Boemondo venne gravemente sconfitto. Tra

i cavalieri che egli perdette allora c’era Baliano di Sidone, cugino suo e cognato di Guido, l’ultimo della grande casa di Garnier3. Dopo la sconfitta, Boemondo accettò una tregua di un anno; ma nel 1278 Guido e i templari lo attaccarono di nuovo. Fu sconfitto ancora una volta; ma dodici galee dei templari che tentavano di forzare il porto di Tripoli furono disperse da una burrasca e le quindici galee che Boemondo in risposta inviò contro il castello templare di Sidone riuscirono a danneggiarlo in parte prima che intervenisse il gran maestro dell’Ospedale, Nicola Lorgne. Questi si precipitò a Tripoli e fece accettare ai contendenti un’altra tregua. Ma Guido di Jebail era ancora bellicoso e deciso ad impadronirsi di Tripoli stessa. Nel gennaio del 1282 con i suoi fratelli ed alcuni amici penetrò segretamente nel quartiere dei templari della città. Ma c’era stato un malinteso ed il comandante dei cavalieri del Tempio, Reddecoeur, era assente. Guido sospettò un tradimento e si lasciò prendere dal panico, ma mentre cercava di rifugiarsi nell’edificio degli ospitalieri, qualcuno avverti Boemondo. I cospiratori fuggirono in una torre dell’Ospedale, dove le truppe di Boemondo li assediarono. Dopo poche ore, su richiesta degli ospitalieri, essi acconsentirono ad arrendersi a condizione di aver salva la vita. Boemondo non mantenne la parola: tutti i compagni di Guido furono accecati, ma Guido stesso fu portato a Nephin con i suoi fratelli Giovanni e Baldovino e con suo cugino Guglielmo e qui vennero tutti sepolti in una fossa e lasciati morire di fame. La spaventosa sorte del ribelle fece inorridire tutti i vassalli di Boe-mondo. Inoltre, la famiglia Embriaco aveva sempre ricordato di essere originaria di Genova e tra i cospiratori c’erano stati molti genovesi. Poiché costoro erano buoni amici degli armeni e sostenitori di un’alleanza con i mongoli, Boemondo non li seguiva nella loro politica. Nel frattempo Giovanni di Montfort, fedele alleato dei genovesi, progettò di salire da Tiro per vendicare i suoi amici. Ma Boemondo giunse a Jebail prima di lui. Soltanto i pisani, che odiavano i genovesi, si compiacquero senza riserve per quello che era successo. Più a sud la situazione politica non era migliore. Il governo di Ruggero di San Severino ad Acri era mal tollerato dalla nobiltà locale. Nel 1277 Guglielmo di Beaujeu cercò di trarre dalla sua parte Giovanni di Montfort e riuscì a riconciliarlo con i veneziani, ai quali venne concesso di tornare a Tiro nei loro antichi quartieri. Ma Giovanni si teneva in disparte, nei confronti del governo di Acri. Nel 1279 re Ugo sbarcò improvvisamente a Tiro sperando di raccogliere attorno a sé la nobiltà. Giovanni gli diede il suo appoggio, ma nessun altro si mosse in suo favore. Il periodo di quattro mesi durante il quale egli era legalmente autorizzato ad esigere dai suoi vassalli ciprioti un servizio fuori dall’isola trascorse nell’inattività. Quando i suoi cavalieri tornarono a Cipro il re dovette seguirli ed attribuì con ragione ai templari la colpa del fallimento dei suoi piani, poiché appunto Guglielmo di Beaujeu aveva fatto in modo che Acri rimanesse fedele a Ruggero di San Severino. Per rappresaglia vennero confiscate le proprietà dei templari in Cipro, compreso il loro castello di Gastria. L’ordine se ne lamentò con il papa che scrisse a Ugo ingiungendogli di restituire ogni cosa; ma egli ignorò l’ordine papale. Sebbene, a quanto pare, Ugo avesse approvato l’alleanza con i mongoli principalmente perché Ruggero di San Severino vi si opponeva, non era però in condizione di prendere iniziative sul continente4. L’ilkhan era ansioso di colpire i mamelucchi prima che Qalawun potesse consolidare la propria posizione. Nella Siria settentrionale Sonqor, l’ex emiro di Damasco, manteneva ancora il suo atteggiamento di sfida agli egiziani, allorché, alla fine di settembre del 1280, un esercito mongolo attraversò l’Eufrate, occupò Aintab, Baghras e Darbsaq ed il 20 ottobre entrò ad Aleppo, dove saccheggiò i mercati ed incendiò le moschee. Gli abitanti musulmani del distretto fuggirono terrorizzati verso sud in direzione di Damasco. Nello stesso tempo gli ospitalieri di Marqab fecero

una scorreria molto vantaggiosa nella Buqaia, spingendosi fino quasi a Krak e sconfiggendo vicino a Maraclea, sulla via del ritorno, l’esercito musulmano inviato per fermarli. Ma i mongoli non erano abbastanza forti per tenere Aleppo. Quando Qalawun radunò le sue forze a Damasco, essi si ritirarono oltre l’Eufrate. Il sultano si limitò ad inviare un distaccamento per punire gli ospitalieri, i quali lo sconfissero davanti a Marqab5. Circa nello stesso tempo giunse ad Acri un ambasciatore mongolo per informare i franchi che Pilkhan si proponeva di inviare in Siria nella primavera seguente un esercito di circa centomila uomini e per pregarli di integrarlo con i loro uomini e materiali. Gli ospitalieri fecero proseguire il messaggio a re Edoardo, ma da Acri stessa non venne nessuna risposta. Le notizie della prossima invasione mongola spaventarono Qalawun. Nel giugno del 1281 fece la pace con Sonqor, dandogli come feudo Antiochia ed Apamea; quindi inviò messi ad Acri per proporre una tregua di dieci anni con gli ordini militari. La tregua fatta con à governo di Acri nel 1272 era ancora valida per più di un anno. Alcuni emiri della delegazione egiziana consigliarono ai franchi di non entrare in trattative con Qalawun, perché presto sarebbe stato abbattuto. Quando Ruggero di San Severino l’udì, scrisse subito per avvertire il sultano, che poté così arrestare in tempo i cospiratori. Nel frattempo gli ordini ad Acri accettavano il trattato che venne firmato il 3 maggio. Il 16 luglio Boemondo stipulò una tregua analoga. Era un trionfo diplomatico per Qalawun; uno sforzo congiunto dei franchi contro il suo fianco, anche senza rinforzi dall’Occidente, avrebbe complicato seriamente la sua campagna contro i mongoli6. Nel settembre del 1281 due eserciti mongoli avanzarono in Siria. Il primo, comandato dall’ilkhan in persona, sottomise lentamente le fortezze musulmane lungo la frontiera dell’Eufrate, mentre l’altro, agli ordini di suo fratello Mangu Timur, prese dapprima contatto con Leone III di Armenia, poi scese nella valle dell’Orante, attraverso Aintab ed Aleppo. Qalawun era già andato a Damasco e quivi riunì le sue forze spingendosi poi in tutta fretta verso nord. I franchi si tennero in disparte, eccetto gli ospitalieri di Marqab, che rifiutarono di considerarsi vincolati dalla tregua fatta dall’ordine ad Acri. Alcuni dei loro cavalieri partirono al galoppo per unirsi al re d’Armenia. Il 30 ottobre l’esercito mongolo e quello mamelucco si incontrarono nelle immediate vicinanze di Homs: Mangu Timur comandava il centro, avendo gli altri principi mongoli alla sua sinistra, mentre gli ausiliari georgiani erano alla sua destra, insieme con re Leone e gli ospitalieri. L’ala destra musulmana era agli ordini di al-Mansur di Hama; Qalawun stesso comandava gli egiziani nel centro ed aveva al suo fianco l’esercito di Damasco, sotto l’emiro Lajin, e più a sinistra l’ex ribelle Sonqor con i siriani del nord e i turcomanni. Iniziata la battaglia, ben presto i cristiani che si trovavano nell’ala destra mongola sbaragliarono Sonqor, inseguendolo fino nel suo accampamento a Homs e perdendo così il contatto con il centro. Nel frattempo, sebbene la sinistra dei mongoli tenesse duro, Mangu Timur in persona venne ferito durante un attacco mamelucco contro il centro, e persosi d’animo, ordinò precipitosamente la ritirata. Leone d’Armenia e i suoi compagni si trovarono isolati: dovettero aprirsi un varco verso nord combattendo e subendo gravi perdite. Ma Qalawun aveva perso troppi uomini per gettarsi all’inseguimento. L’esercito mongolo riattraversò l’Eufrate senza ulteriori perdite ed il gran fiume continuò a segnare il confine fra i due Imperi; Qalawun non osò punire gli armeni. Il priore degli ospitalieri inglesi, Giuseppe di Chauncy, allora in viaggio attraverso l’Oriente, assistette alla battaglia e scrisse più tardi a Edoardo I per dargliene una descrizione. Disse che re Ugo e Boemondo non avevano fatto in tempo a congiungersi con l’esercito mongolo e cercava probabilmente in questo modo di difenderli dalla collera del re inglese, l’unico tra i monarchi dell’Occidente che avesse ancora un certo interesse per la guerra santa e fosse un deciso fautore

dell’alleanza con i mongoli. Ma la sagacia politica di Edoardo non era divisa da nessuno in Oriente: re Ugo non aveva fatto nulla; Boemondo aveva concordato una tregua con i musulmani, mentre Ruggero di San Severino, rappresentante di re Carlo, si era messo in viaggio appositamente per incontrare Qalawun e congratularsi con lui per la sua vittoria7. Intanto in Sicilia, la sera del 30 marzo 1282, la popolazione esasperata dall’arroganza di Carlo d’Angiò e dei suoi soldati, si sollevò all’improvviso e massacrò tutti i francesi che si trovavano nell’isola. I Vespri siciliani ebbero ripercussioni molto più vaste di quanto gli adirati isolani potessero sospettare. Si vide chiaramente che il grande Impero mediterraneo di Carlo era senza fondamenta. Nei decenni seguenti egli e i suoi successori cercarono invano di riconquistare la Sicilia ai principi aragonesi, che erano stati eletti per occuparne il trono. Il regno angioino di Napoli cessò di essere una potenza d’importanza mondiale ed il papato, che aveva garantito agli angioini il regno siciliano, fu umiliato e rovinato finanziariamente dai suoi tentativi di rimetterli al potere. I progetti angioini sui Balcani e sui territori ancor più ad oriente dovettero essere abbandonati. A Costantinopoli l’imperatore trasse un sospiro di sollievo: non aveva più bisogno di suscitare le ire del proprio popolo con l’offrire a Roma la sottomissione della sua Chiesa per ottenere in cambio che il papato frenasse le ambizioni di Carlo8. In «Outremer», Ruggero di San Severino si trovò improvvisamente privo di qualsiasi appoggio. Fu richiamato in Italia dal suo padrone e lasciò Acri verso la fine dell’anno, affidando la sua carica di bali al proprio siniscalco Oddone Poilechien9. I mamelucchi d’Egitto accolsero la notizia del crollo del potere di Carlo con vivissima sorpresa, ma anche con sollievo. Sia Baibars, sia Qalawun lo avevano temuto e rispettato, astenendosi perciò dall’attaccare la sua nuova provincia di «Outremer». Ormai non c’era più nessuno che tenesse a freno il sultano, fintanto che si poteva evitare un’alleanza tra i franchi e i mongoli. Nel giugno del 1283, quando spirò la tregua firmata a Cesarea, Qalawun offrì a Oddone Poilechien di rinnovarla per altri dieci anni. Oddone accettò con piacere, ma egli stesso non era sicuro della propria autorità. Per i franchi il trattato fu perciò firmato in nome del comune di Acri e dei templari di Athlit e Sidone. Esso garantiva ai franchi il possesso del territorio che si estende dalla Scala di Tiro, a nord di Acri, fino al Monte Carmelo e ad Athlit, e comprendeva pure Sidone, mentre invece Tiro e Beirut ne erano escluse. Rimaneva in vigore il diritto di andare liberamente in pellegrinaggio a Nazaret10. Oddone era contento di mantenere la pace, perché re Ugo stava per tentare ancora una volta di ridurre sotto la propria sovranità il suo regno in terraferma. Isabella, signora di Beirut, era morta di recente e la città era passata a sua sorella Eschiva, moglie di Honfroi di Montfort, fratello minore del signore di Tiro. Sapendo di poter fare assegnamento sui Montfort, Ugo salpò da Cipro alla fine di luglio con i due figli, Enrico e Boemondo. Aveva intenzione di sbarcare ad Acri, ma il vento lo sospinse a Beirut, dove giunse il 1° agosto e vi fu bene accolto. Salpò pochi giorni dopo per Tiro, inviando le sue truppe a piedi lungo la costa. Durante il cammino esse furono duramente malmenate da predoni musulmani, incitati - così almeno, riteneva Ugo - dai templari di Sidone. Quando sbarcò a Tiro ebbe alcuni infausti presagi: il suo stendardo precipitò in mare; mentre i membri del clero gli venivano incontro in processione, la grande croce che essi portavano sfuggì loro di mano e spaccò il cranio a un ebreo, medico di corte. Ugo aspettò a Tiro; ma ad Acri nessuno si mosse per fargli accoglienza. Il comune e i templari preferivano il governo discreto di Oddone Poilechien. I nobili ciprioti non intendevano rimanere con il re più dei quattro mesi imposti dalla legge. Il 3 novembre, prima che fosse terminato questo periodo, moriva Boemondo, il più promettente dei suoi figli; ancora più grave per lui era però la morte del suo amico e cognato Giovanni di Montfort. Giovanni non lasciava figli, perciò il re permise che Tiro passasse a suo fratello ed erede Honfroi, signore di

Beirut; ma aggiunse la clausola secondo cui, se avesse voluto, avrebbe potuto ricomprare la città a favore della corona per centocinquanta bisanti. Honfroi stesso, però, morì nel febbraio seguente. Dopo un decoroso intervallo, la sua vedova sposò il figlio minore di Ugo, Guido, a cui portò in dote Beirut. Per il momento Tiro rimaneva sotto il governo della vedova di Giovanni, Margherita11. Anche dopo che i suoi nobili lo ebbero lasciato, Ugo continuò a rimanere a Tiro e vi morì il 4 marzo 1284. Aveva fatto del suo meglio per ristabilire un po’ di autorità in «Outremer», ma il suo carattere lo aveva ostacolato, perché, nonostante il suo aspetto piacevole ed il suo fascino, era bisbetico e privo di tatto. Ma il fallimento dei suoi propositi fu dovuto soprattutto all’ostilità dei mercanti di Acri e degli ordini militari, i quali preferivano un monarca assente e lontano che non si intromettesse nelle loro faccende12. A Ugo successe il suo figlio maggiore Giovanni, un ragazzo bello ma delicato di salute, di circa diciassette anni. Fu incoronato re di Cipro l’11 maggio a Nicosia e subito dopo fece la traversata per Tiro, dove venne incoronato re di Gerusalemme. Ma, all’infuori di Tiro e di Beirut, la sua autorità non era riconosciuta sul continente. Regnò soltanto un anno e morì a Cipro il 20 maggio 1285. Erede era suo fratello Enrico, di quattordici anni, che fu incoronato re di Cipro il 25 giugno. Ma per il momento non osò compiere la traversata per recarsi in Siria13. Qui Qalawun stava preparandosi ad attaccare quei franchi che non erano protetti dalla tregua del 1283. Le due nobili vedove che governavano Beirut e Sidone, Eschiva e Margherita, si affrettarono a chiedergli una tregua, che venne loro concessa14. Obiettivo del sultano era il grande castello degli ospitalieri a Marqab, i cui occupanti si erano alleati troppo spesso con i mongoli. Il 17 aprile 1285 il sultano comparve con un grosso esercito ai piedi della montagna, su cui era costruito il castello, con un numero di mangani quale non si era mai visto l’eguale. I suoi uomini li trascinarono su per il fianco della collina e cominciarono a lanciare colpi contro le mura. Ma il castello era ben equipaggiato ed i suoi propri mangani avevano il vantaggio della posizione: molte macchine del nemico andarono distrutte. Per un mese i musulmani non fecero alcun progresso. Alla fine i genieri del sultano riuscirono a scavare una galleria sotto la torre della Speranza che si innalzava all’estremità del saliente settentrionale e la riempirono di legna infiammabile. Il 23 maggio fu dato fuoco alla mina e la torre crollò. La sua caduta interruppe l’assalto dei musulmani ed essi furono respinti, ma gli uomini della guarnigione avevano scoperto che la galleria penetrava molto più avanti sotto le loro difese; sapevano di essere perduti e capitolarono. Ai venticinque ufficiali dell’ordine che si trovavano nel castello fu permesso di ritirarsi a cavallo e completamente armati con tutti i beni che potevano trasportare. Il resto della guarnigione poteva andarsene libera, ma senza portare niente con sé; si ritirarono a Tortosa e poi a Tripoli. Qalawun fece il suo ingresso solenne nel castello il 25 maggio15. La caduta di Marqab allarmò i cittadini di Acri; circa nello stesso tempo appresero che Carlo d’Angiò era morto. Suo figlio, Carlo II di Napoli, era troppo profondamente impegnato nella guerra siciliana per preoccuparsi di «Outremer»; e la guerra stava gradatamente coinvolgendo tutta l’Europa occidentale. Era giunto il momento in cui era necessario avere un capo più a portata di mano. Su consiglio degli ospitalieri Enrico II mandò da Cipro ad Acri un inviato, di nome Giuliano le Jaune, per avviare trattative che conducessero al riconoscimento della propria autorità regale. Il comune acconsentì tacitamente, l’Ospedale e l’Ordine teutonico ne condividevano l’atteggiamento, i templari, dopo qualche esitazione, acconsentirono a dare il loro appoggio; ma Oddone Poilechien non volle rinunciare alla sua carica di bali ed il reggimento francese, che era ancora fornito dal re di Francia,

appoggiò Oddone. Il 4 giugno 1286 Enrico sbarcò ad Acri. Il comune lo ricevette con gioia, però i gran maestri dei tre ordini pensarono che fosse più prudente non presenziare alle accoglienze che gli venivano tributate, con la scusa che la loro professione religiosa li obbligava ad essere neutrali. Enrico fu condotto in gran pompa alla chiesa della Santa Croce; quivi annunziò che avrebbe preso alloggio nel castello, come altri re avevano fatto prima di lui. Ma Oddone Poilechien, dopo avervi insediato una guarnigione francese, rifiutò di abbandonarlo. Il vescovo di Famagosta e l’abate del Templum Domini di Acri andarono ad implorarlo, e poiché egli rifiutò di ascoltarli, stesero una protesta legale. Il re, che abitava temporaneamente nel palazzo del defunto signore di Tiro, proclamò per tre volte che i francesi potevano lasciare il castello in tutta sicurezza con ogni loro avere e che nessuno avrebbe fatto loro del male. Nel frattempo i cittadini si infuriarono sempre più contro Oddone e si prepararono ad attaccarlo, ma i tre gran maestri, avvertendo da che parte soffiava il vento, lo persuasero a consegnare loro il castello, ed essi lo diedero ad Enrico. Questi vi fece il suo ingresso solenne il 29 giugno16. Sei settimane dopo, il 15 agosto, Enrico fu incoronato a Tiro dall’arcivescovo Bonaccorso di Gloria, che fungeva da vicario del patriarca. Dopo la cerimonia, la corte tornò ad Acri e vi organizzò due settimane di festeggiamenti: vi furono giochi e tornei e nel grande salone dell’Ospedale furono rappresentate delle figurazioni allegoriche. Ci furono scene tratte dalla storia della Tavola Rotonda, con Lancillotto, Tristano e Palamede; si recitò il racconto della regina di Femenie, dal Romanzo di Troia. Da un secolo non c’era stata in «Outremer» una festa così gaia e splendida. Il re, che era un bel ragazzo, affascinò tutti i presenti, ancora ignari delle sue crisi di epilessia. Dietro di lui, per consigliarlo in ogni cosa, c’erano i suoi zii Filippo e Baldovino di Ibelin, che suscitavano profondo rispetto. Per loro consiglio egli non rimase a lungo ad Acri, ma, poche settimane dopo, ritornò a Cipro, lasciando Baldovino di Ibelin come bali. I suoi zii sapevano che un re residente non sarebbe stato gradito al popolo17. Il sultano, al Cairo, dovette sorridere all’udire dei frivoli festeggiamenti dei franchi, mentre all’ilkhan mongolo di Tabriz sembrò giunto il momento per un’azione più seria. Abaga era morto il 1° aprile 1282. Gli era successo suo fratello Tekuder, che nella sua infanzia era stato battezzato nella confessione nestoriana con il nome di Nicola. Ma le sue inclinazioni lo portavano verso l’Islam. Era appena salito al trono, quando annunciò la propria conversione all’Islam, assumendo il nome di Ahmed ed il titolo di sultano. Nello stesso tempo mandò ambascerie al Cairo per concludere un trattato di amicizia con Qalawun. La sua politica scandalizzò i notabili mongoli più anziani della sua corte, che se ne lamentarono subito con il gran khan Kubilai. Con la sua approvazione, il figlio di Abaga, Arghun, diresse una rivolta in Khorasan, dove era governatore. Fu dapprima sconfitto, ma Ahmed fu immediatamente abbandonato dai suoi generali ed assassinato in un complotto di palazzo il 10 agosto 1284. Arghun sali subito al trono 18. Egli era, come suo padre, eclettico in campo religioso: le sue simpatie personali andavano al buddismo, ma il suo visir, Saad ad-Daulah, era ebreo ed il suo migliore amico era il catholicus nestoriano, Mar Yahbhallaha. Quest’ultimo, un uomo molto notevole, era di origine turca, un ongut, nato nella provincia cinese di Shan-si, vicino alle rive dello Hoang-Ho. Si era recato in Occidente con il suo compatriota, Rabban Sauma, nella vana speranza di compiere un pellegrinaggio a Gerusalemme. Nel 1281, mentre si trovava in Iraq, la carica di catholicus era rimasta vacante ed egli venne eletto a quella dignità. Esercitava un grande influsso sul nuovo ilkhan, che desiderava liberare dai musulmani i Luoghi Santi della cristianità, ma che ripeteva di non poterlo fare se i re cristiani dell’Occidente non avessero dato il loro aiuto19.

Nel 1285 Arghun scrisse a papa Onorio IV per proporgli un’azione in comune, ma non ricevette risposta20. Due anni dopo decise di inviare in Occidente un’ambasceria e scelse come plenipotenziario Rabban Sauma, l’amico di Mar Yahbhallaha. L’ambasciatore, che scrisse un vivace resoconto della sua missione, partì al principio del 1287. Salpando da Trebisonda, raggiunse Costantinopoli intorno a Pasqua; fu ricevuto cordialmente dall’imperatore Andronico e visitò Santa Sofia e gli altri santuari della città imperiale. Andronico era già in ottimi rapporti con i mongoli ed era pronto ad aiutarli per quanto glielo permettevano le sue risorse in costante diminuzione. Da Costantinopoli Rabban Sauma andò a Napoli, giungendovi alla fine di giugno. Mentre vi si trovava, vide nel porto una battaglia navale tra la flotta aragonese e quella napoletana; fu per lui il primo segno che l’Europa occidentale era troppo occupata nelle proprie liti intestine. Proseguì a cavallo per Roma, dove trovò che papa Onorio era appena morto ed il conclave che doveva eleggere il successore non si era ancora riunito. I dodici cardinali che risiedevano a Roma lo ricevettero, ma egli li giudicò ignoranti e di nessun aiuto. Non conoscevano nulla della diffusione del cristianesimo tra i mongoli ed erano scandalizzati per il fatto che egli era al servizio di un padrone pagano. Mentre cercava di discutere di politica, essi lo interrogavano sulla sua fede e ne criticavano le divergenze dalla loro propria. Alla fine egli quasi perse la pazienza: era venuto, disse, per ossequiare il papa e per tracciare piani per il futuro, non per sostenere una disputa sul Credo. Dopo avere compiuto le sue devozioni nelle principali chiese di Roma, lasciò con piacere la città per recarsi a Genova, dove fu ricevuto con grande solennità. L’alleanza con i mongoli era importante per i genovesi ed essi prestarono la dovuta attenzione alle proposte dell’ambasciatore. Alla fine di agosto Rabban Sauma passò in Francia ed arrivò a Parigi ai primi di settembre. L’accoglienza che vi ricevette fu quanto di meglio poteva desiderare. Una scorta lo accompagnò nella capitale e, quando gli venne concessa un’udienza dal giovane re Filippo IV, gli furono resi onori sovrani. Il re si alzò dal suo trono per salutarlo ed ascoltò il suo messaggio con profondo rispetto. Egli lasciò l’udienza con la promessa che, a Dio piacendo, Filippo stesso avrebbe condotto un esercito per la liberazione di Gerusalemme. L’ambasciatore era incantato dalla città di Parigi: l’università, allora al culmine della sua gloria, lo impressionò in modo particolare; il re stesso lo accompagnò alla Sainte-Chapelle per visitare le sacre reliquie che san Luigi aveva comperato dai bizantini. Quando egli proseguendo il viaggio lasciò Parigi, il re nominò un ambasciatore, Goberto di Helleville, che doveva ritornare con lui alla corte dell’ilkhan e definire altri particolari dell’alleanza. Il successivo ospite di Rabban Sauma fu Edoardo I d’Inghilterra, che si trovava allora a Bordeaux, capitale dei suoi possedimenti francesi. In Edoardo, che aveva combattuto in Oriente ed aveva sostenuto a lungo la causa di un’alleanza con i mongoli, egli trovò una risposta pratica ed intelligente alle sue proposte. Il re gli fece grande impressione e gli parve il più abile uomo di Stato incontrato in Occidente; Rabban Sauma si sentì particolarmente lusingato quando gli fu chiesto di celebrare la messa davanti alla corte inglese. Ma quando si trattò di fissare date per l’impresa, Edoardo tergiversò. Né lui, né Filippo di Francia potevano sapere esattamente in che momento sarebbero stati pronti ad imbarcarsi per la crociata. Rabban Sauma ritornò a Roma piuttosto preoccupato. Nel sostare a Genova per Natale, gli avvenne di incontrare il cardinale legato Giovanni di Tuscolo e gli espresse i propri timori. In quel momento i mamelucchi stavano preparandosi a distruggere gli ultimi Stati cristiani in Siria e nessuno in Occidente voleva prendere sul serio quella minaccia. Nel febbraio del 1288 fu eletto papa Niccolò IV che, con uno dei suoi primi atti, ricevette in udienza l’ambasciatore mongolo. I loro rapporti personali furono eccellenti: Rabban Sauma si

rivolse al papa come al primo vescovo della cristianità e Niccolò inviò la sua benedizione al catholicus nestoriano, riconoscendolo come patriarca dell’Oriente. Durante la Settimana Santa l’ambasciatore celebrò la messa davanti a tutti i cardinali e ricevette la comunione dalle mani stesse del papa. Lasciò Roma, insieme con Goberto di Helleville, nella tarda primavera del 1288, carico di doni, fra cui molte preziose reliquie per l’ilkhan ed il catholicus, e munito di lettere per loro, per due principesse cristiane della corte e per il vescovo giacobita di Tabriz, Dionigi. Ma le lettere erano un po’ vaghe: il papa non poteva impegnarsi in un’azione precisa per una data ben definita21. In realtà, come Rabban Sauma poté rendersi conto, i re dell’Occidente avevano le loro proprie preoccupazioni. Il sinistro spettro di Carlo d’Angiò e l’antico spirito di vendetta del papato impedivano ogni crociata. Il papa aveva dato la Sicilia agli Angioini e dopo la ribellione dei siciliani contro costoro, sia il papato, sia la Francia erano costretti da ragioni di prestigio a tentare la riconquista dell’isola contro le due grandi potenze marinare del Mediterraneo, Genova ed Aragona. Finché non fosse stata definita la questione siciliana, né Niccolò, né Filippo erano disposti a pensare ad una crociata. Edoardo d’Inghilterra vide il pericolo e nel 1286 riuscì a concordare una tregua tra Francia ed Aragona, ma la tregua era precaria finché si continuava a combattere in Italia e sul mare. D’altra parte Edoardo aveva le proprie preoccupazioni: per quanto desiderasse ardentemente liberare la Terra Santa, trovò però che la conquista del Galles ed il tentativo di conquistare la Scozia erano per lui di maggiore interesse immediato. Dopo la morte di Alessandro III di Scozia, nel 1286, i suoi sguardi erano volti verso nord; infatti si proponeva di dominare il regno vicino servendosi della sua erede ancora bambina, Margherita, infanta di Norvegia. L’Oriente poteva attendere. Non c’era d’altra parte una forte spinta dell’opinione pubblica per costringere i monarchi europei ad occuparsene. Come le indagini di papa Gregorio X avevano dimostrato, lo spirito crociato stava morendo22. Arghun non voleva credere che i cristiani d’Occidente, nonostante tutte le loro pie dichiarazioni di devozione verso la Terra Santa, potessero mostrarsi così indifferenti nei confronti dei pericoli che la minacciavano. Accolse in patria Rabban Sauma con i maggiori onori e mostrò cordialità verso Goberto di Helleville; desiderava però dati più precisi di quelli che Goberto poteva offrirgli. Poco dopo la Pasqua del 1289 un secondo inviato, un genovese di nome Buscarello di Gisolfo, che si era stabilito da lungo tempo nei territori di Arghun, venne mandato in Occidente con lettere per il papa e i re di Francia e d’Inghilterra. La lettera a Filippo ci è pervenuta: è scritta in lingua mongola con caratteri uighur. In nome del gran khan Kubilai, Arghun annunzia al re di Francia che, con l’aiuto di Dio, si propone di partire contro la Siria nell’ultimo mese d’inverno dell’anno della pantera, cioè nel gennaio del 1291, e di raggiungere Damasco circa alla metà del primo mese di primavera, febbraio. Se il re avesse inviato truppe ausiliarie ed i mongoli avessero conquistato Gerusalemme, l’avrebbero consegnata a lui; ma se egli non avesse voluto collaborare, la campagna sarebbe stata rovinata. Insieme con questa lettera c’è una nota di Buscarello, scritta in francese, che porge al re di Francia complimenti pieni di tatto, ed aggiunge che Arghun porterà con sé i sovrani cristiani di Georgia e venti e forse persino trentamila cavalieri, offrendo la garanzia di rifornire gli occidentali di abbondanti vettovaglie. Una lettera simile, ora perduta, dev’essere stata inviata a re Edoardo, per il quale il papa aggiunse una nota di raccomandazione e di incoraggiamento. La risposta di Filippo non è giunta fino a noi, ma si può ancora leggere quella di Edoardo: questi si congratula con Pilkhan per la sua cristiana impresa e gli rivolge amichevoli complimenti, ma non parla affatto di date precise e non fa alcuna promessa. L’ilkhan è semplicemente rinviato al papa, il quale d’altronde poteva fare ben poco senza la collaborazione dei re23. Nel frattempo un altro franco, di cui non si conosce il

nome, scrisse un’opera per dimostrare come sarebbe stato facile sbarcare un esercito occidentale vicino a Lajazzo nell’Armenia, il cui re avrebbe potuto essere di grande aiuto, e di lì unirsi con i mongoli. Il suo consiglio passò inosservato24. Nonostante le poco incoraggianti risposte portate da Buscarello, Arghun lo rimandò ancora una volta in Europa, insieme con due mongoli cristiani, Andrea Zagan e Sahadin. Essi andarono dapprima a Roma, dove furono ricevuti da papa Niccolò, poi partirono per fare visita al re d’Inghilterra, muniti di lettere urgenti del papa, il quale, sembra, lo giudicava più propenso a farsi crociato di re Filippo. Essi si incontrarono con lui al principio del 1291, ma l’infanta di Norvegia era morta l’anno prima ed Edoardo era immerso nelle questioni scozzesi. Gli inviati tornarono sconsolati a Roma, dove si fermarono per tutta l’estate. Ormai era troppo tardi: il destino di «Outremer» era stato deciso e l’ilkhan Arghun era morto25. Se l’alleanza con i mongoli fosse stata conclusa e lealmente sostenuta dall’Occidente, l’esistenza di «Outremer» sarebbe stata certamente prolungata. I mamelucchi sarebbero stati paralizzati, se non distrutti e l’ilkhanato di Persia avrebbe continuato ad esistere come potenza amica dei cristiani e dell’Occidente. Invece l’Impero mamelucco sopravvisse per quasi tre secoli, e quattro anni dopo la morte di Arghun i mongoli di Persia passarono nel campo musulmano. Per la negligenza dell’Occidente non soltanto fu perduta la causa dei franchi di «Outremer», ma anche quella delle misere comunità della cristianità orientale. E questa trascuratezza fu causata principalmente dalla guerra siciliana, dovuta a sua volta ai risentimenti del papato e alle mire di espansione francesi. Nel frattempo «Outremer» offriva lo spettacolo di un’irresponsabilità ancora più sconcertante. Re Enrico era appena tornato a Cipro dai festeggiamenti di Acri, quando ebbe inizio una guerra aperta tra pisani e genovesi lungo la costa siriana. Nella primavera del 1287 i genovesi inviarono nel Levante una squadra agli ordini dei loro ammiragli Tommaso Spinola ed Orlando Ascheri. Mentre il primo si recava ad Alessandria per ottenere la benevola neutralità del sultano, Ascheri incrociava lungo le coste siriane affondando o assaltando ogni nave appartenente ai pisani o ai franchi di origine pisana. Soltanto l’intervento dei templari impedì che i marinai catturati venissero venduti come schiavi. Ascheri si ritirò allora a Tiro per progettare un attacco contro il porto di Acri, ma i veneziani unirono la loro flotta locale a quella dei pisani per difenderlo; Ascheri però ottenne una vittoria fuori del molo il 31 maggio 1287, pur non riuscendo a penetrare nel porto. Quando Spinola salpò da Alessandria, i genovesi furono in condizione di bloccare tutta la costa. I gran maestri del Tempio e dell’Ospedale, insieme con i rappresentanti della nobiltà locale, li convinsero infine a tornare a Tiro e a lasciare libero transito alla navigazione26. Uno dei porti di mare era stato risparmiato da questo conflitto perché aveva già subito una sorte peggiore. Da tempo ormai i mercanti di Aleppo si lamentavano con il sultano, mostrando quale inconveniente fosse per loro dover inviare le proprie mercanzie al porto cristiano di Lattakieh, ultimo resto del principato di Antiochia. L’occasione propizia per Qalawun si presentò in quella primavera: il 22 marzo un terremoto danneggiò gravemente le mura della città. Con la scusa che Lattakieh, come parte dell’antico principato, non era protetta dalla tregua stipulata con Tripoli, egli inviò il suo emiro Husam ad-Din Turantai ad impadronirsene. La città cadde facilmente nelle sue mani, ma i difensori si ritirarono in un forte all’imboccatura del porto, unito al continente da un terrapieno. Turantai ne allargò l’accesso e ben presto, il 20 aprile, costrinse la guarnigione ad arrendersi. Nessun tentativo era stato fatto per accorrere in suo soccorso27. L’antico signore della città, Boemondo VII, non sopravvisse a lungo a quella perdita: morì senza figli il 19 ottobre 1287. Erede era sua sorella Lucia, che aveva sposato l’ex grande ammiraglio di

Carlo d’Angiò, Narjot di Toucy, e che viveva ora nelle Puglie. I nobili e i cittadini di Tripoli non avevano un particolare desiderio di chiamare in Oriente una principessa quasi sconosciuta e per giunta compromessa con gli screditati angioini. Offrirono dunque la contea alla principessa-madre Sibilla di Armenia, che, appena ricevuta l’offerta, scrisse al suo vecchio amico, il vescovo Bartolomeo di Tortosa, per invitarlo ad essere suo balì. Ma la lettera fu intercettata e i nobili della contea l’avvertirono che non intendevano accettare il vescovo. Ella non volle cedere; dopo uno scontro tempestoso, i nobili si ritirarono, si consultarono con i più importanti mercanti, e proclamarono decaduta la dinastia, istituendo il comune, che da allora in poi avrebbe rappresentato l’autorità sovrana. A capo fu eletto Bartolomeo Embriaco, il cui padre Bertrando era stato l’ostinato nemico di Boemondo VI, e il cui fratello Guglielmo, insieme con il cugino, signore di Jebail, era stato messo a morte in modo tanto crudele da Boemondo VII. La principessa si ritirò in Armenia da suo fratello. Ma al principio del 1288 Lucia giunse ad Acri con suo marito per recarsi a Tripoli e raccogliere la propria eredità. Fu ben ricevuta dagli ospitalieri, vecchi alleati della dinastia, che la scortarono fino a Nephin, città di frontiera della contea. Qui ella emise un proclama, in cui affermava i propri diritti. Il comune rispose enumerando una lunga lista di lagnanze ed accuse per gli atti di crudeltà e gli arbitrii di suo fratello, di suo padre e di suo nonno: non ne volevano più sapere della dinastia. Si posero invece sotto la protezione della repubblica di Genova, e un messaggero si recò nella città ligure per informarne il doge, che spedì subito l’ammiraglio Benito Zaccaria con cinque galee per trattare con il comune. Nel frattempo i gran maestri dei tre ordini, insieme con il bali veneziano di Acri, erano andati a Tripoli per perorare la causa dell’erede: quello dell’Ospedale a motivo della vecchia amicizia del suo ordine per la famiglia di lei, il templare ed il teutonico perché sostenevano Venezia contro Genova. Ma fu loro risposto che Lucia doveva riconoscere il comune quale governo della contea. Quando Zaccaria giunse, insistette per ottenere un trattato che concedesse ai genovesi un maggior numero di strade in Tripoli ed il diritto di avere un podestà per governare la loro colonia, mentre garantiva la libertà ed i privilegi del comune. Ma i cittadini cominciarono a chiedersi se Genova sarebbe stata un’amica disinteressata. Bartolomeo Embriaco, che si era assicurato il controllo di Jebail facendo sposare sua figlia Agnese con il suo giovane cugino Pietro, figlio di Guido II, desiderava ardentemente di ottenere la contea per sé. Inviò un messaggio al Cairo per chiedere a Qalawun se lo avrebbe appoggiato qualora si fosse proclamato conte. Le sue ambizioni però trapelarono e l’opinione pubblica di Tripoli cambiò atteggiamento, cominciando a mostrarsi favorevole alla causa di Lucia. Senza informare i genovesi, le autorità comunali le scrissero ad Acri, offrendole di accettarla come sovrana, purché essa confermasse i loro diritti. Lucia scaltramente ne informò Zaccaria, che si trovava a Lajazzo per stipulare un trattato commerciale con il re d’Armenia. Egli si precipitò ad Acri per incontrarsi con lei ed ella acconsentì a confermare i privilegi sia del comune, sia di Genova, e a tali condizioni fu riconosciuta contessa di Tripoli28. Questa sistemazione non piacque né ai veneziani, né a Bartolomeo Embriaco, allora già in contatto con Qalawun; oggi non ci è possibile stabilire se sia stato questi, oppure i veneziani di Acri a inviare due messi franchi al Cairo per chiedere al sultano di intervenire. Il segretario del gran maestro del Tempio conosceva i nomi degli inviati, ma preferì non rivelarli. Essi fecero presente al sultano che, se Genova avesse controllato Tripoli, avrebbe dominato tutto il Levante ed il commercio di Alessandria sarebbe stato alla sua mercè 29. Il sultano fu contentissimo di essere invitato a intervenire e di avere una giustificazione per rompere la tregua con Tripoli. Nel febbraio del 1289 condusse l’intero esercito egiziano in Siria, senza rivelare la sua meta. Ma uno dei suoi emiri, Badr

ad-Din Bektash al-Fakhri, era al soldo dei templari ed avverti il gran maestro, Guglielmo di Beaujeu, che la meta di Qalawun era Tripoli. Guglielmo si affrettò ad avvisare la città e a raccomandare l’unione e la difesa, ma nessuno volle credergli. Guglielmo era notoriamente un intrigante e si sospettò che avesse inventato quella storia a proprio beneficio, nella speranza di essere invitato a fare opera di mediazione. Non si fece nulla, e le diverse fazioni continuarono le loro dispute, finché, verso la fine di marzo, lo sterminato esercito del sultano discese attraverso la Buqaia e si raccolse sotto le mura della città30. Allora, finalmente, la minaccia fu presa sul serio. Nella città, sia il comune, sia i nobili diedero alla contessa Lucia la suprema autorità. I templari mandarono una compagnia di armati al comando del loro maresciallo, Goffredo di Vendac, e gli ospitalieri si posero agli ordini del loro maresciallo, Matteo di Clermont. Il reggimento francese avanzò da Acri al comando di Giovanni di Grailly. Nel porto c’erano quattro galee genovesi e due veneziane, come pure battelli più piccoli, alcuni dei quali appartenenti ai pisani. Da Cipro, re Enrico mandò il suo giovane fratello Amalrico, che di recente era stato nominato conestabile di Gerusalemme, con una compagnia di cavalieri e quattro galee. Nel frattempo molti cittadini non combattenti fuggivano, oltre il mare, a Cipro. La Tripoli medievale era situata sul mare, sulla corta penisola, dove si trova il moderno sobborgo di ai-Mina. Era staccata dal castello del Monte Pellegrino, che, sembra, non si tentò neppure di difendere. La città stessa venne difesa con coraggio, ma, benché i cristiani avessero il dominio del mare, la notevole superiorità numerica musulmana e le grandi macchine da assedio si dimostrarono irresistibili. Quando la torre del Vescovo, all’angolo sudorientale delle mura verso l’entroterra, e la torre dell’Ospedale, tra questa ed il mare, crollarono sotto il bombardamento, i veneziani ritennero impossibile un’ulteriore difesa. Caricarono in tutta fretta le loro navi con tutto ciò che possedevano e salparono, allontanandosi dal porto. La loro defezione allarmò i genovesi, ed il loro ammiraglio Zaccaria sospettò che cercassero di rubare qualcuno dei suoi battelli; egli pure richiamò i suoi uomini lasciando la città con tutto ciò che poterono salvare. La loro partenza gettò i cristiani nello scompiglio; nella stessa mattinata del 26 aprile 1289 il sultano ordinò un assalto generale: orde di mamelucchi, superando le cadenti mura sudorientali, si riversarono nella città. Qui i cittadini, colti dal panico, lottavano per raggiungere le imbarcazioni ancora nel porto. La contessa Lucia, con Amalrico di Cipro e i due marescialli degli ordini, fecero vela verso l’isola, mettendosi in salvo, ma il comandante del Tempio, Pietro di Moncada, fu ucciso insieme con Bartolomeo Embriaco. Ogni uomo trovato dai musulmani fu subito messo a morte, le donne e i bambini presi schiavi. Un certo numero di persone riuscì ad attraversare su barche a remi il braccio di mare, rifugiandosi nell’isolotto di San Tommaso, poco lontano dal promontorio. Ma la cavalleria mamelucca si lanciò nell’acqua poco profonda e nuotò fino all’isola. Qui avvennero analoghe scene di massacro, e quando lo storico Abul Fida di Hama tentò di recarvisi pochi giorni dopo ne fu ricacciato dal fetore dei cadaveri in decomposizione31. Quando il massacro e il saccheggio furono terminati, Qalawun fece radere al suolo la città per evitare che i franchi, con la loro superiorità marittima, potessero tentarne la riconquista. Per suo ordine venne fondata una nuova città ai piedi del Monte Pellegrino, a poche miglia nell’interno32. Truppe mamelucche avanzarono per occupare Botrun e Nephin: non si fece nessun tentativo per difenderle. Pietro Embriaco, signore di Jebail, offrì la propria sottomissione al sultano e gli fu concesso di tenere la città, sotto stretta sorveglianza, per circa un altro decennio33. La caduta di Tripoli fu un duro colpo per la popolazione di Acri. Durante gli ultimi anni essa si era persuasa che, finché i franchi non si fossero mostrati aggressivi, il sultano non avrebbe avuto

nulla in contrario a lasciare in pace le città cristiane della costa: poteva attaccare i castelli, che erano un pericolo potenziale per lui; poteva risentirsi contro gli ordini militari, il cui compito era di combattere per la fede, sebbene gli stessi musulmani, non meno dei cristiani, si servissero dei templari come banchieri; ma i mercanti e i bottegai dei porti di mare volevano soltanto la pace, e i baroni di «Outremer», amanti degli agi, non avevano evidentemente nessun desiderio di essere infastiditi da una crociata. Acri e gli altri porti erano un vantaggio commerciale anche per i musulmani, non solo per i cristiani, e i loro cittadini avevano mostrato la propria buona volontà rifiutando l’alleanza con i mongoli. L’attacco senza provocazione contro Tripoli dimostrò loro quanto fossero errati questi calcoli. Furono costretti a rendersi conto che una sorte analoga stava per toccare ad Acri. Tre giorni dopo la caduta di Tripoli re Enrico giunse ad Acri. Vi trovò un inviato di Qalawun, che recava una protesta del suo signore perché Enrico e gli ordini militari avevano rotto la tregua con lui, accorrendo in aiuto di Tripoli. Enrico rispose che la tregua si riferiva soltanto al regno di Gerusalemme: se Tripoli ne fosse stata protetta, il sultano non avrebbe dovuto aggredirla. La giustificazione fu accettata dai musulmani e la tregua venne rinnovata, per quanto concerne i regni di Gerusalemme e di Cipro, per altri dieci anni, dieci mesi e dieci giorni. Il re di Armenia e la signora di Tiro si affrettarono a seguire questo esempio 34. Ma Enrico aveva poca fiducia ormai nella parola del sultano. Non poteva correre il rischio di rivolgersi ai mongoli, perché Qalawun avrebbe certamente considerato questo atto una rottura della tregua, ma prima di ritornare a Cipro in settembre, lasciando ad Acri suo fratello come bali, inviò in Europa Giovanni di Grailly, per esporre chiaramente ai principi occidentali quanto fosse disperata la situazione35. Anche i sovrani d’Europa erano stati colpiti dalla sorte di Tripoli. Ma la questione siciliana occupava i pensieri di tutti, eccetto Edoardo d’Inghilterra, il cui problema scozzese, però, stava giungendo ad un punto critico. Papa Niccolò IV ricevette Giovanni di Grailly con sincera simpatia e scrisse con viva afflizione ai re dell’Occidente per implorarli di inviare aiuti. Ma egli stesso era coinvolto nella questione siciliana: non poteva fare altro che scrivere lettere ed esortare il suo clero a predicare la crociata. I principi e i signori a cui si rivolse, preferirono aspettare, finché re Edoardo avesse preso qualche iniziativa. Dopo tutto, egli si era fatto crociato ed aveva qualche esperienza dell’Oriente36. Ma Edoardo non si mosse. La repubblica genovese, che aveva subito una grave perdita con la caduta di Tripoli, aveva catturato per rappresaglia una grossa nave mercantile egiziana nelle acque dell’Anatolia meridionale e compiuto scorrerie contro il porto indifeso di Tineh, nel delta del Nilo. Ma allorché Qalawun impedì l’ingresso in Alessandria alle navi genovesi, la repubblica si affrettò a fare la pace. Quando i suoi inviati giunsero al Cairo, trovarono che ambascerie dell’imperatore greco e di quello tedesco stavano rendendo visita al sultano37. L’appello del papa ricevette buona accoglienza soltanto nell’Italia settentrionale; non vi risposero però i nobili, bensì un insieme di contadini e di disoccupati delle città, soprattutto della Lombardia e della Toscana, desiderosi di un’avventura che avrebbe dato loro merito e salvezza e probabilmente un po’ di bottino. Il papa non ne era molto soddisfatto, ma accettò il loro aiuto e li mise agli ordini del vescovo di Tripoli, venuto profugo a Roma. Sperava che sotto la mano di un prelato buon conoscitore dell’Oriente e capace di frenarli, non avrebbero fatto sciocchezze. I veneziani, che non si erano troppo rattristati nel vedere Genova perdere la sua base a Tripoli, ma che la pensavano diversamente riguardo ad Acri, di cui monopolizzavano il commercio, fornirono venti galee al comando del figlio del doge, Nicolò Tiepolo, coadiuvato, su richiesta del papa, da Giovanni di Grailly e Roux di Sully. Ad ognuno dei tre furono consegnate mille monete d’oro del tesoro

papale; essi scarseggiavano però di munizioni. Appena la flotta salpò verso oriente fu raggiunta da cinque galee inviate da re Giacomo d’Aragona, che desiderava collaborare all’impresa, sebbene fosse in guerra con il papato e con Venezia38. La tregua tra re Enrico e Qalawun aveva restituito un po’ di fiducia ad Acri. Il commercio riprese: nell’estate del 1290 i mercanti di Damasco inviarono di nuovo le loro carovane alla costa. C’era un buon raccolto quell’anno in Galilea e i contadini musulmani si affollavano con i loro prodotti verso i mercati di Acri; la città non era mai stata così animata ed attiva. In agosto, nel mezzo di questa prosperità, giunsero i crociati italiani. Fin dal momento del loro sbarco divennero fonte di guai per le autorità: erano disordinati, ubriaconi e corrotti, e i loro comandanti, che non erano in grado di dar loro regolarmente il soldo, non avevano nessuna autorità su di loro. Erano venuti, pensavano, per combattere contro gli infedeli e perciò cominciarono ad attaccare i pacifici mercanti e contadini musulmani. Un giorno, verso la fine di agosto, scoppiò all’improvviso un tumulto. Alcuni dicevano che era cominciato in occasione di una bevuta alla quale partecipavano sia cristiani, sia musulmani; altri dissero che un mercante maomettano aveva sedotto una cristiana e che il marito si era rivolto ai vicini perché lo aiutassero a vendicarsi. Improvvisamente la marmaglia crociata si precipitò per le strade e nei sobborghi, trucidando tutti i musulmani che incontrava; e la loro idea per cui ogni uomo che portasse barba, dovesse essere un maomettano, costò la vita anche a parecchi cristiani indigeni. I nobili della città e i cavalieri degli ordini ne furono indignati, ma non poterono far altro che salvare alcuni musulmani portandoli al sicuro nel castello, e arrestare pochi dei più noti caporioni della sommossa39. Non passò molto tempo prima che la notizia del massacro giungesse al sultano. La sua collera era ben giustificata ed egli decise giunto il momento di cacciare i franchi dal suolo siriano. Il governo di Acri si affrettò a mandargli scuse e giustificazioni, ma i suoi inviati ad Acri insistettero perché i colpevoli dell’affronto fossero loro consegnati per la punizione dei loro crimini. Il conestabile Amalrico convocò un consiglio, nel quale il gran maestro del Tempio si levò e suggerì che tutti i delinquenti cristiani che si trovavano in quel momento nelle carceri fossero consegnati ai rappresentanti del sultano come responsabili del delitto. Ma l’opinione pubblica non avrebbe tollerato che dei cristiani venissero mandati ad una morte certa per mano degli infedeli. Gli ambasciatori del sultano non ricevettero soddisfazione. Vi fu invece un debole tentativo di dimostrare che certi mercanti musulmani erano responsabili di avere iniziato la rissa per far così ricadere la colpa su di loro40. Per tutta risposta Qalawun ricorse alle armi. Una discussione tra i suoi giuristi lo convinse che legalmente egli aveva il diritto di rompere la tregua. Tenne segreti i suoi piani: mentre mobilitava l’esercito egiziano, comandò a quello siriano, agli ordini di Rukn ad-Din Toqsu, governatore di Damasco, di avanzare verso la costa palestinese, nelle vicinanze di Cesarea e di costruire macchine da assedio. Si fece circolare la voce che la meta della spedizione si trovasse in Africa 41. Ma una volta ancora l’emiro al-Fakhri avverti Guglielmo di Beaujeu ed i templari delle reali intenzioni del sultano. Guglielmo trasmise l’avvertimento, ma, come già era accaduto a Tripoli, nessuno volle credergli. Di sua propria iniziativa mandò al Cairo un emissario, al quale Qalawun offrì di risparmiare la città in cambio di tanti zecchini veneziani quanti erano gli abitanti. Quando Guglielmo presentò questa offerta all’alta corte, essa venne sdegnosamente respinta. Il gran maestro, accusato di tradimento, fu insultato dalla folla quando lasciò la sala della riunione42. La soddisfazione del popolo di Acri fu ancora più grande verso la fine dell’anno, quando giunse

dal Cairo la notizia che Qalawun era morto. Egli aveva rinunziato ad ogni tentativo di nascondere le proprie intenzioni di marciare su Acri. In una lettera al re d’Armenia parlava del suo voto di non lasciare in vita un solo cristiano nella città. Il 4 novembre 1290 egli usci dal Cairo alla testa del suo esercito, ma era appena partito, quando cadde ammalato. Sei giorni dopo moriva a Marjat at-Tin, a cinque miglia soltanto dalla sua capitale. Sul suo letto di morte fece promettere a suo figlio, alAshraf Khalil, di continuare la campagna iniziata. Era stato un grande sultano, inflessibile e spietato come Baibars, ma con un maggior senso della lealtà e dell’onore43. A differenza di Baibars, lasciava un figlio degno di succedergli. La sua morte fu seguita dalla solita congiura di palazzo, ma al-Ashraf non si lasciò cogliere di sorpresa. Poté arrestare l’emiro Turantai, capo del complotto, e insediarsi saldamente sul trono. Ma la stagione era ormai troppo avanzata per marciare contro Acri: la campagna fu rinviata alla primavera44. Il governo di Acri trasse vantaggio da questa battuta d’arresto per inviare ancora un’ambasceria al Cairo. Era guidata da un notabile della città, Filippo Mainboeuf, profondo studioso di arabo; con lui c’erano un cavaliere templare, Bartolomeo Pizan, uno dell’Ospedale ed un segretario, di nome Giorgio. Ma il nuovo sultano non volle riceverli: vennero gettati in prigione, dove non sopravvissero a lungo45. L’esercito musulmano cominciò a muoversi nel marzo del 1291. I preparativi di al-Ashraf furono accurati e completi: da tutti i suoi territori si raccolsero macchine da assedio; l’esercito di Hama era così pesantemente armato che, con il tempo umido ed il terreno fangoso, impiegò tutto un mese per scendere da Krak, dove si era arrestato per prendere un’immensa catapulta, chiamata la Vittoriosa, fino ad Acri. Quasi un centinaio di altre macchine erano state costruite a Damasco e in Egitto. C’era una seconda grande catapulta, chiamata la Furiosa, e mangani leggeri, di un tipo particolarmente efficace, noti come i Buoi Neri. Il 6 marzo al-Ashraf partì dal Cairo per Damasco, dove lasciò il suo harem. Il 5 aprile arrivò davanti ad Acri con tutto il suo enorme esercito: si parlava di sessantamila cavalleggeri e centosessantamila fanti. Per quanto esagerate possano essere queste cifre, le sue forze erano di gran lunga superiori a quelle che i cristiani potevano chiamare a raccolta46. Le notizie dei preparativi del sultano avevano finalmente indotto il popolo di Acri a rendersi conto della propria situazione. Durante il corso dell’inverno erano stati inviati in Europa appelli molto seri, ma con scarsissimi risultati. Pochi cavalieri isolati erano giunti nell’autunno precedente: tra di loro c’era lo svizzero Ottone di Grandson, con alcuni inglesi inviati da Edoardo I. Il Tempio e l’Ospedale raccolsero tutti i loro uomini disponibili. Il gran maestro dell’Ordine teutonico, Burchard di Schwanden, diede cattiva impressione di sé, scegliendo proprio quel momento per rassegnare le dimissioni; ma il suo successore, Corrado di Feuchtwangen, convocò dall’Europa un gran numero dei propri confratelli. Enrico di Cipro inviò truppe dall’isola agli ordini di suo fratello Amalrico per comandare la difesa, promettendo di giungere di persona con altri rinforzi. Tutti gli uomini validi di Acri furono arruolati per partecipare alla lotta47, ma anche così erano scarsi di numero. L’intera popolazione civile della città contava da trenta a quarantamila persone, a cui si dovevano aggiungere meno di mille cavalieri o sergenti a cavallo e circa quattordicimila fanti, compresi i pellegrini italiani. Le fortificazioni erano buone ed erano state rinforzate di recente per ordine di re Enrico. Una doppia cinta di mura proteggeva la penisola su cui erano situati la città ed il sobborgo settentrionale di Montmusart, il quale a sua volta era separato da Acri da un muro semplice. Il castello si trovava su quest’ultimo muro, vicino al punto in cui esso si congiungeva con le doppie mura. C’erano dodici torri poste ad intervalli irregolari, tanto lungo il muro esterno, quanto su quello interno; molte di esse

erano state innalzate a spese di qualche pellegrino importante, come la Torre inglese, costruita da Edoardo I, e la vicina Torre della contessa di Blois. Dalla baia di Acri le mura procedevano verso nord per un tratto, quindi volgevano ad occidente per proseguire verso il mare, formando così un angolo dove si erigeva, sul muro esterno, una grande torre ricostruita di recente da re Enrico II, dirimpetto alla quale stava, sul muro interno, la Torre maledetta. Di fronte alla torre di re Enrico c’era un contrafforte costruito da re Ugo48. Quest’angolo nel suo insieme era considerato il punto più vulnerabile delle opere di difesa, e venne affidato perciò alle truppe stesse del re, agli ordini di suo fratello Amalrico. Alla sua destra si trovavano i cavalieri francesi ed inglesi, al comando di Giovanni di Grailly e di Ottone di Grandson, poi le truppe dei veneziani e dei pisani e quelle del comune di Acri. Alla sua sinistra, per guarnire le mura di Montmusart, c’erano prima gli ospitalieri, poi i templari, ciascuno agli ordini del proprio gran maestro. I cavalieri teutonici integravano i reggimenti reali vicino alla Torre maledetta. Dalla parte musulmana, l’esercito di Hama, in cui si trovava lo storico Abul Fida, aveva preso posizione vicino al mare, dirimpetto ai templari; l’esercito di Damasco si trovava di fronte agli ospitalieri, e quello egiziano si estendeva dalla fine del muro di Montmusart, attorno al saliente delle mura, fino alla baia di Acri. La tenda del sultano era piantata non lontano dalla spiaggia, dirimpetto alla torre del Legato49. Più tardi, quando tutto era ormai terminato e perduto, la collera e il dolore diedero luogo a recriminazioni. I cronisti cristiani scagliarono gratuitamente accuse di codardia contro la guarnigione50. Ma in realtà, in quegli estremi momenti della loro esistenza, i difensori di «Outremer » mostrarono un coraggio e una fedeltà che erano stati dolorosamente assenti negli anni immediatamente precedenti. Può darsi che all’inizio dell’assedio, quando navi completamente cariche di donne, vecchi e bambini furono inviate a Cipro, anche alcuni uomini in età da combattere fuggissero con loro. Può darsi che alcuni mercanti italiani abbiano mostrato una preoccupazione egoistica per le loro proprietà personali. In realtà, Genova non partecipò affatto alla lotta; era stata praticamente esclusa da Acri ad opera dei veneziani ed aveva stipulato il suo proprio trattato con il sultano; ma i veneziani ed i pisani combatterono valorosamente, e a questi ultimi va il merito di avere costruito una grande catapulta che fu la più efficace di tutte le macchine dei cristiani. L’assedio cominciò il 6 aprile. Giorno per giorno i mangani e le catapulte del sultano lanciarono i loro carichi di pietra o di terrecotte piene di miscela esplosiva contro le mura o, al disopra di esse, nell’interno della città, mentre i suoi arcieri riversavano nugoli di frecce contro i difensori che si trovavano sui corridoi e sulle piattaforme delle torri, ed i suoi genieri si preparavano ad entrare in azione per minare le opere di difesa più importanti. Si diceva che il sultano potesse impiegare un migliaio di soldati del genio contro ogni torre. I cristiani avevano ancora il dominio del mare ed i vettovagliamenti giungevano regolarmente da Cipro, ma scarseggiavano gli armamenti; cominciavano inoltre ad accorgersi che non c’erano abbastanza soldati per presidiare adeguatamente le mura contro la schiacciante superiorità numerica del nemico. Ma nessuno parlava di resa. Una delle navi fu equipaggiata con una catapulta che recò enormi danni all’accampamento del sultano. Nella notte del 15 aprile, con un magnifico chiaro di luna, i templari, aiutati da Ottone di Grandson, fecero una sortita direttamente nel campo degli uomini di Hama; i musulmani furono colti di sorpresa, ma molti templari nella semioscurità inciamparono nelle corde delle tende, caddero e furono catturati, mentre gli altri venivano ricacciati nella città con gravi perdite. Un’altra sortita effettuata dagli ospitalieri, poche notti dopo, nell’oscurità più completa, fallì del tutto perché i musulmani accesero subito le loro torce e i loro fuochi. Dopo questo secondo insuccesso si convenne che le sortite provocavano un’eccessiva perdita di uomini, ma l’abbandono di ogni sforzo aggressivo recò danno al morale dei

cristiani, alimentando il sentimento che ogni speranza era ormai vana. Il tempo lavorava per i musulmani.

XIII.

Acri nel 1291.

Il 4 maggio, quasi un mese dopo l’inizio dell’assedio, re Enrico giunse da Cipro con le truppe che aveva potuto radunare: un centinaio di cavalleggeri e duemila fanti, su quaranta navi. C’era con lui l’arcivescovo di Nicosia, Giovanni Turco di Ancona. Probabilmente il re non era venuto prima per causa di malattia. Fu accolto con gioia e appena sbarcato assunse il comando e diede nuovo impulso alla difesa; ma ben presto ci si accorse che quei rinforzi erano troppo scarsi per modificare l’esito della lotta. In un tentativo di ristabilire la pace, il re inviò al sultano due cavalieri, il templare Guglielmo di Cafran e Guglielmo di Villiers, per chiedere come mai avesse rotto la tregua e promettergli che i torti di cui avesse da lamentarsi sarebbero stati riparati. Al-Ashraf li ricevette fuori della sua tenda e, prima ancora che essi potessero trasmettergli il loro messaggio, domandò seccamente se gli avevano portato le chiavi della città. Alla loro risposta negativa, replicò che a lui interessava il possesso

della piazzaforte; poco gli importava la sorte dei suoi abitanti; anzi, come gesto di riconoscimento per il coraggio del re, che era venuto a combattere pur così giovane e malato, egli avrebbe risparmiato loro la vita, se Acri si fosse arresa. Gli inviati avevano appena avuto il tempo di rispondere che sarebbero stati considerati traditori, se avessero promesso la capitolazione, quando dalle mura una catapulta scagliò una pietra a poca distanza dal gruppo. Al-Ashraf, infuriato, sguainò la spada per trucidare gli ambasciatori, ma l’emiro Shujai lo trattenne, ammonendolo a non macchiarla con il sangue dei porci. Ai cavalieri fu concesso di tornare dal loro re. I genieri del sultano avevano già cominciato a minare le torri. L’8 maggio gli uomini del re decisero che il contrafforte di re Ugo era ormai indifendibile, perciò gli diedero fuoco e lo lasciarono crollare. Nel corso della settimana seguente furono minate le torri degli inglesi e della contessa di Blois, mentre le mura vicino alla porta di Sant’Antonio e alla torre di San Nicola cominciavano a sgretolarsi. La nuova torre di Ugo III resistette fino al 15 maggio, quando crollò una parte del suo muro esterno. La mattina seguente i mamelucchi si aprirono un varco tra le rovine, e i difensori furono costretti a ritirarsi sulla linea più interna di mura. Quel giorno stesso ci fu un attacco in forze contro la porta di Sant’Antonio e soltanto il valore dei templari e degli ospitalieri impedì al nemico di penetrare in città. Il maresciallo dell’Ospedale, Matteo di Clermont, si distinse per il suo coraggio. Nella giornata successiva i musulmani rafforzarono il loro possesso della cinta esterna; quindi il sultano ordinò un assalto generale per la mattina di venerdì 18 maggio. L’attacco fu lanciato contro tutta la lunghezza delle mura, dalla porta di Sant’Antonio alla torre del Patriarca, vicino alla baia, ma lo sforzo principale dei mamelucchi si diresse contro la Torre maledetta, allo spigolo del saliente. Il sultano gettò nella battaglia tutte le sue forze: i suoi mangani effettuarono un bombardamento incessante, mentre le frecce degli arcieri cadevano nella città quasi in massa compatta, e un reggimento dopo l’altro si precipitava contro le difese, sotto la guida di emiri dai candidi turbanti. Il fracasso era spaventoso: gli assalitori lanciavano le loro grida di battaglia, mentre trombe, cimbali e tamburi di trecento suonatori a dorso di cammello li incitavano all’assalto. Non occorse molto tempo ai mamelucchi per aprirsi un varco nella Torre maledetta. I cavalieri siriani e ciprioti che vi erano di guarnigione furono respinti verso occidente, in direzione della porta di Sant’Antonio, dove i templari e gli ospitalieri accorsero in loro aiuto, combattendo fianco a fianco, come se non fossero mai esistiti due secoli di rivalità tra di loro. Matteo di Clermont tentò disperatamente di guidare un contrattacco per riconquistare la torre, ma, sebbene entrambi i gran maestri lo seguissero, non riuscirono nell’impresa. Giovanni di Grailly e Ottone di Grandson poterono difendere per alcune ore la loro posizione sulle mura orientali della città, ma dopo la caduta della Torre maledetta il nemico fu in grado di passare lungo le mura crollanti e d’impadronirsi della porta di San Nicola. L’intero saliente era perduto e i musulmani erano decisamente penetrati nella città. La lotta per le strade fu accanitissima, ma ormai non c’era più nulla da fare per salvare Acri. Guglielmo di Beaujeu, gran maestro del Tempio, fu mortalmente ferito nell’infruttuoso contrattacco contro la Torre maledetta: i suoi seguaci lo trasportarono nell’edificio del Tempio dove morì. Matteo di Clermont si trovava con lui, poi tornò alla battaglia incontro alla propria morte. Il gran maestro dell’Ospedale, Giovanni di Villiers, fu ferito, ma i suoi uomini lo trasportarono al porto e, nonostante le sue proteste, lo caricarono a bordo di una nave. Il giovane re e suo fratello Amalrico si erano già imbarcati. Re Enrico fu più tardi accusato di codardia per avere abbandonato la città, ma, anche rimanendo, non avrebbe potuto far di più, ed era suo dovere verso il regno evitare la cattura. Nel settore orientale Giovanni di Grailly fu ferito, ma Ottone di Grandson assunse il comando: requisì

tutte le navi veneziane che riuscì a trovare e fece salire a bordo Giovanni di Grailly e tutti i soldati che poté salvare; egli stesso s’imbarcò per ultimo. Sui moli c’era una spaventosa confusione: soldati e civili, incluse donne e bambini, si ammucchiavano in barche a remi, cercando di raggiungere le galee che stavano ad una certa distanza dalla riva. L’anziano patriarca Nicola di Hanape, leggermente ferito, venne posto dai suoi fedeli servitori in una piccola imbarcazione, ma per spirito di carità permise a un tal numero di rifugiati di salirvi con lui, che la barca affondò sotto il loro peso e tutti affogarono. Alcuni uomini ebbero la presenza di spirito di impadronirsi saldamente di una barca e di esigere ricompense esorbitanti dai mercanti disperati e dalle donne che affollavano la banchina. L’avventuriero catalano Ruggero Fior, che durante l’assedio aveva combattuto valorosamente come templare, assunse il comando di una galea del suo ordine e pose le basi della propria cospicua fortuna con le somme estorte alle nobildonne di Acri51. Le navi erano troppo scarse per soccorrere i fuggiaschi. Presto i soldati musulmani penetrarono nel cuore della città, trucidando senza distinzione vecchi, donne e bambini. Pochi fortunati cittadini, rimasti nelle loro case, furono lasciati in vita e venduti come schiavi, ma non molti vennero risparmiati. Nessuno poté precisare il numero delle vittime: gli ordini e le grandi case commerciali cercarono più tardi di redigere una lista degli scampati, ma la sorte di gran numero dei loro membri rimase ignota. Certi viaggiatori che passarono per l’Oriente negli anni successivi dissero di avere visto templari rinnegati che vivevano miseramente al Cairo ed altri templari che lavoravano come boscaioli nelle vicinanze del Mar Morto. Alcuni prigionieri furono liberati e tornarono in Europa dopo nove o dieci anni di prigionia. Si disse che gli schiavi che erano stati cavalieri e i loro discendenti fossero trattati dai loro padroni con un certo rispetto; molte donne e bambini sparirono per sempre negli harem di emiri mamelucchi. Per l’abbondanza dell’offerta, il prezzo di una ragazza sul mercato di schiavi di Damasco scese ad una dracma a testa. Ma il numero dei cristiani uccisi fu ancora maggiore52. Già nella notte del 18 maggio tutta Acri era nelle mani del sultano, ad eccezione del grande edificio dei templari, aggettante sul mare all’estremità nordoccidentale della città; i cavalieri dell’ordine sopravvissuti vi si erano rifugiati insieme con un certo numero di cittadini. Per parecchi giorni le sue enormi mura sfidarono il nemico, ed alcune navi che avevano sbarcato i profughi a Cipro tornarono in suo aiuto. Dopo quasi una settimana al-Ashraf offrì al maresciallo dell’ordine, Pietro di Sevrey, il permesso di imbarcarsi per Cipro con tutti coloro che si trovavano nella fortezza e con tutti i loro beni, in cambio della resa del forte. Pietro accettò le condizioni ed un emiro e un centinaio di mamelucchi furono ammessi nella fortezza per sorvegliare l’esecuzione degli accordi, mentre il vessillo del sultano veniva innalzato sulla torre. Ma i soldati erano indisciplinati e cominciarono a molestare i difensori, impadronendosi delle donne e dei ragazzi cristiani. Furibondi per questo fatto, i cavalieri si gettarono sui musulmani massacrandoli ed abbatterono la bandiera nemica, pronti a resistere fino alla morte. Scesa la notte, Pietro di Sevrey mandò al castello di Sidone, per mezzo di barche, il tesoro dell’ordine con il suo comandante, Tibaldo Gaudin, e pochi non combattenti. Il giorno seguente al-Ashraf, vedendo la solidità del castello ed il disperato coraggio della sua guarnigione, offrì le stesse condizioni onorevoli di prima. Pietro e pochi compagni uscirono con un salvacondotto per discutere la resa, ma appena raggiunsero la tenda del sultano furono afferrati, legati e immediatamente decapitati. Quando i difensori sulle mura videro ciò che era successo chiusero di nuovo la porta e continuarono a combattere, ma non poterono impedire ai genieri musulmani di avvicinarsi strisciando all’edificio e scavarvi sotto una grossa mina. Il 28 maggio tutto il lato dell’edificio verso la terraferma cominciò a crollare; al-Ashraf, impaziente, gettò

duemila mamelucchi nella breccia che si stava aprendo. Il loro peso fu eccessivo per le fondamenta che stavano cedendo. Mentre combattevano per riuscire a penetrarvi, l’intero edificio precipitò al suolo, uccidendo insieme difensori ed assalitori tra le sue enormi macerie53. Appena Acri fu in suo possesso, il sultano ne iniziò la distruzione sistematica. Era ben deciso a che mai più potesse essere una testa di ponte per un attacco cristiano in Siria. Le case e i bazar furono saccheggiati e incendiati; gli edifici appartenenti agli ordini, le torri e i castelli fortificati furono smantellati; le mura della città furono lasciate cadere in rovina. Quando il pellegrino tedesco Ludolfo di Suchem passò per quei luoghi circa quarant’anni dopo, soltanto pochi miserabili contadini vivevano tra le rovine di quella che era stata la splendida capitale di «Outremer». Vi rimanevano in piedi, non completamente distrutte, una o due chiese, ma il bellissimo ingresso della chiesa di Sant’Andrea era stato asportato per adornare la moschea costruita al Cairo in onore del sultano vittorioso; tra le cadenti mura della chiesa di San Domenico la tomba del domenicano Giordano di Sassonia era intatta, perché i musulmani che l’avevano aperta, avevano scoperto che il suo corpo non si era decomposto54. Le restanti città franche condivisero ben presto la sorte di Acri. Il 19 maggio, quando la maggior parte della capitale si trovava nelle mani di al-Ashraf, questi inviò un numeroso contingente di truppe a Tiro: era la più forte città della costa, inespugnabile per un nemico che non avesse il dominio del mare. In passato, per due volte le sue mura avevano fermato Saladino stesso. Pochi mesi prima, la principessa Margherita a cui apparteneva la città, l’aveva ceduta a suo nipote Amalrico, fratello del re. Ma la guarnigione era piccola e all’avvicinarsi del nemico Adamo di Cafran, bali di Amalrico, perse la testa e salpò per Cipro abbandonando la città senza combattere55. A Sidone, i templari decisero di opporre resistenza. Tibaldo Gaudin vi si trovava con il tesoro dell’ordine e i cavalieri sopravvissuti lo avevano eletto gran maestro per succedere a Guglielmo di Beaujeu. Furono lasciati in pace per un mese, poi un enorme esercito mamelucco si avvicinò, agli ordini dell’emiro Shujai. I cavalieri erano troppo pochi per difendere la città; si ritirarono perciò con molti eminenti cittadini nel Castello del mare, costruito su un’isola rocciosa ad un centinaio di metri dalla spiaggia e rifortificato di recente. Tibaldo fece subito vela per Cipro per reclutare truppe con cui soccorrere il castello, ma quando vi fu arrivato, o per viltà o per disperazione, non fece nulla. I templari del castello combatterono eroicamente, ma quando i genieri mamelucchi cominciarono a costruire un terrapieno attraverso il braccio di mare, abbandonarono ogni speranza e, navigando lungo la costa, risalirono a Tortosa. Il 14 luglio Shujai entrò nel castello e ne ordinò la distruzione56. Una settimana dopo Shujai apparve davanti a Beirut. I cittadini avevano sperato che il trattato stipulato tra donna Eschiva ed il sultano li salvasse da un attacco, perciò, quando l’emiro ordinò ai capi della guarnigione di venire a rendergli omaggio, essi obbedirono prontamente, ma vennero fatti prigionieri. Senza capi, la guarnigione non poteva pensare ad organizzare la difesa; i suoi membri si precipitarono verso le navi e fuggirono, portando con sé le reliquie della cattedrale. I mamelucchi entrarono nella città il 31 luglio: le mura e il castello degli Ibelin vennero distrutti e la cattedrale fu trasformata in moschea57. Poco dopo, il 30 luglio, il sultano occupò Haifa senza incontrare resistenza, ed i suoi uomini incendiarono i monasteri sul Monte Carmelo, trucidandone tutti i monaci. Rimanevano ancora le due fortezze dei templari di Tortosa e di Athlit, ma in nessuna delle due le guarnigioni erano abbastanza forti da poter fronteggiare un assedio: Tortosa fu evacuata il 3 agosto, Athlit il 14. Tutto ciò che rimaneva ora ai templari era l’isola fortificata di Ruad, a circa due miglia dalla costa, dirimpetto a

Tortosa. Ne conservarono il possesso per altri dodici anni, abbandonandola soltanto nel 1303, quando l’avvenire e l’esistenza stessa dell’ordine si fecero incerti58. Per alcuni mesi le truppe del sultano percorsero in lungo e in largo le regioni costiere, distruggendo accuratamente ogni cosa che potesse essere di qualche utilità per i franchi, se mai avessero tentato un altro sbarco. I frutteti furono abbattuti, i sistemi di irrigazione posti fuori uso. Soltanto i castelli che si trovavano lontano dalla costa vennero lasciati in piedi, per esempio, il Monte Pellegrino a Tripoli e Marqab sulla sua alta montagna. Lungo il mare c’era la desolazione: i contadini di quelle terre un tempo prospere videro le loro proprietà distrutte e cercarono rifugio nelle montagne; quelli di origine franca si affrettarono ad assimilarsi con gli indigeni, e i cristiani nativi furono trattati poco meglio che gli schiavi. L’antica, compiacente tolleranza dell’Islam non esisteva più; inaspriti dalle lunghe guerre di religione, i vincitori non avevano nessuna misericordia per gli infedeli59. La sorte dei cristiani che trovarono scampo a Cipro non fu molto migliore. Per una generazione essi condussero la vita miserabile di profughi indesiderati, verso i quali diminuiva la simpatia via via che passavano gli anni. Essi servivano soltanto a ricordare ai ciprioti il terribile disastro, ma i ciprioti non avevano bisogno che venisse loro ricordato. Per tutto il secolo seguente le grandi dame dell’isola, quando uscivano di casa, indossavano lunghi mantelli neri che le coprivano dalla testa ai piedi : era il segno del lutto per la fine di «Outremer»60.

Parte quinta Epilogo

Capitolo primo Le ultime crociate

E i savi fra il popolo ne istruiranno molti; ma saranno abbattuti dalla spada e dal fuoco, dalla cattività e dal saccheggio... Daniele, XI, 33

Con la caduta di Acri e con l’espulsione dei franchi dalla Siria il movimento crociato cominciò ad uscire dalla sfera della politica concreta. Anche dopo le riconquiste effettuate da Saladino un secolo prima, i cristiani possedevano ancora grandi fortezze sulla terraferma, come Tiro, Tripoli e Antiochia, che erano le basi a cui un esercito di soccorso poteva appoggiarsi per compiere le sue operazioni. Queste basi ormai non c’erano più: la piccola isola di Ruad, priva d’acqua, non serviva a nulla. Le spedizioni dovevano essere organizzate e rifornite, attraverso il mare, da Cipro. L’unico territorio cristiano ancora esistente era il regno di Armenia in Cilicia; ma il viaggio dalla Cilicia alla Siria era difficile e non ci si poteva fidare del tutto degli armeni. Inoltre, mentre la perdita di Gerusalemme nel 1187 era stata un colpo terribile per la cristianità, tanto repentina giungeva la caduta del regno, nel 1291, invece, tutti sapevano che «Outremer» stava crollando. La sua distruzione provocò dolore e indignazione, ma non causò sorpresa. L’Europa occidentale era dominata, in quel momento, da problemi e dispute interne. Neppure il fervore più ardente avrebbe potuto spingere in Oriente i suoi principi, come era accaduto ai tempi della terza crociata, ed era ancor più difficile lanciare una grande spedizione popolare simile alla prima crociata. I popoli dell’Occidente stavano godendo di un benessere e di una prosperità nuova e non avrebbero ormai più risposto alla predicazione apocalittica di un Pietro l’Eremita con la fede semplice ed ignorante dei loro antenati di due secoli prima. La promessa delle indulgenze non li convinceva più ed erano scandalizzati dal fatto che la guerra santa fosse stata usata per scopi politici. D’altra parte, poiché il grande Impero di Bisanzio si era ridotto a un’ombra, una grande spedizione militare non era più possibile. La fine di «Outremer» era una notizia dolorosa, ma non provocò nessuna reazione violenta. Soltanto papa Niccolò IV cercò di tradurre il suo dolore in azioni concrete; ma non c’era nessuno a cui potesse rivolgersi. Il prestigio del papato era stato menomato dall’insuccesso della guerra siciliana e i re non si preoccupavano più di eseguire gli ordini del pontefice. L’imperatore d’Occidente, il cui potere ecumenico era stato spezzato dal papato, era completamente assorbito dai problemi della Germania, da cui usciva solo per compiere una velleitaria spedizione in Italia. Re Filippo IV di Francia era capace ed attivo, ma, dopo avere liberato il proprio regno dall’intricata guerra siciliana, spendeva le proprie energie per rafforzare a poco a poco l’autorità regale. Edoardo d’Inghilterra era molto impegnato in Scozia. Inoltre, Inghilterra e Francia stavano giungendo nei loro rapporti a una fase di intensa rivalità, che avrebbe dato origine ben presto alla guerra dei Cent’anni. Il sovrano del più forte Stato marinaro del Mediterraneo, Giacomo II di Aragona, insieme con suo fratello Federico, pretendente di Sicilia, era in guerra con il vassallo del papa, Carlo II di Napoli, che in teoria era assai desideroso di collaborare ad una crociata, ma che doveva prima cacciare gli aragonesi dalla Sicilia. Più a oriente l’imperatore bizantino era abbastanza occupato nel tenere a

bada da una parte i turchi, dall’altra le nuove monarchie balcaniche di Bulgaria e Serbia. Inoltre, in quel momento, gli Angioini di Napoli ereditavano le pretese degli spodestati imperatori latini, perciò il papa, che ne era il protettore, non poteva sperare molta simpatia da parte dei greci. Le città marinare italiane erano troppo impegnate ad adattare la loro politica alle mutate circostanze per fare promesse che potessero creare loro altre difficoltà. Il problema toccava più da vicino i re di Cipro e d’Armenia, perché i loro regni si trovavano ora in prima linea e l’uno o l’altro doveva inevitabilmente servire come base per qualsiasi nuova crociata. Ma essi si sforzavano disperatamente di non provocare il sultano. Il re d’Armenia doveva lottare sia contro i turchi, sia contro gli egiziani, e il re di Cipro doveva trovare una soluzione al problema dei profughi. Inoltre ambedue le case reali, ora strettamente imparentate per via di matrimoni, vennero presto turbate da dispute familiari e dalla guerra civile. L’ilkhan di Persia rimaneva un alleato potenziale; ma l’ilkhan Arghun era stato amaramente deluso per l’insuccesso del suo tentativo di spingere l’Occidente all’azione prima della caduta di Acri. Egli non prese altre iniziative. Nel 1295, poco dopo la morte di Arghun, l’ilkhan Ghazzan adottò l’Islam come religione di Stato nell’ilkhanato e si sottrasse al vassallaggio verso il gran khan dell’Oriente. Ghazzan era amico dei cristiani perché era stato allevato dalla Despina Khatun, la nobile moglie dell’ilkhan Abaga, alla quale tutto l’Oriente tributava profonda venerazione; la sua conversione non diminuì affatto il suo odio verso gli egiziani e i turchi. Ma non vennero inviate altre ambascerie mongole a Roma e non ci fu più nessuna speranza che la Persia diventasse una potenza cristiana. C’era, è vero, a Pechino un inviato papale, fra Giovanni da Monte Corvino, ma sebbene questi godesse dell’amicizia di Kubilai, il gran khan non aveva ormai alcun interesse negli affari del Vicino Oriente1. Restavano gli ordini militari. Essi erano stati fondati per combattere a favore del cristianesimo in Terra Santa, e tale continuava ad essere il loro dovere principale. Dopo la caduta di Acri l’Ordine teutonico abbandonò l’Oriente per i suoi possedimenti baltici2, ma i templari e gli ospitalieri stabilirono i loro quartier generali a Cipro, dove, trovandosi nell’impossibilità di adempiere il loro compito specifico, cominciarono ad immischiarsi nella politica locale. Il papa avrebbe probabilmente potuto contare sul loro aiuto per una eventuale spedizione, poiché le loro grandi proprietà sparse per tutta l’Europa suscitavano invidie che avrebbero potuto avere pericolosi sviluppi, se l’esistenza di quelle proprietà non si dimostrava giustificata. Ma il Tempio e l’Ospedale da soli non potevano intraprendere una crociata3. Papa Niccolò, che non era riuscito a scuotere l’Occidente dopo la caduta di Tripoli, fu altrettanto impotente dopo il disastro ben maggiore di Acri. I suoi consiglieri non gli furono di nessun aiuto. Carlo II di Napoli appoggiava la proposta, fatta già alcuni anni prima, secondo cui per porre fine alla rivalità degli ordini militari era necessario fonderli insieme; ma egli pensava che per il momento fosse impossibile un’azione militare in Oriente. Perorava l’idea di un blocco economico contro l’Egitto e la Siria, che sarebbe stato facile da mantenere e che avrebbe danneggiato gravemente il sultano4. Ma anche questo era praticamente irrealizzabile. Nessuna città marinara italiana, provenzale o aragonese avrebbe mai collaborato: la loro prosperità, infatti, dipendeva dal commercio con l’Oriente, che passava in gran parte attraverso i territori del sultano. Se questo commercio fosse davvero cessato, esse non sarebbero più state in grado di mantenere le loro flotte, e i musulmani avrebbero potuto dominare facilmente il Mediterraneo. Disgraziatamente la principale esportazione con cui i cristiani pagavano le merci orientali era costituita da armamenti; ma valeva veramente la pena di privare l’Europa dei vantaggi di tutta questa attività commerciale? La Chiesa poteva ben protestare contro questo abominevole scambio di prodotti, ma gli interessi del commercio erano

ormai più forti della Chiesa. Niccolò IV morì nel 1291, deluso per l’insuccesso dei suoi sforzi5. Nessuno dei suoi successori ottenne risultati migliori. Ma, sebbene mancassero soldati per una crociata, si avvertiva che la cristianità si era coperta di vergogna e questo produsse una nuova ondata di propaganda. Non ne erano più promotori, come un tempo, i predicatori itineranti, ma autori di libri ed opuscoli che tendevano a dimostrare la necessità di una santa spedizione, per la cui condotta ognuno aveva escogitato un proprio progetto. Nel 1291 un frate francescano, Fidenzio da Padova, che in passato il papa aveva spesso impiegato in missioni diplomatiche e che aveva viaggiato in lungo ed in largo per l’Oriente, pubblicò un trattato intitolato Liber de recuperatione Terrae Sanctae, dedicandolo a Niccolò IV. Esso conteneva una dotta storia della Terra Santa, insieme con una discussione sul tipo di esercito necessario per la sua riconquista e sulle diverse strade che questo esercito avrebbe potuto percorrere. Era istruttivo e ben ragionato, ma Fidenzio presupponeva che fosse disponibile un esercito e considerava che il comandante avrebbe fatto la scelta definitiva dell’itinerario6. L’anno seguente, nel 1292, un certo Taddeo da Napoli pubblicò un resoconto della caduta di Acri: una narrazione vivace, intessuta di abbondanti accuse di codardia, rivolte in pratica contro tutti quelli che avevano partecipato agli eventi. La violenza di linguaggio di Taddeo era intenzionale: voleva obbligare l’Occidente a vergognarsi, e spingerlo così a lanciare una nuova crociata; egli terminava il suo libro con un appello al papa, ai principi ed ai fedeli, perché riscattassero la Terra Santa, retaggio dei cristiani7. L’opera di Taddeo ebbe un indubbio influsso sul successivo propagandista, il genovese Galvano di Levanto, medico alla corte papale. Il suo libro, pubblicato intorno al 1294 e dedicato a re Filippo IV di Francia, mescolava paragoni tratti dal gioco degli scacchi e mistiche esortazioni, ed era privo di qualsiasi senso pratico8. Un personaggio molto più importante fu il grande predicatore spagnolo Raimondo Lullo, nato a Maiorca nel 1232 e lapidato a Bugia, nell’Africa settentrionale, nel 1315. Noto soprattutto come mistico, egli fu al tempo stesso un uomo politico pieno di buon senso; conosceva bene l’arabo ed aveva compiuto lunghi viaggi nei paesi musulmani. Intorno al 1295 presentò al papa un memorandum sull’azione necessaria per combattere l’Islam, e nel 1305 pubblicò il suo Liber de fine in cui rielaborò le proprie idee, proponendo un programma realizzabile. Sia i musulmani, sia le Chiese cristiane scismatiche ed eretiche dovevano essere guadagnati, per quanto possibile, mediante l’opera di predicatori bene istruiti, ma allo stesso tempo era necessaria una spedizione armata. Alla sua testa doveva esservi un re, il rex bellator, sotto il cui comando i diversi ordini militari, fusi in un solo nuovo ordine, avrebbero costituito la spina dorsale dell’esercito. Raimondo suggeriva che la crociata cacciasse i musulmani dalla Spagna, poi passasse in Africa avanzando lungo la costa verso Tunisi, quindi sull’Egitto. Ma in seguito sostenne pure l’idea di una spedizione navale, proponendo che Malta e Rodi, con i loro ottimi porti, fossero conquistate e adoperate come basi. Più tardi ancora, sembra aver preferito che la spedizione terrestre togliesse Costantinopoli ai greci e proseguisse attraverso l’Anatolia. L’opera abbonda in consigli pratici sull’organizzazione dell’esercito e della flotta e sul rifornimento di vettovaglie e di materiale bellico, come pure sull’istruzione da dare ai predicatori che dovevano accompagnare la spedizione. È un libro prolisso, che di tanto in tanto si contraddice, ma è opera di un uomo di notevole intelligenza e di grande esperienza, sebbene dimostri una spiacevole intolleranza nel suo atteggiamento verso i cristiani orientali9. Quando Raimondo scrisse questo libro sembrava che realmente si stesse per varare una crociata. Re Filippo di Francia aveva fatto conoscere il suo desiderio di lanciare una spedizione e sia alla corte papale, sia a Parigi si stavano preparando e studiando i piani per la sua condotta. Le vere

intenzioni di Filippo, di spremere, cioè, denaro alla Chiesa servendosi di questo eccellente pretesto, non erano ancora manifeste. Di recente era risultato vincitore nella disputa con papa Bonifacio Vili, il quale aveva dovuto constatare che la tecnica usata contro gli Hohenstaufen era inefficace contro le nuove monarchie dell’Occidente. Papa Clemente V, eletto nel 1305, era un francese: si stabilì ad Avignone, sul confine dei possedimenti del re di Francia, verso il quale mostrò una costante deferenza. Si affrettò a raccogliere memorandum che servissero di guida a lui stesso ed al re10. Il più interessante di questi documenti era destinato ad essere conosciuto soltanto da Filippo. Un avvocato francese, Pierre Dubois, gli presentò un opuscolo, di cui una sola metà doveva essere comunicata ai sovrani d’Europa: li invitava ad unirsi al movimento agli ordini del re di Francia e faceva alcune raccomandazioni sulla strada da seguire e sui mezzi per finanziare la spedizione. I templari sarebbero stati soppressi e le loro proprietà confiscate e si sarebbero istituite tasse di successione per il clero. Egli aggiungeva alcune considerazioni generali sull’opportunità di concedere il matrimonio ai preti e di trasformare i conventi in scuole femminili. La seconda metà, che conteneva consigli riservati per il re, gli suggeriva il modo di assicurarsi il controllo della Chiesa, facendo eleggere nel collegio dei cardinali persone a lui devote, e lo esortava a fondare un impero orientale per affidarlo a uno dei suoi figli11. Poco dopo, nel 1310, il principale consigliere diplomatico di Filippo, Guglielmo Nogaret, inviò al papa un promemoria sulla crociata. Le sue indicazioni di carattere strategico erano scarse, ma poneva l’accento specialmente sulle questioni finanziarie: la Chiesa doveva fornire tutto il denaro necessario e la soppressione dei templari era il primo punto del progetto12. Nello stesso tempo, anche il papa raccoglieva vari consigli. Venne chiesto al principe armeno Hethum (o Hayton di Corico), rifugiatosi in Francia e diventato priore di un’abbazia premostratense nelle vicinanze di Poitiers, di far conoscere il proprio punto di vista. Il suo libro, intitolato Flos historiarum terrae orientis venne pubblicato nel 1307 e fu subito largamente venduto. Conteneva un breve riassunto della storia del Levante, insieme con una discussione ben informata sulle condizioni dell’Impero mamelucco. Hayton raccomandava una duplice spedizione, che viaggiasse per via mare ed avesse le sue basi a Cipro e in Armenia, e propugnava la collaborazione con gli armeni e una stretta alleanza con i mongoli13. Un’opinione simile fu espressa poco più tardi dal diplomatico papale Guglielmo Adam, che aveva viaggiato a lungo in Oriente, e giungendo poi fino in India. Egli aggiungeva il suggerimento che i cristiani mantenessero una flotta nell’Oceano Indiano per ostacolare il commercio dell’Egitto con l’Oriente. Riteneva pure che Costantinopoli dovesse essere riconquistata dai latini14. Guillaume Durant, vescovo di Mende, pubblicò nel 1312 un trattato in cui raccomandava la via marittima e sottolineava l’importanza della composizione della spedizione, specialmente in rapporto alla sua moralità15. Il vecchio ammiraglio genovese Benito Zaccaria, che era stato un tempo podestà di Tripoli, mise per iscritto le sue opinioni sulle forze navali necessarie16. Suggerimenti più pratici furono esposti da tre personalità che avrebbero dovuto avere una parte direttiva in qualsiasi crociata. Nel 1307 i gran maestri del Tempio e dell’Ospedale si trovavano ambedue ad Avignone e papa Clemente richiese il loro parere. Il primo, Giacomo di Molay, inviò subito un rapporto, in cui raccomandava una perlustrazione preliminare dei mari fatta da dieci grandi galee, che doveva essere seguita da un esercito di almeno dodici o quindicimila cavalleggeri e quaranta o cinquantamila fanti. I re dell’Occidente avrebbero potuto raccogliere tutta questa gente senza difficoltà e si sarebbero dovute indurre le repubbliche italiane a fornire il trasporto. Egli disapprovava uno sbarco in Cilicia: la spedizione doveva riunirsi a Cipro e sbarcare sulla costa

siriana17. Quattro anni dopo, al tempo del concilio di Vienne, Folco di Villaret, gran maestro dell’Ospedale, scrisse a re Filippo per comunicargli quali preparativi per la crociata il suo ordine avesse già fatto e quali poteva fare18. Allo stesso tempo re Enrico II di Cipro sottoponeva il proprio punto di vista al concilio: desiderava un blocco economico dell’Impero mamelucco; diffidava con ragione delle repubbliche italiane e faceva pressione affinché la crociata non ne dipendesse per il suo trasporto per mare. Era favorevole ad un attacco contro l’Egitto, poiché era la parte più vulnerabile dei possedimenti del sultano19. Dopo tutti questi memorandum e tutto questo entusiasmo, il fatto che non venisse lanciata nessuna crociata rappresentò una sorpresa e una delusione per tutti, salvo che per re Filippo. Questi aveva raggiunto il suo scopo di trovare un pretesto per farsi dare denaro dalla Chiesa, e ben presto mostrò le sue vere intenzioni attaccando una grande organizzazione il cui aiuto sarebbe stato indispensabile per una crociata20. La perdita di «Outremer» aveva lasciato gli ordini militari in uno stato di incertezza. I cavalieri teutonici risolsero il loro problema concentrando tutte le proprie energie nella conquista delle terre baltiche21. Ma il Tempio e l’Ospedale si trovarono rinchiusi negli stretti limiti di Cipro e non apprezzati nella giusta misura. Gli ospitalieri, più saggi dei templari, cominciarono a guardarsi intorno per trovare un’altra patria. Nel 1306 giunse a Cipro un pirata genovese, Vignolo dei Vignoli, che aveva ottenuto dall’imperatore bizantino Andronico un contratto di affitto delle isole Coo e Lero e propose al gran maestro dell’Ospedale, Folco di Villaret, di conquistare insieme, egli stesso e gli ospitalieri, tutto il Dodecanneso per spartirselo; egli ne avrebbe trattenuto per sé un terzo. Mentre Folco salpava per l’Europa per ottenere l’approvazione del papa sul progetto, una piccola flotta di ospitalieri, aiutati da alcune galee genovesi, compì uno sbarco a Rodi, iniziando l’occupazione dell’isola. La guarnigione greca combatté con valore e soltanto il tradimento fece cadere nel novembre del 1306 la grande fortezza di Philermo nelle mani degli invasori, mentre la città stessa di Rodi resisteva per altri due anni. Alla fine, nell’estate del 1308, una galea inviata da Costantinopoli per la guarnigione venne sospinta verso Cipro dalle tempeste e a Famagosta cadde in potere di un cavaliere cipriota, Filippo le Jaune, che la portò con i suoi passeggeri agli assedianti. Il suo comandante, che era di Rodi, per salvare la propria vita acconsentì a negoziare la resa della città che aprì le sue porte all’ordine il 15 agosto. L’Ospedale stabilì subito il proprio quartier generale nell’isola e fece della città, con il suo ottimo porto, la più solida piazzaforte del Levante. La conquista, compiuta a spese dei greci cristiani, venne salutata in Occidente come un grande trionfo crociato; ed infatti diede all’Ospedale nuovo vigore nonché i mezzi per adempiere la sua missione specifica. Ma i poveri abitanti di Rodi dovettero aspettare più di sei secoli prima di riavere la libertà22. Il Tempio fu meno intraprendente e meno fortunato: aveva sempre provocato maggiori inimicizie che l’Ospedale; era più ricco e per molto tempo era stato il più importante banchiere ed usuraio dell’Oriente, svolgendo con successo una professione che non suscita simpatie; la sua politica era sempre stata notoriamente egoistica e irresponsabile. Sebbene i suoi cavalieri avessero sempre combattuto valorosamente in tempo di guerra, le loro attività bancarie li avevano messi in stretti rapporti con i musulmani. Molti di loro avevano amici fra i maomettani e si interessavano alla loro religione e alla loro cultura. Correvano dicerie secondo le quali, rinchiuso tra le mura dei suoi castelli, l’ordine studiasse una strana filosofia esoterica e si abbandonasse a cerimonie macchiate d’eresia. Si diceva che esistessero riti di iniziazione allo stesso tempo sacrileghi e indecenti; si

sussurrava di orge in cui si praticavano atti contro natura. Sarebbe poco saggio respingere queste voci come calunnie del tutto infondate dei nemici; probabilmente c’era in esse quel tanto di vero che bastava per indicare su quale linea un attacco contro l’ordine poteva riuscire più convincente23. Quando Giacomo di Molay andò in Francia nel 1306 per discutere con papa Clemente il progetto di crociata, udì circolare accuse contro il suo ordine, per cui chiese una pubblica inchiesta. Il papa esitava: si era reso conto che re Filippo era deciso a sopprimere l’ordine e non osava offenderlo. Nell’ottobre del 1307 Filippo arrestò improvvisamente tutti i templari che si trovavano in Francia, facendoli processare per eresia sulla base di accuse formulate da due cavalieri di cattiva reputazione, espulsi dall’ordine. Gli accusati resero le loro deposizioni sotto la tortura; e sebbene alcuni pochi negassero fermamente ogni cosa, la maggior parte furono pronti a fare tutte le ammissioni richieste. La primavera seguente, su domanda di Filippo, il papa ordinò a tutti i sovrani nei cui territori i templari possedessero beni, di arrestarli e di iniziare processi dello stesso genere. Dopo alcune esitazioni, i vari re d’Europa acconsentirono, eccetto il portoghese Dionigi che non volle aver nulla a che vedere con quella triste faccenda. In tutti gli altri paesi i beni dei templari furono confiscati e i cavalieri trascinati davanti a tribunali. Non sempre si fece uso della tortura, ma c’era una formula fissa di interrogatorio: gli accusati sapevano che cosa ci si aspettava che confessassero e molti di loro si prestarono alle accuse24. Al papa importava in modo particolare che anche il governo cipriota collaborasse, poiché il quartier generale dell’ordine si trovava nell’isola. Ma in quel momento era al potere il fratello di Enrico II, Amalrico, che aveva temporaneamente spodestato il re con l’aiuto dei templari. Il priore Hayton giunse da Avignone nel maggio del 1308 con una lettera del papa che ordinava l’arresto immediato dei cavalieri, essendo stato dimostrato che essi erano miscredenti. Amalrico indugiò nell’eseguire l’ordine e i templari, al comando del loro maresciallo Aymé di Oselier, ebbero il tempo di prepararsi alla difesa, ma, dopo un breve ricorso alla forza delle armi, si arresero il 1° giugno. Il loro tesoro, a eccezione di una parte cospicua che essi nascosero tanto bene che non fu più ritrovata, venne portato da Limassol al palazzo di Amalrico a Nicosia, e i cavalieri stessi furono posti sotto sorveglianza, dapprima a Khirokhitia e Yourmasoyia, poi a Lefkara, dove rimasero per tre anni. Nel maggio del 1310, dopo che re Enrico II fu reintegrato al potere, i templari ciprioti vennero finalmente portati in giudizio per le pressanti insistenze del papa. In Francia molti dei loro confratelli erano già stati arsi sul rogo e in tutta Europa i membri dell’ordine erano imprigionati o destituiti. Re Enrico non aveva nessuna simpatia per i cavalieri che avevano tradito la sua causa pochi anni prima, ma concesse loro un processo equo. Settantasei di loro furono accusati, e tutti respinsero le accuse. Importanti testimoni giurarono sulla loro innocenza e uno dei pochi testimoni a carico dichiarò che era giunto a sospettare di loro soltanto dopo avere ricevuto la relazione papale sui loro delitti. Furono assolti con formula piena. Quando la notizia del loro proscioglimento giunse ad Avignone, il papa adirato scrisse a re Enrico per ordinare un secondo processo e inviò un suo delegato personale, Domenico da Palestrina, per controllare che giustizia fosse fatta secondo i suoi criteri. Del risultato di questo secondo processo, che ebbe luogo nel 1311, non esistono documenti. Il papa aveva ordinato che, se ci fosse stato il pericolo di un’altra assoluzione, Domenico si assicurasse l’aiuto dei priori dei domenicani e dei francescani per fare applicare la tortura, ed il legato papale in Oriente, Pietro vescovo di Rodez, venne spedito a Cipro per collaborare con Domenico. Sembra che per tale motivo il re sospendesse l’esecuzione del verdetto, tenendo gli accusati in prigione. Essi vi si trovavano ancora nel 1313, quando Pietro di Rodez lesse davanti a tutti i vescovi e alle più alte gerarchie ecclesiastiche dell’isola il decreto papale del 12 marzo 1312, con cui veniva soppresso l’intero

ordine e tutte le sue ricchezze e possedimenti venivano consegnati agli ospitalieri, dopo che le autorità civili si fossero indennizzate delle spese dei vari processi. I re di tutta l’Europa dichiararono che queste spese erano state eccezionalmente alte e l’Ospedale ricevette poco più che i beni immobili. Gli ufficiali del Tempio in Cipro non vennero mai rilasciati, ma furono più fortunati del loro gran maestro che, dopo anni di prigione e di torture e dopo molte confessioni e ritrattazioni, fu arso sul rogo a Parigi nel marzo del 131425. Con la soppressione dei templari e l’emigrazione degli ospitalieri a Rodi il regno cipriota rimase l’unico governo cristiano vivamente interessato alla Terra Santa. Il re era di nome re di Gerusalemme e per molte generazioni avvenire i sovrani, dopo aver ricevuto la corona cipriota a Nicosia, cingevano quella di Gerusalemme a Famagosta, la città più vicina al loro perduto territorio. Inoltre la costa siriana era strategicamente importante per Cipro: un nemico aggressivo poteva mettere in pericolo la sua stessa esistenza. Per fortuna il sultano temendo una nuova crociata preferiva che i porti siriani rimanessero in abbandono. Tuttavia Cipro era in pericolo costante a causa dell’Egitto. Pensando che l’attacco fosse la miglior difesa, re Enrico aveva inviato nel 1292 quindici galee, aiutate da altre dieci del papa, per compiere un’incursione contro Alessandria. Fu uno sforzo inutile ed ebbe come unico risultato di decidere al-Ashraf a conquistare l’isola. «Cipro! Cipro! Cipro!» egli gridava, mentre ordinava la costruzione di un centinaio di galee. Ma aveva anche altri progetti: suo primo obiettivo era sbaragliare i mongoli e occupare Bagdad. La sua ambizione allarmò i suoi emiri, che lo assassinarono il 13 dicembre 1293. Fu una ben misera ricompensa per il risoluto giovane principe che aveva completato l’opera di Saladino e cacciato dalla Siria gli ultimi franchi26. Al-Ashraf aveva avuto ragione di ricordarsi dei mongoli. Nel 1299, durante il regno, così spesso interrotto, del sultano mamelucco an-Nasir Mohammed, il sovrano mongolo Ghazzan, che aveva cambiato il suo titolo di ilkhan per quello di sultano, invase la Siria e il 23 dicembre sbaragliò l’esercito dei difensori mamelucchi a Salamia, vicino a Homs. Nel gennaio del 1300 Damasco gli si arrese, accettandone la sovranità. Fece ritorno in Persia il mese seguente, annunziando che sarebbe tornato ben presto per conquistare l’Egitto. Sebbene musulmano, Ghazzan avrebbe accolto con piacere alleati cristiani. Alla notizia dell’invasione, Raimondo Lullo si precipitò in Siria, ma era troppo tardi per incontrarvi il sovrano mongolo. Ritornò a Cipro per chiedere al re di aiutarlo a proseguire il viaggio per visitare i governanti musulmani in una missione evangelica. Re Enrico, che non era d’accordo sull’idea che l’amicizia degli infedeli si guadagnasse più facilmente sottolineando i loro errori, ignorò la sua richiesta. Una presa di contatto più diplomatica sarebbe stata utile, ma non si fece nulla e l’occasione favorevole venne a mancare quando l’esercito mongolo fu sconfitto nel 1303 a Marj as-Saffar. Cinque anni dopo, nel 1308, Ghazzan penetrò di nuovo in Siria, e questa volta si spinse fino a Gerusalemme. Si diceva che egli avrebbe consegnato volentieri la Città Santa ai cristiani, se qualche nazione dell’Occidente gli avesse offerto la sua alleanza. Ma, sebbene in quel momento il papa e re Filippo di Francia facessero molta propaganda per il loro progetto di crociata, l’Occidente non fece ai mongoli nessuna offerta di trattative, mentre Cipro era ridotta all’impotenza per la lotta tra re Enrico e suo fratello. Ad ogni modo Ghazzan, da buon neofita musulmano, avrebbe trovato difficile mantenere una tale promessa27. Alla sua morte, nel 1316, svanirono le possibilità di un’alleanza tra mongoli e cristiani. Il suo nipote e successore, Abu Said, cambiò atteggiamento, cercando una riconciliazione con l’Egitto. Fu l’ultimo grande sovrano mongolo della Persia: quando morì nel 1335 il suo Stato cominciò a disgregarsi28. Nonostante il suo apparente isolamento, il regno di Cipro non si trovava ancora in presenza di un pericolo immediato. Il sultano, anche se non era più preoccupato dai mongoli, non aveva una forza

navale sufficiente per rischiare una spedizione contro l’isola e non aveva nessun desiderio di offendere le repubbliche italiane, perché anch’egli ricavava grandi profitti dal loro commercio. Conquistò ai templari Ruad nel 1302, ma, finché Cipro non diventava la base di una nuova crociata, preferiva lasciarla in pace. Da parte sua il governo cipriota tentò, per quanto lo permettevano le gelosie personali e dinastiche, di mantenersi in stretti rapporti con i re armeni di Cilicia e con i re di Aragona e di Sicilia, le cui flotte incutevano rispetto29. Quando il gran parlare di una crociata, suscitato da Filippo di Francia, si spense nel nulla, seguì un intervallo di calma; ma la discussione venne ravvivata verso l’anno 1330 da Filippo VI. Le sue intenzioni erano molto più sincere di quelle di suo zio ed erano incoraggiate da papa Giovanni XXII. Una volta ancora vennero presentati vari memorandum alla corte papale e a quelle reali. Il medico della regina di Francia, Guido da Vigevano, scrisse una breve relazione sugli armamenti necessari 30. Un progetto più lungo e più particolareggiato fu inviato al re da un certo Burcardo, un ecclesiastico che aveva lavorato in Cilicia per ottenere la riunione della Chiesa armena con Roma. I suggerimenti di Burcardo erano numerosi ma inutili, perché egli mostrava molta più animosità contro i cristiani eretici e scismatici che contro i musulmani, e stimava che la conquista della Serbia ortodossa e di Bisanzio fosse parte essenziale di una crociata. Ma i suoi progetti non dovevano essere messi alla prova: prima che si potesse lanciare qualsiasi crociata il re di Francia si trovò coinvolto nelle ostilità che diedero inizio alla guerra dei Cent’anni contro l’Inghilterra31. Un programma più pratico, che non richiedeva nessuna grande spedizione militare, era stato pubblicato nel frattempo dallo storico Marino Sanudo. Appartenente alla famiglia ducale di Nasso, egli aveva sangue greco nelle vene, era un acuto osservatore e un pioniere nel campo delle statistiche. La sua Secreta fidelium crucis, che apparve intorno al 1321, conteneva una storia delle crociate influenzata in qualche misura da propositi propagandistici, ma aveva come oggetto principale una particolareggiata analisi della situazione economica del Levante. Si rendeva conto che il modo migliore per indebolire l’Egitto era un blocco economico, ma comprendeva che era impossibile sopprimere improvvisamente il commercio con l’Oriente; bisognava invece trovare altre vie commerciali ed altre fonti di rifornimenti. La sua analisi era profonda e i suoi suggerimenti lungimiranti e di vasto raggio, ma applicabili soltanto se tutte le potenze europee avessero collaborato insieme; e questo ormai era diventato impossibile32. In realtà, si fece ancora un solo tentativo per liberare la Terra Santa dagli infedeli. Nel 1259 sali al trono cipriota Pietro I: era il primo monarca, dai tempi di san Luigi di Francia, mosso da un ardente e irresistibile desiderio di combattere la guerra santa. Da giovane aveva fondato un nuovo ordine cavalleresco, i cavalieri della Spada, i quali avevano tra i loro propositi dichiarati anche quello di riconquistare Gerusalemme, ed aveva sfidato la collera di suo padre, re Ugo IV, tentando di fare un viaggio in Occidente al fine di reclutare soldati per la sua crociata. Le prime guerre che sostenne come re furono dirette contro i turchi dell’Anatolia, dove poté stabilire un punto d’appoggio, acquistando dagli armeni la fortezza di Corico. Nel 1362 partì per un viaggio attraverso tutta la cristianità, allo scopo di mandare avanti il suo progetto principale. Dopo avere visitato Rodi, dove ottenne una promessa di aiuti da parte dell’Ospedale, salpò per Venezia, rimanendovi fino al Capodanno del 1363. I veneziani si dimostrarono ufficialmente favorevoli ai suoi piani. Dopo essere passato da Milano, andò a Genova, dove si occupò di appianare alcune controversie che esistevano tra il suo regno e la repubblica, e ricevette una vaga promessa di appoggio dai genovesi. Giunse ad Avignone il 9 marzo 1363, pochi mesi dopo l’ascesa al pontificato di papa Urbano V. Per prima cosa dovette difendere il proprio diritto al trono contro suo nipote Ugo, principe di Galilea, figlio del suo

defunto fratello maggiore. Ugo ricevette in compenso una pensione annua di cinquantamila bisanti. Mentre Pietro si trovava ad Avignone, re Giovanni II di Francia, di passaggio per quella città, gli promise la più fervida collaborazione. I due re si fecero crociati assieme in aprile e molti membri della nobiltà francese e cipriota li imitarono. Nello stesso tempo il papa predicava la guerra santa e designava come proprio legato il cardinale Talleyrand. Poi Pietro fece un giro attraverso le Fiandre, il Brabante e la Renania; in agosto andò a Parigi per vedere ancora una volta re Giovanni: decisero che la crociata sarebbe stata lanciata nel marzo seguente. Da Parigi Pietro andò a Rouen e a Caen, e salpò per l’Inghilterra. Rimase circa un mese a Londra, dove venne organizzato in suo onore un grande torneo a Smithfield. Re Edoardo III gli donò una bella nave, la Catherine, e una somma di denaro per coprire tutte le sue spese recenti, ma sfortunatamente durante il suo viaggio di ritorno verso la costa fu derubato dai banditi. Tornò a Parigi per Natale, recandosi poi al sud, in Aquitania, per incontrarsi con il Principe Nero a Bordeaux. Durante il suo soggiorno in questa città, apprese con grande dolore la notizia della morte del cardinale Talleyrand, avvenuta nel gennaio del 1364, poi quella di re Giovanni in maggio. Partecipò al funerale di Giovanni a Saint-Denis e all’incoronazione del suo successore, Carlo V, a Reims, poi si recò in Germania. I cavalieri e i cittadini di Esslingen e di Erfurt si offrirono di unirsi alla sua crociata, ma il margravio di Franconia e Rodolfo II, duca di Sassonia, pur ricevendolo con onore, dichiararono che la loro decisione dipendeva dall’imperatore. Egli si recò dunque con Rodolfo a Praga, dove risiedeva l’imperatore Carlo IV. Questi si dichiarò entusiasta ed invitò Pietro ad accompagnarlo a Cracovia, per partecipare a un incontro con i re di Ungheria e di Polonia. In quell’occasione si convenne di inviare una lettera a tutti i principi dell’Impero per chiedere loro di collaborare alla guerra santa. Dopo avere visitato Vienna, dove Rodolfo IV, duca d’Austria, gli promise altri aiuti, Pietro tornò a Venezia nel novembre del 1364. Poiché poco tempo prima le sue truppe avevano aiutato i veneziani a reprimere una rivolta a Creta, vi fu accolto con i più alti onori e vi rimase fino alla fine di giugno del 1365. In quel periodo firmò con Genova un trattato che appianava tutte le più importanti controversie33. Nel frattempo papa Urbano continuava instancabilmente a scrivere ai principi d’Europa per esortarli ad unirsi alla spedizione, e i suoi sforzi erano assecondati con energia dal nuovo legato papale per l’Oriente, Pietro di Salignac de Thomas, patriarca nominale di Costantinopoli, un uomo di una rigorosa coerenza, ugualmente avverso agli scismatici, agli eretici e agli infedeli, ma anche di un fervore religioso che suscitava rispetto persino tra coloro che egli perseguitava. Collaborava con lui il suo pupillo Filippo di Mezières, amico intimo di re Pietro, che lo aveva nominato cancelliere di Cipro. Ma la somma dei loro sforzi non diede come risultato il numero di reclute che re Pietro sperava e che gli erano state promesse. Nessun tedesco si offrì, né si fece avanti alcuno dei più grandi nobili di Francia o d’Inghilterra o dei paesi vicini, a eccezione di Aymé, conte di Ginevra, di Guglielmo Ruggero, visconte di Turenne, e del conte di Hereford. Tuttavia molti cavalieri di rango inferiore venivano persino da paesi lontani come la Scozia, e già prima che re Pietro lasciasse Venezia, vi si era raccolto un numeroso e agguerrito esercito. Il contributo veneziano fu particolarmente utile, ma i genovesi si tennero in disparte34. Si decise che la crociata si sarebbe raccolta a Rodi nell’agosto del 1365, ma la sua ulteriore destinazione fu tenuta segreta. Sarebbe stato troppo pericoloso correre il rischio che qualche commerciante veneziano ne informasse i musulmani. Re Pietro giunse a Rodi al principio del mese e il 25 agosto l’intera flotta cipriota entrò nel porto. Erano in tutto cento otto vascelli, galee, navi da trasporto e mercantili e scafi più leggeri. Con le grandi galee dei veneziani e quelle fornite dall’Ospedale la flotta totalizzava centosessantacinque navi. Trasportavano un carico completo di

uomini, con gran quantità di cavalli, provviste ed armi. Dal tempo della terza crociata non era partita per la guerra santa una simile spedizione, e sebbene ci fosse una certa delusione perché nessuno dei grandi monarchi dell’Occidente era presente, d’altra parte c’era il vantaggio che re Pietro ne era il capo indiscusso. In ottobre scrisse alla regina sua moglie, Eleonora d’Aragona, che tutto era pronto. Al tempo stesso emanò un ordine con cui invitava tutti i suoi sudditi residenti in Siria a tornare in patria, vietando loro di esercitare il commercio in quel paese. Desiderava che si credesse che la sua meta era la Siria35. Il 4 ottobre, dalla galea reale, il patriarca Pietro predicò un infuocato sermone a tutti i marinai riuniti e tutti quanti esclamarono: «Vivat, vivat Petrus, Jerusalem et Cypri rex, contra saracenos infideles». Quella stessa sera la flotta levò le ancore: quando tutte le navi si trovarono al largo fu annunziato che la meta era Alessandria d’Egitto. Una volta presa la decisione di attaccare il sultano, la scelta di Alessandria come obiettivo era intelligente. Sarebbe stato impossibile, infatti, tentare l’invasione della Siria o della Palestina senza possedere una base sulla costa; inoltre, ad eccezione di Tripoli, i porti che vi si trovavano erano stati deliberatamente distrutti dagli egiziani. L’esperienza del passato insegnava invece che quando il sovrano egiziano aveva perduto Damietta, si era mostrato disposto a offrire Gerusalemme in cambio. Alessandria era una preda più ricca di Damietta e chi l’avesse conquistata avrebbe potuto ricavarne una contropartita ancora più vantaggiosa. Sarebbe stata poi una base eccellente per un’ulteriore avanzata, poiché senza dubbio disponeva di abbondanti scorte di viveri e i canali ne rendevano facile la difesa verso la terraferma. Al suo porto, inoltre, faceva capo tutto il commercio estero del sultano, il quale, perdendo Alessandria, avrebbe visto tutti i propri territori esposti a un drastico blocco economico. Era anche poco probabile che egli sospettasse un attacco contro una città dove i commercianti cristiani avevano così vasti interessi. Infine, il momento era ben scelto: il sultano regnante, Shaban, era un ragazzo di undici anni, ma il potere era nelle mani dell’emiro Yalbogha, odiato dagli altri emiri suoi colleghi e dal popolo. Il governatore di Alessandria, Khalil ibn Arram, era assente, trovandosi in pellegrinaggio alla Mecca, e il suo sostituto, Janghara, era un giovane ufficiale che disponeva di una guarnigione assolutamente insufficiente. È vero che le mura di Alessandria erano notoriamente solide. Anche se fossero stati conquistati i due porti e la penisola del Faro che li divideva, restavano ancora da conquistare le grandi fortificazioni lungo la banchina del porto. La flotta giunse davanti ad Alessandria nella serata del 9 ottobre. Gli abitanti pensarono dapprima che si trattasse di una grande flotta mercantile e si disposero per le consuete transazioni commerciali. Soltanto la mattina seguente, quando le navi entrarono nel porto occidentale, anziché in quello orientale che era l’unico aperto ai vascelli cristiani, le intenzioni dei nuovi arrivati si fecero evidenti. Il sostituto governatore, Janghara, si affrettò a concentrare i suoi uomini sulla spiaggia per impedire uno sbarco, ma, nonostante il valore di alcuni soldati magrebini, i cavalieri cristiani riuscirono ugualmente a scendere a terra. Mentre i mercanti indigeni uscivano a frotte dalle porte della città verso l’entroterra, Janghara si ritirò all’interno delle mura, raccogliendo la sua piccola guarnigione per difendere il settore che fronteggiava la zona dello sbarco. Re Pietro aveva intenzione di interrompere l’attacco per poter sbarcare a suo agio tutti i suoi uomini ed i cavalli sulla penisola del Faro. Ma quando tenne consiglio con i suoi comandanti, scoprì che molti di loro non approvavano la scelta di Alessandria come obiettivo: erano troppo pochi, dicevano, sia per tenere una piazzaforte così grande, sia per avanzare sul Cairo; desideravano reimbarcarsi per qualche altra destinazione, ma sarebbero rimasti, a condizione che si prendesse subito d’assalto la città, prima che il sultano potesse inviare truppe in soccorso. Pietro si trovò costretto ad accondiscendere ai loro desideri e l’assalto cominciò immediatamente: fu lanciato contro il muro occidentale, come Janghara

si era aspettato; ma, incontrando una forte resistenza, gli assalitori si volsero contro la sezione che fronteggiava il porto orientale. Dal lato interno delle mura il passaggio tra le due sezioni attraversava il grande edificio della Dogana ed un doganiere troppo zelante, temendo ruberie, ne aveva barricato le porte; Janghara non poté spostare i suoi uomini in tempo per fronteggiare il nuovo attacco. Credendo perduta la città, le truppe musulmane cominciarono a disertare, fuggendo per le vie che conducevano alle porte meridionali e verso la salvezza. A mezzogiorno del venerdì 10 ottobre i crociati erano saldamente stabiliti nell’interno della città, ma per le vie continuavano i combattimenti. In quella stessa notte ci fu un duro contrattacco musulmano attraverso una delle porte meridionali che i cristiani, nella loro eccitazione, avevano incendiato e distrutto. Fu respinto, e il sabato pomeriggio tutta Alessandria si trovava nelle mani dei crociati. La vittoria fu celebrata con una brutalità senza paragone. Due secoli e mezzo di guerra santa non avevano certo insegnato ai crociati sentimenti di umanità. Ma questi massacri furono paragonabili soltanto a quelli di Gerusalemme del 1099 e di Costantinopoli del 1204: i musulmani erano stati meno crudeli ad Antiochia e ad Acri. Le ricchezze di Alessandria erano enormi e i vincitori persero la testa davanti a un bottino così colossale. Non risparmiarono nessuno: i cristiani indigeni e gli ebrei ebbero a soffrire tanto quanto i maomettani, e perfino i mercanti europei stabiliti nella città videro le loro fabbriche e i loro magazzini spietatamente saccheggiati. Moschee e tombe furono depredate e i loro ornamenti asportati o distrutti; anche le chiese vennero saccheggiate, sebbene una coraggiosa copta riuscisse a salvare una parte dei tesori della sua setta con il sacrificio dei propri averi personali. Si forzarono le case private e i capifamiglia che non consegnavano immediatamente tutti ì loro beni venivano trucidati insieme con i loro familiari. Circa cinquemila prigionieri, cristiani, ebrei e musulmani, furono presi per essere venduti schiavi. Una lunga fila di cavalli, asini e cammelli trasportavano il bottino alle navi nel porto e qui, avendo terminato il loro compito, venivano uccisi. Tutta la città era appestata dal fetore dei cadaveri degli uomini e degli animali. Re Pietro tentò invano di ristabilire l’ordine: egli aveva sperato di conservare il possesso della città e, poiché i crociati ne avevano incendiato le porte, demolì il ponte sul quale la strada per il Cairo attraversava il grande canale. Ma ormai i crociati desideravano soltanto portare in patria il bottino al più presto possibile: un esercito stava arrivando dalla capitale ed essi non desideravano correre il rischio di una battaglia. Perfino il fratello del re affermò che era impossibile difendere la città, mentre il visconte di Turenne e la maggior parte dei cavalieri inglesi e francesi dichiararono apertamente di non volere trattenersi oltre. Vane furono le proteste di Pietro e del legato: il giovedì 16 ottobre rimanevano in città soltanto poche truppe cipriote, mentre il resto della spedizione era già tornato sulle navi, pronto a partire. Poiché gli egiziani avevano già raggiunto i sobborghi, Pietro stesso si imbarcò sulla sua galea e diede l’ordine della partenza. Il carico delle navi era talmente eccessivo che si dovettero buttare a mare molti oggetti più pesanti del bottino. Per mesi e mesi palombari egiziani continuarono a recuperare oggetti preziosi dai bassifondi davanti ad Abukir36. Pietro e il legato avevano sperato che, una volta messa in salvo a Cipro la preda, i crociati sarebbero partiti nuovamente con il re per un’altra spedizione. Ma appena giunti a Famagosta tutti cominciarono a fare preparativi per il viaggio di ritorno ai propri paesi, in Occidente. Il legato si disponeva a seguirli per reclutare altri soldati che li sostituissero, ma cadde mortalmente ammalato prima di poter lasciare l’isola. Di ritorno a Nicosia, per quanto addolorato per l’esito finale, re Pietro celebrò un Te Deum di ringraziamento. Nella sua relazione al papa egli parlava del proprio trionfo, ma non taceva anche la propria amara delusione37. Le notizie del sacco di Alessandria provocarono in Occidente reazioni diverse. Lo si celebrò

dapprima come un trionfo militare e un’umiliazione per l’Islam. Il papa era molto soddisfatto, ma si rese conto che Pietro doveva ricevere immediatamente rinforzi che prendessero il posto dei disertori. Re Carlo di Francia promise di inviare un esercito. Il più famoso dei suoi cavalieri, Bertrando du Guesclin, si fece crociato e Amedeo VI di Savoia, noto nel mondo cavalleresco come il Conte Verde, allora in procinto di compiere un viaggio in Oriente, decise di salpare per Cipro. Ma in quel momento i veneziani annunziarono che Pietro aveva fatto la pace con il sultano: re Carlo richiamò il suo esercito, du Guesclin andò a combattere in Spagna e Amedeo a Costantinopoli 38. I veneziani, a differenza del papa, non erano stati contenti del risultato della crociata. Avevano sperato di usarla per rafforzare la propria influenza commerciale nel Levante; invece le loro grandi proprietà ad Alessandria erano andate distrutte e tutto il loro commercio con l’Egitto era stato interrotto. Il sacco di Alessandria li mandò quasi in rovina come potenza commerciale, con grande gioia dei genovesi la cui astensione veniva così ricompensata. Ben presto tutto l’Occidente soffri le conseguenze della crociata: il prezzo delle spezie e della seta e di altre merci orientali, a cui il pubblico si era ormai abituato, sali alle stelle, poiché le scorte si esaurivano e non venivano rinnovate39. Pietro aveva effettivamente intavolato trattative con gli egiziani, ma le due parti erano troppo inasprite per desiderare la pace. Mentre l’emiro Yalbogha, ostacolato dalla propria impopolarità in Egitto, cercava di guadagnar tempo, finché avesse potuto costruire una flotta per invadere Cipro, Pietro avanzava spropositate richieste di cessione della Terra Santa e le faceva seguire da scorrerie sulle coste siriane. Ma la sua mania di crociate cominciò ad allarmare i suoi sudditi, i quali temettero che, continuando cosi, le risorse dell’isola si esaurissero per una causa disperata. Quando nel 1369 un cavaliere con cui Pietro aveva avuto una lite, progettò di assassinarlo, nemmeno i suoi stessi fratelli mossero un dito per salvarlo. L’anno dopo la sua morte venne firmato un trattato con il sultano: vi fu uno scambio di prigionieri e tra Cipro e l’Egitto si stabilì una pace precaria40. L’ecatombe avvenuta ad Alessandria segna la fine di quelle crociate il cui scopo preciso era la riconquista della Terra Santa. Anche se tutti i crociati avessero avuto lo stesso zelo di re Pietro, ben difficilmente il risultato della spedizione sarebbe stato vantaggioso per la cristianità. Quella carneficina ebbe luogo dopo un periodo di pace tra l’Egitto e i franchi durato più di mezzo secolo; i mamelucchi avevano cominciato a perdere il loro primitivo fanatismo e i loro sudditi cristiani ricevevano un trattamento più umano; i pellegrini avevano libero accesso ai Luoghi Santi; tra Oriente e Occidente rifioriva il commercio. Ma ora tutti i risentimenti dei musulmani erano stati ravvivati. I cristiani indigeni, per quanto innocenti, dovettero subire un nuovo periodo di persecuzioni; furono distrutte chiese e persino il Santo Sepolcro rimase chiuso per tre anni. L’interruzione del commercio provocò gravi danni in tutto un mondo che non si era ancora ripreso dalle devastazioni prodotte dalla peste. Il regno di Cipro, che i mamelucchi erano stati disposti a tollerare, diventava un nemico da distruggere. L’Egitto aspettò sessant’anni per vendicarsi, ma la spaventosa devastazione dell’isola avvenuta nel 1426 fu precisamente la ritorsione per il sacco di Alessandria41. All’altro regno cristiano del Levante toccò una fine più precoce. Gli armeni di Cilicia non avevano preso parte alla crociata di re Pietro, ma in quell’epoca la loro casa reale era di origine franca e molti nobili avevano stretti rapporti con Cipro. La loro Chiesa aveva riconosciuto la supremazia di Roma. Per tutto il secolo XIV gli egiziani avevano premuto contro di loro, sospettandoli, con ragione, di essere amici dei franchi e dei mongoli, ed invidiosi delle ricchezze che transitavano per il loro paese lungo la via commerciale che raggiungeva il mare a Lajazzo. Il crollo dell’ilkhanato mongolo li privò del loro principale alleato. La maggior parte del loro territorio fu conquistata dai turchi nel 1337. Nel 1375, mentre i ciprioti erano totalmente impegnati in un’aspra

guerra con Genova, gli invasori musulmani, mamelucchi e turchi, alleati assieme, completarono l’occupazione del paese. L’ultimo re armeno, Leone VI, fuggì in Occidente e morì in esilio a Parigi. Così finiva l’indipendenza armena42. In realtà, una crociata come quella progettata da re Pietro era ormai un anacronismo. La cristianità non poteva permettersi simili lussi: doveva affrontare più a nord una minaccia troppo grave. Coloro che avevano progettato la prima crociata avevano compreso chiaramente che la liberazione della Terra Santa dipendeva dalla presenza di una potenza cristiana in Anatolia. Ma dalla morte di papa Urbano II nessun uomo di Stato occidentale era stato abbastanza saggio da rendersi conto che per conservare l’Anatolia bisognava dipendere da Bisanzio. I movimenti crociati del secolo XII avevano creato fastidi all’imperatore bizantino: avevano aumentato il numero dei problemi che Bisanzio doveva affrontare e non avevano mai concesso agli imperatori il tempo necessario per dedicarsi alla sottomissione degli invasori turchi. Può darsi che l’impresa fosse impossibile, perché la tecnica d’invasione dei turchi, distruggendo le coltivazioni e le vie di comunicazione, rendeva difficile un’opera di riconquista, mentre le ambizioni di imperatori come Manuele o Andronico Comneno producevano un’ulteriore dispersione di forze. Il disastro di Manzikert nel 1071 permise ai turchi di penetrare nell’Anatolia, quello di Miriocefale nel 1176 mostrò che vi sarebbero rimasti. Ma la quarta crociata, con l’irreparabile distruzione del sistema imperiale bizantino che ne segui, offrì loro veramente l’occasione per spingersi più avanti. Durante il secolo XIII la cristianità ebbe l’ultima possibilità di liquidare i turchi. Fino allora il potere di cui costoro disponevano in Anatolia era dipeso dal sultanato selgiuchida di Konya, ma le invasioni mongoliche, iniziatesi nel 1242, indebolirono e finalmente distrussero lo Stato selgiuchida. Gli imperatori bizantini di Nicea si resero conto dell’occasione propizia che si presentava loro, ma le loro preoccupazioni europee e l’ardente desiderio di riconquistare la capitale imperiale, in odio all’Occidente latino, ne ostacolarono gli sforzi, mentre ai latini mancavano la preveggenza e l’esperienza necessarie per comprendere la situazione. Quando i bizantini si furono reinsediati a Costantinopoli il momento favorevole era passato. Gli imperatori della casa dei Paleoioghi dovevano lottare contro i giovani e vigorosi regni sorti nei Balcani, contro le pretese delle repubbliche italiane e contro il rischio di una riconquista latina: rischio molto reale finché il potere di Carlo d’Angiò non venne paralizzato dai Vespri siciliani. Alla fine del secolo XIII era ormai troppo tardi: i Selgiuchidi non esistevano più, ma al loro posto c’erano parecchi attivi ed ambiziosi emirati, rafforzati dall’immigrazione di tribù turche soggette ai mongoli. Ci sarebbe voluto un lungo e concorde sforzo per sloggiarli. L’emiro più importante era il gran karaman, i cui territori si estendevano nell’interno del paese da Filadelfia all’Antitauro; altri emiri si erano stabiliti ad Attalia, a Aydin (Traile) e a Manissa (Magnesia). La costa settentrionale era ancora nelle mani di Bisanzio e dell’Impero alleato di Trebisonda, ma a sud il paese era occupato dai turcomanni, e a nord-ovest stava sorgendo un nuovo, attivo emirato, sotto la guida di un intraprendente principe, di nome Osman43. Ormai i latini cominciavano a comprendere sempre meglio l’importanza dell’Anatolia, sebbene la vedessero non tanto come base da cui potessero venir lanciate azioni aggressive contro di loro, quanto come una regione necessaria per disporre di basi per il controllo del Mediterraneo. L’occupazione di Rodi da parte degli ospitalieri fu dovuta in larga misura al caso, ma è un chiaro esempio di un nuovo orientamento. Da molto tempo le repubbliche italiane avevano avuto interessi nelle isole dell’Egeo ed era naturale che la loro attenzione e quella di tutto il mondo latino si rivolgesse anche al vicino continente. Quando l’emiro Omar di Aydin, che possedeva l’ottimo porto di Smirne, costruì una flotta per dedicarsi alla pirateria nelle acque dell’Egeo, sia i veneziani, sia i

cavalieri di Rodi passarono all’azione: nel 1344 una squadra navale, a cui i veneziani e i loro vassalli avevano partecipato con circa venti navi, i cavalieri con sei e il papa e il re di Cipro con quattro ciascuno, salpò contro Smirne al comando del patriarca latino di Costantinopoli, Enrico d’Asti. Il giorno dell’Ascensione l’emiro di Aydin fu sconfitto in una battaglia navale vicino all’entrata del golfo. Gli alleati cristiani, su richiesta del papa, proseguirono verso Smirne, respingendo un invito dell’ex governatore genovese di Chio, Martino Zaccaria, unitosi alla spedizione, che chiedeva la restituzione della sua isola, riconquistata dai bizantini. Dopo una breve lotta, la città cadde nelle loro mani il 24 ottobre, sebbene la cittadella rimanesse inviolata. La facile vittoria fu dovuta principalmente all’impreparazione dell’emiro Omar e al geloso timore che egli nutriva verso gli emiri suoi colleghi; egli giunse con il suo esercito troppo tardi per salvare la città. Ma i vincitori si lasciarono indurre a tentare l’invasione del retroterra e vennero duramente sconfitti a poche miglia dalla piazzaforte; Enrico d’Asti e Martino Zaccaria furono uccisi. Dopo il fallimento del tentativo turco di riprendere Smirne, essa fu affidata agli ospitalieri, mediante un trattato firmato nel 1350, benché la cittadella rimanesse ancora nelle mani dei turchi. I cavalieri la tennero in loro possesso fino al 1402, quando fu conquistata d’assalto da Tamerlano44. Mentre la sorte di Smirne era ancora incerta, un gentiluomo francese, Umberto II, delfino di Vienne, fece conoscere il proprio desiderio di compiere una crociata in Oriente. Era un uomo debole, fatuo, ma sinceramente religioso e senza ambizioni personali. Dopo alcune trattative con il papa, si decise che sarebbe andato a dar manforte ai cristiani contro Smirne. Partì da Marsiglia nel maggio del 1345 con una compagnia di cavalieri e di preti, e durante il viaggio verso oriente venne raggiunto da truppe provenienti dall’Italia settentrionale. Dopo diverse avventure di poco conto, giunse a Smirne nel 1346 e il suo esercito sconfisse i turchi in una battaglia fuori delle mura. Ma non vi si trattenne a lungo, infatti nell’estate del 1347 era di ritorno in Francia. Tutta l’impresa era stata singolarmente inutile. Essa è però significativa, perché mostra come in quel momento la Chiesa fosse disposta a considerare una spedizione in Anatolia come una crociata45. Pietro di Cipro, che aveva da poco acquistato Corico dagli armeni, ottenne nel 1361 l’aiuto degli ospitalieri per un attacco contro il porto turco di Attalia, che, dopo una breve lotta, cadde nelle sue mani il 24 agosto. Gli emiri delle zone limitrofe, Alaya, Monovgat e Tekke, si affrettarono ad offrirgli sottomissione, pensando che la sua amicizia potesse essere utile contro il loro principale nemico, il gran karaman. Ma ben presto ripresero la loro libertà d’azione, facendo vari tentativi per riconquistare Attalia, la quale, tuttavia, rimase nelle mani dei ciprioti per sessant’anni46. Nel frattempo l’attenzione dell’Europa era stata costretta a volgersi più a nord. I primi decenni del secolo XIV videro crescere in modo straordinario la potenza dell’emirato turco fondato da Osman, figlio di Ertoghrul, chiamato, dal nome del fondatore, emirato osmanli o ottomano. Nel 1300 Osman era un piccolo signorotto della Bitinia meridionale. Alla sua morte, nel 1326, era signore di Brusa e della maggior parte del territorio fra Adramittio, Dorileo e il Mar di Marmara. La sua espansione era dovuta in parte all’abile e flessibile diplomazia usata verso gli altri emiri e ancor più alla debolezza di Bisanzio. Nel 1302 l’imperatore Andronico II aveva avventatamente assoldato una compagnia di ventura catalana, condotta da Ruggero Fior, l’ex templare che aveva fatto fortuna con il suo ignobile comportamento durante il sacco di Acri. Ruggero combatté con successo contro i turchi, ma ancor più attivamente contro il suo imperiale padrone. Venne assassinato nel 1306, ma la compagnia catalana rimase nel territorio imperiale, in stato di ostilità contro l’Impero, fino al 1315. Durante queste guerre essa fece passare in Europa un reggimento turco, che l’imperatore aveva impiegato precedentemente in Asia 47. Poco dopo la partenza della compagnia catalana si ebbe

nell’Impero una guerra civile tra Andronico II e suo nipote Andronico III, che terminò soltanto alla morte del primo nel 1328. Ambedue le parti si servivano di mercenari turchi. Nel frattempo Orhan, figlio di Osman, continuava l’opera di suo padre, affermando una generica egemonia sugli emiri stabiliti a sud delle proprie terre e proseguendo la conquista della Bitinia: si impadronì di Nicea nel 1329 e di Nicomedia nel 133748. Nel 1341 scoppiò di nuovo una guerra civile nell’Impero, tra Giovanni V e suo suocero, Giovanni Cantacuzeno, mentre la crescente potenza di Stefano Dushan di Serbia attirava l’attenzione di tutti i popoli balcanici49. Nel 1354 Orhan, che aveva assunto il titolo di sultano, inviò truppe di là dai Dardanelli per impadronirsi della città di Gallipoli. Due anni dopo trasportò parecchie migliaia dei propri sudditi oltre gli stretti e li stabilì in Tracia; l’anno seguente poté avanzare verso l’interno e conquistare la grande fortezza di Adrianopoli, che diventò la sua seconda capitale. Alla sua morte, nel 1359, quasi tutta la Tracia si trovava in suo possesso, e Costantinopoli era isolata dai propri territori europei. Suo figlio Murad I, che gli succedette, poté proseguire agevolmente la sua opera. La sua prima azione fu la fondazione del corpo dei giannizzeri, formato da fanciulli cristiani convertiti all’islamismo, che gli venivano mandati come schiavi a titolo di tributo50. L’espansione dei turchi ottomani non passò inosservata in Occidente. Si pensava che il pericolo per il continente europeo non fosse ancora molto grave perché il forte Impero serbo pareva in grado di contenere un’avanzata; ma Costantinopoli stessa sembrava direttamente minacciata, e con essa gli interessi commerciali italiani. Però i greci erano scismatici e la politica della Chiesa occidentale insisteva sulla necessità della loro sottomissione a Roma, prima che si potesse discutere di mandare loro aiuti. Questo ricatto morale era destinato al fallimento: non soltanto le convinzioni religiose, ma anche l’orgoglio nazionale e il ricordo delle antiche offese rendevano impossibile al popolo greco di accettare la supremazia ecclesiastica latina, anche nel caso che i governanti fossero stati disposti ad accondiscendere51. Nel 1365 Amedeo VI, conte di Savoia, si fece crociato. Papa Urbano VI aveva predicato attivamente la crociata per conto di Pietro di Cipro, e Amedeo aveva serie intenzioni di muovere alla volta della Terra Santa; era però cugino dell’imperatore bizantino Giovanni V e desiderava porgergli aiuto. Il papa gli diede il permesso di iniziare la sua campagna combattendo contro i turchi, a condizione che ottenesse la sottomissione della Chiesa greca. I veneziani fecero del loro meglio per impedire la sua crociata, temendo che essa potesse compromettere la loro politica commerciale. Soprattutto non desideravano che egli si unisse con Pietro di Cipro e provarono sollievo quando le dicerie che essi stessi avevano fatto circolare a proposito di un trattato di Pietro con l’Egitto, indussero Amedeo a concentrare i suoi sforzi su Bisanzio. Il conte sabaudo riunì una scelta compagnia di cavalieri, ma sin dal principio ebbe serie difficoltà di ordine finanziario. La spedizione raggiunse i Dardanelli nell’agosto del 1366 e pose subito l’assedio a Gallipoli, che cadde il 23 dello stesso mese. Ma invece di sbarcare in Tracia e di tentare di rastrellare la provincia dai turchi, Amedeo proseguì per Costantinopoli, dove trovò che l’imperatore era stato proditoriamente catturato dal re bulgaro Shishman III; perciò dedicò tutte le proprie energie alla liberazione del cugino, che fu resa possibile soltanto da un attacco contro il porto di Varna, appartenente a Shishman. Quando Giovanni venne liberato, Amedeo si accorse che aveva speso tutto il denaro di cui disponeva, quello suo personale, quello che aveva estorto sul posto e quello chiesto in prestito all’imperatrice; fu quindi costretto a tornare in patria. Ma prima fece promettere all’imperatore di sottomettere la Chiesa bizantina a Roma, e quando il patriarca di Costantinopoli, Filoteo, sali, insieme con un cavaliere greco, a bordo della sua galea per avvertirlo che il popolo greco avrebbe deposto

l’imperatore, se questi avesse accettato, egli li rapi e li portò con sé in Italia. Giunse in patria alla fine del 1367; la sua crociata era stata quasi del tutto inutile, poiché i turchi riconquistarono Gallipoli immediatamente dopo la sua partenza52. Sotto Murad, la potenza dei turchi ottomani crebbe rapidamente: egli assoggettò gli emiri dell’Anatolia occidentale ed avanzò in Europa. Dopo la vittoria da lui ottenuta contro i serbi sulla Maritsa nel 1371, la Bulgaria diventò uno Stato vassallo e fu presto interamente sottomessa. Nel 1389 si combatté a Kossovo una battaglia decisiva tra serbi e turchi. Murad fu assassinato da un serbo poco prima del combattimento, ma le sue truppe, che avevano un’enorme preponderanza numerica, ottennero un completo trionfo: i turchi erano ormai padroni dei Balcani53. Benché l’energia di cui l’Occidente disponeva per una crociata fosse stata stornata dal suo scopo nel 1390 per una disastrosa spedizione che Luigi II, duca di Borbone, aveva condotto contro alMahdiya, vicino a Tunisi 54, era evidente che la salvezza dell’Europa cristiana richiedeva che si ponesse un freno ai turchi ottomani. Quando nel 1390 il sultano Bajazet si annette la città bulgara di Vidin, sul Danubio, il cui principe aveva riconosciuto la sovranità ungherese, il re d’Ungheria, Sigismondo di Lussemburgo, fratello dell’imperatore Venceslao, chiese aiuto a tutti gli altri monarchi. Sia il papa romano, Bonifacio IX, sia quello avignonese, Benedetto XIII, emanarono bolle per raccomandare la crociata, mentre l’anziano propagandista Filippo di Mezières scriveva una lettera aperta a Riccardo II d’Inghilterra per invitarlo a collaborare con Carlo VI di Francia in vista della futura crociata. La parentela tedesca di Sigismondo lo poneva in condizione di trovare appoggio in Germania. I principi di Valacchia e di Transilvania erano sufficientemente terrorizzati dall’avanzata turca per unirsi a lui, per quanto odiassero gli ungheresi; in Occidente, i duchi di Borgogna, Orléans e Lancaster annunziarono il loro desiderio di prestare aiuto. Nel marzo del 1395 giunse a Venezia un’ambasceria ungherese, capeggiata dall’arcivescovo di Esztergom, Nicola di Kanizsay, per ottenere dal doge la promessa di fornire i mezzi di trasporto. Gli ambasciatori proseguirono poi per Lione, dove furono accolti con grande sfarzo dal duca di Borgogna, Filippo l’Ardito, che promise loro entusiasticamente il suo appoggio. Dopo essersi fermati a Digione per rendere omaggio alla duchessa, Margherita di Fiandra, andarono a Bordeaux, per incontrare lo zio del re d’Inghilterra, Giovanni di Lancaster, che si assunse il compito di organizzare un contingente inglese. Da Bordeaux si diressero a Parigi: il re francese, Carlo VI, era in preda a una crisi di pazzia, ma i reggenti si offrirono di incoraggiare i nobili francesi ad unirsi alla crociata. Cominciò così a radunarsi un grande esercito internazionale per la salvaguardia della cristianità. Per finanziarlo, il duca di Borgogna impose tasse speciali che diedero l’enorme somma di settecentomila franchi d’oro. Alcuni nobili francesi vi aggiunsero individualmente le proprie offerte: Guido VI, conte di La Trémouille, forni ventiquattromila franchi. I signori francesi e borgognoni decisero di accettare il comando di Giovanni, conte di Nevers, il brillante figlio maggiore del duca di Borgogna, allora ventiquattrenne55. Mentre gli ambasciatori ungheresi si affrettavano a tornare a Buda per informare re Sigismondo del successo ottenuto e per consigliargli di continuare i suoi preparativi, il duca di Borgogna emanava precise ordinanze relative all’organizzazione e alla condotta delle truppe francoborgognone. Queste vennero convocate a Digione per il 20 aprile 1396. Giovanni di Nevers doveva esserne il comandante, ma, a causa della giovane età, era affiancato da un gruppo di consiglieri: Filippo, figlio del duca di Bar, Guido di La Trémouille e suo fratello Guglielmo, l’ammiraglio Giovanni di Vienne e Odard, signore di Chasseron. Alla fine del mese un esercito di diecimila uomini iniziò la marcia attraverso la Germania verso Buda. Durante il viaggio fu raggiunto da seimila

tedeschi, capeggiati dal conte palatino Ruperto, figlio di Ruperto III di Wittelsbach, e dal conte Eberardo Katznellenbogen. Li seguivano da presso un migliaio di combattenti inglesi, al comando del fratellastro di re Riccardo, Giovanni Holland, conte di Huntingdon56. Le truppe occidentali giunsero a Buda verso la fine di luglio. Vi trovarono re Sigismondo in attesa con un esercito di circa sessantamila uomini. Il suo vassallo Mircea, voivoda di Valacchia, si era unito a lui con altri diecimila uomini; inoltre circa tredicimila avventurieri erano giunti dalla Polonia, dalla Boemia, dall’Italia e dalla Spagna. L’esercito unito, che totalizzava poco meno di centomila soldati, era il più numeroso che mai fosse sceso in campo contro gli infedeli. Nel frattempo una flotta, equipaggiata dai cavalieri dell’Ospedale agli ordini del gran maestro, Filiberto di Naillac, nonché da veneziani e da genovesi, penetrava nel Mar Nero e gettava le ancore davanti alla foce del Danubio. Da parte sua il sultano ottomano non era rimasto inattivo. Quando gli era giunta la notizia che una crociata si era radunata in Ungheria, Bajazet stava assediando Costantinopoli. Raccolte subito tutte le truppe disponibili e marciò verso nord in direzione del Danubio: il suo esercito era stimato di poco superiore ai centomila uomini. Tre secoli di esperienze non avevano insegnato nulla ai cavalieri occidentali. Quando venne discusso a Buda il piano di campagna, re Sigismondo consigliò una strategia difensiva; egli conosceva la forza del nemico e, secondo lui, sarebbe stato meglio attirare i turchi in Ungheria e attaccarli da posizioni prestabilite. Come gli imperatori bizantini all’epoca delle prime crociate, anche Sigismondo credeva che la salvezza della cristianità dipendesse dalla conservazione del suo proprio regno; mentre invece i suoi alleati, a somiglianza dei primi crociati, pensavano a una grande offensiva: i turchi sarebbero stati sopraffatti e gli eserciti cristiani sarebbero avanzati trionfalmente attraverso l’Anatolia fino in Siria e nella stessa Città Santa. Furono così impetuosi che Sigismondo cedette. Ai primi di agosto l’esercito unito discese la sponda sinistra del Danubio fino a Orsova, vicino alle Porte di Ferro e qui penetrò nei territori del sultano. Furono necessari otto giorni per trasportare l’esercito oltre il fiume, poi la marcia proseguì lungo la sponda meridionale verso la città di Vidin. Il signore di Vidin era un principe bulgaro, Giovanni Srachimir, vassallo del sultano, che manteneva nella città una piccola guarnigione turca. All’arrivo dei cristiani Giovanni Srachimir si uni a loro ed aprì le porte; i turchi vennero massacrati. La successiva città a valle lungo il fiume era Rahova, una robusta fortezza con un fossato, una doppia cinta e una numerosa guarnigione turca. I più impetuosi cavalieri francesi, guidati da Filippo di Artois, conte di Eu, e da Giovanni le Meingre, meglio conosciuto come maresciallo Boucicaut, si precipitarono immediatamente all’assalto e sarebbero stati annientati, se Sigismondo non fosse accorso con i suoi ungheresi. La guarnigione non poté resistere a lungo contro l’intero esercito cristiano. La città fu conquistata d’assalto e tutta la popolazione, compresi molti cristiani bulgari, fu passata a fil di spada, a eccezione di un migliaio di persone tra le più facoltose, risparmiate per il riscatto che era possibile estorcere loro. Da Rahova l’esercito avanzò verso Nicopoli, la principale piazzaforte turca sul Danubio, situata nel punto in cui la più importante strada proveniente dalla Bulgaria centrale giungeva al fiume. Era costruita a poca distanza dal Danubio, su una collina le cui ripide pendici erano coronate da una doppia linea di mura formidabili. I crociati erano privi di macchine adatte alla guerra d’assedio: non si erano resi conto che sarebbero state necessarie e Sigismondo le aveva preparate soltanto in vista di un’azione difensiva. Quando le scale costruite frettolosamente dai francesi e le mine poste dai genieri ungheresi si dimostrarono del tutto inadeguate, l’esercito si accampò per costringere la città ad arrendersi per fame. In ciò furono aiutati dall’arrivo della flotta degli ospitalieri, che risalì il

Danubio e gettò le ancore vicino alle mura il 10 settembre. Ma Nicopoli era ben fornita di viveri e il governatore turco, Dogan Bey, informato della sorte toccata ai suoi compatrioti a Vidin e a Rahova, non aveva nessuna intenzione di arrendersi. L’indugio fu fatale per il morale dell’esercito cristiano. I cavalieri occidentali si divertivano giocando, bevendo e dandosi a ogni sorta di depravazione. Ai pochi soldati che osavano insinuare che i turchi erano avversari temibili, venivano tagliate le orecchie per ordine del maresciallo Boucicaut, come castigo per il loro disfattismo. Scoppiarono liti tra i vari contingenti, mentre i vassalli transilvani di Sigismondo e i suoi alleati valacchi cominciavano a parlare di disertare. Quando la crociata aveva ormai trascorso due settimane davanti a Nicopoli, giunse notizia che l’esercito del sultano si stava avvicinando. Aveva risalito rapidamente la Tracia, armato leggermente, con una cavalleria molto più mobile di quella franca, e arcieri magnificamente allenati; aveva inoltre il grande vantaggio di una disciplina perfetta e di essere agli ordini unicamente del sultano, un uomo di capacità eccezionali. Bajazet aveva inviato in avanscoperta alcune truppe, che vennero sconfitte su uno dei passi balcanici da un contingente francese, agli ordini del signore di Coucy; ma l’invidia del maresciallo Boucicaut, che accusò Coucy di tentare di privare Giovanni di Nevers degli onori della vittoria, impedì qualsiasi altro tentativo di arginare l’avanzata turca. Nel frattempo i cavalieri decisero di uccidere i prigionieri fatti a Rahova. Il lunedì 25 settembre 1396 fu avvistata l’avanguardia dell’esercito turco, che si accampò sulle colline a circa tre miglia dai cristiani. La mattina seguente, prima dell’alba, Sigismondo visitò tutti gli altri comandanti suoi colleghi, pregandoli di mantenersi sulla difensiva. Sebbene dichiarasse francamente di non poter fare affidamento sui suoi transilvani e valacchi, soltanto Coucy e Giovanni di Vienne lo appoggiarono. Gli altri capi erano decisi a provocare subito una battaglia; Sigismondo per debolezza cedette. Dispose il proprio esercito in tre sezioni, con le sue truppe ungheresi al centro, i valacchi alla sinistra e i transilvani sulla destra. L’avanguardia era composta da tutti gli occidentali, agli ordini di Giovanni di Nevers. Quando spuntò il giorno l’unica cosa che si poteva vedere dell’esercito turco era una divisione irregolare di cavalleria leggera proprio sul pendio della collina. Più indietro, protetta da una palizzata, si trovava la fanteria turca con il reggimento di arcieri; ma il grosso della cavalleria sipahi, comandata dal sultano in persona, era nascosto dalla cresta della collina; alla sua sinistra c’era una divisione di cavalleria serba, agli ordini del principe Stefano Lazarović, un fedele vassallo del sultano. La condotta della battaglia, al pari della strategia che l’aveva preceduta, dimostrò che i crociati non avevano imparato nulla da un’esperienza ormai secolare. I cavalieri occidentali dell’avanguardia non si preoccuparono di avvertire Sigismondo dei loro piani: con grande, fiducioso entusiasmo andarono alla carica su per la collina, disperdendo davanti a sé la cavalleria leggera nemica. Mentre i turchi si raggruppavano dietro la propria fanteria, i cavalieri venivano fermati dalla palizzata. Subito smontarono e continuarono la carica a piedi, svellendo i pali mentre avanzavano. Era tale il loro impeto che anche la fanteria turca venne dispersa. Alcuni turchi poterono rifugiarsi dietro la cavalleria, che si era nuovamente raggruppata, ma in numero molto maggiore furono trucidati e respinti in basso nella pianura. Quando però i crociati, trionfanti ma esausti, nel proseguire in gran fretta l’avanzata raggiunsero la sommità della collina, si trovarono di fronte i sipahi del sultano e i serbi. L’attacco di queste truppe fresche li colse di sorpresa: a piedi, stanchi ed assetati, appesantiti dal carico delle grevi armature, furono gettati ben presto nel più completo disordine e la loro vittoria si mutò in una paurosa disfatta. Pochi cavalieri sopravvissero al massacro: tra i morti si trovavano Guglielmo di La Trémouille e suo figlio Filippo, Giovanni di Cadzaud, ammiraglio di Fiandra, e il

gran priore dei cavalieri teutonici. Giovanni di Vienne, grande ammiraglio di Francia, cadde tenendo strettamente il grande stendardo di Notre-Dame, affidato alle sue cure. Giovanni di Nevers venne risparmiato soltanto perché i suoi scudieri rivelarono chi era e lo persuasero ad arrendersi. Con lui furono catturati i conti di Eu e di La Marche, Guido di La Trémouille, Enguerrando di Coucy e il maresciallo Boucicaut. Quando i cavalieri erano smontati, i loro cavalli avevano fatto precipitosamente ritorno all’accampamento. I valacchi e i transilvani ne conclusero senz’altro che la battaglia era perduta e si affrettarono a ritirarsi, impadronendosi di tutte le imbarcazioni che poterono trovare per attraversare il fiume. Ma Sigismondo ordinò alle sue truppe di avanzare in soccorso degli occidentali. Mentre risalivano la collina uccisero molti soldati della fanteria turca sbandata, ma giungendo al campo di battaglia scoprirono di essere arrivati troppo tardi. La cavalleria del sultano li caricò e li ricacciò indietro con gravi perdite fino alle sponde del fiume. Quando vide il suo esercito disperso, Sigismondo si decise ad abbandonare la lotta: si rifugiò su una nave veneziana che si trovava sul fiume e questa lo trasportò a Costantinopoli e poi in patria, attraverso l’Egeo e l’Adriatico. Temeva di compiere il viaggio per terra perché sospettava un tradimento da parte valacca. I suoi soldati, insieme con i pochi crociati occidentali superstiti, ripercorsero come meglio poterono la strada verso i propri paesi, attaccati da popolazioni ostili, da belve feroci e dai rigori di un inverno precoce. Il conte palatino giunse disfatto al castello di suo padre e vi morì alcuni giorni dopo. Solo pochi dei suoi compagni di traversie furono più fortunati57. Bajazet aveva ottenuto una grande vittoria, ma le sue perdite erano state molto gravi. Per l’ira suscitata in lui dal ricordo dei massacri compiuti dai crociati, ordinò che i suoi prigionieri, circa tremila, fossero uccisi a sangue freddo e risparmiò soltanto i pochi nobili che potevano pagare un considerevole riscatto. Giacomo di Helly, un cavaliere francese che parlava turco, fu costretto a identificarli e fu poi mandato in Occidente per organizzare la raccolta del denaro necessario. Soltanto nel giugno seguente un’ambasceria occidentale raggiunse il sultano a Brusa e gli consegnò le grosse somme che egli esigeva. Molti fedeli cristiani inviarono il loro contributo, ma la somma maggiore fu pagata da re Sigismondo e dal duca di Borgogna, che forni più di un milione di franchi. I prigionieri rilasciati arrivarono in patria verso la fine del 139758. Quella di Nicopoli fu la più numerosa e l’ultima delle grandi crociate internazionali. Le linee generali della sua dolorosa vicenda seguivano con malinconica esattezza quelle delle grandi, disastrose crociate del passato, con la differenza che il campo di battaglia si trovava questa volta in Europa, non più in Asia. Gli errori e la stoltezza erano stati gli stessi, la stessa carica di entusiasmo era stata sciupata in litigi, invidie e impazienza. Tutto quello che l’Occidente imparò da quest’ultimo fallimento fu che la guerra santa non era più fattibile. Non ci sarebbe stata in futuro nessun’altra crociata. Ma gli infedeli continuavano a minacciare il cuore della cristianità: avevano raggiunto il Danubio e le rive dell’Adriatico. Costantinopoli era ancora cristiana, ma isolata, ed era stata risparmiata soltanto perché il sultano non disponeva ancora di un’artiglieria abbastanza forte da poterne demolire le mura poderose, né di un numero sufficiente di navi da interrompere le sue comunicazioni per mare. Gli ospitalieri di Rodi e i signori italiani dell’arcipelago egeo vennero a trovarsi sulla linea di frontiera, di cui Cipro era ormai un lontano avamposto. Il re d’Ungheria, i voivoda di Valacchia e di Moldavia ed i capitribù dell’Albania cercavano aiuti per difendere i loro confini, mentre le repubbliche italiane erano impegnate nel calcolare quale politica avrebbe meglio salvaguardato i loro interessi commerciali. Il papa era consapevole della minaccia che pesava sulla cristianità, ma le potenze dell’Occidente non se ne

interessavano più. La loro ultima esperienza era stata troppo amara e non si poteva rinnovare, dopo un disastro simile, l’entusiasmo che l’aveva ispirata. Il papa stesso, del resto, continuava i suoi intrighi in Ungheria per sostituire Sigismondo con Ladislao di Napoli, senza preoccuparsi del danno che una guerra civile avrebbe arrecato alle difese dell’Europa centrale59. Il re di Francia, che dal 1396 al 1409 si trovò ad essere sovrano di Genova, era abbastanza preoccupato per la sorte della colonia genovese di Pera, dirimpetto a Costantinopoli, e inviò sul Bosforo nel 1399 il maresciallo Boucicaut con milleduecento uomini. La sua presenza impedì a un timido attacco turco contro la capitale imperiale di svilupparsi, ma poiché nessuno era disposto a pagare il maresciallo o i suoi soldati, Boucicaut si ritirò ben presto60. L’imperatore bizantino Manuele II fece allora, pieno di speranza, un viaggio in Occidente per cercare aiuti. Gli italiani furono scandalizzati vedendo quanto fosse impoverito l’erede dei cesari; il duca di Milano gli fece splendidi regali, affinché potesse tenere un decoro più confacente al suo rango. Fu ricevuto con grande pompa a Parigi e a Londra, ma non gli venne offerto nessun aiuto effettivo. Il papato non aveva nessun interesse, perché Manuele era troppo onesto per promettere la sottomissione della sua Chiesa a Roma, sapendo che il suo popolo non l’avrebbe tollerato. Ma nel 1402 egli si affrettò a tornare nella sua capitale, rallegrato da notizie che sembravano presagire il declino dell’Impero ottomano61. Timur lo Zoppo (Tamerlano) era un insignificante signorotto di discendenza turco-mongola, nato vicino a Samarcanda nel 1336. Ma nel 1369 era il sovrano di tutte le terre già appartenute ai mongoli del ramo di Jagatai. Da allora in poi estese i propri domini con una guerra spietata, lentamente dapprima, poi con slancio crescente. Dal 1381 al 1386 invase le terre dell’ilkhanato mongolo di Persia e nel 1386 conquistò Tabriz e Tiflis. Per i successivi quattro anni fu molto impegnato lungo la sua frontiera settentrionale. Nel 1392 conquistò Bagdad. Durante gli anni seguenti condusse in Russia varie campagne contro i mongoli dell’Orda d’Oro, giungendo fino a Mosca, e nel 1395 fece la sua apparizione nell’Anatolia orientale, dove conquistò Erzinjan e Sivas. Nel 1398 conquistò l’India settentrionale, con una brillante campagna resa più efficace da orrendi massacri. Nel 1400 si volse di nuovo verso occidente, precipitandosi sulla Siria, sconfiggendo gli eserciti mamelucchi inviati contro di lui, dapprima ad Aleppo, poi a Damasco, occupando e saccheggiando tutte le grandi città della provincia. Nel 1401 punì una rivolta di Bagdad con la distruzione totale della città, che stava appena riavendosi dalle conseguenze della conquista di Hulagu di un secolo e mezzo prima. Nel 1402 tornò in Anatolia deciso a vincere il sultano ottomano, l’unico sovrano musulmano che non avesse umiliato. La battaglia decisiva ebbe luogo ad Ankara, il 20 luglio: Bajazet fu completamente sconfitto e, fatto prigioniero, morì in cattività pochi mesi dopo. Nel frattempo le città ottomane dell’Anatolia cadevano nelle mani del conquistatore, che, nel dicembre del 1402, cacciava da Smirne i cavalieri dell’Ospedale62. L’imperatore Manuele aveva sperato che il disastro di Bajazet ponesse termine alla minaccia ottomana, ma non era abbastanza forte per intraprendere qualche azione senza aiuti esterni. Le repubbliche italiane erano prudenti: i genovesi si affrettarono a concludere un trattato con Tamerlano per conservare il loro commercio asiatico, ma, temendo per quello balcanico ed incerti del futuro, diedero il loro aiuto per conservare il potere ottomano, trasportando i resti dell’esercito di Bajazet in Europa; i veneziani si tennero in disparte63. La loro prudenza era giustificata. L’invasione di Tamerlano in realtà aveva impedito un attacco immediato del sultano contro Costantinopoli e aveva lasciato a Bisanzio ancora un altro mezzo secolo di vita. Se tutta l’Europa fosse intervenuta subito, avrebbe potuto porre fine all’Impero ottomano; ma i turchi, come popolazione, erano troppo

saldamente stabiliti in Anatolia e la loro posizione politica nei Balcani era troppo forte perché fosse possibile sloggiarli facilmente. Tamerlano, inoltre, non aveva il genio politico di Gengis Khan. Alla sua morte, nel 1405, il suo impero cominciò subito a disgregarsi: i mamelucchi riconquistarono rapidamente la Siria; nell’Azerbaigian sorse la dinastia dei turcomanni Pecore Nere, che organizzò uno Stato estendentesi dall’Anatolia orientale a Bagdad; movimenti nazionalisti si svilupparono in Persia, dove si levò ben presto la grande dinastia Safawi. In Transoxiana i discendenti di Tamerlano si mantennero ancora per quasi un secolo, ma solo in India riuscirono a fondare un impero duraturo, quello dei Gran Mogol di Delhi64. In Anatolia l’unico effetto permanente dell’invasione di Tamerlano fu un nuovo afflusso di turchi e di turcomanni, che, in ultima analisi, venne a rafforzare le basi della potenza ottomana. Quando Tamerlano morì, i figli di Bajazet ne raccolsero l’eredità. Per sei anni combatterono gli uni contro gli altri: le guerre civili offrirono alle nazioni cristiane un’altra occasione per arrestare lo sviluppo della potenza ottomana, che esse si lasciarono sfuggire. L’imperatore bizantino riuscì con la sua diplomazia a rientrare in possesso di poche città costiere e i cavalieri di Rodi ottennero il permesso di costruire un castello sul continente dirimpetto alla loro isola, a Bodrun, l’antica Alicarnasso. Ma non si guadagnò nient’altro. Quando nel 1413 Maometto I divenne l’unico sultano, l’Impero ottomano era intatto. Egli era un sovrano pacifico ed evitò le guerre d’aggressione, ma riorganizzò saldamente i propri territori; alla sua morte, nel 1421, gli ottomani erano più forti di prima65. Il successore di Maometto, Murad II, cominciò il suo regno con un tentativo di conquistare Costantinopoli; ma non aveva ancora né artiglieria pesante, né navi, e dopo che i greci ebbero difeso eroicamente la loro capitale dal giugno all’agosto del 1422, senza ricevere aiuti dall’esterno, egli abbandonò l’assedio e concentrò la propria attenzione su altre conquiste nella penisola greca, in Asia e oltre il Danubio66. Nel 1439 l’imperatore Giovanni Vili, successore di Manuele, acconsentì per disperazione al concilio di Firenze a sottomettere la sua Chiesa a Roma; ma il suo popolo respinse l’unione ed egli ricevette ben poco in cambio di tutti i suoi sforzi67. Nel 1440 papa Eugenio IV predicò una nuova crociata. Quattro anni dopo un capobanda albanese, Skanderbeg, dichiarò guerra ai turchi ed anche il suo sovrano, re Giorgio di Serbia, si unì a lui. Il papa stesso e il re di Aragona promisero di mandare in Oriente dieci galee ciascuno. Il bastardo di Sigismondo, Giovanni Corvino, soprannominato Hunyadi, voivoda di Transilvania per conto di re Vladislao, si preparava a guidare l’esercito ungherese oltre il Danubio. Ma gli alleati, dopo alcune scaramucce, si scoraggiarono ed acconsentirono ad una tregua di dieci anni, che fu firmata a Szeghedino nel giugno del 144468. Murad si preparò allora ad allontanarsi con il suo esercito per combattere contro alcuni suoi nemici in Anatolia, ma il cardinale Giuliano Cesarini, legato papale presso l’esercito alleato, ne convinse i capi che un giuramento fatto a un infedele non era valido e li esortò ad avanzare. Il re ortodosso di Serbia rifiutò questa giustificazione e non permise a Skanderbeg di rimanere con le sue truppe. Giovanni Hunyadi protestò, ma rimase al comando: condusse l’esercito alleato, forte di circa ventimila uomini, verso Varna, dove giunsero ai primi di novembre del 1444. Murad, informato della violazione della tregua, si affrettò loro incontro con truppe quasi tre volte più numerose. La battaglia ebbe luogo il 10 novembre. I cristiani resistettero valorosamente: in un momento critico il sultano, che aveva portato con sé nella battaglia il trattato violato insieme con la sua bandiera, fu udito gridare: «Cristo, se tu sei Dio, come affermano i tuoi seguaci, castigali per la loro slealtà». La sua preghiera e soprattutto la sua superiorità numerica ebbero la meglio: gli alleati cristiani furono quasi annientati; re Vladislao, che si trovava con le sue truppe, venne ucciso insieme con il cardinale

spergiuro, mentre Hunyadi stesso fuggiva con un esiguo resto del suo esercito69. I valorosi sforzi di Skanderbeg salvarono l’indipendenza albanese per altri vent’anni e Giovanni Hunyadi, nonostante la disastrosa sconfitta subita in una battaglia di tre giorni sull’infausto campo di Kossovo nel 1448, impedì al sultano di attraversare il Danubio finché visse70. Ma nel 1456, al momento della sua morte, i turchi avevano ormai soddisfatto l’ambizione che aveva dominato l’Islam fin dai giorni del Profeta. Nel 1451 a Murad II era succeduto suo figlio, Maometto II, un giovane di ventun anni, dotato di un’energia, di uno spirito d’iniziativa e di capacità straordinarie. Egli si pose come primo obiettivo la conquista di Costantinopoli. Non è questo il luogo per raccontare la storia magnifica e tragica degli ultimi giorni di Bisanzio. I greci, divisi contro i loro governanti che avevano venduto la loro Chiesa a Roma, si raccolsero di nuovo insieme per affrontare con eroico coraggio l’ultima agonia. L’Occidente inviò rinforzi che erano disperatamente insufficienti, nonostante tutto il loro coraggio. Le grandi possibilità del sultano, i suoi accurati preparativi e la sua volontà indomabile erano destinati a condurlo al trionfo. Questo, poi, non era soltanto un successo di prestigio: Bisanzio era stata dura a morire, ma la sua fine garantiva ai turchi la permanenza in Europa e doveva dar loro il dominio dei mari orientali. Suonava la campana a morto per gli Imperi di Genova e di Venezia, per il regno di Cipro e per l’Ospedale a Rodi, e il sultano sarebbe riuscito a condurre i suoi eserciti sino alle porte di Vienna71. In tutta l’Europa la caduta di Costantinopoli fu considerata il segno della fine di un’era. La notizia non giungeva inaspettata, ma costituiva un amaro motivo di autoaccusa. Eppure nessuno si preoccupò di prendere un’iniziativa qualsiasi, eccetto i principi le cui frontiere erano direttamente minacciate. Soltanto il cardinale nunzio in Germania, il grande umanista Enea Silvio Piccolomini, tentò di risvegliare in Occidente il sentimento di un dovere troppo a lungo ritardato, ma i suoi discorsi davanti alle diete tedesche non diedero alcun risultato e le sue lettere al papa parlavano della sua delusione. Nel 1458 egli stesso divenne papa con il nome di Pio II. Durante tutto il suo pontificato si affaticò per lanciare di nuovo una crociata pari a quelle che i suoi grandi predecessori avevano predicato. Nel 1463 sembrava che il suo progetto fosse prossimo alla realizzazione: un’opportuna scoperta di miniere di allume negli Stati pontifici gli forniva entrate inattese e minacciava di spezzare il monopolio turco di quel minerale. Il nuovo doge di Venezia sembrava favorevole alla guerra, il re di Ungheria, finalmente in pace con l’imperatore, desiderava ardentemente un’alleanza dei cristiani, mentre Giovanni il Buono, duca di Borgogna, mostrava il suo interessamento. La bolla Ezechielis, emessa in ottobre, rispecchiava l’ottimismo del papa, ma a misura che i mesi passavano, l’entusiasmo si affievoliva. Soltanto gli ungheresi, che dovevano comunque affrontare una guerra contro i turchi, gli offrirono un aiuto materiale. I veneziani esitavano; nemmeno una città italiana era disposta a correre il rischio di una contrazione del proprio commercio, che avrebbe certo seguito la rottura dei rapporti con il sultano. Giovanni di Borgogna scrisse che gli era impossibile abbandonare le sue terre a causa degli intrighi del re di Francia. Il papa decise coraggiosamente di finanziare e condurre egli stesso la crociata. I suoi agenti raccolsero, per suo ordine, una flotta di galee ad Ancona, e il 18 luglio 1464, sebbene fosse stanco e in cattive condizioni di salute, Pio II prese solennemente la croce durante una cerimonia in San Pietro. Pochi giorni dopo partiva per il porto d’imbarco. Coloro che lo assistevano si accorsero che era morente, perciò gli nascosero la verità: nessuno dei principi d’Europa aveva seguito il suo esempio e non c’erano eserciti in marcia dietro di lui per imbarcarsi sulle sue galee alla volta dell’Oriente. Al contrario, mentre egli si stava avvicinando ad Ancona, furono costretti a chiudere accuratamente le tende della sua lettiga per impedirgli di vedere le strade affollate dalle ciurme della sua flotta, che

avevano abbandonato le navi e si dirigevano alle loro case. Pio II giunse ad Ancona soltanto per morirvi, il 14 agosto. Per misericordiosa dispensa gli venne risparmiato il dolore di assistere al completo fallimento della sua crociata72. Quasi quattro secoli prima papa Urbano II, con la sua predicazione, aveva mandato migliaia di uomini a rischiare la vita nella guerra santa: ormai neppure un papa che si faceva crociato otteneva altro risultato che quello di raccogliere pochi mercenari, lesti ad abbandonare la causa ancora prima che avesse inizio la campagna. Lo spirito crociato era morto.

Capitolo secondo Conclusione

Chi accresce la sua scienza accresce il suo dolore. Ecclesiaste, I, 18

Le crociate, che erano state lanciate per salvare la cristianità orientale dai musulmani, terminavano lasciando tutte le comunità cristiane del Levante sotto il dominio maomettano. Quando papa Urbano II aveva predicato a Clermont il suo magnifico sermone, pareva che i turchi fossero sul punto di minacciare il Bosforo; quando papa Pio II predicò l’ultima crociata i turchi stavano attraversando il Danubio. Gli ultimi resti delle conquiste crociate caddero nelle loro mani: Rodi nel 1523 e Cipro, rovinata dalle sue guerre con l’Egitto e con Genova, ed infine annessa da Venezia, nel 1570. Ai conquistatori occidentali rimase soltanto un pugno di isolette greche su cui Venezia continuò a esercitare una precaria sovranità. L’avanzata turca fu arrestata non da uno sforzo concorde della cristianità, bensì dall’azione degli Stati più direttamente minacciati: Venezia e l’Impero absburgico; mentre la Francia, l’antica protagonista della guerra santa, sosteneva costantemente gli infedeli. L’Impero ottomano cominciò a declinare per la propria incapacità di mantenere un governo efficiente nei suoi vastissimi possedimenti, finché non poté più opporsi all’ambizione dei propri vicini, né soffocare nei suoi sudditi cristiani quello spirito nazionale che era stato custodito per tanta parte da quelle Chiese, la cui indipendenza i crociati si erano così accanitamente sforzati di distruggere. Da un punto di vista storico, il movimento crociato nel suo insieme fu un colossale insuccesso. L’esito fortunato e quasi miracoloso della prima crociata fece sorgere in «Outremer» gli Stati franchi; un secolo dopo, quando tutto sembrava perduto, l’eroico sforzo della terza crociata li conservò in vita per altri cento anni. Ma il fragile regno di Gerusalemme ed i vari principati affini erano un ben misero risultato per tanta energia e tanto entusiasmo. Durante tre secoli non ci fu quasi sovrano europeo che ad un certo momento non facesse voto con fervore di partire per la guerra santa. Non ci fu un solo paese che non avesse mandato i propri uomini a combattere in Oriente per la cristianità. Gerusalemme era presente nei pensieri di ogni uomo e di ogni donna, eppure gli sforzi per conservare o riconquistare la città santa non solo furono singolarmente inefficienti e affidati all’impulso del momento, ma non ebbero neppure, sulla storia generale dell’Europa occidentale, quell’influsso che ci si sarebbe aspettato. L’epoca delle crociate è una delle più importanti nella storia della civiltà dell’Occidente: nel momento in cui esse ebbero inizio l’Europa stava appena risorgendo dal lungo periodo delle invasioni barbariche, conosciuto come gli «evi bui»; e quando terminarono era appena iniziata la fioritura del Rinascimento; tuttavia non possiamo attribuire ai crociati nessun influsso diretto su questo sviluppo. Le crociate non ebbero nulla a che fare con la sicurezza delle comunicazioni che da poco regnava in Occidente e che consentiva a commercianti e studiosi di viaggiare a loro piacere. Anche prima esisteva la possibilità di accedere ai tesori culturali del mondo musulmano attraverso la Spagna; studiosi come Gerberto di Aurillac avevano già soggiornato nei centri spagnoli del sapere. Per tutto il periodo delle crociate il luogo d’incontro tra la cultura araba, quella greca e quella occidentale fu offerto dalla Sicilia, piuttosto che dai paesi di

«Outremer»: da un punto di vista intellettuale l’apporto di questi fu quasi nullo1. Era possibile per un uomo della levatura di san Luigi trascorrervi parecchi anni senza riceverne il minimo influsso sulla propria vita culturale. Se l’imperatore Federico II ebbe un vivo interesse per la civiltà orientale lo si deve al fatto che era stato allevato in Sicilia. «Outremer» non contribuì neppure al progresso delle arti in Occidente, se si eccettui l’architettura militare e, forse, l’introduzione dell’arco a sesto acuto. Nell’arte della guerra, ad eccezione della costruzione di castelli, l’Occidente mostrò ripetutamente di non aver imparato nulla dalle crociate: gli stessi errori vennero commessi in ciascuna delle spedizioni, dalla prima crociata fino a quella di Nicopoli. Le condizioni in cui si svolgevano le guerre in Oriente differivano talmente da quelle dell’Europa occidentale che soltanto i cavalieri residenti in «Outremer» si preoccupavano di far tesoro delle esperienze passate. Può darsi che il tenore di vita medio dell’Occidente si sia elevato per il desiderio dei soldati e dei pellegrini reduci dalla Terra Santa di imitare in patria gli agi di «Outremer». Ma sebbene il commercio tra l’Oriente e i paesi europei sia aumentato in seguito alle crociate, la sua esistenza non ne dipendeva. Le crociate lasciarono un segno soltanto su determinati aspetti dello sviluppo politico dell’Europa occidentale. Uno degli scopi dichiarati di papa Urbano nel predicarle era stato quello di trovare qualche utile attività per i turbolenti e bellicosi nobili, che altrimenti sprecavano la loro energia nelle guerre civili in patria; l’avere allontanato gran numero di questi elementi insubordinati verso l’Oriente contribuì senza dubbio al sorgere del potere monarchico in Occidente, il che, in definitiva, si risolse in un danno per il papato. Nell’immediato, però, il papato stesso ne traeva i maggiori benefici: il pontefice, infatti, aveva lanciato la crociata come movimento cristiano internazionale sotto la propria guida ed il successo iniziale aveva accresciuto grandemente il suo potere e il suo prestigio. I crociati appartenevano tutti al suo gregge, le loro conquiste erano le sue conquiste. Poiché gli antichi patriarcati di Antiochia, Gerusalemme e Costantinopoli erano caduti uno dopo l’altro sotto il suo potere, sembrava giustificata la sua pretesa di essere il capo della cristianità. Negli affari ecclesiastici il suo dominio si era esteso enormemente e in ogni parte del mondo cristiano le comunità riconoscevano la sua supremazia spirituale. I suoi missionari si spingevano lontano, fino in Etiopia e in Cina. Tutto questo movimento obbligò la cancelleria papale ad organizzarsi su una base molto più internazionale di prima, ed ebbe una parte importantissima nello sviluppo del codice di diritto canonico2. Se i papi si fossero accontentati di raccogliere soltanto vantaggi ecclesiastici, avrebbero avuto buoni motivi per rallegrarsi, ma i tempi non erano ancora maturi per una chiara divisione tra politica ecclesiastica e politica temporale; e in quella temporale il papato si impegnò troppo a fondo. La crociata ispirava rispetto soltanto finché era diretta contro gli infedeli. La quarta crociata, condotta, se non predicata, contro i cristiani d’Oriente, fu seguita da un’altra contro gli eretici della Francia meridionale e contro la nobiltà che simpatizzava con loro; a questa successero poi le crociate predicate contro gli Hohenstaufen, finché la crociata non fini con l’identificarsi con qualsiasi guerra contro i nemici della politica pontificia, mentre tutto l’armamentario delle indulgenze e delle ricompense celesti veniva adoperato per appoggiare le ambizioni temporali della Santa Sede. Il trionfo ottenuto dai papi nel provocare la rovina sia dell’imperatore d’Oriente sia di quello d’Occidente, li condusse alle umiliazioni della guerra siciliana e della cattività avignonese. La guerra santa fu pervertita fino a diventare una tragica farsa. Salvo l’accresciuta estensione del dominio spirituale di Roma, il principale beneficio che la cristianità occidentale ricavò dalle crociate fu di carattere negativo. Quando esse ebbero inizio, i centri più importanti della civiltà si trovavano in Oriente, a Costantinopoli e al Cairo; quando giunsero al termine, la civiltà aveva trasferito il suo quartier generale in Italia e nei giovani paesi dell’Occidente. Le crociate non furono la sola causa della decadenza del mondo musulmano: le

invasioni turche avevano già indebolito il califfato abasside di Bagdad e anche senza le crociate sarebbero riuscite in definitiva a far crollare il califfato fatimita d’Egitto. Ma se la continua irritazione provocata dalle guerre contro i franchi non fosse esistita, i turchi avrebbero potuto essere facilmente integrati nel mondo arabo, recando ad esso nuova vitalità e nuova forza, senza distruggerne l’unità fondamentale. Le invasioni mongole furono ancora più rovinose per la civiltà araba: il loro svolgersi non può certo essere attribuito alle crociate, ma, senza di queste, gli arabi si sarebbero trovati in condizioni molto migliori per affrontare l’aggressione mongola. L’intrusione dello Stato franco era una piaga incancrenita che i musulmani non potevano dimenticare in nessun momento. Finché esso avesse distratto le loro forze, non avrebbero mai potuto concentrarsi interamente su altri problemi. Ma il danno reale arrecato all’Islam dalle crociate era più sottile. Lo Stato islamico era una teocrazia, la cui prosperità politica si fondava sul califfato, il lignaggio di preti-re, a cui la tradizione aveva assegnato una successione ereditaria. L’attacco crociato si produsse nel momento in cui il califfato abasside, per motivi sia politici, sia geografici, non era in condizione di guidare l’Islam al contrattacco, mentre i califfi fatimiti non godevano di sufficiente autorità in quanto eretici. I capi che si levarono per respingere i cristiani, uomini come Nur ed-Din e Saladino, erano figure eroiche, a cui furono tributati rispetto e devozione, ma erano degli avventurieri. Nonostante la loro grande abilità gli Ayubiti non avrebbero mai potuto essere accettati come supremi reggitori dell’Islam, perché non erano califfi e neppure discendenti del Profeta: non avevano un posto specifico nella teocrazia islamica. La distruzione di Bagdad ad opera dei mongoli in certo modo facilitò il compito dei musulmani; i mamelucchi infatti si trovarono in condizione di poter fondare uno Stato duraturo in Egitto, poiché in Bagdad non esisteva più un legittimo califfato, ma soltanto una fantomatica e spuria discendenza, tenuta in un decoroso esilio al Cairo. I sultani ottomani risolsero infine il problema assumendo essi stessi il califfato. Il loro immenso potere fece sì che il mondo musulmano li accettasse, mai però di tutto cuore, poiché anch’essi erano usurpatori e non appartenevano al lignaggio del Profeta. Il cristianesimo aveva ammesso fin dal principio una distinzione tra le cose che appartengono a Cesare e quelle che sono di Dio, perciò quando crollò la concezione medievale di una Città di Dio, intesa come una realtà politica indivisa, la sua vitalità non ne ebbe a soffrire. Ma l’Islam era concepito come un’unità politica e religiosa. Questa unità aveva subito incrinature già prima delle crociate, ma gli avvenimenti di quei secoli resero la frattura troppo grave perché potesse venire riparata. I grandi sultani ottomani riuscirono a porvi rimedio superficialmente e soltanto per un certo tempo, ma quelle lacerazioni sono durate fino ad oggi. Ancora più dannosi furono gli effetti della guerra santa sullo spirito dell’Islam. Ogni religione fondata su una rivelazione esclusiva assume necessariamente un atteggiamento di disprezzo verso l’incredulo, ma agli inizi l’Islam non era intollerante: Maometto stesso pensava che gli ebrei e i cristiani avessero ricevuto una rivelazione parziale e che perciò non dovessero venire perseguitati. Sotto i primi califfi i cristiani ebbero una posizione di rilievo nella società araba: un numero assai importante di pensatori e di scrittori arabi più antichi erano cristiani, ed essi diedero un impulso intellettuale molto utile, poiché i musulmani, con la loro fiducia nella Parola di Dio, trascritta una volta per sempre nel Corano, avevano la tendenza a rimanere statici e senza iniziative nel campo del pensiero. Neppure la rivalità del califfato con la cristiana Bisanzio era interamente priva di rapporti amichevoli: studiosi e tecnici andavano e venivano tra i due Imperi, con loro reciproco vantaggio. La guerra santa iniziata dai franchi distrusse questi buoni rapporti. La feroce intolleranza mostrata dai crociati ebbe come risposta una crescente intolleranza da parte musulmana. Il grande senso di umanità di Saladino e della sua famiglia doveva ben presto mostrarsi raro tra i suoi correligionari. In

seguito, i mamelucchi si mostrarono non meno rigidi dei franchi, e i loro sudditi cristiani furono tra i primi a soffrirne. Questi non ritrovarono mai più l’antica facilità di convivenza con i loro vicini e signori maomettani; la loro stessa vita intellettuale fu distrutta e con essa scomparve l’influsso che essi avevano esercitato sull’Islam rendendolo più aperto. Eccettuata la Persia, per le sue vivaci tradizioni eretiche, i musulmani si rinchiusero dietro la cortina della loro fede; e una fede intollerante è incapace di progresso. Il danno prodotto dalle crociate all’Islam fu piccolo in paragone con quello arrecato alla cristianità orientale. Papa Urbano II aveva ordinato ai crociati di partire per soccorrere e liberare i cristiani d’Oriente. Fu una strana liberazione, poiché quando l’opera fu terminata la cristianità orientale si trovava sotto il dominio degli infedeli e i crociati stessi avevano fatto tutto il possibile per impedire che si risollevasse. Quando si stabilirono in Oriente, i franchi non trattarono i loro sudditi cristiani meglio di quanto avesse fatto il califfo prima di loro, anzi furono più duri, poiché si ingerivano nelle pratiche religiose delle chiese locali. Quando vennero cacciati, lasciarono indifesi i cristiani indigeni a sopportare l’ira dei conquistatori musulmani. È vero che essi meritavano pienamente tale collera per la loro irriducibile convinzione che i mongoli avrebbero dato loro quella libertà duratura che non avevano ottenuto dai franchi. Il loro castigo però fu severo e totale: oppressi da dure restrizioni e umiliazioni si indebolirono fino a non avere più nessuna importanza. Perfino il loro paese fu punito: l’incantevole zona costiera della Siria venne devastata e abbandonata alla desolazione; la stessa città santa sprofondò, trascurata, in una lunga, inquieta decadenza. La tragedia dei cristiani di Siria fu una conseguenza casuale del fallimento delle crociate, ma la distruzione di Bisanzio fu il risultato di una deliberata perfidia. L’aspetto veramente disastroso delle crociate consisté nell’incapacità della cristianità occidentale di comprendere Bisanzio. In tutte le epoche ci sono politici ottimisti, i quali credono che, se soltanto i popoli del mondo potessero venire in contatto, si amerebbero e si capirebbero fra loro. È una tragica illusione: finché Bisanzio e l’Occidente ebbero scarsi rapporti fra loro, le loro relazioni furono amichevoli; pellegrini e soldati di ventura occidentali erano benevolmente accolti nella città imperiale, tornavano in patria a raccontare le magnificenze, ma non erano abbastanza numerosi da provocare attriti. Di tanto in tanto qualche motivo di discordia insorgeva tra l’imperatore bizantino e le potenze occidentali, ma lo si lasciava cadere in tempo oppure si escogitava qualche formula diplomatica di compromesso. Scoppiavano continue dispute religiose, esasperate dalle pretese papali ai tempi di Gregorio VII, ma perfino in questo campo, con la buona volontà di ambe le parti, si poteva trovare una soluzione. Ma la volontà dei normanni di espandersi nel Mediterraneo orientale aveva dato inizio a un’era di inquietudini: gli interessi bizantini si trovarono in diretto contrasto con quelli di un popolo occidentale. I normanni furono respinti e le crociate vennero lanciate come una mossa intesa a ricondurre la pace. Fin dal principio vi fu incomprensione: l’imperatore pensava che fosse suo dovere cristiano ristabilire le proprie frontiere come baluardo contro i turchi da lui considerati il vero nemico; i crociati, invece, desideravano spingersi fino alla Terra Santa. Si erano mossi per combattere la guerra santa contro gli infedeli di ogni razza. Mentre i loro capi si dimostravano incapaci di capire la politica dell’imperatore, migliaia di soldati e di pellegrini si trovavano in un paese, dove sembravano loro strani e incomprensibili, e perciò errati, gli usi, la lingua e la religione. Essi si aspettavano non soltanto che i contadini e i cittadini dei territori da loro attraversati somigliassero loro, ma anche che li accogliessero con gioia. Erano doppiamente delusi, e incapaci di rendersi conto che le loro abitudini di rubare e distruggere non potevano guadagnar loro l’affetto o il rispetto delle vittime, si sentivano offesi, adirati e invidiosi. Se fosse dipeso dalla decisione del normale soldato crociato, Costantinopoli sarebbe stata attaccata e saccheggiata molto prima. Ma in

un primo tempo i capi della crociata erano consapevoli del loro dovere cristiano e raffrenarono i loro seguaci. Luigi VII respinse i consigli di alcuni dei suoi nobili e vescovi di prendere le armi contro la città cristiana; e sebbene Federico Barbarossa si sia trastullato con questa idea, tuttavia seppe dominare la propria collera e proseguì nella sua via. Toccò agli avidi, cinici capi della quarta crociata il destino di trarre vantaggio da una momentanea debolezza dello Stato bizantino per completarne la distruzione. L’Impero latino di Costantinopoli, concepito nel peccato, fu una rachitica creatura, al cui benessere l’Occidente sacrificò volentieri le esigenze dei suoi figli stabiliti in Terra Santa. I papi stessi erano molto più desiderosi di tenere sotto il proprio dominio ecclesiastico i riluttanti greci, che di liberare Gerusalemme. Quando i bizantini riconquistarono la loro capitale, pontefici e politici dell’Occidente si diedero un gran daffare per ristabilire la dominazione occidentale. La crociata si era trasformata in un movimento inteso non a difendere la cristianità, ma ad imporre la supremazia della Chiesa romana. La decisione degli occidentali di conquistare e colonizzare i territori di Bisanzio fu disastrosa per gli interessi di «Outremer», ma fu anche più disastrosa per la civiltà europea; Costantinopoli era ancora il centro del mondo civilizzato cristiano e noi vediamo rispecchiata nelle pagine di Villehardouin l’impressione che la metropoli fece sui cavalieri giunti dalla Francia e dall’Italia per conquistarla: non riuscivano a credere che potesse esistere sulla terra una città così stupenda, la regina di tutte le città3. Come la maggior parte degli invasori barbari, i soldati della quarta crociata non avevano l’intenzione di distruggere ciò che avevano trovato, ma volevano esserne partecipi e dominarlo; però la loro cupidigia e rozzezza li portarono ad abbandonarsi a distruzioni irreparabili. Soltanto i veneziani, con il loro più alto livello di cultura, sapevano che cosa conveniva salvare. E l’Italia raccolse qualche beneficio dal declino e dalla caduta di Bisanzio. I coloni franchi in terre bizantine, sebbene recassero una romantica e superficiale vitalità alle colline e alle vallate della Grecia, erano incapaci di comprendere la lunga tradizione culturale del paese. Ma gli italiani, che non avevano mai interrotto per lungo tempo i loro contatti con la Grecia, si trovavano in migliori condizioni per apprezzare il valore di quelle cose di cui si impadronivano, e quando la decadenza di Bisanzio provocò la dispersione dei suoi studiosi, essi trovarono un’accoglienza benevola in Italia, dove la diffusione dell’umanesimo fu una conseguenza indiretta della quarta crociata. Il Rinascimento italiano è motivo d’orgoglio per tutta l’umanità, ma sarebbe stato meglio se avesse potuto realizzarsi senza la distruzione della cristianità orientale. La cultura bizantina sopravvisse al colpo della quarta crociata. Nel secolo XIV e al principio del XV l’arte e il pensiero bizantino ebbero una splendida fioritura; ma le basi politiche dell’Impero erano instabili: in effetti, dal 1204 non fu più l’Impero, ma uno Stato tra molti altri, di uguale o maggiore potenza. Costretto a fronteggiare l’ostilità dell’Occidente e la rivalità dei suoi vicini balcanici, non poté più proteggere a lungo la cristianità contro i turchi. Furono i crociati stessi a spezzare premeditatamente le difese del mondo cristiano e a permettere agli infedeli di attraversare gli stretti per penetrare nel cuore d’Europa. I veri martiri delle crociate non furono i valorosi cavalieri che caddero combattendo ai Corni di Hattin o davanti le torri di Acri, ma gli innocenti cristiani dei Balcani, dell’Anatolia e della Siria, abbandonati alla persecuzione e alla schiavitù. I crociati stessi non sapevano spiegarsi i propri insuccessi: combattevano per la causa dell’Onnipotente e, se la fede e la logica erano giuste, la loro causa avrebbe dovuto trionfare. Nel primo entusiasmo del successo intitolarono le loro cronache Gesta Dei per francos, le azioni di Dio compiute per mezzo dei franchi. Ma dopo la prima crociata venne un lungo seguito di disastri, e perfino le vittorie della terza crociata furono incomplete ed effimere. C’erano evidentemente forze

demoniache che contrastavano l’opera di Dio; in un primo momento si poté farne ricadere la colpa su Bisanzio, sull’imperatore scismatico e sul suo popolo empio, che rifiutava di riconoscere la missione divina dei crociati, ma dopo la quarta crociata non si poté più sostenere tale giustificazione; eppure le cose andavano di male in peggio. Certi predicatori moralisti affermavano che Dio era adirato con i suoi guerrieri a causa dei loro peccati, e c’era forse in ciò una parte di verità; ma questo argomento cessò di essere una spiegazione esauriente quando san Luigi condusse il suo esercito in uno dei più grandi disastri mai subiti dai crociati; egli, infatti, era considerato dal mondo medievale un uomo senza peccato. In realtà non fu tanto la malvagità quanto la stoltezza che rovinò le guerre sante, eppure la natura umana è di tal fatta che un uomo ammetterà molto più facilmente di essere un peccatore che uno sciocco. Nessuno tra i crociati avrebbe voluto riconoscere che i loro veri delitti erano un’ostinata e meschina ignoranza e un’irresponsabile mancanza di una visione generale del mondo. La fede fu il movente principale che spinse gli eserciti cristiani verso oriente, ma la sincerità e la semplicità stessa della loro fede li fece cadere in errore: li condusse attraverso incredibili privazioni alla vittoria della prima crociata, il cui successo sembrò miracoloso e li indusse perciò ad aspettarsi che nuovi miracoli avrebbero continuato a salvarli quando fossero sorte le difficoltà. La loro fiducia li rese scioccamente temerari, e ancora nelle ultime spedizioni, a Nicopoli e ad Antiochia, essi erano sicuri che avrebbero ricevuto l’aiuto divino. Inoltre la loro fede, con la sua estrema semplicità, li rendeva intolleranti: il loro Dio era un Dio geloso, essi non potevano nemmeno concepire l’idea che l’Iddio dell’Islam fosse la stessa potenza. I coloni stabiliti in «Outremer» potevano giungere a una maggiore larghezza di vedute, ma i soldati provenienti dall’Occidente si erano mossi desiderosi di combattere per il Dio cristiano e, secondo loro, chiunque mostrasse qualche tolleranza verso gli infedeli era un traditore. Erano sospetti e biasimati persino coloro che adoravano il Dio cristiano con un rituale diverso. Questa fede sincera si accompagnava spesso con una spudorata cupidigia. Pochi cristiani ritennero disdicevole combinare l’opera di Dio con l’acquisto di vantaggi materiali. Era giusto che i soldati di Dio sottraessero terre e ricchezze agli infedeli, ed era pure giustificabile il derubare gli eretici, nonché gli scismatici. Le ambizioni terrene diedero incentivo al coraggioso spirito di avventura su cui era fondato in buona parte il primitivo successo del movimento, ma la cupidigia e il desiderio smodato di potere sono padroni pericolosi: essi generano impazienza, perché la vita dell’uomo è breve ed egli ha bisogno di rapidi risultati; generano invidia e slealtà, perché le cariche e i possedimenti sono in numero limitato ed è impossibile soddisfare ogni pretendente. Esisteva una permanente discordanza di opinione tra i franchi già stabiliti in Oriente e coloro che vi giungevano per combattere gli infedeli e per cercare fortuna. Ognuno considerava la guerra da un punto di vista diverso. Nel turbine di invidie, diffidenze ed intrighi, poche campagne avevano grandi probabilità di successo; le liti e l’inefficienza erano potenziate dall’ignoranza. I coloni si adattavano a poco a poco agli usi e al clima del Levante; cominciavano ad imparare come combattevano i loro nemici e in che modo farseli amici. Ma il crociato appena arrivato si trovava in un mondo completamente diverso dal suo ed era di solito troppo orgoglioso per ammettere le proprie deficienze. Detestava i suoi fratelli di «Outremer» e non voleva ascoltarli; perciò tutte le spedizioni ripetevano, una dopo l’altra, gli stessi errori, avviandosi verso la medesima dolorosa conclusione. Capi autorevoli e intelligenti avrebbero potuto salvare il movimento, ma l’ambiente feudale da cui provenivano i crociati rendeva loro difficile accettare una guida suprema. Le crociate erano opera del papa, ma raramente i legati papali erano buoni generali; vi furono molti uomini capaci tra i re di Gerusalemme, ma avevano scarsa autorità sui loro sudditi e nessuna sui loro temporanei alleati

europei. Gli ordini militari, che fornivano i soldati migliori e più esperti, erano indipendenti e invidiosi gli uni degli altri. Gli eserciti nazionali, condotti dal proprio sovrano, parvero talora il mezzo più efficace; ma sebbene Riccardo d’Inghilterra, che era un soldato geniale, sia stato uno dei pochi fortunati comandanti crociati, tutte le altre spedizioni regali si dimostrarono senza eccezione disastrose. Per qualunque monarca era difficile andarsene per un lungo periodo di tempo al fine di condurre una campagna in paesi così lontani dal suo. I soggiorni in Oriente di Cuor di Leone e di san Luigi furono compiuti a spese del benessere dell’Inghilterra e della Francia. Soprattutto il costo finanziario era terribilmente elevato. Le città italiane potevano trasformare le crociate in un affare vantaggioso e quei nobili indipendenti, che speravano di fondare un feudo in «Outremer» o di sposarvi un’ereditiera, potevano trovarvi una ricompensa per le spese sostenute; ma inviare un esercito reale al di là del mare era un’impresa costosa con scarsissime speranze di vantaggi materiali. Bisognava imporre tasse speciali a tutto il regno, e non c’è da stupirsi se re dotati di mentalità pratica, come Filippo IV di Francia, preferirono raccogliere le tasse e rimanersene a casa. Non si trovò mai il comandante ideale, il grande soldato e grande diplomatico, con tempo e denaro da spendere nel Levante e una grande comprensione delle abitudini orientali. Perciò il dissolversi del movimento crociato nel fallimento è un evento meno sorprendente di quanto non lo sia il fatto che esso abbia ottenuto un sia pur minimo successo, o che «Outremer», con una sola vittoria a proprio favore dopo la sua spettacolare fondazione, sia riuscito a durare per duecento anni. I trionfi della crociata furono i trionfi della fede, ma è pericolosa la fede senza la saggezza. Per le leggi inesorabili della storia il mondo intero paga per i delitti e le follie di ciascuno dei suoi cittadini. Nella lunga serie di influenze reciproche e di fusioni tra l’Oriente e l’Occidente, da cui si è sviluppata la nostra civiltà, le crociate furono un episodio tragico e distruttivo. Lo studioso che a secoli di distanza ne considera l’eroica storia deve sentire che la sua ammirazione viene offuscata dal dolore per la dimostrazione che essa offre dei limiti della natura umana. C’era tanto coraggio e così poca lealtà, tanta devozione e così poca comprensione; ideali elevati erano insozzati da crudeltà e cupidigia, spirito d’iniziativa e costanza nelle avversità erano annullati da un sentimento della propria giustizia cieco e limitato. La guerra santa stessa non fu altro che un lungo atto di intolleranza compiuto nel nome di Dio, il che costituisce un peccato contro lo Spirito Santo.

XIV.

«Outremer» nel secolo XIII.

Appendici

Appendici al Libro primo

I. PRINCIPALI FONTI PER LA STORIA DELLA PRIMA CROCIATA

La storia della prima crociata è quasi interamente tratta da fonti contemporanee o quasi contemporanee. Nelle note a pie di pagina abbiamo discusso le questioni sollevate da fonti minori e secondarie, ma le principali fonti di prima mano, dalle quali dipendiamo continuamente e che non sempre concordano fra loro, richiedono una valutazione critica generale per stabilirne il valore relativo. 1. Fonti greche. L’unica fonte greca di fondamentale importanza è l’ Alessiade di Anna Comnena, che è la biografia dell’imperatore Alessio scritta dalla sua figlia prediletta. Anna scrisse il libro circa quarant’anni dopo gli avvenimenti della prima crociata, quando era ormai in età avanzata, e può darsi che la sua memoria l’abbia in qualche caso ingannata; in particolare la sua cronologia è talvolta un po’ confusa. Inoltre scrisse tenendo presente gli sviluppi posteriori. Era una figlia devota e desiderava dimostrare che Alessio era sempre stato saggio, scrupoloso e cortese; aveva perciò la tendenza a sopprimere tutto ciò che secondo lei avrebbe potuto essere interpretato a discredito dell’imperatore o dei suoi amici. Essa è chiaramente inattendibile quando tratta di avvenimenti accaduti fuori dei confini dell’Impero, allorché lascia campo libero ai propri pregiudizi, come nella sua relazione sulla vita di papa Gregorio VII. Ma gli storici moderni sono troppo propensi a svalutarla: essa era una donna intelligente e colta, ed una storica coscienziosa che cercava di controllare le sue fonti. Sebbene scrivesse in tarda età, aveva avuto per molto tempo l’intenzione di diventare la biografa del padre e deve aver raccolto la maggior parte del suo materiale durante la vita di lui, quando aveva libero accesso ai suoi documenti ufficiali. Dove essa si fonda su un informatore degno di fede, come nella sua relazione della marcia dei crociati attraverso l’Anatolia, per la quale si servi evidentemente dei rapporti di Taticio, tiene a freno i suoi pregiudizi e, sebbene abbia senza dubbio commesso peccati di omissione, non si può provare che sia colpevole di peccati di invenzione nel descrivere gli avvenimenti che ebbero luogo a Costantinopoli o all’interno dell’Impero. Godeva della fiducia del padre ed ebbe una conoscenza diretta di molti personaggi e dei fatti che descrive. È facile tenere il debito conto della sua devozione e dei suoi pregiudizi, ma, una volta fatto ciò, la sua testimonianza su tutte le questioni che riguardano direttamente Bisanzio deve essere preferita a quella di chiunque altro1. I cronisti Zonata e Glica2 e la breve opera popolare nota come Synopsis Sathas3 aggiungono molto poco alle nostre conoscenze. Non sono rimasti documenti ufficiali bizantini riguardanti la crociata, tranne le lettere scritte da Alessio ai principi e agli ecclesiastici occidentali, che esistono soltanto in traduzioni latine, certamente poco accurate. Le lettere di Teofilatto, arcivescovo di Bulgaria, pubblicate finora in modo inadeguato, forniscono alcune informazioni supplementari4.

2. Fonti latine. Le fonti latine sono più numerose e ci offrono la maggior parte delle nostre informazioni. Raimondo di Aguilers (o Aiguilhe, nel dipartimento dell’Alta Loira) si uni alla crociata con il gruppo di Ademaro di Le Puy e diventò ben presto cappellano di Raimondo di Tolosa. Cominciò a scrivere la sua cronaca, la Historia francorum qui ceperunt Jherusalem, durante l’assedio di Antiochia e la terminò alla fine del 1099. Si dedicò soprattutto alla storia della spedizione del conte Raimondo, ma, sebbene fosse un leale francese meridionale, non si peritò di formulare critiche nei confronti del suo capo, disapprovando l’indugio del conte nel proseguire la marcia dopo Antiochia e dimostrandosi contrario alla sua politica filo-bizantina. Soltanto in un’unica occasione egli menziona i greci senza un commento ostile. La parte da lui sostenuta nell’episodio della Sacra Lancia ha indotto certi critici a mettere in dubbio la sua veracità; ma, entro i suoi limiti, era ovviamente sincero e ben informato. La sua opera raggiunse presto grande diffusione; ma, sebbene alcuni dei più antichi manoscritti contengano interpolazioni, non venne mai edita5. Fulcherio di Chartres prese parte al concilio di Clermont, poi andò in Oriente con il gruppo del suo signore Stefano di Blois. Nel giugno del 1097 diventò cappellano di Baldovino di Boulogne e da allora in poi rimase nel suo seguito. Le sue Gesta francorum Jherusalem peregrinantium vennero scritte in tre periodi diversi; nel noi, nel 1106 e nel 1124-27. Era il più colto e il più attendibile dei cronisti latini e, benché fosse devoto a Baldovino, la sua visione delle cose è notevolmente obiettiva. Soltanto nella terza parte appare una certa animosità contro i bizantini; il suo atteggiamento generale verso i cristiani orientali è giusto ed amichevole. La sua opera fu molto usata da cronisti posteriori6. Bartolfo di Nangis, che scriveva probabilmente in Siria, pubblicò verso il 1108 un’edizione dei primi capitoli, con alcune aggiunte, soprattutto topografiche7. Un breve riassunto degli ultimi capitoli è attribuito a Lisiardo di Tours 8. Guglielmo di Malmesbury, Riccardo di Poitiers e Sicardo da Cremona, quando scrissero sulla crociata9 si servirono dell’intera cronaca quale loro fonte principale. Il più popolare resoconto contemporaneo alla crociata fu l’opera anonima, conosciuta come Gesta francorum et aliorum hierosolimitorum. Fu scritta, probabilmente sotto forma di diario, da uno dei seguaci di Boemondo che andò a Gerusalemme con Tancredi. Termina con il racconto della battaglia di Ascalona del 1099 e venne pubblicata per la prima volta nel 1100 o al principio del noi; Ekkehard la lesse a Gerusalemme nel noi. Ma i più antichi manoscritti esistenti contengono già interpolazioni, come una descrizione «letteraria» di Antiochia e un passo che falsifica il resoconto delle transazioni di Boemondo a Costantinopoli ispirato da Boemondo stesso verso il 1105, come pure un passo derivato da Raimondo di Aguilers. L’autore era un semplice soldato, onesto secondo il suo punto di vista, ma credulone e prevenuto, e grande ammiratore di Boemondo. L’ampio successo delle Gesta fu dovuto soprattutto agli sforzi di Boemondo stesso, che la considerava la propria apologia e che la diffuse nella Francia settentrionale durante la visita che vi fece nel 1106 10. Assai presto venne ripubblicata, quasi parola per parola, da un prete del Poitou, anch’egli crociato, di nome Tudebodus. La sua versione, il De hierosolymitano itinere, contiene l’aggiunta di alcuni ricordi personali11. Verso il 1130 apparve una Historia belli sacri, una rozza compilazione fatta da un monaco di Monte Cassino, basata sulle Gesta, ma con alcuni passi tratti da Radulfo di Caen, da alcune fonti ora perdute e dalle tradizioni leggendarie correnti12. Le Gesta vennero riscritte parecchie volte: verso il 1109 da Guiberto di Nogent, che aggiunse informazioni personali e passi

copiati da Fulcherio, aspirando a un tono più critico e morale13; verso il 1110 da Baudri di Bourgueil, arcivescovo di Dol, che cercò di migliorarne la forma letteraria14; e da Roberto di Reims, la cui versione popolare e in certa misura romantica, la Historia hierosolymitana, apparve verso il 1122 15. Esse ispirarono pure una breve ed anonima Expeditio contro turcos, nonché i capitoli sulle crociate delle cronache di Ugo di Fleury e di Enrico di Huntingdon16. Tre importanti cronisti della prima crociata non vi presero parte personalmente. Ekkehard, abate di Aura, andò in Palestina con i crociati tedeschi del noi e al suo ritorno in Germania, verso l’anno 1115, scrisse un’opera intitolata Hierosolymita, parte di una cronaca universale alla quale egli stava pensando. È composta di pochi ricordi personali e dei racconti fatti a lui o al suo amico, Frutholf di Saint Michelsberg, da autentici membri della crociata, con l’aggiunta di informazioni tratte da cronache già pubblicate. Egli indica spesso le sue fonti, ma si rivela un credulone17. Radulfo di Caen giunse in Siria nel 1108. Aveva già servito con Boemondo nella campagna dell’Epiro del 1107 e in seguito si uni a Tancredi. Dopo la morte di questi, verso il 13, scrisse le Gesta Tancredi Siciliae regis in expeditione hierosolymitana. Il libro, che esiste soltanto in un unico manoscritto, non venne mai terminato; il suo stile è quello di un uomo ignorante e molto presuntuoso; contiene pochi frammenti di informazioni originarie sul suo eroe, e per lo più segue opere già pubblicate; sembra tuttavia che il suo autore non abbia letto le Gesta francorum18. La più completa relazione contemporanea alla prima crociata si trova nel Liber christianae expeditionis pro ereptione, emundatione et restitutione sanetae hierosolymitanae ecclesiae di Alberto di Aix (Aquisgrana), scritta intorno al 1130. Nulla sappiamo di Alberto, salvo che non si recò mai in Oriente. Fino alla metà del secolo scorso era considerato la più autorevole fonte per la storia della crociata, e storici come Gibbon si fidavano di lui nel modo più assoluto; ma dopo la critica distruttiva di von Sybel è diventato di moda screditarlo molto più di quanto non meriti. La sua opera è una compilazione di leggende e di relazioni di testimoni oculari, messe insieme con scarso senso critico e senza citare le fonti. La sua narrazione della prima parte della vita di Pietro l’Eremita è chiaramente inattendibile, ma la descrizione della spedizione di Pietro gli fu certamente fornita da qualcuno che vi aveva preso parte. Particolari come quelli relativi al tempo impiegato nelle varie tappe della marcia sono pienamente convincenti. Per il racconto del viaggio di Goffredo a Costantinopoli e della marcia attraverso l’Anatolia, egli si basò certamente su un resoconto fattogli da un soldato dell’esercito di Goffredo. Aveva probabilmente preso l’abitudine di annotare le informazioni dategli al ritorno da soldati e pellegrini già molto tempo prima di cominciare a scrivere il suo libro. È abbastanza facile identificare il materiale leggendario, ma bisogna trattare con rispetto la narrazione che egli fa degli avvenimenti della crociata19. Guglielmo di Tiro, il più grande degli storici crociati, scrisse circa settant’anni dopo la crociata. Per la narrazione dei fatti fino al momento in cui i crociati si stabilirono in Palestina si servi quasi esclusivamente di Alberto di Aix, ma dopo la conquista di Gerusalemme il suo racconto è basato anche su ricordi e tradizioni esistenti ancora nel regno crociato. Ma la sua straordinaria Historia rerum in partibus transmarinis gestarum diventa una fonte importante soltanto dopo l’incoronazione di Baldovino. Spero di darne una valutazione critica più completa in un volume successivo20. Un punto di vista leggermente diverso è quello del genovese Carfaro, autore degli Annales Ianuenses, che si riferiscono agli anni fra il 1100 e il 1163, e di un De liberatione civitatum Orientis Liber, scritto nel 1155, ma scoperto fra altri antichi documenti un secolo dopo e forse leggermente modificato prima della sua pubblicazione. Caffaro apparteneva a una famiglia genovese

che andò in Palestina nel 1100; la sua narrazione è patriottica, ma sobria e attendibile21. 3. Fonti francesi e tedesche. I cronisti dell’Europa occidentale contemporanei della crociata, la menzionano tutti, ma si basano completamente sull’una o sull’altra delle fonti che abbiamo ricordato, ad eccezione della Cronaca di Zimmern, che fornisce informazioni sui crociati tedeschi22. La crociata produsse le sue opere epiche, sia in latino sia in langue d’oil e in langue d’oc; esse sono tuttavia più importanti per il loro interesse letterario che per il loro valore storico. I poeti latini, Goffredo il Lombardo, Giuseppe di Exeter e Gunther di Basilea, dal punto di vista storico non hanno alcun valore. La provenzale Chanson d’Antioche, attribuita a Gregorio Bechada, è più interessante e merita un ulteriore studio. In langue d’oil esiste, oltre a una versione in versi di Baudri, una Chanson d’Antioche di Graindor di Douai, basata in parte su Roberto il Monaco e in parte su una primitiva Chanson, composta da Riccardo il Pellegrino, il quale sembra aver preso parte alla crociata nell’esercito di Roberto di Fiandra. Era un uomo semplice, piuttosto ignorante, ma con un suo proprio punto di vista: per esempio, pur desiderando che i crociati prendessero Costantinopoli, è animato da sentimenti amichevoli verso Taticio. Vi è pure un poema in francese di Gilon, con interpolazioni di un certo Fulcherio, basato sullo stesso materiale, e un altro in spagnolo Gran conquista de ultramar, di epoca posteriore, che si serve sia di Bechada e Graindor, sia di Guglielmo di Tiro. Il ciclo che ha come eroe Goffredo di Lorena, quale «Chevalier du Cygne», contiene soltanto racconti leggendari23. Pochissima corrispondenza contemporanea è giunta fino a noi, ma ciò che rimane è di grande importanza. Vi sono alcune lettere inviate ai papi Urbano II e Pasquale II e alcune altre spedite da loro; due appelli di ecclesiastici d’Oriente; due dispacci interessanti, non del tutto privi di franchezza, dei capi crociati; e, di estremo valore, quattro lettere di due eminenti crociati, Stefano di Blois e Anselmo vescovo di Ribemont. Stefano scrisse tre lettere a casa a sua moglie: la prima, scritta al suo arrivo a Costantinopoli, è andata perduta; la seconda venne inviata dall’accampamento di Nicea e la terza dal campo di Antiochia. Stefano, sebbene fosse un uomo debole, era onesto ed entusiasta, e le sue lettere sono i documenti più umani che possediamo sulla crociata. Le lettere di Anselmo furono scritte entrambe da Antiochia ed erano indirizzate al suo superiore, Manasse, arcivescovo di Reims: esse forniscono utili informazioni, ma mancano della qualità personale di quelle di Stefano24. I pochi decreti papali che regolano la crociata e i documenti che si riferiscono alla fondazione del regno crociato sono senza dubbio importanti. Gli archivi di Genova e di Venezia contengono molto materiale il cui valore aumenta a misura che crebbe l’interesse delle città italiane per gli affari dei crociati. 4. Fonti arabe. Le fonti arabe, sebbene numerose e importantissime per le ultime crociate, ci offrono scarsissimo aiuto per la prima. Di quel periodo non sono rimasti né atti, né documenti ufficiali; le grandi enciclopedie e opere geografiche, così popolari fra gli arabi, si preoccupano a mala pena di questi

anni, con una sola eccezione. Le opere dei cronisti, di cui si sa che vissero in quell’epoca, sono giunte fino a noi soltanto in scarse e brevi citazioni di scrittori posteriori. Vi sono solo tre opere di vero valore. Ibn al-Qalanisi di Damasco scrisse, negli anni 1140-60, una storia della sua città natale, dal tempo delle invasioni turche fino ai suoi giorni. Il titolo dell’opera, Dhail tarikh Dimashq (Continuazione della Cronaca di Damasco) mostra che essa era concepita come un seguito alla cronaca di Hilal as-Sabi. Mentre però Hilal intendeva scrivere la storia mondiale, Ibn al-Qalanisi si interessava solo di Damasco e dei suoi sovrani. Trascorse la sua vita nella cancelleria della corte damascena, giungendo ad esserne il funzionario di grado più elevato, ed era perciò ben informato; sembra che sia stato accurato e obiettivo, tranne quando era in gioco la reputazione dei suoi signori.25 Ibn al-Athir di Mosul scrisse la sua Kamil fi t-tarikh (Il libro perfetto di storia) al principio del secolo XIII, ma il suo uso attento e critico di fonti precedenti ne fa un’autorità di primaria importanza, sebbene le sue annotazioni siano di solito molto brevi26. Kemal ad-Din di Aleppo scrisse la sua incompiuta Cronaca di Aleppo e la sua enciclopedia circa mezzo secolo più tardi, ma anch’egli si servì in modo completo di fonti precedenti e nella sua enciclopedia le indica con precisione. Fra queste fonti perdute, quella che si deve rimpiangere maggiormente è la storia dell’invasione franca scritta da Hamdan ibn Abd ar-Rahim di Maaratha, di cui già al tempo di Kemal ad-Din rimanevano ormai soltanto poche pagine. Ibn Zuraiq di Maarat anNuman, che nacque nel 1051 e partecipò agli avvenimenti della crociata, lasciò una storia del suo tempo, anch’essa conosciuta soltanto per pochi estratti; invece al-Azimi di Aleppo, nato nel 1090, lasciò una storia della Siria settentrionale al tempo della crociata, di cui esiste un maggior numero di estratti27. 5. Fonti armene. Vi è un’unica fonte armena di valore inestimabile per il periodo della prima crociata, la Cronaca di Matteo di Edessa. L’opera tratta la storia della Siria dal 952 al 1136 e deve essere stata scritta prima del 1140. Matteo era un uomo ingenuo che odiava i greci e non amava molto i suoi compatrioti di religione ortodossa. Molte delle sue informazioni sulla crociata devono essergli state date da qualche ignorante soldato franco, ma egli era molto bene informato sugli avvenimenti della sua città natale e della regione circostante28. Cronisti armeni posteriori, come Samuele di Ani e Mechitar di Airavanq, che scrissero alla fine del secolo XII, e Ciriaco di Gantzag e Vartan il Grande, nel secolo XIII, trattano solo brevemente della prima crociata. Sembra che si siano serviti di Matteo e di una storia, andata perduta, scritta da un certo Giovanni il Diacono, altamente lodato da Samuele, che mostra una particolare animosità non solo contro l’imperatore Alessio, ma anche contro sua madre, Anna Dalassena29. 6. Fonti siriache. L’unica opera siriaca, giunta sino a noi, che tratti della prima crociata è la cronaca di Michele il Siriano, patriarca giacobita di Antiochia dal 1166 al 1199, che accenna molto rapidamente al

periodo antecedente al 1107. Egli si servi di cronache siriane precedenti, ora perdute, e di fonti arabe, ma le sue informazioni sono di scarso valore fino al momento in cui non parla delle cose avvenute durante la sua vita30. Sebbene alcune delle più antiche storie della crociata siano state pubblicate singolarmente, l’unica raccolta di fonti è il grande Recueil des historiens des croisades, pubblicato a Parigi dal 1844 in poi, che comprende testi latini, francesi antichi, arabi, armeni e greci, con traduzioni in francese degli scrittori greci ed orientali. Disgraziatamente, ad eccezione dell’ultimo (il quinto) volume dei testi latini, pubblicato alcuni anni dopo le altre parti del Recueil, l’edizione dei manoscritti non è stata accurata: vi sono pure molte lacune arbitrarie e le traduzioni non sono sempre esatte; tuttavia la raccolta rimane indispensabile per lo studioso delle crociate.

II. LA FORZA NUMERICA DEI CROCIATI

Tutti gli storici medievali, di qualsiasi nazione, indulgono invariabilmente a una sfrenata e pittoresca esagerazione ogni volta che devono valutare quantità difficilmente controllabili. È perciò impossibile stabilire oggi la dimensione effettiva degli eserciti crociati. Quando Fulcherio di Chartres e Alberto di Aix affermano che i combattenti della prima crociata raggiungevano la cifra di seicentomila, mentre Ekkehard dice trecentomila e Raimondo di Aguilers un modesto centomila, o quando Anna Comnena dichiara che Goffredo di Lorena condusse con sé diecimila cavalieri e settantamila fanti, è evidente che queste cifre vengono usate soltanto per indicare un numero effettivamente grande1. Ma quando trattano di quantità minori, i cronisti non devono essere considerati come del tutto indegni di fede, anche se amano arrotondare le cifre, che perciò possono essere soltanto considerate approssimative. Dalle loro testimonianze noi possiamo trarre certe deduzioni. Non si può valutare la proporzione dei non combattenti negli eserciti: essa era certamente alta. Un gran numero di cavalieri portò con sé la consorte: Raimondo di Tolosa era accompagnato da sua moglie e Baldovino di Boulogne dalla moglie e dai bambini. Boemondo aveva almeno una sorella con sé. Conosciamo il nome di parecchie signore che parteciparono alla spedizione di Roberto di Normandia, e qua e là altre donne appaiono nella narrazione. Tutte queste dame avevano con sé della servitù; inoltre vi era certamente un gran numero di donne di più umile condizione, rispettabili o no, con l’esercito. Abbiamo continuamente notizie di uomini non combattenti, come, ad esempio, Pietro Bartolomeo ed il suo padrone, e anche il clero era numeroso; ma è probabile che la maggior parte degli uomini non combattenti venisse arruolata forzatamente in momenti di pericolo. La proporzione di quelli che veramente non partecipavano ai combattimenti, donne, vecchi e bambini, non può essere stata più di un quarto dell’intero esercito. È anche probabile che il tasso di mortalità fosse particolarmente elevato fra questi non combattenti, specialmente fra i vecchi e i bambini. Fra i combattenti, i fanti devono essere periti per malattie e disagi in proporzione maggiore dei cavalieri e delle dame, che godevano di migliori cure ed erano più facilmente in grado di comprare del cibo. In battaglia, la cavalleria era più esposta della fanteria e perciò nell’insieme soffriva perdite altrettanto gravi. La proporzione fra cavalleria e fanteria sembra essere stata circa di uno a sette, quando tra i fanti erano arruolati tutti i possibili combattenti. La valutazione di Anna delle rispettive forze nell’esercito di Goffredo è probabilmente esatta, anche se si devono dividere almeno per dieci le sue cifre. Alla battaglia di Ascalona, quando vennero impiegati tutti gli uomini disponibili in Palestina, vi erano milleduecento cavalieri e novemila fanti, una proporzione di uno a sette e mezzo2. All’assedio di Gerusalemme c’erano, secondo Raimondo di Aguilers, da milleduecento a milletrecento cavalieri, un esercito di dodicimila unità, che, tuttavia comprendeva genieri e marinai genovesi ed inglesi3. Il termine «cavaliere» deve essere inteso nel senso di cavalleggero armato, e non in un significato cavalleresco; d’altro lato molti fanti non erano completamente armati; gli arcieri e i picchieri erano probabilmente soltanto una parte abbastanza piccola di tutto l’insieme. È quasi sicuro che, tra gli eserciti personali, quello di Raimondo era il più numeroso, ma abbiamo una sola indicazione sulle sue dimensioni: quando egli ebbe a Coxon la falsa notizia che i turchi avevano evacuato Antiochia, inviò un gruppo di cinquecento cavalieri, fra cui alcuni dei più eminenti capi del suo esercito, ad occupare la città4. Il numero cinquecento ricorre con una frequenza sospetta, ma può ben darsi che venisse considerata la forza adatta per compiere estese incursioni o spedizioni di questo tipo. Non è verosimile che Raimondo si privasse di metà delle sue forze di

cavalleria in quel momento; se accettiamo questa cifra di cinquecento come approssimativamente esatta, l’intera sua forza di cavalleria deve aver contato milleduecento o più uomini, e il suo esercito in totale circa diecimila unità, oltre i vecchi, le donne e i bambini5. La cronaca di Lucca afferma che Boemondo andò in Oriente con cinquecento cavalieri6. Anna Comnena scrive che egli non aveva un esercito particolarmente numeroso, perciò può ben darsi che questa cifra sia corretta7. Egli concesse a Tancredi cento cavalieri e duecento fanti per la spedizione in Cilicia, sebbene gli inviasse poi altri trecento fanti. Queste cifre concordano fra loro in modo ragionevole8. L’unica indicazione che abbiamo delle dimensioni proporzionali degli altri eserciti ci è data dal gesto di Raimondo a Rugia, quando tentò di corrompere i suoi rivali perché lo accettassero come comandante: offrì a Goffredo e a Roberto di Normandia diecimila soldi francesi ciascuno, a Roberto di Fiandra seimila, a Tancredi cinquemila e somme inferiori ai capi minori. Le somme devono essere state fissate in relazione con le forze di cui ciascun principe poteva disporre in quel momento, sebbene a Tancredi venisse probabilmente offerta una somma sproporzionatamente elevata per staccare lui ed il maggior numero possibile di normanni da Boemondo9. La sola testimonianza che abbiamo sulle dimensioni dell’esercito di Goffredo, oltre alla fantastica cifra indicata da Anna, è fornita dalla sua prontezza a rinunciare a cinquecento cavalieri e a duemila fanti a favore di suo fratello Baldovino per la spedizione in Cilicia. È assai improbabile che egli si separasse da più della metà delle sue forze di cavalleria, anche se desiderava che queste truppe si riunissero a lui prima di giungere ad Antiochia. Si può essere indotti a supporre che l’offerta di Raimondo a Rugia fosse fatta sulla base di dieci soldi francesi per ogni cavaliere; se allo stesso tempo dividiamo per dieci le cifre date da Anna, possiamo attribuire a Goffredo mille cavalieri e settemila fanti al momento del suo arrivo a Costantinopoli. Deve avere subito perdite considerevoli prima dell’incontro di Rugia, senza contare i cavalieri che accompagnarono Baldovino a Edessa; si erano però uniti a lui i superstiti della crociata di Pietro l’Eremita e delle fallite crociate tedesche, come pure alcuni marinai di Guynemer, i quali, poiché il loro padrone era di Boulogne, vollero naturalmente associarsi al conte di Boulogne e ai suoi fratelli10. A Rugia, Roberto di Normandia era considerato pari a Goffredo: se questi aveva mille cavalieri, egli deve essere stato altrettanto forte. Un secolo dopo la Normandia fu costretta a procurare al suo duca poco meno di seicento cavalieri11, ma è possibile che per la crociata Roberto fosse stato in grado di raccogliere un numero superiore di cavalleggeri, forse seicentocinquanta; inoltre gli si unirono soldati della Bretagna e dell’altra sponda della Manica, che possono avergli fornito altri cento o centocinquanta cavalleggeri. Dopo il ritorno in Europa di Stefano di Blois e di Ugo di Vermandois, egli aveva anche assunto il comando di quelle loro truppe che erano rimaste in Palestina. Stefano, i cui territori non erano molto estesi ma erano ricchi, può aver fornito duecentocinquanta o trecento cavalieri, mentre Ugo probabilmente non ne portò con sé più di cento. In tutto, può ben darsi che Roberto avesse ai suoi ordini al tempo di Rugia circa mille cavalieri. Sulle stesse basi, a Roberto di Fiandra devono essere attribuiti circa seicento uomini di cavalleria, alcuni dei quali provenienti dal territorio del suo vicino, il conte di Hainault. Roberto doveva legalmente al suo sovrano, il re di Francia, soltanto venti cavalieri completamente armati, ma in un trattato del 1103 si offrì di fornire a Enrico I di Inghilterra mille cavalleggeri 12. Perciò poté radunarne facilmente seicento per la crociata. I cinquecento cavalieri di Boemondo, menzionati dalla cronaca di Lucca, si accordano con queste

cifre. Se presupponiamo che gli eserciti dei signori minori devono essere calcolati insieme con gli eserciti più numerosi, e che le somme offerte loro da Raimondo a Rugia erano puramente personali, per l’intera spedizione giungiamo a un totale approssimativo di quattromiladuecento o quattromilacinquecento cavalieri e di trentamila fanti, compresi i civili che potevano essere costretti a servire nell’esercito. La lettera scritta da Daimberto al papa indica per l’esercito dei crociati la cifra di cinquemila cavalieri e quindicimila fanti; in quest’ultima cifra erano probabilmente inclusi soltanto i combattenti armati; l’altra cifra è un’accettabile esagerazione di quattromila13. Queste cifre ci danno l’impressione di un esercito abbastanza piccolo; eppure, quando giungiamo alle cifre indicate dai cronisti per le singole battaglie, i numeri sono ancora inferiori. Nella battaglia del lago di Antiochia, alla quale, così ci viene detto, presero parte tutti i cavalieri disponibili, ve n’erano soltanto settecento. Ma molti di loro erano a quel tempo ammalati, e da una lettera di Anselmo di Ribemont appare evidente che mancavano soprattutto i cavalli. Egli calcola che soltanto settecento erano ancora in condizioni di venire impiegati al tempo dell’assedio di Antiochia, poiché moltissimi erano periti per la fame e per il freddo, e dichiara che non c’era scarsità di uomini14. Inoltre è probabile che, in questa occasione, la cavalleria di Raimondo fosse rimasta con lui a guardia dell’accampamento. Si disse che l’incursione condotta da Boemondo e da Roberto di Fiandra il mese seguente, fosse compiuta da duemila cavalieri e quindicimila fanti, e questo esclude certamente l’esercito di Raimondo15. Ma, di nuovo, all’assedio di Gerusalemme erano presentì soltanto milleduecento o milletrecento cavalieri e poco più di diecimila fanti; analoga era la consistenza dell’esercito ad Ascalona 16. Sebbene molti soldati fossero morti o fossero stati uccisi e molti altri fossero tornati a casa, è impossibile che le forze dell’esercito fossero diminuite di due terzi fra l’epoca della conferenza di Rugia e l’assedio di Gerusalemme. Possiamo perciò soltanto ripetere che ogni valutazione dev’essere presa con riserva. Penso che l’intero esercito, al momento in cui lasciò Costantinopoli, abbia grosso modo raggiunto il totale che ho suggerito prima e che nel corso dei due anni successivi si sia ridotto di molto, mentre a Rugia Raimondo prese in considerazione un calcolo altamente ottimistico e non aggiornato, in base al quale avanzare le sue offerte. Le cifre relativamente piccole riportate nelle cronache delle imprese di Baldovino, possono essere accettate, io penso, come approssimativamente esatte. È altrettanto impossibile calcolare le dimensioni della primitiva spedizione di Pietro l’Eremita: la cifra di quarantamila data da Alberto di Aix è chiaramente esagerata, ma i suoi seguaci possono avere raggiunto la cifra di almeno ventimila, composta in grandissima maggioranza da non combattenti17. A titolo di paragone si può osservare che la consistenza dell’intero esercito bizantino nel secolo ix è stata calcolata in centoventimila unità. Alla fine del secolo xi la perdita delle province anatoliche deve aver dato come risultato una riduzione delle forze disponibili, ma Alessio poteva probabilmente disporre di circa settantamila uomini, la maggior parte dei quali erano necessari per sorvegliare le sue estesissime frontiere, mentre una gran parte veniva probabilmente congedata ogni inverno per ragioni di economia. È improbabile che il più numeroso degli eserciti mandati a combattere dai bizantini in quel periodo contasse più di ventimila uomini, ben equipaggiati e ben addestrati. È impossibile valutare le dimensioni degli eserciti musulmani. Quello di Kerbogha contava probabilmente circa trentamila unità, ma non esiste nessuna prova effettiva; era però in grado di intraprendere un blocco di Antiochia più efficace di quello dei crociati. L’esercito egiziano ad Ascalona era certamente più numeroso di quello cristiano, ma si possono solo avanzare congetture

sulla sua vera forza numerica. È dubbio che l’esercito turco a Dorileo fosse grande come quello crociato: i turchi facevano affidamento sui loro attacchi improvvisi e sulla loro mobilità per compensare un’inferiorità numerica.

Appendici al Libro secondo

III PRINCIPALI FONTI PER LA STORIA DELL’ORIENTE LATINO (1100-1187)

1. Fonti greche. Gli storici greci parlano dei latini d’Oriente soltanto quando esiste un contatto diretto tra questi e Bisanzio. Fino al 1118 l’ Alessiade di Anna Comnena rimane la principale fonte greca, sebbene nel suo racconto delle cose dei franchi la successione degli avvenimenti sia piuttosto confusa1. Sui regni di Giovanni e di Manuele Comneno le due fonti fondamentali sono le opere storiche di Giovanni Cinnamo e di Niceta Coniate ovvero Acominato. Il primo fu segretario di Manuele Comneno e scrisse la sua opera subito dopo la morte di lui. La sua narrazione del regno di Giovanni è piuttosto superficiale, mentre è attento ed autorevole nel trattare del regno di Manuele. Eccetto qualche trascurabile pregiudizio patriottico, egli è uno storico sobrio, su cui si può fare affidamento2. Niceta scrisse al principio del secolo XIII e la sua opera copre il periodo che va dal regno di Giovanni fino a dopo la conquista latina di Costantinopoli. La sua storia è del tutto indipendente dagli scritti di Cinnamo. A partire dalla seconda metà del regno di Manuele egli descrive eventi di cui ha avuto conoscenza diretta; nonostante lo stile eccessivamente retorico e la tendenza moraleggiante è preciso e degno di fede3. Non esistono altre fonti greche di primo piano4, salvo un’interessante ma piuttosto generica relazione di un pellegrinaggio compiuto in Palestina nel 1178 da un certo Giovanni Foca5. 2. Fonti latine. Le principali fonti per la storia dei primi anni di vita degli Stati crociati sono gli storici della prima crociata e specialmente Fulcherio di Chartres6 e Alberto d’Aix7 e, in minor misura, Radulfo di Caen8, Ekkehard di Aura9 e Caffaro10. Di loro ho già trattato, e bisognerebbe soltanto aggiungere che per il periodo del 1100 al 1119, nel giungere alla conclusione, la storia di Alberto può essere considerata come una fonte assolutamente degna di fede. Non si sa donde egli avesse le sue informazioni, ma tutte le volte in cui è possibile controllarle sulla base di fonti siriane, ne troviamo la conferma. La storia di Antiochia nel periodo dal 1115 al 1122 è trattata in una breve opera intitolata Bella antiochena, di Gualtiero il Cancelliere, che era probabilmente il cancelliere del principe Ruggero. È un’opera senza pretese, piena di utili notizie sulla storia e le istituzioni di Antiochia in quell’epoca11. Tra il 1127, quando Fulcherio conclude la sua opera, e l’ultimo decennio precedente la conquista di Gerusalemme da parte di Saladino, l’unica fonte latina importante è la Historia rerum in partibus transmarinis gestarum di Guglielmo di Tiro, che tratta del periodo tra il 1095 e il 1184 12.

Guglielmo nacque in Oriente poco prima del 1130. Imparò probabilmente l’arabo e il greco da bambino, poi andò in Francia per completare gli studi. Poco dopo il suo ritorno in Palestina, verso il 1160, divenne arcivescovo di Tiro e poi cancelliere del regno dal 1170 al 1174. Fu anche tutore del futuro Baldovino IV. Nel 1175 divenne arcivescovo di Tiro. Nel 1183, non essendo riuscito a ottenere il titolo di patriarca, si ritirò a Roma dove morì prima del 1187. Cominciò a scrivere la sua storia nel 1169 e ne completò i primi tredici libri prima del 1173. Portò con sé l’intera opera a Roma dove continuò a lavorarvi fino al momento della morte. Per la narrazione della prima crociata Guglielmo si basò principalmente su Alberto e, in misura minore, su Raimondo di Aguilers, sulla versione della Gesta di Baudri e su Fulcherio. Quest’ultimo costituisce la sua fonte principale per il periodo dal 1100 al 1127, per quanto egli si sia servito anche di Gualtiero il Cancelliere. Le uniche aggiunte di sua mano sono aneddoti personali relativi ai re e notizie sulle chiese orientali e su Tiro. Per il periodo che va dal 1127 fino al momento del suo ritorno in Oriente egli si basa sugli archivi del regno e su una schematica cronaca dei re, andata perduta; di conseguenza le sue informazioni sulla Siria settentrionale sono qualche volta poco attendibili. Dal 1160 in avanti egli ebbe una conoscenza personale diretta ed acuta degli avvenimenti e delle persone di cui parla. Le date che egli indica sono confuse e talora si possono rivelare errate: può darsi che siano state aggiunte al suo manoscritto da uno dei primi copisti. Guglielmo è uno dei più grandi storici medievali; non è privo di pregiudizi; per esempio, l’avversione per la supremazia dei principi laici sulla Chiesa; ma usa parole moderate nel parlare dei propri nemici personali, come il patriarca Eraclio o Agnese di Courtenay, che si attirarono le sue critiche. Sbagliò nei casi in cui disponeva di informazioni insufficienti, ma aveva un’ampia visione delle cose, comprendeva il significato dei grandi avvenimenti del suo tempo e la concatenazione di causa ed effetto nella storia. Il suo stile è diretto e non privo di humour e la sua opera suggerisce l’impressione che egli fosse un uomo saggio, onesto e simpatico. L’altra sua massima opera, una storia dell’Oriente, basata sulla storia araba di Said ibn Bitriq, è andata disgraziatamente perduta, sebbene venisse adoperata da storici del secolo seguente, come Giacomo di Vitry. Una continuazione latina della storia di Guglielmo di Tiro fu scritta in Occidente nel 1194, con aggiunte posteriori13. È un’opera sobria ed obiettiva, basata probabilmente su uno scritto oggi perduto, che sarebbe stato al tempo stesso alla base del primo libro dell’Itinerarium peregrinorum et gesta regis Ricardi, il quale si occupa degli anni che vanno dal 1184 alla terza crociata 14. Le continuazioni in francese antico presentano problemi più difficili: verso la metà del secolo XIII la Storia di Guglielmo fu tradotta da un suddito del re di Francia, il quale ne parafrasò certi passi ed appose commenti di dubbio valore, aggiungendo poi una continuazione che si spinge abbastanza innanzi nel secolo XIII. Quest’opera è conosciuta di solito dalle sue parole iniziali come L’Estoire d’Eracles. Verso la stessa epoca un certo Bernardo il Tesoriere fece conoscere in Oriente una continuazione, dell’anno 1129, attribuita a Ernoul, che era stato scudiero di Baliano di Ibelin. Queste due traduzioni sono strettamente apparentate e ne esiste un gran numero di manoscritti, i quali tuttavia contengono diversità, che per il periodo che va dal 1184 al 1198 possono dividersi in tre gruppi. È impossibile dire quale sia il manoscritto originale, poiché ciascuno dei tre gruppi contiene episodi che non si trovano negli altri. La soluzione più verosimile è che, per quel che riguarda il periodo in questione, essi dipendano tutti quanti da un’opera perduta di Ernoul. Questi certamente forni sugli eventi del 1° maggio 1187 una testimonianza di prima mano, che si trova nell’Ernoul di Bernardo; tutto questo gruppo di manoscritti dimostra uno speciale interesse per gli Ibelin e fornisce numerose descrizioni dovute a un testimone oculare, il che lascerebbe supporre che l’autore appartenesse al

personale degli Ibelin. Nel loro insieme queste continuazioni sono attendibili, ma non obiettive; Ernoul dà l’impressione di avere registrato fedelmente ogni cosa, per quanto glielo permettessero i suoi pregiudizi partigiani a favore degli Ibelin. L’ordine cronologico dei primi capitoli è accidentale: sembra che essi consistano di osservazioni e ricordi staccati15. La conquista della Palestina da parte di Saladino è narrata anche in un breve De expugnatione Terrae Sanctae per Saladinum Libellus, attribuito talvolta a Ralph di Coggeshall e scritto quasi certamente da un inglese pochi anni dopo gli avvenimenti di cui parla. L’autore esprime la propria ammirazione per gli ordini militari, specialmente per i templari di cui passa prudentemente sotto silenzio le malefatte, ma è al tempo stesso favorevolmente disposto verso Raimondo di Tripoli. Vi include il racconto di un testimone oculare dell’assedio di Gerusalemme, un soldato che fu ferito sotto le mura16. Esistono altre storie del regno posteriori, che forniscono notizie supplementari, specialmente la Historia regni hierosolymitani, una continuazione di Caffaro, e gli Annales de Terre Sainte, nonché ima breve Historia regum hierosolymitanorum17 La storia della seconda crociata è trattata ampiamente nel De profectione Ludovici VII in Orientem di Oddone di Deuil, opera vivace ma scritta con atteggiamento molto partigiano da uno che partecipò al viaggio di Luigi fino ad Attalia; è trattata più brevemente nelle Gesta Friderici Imperatori; di Ottone di Frisinga, che partecipò anche alla crociata; è trattata infine nella vita di Luigi VII di Suger18. La composizione poetica di Ambrogio, L’Estoire de la Guerre Sainte, come pure l’Itinerarium peregrinorum et gesta regis Ricardi, sebbene dedicati alla terza crociata, forniscono anche informazioni sugli antefatti19. Molte cronache occidentali contengono passi importanti per la storia dell’Oriente latino, come ad esempio l’inglese Guglielmo di Malmesbury, Benedetto di Peterborough e gli storici interessati alla terza crociata; così pure il francese Sigeberto di Gembloux ed i suoi continuatori, nonché Roberto di Torigny; parimenti gli italiani Romualdo e Sicardo da Cremona ed altri 20. Il più importante è il normanno Orderico Vitale, la cui cronaca termina nel 1138 ed è piena di notizie su «Outremer», specialmente sulla Siria settentrionale. È probabile che Orderico avesse amici o parenti tra i normanni d’Antiochia. Molte cose da lui raccontate sono evidentemente pure leggende, ma l’opera contiene molto materiale convincente e introvabile altrove21. Riguardo alle lettere scritte in quell’epoca, il gruppo più importante è costituito dalla corrispondenza papale. L’epistolario di Luigi VII e di Corrado III chiariscono aspetti della seconda crociata22. Si sono conservate poche lettere di personalità latine d’Oriente23. Sono giunti fino a noi gli archivi di tre monasteri, quello del Santo Sepolcro, quello degli abati di Santa Maria di Giosafat e quello di San Lazzaro. Gli archivi dell’Ordine degli ospitalieri sono quasi completi, ma quelli dei templari si conoscono soltanto per mezzo di citazioni rare e di seconda mano. Esiste anche un certo numero di documenti secolari, riguardanti trapassi di proprietà di beni immobili in Oriente24. Gli archivi papali forniscono alcune notizie supplementari, e da quelli di Pisa, Venezia e Genova si possono ricavare dati relativi al commercio25. Le Assise di Gerusalemme, che vennero compilate in epoca posteriore, ne contengono alcune che datano del secolo XII 26. Interessanti rapporti sono stati lasciati da due viaggiatori recatisi in Palestina nel secolo XII: uno, Saewulf, era probabilmente un inglese che visitò la Terra Santa nel noi, l’altro fu il tedesco Giovanni di Wurzburg che vi andò verso il 117527.

3. Fonti arabe. Con il secolo XII si accresce il numero delle fonti arabe contemporanee. Per quel che riguarda la prima metà del secolo dipendiamo da Ibn al-Qalanisi28 per gli affari di Damasco, da al-Azimi29 per la Siria settentrionale e dall’opera un po’ disordinata di Ibn al-Azraq 30 per quel che riguarda lo Jezireh, senza contare le citazioni di cronache perdute che si trovano in autori posteriori. Possediamo tuttavia le importantissime memorie di Usama ibn Munqidh31, un principe di Shaizar, nato nel 1095 ed esiliato quarantatre anni dopo in seguito a intrighi di famiglia; passò il rimanente dei suoi novantatre anni di vita principalmente a Damasco, ma soggiornò anche in Egitto e a Diarbekir. Sebbene fosse un intrigante nato, privo di ogni minimo senso di fedeltà, era tuttavia un uomo molto simpatico ed intelligente, buon soldato, sportivo e letterato. Le sue memorie, intitolate L’ammaestramento per mezzo di esempi, non seguono alcun ordine cronologico e costituiscono i ricordi non documentati di una persona anziana, ma offrono una rappresentazione vivacissima di quale fosse la vita dell’aristocrazia araba e franca in quel tempo. Quasi altrettanto vivace è Rihla (Itinerario) dello spagnolo Ibn Giubair, che attraversò il regno di Gerusalemme nel 118132. La carriera di Saladino ispirò tutto uno stuolo di scrittori tra cui si distinguono per importanza Imad ed-Din33. di Isfahan, Beha ed-Din ibn Shedad34 e l’anonimo autore del Busta», il Giardino generale di tutte le storie dei secoli35. Imad ed-Din era stato funzionario selgiuchida in Iraq, passando poi al servizio di Nur ed-Din e divenendo segretario di Saladino dal 1173 in avanti. Scrisse parecchie opere, tra cui una storia dei Selgiuchidi e un resoconto delle guerre di Saladino. Quest’ultimo scritto venne riprodotto quasi totalmente da Abu Shama ed è la fonte più autorevole sulla biografia di Saladino; usa un linguaggio singolarmente ricercato, complesso e difficile. Anche Beha ed-Din appartenne alla cerchia degli intimi di Saladino dal 1188 in poi. La sua vita di Saladino, scritta in uno stile semplice e conciso, è basata su notizie di seconda mano e su alcuni ricordi dello stesso sultano, per la parte anteriore al 1188; di lì in avanti è non meno autorevole di Imad ed-Din. Il Bustan fu scritto ad Aleppo nel 1196-97; è una scarna e sommaria storia dell’Islam con speciale riferimento ad Aleppo e all’Egitto, ma contiene notizie che altrimenti si trovano soltanto nella più tardiva ed ampia storia di Ibn abi Tayyi. Può darsi che ambedue dipendano da una fonte shia andata perduta. Gli altri cronisti dell’epoca, al-Fadil, as-Shaibani ed Ibn ad-Dahhan si conoscono soltanto attraverso citazioni36. Il maggiore storico del secolo XIII è Ibn al-Athir di Mosul, che nacque nel 1160 e morì nel 1233. Il suo Kamil fi t-tarikh, è una storia del mondo musulmano per il quale egli operò una accurata selezione critica di scrittori anteriori e contemporanei. Sulla prima crociata e gli inizi del secolo XII le sue annotazioni sono piuttosto brevi; per quel che riguarda l’ultima parte di quel secolo egli dipende principalmente dagli autori della cerchia di Saladino ma aggiunge anche alcuni ricordi personali; invece per la parte centrale del secolo, che non è trattata da nessun importante storico musulmano, pare che egli abbia adoperato materiale originale. La sua cronologia è deficiente; non indica le sue fonti e spesso ne altera i racconti, specialmente quando ciò convenga ai suoi pregiudizi in favore di Zengi. Ma come Guglielmo di Tiro, egli è un vero storico che si sforza di comprendere l’ampio significato degli eventi che descrive. La sua seconda opera, la Storia degli atabeg di Mosul è uno scritto scadente, una specie di panegirico acritico, il quale, tuttavia, contiene alcune notizie irreperibili altrove37. Le Miniere d’Oro di Ibn abi Tayyi di Aleppo, l’unico grande cronista shia, nato nel 1180, ci sono

note soltanto attraverso le citazioni che ne fanno con larghezza, ma con sufficienza, i cronisti sunni. Era evidentemente un’opera di grande importanza, che copriva tutta la storia musulmana, con riguardo speciale ad Aleppo, e a giudicare dalle citazioni, deve aver fatto un uso più particolareggiato della stessa fonte a cui attinge il Busta»38. Kemal ad-Din di Aleppo, che visse dal 1191 al 1262, fu autore di una enciclopedia biografica, probabilmente incompiuta, e scrisse, prima del 1243, una Cronaca di Aleppo, un’opera lunga ma scritta con chiarezza e semplicità, basata in gran parte su al-Azimi, Ibn al-Qalanisi e i contemporanei di Saladino, ma anche su tradizioni e notizie orali. Kemal non è molto preciso nello stabilire la correlazione tra le sue varie fonti e rivela pregiudizi contrari agli shia39. Sibt ibn al-Djauzi, nato a Bagdad nel 1186, scrisse una delle più lunghe cronache musulmane, lo Specchio dei tempi, ma per quel che concerne il secolo XII si limitò a riprodurre informazioni date da autori precedenti40. Abu Shama, nato a Damasco nel 1203, condusse a termine nel 1251 la storia dei regni di Nur ed-Din e di Saladino, intitolata il Libro dei due giardini 41. Si tratta in gran parte di trascrizioni da Ibn al-Qalanisi, Beha ed-Din, gli atabeg di Ibn al-Athir, Ibn abi Tayyi, al-Fadil e, specialmente, Imad ed-Din al cui stile tuttavia impose una ben necessaria potatura. Tra gli storici di epoca più tarda Abul Fida, principe di Hama nella prima metà del secolo XIV, scrisse una storia che non è altro che un utile compendio di autori precedenti, ma che ha goduto di un’enorme popolarità ed è spesso citata42. Ibn Khaldun, che scrisse alla fine del secolo xiv, riassunse Ibn al-Athir per quel che riguarda le vicende della Siria e si servi invece, per la storia dell’Egitto, della cronaca oggi perduta di Ibn at-Tuwair, scritta all’epoca di Saladino 43. Al-Maqrizi, che scrive all’inizio del secolo XV, contiene notizie sull’Egitto introvabili in altri autori44. Il dizionario biografico di Ibn Khallikan, compilato nel secolo XIII, contiene alcune notevoli notizie storiche45. Non esistono fonti che trattino direttamente dei turchi d’Anatolia. Nel secolo XIII Ibn Bibi ci informa che gli era stato impossibile cominciare la sua storia dei Selgiuchidi prima del 1192, anno della morte di Kilij Arslan II, per mancanza di materiale 46. Neppure in Persia vi sono fonti importanti. 4. Fonti armene. La principale fonte armena per i primi decenni del secolo XII è, come per la prima crociata, Matteo di Edessa, che morì nel 1136 47. La sua opera venne continuata, nello stesso spirito nazionalistico ed antibizantino, da Gregorio il Prete, di Kaisun, fino all’anno 1162 48. Il suo contemporaneo Nerses Shnorhali I, catholicus dall’anno 1166 al 1172, scrisse una lunga composizione poetica sulla caduta di Edessa, poco interessante sia dal punto di vista poetico sia da quello storico49. La poesia del suo successore, il catholicus Gregorio IV Dgha sulla caduta di Gerusalemme, non è molto migliore50. Più elevata, dal punto di vista poetico, è l’elegia, scritta da un prete di nome Basilio il Dottore, su Baldovino di Marash, di cui era cappellano51. Gli annali di Samuele di Ani, scritti nella Grande Armenia che giungono fino all’anno 1177, sono di importanza maggiore52; si basano in parte su Matteo e in parte su opere storiche andate perdute di Giovanni il

Diacono e di un certo Sarcavag. L’altro gruppo di storici armeni, che scrivono nella Grande Armenia alla fine del secolo XIII, come ad esempio Mechitar di Airavanq, Vartan e Ciriaco, non sono molto attendibili quando trattano le questioni aventi rapporto con i franchi, ma sono importanti per quel che riguarda il quadro ambientale musulmano53. Gli storici dell’Armenia Minore (Cilicia) cominciano con un autore anonimo che intorno al 1230 tradusse la cronaca di Michele il Siriano, adattandola liberamente secondo le esigenze del suo fervido patriottismo54. Verso il 1275 il conestabile Sempad, traduttore delle Assise di Antiochia, scrisse una cronaca che, per quanto riguarda il secolo XII, dipende da Matteo e da Gregorio, ma aggiunge alcune notizie ricavate da archivi55. Pochi anni dopo il cosiddetto «Storico Reale» scrisse una cronaca rimasta finora inedita56. All’inizio del secolo XIV il cancelliere Vahram di Edessa scrisse una Cronaca in rima, basata in larga misura su Matteo, ma contenente molte notizie di fonte sconosciuta57. 5. Fonti siriache. Tra le fonti siriache la più importante è la storia mondiale di Michele il Siriano 58. Storico preciso e coscienzioso, aveva un solo, forte pregiudizio contro i bizantini; menziona le fonti siriache di cui fa uso e che sono andate tutte perdute, e deve avere anche conosciuto una fonte araba non identificabile, relativa agli anni dal 1107 al 19, che sembra essere stata nota anche a Ibn al-Athir. Una cronaca siriaca anonima, scritta da un oscuro prete a Edessa intorno al 1240, contiene interessanti notizie su questa città, oltre a quelle ovviamente derivanti da Michele59. Verso la fine del secolo XIII Gregorio Abul Faraj, meglio conosciuto come Barebreo, scrisse una storia mondiale che, per la parte riguardante il secolo XII, si fondava su Michele e su Ibn al-Athir, ma con un certo numero di notizie provenienti da fonti persiane e di altro genere60. 6. Altre fonti. L’unica fonte ebraica di qualche importanza relativa a questo periodo è il viaggio di Beniamino di Tudela, che fornisce accurate informazioni sulle colonie ebraiche esistenti in Siria all’epoca del suo viaggio attorno al Mediterraneo tra il 1166 ed il 117061. Le fonti georgiane, utili soltanto per la storia della Georgia e dei paesi finitimi, furono raccolte assieme nella composita Cronaca georgiana, pubblicata nel secolo XVIII62. In slavonico antico esiste il pellegrinaggio di Daniele l’Higumene, il quale visitò la Palestina nel 110463. Certe saghe norvegesi, in particolare quelle relative alla crociata di re Sigurd, contengono alcune interessanti notizie storiche, frammiste a particolari leggendari64.

IV. LA BATTAGLIA DI HATTIN

La battaglia di Hattin è descritta con una certa ampiezza dalle fonti latine ed arabe, ma le loro narrazioni non concordano sempre. Ho cercato sopra, di offrire un racconto coerente e verosimile della battaglia, ma è necessario indicare i punti di divergenza. Disgraziatamente gli unici scrittori che pare siano stati presenti alla battaglia (salvo il templare Terenzio - o Terricus - che scrisse una breve lettera al riguardo e alcuni musulmani, le cui lettere vengono citate da Abu Shama) sono Ernoul e Imad ed-Din; il primo, scudiero di Baliano di Ibelin, accompagnò presumibilmente il suo padrone e fuggì con lui; il secondo era nella ristretta cerchia degli intimi di Saladino. Ma il racconto originale di Ernoul è stato manomesso da Bernardo il Tesoriere e dagli altri continuatori di Guglielmo di Tiro; e l’esposizione di Imad ed-Din, per quanto vivace a tratti, tende ad essere piuttosto retorica che precisa. Il racconto del momento critico della battaglia, fatto dal figlio di Saladino, al-Afdal ad Ibn al-Athir, è vivace ma molto breve. L’Estoire d’Eracles è l’unica fonte che indichi chiaramente che re Guido tenne due diversi consigli di guerra prima del combattimento, uno ad Acri, probabilmente il 1° luglio, e uno a Sephoria la sera del 2 luglio. Raimondo di Tripoli parlò due volte e i due diversi discorsi citati nell’Estoire esprimono senza dubbio la sostanza di ciò che egli disse. Ma l’Estoire dev’essere in errore quando afferma che il consiglio di guerra ad Acri fu convocato dopo che la contessa di Tripoli aveva fatto sapere che Saladino aveva occupato la città di Tiberiade, poiché il sultano entrò nella città la mattina del 2; inoltre Raimondo non menziona Tiberiade nel suo discorso ad Acri, ma si limita a suggerire una strategia difensiva. Ernoul, nell’edizione fattane da Bernardo il Tesoriere, non dice nulla del primo consiglio di guerra. Probabilmente Bernardo si assunse la responsabilità di stabilire che i due discorsi di Raimondo erano stati fatti in un’unica occasione. Il De expugnatione menziona anche soltanto il secondo consiglio di guerra. Il secondo discorso di Raimondo era noto a Ibn al-Athir che lo riporta quasi con le stesse parole dell’Ertole d’Eracles, di Ernoul e del De expugnatione. È dunque sicuro che Raimondo espresse il suo parere; però Imad ed-Din riteneva che egli avesse consigliato l’attacco, e certi scrittori posteriori, appartenenti all’ambiente di Riccardo Cuor di Leone, favorevole a Guido di Lusignano, lo accusarono di tradimento. Ambrogio e l’Itinerarium peregrinorum et gesta regis Ricardi insinuano che Raimondo abbia insidiosamente spinto l’esercito ad avanzare per accordi da lui presi con Saladino; la stessa accusa gli viene mossa in una lettera dei genovesi al papa, e, più tardi, dal siriano Barebreo. Imad ed-Din afferma che i figli della contessa di Tripoli erano con lei a Tiberiade, ma Ernoul dice che i quattro figliastri di Raimondo fuggirono con lui dalla battaglia, e la lettera dei genovesi, parlando del consiglio di guerra tenuto prima della battaglia, menziona la loro preoccupazione di salvare la loro madre. Re Guido decise di partire da Sephoria a richiesta del templare Gerardo: questo fatto è chiaramente affermato dall’Estoire e da Ernoul, ma è velato con parole ingannevoli dall’autore del De expugnatione, il quale, a giudicare dalle sue reticenze, aveva qualche ragione per non voler mai biasimare i templari. Raimondo, in quanto signore della zona, venne richiesto di suggerire la via da seguire, ed egli scelse la strada attraverso Hattin. Questo consiglio, che si rivelò disastroso, fu il pretesto con cui i suoi nemici lo denunciarono come traditore. Nella lettera dei genovesi e in quella degli ospitalieri a proposito della battaglia, si parla di sei traditori che, a quel che sembra, sarebbero stati cavalieri di Raimondo (uno di loro si chiamava Laodiceus o Leucius di Tiberiade), che avrebbero informato Saladino sulle condizioni dell’esercito cristiano. Ritengo probabile che il loro tradimento si sia effettuato in questo punto ed abbia consistito nel comunicare a Saladino la via scelta

dai cristiani. E difficile vedere quale altra informazione utile avrebbero potuto dargli in seguito. Sia l’Estoire sia Ernoul, rimproverano Raimondo per avere scelto il terreno dell’accampamento davanti a Hattin; egli credeva che vi fosse acqua, ma la fonte era asciutta. L’autore del De expugnatione fornisce una versione più ampia: afferma che Rinaldo, all’avanguardia, avrebbe raccomandato di avanzare in fretta fino al lago, ma i templari, alla retroguardia, non potevano più andare avanti. Raimondo fu spaventatissimo per la decisione del re di accampare e gridò: «Siamo perduti!»; ma, presa la decisione, probabilmente egli stesso scelse il luogo dove disporre l’accampamento, nell’errata convinzione che vi fosse dell’acqua. Imad ed-Din parla della soddisfazione di Saladino per i movimenti dell’esercito cristiano. Il luogo esatto dell’accampamento è incerto. Il De expugnatione, l’itinerarium ed Ambrogio lo chiamano villaggio di Marescalcia o Marescalca - forse il khan di Meskeneh ha conservato quel nome? - mentre Imad ed-Din e Beha ed-Din lo indicano, come il villaggio di Lubieh, che si trova sulla strada a due miglia a sud-ovest dei Corni di Hattin. Gli autori arabi chiamano quel combattimento battaglia di Hattin (o Hittin) e specificano che le scene finali si svolsero sui Corni di Hattin. Gli Annales de Terre Sainte chiamano la battaglia Karneatin (cioè Kurn Hattin, Corni di Hattin). Ernoul afferma che il combattimento avvenne a due leghe da Tiberiade. Effettivamente i Corni si trovano a cinque miglia da Tiberiade a volo d’uccello ed a nove miglia per strada. Imad ed-Din racconta che gli arceri saraceni cominciarono a tirare frecce contro i cristiani durante la marcia, e complica la sua narrazione dicendo che ciò accadde di giovedì, perché voleva che la battaglia avesse avuto luogo di venerdì. Ernoul e l’Estoire parlano di gravi perdite subite dai cristiani durante la marcia. Non si sa quando il terreno prese fuoco. Ibn al-Athir lascia intendere che il fuoco cominciò fortuitamente, a opera di un volontario musulmano, e afferma esplicitamente, come pure Imad ed-Din, che le fiamme infuriavano quando la battaglia cominciò, la mattina del 4 luglio. Imad ed-Din dà una vivace descrizione delle preghiere e dei canti che si facevano nell’accampamento arabo durante la notte. La mattina della battaglia, secondo Ibn al-Athir, la fanteria franca tentò di precipitarsi verso l’acqua. Imad ed-Din dice che non poterono avanzare in quella direzione a causa delle fiamme. Il De expugnatione afferma che i fanti in massa compatta si lanciarono su per la collina, lontano dai cavalieri, e non vollero tornare indietro all’ordine del re dicendo che morivano di sete; furono tutti uccisi sul posto. Ernoul, d’altra parte, dice che si arresero, ma che cinque cavalieri di Raimondo andarono da Saladino per chiedergli che li uccidesse tutti. Può darsi che questa azione sia stata considerata come tradimento, e ad essa si riferiscano gli ospitalieri (cfr. sopra), sebbene dal modo come Ernoul ne parla si potrebbe pensare che chiedessero, per pietà, una morte rapida. Beha ed-Din afferma semplicemente che l’esercito cristiano fu diviso in due parti, di cui una, presumibilmente la fanteria, circondata dal fuoco, venne totalmente annientata, mentre l’altra, ossia i cavalieri che accompagnavano il re, venne catturata. Tutte le fonti musulmane raccontano che prima che cominciasse l’attacco contro i cavalieri franchi vi fu una singolar tenzone tra un mamelucco e un cavaliere cristiano, nella quale il primo dei due, che i cristiani credevano erroneamente figlio del sultano, venne ucciso. Secondo Ernoul, quando il re vide il massacro della fanteria, ordinò a Raimondo di condurre una carica contro i saraceni. In quanto feudatario del posto, egli era la persona adatta ad adempiere questo incarico, e una carica del genere offriva all’esercito la sola possibilità di liberarsi dalle difficoltà. Sembra dunque che non abbia alcun fondamento l’accusa di tradimento rivolta a Raimondo da scrittori cristiani posteriori, dai genovesi e dagli amici del re, né l’accusa di codardia rivoltagli dai musulmani. Ma l’astuta manovra di Taki, che aprì le sue fila per lasciar passare Raimondo, parve

dar materia per la prima accusa, anche se Imad ed-Din dice che gli uomini di Raimondo subirono gravi perdite. Ernoul afferma che Raimondo abbandonò il campo di battaglia, quando vide che la situazione del re era senza speranza e che non c’era alcuna possibilità di soccorrerlo. Il De expugnatione riferisce che Baliano e Rinaldo di Sidone fuggirono con Raimondo, senza entrare in particolari, e così pure fa Imad ed-Din, mentre Ernoul lascia intendere che essi scapparono separatamente, il che è più probabile, poiché si trovavano in parti diverse dell’esercito. Devono essersi aperti un varco insieme con quei pochi templari la cui fuga è raccontata da Terenzio. La particolareggiata narrazione della battaglia contenuta nel De expugnatione termina con la fuga di Raimondo; probabilmente colui che diede le informazioni all’autore era uno degli uomini di Raimondo. Imad ed-Din racconta che dopo la fuga di Raimondo, il re e i suoi cavalieri cominciarono a ritirarsi verso la sommità della collina di Hattin, abbandonando i loro cavalli (che probabilmente erano stati feriti ed erano diventati inutili). Egli osserva quanto impotenti diventassero i cavalieri cristiani privi dei loro cavalli. Ibn al-Athir dice che essi tentarono di fissare le loro tende sulla cima del colle, ma ebbero tempo di alzare soltanto quella del re. I cavalieri erano appiedati ed esausti quando vennero catturati. Ambedue gli autori dicono che la Croce fu presa da Taki. Il racconto di alAfdal contiene la narrazione degli ultimi momenti dell’esercito cristiano, mentre Ibn el-Kadesi riferisce il particolare del forte vento che si levò a mezzogiorno, quando i musulmani lanciarono il loro attacco decisivo. I fatti accaduti nella tenda di Saladino dopo la battaglia sono raccontati quasi nel medesimo linguaggio da Ernoul, dall’Estoire, da Imad ed-Din e da Ibn al-Athir. Non c’è motivo di mettere in dubbio la storia della bevanda offerta a re Guido, né quella della morte di Rinaldo di Châtillon per mano dello stesso Saladino. Le dimensioni dell’esercito cristiano sono indicate nella Historia regni hierosolymitani come segue: mille cavalieri del regno e in più milleduecento pagati da re Enrico II, quattromila turcopoles e trentaduemila fanti, di cui settemila pagati da re Enrico. Queste cifre sono evidentemente esagerate. L’Itinerarium parla di un totale di ventimila, che, probabilmente, è ancora eccessivo. Il numero esatto dei cavalieri può esser stato di mille, più altri duecento equipaggiati da Enrico, ossia milleduecento in tutto. L’Estoire d’Eracles indica come forza dell’esercito novemila uomini in un manoscritto, e quarantamila in un altro. La lettera degli ospitalieri parla di mille cavalieri uccisi o catturati durante la battaglia e di duecento riusciti a fuggire. Ernoul dice che Raimondo d’Antiochia condusse cinquanta o sessanta cavalieri (le lezioni dei manoscritti variano). Terenzio racconta che duecentosessanta templari furono uccisi in battaglia, e quasi nessuno poté scampare - egli dice «nos», che potrebbe indicare anche solo lui stesso. La lettera degli ospitalieri indica duecento sopravvissuti. La fanteria non può essere stata dieci volte superiore di numero alla cavalleria, e probabilmente contava molto meno di diecimila uomini. La cavalleria leggera di turcopoles contava forse quattromila uomini, ma sembra che non abbia avuto una parte importante nella battaglia, ed era probabilmente meno numerosa. L’esercito di Saladino era probabilmente un po’ più grosso, ma ci vengono date cifre attendibili. Il numero di dodicimila cavalleggeri e numerosi volontari, indicato da Imad ed-Din è certamente esagerato, benché non quanto il numero di cinquantamila che egli indica per l’esercito cristiano. (Beha ed-Din, tuttavia, si spinge oltre, affermando che trentamila cristiani furono uccisi ed altrettanti presi prigionieri). Possiamo forse pensare che l’esercito regolare di Saladino contasse in totale dodicimila uomini e che fosse stato ingrossato da volontari e da contingenti mandati dagli alleati fino a diciottomila. Sembra che gli eserciti fossero i più numerosi mai messi in campo dai crociati o dai loro nemici fino a quella data; ma le cifre di quindicimila

cristiani e diciottomila musulmani devono essere considerate come le massime accettabili. I cavalieri cristiani erano armati meglio di qualsiasi soldato musulmano, ma la cavalleria leggera saracena era probabilmente meglio armata che i turcopoles, e la fanteria altrettanto o meglio di quella cristiana.

Note

Le fonti principali riguardo alla battaglia sono le seguenti: Fonti franche: Ernoul, pp. 155-74; Estoire d’Eracles, vol. II, pp. 46-49; De expugnatione Terrae Sanctae per Saladinum libellus, pp. 218-28; Itinerarium peregrinorum et gesta regis Ricardi, pp. 12-17; Benedetto di Peterborough, vol. II, pp. 10-14, che comprende la lettera dei genovesi al papa e la lettera del templare Terenzio; Ambrogio, coli. 67-70; Ansberto, Expeditio Frederici, che contiene la lettera degli ospitalieri ad Arcimbaldo; Historia regni hierosolymitani, pp. 52-53; Annales de Terre Sainte, p. 218. Fonti arabe: Beha ed-Din, pp. 110-16; Ibn al-Athir, pp. 679-88, che comprende la descrizione della battaglia di al-Afdal; Abu Shama, pp. 262-89, che comprende l’intera narrazione della battaglia di Imad ed-Din nonché degli estratti di Beha ed-Din e di Mohammed ibn el-Kadesi. C’è un breve racconto della battaglia in Michele il Siriano, vol. III, p. 404, e un altro, più lungo ma inesatto in Barebreo, trad. Budge, pp. 322-24, in cui egli confonde la regina Sibilla con la contessa Eschiva di Tripoli. La versione armena di Michele il Siriano (pp. 396-398) e Ciriaco di Gantzag (pp. 420-21) offrono resoconti imprecisi. Le descrizioni siriache ed armene considerano tutte Raimondo come un traditore. Esiste una importante discussione sulle fonti e sulla parte avuta da Raimondo in Baldwin, Raymond III of Tripoli, pp. 151-60.

Appendici al Libro terzo

V. PRINCIPALI FONTI PER LA STORIA DELLE ULTIME CROCIATE

1. Fonti greche. Le fonti greche sono importanti soltanto per la storia della quarta crociata: lo storico principale è Niceta Coniate1. Giorgio Acropolita 2 tratta della quarta crociata e del periodo seguente fino alla riconquista bÌ2antina di Costantinopoli. Per il periodo successivo l’opera più importante è quella di Giorgio Pachimere3. Le due opere storiche dei greci ciprioti Leonzio Machera4 e Giorgio Bustron5 trattano molto sommariamente del periodo anteriore al secolo XIV6. 2. Votiti latine e in francese antico. Il gruppo più importante di opere storiche che trattano di «Outremer», dalla terza crociata fino alla caduta di Acri, è costituito dalla prosecuzione, in francese antico, dell’opera di Guglielmo di Tiro. Fino al 1198 la fonte originaria sembra essere stata un’opera perduta di Ernoul, di cui tanto l’attuale «Ernoul», ovvero Bernardo il Tesoriere, quanto i manoscritti C e G dell’Estoire d’Eracles sono le copie più aderenti, mentre i manoscritti A e B, che si assomigliano, ed il manoscritto D, che se ne differenzia leggermente, costituiscono altre redazioni. Per il periodo dal 1198 al 1205 tutte le versioni sono praticamente identiche. Dal 1205 in avanti «Ernoul», nonché C, G e D dell’Estoire sono identici fino al 1229, dove «Ernoul» finisce. Quindi C, G e D seguono, con leggere variazioni, i manoscritti A e B dell’Ertone, la quale a partire dal 1205 ha pochissimi punti di contatto con «Ernoul». E termina nel 1248 mentre B, C e D continuano fino al 1266,1275 e 1277 rispettivamente. Intanto un’altra continuazione, conosciuta come manoscritto di Rothelin, copre il periodo dal 1229 al 1261; fu certamente pubblicata in Francia7. Gli Annales de Terre Stinte, giunti fino a noi, paiono essere una compilazione riassuntiva di una delle fonti delle continuazioni di Guglielmo. I manoscritti relativi al periodo dal 1248 in poi non se ne discostano quasi affatto8. La compilazione del principio del secolo xiv, conosciuta come Gestes des Chiprois comincia con una breve Chronique de Terre Stinte, dal 1131 al 1222, ed è basata sugli Annales de Terre Stinte. La seconda parte è costituita da una storia delle guerre tra gli Ibelin e gli imperiali, redatta intorno all’anno 1245, con commenti autobiografici, da Filippo di Novara, un italiano che abitava a Cipro e scriveva in francese. Filippo, che ha uno stile vivace e non privo di grazia, inserisce nel corso della narrazione lunghi poemi di sua creazione, dotati di immediatezza e di spirito, benché privi di forza poetica. Filippo parteggiava con passione per gli Ibelin, ma, per quanto gli era concesso dalla sua devozione alla loro causa, è veridico e preciso. L’ultima parte delle Gestes è costituita da una storia di «Outremer» dal 1249 al 1309, scritta da un autore conosciuto

tradizionalmente come il Templare di Tiro. Egli non era certamente un templare, ma pare che avesse occupato per un certo tempo il posto di segretario del gran maestro dei templari, Guglielmo di Beaujeu. Sembra che egli conoscesse la fonte su cui si basano le continuazioni di Guglielmo di Tiro. Le Gestes furono probabilmente raccolte in un unico assieme verso il 1325 da un certo Gerardo di Montreal9. Ognuna delle crociate principali ha il proprio gruppo di storici. La terza crociata è trattata da diverse cronache anglo-normanne tra cui le più importanti sono Benedetto di Peterborough, Riccardo di Devizes, Ralph di Diceto a Guglielmo di Newburgh10. Queste, assieme al De expugnatione Terrae Sanctae per Saladinum libellus sono utili specialmente per la prima parte della crociata, precedentemente l’arrivo di Cuor di Leone in Oriente; contengono anche copie di lettere relative agli affari del Vicino Oriente. Le due fonti principali per le campagne di re Riccardo sono una in latino, l’Itinerarium peregrinorum et gesta regis Ricardi, scritto, sembra, dal londinese Richard of Holy Trinity, l’altra in francese antico e in forma poetica, L’Estoire de la guerre sainte 11 di Ambrogio. Sono molto affini l’una all’altra e probabilmente derivano ambedue dal diario, andato perduto, di un soldato dell’esercito inglese, zelante e devoto ammiratore del suo re e narratore veridico, per quanto glielo consentisse il suo atteggiamento12. Il punto di vista francese trova espressione nella breve relazione di Rigord, Gesta Philippi Augusti13. I cronisti tedeschi che descrivono la crociata di Federico I, come ad esempio «Ansberto», Expeditio Frederici, concludono con la morte dell’imperatore14. La fonte occidentale più importante per la quarta crociata è La Consuete de Constantinople di Goffredo de Villehardouin15, scritta verso il 1209 da un cavaliere che ebbe una parte di rilievo nella crociata ed era cugino del conquistatore della Morea. Villehardouin basò probabilmente la sua storia su appunti presi da lui stesso nel corso degli avvenimenti, e, salvo i suoi forti pregiudizi pro occidentali, lo si può considerare come un testimone degno di fede. Altro testimone oculare è Roberto di Clari con la sua Conquête de Constantinople, ma si tratta di un uomo di minor levatura e molto più ignorante16. Salvo i documenti scritti in «Outremer», le fonti principali per la quinta crociata sono le lettere del cardinale Giacomo di Vitry17 e la Historia Damiatana di Oliviero di Paderborn, segretario del cardinale Pelagio. Nonostante la devozione di Oliviero per il suo superiore, il racconto che egli traccia è vivace e abbastanza obiettivo18. La crociata di Federico II non ispirò nessuno scrittore; invece per la crociata di san Luigi possediamo la magnifica Histoire de saint Louis di Giovanni di Joinville. Egli prese parte alla crociata e la sua devozione ed ammirazione per il re non gli impedirono di scrivere un racconto onesto, vivace e originale19. La caduta definitiva di Acri produsse tutta una messe di storici, ma eccetto il «Templare di Tiro», nessuno fu ad essa presente di persona. Taddeo di Napoli e lo scrittore anonimo del De excidio urbis acconis danno relazioni evidentemente esagerate a fini propagandistici20. Per tutto questo periodo sono di estrema importanza la corrispondenza dei papi, nonché le lettere rimasteci dei cavalieri degli Ordini, di re e ministri21. Le due fonti fondamentali per le questioni costituzionali sono il Livre de Torme de Plait di Filippo di Novara, che si occupa soprattutto di procedura, ed il Livre de Jean d’ibelin, magnifica

opera di giurisprudenza, scritta dal conte di Giaffa22. Le Assises de la cour des bourgeois, compilate tra il 1240 ed il 1244, descrivono la procedura commerciale23. Le Assises d’Antioche esistono soltanto in una traduzione armena fatta verso il 1260 da Sempad, fratello di re Hethum I, e trattano brevemente della procedura ed usi della corte dei nobili e di quella dei borghesi del principato24. Esistono parecchie opere importanti scritte da viaggiatori del tempo, utili specialmente per la descrizione dei rapporti tra gli occidentali ed i mongoli; tra quelle più complete si contano le relazioni scritte da Giovanni da Pian del Carpine e da Guglielmo di Rubruck sulle loro rispettive missioni25. Sia la descrizione della Terra Santa fatta da Giacomo di Vitry, sia quelle più tardive di Ludolf di Suchem e di Felix Fabri offrono preziose notizie26. 3. Fonti arabe. I cronisti arabi che trattano delle guerre di Saladino e dei primi decenni del secolo XIII sono stati già menzionati. L’importante opera di Beha ed-Din termina con la morte di Saladino, mentre Ibn alAthir, Abu Shama (che trascrive Imad ed-Din) e Kemal ad-Din ci conducono abbastanza avanti nel secolo XIII27.1 rimanenti anni di quel secolo sono trattati da parecchi cronisti dell’epoca, ma molti dei più importanti non sono ancora stati pubblicati e se ne possono leggere soltanto i manoscritti. Le opere di Ibn Wasil, ossia una biografia di as-Salih, che va fino al 1250, ed una storia degli Ayubiti fino al 1263, esistono in diversi manoscritti ma ne sono stati pubblicati soltanto pochi scarni estratti da Reinaud nella Bibliothèque des Croisades di Michaud, vol. IV. E tuttavia Ibn Wasil fu liberamente adoperato da cronisti posteriori come Ibn al-Furad e Maqrizi28. La biografia di Baibars scritta dal geografo Ibn Shedad è quasi interamente perduta; della vita di Qalawun scritta da Baibars Mansuri rimangono solo frammenti, ma venne utilizzata da Ibn al-Furad29 Degli estratti delle vite di Baibars e Qalawun narrate da Ibn Abdaz-Zahir sono riportati da Reinaud (op. cit.)30. La cronaca del copto Ibn al-Amid offre notizie di prima mano per il periodo che va fino al 126031; l’anonima storia dei patriarchi di Alessandria, che si interrompe approssimativamente alla stessa data, fornisce ulteriori informazioni di fonte copta32. La storia di Abul Fida 33 è solo una compilazione basata su autori più antichi, finché non tratta degli avvenimenti di cui fu contemporaneo, circa dal 1290 in poi34. L’opera di Younini esiste solo manoscritta: giunge fino al 1311, ma contiene praticamente le stesse notizie fornite dall’opera contemporanea di al-Jazari35. Il personaggio letterariamente più notevole tra gli storici più tardi, eccezion fatta per Ibn Khaldun e per l’enciclopedista Ibn Khallikan36, è Ibn al-Furad, la cui opera storica venne scritta alla fine del secolo XIV: è in gran parte una compilazione da autori precedenti di cui si son perdute le opere, ma è redatta con un vero senso della storiografia37. Il suo contemporaneo Maqrizi non possiede le stesse alte qualità di scrittore: le sue storie dell’Egitto sotto i sultani ayubiti e sotto quelli mamelucchi, tranne qualche informazione originale sul paese stesso, sono derivate interamente da opere anteriori, tuttavia sono ampie, degne di fede e facilmente accessibili38. La cronaca di al-Aini, scritta verso la metà del secolo XV, è anch’essa soltanto un’abbondante compilazione, eccettuati gli ultimi

capitoli39. 4. Fonti armene. Gli storici armeni del regno di Cilicia sono stati già menzionati. Il più utile è Vartan, specialmente per quel che concerne questioni relative ai mongoli, dei quali ebbe una conoscenza personale diretta40. Tra le fonti armene dev’essere compresa anche la Fior des Estoires de la Terre d’Orient del principe armeno Hayton (Hethum di Corico), scritta in francese dopo la sua andata in esilio in Francia all’inizio del secolo XIV. È una storia preziosa per l’epoca contemporanea all’autore, il quale scrisse anche in armeno, annali basati su fonti armene e sulle Annales de Terre Sainte41. Per il secolo XIII l’unico scrittore importante in lingua siriaca è Barebreo, che morì all’età di sessant’anni nel 1286. Benché la sua narrazione dei fatti avvenuti prima del suo tempo sia piena di leggende e di dicerie non degni di fede, quando racconta gli eventi di cui è stato contemporaneo offre abbondanti e preziose informazioni, introvabili altrove42. La storia che Rabban Sauma ha scritto sulla vita del catholicus nestoriano Mar Yahbhallaha e sulla propria carriera è stata redatta in uigurico e tradotta in siriaco pochi anni dopo da un anonimo; è importante per le notizie sulla vita dei nestoriani sotto il dominio mongolo e più ancora per il racconto dell’ambasceria di Rabban Sauma in Europa occidentale43. 5. Fonti persiane. La storia dei Selgiuchidi di Rum scritta da Ibn Bibi, per quanto di uno stile eccessivamente minuzioso, è importante per la conoscenza degli avvenimenti della prima metà del secolo XIII in Anatolia44. La storia mondiale di Rashid ad-Din è di grandissima importanza per la storia dei mongoli. Scritta in lode degli ilkhan di Persia, ne rispecchia costantemente il punto di vista45. 6. Altre fonti. La Cronaca georgiana continua ad essere utile per quel che riguarda gli affari della regione caucasica46. Le antiche cronache russe e specialmente le versioni della Cronaca di Novgorod 47. si occupano degli affari di Bisanzio e sono essenziali per lo studio dei mongoli. Esistono anche diverse utili fonti mongole, delle quali la più importante è lo Yuan Ch’ao Pi Shih, ossia la storia ufficiale, o segreta, dei mongoli48.

VI. LA VITA INTELLETTUALE DI «OUTREMER»

A paragone della vita intellettuale della Sicilia o della Spagna, quella di «Outremer» è deludente. Ci si sarebbe potuto aspettare che, come a Palermo, il contatto tra franchi e orientali stimolasse l’attività culturale, invece, in pratica la società di «Outremer», composta quasi esclusivamente di soldati e di commercianti, non era adatta a creare o a conservare un alto livello di civiltà. Tra i principi e i nobili c’erano non poche persone colte: sappiamo, per esempio, che re Baldovino III e re Amalrico I erano ambedue appassionati di letteratura. Rinaldo di Sidone è noto per l’interesse che portava alla cultura islamica e Honfroi di Toron possedeva una perfetta conoscenza della lingua araba 1. Con Guglielmo di Tiro, «Outremer» produsse uno dei maggiori storici medievali 2. Abbiamo però pochissime notizie sul sistema degli studi in «Outremer »: vi erano certamente, come in Occidente, scuole dipendenti dalle principali cattedrali, ma è significativo il fatto che Guglielmo di Tiro sia andato in Francia da bambino per esservi istruito; lui eccettuato, tutti gli altri ecclesiastici che ebbero una parte importante nella storia di «Outremer» erano uomini nati ed allevati in Occidente. Parecchi di questi prelati si interessavano di letteratura3, come il patriarca Aimery di Antiochia, o si occupavano degli sviluppi scientifici dell’ambiente in cui si trovavano, come Giacomo di Vitry, vescovo di Acri nel secolo XIII4; e i vari progetti relativi alle ultime crociate incoraggiarono molte persone a interessarsi di geografia orientale5. Ma nel suo insieme la cultura franca di «Outremer» rimase un’importazione dall’Occidente senza quasi contatti con la cultura indigena, salvo nelle arti figurative. La medicina era interamente in mano agli indigeni; pare che i principi abbiano sempre richiesto i servizi di medici cristiani di Siria: quando Amalrico I rifiutò di seguire i consigli del suo medico siriano per consultarne uno franco ne morì, e gli esempi dati da Usama per illustrare lo stato della medicina presso i franchi mostrano quanto fosse primitiva6. A differenza di quanto accadeva nell’Italia meridionale, non pare che i franchi abbiano fatto qualche tentativo per imparare qualcosa dalla scienza medica indigena, sebbene sembra che un certo Stefano d’Antiochia avesse tradotto dall’arabo nel 1227 un trattato di medicina7. Salvo il caso di alcuni pochi nobili, non è rimasta traccia di sforzi compiuti dai franchi per studiare la filosofia o le conoscenze scientifiche dell’Oriente. La produzione letteraria dell’ «Outremer» franco si può dividere in tre parti: in primo luogo, le cronache e i libri di storia. Le opere di questo tipo, tranne la notevole eccezione della storia di Guglielmo di Tiro e gli scritti di alcuni dei suoi continuatori, come ad esempio Ernoul, sono state redatte da uomini nati in Occidente e composte secondo i canoni della tradizione cronistica occidentale8. Esiste in secondo luogo un’abbondante messe di opere legali: i coloni e i loro discendenti avevano un grandissimo interesse per le questioni legali e costituzionali, e si preoccupavano, molto più di quanto non accadesse in Occidente, di mettere per iscritto le loro opinioni e le conclusioni a cui erano giunti; ma la legislazione che appare in questi scritti è interamente di derivazione europea, pur contenendo alcuni necessari adattamenti9. C’era infine la poesia popolare e romanzesca: i coloni di «Outremer» amavano assai i poemi epici e avventurosi del loro tempo. Parecchi trovatori e minnesinger, come Rudel o Alberto di Johansdorf, parteciparono

alle crociate10, e Raimondo, principe di Antiochia, era figlio del grande poeta trovadorico Guglielmo IX d’Aquitania. Gli emozionanti avvenimenti delle crociate erano assai adatti ad arricchire la tematica di questi poeti: Goffredo di Lorena divenne ben presto un eroe leggendario, le cui avventure furono incluse nel ciclo del Chevalier au Cygne e sulla cui giovinezza e sui cui antenati già circolavano in Oriente componimenti poetici al tempo in cui Guglielmo di Tiro scriveva la sua storia11; ma erano opere prodotte in Occidente. Parimenti anche le due narrazioni in versi della prima crociata, la Chanson d’Antioche e la Chanson de Jérusalem, furono quasi certamente redatte in Europa sulla base delle notizie recate da crociati che rimpatriavano12. L’unico poema epico originario di «Outremer» è la Chanson des Chetifs, singolare storia di crociati fatti prigionieri da «Corboran» (Kerbogha), nella quale vengono inestricabilmente mescolati avvenimenti della prima crociata e di quella del noi. Quest’opera fu composta per espresso desiderio del principe Raimondo d’Antiochia da un autore di cui non si conosce il nome, ma era ancora incompiuta al momento della morte di Raimondo nel 1149 13. Il suo fondamento storico confuso ed impreciso lascia intendere che l’autore fosse da poco giunto in Oriente. I franchi trovarono qualche cosa di romanticamente affascinante nel destino dei cristiani prigionieri dei musulmani e perciò il tema dei Chetifs divenne molto popolare sia in «Outremer», sia in Europa14. La produzione poetica di «Outremer» comprende anche altre opere, ma nessuno degli autori di cui si conoscono i nomi nacque in Oriente. Filippo di Novara, statista, cronista e giurista, era italiano di nascita e scriveva in francese, ed inserì nella sua cronaca versi di propria fattura, vivaci anche se di scarso valore poetico15. Filippo di Nanteuil durante la sua prigionia al Cairo scrisse poesie piene di nostalgia per la Francia, sua patria16. Ma sebbene si possa considerare Filippo di Novara come uno dei fondatori della cultura franca di Cipro, tuttavia la letteratura di «Outremer » non è altro che un ramo di quella francese. Non si ebbe nessuna letteratura locale in Siria tra gli indigeni sudditi dei franchi, sebbene invece a Cipro e persino in Grecia fiorisse sotto il loro dominio una letteratura greca semipopolare fortemente caratterizzata da influssi franchi. La vita intellettuale di «Outremer» era quella di una colonia franca: le corti dei re e dei principi avevano un certo fascino cosmopolita, ma il numero dei dotti residenti in «Outremer» era molto piccolo; le guerre e le difficoltà finanziarie impedirono l’istituzione di veri e propri centri di studio in cui potesse venire assorbita la cultura locale e dei paesi vicini. La mancanza di tali centri del sapere rese quindi insignificante l’apporto culturale delle crociate all’Europa occidentale.

Alberi genealogici

Sono qui riuniti gli alberi genealogici delle principali famiglie protagoniste della storia delle crociate. Poiché i legami tra le varie famiglie e tra i vari rami di una stessa famiglia sono spesso assai intricati e si è reso d’altra parte necessario scindere su parecchie tavole alcuni alberi particolarmente ricchi di ramificazioni, abbiamo adottato per i casi principali un sistema di richiami. Il numero accanto al nome rimanda il lettore alla corrispondente nota a pie di pagina, dove è indicato il rinvio all’albero o alla tavola in cui, partendo dalla rispettiva nota, troverà sia il coniuge, sia l’ascendenza (indicata da parentesi tonde) o la discendenza (indicata da parentesi quadre) di quel personaggio.

1 a. Casa reale di Gerusalemme; conti di Edessa; signori di Sidone e Cesarea.

1 b. Casa reale di Gerusalemme; conti di Edessa; signori di Sidone e Cesarea.

2. Principi di Antiochia e re di Sicilia.

3. Conti di Tripoli e principi di Galilea1.

4 a. Signori di Toron, Oltregiordano, Nablus e Ramleh (casa di Ibelin).

4 b. Signori di Toron, Oltregiordano, Nablus e Ramleh (casa di Ibelin).

5. Principi ortoqidi.

6. Casa di Zengi.

7 a. Case reali di Gerusalemme e Cipro, e casa di Ibelin.

7 b. Case reali di Gerusalemme e Cipro, e casa di Ibelin.

7 c. Case reali di Gerusalemme e Cipro, e casa di Ibelin.

7 d. Case reali di Gerusalemme e Cipro, e casa di Ibelin.

7 e. Case reali di Gerusalemme e Cipro, e casa di Ibelin.

8. Casa di Antiochia.

9. Casa degli Embriaco.

9. Casa reale di Armenia.

10 a. Casa reale di Armenia.

10 b. Casa reale di Armenia.

11. Dinastia degli Ayubiti.

12. Casa di Gengis Khan.

Bibliografia

ELENCO DELLE ABBREVIAZIONI

«Aa. Ss.» «Acta Sanctorum» («Bollandiana»). Anon. Guidi Cronica anonima, con trad. latina di I. Guidi. Chron. Anon. Syr. Chronica Anonyma Syriaca Concilia Sacrorum Conciliorum Nova et Amplissima Collectio. CSCO Corpus Scriptorum Christianorum Orientalium. CSHB Corpus Scriptorum Historiae Byzantinae. Gesta Francorum Anonymi Gesta Francorum et Aliorum Hierosolimitorum Histoire des Croisades Histoire des Croisades et du Royaume Frane de Jérusalem Itinera HierosolymitanaItinera Hierosolymitana et Descriptiones Terrae Sanctae Later Roman Empire History of the Later Roman Empire from Arcadius to Irene Le Monde Musulman Le Monde Musulman et Byzantin jusqu’aux Croisades MGH Monumenta Germaniae Historica MGHSs Monumenta Germaniae Historica Scriptores MPG MIGNE, Patrologia Graeco-Latina MPL MIGNE, Patrologia Latina. PO Patrologia Orienlalis PPTS Palestine Pilgrims’ Text Society Regesta Regesta Pontificum Romanorum Regesten Regesten der Kaiserkunden des Oströmischen Reiches RHC Recueil des Historiens des Croisades RHCArm Recueil des Historiens des Croisades: Documents Arméniens RHCG Recueil des Historiens des Croisades: Historiens Grecs RHCOcc Recueil des Historiens des Croisades: Historiens Occidentaux RHCOr Recueil des Historiens des Croisades: Historiens Orientaux RHF Recueil des Historiens des Gaules et de la France RISs Rerum Italicarum Scriptores SMQBS Quinti Belli Sacri Scriptores Minores Spicilegium Spicilegium sive Collectio veterum aliquot Scriptorum «ZKG» «Zeitschrift für Kirchengeschichte».

LIBRO PRIMO

La prima crociata e la fondazione del regno di Gerusalemme I. FONTI ORIGINALI

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LIBRO SECONDO

Il regno di Gerusalemme e l’Oriente franco (1100-1187) I. FONTI ORIGINALI

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LIBRO TERZO

Il regno di Acri e le ultime crociate I. FONTI ORIGINALI

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Note Capitolo primo L’unità musulmana

1 Ibn al-Athir,

Kamil fi t-tarikh, p. 600. Abu Shama (che cita Imad ed-Din), pp. 164-65; Beha ed-Din, pp. 66-67, indica che il 7 settembre come data d’arrivo dei siciliani; Guglielmo di Tiro, XXI, 3, p. 1007. 3 Beha ed-Din, pp. 67-70; Ibn al-Athir, Kamit fi t-tarikh, pp. 614-16; al-Maqtizi, p. 517. 4 Guglielmo di Tiro, XXI, 3-4, pp. 1007-9. 5 Guglielmo di Tiro, XXI, 5, pp. 1010-12. 6 Sulla liberazione di Rinaldo e Jocelin cfr. oltre, p. 629. 7 Ugo di Ibelin, che era stato commissario di Amalrico al Cairo nel 1167, morì verso il 1169. Egli era stato fidanzato con Agnese prima che essa sposasse Amalrico (Guglielmo di Tiro, XIX, 4, p. 890). Guglielmo parla anche del divorzio di Rinaldo di Sidone. Il padre di Rinaldo dimostrò che egli ed Agnese erano parenti, senza dubbio a motivo della madre di lei, Beatrice vedova di Guglielmo di Sahyun, il cui nome da ragazza non è conosciuto. 8 Guglielmo di Tiro, XXI, 18, p. 1035; Ernoul, p. 44. 9 Ernoul, pp. 30-31. 10 Ernoul, p. 114; Estoire d’Eracles, pp. 51-52. Plivano pagò diecimila bisanti per la sua sposa. Se il loro contenuto in oro era quello regolare essa avrebbe dovuto pesare circa 63 chilogrammi e mezzo. 11 La qualità di siniscalco di Jocelin è documentata dal 1177 in avanti (Röhricht, Regesta Regni Hierosotymitani, p. 147). Viene sempre chiamato «conte Jocelin». Nei documenti Agnese è chiamata contessa, essendo stata contessa di Giaffa e Ascalona durante il suo matrimonio con Amairico. Non fu mai regina e non viene mai chiamata con quel titolo. Sull’educazione di Sibilla cfr. Guglielmo di Tiro, XXI, 2, p. 1006; su quella di Baldovino cfr. sopra, p. 615. 12 Guglielmo di Tiro, XXI, 6, pp. 1012-13, 1023; Abu Shama, pp. 167-68; Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarikh, pp. 618-20; Kemal ad-Din, ed. a cura di Blochet, pp. 562-64. 13 Beha ed-Din, pp. 70-71; Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarikh, pp. 621-22, chiama il luogo della battaglia Corni di Hama; Kemal ad-Din, ed. a cura di Blochet, p. 564. 14 Le prime monete che recano il titolo reale di Saladino hanno la data a.m. 570 (1174-75). Egli non assunse mai il titolo di sultano, ma certi scrittori arabi, anche suoi contemporanei, glielo attribuiscono correntemente (per esempio Ibn Giubair e Beha ed-Din). Cfr. Wiet, op. cit., pp. 335-36. 15 Beha ed-Din, pp. 71-74; Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarikh, pp. 62.5-26. Beha ed-Din fa succedere la battaglia a Tel es-Sultan e ai Comi di Hama. 16 Beha ed-Din, pp. 74-73; Kemal ad-Din, pp. 146-47; Ibn al-Athir, loc. cit. Secondo Kemal adDin l’opinione pubblica ad Aleppo era fortemente contraria a un trattato e sosteneva vigorosa mente 2

as-Salih 17 Abu Firas, testo arabo, pp. 4.55-39; Ibn al-Athir (loc. cit.) da notizia di una lettera minacciosa spedita da Sinan a Shihab ed-Din, zio materno di Saladino. 18 Guglielmo di Tiro, XXI, 8, pp. 1017-19; a Honfroi di Toron, che era responsabile di aver fatto la tregua, egli rimprovera di aver perduto l’occasione di colpire Saladino mentre si trovava in difficoltà 19 Guglielmo di Tiro, XXI, II, pp. 1021-23; Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarikh, p. 627. 20 Guglielmo di Tiro, XXI, 13, pp. 1025-26; la madre di Guglielmo era sorellastra di re Corrado e del padre di Federico Barbarossa. Il padre di Guglielmo, e Adelaide di Moriana madre di re Luigi, erano nati da due diversi matrimoni di Gisella di Borgogna. 21 Niceta Coniate, pp. 236-48; Michele il Siriano, vol. Ili, pp. 369-72. Cfr. Chalandon, Les Comnènes, pp. 306-13, e Cahen, La Syrie du Nord, p. 417, nota 3, e in particolare a proposito della battaglia cfr. Ramsay, Report on Exploration in Phrygia, in History and Art of the Eastern Pro vince! of the Roman Empire, pp. 233-38. 22 Niceta Coniate, p. 249. Manuele, d’altra parte, parlando di quel disastro nella sua lettera a Enrico II d’Inghilterra tenta di minimizzarlo (citato da Roger di Hoveden, vol. II, p. 101). Molti cronisti occidentali segnalarono questa battaglia, per esempio Vita Alexandri III, p. 433, e Annales Sondi Rudberti Salisburgensis, p. 777. 23 Guglielmo di Tiro, XXI, 12, p. 1025. 24 Enrico II e Luigi VII si misero d’accordo, il 21 settembre 1177 mediante il trattato di Ivry, di condurre assieme una crociata (Benedetto di Peterborough, vol. I, pp. 191-94). Il progetto fu abbandonato poco dopo. 25 Guglielmo di Tiro, XXI, 14-18, pp. 1027-35. Egli avanza l’idea che Raimondo di Tripoli e Boemondo d’Antiochia fossero ambedue contrari a una spedizione in Egitto e ne scoraggiassero Filippo. Ma gli Ibelin erano disgustati della condotta di Filippo e poiché abitualmente assecondavano Raimondo, può darsi che Guglielmo abbia esagerato. Egli si era occupato dell’alleanza con Bisanzio ed era turbato perché era stata lasciata da parte; d’altro lato la volontà dimostrata più tardi da Filippo di aiutare Raimondo e Boemondo può averlo indotto a sospettare di loro. Cfr. anche Ernoul, P- 33, il quale racconta del pungente rimprovero di Baldovino di Ibelin. 26 Guglielmo di Tiro, XXI, 19, 25, pp. 1036, 1047-49; Ernoul, p. 34; Michele il Siriano, vol. III, pp. 75-76; Abu Shama, pp. 189-92; Beha ed-Din, pp. 76-77; Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarikh, pp. 63033; Kemal ad-Din, ed. a cura di Blochet, pp. 148-53. 27 Guglielmo di Tiro, XXI, 20-24, PP- 1037-47; Ernoul, pp. 41-45; Michele il Siriano, vol. III, p. 375; Beha ed-Din, pp. 75-76; Abu Shama, pp. 184-87; Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarikh, pp. 627-35. 28 Guglielmo di Tiro, XXI, 26, pp. 1050-51; Ernoul, pp. 51-52; Abu Shama, pp. 194-97; Ite alAthir, Kamil fi t-tarikh, p. 634. In quell’epoca Saladino era occupato da una rivolta locale a Baalbeck. Il guado di Giacobbe è ora attraversato da un ponte conosciuto come Ponte delle Figlie di Giacobbe. 29 Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarikh, p. 633. 30 Sempad il Conestabile, p. 624; Vahram, p. 509. Sul matrimonio di Rupen cfr. oltre, p. 641.

31 Guglielmo di Tiro, XXII, 5, p. 1069. Non v’è accordo circa la data di questo matrimonio, e neppure sul nome della sposa. Nei Lignages d’Outremer (V, p. 446) è chiamata Irene e le viene attribuita una figlia chiamata Costanza, di cui non si sa null’altro. Non si sa se essa era una Comnena o se era imparentata con l’imperatore dal lato della propria madre. Rey, Histoire des Princes d’Antioche, pp. 379-82 ritiene che essa sia stata la prima moglie di Boemondo. È più probabile invece che la sua prima moglie sia stata Orgillosa di Harenc, che compare in documenti del 1170 1175 (Röhricht, Regesta Regni Hierosolymitani, pp. 125, 139). Guglielmo afferma esplicitamente che Boemondo lasciò Teodora per vivere con Sibilla. 32 Guglielmo di Tiro, XXI, 27-30, pp. 1052-39; Ernoul, pp. 33-34; Abu Shama, pp. 194-202; Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarikh, pp. 633-36; Maqrizi, pp. 330-31. Rimane qualche dubbio se Oddone di Saint-Amand sia stato veramente ucciso, poiché una bolla di papa Alessandro III lascia intendere che egli vivesse ancora come prigioniero. Cfr. d’Albon, La Mort d’Odo de Saint-Amand, in «Revue de l’Orient Latin», vol. XII, pp. 279-82. 33 Guglielmo di Tiro, XXII, 1-3, pp. 1033-36; Abu Shama, p. 211; Ibn al-Athir, Kamil fi ttarikb, p. 642. 34 Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarikh, pp. 639-40. 35 Guglielmo di Tito, XXII, 4, pp. 1066-68. 36 Sempad il Conestabile, p. 627. Ernoul, p. 31, menziona questo matrimonio chiamando Rupen figlio di Thoros. Egli racconta anche (pp. 25-30) una visita di Thoros a Gerusalemme, non segna lata altrove e probabilmente mitica. 37 Michele il Siriano, vol. III, p. 379. 38 Röhricht, Regesta Regni Hierosolymitani, pp. 67,145. Sulla leggenda di Prete Gianni cfr. Marinescu, Le Prêtre Jean, in «Bulletin de la Section Historique de l’Académie Roumaine», vol. X. 39 La storia d’amore di Baldovino di Ibelin è raccontata soltanto da Ernoul, pp. 48, 56-59. Ernoul era al servizio di Baliano, fratello di Baldovino, e perciò conosceva bene la vita di quella famiglia. 40 Guglielmo di Tiro, XXII, I, pp. 1064-65; Ernoul, pp. 59-60; Benedetto di Peterborough, vol. I, p. 343, racconta che Sibilla aveva già preso Guido come amante. Quando il re lo venne a sapere voleva mandare Guido a morte ma, a richiesta dei templari, lo risparmiò e consentì al matrimonio. 41 Guglielmo di Tiro, XXII, 4, pp. 1068-69; Ernoul, pp. 81-82. Secondo Guglielmo Honfroi ce dette al re le sue terre di Galilea in cambio del fidanzamento. Baldovino diede Toron a sua madre. Ibn Giubair, p. 304, dice che appartiene «alla scrofa che è madre del porco che è signore di Acri», e che Hunin appartiene a suo zio Jocelin. 42 Guglielmo di Tiro, XXII, 4, p. 1068, ne fa un breve cenno, lasciando accuratamente da parte ogni accenno alla propria candidatura. Ernoul, pp. 82-84, afferma specificamente che Agnese insistette per l’elezione di Eraclio perché «pour sa biauté l’ama»; essa l’aveva già fatto arcivescovo di Cesarea. Egli aggiunge che Guglielmo mise in guardia i canonici contro la sua elezione. Estoire d’Eracles, vol. II, pp. 57-59, ricorda che Guglielmo avrebbe profetizzato che la Croce, riscattata da un Eraclio, sarebbe stata perduta da un Eraclio. 43 Ernoul, pp. 84-86; Estoire d’Eracles, vol. II, pp. 37-19, dice che Guglielmo fu avvelenato da un dottore inviato a Roma da Eraclio il quale, in seguito, venne egli stesso a Roma. Le date della

partenza e morte di Guglielmo sono ignote. La sua storia si interrompe al 1183. Eraclio fu a Roma nel 1184. D’altra parte Guglielmo viene menzionato in un documento di papa Urbano III (datato 17 ottobre 1186) come assistente in una causa tra l’Ospedale ed il vescovo di Buluniyas. (Röhricht, Regesta Regni Hierosolymitani, Additamenta, p. 44). Perciò Röhricht presume che egli sia tornato in Terra Santa (Geschichte desersten Kreuzzuges, p. 491. nota 3). È più probabile che la cancelleria papale abbia fatto un errore di nomi. Giosia era arcivescovo di Tiro al 21 ottobre 1186 (Röhricht, Regesta Regni Hierosolymitani, p. 173). 44 Guglielmo di Tiro, XXII, 9, pp. 1077-79. 45 Cfr. Chalandon, Les Comnènes, pp. 605-8. Guglielmo di Tiro, XXII, 5, p. 1069, ne indica la morte. 46 Sul regno di Andronico cfr. Niceta Coniate, pp. 356-463. Guglielmo di Tiro, XXII, 10-13, pp. 1079-86, dà un resoconto abbastanza bene informato dell’ascesa al trono di Andronico. 47 Guglielmo di Tiro, XXII, 6-7, pp. 1071-74; Guglielmo di Tiro Continuatus, p. 208; Ernoul, p. 9; Niceta Coniate, pp. 376-77; Neofito, p. clxxxvii; Michele il Siriano, vol. Ili, pp. 389-94; Sempad il Conestabile, p. 628; Vahram, pp. 308-10. Sullo spionaggio di Sibilla cfr. Ibn al-Athir, Kamil fi ttarikh, pp. 729-30; Abu Shama, p. 374. 48 Sulla storia georgiana sotto re Giorgio III (1156-84) cfr. Cronaca georgiana, pp. 231-37. Gli successe sua figlia, la grande regina Tamara. Cfr. Alien, History of the Ceorgian People, pp. 102-4. 49 Guglielmo di Tiro, XXII, 14, p. 1087, omette di spiegare perché Saladino arrestasse i pellegrini; Ernoul, pp. 54-.56; Abu Shama, pp. 214-18; Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarikh, pp. 647-30. 50 Guglielmo di Tiro, XXII, 14-16, pp. 1087-95; Abu Shama, pp. 218-22; Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarikh, pp. 631-53. La strofetta cantata a Saladino alla partenza dal Cairo diceva «Godi il pro fumo dei crisantemi selvatici di Nejd. Dopo questa notte non ci saranno più crisantemi selvatici». 51 Guglielmo di Tiro, XXII, 17-18, pp. 1096-1101; Abu Shama, p. 223; Ibn al-Athir, Kamil fi ttarikh, pp. 633. 52 Beha ed-Din, pp. 79-86; Kemal ad-Din, ed. a cura di Blochet, pp. 159-60; Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarikh, pp. 656-57. 53 Guglielmo di Tiro, XXII, 20-22, 25, pp. 1102-16; Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarikh, pp. 155-59. 54 Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarikh, p. 662. 55 Beha ed-Din, pp. 86-88; Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarikh, p. 662; Abu Shama, pp. 223-28; Kemal ad-Din, ed. a cura di Blochet, p. 167; Guglielmo di Tiro, XXII, 24, pp. 1113-14, si rese chiaramente conto del significato della conquista di Aleppo da parte di Saladino. 56 Beha ed-Din, p. 89.

Note Capitolo secondo I Corni di Hattin

1 Guglielmo

di Tiro, XXII, 25, pp. 1116-17. Shama, pp. 231-33; Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarikh, p. 6.58; Maqrizi, ed. a cura di Blochet, in «Revue de l’Orient Latin», vol. XI, pp. 500-51. Ernoul (pp. 69-70) è l’unico cronista franco che fa menzione di questa razzia, ma la chiama spedizione scientifica. Ibn Giubair (p. 49) vide i prigionieri franchi al Cairo. 3 Guglielmo di Tiro, XXII, 26-27, PP- 1118-24; Ernoul, pp. 96-102; Beha ed-Din, pp. 90-91; Abu Shama, pp. 243-46. 4 Guglielmo di Tiro, XXII, 29, pp. 1127-28, afferma che Baldovino V venne incoronato in quell’occasione. 5 Guglielmo di Tiro, XXII, 28, 30, pp. 1124-27, 1129-30; Ernoul, pp. 102-6, è l’unico che parla della festa di nozze alla quale potrebbe esser stato presente in qualità di scudiero di Ballano. Egli credeva che Saladino fosse stato da bambino come ostaggio al Krak, dove la signora Stefania lo avrebbe tenuto sulle ginocchia. Nessun’altra fonte menziona una prigionia di Saladino nell’infanzia. Dato che Saladino nacque nel 1137 e Stefania probabilmente non prima del 1145 (sposò il primo marito nel 1162-63 e le ragazze si sposavano presto in Palestina) questa storia è inverosimile. Abu Shama, p. 248; Beha ed-Din, pp. 91-92; Maqrizi, ed. a cura di Blochet, in «Revue de l’Orient Latin», vol. XII, pp. 13-14. 6 Ciò che accadde in seguito al matrimonio appartiene alla storia della terza crociata. L’autore dell’Itinerarium Peregrinorum et Gesta Regis Ricardi (p. 120) descrive Honfroi come «Vir feminae quam viro proprior, gestu mollis, sermone fructus». Beha ed-Din (p. 288) ne menziona la bellezza e afferma che parlava bene l’arabo. Estoire d’Eracles, vol. II, p. 152, dice che ad Isabella venne proibito di vedere sua madre. 7 Beha ed-Din, pp. 95-98; Abu Shama, pp. 249-56; lettera di Baldovino IV ad Eraclio, in Radulfo di Diceto. II, pp. 27-28. 8 Su questa missione cfr. Benedetto di Peterborough, vol. I, p. 338; Radulfo di Diceto, II, PP- 3233. Enrico II consultò il suo consiglio che gli disse di non partire in crociata 9 Estoire d’Eracles, vol. II, p. 3. 10 Estoire d’Eracles, vol. II, p. 7; Ernoul, pp. 115-19 (la narrazione più ampia). Egli colloca il fatto dopo il secondo assedio di Kerak da parte di Saladino (settembre 1184) ed afferma che Baldovino IV morì poco dopo. Ma Guglielmo di Tiro parla dell’incoronazione di Baldovino V indicando la data del 20 novembre 1183. Siccome Guglielmo morì prima della fine del ri84, ma scrisse le sue ultime pagine a Roma, può darsi che conoscesse la decisione di Baldovino di incoronare suo nipote sin dal momento della disgrazia di Guido nel 1183, ma può essersi sbagliato nel ritenere che l’incoronazione avesse già effettivamente avuto luogo. I diritti legali di Sibilla e di Isabella pone vano un problema. Una assise promulgata da Amalrico I nel 1171 permetteva alle 2 Abu

sorelle di partecipare alla divisione dei feudi, secondo le comuni usanze feudali dell’Europa occidentale. Grand-claude, Uste d’Assises de Jérusalem, p. 340 ritiene che essa si riferisse alla successione al trono. Alla regina Maria era probabilmente nata da poco la maggiore delle sue figlie. D’altra parte ai figli di un primo matrimonio, sia maschi che femmine, si dava nettamente la precedenza su quelli di seconde nozze. (Cfr. La Monte, Feudal Monarchi, p. 36). Ma i discendenti del matrimonio annullato di Agnese avrebbero avuto la precedenza su quelli del matrimonio imperiale di Maria? Gli eventi del 1186 mostrano chiaramente che l’opinione pubblica sosteneva i diritti di Sibilla. Si trattava, comunque, di un caso abbastanza oscuro, tale da richiedere un arbitraggio. 11 Estoire d’Eracles, vol. II, pp. 7-9; Ernoul, pp. 114,118. 12 Ernoul, pp. 118-19; Estoire d’Eracles, vol. II, p. 9. Imad ed-Din (Abu Shama, p. 2.38) rende omaggio alla memoria di Baldovino IV. 13 Ernoul, pp. 121-28; Estoire d’Eracles, vol. II, pp. 12-13;_Beha ed-Din, pp. 104-5. 14 Beha ed-Din, pp. 98-103; Kemal ad-Din, pp. 123-26; Abu Shama, p. 288; Busta», p. 381. 15 Abul Fida, p. 55. Cfr. Lane Poole, Saladin, pp. 194-95 (Shirkuh II citò il versetto del Corano, IV, 9); Beha ed-Din, pp. 103-4. 16 Ernoul, p. 129; Estoire d’Eracles, vol. II, p. 25. 17 Ernoul, pp. 129-36, ne dà il racconto più ampio e vivace; Estoire d’Eracles, vol. II, pp. 2531; Radulfo di Diceto, II, p. 57; Arnoldo di Lubecca, pp. 116-17. Le prime due fonti (le due più degne di fede) indicano come data dell’incoronazione il settembre, Radulfo agosto ed Arnoldo il 20 luglio. Il primo documento di Guido è datato in ottobre. Röhricht, Regesta Regni Hierosolymitani, p. 873. 18 È chiaro che Raimondo si considerava candidato al trono. Ibn Giubair (p. 304) segnala delle voci relative alle sue ambizioni fin dal 1183. Abu Shama (pp. 257-58) cita l’affermazione di Imad ed-Din secondo cui egli sarebbe stato disposto a farsi maomettano pur di riuscirci, ed Ibn al-Athir (Kamil fi t-tarikh, p. 674) dice che egli contava sull’aiuto di Saladino. La tardiva Historia Regni Hierosolymitani (pp. ji-52) afferma che egli pretendeva la corona perché’ sua madre (qui chiamata Dolcis) era nata dopo l’incoronazione del padre di lei, mentre Melisenda era nata prima. Ma poiché soltanto l’ultimogenita delle figlie di Baldovino II, la badessa Joveta, era nata come figlia di re, egli non può essersi servito di tale argomento. Forse egli avanzò un argomento del genere per giustificare i baroni riuniti a Nablus che avevano scelto Isabella anziché Sibilla, e il cronista ha con fuso la questione. 19 Ernoul, pp. 137-39; Estoire d’Eracles, vol. II, p. 33; Gestes des Chiprois (p. 659), afferma che Guido avrebbe voluto colpire Baldovino se non fosse stato di così alto lignaggio. 20 Estoire d’Eracles, vol. II, p. 34- Afferma che la sorella di Saladino venne catturata con la carovana, mentre in realtà essa stava facendo il suo viaggio di ritorno dalla Mecca in una carovana seguente; Abu Shama, pp. 259-61. 21 Beha ed-Din, p. 109. 22 Ernoul, pp. 141-42; Estoire d’Eracles, vol. II, pp. 31-35. Ernoul dice che Raimondo ricevette effettivamente dei rinforzi da Saladino. 23 Ernoul, pp. 142-43. Rinaldo di Sidone avrebbe dovuto unirsi alla delegazione, ma si mise in

viaggio indipendentemente. 24 Questa storia- è raccontata molto ampiamente da Ernoul che era con Baliano come suo scudiero (pp. 143-34). Estoire d’Eracles, vol. II, pp. 37-44; Imad ed-Din, in Abu Shama, p. 262; Ibn al-Athir (Kamil fi t-tarikh, p. 678) afferma che al-Afdal mandò Kukburi a capo della spedizione e che i cavalieri erano settemila. Il De Expugnatione Terrae Sanctae (pp. 210-11) indica la stessa cifra ma il suo breve racconto nega che Raimondo avesse insistito perché non venissero danneggiate le proprietà, e tenta di riabilitare i templari. La Fève è il villaggio arabo di el-Fuleh (i due nomi significano la stessa cosa: La Fava) a metà strada tra Jenin e Nazaret. 25 Traduzione di F. Gabrieli, Storici arabi delle crociate, Einaudi, Torino 1963, p. 118. 26 Sulle complesse e contraddittorie testimonianze relative alla battaglia di Hattin cfr. Appendice IV. 27 Beha ed-Din, pp. 114-ij; Kemal ad-Din (pp. 180-81) ne dà una versione leggermente diversa ma con lo stesso significato; Ernoul (pp. 172-74) racconta più o meno la stessa cosa. 28 Ernoul, p. 171; Estoire d’Eracles, vol. II, p. 69; Abu Shama, pp. 266-67. 29 Ernoul, loc. cit.; Estoire d’Eracles, vol. II, pp. 70-71; Abu Shama, pp. 295-97; Beha ed-Din, p. 116; Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarikh, pp. 688-90. 30 Estoire d’Eracles, vol. II, p. 68; De Expugnatione Terrae Sanctae, .pp. 31-34; Beha ed-Din, he. cit. (dove menziona soltanto Toron); Abu Shama, pp. 300-6; Ibn al-Athir, loc. cit. 31 Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarikh, pp. 690-91. Egli personalmente comprò una schiava sul mercato di Aleppo, una giovane che aveva perso il marito e sei bambini (p. 691); De Expugnatione Terrae Sanctae, p. 229. 32 Beha ed-Din, pp. 116-17; Abu Shama, pp. 306-10; Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarikh, pp. 692693; De Expugnatione Terrae Sanctae, p. 236. 33 Ernoul, p. 184; Estoire d’Eracles, vol. II, pp. 78-79; De Expugnatione Terrae Sanctae, pp. 236-38; Beha ed-Din, p. 117; Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarikh, pp. 696-97. 34 Abu Shama, pp. 312-13; Beha ed-Din, he. cit.; Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarikh, p. 697. 35 Secondo Ernoul (pp. 175, 185) Sibilla rimase a Gerusalemme fino alla vigilia dell’assedio e allora le fu concesso di andare a Nablus (p. 185). Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarikh, p. 703; Estoire d’Eracles, II, p. 79 e l’Itinerarium Peregrinorum et Gesta Regis Ricardi, pp. 21-23, affermano che Sibilla rimase a Gerusalemme per tutto l’assedio e poi andò a Nablus solo per un breve incontro. Beha ed-Din (p. 143) dice che Guido fu portato a Tortosa e quivi messo in libertà da Saladino che stava assediando Krak des Chevaliers. Ciò accadeva nel luglio 1188, pochi giorni prima che Saladino occupasse Tortosa. Può darsi che Tortosa (Antartus) sia un errore di Beha ed-Din per Tripoli, ad ogni modo la data della liberazione è indicata inequivocabilmente come luglio 1188. Ernoul in vece (p. i8j), dice che Guido fu messo in libertà nel marzo 1188, però (p. 252) dice che ciò accadde quando Saladino assediava Tripoli (luglio 1188). L’Itinerarium Peregrinorum et Gesta Regis Ri cardi dice che Guido fu liberato a Tortosa dove Sibilla poi lo raggiunse (p. 25). 36 Ernoul, pp. 174-75, 185-87; Estoire d’Eracles, vol. II, pp. 81-84; De Expugnatione Terrae Sanctae, p. 238. 37 Ernoul, pp. 174-75, 211-30, ne dà la più ampia ed autentica relazione. Egli si trovava con Baliano a Gerusalemme; Estoire d’Eracles, vol. II, pp. 81-99; De Expugnatione Terrae Sanctae, pp.

241-31, è il racconto di un testimone oculare che venne ferito durante l’assedio e disapprovava la resa; Abu Shama, pp. 320-40; Beha ed-Din, pp. 118-20; Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarikh, pp. 699-703. La storia di Giuseppe Babit è narrata in Storia dei patriarchi di Alessandria, p. 207, una fonte copta ostile ai franchi. L’autore aggiunge che i cristiani ortodossi furono spiacenti per la capitolazione, perché avrebbero voluto massacrare i franchi. 38 Ernoul, pp. 320-24; Estoire d’Eracles, vol. II, pp. 100-3. 39 Sulla sorte dei cristiani indigeni cfr. Barebreo, trad. di Budge, pp. 326-27; Beha ed-Din, pp. 198-201, dà notizia dello scambio di ambascerie tra Saladino e l’imperatore. Maqrizi, p. 33, men ziona la chiusura temporanea del Santo Sepolcro. Riguardo agli ebrei, cfr. Schwab, Al Harizi, in «Archives de l’Orient Latin», vol. I, p. 236. 40 Beha ed-Din, p. 120; Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarikb, pp. 704-5; Estoire d’Eracles, vol. II, p. 104; Ernoul, pp. 234-35; De Expugnatione Terrae Sanctae, pp. 250-51; Ibn Khalfikan, II, pp. 63441, riferisce dell’elevato sermone predicato dal cadì principale di Aleppo nella prima riunione religiosa nella moschea di Aqsa. 41 Ernoul, p. 187; Estorie d’Eracles, vol. II, p. 122; Abu Shama, p. 382; Beha ed-Din, pp. 130, 143. 42 Beha ed-Din, pp. 122-23, 138-41, 142-43. Egli conobbe Rinaldo e lo trovò molto simpatico; Abu Shama, pp. 395-400; Kemal ad-Din, p. 191. 43 La morte di Raimondo è ricordata, senza indicazione della data esatta, da Estoire d’Eracles, p. 72, dove sono anche segnalate le disposizioni prese per la successione; è ricordata anche da Imad ed-Din (in Abu Shama, p. 284) e da Beha ed-Din, p. 114. Gli autori arabi affermano che morì di pleurite. Sulla sua condotta a Hattin cfr. Appendice IV. Benedetto di Peterborough afferma che egli fu trovato morto nel suo letto (vol. II, p. 21). 44 Ernoul, pp. 252-J3; Estoire d’Eracles, vol. II, p. 122; Abu Shama, pp. 356-76; Beha ed- Din, pp. 125-38; Kemal ad-Din, ed. a cura di Blochet, pp. 187-90; Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarikh, pp. 72629; Abu Shama, pp. 361-62, cita la descrizione che Imad ed-Din fa di Lattakieh e del suo saccheggio. 45 lbn al-Athir, Kamil fi t-tarikh, pp. 732-33; Beha ed-Din, p. 37. La tregua doveva durare sette mesi. 46 Ernoul, pp. 179-83, 240-44; Estoire d’Eracles, vol. II, pp. 74-78, 104-10; Itinerarium Peregrinorum et Gesta Regis Ricardi, pp. 18-19; Beha ed-Din, pp. 120-22; Ibn al-Athir, Kamil fi ttarikh, pp. 694-96, 707-12.

Note Capitolo primo La coscienza dell’Occidente

1

Ernoul, pp. 247-48, riguardo al viaggio di Giosia. La relazione del templare Terenzio ai suoi confratelli è riportata da Benedetto di Peterborough, vol. II, pp. 13-14, quella degli ospitalieri da Ansberto, Expeditio Friderici Imperatoris, pp. 2-4. Terenzio scrisse pure a Enrico II; Benedetto di Peterborough, vol. II, pp. 40-41. 2 Ernoul, loc. cit. 3 Benedetto di Peterborough, vol. II, pp. 11-13. 4 Annales Romani, vol. II, pp. 682-83. 5 Benedetto di Peterborough, vol. II, pp. 15-19, riporta il testo delle lettere del papa. Il poeta provenzale Giraut riteneva, tuttavia, che il papa non fosse stato abbastanza attivo (cfr. Throop, Criticism of the Crusades, pp. 29-30). 6 Annales Romani, vol. II, p. 692. 7 Benedetto di Peterborough, vol. II, pp. 36-38. 8 Ambrogio, col. 3; Itinerarium Peregrinorum et Gesta Regis Ricardi, p. 32; Rigord, pp. 83-84. Da un punto di vista politico la conferenza di Gisors fu un fallimento. 9 Benedetto di Peterborough, vol. II, p. 30; Ambrogio, coll. 3-4; Itinerarium Peregrinorum et Gesta Regis Ricardi, pp. 32-33. 10 Benedetto di Peterborough, vol. II, pp. 30-32. 11 Benedetto di Peterborough, vol. II, pp. 38-39. 12 Ibid., pp. 44, 47-48. 13 Ibid., pp. 34-36, 39-40, 44-49; Rigord, pp. 90-93. 14 Benedetto di Peterborough, vol. II, pp. 50-31, 39-61, 66-71; Rigord, pp. 94-97; Ruggero di Wendover, vol. I, pp. 134-60. 15 Benedetto di Peterborough, vol. II, pp. 74-75; Ruggero di Wendover, vol. I, pp. 162-63. 16 Benedetto di Peterborough, vol. II, pp. 80-88, 97-101; Ruggero di Wendover, vol. I, pp. 164167; Ambrogio, coli. 6-7. 17 Benedetto di Peterborough, vol. II, pp. 92-93. 18 Benedetto di Peterborough, vol. II, pp. 51-33. 19 Ibid., p. 93. 20 Cfr. oltre, p. 696. 21 Benedetto di Peterborough, vol. II, p. 108; Itinerarium Peregrinorum et Gesta Regis Ricardi, p. 146; Rigord, pp. 97-98.

22 Benedetto di Peterborough, vol. II, p. ni; Itinerarium Peregrinorum et Gesta Regis Ricardi, pp. 147-49; Ambrogio, coli. 8-9; Rigord, pp. 98-99. 23 Cfr. Chalandon, Histoire de la nomination normande en Italie et en Sicile, vol. II, pp. 416418. In tutte le cronache anglo-normanne e francesi la morte di Guglielmo è considerata come un vero disastro. 24 Benedetto di Peterborough, vol. II, p. 94; Itinerarium Peregrinorum et Gesta Regis Ricardi, p. 65; Ambrogio, coli. 77-78. 25 Benedetto di Peterborough, vol. II, pp. 116-22; Radulfo di Diceto, II, pp. 65-66; Narratio Itineris Navalis ad Terram Sanctam, passim. 26 La migliore biografia generale di Federico I è ancora quella di Prutz, Kaiser Friedrich I. Un ampio resoconto della sua spedizione in Oriente è dato da Ansberto, Expeditio Friderici Imperatoris, dalla Historia Peregrinorum e dalla Epistola de Morte Friderici. 27 Hefele, op. cit., vol. V, parte II, pp. 1143-44. 28 Benedetto di Peterborough, vol. II, pp. 55-56. 29 Hefele, op cit., vol. V, parte II, p. 1144, con citazioni. 30 Ansberto, Expeditio Friderici Imperators, p. 16. Una traduzione della lettera di Federico a Saladino è riportata da Benedetto di Peterborough, vol. II, pp. 62-63. Quasi certamente non è autentica. 31 Ansberto, Expeditio Friderici Imperators, p. 15; Hefele, loc. cit. 32 Arnoldo di Lubecca riteneva che fosse stato fatto un censimento quando l’esercito attraversava la Sava, e che ci fossero cinquantamila cavalleggeri e centomila fanti (pp. 130-31). I cronisti tedeschi danno la cifra tonda di centomila uomini per l’intero esercito. 33 Ansberto, Expeditio Friderici Imperators, p. 26. 34 Su Isacco Angelo cfr. Cognasso, Un imperatore bizantino della decadenza, Isacco II Angelo, in «Bessarione», vol. XXXI, pp. 29 sgg., 246 sgg. La lettera di Federico I a Enrico trovasi in Bohmer, Acta Imperii Selecta, p. 132. 35 Niceta Coniate, pp. 523-37; Ansberto, Expeditio Friderici Imperatoris, pp. 27-66; Gesta Frederici Imperatoris in Expeditione Sacra, pp. 80-84; Ottone di Saint Blaise, pp. 66-67; Itinerarium Peregrinorum et Gesta Regis Ricardi, pp. 47-49. Cfr. Hefele, op. cit., vol. V, parte II, pp. 1147-1149; Vasiliev, History of the Byzantine Empire, pp. 445-47 36 Niceta Coniate, pp. 538-44; Ansberto, Expeditio Friderici Imperatoris, pp. 67-90; Gesta Frederici Imperatoris in Expeditione Sacra, pp. 84-97; Epistola de Morte Friderici, pp. 172-77; Itinerarium Peregrinorum et Gesta Regni Ricardi, pp. 49-53- In Ramsay, The Historical Geography of Asia Minor, pp. 129-30, trovasi la discussione sulla via seguita da Federico. Il messaggio del catholicus armeno a Saladino è riferito da Beha ed-Din (pp. 185-89). 37 Niceta Coniate, p. 545; Ansberto, Expeditio Friderici Imperatoris, pp. 90-92; Epistola de Morte Friderici, pp. 177-78; Gesta Frederici Imperatoris in Expeditione Sacra, pp. 97-98; Ottone di Saint Blaise, p. 51. Itinerarium Peregrinorum et Gesta Regis Ricardi, pp. 54-55; Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarikh, II, p. 5; Beha ed-Din, pp. 183-84. 38 Ernoul, pp. 250-51; Estone d’Eracles, vol. II, p. 140; Itinerarium Peregrinorum et Gesta

Regis Ricardi, pp. 56-57; Ambrogio, col. 87; Ibn al-Athir, loc. cit ; Abu Shama, pp. 34-35. Beha edDin, pp. 189-91; Barebreo, pp. 332-34. 39 Sicardo di Cremona, p. 610; Ottone di Saint-Blaise, p. 52; Abu Shama, pp. 458-59; Beha edDin, pp. 207-9. 40 Abu Shama, pp. 458-60; Beha ed-Din, pp. 212-14; Ernoul, p. 259.

Note Capitolo secondo Acri

1 Cfr.

sopra, pp. 683-84. Itinerarium Peregrinorum et Gesta Regis Ricardi, pp. 27-28; Benedetto di Peterborough, vol. II, p. 54; Estoire d’Eracles, vol. II, pp. 114, 119-20; Abu Shama, pp. 362-63; Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarikh, pp. 718, 720-21. La Estoire d’Eracles e gli autori musulmani dicono che Margarito ebbe un incontro con Saladino a Lattakieh. 3 Ernoul, pp. 251-52. 4 Per la questione in genere ed il luogo e la data della liberazione di Guido cfr. sopra, p. 676, nota i, con riferimenti. Ernoul (p. 253), Estoire d’Eracles (p. 121) e Beha ed-Din (p. 143) si riferiscono al giuramento di Guido di non prendere più le armi contro i musulmani. L’Itinerarium Peregrinorum et Gesta Regis Ricardi dice che egli promise di abbandonare il regno (p. 25), e Ambrogio (col. 70) che se ne sarebbe andato oltre il mare. Guido perciò disse che aveva adempiuto la promessa andando da Tortosa all’isola di Ruad (Estoire d’Eracles, vol. II, p. 131). 5 Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarikh, pp. 707-11, critica fortemente la politica di Saladino. 6 Ernoul, pp. 256-57; Estoire d’Eracles, vol. II, pp. 123-24; Ambrogio, coli. 71-73; Itinerarium Peregrinorum et Gesta Regis Ricardi, pp. 59-60. 7 Abu Shama, pp. 380-81; Beha ed-Din, pp. 140-41. 8 Ernoul, p. 257; Estoire d’Eracles, vol. II, pp. 124-25; Ambrogio, coli. 73-74; Itinerarium Peregrinorum et Gesta Regis Ricardi, pp. 60-62; Beha ed-Din, pp. 143-44. 9 Beha ed-Din, pp. 140-43, 150-53. 10 Beha ed-Din, pp. 154,175; Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarikh, p. 6; Ambrogio, coll. 74-75. 11 Ernoul, pp. 338-59; Estoire d’Eracles, vol. II, pp. 125-26. 12 Per notizie su Acri, cfr. Enlart, Les Monuments des Croisés, vol. II, pp. 2-9. Itinerarium Peregrinorum et Gesta Regis Ricardi, pp. 75-76, offre una descrizione della città. 13 Estoire d’Eracles, vol. II, pp. 127-28; Ambrogio, col. 77, parla di marinai provenienti da La Marca e dalla Cornovaglia; Itinerarium Peregrinorum et Gesta Regis Ricardi, pp. 64-65. Cfr. Riant, Expéditions et Pèlerinages des Scandinaves, pp. 277-83. 14 Su Giacomo di Avesnes, Ambrogio, he. cit.; Benedetto di Peterborough, vol. II, pp. 94-95; Itinerarium Peregrinorum et Gesta Regis Ricardi, pp. 67-68, parla del vescovo di Beauvais, dei suoi compagni, del margravio, e (pp. 73-74) degli italiani. 15 Ambrogio, coli. 78-81; Itinerarium Peregrinorum et Gesta Regis Ricardi, pp. 68-72; Radulfo di Diceto, II, p. 70; Estoire d’Eracles, vol. II, p. 129; Beha ed-Din, pp. 162-69, dà una vivacissima relazione poiché Beha ed-Din stesso era presente. Egli non concorda interamente con la relazione data dall’Itinerarium Peregrinorum et Gesta Regis Ricardi, poiché non menziona nessuna sortita della guarnigione. Descrive le scaramucce precedenti, pp. 154-62. Abu Shama, pp. 415-22. 2

16 Itinerarium Peregrinorum et Gesta Regis Ricardi, p. 65, indica come data di questo fatto il mese di settembre. Ma se le date riportate da Benedetto e da Radulfo di Diceto sono esatte legnavi avrebbero potuto arrivare in Siria al più presto in novembre. 17 Itinerarium Peregrinorum et Gesta Regis Ricardi, pp. 73-74; Ambrogio, col. 84. Non è in dicata la data di tutti gli arrivi. 18 Beha ed-Din, pp. 171,175-78; Abu Shama, pp. 497-506. 19 Itinerarium Peregrinorum et Gesta Regis Ricardi, pp. 77-79; Ambrogio, coli. 84-85; Abu Shama, pp. 430-31. 20 Abu Shama, pp. 412,433; Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarikh, II, pp. 6,9. 21 Itinerarium Peregrinorum et Gesta Regis Ricardi, pp. 79-85; Ambrogio, coli. 85-92; Beha ed-Din, pp. 178-80; Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarikh, II, pp. 18-21. 22 Itinerarium Peregrinorum et Gesta Regis Ricordi, pp. 85-86, 88; Beha ed-Din, pp. 181-82. 23 Itinerarium Peregrinorum et Gesta Regis Ricardi, pp. 87-88. 24 Ibid., pp. 89-91; Ambrogio, coli. 93-94, data erroneamente la battaglia il giorno di san Giovanni anziché quello di san Giacomo; Estoire d’Eracles, vol. II, p. 151; Beha ed-Din, pp. 19396. 25 Itinerarium Peregrinorum et Gesta Regis Ricardi, pp. 92-94; Ambrogio, col. 94; Beha edDin, p. 197. Enrico era figlio di Enrico I conte di Champagne. Tibaldo di Blois e Stefano di Sancerre erano i fratelli minori di suo padre. La sorella di suo padre, Alice, era la seconda moglie di re Luigi VII e madre di re Filippo, il quale pertanto era suo cugino primo e zio (fratellastro di sua madre). 26 II langravio morì durante il viaggio di ritorno. Radulfo di Diceto lo accusa di aver avuto rapporti col nemico da cui ricevette del denaro (II, pp. 82-83). 27 Abu Shama, pp. 474, indica la data del 4 ottobre; Beha ed-Din, pp. 209-13; Itinerarium Peregrinorum et Gesta Regis Ricordi, pp. 94-95. 28 Ibid., p. 93. 29 Beha ed-Din, pp. 214-18; Abu Shama, pp. 480-81; Itinerarium Peregrinorum et Gesta Regis Ricardi, pp. 97-109 (vari episodi miracolosi), pp. 109-n (attacco contro la torre delle Mosche), pp. 111-13 (attacco dell’arcivescovo di Besançon); Ambrogio, coli. 98-104 30 Itinerarium Peregrinorum et Gesta Regis Ricardi, pp. 115-19; Ambrogio, coli, ioj-8; Abu Shama, pp. 513-14. 31 Estoire d’Eracles, vol. II, p. III (che attribuisce alle figlie di lei i nomi di Alice e Maria); Ernoul, p. 267 (che afferma che ella aveva quattro bambini); Ambrogio, col. 104, data la sua morte alla fine di agosto, mentre un manoscritto di Ernoul indica il 13 luglio. La si menziona come vivente in una carta concessa ad Acri nel settembre 1190, ma come morta in una lettera del 21 ottobre (Epistolae Cantuarenses, pp. 228-29). Röhricht, Regesta Regni Hierosolymitani, Additamenta, p. 67, dice che ella morì intorno al 1° ottobre 1190. 32 Ernoul, pp. 267-68; Estoire d’Eracles, vol. II, pp. 151-54 (è la relazione più completa e spassionata); Ambrogio, coli. 110-12 e Itinerarium Peregrinorum et Gesta Regis Ricardi, pp. 11924, costituiscono due rapporti aspramente ostili a Corrado, a Baliano e alla regina Maria Comnena. Quest’ultimo afferma che Isabella acconsentì volentieri, mentre l Estoire d’Eracles dice chiara mente

che ella acconsentì soltanto per obbedire alla ragion di stato. Honfroi accettò, secondo Ernoul, essendosi lasciato corrompere, isabella gli restituì il feudo di Toron che era stato del nonno di lui e che Baldovino IV aveva attribuito alla corona. La moglie italiana di Corrado era certamente morta prima che egli sposasse la principessa bizantina Teodora Angelina (Niceta Coniate, p. 497) e dal tono della relazione di Niceta sembra probabile che anche la sua moglie bizantina fosse morta (ibid., pp. 516-17). Guido di Senlis, il coppiere, che si offrì di sfidare a duello Honfroi se si opponeva al divorzio, fu catturato dai saraceni la sera delle nozze. 33 La morte di Tibaldo e di suo fratello è riferita da Aimaro da Firenze, p. 38. Sulle tribolazioni dei crociati, Itinerarium Peregrinorum et Gesta Regis Ricardi, pp. 124-34, con un poema che male diceva Corrado; Ambrogio, coli. 112-15, anche disapprova Corrado. Beha ed-Din, p. 236, menziona la morte del conte «Baliat» (Tibaldo). 34 La morte di Federico di Svevia è riferita da Beha ed-Din, loc. cit. L’arrivo di Leopoldo d’Au stria proveniente da Venezia con un gruppo di renani è narrato da Ansberto, Expeditio Friderici Imperatoris, pp. 96-97. Egli aveva svernato a Zara. Era figlio del fratellastro di Federico Barbarossa, Enrico d’Austria, e di Teodora Comnena. 35 Beha ed-Din, loc. cit. 36 Itinerarium Peregrinorum et Gesta Regis Ricardi, loc. cit. 37 Abu Shama, pp. 317-18, 520; Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarikh, II, pp. 32-33. 38 Itinerarium Peregrinorum et Gesta Regis Ricardi, pp. 136-37; Ambrogio, coll. 119-20.

Note Capitolo terzo Cuor di Leone

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L’aspetto di Riccardo è descritto nell’Itinerarium Peregrinorum et Gesta Regis Ricardi, p. 144, di cui cfr. l’introduzione di Stubb per quel che riguarda il suo carattere; cfr. pure Norgate, Richard the Lion Heart, passim. 2 Un elogio di Filippo si trova nella continuazione di Guglielmo il Bretone, p. 323. L’Itinerarium Peregrinorum et Gesta Regis Ricardi dà costantemente la peggiore interpretazione possibile del suo carattere, e a questo proposito cfr. Cartellieri, Philipp II August, passim. 3 A proposito del viaggio del re attraverso la Francia, cfr. Itinerarium Peregrinorum et Gesta Regis Ricardi, pp. 149-53; Ambrogio, coll, n-14; Benedetto di Peterborough, vol. II, pp. m-15; Rigord, pp. 98-99; Guglielmo il Bretone, pp. 95-99. 4 Sulla situazione di Tancredi, cfr. Chalandon, Histoire de la Domination normande en Italie et en Sicile, vol. II, pp. 419-24. 5 La storia delle imprese del re in Sicilia è riportata per intero da Itinerarium Peregrinorum et Gesta Regis Ricardi, pp. 154-77; Ambrogio, coli. 14-32 (ambedue molto favorevoli a Riccardo); Benedetto di Peterborough, vol. II, pp. 126-60 (è il resoconto più completo e un po’ più obiettivo); Rigord, pp. 106-9 (lascia intendere che Filippo era ansioso di proseguire la crociata mentre Riccardo faceva delle difficoltà). Cfr. Chalandon, Histoire de la Domination normande en Italie et en Sicile, vol. II, pp. 435-42. L’intervista di Riccardo con Gioachino da Fiore è narrata da Benedetto (vol. II, pp. 171-55), il quale apparentemente si fonda su informazioni fornite da qualcuno che vi assistette. 6 Estoire d’Eracles, vol. II, pp. 155-56; Rigord, p. 108; Abu Shama, II, p. 6. 7 La conquista di Cipro da parte di Riccardo è raccontata con grande abbondanza di particolari in Itinerarium Peregrinorum et Gesta Regis Ricardi, pp. 107-204, e Ambrogio, coli. 35-J7, e, con un po’ meno dettagli, da Benedetto di Peterborough, vol. II, pp. 162-68; Guglielmo di Newbury, PP- 59 sgg.; Riccardo di Devizes, pp. 423-26 - tutti dal punto di vista inglese. Il breve resoconto di Riccardo stesso è riportato nelle Epistolae Canluarenses, p. 347. Ernoul, pp. 207-13 e Estoire d’Eracles, vol. II, pp. 159-70 (con versioni alternative in Mas Latrie, Histoire de l’Ile de Chypre, Documents, vol. II, pp. 1 sgg., vol. III, pp. 591 sgg.) riportano il punto di vista degli ambienti franchi d’Oriente, favorevole a Riccardo. Rigord, pp. 109-10, e Guglielmo il Bretone, pp. 104-5, giustificano Riccardo a motivo del rifiuto dei ciprioti di aiutare i crociati. La prefazione all’edizione di Stubb dell’Itinerarium Peregrinorum et Gesta Regis Ricardi, pp. clxxxv-clxxxix pubblica un ampio resoconto scritto da un greco, Neofito (De Calamitatibus Cypri) molto ostile a Isacco, ma afflitto per la conquista. Niceta Coniate (p. 547) accenna rapidamente alla conquista. Abu Shama (II, p. 8) e Beha ed-Din (p. 242) ne danno anche un breve cenno. Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarikh (II, pp. 42-43) dice che Riccardo conquistò l’isola col tradimento. Sia Abu Shama che Beha ed-Din menzionano il fatto che alcuni cristiani rinnegati provenienti da Lattakieh avevano fatto un’incursione nell’isola qualche mese prima. Cfr. Hill, op. cit., vol. I, pp. 314-21.

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Itinerarium Peregrinorum et Gesta Regis Ricardi, pp. 204-11; Ambrogio, coli. 57-82; Benedetto di Peterborough, vol. II, pp. 168-69; Ernoul, p. 273 e Estoire d’Eracles, pp. 169-70 (sottolineano ambedue l’affettuoso benvenuto dato da Filippo a Riccardo); Abu Shama, II, pp. 42-43; Beha ed-Din, pp. 242-43, 248, narrano la cattura di alcune navi da trasporto di Riccardo. 9 Itinerarium Peregrinorum et Gesta Regis Ricardi, p. 218; Aimaro da Firenze, pp. 44-46. 10 Ambrogio, col. 123; Benedetto di Peterborough, vol. II, p. 170: la «arnaldia», che Ambrogio chiama «Leonardie» era probabilmente una forma di scorbuto o di tonsillite. Cfr. la traduzione di Ambrogio fatta da La Monte e Hubert, p. 196, nota 2. 11 Beha ed-Din, pp. 224-27. 12 Cfr. la prefazione di Mas Latrie a Aimaro da Firenze, p. xxxvi. 13 Ambrogio, col. 123; Rigord, pp. 108-9; Aimaro da Firenze, p. 35. 14 Rigord, p. 113; Benedetto di Peterborough, vol. II, p. 171. 15 Itinerarium Peregrinorum et Gesta Regis Ricardi, pp. 227-33; Ambrogio, coli. 133-39; Benedetto di Peterborough, vol. II, pp. 174-79; Rigord, pp. nj-16; Ernoul, p. 274; Estoire d’Eracles, vol. II, pp. 173-74; Abu Shama, II, pp. 19-29; Beha ed-Din, pp. 258-69; Ibn al-Athir, Kamil fi ttarikb, II, pp. 44-46. 16 Itinerarium Peregrinorum et Gesta Regis Ricardi, p. 234; Ernoul, pp. 274-75; Estoire d’Eracles, vol. II, pp. 175-76; Chronica Regia Coloniensis, p. 154, sulla storia della disputa tra Riccardo e Leopoldo d’Austria. Ansberto, Expeditio Friderici Imperatoris, p. 102, dice che Leopoldo si offese per l’attacco di Riccardo contro Isacco Comneno di Cipro, che era primo cugino di sua madre. 17 Itinerarium Peregrinorum et Gesta Regis Ricardi, pp. 238-39; Ambrogio, coli. 142-43; Benedetto di Peterborough, vol. II, pp. 183-85, 192-99, 227-31; Estoire d’Eracles, vol. II, pp. 17981, afferma che Filippo era veramente ammalato. Ernoul, pp. 277-78; Rigord, pp. 116-17; Guglielmo il Bretone, pp. 106-9. 18 Per la storia degli intrighi di Riccardo cfr. Estoire d’Eracles, loc. cit. Beha ed-Din, p. 240, dice che l’autorità del re di Francia era universalmente riconosciuta e, più avanti, a p. 242, che il re d’Inghilterra gli era inferiore per rango, sebbene lo superasse per ricchezza, valore e fama. 19 Itinerarium Peregrinorum et Gesta Regis Ricardi, pp. 240-43; Ambrogio, coli. 144-48 (ambedue giustificano Riccardo a motivo della ferocia di Saladino e affermano che Corrado tentò di ottenere che i prigionieri fossero affidati a lui. Ambrogio loda Dio per il massacro). Ernoul, pp. 2767 7 ; Estoire d’Eracles, vol. II, pp. 178-79; Beha ed-Din, pp. 270-74, racconta una storia più convincente; Abu Shama, II, pp. 30-33, secondo il quale Saladino chiese ai templari, della cui parola si fidava per quanto li odiasse, di garantire l’osservanza dei patti, ma essi rifiutarono, sospettando che Riccardo li avrebbe violati. La Santa Croce non fu restituita. 20 Itinerarium Peregrinorum et Gesta Regis Ricardi, pp. 248-36; Ambrogio, coli. 152-60; Beha ed-Din, pp. 275-81; Abu Shama, II, pp. 33-36. 21 Itinerarium Peregrinorum et Gesta Regis Ricardi, pp. 2.36-78; Ambrogio, coli. 160-78; Beha ed-Din, pp. 281-95; Abu Shama, II, pp. 36-40. 22 Itinerarium Peregrinorum et Gesta Regis Ricardi, pp. 280-81; Beha ed-Din, pp. 295-300; Abu Shama, II, pp. 41-44, Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarikh, II, pp. 50-51, mostrano che, per quanto

riguarda Ascalona, Saladino cedette ai suoi emiri in contrasto con i propri desideri. 23 Itinerarium Peregrinorum et Gesta Regis Ricardi, pp. 283-86; Ambrogio, coli. 187-89. 24 Benedetto di Peterborough, vol. II, pp. 172-73; Ernoul, p. 273; Estoire d’Eracles, vol. II, pp. 170, 189-90. 25 Itinerarium Peregrinorum et Gesta Regis Ricardi, pp. 295-97; Beha ed-Din, pp. 302-35, dà un resoconto dettagliato dei negoziati; Abu Shama, II, pp. 43-50. 26 Itinerarium Peregrinorum et Gesta Regis Ricardi, pp. 286-88. 27 Itinerarium Peregrinarti»! et Gesta Regi: Ricardi, pp. 303-8; Ambrogio, coli. 203-8. 28 Itinerarium Peregrinorum et Gesta Regis Ricardi, pp. 309-12; Ambrogio, coli. 208-11; Abu Shama, II, p. 51. 29 Itinerarium Peregrinorum et Gesta Regis Ricardi, pp. 313-17; Ambrogio, coli. 212-14. 30 Itinerarium Peregrinorum et Gesta Regis Ricardi, pp. 319-24; Ambrogio, coli. 218-11. 31 Beha ed-Din, pp. 328-29; Itinerarium Peregrinorum et Cesta Regis Ricardi, p. 337. 32 Itinerarium Peregrinorum et Gesta Regis Ricardi, pp. 329-38; Ambrogio, coli. 225-31. 33 Itinerarium Peregrinorum et Gesta Regis Ricardi, pp. 337-42; Ambrogio, coli. 233-38; Ernoul, pp. 288-90; Estoire d’Eracles, vol. II, pp. 192-94; Beha ed-Din, pp. 332-33; Abu Shama, II, pp- 52-54. 34 Itinerarium Peregrinorum et Gesta Regis Ricardi, pp. 342-43; Ambrogio, coli. 238-39 (ambedue affermano che il popolo insisteva per la scelta di Enrico; i francesi erano favorevoli ma Riccardo non voleva compromettersi); Ernoul, pp. 290-91; Estoire d’Eracles, vol. II, pp. 193-96 (ambedue lasciano intendere che Riccardo vi insisteva); Abu Shama, loc. cit. Egli dice che Isabella era incinta quando sposò Enrico. Tuttavia sua figlia Maria era probabilmente nata prima della morte di Corrado. 35 ulla vendita di Cipro cfr. Hill, op. cit, vol. II, pp. 36-38,67-69. 36 Itinerarium Peregrinorum et Gesta Regis Ricardi, pp. 332-56; Ambrogio, coli. 24J-J1; Beha ed-Din, p. 337; Abu Shama, II, p. 54. 37 Itinerarium Peregrinorum et Gesta Regis Ricardi, pp. 356-65, Ambrogio, coli. 252-59. 38 Itinerarium Peregrinorum et Gesta Regis Ricardi, pp. 365-98; Ambrogio, coli. 260-87; Beha ed-Din, pp. 337-52; Abu Shama, II, pp. 56-62. 39 Itinerarium Peregrinorum et Gesta Regis Ricardi, pp. 398-99; Ambrogio, coli. 287-88; Beha ed-Din, pp. 353-60; Abu Shama, II, pp. 63-66. 40 Itinerarium Peregrinorum et Gesta Regis Ricordi, pp. 400-11; Ambrogio, coli. 289-302; Beha ed-Din, pp. 361-71; Abu Shama, II, pp. 66-71. 41 Questi negoziati preliminari sono menzionati soltanto dai musulmani, Beha ed-Din (pp. 371374) e Abu Shama (II, pp. 71-73). 42 Itinerarium Peregrinorum et Gesta Regis Ricardi, pp. 413-24; Ambrogio, coli. 304-11; Beha ed-Din, pp. 374-76; Abu Shama, II, p. 74. Gli scrittori musulmani minimizzano la battaglia. 43 Itinerarium Peregrinorum et Gesta Regis Ricardi, pp. 424-30; Ambrogio, coli. 314-17; Beha ed-Din, pp. 378-87; Abu Shama, II, pp. 75-79.

44 Itinerarium Peregrinorum et Gesta Regis Ricardi, pp. 431-38; Ambrogio, coll. 317-27. 45 Beha ed-Din, pp. 334-35. Anche la domanda d’aiuto dell’imperatore per riconquistare Cipro fu respinta. 46 II ritorno in patria dell’esercito è narrato in Itinerarium Peregrinorum et Gesta Regis Ricardi, PP- 439-40; Ambrogio, coli. 327-29. Il viaggio per mare di Riccardo e le sue disavventure sono raccontati brevemente nei primo, pp. 441-46 (con l’inclusione di una lettera apocrifa del Vecchio Uomo delle Montagne a Leopoldo d’Austria, in cui si dichiara che Riccardo è innocente dell’assassinio di Corrado) e in altre cronache. Cfr. Norgate, Richard the Lion Heart, pp. 264-76.

Note Capitolo quarto Il secondo regno

1

Una vivace descrizione degli ultimi giorni di Saladino si trova in Beha ed-Din (pp. 392-42), il quale era alla sua corte in quel tempo. Abu Shama, II, pp. 93-97 ne dà diverse relazioni. Cfr. pure Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarikh, II, pp. 72-75. Ernoul (p. 304) e Estoire d’Eracles (vol. II, p. 217) datano erroneamente la sua morte nel 1197 e Gestes des Chiprois (p. 13) nel 1196. Ruggero di Hoveden (vol. III, p. 213} dà la data esatta. 2 Beha ed-Din offre un convincente elogio del suo carattere con esempi e aneddoti (pp. 4-45). La storia del sudario è raccontata da Vincenzo di Beauvais (p. 1204). Tutti i cronisti cristiani ne parlano con rispetto. Per le narrazioni leggendarie su di lui cfr. Lane Poole, Saladin, pp. 370-401. 3 Abu Shama, II, pp. 101-9; Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarikh, II, pp. 7J-77; Kemal ad-Din, ed. a cura di Blochet, p. 305. 4 Sulla complicata storia degli Ayubiti durante questi anni cfr. Abu Shama, pp. 110-49; Ibn alAthir, Kamil fi t-tarikh, II, pp. 78-89. Per ulteriori riferimenti cfr. Cahen, La Syrie du Nord, p. 581, nota 3. 5 Cfr. l’interessante discussione in Prawer, L’Etablissement des Coutumes du Marchi à SaintJean d’Acre, sulla «Revue Historique de Droit Français et Etranger», 19J1. Egli suggerisce l’idea (pp. 341-43) che il matrimonio di Enrico, avvenuto pochi giorni dopo la vedovanza di Isabella, non era considerato legalmente valido secondo gli usi del paese, e perciò Enrico non osava assumere il titolo di re. 6 Estoire d’Eracles, vol. II, pp. 203-.5 (manoscritto D). 7 Ibid., pp. 202-3. 8 Cfr. Hill, op. cit., vol. II, p. 44 e note, dove trovasi una completa discussione della successione a Cipro. Sulla riconciliazione di Enrico con Amalrico, Estoire d’Eracles, vol. II, pp. 207-8, 212-13 (manoscritto D). 9 Estoire d’Eracles, vol. II, pp. 209-12; Ernoul, pp. 302-3; Arnoldo di Lubecca, p. 204; Annales Marbacenses, p. 167. 10 Mas Latrie, Documenti, vol. III, pp. 599-605; Machera, pp. 28-29. 11 Ernoul, p. 293. 12 Cfr. Cahen, La Syrie du Nord, pp. J82-8J, per un resoconto ben documentato di questi episodi 13 Ernoul, pp. 323-24; Estoire d’Eracles, pp. 216, 231 (manoscritto D). 14 Cahen, La Syrie du Nord, pp. 585-86. 15 Cahcn, La Syrie du Nord, pp. 587-90. 16 Estoire d’Eracles, vol. II, pp. 214-16 (manoscritto D). I preparativi di Enrico in vista della crociata furono fatti alla Dieta di Gelnhausen (Annales Marbacenses, p. 167).

17 Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarikh, II, p. 85; Ernoul, pp. 315-16. 18 Estoire d’Eracles, vol. II, pp. 217-18; Ernoul, p. 305. 19 Estoire d’Eracles, vol. II, pp. 216-19 (manoscritto D); Ernoul, pp. 30J-7; Abu Shama, II, pp. 116, 152; Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarikh, II, pp. 84-86. 20 Estoire d’Eracles, vol. II, p. 220; Ernoul, p. 306; Amadi, pp. 90-91; Ibn al-Athir, Kamil fi ttarikh, II, p. 86. 21 Estoire d’Eracles, vol. II, pp. 221-23; Ernoul, pp. 309-10. Ruggero di Hoveden, vol. IV, p. 29 (chiamando erroneamente la sposa Melisenda) dice che la coppia fu sposata e incoronata a Beirut da Corrado di Magonza. Questa affermazione è dovuta probabilmente a propaganda tedesca, poiché Innocenzo III aveva scritto al patriarca Aimaro rimproverandolo dapprima per aver rifiutato di acconsentire al matrimonio a causa di consanguineità, poi per aver celebrato questa cerimonia e quella dell’incoronazione (lettera in MPL, vol. CCXIV, col. 477). Da allora in poi divenne consuetudine che l’incoronazione del re di Gerusalemme avesse luogo nella cattedrale di Tiro. 22 Cfr. La Monte, Feudal Monarchy, p. 43. Sulla monarchia ereditaria a Cipro, cfr. Hill, op cit., vol. II, p. 50, nota 4. 23 Estoire d’Eracles, vol. II, pp. 228-30; Giovanni di Ibelin, pp. 327-28,430; Filippo di Novara, Mémoires, pp. 522-23, 570. 24 Ernoul, pp. 311-17; Estoire d’Eracles, vol. II, pp. 224-27; Arnoldo di Lubecca, p. 205; Ibn alAthir, Kamil fi t-tarikh, II, p. 86. 25 Ernoul, p. 316; Estoire d’Eracles, vol. II, pp. 221-22; Arnoldo di Lubecca, pp. 208-10; Chronica Regia Coloniensis, p. 161; Abu Shama, II, p. 117; Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarikh, II, pp. 87-88. Sulla concessione del feudo a Giovanni di Ibelin cfr. Lignages d’Outremer, p. 458. 26 Cfr. Röhricht, Ceschichte des Königreichs Jerusalem, pp. 677-78. 27 Ernoul, pp. 316-17; Estoire d’Eracles, vol. II, p. 228; Ruggero di Hoveden, vol. IV, p. 28 (afferma che la tregua doveva durare sei anni, sei mesi e sei giorni); Abu Shama, testo arabo, a cura di Bairaq, I, pp. 220-21; Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarikh, II, p. 89. 28 Arnoldo di Lubecca, p. 207; Chronica Regia Coloniensis, p. 161; Ruggero di Hoveden, vol. IV, p 28 (i quali tutti presuppongono che Boemondo occupasse temporaneamente le città); Kemal adDin, ed. a cura di Blochet, pp. 213-15 (afferma che egli in realtà non le attaccò). Röhricht, Geschichte des Königreichs Jerusalem, p. 675, nota 2, in Estoire d’Eracles, vol. II, p. 228, traduce erroneamente Gibelet (Jebail) come se fosse Jabala (Dschebele). 29 Su questa complicata storia cfr. Cahen, La Syrie du Nord, pp. 390-95, con una discussione sulle fonti discordanti. 30 Ibn Bibi, a cura di Houtsma, vol. IV, p. 522; Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarikh, II, pp. 69-72; Cronaca georgiana, I, pp. 292-97. 31 Ernoul, p. 341; Estoire d’Eracles, vol. II, pp. 247-49; Villehardouin, pp. 102-4; Kemal adDin, ed. a cura di Blochet, p. 39. Giovanni di Nesle e i pochi sopravvissuti di Lattakieh continuarono a combattete per Leone II contro Antiochia. Sulla quarta crociata cfr. oltre, pp. 779 sgg. Villehardouin critica aspramente i crociati che insistettero per andare in Terra Santa. 32 Ernoul, pp. 355-60; Estoire d’Eracles, vol. II, pp. 258-63; Abu Shama, II, p. 158; Ibn al-

Athir, Kamil fi t-tarikh, II, p. 96. 33 Ernoul, p. 360; Estoire d’Eracles, vol. II, p. 263; Ibn al-Athir, loc. cit. 34 Ernoul, p. 407; Estoire d’Eracles, vol. II, p. 305; appendice a Robert de Monte, p. 342, cita una lettera dell’arcivescovo di Cesarea che ne dà la data esatta. Il maschietto natogli dalla regina Isabella era morto il 2 febbraio. Il pesce era muggine bianco. 35 Estoire d’Eracles, vol. II, p. 305. 36 Ibid 37 Estoire d’Eracles, vol. II, p. 305; Ernoul, p. 407.

Note Capitolo primo La crociata contro i cristiani

1 Villehardouin,

vol. I, pp. 2-6. Regesta Regni Hicrosolymitani, pp. 202-3. 3 Sull’atteggiamento di Innocenzo III, cfr. Fliche, La Chrétienté Romaine, pp. 44-60. 4 Cfr. Foreville e de Pina, D» Premier Concile du Latrati à l Avènement d’innocent III, pp. 2162 Röhricht,

26. 5 Fliche,

La Chrétienté Romaine, pp. 46, 50; Gesta Innocentii III, coli. 119-23. 6 Villehardouin, loc. cit ; Ruggero di Hoveden, vol. IV, pp. 76-77. Riccardo offrì di sposate il suo orgoglio ai templari, la sua avarizia ai cistercensi e la sua lussuria ai suoi vescovi. 7 Guntero di Païris, pp. 60-65. 8 Villehardouin, vol. I, pp. 6-14 e Roberto di Clari, pp. 2-3, danno liste dei crociati francesi. Villehardouin, p. 74, menziona nomi di crociati tedeschi. 9 Villehardouin, vol. I, p. 44, lascia intendere che Bonifacio si fece crociato soltanto quando fu designato comandante in capo; Cesta Innocentii III, col. 132, accenna ai sospetti del papa. La madre di Bonifacio era sorellastra del nonno di Enrico VI, e suo padre fratellastro della nonna di Filippo di Francia. 10 Cfr. sopra, p. 772. 11 Villehardouin, vol. I, pp. 40-46; Roberto di Clari, pp. 4-6; Gesta Innocentii III, loc. cit., allude a un intervento di Filippo di Francia in favore di Bonifacio. 12 Chronica Regia Coloniensis, p. 157. 13 Cfr. Vasiliev, History of the Byzantine Empire, pp. 440-47,487. 14 Niceta Coniate, p. 712; Innocenzo III, Epistolae, V, 122; Gesta Innocentii III, coll. 123-27; ibid., coli. 130-32. L’intero problema di sapere se la quarta crociata sia stata deviata con premeditazione è stato aspramente dibattuto. Cfr. Vasiliev, History of the Byzantine Empire, pp. 455-38. La verità sembra essere che, mentre Filippo di Svevia, Bonifacio e i veneziani avevano ognuno delle ragioni diverse per desiderare un attacco contro Costantinopoli, fu il casuale arrivo di Alessio che rese possibile la deviazione. Il papa non aveva simili intenzioni e la massa dei crociati, che erano francesi, desideravano sinceramente andare in Terra Santa, ma si lasciarono dominare dalle circostanze. Riguardo all’atteggiamento di Bonifacio, cfr. Grégoire, The Question of the Diversion of the Fourth Crusade, in «Byzantion», vol. XV. Sui deliberati propositi di Filippo di Svevia cfr. Winkelmann, Philipp von Schwaben, vol. I, pp. 296, 525 15 Villehardouin, vol. II, pp. 18-34. Il Papa diede la sua approvazione al trattato, ma senza entusiasmo poiché diffidava apertamente dei veneziani (Gesta Innocentii III, col. 131). 16 L’esistenza di un preciso trattato, a cui Hopf, Geschichte Griechenlands, vol. I, p. 118,

assegna la data del 13 maggio 1202, è stata negata, e in realtà Hopf non cita alcuna fonte. Ma Ernoul, PP- 345-46, afferma molto decisamente che a quel momento si stavano svolgendo trattative tra Vene zia e il sultano. Non c’è bisogno di supporre che egli inventasse questa storia che presumibilmente conobbe dai veneziani di Siria. Sulle diserzioni dalla crociata, Villehardouin, vol. I, pp. 32-54. 17 Villehardouin, vol. I, pp. 58-66; Roberto di Clari, pp. 9-11. 18 Villehardouin, vol. I, pp. 66-70; Roberto di Clari, pp. 10-11. Su Dandolo cfr. Diehl, Une Républtque Patricienne, Venise, pp. 47-48; Vasiliev, History of the Byzantine Empire, pp. 432-53. 19 Villehardouin, vol. I, pp. 76-90; Roberto di Ciati, pp. 12-14. 20 Innocenzo III, Epistolae, V, 161, 162, VI, 99-102 (MPL, vol. CCXIV, coll. 1178,1182; vol. CCXV, col. 103-10); Villehardouin, vol. I, pp. 104-8. 21 Ibid., pp. 90-100. Parla di trattative precedenti tra Alessio e i crociati a Venezia, pp. 70-74. 22 Villehardouin, vol. I, pp. 100-4; Roberto di Clari, pp. 14-15. Ugo di Saint Poi, lettera in Chronica Regia Coloniensis, p. 205, afferma che quasi tutti i crociati desideravano proseguire per la Palestina ma furono indotti a cambiare atteggiamento. 23 Gesta Innocentii III, coll. 130-32; Innocenzo III, Epistolae, V, 122 (all’imperatore Alessio, MPL, vol. CCXIV, coli. 1123-25), e lettera all’arcivescovo Eberardo di Salisburgo, Registrum de Negotio Romani Imperli, LXX (MPL, vol. CCXVI, coll. 1073-77), dove parla della necessiti di riflettere su questi problemi. Filippo di Svevia conosceva probabilmente il progetto di attaccare Zara, poiché inviò il cardinale Pietro di Capua insieme con i capi crociati ad ottenere l’appoggio del papa per Alessio in un momento in cui sarebbe stato impossibile avere una risposta se la crociata fosse andata direttamente in Oriente. Cfr. Bréhier, Les Croisades, p.155. La Cronaca di Novgorod (p. 241) dichiara che il papa appoggiava il progetto di attaccare Costantinopoli, mentre la Chronica Regia Coloniensis, p. 200, insinua che tolse la scomunica inflitta ai crociati per aver attaccato Zara quando essi decisero di procedere verso Costantinopoli. 24 Villehardouin, vol. I, pp. 110-28; Roberto di Clari, pp. 30-40; Anonimo di Halberstadt, pp. 14-15; Devastatio Constantinopolitana, a cura di Hopf, pp. 88-89; Niceta Coniate, p. 717. 25 Niceta Coniate, pp. 718-26 (un resoconto completo dal punto di vista greco); Villehardouin, vol. I, pp. 154-84 (il Più dettagliato dei resoconti di crociati); Roberto di Clari, pp. 41-51; Anonimo di Halberstadt, pp. 15-16; Devastatio Constantinopolitana, pp. 89-90; lettera di Ugo di Saint Poi in Chronica Regia Coloniensis, pp. 203-8. 26 Niceta Coniate, pp. 736-38; Villehardouin, vol. I, pp. 186-206; Roberto di Clari, pp. 57-58; Devastatici Constantinopolitana, pp. 90-91. 27 Niceta Coniate, pp. 738-47; Villehardouin, vol. II, pp. 6-23; Roberto di Clari, p. 37; Devastata Constantinopolitana, p. 91. 28 Niceta Coniate, pp. 738-47; Villehardouin, vol. II, pp. 6-23; Roberto di Clari, pp. 58-59; Devastatio Constantinopolitana, p. 92. 29 Villehardouin, vol. II, pp. 34-36; Roberto di Clari, p. 68; Andrea Dandolo, Chronica, a cura di Pastorello, p. 279. 30 Niceta Coniate, pp. 748-56; Villehardouin, vol. II, pp. 32-50; Roberto di Clari, pp. 60-79; Guntero, pp. 91-94, 100-4; lettera di Baldovino, in RHF, vol. XVIII, p. 522; Devastatici Constantinopolitana, p. 92; Ernoul, pp. 369-73; Cronaca di Novgorod, pp. 242-45.

31 Niceta Coniate, pp. 757-63; Nicola Mesarite, pp. 41-48; lettera del clero greco in Cotelier, Ecclesiae Grecae Monumenta, vol. III, pp. 510-14; Innocenzo III, Epistolae, Vili, 126 (MPL, vol. CCXV, coli. 699-702), dà un rapporto spietato degli orrori che gli furono narrati; Villehardouin, vol. II, pp. 52-58; Roberto di Clari, pp. 68-69, 80-81; Guntero, pp. 104-8; lettera di Baldovino, loc. cit.; Ernoul, pp. 374-76; Cronaca di Novgorod, pp. 245-46.1 cronisti latini furono più scandalizzati per la rapacità che per la crudeltà dei crociati. Guntero ammette che persino il rispettabile Martino di Païris era deciso ad avere la sua parte di bottino sebbene, per un sentimento religioso, rubasse soltanto nelle chiese. Ernoul accusa i veneziani di essere i più rapaci. Abu Shama (II, p. 154) afferma che essi vendettero buona parte del loro bottino ai musulmani. 32 Villehardouin, vol. II, pp. 59-60; Roberto di Clari, pp. 80-81. 33 Per una discussione sulla questione della divisione dell’Impero cfr. Longnon, L’Empire Latin de Constantinople, pp. 49-64. Il trattato di spartizione è riportato da Tafel e Thomas, op. cit., vol. I, pp. 464-68. 34 Villehardouin, vol. II, pp. 66-68; Roberto di Clari, p. 93. Cfr. Assise di Romania, passim. 35 Longnon, loc. cit.; Hopf, op cit., vol. II, p. 10. 36 Vasiliev, The Foundation of the Empire of Trebizond, in «Speculimi», vol. XI, pp. 3-37; Ostrogorsky, Geschichte des Byzantinischen Staates, 2a ed., pp. 337-46. 37 Longnon, L’Empire Latin de Constantinople, passim, specialmente pp. 77-186; Ostrogorsky, Geschichte des Byzantinischen Staates, pp. 337-59; Zlatarsky, Storia dell’Impero bulgaro (in bulgaro), vol. III, pp. 211-47. 38 Guyot de Provins, p. 34; Guillem Figuera, vol. II, pp. 98-99. Cfr. Throop, Criticism of the Crusade, pp. 30-31. 39 Innocenzo III, Epistolae, VII, 153, 134, 203, 208 (MPL, vol. CCXV, coll. 434-61, 512-16, 521-23). 40 Alcuni inni sono riportati in Riant, Exuviae, vol. II, pp. 43-50, specialmente Sequentia Andegavensis. 41 Innocenzo III, Epistolae, Vili, 125 (MPL, vol. CCXV, col. 698). Ibn al-Athir, Kamil fi ttarikh, II, p. 95, osserva che la conquista di Costantinopoli aiutò i crociati a recarsi in Siria più facilmente. 42 Innocenzo III, Epistolae, Vili, 126 (MPL, vol. CCXV, coli. 699-702). 43 Cfr. sopra, p. 773 44 Villehardouin, vol. II, p. 124.

Note Capitolo secondo La quinta crociata

1

Ernoul, pp. 407-8; Estoire d’Eracles, vol. II, pp. 303-8; cfr. La Monte, John d’ibelin, in «Byzantion», vol. XII. 2 Estoire d’Eracles, loc cit. 3 Ibid., vol. II, pp. 310, 316; Abu Shama, II, p.158. 4 Estoire d’Eracles, he cit e p. 317; Abu Shama, loc cit. 5 Ernoul, p. 411. Estone d’Eracles, vol. II, p. 320. Cfr. La Monte, Feudal Monarchy, p. 55. Le cronache di «Outremer» chiamano tutte con il nome di Isabella la giovane regina, ma è normalmente designata come Jolanda nella cronache occidentali. Adopero questo secondo nome per evitare confusione con altre Isabelle. 6 Estoire d’Eracles, vol. II, pp. 15-16; Mas Latrie, Documents, vol. II, p. 13. 7 Mas Latrie, Histoire de l’Ile de Chypre, Histoire, vol. I, pp. 175-77; Documents, vol. II, p. 34; Innocenzo III, Epistolae, IX, 28 (MPL, vol. CCXV, coli. 829-30); Hill, op. cit., vol. II, pp. 72-83. 8 Per la storia antiochena durante questo periodo, cfr. Cahen, La Syrie du Nord, pp. 600-15, con completi richiami alle fonti. 9 Alberico di Trois Fontaines, p. 884.1 franchi presupponevano che l’Impero latino di Costantinopoli avesse ereditato tutti i diritti dei bizantini. Tuttavia Leone d’Armenia trattò fin dal principio con l’imperatore di Nicea che parimenti pretendeva di essere l’erede dei bizantini. Cfr. Cahen, La Syrie du Nord, specialmente p. 606. 10 Cahen, La Syrie du Nord, specialmente pp. 612-13. L’episodio mostra che l’elemento greco nel Comune doveva essere forte. C’era probabilmente un gran numero di matrimoni misti negli ambienti borghesi. 11 Cahen, La Syrie du Nord, pp. 615-19. 12 Ibid., pp. 619-21. 13 Ibid. pp. 621-23. 14 Sulla politica di Innocenzo in Linguadoca e Spagna cfr. Fliche, La Chrétienté Ramarne, pp. 107-8, 112-37. 15 Sulla storia della crociata dei bambini cfr. Röhricht, Der Kinder-Kreuzzug 1212, in «Historische Zeitschtift», vol. XXXVI; Alphandéry, Les Croisades d’Enfants, in «Revue de l’Histoire des Religions», vol. LXXIII; Munro, The Children’s Crusade, in «American Historical Revue», vol. XIX; Winkelmann, Kaiser Friedrichs II, vol. I, pp. 221-22. La partecipazione tedesca è menzionata in Annales Stadenses, p. 355. 16 Fliche, La Chrétienté Romaine, pp. 136-216. Per la storia completa della quinta crociata cfr. Donovan, Pelagius and the Fifth Crusade, un resoconto attento e ben documentato, leggermente

tendenzioso a favore di Pelagio. 17 Cfr. Luchaire, Innocent III: La Question d’Orient, pp. 281-89, una relazione completa delle trattative. Avvenimenti miracolosi sono narrati da Oliviero di Paderborn, Historia Damiatana, pp. 174-75, 285-86, 287-88; e anche Innocenzo III, Epistolae, XVI, 28, 37 (MPL, vol. CCXVI, coll. 817822, 831-32). 18 Fliche, La Chrétienté Romaine, p. 212. 19 Regesta Honorii Papae III, nn. 1,673,1, pp. 1,1178-80. 20 Ibid., n. 399, vol. I, p. 71. 21 Innocenzo III, Epistolae, XV, 224 (MPL, vol. CCXVI, col. 757); Theiner, Velerà Monumenta, vol. I, pp. 5-6. 22 Regesta Honorii Papae 111, n. 885, vol. I, pp. 149-50. 23 Giacomo di Vitry, Storia di Gerusalemme, pp. 56-91. 24 Tommaso di Spalato, p. 573. 25 Gesta Crucigerorum Rhenanorum, pp. 29-34; De Itinere Frisonum, pp. 59-68. 26 Regesta Onorii Papae III, n. 672, vol. I, p. 117; Tommaso di Spalato, p. 574; Annales Claustroneoburgenses, p. 622. 27 Estoire d’Eracles, vol. II, p. 322. 28 Ibid., pp. 323-24; Oliviero di Paderborn, Historia Damiatana, p. 163; Joannes de Thwrocz, p. 149. 29 Estoire d’Eracles, vol. II, pp. 324-25; Oliviero di Paderborn, Historia Damiatana, pp. 16567; Giacomo di Vitry, Storia di Gerusalemme, p. 119; Abu Shama, II, pp. 163-64. 30 Abu Shama, II, pp. 164-65; Oliviero di Paderborn, Historia Damiatana, pp. 167-68. 31 Ernoul, p. 412, Estoire d’Eracles, vol. II, pp. 325, 360; Gestes des Chiprois, p. 98. 32 Oliviero di Paderborn, Historia Damiatana, p. 168; Giacomo di Vitry, Epistolae, III, vol. XV, pp. 568-70; Joannes de Thwrocz, toc. cit. Andrea si era anche procurato la testa di santa Margherita, la mano destra di san Tomaso e quella di san Bartolomeo e un pezzo della verga di Aronne. 33 Estoire d’Eracles, vol. II, pp. 325-26; Oliviero di Paderborn, Historia Damiatana, p. 169; Abu Shama, II, pp. 164-66. 34 Gesta Crucigerorum Rhenanorum, pp. 37-38; De Itinere Frisonum, pp. 69-70; Ernoul, pp. 414-17; Giacomo di Vitry, loc. cit.; Oliviero di Paderborn, Historia Damiatana, p. 177. Cfr. Donovan, op. cit., pp. 36 nota, 54. 35 Cfr. Cahen, La Syrie du Nord, pp. 624-28. 36 Giacomo di Vitry, Storia di Gerusalemme, pp. 118-19; Oliviero di Paderborn, Historia Damiatana, pp. 175-77; Gesta Crucigerorum Rhenanorum, pp. 38-39; Estoire d’Eracles, vol. II, pp. 326-27. 37 Abu Shama, II, p. 165, Storia dei Patriarchi d’Alessandria, pp. 240-41; Oliviero di Paderborn, Historia Damiatana, pp. 179-82.

38 Oliviero di Paderborn, Historia Damiatana, pp. 182-84; Gesta Crucigerorum Rhenanorum, p. 40; Giovanni di Tulbia, p. 120; Storia dei Patriarchi d’Alessandria, p. 243. 39 Abu Shama, II, p. 170; Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarikh, II, pp. 116,148; Ibn Khallikan, Dizionario biografico, III, p. 235. Ibn al-Athir afferma che al-Adil aveva sessantacinque anni, Ibn Khallikan che ne aveva settantatre. Estoire d’Eracles, vol. II, pp. 229-30, reca un fantasioso racconto dei suoi ultimi momenti. 40 Oliviero di Paderborn, Historia Damiatana, p. 186; Alberico di Trois Fontaines, p. 788; Regesta Honorii Papae III, nn. 1350, 1433, vol. I, pp. 224, 237. 41 Regesta Honorii Papae III, nn. 1498, 1543, iJ58, vol. I, pp. 248, 236, 260. Per una listi esatta dei crociati cfr. Greven, Frankreich uni der fünfte Kreuzzug, in «Historische Jahrbuch», vol. XLII. Matteo di Westminster reca i nomi dei crociati inglesi (vol. II, p. 167). 42 Cfr. Donovan, op. cit., pp. 46-49 e note. 43 Oliviero di Paderborn, Historia Damiatana, pp. 190-92; Storia dei Patriarchi d’Alessandria, p. 394; Gesta Obsidionis Damiate, pp. 79-80; Giovanni di Tulbia, p. 123. 44 Oliviero di Paderborn, Historia Damiatana, pp. 131-32, 196-97; Gesta Obsidionis Damiate, p. 82; Giovanni di Tulbia, p. 124; Liber Duella, pp. 148-49; Giacomo di Vitry, Epistolae, V, vol. XV, pp. 582-83; Storia dei Patriarchi d’Alessandria, pp. 245-46. 45 Oliviero di Paderborn, Historia Damiatana, pp. 192-93; Giacomo di Vitry, loc. cit.; Giovanni di Tulbia, p. 125; Gesta Obsidionis Damiate, p. 83; Storia dei Patriarchi d’Alessandria, p. 249. 46 Oliviero di Paderborn, Historia Damiatana, pp. 194-201; Gesta Obsidionis Damiate, pp. 8384; Estoire d’Eracles, vol. II, p. 337; Giovanni di Tulbia, loc. cit. 47 Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarikh, II, pp. 116-17; Ibn Khallikan, III, p. 240; Storia dei Patriarchi d’Alessandria, pp. 246-47. 48 Oliviero di Paderborn, Historia Damiatana, pp. 202-6; Liber Duella, pp. 151-32; Gesta Obsidionis Damiate, pp. 87-90. 49 Abu Shama, II, pp. 173-74; Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarikh, II, p. 119; Storia dei Patriarchi d’Alessandria, p. 52; Estoire d’Eracles, vol. II, p. 339; Oliviero di Paderborn, Historia Damiatana, p. 203. 50 Oliviero di Paderborn, Historia Damiatana, pp. 208-10; Gesta Obsidionis Damiate, pp. 87, 90-97; Giovanni di Tulbia, pp. 127-28. 51 Oliviero di Paderborn, Historia Damiatana, pp. 188,207-8; Gesta Obsidionis Damiate, p. 90; Liber Duella, p. 278. Sulle reliquie acquistate da Leopoldo, cfr. Riant, Exuviae, vol. II, p. 283. Il conte di Bar-sur-Seine era Milo III di le Puiset. 52 Oliviero di Paderborn, Historia Damiatana, pp. 213-19; Fragmentum de Captione Damiatae, pp. 185-92; Gesta Obsidionis Damiate, pp. 101-4; Giovanni di Tulbia, pp. 132-33; Estoire d’Eracles, vol. II, pp. 340-41. 53 «Aa. Ss.», 4 ottobre, pp. 611 sgg. Cfr. van Ortroy, Saint François et son Voyage en Orient,in «Analecta Bollandiana», vol. XXXI. Sembra che il racconto in Ernoul, p. 431, sugli ecclesiastici di cui non dà il nome, si riferisca alla visita del santo al sultano.

54 Oliviero di Paderborn, Historia Damiatana, p. 218; Gesta Obsidionis Damiate, p. 105. 55 Oliviero di Paderborn, loc. cit.; Gesta Obsidionis Damiate, p. 104; Giovanni di Tulbia, p. 133; Giacomo di Vitry, loc. cit. 56 Oliviero di Paderborn, Historia Damiatana, p. 219; Fragmentum de Captione Damiatae, pp. 193-94; Gesta Obsidionis Damiate, p. 106; Liber Duella, p. 160. 57 Oliviero di Paderborn, Historia Damiatana, p. 222; Estoire d’Eracles, vol. II, pp. 341-42; Ernoul, p. 435; Maqrizi, trad. di Blochet, IX, p. 490; Storia dei Patriarchi d’Alessandria, p. 2J3; Gesta Obsidionis Damiate, pp. 109-10; Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarikh, II, p. 122. 58 Giacomo di Vitry, Epistolae, VI, vol. XVI, pp. 74-7J; Oliviero di Paderborn, Historia Damiatana, p. 223 e Epistola Regi Babilonis, p. 305; Estoire d’Eracles, vol. II, p. 342; lettera di nobili francesi a Onorio in Röhricht, Studien zur Geschichte des fünften Kreuzzuges, p. 46; Maqrizi, loc. cit. 59 Oliviero di Paderborn, Historia Damiatana, pp. 236-40; Gesta Obsidionis Damiate, pp. III114; Fragmentum De Captione Damiatae, pp. 196-200; Ibn al-Athir, II, p. 119; Abu Shama, pp. 17677. 60 Gesta Obsidionis Damiate, p. 113; Giovanni di Tulbia, p. 139; Ernoul, p. 426. 61 Oliviero di Paderborn, Historia Damiatana, pp. 240-41; Giovanni di Tulbia, p. 139; Liber Duellii, p. 166. 62 Oliviero di Paderborn, Historia Damiatana, pp. 231-33. Fece impressione su Pelagio anche una favorevole profezia musulmana. Su Prete Gianni cfr. sopra, p. 641. 63 Pelagio scrisse ad Onorio III delle sue speranze di un aiuto della Georgia (Röhricht, Studien zur Geschichte des fünften Kreuzzuges, p. 32). Innocenzo III aveva già chiesta la collaborazione georgiana (Oliviero di Paderborn, Historia Damiatana, pp. 232-33). Giacomo di Vitry mostrò il suo interesse per un intervento dei mongoli traducendo dall’arabo, con l’aiuto di esperti, un libro intitolato Excerpta de Historia David regis Indiorum qui Presbyter Johannes a vulgo appellatur (a cura di Röhricht, in ZKG, vol. XVI, pp. 93 sgg.). I suoi dati sono del tutto approssimativi. 64 Cfr. Donovan, op. cit., pp. 75-79, per un sommario delle trattative di Federico con il papa, con citazione delle fonti. 65 Storia dei Patriarchi d’Alessandria, p. 254; Abul Fida, p. 91. 66 Ernoul, p. 427; Estoire d’Eracles, vol. II, p. 349; Oliviero di Paderborn, Historia Damiatana, 248. 67 Oliviero di Paderborn, Historia Damiatana, pp. 244-45, 255-56; Ernoul, pp. 421-24. 68 Oliviero di Paderborn, Historia Damiatana, p. 248; Ruggero di Wendover, vol. II, pp. 26061. 69 Oliviero di Paderborn, Historia Damiatana, p. 252. 70 Ernoul, pp. 429-30; Oliviero di Paderborn, Historia Damiatana, p. 253. 71 Ibid., p. 257. Cfr. Hefele, op. cit., vol. V, parte II, pp. 1420-21. 72 Oliviero di Paderborn, loc cit ; Giacomo di Vitry, Excerpta, vol. XVI, pp. 106-9; Ernoul, p. 442.

73 Oliviero di Paderborn, Historia Damiatana, pp. 257-38; Ruggero di Wendover, vol. II, p. 264; Giacomo di Vitry, Epistolae, VII, vol. XVI, p. 86; Ernoul, pp. 441-43. Sulle profezie, Oliviero di Paderborn, Historia Damiatana, pp. 258-59; Giacomo di Vitry, Excerpta, vol. XVI, pp. 106-13; Annales de Dunstoplia, p. 62; Alberico di Trois Fontaines, p. 790. 74 Oliviero di Paderborn, Historia Damiatana, pp. 257-73 (il Più completo resoconto di un testimone oculare); Ruggero di Wendover, vol. II, pp. 263-64; Ernoul, pp. 439-44; Storia dei Patriarchi d’Alessandria, pp. 257-58; Abu Shama, II, pp. 180, 182-83, 185; Ibn al-Athir, Kamil fi ttarikb, II, pp. 122-24, 158; Ibn Khallikan, III, p. 241. 75 Oliviero di Paderborn, Historia Damiatana, pp. 274-76; Ernoul, pp. 444-47; Storia dei Patriarchi d’Alessandria, pp. 257-58; Abu Shama, II, pp. 183-85. 76 Oliviero di Paderborn, Historia Damiatana, pp. 274-76; Ernoul, pp. 444-47; Storia dei Patriarchi d’Alessandria, p. 258. 77 Per spiegazioni di contemporanei sul fallimento della crociata cfr. Donovan, op. cit., pp. 9497 e note, come pure Throop, Crusades, pp. 31-34.

Note Capitolo terzo L’imperatore Federico

1 Cfr.

Cahen, La Syrie du Nord, pp. 628-32 per i particolari e le fonti. Cahen, La Syrie du Nord, pp. 632-33. Gli storici armeni scrivono dal punto di vista degli Hethumiani. La relazione più obbiettiva si trova in Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarikh (II, pp. 168-70). 3 Oliviero di Paderborn, Historia Damiatana, p. 280; Estoire d’Eracles, vol. II, p. 333; Ernoul, pp. 448-49; Annales de Terre Sainte, p. 437. 4 Eraoul, pp. 449-50; Estoire d’Eracles, vol. II, pp. 355-36; Riccardo di San Germano, pp. 342343; Historia Diplomatica Friderici Secundi, vol. II, p. 375. Poiché Federico e Jolanda erano cugini in terzo grado il papa concesse una dispensa per il matrimonio (Raynaldus, anno 1223, n. 7, vol. I, pp. 465-66). 5 Estoire d’Eracles, vol. II, pp. 337-58; Gestes des Chiprois, pp. 22-23. 6 Estoire d’Eracles, loc cit. 7 iguardo all’aspetto di Federico cfr. Kantorowicz, Frederick the Second, pp. 366-68. In qual che misura questo libro lo idealizza e ne fa una figura romantica. 8 Ernoul, pp. 451-52; Estoire d’Eracles, vol. II, pp. 338-60 (anche p. 336, dove è detto che Giovanni contava di conservare la reggenza fino al 1227, quando Jolanda avrebbe avuto sedici anni); Riccardo di San Germano, p. 343; Historia Diplomatica Friderici Secundi, vol. II, p. 392. Federico si fece chiamare re di Gerusalemme già nel dicembre del 1225 (ibid., II, p. 526). La cugina sedotta era la figlia di Gualtiero di Brienne. 9 Sulle successive imprese di Giovanni cfr. Longnon, L’Empire Latin de Costantinople, pp. 16974. 10 Ernoul, p. 454; Estoire d’Eracles, vol. II, p. 366; Riccardo di San Germano, p. 447; Historia Diplomatica Friderici Secundi, vol. I, p. 858. 11 Historia Diplomatica Friderici Secundi, vol. III, pp. 36-48; Regesta Honorii Papae III, n. 5566, vol. II, p. 352. 12 Hefele, op. cit., vol. V, parte II, pp. 1467-68. 13 Historia Diplomatica Friderici Secundi, vol. Ili, p. 44, vol. V, p. 329; Annales Marbacenses, p. 175; Alberico di Trois Fontaines, p. 920; Riccardo di San Germano, p. 348. Luigi di Turingia era il marito di santa Elisabetta d’Ungheria. Cfr. Hefele, op. cit., pp. 1469-70. Ernoul, pp. 458-39, menziona l’arrivo del primo contingente di crociati in cui notò un gran numero di inglesi. 14 Hefele, op. cit., pp. 1471-72. 15 Historia Diplomatica Friderici Secundi, vol. III, pp. 37-48, si riferisce al testo del proclama di Federico. 16 Ibid., vol. I, p. 898; Riccardo di San Germano, p. 350; Estoire d’Eracles, vol. II, pp. 366-67; 2

Hefele, op. cit., p. 1477. 17 Sulla posizione legale di Federico cfr. La Monte, Feudal Monarchy, p. 59. 18 Estoire d’Eracles, vol. II, p. 364. 19 Hill, op. cit., vol. II, pp. 87-88, con citazione di fonti ed una discussione sulle date. 20 Gestes des Chiprois, pp. 30-33, Estoire d’Eracles, vol. II, pp. 361-62. 21 Gestes des Chiprois, p. 37; Annales de Terre Sainte, p. 438; Estoire d’Eracles, vol. II, p. 365, indica erroneamente come data della morte di Filippo il 1228. Nessun documento afferma chiara mente che Giovanni fosse stato nominato bali, ma egli agiva come tale quando giunse l’imperatore. 22 Cfr. La Monte, John d’ibelin. 23 Gestes des Chiprois, pp. 37-45, contiene un vivace resoconto di Filippo di Novara che era probabilmente presente; Estoire d’Eracles, vol. II, pp. 367-68. 24 Gestes des Chiprois, pp. 45-48; Estoire d’Eracles, vol. II, pp. 368-69. Secondo la legge tedesca un re non diventava maggiorenne (ino all’età di venticinque anni, ma a Gerusalemme e a Cipro lo era a quindici. Federico intendeva probabilmente che Enrico fosse considerato minorenne fino a venticinque anni. Cfr. Hill, op cit., vol. II, p. 98, nota 4. 25 Gestes des Chiprois, p. 48. 26 Röhricht, Geschichte des Königreichs Jerusalem, pp. 776-77, discute quale fosse la fona numerica dell’esercito di Federico. Non ebbe mai più di undicimila uomini, e molti soldati tornarono presto a casa. 27 Per una visione d’insieme della politica di al-Kamil, Ibn al-Athir, Kant il fi t-tarikh, II, pp. 162-68; Abul Fida, pp. 99-102; al-Aini, pp. 183-86; Maqrizi, trad. di Blochet, IX, pp. 470-jii; Storia dei Patriarchi d’Alessandria, p. 518. 28 Ibn Khallikan, II, p. 429; Maqrizi, IX, pp. 516-18; Abu Shama, II, pp. 187-91; Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarikh, II, pp. 173-74; Storia dei Patriarchi d’Alessandria, p. 519. 29 Estoire d’Eracles, vol. II, pp. 369-72; Ernoul, pp. 460-63; al-Aini, pp. 186-88. 30 Historia Diplomatica Friderici Secundi, vol. Ili, pp. 90-91, 93-95, 102 (lettera di Ermanno di Salza al papa, proclama di Federico e lettera del patriarca Geraldo, in cui si annunziano le condizioni di pace); ibid., pp. 86-87 (un testo parziale del trattato con commenti del patriarca); Ernoul, p. 465; Estoire d’Eracles, vol. II, p. 374; al-Aini, pp. 188-90; Maqrizi, IX, p. 525. 31 Al-Aini, pp. 190-91; Abul Fida, p. 104; Maqrizi, X, pp. 248-49. 32 Historia Diplomatica Friderici Secundi, vol. III, pp. 101, 138-39 (lettere di Ermanno e di Geroldo); Matteo Paris, vol. III, p. 177. 33 Historia Diplomatica Friderici Secundi, loc. cit. Ermanno sconsigliò Federico dal celebrare un servizio religioso nella chiesa del Santo Sepolcro. Federico fece il suo discorso in italiano. Est otre d’Eracles, vol. II, pp. 375, 385; Ernoul, p. 465. 34 Al-Aini, pp. 192-93; Maqrizi, IX, pp. 325-26. 35 Historia Diplomatica Friderici Secundi, vol. III, p. 101; Estoire d’Eracles, vol. II, p. 374. 36 Estoire d’Eracles, vol. II, p. 375; Ernoul, p. 466; Gestes des Chiprois, p. 50. 37 Ibid., pp. 50-51.

38 Per punti di vista diversi sulle imprese di Federico in Palestina, cfr. Kantorowicz, op. cit., pp. 193 sgg. e Grousset, Histoire des Croisades, vol. III, pp. 322-23. 39 Estoire d’Eracles, vol. II, pp. 303-3. 40 Gestes des Chiprois, pp. 50-76 (resoconto di Filippo di Novara stesso); Estoire d’Eracles, vol. II, pp. 375-77. Cfr. Hill, op. cit., vol. II, pp. 100-7. 41 Estoire d’Eracles, II, p. 380. Cfr. La Monte, Feudal Monarchy, p. 64, nota x. 42 Hefele, op. cit., pp. 1489-90. 43 Papa Gregorio scrisse a Federico dicendo che Filangieri non doveva usare il titolo di legato imperiale, ma soltanto di legato dell’imperatore a Gerusalemme. Egli raccomandò Filangieri ai ve scovi siriani con quella designazione (lettera di Gregorio IX, 12 agosto 1231, in MGH Epistolae Saeculares, XIII, I, p. 363). 44 La lunga storia della guerra contro i lombardi è raccontata con molti dettagli da Filippo di Novara da un punto di vista polemicamente favorevole agli Ibelin (Gestes dei Chiprois, pp. 77- 117) e, con una certa ampiezza, in Estoire d’Eracles, pp. 386-402, anche da una posizione avversa all’imperatore. Amadi (pp. 147-82) e Bustron (pp. 80-104) differiscono soltanto su particolari di secondaria importanza. I cronisti di Federico non prestano alcuna attenzione a questo episodio. 45 Sulla storia ecclesiastica di Cipro in questo periodo cfr. Hill, op. cit., vol. III, pp. 1043-45. Esiste una narrazione che riferisce il martirio di tredici greci per mano dei latini nel 1231, pubblicata da Sathas, Mεσαιωνιχῂ Βιβλιήχη vol. II, pp. 20-39. 46 Estoire d’Eracles, vol. II, pp. 406-7; Gestes des Chiprois, pp. 112-13. 47 Cfr. sopra, p. 841, nota I. 48 II papa suggerì a Goffredo Le Tor l’idea che il continente accettasse l’autorità del re di Cipro (Estoire d’Eracles, vol. II, p. 407).

Note Capitolo quarto Anarchia legalizzata

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Sulla famiglia Ibelin ed i suoi cugini cfr. l’albero genealogico in appendice, basato su Lignages d’Outremer. 2 Amadi, pp. 123-24 (sul divorzio di Alice) e Gestes des Chiprois, pp. 86-87; Estoire d’Eracles, vol. II, p. 360 (sul matrimonio di Isabella). 3 Röhricht, Regesta Regni Hierosolymitani, pp. 269-70. Cfr. Cahen, La Syrie du Nord, pp. 64243. 4 Estoire d’Eracles, vol. II, p. 408. Luciana era bisnipote di Innocenzo III e perciò cugina di Gregorio IX. 5 Innocenzo IV, in Registres des Papes, vol. I, p. 75. 6 Cfr. Cahen, La Syrie du Nord, pp. 650-52, 664-66; Rey, Histoire des Princes d’Antioche, p. 400. 7 Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarikh, II, p. 180. Cfr. Cahen, La Syrie du Nord, p. 642, note 6, 7, riguardo a fonti manoscritte. 8 Estoire d’Eracles, vol. II, pp. 403-5; Annales de Terre Sainte, p. 436; Kemal ad-Din, ed. a cura di Blochet, pp. 85, 95-96; Abul Fida, pp. 110-12. 9 Su al-Kamil cfr. l’elogio di Abul Fida, p. 114 e Ibn Khallikan, III, pp. 241-42. 10 Ibn Khallikan, III, pp. 242, 488-89; Ibn al-Athir, Kamil fi t-tarikh, II, pp. 176-78; Maqrizi, X, pp. 250-32. Cfr. Cahen, La Syrie du Nord, pp. 644-46 e note (citazioni di manoscritti). 11 Ibn Khallikan, III, pp. 242-44; Kemal ad-Din, ed. a cura di Blochet, pp. 88-99. Cfr. Cahen, La Syrie du Nord, pp. 645-46. 12 Su questa confusa storia .cfr. Ibn Khallikan, II, pp. 445-46, III, pp. 245-46; Maqrizi, X, pp. 297-330; Kemal ad-Din, ed. a cura di Blochet, loc. cit. Cfr. Cahen, La Syrie du Nord, pp. 646-49. 13 Estoire d’Eracles, vol. II, pp. 413-14; Cestes des Chiprois, p. 118; Gregorio IX, lettera, in Potthast, Regesta, vol. I, p. 906. 14 Estoire d’Eracles, loc. cit.; Manuscrit de Rothelin, p. 328; Gregorio IX, lettera, in Potthast, op. cit., vol. I, p. 910. 15 Manuscrit de Rothelin, pp. 531-32; Estoire d’Eracles, vol. II, pp. 413-14. 16 Manuscrit de Rothelin, pp. 333-36 17 Manuscrit de Rothelin, pp. 337-30 (un completo e vivace resoconto); Gesta des Chiprois, pp. 118-20; Estoire d’Eracles, vol. II, pp. 414-15; Abu Shama, II, p. 193; Maqrizi, X, p. 324 (con un errore di scrittura sulla data). I poemi di Filippo sono citati in Rothelin, pp. 348-49. 18 Manuscrit de Rothelin, pp. 529-31, la colloca prima della battaglia di Gaza, ma indica sol tanto la data dell’anno; Maqrizi, X, pp. 323-24, indica il 7 dicembre come data della resa, cioè dopo

la battaglia di Gaza; Abul Fida reca la stessa data; al-Aini, pp. 196-97, indica soltanto l’anno. Possiamo accettare la data di Maqrizi 19 Abul Fida, pp. 115-19 (era un nipotino di al-Muzaffar II); Kemal ad-Din, ed. a cura di Blochet, pp. 98,100,104; Estoire d’Eracles, vol. II, p. 416; Gestes des Chiprois, pp. 120-21. 20 Estoire d’Eracles, vol. II, pp. 417-18; Manuscrit de Rothelin, pp. 551-53, Gestes des Chiprois, p. 12; Abul Fida, loc. cit.; Maqrizi, X, p. 340; Abu Shama, II, p. 193. 21 Estoire d’Eracles, vol. II, pp. 419-20; Manuscrit de Rothelin, pp. 553-55, Gestes des Chiprois, pp. 121-22; Maqrizi, X, p. 342. 22 Su Riccardo e la sua crociata cfr. Powicke, King Henry III and the Lord Edward, vol. I, pp. 197-200. Il papa aveva esortato Riccardo a rinunziare alla sua crociata e a dare invece il denaro per la difesa dell’Impero latino di Costantinopoli (cfr. ibid., p. 197, nota 2). 23 Lettera di Riccardo in Matteo Paris, Chronica Majora, vol. IV, p. 139. Riccardo stesso ad Acri alloggiava presso gli ospitalieri (Gestes des Chiprois, p. 123). Sull’Ordine teutonico in Cilicia cfr. Strehlke, Tabulae Ordinis Teutonici, pp. 37-40, 6-66,126-27. Gestes des Chiprois, loc. cit. riguardo al controllo che Federico esercitava su Gerusalemme per mezzo del suo rappresentante Pennenpié. 24 Lettera di Riccardo in Matteo Paris, Chronica Majora, vol. IV, pp. 139-45; Estoire d’Eracles, vol. II, pp. 421-22; Manuscrit de Rothelin, pp. 555-56; Gestes des Chiprois, pp. 123-24. Non si sa esattamente se Tibaldo avesse già concluso un trattato con l’Egitto che Riccardo confermò (co me implica Gestes des Chiprois, ma il passo può essere stato interpolato) o se Riccardo condusse a termine delle trattative iniziate da Tibaldo. Cfr. pure Storia dei Patriarchi d’Alessandria, pp. 342-46. 25 Röhricht, Regesta Regni Hierosolymitani, p. 286. La lettera reca la data del 7 maggio 1241. Il fratello di Simone, Amalrico, era uno dei prigionieri rilasciati di recente dall’Egitto. 26 Storia dei Patriarchi d’Alessandria, pp. 350-51; Matteo Paris, Chronica Majora, vol. IV, p. 197. Può darsi che vi sia anche stata una battaglia vicino a Gaza nel 1242, a cui accenna due volte Maqrizi (X, pp. 342, 348). Cfr. Stevenson, The Crusaders in the East, p. 321, nota I. 27 Gestes dei Chiprois, pp. 124-27; Estoire d’Eracles, vol. II, p. 422; Annales de Terre Sainte, p. 441, data erroneamente l’episodio al 1243; Riccardo di San Germano, p. 382, parla di una «ribellione» avvenuta in Acri contro l’imperatore nell’ottobre del 1241. 28 Gestes des Chiprois, pp. 128-30 (resoconto di Filippo di Novara, che pretendeva di essere stato l’organizzatore del fatto); Estoire d’Eracles, vol. II, p. 240; Amadi, pp. 190-91; Assisa, II, p. 399; Tafel e Thomas, op. cit., vol. II, pp. 351-89 (resoconto scritto da un testimone oculare veneziano, Marsiglio Giorgio). Filippo afferma che i pisani erano rappresentati, il che è improbabile a causa della loro amicizia per l’imperatore; il fatto non è menzionato altrove. Cfr. La Monte, Feudal Monarchy, pp. 71-73. 29 Gestes des Chiprois, pp. 130-36; Estoire d’Eracles, vol. II, p. 420; Tafel e Thomas, loc. cit. (ai veneziani non furono date le ricompense dovute); Assises, II, p. 401. Legalmente un reggente non aveva nessun diritto su una fortezza. 30 Abul Fida, p. 122; Maqrizi, X, pp. 3JJ-J17; al-Aini, p. 197; Matteo Paria, Chronica Malora, vol. IV, pp. 289-98.

31 Matteo Paris, Chronica Majora, vol. IV, p. 419. 32 Joinville, p. 290. 33 Abul Fida, p. 119; Kemal ad-Din, ed. a cura di Blochet, vol. VI, pp. 3-6,13. Cft. Cahen, La Syrie du Nord, pp. 648-49; Grousset, Histoire des Croisades, vol. III, pp. 410-11. 34 Maqrizi, X, p. 358. Federico II (lettera in Matteo Paris, Chronica Majora, vol. IV, p. 301) rimprovera ai baroni di «Outremer» l’aver provocato questa alleanza. 35 Chronicle of Mailros, pp. 1.59-60; Matteo Paris, Chronica Majora, vol. IV, pp. 308, 338-40; Manuscrit de Rothelin, pp. 563-65; Maqrizi, X, pp. 358-59; al-Aini, p. 198. 36 Estoire d’Eracles, vol. II, pp. 427-31; Manuscrit de Rothelin, pp. 362-66; Gestes dei Chiprois, pp. 143-46; Chronicle of Mailros, pp. 139-60; Joinville, pp. 293-93; Matteo Paris, Chronica Majora, vol. IV, pp. 301, 307-11; Maqrizi, X, p. 360; Abu Shama, II, p. 193. 37 Joinville, loc. cit.; Amadi, pp. 201-2. 38 Ibn Khallikan, III, p. 246; Maqrizi, X, pp. 361-65; Abu Shama, II, p. 432; Estoire d’Eracles, vol. II, p. 432. 39 Ibid., pp. 432-35; Gesta des Chiprois, p. 146; Annales de Terre Stante, p. 442; al-Aini, p. 200; Maqrizi, X, p. 315. 40 Ibn Khallikan, loc. cit 41 Gestes des Chiprois, p. 146 - riassume in maniera tendenziosa la soluzione adottata; Röhricht, Regesta Regni Hierosolymitani, pp. 315-16; Innocenzo IV, in Registres des Papes, n. 4427, vol. II, p. 60. Il reclamo di Melisenda fu affidato dal papa a Eudes di Chateauroux perché lo studiasse e in seguito fu lasciato cadere. Cfr. Röhricht, Geschichte des Königreichs Jerusalem, p. 873, nota 3. 42 Annales de Terre Stinte, p. 442; Amadi, p. 198. 43 Cfr. Cahen, La Syrie du Nord, pp. 650-52. 44 Cahen, La Syrie du Nord, pp. 684-85; Regesta Honorii Papae III, nn. 5367, 3370, vol. II, p. 352. Le testimonianze sono tutte di fonte papale, sebbene Barebreo (trad. ingl. di Budge, p. 443) menzioni il viaggio di Eutimio alla corte mongola. Cfr. pure Lettre des Chrétiens de Terre Sainte à Charles d’Anjou, in «Revue de l’Orient Latin», II, p. 213. 45 Cahen, La Syrie du Nord, pp. 681-84, con indicazione delle fonti. 46 Ibid., pp. 668-71, 680-81.

Note Capitolo primo L’arrivo dei mongoli

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Sulla vita di Gengis Khan nel suo insieme cfr. Howorth, History of the Mongoli, vol. I, pp. 27nj; Grousset, L’Empire Mongol, pp. 35-242 e L’Empire des Steppes, pp. 243-315; Martin H. D., Chingis Khan and bis Conquest of North China, passim. Le principali fonti originarie sono il Yuan Ch’ao Pi Shih (Storia Ufficiale dei Mongoli) e il Yuan Shing Wu Ch’in Cheng Lu, ambedue scritte originariamente in mongolo e tradotte in cinese. Il testo mongolo della prima è stato ricostruito e pubblicato (in caratteri latini) e parzialmente tradotto in francese da Pelliot (L’Histoire Secrète des Mongols) - e Rashid ad-Din, Jami at-Tarâwikh, scritto in persiano (in parte pubblicato con la traduzione da Quatremère; testo integrale pubblicato in una traduzione russa da Berezin). Sono stati pubblicati vari testi mongoli e cinesi che trattano di lui, tradotti in tedesco da Haenisch (Die Letzten Feldzüge Cingis Hans uni Sein Tod, in «Asia Major», vol. IX). Sulla data della nascita di Gengis cfr. Grousset, L’Empire Mongol, p. 53, nota 3 2 Sulle varie tribù turco-mongole, cfr. Howorth, op. cit., vol. I, pp. 19-26; Grousset, L’Empire Mongol, pp. 1-32; Martin H. D., op. cit., pp. 48-58; Pelliot, Chrétiens d’Asie Centrale et d’Extréme Orient, in «T’oung Pao», vol. XI. Sugli uiguri, Bretschneider, Mediaeval Researches from Eastem Asiatic Sources, vol. I, pp. 236-63. 3 Yuan Ch’ao, testo mongolo, pp. 10-14; Grousset, L’Empire Mongol, pp. 48-54. 4 II migliore studio moderno sull’ascesa di Gengis al potere è Martin H. D., op. cit., pp. 60-84. Sulla fama di Toghrul come «Prete Gianni» cfr. Yule, Cathay and the Way Thither, vol. II, pp. 1522. 5 Yule, op. cit., pp. 8j-ioi. Il Yuan Ch’ao dedica tre capitoli (§§ 194-96, pp. 68-72, testo mongolo) alla battaglia di Chakirmaut, cioè più di quanto ne consacri a qualsiasi altra battaglia di Gengis. 6 Yule, op. cit., pp. n-47, una discussione completa sull’esercito mongolo. 7 Yule, op. cit., capp. V-VII, IX-X, passim, sulla conquista dell’Impeto Chin. 8 Sullo scià Mohammed, cfr. Barthold, articolo ‘Khwaresm’, in Encyclopaedia of Islam; su Kuchluk, Martin H. D., op. cit., pp. 103-4, 109-11, 220, 224. 9 Barthold, ‘Khwaresm’, pp. 397-99; Martin H. D., op. cit., pp. 230-33. 10 Browne E. G., Literary History of Persia, vol. II, pp. 426-40; Grousset, L’Empire Mongol, pp. 31-46; Bretschneider, op. cit., vol. I, pp. 276-94; Yuan Ch’ao, pp. ioj-8 (breve resoconto); Rashid ad-Din, trad. russa di Berezin, vol. II, pp. 42-85. 11 Regista Honorii Papae III, n. 1478, vol. I, p. 565. La sua lettera datata il 20 giugno 1211 parla di forze provenienti dall’Estremo Oriente per la liberazione della Terra Santa. Sulla religione di Gengis cfr. Martin H. D., op. cit., pp. 310-11, 316-17. 12 Bretschneider, op. cit., vol. I, pp. 294-99. Le relazioni russe su questa campagna sono piuttosto confuse. Cfr. Karamzin, Storia dell’impero russo (in russo), vol. III, p. 545; Vernadsky, Kievan Russia, pp. 236-39. La Cronaca di Novgorod, p. 63, osserva che soltanto Dio sa da dove

vennero i tartari e dove andarono. 13 In Martin H. D., op. cit., pp. 1-10, si trova una buona presentazione della personalità di Gengis. 14 Cfr. Grousset, L’Empire Mongol, pp. 284-91. 15 Cfr. la biografia di Jelal ad-Din scritta da an-Nasair, suo segretario, a cura di Houdas, passim; Browne, op. cit., vol. II, pp. 447-50. Cfr. D’Ohsson, Histoire des Mongols, vol. I, pp. 25559, 306. Sul crollo della Georgia cfr. Cronaca georgiana, I, pp. 324-31. 16 Browne, op cit., vol. II, pp. 449-J0; D’Ohsson, op cit., vol. III, pp. 65-66; Cronaca georgiana, I, p. 343. 17 Bretschneider, op. cit., vol. I, pp. 308-34, da fonti orientali. Cronaca di Novgorod, pp. 74-76, 283-88. Per un resoconto completo cfr. Strakosch-Grossmann, Der Einfall der Mongole» in Mitteleuropa in den Jahren 1241 und 1242, così pure Sacerdoteanu, Marea Invazie Tatara fi Sudestul Europea». 18 Sulla reggenza di Toragina, Grousset, L’Empire Mongol, pp. 303-6. Cfr. Barebreo, trad. ingl. di Budge, pp. 410-11. 19 Ibn Bibi, vol. IV, pp. 234-47; Barebreo, trad. ingl. di Budge, pp. 406-9; Vincenzo di Beauvais, XXX, pp. 147, 150. Cfr. Cahen, La Syrie du Nord, pp. 694-96. 20 Cfr. Pelliot, Les Mongols et la Papauté, in «Revue de l’Orient Chretien», vol. XXIII, pp. 238 sgg. 21 Historia Diplomatica Friderici Secundi, vol. V, pp. 360-841, 921-85 (una serie di lettere sul pericolo tartaro). 22 Pelliot, loc cit.; Marinescu, Le Prètre Jean, in «Bulletta de la Section Historique de l’Académie Roumaine», vol. X, passim; Langlois, La Vie en France au Moyen Age, vol. III, pp. 4456.

Note Capitolo secondo San Luigi

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La personalità di Luigi si delinea molto chiaramente nelle biografie scritte da Joinville, Guglielmo di Nangis e Guglielmo di Saint-Pathus, confessore della regina Margherita. Quest’ultima fu scritta per offrire prove che giustificassero la sua canonizzazione. 2 Hefele, op. cit., vol. V, parte II, pp. 1635, 1651-53, 1651 -61; Manuscrit de Rothelin, pp. 366-367; Joinville, p. 37; Guglielmo di Saint-Pathus, pp. 21-22; Guglielmo di Nangis, p. 332. 3 Joinville, pp. 41-42; Guglielmo di Nangis, loc. cit.; Powicke, op. cit., vol. I, p. 239. 4 Hefele, op. cit., vol. V, parte II, pp. 1681-83. Al-Aini, p. 201, afferma che Federico avverti il sultano. 5 Joinville, pp. 39-40, 43-46; Matteo Paris, Chronica Majora, vol. V, pp. 23-25. 6 Matteo Paris, Chronica Majora, vol. IV, pp. 628-29, vol. V, pp. 41, 76. Molti crociati inglesi furono sciolti dai loro voti contro il pagamento di una certa somma {ibid., vol. V, pp. 73-74). Simone di Montfort avrebbe desiderato di partecipare ma ne fu impedito da Enrico III. Cfr. Powicke, op. cit, vol. I, p. 214. Si era sperato che re Haakon di Norvegia venisse con un contingente (Matteo Paris, Chronica Majora, vol. IV, pp. 650-52). La morte di Patrizio di Dunbar è segnalata da Estoire d’Eracles, vol. II, p. 436 7 Joinville, pp. 46-47; Gestes des Chiprois, p. 147. 8 Joinville, pp. 47, 51, 52; Guglielmo di Nangis, pp. 367-69; Abul Fida, p. 125; Maqrizi, X, pp. 198-99. 9 Cfr. in Giovanni dal Pian del Carpine, Historia Mongolorum, a cura di Pulle, un resoconto completo di questa ambasceria, specialmente le pp. 11; sgg. La lettera di Guyuk è riportata ibid., pp. 125-26. 10 Cfr. Pelliot, Les Mongols et la Papauté, pp. 112, 131. 11 Giovanni dal Pian del Carpine, pp. 174-9;. Non si sa se Aljighidai fosse autorizzato ed inviare i suoi ambasciatori. L’arrivo di costoro e l’ambasceria di Luigi sono segnalati da Joinville, pp. 4748, e da Manuscrit de Rothelin, p. 469. Matteo Paris (Chronica Majora, vol. V, pp. 80, 87) giudica molto liete («jocundissimi») le voci sulla conversione del re tartaro. 12 Joinville, pp. 46-47; Estoire d’Eracles, vol. II, pp. 436-37; Matteo Paris, Chronica Majora, vol. V, p. 70; Guglielmo di Nangis, p. 368. 13 Joinville, pp. 48-51; Vincenzo di Beauvais, pp. 1315 sgg. 14 Joinville, pp. J2-J3; Guglielmo di Nangis, pp. 370-71; Manuscrit de Rothelin, p. 589; Abul Fida, p. 126, stima che l’esercito del re fosse forte di cinquantanovemila uomini; lettera di Guido di Melun in Matteo Paris, Chronica Majora, vol. V, pp. 155-56. 15 Maqrizi, X, pp. 200-r, Abul Fida, p. 126; al-Aini, p. 201.

16 Joinville, pp. 53-58; Guglielmo di Nangis, p. 371; Manuscrit de Rothelin (lettera di Giovanni Sarrasin), pp. 589-91; Gestes des Chiprois, pp. 147-48; Matteo Paris, Chronica Majora, vol. V, p. 81, vol. VI, pp. 152-54 (lettera di Roberto d’Artois alla regina Bianca), vol. VI, pp. 153-62 (lettera di Guido di Melun); Maqrizi, XIII, pp. 203-4; Abul Fida, p. 126; al-Aini, pp. 201-23; Abu Shama, II, p. 195. 17 Manuscrit de Rothelin, pp. 392-94; Matteo Paris, Chronica Malora, vol. VI, pp. 160-61; ibid., vol. IV, p. 626 (sulla visita dell’imperatore Baldovino). Il rapporto di Luigi sulla chiesa di Damietta è pubblicato in Baluzius, Collectio Veterum Monumentorum, vol. IV, pp. 491-97. 18 Al-Aini, pp. 202-6. Ugo de la Marche venne ucciso durante queste scaramucce (Matteo Paris, Chronica Majora, vol. V, p. 89). 19 Joinville, pp. 64-65; Matteo Paris, Chronica Majora, vol. VI, p. 161 (lettera di Guido di Melun); ibid., vol. V, pp. 105-7, indica erroneamente il mese di febbraio come data degli avveni menti di quell’inverno, anche p. 130; Maqrizi, XIII, p. 215. 20 Maqrizi, XIII, pp. 208-15; Abul Fida, p. 127; al-Aini, p. 207; Manuscrit de Rothelin, p. 399; Matteo Paris, Chronica Majora, vol. V, pp. 107-8. 21 Joinville, pp. 69-70; Manuscrit de Rothelin, pp. 597-98; Maqrizi, XIII, pp. 213-16; al-Aini, p. 207. 22 Joinville, pp. 71-93; Manuscrit de Rothelin, pp. 599-608; Matteo Paris, Chronica Majora, vol. V, pp. 147-54, vol. VI, pp. 191-93; al-Aini, p. 208. 23 Joinville, pp. 93-95; Manuscrit de Rothelin, pp. 608-9. 24 Abu Shama, II, p. 195; al-Aini, p. 209; Maqrizi, XIII, pp. 220-24; Matteo Paris, Chronica Malora, vol. VI, pp. 193-94; Joinville, pp. 102-4; Manuscrit de Rothelin, pp. 609-12. 25 Matteo Paris parla di precedenti offerte di pace fatte dal sultano e respinte per consiglio di Roberto di Artois (vol. V, pp. 87-88,105) o del legato (vol. V, p. 143). L’offerta di Luigi è riferita da Joinville, pp. 106-7. In Europa giunse una voce secondo cui Luigi aveva conquistato il Cairo (Matteo Paris, Chronica Majora, vol. V, p. 118, vol. VI, p. 117). 26 Joinville, pp. 107-10; Manuscrit de Rothelin, pp. 612-16; Guglielmo di Nangis, p. 376; Guglielmo di Saint-Pathus, pp. 74-75; Matteo Paris, Chronica Majora, vol. V, pp. 137-59, 165-168, vol. VI, pp. 193-97; al-Aini, pp. 209-13; Maqrizi, XIII, p. 227; Abul Fida, p. 128. 27 Joinville, pp. 110-22; Manuscrit de Rothelin, pp. 616-18; Matteo Paris, Chronica Majora, vol. V, pp. 160-64, vol. VI, pp. 196-97 (lo scrittore di questa lettera, un ospitaliere, dice «la nostra unica speranza è Federico»); al-Aini, pp. 213-14. 28 Joinville, pp. 142-44 29 Maqrizi, XIII, pp. 230-32; Abul Fida, p. 129; Abu Shama, pp. 198-209; Ibn Khallikan, III, p. 248. Su Ashraf Musa cfr. più avanti, p. 948. 30 Joinville, pp. 123-32; Guglielmo di Nangis, p. 381; Guglielmo di Saint-Pathus, pp. 23, 38, 7376; Manuscrit de Rothelin, pp. 618-19; al-Aini, p. 213. 31 Joinville, pp. 133-38; Manuscrit de Rothelin, pp. 619-20. 32 Manuscrit de Rothelin, p. 620.

33 Joinville, pp. I4J-J7; Guglielmo di Nangis, p. 383; Guglielmo di Saint-Pathus, pp. 91-92; Matteo Paris, Chronica Majora, vol. V, pp. 173-74. 34 Joinville, p. 137. 35 La posizione legale di Luigi non venne mai definita, ma egli età evidentemente accettato come l’autorità suprema in assenza di Corrado. 36 Abu Shama, II, p. 200; Abul Fida, p..131; Ibn Khallikan, II, p. 446; Joinville, p. 158. 37 Abu Shama, loc. cit.; Abul Fida, loc. cit.; Joinville, pp. 138-60; Manuscrit de Rothelin, pp. 624-27; Matteo Paris, Chronica Majora, vol. V, p. 342 38 Joinville, pp. 167-68, 184-83; Manuscrit de Rothelin, pp. 627-28; Matteo Paris, Chronica Majora, vol. VI, p. 206; al-Aini, p. 215. 39 Maqrizi, Sultani, I, 1, pp. 39, 34; Abul Fida, p. 132. 40 Joinville, pp. 197-98; Estoire d’Eracles, vol. II, pp. 440-41. 41 Federico morì il 13 dicembre a Fiorentino. Cfr. Hefele, op. cit., vol. V, parte I, p. 1693. 42 Estoire d’Eracles, vol. II, pp. 439, 441-42; Manuscrit de Rothelin, p. 624; Joinville, pp. 186187; Vincenzo di Beauvais, p. 96. 43 Estoire d’Eracles, loc. cit.; Assises, II, p. 420. Cfr. La Monte, Feudal Monarchy, pp. 74-75; Hill, op. cit., vol. II, p. 149. È probabile che Plaisance fosse soltanto fidanzata con Ballano, poiché si offrì di sposare Edmondo di Lancaster pochi anni più tardi (Rymer, Foedera, vol. I, p. 341). Non fu riconosciuta formalmente come reggente di Gerusalemme fino alla sua visita ad Acri nel 1258. 44 Matteo Paris, Coranica Majora, vol. V, pp. 172-73, 259-61; Throop, Criticum of the Crusades, pp. 57-59. 45 Joinville, pp. 160-65. 46 Pelliot, Les Mongoli et la Papauté, p. 220. L’Itinerarium di Rubruck è stato tradotto ed edito da Rockhill. Dubitava della conversione di Sartaq quando si incontrò con lui (ibid,, pp. 107, né). Ma gli armeni la credevano autentica (Ciriaco, trad. di Brosset, p. 173). 47 Joinville, pp. 218-34; Guglielmo di Saint-Pathus, pp. 29-30; Manuscrit de Rothelin, pp. 629630; Matteo Paris, Chronica Majora, vol. V, pp. 434, 432-54. Sulla morte di Bianca, avvenuta il 1° dicembre 1232, cfr. ibid., p. 354. 48 Salimbene, pp. 235-37, afferma che dei dubbi di questo genere vennero manifestati. I frati mendicanti che avevano predicato la crociata vennero pubblicamente insultati dopo il suo fallimento. 49 La Monte, Feudal Monarchy, n. 1. 50 Matteo Paris, Chronica Majora, vol. V, pp. 459-60. Sui diritti di Corredino cfr. più avanti, p. 927. 51 Matteo Paris, Chronica Majora, vol. V, p. 522; Manuscrit de Rothelin, p. 630; Annales de Terre Sainte, p. 446. 52 Manuscrit de Rothelin, pp. 631-33; Annales de Terre Sainte, loc. cit.; Abul Fida, pp. 133-34. 53 Annales Januenses, p. 238. 54 Estoire d’Eracles, vol. II, p. 443; Annales Januenses, p. 239; Dandolo, p. 365. Cfr. Heyd, op

cit., vol. I, pp. 344-54, sulla storia completa della «Guerra di San Saba». 55 Estoire d’Eracles, vol. II, p. 445; Dandolo, pp. 366-67; Annales Januenses, loc. cit. 56 Dandolo, loc. cit.; Annales Januenses, p. 240; Estoire d’Eracles, vol. II, p. 447. 57 Assises, II, p. 401; Estoire d’Eracles, vol. II, p 443; Manuscrit de Rothelin, p. 643; Gestes des Chiprois, pp. 149,152. 58 Dandolo, p. 367; Annales Januenses, p. 240; Gestes des Chiprois, pp. 153-56; Estoire d’Eracles, vol. II, p. 445. 59 Tafel e Thomas, op. cit., vol. III, pp. 39-44; Gestes des Chiprois, p. 156; Annales de Terre Scinte, pp. 448-49. 60 Sulla riconquista di Costantinopoli cit. Vasiliev, History of the Byzantine Empire, pp. 538539. Le principali fonti bizantine sono Pachimere, pp. 140 sgg., e Giorgio Acropolita, I, pp. 182 sgg. 61 Cfr. Heyd, op. cit., vol. I, pp. 427 sgg. 62 Sull’Ordine teutonico cfr. Strehlke, Tabulae Ordinis Teutonici. 63 Gestes des Chiprois, pp. 157-60. Cfr. Rey, Les Seigneurs de Giblet, pp. 399-404. Il signore di Botrun era Giovanni, non Guglielmo, come è invece indicato nell’indice dell’edizione di Mas Latrie delle Gestes. Guglielmo, suo padre, era stato ucciso a La Forbie nel 1244. 64 Cfr. La Monte, Feudal Monarchy, pp. 75-77 e Hill, op. cit., vol. II, pp. 151-54 per la discussione delle questioni legali e per i riferimenti alle fonti. 65 Joinville, pp. 210-12. 66 Cfr. Jordan, Les Origina de la Domination Angevine en Italie, passim; Hefele, op. cit.; Powicke, op. cit., vol. II, pp. 598-99 (contiene una discussione della politica di Orlo d’Angiò). 67 Joinville, pp. 262-63. Cfr. Sternfeld, Ludwigs des Heiligen Kreuzzug nach Tunis, passim 68 Guglielmo di Saint-Pathus, pp. 153-55.

Note Capitolo terzo I mongoli in Siria

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Guglielmo di Rubtuck, pp. 163-64; Howorth, op. cit., vol. I, pp. 170-86; Grousset, L’Empire Mongol, pp. 306-11. 2 Grousset, L’Empire Mongol, pp. 312-13, 364-66; Grekov e Iakoubovski, La Horde d’Or, pp. 98-120. 3 Ibn Bibi, pp. 243, 249-50; Sempad il Conestabile, pp. 649-51; Ciriaco di Gantzag, trad. di Brosset, p. 142; Vincenzo di Beauvais, pp. 1295-96 4 Sempad, lettera a Enrico di Cipro, in Guglielmo di Nangis, pp. 361-63. 5 Ibn Shedad, Geography, p. 121; Barebreo, trad. ingl. di Budge, pp. 418-19. 6 Guglielmo di Rubruck, pp. i6j sgg., 176-77. C’era pure un inglese, nato in Ungheria, di nome Basilio, che viveva a Karakorum (ibid., p. 211). Barebreo, p. 411, afferma che Hethum e i due re di Georgia si trovavano a Karakorum insieme con ambascerie di Aleppo, dei franchi e degli assassini per una Kuriltay che seguì la morte di Ogodai. 7 Howorth, op. cit., vol. I, pp. 188-91. Sorgaqtani morì nel febbraio del 1252. Barebreo (p. 417) la chiama «la regina infinitamente saggia e credente»; Guglielmo di Rubruck, pp. 184-86; Pelliot, Les Mongols et la Papauté, p. 198. Hulagu disse allo storico armeno Vartan che sua madre era una fervente cristiana (Vartan, testo armeno, a cura di Emin, p. 203). 8 Guglielmo di Rubruck, loc. cit. 9 Guglielmo di Rubruck, pp. 165 sgg. 10 Ciriaco di Gantzag, pp. 279 sgg.; Vahram, op. cit., p. 319; Barebreo, pp. 418-19; Hayton, Fior dei Estoire, pp. 164-66; Bretschneider, op. cit., vol. I, pp. 164-72. 11 In difesa dell’atteggiamento dei franchi cfr. Cahen, La Syrie du Nord, pp. 708-9. Grousset nella sua Histoire des Croisades sottolinea continuamente e con ragione le occasioni perdute dai franchi al respingere l’alleanza dei mongoli, ma, malgrado la sua conoscenza della storia mongola, sembra aver ignorato l’impossibiliti per il gran khan di trattare i franchi come indipendenti e non come vassalli. I mongoli non ammettevano l’esistenza di stati stranieri indipendenti 12 Cfr. oltre, pp. 946-47, 949-50. 13 Rashid ad-Din, trad. di Quatremère, pp. 94-95, I4J, parla dell’influenza di Dokuz Khatun. Mongka l’ammirava e diceva a Hulagu di seguire sempre i suoi consigli. Al pari di Sorgaqtani era una principessa keraita di nascita. Su Hulagu cfr. Howorth, op. cit., vol. III, pp. 90 sgg. e Grousset, Histoire des Croisades, vol. Ili, pp. 363-66. 14 Bretschneider, op cit., pp. 114-15, dalle fonti originali. Sugli antenati di Kitbuqa cfr. Hayton, Fior des Estoires, p. 173. 15 Hayton, Fior des Estoires, pp. 116-18; Browne E. G., op. cit., vol. II, pp. 458-60.

16 Browne E. G.. loc. cit. 17 D’Ohsson, op. cit., vol. III, pp. 213-25. 18 Browne E. G., op. cit., vol. II, pp. 461-62. 19 Browne E. G., op. cit., vol. II, pp. 462-66; Bretschneider, op. cit., vol. I, pp. 119-20; Abul Fida, pp. 136-37; Barebreo, pp. 429-31; Ciriaco di Gantzag, pp. 184-86; Vartan (testo armeno, a cura di Emin), p. 197; Hayton, Fior des Estoires, pp. 169-70. 20 Bretschneider, op. cit., pp. 120-21; D’Ohsson, op. cit., vol. III, p. 257; Levy, A Baghdad Coronide, pp. 259-60. 21 Stefano Orbelian, Storia della Siunia (testo armeno), pp. 234-35, dà a Hulagu e a Dokuz Khatun il nome di «i nuovi Costantino ed Elena». 22 D’Ohsson, op, cit., vol. III, p. 307. 23 Ciriaco di Gantzag, pp. 177-79; Vartan, p. 199; Rashid ad-Din, trad. di Quatremère, pp. 330331; D’Ohsson, op. cit., vol. Ili, p. 556. 24 Maqrizi, Sultani, I, I, pp. 90, 97; Abul Fida, pp. 140-41; Rashid ad-Din, trad. di Quatremère, pp. 327-41; Barebreo, pp. 435-36. 25 Gestes des Chiprois, p. 161; lettera a Carlo d’Angiò, in «Revue de l’Orient latin», vol. II, p. 213; Barebreo, p. 436; Hayton, Fior des Estoires, p. 171. Boemondo venne scomunicato dal papa per questa alleanza (Urbano IV, in Registres des Papes, a cura di Guiraud, 26 maggio 1263). Non si trova nessuna indicazione della cessione di Lattakieh, ma alla successiva menzione era in possesso dei franchi. 26 Lettera a Carlo d’Angiò, in «Revue de l’Orient latin», vol. II, pp. 213-14. 27 Abul Fida, pp. 141-43; Gestes des Chiprois, loc. cit.; Hayton, Fior des Estoires, pp. 171-72. Per le indicazioni delle fonti manoscritte cfr. Cahen, La Syrie du Nord, p. 707, note 19,20. 28 Gestes des Chiprois, pp. 162-64; Hayton, Fior des Estoires, p. 174; Annales de Terre Sainte, p. 449, colloca questi avvenimenti dopo la battaglia di Ain Jalud, commettendo probabilmente un errore. 29 Rashid ad-Din, pp. 341 sgg., 391 sgg.; Barebreo, p. 439; Ciriaco di Gantzag, pp. 192-94; Hayton, Fior des Estoires, p. 173. Cfr. Grousset, L’Empire Mongol, pp. 317-24; Howorth, op. cit., vol. III, p. 151; D’Ohsson, op. cit., vol. III, p. 377. Pare che Nogai fosse imparentato con la famiglia imperiale per parte femminile. 30 Abul Fida, p. 135. 31 Rashid ad-Din, trad. di Quatremère, p. 347; D’Ohsson, op. cit., vol. III, pp. 333-33. 32 Abul Fida, p. 143. 33 Manuscrit de Rothelin, p. 637. 34 Guglielmo di Tripoli, De Statu Saracenorum, in Du Chesne, Historiae Francorum Scriptores, vol. V, p. 443; Gestes des Chiprois, pp. 164-65. 35 Rashid ad-Din, pp. 349-52; Maqrizi, Sultani, 1,1, pp. 104-6; Abul Fida, pp. 143-44. 36 Abul Fida, p. 144; Barebreo, pp. 439-40. Cfr. Cahen, La Syrie du Nord, pp. 710-11.

37 Abul Fida, loc. cit.; Maqrizi, Sultani, I, i, pp. 11013; Barebreo, loc. cit.; Gestes des Chiprois, pp. 163-66.

Note Capitolo quarto Il sultano Baibars

1 Abul

Fida, p. 1.56. Cfr. Sobernheim, articoli ‘Baibars’, in Encyclopaedia of Islam. Sultani, I, I, p. 116; Abul Fida, pp. 145-50; Barebreo, p. 439. 3 Abul Fida, p. 148; Maqrizi, Sultani, I,I, pp. 148-64; Barebreo, p. 442. 4 Gestes dei Chiprois, p. 167; Estoire d’Eracles, vol. II, p. 466. 5 Cahen, La Syrie du Nord, p. 711. Cfr. pure Cahen, Turcomans de Roum, in «Byzantion», vol. XIV. 6 Annales de Terre Sainte, p. 430. Al-Aini, pp. 216-17 menziona una tregua concordata in quel l’anno dai due Giovanni con il sultano. 7 Gestes des Chiprois, pp. 167-68; Annales de Terre Sainte, loc. cit.; Maqrizi, Sultani, I, I, pp. 194-97; al-Aini, pp. 218-19. 8 Estoire d’Eracles, vol. II, pp. 444,449; Annales de Terre Sainte, p. 451. 9 Gestes des Chiprois, p. 171; Estoire d’Eracles, vol. II, p. 450; Annales de Terre Sainte, pp. 451-52; al-Aini, pp. 219-21; Abul Fida, p. 150; Maqrizi, Sultani, I,II, pp. 7-8. Il poema di Bonomel è riportato in De Bartholemaeis, Poesie Provenzali, vol. II, pp. 222-24. 10 Gestes des Chiprois, loc cit.: Estoire d’Eracles, loc. cit. 11 Maqrizi, Sultani, I, II, p. 16. Al-Aini parla di un’ambasceria inviata a Baibars nel 1264 da Carlo d’Angiò che stava progettando di attaccare Manfredi (p. 219). 12 Raschid ad-Din, trad. di Quatremère, pp. 417-23; cfr. Howorth, op. cit., vol. III, pp. 206-10. Vartan (a cura di Emin), pp. 205-6, 211; Barebreo, pp. 444-45. Lettera a Carlo d’Angiò, in «Revue de l’Orient latin», vol. II, p. 213. Dokuz Khatun consulto Vartan sull’opportunità di far dire una messa per l’anima di Hulagu. Egli la sconsigliò (Vartan, a cura di Emin, p. 211). 13 Howorth, op. cit., vol. III, pp. 218-25. 14 Gestes des Chiprois, pp. 179-81; Estoire d’Eracles, vol. II, pp. 484-85; Maqrizi, Sultani, I, II, pp. 28-30; Abul Fida, p. 151; al-Aini, pp. 222-23. 15 Gestes des Chiprois, pp. 180-81; Estoire d’Eracles, loc. cit. 16 Abul Fida, loc. cit.; al-Aini, p. 222. 17 Mas Latrie, Histoire, vol. I, p. 412. 18 Vartan, a cura di Emin, pp. 213-15; Hayton, Fior des Estoires, p. 407; Vahram, op. cit., pp. 522-23; Hethum re, pp. 551-52; Ballata sulla Prigionia del Principe Leone, pp. 539-40; Hayton, Fior des Estoires, pp. 177-78; Barebreo, pp. 445-46; Maqrizi, Sultani, I, II, p. 34; Abul Fida, p. 151; Gestes des Chiprois, p. 181; Estoire d’Eracles, vol. II, p. 455. 19 Cahen, La Syrie du Nord, p. 716, cita il manoscritto di Ibn Abdarrahim (Muhi ad-Din). 2 Maqrizi,

20 Cestes des Chiprois, pp. 181-83; Estoire d’Eracles, vol. II, p. 455; al-Aini, p. 225. 21 Gestes des Chiprois, p. 186; Estoire d’Eracles, vol. II, pp. 455-56; Heyd, op. cit., vol. I, p354. 22 Gestes des Chiprois, p. 190; Estoire d’Eracles, vol. II, p. 456; Abul Fida, p. 132; Maqrizi, Sultani. I,II, pp. 50-51; al-Aini, pp. 226-27. 23 Gestes des Chiprois, loc. cit.; Estoire d’Eracles, loc. cit.: al-Aini, pp. 227-28. 24 Al-Aini, p. 228. 25 Gestes des Chiprois, pp. 190-91; Estoire d’Eracles, vol. II, pp. 456-37; Barebreo, p. 448; Maqrizi, Sultani, I, II, pp. 52-53; al-Aini, pp. 229-34; Abul Fida, p. 152. 26 Antiochia aveva ancora una popolazione notevole quando Ibn Battuta la visitò nel 1353 (Ibn Battuta, vol. I, p. 162), ma Baibars aveva distrutto le sue fortificazioni. Bertrandon de la Broquière che la visitò nel 1432 afferma che le mura erano ancora intatte ma che all’interno di esse soltanto circa trecento case erano abitate e che gli abitanti erano per la maggior parte turcomanni (Voyage d’Outremer, a cura di Schefer, pp. 84-85). 27 Gestes des Chiprois, p. 191; Estoire d’Eracles, vol. II, p. 437; Cahen, La Syrie du Nord,p. 717, nota 17. 28 Muhi ad-Din, in Michaud, Bibliothèque des Croisades, pp. 513-15. 29 Gestes des Chiprois, pp. 190-93; Assises, II, pp. 415-19. Cfr. La Monte, Feudal Monarchy, pp.- 77-79, e Hill, op. cit., vol. II, pp. 161-65 30 Gestes des Chiprois, pp. 192-93. In seguito la principessa Margherita ingrassò enormemente e perse la sua bellezza. Aveva ormai ventiquattro anni al momento del matrimonio. Cfr. pure Lignages d’Outremer, p. 462 e l’albero genealogico, nell’Appendice VI. 31 Cfr. Grousset, Histoire des Croisades, vol. III, pp. 645-46, che sopravvaluta le capacità di Ugo in considerazione di ciò che avvenne in seguito; e Hill, op. cit., p. 178. 32 Cfr. sopra, pp. 932-33. 33 Gestes des Chiprois, pp. 183-85 (che fissa erroneamente la data della campagna al 1267); Estoire d’Eracles, vol. II, pp. 457-58; Annales de Terre Sainte, p. 454. 34 D’Ohsson, op. cit., vol. III, pp. 539-42; Howorth, op. cit., vol. III, pp. 278-80. Sulla fama di Maria cfr. Barebreo, p. 505. 35 D’Ohsson, op. cit., vol. III, pp. 442 sgg. 36 Ibid; PP. 458-59. 37 Gestes des Chiprois, p. 191; Estoire d’Eracles, pp. 457, 463; Barebreo, pp. 446-49; Vahram, op. cit., pp. .323-24; Hayton, Fior des Estoires, p. 178. Cfr. Cahen, La Syrie du Nord, p. 718. 38 Gestes des Chiprois, pp. 194-98; Annales de Terre Sainte, p. 454; Maqtizi, Sultani, I, II, pp. 80-83. 39 Maqrizi, Sultani, I, II, pp. 84-85; al-Aini, pp. 237-39; Abul Fida, p. 154; Gestes des Chiprois, p. 199; Estone d’Eracles, vol. II, p. 460. 40 Maqrizi, Sultani, I, II, pp. 86, 100; Annales de Terre Sainte, p. 435; Röhricht, Derniers Temps, in «Archives de l’Orient Latin», II, pp. 400-3.

41 Gestes des Chiprois, pp. 199-200; Estoire d’Eracles, loc. cit. 42 Maqrizi, Sultani, I, II, p. 88; Abul Fida, p. 154; al-Aini, pp. 229-40; Gestes des Chiprois, p. 199; Estoire d’Eracles, loc. cit.; Annales de Terre Sainte, loc. cit. 43 Gestes des Chiprois, pp. 199-200; Estoire d’Eracles, pp. 460-61. Sulla crociata di Edoardo cfr. Powicke, op. cit., vol. II, pp. 597 sgg. 44 Dandolo, p. 380; Röhricht, Derniers Temps, p. 622; Powicke, op. cit., vol. II, pp. 604-5. 45 Assises, I, pp. 347, 626, II, pp. 427-34; Estoire d’Eracles, vol. II, pp. 462-64. Cft. Hill, op. cit., vol. II, PP. 168-70. 46 Estoire d’Eracles, vol. II, p. 461; Abul Fida, p. 154; D’Ohsson, op. cit., vol. III, pp. 479-60; Powicke, op. cit., vol. II, pp. 601-2. 47 Cestes des Chiprois, pp. 200-1; Estoire d’Eracles, vol. II, p. 461. 48 Estoire d’Eracles, vol. II, pp. 461-62; Annales de Terre Sainte, p. 435; Maqrizi, Sultani, I, II, p. 102; al-Aini, p. 247. Cfr. Delaville Le Roulx, Hospitaliers en Terre Sainte, p. 225. 49 Gestes des Chiprois, p. 201; Estoire d’Eracles, vol. II, p. 462; Sanudo, Liber Secretorum, p. 223. La leggenda di Eleonore, moglie di Edoardo, che succhia il veleno dalla sua ferita è narrata per la prima volta da Tolomeo di Lucca un secolo più tardi. Cfr. Powicke, op. cit., p. 603. 50 A. Riant, Expéditions et Pèlerinages des Scandinave!, pp. 361-64. 51 La Collectio è stata pubblicata, a cura di Stroick, in Archivum Franciscanum Historicum, vol. XXIV. Cfr. Throop, Criticism of the Crusades, pp. 69-104. 52 II promemoria di Bruno è stato pubblicato da Hofler nei «Abhandlungen der historische Klasse der Bayerische Akademie der Wissenschaft», 1846. Cfr. Throop, Criticism of the Crusades, pp. 105-14. 53 Cfr. Guglielmo di Tripoli, passim, inoltre Ruggero Bacone, vol. III, pp. 120-22. Rimprovera agli occidentali di non essersi preoccupati di imparare le lingue straniere in vista della loro opera missionaria. 54 Sul problema dei testi dell’Opus Tripartitum cfr. Throop, p. 147, nota I. Questi dà un riassunto molto completo del contenuto dell’opera, ibid., pp. 147-213. 55 Cfr. Hefele, op. cit., vol. VI, parte I, pp. 67-68,153 sgg.; Throop, Criticism of the Crusades, pp. 262-82. 56 Estoire d’Eracles, vol. II, p. 462; Ibn al-Furat, in Reynaud, Chroniqueurs Arabes, p. 532. Powicke, op. cit., p. 606, nota I, dimostra che il nome del marito di Isabella era Hamo e non Ed mondo. Hill, op. cit, p. 137, nota 2, accetta l’opinione secondo cui la sua relazione era con Giovanni di Giaffa. Ma questo solleva delle difficoltà riguardo alle date poiché Giovanni di Giaffa morì nel 1266, ed è chiaro che il «Conte G.» la cui moglie era sorella del re d’Armenia doveva essere Giuliano di Sidone e non Giovanni la cui moglie nel 1268 era zia del re. Inoltre Giovanni era una persona molto rispettabile mentre Giuliano conduceva notoriamente una vita licenziosa. 57 Lignages d’Outremer, p. 462; Ducange, pp. 235-36. 58 Estoire d’Eracles, vol. II, pp. 466-67,481; Cestes des Chiprois, p. 202. 59 Maqrizi, Sultani, I,II, p. 125; Muhi ad-Din, in Michaud, Bibliothèque des Croisades, vol. II,

p. 685. 60 Estoire d’Eracles, vol. II, pp. 274-7$; Gestes des Chiprois, p. 206 (indica per l’episodio una data posteriore). Cfr. Delaville Le Roulx, Hospitaliers en Terre Sante, pp. 210-29. 61 Estoire d’Eracles, loc. cit.; Gesta des Chiprois, loc. cit. 62 Estoire d’Eracles, pp. 478-79; Gestes dei Chiprois, pp. 206-7; Amadi, p. 214; Sanudo, Liber Secretorum, pp. 227-28; Giovanni di Ypres, vol. III, col. 735. 63 Guglielmo di Nangis, pp. 540, 564; D’Ohsson, vol. III, pp. 343-49; Powicke, op. cit., p. 602, nota I; Howorth, op. cit., vol. III, pp. 280-81. 64 Abul Fida, p. 165; Maqrizi, Sultani, I,II, pp. 144-45; Barebreo, pp. 436-59; D’Ohsson, op. cit, pp. 486-89. Cfr. Howorth, op. cit., vol. III, pp. 252-36. 65 Maqrizi, Sultani, I, II, p. 150; Abul Fida, pp. 165-66; Gestes des Chiprois, pp. 208-9; Hayton, Fior des Estoires, p. 193; Barebreo, p. 438.

Note Capitolo primo Il commercio di «Outremer»

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L’opera fondamentale per la storia commerciale delle crociate è Heyd, op. cit. L’intera questione è stata recentemente discussa in un importante articolo di Cahen, Notes sur l’histoire des Croisades et de l’Orient latin. III. Cahen presenta dei motivi per minimizzare l’importanza commerciale degli stati crociati. 2 Sebbene meno fertile dell’Hauran, Moab aveva fornito del cibo alla Palestina in tempi di carestia, fin dai giorni di Noemi e Ruth. 3 Per esempio nel 1185. 4 L’arcivescovo di Tiro possedeva in un solo villaggio 2040 ulivi (Tafel e Thomas, op. cit., p. 299). Cfr. Cahen, Notes sur l’histoire des Croisades et de l’Orient latin. II, p. 293. Rey, Les Colonies Franques, p. 245; Heyd, op. cit., pp. 177-78. Burcardo del Monte Sion, Descriptio Terrae Sanctae, afferma che i frutteti intorno a Tripoli davano ai loro proprietari una entrata annua di trecentomila bisanti d’oro (in PPTS, p. 16). 5 Heyd, op. cit., vol. I, p. 179, vol. II, pp. 680-86; Cahen, Notes sur l’histoire des Croisades et de l’Orient latin. II, p. 293; Rey, Les Colonies Franques, pp. 248-49. 6 Heyd, op. cit., vol. I, pp. 178-79, vol. II, pp. 612,696,699,705. La tela di Nablus era grossolana paragonata a quella dell’Egitto (ibid., p. 632, nota 1). Rey, Les Colonies Franques, pp. 214-21. Idrisi, Nuzhat al-Mushtaq (testo arabo, a cura di Guildermeister, p. II), dice che a Tiro si fabbricava una speciale qualità di stoga bianca. 7 Heyd, op. cit., vol. I, p. 179; Rey, Les Colonies Franques, pp. 211-12 (cita Assises, II, p. 179), 224-23. 8 Cfr. Rey, Les Colonies Franques, pp. 234-40, sulle foreste di «Outremer». 9 Idrisi, p. 16, afferma che il ferro di Beirut era spedito in tutta la Siria. 10 Heyd, op. cit , vol. II, pp. 577-78. 11 Heyd, op. cit., vol. I, pp. 168-77. 12 Cahen, Notes sur l’histoire des Croisades et de l’Orient latin. III, pp. 330-33, reca dati statistici. 13 Cahen, Notes sur l’histoire des Croisades et de l’Orient latin. III, pp. 330-33. Scorrerie come quella compiuta da Baldovino III nel 1157 erano fatte con il solo scopo di raccogliere del denaro. 14 Cahen, Notes sur l’histoire des Croisades et de l’Orient latin. III, pp. 330-33, e 340-44. Può darsi che Cahen minimizzi leggermente l’importanza generale che «Outremer» aveva per gli italiani. Le prove storiche indicano che essi erano molto meno indifferenti per la sua sorte di quanto lasci intendere il ragionamento del Cahen. 15 Ibn Giubair, pp. 306-7.

16 Ibn Giubair, pp. 307-8. Egli osserva che Tiro era un porto migliore di Acri per le navi di maggiori dimensioni. 17 Tutti i geografi musulmani lodano Lattakieh come un porto straordinariamente buono (per esempio Idrisi, p. 23; Yaqut, Mugiam al-buldan, a cura di Wustenfeld, vol. IV, p. 338; Dimashki, p. 209). San Simeone (as-Suwaidiyyah) sembra esser stato adoperato molto meno, salvo per il commercio di Antiochia stessa. Può darsi che il porto cominciasse già ad insabbiarsi. Yaqut, vol. III, p. 387, che scrive dopo la conquista di Baibars, lo indica come il porto di Antiochia adoperato dai franchi. 18 Assisa, II, pp. 174-76.Cfr. Heyd, op. cit., pp. 363 sgg. Le Assises menzionano in articoli soggetti a dogana. 19 Ibn Giubair, pp. 307-9. 20 Heyd, op cit, vol. II, pp. 70-73. 21 Idrisi afferma che nel secolo XII giunche cinesi si spingevano fino a Daybal sulla foce dell’Indo, ma che nel secolo XIII non andavano oltre Sumatra. A quel momento il commercio sull’Oceano Indiano, che era ancora prospero, fu assicurato da imbarcazioni arabe. Cfr. Heyd, op. cit., vol. I, pp. 164-63. 22 Heyd, op. cit, vol. II, pp. 73 sgg. 23 Ibid. Gli egiziani inoltre esigevano diritti doganali più elevati (ibid., p. 78). 24 Cfr. sopra, pp. 924 sgg.; e anche Bratianu, Commerce Génois darti la Mer Noire, soprattutto le pp. 79 sgg. 25 Su Lajazzo (nome dato dagli italiani ad Ayas) cfr. Bratianu, op cit, pp. 138-62. Sulla Siria, Heyd, op cit, vol. II, pp. 62-64. Su Lattakieh, cfr. oltre, pp. 1028-29. 26 Amadi calcolò che nel 1241 il valore del feudo di Toron, appartenente a Filippo di Montfort, era di sessantamila bisanti del saracenato (p. 186). Ma Guido di Jebail fu in condizioni di prestare cinquantamila bisanti del saracenato a Leopoldo d’Austria ed altri trentamila a Federico II. Cfr. pure La Monte, Feudal Monarchy, pp. 171-74. 27 Cfr. Cahen, Notes sur l’histoire des Croisades et de l’Orient latin. III, pp. 33J-37; e così pure Prawer, L’Etablissement des Coutumes du Marche à Saint-Jean d’Acre. 28 Su Antiochia, Cahen, La Syrie du Nord, pp. 153 sgg , 549 sgg. Su Tripoli, Richard, op cit., pp. 71 sgg. 29 Rey, Les Colonies Franques, pp. 103-8. 30 La Monte, Feudal Monarchy, pp. 174 sgg. 31 Cahen, Notes sur l’histoire des Croisades et de l’Orient latin. Ili, pp. 337-38 (importantissimo studio della questione). Cfr. pure Schlumberger, Les Principautés Franques du Levant, pp. 8-43. Il bisante del saracenato di Gerusalemme aveva un contenuto aureo leggermente superiore a un terzo di quello di una sterlina d’oro. Quello di Antiochia aveva un valore di poco inferiore. 32 La Monte, Feudal Monarchy, pp. 174-75. 33 Le Assises di Gerusalemme ignorano l’attività bancaria, mentre quelle di Antiochia

l’ammettono (cfr. Cahen, Notes sur l’histoire des Croisades et de l’Orient latin III, p. 339). Cfr. Piquet, Les Banquiers du Moyen Age, passim; e così pure Melville, La Vie des Templiers, pp. 7583. La crociata di Luigi IX, come quella di Luigi VII, fu finanziata in larga misura dall’Ordine (Piquet, op. cit., pp. 71-78).

Note Capitolo secondo L’architettura e le arti in «Outremer»

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Cfr. Deschamps, La Défense du Royaume de Jérusalem, pp. 5-19, e Le Crac des Chevaliers, pp. 43-44. 2 Deschamps, Le Crac des Chevaliers, pp. 45-57; Ebersolt, Monumento d’Architecture Byzantine, pp. 101-6; Fedden, Crusader Castles, pp. 22-26. 3 Deschamps, Le Crac des Chevaliers, p. 51; Fedden, op. cit., p. 26. 4 Deschamps, Le Crac des Chevaliers, pp. 89-103; Smail, Crusaders Castles of the Twelith Century, in «Cambridge Historical Journal», vol. X, 2, eccellente esposizione delle funzioni di un castello. 5 Sul piano di Belvoir cfr. Deschamps, La Défense du Royaume de Jérusalem, p. 121 e, su quello ancora più semplice di Chastel Rouge, cfr. Le Crac des Chevaliers, p. 37. I castelli gemelli di Shoghr-Bakas furono rinforzati con fossati artificiali come Sahyun (ibid., pp. 80-81). 6 Deschamps, Les Entrées des Chàteaux des Croisés, in «Syria», vol. XIII. 7 Cfr. per esempio la dettagliata descrizione e i piani del castello di Kerak a Moab e di quello di Subeibah a Banyas in Deschamps, La Défense du Royaume de Jérusalem, pp. 80-93, 167-75, con illustrazioni. 8 Rey, Architecture Militare des Croisés, pp. 70 sgg. (esagera la differenza tra lo stile dei templari e quello degli ospitalieri); Fedden, op. cit., pp. 28-29. Cfr. Deschamps, Le Crac des Chevaliers, pp. 279 sgg. per quel che riguarda i diversi periodi e cambiamenti di stile. Cfr. pure Melville, op. cit, pp. 136-42. 9 Fedden, op. cit., pp. 29-30. 10 Oman, A History of the Art of War in the Middle Ages, vol. II, pp. 29 sgg. Fedden, op. cit., pp. 34-40. 11 Deschamps, Le Crac des Chevaliers, pp. 197-224; Enlart, op. cit., vol. II, pp. 96-99. 12 Enlart, op. cit., vol. II, pp. 378-79. 13 Ibid., pp. 66-68. 14 Enlart, op. cit., vol. II, pp. 144-80; Duckworth, The Church of the Holy Sepulchre, pp. 203258; Harvey, Church of the Holy Sepulchre, pp. IX-X. 15 Enlart, op. cit., vol. II, pp. 207-n, 214-21, 233-36, 243-43, 247-49. 16 Della cappella di Wueira rimane quasi soltanto l’abside: c’è un cornicione leggermente modellato, ma nessun’altra traccia di decorazione. Le pietre usate per la sua costruzione sembrano più piccole di quelle adoperate di solito negli edifici crociati. Pare che vi fosse un piccolo nartece come pure una cripta. La cappella di Kerak era notevolmente più grande con quattro finestre. Si dice che contenesse degli affreschi, ma non ne rimane nulla. La cappella templare di Athlit, che è del

secolo XIII, non era circolare ma dodecagonale. 17 Cfr. Enlart, op. cit., passim. Ho ricavato molti elementi dalla mia personale conoscenza degli edifici. 18 Cfr. Enlart, op. cit., vol. I, pp. 70-73. 19 Cfr. oltre, p. 1010. 20 Daniele l’Igumene (p. 36) nel 1106 vide dei mosaici nel Cenacolo; e verso il 1160 Giovanni di Wurzburg descrive i ritratti degli apostoli in mosaico che vi si trovavano e che recavano un’iscrizione in latino che narrava la discesa dello Spirito Santo; descrive pure un mosaico della cappella della Dormizione con un’iscrizione che era scritta in latino ma adoperava termini greci (PPTS, pp. 42-43). 21 Cfr. oltre, p. 1010. 22 Enlart, op. cit., vol. I, pp. 93 sgg. 23 Enlart, op. cit., vol. I, pp. 3-4, 67-68. Alcune decorazioni nelle chiese di Ida a Wast e Saint Wolmer a Boulogne ricordano nettamente delle opere arabe. Si trovano archi acuti quasi dello stesso periodo a Cluny. La parte avuta dagli architetti armeni nella diffusione dell’arco acuto e della volta ad ogiva (che le esagerazioni di Strzygowski hanno screditato) dev’essere presa in considerazione, Cfr. Baltrušaitis, Le Problème de l’Ogive et l’Arménie, pp. 45 sgg., specialmente pp. 68-70. Molte altre cose si possono aggiungere sulle opere di armeni in «Outremer» stessa. Cfr. pure Clapham, Romanesque Architecture, pp. 107-12. 24 Clapham, loc. cit. La cupola di Santa Sofia a Costantinopoli è senza tamburo. Questi erano rari nell’architettura persiana. 25 Clapham, op cit., pp. 110, 112-13. Egli non vuole attribuire molta importanza ai paragoni con gli armeni a causa di incertezza sulle date. Ma la decorazione delle chiese della Grande Armenia può essere datata con una certa esattezza. Cfr. Der Nersessian, Armenia and the Byzantine Empire, pp. 84-109 (che incidentalmente mostra la difficoltà di rintracciare le origini dei tipi di decorazione). 26 Church of the Nativity at Bethlehem, a cura di Schultz, pp. 31-37, 65-66 (con la descrizione di Giovanni Foca); Enlart, op. cit., vol. I, p. 159, vol. II, pp. 6j-66; Dalton, Byzantine Art and Archaeology, pp. 414-15- Il mosaico che rappresenta il Cristo glorificato, della volta della cappella la tina del Calvario è riprodotto come frontispizio da Harvey. Pochissimo è stato scritto su di esso. Può essere un’opera bizantina del secolo precedente. 27 Enlart, op. cit., vol. II, pp. 323-24. 28 Cfr. sopra, p. 615, nota I. 29 Enlart, op. cit., vol. II, pp. 35-37. 30 Guglielmo di Tiro, XXII, 4, p. 1068. 31 Guglielmo di Tiro, XVIII, 22, p. 857. 32 Wilbrand di Oldenburg in Laurent, Peregrinatores Medii Aevi Quattuor, pp. 166 sgg. 33 Enlart, op. cit., vol. II, pp. 298-310. 34 Ibid., pp. 15-23. 35 Ibid., vol. I, pp. 134-37.

36 Boase, The Arts in the Latin Kingdom of Jerusalem, in «Journal of the Warburg Institute», vol. II, pp. 14-15- Dalton, Byzantine Art and Archaeology, pp. 471-73, ritiene che le illustrazioni a tutta pagina siano di stile bizantino provinciale eseguite per un’opera diversa. Le intestazioni sono di un altro artista; può darsi che siano di stile romanico occidentale ma con influenze orientali (per esempio san Giovanni Evangelista è fornito di barba). Il secondo artista è un esecutore più raffinato del primo, ma i suoi colori sono più pallidi. In East Christian Art, p. 309, egli avanza l’ipotesi che il primo artista fosse armeno. Cfr. Buchthal, The Painting of Syrian Jacobites, in «Syria», vol. XX, pp. 136 sgg., specialmente la p. 138. 37 Per un giudizio definitivo su questo gruppo di manoscritti è necessario consultare l’opera di H. Buchthal. 38 Enlart, op cit, vol. I, pp. 172-201. 39 Ibid., vol. II, pp. 310-11. 40 Ibid , vol. I, pp. 175-79 41 Cfr. Schlumberger, Sigillographie de l’Orient Latin, specialmente l’introduzione di Blanchet. 42 Enlart, op. cit., vol. I, pp. 197-98. 43 Enlart, op. cit., vol. I, pp. 199-200; Dalton, Byzantine Art and Archaeology, pp. 221-23 e East Christian Art, p. 218, sottolinea le affinità con stili orientali e ritiene che lo scultore fosse indigeno. Boase, loc. cit

Note Capitolo terzo La caduta di Acri

1 Abul

Fida, pp. 157-58; Maqrizi, Sultani, I,II, p. 171, II, I, 26; D’Ohsson, op. cit., pp. 519-22. Fior des Estoires, pp. 180-81. 3 Estoire d’Eracles, vol. II, p. 481; Gestes des Chiprois, pp. 207, 210-13. 4 Gestes des Chiprois, p. 207; Annales de Terre Sainte, p. 457; Amadi, p. 214; Mas Latrie, Histoire de l’Ile de Chypre: Documenti, II, p. 109; Raynaldus, anno 1279, p. 488. 5 Maqrizi, Sultani, II, I, p. 26; Abul Fida, p. 158; Barebreo, p. 463; Gestes de; Chiprois, pp. 2089. 6 Maqrizi, Sultani, II, I, pp. 28-34; Röhricht, Regesta Regni Hierosolymitani, p. 374. 7 Maqrizi, Sultani, II, I, pp. 33-37; Abul Fida, pp. 158-60; Barebreo, pp. 464-65; Hayton, Fior des Estoires, pp. 182-84; Gestes des Chiprois, p. 210; lettera di Giuseppe di Chauncy e risposta di re Edoardo (a cura di Sanders, in PPTS, vol. V); Röhricht, Regesta Regni Hierosolymitani, p. 375; D’Ohsson, op. cit., pp. 523-34. 8 Amari, La Guerra del Vespro Siciliano, rimane la migliore storia generale dei Vespri e della guerra che ne segui. 9 Gestes des Chiprois, p. 214; Sanudo, Chronique de Romanie, I, pp. 39-40. Oddone sposò Lucia di Gouvain, vedova di Giovanni Ibelin di Arsuf. 10 Maqrizi, Sultani, II, I, pp. 60,179-85, 224-30. Cfr. Hill, op. cit., vol. II, p. 176. 11 Cestes des Chiprois, pp. 214-16; Amadi, pp. 214-15. 12 Gestes des Chiprois, pp. 216-17; Amadi, p. 216. Cfr. Hill, op. cit., p. 178. 13 Gestes des Chiprois, p. 217; Amadi, loc. cit. Cfr. Hill, op. cit., p. 179, nota 2. 14 Maqrizi, Sultani, II, II, pp. 212-13. 15 Gesta des Chiprois, pp. 217-18; Amadi, loc cit.; Maqrizi, Sultani, II, I, p. 80 (anche a p. 86, ma con la data dell’anno seguente); Abul Fida, p. 161; biografia di Qalawun in Michaud, Bibliothèque des Croisades, pp. 548-32. 16 Gestes des Chiprois, pp. 218-20; Amadi, pp. 216-17; Sanudo, Liber Secretorum, p. 229; Machera, p. 42; Mas Latrie, Histoire de l’Ile de Chyphe: Documents, III, pp. 671-73. 17 Gestes des Chiprois, p. 221; Annales de Terre Sainte, p. 548; Amadi, p. 217. 18 Howorth, op cit., vol. III, pp. 295-310; Abul Fida, p. 160, e altri scrittori arabi menzionano Ahmed (cfr. le citazioni in Howorth), ma gli scrittori occidentali lo ignorano. Barebreo, pp. 467-71, ne parla lungamente. 19 Cfr. Budge, The Monks of Kublai Khan, introduzione, pp. 42-61, 72-75. 20 II testo della lettera di Arghun è riportato da Chabot, Relation; du Roi Argoun avec 2 Hayton,

l’Occident, in «Revue de l’Orient Latin», vol. II, p. 571. 21 Una traduzione completa del resoconto di Rabban Sauma sui suoi viaggi in Europa si trova in Budge, op. cit., pp. 164-97. 22 Per una descrizione della situazione nel suo insieme cfr. Grousset, Histoire des Croisades, vol. III, pp. 711-21; cfr. Lévis-Mirepoix, Philippe le Bel, pp. 22 sgg. sulle conseguenze della guerra siciliana sulla politica generale. 23 Chabot, op. cit., pp. 393-94, 604-16, riporta il testo delle lettere. 24 Kohler, Deux Projets de Croisade en Terre Sainte, testo e introduzione, Mélange pour Servir à l’Histoire de l’Orient Latin, pp. 316 sgg. 25 Chabot, op. cit., pp. 617-19. 26 Ceste: des Chiprois, pp. 220-30; Annales Ianuenses, p. 317. 27 Gestes des Chiprois, p. 230; Abul Fida, p. 162; Maqrizi, in Michaud, Bibliothèque des Croisades, pp. 561-62. 28 Gestes des Chiprois, pp. 231-34; Amadi, pp. 217-18; Sanudo, Liber Secretorum, p. 229; Annate; Januenses, pp. 322-26. 29 Gestes des Chiprois, p. 234. Adul Muhasim, in Michaud, Bibliothèque des Croisades, p. 561, afferma che Bartolomeo avverti Qalawun. 30 Gestes des Chiprois, pp. 34-33. Al-Fakhri aveva il titolo di emirsilah, poiché l’autore delle Gesta lo chiama Salah. Cfr. Abul Fida, p. 139. 31 Gestes des Chiprois, pp. 235-37; Amadi, p. 218; Annales Januenses, loc. cit.; Auria, p. 324; Maqrizi, Sultani, II, I, pp. 101-3; Abul Fida, pp. 163-64. 32 Gestes des Chiprois, pp. 237-38. 33 Maqrizi, Sultani, II, I, pp. 103-4; Sanudo, Liber Secretorum, p. 230. Cfr. Grousset, Histoire des Croisades, p. 745, nota 3. 34 Cestes des Chiprois, p. 238; Amadi, loc. cit. Cfr. Stevenson, Crusaders in the East, p. 351, nota 3. 35 Raynaldus, anno 1288, p. 43, anno 1289, p. 72. 36 Röhricht, Derniers Temps, p. 529. Sull’atteggiamento di Edoardo, cfr. Powicke, op. cit., pp. 729 sgg. 37 Heyd, op. cit., vol. I, pp. 416-18. 38 Gestes des Chiprois, p. 238; Dandolo, p. 402; Sanudo, Liber Secretorum, p. 229; Amadi, pp. 218-19. 39 Gestes des Chiprois, loc cit.; Amadi, p. 19; Bustron, p. 118; Maqrizi, Sultani, II, I, p. 109. 40 Gestes de! Chiprois, pp. 239-40; Amadi, loc. cit. 41 Gestes des Chiprois, p. 240; Maqrizi, Sultani, II, I, p. 109; Muhi ad-Din, in Michaud, Bibliothèque des Croisades, pp. 567-68. 42 Gestes des Chiprois, loc. cit.; Ludolfo di Suchem, p. 56. 43 Maqrizi, Sultani, II, I, pp. 110-12; Abul Fida, p. 163; Gestes des Chiprois, pp. 240-41;

Amadi, p. 219. 44 Abul Fida, loc. cit.; Gestes des Chiprois, p. 241. 45 Gestes des Chiprois, pp. 241-43; Maqrizi, Sultani, II, I, p. 120. 46 Al-Jazari, pp. 4-5; Maqrizi, loc cit.; Abul Fida, p. 163. 47 Gestes des Chiprois, p. 241. Cfr. pure Röhricht, Geschichte des Königreichs Jerusalem, pp. 1008 sgg. 48 Cfr. la cartina a p. 1039. Cfr. inoltre Rey, Les Colonies Franques, pp. 431 sgg. Alice di Bretagna, contessa di Blois, era andata ad Acri nel 1287 e vi era morta (Annales de Terre Stinte, pp. 439- 460; Sanudo, Liber Secretorum, p. 229). 49 Abul Fida, p. 164; Gestes des Chiprois, p. 243. 50 Le principali cronache franche che trattano della caduta di Acri sono: 1) Gestes des Chiprois, scritta dal cosiddetto «Templare di Tiro» che era segretario del gran maestro dell’ordine. Egli fu un testimone oculare e, sebbene ammirasse il suo maestro, non era egli stesso un templare e in generale era imparziale. 2) Marino Sanudo il vecchio, che non era presente e che, per la sua narrazione, si basa sulle Gestes. 3) De Excidio Urbis Acconis (in Marlene e Durand, Amplissima Collectio, vol. V), opera anonima il cui autore era un contemporaneo ma non un testimone oculare, molto prodigo di accuse di viltà e di tradimento. 4) Taddeo di Napoli, Historia de Desolacione Civitatis Acconensis, a cura di Riant, è quasi altrettanto insultante. Un resoconto di un monaco greco, Arsenio (citato da Bartolomeo di Neocastro, p. 132) accusa i franchi di crapula e di poltroneria, ma non di viltà. Quasi tutte le fonti parlano bene di re Enrico. 51 Questa narrazione è ricavata da Gestes des Chiprois, pp. 43-54; Sanudo, Liber Secretorum, pp. 230-31; Amadi, pp. 220-25; De excidio, coll. 760-82; Taddeo di Napoli, pp. 18-23; Ludolfo di Suchem, pp. 54-61; al-Jazari, p. 5; Maqrizi, Sultani, II, I, pp. 125-26; Abul Fida, pp. 164-65; Abul Mahasim, in Michaud, Bibliothèque des Croisades, pp. 569-72. Un resoconto vivace (purtroppo senza indicazione di fonti) trovasi in Schlumberger, Byzance et Croisades, pp. 207-79. Muntaner, Cronica, a cura di Coroleu, p. 378, parla del comportamento di Ruggero di Fior. 52 Gestes des Chiprois, pp. 254-55; Maqrizi, Sultani, II, I, p. 126; lettera del sultano al-Ashraf a Hethum d’Armenia in Bartolomeo Cotton, p. 221. Cfr. Röhricht, Geschichte des Königreichs Jerusalem, p. 1021, nota 3. 53 Gestes des Chiprois, pp. 2.55-56; Bartolomeo Cotton, p. 432; Ludolfo di Suchem, loc. cit.; Sanudo, Liber Secretorum, p. 231. Questi fatti sono raccontati anche da Barebreo, p. 493 (con la data del 1292). 54 Enlart, op. cit, vol. II, pp. 9-11; Stefano di Lusignano, Histoire de Chypre, fol. 90; Ludolfo di Suchem, p. 61. 55 Gestes des Chiprois, p. 254; Sanudo, loc. cit.; al-Jazari, p. 6; Abul Fida, p. 164; Maqrizi, Sultani, II, I, p. 126. Margherita era ancora signora di Tiro nel 1289 (Gestes des Chiprois, p. 237), sebbene le Gestes (ibid.) dicano che nel 1288 Amalrico era Signore di Tiro. Cfr. Hill, op. cit., p. 182, nota 5. 56 Gestes des Chiprois, pp. 256-J7; Annales de Terre Sainte, p. 460; al-Jazari, p. 7; Maqrizi, Sultani, II, I, p. 131; Abul Fida, loc. cit. 57 Gestes des Chiprois, pp. 257-58; al-Jazari, loc. cit.; Maqrizi, loc. cit.; Abul Fida, loc. cit

58 Gestes des Chiprois, p. 259; Annales de Terre Sainte, loc. cit.; al-Jazari, p. 8; Maqrizi, Sul tani, II, I, p. 126; Abul Fida, loc. cit. 59 Cfr. oltre, pp. 1088-89. 60 Sanudo, Liber Secretorum, p. 232; Cobham, Excerpta Cupria, pp. 17,22.

Note Capitolo primo Le ultime crociate

1 Baluzius,

Vitae Paparum Avenionensium, a cura di Mollat, vol. III, p. 130; Atiya, The Crusade in the Later Middle Ages, pp. 34-36; Hill, op. cit., vol. II, pp. 193 sgg.; Browne E. G., op. cit., vol. III, p. 40. Su Giovanni di Montecorvino, cfr. Atiya, The Crusade in the Later Middle Ages, pp. 24852. 2 Il quartier generale dell’Ordine teutonico venne trasferito a Venezia nel 1291 e poi a Marienburg in Prussia nel 1309. Sull’ulteriore storia dell’ordine cfr. il capitolo di Boswell, in Cambridge Medieval History, vol. VII, pp. 248 sgg. 3 Cfr. oltre, pp. 1055 sgg. 4 Atiya, The Crusade in the Later Middle Ages, pp. 35-36. 5 Atiya, The Crusade in the Later Middle Ages, p. 45. 6 Ibid., pp. 36-43. Il Liber di Fidenzio è pubblicato in Golubovich, Biblioteca biobibliografica della Terra Sartia, vol. II, pp. 9 sgg. 7 Atiya, The Crusade in the Later Middle Ages, pp. 31-34; la Historia de Desolacene è stata pubblicata da Riant. 8 Atiya, The Crusade in the Later Middle Ages, pp. 71-72 9 Atiya, The Crusade in the Later Middle Ages, pp. 74-94, contiene un’ampia trattazione della vita e delle opere di Lull in rapporto con la crociata. 10 Atiya, The Crusade in the Later Middle Ages, p. 48. 11 Atiya, The Crusade in the Later Middle Ages, pp. 48-52; Hill, op. cit., vol. II, p. 239. 12 Atiya, The Crusade in the Later Middle Ages, pp. 53-55. 13 Flos Historiarum di Hayton è pubblicato in Recueil des Historiens des Croisades, Documenti Arméniens, vol. II. Cfr. Atiya, The Crusade in the Later Middle Ages, pp. 62-64. 14 Atiya, The Crusade in the Later Middle Ages, pp. 64-67. L’opera di Adam è pubblicata come appendice a quella di Hayton in RHC Arm. 15 Atiya, The Crusade in the Later Middle Ages, pp. 67-71. 16 Ibid., pp. 60-61. Cfr. Mas Latrie, Documenti, vol. II,p. 129. 17 Baluzius, Vitae Paparum Avenionensium, vol. II, pp. 145 sgg. 18 Delaville Le Roulx, Le frante en Orient, vol. II, pp. 3-6. 19 Mas Latrie, Documenti, vol. II, pp. 118-2.5; Atiya, The Crusade in the Later Middle Ages, pp. 58-60. 20 Atiya, The Crusade in the Later Middle Ages, pp. 33, 73. 21 Cfr. sopra, p. 929.

22 Gestes des Chiprois, pp. 319-23; Delaville Le Roulx, Hospitaliers en Terre Sente, pp. 27379; Amadi, pp. 254-59. 23 Trovasi una discussione e valutazione della cattiva fama dei templari in Martin E. J., The Trial of the Templari, pp. 18-24, 46-50. La scandalosa ingiustizia del loro processo ha indotto gli storici a considerarli del tutto innocenti, ma è evidente che i sospetti sui loro costumi non erano interamente infondati. I documenti e le fonti più importanti sono stati pubblicati da Lizerand, he Dossier de l’Affaire des Templiers II loro storico più recente, la Melville, è certamente troppo indulgente verso di loro (op. cit., pp. 246 sgg.). 24 Martin E. J., The Trial of the Templars, pp. 28-46; Melville, op. cit, pp. 249-57. 25 Hill, op. cit., vol. II, pp. 232-36, 270-74. 26 Gestes des Chiprois, pp. 61-62; Taddeo di Napoli, p. 43; Sanudo, Liber Secretorum, p. 283; Wiet, op. cit., p. 461. 27 Gestes des Chiprois, pp. 293-306; Hill, op. cit., vol. II, pp. 212-15; Atiya», The Crusade in the Later Middle Ages, pp. 90-91. Felix Fabri, scrivendo quasi due secoli più tardi, dà un racconto leggendario del buon imperatore tartaro «Casanus» il quale a suo dite era cristiano e si era offerto di restituire Gerusalemme ai cristiani (pp. 372-78). 28 Browne, op. cit., vol. III, pp. 51-61. 29 Gestes des Chiprois, p. 309, indica come data della conquista di Ruad il 1303; Sanudo, Liber Secretorum, p. 242, ne fissa la data al 1302. Cfr. Hill, op. cit., vol. II, pp. 215-16. 30 Atiya, The Crusade in the Later Middle Ages, p. 96. 31 Ibid , pp. 96-113. 32 Atiya, The Crusade in the Later Middle Ages, pp. 114-27; Hill, op. cit., vol. III, p. 1144. L’unica edizione del Liber Secretorum del Sanudo trovasi in Bongars, Gesta Dei per Francos, vol. II. 33 Sul viaggio di Pietro cfr. Atiya, The Crusade in the Later Middle Ages, pp. 330-37; Hill, op. cit., vol. II, pp. 324-27. 34 Atiya, The Crusade in the Later Middle Ages, pp. 337-41. 35 Ibid., PP. 341-44; Hill, op. cit., vol. II, pp. 329-31. 36 La spedizione contro Alessandria è descritta con ampiezza da Guglielmo di Machaut, in un’opera epica di stile molto prosaico (a cura di Mas Latrie, specialmente le pp. 61 sgg.)- Non pare che Machaut sia mai stato in Oriente, ma le sue informazioni, eccetto quelle sulla nascita e la morte di re Pietro, sono attendibili. Per un resoconto completo della spedizione cfr. Atiya, The Crusade in the Later Middle Ages, pp. 345-69, come pure Hill, op. cit., vol. II, pp. 331-34. 37 Atiya, The Crusade in the Later Middle Ages, p. 369. 38 Ibid., p. 370; Hill, op. cit., vol. II, pp. 335-36. 39 Machaut, pp. 115-16; Heyd, op. cit., vol. II, pp. 52-55. 40 Atiya, The Crusade in the Later Middle Ages, pp. 371-76; Hill, op. cit., vol. II, pp. 345-67; Heyd, pp. 55-57. 41 Atiya, The Crusade in the Later Middle Ages, pp. 377-78.

42 Cfr. Tournebize, op. cit, pp. 644 sgg., specialmente le pp. 654-55, 715-30. L’oscura storia della fine del regno armeno si basa principalmente sulla cronaca del francescano Giovanni Dardel (pubblicata in RHC Arm, vol. II). 43 Cfr. Gibbons, The Foundation of the Ottoman Empire, pp. 15-34; Köprülü, op. cit., pp. 3479; Wittek, The Rise of the Ottoman Empire, pp. 33-51. 44 Atiya, The Crusade in the Later Middle Ages, pp. 290-300. 45 Ibid., pp. 300-18. 46 Ibid., pp. 323-30; Hill, op. cit., vol. II, pp. 318-24. 47 Cfr. Vasiliev, History of the Byzantine Empire, pp. 605-8. La storia della Compagnia catalana è narrata con vivacità dal cronista contemporaneo Muntaner. 48 Vasiliev, History of the Byzantine Empire, pp. 608-9; Gibbons, op. cit, pp. 54-70. 49 Vasiliev, History of the Byzantine Empire, pp. 609-13. 50 Gibbons, op. cit., pp. 100-3, 110-21 51 Vasiliev, History of the Byzantine Empire, pp. 670-72. 52 Atiya, The Crusade in the Later Middle Ages, pp. 379-97. 53 Vasiliev, History of the Byzantine Empire, p. 624; Gibbons, op. cit., pp. 174-78. 54 La spedizione di Luigi è descritta in dettaglio in Atiya, The Crusade in the Later Middle Ages, pp. 398-434. 55 Atiya, The Crusade of Nicopolis, pp. 1-34, una narrazione ampiamente documentata. 56 Ibid, pp. 41-48,67-68,184 note. 57 Atiya, The Crusade of Nicopolis, pp. 30-99. 58 Ibid., pp. 102-11. 59 Atiya, The Crusade in the Later Middle Ages, pp. 463-64; Hefele, op. cit., vol. VI, parte II, PP- 1253-54. 60 Atiya, The Crusade in the Later Middle Ages, pp. 465-66; Vasiliev, History of the pian tine Empire, pp. 632-33. 61 Vasiliev, History of the Byzantine Empire, pp. 631-34. 62 Sulla cartiera di Tamerlano cfr. Bouvat, L’Empire Mongol, 2 me phase, passim, specialmente pp. 58-63. 63 Heyd, op. cit., vol. II, pp. 65-67. 64 Bouvat, op. cit., pp. 84 sgg. 65 Hammer, Histoire de l’Empire Ottoman, vol. II, pp. 120 sgg. 66 Ibid., pp. 159 sgg. 67 Vasiliev, History of the Byzantine Empire, pp. 672-74. 68 Hammer, op. cit., vol. II, pp. 288-302. 69 Cfr. Halecki, The Crusade of Varna, passim

70 Hammer, op. cit., vol. II, pp. 322-27. 71 La migliore storia della caduta di Costantinopoli è tuttora quella di Pears, The Destruction of the Greek Empire, pp. 237 sgg. Cfr. pure Vasiliev, History of the Byzantine Empire, pp. 647-53. 72 Su Pio II cfr. Atiya, The Crusade in the Later Middle Ages, pp. 227-30; Hefele, op. cit., vol. VII, patte II, pp. 1291-1352.

Note Capitolo secondo Conclusione

1 Sulla

vita intellettuale di «Outremer» cfr. appendice V. Ullmann, Medieval Papalism, pp. 120-21, 128-29. 3 «Or poez savoir que mult esgarderent Costantinople cil qui onques mais l’avoient veüe; que il ne pooient mie cuidier que si riche ville peüst estre en tot le monde... Nuls nel poist croire se il ne le veïst a l’oil le lonc et le de la ville, qui de totes autres ere soveraine» (Villehardouin, vol. I, p. 130). 2 Cfr.

Note Appendici al Libro primo I. PRINCIPALI FONTI PER LA STORIA DELLA PRIMA CROCIATA

1

L’edizione più recente di Anna Comnena è pubblicata nella Collection Budé, a cura di Leib, con una ampia introduzione e note. Anna Comnena, di G. Buckler, reca uno studio critico dettagliato della Alessiade. Esiste una traduzione inglese dell’Alessiade di E. A. S. Dawes (London 1928). 2 Ambedue editi nel CSHB di Bonn. 3 Pubblicato in Sathas, Bibliotheca graeca Medii Aevi, vol. VII. 4 Le lettere di Teofilatto si trovano in MPG, vol. CXXVI. 5 Pubblicato in RHC. Manca una buona edizione critica. 6 L’edizione curata da Hagenmeyer, che è abbondantemente annotata, ha preso il posto di quella del RHC. 7 Pubblicato nel RHC. Cfr. Cahen, La Syrie du Nord, p. II, nota I. 8 Pubblicato nel RHC. 9 Cfr. Cahen, loc. cit. La cronaca di Sicardo non esiste più. 10 L’edizione più recente è quella di Bréhier, sotto il titolo di Histoire Anonyme de la Première Croisade. Le note dell’edizione di Hagenmeyer, Anonymi Gesta Francorum (Heidelberg 1890) sono ancora utili-. 11 Pubblicato nel RHC. Cfr. Cahen, La Syrie du Nord, pp. 8-9. 12 Ibid. 13 Ibid. 14 Ibid. 15 Ibid. 16 Estratti di Ugo e di Enrico sono pubblicati nel V volume del RHC. La Expeditio Contra Turcos è pubblicata insieme con Tudebodus nel III volume. 17 L’edizione del V volume del RHC è molto migliore che quella di Hagenmeyer (Ekkehard von Aura, Leipzig 1888). 18 Pubblicato nel RHC. 19 Ibid Esiste una vasta letteratura su Alberto: le opere più importanti sono quelle di Krebs, Kügler, Kühne, e Beaumont. (Cfr. la bibliografia). Cfr. pure von Sybel, Geschichte des ersten Kreuzzuges, 2a ed. (prefazione) e Hagenmeyer, Le vrai et le faux sur Pierre l’Ermite, specialmente le pagine 9 sgg.

20 Pubblicato nel RHC. Cfr. Prutz, Wilhelm on Tyrus, e Cahen, La Syrie du Nord, pp. 17-18. 21 Pubblicato nel V volume del RHC. 22 Estratti sono pubblicati da Hagenmeyer nel volume II degli «Archives de l’Orient Latin». 23 Sull’epica cfr. Hatem, op. cit., che sostiene un’origine siriana dei poemi, e il riassunto in Cahen, La Syrie du Nord, pp. 12-16. 24 La migliore edizione di queste lettere si trova in Hagenmeyer, Die Kreuzzugsbriefe; una col lezione più completa trovasi in Riant, Inventane critique. 25 Su Ibn al-Qalanisi, cfr. la prefazione alla traduzione di Gibb dei brani della Cronaca di Damasco che si riferiscono alle crociate (cfr. la bibliografia). Il testo completo in arabo è pubblicato da Amedroz (Leiden 1908). 26 Il testo completo delle opere di Ibn al-Athir è pubblicato in arabo in quattordici volumi da Tomberg (Leiden 1851-76). Brani importanti sono pubblicati in RHCOcc. 27 Non esiste nessuna buona edizione di Kemal ad-Din. I brani che si riferiscono alle crociate, dal 1097 al 1146, si trovano per intero nel RHC 28 Una traduzione francese venne pubblicata dai manoscritti a cura di Dulaurier nel 1838 e degli estratti del testo armeno con traduzione francese in RHCArm. Il testo armeno completo venne pubblicato a Gerusalemme nel 1868. Non sono riuscito ad ottenerlo ed ho usato perciò la traduzione di Dulaurier, confrontandola, quando era possibile, con gli estratti in armeno del RHC. 29 Estratti di questi storici sono pubblicati nel RHC. 30 Tradotto e pubblicato da Chabot.

Note II. LA FORZA NUMERICA DEI CROCIATI

1

Anna Comnena, X, IX, I, vol. II, p. 220; Fulcherio di Chartres, I, X, 4, p. 183; Ekkehard, Hierosolymita, XIII, p. 21; Raimondo di Aguilers, V, p. 242. La Chronique de Zimmern, p. 27, attribuisce a Goffredo un esercito di trecentomila unità. 2 Guglielmo di Tiro, IX, 12,I, p. 380. 3 Raimondo di Aguilers, XIX, p. 292. 4 Cfr. sopra, p. 165. 5 L’esercito di Raimondo era ancora evidentemente di dimensioni imponenti quando lasciò la Palestina, come dimostrano le sue successive campagne. 6 Citato da Chalandon, Histoire de la première Croisade, p. 133. Non è stato possibile accettare a quale cronaca faccia riferimento. 7 Anna Comnena, X, IX, I, vol. II, p. 230. «Boemondo... non aveva un esercito numeroso per ché aveva poco denaro...» 8 Cfr. sopra, pp. 170-71. 9 Cfr. sopra, p. 224. 10 Cfr. sopra, pp. 130-31. 11 Milites Regni Franciae, in Bouquet, RHF, vol. XXII, pp. 684-85. Ciò significa sessanta banderesi per la Normandia al tempo di Filippo Augusto; ogni banderese aveva probabilmente circa dieci cavalleggeri. Cfr. pure la lista in ibid., vol. XXIII, p. 698, che attribuisce al ducato di Normandia 381 cavalieri. 12 Actes des Comtes de Flandres, a cura di Vercauteren, nn. 30, 41. 13 Lettera in Hagenmeyer, Die Kreuzzugsbriefe, p. 172. 14 Cfr. sopra, p. 192. 15 Cfr. sopra, pp. 190-91. 16 Cfr. sopra, p. 1107, note I e 2. 17 Chalandon, Histoire de la première Croisade, p. 59. stima che quindicimila persone lasciarono la Francia con Pietro. È impossibile controllare questa cifra che sembra attendibile. La Chronique de Zimmern, pp. 27-28, afferma che Pietro aveva con sé ventinovemila persone a Civetot, dopo che 3200 tedeschi erano stati uccisi (a Xerigordon).

Note Appendici al Libro secondo III PRINCIPALI FONTI PER LA STORIA DELL’ORIENTE LATINO (1100-1187)

1 Cfr.

sopra, pp. 1099-1100. nel CSHB di Bonn. 3 Ibid. 4 Zonara è ancora utile per i primi anni del secolo. La cronaca in versi di Manasse offre poco materiale di scarsa importanza (pubblicata nel CSHB di Bonn). Le poesie significative di Prodromo sono state pubblicate nel RHC. 5 Tradotto nel volume V della PPTS. 6 Cfr. sopra, pp. 1100-1. 7 Cfr. sopra, p. 1102. 8 Ibid 9 Ibid. 10 Cfr. sopra, p. 1103. 11 Pubblicato nel RHC. 12 Ibid. Per la cronologia di Guglielmo cfr. Stevenson, The Crusaders in the East, pp. 361-71, che discute la questione in modo ampio ed autorevole. 13 Edito da M. Salloch 14 L’Itinerarium a cura di Stubbs è stato pubblicato nella «Rolls Series». 15 La Estoire d’Eracles è stata pubblicata nel RHC. Ernoul è stato curato da Mas Latrie. Per una trattazione di tutto il problema cfr. l’introduzione di Mas Latrie a Ernoul, nonché Cahen, La Syrie du Nord, pp. 21-24. 16 Edito da J. Stevenson nella « Rolls Series». 17 La Historia Regni Hierosolymitani è stata pubblicata in MGHSs; gli Annales de Terre Sainte, a cura di Röhricht, negli «Archives de l’Orient Latin»; e la Historia Regum, in Kohler, Meinges. 18 II libro di Oddone (o Eudes) di Deuil è stato edito recentemente da Waquet, e le Gesta Friderici di Ottone di Frisinga in MGHSs, nuova serie. Non esiste nessuna buona edizione dell’opera di Suger. 19 Ambrogio è stato edito da G. Paris. Ne esiste una traduzione inglese con note molto utili ad opera di Hubert e La Monte. 20 Per le edizioni di queste cronache cfr. la bibliografia alla fine del volume. 2 Pubblicato

21 La migliore edizione di Orderico è ancora quella di Le Prevost. 22 Pubblicati rispettivamente in RHF e in Wibaldi Epistolae, nella Bibliotheca di Jaffé. 23 Ne è stata pubblicata la maggior parte in RHF. Altre si trovano in diverse cronache. 24 Per i Cartulaires cfr. la bibliografia. La maggior patte e stata riassunta in Regesta Regni Hierosolymitani di Röhricht. 25 Le lettere papali si trovano in MPL. Gli archivi italiani non sono ancora stati pubblicati interamente. Per un compendio delle pubblicazioni esistenti cfr. Cahen, La Syrie du Nord, pp. 3-4. 26 Le Assises sono state pubblicate nel RHC. Per una discussione cfr. La Monte, Feudal Monarchy, pp. 97-100 e Grandclaude, Elude Critique, passim. 27 Editi e tradotti in inglese in PPTS, voll. IV e V. 28 Cfr. sopra, pp. 1104-5. 29 Cfr. sopra, p. 1105. 30 Non pubblicata per intero. Estratti importanti sono stati analizzati da Cahen, in «Journal Asiatique», 1935. 31 Di Usama uso la traduzione del Hitti (An Arab-Syrian Gentleman) che è basata su uno studio più accurato del testo originale, di quanto non lo sia quella dal Derenbourg pubblicata nel 1893. La traduzione inglese del Potter si basa sulla versione di Derenbourg. 32 II testo completo di Ibn Giubair, curato da Wright, venne pubblicato circa cento anni or sono a Leida (trad. frane, di Gaudefroy-Demonbynes e trad. ingl. di R. Broadhurst). Estratti del testo si leggono nel RHC. 33 Sulle opere di Imad ed-Din cfr. Cahen, La Syrie du Nord, pp. 30-32. Abu Shama riporta lunghi estratti dalle sue opere. 34 Il testo arabo è edito da Schultens e anche nel RHC. Nelle mie note a pie di pagina taccio riferimento alla traduzione inglese pubblicata in PTSS, che si fonda su una correlazione delle due edizioni. 35 Pubblicati da Cahen nel «Bulletin de l’Institut Orientai a Damas». 36 Cfr. Cahen, La Syrie du Nord, pp. 32-34. 37 Per le edizioni cfr. sopra, p. 1104, nota 3. 38 Cfr. Cahen, La Syrie du Nord, pp. 55-57. 39 Cfr. sopra, p. 1105, nota I. I suoi capitoli relativi all’ultima parte del secolo XII sono stati tradotti da Blochet e pubblicati nella «Revue de l’Orient Latin». 40 Alcuni estratti sono stati pubblicati nel RHC. Un’edizione in facsimile di un altro manoscritto abbastanza diverso è stata pubblicata da Jewett (Chicago 1907). 41 Ne è stata pubblicata un’edizione a Bulaq nel 1871 e 1875. Faccio riferimento agli estratti pubblicati nel RHC. 42 Pubblicato nel RHC. 43 Pubblicato a Bulaq in 7 volumi nel 1868. 44 Ne sono stati tradotti degli estratti da Blochet nella «Revue de l’Orient latin».

45 Tradotto in francese da de Slane. 46 Le osservazioni di Ibn Bibi si trovano al principio del vol. Ili di Houtsma, Textes relatifs à l’Histoire des Seldjoukides (antica traduzione turca di Ibn Bibi). 47 Cfr. sopra, p. 1105. 48 Pubblicato nel RHC (al quale faccio riferimento nelle note a pie di pagina). È stato anche tra dotto da Dulaurier alla fine della sua edizione di Matteo di Edessa. 49 Pubblicato nel RHC. 50 Ibid. 51 Ibid. 52 Ibid. 53 Estratti nel RHC. 54 Pubblicato nel RHC. 55 Ibid. 56 Il manoscritto è a Venezia, nella biblioteca mechitarista. 57 Pubblicato nel RHC. 58 Edito e tradotto in francese da Chabot. 59 La parte più antica di questa cronaca è stata pubblicata in traduzione inglese da Tritton («Journal of the Royal Asiatic Society»). Il testo completo in siriaco è stato pubblicato da Chabot nel CSCO. 60 Curato e tradotto in inglese da Wallis Budge. 61 A cura di Adler. 62 A cura di Brosset. 63 Tradotto in francese da de Khitrowo. Non mi è stato possibile vedere il testo slavonico. La stessa persona ha anche tradotto dallo slavonico il breve Pellegrinaggio della Badessa Eufrosina. 64 Riassunte in Riant, Expéditions et Pèlerinages des Scandinaves.

Note Appendici al Libro terzo v. PRINCIPALI FONTI PER LA STORIA DELLE ULTIME CROCIATE

1 Cfr.

sopra, p. IIII. da Heisenberg nella serie Teubner. 3 Pubblicato nel CSHB di Bonn. 4 Recital concerning the Sweet Land of Cuprus, edito con traduzione da Dawkins. 5 Xρονιxὸν Kὑπρου, edito in Sathas, Mεσαιωνιxἠ Bιβλιούἡxη vol. II. 6 La conquista di Cipro ad opera di Riccardo I è descritta da Neofito, De Calamitatibus Cypri, a una di Stubbs e pubblicato come prefazione All’Itinerarium. 7 Cfr. sopra, p. 1113, e Cahen, La Syrie du Nord, pp. 21-25. 8 Cfr. sopra, p. 1114, nota 2. 9 Le Gestes des Chiprois sono pubblicate in un’edizione curata da Gaston Reynaud. Cfr. Cahen, La Syrie du Nord, pp. 25-26, e Hill, op. cit., vol. III, p. 1144. 10 Tutti quanti pubblicati nella «Rolls Series». Cfr. la bibliografia. 11 Cfr. la bibliografia. 12 Gaston Paris nella prefazione da lui premessa alla sua edizione di Ambrogio opinava che l’Itinerarium fosse dipendente da Ambrogio. G. Norgate, The Itinerarium Peregrinorum and the Song of Ambroise, in «English Historical Review», vol. XXV, avanza l’idea che Ambrogio dipenda dall’Itinerarium. Edwards, The Itinerarium Regis Ricardi and the Estoire de la Guerre Sainte, in Essays in Honour of James Tait (pp. 59-77), dimostra in modo convincente che ambedue sono dipendenti da una fonte comune che è andata perduta. Il suo punto di vista è accettato da Hubert e La Monte nella prefazione alla loro traduzione di Ambrogio. 13 A cura di Delaborde. 14 A cura di Chroust. Cfr. Cahen, La Syrie du Nord, p. 19, nota 3. 15 L’edizione di Farai (con una traduzione in francese moderno) è la più utile; è preceduta da una buona introduzione. 16 A cura di Lauer. La più recente traduzione in francese moderno, curata da Charlot (Poèmes et Récits de la Vieille France, vol. XVI) è insufficiente, specialmente per quel che riguarda le note. 17 Edito da Röhricht nella «Zeitschrift für Kirchengeschichte», cfr. la bibliografia. 18 Pubblicato, con le sue lettere, da Hooeweg. I volumi degli Scriptores Minores Quinti Belli Sacri, a cura di Röhricht, contengono tutte le fonti secondarie relative alla quinta crociata. 19 La migliore edizione è quella di de Wailly. L’altro storico importante della crociata di Luigi IX è Guglielmo di Nangis che scrisse alcuni decenni più tardi. 2 Edito

20 Cfr. sopra, p. 1037, nota 3. Il De Excidio si trova pubblicato in Marlene e Durand, Amplissima Collectio, vol. V. Cfr. pure Kingsford, in «Transactions of the Royal Historical Society», serie III, vol. III, p. 142, nota 2. 21 La corrispondenza di Innocenzo III è pubblicata da Migne, PL, voll. CCXIV-CCXVI; le Regesta di Onorio IV sono edite da Pressutti, i Registres di Gregorio IX da Auvray, i Registres di Innocenzo IV da Bergee, quelli di Alessandro IV da Bourel de la Roncière, di Urbano IV da Guiraud, di Clemente IV da Jordan, di Gregorio X da Guiraud, di Nicolò III da Gay e Vitte, di Onorio IV da Pron e di Nicolò IV da Langlois, tutti pubblicati nella Bibliothèque des Ecoles Francaises d’Athènes et de Rome. 22 Pubblicato nel RHC Lois, vol. I. 23 Pubblicato nello stesso volume. 24 Pubblicato con una traduzione francese dai padri mechitaristi di Venezia. 25 Ambedue tradotte e curate da Rockhill, in «Hakluyt Society Publications», serie II, vol. CXXXVII. 26 Tutti questi sono pubblicati in traduzione inglese nel PPTS. La traduzione non è sempre priva di errori, e per quel che riguarda Ludolfo bisognerebbe usare il testo latino che si trova negli «Archives de l’Orient Latin», vol. II. 27 Cfr. sopra, pp. 1115-17. 28 Cfr. Cahen, La Syrie du Nord, pp. 68-70. 29 Ibid., pp. 75,78-75. 30 Ibid., p. 74. 31 Edito da Cheikho in CSCO, vol. III. La traduzione compiuta nel secolo XVI da Erpennio ed Ecchelensio giunge solo all’anno 512 dell’Egira (1118 d. C). 32 Il testo completo non è mai stato pubblicato. Esistono in una traduzione francese di Blochet, « Revue de l’Orient Latin», vol. XI, degli estratti che si riferiscono ai primi anni del secolo XIII. 33 Sono stati pubblicati degli estratti nella raccolta RHCOcc, vol. III. 34 Cfr. sopra, p. 1117. 35 Un frammento di al-Jazari, che inizia all’anno dell’Egira 689 (1290 d. C), è stato pubblicato in una traduzione francese da Sauvaget. 36 Cfr. sopra, p. 1117. 37 I capitoli che si riferiscono al secolo XIII non sono mai stati pubblicati. Cfr. Cahen, La Syrie du Nord, pp. 83-86. 38 Cfr. sopra, p. 1117. Ampi brani della Storia d’Egitto di Maqrizi sono riportati da Blochet, in «Revue de l’Orient Latin», voll. VIII, IX e X (citati sopra come Maqrizi, VIII, IX e X) e la sua Storia dei sultani mamelucchi è tradotta da Quatremère (2 voll., citati sopra come Maqrizi, Sultani, I e II). 39 Ne sono riportati dei brani nella raccolta RHCOcc, vol. II, p. 2. 40 Cfr. sopra, pp. 1117-18. Il testo armeno completo di Vartan, curato da Emin, fu pubblicato a Mosca nel 1861.

41 La Fior è pubblicata nel RHCArm, vol. II. Gli annali armeni vennero pubblicati a Venezia nel 1842, a cura di Aucher. Se ne trovano degli estratti nel RHCArm, vol. I. 42 Cfr. sopra, p. 1118. 43 L’opera di Rabban Sauma è stata tradotta da Budge, in The Monks of Kublai Khan. Il testo siriaco venne pubblicato da Bedjian. 44 Traduzione turca e riassunti in persiano pubblicati in Houtsma, Textes relatifs à l’Histoire des Seldjoukides, voll. III e IV. 45 L’intera opera è pubblicata in una traduzione russa a cura di Berezin. La seconda parte della storia degli Ilkhan è stata pubblicata assieme a una traduzione francese da Quatremère. 46 Cfr. sopra, p. 1119. 47 L’edizione migliore della Cronaca di Novgorod è quella curata da Nasonov (Moskva 1950). 48 Cfr. sopra, p. 887, nota I.

Note VI. LA VITA INTELLETTUALE DI «OUTREMER»

1 Cfr.

sopra, pp. 588, 590 e 736. sopra, pp. 1111-13. 3 Aimery di Limoges era quasi analfabeta, ma mantenne una corrispondenza con letterati europei, come Ugo Aetherianus. Le lettere sono pubblicate in Martine e Durand, Thesaurus Novus Anecdotorum, vol. I. 4 Nella sua descrizione della Terra Santa Giacomo di Vitry mostra interesse per le teorie indigene riguardo ai terremoti (in PPTS, pp. 91-92). Ma il suo giudizio negativo sui musulmani e sui cristiani di Palestina era troppo radicale per permettergli di avere con loro dei contatti diretti. 5 Cfr. Rey, Les Colonies Franques, pp. 177-78. 6 Cfr. sopra, pp. 551,621. 7 Ledere, La Medicine Arabe, vol. II, p. 38. 8 Cfr. sopra, pp. 1111-13,1124-23. 9 Le varie Assises e le opere di Giovanni di Ibelin e di Filippo di Novara si basano tutte sulla legislazione occidentale. Cfr. La Monte, Feudal Monarchy, passim. 10 Sembra certo che Rudel sia stato in Oriente poiché il trovatore Marcabrun gli dedica un componimento poetico con le parole «A Jauffré Rudel al di là dei mari». Ma la sua vicenda sentimentale con La Princesse lointaine Melisenda di Tripoli dev’essere considerata almeno semileggendaria (cfr. Chaytor, The Troubadours, pp. 44-46). Pare che Pietro Vidal sia giunto fino a Cipro durante la terza crociata, ma quivi sposò una giovane greca affermando che era l’erede di Costantinopoli (ibid., p. 7). Rambaldo di Vaqueiras partì con la quarta crociata e morì in Bulgaria. Sordello partecipò probabilmente alla prima spedizione di Luigi IX (ibid., pp. 98-99,102). Fra i minnesänger Alberto di Johansdorf prese parte alla terza crociata, come pure Federico di Hausen il quale, tutta via, morì prima che l’esercito tedesco giungesse a Konya. 11 Cfr. Hatem, op. cit., pp. 395-400. 12 Cfr. Cahen, La Syrie du Nord, pp. 12-16. 13 Ibid., pp. 369-76; Hatem, op cit, pp. 375 sgg. 14 Cfr. le leggende relative alla liberazione di Boemondo dalla prigionia e le storie secondo cui Ida, margravia d’Austria, sarebbe stata la madre di Zengi e la sorella di Bertrando di Tolosa avrebbe, sposato Nur ed-Din e sarebbe stata la madre del suo erede as-Salih. 15 Cfr. sopra, pp. 852, 1123 e Hill, op. cit., vol. III, pp. 1112-15. Sembra che Guglielmo di Machaut, autore del poema epico sulla spedizione di Pietro di Cipro in Egitto, non sia mai stato in Oriente (ibid., p. 1115). 16 Cfr. sopra, p. 869. 2 Cfr.

Note 3. Conti di Tripoli e principi di Galilea.

1

La genealogia dei principi di Galilea è molto incerta. Cfr. Ducange, Familles d’Outremer, a cura di Rey, pp. 447-55; e Grousset, Histoire des Croisades, II, pp. 840-50.

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